rivista dell`istituto nazionale d`archeologia e storia dell`arte
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RI VI STA DE LL’IS TIT UTO NA ZI ONA L E D’ARC H E OLOG I A E S TOR I A DE L L’ARTE Direttore Adriano La Regina Comitato di redazione Nicola Bonacasa · Andrea Emiliani · Francesco Gandolfo Pier Giovanni Guzzo · Eugenio La Rocca · Giovanna Nepi Scirè Bruno Toscano · Fausto Zevi Redazione Fausto Zevi · Francesco Gandolfo Segretario di redazione Enrico Parlato «Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte» is a Peer to Peer Reviewed Journal RIV ISTA D E L L’ I S T I T UTO NAZ IO NAL E D ’ A RCHE O LO G IA E S T O R I A DE L L’ARTE 59 iii serie · anno xxvii · 2004 p i s a · ro m a fa br izi o se rr a e di to re mmx Amministrazione e abbonamenti Fabrizio Serra editore ® Casella postale n. 1, succursale n. 8, I 56123 Pisa, tel. +39 050542332, fax +39 050574888, [email protected] I prezzi ufficiali di abbonamento cartaceo e/o Online sono consultabili presso il sito Internet della casa editrice www.libraweb.net. 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Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2010 by Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, Roma and Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma Stampato in Italia · Printed in Italy www.libraweb.net issn 0392-5285 isbn 978-88-6227-201-8 SOMMARIO Sergio Aiosa, La Casa C dell’insula iv di Tindari: impianto e trasformazioni Maria Elisa Micheli, Rilievi romani con scene di nascita e ‘presentazione’ divina: assunzioni, resistenze e metamorfosi di modelli fidiaci e post-fidiaci Stefania Pinsone, Sant’Urbano alla Caffarella: nuove indagini e scoperte Francesco Gandolfo, Francesco Perrini e i rapporti tra Abruzzo e Molise ai primi del Trecento Cristina Quattrini, Bernardino Luini nel secondo decennio del Cinquecento Fausto Nicolai, La committenza del Cardinale Giovanni Garzia Mellini a Roma: Giovanni da San Giovanni, Agostino Tassi e Valentin de Boulogne Piera Ciliberto, Tradizione ed interpretazione letteraria, magia ed etica nelle raffigurazioni di Circe di Giovanni Benedetto Castiglione il Grechetto Giorgia Pollio, Il Prospetto della piazza del Popolo di Lievin Cruyl della raccolta Lanciani Stefano Bruni, Cristina Cagianelli, Per una storia delle collezioni di antichità dei Duchi d’Este. Appunti sul cosiddetto ‘Apollo di Ferrara’: da Alfonso II a Louis XV Piera Bocci Pacini, Vera Laura Verona, Il “Gabinetto delle miniature” nell’assetto lanziano della Galleria degli Uffizi a Firenze Anna Maria Riccomini, Artisti neoclassici a Roma: studi dall’antico dalle collezioni Lante, Conti, Varese, Nari e altre raccolte minori Michela Scolaro, Linee di fuga e parallele 9 59 99 121 155 199 207 215 223 247 281 299 LA CASA C DELL’INSULA IV DI TINDARI: IMPIANTO E TRASFORMAZIONI Sergio Aiosa a Casa C dell’insula iv di Tindari costituisce uno degli esempi più rilevanti di architettura domestica della Sicilia ellenistica (Fig. 1). A seguito di una nostra puntuale indagine del manufatto architettonico,1 seguita alla realizzazione di un nuovo rilievo (Tavv. i-iv) oltre che fondata sull’analisi stratigrafica degli elevati,2 siamo in grado di restituire un’immagine assolutamente inedita dell’abitazione e di indicare alcuni confronti con ben più noti esempi di architettura domestica. In questa sede vogliamo presentare i risultati delle nostre ricerche relative all’impianto originario della Casa C, tuttora riconoscibile nonostante le alterazioni che essa ha subito nel corso del tempo, rendendo conto, al contempo, di tutti i particolari costruttivi, delle caratteristiche progettuali e della complessa storia delle sue trasformazioni. L’esame di un organismo architettonico deve tenere conto anche del contesto nel quale esso è in- serito. Pertanto, in prima istanza, è utile premettere alcune considerazioni di carattere generale che riguardano l’intero isolato, benché le nostre osservazioni abbiano condotto spesso alla formulazione di interrogativi riguardo i quali, stante lo stato delle ricerche a Tindari, non è sempre possibile prospettare soluzioni.3 1 Il presente studio è frutto dell’elaborazione di parte della mia tesi sull’architettura domestica di età ellenistica in Sicilia, svolta per il dottorato di ricerca presso l’Università di Messina, e degli approfondimenti condotti durante il post-dottorato presso la stessa Università e proseguiti presso la Sezione Archeologica del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Palermo. Devo alla ben nota liberalità dello scomparso Luigi Bernabò Brea e di Madeleine Cavalier, l’aver potuto affrontare lo studio di questa abitazione. Rivolgo un vivo ringraziamento a Giovanna Bacci e Maria Costanza Lentini, allora rispettivamente Soprintendente e Direttore della sezione archeologica della Soprintendenza di Messina, per avermi concesso le relative autorizzazioni, permettendo e agevolando in ogni modo le mie ricerche a Tindari. La mia gratitudine va anche al personale di custodia dell’area archeologica di Tindari per la cortese collaborazione. Sono lieto e onorato che questa mia ricerca sia pubblicata nella medesima prestigiosa sede in cui apparve il corposo studio di Luigi Bernabò Brea sul Teatro di Tindari, nel segno di una continuità di studi e ricerche dedicati ad uno dei più importanti siti della Sicilia di età ellenistica e romana. 2 Tale analisi non poteva confidare sulla documentazione grafica esistente. Pertanto, in prima istanza, ci siamo dedicati al rilievo dell’abitazione, restituito in scala 1:50, documentando per la prima volta, attraverso tre sezioni, anche gli alzati. In questa fase, è stato fondamentale il contributo dell’arch. Rosa Di Liberto, cui si deve anche la restituzione grafica degli elaborati. I nostri sentiti ringraziamenti vanno anche all’amico Rossano Zapparrata che ha assunto l’ingrato ruolo del canneggiatore. 3 Ad esempio, alcune ipotesi circa la configurazione originaria dell’isolato non possono ricevere conferma dal raffronto con quelli adiacenti, ancora da indagare (vd., infra, pp. 15 sg. e 34 sgg.). 4 Una descrizione degli «ultimi scavamenti» alle rovine di Tindari si deve a D. Lo Faso Pietrasanta Duca di Serradifalco, Antichità di Sicilia esposte ed illustrate, v, Palermo, 1842, p. 52, il quale, dopo aver illustrato i resti del teatro e della c.d. “Basilica”, della quale rigetta l’identificazione con il ginnasio menzionato da Cicerone, aggiunge: «Esistono inoltre due vasti pavimenti a musaico, il di cui campo di pietruzze bianche è contornato di meandri gentilmente colorati di rosso, di giallo e di azzurro. Nulla rimane dell’edificio al quale si appartenevano, se non un qualche avanzo di piccole mura laterizie, delle quali non può cavarsi alcun costrutto». Un resoconto di queste prime indagini è in B. Neutsch, Archäologische Grabungen und Funde im Bereich der Soprintendenzen von Sizilien (1949-1954), aa, 69, 1954, p. 615. 5 Non mancano scritti anteriori a queste indagini. Una compiuta raccolta di queste opere a carattere generale nonché una rassegna bibliografica sull’antica Tindari è in L. Bernabò Brea, A. M. Fallico, Tindari, in eaa , vii, 1966, pp. 865-868. 6 Plin. nat., 2, 206. Per una completa raccolta delle testimonianze antiche su Tindari si rimanda a K. Ziegler, Tyndaris, in re , viia, 1948, cc. 1776-1790; S. N. Consolo Langher, Siracusa e la Sicilia greca tra età arcaica ed alto ellenismo, Messina, 1996, p. 577, nota 2. 7 Ad esempio, Serradifalco, op. cit. a nota 4, p. 52; G. M. Columba, I porti della Sicilia, Roma, 1906, p. 82, nota 4; R. J. A. Wilson, Towns of Sicily during the Roman Empire, in anrw , 11.1, Berlin-New York, 1988, p. 436. In questo senso, questi studi poco differiscono da quanto già annotava T. Fazello, De Rebus Siculis decades duae, Palermo, 1558, trad. it. a cura di R. Fiorentino, Palermo, 1817, rist. anast., Catania, 1985, i, pp. 539-543, part. p. 541. L I primi scavi archeologici nell’insula iv di Tindari risalgono al 1842, quando veniva alla luce il mosaico policromo della Casa B.4 In quegli stessi anni venivano pubblicati numerosi studi a carattere prevalentemente storico, basati su una disamina delle fonti letterarie, epigrafiche e numismatiche.5 In essi una considerevole attenzione viene riservata alla notizia, tratta da Plinio, secondo il quale, a seguito di un terremoto, circa la metà della città sarebbe precipitata in mare,6 nel tentativo di stabilire quanto esagerata fosse l’affermazione pliniana.7 «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 9-58 10 sergio aiosa Fig. 1. Tindari, Casa C, veduta generale. Le indagini sull’insula, connesse ad ingenti opere di restauro, sono riprese ad opera di L. Bernabò Brea e M. Cavalier i quali, alla fine degli anni ’50, hanno proceduto al suo scavo sistematico. Gli esiti della loro ricerca sono tuttora inediti, fatta eccezione per una breve nota, corredata da una planimetria schematica dell’intero isolato8 (Fig. 2). In essa vengono descritte le parti costitutive dell’insula a partire dalle sei tabernae che prospettano sul decumano inferiore. In ciascuna delle tre tabernae a Nord-Est, lungo il muro di fondo, è praticato un passaggio ad un ambiente posto sul retro. Seguono un’altro grande ambiente voltato cui si accede dal cardo D, probabilmente un magazzino, quindi la Casa B e la Casa C – che, non essendo stato ultimato lo scavo, viene sommariamente descritta – infine, l’impianto termale con i mosaici.9 Dai risultati di tali indagini, ma non solo, dipendono i rapidi cenni che all’insula dedica R. J. A. Wilson.10 Lo studioso propende per una datazione delle abitazioni al ii sec. a.C., nel quadro di un intenso rinnovamento edilizio che avrebbe interessato la città sul finire del secolo, testimoniato anche dai resti pertinenti ad edifici pubblici, tra cui i frammenti delle due nikai, considerate due statue acroteriali di età ellenistica, e la scena del teatro, la cui datazione sarebbe da porre attorno al 100 a.C.11 Per il resto, sono ben pochi i cenni dedicati all’insula iv, sempre presa in considerazione nel suo com- 8 L. Bernabò Brea, M. Cavalier, Tindari. Area urbana. L’insula iv e le strade che la circondano, BdA, 1965, 3-4, pp. 205-209. La pianta, redatta a scala 1:100, utilizza un criterio misto rappresentativo-ricostruttivo che rende spesso non facile l’interpretazione di singoli particolari. In essa si registra lo stato di fatto, senza che siano segnalate alcune evidenti modifiche dell’impianto originario. 9 Per il peristilio delle terme e la sua probabile pertinenza ad un edificio privato si veda R. J. A. Wilson, Sicily under the Roman Empire. The archaeology of a Roman province, 36BC-AD535, Warminster, 1990, p. 91. 10 Wilson, op. cit. a nota 7, pp. 136-143; Wilson, Sicily, op. cit. a nota 9, p. 24 sg., 32, 120-122. 11 Wilson, op. cit. a nota 9, p. 25 e p. 27 e 32 per la datazione delle case, attribuite al ceto medio-alto della Tindari di ii-i sec. a.C. Sul teatro di Tindari si veda L. Bernabò Brea, Due secoli di scavi e restauri del teatro greco di Tindari, in riasa , n.s. xiii-xiv, 1964-1965, pp. 99-144. Per le due statue di Nikai si rimanda a P. Zanker, Zwei Akroterfiguren aus Tyndaris, in rm , 72, 1965, pp. 93-99. Le sculture, provenienti da un edificio sconosciuto, si datano al ii-i sec. a.C. Alcune perplessità sulla funzione delle statue quali elementi acroteriali nonché sulla questione della loro provenienza sono espresse da N. Bonacasa in N. Bonacasa, E. Joly, L’ellenismo e la tradizione ellenistica, in Sikanie. Storia e civiltà della Sicilia greca (= Antica Madre, viii), Milano, 1985, p. 291 e part. p. 297, fig. 325. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni Fig. 2. Tindari, insula iv, planimetria generale. 11 12 sergio aiosa plesso, in rapporto alla scansione urbanistica, più che per gli esempi di cultura abitativa ellenistico-romana compresi al suo interno.12 Nelle più recenti sintesi storiche, il tentativo di rintracciare nelle emergenze archeologiche un riscontro puntuale alle notizie desunte dalle fonti si fa più intenso, ma altrettanto poco produttivo.13 Di fatto, numerose questioni rimangono ancora aperte. In primo luogo, è da porre in rilievo il problema insito nella stessa attribuzione ad età timoleontea, piuttosto che dionigiana, delle strutture messe in luce sotto un ambiente della casa B.14 Tali frustuli murari sono senz’altro insufficienti per ricostruire in dettaglio l’impianto originario di questi edifici. La scarsa accuratezza con cui sono costruiti i muri e il loro stesso esiguo spessore ci inducono a considerarli pertinenti ad un’abitazione privata di qualità piuttosto modesta. Da questo punto di vista, quindi, Tindari non si discosterebbe dagli altri centri siciliani in cui sono state identificate unità abitative della seconda metà del iv sec. a.C. Tuttavia, resta troppo poco per verificare se le case tindaritane di iv secolo presentino caratteri tipologici analoghi a quelli riscontrati nelle abitazioni delle altre città siceliote. Si sarà trattato probabilmente di un esiguo numero di ambienti gravitanti attorno ad un semplice cortile privo di peristilio e di pastas. Tutt’al più, considerata anche la posizione lungo il pendio, poteva essere prevista una sopraele- vazione sul lato meridionale, ovvero quello a monte. Il muro perimetrale ovest dell’insula iv si sovrappone ad uno dei muri delle strutture attribuite ad età timoleontea,15 mantenendo il medesimo andamento in senso nord-sud, ma con un evidente cambiamento di tecnica muraria. Nel caso di Tindari, città fondata da Dionigi I di Siracusa, le valutazioni espresse a proposito della ‘rinascita’ posta in essere da Timoleonte diventano, naturalmente, più stridenti e, come per altri centri, si impone una revisione dei reperti, in particolare numismatici, oltre che la conduzione di ricerche mirate a determinare la consistenza e le caratteristiche della città dionigiana.16 In atto, qualche elemento si ricava dallo studio del circuito murario. È stato possibile distinguere una fase dionigiana, quindi coeva alla fondazione, da un successivo intervento agatocleo.17 A questo primo momento costruttivo sarebbero da attribuire alcuni tratti della cinta urbica contraddistinti dall’impiego di una tecnica simile a quella punica ‘a telaio’.18 Per il resto, questa singolare assenza di testimonianze dionigiane dalla città è, in qualche modo, decretata dalle stesse fonti. Secondo Diodoro19 la città ebbe il nome di Tindari dai Messeni del Peloponneso. Inoltre, dal momento che «È discusso se il nome, collegato evidentemente al culto dei Dioscuri … preesistesse alla città»,20 è stata anche considerata l’ipotesi che questa prendesse il nome da un toponi- 12 Fra i contributi che, a loro volta, dipendono dalla sintesi di R. J. A. Wilson, senza alcun apporto originale e con valutazioni di insieme sui caratteri dell’architettura domestica siciliana alquanto discutibili dal punto di vista storico ed archeologico, menzioniamo Ch. Olegaard Olsen, A. Rathje, Ch. Trier, H. C. Winther, The Roman Domus of the Early Empire: A case study: Sicily, in ActaHyp, 6, 1995 (Ancient Sicily edited by T. Fischer-Hansen), pp. 245-247. Tra i molti contributi sull’architettura domestica di età ellenistica pubblicati successivamente alla consegna di questo studio (2004), segnaliamo quelli relativi a Tindari: G. F. La Torre, Urbanistica e architettura ellenistica a Tindari, Eraclea Minoa e Finziade: nuovi dati e prospettive di ricerca, in Sicilia ellenistica, consuetudo italica. Alle origini dell’architettura ellenistica d’Occidente, (Spoleto, Complesso monumentale di S. Nicolò, 5-7 novembre 2004), a cura di M. Osanna, M. Torelli, Roma, 2006, pp. 83-95, part. 9092 (per un precedente contributo dello stesso autore, vd., infra, p. 27, nota 77); U. Spigo, Tindari. Considerazioni sull’impianto urbano e notizie preliminari sulle recenti campagne di scavo nel settore occidentale, ivi, pp. 97-105. Quest’ultimo tiene conto di una brevissima sintesi del presente articolo: S. Aiosa, La casa C dell’insula IV di Tindari, in P. Mina (a cura di), Urbanistica e architettura nella Sicilia greca, Palermo, 2005, p. 158. 13 In un recente studio di insieme sulla Sicilia ellenistica viene, ad es., trascurato il riferimento all’unico rapporto di scavo relativo all’insula iv, l’unica ad essere stata scavata integralmente (cfr. Consolo Langher, op. cit. a nota 6, pp. 577-589). 14 Ciò sulla base di rinvenimenti numismatici di età timoleontea, agatoclea e geroniana (G. V. Gentili, in fa , vii, 1952, n. 2108 che non menziona monete di età geroniana; Neutsch, op. cit. a nota 4, p. 615). 15 Per le strutture identificate sotto la Casa B si veda anche F. Barreca, Tindari dal 345 al 317 a.C., in Kokalos, iv, 1958, p. 148, nota 7. Lo studioso fa un generico riferimento ai resti di una strada greca con lo stesso orientamento di quelle romane. L’esatta ubicazione dei resti di questa strada avrebbe potuto forse costituire un ulteriore elemento per comprendere quali fossero le dimensioni degli isolati di età greca. 16 La necessità di rivedere le cronologie di numerosi contesti archeologici siciliani precedentemente datati ad età timoleontea è stata oggetto di un’approfondita riflessione al Congresso Internazionale dedicato ai due Dionisi: vedi La Sicilia dei due Dionisî, Atti della settimana di studio Agrigento, 24-28 febbraio 1999, a cura di N. Bonacasa, L. Braccesi, E. De Miro (= Progetto Akragas 2), Roma, 2002. 17 F. Barreca, Tyndaris, in fa , x, 1955, n. 2658; Id., Tindari colonia dionigiana, in RendLinc, xii, 1957, p. 125-130; Id., op. cit. a nota 15, con bibl.; Id., Precisazioni circa le mura greche di Tindari, in RendLinc, xiv, 1959, p. 105 ss. Si veda anche, da ultimo, M. Cavalieri, Le fortificazioni di età ellenistica della Sicilia: il caso di Tyndaris, in SicArch, xxxi, 1998, 96, pp. 185-201. 18 Barreca, op. cit. a nota 15, p. 146 s. e nota 4. Le mura presentano anche interventi successivi, come attestano monete di Iceta e di Gerone II rinvenute tra il pietrame di riempimento fra i due paramenti a conci squadrati (Bernabò Brea-Fallico, op. cit. a nota 5, p. 866). 19 Diod. xiv 78, 5-6. 20 Bernabò Brea-Fallico, op. cit. a nota 5, p. 865. Il sito di Tindari mostra tracce di occupazione a partire dall’età del Bronzo, identificate al di sotto dell’insula iv (L. Bernabò Brea, in fa , vii, 1952, n. 2107). la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 13 mo legato al promontorio, come avvenne per la quauna simile modifica del tracciato viario urbano ha si contemporanea fondazione di Lilibeo.21 Non quale conseguenza di ordine pratico la necessità di manca di sorprendere che Dionigi I, il ‘dinasta’ di Siarretrare i muri perimetrali degli isolati determinanracusa, non fosse direttamente responsabile dell’asdo una modifica, sostanzialmente una riduzione, segnazione del nome alla città da lui fondata. delle loro misure generali. Ciò ha anche delle conseA partire da una recente ipotesi, secondo la quale guenze sulla loro articolazione interna. Infatti, stannella monetazione macedone con i Dioscuri a cavalte il carattere certo di struttura portante di tali muri, lo sia da cogliere un nesso con l’idea della discendenuna loro eventuale rimozione implica necessariaza regale,22 avanziamo con cautela la possibilità che mente una nuova configurazione dell’assetto statico già il nome di Tindari esprimesse lo stesso concetto degli edifici soggetti a simili contrazioni. Il carattere e che la monetazione della città supportasse tale generalizzato che avrebbe assunto il fenomeno messaggio propagandistico.23 dell’ampliamento delle carreggiate a Tindari preSe l’esiguità delle tracce superstiti non consente suppone, pertanto, il concorso di un potere forte, di giungere ad alcuna conclusione circa la tipologia probabilmente in concomitanza con un cambiamendelle abitazioni, l’ubicazione dei lacerti murari, unito, nel senso di un miglioramento, dello statuto giutamente ad alcune considerazioni sulle conseguenridico della città.25 ze che il nuovo impianto e le sue successive trasforÈ stato giustamente posto in rilievo26 come, oltre mazioni ebbero sul precedente tessuto urbano, alla mancanza di norme generali che possano renpermettono di delineare la conformazione generale derci certi dell’esistenza di piani regolatori o di un degli isolati che furono obliterati dalle strutture delcomplesso normativo ben definito, una variabile sia l’insula iv. costituita dallo specifico ordinamento giuridico dei Poniamo all’attenzione un problema specifico, posingoli centri e dall’assunto generale secondo il quasto dalla più volte affermata coincidenza fra l’impianle gli interventi pubblici sul tessuto urbano venivato della Tindari greca e quello di età romana, nonono affidati ai magistrati locali solo in seguito ad una stante il raddoppiamento delle carreggiate stradali.24 lex, in quanto, di norma, di pertinenza dello Stato. Il riuso della preesistente scansione urbana riAnche in assenza di precisi riscontri, non ci sembra sponde certamente ad un principio di economia ravproponibile che le molteplici trasformazioni del tesvisabile in molteplici esempi di interventi urbanistici suto urbano abbiano potuto trovare una serie di sodi età romana su siti fortemente stratificati. Tuttavia, luzioni pratiche di carattere empirico e che i probledal punto di vista del diritto di proprietà, l’allargami di ordine giuridico siano stati risolti, di volta in mento delle sedi stradali dei principali assi di percorvolta, a seguito di singoli interventi da parte delrenza genera una restrizione, in termini tanto di spal’amministrazione pubblica sulle varie proprietà prizio quanto di diritto, della proprietà privata. Infatti vate di cui si costituiva ciascun isolato. 21 Ziegler, op. cit. a nota 6, col. 1777. 22 Ci riferiamo ad un interessante seminario tenuto all’Università di Messina da M. Caccamo Caltabiano, nell’ambito delle attività didattiche del Dottorato di Ricerca. La studiosa presta attenzione al nesso che unisce i Dioscuri ai Cabiri. Come tali, essi erano anche protettori dei naviganti. È significativo che a Tindari, città proiettata sulla costa tirrenica, i Dioscuri abbiano questo rilievo. Per il concetto di “dualità” e il riferimento ai due rami familiari, conseguenti al doppio matrimonio del tiranno, ribaditi dalle emissioni tindaritane vd. D. Musti, Tindari. La città dei Gemelli, Sicilia Antiqua, 2, 2005, pp. 141-143. 23 Per alcune emissioni tindaritane, precedentemente datate ad età timoleontea, è stata proposta una cronologia più alta (Consolo Langher, op. cit. a nota 6, p. 581). Le monete in bronzo di Tindari con il tipo dei Dioscuri a cavallo, anch’esse in prima istanza datate all’età timoleontea (Barreca, op. cit. a nota 15, p. 145 s. e nota 3), recano la leggenda ÛÔÙÂÚ˜ attributo che sarà poi consueto dei sovrani ellenistici. Una datazione all’età del secondo Dionigi conferirebbe un forte valore propagandistico a queste emissioni. 24 F. Barreca, in fa , xi, 1956, n. 2878. Le ricerche lungo il decumano i hanno permesso di distinguere quattro diversi livelli databili dall’età ellenistica all’età «postclassica». Nel i sec. d.C. la larghezza della strada sarebbe stata portata dai 4÷5 m ai 9 m. Nonostante ciò Tindari «[…] dovette avere, fin dall’origine, la pianta regolarissima che già conosciamo per l’età romana […] la città doveva, anche in età timoleontea, essere attraversata in direzione NO-SE da tre grandi vie rotabili, intersecate ogni m. 30 da vie minori, orientate da NE a SO, lunghe m 72. […] L’ampiezza originaria delle strade è tutt’ora incerta, ma è sicuro che in età timoleontea la strada longitudinale attraversante il settore sud-occidentale della città era più stretta che in età imperiale romana» (Barreca, op. cit. a nota 15, p. 149). 25 La città di Tindari, a parte un brevissimo periodo in cui fu alleata di Gerone II, passò immediatamente dalla parte romana cui rimase fedele per tutta la durata del conflitto con Cartagine (Diod. xxiii, 5 e 18). Come è noto, i Romani seppero ricompensare tali attestazioni di fedeltà da parte delle città siciliane. Ricordiamo che Cicerone definisce Tindari «nobilissima civitas» (Cic., ii Verr., iii 43, 103) e che la città è tra le sei colonie siciliane di età augustea. 26 A. Zaccaria Ruggiu, Spazio privato e spazio pubblico nella città romana, (= Collefr, 210), Roma, 1995, p. 187 e pp. 191-199, sulle questioni legate all’ambitus. Per i riferimenti alle normative di età romana ci siamo avvalsi interamente di questo studio. 14 sergio aiosa L’insula (m 72,40 × 28,30)27 si dispone in senso NESO, lungo un pendio piuttosto ripido, attestandosi con i lati brevi a due decumani tra i quali è un dislivello di oltre 12 metri. Gli ambienti delle terme che prospettano sul decumano superiore sporgono rispetto al fronte degli altri isolati. Viene il dubbio che essi non costituissero il prospetto originario sul decumano, ma che la loro costruzione ne avesse determinato la parziale invasione, dunque costituendo un fenomeno di segno opposto a quello, precedentemente descritto, che implica una contrazione degli isolati. La mancanza di un rapporto esatto tra le misure dei lati potrebbe essere dovuta ad una tale alterazione del suo perimetro. Tanto più che il muro che invade la carreggiata recingeva un cortile scoperto, forse adibito all’immagazzinamento del legname.28 Oltre al problema del rapporto tra pubblico e privato, si pone quello dei confini tra le proprietà. Come è noto, già le ‘xii tavole’ fissavano una specifica distanza tra i diversi lotti, da ricavarsi a scapito di entrambi, detta ambitus – termine poi metonimicamente passato ad indicare lo stesso canale tra i singoli corpi di fabbrica degli isolati – con lo specifico divieto di mantenere muri comuni. Ciò nonostante, causa la pluristratificazione della quasi totalità dei siti antichi, anche a Tindari, quattro complessi distinti occupano lo spazio di un intero isolato, avendo in comune i lati brevi interni. Spesso un evidente segno di demarcazione tra due proprietà è dato dallo spessore doppio dei muri comuni rispetto a quello degli altri. Nella pianta dell’insula essi sono tutti della stessa misura, fatta eccezione per quello meridionale del magazzino posto a valle della casa B. L’articolazione su terrazze dell’intera insula, determinata dal forte dislivello tra il decumano a monte e quello a valle, invita alla cautela nel valutare in senso giuridico piuttosto che funzionale tale ispessimento del muro, da intendersi piuttosto come una delle opere di contenimento del terreno a monte. Circa il rapporto intercorrente tra la proprietà privata urbana, l’ambitus e le strade pubbliche, preziosa è la notazione di Vitruvio che ci informa del diritto dei privati di costruire nello spazio pubblico un muro dello spessore di un sesquipedale (ca. 45 cm).29 Se ciascuno dei due confinanti, quindi, sottraeva allo spazio pubblico una misura pari ad un sesquipedale, la larghezza dell’ambitus veniva ridotta di 90 centimetri circa. Nel caso specifico dell’insula di Tindari manca tanto una separazione in senso trasversale quanto il lungo ambitus longitudinale tipico degli isolati per strigas di età greca. Ma la presenza di un canale mediano, visibile in pianta nella parte nord dell’isolato, fa ritenere probabile che esso riprendesse il percorso di un analogo apprestamento di età ‘timoleontea’, connesso alle strutture di cui si è trovata traccia sotto la Casa B. Tanto più che, in corrispondenza di quest’ultima, dove il grande ambiente a Nord del peristilio confina con le tabernae, due muri corrono parallelamente ad una distanza di meno di 1 m. Ciò fa ipotizzare che, in età ellenistica, ciascuna delle due abitazioni a peristilio avesse occupato due lotti distinti e affiancati, dove precedentemente erano state realizzate strutture di più modesta entità. Considerato il notevole dislivello esistente tra il calpestio del cortile delle terme e quello della Casa C (m 2,50 ca.), rimane problematico stabilire se l’ambitus proseguisse verso Sud, attraversando l’intero isolato,30 anche se è probabile che l’insula iv nella sua prima configurazione dovesse essere simile agli isolati allungati divisi in due da un lungo ambitus mediano. Essi infatti costituiscono la cellula base di molti impianti urbani isolani. Una trattazione esaustiva sulle caratteristiche dell’insula dovrebbe comprendere anche la Casa B, del cui impianto di età ellenistica è tuttavia difficile cogliere tracce significative. Infatti l’abitazione presenta una serie di modifiche nella sua ripartizione interna, ben più sostanziali di quelle riscontrate nella Casa C. Nonostante ciò, è stato proposto il confronto con la Casa Pappalardo di Morgantina, per la posizione decentrata del peristilio.31 Significativi elementi portano a ritenere che l’originaria sostanza architettonica della casa sia da porre nel ii sec. a.C. A tale cronologia è da ricondurre il noto mosaico 27 Riportiamo le misure indicate in Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 205. È da supporre che le misure di m 75 × 30 ca. indicate da R. Wilson, op. cit. a nota 9, p. 165, siano state “scelte” in quanto rimandano ad un rapporto esplicito di 1:2,5 tra i lati dell’isolato. 28 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 205 e p. 208. Cfr. Wilson, op. cit. a nota 7, p. 141, fig. 15 per una pianta delle terme dell’insula iv in cui sono evidenziate graficamente le diverse fasi costruttive, ma nella quale il muro che prospetta sul decumano, quindi il perimetro complessivo dell’edificio, viene attribuito all’impianto originario. 29 Vitr. De Archit. ii, 8. Come è stato giustamente rilevato, al problema dell’occupazione di suolo pubblico da parte dei privati prestava attenzione anche Platone (Zaccaria Ruggiu, op. cit. a nota 26, p. 106). 30 Così in Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 206. 31 B. Tsakirgis, The Domestic Architecture of Morgantina in the Hellenistic and Roman Periods, diss., Princeton, 1984, p. 481 sg., menziona entrambe le abitazioni dell’insula iv quali esempi del persistere dei modi greci anche in età romana. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 15 Fig. 3. Tindari, Casa C, pianta con numerazione degli ambienti (rilievo dell’Autore). con motivo a ‘cane corrente’ prospettico e soglia con rosone,32 noto fin dagli scavi del 1842. Che il mosaico sia legato ad una precedente redazione dell’ambiente è testimoniato dal tompagno, sul quale corre l’intonaco dipinto che decora le pareti, che ne chiude l’originaria porta d’accesso, in corrispondenza della quale era appunto la soglia col mosaico policromo. Il mosaico, a sua volta, si sovrappone ad un precedente livello pavimentale, ma non è noto se la configurazione dell’ambiente fosse quella attuale. Particolarmente evidente nella Casa B la necessità di postulare l’esistenza di un piano superiore, in quanto tutti i vani attualmente riconoscibili sembrano legati a funzioni di rappresentanza e non si individua la possibilità di delimitare un’area privata. Ma, soprattutto, il dislivello è talmente forte che il secondo piano della Casa B verrebbe a trovarsi alla stessa quota del pianterreno della adiacente Casa C, posta più a monte e certamente articolata su due livelli, riducendo le variazioni al- 32 D. Von Boeselager, Antike Mosaiken in Sizilien. Hellenismus und römische Kaiserzeit. 3 Jahrhundert v. Chr.-3 Jahrhundert n. Chr., Roma, 1983, p. 39-46, tavv. D-E, tav. vii, fig. 12-15, in particolare, p. 46 per i frammenti di un pavimento più antico in signino con inserti marmorei dall’ambiente 10 che, secondo la studiosa, sono da attribuire alla stessa fase dei frammenti di capitelli in t.c. della casa C e del frammento della decorazione in stucco della Casa B che «[…] dürfte in der Zeit des I. Stils entstanden sein.» (vd., infra, nota 140). Pertanto, il mosaico di Tindari sarebbe da datare tra la seconda metà del ii e gli inizi del i sec. a.C. Per una datazione al I sec. a.C. si veda anche U. Spigo, Tyndaris (Messina), in Sicilia orientale e isole Eolie, a cura di A. M. Bietti Sestieri, M. C. Lentini, G. Voza (= Guide Archeologiche. Preistoria e protostoria in Italia, 12), Forlì, 1995, pp. 153-169, part. p. 156. 16 sergio aiosa Fig. 4. Tindari, Casa C, soglia dell’ingresso principale. timetriche tra un edificio e quello immediatamente confinante e conferendo all’intera insula un’organicità anche in elevato. La Casa C (Fig. 3, Tav. i) si inserisce in un lotto rettangolare di m 21 × 28 ca., occupando dunque una superficie complessiva di m2 588 ca. L’abitazione si compone di diciassette ambienti33 gravitanti attorno ad un peristilio dorico a due piani. I vani del lato nord sono inframmezzati da corridoi, a loro volta collegati da uno stretto passaggio, suddiviso da ante in più tratti, che costituisce una soluzione di continuità tra la Casa B e la Casa C.34 Nel dare una descrizione dell’abitazione ci soffermere33 Fatta eccezione per i vani 5, 6, 8, 9 e 12, del tutto o in parte interrati, lo scavo si è arrestato ad una quota appena superiore a quella dei livelli pavimentali. La mancanza di informazioni sulle caratteristiche tecniche e formali di questi pavimenti riduce la possibilità di riconoscere la funzione specifica dei singoli ambienti. 34 Al fine di permettere una più facile individuazione dei singoli tratti di corridoio, abbiamo assegnato un numero a ciascuno di essi. Per comodità di esposizione, con la denominazione di ambiente 19 e ambiente 21 si sono designati rispettivamente i tratti a Nord dell’ambiente 18 e dell’ambiente 22. Il corridoio 19-21 è stato per la prima volta evidenziato nel nostro rilievo. L’allineamento irregolare dei suoi lati lunghi non permetteva di rilevarne in un’unica soluzione le misure; esse derivano pertanto dalla somma di misurazioni parziali tra i punti individuati lungo i muri per la costruzione di poligonali chiuse. mo più diffusamente solo sugli ambienti che la caratterizzano, limitandoci a descrivere brevemente quelli restanti. L’ingresso principale dell’attuale vestibolo (1) è marcato da una grande soglia ricavata da un unico concio (Fig. 4). L’ambiente (m 4,80 × 3,67)35 comunica con la galleria nord del peristilio attraverso un vano leggermente disassato rispetto all’ingresso principale. Un accesso nel muro nord, spostato dalla metà della parete e posto all’estremità ovest di essa, permette di raggiungere l’ambiente 22 (m 4,60 × 4,50), accessibile solo dal vestibolo.36 Il peristilio (2) di 3 × 4 colonne si inserisce in una posizione eccentrica tanto all’interno del lotto occupato dalla casa quanto entro l’area della corte stessa,37 rispetto alla quale è traslato verso Nord di 35 A titolo puramente orientativo, per ciascun ambiente riportiamo la lunghezza di due pareti contigue, benché le misure delle altre due spesso presentino una differenza considerevole. 36 Le dimensioni dell’ambiente (m 4,60 × 4,58) sono troppo grandi perché esso potesse costituire la stanza del portiere a fianco del vestibolo d’ingresso. Il vano di accesso, all’estremità del muro divisorio tra esso e l’ambiente 1 potrebbe far pensare ad uno di quegli andrones connessi all’ingresso e riservati agli ospiti di cui parla Vitruvio (Vitr. De Archit. vi 7, 4), ma null’altro, se non la collocazione, legittima una tale ipotesi. 37 Le misure complessive sono di m 16,79 × 10,58; quelle della corte scoperta m 9,72 × 6,09. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 17 Fig. 5. Tindari, Casa C, peristilio, veduta generale. circa 1 m (Fig. 5, Tavv. ii-iii). Trascurabili le differenze registrate nelle profondità dei portici est e ovest (massima differenza 6 cm), ed è da notare il grande risalto conferito alle gallerie sul lato dell’ingresso e su quello opposto, sul quale prospetta il grande andron (13). Se è logico che la galleria più profonda sia quella di fronte all’ambiente 13, considerata la sua importanza, questo stesso criterio viene contraddetto dal portico settentrionale, in assoluto il più stretto dei quattro,38 benché vi prospettino gli ambienti 16 (il c.d. tablinum) e 18, fra i più grandi dell’intera abitazione. La galleria opposta è di larghezza quasi corrispondente ad una volta e mezza, pur dando accesso alla serie di piccoli ambienti 6-11, certamente non legati a funzioni di rappresentanza. Le dieci colonne poggiano su plinti quadrangolari di dimensioni non omogenee39 (Figg. 6-7) e sono costruite in muratura di mattoni frammentati e legati con abbondante malta di calce. Solo nel caso della colonna posta all’angolo nord-est, si nota l’impiego di mattoni anulari40 (Fig. 8). Una colonna è stata restaurata interamente41 e su di essa è stato ricollocato un capitello dorico in pietra dal pro- 38 I portici misurano m 1,81 (nord); m 2,78 (sud); m 3,54 (est); m 3,48 (ovest). 39 Essi variano dai cm 60,5 ai cm 98. 40 L’impiego di mattoni anulari sarebbe costante nelle colonne del peristilio della Casa B (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207). Tuttavia di queste ultime si conservano solo i primi elementi. 41 Si tratta della seconda colonna del lato nord, a partire dall’angolo nord-ovest. Le colonne del peristilio sono state rinvenute in posizione di crollo. I frammenti superstiti hanno consentito di calcolare approssivamente l’altezza complessiva dei fusti in m 4,95 (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207). Tuttavia, la misura da noi rilevata è di m 4,45, cioè minore di 50 cm di quella riportata. Fig. 6. Tindari, Casa C, peristilio, colonna su plinto grande. 18 sergio aiosa Fig. 7. Tindari, Casa C, peristilio, colonna su plinto piccolo. Fig. 8. Tindari, Casa C, peristilio, colonna a mattoni anulari. 42 I capitelli, solo grossolanamente sbozzati, erano completati con uno spesso strato di intonaco di cui rimangono labili tracce. Pertanto, in merito alla questione cronologica, siamo propensi a non attribuire eccessivo valore alla curvatura dell’echino, piuttosto accentuata, in quanto la rifinitura a stucco ne alterava sostanzialmente il profilo. 43 H. complessiva cm 32,5; ∅ cm 52,5; abaco: 73,6 × 72,4 cm; H. 11,2 cm. filo non troppo rigido42 (Fig. 9); un secondo esemplare, sul quale ci siamo basati per il rilevamento dettagliato delle misure,43 è attualmente conservato nell’ambiente 13 (Fig. 10). Capitelli di modulo inferiore44 (Fig. 11), il cui diametro appare compatibile con quello dei mattoni circolari pieni rinvenuti tra gli elementi di crollo del peristilio,45 di cui restano parecchi campioni, rendono certa l’esistenza di un secondo ordine colonnato, anch’esso dorico, al piano superiore. Le dimensioni e le caratteristiche di tali mattoni inducono a riflettere sull’altezza dell’ordine superiore del peristilio, ma anche sulla conformazione che doveva assumere il loggiato. L’assenza di un foro centrale, oltre che di qualsiasi traccia di malta, porterebbe a ritenere che le colonne del piano superiore non dovessero raggiungere un’altezza considerevole e che al di sopra di esse dovesse poggiare un architrave ligneo. 44 I due esemplari superstiti sono delle seguenti misure: H. complessiva cm 19 e 22,3; ∅ cm 35,5 e 35,8; abaco: largh. cm 49 (entrambi); H. cm 7,3 e 7,5. 45 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207, fig. 24. I quaranta esemplari, trentaquattro dei quali integri, conservati all’interno dell’ambiente 13 misurano da cm 8,5 a cm 11,3 di altezza e presentano diametri che variano dai 29 ai 44,7 cm. Nel magazzino ricavato nell’ambiente sotto l’esedra sono conservati alcuni di questi mattoni circolari. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 19 Fig. 10. Tindari, Casa C, peristilio, capitello dorico del primo ordine. Fig. 9. Tindari, Casa C, peristilio, colonna con capitello. Fig. 11. Tindari, Casa C, peristilio, capitello dorico del secondo ordine. Nella Maison des Comédiens a Delo, piuttosto che essere prevista una chiusura degli intercolunni mediante balaustre addossate alle colonne, queste ultime poggiavano su un parapetto continuo di una certa altezza.46 Ma riguardo l’ordine superiore della Casa C di Tindari occorre specificare che uno dei mattoni circolari presenta il diametro, non trascurabile, di 44,7 cm e, almeno tre esemplari, un diametro di 38,5 cm.47 Applicando lo stesso rapporto tra diametro e altezza riscontrato per le colonne del pianterreno (oltre 1:8), si giungerebbe ad un’altezza al piano superiore di oltre 3,50 m, non ipotizzabile, considerata la tecnica impiegata per le colonne. Nello stesso ambiente 13 si conserva un capitello dorico frammentario, di misura intermedia.48 Uno spesso strato di intonaco, del quale si conservano pochi lacerti, era impiegato per rivestire interamente il fusto delle colonne, senza che vi fossero riprodotte le scanalature. La totale assenza di elementi architettonici pertinenti alla trabeazione non sarebbe da imputare a spoliazioni successive al crollo delle strutture.49 Piuttosto, è senz’altro 46 Per una restituzione del peristilio della Maison des Comédiens si veda Ph. Bruneau, Délos xxvii . L’Ilot de la Maison des Comédiens, Paris, 1970, fig. 30. 47 Uno dei dischi presenta un diametro troppo piccolo per essere pertinente alle colonne del primo piano (29 cm), ma all’interno del grande capitello corinzio esposto nell’Antiquarium sono inseriti dischi dal diametro di cm 29,5. Posti all’interno del capitello, essi ne aumentano la capacità di resistenza a compressione. In ogni caso, l’esistenza di un architrave ligneo è da postulare anche per l’esedra. 48 H. complessiva cm 17,8; abaco: largh. cm 63,2. La superficie superiore del capitello presenta un incasso centrale, profondo cm 1,5/2 ed ampio cm 53,4, che lo attraversa interamente. L’abaco ha pertanto due margini rilevati in corrispondenza dei quali la sua altezza è di cm 10,2, mentre nella parte centrale esso è alto cm 7,8. Tale incasso sembra costituire una guida per un elemento orizzontale posto al di sopra del capitello. Sono troppe le incognite per giungere ad un’ipotesi attendibile circa la collocazione di quest’ultimo, considerato che non è neppure certa la sua pertinenza all’abitazione. 49 La rioccupazione dell’area da parte di modeste unità abitative non avrebbe interessato l’area della Casa C (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 208). Tuttavia, nell’ambiente 12 sono state identificate modeste strutture murarie che si impostano sul riempimento del vano. Altri muri si rintracciano nel vestibolo 1. Per la rioccupazione dell’isolato si veda anche Wilson, op. cit. a nota 9, p. 185. 20 sergio aiosa Fig. 12. Tindari, Casa C, ambiente 3, soglia tompagnata dell’ingresso principale originario. da accogliere l’ipotesi secondo la quale l’architrave dovesse essere ligneo,50 come si evince chiaramente dalle misure degli intercolunni. Sui lati lunghi essi misurano m 2,421÷2,452 e sui lati brevi m 2,12÷2,18. A fronte di un diametro medio51 di ca. 60 cm, il rapporto diametro/intercolunnio supera 1:4 sui lati lunghi e 1:3,5 sui lati brevi.52 La corte scoperta è attualmente sistemata a giardino nella parte centrale, mentre sui margini il pavimento è costituito da mattoni quadrati e grandi solenes di terracotta, ma non è noto se tale allestimento rifletta la configurazione originaria. In corrispondenza dell’angolo tra il portico nord e quello est è un gradino sul quale si imposta un breve setto murario mediano che crea due ingressi alla galleria orientale e, allo stesso tempo, costituisce un diaframma che doveva consentire di isolarla dal portico settentrionale (Tav. ii). Un’anta, addossata alla colonna posta all’angolo sud-est del peristilio, si trova sullo stesso allineamento di un concio che sporge alla base del muro di prospetto dell’ambiente 6. Nel portico meridionale è una porzione di un altro muro di partizione delle gallerie, addossato alla seconda colonna a partire da Ovest. Tutti gli intercolunni del peristilio sono chiusi da setti murari che conservano lacerti di uno spesso rivestimento ad intonaco di qualità scadente. L’accesso alla corte scoperta avveniva tramite un unico varco lasciato tra la colonna all’angolo nord-est e quella centrale del portico orientale. La preminenza conferita alle gallerie est e ovest assume un preciso significato se si osservano le caratteristiche dell’ambiente 3, piuttosto stretto (m 4,85 × 2,25), del quale colpiscono la peculiare conformazione e la posizione pressoché al centro del lato est dell’abitazione. L’analisi del paramento del muro perimetrale est della Casa C in corri- 50 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207. Non sono noti dati sul rinvenimento di elementi metallici, chiodi e grappe, dagli strati di crollo. 51 Trattandosi di colonne realizzate con frammenti di mattoni di terracotta, esse presentano una forma non perfettamente circolare. Complessivamente, il loro diametro di base varia dai cm 58,5 ai cm 61,5 e, in più di un caso, in una stessa colonna si registrano variazioni di cm 1,5 tra due diametri ortogonali fra loro. La misura più ricorrente è comunque di cm 60. 52 Le misure degli intercolunni sono piuttosto variabili. Riportiamo in dettaglio le singole misure, indicate a partire dalla colonna all’angolo nord-ovest, procedendo in senso orario. Lato nord: m 2,44; m 2,57; m 2,347. Lato est: m 2,305; m 2,06; Lato sud: m 2,566; m 2,29; m 2,408. Lato ovest: m 2,07; m 2,175. Nel testo abbiamo riportato la media dei valori di ciascun lato. Anche a Morgantina, ancorché nella Casa della cisterna ad arco sia stata rinvenuta parte di una cornice in calcare che, con prudenza, viene attribuita alla trabeazione del peristilio, per le altre abitazioni si è giunti alla stessa conclusione (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 312). la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 21 Fig. 13. Tindari, Casa C, ambiente 16, anta destra dell’esedra. spondenza di questo ambiente ha rivelato l’esistenza di due grandi conci che costituivano una soglia (Fig. 12), segno questo che, in origine, qui si trovava l’ingresso alla casa, successivamente spostato nell’adiacente ambiente 1, probabilmente in seguito alla chiusura delle gallerie orientale e meridionale del peristilio. L’asse di percorrenza Est-Ovest, determinato dalla posizione dell’ingresso originario, dalla disposizione assiale del peristilio e ribadito dalla notevole profondità dei portici su questi due lati, si conclude con l’ambiente 13 (m 5,22 × 8,35), l’unico accessibile dalla galleria ovest. Esso attualmente presenta tre ingressi: uno mediano, più largo (m 1,825), e due alle estremità di misura minore (rispettivamente m 0,63 quello sud e m 0,627 quello nord). Tali ingressi sono stati chiaramente aperti a strappo in un momento successivo, come dimostra la ripresa in mattoni di terracotta delle ante. Soluzioni di continuità nella tessitura del muro di prospetto dell’ambiente, particolarmente evidenti nel paramento interno, indurrebbero a pensare ad una sua riparti- zione originaria in due vani di dimensioni più contenute, in seguito alterata per creare questo grande andron. Uno spesso strato di intonaco bianco – non sono visibili tracce di pittura – rivestiva interamente le pareti. Sul lato nord, lungo un asse ortogonale a quello principale, si dispone l’ambiente 16 (m 6,98 × 6,32). Esso presenta una pavimentazione che imita l’opus signinum a copertura di un moderno solaio latero-cementizio. Dalla peculiare conformazione dell’ingresso, articolato ad esedra53 con due colonne comprese fra ante a terminazione semicircolare, è dipesa la sua identificazione quale tablinum.54 Le due ante non sono realizzate con la stessa tecnica. L’anta destra presenta – unico caso in tutta l’abitazione – dei conci di notevoli dimensioni e grossi mattoni in terracotta rettangolari con un’estremità semicircolare55 (Fig. 13). Di quella sinistra si conservava solo la traccia e la parte visibile è interamente di restauro. Dal punto di vista costruttivo e, per così dire, formale, le due colonne sono del tutto identiche – a parte l’altezza – alla maggior parte di quelle del peristilio. Come queste ulti- 53 Usiamo il termine esedra nell’accezione ‘convenzionale’ (S. Settis, “Esedra” e “ninfeo” nella terminologia architettonica del mondo romano. Dall’età repubblicana alla tarda antichità, in anrw , 4.1 BerlinNew York, 1973, p. 662 sgg.). 54 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207 e fig. 19. Sulla pertinenza di tale denominazione vedi, infra, pp. 49-53. 55 I mattoni misurano cm 28,3 × 56,6 × 9,7, si noti il rapporto di 1:2 tra i lati. 22 sergio aiosa Fig. 15. Tindari, Antiquarium, capitello corinzio in terracotta della Casa C, particolare. me, esse si impostano direttamente su plinti quadrangolari, raccordati fra loro da un allineamento di conci che costituiscono uno stilobate assai irregolare. Le colonne, secondo una delle ricostruzioni proposte,56 reggevano grandi capitelli siculo-corinzi in terracotta57 dei quali, oltre ad alcuni frammenti, si conserva un unico esemplare integro, alto ca. 90 cm., esposto nell’Antiquarium di Tindari (Fig. 14). Esso è ritenuto uno degli elementi di datazione dell’impianto originario della Casa C. Ma circa la cronologia di questo straordinario manufatto non vi è accordo fra gli studiosi. Prescindendo da un primo inquadramento cronologico al i sec. a.C.,58 altri propende per una datazione al ii sec. a.C.59 Una più serrata analisi si deve ad H. Lauter-Bufe, secondo la quale l’esemplare di Tindari, per il forte sviluppo verticale e la conformazione dell’abaco, fa parte di quel gruppo dei capitelli c.d. ‘siculo-corinzi’ che dipende tipologicamente dai capitelli della tholos di Epidauro e sarebbe da porre ancora nella prima metà del iii sec. a.C. Fra gli elementi che la inducono a proporre simile cronologia vi è il motivo vegetale che ne decora la parte inferiore60 (Fig. 15). 56 È stato sollevato un problema circa l’effettiva pertinenza del capitello in terracotta alla Casa C che nell’allestimento decorativo non mostra ulteriori caratteri di lusso. Alcuni frammenti di un capitello del tutto analogo all’esemplare integro furono rinvenuti, a quanto sembra, nel 1842 (H. Lauter-Bufe, Die Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitells. Der sogenannte italisch-repubilikanische Typus, Mainz am Rhein, 1987, p. 17). È da tenere presente che già dalle prime campagne di scavo dell’insula iv, che portarono alla scoperta del mosaico della Casa B, fu in parte sterrata anche la Casa C il cui scavo regolare fu intrapreso a partire dal 1960 (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207). La questione della pertinenza dei capitelli corinzi alla Casa B sulla base della data del rinvenimento non è dunque dirimente (cfr. E. C. Portale, I mosaici nell’apparato decorativo delle case ellenistiche siciliane, in aiscom iv . Atti del iv Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico (Palermo, 9-13 dicembre 1996), a cura di R. M. Carra Bonacasa, F. Guidobaldi, Ravenna, 1997, pp. 85-106, part. p. 95 nota 35). 57 I capitelli corinzi avrebbero dunque poggiato su colonne prive di base. 58 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207. 59 Wilson, op. cit. a nota 9, p. 120 ss., fig. 13b. La Casa C sarebbe una testimonianza tangibile della fioritura di Tindari in questo periodo, fioritura che interessa altri centri come Solunto. La datazione tiene conto della cronologia proposta per i mosaici della Casa B. Il capitello sarebbe da datare allo stesso periodo del pavimento rinvenuto al di sotto del mosaico ellenistico della Casa B (Von Boeselager, loc. cit. a nota 32). Le peculiarità del capitello, a partire dalle sue dimensioni eccezionali, non fanno escludere che esso sia stato reimpiegato nell’abitazione. La successione di più mani di colore, indizio di un periodo d’uso piuttosto prolungato, non permette di dirimere la questione. 60 Lauter-Bufe, op. cit. a nota 56, pp. 17 sgg., 71 sgg. I capitelli della tholos di Epidauro, ma aggiungeremmo anche quelli del propylon nord, hanno dei successori anche in alcuni capitelli di Alessandria (G. Roux, L’Architecture de l’Argolide aux iv e et iii e Siècles av. J.-C., Paris, 1962, p. 379. Per un esemplare in basalto realizzato in due metà sovrapposte datato fra il iii ed il i sec. a.C. si veda A. Adriani, Repertorio d’arte dell’Egitto Greco-Romano, ser. c, i-ii, Palermo, 1966, p. 78, tav. 19, fig. 68 n. 35; P. Pensabene, Elementi architettonici di Alessandria e di altri siti egiziani. Repertorio d’arte dell’Egitto Greco-Romano, ser. c, iii, Roma, 1993, p. 111 e pp. 115-120). A sostegno della cronologia del capitello tin- Fig. 14. Tindari, Antiquarium, capitello corinzio in terracotta della Casa C. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 23 Dal nostro punto di vista, sarebbe metodologicamente improprio estendere la cronologia del capitello a tutta l’abitazione. Inoltre, le ante dell’esedra sono realizzate in parte in muratura di mattoni e, come si è detto, altrettanto in mattoni sono ricucite le ante degli ingressi laterali all’andron 13. La trasformazione di quest’ultimo ambiente e la creazione dell’esedra sembrano, dunque, rispondere alla volontà di monumentalizzare l’abitazione facendo ricorso ad una tecnica muraria, contraddistinta dall’impiego di elementi di terracotta,61 che, per certi aspetti, non sembra potersi ascrivere alla fase originaria.62 Ma, soprattutto, si pone la questione delle notevoli dimensioni e della stessa qualità del capitello – di gran lunga superiori a quelle di analoghi esemplari nello stesso materiale provenienti da abitazioni private, come i capitelli in terracotta rinvenuti a Morgantina, anch’essi impiegati con la medesima collocazione63 – le quali potrebbero suggerire anche una provenienza da un altro edificio, verosimilmente pubblico, e un suo reimpiego nell’abitazione.64 La collocazione dei capitelli corinzi sulle colonne dell’esedra pone alcune difficoltà di ordine costruttivo cui è il caso di accennare. L’altezza massima del fusto della colonna più alta è di 4,52 m. A ciò si aggiunge l’altezza del capi- tello corinzio (89,2 cm). Pertanto, l’altezza complessiva delle due colonne sarebbe di almeno m 5,41 ca. In questo caso, le colonne dell’esedra, complete di capitello, sarebbero più alte di quelle del portico. Il dislivello di ca. 1 m tra le quote superiori degli abaci crea difficoltà per l’impostazione di una copertura orizzontale delle gallerie. Esso non può essere compensato dalla sola altezza dell’architrave del peristilio. Il problema non sussisterebbe se la trabeazione del peristilio fosse completa di architrave, fregio e cornice, ma nessun elemento permette di ipotizzarne l’esistenza.65 Risulta difficile pervenire ad una soluzione, a meno che il peristilio non si sviluppasse completamente su due piani, ma tale ipotesi sembrerebbe da escludere.66 L’esedra comunica con il solo ambiente 14 (m 5,18 × 3,435), altrimenti non accessibile.67 Il muro di fondo della galleria ovest del peristilio, nella parte corrispondente a tale ambiente, mostra un vistoso cambiamento di tecnica. Ciò ci induce a sostenere che, in origine, vi fosse un vano accessibile dalla corte, tompagnato in seguito. Non si può fare alcuna valutazione sugli ipotetici ingressi segnati nei muri laterali dell’esedra sulla pianta pubblicata da L. Bernabò Brea, in quanto essi sono interamente di restauro. Gli accessi laterali non avrebbero dato luogo al noto schema del- daritano, H. Lauter Bufe propone il confronto con i vasi di Centuripe, sulle cui cronologia e fonti d’ispirazione tuttavia ancora molto si discute. Per una datazione al primo trentennio del iii sec. a.C. si veda U. Wintermeyer, Die polychrome Relief keramik aus Centuripe, in JdI, xc, 1975, p. 136-241; P. W. Deussen, The polychromatic ceramics of Centuripe, Ann Arbor, 1988; per una datazione più bassa si veda, ad esempio, W. Von Sydow, Die hellenistische Gebälke in Sizilien, in rm , 91,2, 1984, p. 272. La produzione dei vasi centuripini è stata considerata un ulteriore esito di quella liparese facente capo al Pittore di Lipari. Pertanto, il 251 a.C. – anno della distruzione romana di Lipari – viene considerato un terminus post quem per questa classe ceramica (E. Joly, Teorie vecchie e nuove sulla ceramica di Centuripe, in ºÈÏ›·˜ X¿ÚÈÓ. Miscellanea di studi classici in onore di Eugenio Manni, iv, pp. 1241-1254, passim; Ead., La ceramica: botteghe e Maestri della Sicilia ellenistica, in Bonacasa - Joly, op. cit. a nota 11, p. 350 sg. Un parziale aggiornamento bibliografico è in F. Giudice, s.v. Centuripini vasi, in eaa ii Suppl., ii, 1994, p. 100 sg. Riteniamo che, a prescindere dalla datazione dell’inizio della produzione centurpina, il girale alla base del capitello tindaritano sia necessariamente trattato più schematicamente, sia in considerazione della sua collocazione in un’area particolarmente esposta, sia per la diversa tecnica con cui è realizzato. Il richiamo ai vasi di Centuripe è certamente lecito, ma bisogna tenere in considerazione la specificità del manufatto. Circa la stessa terminologia adottata da H. Lauter-Bufe per questa classe di capitelli sono state espresse alcune riserve, considerata l’ampia diffusione del tipo. Altre osservazioni mettono in rilievo la difficoltà di basarsi su criteri stilistici, postulando uno sviluppo secondo modalità uniformi nelle diverse regioni in cui ne è attestata la presenza (vedi la recensione a Lauter-Bufe, op. cit. di P. Gros, in ra , 1989, 2, p. 418 sg.; e di M. Pfanner, in Gnomon, 61, 5, 1989, pp. 425-430). Per quanto riguarda i capitelli siciliani, gli esemplari di Siracusa e di Gela sono considerati i capostipiti della serie; se ciò è probabile dal punto di vista dei caratteri stilistici, è da sottolineare la difficoltà a istituire capisaldi cronologici inoppugnabili, considerato che, in particolare, la cronologia dell’abitazione gelese, da cui proviene uno dei due capitelli, è lungi dal trovare concordi tutti gli studiosi. cm; lungh. max 30,4 cm; H. 5,3 cm), sulla cui pertinenza all’abitazione e, quindi, sulla cui collocazione si possono solo fare alcune congetture. Esso avrebbe potuto trovarsi su una delle ante dell’esedra del piano superiore, ammettendo che qui vi fosse un’esatta iterazione della scansione interna del pianterreno, pur con una riduzione di modulo ma, evidentemente, nessun dato può suffragare una simile ipotesi. 62 La questione della pertinenza dell’ingresso monumentale dell’esedra alla stessa fase dell’impianto della casa a peristilio non è di facile soluzione e verrà affrontata più avanti (vd., infra, pp. 34-36). 63 Tra i frammenti architettonici rinvenuti all’interno della Casa del Magistrato, vi sono un capitello corinzio di terracotta pressoché integro ed un frammento relativo ad un secondo esemplare. Le dimensioni del capitello si aggirano attorno ai 41 cm di altezza per un diametro di 38 cm. Secondo Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 212 sg., i frammenti di volute, pertinenti a capitelli corinzi in terracotta, meno probabilmente ionici, potrebbero appartenere tanto alle due colonne dell’ambiente 2, quanto ai portici a squadra del cortile, alle cui estremità erano brevi ante, mentre all’angolo era forse un pilastro. 64 La datazione del capitello tindaritano al iii sec. a.C. sarebbe invece da condividere e da estendere all’intera abitazione (H. Lauter, Die Architektur des Hellenismus, Darmstadt, 1986, pp. 149 e 269). Lauter-Bufe, op. cit. a nota 56, p. 19 sg. e nota 40, distingue la cronologia del capitello da quella della Casa C, da porsi nel ii o i sec. a.C., pertanto avanza l’ipotesi di un reimpiego del capitello, originariamente destinato all’abitazione precedente o ad altro edificio. 65 È da rilevare che il problema sussiste anche postulando che vi sia stato un errore nella ricostruzione delle colonne, a meno di non immaginare che quelle del peristilio fossero considerevolmente più alte. 66 «Tutta la casa doveva avere, al di sopra del piano terreno conservato, un primo piano» (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207). 67 Anche questo ambiente è parzialmente interrato. Al suo interno si trovano accumulati elementi di crollo, probabilmente pertinenti al piano superiore, tra cui frammenti di una pavimentazione in cocciopesto decorata a scaglie irregolari. Un riferimento a resti di pavimenti del piano superiore rinvenuti nello strato di crollo è in Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207. 61 Tra gli altri elementi in terracotta è da segnalare un capitello dorico di pilastro, assai piccolo (H. 10,8 cm; ∅ 32,5 cm; abaco: largh. 36,4 24 sergio aiosa la suite di tre ambienti – caratteristico delle architetture reali macedoni e pergamene, ma ben attestato nelle abitazioni private siciliane68 – ma avrebbero assolto solo la funzione di passaggi funzionali, il primo di essi, al raggiungimento dell’ambiente 15 (m 5,05 × 4,69 ca.),69 per il quale una comunicazione con l’esedra si rende necessaria,70 considerata la sua posizione angolare e che nessuna traccia di un vano si nota lungo il paramento del muro che lo separa dall’ambiente 14. L’altro, dal lato opposto, avrebbe consentito l’accesso alla serie di corridoi che caratterizzano il lato nord dell‘abitazione, benché l’ipotesi di passaggio diretto dall’esedra al corridoio-ambitus (17) posto immediatamente ad Est sembra poco probabile, soprattutto se a questo tratto del corridoio si attribuisce la funzione di latrina71 (Tav. iii). La sua parte meridionale appare interrata e delimitata da un muro di contenimento realizzato in tecnica visibilmente diversa, non riportato nella planimetria generale.72 Al corridoio, per il quale è da escludere una comunicazione con la galleria settentrionale del peristilio, si accedeva dall’ambiente 18 (m 5,28 × 4,38),73 il cui muro di fondo presenta un ispessimento in corrispondenza dell’estremità ovest, con tutta probabilità un consolidamento dell’angolo in prossimità del dislivello creato dall’ambitus. Tutti gli ambienti disposti lungo il fronte meridionale dell’abitazione (5-12) si trovano su un piano più alto di m 0,35 ca. rispetto alla quota pavimentale della galleria sud (Tav. iv). Data la sua posizione angolare, l’ambiente 5 (m 4,77 × 2,935) non poteva essere dotato di un ingresso autonomo dal peristilio. Esso era dunque raggiungibile dall’ambiente 4 (m 4,795 × 3,765), posto subito a Sud del vestibolo originario e dotato di un ingresso, spostato dal medio della parete, che si affaccia sulla galleria orientale, probabilmente proprio per consentire un immediato raggiungimento dell’ambiente d’angolo. Per tale ragione, non riteniamo che si possa prescindere dalla funzionalità della posizione dell’ingresso e attribuire uno specifico valore a questo nesso fra i due ambienti, in quanto non ci sembra che essi riproducano planimetricamente uno schema significativo nei termini della riconoscibilità della funzione, in base al quale condurre specifici confronti. L’ambiente 6 (m 2,93 × 2,915) è accessibile dalla galleria sud del peristilio. La posizione dell’ingresso, del tutto spostato su un lato, non essendo vincolata, come nel caso precedente, dall’ubicazione dell’ambiente rispetto all’impianto complessivo della casa, dovrà intendersi come determinata dalla funzione. Come è noto, gli ingressi decentrati sono considerati un indizio per riconoscere gli ambienti in cui erano le klinai.74 Tenuto conto delle dimensioni contenute dell’ambiente e, soprattutto, dell’iterazione dello stesso schema in quelli contigui, non si tratta certo di un andron. Proponiamo dunque di riconoscere nella serie di ambienti del lato sud i cubicula. Tale interpretazione risulta, a nostro parere, avvalorata anche dall’isolamento delle gallerie est e sud del peristilio, cui abbiamo già fatto riferimento, che conferiva indubbiamente un carattere privato a questa parte dell’abitazione. Un cenno particolare merita l’ambiente 7 (m 3,165 × 2,71), l’unico della casa il cui piano pavimentale è stato posto in luce. Si tratta di un pavimento in opus signinum di qualità 68 Per le suites di tre ambienti di Monte Iato si veda H. P. Isler, Monte Iato. L’abitato di epoca ellenistica, in Atti delle giornate di studio sul tema Wohnbauforshung in Zentral- und Westsizilien (Zürich, 28. Februar3. März 1996), a cura di H. P. Isler, D. Käch, Zürich, 1997, p. 33, con bibl. Il confronto tra le attestazioni di Monte Iato e gli esempi, aulici e non, del mondo greco è condotto in K. Dalcher, Das Peristylhaus 1 von Iaitas: Architektur und Baugeschichte, in H. P. Isler (a cura di), Studia Ietina vi , Universität Zürich, Archäologisches Institut, Zürich, 1994, pp. 129-150. A Morgantina la suite è attestata nella Casa del Capitello dorico, nella Casa della cisterna ad arco e nella Casa di Sudovest (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, pp. 390-392). Non convincente il riconoscimento di una suite di tre ambienti negli ambienti 16-18 della Casa di Ganimede a Morgantina: cfr. U. Wulf, Die Stadtgrabung. Teil 3. Die hellenistischen und römischen Wohnhäuser von Pergamon. Unter besonderer Berücksichtigung der Anlagen zwischen der Mittel- und der Ostgasse (= AvP xv,3), BerlinNew York, 1990, p. 180 e nota 871. Per la recente identificazione di un altro esempio di suite nel c.d. ‘Ginnasio’ di Solunto si veda M. Wolf, Das Ginnasio in Solunt, in Bericht über die 39. Tagung für Ausgrabungswissenschaft und Bauforschung der Koldewy-Gesellschaft in Leiden (Leiden, 1519 Mai 1996), Bonn, 1998, pp. 51-57; Id., Die Häuser von Solunt und die hellenistische Wohnarchitektur (= Sonderschriften Deutsches Archäologisches Institut Rom, 14), Mainz am Rhein, 2003, pp. 16 sg., 26-29, fig. 5. 69 Considerate le caratteristiche del vano, non definito esattamente da muri di pertinenza dell’abitazione, abbiamo riportato solo misure orientative. 70 Il restauro del muro divisorio con l’esedra trascura la necessità di dotare l’ambiente 15 di un accesso dall’esterno. Esso è tuttavia riportato sulla planimetria edita. Ad una quota di molto inferiore l’ambiente è accessibile da un vano della casa B e presenta lungo le quat- tro pareti una fodera muraria di notevole spessore che doveva fungere da contrafforte per contenere le spinte del terreno in declivio e, al contempo, essere funzionale all’appoggio di un solaio il cui calpestio risulta infatti compatibile con quello degli ambienti adiacenti. La stessa fodera appare realizzata in tempi diversi. In particolare, i tratti disposti in senso nord-sud, non ammorsati e conservatisi ad una quota considerevolmente più bassa, appaiono essere ulteriori opere di consolidamento dei muri perimetrali dell’ambiente. 71 Cfr. Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207. Ci sembra che una simile ipotesi, basata sulla presenza del canale mediano, non tenga in considerazione la logica distributiva degli ambienti. Nella Casa C i servizi e gli ambienti di rappresentanza sarebbero posti immediatamente a contatto, senza nessuna separazione. 72 Il muro, che non si ammorsa a nessuna altra struttura, potrebbe essere stato approntato durante i lavori di restauro per contenere la terra della parte meridionale del corridoio, non scavata. 73 Come sembra suggerire la planimetria edita, l’accesso all’ambiente 18 è stato successivamente ristretto con l’apprestamento di un tompagno che avrebbe inglobato una colonna, della quale non rimane alcuna traccia. In pianta è riportato un vano che avrebbe messo in comunicazione l’ambiente con il corridoio 20 (m 1,57 × 5,19), posto immediatamente ad Est. Prescindendo dal problema della notevole differenza di livello tra i rispettivi piani di calpestio (il corridoio, il cui scavo non è ultimato, si trova ad una quota più bassa di almeno cm 80), il restauro ha cancellato del tutto le tracce di questo ingresso. Il piano di calpestio dell’ambiente è sottomesso anche rispetto a quello della galleria settentrionale del peristilio. 74 G. Roux, Salles de Banquets à Délos, in bch , Suppl. i, 1973, pp. 544546. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 25 Fig. 16. Tindari, Casa C, ambiente 7, pavimento in opus signinum. piuttosto scadente, decorato da due file parallele di tessere bianche, allineate per i vertici, che corrono ad angolo retto lungo la parete d’ingresso e quella est, ad una distanza di cm 45 ca. da esse (Fig. 16). L’area centrale è stata impreziosita, probabilmente in un secondo momento, con inserti in brecce e marmi policromi, quadrangolari e a losanga alternati, di cui restano per lo più le impronte, secondo una tecnica e un disegno attestati anche a Solunto75 e che, in generale, trova confronti con pavimenti di ii-i sec. a.C. La zona riquadrata dalle file di tessere doveva essere quella in cui era disposto il letto. La posizione della porta non è dunque coerente con la disposizione del motivo, in quanto l’accesso all’ambiente si troverebbe di fronte al letto. Ma tale incongruenza ha trovato una spiegazione in seguito all’esame del rapporto tra le strutture murarie e il pavimento. Esso continua al di sotto del muro ovest, per altro non ammorsato a quello di fondo e realizzato con una tecnica muraria del tutto differente da quella utilizzata per le restanti tre pareti che delimitano il vano. Il muro divisorio tra l’ambiente 7 e il successivo è stato, dunque, aggiunto in seguito, costituendo la ripartizione di un vano più ampio. Pertanto, la posizione pressoché mediana rispetto al lato sud della casa dell’ambiente 8 (m 3,125 × 2,65), così come il suo ingresso centrale,76 risultano determinate da tali rimaneggiamenti. Un’analoga suddivisione ha interessato gli ambienti 9-11, immediatamente ad Ovest. Come si deduce chiaramente dalla planimetria generale (Tav. i), il fronte dello stretto ambiente 9 (m 0,91 × 3,11) e di quelli che seguono non prosegue sul medesimo allineamento del muro di prospetto di quelli precedentemente descritti (ambienti 5-8), ma è decisamente in aggetto. Tale differenza si coglie tra le stesse due ante dell’ambiente che si trovano su piani diversi, raccordati fra loro da una rudimentale soglia. Per questo ambiente, assai stretto, è stata proposta la funzione di vano scala, unicamente in considerazione delle sue dimensioni e della posizione a ridosso del muro sud della casa.77 Della scala non resta alcuna traccia sui muri la- 75 Per un’ulteriore descrizione di questo pavimento, in cui i sectilia sarebbero stati inseriti successivamente, si veda Wilson, op. cit. a nota 9, p. 120-122. Alcune impronte di forma quadrangolare si trovano allineate lungo i lati sud ed est della fascia marginale o sparse senza un disegno coerente. È dunque possibile che non tutti gli inserti siano successivi alla prima redazione. 76 La soglia con cardine, ricavata da un unico concio, potrebbe es- sere quella che originariamente costituiva l’accesso all’unico vano costituito dagli ambienti 7 ed 8. 77 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 209. Tale interpretazione è ripresa in G. F. La Torre, Il processo di “romanizzazione” della Sicilia: il caso di Tindari, in Sicilia Antiqua, 1, 2004, p. 138 ove non si tiene conto che l’ambiente 9 è il risultato della seriore suddivisione degli ambienti su questo fronte (vd., infra, p. 32 sg.). 26 sergio aiosa Fig. 17. Tindari, Casa C, ambiente 13, muro sud con l’ingresso dell’ambiente 12 tompagnato. terali o sul muro di fondo. Essa, secondo questa interpretazione, non avrebbe condotto al secondo piano, ma al retrostante cortile delle terme che si trova ad una quota più alta di 1,75 m. Considerato tale dislivello, non eccessivo, la misura in profondità dell’ambiente avrebbe consentito di inserire una scala non troppo ripida. In ogni caso, considerata la seriorità dell’intervento, la comunicazione tra la Casa C e le terme non ha nulla a che vedere col progetto originario. Un’altra possibilità, che potrebbe essere confermata solo ultimando lo scavo, è che si sia trattato di una latrina. Ciò anche tenendo conto della posizione del vano quasi sul prolungamento del canale mediano tra l’esedra 16 e l’ambiente 18. Proseguendo verso Sud, l’ambitus avrebbe potuto intercettare una canalizzazione di scarico dell’ambiente 9. Tale funzione è, peraltro, compatibile, oltre che con le misure esigue dell’ambiente, anche col suo essere, di fatto, una sorta di spazio di risulta determinato dalla costruzione dei muri relativi all’ambiente 8 e all’ambiente 10 (m 1,97 × 2,785). L’ambiente 11 (m 3,195 × 2,745), il cui ingresso è quasi sull’asse della galleria ovest, chiude la serie degli ambienti che prospettano sul portico meridionale. Originariamente dal grande vano 13, superando un gradino, si accedeva all’ambiente 12 (m 4,54 × 2,43), all’angolo sud-ovest dell’abitazione. In seguito l’ingresso è stato chiuso da un tompagno (Fig. 17) e il muro divisorio è stato rivestito con una fodera muraria che si segue fino al muro di prospetto dell’ambiente 11. (Fig. 18).78 L’ambiente 12, allo stato attuale, non è dunque accessibile dalla Casa C, ma appare connesso alle soprastanti terme, in particolare all’ambiente pavimentato con il noto mosaico con il toro e i pilei dei Dioscuri, simbolo della città di Tindari.79 Già da un primo esame degli ambienti emerge come l’attuale conformazione della Casa C di Tindari sia il frutto di notevoli trasformazioni, per altro comprensibili se si pensa che la struttura è stata in uso fino al iv secolo d.C., quando un terremoto ne determinò il crollo.80 78 L’anta che si appoggia alla fodera muraria è ricoperta dallo stesso intonaco che riveste il muro sud e la chiusura dell’ingresso all’ambiente 12, ma l’obliterazione dell’apertura non può precedere la riconfigurazione del vano, in quanto la fodera rispetta tale accesso, come appare particolarmente evidente osservando il suo stipite destro. 79 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, fig. 34. All’interno dell’ambiente 12 resta infatti una porzione di pavimentazione in coc- ciopesto ad una quota compatibile con quella del mosaico. Tracce di un probabile focolare e di una ripartizione interna devono considerarsi relative ad una frequentazione tarda. 80 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 208. Secondo Wilson, op. cit. a nota 7, p. 139, dal ii sec. a.C. al iv sec. d.C. nella casa non sarebbero intervenute sostanziali modifiche, a parte la chiusura degli intercolunni del peristilio. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 27 Le alterazioni succedutesi nel corso del tempo, benché di una certa entità, non sono state determinanti nel modificare l’assetto generale dell’abitazione ancorché, come vedremo, si siano realizzate alcune partizioni degli ambienti non previste originariamente e la chiusura degli intercolunni del peristilio. La scarna bibliografia sulle case dell’insula iv e la mancanza di capisaldi cronologici cui potersi riferire per proporre una datazione ci hanno suggerito di tentare un approccio diverso allo studio di questa abitazione. Pertanto, contestualmente al rilievo degli alzati, si è condotto un esame accurato dei paramenti murari di ciascun ambiente della Casa C, al fine di cogliere e registrare le numerose soluzioni di continuità fra le diverse murature, secondo le procedure dell’analisi stratigrafica degli elevati.81 A dispetto di un’apparente uniformità, tale metodologia ci ha consentito di articolare una tipologia delle tessiture murarie che, ancorché non basata su differenze macroscopiche, per via di un quasi costante utilizzo degli stessi materiali e, spesso, del reimpiego di elementi più antichi, si rivela comunque indicativa di rifacimenti più o meno radicali che si è cercato di disporre all’interno di una cronologia relativa. Nel procedere in questa direzione, abbiamo tenuto presente che le porzioni di muratura superstiti, in molti casi di estensione assai limitata, portano ad attribuire all’intero paramento in esame le caratteristiche di suoi singoli tratti. Pertanto, piuttosto che aggiungere varianti su varianti, dando luogo ad una classificazione tanto articolata quanto poco funzionale, abbiamo tenuto presente un numero maggiore di parametri, quali le dimensioni dei singoli elementi, la qualità e la frequenza dei materiali, la presenza di ricorsi e la loro altezza. Questo procedimento ci ha consentito di mettere in relazione fra loro murature non contigue, senza esasperare differenze più apparenti che sostanziali, determinate anche dalla funzione e dalla posizione dei muri. La preponderante presenza di murature di restauro e l’altezza assai modesta di molti dei muri della casa hanno reso per lo più superfluo l’impiego sistematico di schede di unità stratigrafica muraria (usm),82 ma alla loro concezione generale ci siamo riferiti per la registrazione dei dati relativi alle unità campione prescelte per un’esemplificazione delle di- verse tipologie attestate all’interno dell’abitazione. Per molti tratti murari si è dovuto rinunciare a qualsiasi considerazione perché il restauro ha interessato l’intero elevato sovrapponendosi alle fondazioni la cui tecnica, di conseguenza, non è più osservabile. La scala prescelta per la restituzione grafica ci ha consentito di evidenziare nelle di- 81 I rapporti stratigrafici tra le diverse strutture murarie vengono cioè valutati analogamente a quelli tra gli strati, al fine di istituire una cronologia relativa tra tessiture murarie differenti, spesso ricorrenti in una stessa struttura, e, quindi, fra le diverse fasi costruttive. Non riteniamo sia il caso di dilungarci sulla descrizione di un procedimento assai noto che spesso fornisce risultati cui le comuni indagini non riescono a pervenire. Se l’analisi stratigrafica degli elevati costituisce una prassi abbastanza consolidata, il dibattito circa le procedure da adottare è assai sviluppato e riguarda tanto gli architetti e gli archeologi classici, quanto i medievisti. Pertanto si è fatto riferimento a diversi contributi a carattere teorico, prescindendo dalla cronologia degli organismi architettonici oggetto di indagine, al fine di cogliere spunti e suggerimenti utili all’attuazione di questa metodologia. Per i principi dell’analisi stratigrafica basti il rimando ai ben noti studi di A. Carandini e E. C. Harris (A. Carandini, Storie dalla terra. Manuale dello scavo archeologico, Bari, 1981; E. C. Harris, Principi di stratigrafia archeologica, Roma, 1983). Per l’applicazione della metodologia all’analisi complessiva degli elevati si veda R. Parenti, Le tecniche di documentazione per una lettura stratigrafica dell’elevato, in Archeologia e restauro dei monumenti, I ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia (Certosa di Pontignano, 28 settembre-10 ottobre 1987), a cura di R. Francovich, R. Parenti, Firenze, 1988, pp. 249-279, con bibl. Utili spunti per un’applicazione pratica sono in diversi contributi pubblicati in Archeologia dell’architettura, Suppl. «AMediev», pubblicato a partire dal 1996. Per un’applicazione degli stessi principi all’architettura domestica di età classica si veda Carandini et alii, Per lo studio delle insulae di Pompei, in ArchCl, 1996, pp. 321-327. 82 Abbiamo preso a riferimento la scheda usm elaborata dall’i.c.c.d. (Norme per la redazione della scheda del saggio stratigrafico, a cura di F. Parise Badoni, M. Ruggeri Giove, Roma, 1984, pp. 25-26). Fig. 18. Tindari, Casa C, peristilio, profilo del muro sud (in primo piano la fodera dell’ambiente 12). 28 sergio aiosa verse sezioni la linea di demarcazione tra le parti originarie e quelle di restauro.83 L’analisi stratigrafica degli elevati è stata particolarmente produttiva per gli ambienti del fronte meridionale dell’abitazione, i cui muri si conservano per un’altezza massima di ca. 1,50 m (Tav. iv). Trattandosi di porzioni di muratura comunque limitate, non è possibile specificare se per l’elevato si procedesse con una selezione di materiali progressivamente più leggeri. In generale, la tecnica muraria in uso nella Casa C è piuttosto povera84 e grande parte doveva avere la finitura ad intonaco delle pareti, della quale si conservano, in alcuni ambienti, sporadici lacerti che non presentano tracce di pitture.85 Le diverse stesure degli intonaci, complessivamente di qualità piuttosto scadente, sono un chiaro indizio di rifacimenti. Di norma, i paramenti che costituiscono il prospetto esterno degli ambienti sono eseguiti con maggiore perizia costruttiva e, pertanto, necessitano di intonaci di modesto spessore per la loro regolarizzazione. Quelli interni ai vari ambienti dell’abitazione sono eseguiti più grossolanamente e gran parte del loro aspetto, senz’altro liscio e regolare, era affidato alla rifinitura della loro superficie.86 Nell’esporre le caratteristiche delle murature della Casa C, abbiamo scelto di seguire, laddove possibile, un criterio cronologico. È stato possibile distinguere chiaramente cinque differenti tecniche murarie di cui riassumiamo sinteticamente le caratteristiche principali. Per le tecniche iii-v, identificate in strutture sufficientemente estese, tali descrizioni sono state corredate da disegni di campioni di muratura elaborati in scala 1:10.87 Alla fase più antica è da riferire un breve tratto del muro perimetrale est dell’abitazione, evidenziato da una risega in corrispondenza dell’angolo sudorientale dell’ambiente 4. La tecnica costruttiva, che non trova riscontro in altri muri della Casa C, si caratterizza per l’impiego di pietrame minuto e scaglie di pietra e di terracotta, posti in opera senza malta. La tessitura dei paramenti è del tutto analoga a quella delle strutture ‘di età timoleontea’ identificate al di sotto del vano a Nord del peristilio della Casa B e, in parte, del muro perimetrale ovest dell’isolato in corrispondenza di quest’ultimo. È proprio tale circostanza che induce a ritenere che questa sia la tecnica muraria più antica fra quelle riscontrate all’interno della Casa C, quasi certamente relativa a strutture preesistenti all’impianto della casa a peristilio (tecnica i). In generale, nelle strutture murarie dell’abitazione si nota la totale assenza di muri interamente costruiti con conci squadrati di grandi dimensioni, fatta eccezione per un breve tratto del muro che separa l’ambitus dall’ambiente 18 (tecnica ii). Questo vano è chiaramente successivo a tale tratto murario, come risulta evidente dalla sua ripresa con materiali di natura e dimensioni totalmente differenti (Tav. iii). La scarsa attestazione di questa tecnica non permette di affermare che essa fosse impiegata per definire il perimetro della casa, costituendo una sorta di basamento in opus quadratum. Il ricorrere di blocchi di analoghe dimensioni e caratteristiche sul prolungamento dello stesso muro, in corrispondenza della Casa B, porta a riferire la tecnica ad un precedente assetto dell’insula iv, prima dell’impianto della Casa C. L’impiego di una muratura così robusta potrebbe spiegarsi considerando che la quota cui si fondano i muri lungo l’ambitus è notevolmente inferiore a quella delle restanti strutture dell’intero isolato. Queste le tecniche che abbiamo riferito alle strutture preesistenti alla Casa C. Più complesso e articolato è il ragionamento circa quelle che ne caratterizzano l’impianto complessivo e le sue successive trasformazioni. Lungo i muri perimetrali est e ovest dell’abitazione si registra l’impiego abbastanza sistematico di grandi conci assai allungati (da cm 70 × 30 a cm 110 × 30), diversi per finitura e dimensioni da quelli precedentemente descritti, disposti alla base di tali muri per formare i piani orizzontali su cui si imposta la muratura, costituita da pietre di piccolo e medio modulo abbastanza ben sbozzate e rinzeppate da scaglie più minute. Un simile accorgimento, riscontrato lungo tutta la base dei muri laterali dell’insula, era reso necessario dall’andamento in pendio dei due cardines che la fiancheggiano (Fig. 19). Con il medesimo sistema, venivano collocate le soglie degli ingressi ai vari corpi di fabbrica, in corrispondenza 83 Seguendo un procedimento ben noto, i moderni interventi di restauro sono stati evidenziati frapponendo fra le murature antiche e quelle rifatte nello stesso materiale minuti frammenti di terracotta che permettono di riconoscere con facilità le strutture originali, altrimenti difficilmente distinguibili. Infatti, l’azione degli agenti atmosferici ha inevitabilmente uniformato l’aspetto dei materiali impiegati, molti dei quali di recupero, quindi della stessa pezzatura. Questo accorgimento ha fortunatamente evitato indebite ricostruzioni della conformazione originaria della casa. 84 In P. Pelagatti, Camarina. Relazione preliminare della campagna di scavi 1961-1962, BdA, 1962, 2-3, p. 261 viene fatto riferimento ad «[…] un edificio ad est della strada occidentale» di Camarina, nei pressi della Casa dell’altare e più ampio di quest’ultima, in quanto il fronte noto misura 35 m, nel quale sono stati identificati sei vani, due pavimentati in opus signinum. Nei muri, spessi 50 cm, sono impiegate piccole pietre e tegole. La povertà tecnologica, a Tindari come a Camarina, non è dunque necessariamente indizio della pertinenza delle strutture murarie ad edifici di modesta qualità architettonica. 85 Isolati frammenti di intonaco alla base del muro dell’ambiente 7 recano labilissime tracce di colore rosso, un probabile zoccolo che correva tutto attorno alle pareti. 86 Ad esempio, è stridente la differenza di esecuzione fra i due paramenti dello stesso tratto di muro dell’ambiente 13, pesantemente rivestito all’interno del vano da uno spesso strato di intonaco stuccato e da un sottile strato di rifinitura verso la galleria. 87 Si è scelto di documentare fotograficamente tutti i prospetti, impiegando un reticolo di m 1 × 1,50 o di m 1 × 1, a seconda dell’estensione dei tratti murari da campionare, suddiviso in quadrati di 10 cm di lato che, congiuntamente a misurazioni di dettaglio, ha permesso un’efficace documentazione grafica delle caratteristiche di ciascuna porzione di muro esaminata. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 29 Fig. 19. Tindari, Insula iv, conci disposti a gradini nel muro di prospetto est. delle quali si prestava maggiore cura nella rifinitura superficiale dei conci. Blocchi lapidei del tutto analoghi sono adoperati alla base di alcuni muri interni della casa, specialmente in quelli che, fondandosi ad una quota più bassa, raggiungevano un’altezza complessiva maggiore. In particolare, ci riferiamo ai muri divisori tra gli ambienti 20 e 22 e tra gli ambienti 18 e 19. Ma tali conci ricorrono anche nei muri di fondo dei portici orientale e meridionale, marcando uno degli stipiti dell’ingresso tra il vestibolo e la galleria settentrionale e gli stipiti degli ambienti 5, 6 e 8 (Tav. iv). Nelle murature ammorsate a questi monoliti sono impiegate pietre di piccolo e medio modulo, sbozzate irregolarmente, legate con malta di calce e poste in opera con scarsa attenzione per una rifinitura anche parziale dei paramenti. L’irregolarità dei piani di posa è attenuata dall’impiego di rinzeppature costituite da scaglie minute o lastre rettangolari della stessa pietra, mattoni e tegole di terracotta che creano ricorsi abbastanza regolari (dai 30 ai 50 cm) (tecnica iii, Figg. 20-21). Questo tipo di muratura non si presenta sempre con le stesse caratteristiche. Nel caso del muro fra gli ambienti 4 e 5, a pietre sbozzate grossolanamente si alternano con maggiore frequenza porzioni di muratura, dimensional- mente simili, costituite da mattoni frammisti ad elementi lapidei. La varietà anche dimensionale del materiale impiegato determina un aspetto più frammentario del paramento, permettendo di isolare una variante della medesima tecnica costruttiva (tecnica iiia). Pertanto, non vi è nessun fondato motivo per attribuire questo tratto murario ad un intervento seriore e si può senz’altro ascrivere la tecnica iii al momento dell’impianto della casa a peristilio, per il suo ricorrere nella quasi totalità delle strutture murarie dell’abitazione. Palesemente diversa dalle precedenti è la tecnica del muro che fodera l’originario prospetto dell’ambiente 12 e che costituisce l’anta destra dell’ambiente 11. La definizione del prospetto sulla galleria è certamente posteriore all’impianto di un muro precedente che si conserva per un tratto di ca. 60 cm in corrispondenza dell’angolo nord-ovest dell’ambiente. Tale fodera muraria è costituita da blocchetti pseudo-parallelepipedi di medio modulo, sbozzati abbastanza regolarmente e spesso rifiniti in facciavista. Legati con malta di calce, sono disposti per filari pressoché della stessa altezza (cm 25 ca.), i cui piani di posa sono talmente regolari da limitare il ricorso alle rinzeppature, prevalentemente in scaglie di pietra. L’inserimento di mattoni di grandi dimensioni contribuisce alla formazione di stipiti re- 30 sergio aiosa Fig. 20. tecnica iii: campione. golari. La generale uniformità del paramento consente di apprestare un rivestimento di spessore ridotto (tecnica iv, Figg. 22-23). La tecnica dei muri laterali dell’ambiente 10, realizzati contestualmente a quello di prospetto e palesemente aggiunti successivamente, differisce da quella adottata nei muri degli altri ambienti del lato sud, trovando qualche analogia solo con quella che ricorre nel successivo ambien- te 11. Tuttavia, si distingue da quest’ultima per il più approssimativo taglio dei blocchetti e l’assenza di finitura superficiale. L’inserimento di elementi lapidei di vario modulo, legati con malta di calce, determina un andamento ben più irregolare dei piani di posa e, conseguentemente, un maggiore impiego di rinzeppature in pietra e in terracotta, cui è affidato il compito di regolarizzare i filari (Figg. 24-25) (tecnica v). Tali diversità trovano una precisa corrispondenza nel vistoso aggetto del prospetto dell’ambiente rispetto a quello dell’intera sequenza di ambienti del lato sud dell’abitazione. Le differenze riscontrate nonostante l’apparente somiglianza fra le tecniche e l’assenza di un allineamento fra i prospetti inducono ad attribuire a due distinti momenti costruttivi la realizzazione degli ambienti 10 e 11. Ne consegue che anche la conformazione dell’ambiente 9 è stata determinata solo in seguito alla realizzazione di queste strutture. Entrambe le tecniche sono relative a rifacimenti che, nondimeno, rispettano l’impianto generale dell’abitazione. Appare evidente che l’inserimento dell’ambiente 10 ha costituito un frazionamento della superficie complessiva di un vano rettangolare allungato, corrispondente a quella degli attuali ambienti 9-11. Pertanto, dal punto di vista della cronologia relativa, siamo propensi a considerare la tecnica v come più recente rispetto alla tecnica iv. È la tecnica Fig. 21. Tindari, Casa C, muro tra gli ambienti 4 e 5 (tecnica iii). la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 31 Fig. 22. tecnica iv: campione. dell’ultima ristrutturazione della casa che ha determinato l’attuale configurazione degli ambienti 7-8 e 9-11. Nella costruzione del setto murario che ha diviso il vano pavimentato in opus signinum in due diversi ambienti (7 e 8) le rinzeppature assecondano il contorno delle pietre, contribuendo ad accentuare l’aspetto irregolare dei paramenti. Ma, nel caso specifico, riteniamo di potere attribuire alla modestia dell’intervento, poco o nulla impegnativo dal punto di visto statico, oltre che al ruolo determinante del rivestimento parietale (ancora presente lungo la faccia occidentale del muro), la vistosa differenza fra questo muro (Tav. iii) e quello di prospetto dell’ambiente 10. Siamo propensi ad attribuire tali strutture alla medesima fase costruttiva anche in considerazione del fatto che esse sono relative ad interventi che rispondono alla medesima logica, determinando entrambi una frammentazione dei vani rettangolari allungati che dovevano caratterizzare in origine l’intera sequenza di ambienti del lato sud dell’abitazione. È probabile che simili modifiche siano connesse ad un più generale progetto di riconfigurazione che ha previsto lo spostamento dell’ingresso principale della Casa C e la privatizzazione degli ambienti che si aprono sulle gallerie est e sud del peristilio. Ma, i tratti di muratura che chiudono gli intercolunni, quando non interamente di restauro, si conservano per un’altezza assai modesta. Si tratta di realizzazioni assai grossolane, come dimostra la diversa attenzione con cui è curato l’addossamento di ciascun setto murario alle colonne. Né una maggiore accuratezza era necessaria, considerato che essi, a differenza dei muri di prospetto degli ambienti del fronte sud, non assolvono ad alcuna funzione portante. Nel descrivere le caratteristiche dei muri della Casa C, abbiamo fatto frequentemente accenno alla presenza di elementi in terracotta, costantemente frammisti ad altri materiali. Prescindendo dall’uso dei mattoni nella realizzazione delle colonne e nelle ante dell’esedra, il loro impiego esclusivo nelle murature88 è prevalentemente limitato alla riconfigurazione delle ante di nuovi vani di accesso aperti 88 Oltre a quelli inseriti nelle strutture murarie, all’interno del perimetro della casa si conservano undici esemplari di mattoni, sette dei quali integri, rettangolari (cm 44,5 × 34,2 × 9; cm 47 × 32 × 8,5 = ca. 1:1,5; cm 35,3 × 19 × 11; cm 35,5 × 26 × 10,3; cm 41,2 × 18 × 7,5) e quadrati (cm 36/36,5 × 36/36,5 × 11). Ad un esame macroscopico, non si rivela alcuna differenza negli impasti. Fig. 23. Tindari, Casa C, muro di prospetto dell’ambiente 11 (tecnica iv). 32 sergio aiosa Fig. 25. Tindari, Casa C, muro di prospetto tra gli ambienti 10 e 11 (tecnica v). Fig. 24. tecnica v: campione. ‘a strappo’, come abbiamo avuto modo di documentare per i tre ingressi dell’ambiente 13 (Fig. 26). Un’altra breve anta in mattoni costituisce lo stipite destro dell’apertura che dal vestibolo d’ingresso immette nella galleria settentrionale del peristilio, ma tale particolare costruttivo non è sufficiente, da solo, per attribuire tutti questi interventi alla medesima fase. L’impiego dei mattoni nelle murature rimane comunque sporadico e non appare legato ad una specifica prassi costruttiva. Il tratto più esteso in cui sono impiegati i mattoni, disposti irregolarmente, è costituito da una breve porzione superstite alla base del muro tra l’esedra e l’ambitus (Fig. 27). La differenza di tecnica fra questo paramento e quello sul 89 Le modeste porzioni di elevato conservate non permettono di comprendere quanto fosse esteso l’uso dei mattoni e con che frequenza corressero i ricorsi. Non vi sono elementi per giungere ad una puntualizzazione della cronologia di questa tecnica che può ben datarsi ancora nel ii sec. a.C. A Morgantina, sito che abbiamo frequentemente richiamato per l’identità di molte soluzioni tecnologiche riscontrate nella Casa C, i muri che utilizzano mattoni di t.c. sono sicuramente posteriori alla distruzione del 211 a.C. (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 316). L’impiego dei mattoni per le colonne invece sarebbe già attestato prima di questa data (R. Stilwell, E. Sjöqvist, Excavations at Serra Orlando. Preliminary Report, in aja , 61, 1957, p. 157). Tuttavia, nella Casa di Ganimede e in quella della cisterna ad arco l’esi- lato opposto del canale è uno degli elementi che indurrebbero a ritenere che l’esedra sia stata realizzata successivamente.89 Ci si è chiesto perché i due muri che fiancheggiano l’ambitus avrebbero dovuto essere realizzati in tecniche così palesemente diverse se la loro realizzazione fosse stata contestuale. Ma, come si è detto, la sequenza degli interventi che hanno determinato la creazione degli ambienti sul lato nord dell’abitazione non è chiara in tutti i suoi aspetti. Il muro di prospetto sul cardo D in corrispondenza del corridoio 19-21 (m 14,41 × 1,635) è integralmente di restauro (Fig. 28). Dalla minima porzione di muratura originaria conservatasi risulta, pertanto, difficile stabilire se in questo punto fosse prevista una soglia, quindi un accesso dal cardo, tanto più che lo scavo del corridoio non è mai stato ultimato. Considerato che esso cade circa a metà dell’isolato,90 è da chiedersi se esso non ne costituisse un’originaria partizione trasversale – come prescritto dalle note leggi in materia – in seguito obliterata dall’inserimento dell’esedra e dell’ambiente 15 che, lo ricordiamo, si sovrappone ad un ambiente di pertinenza della sottostante casa B. Il lotto occupato da quest’ultima non sarebbe pertanto regolare, ma stenza in situ di un tamburo di colonna dorica(?) in calcare rivela una molteplicità di fasi costruttive la cui sequenza non è del tutto chiara (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 128). Da quest’ultima abitazione proviengono anche «one complete block, and numerous fragments, of a late type of Doric stone entablature, wich, if it indeed belongs to the peristyle, is the first such example in a Morgantinian house» (R. Stilwell, Excavations at Morgantina (Serra Orlando). Preliminary Report v , in aja , 65, 1961, p. 279). 90 Soprattutto se si esclude la parte delle terme che aggetta sul decumano superiore, come si è detto, assai probabilmente aggiunta in seguito. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni Fig. 26. Tindari, Casa C, esempio di impiego dei mattoni di t.c. negli stipiti degli accessi all’ambiente 13. Fig. 27. Tindari, Casa C, muro orientale dell’esedra, porzione di muratura in mattoni. 33 34 sergio aiosa Fig. 28. Tindari, Casa C, corridoio 19-21, il muro sul cardo est. Fig. 29. Tindari, Casa C, esedra, colonne. avrebbe questa ‘appendice’ che potrebbe spiegarsi quale occupazione parziale di suolo precedentemente pubblico.91 L’ipotesi di un più tardo inserimento dell’esedra incontra alcune difficoltà che è il caso di sottolineare. In primo luogo, circa la cronologia relativa fra l’esedra e l’ambitus, una delimitazione sul lato ovest di quest’ultimo doveva esistere anche in precedenza. La presenza dei mattoni, ad una quota assai bassa, potrebbe anche denunciare un intervento di manutenzione del canale, piuttosto che leggersi in relazione alla realizzazione dell’esedra in quanto, a ben vedere, il perimetro di quest’ultima risulta determinato dallo stesso impianto dell’abitazione. Infatti, il prospetto colonnato è sull’allineamento degli ambienti del lato nord, il muro di fondo corrisponde al limite nord dell’abitazione, il muro ovest resta determinato una volta individuato geometricamente il fronte degli ambienti ovest e, infine, il muro est coincide con il limite dell’ambitus. Tanto più che in seguito dimostreremo come tutti gli ambienti dell’abitazione, compresi dunque l’esedra e l’ambiente 13 e con la sola eccezione dei più tardi fra quelli del lato sud, siano tutti posizionati ricorrendo ad un’unica concezione geometrica e dimensionati secondo multipli, per lo più interi, di un unico modulo di base. La riconfigurazione dell’esedra deve dunque intendersi relativa alla sola monumentalizzazione del suo prospetto. Infatti anche il tompagno che chiude l’accesso dal portico all’ambiente 14 può spiegarsi esclusivamente in funzione di una più tarda realizzazione dell’anta sinistra dell’esedra e della conseguente creazione di una comunicazione diretta tra i due ambienti, con lo spostamento dell’apertura nella posizione attuale. Benché gli interventi qui descritti rimandino a cambiamenti nella configurazione degli ambienti di rappresentanza della Casa C, espliciteremo i motivi per i quali siamo propensi a ritenere che essi siano intervenuti piuttosto precocemente, costituendo una variante in corso d’opera che aderisce alla medesima logica progettuale, rispettando la 91 È evidente che per dirimere una simile questione sarebbe necessario in primo luogo completare lo scavo della Casa C, ma anche in- dagare gli isolati vicini al fine di comprendere se una simile partizione fosse prevista sistematicamente. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 35 Fig. 30. Tindari, Casa C, peristilio, colonne con fusti a mattoni sottili. Fig. 31. Tindari, Casa C, peristilio, colonne con fusto a blocchetti. stessa scansione modulare dell’impianto generale dell’abitazione anche nella disposizione delle colonne dell’esedra (Fig. 29). Esse hanno «la stessa struttura a piccoli tasselli di quelle del peristilio»; queste ultime sono «costruite non con grandi mattoni discoidali unitari, con foro mediano, come quelle della sottostante Casa B, ma con piccole scaglie di mattone sottile o con blocchetti litici alternati con strati di calce e rivestite di intonaco»92 (Figg. 30-31). Tuttavia, è il caso di ricordare che nella colonna all’angolo nordest sono impiegati mattoni anulari. Ma questa, come quella all’angolo sudest si conserva solo per tre ricorsi di mattoni e non è dunque possibile determinare come fosse realizzata la parte restante del fusto. Infatti le due tecniche, a scaglie di mattoni e a blocchetti, non sono usate in maniera esclusiva. Le colonne di spezzoni del peristilio, che sono in maggior numero, hanno comunque alla base da due a quattro ricorsi di blocchetti e si differenziano per questo solo aspetto da quelle dell’esedra, formate da spezzoni fin dalla base. Le altre colonne del peristilio alternano ricorsi di spezzoni a ricorsi di blocchetti. Abbiamo provato a considerare la distribuzione delle colonne realizzate in ciascuna delle due tecniche, presupponendo che i restauri moderni non abbiano alterato le caratteristiche tecnologiche e la posizione relativa di ciascuna colonna.93 Anche se la tecnica ‘a blocchetti’ appare impiegata nella terza colonna del lato nord e, continuando in senso orario, nelle tre colonne del lato est (con certezza solo in quella centrale) non sembra che un eventuale rifacimento sia stato determinato dall’intenzione di modificare 92 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207. In realtà, non abbiamo riscontrato l’uso di elementi litici, ma di mattoni di vario impasto e di altezza assai maggiore di quelli usati nelle altre colonne, tagliati in frammenti pressoché triangolari. 93 Circa il restauro delle colonne viene specificato che, «[…] poiché i materiali di cui esse erano composte conservavano un ordine re- golare sul terreno, fu possibile calcolare con sufficiente approssimazione l’altezza di una di esse e quindi rialzarle o meglio ricostruirle, filare per filare, inserendo ogni tanto qualche blocco in muratura ancora conservante la propria compattezza» (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207). 36 sergio aiosa il numero o la posizione delle colonne e, dunque, la forma, le dimensioni e la collocazione del peristilio nell’ambito della corte. Infatti la presenza di almeno una colonna a blocchetti nei lati nord ed est fissa gli allineamenti del peristilio su entrambi i lati ed è da escludere che il colonnato sia stato prolungato verso Ovest, in quanto sarebbe difficile prevedere un peristilio meno allungato entro una corte così marcatamente rettangolare. Dal momento che le colonne poggiano su plinti94 e non su uno stilobate continuo non riteniamo neppure che ulteriori indagini archeologiche possano rivelare la presenza di una fondazione con diversa estensione o orientamento che rimandi ad un peristilio anteriore a quello attualmente visibile. E che il colonnato dovesse essere previsto fin dal momento dell’impianto dell’abitazione appare scontato, considerate le dimensioni della corte (10,50 × 16,80 m), difficilmente immaginabile sprovvista di colonne. Ci sembra che non sia da enfatizzare la seppur palese differenza tra le diverse tecniche riscontrate e che essa sia da attribuire al modo di procedere di diverse squadre di costruttori, anche in relazione alla disponibilità in cantiere del materiale da costruzione. Altrimenti l’ipotesi di un più tardo inserimento dell’esedra porterebbe a ritenere che la tecnica a spezzoni sia successiva e che, quindi, il peristilio sia stato rifatto quasi integralmente. Infatti, l’assoluta analogia tra la tecnica costruttiva delle colonne dell’esedra e di molte fra le colonne del peristilio dovrebbe far ritenere che tale ristrutturazione fosse avvenuta contestualmente alla realizzazione dell’esedra stessa. Inoltre, posto che il peristilio ha un piano superiore, un rifacimento così radicale non potrebbe che considerarsi anteriore o contestuale alla sopraelevazione. In definitiva, benché aver distinto la fase di impianto della casa a peristilio da quella in cui furono aperti a strappo i tre ingressi dell’ambiente 13 e fu realizzata l’esedra, determinando una monumentalizzazione dell’abitazione abbia una sua logica, in quanto in entrambi gli interventi ricorre l’uso di mattoni di terracotta oltre che per le ragioni di natura storico-architettonica che verranno esplicitate più avanti, ci sembra che connettere tali lavori ad una più ampia fase di ristrutturazione dell’abitazione che abbia coinvolto anche il peristilio significhi avventurarsi troppo avanti nel campo delle ipotesi. Semmai l’identità tra le tecniche impiegate nelle colonne dell’esedra e del peristilio induce a considerare la creazione del prospetto monumentale dell’esedra come pertinente ad una fase distinta, ma immediatamente successiva a quella dell’impianto dell’abitazione. Pertanto, le cronologie relative desunte dall’analisi diretta dell’impianto complessivo della Casa C e delle sue singole strutture permettono di proporre una pianta articolata in quattro fasi costruttive, la prima relativa alle preesistenze e le altre tre al momento della costruzione dell’abitazione e alle sue trasformazioni successive (Fig. 32). Sintetizzando brevemente i risultati cui siamo giunti possiamo affermare che la Casa C si sovrappone, con ogni probabilità, su due lotti separati dall’ambitus, occupati da abitazioni che per tecnica costruttiva richiamano le strutture identificate al di sotto della Casa B. Di tali preesistenze rimangono sporadiche tracce lungo la parte superstite dell’ambitus (Fig. 32, i) e in una breve porzione di muratura all’interno dell’ambiente 4. L’impianto dell’abitazione prevedeva già in origine il peristilio in posizione centrale, circondato su ogni lato da ambienti, ma l’ingresso principale si trovava nello stretto corridoio posto pressoché sul suo asse longitudinale. Sul lato meridionale vi era una sequenza di ambienti più larghi che profondi (Fig. 32, ii). In seguito, l’abitazione fu interessata da un processo di monumentalizzazione cui sono ascrivibili la configurazione ad esedra del prospetto dell’ambiente 16, con la necessità di spostare l’apertura del vano 14 dal portico ovest all’attuale posizione e le trasformazioni dell’andron, con l’apertura dei tre ingressi (Fig. 32, iii). Gli ultimi interventi, probabilmente ascrivibili ad un unico momento, consentirono di isolare una parte privata, mediante la chiusura degli intercolunni del peristilio e la frammentazione della teoria di ambienti del lato meridionale della casa. Ciò determinò la necessità di spostare l’ingresso principale nella posizione attuale (Fig. 32, iv). 94 Anche le dimensioni dei plinti su cui poggiano le colonne non aiutano a dirimere la questione. Sostanzialmente si rilevano due gruppi di misure anche se prevalgono i plinti piccoli. Tuttavia questi appaiono sotto colonne realizzate in entrambe le tecniche (vd., infra, nota 104). L’analisi stratigrafica degli elevati è stata fondamentale per l’individuazione delle caratteristiche salienti dell’impianto della Casa C, relativamente al momento in cui essa assunse l’assetto monumentale definitivo. L’aver chiarito la posteriorità di alcune strutture era operazione necessaria per ricercare l’eventuale presenza di un criterio compositivo, non tenendo dunque in conto quei muri pertinenti a fasi successive che hanno determinato partizioni dell’abitazione non previste nel progetto originario. Tali superfetazioni, specialmente se meramente funzionali e di entità modesta piuttosto che legate a vere e proprie riconfigurazioni, potrebbero non seguire una logica progettuale o seguirne una diversa da quella dell’impianto precedente. Viceversa, il riscontrare un medesimo criterio generale non è di per sé sufficiente per postulare la contemporaneità di alcune realizzazioni, in quanto ogni intervento può inserirsi in un contesto in maniera coerente, specialmente quando si tratti di schemi progettuali piuttosto elementari, come è da aspettarsi nell’ambito dell’architettura domestica. Prima di entrare nel merito delle questioni attinenti la decodifica della geometria della Casa C è op- la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 37 Fig. 32. Tindari, Casa C, pianta delle fasi costruttive. portuno premettere alcune considerazioni. Il tratto del muro perimetrale sud dell’abitazione, in corrispondenza degli ambienti 5 e 6, non è allineato con la parte restante. Difficile comprenderne la ragione, in quanto la parete di fondo di questi due vani non è osservabile se non per una breve porzione, interamente di restauro, dal momento che gli ambienti non sono stati mai scavati.95 Oltre alle irregolarità proprie della tecnica muraria impiegata, di cui si è detto, e ad una certa trascuratezza generale riscontrata negli allineamenti e nella regolarità degli spessori murari,96 sono evidenti le variazioni nell’assetto statico delle strutture, nelle quali sarebbe forse possibile leggere precise indicazioni circa le modalità con cui l’abitazione è stata danneggiata da uno o più eventi sismici. Ciò è particolarmente palese osservando le colonne del peristilio, le quali presentano un’alterazione della loro posizione particolarmente sensibile nei lati nord e ovest. Tutto ciò comporta la difficoltà di giungere a misure ben definite, indispensabile premessa per poter cogliere una logica progettuale. Benché nell’ambito dell’architettura privata sia da prevedere in anticipo un rigore nella progettazione e nell’esecuzione 95 Dalla terra affiorano elementi di crollo, fra cui grossi frammenti di intonaco ed uno dei dischi di terracotta che costituiscono il fusto delle colonne del piano superiore del peristilio. 96 Ad esempio, un unico allineamento è costituito dal muro che divide gli ambienti 5 e 6, dai muri di prospetto degli ambienti posti sul lato est dell’abitazione e dal muro ovest dell’ambiente 22, che prose- gue nelle due ante che delimitano il corridoio 21. Come si può verificare agevolmente dalla planimetria generale, quest’unico fronte presenta un andamento irregolare e spessori che variano, anche nello stesso tratto murario, dai 44,7 ai 49,5 cm. Considerando globalmente tutti i muri dell’abitazione, si ha una variazione anche maggiore, dai 35 ai 50 cm. 38 sergio aiosa minore di quello riscontrabile in un edificio pubblico, probabilmente anche per il ricorso ad architetti le cui conoscenze matematiche non dovevano essere particolarmente approfondite, riteniamo improbabile che la Casa C di Tindari, un edificio dotato di un peristilio a due piani, sia da valutare alla stessa stregua di un esempio di architettura ‘spontanea’, escludendo a priori l’esistenza di un criterio compostitivo, solo per la scarsa intelligibilità di quest’ultimo.97 E che un criterio vi fosse è rivelato dal riscontro di alcuni rapporti proporzionali, più o meno esatti, i quali inducono a ritenere che, prescindendo dallo stato attuale, la Casa C sia stata progettata in maniera semplice, ma rigorosa. È evidente come qualsiasi modello teorico si discosti dalla realtà materiale per quell’ovvio slittamento tra progetto ed esecuzione. Ciò è tanto più vero per la Casa C nella quale è possibile constatare agevolmente come muri che costituirebbero un unico allineamento, hanno un andamento in pianta assai irregolare, proprio a partire dagli stessi muri perimetrali. Appare ovvio che, in questo caso, sia legittimo considerare nullo tale scarto. Nel caso dei muri di perimetro nord e sud, si pone anche il problema della loro pertinenza alla Casa C o agli edifici confinanti: la Casa B a Nord e le terme a Sud. Nel computo della superficie dovrebbe, a rigore, essere esclusa la metà di ciascuno di questi due spessori murari benché, dal punto di vista della proprietà, la soluzione potrebbe essere anche diversa.98 Pertanto, conformemente a procedure sperimentate altrove, abbiamo ritenuto di dover in primo luogo cogliere l’eventuale presenza di rapporti proporzionali, trascurando provvisoriamente la questione dell’unità di misura impiegata.99 cesima parte del lato lungo del peristilio (ca. m 0,70), nella quale proponiamo di riconoscere la misura modulare, in quanto – come vedremo – essa determina anche la scansione di singoli ambienti e ricorre, in multipli interi o frazionari, in tutte le parti dell’abitazione. Anticipiamo il riferimento alla misura modulare per comodità espositiva, ma l’identificazione del modulo è logicamente successiva al riconoscimento dei rapporti proporzionali fra le parti dell’abitazione. Tabella 1. ,8021 16,80 16,80 10,50 10,50 15,60 19,10 19,10 15,60 15,60 10,50 16,80 ,8107 ,8107 ,8107 ,8107 ,8107 : : : : : : : : : : : : : : : : : 28,80 28,80 21,80 21,80 16,80 9,101 21,80 28,80 28,80 21,80 5,601 5,601 3,501 21,80 28,80 10,50 5,601 = = = = = = = = = = = = = = = = = 30M 24M 24M 15M 15M 18M 13M 13M 18M 18M 15M 24M 10M 10M 10M 10M 10M : : : : : : : : : : : : : : : : : 40M 40M 30M 30M 24M 13M 30M 40M 40M 30M 18M 18M 15M 30M 40M 15M 18M = = = = = = = = = = = = = = = = = 13 13 14 11 15 18 13 13 11 14 15 13 12 11 11 12 15 : : : : : : : : : : : : : : : : : 4 5 5 2 8 13 30 40 5 15 8 1 1 3 4 3 4 Le misure complessive della Casa C (ca. m 21 × 28), quelle della corte (ca. m 16,80 × 10,50), quelle del peristilio (ca. m 9,10 × 5,60), nonché quelle della profondità degli ambienti nord e sud (ca. m 7 e m 3,50) sono tutte in rapporto fra loro (tabella 1). Esse inoltre appaiono tutte divisibili per la tredi- Le misure generali dell’abitazione stanno fra loro nel rapporto di 3:4. Tale rapporto non è casuale, dal momento che la tripartizione del lato breve del rettangolo di 30M × 40M individua esattamente il fronte degli ambienti nord (10M). La profondità della teoria di piccoli ambienti sud (5M) è, a sua volta, la metà di quella degli ambienti nord. Di conseguenza, il lato breve della corte (15M) risulta essere la metà del lato breve del rettangolo in cui si inscrive l’abitazione e una volta e mezza una delle tre parti in cui esso si scompone. Ne deriva anche che, rispetto all’asse longitudinale dell’abitazione, quello della corte si trova spostato a Sud di una misura pari ad ¼ di questa stessa parte, ovvero 2½M. Rispetto all’asse trasversale la corte appare centrata, a meno della differenza di uno spessore murario.100 97 Non è sempre vero che «il y a loin, dans le domaine de l’architecture privée tout au moins, des prescriptions trop ingégneusement rigoureuses d’un théoricien comme Vitruve à la pratique des architects» ( J. Chamonard, Le Quartier du Thèatre. Étude sur l’habitation délienne a l’époque hellénistique. Exploration archéologique de Délos faite par l’École Française d’Athènes et de Rome, 8, 1-2, Paris, 1922-1924, p. 260). 98 I muri nord e sud, benché di confine, non presentano alcun raddoppiamento del loro spessore; ciascuno di essi potrebbe essere del tutto pertinente all’edificio confinante. Prescindendo dalla questione degli edifici confinanti, vi è chi afferma che, nell’evidenziare le linee guida del progetto, gli spessori murari possano essere inclusi o esclusi oppure tali linee possono appunto attestarsi sull’asse dei muri, rite- nendo plausibile anche una combinazione di questi due criteri. È opportuno precisare che l’ambiente all’angolo nord-ovest (amb. 15) della Casa C si ‘incastra’ con la Casa B. I muri perimetrali, proprio all’angolo, sono conservati ad una quota più bassa. 99 H. Geertman, Geometria e aritmetica in alcune case ad atrio pompeiane, in BABesch, lix, 1984, p. 32. La misura del diametro di base delle colonne, compresa tra 58 e 60 cm, rimanda evidentemente all’impiego di un piede compreso tra 29 e 30 cm. Ma l’imposizione preliminare di un piede romano di 29,6 cm potrebbe condurre a fraintendimenti. 100 Più esattamente, la sequenza di ambienti lungo il lato est, computando gli spessori murari, è pari alla profondità di quelli ad Ovest, non calcolando lo spessore del muro perimetrale ovest. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 39 Posto che la diagonale di un rettangolo ABCD di 30M × 40M è pari a 50M, è evidente altresì che il semplice ribaltamento delle semidiagonali (25M) sui lati brevi individua la posizione esatta del prospetto degli ambienti del lato sud. I lati brevi della corte risultano determinati dall’intersezione tra la diagonale e un arco di cerchio di raggio pari a 10M (Fig. 33,1). Ciò equivale a iscrivere nel rettangolo di 30M × 40M una circonferenza, considerando la proiezione delle sue intersezioni con le diagonali del rettangolo stesso sul suo lato maggiore. Naturalmente, ogni intersezione individua sulla diagonale un segmento di 40M e, dunque, ciascuna diagonale è ripartita secondo il rapporto 1:3:1 (Fig. 33,2). Ne deriva che la misura del lato lungo della corte (24M) è pari a tre volte la profondità degli ambienti est e ovest (8M), in quanto la partizione del lato lungo dell’abitazione (8M:24M:8M) esprime lo stesso rapporto 1:3:1 che si ottiene sulla diagonale di 50M. I lati del rettangolo della corte (15M × 24M)101 sono in rapporto di 5:8. Tale rapporto si può ottenere mediante costruzioni diverse (Fig. 33,3). Ad esempio, se si esclude la fascia degli ambienti nord e si considera il rettangolo euclideo di 20M × 40M residuo (A1B1CD), possiamo ripartire il lato di un quadrato di 20M in due segmenti di 8M e 12M, secondo il sistema delle partizioni armoniche, ovvero ribaltando il lato sulla diagonale e la parte restante di quest’ultima sul lato opposto, ottenendo la profondità degli ambienti est e ovest (a meno di uno spessore murario) e la misura del lato lungo della corte. Rimane evidente che quest’ultima (24M) è la parte armonica di un segmento di 40M. Le vistose irregolarità del peristilio e l’assenza di uno stilobate che delinei i margini della corte scoperta hanno reso più difficile cogliere una precisa relazione fra i suoi lati e, di conseguenza, verificare se, come abbiamo ipotizzato, le misure degli interassi angolari entrassero in una precisa relazione con quelle della corte e quindi dell’intera abitazione.102 Un rapporto prossimo a 2:3 si ha considerando il filo esterno delle colonne angolari, ma l’interasse complessivo del lato breve e quello del lato lungo sono fra loro in rapporto di 8:13, numeri consecutivi della serie di Fibonacci il cui quoto esprime in maniera abbastanza precisa il numero d’oro. Il rettangolo del peristilio è quindi un rettangolo aureo (Fig. 33,4) benché, considerata la qualità complessiva dell’abitazione, concordiamo con quanti affermano che spesso questa circostanza sia piuttosto una risultante non intenzionale di un procedimento progettuale diverso. Essa, al massimo, poteva costituire un valore aggiunto.103 Infatti, a proposito del rapporto di 5:8 riscontrato tra le misure dell’intera corte, è da notare che anche 5 e 8 sono numeri che nella serie di Fibonacci costituiscono la coppia imme- Per la stessa ragione per cui è stato difficile indicare le misure complessive del peristilio, altrettanto problematico è risultato risalire alla profondità di ciascun portico. Misurata in diversi punti, essa non appare costante. Ciò è particolarmente evidente nel caso del portico nord. Il fronte dell’ambiente 18 appare considerevolmente arretrato rispetto a quello dell’esedra 16 e le colonne del peristilio non sono allineate, pertanto la misura da ciascuna di esse 101 Si noterà anche che (10M + 10M/2) × (10M + 10M√2) = 15M × 24M. 102 Le colonne del lato est del peristilio sono quelle per cui il computo dell’interasse complessivo è più attendibile perché di esse si con- servano solo i primi elementi e i loro assi sono sul medesimo allineamento. Altrettanto in asse appaiono le colonne del lato sud benché la loro congiungente non sia parallela al fronte degli ambienti sud. 103 Geertman, op. cit. a nota 99, p. 48. diatamente precedente, ancorché – come è noto – il numero d’oro risulti espresso in maniera più esatta da coppie di numeri successivi (5:8 = 0,625>0,618). La corte sarebbe dunque inquadrata entro un rettangolo aureo, adottando tra i suoi lati un rapporto meno preciso, ma che consentisse anche di raccordare modularmente le sue misure a quelle generali (Fig. 33,5). Le gallerie del peristilio sui lati est e ovest sono sostanzialmente di uguale profondità mentre una sensibile differenza si riscontra tra i lati nord e sud. È dunque evidente che la corte scoperta non insiste sulle diagonali del rettangolo del cortile, ma appare traslata verso Nord. Il numero di colonne non riflette il rapporto fra i lati del peristilio, ma quello di 3:4 dell’intera abitazione. Pertanto, a prescindere dalle notevoli disomogeneità all’interno dello stesso lato, gli interassi sui due lati sono variati. Nella tabella 2 abbiamo espresso il calcolo degli interassi a partire dagli intercolunni rilevati, elencati a partire dall’angolo nord-ovest in senso orario. In grassetto abbiamo indicato gli interassi più vicini all’interasse teorico, pari a 4M 1/3 (m 3,033) sui lati lunghi (nord e sud) e a 4M (m 2,80) sui lati brevi (est e ovest). Tabella 2. Intercolunni + 2P=(2 × 29,6 cm) Lato N: media 304,43 244,7 303,2 257,7 316,2 234,7 293,9 Lato E: media 277,45 230,5 289,7 206,7 265,2 Lato S: media 301,33 256,6 315,8 229,7 288,2 240,8 300,7 Lato O: media 270,95 207,7 266,2 217,5 276,7 40 sergio aiosa Fig. 33. Schemi per la decodifica della geometria della Casa C: 1-3 la corte; 4-10 il peristilio; 11-13 gli ambienti. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 41 al muro di fondo del portico è soggetta a variazioni non trascurabili. Non essendovi traccia di uno stilobate che individui nettamente un rettangolo di inquadramento della corte scoperta, abbiamo considerato come punto di riferimento gli assi delle colonne angolari e, quindi, gli interassi complessivi sui due lati. La misura della distanza dal prospetto degli ambienti sud alle colonne varia dai m 2,70 ai m 2,80. Dal momento che l’interasse complessivo sul lato breve è di m 5,60 (8M), abbiamo considerato la possibilità che la profondità del portico sud corrispondesse alla sua metà, cioè 4M, ipotizzando dunque una scansione, da Sud a Nord, di 1 + 2 + ½ = m 2,80 + 5,60 + 1,40 = 4M + 8M + 2M = 14M. Dato che il lato breve della corte è di 15M e che la misura del lato breve del peristilio, pari ad 8M, è calcolata sugli assi delle colonne, se ne ricava necessariamente che il modulo non corrisponde al diametro delle colonne (59-60 cm), ma alla misura del plinto sottostante (70 cm).104 Pertanto, alla misura della profondità di ciascun portico sopra indicata va aggiunto ½M per parte, ottenendo dunque: m 3,15 + 5,60 + 1,75 = 4½M + 8M + 2½M = 15M. La nostra ipotesi incontra una difficoltà solo apparente. Secondo il nostro computo, la profondità del portico nord, dall’asse della colonna al prospetto degli ambienti nord, sarebbe di m 1,75. Misurando tale distanza sulla pianta, ponendosi ortogonalmente al prospetto dell’ambiente 18 giungiamo invece a ca. m 2. La differenza (cm 25) non è certo trascurabile, ma il già menzionato arretramento del prospetto dell’ambiente 18 rispetto all’anta destra della vicina esedra 16 suggerisce la possibilità che vi sia una rotazione in senso orario del rettangolo teorico rispetto a quello reale, tale da annullare questa differenza. E, a ben vedere, lo spostamento verso Nord del peristilio sembrerebbe incongruo se non determinasse un allineamento delle colonne mediane dei suoi lati brevi con il vano che dal vestibolo originario (ambiente 3) immette nella corte. Tale allineamento risulta più evidente ammettendo appunto tale rotazione del rettangolo di inquadramento della corte rispetto alla planimetria generale. Rimane da evidenziare come sia stato possibile determinare geometricamente dimensioni e posizione del peristilio. Il lato FG di un quadrato di 10M interseca la diagonale del rettangolo ABCD di 30M × 40M nel punto o, individuando un segmento pari a ¼ della diagonale stessa (12½M). Il ribaltamento del quarto di diagonale sul lato BC determina l’allineamento del lato nord del peristilio e, di conseguenza, la profondità del portico settentrionale (Fig. 33,6). I vertici nordest e nordovest del peristilio sono individuati dall’intersezione di una retta passante per tale allineamento e una circonferenza con centro all’incrocio tra le due diagonali del rettangolo ABCD e raggio pari a 7M, determinato dall’altezza relativa all’ipotenusa dei triangoli ACD e BCD (Fig. 33,7). Una circonferenza con centro in uno dei vertici così individuati (o) e raggio pari alla distanza tra detto centro e l’asse longitudinale della corte ripartisce il lato maggiore del rettangolo del peristilio in due segmenti di 5M e 8M (il cui rapporto dunque è pari a Ê). Quest’ultima misura corrisponde al lato breve del peristilio ed è data anche dalla somma delle profondità delle gallerie nord ed est (Fig. 33,8-9). Secondo questa ipotesi, rispetto all’asse longitudinale dell’abitazione quello del peristilio si troverebbe 1½M più a Sud e quello della corte 2½M più a Sud. Quindi il centro del peristilio si troverebbe 1M più a Nord di quello della corte. Ciò equivale a dire che una circonferenza di diametro 13M con centro al centro del peristilio (o) è tangente al punto medio del lato lungo della corte (vedi Fig. 33,4). Ma se i lati della corte (15M × 24M) sono in rapporto di 5:8, un quadrato di lato 15M, per la proprietà dei rettangoli aurei, individua un secondo rettangolo, anch’esso aureo, di 9M × 15M. Nella Fig. 33,10 si evidenzia come a determinare la posizione del lato meridionale del peristilio sia anche la parte subarmonica del lato del quadrato di 15M, ovvero 10M e ½. Essa, pari alla semidiagonale del quadrato di 15M, corrisponde alla somma della profondità del portico nord (2½M) e del lato breve del peristilio (8M). Pertanto, lo spostamento del peristilio verso Nord avviene, in qualche misura, proprio in ragione del rapporto di 5:8 tra i lati della corte.105 Inoltre, il quadrato stesso individua una partizione significativa del lato sud dell’abitazione, corrispondente al muro tra gli ambienti 7-8 e 9-11. Questo punto, riportato sul lato ovest determina il limite nord dell’ambiente 13. Individuati i rapporti principali tra le parti caratterizzanti l’abitazione (le sue misure generali, la corte, il perisitilio), è possibile verificare come anche la collocazione dei singoli ambienti segua una logica altrettanto semplice e rigorosa. Le diagonali del rettangolo di 30M × 40M individuano i triangoli ACD e BCD, le cui altezze relative all’ipotenusa identificano sulle diagonali stesse due segmenti che, ribaltati sul lato AB del rettangolo, individuano la larghezza dell’ambitus, compresi i muri che lo delimitano, quindi restano determinate anche le larghezze dell’esedra 16 e dell’ambiente 18, il cui limite est coincide con il lato di un quadrato di 30M × 30M (Fig. 33,11).106 104 I plinti su cui poggiano le colonne sono assai irregolari e alcuni di essi presentano misure notevolmente maggiori, ma le più ricorrenti sono quelle comprese fra i cm 66 e i cm 75 ca. 105 La centralità di questo rapporto nel dimensionamento dell’abitazione emerge riflettendo già sul rettangolo di 30M × 40M, la cui diagonale di 50M lo scompone in due triangoli pitagorici. Pertanto, il rapporto tra il cateto maggiore (40M) e la semidiagonale (25M) è 40:25 = 8:5 = Ê. 106 Tale proiezione scompone il lato AB del rettangolo in 18M (parte armonica di 30M) e 22M (10M√5). Si noterà che 30M × 40M:50M = 24M. Pertanto, il lato lungo della corte (10M + 10M√2) è uguale all’altezza relativa all’ipotenusa e, come si è detto, questa è la parte armonica di 40M. 42 sergio aiosa L’intera sequenza di ambienti 7-12 è pari a alla lunghezza della diagonale di un quadrato avente per lato una misura pari a 2/3 del lato breve dell’abitazione (o metà del suo lato lungo):107 20M√2 = 28M. La relazione con le altre misure è evidente, in quanto 20M + 8M = 28M. Evidentemente vengono determinate, per differenza, le dimensioni dell’ambiente 6. Le dimensioni dell’ambiente 7-8 sono di 5M × 5M√5. La semidiagonale di un quadrato di 10M, pari a 7M, ribaltata sul lato BC del rettangolo determina il punto a, che segna la profondità degli ambienti 18 e 22. La stessa operazione condotta sul lato CD, individua il punto b, quindi la larghezza dell’ambiente 12. Tale misura è la parte subarmonica di un quadrato di 10M. Un arco di circonferenza con centro in o e raggio pari a 15M, è tangente in c all’asse longitudinale dell’abitazione, su cui insiste il limite sud dell’ambiente 1, e individua sul lato CD il punto d, che segna il limite tra gli ambienti 7-8 e 911. Ribaltando il segmento Dd sul lato AD del rettangolo si individua il punto e, su cui insiste il limite nord dell’ambiente 13 (Fig. 33, 12).108 Le misure complessive degli ambienti 14 e 15, larghi rispettivamente 5½M e 7½M,109 corrispondono a 8M × 13M, cioè sono le stesse del peristilio. Se per quest’ultimo la scelta di un rapporto che esprimesse il numero d’oro avrebbe potuto sembrare anche voluta espressamente, costituendo il colonnato un elemento di prestigio dell’abitazione, il riscontrare il medesimo rapporto in una coppia di ambienti meno importante conferma come la sezione aurea sia spesso una risultante non intenzionale della progettazione.110 Per l’andamento leggermente obliquo del muro divisorio, meno precisa (ca. 5 cm sulla misura totale) risulta essere la scansione modulare degli ambienti 3 e 4, la cui larghezza è rispettivamente di 4M e 6M. Il medesimo procedimento impiegato per determinare la posizione dei muri che delimitano l’ambitus applicato al rettangolo FGCH, simile al rettangolo ABCD e pari ad ¼ della sua superficie, individua anche il muro che divide questi due ambienti (Fig. 33,13). 107 Posto che il rapporto tra i lati dell’abitazione è di 3:4 è chiaro che il lato di siffatto quadrato è pari all’ipotenusa del triangolo pitagorico di 3 × 4 × 5 cui è stato sottratto il cateto minore. In altri termini, la parte armonica della diagonale è costituita dal cateto minore (i.e. 50M = 30M + 20M, laddove 30M è appunto la parte armonica). Viceversa, 28M è la parte subarmonica di 40M. 108 Vd. Fig. 33,10. 109 Si noterà che 7½M è equivalente ad ¼ della lunghezza del lato breve dell’abitazione e che 7,5M:10M = 30M:40M. Non necessaria dunque una costruzione particolarmente complessa per determinare la posizione del muro divisorio tra questo ambiente e il successivo ambiente 14. Tuttavia, un rapporto con altri punti fondamentali dell’abitazione è illustrato alla Fig. 33,13 nella quale parimenti si evidenzia come il medesimo principio illustrato alla Fig. 33,9 sia utile a determinare la profondità della galleria ovest e, al contempo, il limite tra gli ambienti 14 e 15. 110 È stato fatto notare che Vitruvio, dopo essersi soffermato sul triangolo “egizio” di 3 × 4 × 5, non fa menzione di altri triangoli rettangoli i cui lati sono espressi da numeri interi, tra cui il triangolo di 5 × 12 × 13 (P. Gros, Nombres irrationels et nombres parfaits chez Vitruve, mefra , 88,2, 1976, p. 672. Il riferimento è a Vitr. De Archit. ix, praef., 6-7. Su questo passo si veda Vitruvio, De Architectura, ed. a cura di P. Gros, trad. e commento di A. Corso e E. Romano, Torino, 1997, p. 1250, note 22-23). Tuttavia, riflettendo sulle misure della Casa C di Tindari, si noterà che 13M è pari alla lunghezza del lato lungo del peristilio, 12M a metà del lato lungo della corte e 5M è pari alla profondità degli ambienti del lato sud oltre ad essere una misura che concorre alla determinazione di molte altre parti dell’abitazione. La stessa tripartizione del lato lungo del rettangolo secondo il rapporto 8M:24M:8M (1:3:1) illustrata alla fig. 33,2 determina ogni 10M due coppie di rettangoli di 5M × 12M, le cui diagonali sono appunto pari a 13M, compresi fra rettangoli aurei di 8M × 5M. (Si noti che 2.5M√5 + 2.5M = 5M × 1.6 = 8M. L’ambiente 5, all’angolo sudest dell’abitazione è inquadrato proprio entro uno di questi rettangoli aurei.) Da questo punto di vista, il triangolo di 5M × 12M × 13M e quelli aurei di 5M × 8M si possono dunque considerare ‘generati’ dal triangolo ‘egizio’ di base di 30M × 40M × 50M. 111 Valore vicino a quello del c.d. pes Cossutianus. Un regolo conservato al Bristish Museum attesterebbe un piede di cm 29,4795 (L. C. Stecchini, A History of Measures, www.metrum.org/measures/romegfoot.htm) 112 Le incertezze sull’altezza effettiva delle colonne del peristilio non ci permettono di affermare che quest’ultima abbia costituito l’unità modulare base per il dimensionamento dell’abitazione, tanto più che essa semmai può considerarsi una misura derivata, considerato che le dimensioni del lotto edificabile sono vincolate da criteri esterni alla progettazione dell’abitazione stessa. Stabiliti i rapporti proporzionali tra le dimensioni dell’abitazione e quelle delle sue singole parti (la corte, il peristilio ecc.) abbiamo cercato di tradurre tali misure in un numero di piedi che fosse congruo. Ciascuna di esse deve cioè potersi tradurre in un multiplo intero dell’unità di misura impiegata o in frazioni il cui uso nell’antichità sia attestato. Abbiamo dunque ricercato un divisore comune che desse come risultato multipli interi del ‘piede’ adottato. Considerate le misure rilevate, tale divisore è 28, ma un piede di 28 cm non è ipotizzabile. Ugualmente è possibile ottenere frazioni non troppo illogiche dividendo tutte le misure per 30. Ma, piuttosto che postulare l’adozione di un piede di 30 cm, abbiamo anche seguito il procedimento inverso, individuando multipli interi o frazionari in cui era possibile tradurre le nostre misure e abbiamo calcolato lo scarto rispetto ad un piede romano ‘canonico’ di 29,6 cm, valore per il quale non è possibile dividere le misure della casa C, in quanto i decimali ottenuti non conducono a frazioni attestate. Operando in questo modo, il massimo scarto registrato è di cm 12 (su una misura totale di 28 m) mentre, annullando lo scarto, si giungerebbe ad un piede di 29,473 cm, valore probabilmente troppo basso, benché non manchino riferimenti ad un piede di 29,44.111 Pur rinunciando a determinare in maniera rigorosa il valore esatto del piede adottato nella casa C di Tindari, in quanto la qualità complessiva dell’abitazione e le stesse modalità del rilevamento non lo consentono, ci sembra che il risultato ottenuto confermi l’adozione di una misura modulare, secondo 1M≈70 cm (2P e 6 digiti), per la scansione di tutte le parti dell’abitazione. Come si è detto, essa è suggerita dal rapporto di 8:13 tra i lati del peristilio, ma anche dalle verifiche condotte sul prospetto dell’esedra 16:112 la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni po geometrico, presuppone l’adozione di approssimazioni di misure legate da rapporti irrazionali.113 Ciò allo scopo di fornire ai costruttori lunghezze espresse in multipli interi dell’unità di misura. Pertanto, una serie di rettangoli ‘dinamici’, costruiti a partire da un quadrato di 5M all’angolo sudovest della corte, individua i vertici del peristilio e la sua posizione rispetto alla corte stessa e all’abitazione: 11M = anta sinistra 13M = tangente colonna sinistra 15M = asse esedra 16M = tangente colonna destra 19M = tangente anta sinistra 10M = larghezza esedra 11M = fine anta sinistra Il procedimento adottato e i risultati ottenuti sono esemplificati dalla Tabella 3 (le misure sono espresse in metri): 5M√2 = 17M ≈ angolo sud-ovest del peristilio 5M√3 = 18,5M = asse longitudinale del peristilio 5M√4 = 10M = asse longitudinale dell’abitazione 5M√6 = 12,5M = angolo nord-ovest del peristilio 5M√9 = 15M = lato breve della corte Tabella 3. Lato lungo casa Lato breve casa Ambienti 5-12 Lato lungo corte Quadrato di base Lato breve corte Lato lungo peristilio Ambienti nord Lato breve peristilio Ambienti sud Portici nord e sud Portico nord Portico sud Portici est e ovest 43 Misure Piedi 0,296 Scarto 1,128 1,121 19,60 16,80 1,114 10,50 19,10 11,17 15,60 13,50 14,90 11,75 13,15 13,85 95 71¼ 66½ 57 47½ 35 ⅝ 30⅞ 23¾ 19 11⅞ 16⅝ 1515⁄16 1011⁄16 131⁄16 28,12 21,09 19,684 16,872 14,06 10,545 19,139 17,03 15,624 13,515 14,921 11,757 13,163 13,866 + 0,12 + 0,09 + 0,084 + 0,072 + 0,06 + 0,045 + 0,039 + 0,03 + 0,024 + 0,015 + 0,021 + 0,007 + 0,013 + 0,016 Oltre che ai rettangoli ‘dinamici’, abbiamo più volte fatto riferimento alle partizioni armoniche e subarmoniche. Nelle Tabelle 4 e 5 abbiamo applicato entrambi i principi, iterandoli benché, trattandosi di multipli, non sarebbe necessario, perché risulti più agevole constatare come da essi derivino tutte le misure rilevanti dell’abitazione. Con A e S si sono designate rispettivamente la parte armonica e quella subarmonica; RA e RS indicano i segmenti rimanenti sottraendo a ciascuna misura ciascuna delle due parti. In neretto sono state evidenziate le misure principali dell’abitazione. Se le numerose irregolarità riscontrate, cui si è più volte fatto riferimento, non permettono di sovrapporre un unico reticolo alla planimetria della Casa C, una pianta schematica regolarizzata che rifletta le misure teoriche individuate illustra come ciascun ambiente sia inquadrabile entro una griglia di 30 × 40 quadrati di 1M, di volta in volta includendo o escludendo uno o entrambi gli spessori murari (Fig. 34). Nel corso di questa esposizione abbiamo illustrato una serie di costruzioni che, stante la presenza di rapporti di ti- In definitiva, geometria e aritmetica hanno concorso alla determinazione di tutte le parti dell’abitazione pertinenti alla fase ellenistica. Benché l’esposizione del procedimento probabilmente impiegato possa apparire complessa, il progetto tiene conto di semplici proprietà dei triangoli pitagorici e, diremmo conseguentemente, dei rettangoli aurei, non presupponendo necessariamente una cultura particolarmente elevata dell’architetto. La posizione delle parti rilevanti dell’abitazione poteva essere determinata in maniera ‘quasi’ esatta mediante il ricorso ad altre semplici costruzioni che abbiamo trascurato di evidenziare, ma che possono considerarsi la traduzione Tabella 4. 1 3,50 5M 7 10M √2 = 1,4 4,90 7M 9,80 14M √3 = 1,7 5,95 8,5M 11,90 17M √4 = 2 7 10M 14 20M √5 = 2,2 7,70 11M 15,40 22M 113 Sulle approssimazioni si veda J. J. Coulton, Toward understanding Greek Temple Design: General Considerations, in bsa , lxx, 1975, p. 62; Gros, op. cit. a nota 110, pp. 672-679; Geertman, op. cit. a nota 99, p. 33-35; Id., Vitruvio e i rapporti numerici, in BABesch, lix, 1984, p. 57 sg., 62. Non sembra invece si sia fatto ricorso alle approssimazioni derivate, secondo le quali se la diagonale di un quadrato di 5 è 7 la √6 = 2,5 8,75 12,5M 17,50 25M √7 = 2,6 9,10 13M 18,20 26M √8 = 2,8 9,80 14M 19,60 28M √9 = 3 10,50 15M 21 30M diagonale di un quadrato di 7 non è 9,8 (i.e. 7 × 1,4) ma è 10, ovvero il doppio di 5 (L. Frey, Médiétés et approximations chez Vitruve, in ra , 1990, 2, p. 286; Id., La transmission d’un canon: les temples ioniques, in Le Projet de Vitruve. Objet, destinataires et réception du De Architectura, Actes du colloque international organisé par l’École française de Rome, 26-27 mars 1993, Roma, 1994, p. 144, fig. 1. 44 sergio aiosa Tabella 5. Misure M √2 M S √2/2 M RS 1-√2/2 M A 2-√2 M RA √2-1 M S+A M 3,50 7 10,50 14 17,50 21 28 35 5 10 15 20 25 30 40 50 4,90 9,80 14,70 19,60 24,50 29,40 39,20 49 7 14 21 28 – – – – 2,45 4,90 7,35 9,80 12,25 14,70 19,60 24,50 3½ 7 10½ 14 – 21 28 – 1,05 2,10 3,15 4,20 5,25 6,30 8,40 10,50 1½ 3 4½ 6 7½ 9 12 15 2,10 4,20 6,30 8,40 10,50 12,60 16,80 21 3 6 9 12 15 18 24 30 1,40 2,80 4,20 5,60 7 8,40 11,20 14 2 4 6 8 10 12 16 20 – 9,10 – – – – – – – 13 – – – – – – S+RA M 3,85 – – – – – – – 5½ – – – – – – – in prassi cantieristica di un pensiero geometrico più rigoroso. Tutte le partizioni della Casa C trovano una spiegazione mediante il ricorso ad uno stesso principio geometrico e non sono dettate né dalla casualità né tanto meno, come spesso si afferma, dall’arbitrio di una committenza che, in nome di una funzionalità, sacrificherebbe sempre e comunque la linearità di un progetto. L’aver evidenziato il criterio compositivo è particolarmente rilevante in quanto riteniamo che anche l’equazione tra povertà tecnologica e assenza di progettualità sia spesso posta arbitrariamente. Anzi, in qualche misura, proprio il ricorso alla geometria legittima il confronto con esempi più illustri di architettura domestica colmando il divario tra la tecnica costruttiva assai corrente della Casa C e quella di questi stessi esempi. Volendo indicare alcune analogie con altre abitazioni siciliane riguardo certi particolari costruttivi e formali, è da segnalare, in primo luogo, Morgantina, dove è altrettanto documentata la presenza di capitelli in terracotta ‘siculo-corinzi’.114 Questo centro costituisce un sito da privilegiare, in ambito siciliano, anche per i confronti concernenti singole soluzioni tecnologiche, quali le colonne a mattoni circolari e in muratura di mattoni su plinti lapidei, ma si nota un uso più esteso di mattoni anulari.115 Né mancano confronti tra determinate soluzioni adottate nella Casa C e quelle riscontrate in alcune abitazioni del quartiere ellenistico-romano di Agrigento.116 In particolare, la ‘Casa del peristilio’ documenta un’analoga fila di piccoli ambienti su un lato del colonnato. Altresì è possibile trovare dei paralleli anche per una più sostanziale trasformazione intervenuta nella Casa C: nella Casa del criptoportico, ancora ad Agrigento, muri secondari chiudono gli intercolunni del peristilio, soluzione questa che troviamo adottata frequentemente anche in altri centri (fra gli altri, ancora a Morgantina, nella Casa della Cisterna ad arco).117 Tuttavia, a Tindari, come si è detto, la presenza di ante addossate alle colonne del peristilio potrebbe rappresentare, più che un semplice adeguamento del cortile alla logica romana del viridarium, una sorta di divisione tra pubblico e privato di parte del 114 Lauter-Bufe, op. cit. a nota 56, cat. nn. 27-29, pp. 17-21, tavv. 911. Ulteriori frammenti di capitelli corinzi di terracotta, volute e fiori d’abaco, provengono da trincee scavate nelle colline orientale ed occidentale, su cui sorgono le grandi case a peristilio di Morgantina (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 89 e p. 231 sg.). 115 Lauter, op. cit. a nota 64, p. 55, nel porre in rilievo le analogie tra le colonne di Tindari e quelle di Morgantina, fa notare che nelle colonne del peristilio della casa della Cisterna ad arco, si trovano impiegati tanto mattoni anulari quanto scaglie di mattoni rivestite di stucco in cui sono riprodotte le scanalature. Le misure dei diametri sono più contenute rispetto a quelle rilevate nella Casa C di Tindari: a fronte di un diametro medio di m 0,60 per le colonne di Tindari, le colonne di tutti i peristili di Morgantina hanno diametri di m 0,40-0,45 (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 310 e nota 27 a p. 346). Nella Casa della cisterna ad arco le tre colonne sul lato sud, le due colonne del lato nord, di fronte l’ambiente 12 e tre colonne del lato ovest sono tutte su una base circolare di pietra lavorata in uno stesso concio con lo stilobate, particolare che ricorre nella Casa del Magistrato e nella Casa della doppia cisterna. Sul plinto quadrangolare della base si sovrappone la pavimentazione in cocciopesto del portico (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 127 sg.). 116 I confronti con le due abitazioni di Agrigento qui richiamate sono stati già proposti da Wilson, op. cit. a nota 9, p. 122, ma le analogie si fondano su caratteri dell’impianto della Casa C non contestuali alla sua prima redazione. Tali confronti sono ribaditi in Holegaard Olsen-Rathje-Trier-Winther, op. cit. a nota 12, p. 252. Sarebbe possibile indicare altri paralleli che, tuttavia, ci sembrano poco determinanti per affermare il diffondersi di una cultura architettonica unitaria, in quanto concernono singole soluzioni funzionali e non rispecchiano l’adozione di uno specifico impianto e, meno che mai, l’assimilazione di specifici aspetti di una cultura abitativa diversa da quella locale. 117 Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 128. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 45 Fig. 34. Tindari, Casa C,, pianta schematica con la scansione modulare. peristilio conseguente alla nuova configurazione dell’abitazione. I setti murari creano delle ante alle estremità delle gallerie sud ed est, con il cui probabile scopo di isolare, quindi privatizzare, una parte del peristilio e degli ambienti che vi si affacciavano. Infatti, la presenza di queste ante induce a ritenere che la chiusura degli intercolunni non si limitasse ai pochi ricorsi di pietre superstiti, ma costituisse la trasformazione del peristilio in criptoportico.118 Una recente rilettura operata, a seguito di nuove indagini archeologiche, sulla Casa B di Piazza della Vittoria a Palermo propone di riconoscere nei brevi setti murari che chiudono gli intercolunni del peristilio non un basso parapetto, ma pareti continue nelle quali si aprivano ampie finestre.119 Analogamente a quanto riscontrato a Tindari, in uno degli intercolunni era lasciato un varco per l’accesso alla corte scoperta. Ma, ancora una volta, un intervento di questo tipo, anche se cospicuo, non fa parte di una cultura architettonica di una specifica regione. Tenuto conto delle differenze cronologiche, una simile concezione si ritrova anche ad Eretria nella Casa ii (Fig. 35) e rappresenta una soluzione comune in molti altri casi. Questo esempio dimostra che può trattarsi di un ti- 118 Sul termine ‘criptoportico’ si vedano le utili precisazioni in F. Coarelli, Crypta, cryptoporticus, in Les cryptoportiques dans l’architecture romaine (= Colléfr 14), Rome, 1973, pp. 10-12. 119 C. A. Di Stefano, Nuovi dati archeologici sull’edificio B di piazza della Vittoria a Palermo e interventi di restauro del mosaico della caccia, in Carra Bonacasa-Guidobaldi, op. cit. a nota 56, p. 11 sg., fig. 9. L’ipotesi non è più seguita in G. Montali, Analisi architettonica e ipotesi ricostruttive, in F. Spatafora, G. Montali, Palermo: nuovi scavi nell’area di Piazza della Vittoria, in Osanna-Torelli, op. cit. a nota 12, p. 142, note 4-6, figg. 28-29. 46 sergio aiosa po di partizione che non comporta lo sdoppiamento della casa in due diverse unità abitative, ma soprattutto che non si tratta di un fenomeno necessariamente ascrivibile ad età tarda.120 Ma, di norma, questi accorgimenti sono di gran lunga successivi al primo impianto ed è ipotesi plausibile che essi segnino, più che una specializzazione delle varie funzioni degli ambienti, un impoverimento dei proprietari. Riteniamo, cioè, possibile che la partizione tra spazio pubblico e spazio privato, realizzata in una prima fase sui due livelli, sia ottenuta ‘orizzontalmente’ in un momento successivo, per una riduzione della proprietà determinata dalla necessità di alienare il piano superiore, mentre il pianterreno rimane indiviso. Infatti, a Tindari non vi è traccia dell’apertura di un ingresso indipendente dal- l’esterno relativo agli ambienti della parte della casa delimitata dalle ante e nella quale proponiamo di vedere l’area privata dell’abitazione. L’accresciuto numero di ambienti su questo lato, frutto di suddivisioni seriori, potrebbe essere in relazione con la chiusura della galleria sud, in seguito alla sua trasformazione in criptoportico. Pertanto, pur non potendo affermare con certezza la pertinenza di quest’ultimo intervento alla medesima fase costruttiva che ha visto la formazione degli ambienti 7-8 e 9-11, possiamo ragionevolmente supporre che tali modifiche siano avvenute se non contemporaneamente, in rapida successione di tempo, essendovi una innegabile consequenzialità tra il delimitare una parte privata dell’abitazione con la chiusura delle gallerie e il comprendere al suo interno una serie di ambienti che, per le dimensioni contenute e la posizione dei vani d’accesso, potevano essere destinati a camere da letto. Il problema della ripartizione di un edificio a più piani è stato posto da J. Chamonard121 e da R. Vallois per Delo. Questi osserva che «l’ñÂÚáÈÔÓ d’une maison particulière peut appartenir à une autre personne que le rez-de-chaussée: dans les habitations décrites par J. Chamonard nombreux sont les étages qui ont une entrée indépendante. Parfois le rez-dechaussée lui-même semble avoir été divisé entre plusieurs propriétaires.». Si tratterebbe cioè di esempi di synoikìai, quali attestati abbondantemente a Delo dall’epigrafia.122 Non necessariamente ciò implica una pertinenza delle abitazioni a schiavi o cittadini poco abbienti, come poteva avvenire in alcuni quartieri di Atene.123 Tale questione, ripresa più di recente,124 è stata considerata con qualche riserva, adducendo anche esempi moderni.125 In realtà, per una simile disposizione di scale private si potrebbero citare anche esempi tratti dalla realtà siciliana di qualche decennio addietro, specialmente dei piccoli 120 Per altri esempi di chiusura degli intercolunni ancora in età ellenistica si veda W. Hoepfner, Zum Typus der Basileia und der königlichen Andrones, in Basileia. die Paläste der hellenistischen Könige, Intern. Symposion Berlin, 16-20/12/1992, Mainz, 1996, p. 23. Nessuna valenza ‘culturale’ va attribuita dunque al fenomeno. Altra cosa è la trasformazione della corte centrale scoperta in giardino. Tale intervento riguarda la Casa della cisterna ad arco e la Casa del Magistrato(?) a Morgantina e si daterebbe al 10 a.C. (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 477). L’ipotesi si fonda sulla mancanza della pavimentazione. È da ritenere che l’attuale sistemazione a giardino della corte della Casa C di Tindari sia basata sulla stessa circostanza. 121 Chamonard, op. cit. a nota 97, p. 193. 122 R. Vallois, L’architecture hellénique et hellénistique à Délos jusq’à l’eviction des Déliens (166 avant J.-C.), (= befar , i), Paris, 1944, p. 216. 123 B. Carr Rider, Greek Ancient House, Cambridge (1916), rist. 1965, p. 212. 124 Ad esempio, in M. Kreeb, Das delische Wohnhaus. Einzelprobleme, aa 1985, p. 109. 125 Hoepfner, op. cit. a nota 120, p. 41, nota 144, osserva: «Wahrscheinlicher ist jedoch, daß die Häuser in Delos und auch in Pergamon keine horizontale, sondern eine vertikale Teilung aufwiesen, wobei die Privaträume natürlich oben lagen […] Wenn Treppen direkt von der Straße nach oben führen, muß das nicht unbedingt dafür sprechen, daß oben eine andere Familie wohnte, denn auch im islamischen Bereich war es üblich, daß der Privatbereich des Hauses (Harem) direkt von der straße aus erreicht werden konnte. Im übrigen haben häufige Teilungen der Häuser (Erbschaft und andere Ereignisse) das ursprüngliche Bild verändert». Fig. 35. Eretria, Casa ii. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 47 centri rurali, ma riteniamo che rifarsi ad impianti repiù che a questioni di ordine culturale, attribuiamo lativi a culture per le quali una forte componente gli adattamenti finora descritti alla serie di interventi ideologica può condizionare le forme architettonidi ordine funzionale sottolineando, fra l’altro, che esche, significhi andare troppo oltre. Ne deriverebbe, si rappresentano la ‘negazione’ dell’impianto assiale fra l’altro, la negazione di una specificità regionale che originariamente caratterizzava la Casa C. Ma vi dell’architettura domestica attraverso tutte le eposono numerosi interventi sulla struttura originaria che e tutte le culture. E ancora, la presenza di due acdell’abitazione che ci sembrano invece rimandare a cessi indipendenti dalla strada può senz’altro non cospecifici esempi. stituire una prova definitiva della pertinenza dei due Le proporzioni allungate dell’ambiente 13 e la livelli dell’abitazione ad un unico nucleo familiare stessa presenza dei tre ingressi, dei quali il mediano ma, perché sia così, deve essere documentato un colpiù largo, non trovano confronti in nessuna delle calegamento interno tra le due parti dell’abitazione, a se a peristilio dei siti della Sicilia, ma riprendono meno di non ritenere possibile – e, francamente, ci chiaramente una tipologia che, anche trascurando le sembra poco probabile – che fosse necessario uscire questioni filologiche circa l’origine dell’impianto, diin strada per potersi spostare da una parte all’altra di verrà poi certamente una caratteristica pressoché una stessa unità abitativa. È anche da ricordare che la costante delle case delie.127 bipartizione del pianterreno della Casa C di Tindari Nella Casa C di Tindari queste aperture sono reaè con ogni probabilità da riferire ad età assai tarda e lizzate a strappo e gli stipiti sono reintegrati utilizgli esempi di suddivisioni di unità abitative, condotte zando mattoni di terracotta. L’analisi del muro di senza alcun criterio estetico, proprie dei momenti di prospetto, conservatosi per poche assise, non concrisi economica e sociale dei cosiddetti ‘bassi tempi’, sente di stabilire se i due ingressi laterali fossero in sono molteplici in tutto il bacino del Mediterraneo. origine due finestre trasformate in porte128 o se la Le dimensioni delle diverse sezioni del corridoio loro apertura sia del tutto successiva ad una prima che corre lungo il limite nord della Casa C sono larredazione dell’ambiente in cui era un solo accesso gamente compatibili con l’inserimento di rampe di centrale, come sembra probabile. scale che avrebbero potuto condurre al piano supeMa, soprattutto, nella Casa C di Tindari si può riore. Ciò non fa escludere la possibilità che esso fosscorgere l’applicazione di un principio di assialità che se raggiungibile direttamente dal cardo D tramite non è da interpretarsi quale il frutto dell’introduzioun ingresso autonomo.126 Ma anche in questo caso, ne di modi romani nell’architettura domestica siciè ugualmente possibile che un’unica abitazione avesliana del ii sec. a.C., in quanto costituisce già un’acse due ingressi, uno dei quali poteva immettere diquisizione ellenistica. rettamente nella parte privata, posta in origine al Infatti tale schema, lungi dal richiamare la sepiano superiore. quenza assiale fauces-atrium-tablinum della casa italica, ci sembra piuttosto ricalcare fedelmente una sucA seguito di questa analisi, una volta chiarita la crocessione di ambienti anch’essa più volte riscontrata nologia relativa delle modifiche sull’articolazione a Delo. planovolumetrica dell’abitazione, ci si è imposta una Tuttavia, si è ritenuto di dover ricavare elementi di riflessione sui possibili modelli tipologici cui riferire giudizio sulla pertinenza di alcune abitazioni delie a l’impianto della Casa C nella fase precedente la sua determinati gruppi nazionali in ragione di alcune caultima trasformazione, tesa a distinguere al suo inratteristiche planimetriche.129 Ci riferiamo al probleterno un percorso pubblico da uno privato. Infatti, ma dell’assialità di alcune case, attestata sporadica126 Considerata la conformazione del corridoio, la scala avrebbe potuto essere raggiungibile tanto dall’esterno quanto dalla galleria settentrionale del peristilio, mediante una rampa posta nel corridoio 17 o in quello 20. 127 A proposito dei grandi ambienti oblunghi a tre ingressi, tipici delle case di Delo, C. Krause, Grundformen des Griechischen Pastashauses, in aa , 1977, pp. 164-173, p. 178 sg., nel notare una possibile derivazione dagli esempi di Olinto, in cui comunque essi restano piuttosto un’eccezione, ne fa risalire l’origine al tipo degli oeci preceduti da Vorhalle. Sul tipo del c.d. ‘Breitraum’, diffuso in ambiente orientale, ma anche a Delo, si veda W. Hoepfner, E. L. Schwandner, Haus und Stadt im klassischen Griechenland (= Wohnen in der klassischen Polis, i), München 1986, pp. 277, 288 sg., 291, 296, 327 sg. 128 Ai lati dell’ingresso all’andron della Casa del Tridente non vi sono due porte, ma due finestre (Chamonard, op. cit. a nota 97, p. 171 sg.), ma J. Chamonard tende a minimizzare la differenza che intercorre tra le tre aperture. 129 Il problema della nazionalità dei committenti era stata già posta in rilievo dallo stesso Chamonard, op. cit. a nota 97, p. 218 e nota 5, che, naturalmente, invitava ad esercitare una certa cautela, specialmente se le informazioni in merito erano desunte da reperti mobili o dalle dediche, facilmente trasportabili da una casa all’altra. Altri ele- 48 sergio aiosa Fig. 36. Delo, Maison du Trident. Fig. 37. Delo, Maison des Dauphins. mente, segnatamente nella Maison du Trident130 e nella Maison des Dauphins (Figg. 36, 37). Queste due abitazioni che, datandosi alla fine del ii secolo a.C., sono esempi cronologicamente affini al nostro,131 presentano anche le maggiori analogie nell’impianto. In queste due case e nella Maison du Diadumène (Fig. 38), l’andron a tre aperture si trova dal lato opposto all’ingresso, in asse con il peristilio e prospetta sul portico più profondo. Nella Maison du Trident la disposizione assiale di vestibolo, peristilio e andron è ulteriormente ribadita dalla presenza di un portico di tipo rodio. menti di giudizio derivano dall’esame dell’apparato decorativo interno delle case, con particolare riferimento – è ovvio – ai pavimenti e, solo in seconda istanza, alle pitture. È logico infatti che, pur non trattandosi in entrambi i casi di reperti mobili, il rifacimento delle pitture parietali è cosa più facile da attuarsi rispetto a quello delle pavimentazioni. Evidentemente, le caratteristiche dell’impianto, ancor meno facilmente suscettibili di modifiche, potrebbero ritenersi indicatori inconfutabili, ma ciò solamente ad alcune condizioni. Per la questione dei gruppi nazionali, in particolare italici, operanti a Delo, ‘porto franco’ del bacino del Mediterraneo, si rimanda a M. Rostovtzeff, Rodi, Delo e il commercio ellenistico, in cah , vi, 1965, 2ª ed. it. Milano, 1982, pp. 727-744; N. K. Rauh, The Sacred Bonds of Commerce. Religion, Economy, and Trade Society at Hellenistic Roman Delos, Amsterdam, 1993, part. p. 193 sgg. stata ripresa di recente da Zaccaria Ruggiu, op. cit. a nota 26, p. 324, secondo la quale essa deriva dall’assonanza che, in queste case, assume la sequenza vestibolo-peristilio-andron con quella, «tipica» della casa romana, fauces-atrium-tablinum. In particolare, la studiosa afferma che «È sicuramente di importazione romana l’assialità tra ingresso, peristilio e andròn posto al centro del portico in asse con la porta d’entrata, della Casa del Tridente a Delo, datata alla fine del ii sec. a.C.». 131 Va ricordato che numerosi contributi successivi allo studio sul Quartiere del Teatro riconsiderano le cronologie proposte escludendo, nella sostanza, una datazione al iii sec. a.C. per la maggior parte delle più note abitazioni dell’isola. Tra i vari contributi di Ph. Bruneau, segnaliamo la serie di articoli pubblicati in bch , ad alcuni dei quali ci siamo riferiti per queste nostre considerazioni: Ph. Bruneau, Contribution a l’histoire urbaine de Délos a l’époque hellénistique et a l’époque impériale, bch , xcii, 1968, pp. 633-709; Id., Deliaca, bch , xcix, 1975, pp. 267-311; Id., Deliaca (ii ), bch , cii, 1978, pp. 109-171. 130 La questione, posta in J. W. Graham, Origin and Interrelations of the Greek House and the Roman House, in Phoenix, xx, 1, 1966, p. 11, è la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 49 Fig. 39. Delo, Maison du Lac. Il medesimo schema ricorre in molte abitazioni di Delo, sia del Quartiere del teatro, sia di altre zone della città. Tale schema base, che si conclude costantemente con un andron oblungo a tre aperture, è sottoposto a varianti nella disposizione dei singoli elementi costitutivi, in ragione della posizione della casa all’interno degli isolati che, come è noto, nel caso del Quartiere del teatro, sono assolutamente irregolari. È dunque l’irregolarità del Quartiere del teatro di Delo a determinare le variazioni nell’impianto delle singole case. Tale dato emerge con chiarezza verificando la posizione relativa di ciascuna abitazione rispetto alle altre e può sfuggire qualora si analizzino planimetrie di singole case estrapolate dal contesto più generale dell’isolato nel quale sono inserite. Pertanto, l’uso generalizzato di questo schema, dal quale si deroga solo per concreti problemi di impianto, sconsiglia di ricavarne indicazioni sulla nazionalità dei committenti o di spiegarne la presenza con «…l’assunzione di compiti pubblici da parte del proprietario»,132 estendendo ai peristili di Delo le considerazioni vitruviane sul tipo di abitazione che più conviene ai magistrati e, viceversa, sulle persone che non necessitano di vestiboli, tablinii e atrii perché sono loro a far visita ai cittadini facoltosi e non a riceverli.133 Trova riscontro con questi esempi anche la connessione tra l’ambiente 13 della Casa C e quello immediatamente a Sud, originariamente comunicante attraverso una porta, in seguito tompagnata. Simili piccoli ambienti affiancano allo stesso modo gli andrones delle case di Delo. Alla più comune disposizione di tali vani a fianco di quello principale si associa quella che ricalca la disposizione del gruppo di tre ambienti costituito da un’antisala rettangolare e due ambienti retrostanti a pianta quadrata come, ad esempio, nella Maison du Lac (Fig. 39). Altrettanto comune ad alcuni esempi delii (ad esempio, nella stessa Maison du Lac e nella Maison des Dauphins) è la disposizione dell’esedra 16 della 132 Zaccaria Ruggiu, op. cit. a nota 26, p. 324. Ci sembra legittimo e molto ben documentato il nesso istituito tra gli impianti assiali e l’organizzazione della società romana, tuttavia è da supporre una tendenza all’emulazione da parte di cittadini che dispongono di sufficienti risorse finanziarie per realizzare impianti analoghi, ma che non necessariamente rivestono cariche pubbliche. 133 «Igitur is, qui communi sunt fortuna, non necessaria magnifica vestibula nec tabulina neque atria, quod in aliis officia praestant ambiundo quae ab aliis ambiuntur. […] nobilibus vero, qui honores magistratusque gerundo praestare debent officia civibus, faciunda sunt vestibula regalia alta, atria et peristylia amplissima» (Vitr. De Archit. vi 5, 1-2, ed. cit. a nota 110). Fig. 38. Delo, Maison du Diadumène. 50 sergio aiosa Casa C di Tindari lungo un asse ortogonale a quello principale. Tutte queste analogie e, principalmente, la disposizione assiale degli ambienti 3, 2 e 13 pongono, come è ovvio, il problema dei riferimenti culturali, se non degli specifici modelli, del costruttore della Casa C. Pertanto, la mancanza di assialità e simmetria non può interpretarsi come una sorta di resistenza all’introduzione di caratteri romani o quale sopravvivenza di vecchi schemi, né costituisce un elemento utile per ricavare conclusioni circa la provenienza dei proprietari. L’abitudine, poi, a riferirsi alle case del Quartiere del Teatro non deve però portare a ritenere che l’irregolarità sia una sorta di norma urbanistica vigente sull’isola,134 specialmente se da ciò si pensi di poter ricavare che ‘la casa greca’ sia sempre e comunque contraddistinta da un patente disinteresse per l’assialità e la simmetria. Riteniamo che esempi quali la Maison du Fourni,135 posta ben lontano dal quartiere del teatro, costituisca un esempio inequivocabile di come si attuasse una prassi compositiva e costruttiva a Delo, una volta che non fossero presenti numerosi condizionamenti dettati dalle preesistenze e dalla conformazione generale dei quartieri di abitazione. I caratteri riscontrati nella Maison du Trident e nella Maison des Dauphins sono peculiari dell’architettura domestica delia,136 E proprio le due case costantemente prese ad esempio dell’attuazione del principio romano dell’assialità in un contesto grecoellenistico sfuggono a questo inquadramento. Infatti, è stato fatto rilevare come si tratti dei pochi casi in cui sia possibile giungere alla determinazione dell’origine della committenza con relativa certezza. In particolare la Maison du Trident «semble avoir été construite par un Syrien; les protomés du péristyle rhodien seraient celles des taureaux de Hadad et des lions d’Atargatis»137 e, in ragione di ciò, sarebbe da isolare dalle altre venticinque abitazioni che hanno restituito pitture liturgiche romane, riguardo le quali permane la possibilità che siano successive all’impianto primitivo. Infatti, a proposito della Maison des Dauphins è stato fatto notare che tanto la firma del mosaico della corte, realizzato da un certo Asklepiades di Arado, quanto il segno di Tanit rappresentato nel mosaico del vestibolo legittimino l’ipotesi di un’attribuzione della casa ad un proprietario di origine orientale e che, tutt’al più, le pitture liturgiche romane indichino una successiva acquisizione dell’abitazione da parte di un italico. Le architetture domestiche dell’isola, pur abitate da proprietari di origine diversa – greca, orientale o italica – si presentano con una notevole uniformità per cui, a ragione, si è parlato di una «koiné architecturale».138 134 L’aver fatto assurgere a caso emblematico il Quartiere del Teatro non è una responsabilità degli archeologi francesi. È stato posto in evidenza che i nuovi isolati di Skardhana hanno un impianto più coerente, come hanno confermato le indagini archeologiche intraprese tra il 1961 ed il 1975: G. Siebert, Un programme d’architecture privée à Délos. L’Îlot des bijoux, in Le Dessin d’architecture dans les sociétés antiques (Actes du Colloque de Strasbourg, 26-28 janvier 1984), Strasbourg, 1985, p. 177. Alla maggiore regolarità del quartiere di Skardhana e degli isolati della Casa delle maschere allude anche J. Raeder, Vitruv, De Architectura vi ,7 (aedificia Graecorum) und die hellenistische Wohnhaus- und Palastarchitektur, in Gymnasium, xcv, 1988, p. 340. 135 Per un primo tentativo di decodifica dello schema progettuale di questa abitazione si veda Ch. Le Roy, Le tracé et le plan d’une villa hellénistique. La Maison du Fourni à Délos, in Le Dessin d’architecture cit. a nota 134, pp. 167-173. 136 «Im allgemeinen aber entwickelt sich das delische Haus mehr in die Tiefe als in die Breite, wobei der Hauptoecus tendenziell die Achse des Peristyls sucht (Maison du Trident, des Dauphins, du Diadumène). In diesen Häusern liegt der Großoecus als selbständiger Raum an der Rückwand des Hauses und kommuniziert allenfalls mit setilich gelegenen Nebenräumen (Maison du Trident, des Dauphins)» (Krause, op.cit. a nota 127, p. 178). 137 Bruneau, Contribution cit. a nota 131, p. 665. Sulla presenza a Delo di cittadini altolocati di provenienza orientale si veda anche M. T. Le Dinahet-Couilloud, Une famille de notables tyriens à Délos, bch , cxxi, 1997, pp. 617-666. 138 Bruneau, Contribution cit. a nota 131, p. 666. Le medesime valutazioni sulle pitture quali attestazioni di un più tardo passaggio di proprietà ed il riferimento alla Maison des Dauphins sono riproposti in F. Pesando, “Domus”. Edilizia privata e società pompeiana fra iii e i secolo a.C., (= Soprintendenza Archeologica di Pompei, Monografie, 12), Roma, 1997, p. 323 sg. Questo excursus ha inevitabilmente toccato problematiche di notevole complessità che non possono certo ridursi alle considerazioni qui richiamate. Tuttavia, ci è sembrato necessario rendere conto delle valutazioni sugli esempi cui abbiamo fatto riferimento in quanto esse sono pienamente estendibili anche alla Casa C di Tindari. Riteniamo che i confronti proposti non siano basati su generiche somiglianze, ma arrivino a comprendere gli elementi peculiari di alcune fra le più rappresentative case di Delo. Tali sono la disposizione assiale dell’ingresso rispetto al peristilio e, soprattutto, al tipico ambiente trasversale che ricorre, sia pure con varia collocazione, in moltissimi esempi di case dell’isola, nonché l’altrettanto frequente presenza dell’esedra lungo l’asse trasversale a quello principale. Un così puntuale ricorrere di analogie, benché sorprendente, non la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 51 può certo indurre ad ipotizzare che la Casa C di Tincerta libertà o – se si vuole – con un certo eclettismo, dari fosse abitata da genti venute da Delo. A questa dal momento che le esedre delle case di Delo non conclusione potrebbe condurre più che la scarsa inhanno colonne. cidenza che questo tipo di impianto ha a Tindari Pertanto, pur attingendo ad un repertorio di mostessa (per quel che è possibile valutare dai due unici tivi formali di diversa ispirazione, la Casa C di Tinesempi noti di abitazioni private), la mancanza di aldari non mostra alcun carattere che possa considetre attestazioni in Sicilia.139 rarsi, dal punto di vista della tipologia, tipicamente Le stringenti analogie con gli esempi delii, in qualromano che misura confortate da analoghe, ma più generiNotiamo, a questo proposito, che a Morgantina, che, considerazioni sui mosaici e la decorazione in dove pure si assiste ad una ripresa e ad una trasformastucco della Casa B,140 non devono far dimenticare zione degli impianti ellenistici in età romana, il caratche Delo è diventata un esempio emblematico in virtere “italico” di determinate soluzioni viene affermatù dell’ampia serie di contributi che sono stati dedito con estrema cautela e solo per alcune modifiche cati alle sue architetture. agli impianti delle abitazioni, quali la trasformazione Con maggiore prudenza, siamo propensi ad insedei peristili in criptoportici o la creazione dei due atri rire la Casa C di Tindari all’interno di una cultura artetrastili nella Casa dei capitelli tuscanici. chitettonica ancora tipicamente ellenistica, quale si Anche nell’ambito dell’architettura domestica la va diffondendo nel corso del ii sec. a.C., con un’inciSicilia conferma il più generale quadro, ben evidendenza assai scarsa della concezione romana dell’abiziato a proposito delle arti figurative,142 secondo il tare. Per questa ragione, la terminologia adottata quale la cultura isolana sarebbe rimasta in ogni amper la designazione degli spazi dell’abitazione appare bito legata alla tradizione ellenistica anche a seguito piuttosto forzata all’interno di una tipologia che delle particolari vicende storiche che determinano sembra, almeno esteriormente, ripercorrere quanto assai presto il gravitare della Sicilia in orbita romana, già noto in Sicilia in tempi precedenti. dapprima con l’esclusione del regno di Siracusa, goLa Casa C, a differenza della contigua casa B nella vernato dall’alleato Gerone II, e dell’estrema parte sua redazione più tarda,141 si inserisce nel filone delle occidentale dell’isola, ancora in mano cartaginese. case a peristilio allungato, documentato anche a La romanizzazione dell’isola sarà un processo lunMorgantina, anche se con caratteristiche sue proprie ghissimo e, per molti aspetti, largamente incompiuche ci hanno indotto a cercare altrove i confronti più to ancora in età imperiale.143 A parte gli aspetti polisignificativi. Non proponiamo di riconoscere in essi tici, la Sicilia rimarrà a lungo culturalmente greca. veri e propri modelli, considerato che a Tindari queCiò premesso, non deve tuttavia sfuggire un sto tipo di impianto viene reinterpretato con una aspetto sostanziale. La presenza romana, ancorché 139 Sul lato nord della Casa dell’altare di Camarina un ambiente trasversale (3 × 5 m) comunica con due vani laterali di dimensioni ben più contenute, ma non presenta i tre ingressi. Per cenni sull’abitazione, di impianto quadrato (m 19 × 19), che si daterebbe alla metà del III sec. a.C., in un epoca immediatamente successiva alla distruzione romana del 258 a.C., ma che ha subito numerosi rifacimenti fino all’età augustea, si veda Pelagatti, op. cit. a nota 84, p. 259-261, figg. 27-33; Ead., Per il parco archeologico di Camarina. Le fasi edilizie dell’abitato greco, in BdA, 1976, 1-2, p. 128; F. Ceschi, E. Tonca, La programmazione del parco archeologico, ivi, p. 132, figg. 27-28; R. Martin, G. Vallet, L’architettura domestica, in Storia della Sicilia, i, 2, Napoli, 1979, p. 337 sg.; P. Pelagatti, Ricerche nel quartiere orientale di Naxos e nell’agorà di Camarina, in Kokalos, xxx-xxxi, 1984-1985, ii, 2, p. 686 (a nota 19 per il riferimento ad uno studio architettonico dell’abitazione ad opera di H. Broise che avrebbe dovuto essere pubblicato sul Bollettino d’Arte, ma che non è mai apparso); Camarina. Museo Archeologico, Palermo, 1995, p. 42 sg. 140 La decorazione in stucco proviene da uno degli ambienti della Casa B, il n. 14 oppure il n. 15. Si tratta di un esempio, che non trova confronti in Sicilia, di fregio dorico con metope figurate a rilievo, raffiguranti due figure femminili con krotaloi e doppio flauto W. Von Sydow, Späthellenistische Stuck-gesimse in Sizilien, in rm , lxxxvi, 1979, cat. 35, pp. 207-209 e p. 218, nota 92, tav. 47,3, che dedica una breve sche- da ai frammenti, prende in considerazione alcuni esempi nei quali, tuttavia, la decorazione delle metope è dipinta. Per un frammento di fregio dorico in stucco dalla Casa di Cleopatra a Delo, con cinque triglifi e quattro metope, riproducente teste di toro, probabilmente alternate a bucrani, motivo che ricorre frequentemente in numerosi fregi dorici lapidei di Delo, si veda P. A. Webb, Hellenistic Architectural Sculpture. Figural Motifs in western Anatolia and the Aegean Islands, Univ. Wisconsin Press, 1996, p. 138. 141 Tuttavia, a proposito dell’impianto della Casa B, Neutsch, op. cit. a nota 4, p. 615, ha giustamente posto in evidenza che «Die Bauanlage weicht von pompejanischen Grundformen erheblich ab.». 142 Si veda Bonacasa, op. cit. a nota 11, p. 277 e p. 280. 143 La questione della romanizzazione della Sicilia costituisce un problema per molti aspetti ancora da indagare. A rendere più complessa la questione è la persistenza di locali tradizioni politiche ed economiche, culturali e, per quel che concerne le architetture, costruttive. Una lucida analisi è stata condotta da Wilson, op. cit. a nota 7, e, in maniera più estesa, Idem, op. cit. a nota 9, qui richiamati più volte. Interessanti precisazioni sono nella recensione a quest’ultimo contributo condotta da M. Bell iii, Roman Sicily, in jra , 7, 1994, p. 374, il quale, facendo sua una considerazione dello stesso Wilson, sottolinea la necessità di una riflessione approfondita sul periodo compreso tra la prima guerra punica ed il 36 a.C. 52 sergio aiosa non immediatamente percepibile in termini di cultura materiale, è fondamentale per determinare un assetto economico che è il principale responsabile di un certo sviluppo dei centri siciliani nel tardo ellenismo. In Sicilia il fenomeno assume proporzioni notevoli e l’indagine in diversi centri non fa che aggiungere conferme al quadro di sostanziale sviluppo che interessa globalmente l’isola a partire dalla seconda metà del iii secolo. Riteniamo che i segni di crisi riscontrati in alcuni centri non costituiscano una smentita a questa interpretazione, ma possano essere la manifestazione di una nuova gerarchizzazione dei siti determinata principalmente da fattori economici. In un excursus sulla Sicilia di età repubblicana, F. Coarelli ritiene di cogliere i segni di una crisi in molti siti siciliani, percepibile anche dall’esame dell’architettura domestica, per il periodo compreso tra il ii e il i sec. a.C.144 Contrario a questa impostazione – e con fondati motivi – è R. J. A. Wilson che consiglia di non generalizzare i sintomi di regresso economico e segnala il grande sviluppo di molti centri urbani della Sicilia nel ii secolo.145 D. Mertens accoglie tale punto di vista sottolineando come «Specialmente nella Sicilia occidentale, si conservano ancora per tutto il ii secolo a.C. condizioni favorevoli alla prospera evoluzione di tutta una serie di centri tra i quali Tindari, Solunto, Monte Iato, Segesta sono per ora i più noti».146 Tale quadro risulta confermato da alcuni studi specifici su singoli aspetti della produzione artistica e artigianale legata all’architettura domestica di singoli centri, quali Solunto. Lo scorcio del ii e parte del i sec. a.C. sono contraddistinti da una attenta parteci- pazione della città ad una koiné medio- e tardoellenistica. Quest’ultima è caratterizzata da un allargamento ulteriore della geografia culturale, come testimonierebbero le analogie nella più tarda produzione pavimentale in opus signinum della Sicilia, della Campania e dell’Italia centro-settentrionale.147 Le città che con la prima guerra punica si schiereranno immediatamente dalla parte romana non conosceranno neppure quella battuta di arresto che si può cogliere nella storia dei singoli centri negli ultimi due decenni del iii secolo. I pur funesti avvenimenti connessi alle due guerre servili, che coinvolsero numerosi centri isolani a partire dalla metà del secolo successivo, non devono – a nostro parere – divenire un nuovo facile riferimento storico cui rifarsi per un’interpretazione globale dei fenomeni architettonici. Il carattere generalizzato dei saccheggi e delle distruzioni è sicuramente da considerarsi una esagerazione delle fonti.148 Numerosi centri dell’isola sfuggono a questa catastrofe o sembrano reagire in breve tempo.149 I molteplici indizi di una fioritura dei centri siciliani nel corso del ii secolo inducono a verificare di volta in volta gli effetti della pur pericolosa rivolta degli schiavi. Il quadro che è possibile desumere dal lungo elenco di oggetti preziosi che Verre sottrae ai Siciliani è quello di una classe emergente che ha saputo reagire ai torbidi del secolo precedente o ne è rimasta del tutto immune. Per comprendere la storia dell’architettura domestica della Sicilia ellenistica, architettura ancora siceliota, non si può prescindere dal riconoscimento di Roma quale elemento catalizzatore, altrettanto responsabile della circolazione di modelli in quanto, a 144 F. Coarelli, La cultura figurativa in Sicilia dalla conquista romana a Bisanzio, in Storia della Sicilia, ii,1, Napoli, 1979, part. pp. 374-377. 145 Wilson, op. cit. a nota 7, p. 113; Id., op. cit. a nota 9, p. 23 sgg. Un noto studio sugli insediamenti della Sicilia romana, basato sulle informazioni desumibili dalla schedatura di 600 siti, sottolinea la continuità di frequentazione di molti di essi (ca. 100), tra cui un notevole numero di impianti a carattere rurale, dal iii sec. a.C. alla tarda età imperiale romana, ad esempio nel territorio di Eraclea Minoa (G. Bejor, Gli insediamenti della Sicilia romana: distribuzione, tipologie e sviluppo da un primo inventario dei dati archeologici, in Società romana e Impero tardoantico, iii, Le merci gli insediamenti, a cura di A. Giardina, Bari, 1986, pp. 466 e 468 sg.). 146 D. Mertens, L’architettura del mondo greco d’Occidente, in I Greci in Occidente, cat. mostra, Venezia 1996, a cura di G. Pugliese Carratelli, Milano, 1996, p. 342. Su questo tema si veda anche L. Campagna, Architettura pubblica ed evergetismo nella Sicilia di età repubblicana, in La Sicilia romana tra Repubblica e Alto Impero. Atti del Convegno, Caltanissetta, 20-21 maggio 2006, a cura di C. Micciché, S. Modeo, L. Santagati, Caltanissetta, 2007, p. 110 sgg.; E. C. Portale, A proposito di “romanizzazione” della Sicilia. Riflessioni sulla cultura figurativa, ivi, p. 150 sgg. 147 C. Greco, Pavimenti in opus signinum e tessellati geometrici da Solunto: una messa a punto, in Carra Bonacasa-Guidobaldi, op. cit. a nota 56, p. 44; più in generale, su Solunto vd. E. C. Portale, Problemi di archeologia della Sicilia ellenistico-romana: il caso di Solunto, ArchCl, lvii, n.s. 7, 2006, p. 49 sgg. 148 Si veda il resoconto delle due guerre servili in Diod. xxxivxxxv; xxxvi, 1-11. È stato notato come «[…] sarebbe una seria limitazione interpretativa prendere alla lettera la descrizione dello storico siciliano» (M. Mazza, Il lavoro dipendente nella Sicilia antica. Antropologia e ideologia in un passo di Diodoro, in I Mestieri. Organizzazione, Tecniche e Linguaggi (= Atti del ii Congresso Internazionale di Studi Antropologici Siciliani, Palermo, 26-29 marzo 1980) (= Quaderni del Circolo Semiologico Siciliano, xvii-xviii), Palermo, 1982, p. 6. 149 Von Sydow, op. cit. a nota 140, p. 225. E ancora: «Die Sklavenkriege haben bei weitem nicht die ganze Insel heimgesucht. Gerade die Nordküste blieb fast vollständig verschont. Aber auch Städte, die wie Marsala und Solunt näher an den eigentlichen Zentren der Aufstände lagen, aber nicht erobert wurden, zeigen gerade im späten 2. Jahrhundert eine besondere Blüte.» (Von Sydow, op. cit. a nota 60, p. 331). la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 53 sua volta, inserito nell’ambito della koinè ellenistica. estesa all’insieme delle abitazioni siciliane, fra cui la La tarda e sporadica apparizione di elementi della Casa C di Tindari, per le quali questo principio non ‘casa romana’ rimane difficilmente inquadrabile nel può essere applicato. Seguendo una consueta imposuo preciso significato e, più che essere interpretabistazione, si potrebbe obiettare che l’abitazione tindale come il riflesso dell’avvenuta assimilazione di una ritana rappresenti uno stadio successivo di quel ‘pronuova cultura abitativa, proprio in virtù della sua cesso evolutivo’ che muoverebbe dalla ‘casa greca’ scarsa incidenza, sembra doversi attribuire alla prealla ‘casa romana’ e, dunque, spiegare in questi tersenza di elementi italici nell’isola. mini le differenze con le case di Morgantina. In queUn’ultima considerazione riguarda un tentativo st’ottica, altrettanto legittimo potrebbe considerarsi di interpretazione globale dei caratteri dell’architetil ricorso ad una denominazione latina per la sequentura domestica siciliana di età ellenistica. Come già za ingresso-peristilio-andron e per l’esedra posta sul ricordato, di recente si è ritenuto di poter distinguere lato nord, definita tablinum.151 Tuttavia, riteniamo gli impianti delle abitazioni siciliane, in particolare che una più serena valutazione che muova, in primo quelle di Morgantina, da quelli delle case di Delo. Taluogo, dall’analisi degli impianti architettonici conle contrapposizione si fonda sulla priorità che, nelle senta sia di operare un ripensamento della tradizioabitazioni siciliane, sarebbe data allo sviluppo oriznale lettura storico-architettonica delle case ellenistizontale, rispetto allo sviluppo verticale della più che e romane, attenuando la contrapposizione tra parte delle case di Delo. Se tale considerazione può tipologie che mostrano ampi tratti di convergenza, ritenersi valida per le case del tipo Zweihof haus di sia di articolare in forma meno schematica la tipoloMorgantina,150 essa risulta meno convincente se gia delle case a peristilio siciliane. 150 B. Tsakirgis, “Lovely Mute Ghosts”. The Greek Houses of Ancient Sicily, in aja , xcviii, 1994, p. 298. Tuttavia, restano da approfondire le ragioni di una simile ‘preferenza’, a nostro avviso non riconducibile esclusivamente ad una maggiore abbondanza di spazio, ma anche alla selezione di altri modelli di riferimento. 151 Benché non vi sia dubbio che «È il tablinum che fissa lo sviluppo planimetrico assiale della casa italica» (Zaccaria Ruggiu, op. cit. a nota 26, p. 384), le nostre riserve sull’adozione di questo termine non si fondano certamente sul fatto che tale ambiente non si trova sul medesimo asse dell’ingresso e del peristilio, ma sulla lettura complessiva dell’intero impianto della Casa C. Considerate le differenze tra l’impianto dell’esedra 16 della Casa C ed il c.d. ‘tablinum’ della Casa B, è da ritenere che il confronto con l’ambiente B della ‘Casa del Navarca’ di Segesta si fondi solo sull’opinabile scelta di una terminologia latina (B. Bechtold, Una villa ellenistico-romana sull’acropoli sud di Segesta, in Atti delle seconde giornate internazionali di studi sull’area elima (Gibellina, 22-26 ottobre 1994), Pisa-Gibellina, 1997, p. 102 sg. e p. 110 nota 63). Referenze fotografiche: Figg. 1, 4-19, 21, 23, 25-31: foto autore. Fig. 2: da Bernabò Brea-Cavalier 1965. Fig. 35: da Krause 1977. Figg. 36-39: da Chamonard 1922-1924. Tav. i. Tindari, Casa C, planimetria generale. 54 sergio aiosa Tav. ii. Tindari, Casa C, sezione A-A. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 55 Tav. iii. Tindari, Casa C, sezione B-B. 56 sergio aiosa Tav. iv. Tindari, Casa C, sezione C-C. la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni 57 RILIEVI ROMANI CON SCENE DI NASCITA E ‘PRESENTAZIONE’ DIVINA: ASSUNZIONI, RESISTENZE E METAMORFOSI DI MODELLI FIDIACI E POST-FIDIACI Maria Elisa Micheli 1. Lo stato delle ricerche ochi rilievi romani in marmo pentelico esibiscono soggetti discendenti dalle raffigurazioni realizzate da Fidia e dalla sua diretta cerchia per le grandi basi di culto innalzate nella seconda metà del v sec. a.C. (dal 439/8 a.C. al 415 a.C.) ad Atene e nell’Attica, così come queste risultano soprattutto dalle citazioni delle fonti. Quasi tutti noti nella storiografia archeologica almeno dal Settecento, i rilievi, per lo più di provenienza urbana, ma decontestualizzati, hanno ricevuto nel corso del Novecento un’interpretazione liminare che, se li ha ascritti all’ambito dell’assunzione a Roma di temi e soggetti della Grecia classica, ha però negato loro un’identità definita, giungendo infine a escludere – nella dismissione del procedimento ricognitivo di matrice filologica – la derivazione da quei prestigiosi modelli.1 Sotto il profilo manifatturiero, i rilievi sono stati riferiti alla produzione di officine attiche altamente specializzate nel soddisfare le esigenze di rappresentanza e di lusso dell’alta società romana. Sono stati interpretati come esito di un’industria artistica che, selezionate alcune delle più celebri creazioni dell’Atene di v sec. a.C., mediante un complesso procedimento di scomposizione e rielaborazione, ha prodotto pinakes, candelabri, putealia, vasi, lampadari fornendo alla clientela, sia per i grandiosi complessi pubblici che per le sontuose dimore private, un arredo marmorizzato nelle coordinate di un ri-composto codice espressivo. Attraverso questi materiali si assiste infatti alla capillare e pervasiva riproposizione a Roma di un patrimonio figurativo che, provvisto di un cospicuo pregio formale ora declinato nelle cifre stilistiche del nuovo linguaggio, era in origine carico di specifiche valenze religiose, nonché portatore di messaggi solidali con il sistema di attese dell’Atene dell’avanzato v sec. a.C. Il carico di P 1 Sintesi in O. Palagia, Meaning and narrative techniques in statuebases of the Pheidian circle, in Word and image in ancient Greece, Edinburgh 2000, pp. 53-78; cfr. L. A. Touchette, The Dancing Maenad re- una nave affondata a Mahdia intorno al 100 a.C. (come risulta dalle ceramiche e dalle lucerne usate sulla nave stessa) ed i materiali di Delo lasciano almeno in parte ricostruire fasi e modalità di questa progressiva ellenizzazione della società romana, in cui Atene e le sue botteghe di marmorari, anche dopo il sacco di Silla, rivestono un ruolo di primaria importanza, benché non esclusivo e – nel corso del tempo – sottoposto a molteplici mediazioni. Quanto meno dalla tarda repubblica e più massicciamente durante il principato di Augusto (per proseguire poi con quello di Adriano), Atene – come già era accaduto sui versanti filosofico e letterario – è assunta a prioritario riferimento artistico; viene così scalzato l’apprezzamento (egualmente sentito in alcuni circoli della tarda età repubblicana) per le grandi creazioni dell’Ellenismo, specie microasiatico. Localizzazione della fonte e «forza attiva» del prototipo sono alcuni dei presupposti intellettuali per questa produzione, coerente nella tecnica applicativa della manifattura che, sotto l’aspetto materico, si volge all’uso preferenziale del marmo pentelico. Sono però le nuove forme acquisite dai soggetti che offrono indizi importanti per comprendere i cambiamenti sopraggiunti nel corso del tempo secondo una prospettiva socio-antropologica; le diverse tecniche di lavorazione, di decorazione ed i temi (con la contaminazione degli schemi iconografici) si prestano ad illustrare le vocazioni dei nuovi fruitori ed il loro sostrato culturale ed offrono un piccolo spaccato su usi e comportamenti sociali. Mostrano come l’adesione romana al mondo culturale greco non si sia limitata agli aspetti utili a tradurre visivamente le gesta dei ceti dominanti in un nuovo sistema di segni, ma abbia voluto impadronirsi di modi e stili di comportamento nelle forme di una vera e propria appropriazione che si configura, al tempo stesso, liefs: Continuity and Change in Roman Copies, (BICS Suppl. 62), London 1995, pp. 22-23. «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 59-98 60 maria elisa micheli come una concreta espressione d’imperialismo. Non a caso tale modello verrà esportato nelle diverse aree dell’impero, imponendo un’ecumenica omologazione alle aristocrazie locali che aderiranno a forme ideologiche e stili di vita ‘indirizzati’, testimoniati appunto da tipologia e qualità degli arredi marmorei nelle loro residenze. Per oltre due secoli, quindi, ‘riproduzioni’ e ‘citazioni’ dei cicli figurativi dei maestri dello stile classico saturano l’ambiente pubblico e privato dell’intellettualità e del potere politico romano, diventando garanzia di uno stato sociale elitario. In taluni casi, poi, un atteggiamento rievocativo del passato concorre a ricreare atmosfere sacrali, di gusto retrospettivo, che vengono rafforzate con la presenza di rilievi originali votivi e funerari, spogliati da santuari (anche periferici) e necropoli in abbandono: un aspetto che a Roma è appena apprezzabile nelle sistemazioni – architettoniche e decorative pluristratificate – dei lussureggianti horti periurbani. Se, dunque, le molte indagini intraprese hanno sufficientemente chiarito il più ampio contesto socioculturale nel quale si inseriscono i rilievi in esame, hanno però lasciato aperti numerosi aspetti posti dai rilievi in sé, non ultimi, la selezione dei soggetti, la stratificazione degli schemi iconografici e la loro intersezione, il codice classicistico che li unifica,2 nonché l’epoca di realizzazione e – soprattutto – la finalità. Sono tutti elementi che, proprio per la specificità del tema proposto, sfuggono a questo sistema ‘aperto’, ma anche ‘pianificato’, tanto da far sospettare una diversa intentio. Questa è peraltro indiziata dalla morfologia stessa dei marmi che li apparenta a quella originaria se non altro nell’adozione del ‘rilievo’ come «strumento espressivo». Il medium medesimo si presta quindi ad alcune considerazioni preliminari che investono un doppio fronte: la soluzione scelta per i ‘virtuali’ modelli presenti nell’Atene classica; la successiva redazione di epoca romana nelle forme del pinax concluso. Nonostante l’incompletezza e l’episodicità delle evidenze, è un aspetto che il raffronto tra il basamento originale della statua di culto di Nemesi a Ramnunte ed il rilievo di età adrianea oggi a Stoccolma permette di non sottovalutare, offrendo un interessante elemento valutativo (infra, § 4). Per quanto concerne la Grecia, partendo dalla destinazione architettonica, von Hesberg3 indica proprio nel rilievo un elemento nodale nella strategia visiva di comunicazione, pienamente affermata già in età arcaica. Le sue argomentazioni possono venire estese a diverse categorie di ‘rilievo’, in quanto interessano la polifunzionalità del mezzo espressivo che, come giustamente apprezza lo studioso, è dotato di una sua «autonoma e specifica forma d’arte». Questa si sostanzia nell’apparentemente ovvio legame – di reciprocità e/o concorrenza – con la pittura, la scultura e i più ampi (talora effimeri) allestimenti scenici. La forza comunicativa del rilievo comprende fattori che ne indirizzano la pervasività: anzitutto, forma, materia e destinazione, dalle quali dipende una produzione più o meno massificata. È una considerazione, questa, tanto più vera in relazione a determinate classi: ad esempio, stele funerarie e tavole votive o documentarie come sono restituite dall’Attica. L’intensità della comunicazione è peraltro calmierata dalla quantità di prodotti immessi nel circuito d’uso che, in dimensione allargata, coinvolge ogni aspetto della prassi, dal sacro al quotidiano. Tuttavia, ciò che innesca una maggiore capacità di risonanza è l’immagine la quale, stilizzando la materia prima ed il supporto, concorre a modellarne efficacemente la peculiarità, tanto struttiva quanto funzionale. È l’immagine che con la propria specificità favorisce il processo comunicativo; nella dinamica fattuale, il suo statuto – tematizzato o mantenuto individuale4 – incanala la penetrazione secondo direttrici pragmatiche o normative. Se nella canonizzazione e nella ripetizione del formulario è pragmatica la modalità comunicativa dei rilievi documentari, di quelli funerari come anche della gran parte di quelli votivi, diverso è il caso di alcuni rilievi votivi che, nell’individualità del soggetto, acquistano una connotazione devozionale, assumendo valore di immagine di culto: una funzione possibile nelle ultime decadi del v sec. a.C. per il grande rilievo con la Triade Eleusina, in certa misura mantenuta pure nelle sue repliche, realizzate in età romana tardo-repubblicana e proto-imperiale come indiziano i contesti di rinvenimento.5 Nell’ambito di 2 In generale: S. Böhm, Klassizistische Weihreliefs. Zur römischen Rezeption griechischer Votivbilder (Palilia 13), Wiesbaden 2004. 3 H. von Hesberg, Das griechische Relief als Medium, in Medien in der Antike. Kommunikative Qualität und normative Wirkung, Köln 2003, pp. 93-121. 4 Cfr. H. G. Niemeyer, Semata. Über den Sinn griechischer Standbilder, Hamburg 1996, pp. 23-24, 28-29. 5 M. E. Micheli, Il grande rilievo con la Triade Eleusina e la sua recezione in età romana, in ASAtene, 80, 2002, pp. 92-111. Contra: E. Lippolis, I primi scavi di Eleusi: Trittolemo e i ‘Giganti’ di Atene, in ASAtene, a. Il rilievo come mezzo espressivo delle basi di culto scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 61 tale individualità, che acquista valore di norma, ovvero alla capacità di un abile oratore di volgere il possono a mio parere rientrare i rilievi sui basamenti suo discorso su una serie di argomenti collaterali per delle statue di culto della seconda metà del v sec. a.C. dare maggiore incisività all’assunto principale; in arrealizzate da Fidia e dai suoi allievi; queste intromonia, dunque, con l’agire intellettuale dei circoli ducono un cambiamento non solo ‘formale’, ma riuniti attorno al filosofo Anassagora e al sofista Proesteso al significato complessivo del monumento, tagora. È, più in generale, un procedimento coerennon circoscrivibile alla sola sfera religiosa. Esse te con le tendenze culturali del periodo sintetizzate propongono: da Castriota,7 che ha sottolineato come le immagini - dal punto di vista strutturale una tipologia omosiano un elemento chiave nell’azione ufficiale ateniemorfa di supporto, realizzato in pietra e di grandi se, in quanto prodotti estremamente elaborati, desidimensioni; gnati a dare forma ed espressione visibili a valori, - dal punto di vista tecnico, una complessità maniaspirazioni e propensioni dell’intera comunità: imfatturiera dovuta alla compresenza di materiali dipegnate, al pari della poesia e delle pratiche letteraversi, non solo lapidei, usati per le raffigurazioni; rie, in un complesso sistema di mimesis. Da valutare, - dal punto di vista figurativo, un’omogeneità che si quindi, sono soprattutto i temi scelti per le basi: declina anzitutto nella selezione del soggetto (naquesti ruotano attorno alla ‘nascita,’ sciolta nell’acscita e/o presentazione) e nella sua traduzione sia cezione di ‘presentazione’ e anche di ‘rinnovamencompositiva che formale; to’.8 Sono soggetti in armonia con un più generale - dal punto di vista concettuale, un intenso legame entusiasmo per il ‘ringiovanimento’ che a quel temcon l’immagine della divinità soprastante. po – come ha suggerito la Burn9 – investe la redazioTutti questi elementi contribuiscono da un lato a ne iconografica di divinità ed eroi, la quale concorre fortificare l’intensità del messaggio inviato dai rilievi ad esaltare il loro carattere ‘straordinario’. presenti sulle basi, dall’altro a costringerlo entro un doppio circuito, sacrale e ‘civico’, che dà risalto alb. Le basi di culto fidiache l’ethos della divinità. Secondo questa prospettiva, mi sembra pertanto da subito condivisibile l’affermaEntro queste coordinate si iscrivono bene i nuovi e zione che i rilievi sui basamenti delle statue di culto grandiosi apparati ‘scenici’ di culto realizzati in Attinon siano elementi esornativi, ma siano stati in orica e ad Olimpia da Fidia e dai suoi allievi. Assumengine progettati per rafforzare l’eikon della divinità sodo alcuni indicatori selezionati da Gladigow,10 oltre prastante.6 Ad essa si correlano proprio nella scelta le dimensioni, la bellezza, lo splendore, nella realizdel tema in maniera tale da accentuare le competenzazione della statua di culto sono fattori importanti ze della divinità in un più ampio quadro religioso, gli schemi di identificazione che, distinguendo dividifficilmente rapportabile ad un denominatore uninità ed umani, prevedono elementi attributivi e co. Non a caso, questa potente innovazione fidiaca è forme di fisicizzazione utili a traslare visivamente stata posta dagli stessi autori antichi in parallelo ad un’epifania. Questa nelle creazioni fidiache, proprio una pratica retorica, messa a punto in quell’epoca, in ragione del materiale scelto (mi riferisco all’oro e 81, 2003, pp. 177-184 note 123, 144. Cfr. anche il rilievo doppio da Roma dove sullo zoccolo di base, verosimilmente della faccia principale, sono i resti di un’iscrizione incisa con ductus abbastanza regolare che menziona un L(ucius) Roscius L(uci) f(ilius) Oto[…]. Con buona probabilità, dovrebbe trattarsi di quel Lucius Roscius Otho, oriundo di Lanuvio, particolarmente impegnato nella politica a Roma, dove nel 67 a.C. come tribuno della plebe cercò di opporsi al conferimento dell’incarico triennale a Pompeo nella lotta contro i pirati. Sopra lo zoccolo si conserva parte di un personaggio femminile, con il piede destro calzato di sandalo e peplo dalle pieghe rigorosamente parallele, riferito da La Rocca alla Demetra del grande rilievo; sull’altro lato rimane il frustulo di un personaggio panneggiato (incerto se maschile o femminile) seduto su un trono (E. La Rocca, Copia del rilievo eleusinio, in A. Bottini (a cura di), Il rito segreto. Misteri in Grecia e a Roma, (Catalogo della mostra, Roma 22 luglio 2005-8 gennaio 2006), Milano 2005, pp. 152-155). Dubbio se il marmo riproduca davvero il grande rilievo eleusino o non proceda piuttosto ad una sua rielabo- razione, eseguita nelle modalità concettuali e lavorative dell’aemulatio, ovvero reinterpretando i tipi-base ed inserendoli in un nuova composizione dal significato traslitterato. 6 A. Kosmopoulou, The Iconography of Sculptured Statue Bases in the Archaic and Classical periods, Madison 2002, pp. 111-125. 7 D. Castriota, Myth, ethos and actuality. Official art in fifth-century Athens, Madison 1992. 8 Cfr. L. Beaumont, Mythological childhood: a male preserve? An interpretation of classical Athenian iconography in its socio-historical context, in BSA, 90, 1995, pp. 339-361 e infra. 9 L. Burn, The Art of the State in late fifth-century Athens, in Image of Authority. Papers presented to J. Reynolds on the occasion oh her seventieth Birthday, Cambridge 1989, pp. 62-74. 10 B. Gladigow, Epiphanie, Statuette, Kultbild. Griechische Gottesvorstellungen in Wechsel von Kontext und Medium, in VisRel, 7, 1989, pp. 98-110. 62 maria elisa micheli all’avorio) ed alle modalità di lavorazione, si configurava visivamente ai devoti come un’epifania ‘luminosa’.11 È il luogo a conferire specificità rituale all’immagine della divinità, celebrata collettivamente nelle cerimonie del suo festival. In tal senso, quindi, le figurazioni sulle basi di culto fidiache e post-fidiache non possono che connettersi ed aumentare il valore, religioso ma anche civile, dell’immagine divina che le sovrasta, benché rimanga multivalente il significato della scena in sé. Aspetto concretamente testimoniato dall’unica statua di culto originale, comprensiva del suo basamento, che – frammentaria – ci è giunta: la Nemesi di Ramnunte (§ 4). Le scene sui basamenti, tuttavia, non condividono nel tempo il processo di circolazione e di trasmissione delle eikones soprastanti attuato attraverso media diversificati: affermazione da subito possibile guardando, in particolare, alla ‘fortuna’ della Parthenos. Una ragione può scaturire dal fatto che i temi prescelti sono espressamente pensati per quel determinato evento in quel determinato momento e – potremmo suggerire – sono loro a conferire ‘individualità’ all’eikon, mentre della divinità viene assunta l’iconografia ‘esemplare’ (atemporale e atopica), che dà luogo ad un lungo processo di immagini derivate, duttili alle esigenze di nuovi contesti cultuali. È un aspetto ‘moltiplicativo’ che proprio le ricerche di Vlizos sullo Zeus di Olimpia12 e di Nick sulla Parthenos13 mi sembra abbiano ben evidenziato; al tempo stesso hanno mostrato un notevole e divaricato scarto nell’applicazione degli schemi delle due sculture. Del resto, modalità di assunzione, stadi e gradi di metamorfosi – come pure le resistenze – dei ‘modelli’ emergono bene dal complesso delle statue di culto di età ellenistica, quale risulta dal censimento di Faulstich,14 ed altrettanto bene insegna la ‘puntuale’ rielaborazione partenonica nella statua di culto di Atena a Priene15 che – in sintonia con l’interpretazione di Dinsmoor – documenta i legami amicali tra Atene ed i nuovi signori delle regioni orientali. Nel caso dello Zeus fidiaco, se lo schema iconografico diventa ‘canonico’ nell’elaborazione delle statue di culto maschili (soprattutto per i paredri del massimo degli Olimpi fino all’adozione nell’iconografia imperiale),16 soltanto quello permette oggi una virtuale ‘ricostruzione’ in prospettiva del colosso crisoelefantino i cui dettagli si presentano, purtroppo, del tutto incostanti nelle diverse tradizioni figurate. L’applicativo oblitera il complesso apparato decorativo del trono che viene riproposto raramente in età successiva e comunque sempre frazionato (esemplare testimonianza al riguardo offrono le riprese dei Niobidi).17 Il repertorio figurato è stato tradotto in materiale e formato diversi per classi di oggetti di varia funzione, destinati a spazi diversi (privati o pubblici) come attesta, fra l’altro, la base con Amazzonomachia rinvenuta a Nicopoli,18 risalente al momento della rifondazione augustea. Mi chiedo se questo fenomeno sia in certa misura dipeso dal significato dei soggetti che già nell’interpretazione di Schrader19 erano profondamente innervati nel culto di Olimpia e nelle contese che avevano a teatro il santuario stesso: non ultime quelle politiche che, tra il 433 a.C. e il 420 a.C., contrapponevano gli Elei, appoggiati da Corinto, agli Ateniesi sì da far ritenere esito di una tensione ‘conciliatoria’ la compresenza sul trono di eroi ‘connotati’ come Eracle e Teseo. Le oltre 200 edizioni filiate dalla Parthenos permettono una ricostruzione virtuale più aderente all’originale rispetto a quella dello Zeus, talvolta comprensiva dei dettagli. Solo la copia di età medioellenistica della statua di Atena Parthenos da Pergamo20 lascia però percepire la concreta volontà di duplicare – in marmo – l’originale (completo del ba- 11 In tale accezione mi sembrano condivisibili le considerazioni di B. S. Ridgway, Cult Images and their Media, in J. Barringer - J. Hurwit (a cura di), Periclean Athens and its legacy: problems and perspective, Austin 2005, pp. 111-118. 12 S. Vlizos, Der thronende Zeus. Eine Untersuchung zur statuarischen Ikonographie des Gottes in der spätklassischen und hellenistischen Kunst, Leidorf 1999, pp. 5-21. Cfr. W. Alzinger, Zeus Olympios und Athena Parthenos, in G. Erath - M. Lehner - G. Schwarz (a cura di), Komos. Festschrift für Thuri Lorenz zum 65. Geburstag, Wien 1997, pp. 13-14. 13 G. Nick, Die Athena Parthenos. Studien zum griechischen Kultbild und seiner Rezeption, (AM 19.Beiheft), Mainz 2002, pp. 158-205. 24 E. I. Faulstich, Hellenistische Kultstatuen und ihre Vorbilder, Frankfurt 1997. 15 Nick, op. cit. a nota 13, p. 249, n. A 36. 16 K. D. S. Lapatin, The Ancient reception of Pheidias’ Athena Parthenos and Zeus Olympios. The visual evidence in context, in L. Har- dwick - S. Ireland (a cura di), The January Conference 1996: the Reception of Classical Texts and Images, Milton Keynes 1996, p. 15. 17 W. Fuchs, Die Vorbilder der neuattischen Reliefs, (JdI Erg.H. 20), Berlin 1959, pp. 131-132.; Ch. Vogelpohl, Die Niobiden vom Thron des Zeus in Olympia. Zur Arbeitsweise römischer Kopisten, in JdI, 95, 1980, pp. 197-226. 18 J. Fink, Der Thron des Zeus in Olympia, München 1967, pp. 40-15 (base a Nicopoli: p. 18 e tav. 2); in generale, M. Kantiréa, Les dieux et les dieux Augustes. Le culte impérial en Grèce sous les Julio-claudiens et les Flaviens, ME§ETHMATA 50, Athènes 2007, pp. 89-93. 19 H. Schrader, Das Zeusbild des Phidias in Olympia, in JdI, 56, 1941, pp. 1-71; K. D. S. Lapatin, Chryselephantine Statuary in the Ancient Mediterranean World, Oxford 2001, p. 84. 20 H. m 3, 51: N. Leipen, Athena Parthenos. A Reconstruction, Toronto 1971, p. 7, n. 21; Nick, op. cit. a nota 13, p. 249, n. A 35. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 63 samento figurato, ma privo dello scudo), attuandone presa in età medioellenistica, come si evince dallo una compiuta riduzione modulare, laddove l’estrescudo realizzato da Timokles e Timarchides, figli di ma miniaturizzazione della più tarda Atena LenorPolykles, per la statua di Atena Kraneia a Elatheia: mant rinvenuta ad Atene ad O della Pnice la carattescudo in seguito così famoso da venire attribuito allo rizza già di per sé come elemento d’arredo.21 La stesso Fidia.23 Del pari, quanto meno dalle fonti, sostatuetta non è finita, ma anch’essa si presenta con la no noti i restauri realizzati con estrema perizia allo base scolpita e, a differenza della più pregevole staZeus (ad esempio, da Damophon di Messene24 come tua pergamena, completa di scudo e del supporto alpiù tardi in età cesariana), di cui rimaneva l’ergastela mano con la Nike. Tuttavia, si può dire che anche rion che ha restituito alcune matrici (di incerta pertila destinazione nella Biblioteca ‘desacralizza’ il ben nenza ‘cronologica’ alla statua fidiaca). più ragguardevole pezzo pergameno, sicché viene Il patrimonio di abilità tecniche non dové certo attuato uno slittamento semantico rispetto al prestiandare disperso, piuttosto tramandato (almeno per gioso prototipo e la statua è trattata alla stregua di un certo periodo, conservando verosimilmente moun «bene evocativo» che deve venire musealizzato. delli e matrici originali), applicato per grandi comLa scultura, comunque, sembra frutto di un procesmissioni: quelle che prevedevano i costi più alti tanto so che non rientra solo nello sguardo rivolto dagli per il pregio intrinseco delle materie utilizzate quanAttalidi verso Atene, ma più espressamente nella to per la perizia e l’esperienza profuse nella lavoracondivisione da parte dei signori di Pergamo del culzione.25 C’è da chiedersi, piuttosto, se nel procedito poliadico della dea, praticato su due livelli: sia sul mento derivativo non abbia davvero inciso la scelta piano umano con la partecipazione alle Grandi Padel tema, ovvero come poteva essere percepito nel natenee (178-162 a.C.) sia sul piano divino. Una statua prosieguo del tempo un soggetto «circostanziato», colossale di un Attalide (verosimilmente Attalo II) legato sia alla divinità sia al luogo nel quale essa era era stata infatti innalzata su un pilastro situato all’anvenerata. È un’affermazione valida per la raffiguragolo N-E del Partenone, peraltro quello stesso angozione di Pandora sulla base fidiaca della Parthenos; lo che segnava la fine della processione panatenaica, di Erittonio su quella alcamenica di Efesto ed Atena in maniera che il dinasta potesse assistere, da pari, al(due soggetti concepiti quasi come due miti parallela nascita della dea così come questa era rappresenli, entrambi innervati nella storia della polis); di Elena tata sul frontone orientale del tempio.22 su quella agoracritea di Nemesi. Di contro, è una Citazione e ripresa delle figurazioni sulle basi di considerazione meno stringente se rivolta alla base culto, attestate da pochi – e, come s’è accennato, fidiaca di Zeus ad Olimpia, dove era esposto un tema dubbi – rilievi in marmo di epoca romana, non posdi valenza ecumenica – e trasversale nello scorrere sono che inserirsi in un contesto socioculturale radidel tempo – quale la nascita di Afrodite. calmente mutato di cui, allo stato attuale delle evidenze, è capostipite proprio la Parthenos della c. La nascita di Afrodite sulla base di Zeus ad Olimpia Biblioteca di Pergamo. Nel ‘mancato’ processo di iterazione, escludo però la suggestione, da più parti Paradossalmente, di questo soggetto restano tracce avanzata, che abbia pesato la difficoltà ‘tecnica’ di riancora più scarne sia di recezione in contesti seconprodurre i basamenti originali, polimaterici e realizdari che di adattamento in funzioni multiple a fronte zati secondo nuove e complesse modalità lavorative: dei temi effigiati sul trono di Zeus: fra l’altro, un feun’ipotesi che già le numerose traduzioni in marmo nomeno in assoluta disgiunzione rispetto alla fama dei singoli attributi della egualmente polimaterica – quanto meno di trasmissione letteraria, se non icoParthenos rendono poco o nulla sostenibile. Peralnografica – goduta dalla scultura nel suo complesso tro, parti di essa erano state già oggetto di attenta ri(Fig. 1). Non credo, però, che i motivi – scartati quel21 H. cm 42: Leipen, op. cit. a nota 20, p. 3, n. 1; Nick, op. cit. a nota 13, p. 239, n. A 14. Stante il fatto che la scultura non è finita, rimane incerta anche la sua destinazione se rivolta all’arredo domestico o sacro. 22 F. Queyrel, Les portraits des Attalides. Fonction et représentation, (befar 308), Paris 2003, pp. 307-308. 23 Nick, op. cit. a nota 13, pp. 180-182. 24 P. G. Themelis, Damophon von Messene. Sein Werk im Lichte der neuen Ausgrabungen, in AntK, 36, 1993, pp. 24-40. 25 K. D. S. Lapatin, Pheidias ÂÏÂÊ·ÓÙÔ˘ÚÁÔ˜, in AJA, 101, 1997, pp. 663-682; Lapatin, op. cit. a nota 19, pp. 79-86. C’è da chiedersi se la cura e la sorveglianza del simulacro dello Zeus fidiaco da parte dei Phaidyntai – o Phaidryntai – ricordati da Pausania (V, 14, 4) non contemplasse anche la capacità di intervenire sulla scultura in quanto quelli erano custodi e depositari delle conoscenze circa le tecniche usate nella messa in opera del simulacro. 64 maria elisa micheli Fig. 1. A. C. Quatremère de Quincy, Le Jupiter olympien, ou l’Art de la sculpture antique, Paris, 1814. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 65 li riportabili a presunte difficoltà tecniche – debbano essere ricercati nell’ambito di un significato ‘politico’ o ‘religioso’ derivato da una virtuale dipendenza della scena dal culto che Afrodite, come Urania, aveva ‘localmente’ in Elide, dove peraltro il santuario accoglieva una statua crisoelefantina realizzata da Fidia. Se mai, potrebbero non essere da accantonare del tutto le note di Pollitt circa il fatto che la quantità dei miti raffigurati sullo Zeus ne faceva un multistrato di particolare complessità interpretativo-devozionale, come non hanno mancato di avvertire gli stessi autori antichi: interessante, al riguardo, Dione di Prusa che forse non a caso fa precedere riflessioni filosofiche e teologiche a quelle inerenti la concezione estetica della scultura.26 Era un simulacro che doveva bilanciare l’aspetto sovrannazionale con quello locale di Zeus (sul piano sia del mito che della prassi), presentando l’ampio spettro di competenze della divinità, visivamente esplicitato dalle numerose (a Fig. 2. Parigi, Louvre. Medaglione d’argento da Galaxidi volte antitetiche) tematiche del mito. Recinzione, con Eros e Afrodite. basamento e trono erano di fatto i contenitori primi dell’eikon i quali, attraverso le figurazioni, introducesistita da Eros che l’accoglieva e da Peithò che l’incovano la divinità, quasi sublimando (ora introiettata) ronava, laddove la teoria degli Olimpi presenziava alla soluzione già proposta ad Amicle per Apollo. l’evento. Sono menzionati Zeus, Hera, Efesto, ChaNella quasi totale assenza di documenti figurati, ris, Hermes, Hestia, Apollo, Artemide, Atena, comunque, l’eccezione è offerta dal medaglione Eracle, Poseidone e Anfitrite; Helios sul carro e Sed’argento da Galaxidi oggi al Louvre,27 che conserva lene a dorso di cavallo o di mulo nella stessa clausola un’eco – estremamente debole – del gruppo centrale usata per la base della Parthenos (così è visivamente con Afrodite e Eros; sono corredati di un’iscrizione restituita dalla statuetta Lenormant, infra: § 2) che, posta tra di loro, ne corrobora l’identificazione chiudevano la composizione e, comprendendo l’oi(Fig. 2). Eros, di profilo, sta sulle onde e si tende ad kumene, ponevano sul piano cosmico l’accadimento. aiutare la dea che dalle ginocchia in su emerge dalCome è stato ampiamente sottolineato, tematiche l’acqua, mentre il resto del corpo si intravede tra le partenoniche sono state assunte nell’organizzazione increspature del mare. La dea ha le gambe di profilo, della scena, dal momento che la nascita di Afrodite, il dorso frontale e la testa rivolta in alto; è nuda e con al pari di quella di Atena esibita però sul frontone, è la mano sinistra tira a sé un telo per schermarsi. Tansituata nell’ambito di una riunione divina ed è intesa to il gesto quanto il telo, che serve a celare l’avvenicome un avvenimento che coinvolge il kosmos. La mento anche in senso rituale, accennano al mystenascita di Afrodite viene esaltata tramite la teoria rion. Schema compositivo e soluzione iconografica delle principali divinità olimpie presenti all’actio, che sono congrui con gli stilemi elaborati nella seconda la sacralizzano nel segno dell’ortodossia (forse la più metà del v sec. a.C., documentati bene su un’hydria alta forma di theophania). È una differenza sostanziaa Genova e su una pisside ad Ancona28 che visualizle rispetto a quanto era stato sino allora più comunezano il tema. Secondo il resoconto di Pausania (v, 11, mente proposto per la dea sui monumenti figurati, 8), la nascita dal mare di Afrodite proposta sul basala cui nascita vi compariva con maggiore frequenza mento prevedeva al centro la dea, in età adulta,29 as26 Cfr. B. Bäbler, Der Zeus von Olympia, in Dion von Prusa. OÏ˘ÌÈÎÔ˜ Ë ÂÚÈ Ù˘ ÚˆÙ˘ ÙÔ˘ ıÂÔ˘ ÂÈÓÔÈ·˜. Olympische Rede, oder über die erste Erkenntnis Gottes. Eingeleitet, übersetzt und interpretiert. Mit einem archäologischen Beitrag, Darmstadt 2000, pp. 217-238. 27 Parigi, Louvre, MNB 1290: Fink, op. cit. a nota 18, p. 15 nota 22; A. Kossatz-Deissmann, Osservazioni sulle nascite di Afrodite ed Atena nell’arte greca, in Coloquio sobre el puteal de la Moncloa (Actas del coloquio, Madrid 14 y 15 de noviembre de 1983), Madrid 1986, pp. 133-138. Mi chiedo se la riproposizione toreutica non sia di per sé un ulteriore indizio su materiale e tecnica usati per gli originali. 28 Fink, op. cit. a nota 18, pp. 14, 15. 29 Beaumont, art. cit. a nota 8, pp. 349-360. 66 maria elisa micheli ‘ridotta’ e/o ‘abbreviata’: o quale motivo singolo o con pochi personaggi sussidiari.30 Peraltro, concordo con Beaumont quando nota che in questo periodo solo le nascite di Afrodite e di Atena si affrancano dalla posizione ambivalente che il soggetto assume in relazione al sesso del neonato. Nella documentazione materiale superstite si registra, infatti, una dicotomia nelle modalità di raffigurazione tra maschi e femmine (anche divini) e proprio in età classica alle femmine è per lo più negata l’infanzia o, se accennata, resta estremamente elusiva (come per Pandora, infra: § 2); un’eccezione è costituita da Artemide, votata ad uno speciale rapporto con le fanciulle, come documenta la dedica rituale che queste facevano nella celebrazione del culto della dea a Brauron. Viceversa, i maschi godono di un’infanzia e anche la nascita di Zeus, raffigurata sull’altare di Atena Alea a Tegea,31 mostrava il dio neonato in compagnia di Rea e della ninfa Enoe. Attraverso la succinta menzione di Pausania può venire ricostruita «un’unità potenziale» della scena, ricavandone suggerimenti impliciti quanto alle modalità compositive: doveva essere stata realizzata in raffinata paratassi una trama con figure statiche, distanziate fra di loro (anche se con buona verosimiglianza organizzate a coppie, secondo un principio chiastico non disgiuntivo). Doveva trattarsi di un modulo tendente ad escludere ogni aspetto narrativo, in netta controtendenza rispetto alla teatrale scenografia del visuale perseguita sul trono.32 Stasi e paratassi erano i mezzi usati per rimarcare sia la straordinarietà che la solennità dell’evento, ma poche o nulle informazioni si recuperano sullo schema compositivo nel suo insieme a prescindere, appunto, dalla citazione del gruppo centrale di Afrodite ed Eros. Nonostante l’innovazione nella strategia di rappresentazione, escludo che accanto ad ogni personaggio fosse dipinto il nome il quale ne avrebbe garantito l’individuazione sul modello attuato nel più tardo medaglione:33 ma attributi e postura delle divinità erano elementi identificativi del tutto sufficienti nella seconda metà del v sec. a.C. per un devoto di qualsiasi ethnos e provenienza Del basamento34 si conservano oggi pochi blocchi frammentari, alcuni modanati, in poros e pietra nera di Eleusi dei quali rimane incerta l’esatta posizione nel grande piedistallo e che non permettono serie ipotesi restitutive. Solo a giudicare dai segni nel pavimento della cella e dalle informazioni desunte da Callimaco (Giambo vi: Frag. 196), il basamento doveva misurare quasi dieci metri di lunghezza, circa sei e mezzo di profondità (un rapporto di 3:2), mentre rimane più vago il computo dell’altezza: sono misure congrue con le dimensioni della scultura soprastante e con la volumetria dell’ambiente, al di là dell’aneddotica riferita dagli stessi antichi.35 I blocchi rimanenti, peraltro, non consentono neppure di definire la consistenza materica delle figure; la critica tende oggi ad interpretarle come prodotti toreutici, che dovevano essere applicati (ma egualmente sfuggente è il procedimento tecnico di affissione) sul fondo scuro della pietra. Nell’estrema frammentarietà di evidenze, sono pur sempre i basamenti della Parthenos, dell’Hephaisteion ad Atene e, soprattutto, del Nemeseion a Ramnunte che permettono di verificare alcune delle considerazioni esposte, specificamente indirizzate alla ripresa ed assunzione dei temi in età romana. 30 Sintesi in Kossatz-Deissmann, art. cit. a nota 27, pp. 125-149. 31 Pausania, VIII, 47, 3. Del pari ‘infante’ avrebbe potuto essere Dioniso sul basamento realizzato da Alkamenes (cfr. Lapatin, op. cit. a nota 19, p. 98). 32 Cfr. W. Drost, Strukturwandel der griechischen Kunst im Zeitalter des Euripides, in Gymnasium, 77, 1970, pp. 375-391. 33 Palagia, op. cit. a nota 1, p. 54. 34 Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 240-242, n. 60 (ivi bibl. prec.). 35 D. Kreikenbom, Griechische und römische Kolossalporträts bis zum späten ersten Jahrhundert n. Chr., (JdI Erg.H. 27), Berlin 1992, p. 4 e nota 16. In generale, H. Cancik, Grösse und Kolossalität als religiöse und aesthetische Kategorien. Versuch einer Begriffsbestimmung am Beispiel von Satatius Silvae I, 1, in Genres in visual representations. Proceedings of a conference held in 1986 by invitation of the Werner-Reimers-Stiftung in Bad Homburg, Leiden 1990, pp. 51-64. 36 Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 236-240, n. 59. 2. La base di Atena Parthenos e i rilievi tipo Del Drago La grande statua di culto di Atena Parthenos poggiava su una larga base a pianta rettangolare di cui si conservano le fondazioni in poros, resti di ortostati sul nucleo in marmo pentelico e coronamento (in forma di cavetto) in pietra nera di Eleusi: lunga poco più di otto metri e larga poco più di quattro (secondo un rapporto modulare di 1:2), era sagomata in alto e in basso, benché il compiuto profilo delle modanature non sia determinabile a pieno per la scarsità (e controversia) delle evidenze.36 Le tracce rinvenute sui pochi blocchi superstiti non consentono di sciogliere la riserva circa il loro originale posizionamento, né se siano tutti riferibili al momento della realizzazione o non a successivi in- scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 67 terventi di restauro, dei quali è peraltro discussa la Le scene scolpite sui basamenti delle due statue cronologia in quanto legati dalla critica o ad Antionon contribuiscono neppure a sciogliere la riserva co IV o ad Adriano e agli Antonini o, a seguito della circa ordine e relazioni tra le divinità, poiché attuano distruzione dovuta agli Eruli, all’azione di Giuliano anzitutto una drastica diminuzione rispetto al numel’Apostata.37 Le fonti (Plinio, NH, 36, 18; Pausania, ro degli dei riportato da Plinio: 6 figure sono grossoi, 24, 7) ricordano che la base era decorata con la lanamente tratteggiate sulla statuetta Lenormant nascita di Pandora alla presenza di venti divinità; se (Fig. 4); ne rimangono, invece, 6 sicure e 1 a mala pePlinio riferisce il numero delle divinità omettendona accennata sulla base dell’Atena di Pergamo. None i nomi, Pausania si limita ad indicare solo il sognostante le grosse lacune (tanto che tutte le figure getto, aggiungendo una breve nota su come quel sono acefale e, ad eccezione della prima da sinistra, tema fosse stato cantato da Esiodo e da altri (innoprive delle gambe), la base della statua pergamena minati) poeti. E sui testi di Esiodo si è di fatto apavrebbe ancora spazio per altri personaggi alle due puntata la critica per denominare i partecipanti e estremità sino a raggiungere il virtuale numero di per decrittare la scena. 10. Nella base, da sinistra a destra, sono parzialmente La statua dalla Biblioteca di Pergamo (circa 1/3 conservate tre peplophoroi (le Cariti) rivolte verso la dell’originale) e quella Lenormant (circa 1/10 delloro sinistra, diversificate dal movimento delle bracl’originale) – unite alle evidenze monumentali concia; sono seguite da una quarta figura femminile di servate – hanno fatto stimare l’altezza dell’intero minori proporzioni di cui resta solo la zona centrale basamento poco meno di un metro e mezzo (quasi del torso, coperto da un rigido peplo (Pandora). a livello dell’occhio) e quella delle figure in esso preFrontale, le braccia distese lungo il corpo, questa dosenti attorno a cm 75.38 Queste – in accordo con veva verosimilmente marcare il fuoco della compol’analisi di Praschniker – avrebbero dovuto essere sizione, come segnala la posizione della successiva firealizzate a parte, in metallo (verosimilmente brongura femminile che, appena ripresa verso sinistra, le zo dorato), benché sia incerto se fossero rifinite con si volge (Atena). Segue una sesta figura che il tipo di altri materiali (differenti metalli pregiati, pietre preabbigliamento superstite, con un lembo della veste ziose, vetro, avorio) per far risaltare meglio la scintilfermato in vita a creare un triangolo all’altezza del lante policromia del fregio, accentuata dal posiziofianco destro, sembra indicare come maschile (Efenamento sulla scura pietra e promossa secondo sto); di una settima figura si intravede una minima modalità tecnico-operative che restano del pari inporzione del profilo sulla destra. La base della piccocerte.39 Il basamento della statua da Pergamo (Fig. la statua Lenormant stilizza ancora di più la figura3) presenta le figure che emergono nettamente dal zione del basamento, il cui centro è segnato dalla fifondo, seguite da un solco di contorno deciso il quale guretta femminile frontale (Pandora), mentre le ne modella i corpi (elemento ben evidente dalle tre estremità sono chiuse a sinistra da un carro e a destra conservate sulla sinistra), quasi a riproporre con feda un personaggio femminile a dorso di cavallo o deltà sul marmo aggetto, compiutezza e ratio degli mulo: Helios e Selene, appunto, che, come per Afrooriginali. Ugualmente dibattuta rimane la sistedite sul basamento dello Zeus di Olimpia, partecipamazione delle 21 figure40 – cioè se queste erano colvano all’evento restituendone degnamente la dilocate tutte soltanto sulla fronte o erano, viceversa, mensione cosmica. proiettate anche sui fianchi, secondo la soluzione Benché molto sbiadita, le due sculture filtrano concretamente attuata sul basamento della statua di un’eco dei modi compositivi della scena, caratterizculto a Ramnunte (§ 4) –, nonché le loro esatte sezata da simmetria, assialità, ritmo ed associazioni biquenza ed identità, quest’ultima di fatto ipotizzata in narie dei partecipanti, con il fuoco costituito probase ai testi esiodei più che ai realia.41 prio dalla figura di Pandora, sistemata al centro 37 Leipen, op. cit. a nota 20, pp. 23-26; Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 112-117. 38 Sintesi in Leipen, op. cit. a nota 20, pp. 23-24; N. Leipen, Athena Parthenos, Problems of reconstruction, in Parthenon-Kongress Basel. Referate und Berichte. 4. bis 8. April 1982, Mainz 1984, pp. 177-181, 405-406; J. H. Hurwit, Beautiful Evil: Pandora and the Athena Parthenos, in AJA, 99, 1995, p. 173 nota 6. 39 Solo ipotesi quelle di Palagia, op. cit. a nota 1, pp. 54-55 che pen- sa ad un fregio ad alto rilievo in marmo; a mio avviso è ancora valido C. Praschniker, Das Basisrelief der Parthenos, in ÖJh, 39, 1952, pp. 712. In generale, Lapatin, op. cit. a nota 19, pp. 63-79. 40 L. Berczelly, Pandora and Panathenaia. The Pandora Myth and the sculptural Decoration of the Parthenon, in ActaArchH, 8, 1992, pp. 5960 nota 20. 41 Leipen, op. cit. a nota 20, p. 26 con tabella delle diverse proposte. 68 maria elisa micheli Fig. 3. Berlino, Pergamonmuseum. Base della statua di Atena dalla Biblioteca di Pergamo. Fig. 4. Atene, Museo Nazionale. Base della statuetta di Atena Lenormant. della rappresentazione. Come hanno suggerito molti critici, solo ipotetica (sebbene estremamente plausibile) è la sua collocazione in asse con un percorso visivo, fattuale (e concettuale) dell’intero edificio che avrebbe legato in un intenso sistema di rimandi incrociati le scene scolpite su frontone, metope, fregio, statua di culto e basamento appunto. Di Pandora le due statue da Pergamo e da Atene lasciano comunque intuire lo schema iconografico, coerente con quanto è noto da un numero circoscritto di raffigurazioni ceramiche attiche antece- denti la creazione fidiaca (terminata, come bene informano fonti letterarie ed epigrafiche, nel 438 a.C.): in specie, la kylix a fondo bianco del Pittore di Tarquinia (dove è l’iscrizione Anesidora da intendere, in accordo con l’esegesi più accreditata, come un sinonimo per la stessa Pandora) ed il cratere del Pittore dei Niobidi da Altamura42 (Fig. 5). In entrambi i vasi, Pandora è raffigurata al pari di una ‘bambola’ (probabilmente, un’allusione sia alla materia che alle modalità della sua ‘creazione’), rigida e frontale, con un surplus di elementi antiquari utili a sottoline- 42 Pandora. Women in Classical Greece, E. D. Reeder (a cura di), Princeton 1995, pp. 282-284, n. 80; 279-281, n. 78 e J. Boardman, Pan- dora in the Parthenon: a grace to mortals, in K·ÏÏÈÛÙÂ˘Ì·. MÂÏÂÙ˜ ÚÔ˜ ÙÈÌËÓ Ù˘ OÏÁ· T˙·¯Ô˘-AÏÂÍ·Ó‰ÚË, Athinai 2001, p. 238, fig. 2. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 69 Fig. 5. Londra, British Museum. Cratere da Altamura del Pittore dei Niobidi (da «jhs», 11, 1890, tav. xi). arne l’arcaicità: fra questi si distingue il peplo. Accogliendo il suggerimento di Berczelly,43 proprio il peplo viene in certo modo a qualificarsi come archetipico di quello che le donne future (discendenti da Pandora) indosseranno ed anche come quello che, nelle cerimonie di Atene, costituiva il prezioso dono per la dea. Non a caso nelle due pitture Atena è presso Pandora e sul cratere l’accoglie, porgendole una corona; sulla kylix la dea è insieme ad Efesto, viceversa assente nel cratere dove compaiono altre sei divinità (Ares, Hermes, Afrodite?, Iris, Zeus e Poseidone: verosimilmente una parte di quelle stesse che l’attorniavano sul basamento). Pandora ha dimensioni minori rispetto agli altri personaggi sia per enfatizzare il suo status mortale rispetto ai compagni divini sia meglio, a mio parere, per visualizzare il momento della nascita/creazione; questo è espresso tramite l’indicazione dell’età adolescenziale dell’eroina44 – prodromo al suo destino di generatrice della stirpe umana – piuttosto che mediante quella di donna più matura (una maturità che è viceversa cifra di Afrodite). A fronte di questa redazione, altre sporadiche raffigurazioni ceramiche attiche coeve o di poco successive presentano, però, Pandora emergente dalla terra (nella soluzione iconografica di Ghe: infra, § 3) sempre tra divinità – oscillanti sia nel numero sia nel genere. Su un cratere a Oxford45 sopra Pandora coronata e velata, emergente dalla terra, vola un erote a segnalare forse il futuro matrimonio con l’uomo che – in veste corta, il martello nella mano destra – l’accoglie, tendendole la mano sinistra (probabilmente, Epimeteo). Boardman ha notato come le parche occorrenze di questo specifico motivo in Occidente non indizino una penetrazione del mito (presumibilmente noto da fonti varie e diverse, comprendenti solo in maniera indiretta anche Esiodo) che appare veicolato tramite le ceramiche attiche e legato in via preferenziale al ruolo ‘locale’ di Pandora ad Atene.46 Secondo Boardman, infatti, nelle modalità di presentazione le scene non riprendono il momento della nascita/creazione narrato nella versione esiodea (artefici Efesto che modella Pandora ed Atena che la veste) alla presenza degli dei (che riempiono di doni l’eroina). Viceversa, prospettano visivamente una genealogia ‘autoctona’ di Pandora in quanto ‘nata dalla terra’ e procedono nella direzione che pone la nascita di un eroe quale paradigma di autoctonia47 (infra: § 3); ne insinuano al contempo una dimensione ctonia cui non sarebbe estranea la 43 Berczelly, art. cit. a nota 40, pp. 75-85. 44 Contra: Beaumont, art. cit. a nota 8, pp. 355-356. 45 Hurwit, art. cit. a nota 38, p. 177, fig. 7; Pandora cit. a nota 42, pp. 284-286, n. 81. 46 J. Boardman, Pandora in Italy, in BCH Suppl. 38, 2000, pp. 51-56. 47 H. A. Shapiro, Autochthony and the Visual Arts in Fifth-Century Athens, in D. Boedeker - K. A. Raaflaub (a cura di), Democracy, Empire and the Arts in Fifth-Century Athens, Cambridge 1998, pp. 127-151. 70 maria elisa micheli componente di fertilità. Per Boardman48 è proprio questo duplice aspetto ‘locale e ctonio’ che permette di comprendere al meglio la presenza di Pandora sul basamento della statua di Atena Parthenos, sia perché lascia aperta la possibilità dell’esistenza di un culto per l’eroina (forse sulla stessa Acropoli), smorzandone la funzione di anti-Atena suggerita da Hurwit, sia perché in tal modo svincola gli dei che assistevano all’evento dall’accusa di perfidia nei confronti del genere umano cui li assoggettavano i testi esiodei. Nell’interessante lettura di Hurwit,49 Teogonia e Opere e Giorni sono usati per rispondere alla domanda circa la scelta del tema: in consonanza con la poetica esiodea, sarebbe la misoginia ad assumere il ruolo di elemento fondante – per le sue molteplici implicazioni – nella costruzione mitologica attuata ad Atene ed esibita sulla base partenonica. Una tale costruzione sarebbe imperniata sì sull’autoctonia, ma soprattutto sul patriarcato, secondo ripartizioni di gender garantite proprio da Atena; la scelta di Pandora sarebbe pertanto espressione dell’élite maschile alla quale dà corpo il modo di presentare iconograficamente l’eroina. Rigida e frontale, Pandora si mostra assolutamente passiva: in questa sua condizione offrirebbe una dissonante anomalia a fronte della divinità la cui eikon la sovrasta, ponendosi con essa in relazione oppositiva. Tuttavia, mi sembra che Pandora – sul basamento Parthenos come la dea – sia piuttosto in relazione di reciprocità con Atena: significativa, in tal senso, mi sembra la circostanza che l’arrivo di entrambe sia salutato, alludendo quasi ad un’apoteosi, da un’assemblea costituita dagli stessi personaggi divini. Pandora è ovviamente dipendente da Atena che non la crea ma, come nel caso di Erittonio, è il tramite primo del suo inserimento nel consorzio civile, messo in atto attraverso la presentazione agli Olimpi; in tal modo viene accennato il legame profondo tra Atena e la città di cui la dea è garante nello svolgimento delle pratiche rituali e, più ampiamente, sociali e civiche.50 In questa prospettiva, non c’è affatto bisogno – come fa Robertson51 – di rivolgersi all’ethnos di Esiodo per prospet- tare una tradizione beotica del mito (per di più politicizzandolo in relazione al controllo ateniese sulla Beozia seguito alla battaglia di Cheronea), accentuando inoltre il ruolo di Atena come dea protettrice del lavoro femminile. La scelta del tema si iscrive entro il sistema relazionale innescato dalla ‘novità’ della stessa statua di culto e, più che le opere di Esiodo sulle quali si è concentrata la critica, deve tenere nel giusto conto la popolarità del mito di Pandora in Attica (in periodo non lontano dalla creazione fidiaca), così come divulgato dal dramma satiresco di Sofocle: non a caso, a questo potrebbe alludere il choros di satiri e l’aulistra sul cratere da Altamura. La connotazione negativa del mito di Pandora in Esiodo è un ostacolo ad ogni comprensione più ‘positiva’, mentre il dramma satiresco sofocleo, rendendo popolare la tradizione attica di Pandora, riusciva a far risaltare al meglio il ruolo di Atena che, con la sua liberalità, viene a stemperare le conseguenze tragiche della creazione dell’eroina e dei doni offertile dagli dei. In tal senso mi sembra condivisibile la lettura di Fehr,52 poiché ribadisce come la Parthenos nel suo complesso legittimi gli aspetti del programma politico pericleo, trasgredendo dal concetto tradizionale di divinità poliadica per acquisire una valenza universale, coerente con le nuove strutture della polis. È questa sua immagine, in quanto manifestazione tangibile dell’autorità dello Stato, ad essere proposta sui rilievi di decreto. La scultura contempera aspetti all’apparenza antitetici, conservativi ed innovativi promossi dal circolo intellettuale del filosofo Anassagora, dal momento che smorza la recepta religio con i temi dell’attualità politica e della lectio orientalis che, sul piano fattuale, investono i materiali usati per la sua realizzazione. Il formato, ma soprattutto lo schema (con gli attributi quasi autonomi) trovano un referente nel colossale Apollo Delio, opera di Tektaios e Angelion, al quale si riconnette anche nel significato.53 Rispetto ad altre statue di divinità femminili coeve, Atena mantiene una vocazione da signora della natura (sottesa dagli animali favolosi posizionati 48 Boardman, art. cit. a nota 42, pp. 241-242. 49 Hurwit, art. cit. a nota 38, pp. 171-186. 50 In questo contesto verrebbe fatta salva anche la partecipazione ‘attiva’ delle donne, come è inferibile dalle raffigurazioni ceramiche che recuperano il concetto di ‘cittadinanza religiosa’ per le donne ateniesi a fronte del loro ruolo più marginale come ‘soggetti’ politici: cfr. O. Borgers, Religious Citizenship in Classical Athens. Men and Women in Religious Representations on Athenian Vase-painting, in babesch , 83, 2008, pp. 73-97. 51 N. Robertson, Pandora and the Panathenaic Peplos, in The Parthenon and its Sculptures, Cambridge 2004, pp. 98, 102-106. 52 B. Fehr, Die Parthenos im Parthenon zwischen Recepta Religio und politischen Kalkül, in Hephaistos, 19/20, 2001/2002, pp. 39-66. 53 M. E. Micheli, La statua di Apollo Delio, opera di Tektaios e Angelion, in Prospettiva, 79, 1995, pp. 17-18 (ivi bibl.). scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 71 nell’elmo) che, nell’attualità, si declina come impreb) uno proveniente da Roma, ma di cui si ignora il scindibile strumento di civilizzazione; rimarca il luogo di rinvenimento prima della sua collocazione concetto di aretè – concretamente richiamato da nel Palazzo Del Drago (già Massimo alle Quattro Nike esibita nella mano – che, oltre all’azione politiFontane), di epoca tardoadrianea; ca, allude alle qualità condivise mediante le quali si c) uno venuto alla luce a Corinto nel corso degli tende al raggiungimento di un fine elevato. Le tescavi condotti nell’Asklepieion, di età protoantonina. chnai sono ostentate nell’opulenza degli ornamenti, Sono questi i documenti che le ricerche attuali, a che aumentano la ‘grazia’ della dea: se per Apollo fronte della discreta credibilità goduta fino alla metà Delio il concetto di Charis/Metanoia era fisicamendel Novecento, hanno espunto dal corpus fidiaco, nete ricordato dal gruppo delle tre Charites, per Atena gando loro un’identità, poiché insistono sulla dispaesso si dispiega scomponendo i singoli attributi (perità (stilistica e cronologica) dei modelli dai quali deraltro ambivalenti) e guardando specificamente alla rivano le singole figure divine che, nel caso dei presenza di Pandora, sul basamento attorniata dalle marmi b-c, sono amalgamate da stilemi e codice fordivinità olimpie. Proprio lì verrebbe a concretarsi il male classicistici. concetto collettivo di oi theoi ai quali si coordina Pana) Il frustolo di rilievo a Rodi (Fig. 6) – insieme alla dora che sarebbe da intendere non come un’antistatua pergamena – si presenta come una delle testiAtena, ma piuttosto come una proiezione della dea monianze più antiche, se non altro a livello di tradialla quale apporta una componente erotica: nella cozione e recezione iconografica di uno schema iconostruzione di gender, potremmo dire che attraverso grafico e compositivo che doveva comunque essere Pandora vengono bilanciati maschile e femminile rappresentato sul basamento fidiaco. Innegabile è, tanto che dall’unione di suo figlio e di sua figlia oriinfatti, la stretta concordanza tra la figura femminile gineranno uomini e donne. Nonostante l’accezione scolpita sul frammento a Rodi e la peplophoros sulpositiva così ammessa al mito, dubito però che quel’estremità sinistra della base dell’Atena da Pergamo sta sua specifica valenza si sarebbe potuta mantenere (Fig. 7), dove compone un gruppo coeso di tre donscissa dalla statua soprastante; anche in forza di quene (le Cariti) tutte vestite di peplo. Identica è la posta osservazione, mi sembra da escludere l’ipotesi stura della figura che, stante sulla gamba sinistra con che vuole riconoscere la vicenda di Pandora nella sela destra di poco flessa, ha il torso appena inclinato rie molto lacunosa di frammenti marmorei rivenuti all’indietro (un movimento proposto in modo più nei pressi dell’Agorà,54 di cui restano incerte funziomarcato nel rilievo da Rodi rispetto alla scultura da ne e collocazione, interpretandoli come parte di un Pergamo, tanto che le pieghe del peplo formano un fregio ad altorilievo nello stile e nella forma di quello arco più accentuato e un rotolo più rigonfio sopra il dell’Eretteo che, realizzato a poca distanza temporabacino, secondo modi di un linguaggio stilistico più le dalla statua di culto partenonica, avrebbe riproporecente); il braccio sinistro è piegato al gomito, con sto un analogo soggetto. la mano impegnata a reggere un lembo dell’himaAl di là delle interpretazioni possibili circa il signition. Questo è passato a coprire il capo lievemente ficato connesso alla scelta di un tale mito, rimane piegato in basso come rivela proprio il rilievo a Rodi, comunque vago individuare la formulazione comladdove il marmo da Pergamo mostra una lacuna plessiva della teoria divina che sul basamento partenella figura che, dal petto, si spinge fino alla testa; la nonico accoglieva Pandora, riempiendola di doni. A donna conserva, però, il braccio sinistro piegato e tal riguardo non apportano informazioni incontrosollevato con un gesto congruo a trattenere, discovertibili tre rilievi in marmo, tutti frammentari, per sto dal volto, il panneggio. Schuchhardt,55 indivil’appunto oggetto di discussione: duando i resti di una cetra e la punta delle dita dietro a) uno rinvenuto a Rodi risalente all’avanzata età il personaggio femminile sul rilievo a Rodi, ne ha ellenistica; suggerito la pertinenza ad Apollo (nel tipo, vestito, 54 E. B. Harrison, The Classical High-Relief Frieze from the Athenian Agora, in H. Kyrieleis (a cura di), Archaische und klassische griechische Plastik, II, Mainz 1986, pp. 109-117 suggerisce, senza comunque insistere, che avrebbero potuto decorare il grande altare sull’Acropoli o un parapetto (?) elevato attorno al santuario di Atena Ergane sull’Acropoli (Berczelly, art. cit. a nota 40, pp. 70-75; Hurwit, art. cit. a nota 38, p. 177 nota 19). Un’altra ipotesi propone di riferire i fram- menti alla decorazione della base di culto del tempio di Ares: sintesi in Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, p. 136. 55 W. H. Schuchhardt, Zur Basis der Athena Parthenos, in Wandlungen. Studien zur antiken und neueren Kunst Ernst Homann-Wedeking gewidmet, Waldassen 1975, pp. 120-130. Cfr. anche Fuchs, op. cit. a nota 17, p. 131, n. 17. 72 maria elisa micheli Fig. 6. Rodi, Museo Archeologico. Rilievo frammentario con peplophoros. del citaredo), prospettando che fosse seguito da Artemide e Latona. In tal caso, anche la lacuna sull’estremità sinistra della base di Pergamo potrebbe venire completata con quella divinità; la presenza di Apollo si integrerebbe bene nella teoria divina, pur senza certezza nei realia. Guardando ai modi stilistico-formali del marmo, Schuchhardt ha ritenuto le figure derivate da convenzioni formali più tarde rispetto all’epoca di realizzazione della statua di culto fidiaca: a suo avviso, nella figura femminile sono accentuate le linee curve a fronte delle clausole statiche, espresse con rigore dalle solenni peplophoroi della processione partenonica. Facendo perno su tale elemento, espunge il pezzo dalla virtuale ricostruzione dell’apparato figurativo della base partenonica: ma, come accennato sopra, la recenziorità del codice espressivo è dovuta al linguaggio proprio dell’epoca di realizzazione del marmo e non è a mio parere un elemento imputabile (e quindi da valutare in relazione) al modello originario. b) Egualmente dissonante rispetto al virtuale modello, è il rilievo Del Drago a Roma (Fig. 8) in cui lo stile classicistico lega in maniera eccellente le figure di Fig. 7. Peplophoros: particolare dalla base della statua di Atena dalla Biblioteca di Pergamo. Zeus, Ade, Kore, Poseidone, Anfitrite. Prese ad una ad una, queste sono lessicalmente distanti tra di loro pur se tutte derivate da prototipi interpolati sulla traccia dell’esperienza fidiaca in consonanza con quanto attuato sul puteale della Moncloa o – pur nella recenziorità dei modelli – dal tracciato proposto sull’altare dei dodici dei a Ostia. Le modalità compositive, che mostrano figure spazieggiate e secondo raggruppamenti binari, sono viceversa sintatticamente congrue con la teoria divina attorno a Pandora come è appena indiziata dalla base della statua pergamena: la scena, infatti, non avrebbe dovuto avere un intento narrativo, ma, attraverso lo schema giocato sulla paratassi e la simmetria, avrebbe dovuto corrispondere con immediatezza a ciò che stava accadendo. L’ambivalenza dei tipi iconografici è stato uno degli elementi usati per declassare il rilievo dal ruolo fondante, già attribuitogli da Schrader, Becatti e dalla Leipen56 nell’ambito delle derivazioni fi- 56 Leipen, op. cit. a nota 20, pp. 25-27; contra Palagia, op. cit. a nota 1, p. 73 con altra bibl. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 73 Fig. 8. Roma, Museo Nazionale di Palazzo Altemps. Rilievo Del Drago. diache, e per interpretarlo come nuova creazione, scartata pure una proposta ‘di mediazione’ ossia che si tratti della ri-proposizione da un rilievo di età tardoclassica. Sarebbe un’opera di bottega classicistica di epoca adrianea-protoantoniniana che, combinando modelli diversi, riesce ad ottenere una composizione ‘rispettosa’ di norme in vigore nel pieno periodo classico. Così, in ultimo, la Böhm cui si deve il più recente contributo sul rilievo che, dopo avere ripercorso la letteratura precedente, esamina ciascuna figura, censendone con minuzia lo stemma.57 Tuttavia, anche ricorrendo alla ‘nuova creazione’, va comunque considerato quanto incida nella pratica lavorativa di una bottega – che dobbiamo pensare altamente specializzata – la conoscenza delle virtuali (?) fonti iconografiche di riferimento, le quali consentono la creazione di un tale pezzo. Nel caso dei materiali derivati dalla Parthenos, la forza propulsiva del prototipo è certamente ben esemplificata dalle numerose ‘riprese’ dello scudo: sia da quei marmi che miniaturizzano (e semplificano) il modello nella sua interezza, sia dalle singole raffigurazioni – talvolta combinate con diverso ordine – trasferite sui pinakia. Del resto, questo medesimo procedimento ‘scompositivo’ è documentato dalla base di candelabro nei Musei Vaticani,58 che itera con fedeltà tre del- le figure (Kore, Ade, Poseidone) scolpite sul marmo in esame. In accordo con la ‘più vecchia’ letteratura, preferisco da subito orientarmi nel considerare il rilievo ancora una blanda filiazione dalla creazione fidiaca, anziché un mero centone di tipi; è una derivazione certo ‘stratificata’ nella descrizione dei singoli personaggi, attualizzati nei dettagli, ma non nell’impostazione generale (procedimento per certi versi apprezzabile nella ‘sintesi’ attuata sul puteale della Moncloa). Esercizio accademico è, però, usare il rilievo per ricostruire l’originaria teoria divina fidiaca, per di più collocando i personaggi alla destra o alla sinistra di Pandora, benché vada riconosciuto che, rispetto al virtuale fuoco offerto dall’eroina, la direzione di Zeus e di Poseidone ne lascerebbe supporre il posizionamento nella metà a destra. La possibile sequenza delle divinità, infatti, è resa ancora più ‘aerea’ se consideriamo insieme la base della statua pergamena ed il rilievo a Rodi: prendendo a valore facciale il rilievo rodio, dietro al gruppo delle Cariti – alla destra di Pandora – avrebbe dovuto trovarsi Apollo, che quasi tutte le ipotesi ricostruttive, presentate in un quadro sinottico dalla Leipen, tendono viceversa a sistemare nella zona a sinistra di Pandora. La destra, infatti, sarebbe occupata dalla serie divina proposta dal rilievo Roma-Corinto. 57 Böhm, op. cit. a nota 2. pp. 93-105. 58 H. U. Cain, Römische Marmorkandelabre, Mainz 1985, p. 190, n. 108, tavv. 13, 1-2; 17, 4; 75, 4. 74 maria elisa micheli Fig. 9. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. Disegno di Raymond Lafage riproducente il rilievo Del Drago. Realizzato in pentelico,59 il rilievo Del Drago è un pezzo in sé famoso, citato nelle immagini barocche e discusso negli studi di antiquaria: un’incisione in controparte negli Admiranda di P. S. Bartoli (tav. 28) con la didascalia «in aedibus Cardinalis de Maximis» ne documentava la presenza nelle collezioni d’arte di una figura di grande spicco nel mecenatismo romano del secondo Seicento. Un disegno (Fig. 9), nel taccuino del narbonese Raymond Lafage datato al 1679, permette di verificarne meglio lo stato di conservazione, offrendo al contempo una preziosa testimonianza della sua permanenza nel palazzo alle Quattro Fontane, quando questo era passato in proprietà del cardinale Nerli. Rispetto al marmo, nel disegno la conformazione della testa di Zeus e la terminazione della spalliera del trono sembrano antecedenti a quella attuale; è assente la phiale tenuta nella mano destra di Ade; mancano il basso polos e il mantello sulla testa di Kore, mentre il panneggio sotto il braccio sinistro è tratteggiato a matita (forse per indicarne lo stato lacunoso) al pari di una piccola porzione di panneggio sotto il braccio sinistro di Anfitrite. Questi elementi sono stati obliterati nell’incisione nei Monumenti Inediti (i, tav. 19) di Winckelmann e in quella successiva nei Bassirilievi di Zoega (i, 1808, pp. 1-5), dove è tuttavia assente la spalliera del trono ed una linea indica la lacuna alle spalle della divinità. Sono infatti moderne la finitura a pigna della spalliera del trono di Zeus e le dita della mano sinistra, mentre la testa ed il collo della divinità sono di fattura antica, anche se profondamente rilavorati (in coerenza con l’informazione di Lafage); è stata ribassata la superficie originale in corrispondenza della parte inferiore sinistra del trono per renderla omogenea a quella di restauro. Sono esito di integrazioni moderne il braccio destro e la mano con la phiale di Ade; la mano sinistra di Kore e la zona superiore della testa; l’indice sinistro di Poseidone e risulta integrata la zona sinistra (piede, parte della veste, braccio e mano) di Anfitrite, compresa nell’aggiunta apposta al margine destro della lastra. Il rilievo è chiuso in alto e in basso da una cornice – articolata in listello piatto e gola rovescia – che funge da piano di posa per le figure, resa nella medesima scansione di quella sul rilievo a Stoccolma (infra: § 4); sono stati sagomati i risvolti angolari superiori per limitare la scena entro uno spazio uniformemente incorniciato; nella metà superiore uno scialbo rosato unificava le parti ag- 59 Il rilievo, completo dei restauri, è lungo cm. 148, alto cm. 61, spesso cm. 9. Tracce di doratura moderna presenta la testa di Anfitrite, mentre i piedi di Ade conservano pigmenti giallini; questi elementi hanno fatto pensare alla presenza di una cornice dorata, che avrebbe dovuto completare il marmo quando era collocato nella loggia di Palazzo Massimo alle Quattro Fontane, secondo quanto emerge dai pagamenti relativi al 1670 della famiglia Massimo a Rocco Lolli (M. Pomponi, La collezione del Cardinale Massimo e l’inventario del 1677, in Camillo Massimo, collezionista di antichità. Fonti e materiali, (Xenia Antiqua Monografie 3), 1996, inv. 1677 nota al n. 19). scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 75 giunte a quelle antiche. Becatti60 suggeriva che la porzione antica nella sezione inferiore sinistra del rilievo, privo di cornice, poteva lasciar credere che la lastra si collegasse ad altre per comporre un fregio più lungo dell’attuale, benché nulla sul pezzo sia effettivamente riscontrabile in tal senso. Zeus, rivolto a destra, è seduto in trono; è nudo nella parte superiore del corpo, mentre l’himation dal braccio sinistro sollevato (che nella mano avrebbe dovuto stringere lo scettro) ricade parallelo al busto fino ad avvolgere completamente le gambe; nella mano destra abbassata tiene i fulmini. Segue Ade stante, avvolto nel mantello, con la cornucopia nella sinistra mentre nella destra scesa avrebbe forse potuto tenere la chiave (o, secondo altra ipotesi, lo scettro) al posto della phiale; gli è accanto Kore frontale, che comFig. 10. Corinto, Museo Archeologico. Rilievo frammentario. pie un gesto ampio con il braccio sinistro sollevato all’altezza del capo. La figura è matronale e nella postura assimila il modo di rappresentare Demetra, di nella medesima modalità usata sul marmo a Roma. cui assume anche l’abito – il peplo – a differenza di Come sul rilievo Del Drago, l’appoggio del braccioquanto avviene quando Kore è in compagnia della lo del trono è costituito da una piccola sfinge, che lamadre. La coppia seguente propone Poseidone ed scia pensare ad una semplificazione rispetto al grupAnfitrite. Di profilo a destra, il dio ha il piede sinistro po Sfinge/fanciullo tebano sul trono dello Zeus di poggiato su uno scoglio ed il lungo scettro puntato Olimpia. Sul frammento a Corinto, dietro a Zeus è a terra tenuto nella mano corrispondente serve anperò scolpita un’imponente figura femminile, priva che a bilanciarlo; lo schema recepisce echi di figure della testa e di parte del torso che integra la sequenza partenoniche avvolte nel mantello, benché ad epoca Del Drago. Frontale, vestita di chitone altocinto, più tarda rimandi la posizione dei piedi. Egualmente pondera sulla destra ed avanza appena la sinistra; il Anfitrite, che porta le braccia alla spalla sinistra per braccio sinistro è sceso lungo il corpo e la mano allacciare il mantello, propone un gesto peculiare ad stringe un lembo del mantello che risale dietro le Afrodite (così ripresa sull’oinochoe del Pittore di spalle ed avrebbe potuto coprire il capo. Più che HeHeimarmene),61 successivamente esibito a tutto be, preferisco con Becatti interpretare il personaggio tondo nell’Artemide di Gabi. Tutte le figure – al di là come Hera, che insieme a Zeus continua la serie deldei riferimenti ad opere a tutto tondo o di quelli dele coppie divine secondo la modulazione ritmica e sunti dalle citazioni sulle ceramiche – rientrano in un parca di gestualità, suggerita dal rilievo Del Drago. repertorio ben attestato in Attica su rilievi votivi, documentari e funerari postfidiaci. I modi di lavorazione dei marmi a Roma e Corinto, in cui spicca il trattamento metallico delle pieghe, c) La stessa figura di Zeus ritorna su un rilievo estrerinviano ad epoca adrianea e protoantoniniana. A mamente frammentario a Corinto (Fig. 10), rinvenuquesta si confà il codice formale classicistico, coerento nell’area dell’Asklepieion:62 rispetto al pezzo Del te, pur nelle diversità della manifattura, con le soluDrago, è appena variata, nel più opulento dispiegarsi zioni attuate sul rilievo con gli Asclepiadi al Louvre, della stoffa, la sovrapposizione dei lembi dell’himagià nella collezione Borghese,63 sul rilievo Vaticano tion sulle gambe realizzati con solchi profondi e pecon la nascita di Erittonio da Villa Adriana (infra: § 3) santi propri dell’età protoantonina. Acefalo, privo e sul rilievo a Stoccolma di provenienza urbana (indelle gambe da sotto il ginocchio e del braccio sinifra: § 4). La conformazione del rilievo Del Drago e le stro, nella mano destra Zeus trattiene i fulmini resi 60 G. Becatti, Problemi fidiaci, Milano 1951, pp. 53-70. 61 ARV2, p. 1173, nº. 1. 62 Marmo pentelico; h. cm 52, l. cm 57, spess. cm 9. Carpenter 1933, p. 65, fig. 23; Becatti, op. cit. a nota 60, pp. 53-70; Palagia, op. cit. a nota 1, p. 73 e fig. 12. Cfr. Micheli, art. cit. a nota 5, pp. 94-95. 63 Böhm, op. cit. a nota 2, pp. 111-120, fig. 68 76 maria elisa micheli Fig. 11. Parigi, Louvre. Rilievo con la nascita di Erittonio. sue dimensioni (comprese quelle delle figure, che emergono in plastico aggetto) rendono ipotizzabile una collocazione ancorata ad una struttura ad un’altezza non superiore ai due metri se non meglio, puntando sulle dimensioni delle figure, a livello dell’occhio. Dubbio resta, come s’è accennato, se la scena proseguiva o meno su una lastra contigua in modo che a Zeus (come prospetta il marmo a Corinto) fosse affiancata la compagna. Comunque, per quanto concerne la sistemazione ‘funzionale’, va valutato se può essere in toto accettata la considerazione della Nick64 circa il fatto che i rilievi di età romana con temi desunti dalle diverse raffigurazioni presenti sulla statua partenonica rivestano una pura funzione decorativa e, non lasciandosi circoscrivere ad un contesto unidirezionale, servano soltanto come oggetti da esibire in aree pubbliche e private in quanto articoli di lusso. In questo caso specifico, però, il soggetto appare concepito come un universo spaziale chiaramente ordinato in cui i gesti sobri dei personaggi raffigurati contribuiscono a corroborare l’identità delle figure divine e la pur raggelata teoria sembra andare oltre l’intento semplicemente decorativo, mantenendo una timida valenza cultuale che può alludere a paradigmi ideali (voluta o casuale l’assenza dell’elemento denotativo, costituito da Pandora). I dati di rinvenimento noti per il frammento a Corinto non apportano elementi utili per una sua collocazione e l’assenza di informazioni topografiche ‘mirate’ per il rilievo a Roma, al di là delle vicende antiquarie che ne documentano le manipolazioni subite, gioca a sfavore per formulare ipotesi relative al suo posizionamento. È il soggetto, tuttavia, che sollecita alcune considerazioni potenzialmente utili a tal fine: rivela anzitutto un atteggiamento retrospettivo il quale si adegua al modello greco e, tramite le modalità stilistico-formali, si configura come una precisa scelta culturale. Soggetto e codice di presentazione corrispondono in pieno ad alcune delle tendenze perseguite sotto Adriano, che affermano una fase atticizzante65 promossa a Roma almeno con una doppia strategia: sia attraverso il linguaggio artistico sia attraverso la selezione di temi e saghe mitiche. Il soggetto recupera nei fatti una solenne teoria olimpia (apparentemente scissa da un determinato episodio mitico) che, nella cadenza stessa, suscita un’attitudine cultuale, suggestionando una possibile collocazione in un contesto a vocazione sa- 64 Nick, op. cit. a nota 13, p. 179. 65 Böhm, op. cit. a nota 2, pp. 9-20. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 77 cra. Secondo tale prospettiva non sarebbe da escludere nemmeno una sistemazione che evoca quella del presunto modello, ovvero la decorazione di un basamento (possibilmente) ‘di culto’. In tal caso, viene spontaneo pensare alla base che avrebbe dovuto accogliere le immagini nell’imponente tempio di Venere e Roma se non a quella nel tempio eretto per onorare una nuova dea: Matidia. Matidia (come riferiscono le fattezze idealizzate nella testa maggiore del vero dagli Horti Calyclani sull’Esquilino) andava ad occupare degnamente il suo posto tra gli Olimpi, ai quali già Adriano si era già omologato, fra l’altro imponendo ad Atene una sua immagine nella cella del Partenone (infra: § 3): e non credo si tratti di casualità il fatto (evidenziato dalle indagini della Karanastasses)66 che, proprio a partire dall’età adrianea, si verifica in Grecia una ripresa del tipo della Parthenos. Sarebbe una sistemazione in sintonia con quanto è stato suggerito per una serie di rilievi con donne ghirlandofore e tempio, ascritti con buona verosimiglianza alle celebrazioni della diva Sabina.67 Sono peFig. 12. Musei Vaticani. Rilievo frammentario raltro aspetti di una tendenza culturale ‘indirizzata’ con la nascita di Erittonio da Villa Adriana. che è percepibile con maggiore forza nella villa tiburtina dell’imperatore, dalla quale proviene per staurato nell’atelier di Bartolomeo Cavaceppi, del ril’appunto il rilievo frammentario nei Musei Vaticani lievo Albani non è conosciuta una provenienza ancon la nascita di Erittonio. che solo virtuale; trasferito a Parigi dopo il trattato di Tolentino, non rientrò in Italia a seguito degli 3. I rilievi Vaticano-Louvre accordi di Vienna. Presente fin dal 1806 nella descricon la nascita di Erittonio zione delle antichità del Museo Chiaramonti, del frammento in Vaticano sono noti il generico rinveniDue rilievi in pentelico raffigurano la nascita di Eritmento, avvenuto alla fine del xviii secolo, a Villa tonio: più completo al Louvre, dalla collezione AlbaAdriana, nonché la messa in vendita da parte di Anni68 (Fig. 11); frammentario nei Musei Vaticani, da tonio Gastaldi.70 Due disegni di Agostino Penna,71 Villa Adriana69 (Fig. 12). Le notizie antiquarie sulla uno dei quali tradotto in incisione alla tavola cxxvi storia dei due marmi si possono riassumere così: re- 66 P. Karanastasses, Untersuchungen zur kaiserzeitlichen Plastik in Griechenland, 2. Kopien, Varianten und Umbildungen nach Athena-Typen des 5. Jhs. v.Chr., in AM, 102, 1987, pp. 390-393, 396-400. 67 L’ipotesi è stata avanzata considerando sia la provenienza sia la scena scolpita sul rilievo Borghese con donne ghirlandofore e tempio al Louvre. L’evento, proposto con un formulario compositivo, stilistico e formale di ascendenza classica, verrebbe così appena accennato e la scena risulterebbe sospesa nel tempo e nello spazio. Per esso sarebbe confacente la sistemazione in un hortus deliciarum (M. E. Micheli, Rilievi con donne offerenti, danzanti e ghirlandofore a Ravenna e a Roma. II, in Prospettiva, 101, 2001, pp. 48-49). * Il paragrafo riprende, con alcune varianti, il testo edito: Rilievi romani con la nascita di Erittonio, in RendPontAcc, 79, 2006-2007, pp. 13-34. 68 H. cm 65; l. cm 110. Fuchs, op. cit. a nota 17, p. 134; U. Kron, Die zehn attischen Phylenheroen. Geschichte, Mythos, Kult und Darstellungen, (AM 5.Beiheft), Berlin 1976, pp. 63-64, 251, n. E 18; Les antiques du Louvre. Une histoire du goût d’Henri IV à Napoléon Ier, Paris 2004, p. 193, fig. 212; Böhm, op. cit. a nota 2, p. 35, fig. 18. 69 H. cm 44; l. cm 41. Fuchs, op. cit. a nota 17, p. 134; Kron, op. cit. a nota 68, pp. 63, 251, n. E 17; Bildkatalog der Skulpturen des vaticanischen Museum, 1. Museo Chiaramonti, Berlin 1994, n. 643, tav. 430; Böhm, op. cit. a nota 2, p. 35. 70 Si tratta di Antonio Gastaldi, venditore di antichità, che aveva una bottega ‘in strada Condotti sotto il palazzo del Marchese Nunez al nº. 18’: B. de Divitiis, New evidence for Sculptures from Diomede Carafa’s Collection of Antiquities, in JWCI, 70, 2007, p. 103 nota 11. 71 P. Baldassarri, L’opera grafica di Agostino Penna sulla Villa Adriana (Mss. Lanciani 138), in RIASA, 11, 1998, pp. 30-31, n. 9. Disegni a matita sono in Ms. Lanciani 138, f. 7r; Ms. Lanciani 36, f. 157r. Qui, sopra il margine superiore del disegno, è l’indicazione a penna “tav. 122”; sul verso è annotato: “Frammento di bassorilievo con la nascita di un qualche nume, o eroe sono della Villa Adriana. Acquistati dal sig. Antonio Gastaldi e ora nel Museo Chiaramonti nº. 642 e 643 nel tomo primo del Museo Chiaramonti”. 78 maria elisa micheli del tomo iv del Viaggio pittorico a Villa Adriana, ne visualizzano lo stato di conservazione intorno agli anni ’20 dell’Ottocento. Dal Penna vengono riportate poche informazioni sulla scoperta, a suo dire avvenuta insieme ad un piccolo frammento di rilievo con figura femminile (una Hora), meglio conosciuta dalla serie Roma-Firenze-Monaco.72 Ma una tale notizia sembra dipendere piuttosto dalla circostanza che anche quel pezzo fu venduto nel medesimo lasso di tempo ai Musei Vaticani dallo stesso personaggio, Antonio Gastaldi. Dal fondo di entrambi i marmi emerge fino a mezza coscia un’imponente figura femminile, vestita di peplo (Ghe). Volge in alto la testa cinta dal diadema, accompagnando così il gesto delle braccia levate a porgere un infante (Erittonio) ad un’altrettanto imponente figura femminile che le sta davanti (Atena), vestita di chitone e himation. Questa è stata integrata come una vezzosa Ninfa sul marmo al Louvre, mentre sul frammento in Vaticano è conservata soltanto dalle anche ai piedi, calzati di sandali intrecciati. Sul pezzo a Parigi Atena è poi seguita da un personaggio maschile (le gambe di profilo, volto e torso di prospetto) che doveva impugnare nella mano destra un lungo scettro di cui resta un lacerto presso la coscia; in scala minore rispetto alle dimensioni delle altre figure, è seduto su un blocco, conformato a zampa leonina ad una estremità. Inoltre, alle spalle del gruppo Ghe/Erittonio è un personaggio stante, appoggiato ad un pilastrino (sul frammento in Vaticano si conserva solo il piede sinistro), che sul rilievo al Louvre è stato integrato come femminile: della parte antica rimane la metà inferiore del corpo, dai piedi ai fianchi. Si tratta in realtà di una figura maschile, così già riconosciuta nel Clarac in base al dettaglio antiquario della veste, il ÙÚ›‚ˆÓ appunto, estraneo al costume femminile. La giusta individuazione del soggetto scolpito sul marmo al Louvre compare già nel Clarac73 dove nella tavola a stampa una linea puntinata segnala correttamente l’intervento di restauro, mentre nella didascalia è proposto ancora «Bacchus. (Naissance de)» in contrasto con il commento offerto nella scheda analitica. Qui, infatti, viene emendata la precedente lettura di Visconti che aveva inteso la scena come pertinente al bios di Dioniso; per l’antiquario, il dio infante sarebbe stato affidato alle Ninfe – di Nysa o Dodona – incaricate da Zeus di prendersi cura del piccolo, in coerenza con quanto raffigurato sul celebre cratere di Salpion portato a confronto.74 Seguendo Panof ka, invece, il soggetto viene ora interpretato per la nascita di Erittonio: è il momento della consegna del piccolo ad Atena da parte della dea della terra, Ghe. Come evidenziò il Duca di Luynes in una brevissima nota edita nel 1829, fondamentale per questo riconoscimento era stata la raffigurazione dipinta su un vaso in proprietà del Principe di Canino; la stessa permetteva anche di escludere l’interpretazione avanzata da Guattani per il frammento in Vaticano, letto in relazione alla nascita di Zeus.75 L’identificazione della scena, ben definita agli inizi dell’Ottocento, ha ricevuto conferma soprattutto dalla documentazione nella ceramica attica a figure rosse; in particolare, la scena dipinta sulla kylix del Pittore di Kodros a Berlino,76 corredata di didascalie indicanti i nomi dei diversi protagonisti (sia le divinità che gli eroi), mostra in un gruppo chiuso Ghe/ Erittonio/Atena seguita da Efesto (Fig. 13) secondo 72 Fuchs, op. cit. a nota 17, pp. 63-65; Bildkatalog cit. a nota 69, n. 642, tav. 432. Nel disegno del Penna (Ms. Lanciani 36, f. 157r) il frammento con Hora è rappresentato fedelmente; il frammento con Erittonio mostra invece qualche inesattezza rispetto all’originale. La linea di frattura superiore non ha lo stesso andamento del marmo; la testa dell’infante è posta più in alto di quella del personaggio femminile ed in maniera imprecisa è riprodotto il piede che compare sull’estremità destra. 73 Qui è il marmo è definito pario: F. de Clarac, Musée de sculture antique et moderne, II, 1, Paris 1841, n. 104, tav. 123. Procedendo da sinistra a destra, l’intervento di restauro interessa il braccio destro con lo scettro, collo e testa del personaggio maschile seduto; la metà superiore del corpo di Atena; le dita della mano destra di Erittonio; il braccio sinistro e la sommità della calotta di Ghe; la metà superiore del corpo del personaggio appoggiato al pilastrino. 74 D. Grassinger, Römische Marmorkratere, Mainz 1991, pp. 175177, n. 19. Interessante, comunque, la fortuna della kourotrofia dionisiaca in età romana: cfr. il rilievo da Falerii, F. Sinn (a cura di), Vatikanische Museen, Museo Gregoriano Profano ex Lateranense. Katalog der Skulpturen III, Reliefgeschmückte Gattungen römischer Lebenskultur. Grie- chische Originalskulptur. Monumente orientalischer Kulte, (Monumenta Artis Romanae xxxiii), Wiesbaden 2006, pp. 200-202, n. 71, tav. 61. 75 AnnIst, 1, 1829, pp. 298, 397-399. (Cfr. Monumenti inediti pubblicati dall’Istituto di Corrispondenza Archeologica, I, Parigi-Roma 1829, tav. xii, 1 a); Il Museo Chiaramonti aggiunto al Pio Clementino da N. S. Pio VII P. M. con l’esplicazione dei sigg. Filippo Aurelio Visconti e Giuseppe Antonio Guattani, I, Roma 1808, tav. xliv, 3. 76 Da Tarquinia, databile intorno al 430 a.C. All’interno della kylix è la raffigurazione di Eos e Kephalos: ARV2, p. 1268, 2; C. Bérard, Anodoi. Essai sur l’imagerie des passages chthoniens, (BiblHelveticaRom, xiii), Roma 1974, tav. 2, fig. 4; H. Metzger, Athéna soulevant de terre le nouveau-né: du geste au mythe, in Mélanges d’histoire ancienne et d’archéologie offerts a Paul Collart, Lausanne 1976, pp. 295-296, fig. 2; Kron, op. cit. a nota 68, p. 250, n. E 5; Pandora cit. a nota 42, pp. 258-260, n. 70. Va comunque ricordato che, nonostante ciò, Ch. Picard, Trois basreliefs «éleusiniens», in BCH, 55, 1931, pp. 36-37 interpretava il marmo al Louvre entro una prospettiva eleusina, pertinente cioè alla presentazione ufficiale del piccolo Ploutos (ipotesi che non ha però trovato seguito neanche in K. Clinton, Myth and Cult. The Iconography of the Eleusinian Mysteries, (SkrAthen 11), Stockholm 1992). scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 79 Fig. 13. Berlino, Staatliche Museen. Kylix del Pittore di Kodros. la stessa clausola compositiva dei rilievi, mentre dietro a Ghe sono Cecrope e le sue figlie che, insieme ad alcuni eroi attici, assistono all’evento. Egualmente, sul cratere attribuito alla cerchia del Pittore di Talos a Palermo,77 variando di poco lo schema (ma con una ridondanza di accessori, accompagnata da un’opulenta descrizione delle vesti), una solenne Ghe dà l’infante ad Atena; la dea ha alle sue spalle Cecrope invece di Efesto (vestito di corta exomis e con le pinze in mano), situato ora dietro a Ghe dalla quale è separato da un alberello di olivo. Due piccole Nikai volanti, che recano ciascuna una corona, completano la scena; una sovrasta il piccolo Erittonio, a differenza di quanto mostra l’hydria al British Museum dove, in accordo con l’interpretazione di Metzger, Nike alata con una larga tenia nelle mani segue Atena lievemente chinata in avanti ad accogliere il bimbo.78 In relazione ai marmi è da notare comunque che sui due vasi la disposizione dei tre protagonisti della scena (Ghe/Erittonio/Atena) viene specu- 77 Da Chiusi, databile alla fine del v sec.a.C.: ARV2, p. 1339, 3; Metzger, art. cit. a nota 76, p. 296, fig. 3; Kron, op. cit. a nota 68, p. 250, n. E; Pandora cit. a nota 42, pp. 262-264, n. 72. Cfr. anche il cratere a calice a Richmond, Virginia Museum of Fine Arts, databile attorno al 410 a.C., in cui Ghe è raffigurata come sul cratere a Palermo ed Erittonio è sovraddipinto in bianco; sulla faccia opposta è dipinta la stessa scena (Eos e Kephalos) dell’interno della kylix a Berlino: Pandora cit. a nota 42, pp. 260-262, n. 71. 78 ARV2, p. 580, 35; Metzger, art. cit. a nota 76, pp. 297-299, fig. 1. Escludo, pertanto, la possibilità di leggere la scena in chiave dionisiaca. 80 maria elisa micheli larmene invertita; le due rappresentazioni sulla ceramica permettono però di recuperare con sicurezza l’identità del personaggio appoggiato al pilastrino, che si connota senz’altro come Efesto. Viceversa, non aiutano a definire quella della figura maschile seduta, presente sul solo pezzo al Louvre. Andando al di là dell’immediato riconoscimento del soggetto, i rilievi aprono almeno due serie di questioni: una pertinente all’originale dal quale dipendono, all’epoca ed alle finalità della sua creazione; una rivolta alla loro valutazione oggettiva. Ma, come s’è accennato sopra, questa va oltre la definizione cronologica e l’apprezzamento dei modi formali, dello schema compositivo e dei modelli di riferimento per i singoli personaggi; interessa il momento culturale al quale rinviano i due marmi. In questa prospettiva, pertanto, sorge la domanda se vi sia oppure no uno speciale intento dietro la proposizione a Roma di un tale episodio, estremamente indirizzato nelle sue coordinate religiose e geo-politiche. Se ripercorriamo brevemente la storiografia, si deve a Semni Karouzou avere attribuito la raffigurazione scolpita sui due rilievi alla decorazione della base della statua di culto nel cd. Theseion sul Kolonos Agoraios ad Atene, riconoscendone la derivazione da Alkamenes.79 Ed è un’attribuzione che ha incontrato, e tuttora incontra, un notevole consenso nella critica.80 Oltre che per i modi stilistici sapientemente commentati dalla Karouzou, che sono esplicitati bene dal motivo delle pieghe delle vesti (tracciate secondo progressioni regolari le quali aumentano visivamente la percezione delle caratteristiche formali dell’originale, toccate con migliori cura e perizia sul frammento in Vaticano) e dall’attenzione quasi pittorica nel trattamento di Ghe (che lascia intravedere echi della maniera ionica), l’attribuzione ad Alkamenes verrebbe rafforzata81 in base a due altri elementi, intrinseci uno alla ‘poetica’ ed uno alla ‘strategia compositiva’ dello scultore. La concezione poetica propria di Alkamenes si rivela infatti nella sospensione dell’elemento centrale, costituito dall’eroe-fanciullo, tra i due diversi momenti temporali della nascita e dell’affidamento; la stra- tegia compositiva, distesa e pacata allo stesso tempo, trova la sua formula nel peculiare appoggio (il pilastrino) che caratterizza la stasi di Efesto. Questi sono, tra l’altro, due elementi usati nell’ultimo ventennio del v sec.a.C. ad Atene nella costruzione del ciclo di rilievi a tre figure, noti solo da repliche di età romana, in cui vi è una voluta sospensione dell’evento raffigurato, sottolineato proprio dalla stasi dei protagonisti che contribuisce ad accentuare la forte carica emozionale della scena;82 del resto, questo è un ottimo stratagemma per celebrare la solennità e l’importanza di un accadimento come attesta bene il grande rilievo con la Triade Eleusina. Rispetto all’approvazione più o meno esplicita per una simile identificazione, una più blanda adesione, invece, ha ricevuto la proposta della Karouzou di riconoscere nei due ortostati rinvenuti all’interno della cella del tempio sul Kolonos Agoraios i blocchi originali della base di culto, che per Cooper e Delivorrias sarebbero pertinenti ad una base al Sounion. Egualmente scarsa è stata l’accettazione dell’Atena Cherchel-Ostia per il tipo della statua di culto di Atena, tanto che la Harrison83 si è orientata sul tipo Velletri e Delivorrias su quello Ince, a fronte di una valutazione generalmente più positiva per il tipo della statua di culto di Efesto, noto dalla raffigurazione su una lucerna nel Museo Nazionale di Atene, da un torso ad Atene e dalla testa nei Musei Vaticani. Dubbi, sebbene in percentuale minore, ha suscitato anche l’identificazione del tempio, che per la Harrison non andrebbe denominato Hephaisteion, bensì tempio di Eukleia. Senza discutere in dettaglio le singole questioni, accetto la denominazione di Hephaisteion per il tempio, iniziato attorno al 449 a.C. ed inaugurato verosimilmente nel 416/5 a.C. È un tempio del quale Reeber84 ha messo bene in luce la valenza democratica legata sia alla riorganizzazione del culto di Efesto, avvenuto nel 421/0 a.C., sia alla valorizzazione politica di quello di Atena Ergane, nell’ambito di un più complesso sistema di ridefinizione di culti (e luoghi di culto) ad Atene, forse realizzato sotto l’abile, ma sommessa, regia di Nicia. Del pari, mantengo l’associazione dei due ortostati situati al- 79 S. Papaspyridi Karouzou, Alkamenes und das Hephaisteion, in AM, 69-70, 1954/55, pp. 79-94. 80 Contra: Kron, op. cit. a nota 68, pp. 63-64; Palagia, op. cit. a nota 1, pp. 55, 68-71; a favore Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 126-130, 242-244, n. 61, figg. 97-100 (con bibl. prec.). 81 A. Delivorrias, The Sculpted Decoration of the so-called Theseion: Old Answers, New Questions, in D. Buitron Oliver (a cura di), The Interpretation of Architectural Sculpture in Greece and Rome. Studies in the History of Art 49, 1997 (Center for Advanced Study in the Visual Arts), pp. 83-107. 82 M. E. Micheli, I rilievi a tre figure: dalla redazione romana al monumento greco, in ASAtene, 82, 2004, pp. 87-92. 83 E. B. Harrison, Alkamenes’ Sculptures for the Hephaisteion: Part I, The Cult Statues, in AJA, 81, 1977, pp. 137-178. 84 K. Reeber, Das Hephaisteion in Athen. Ein Monument für die Demokratie, in JdI, 113, 1998, pp. 31-48. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 81 l’interno della cella con la base di culto per le statue Sulla lekythos a Cleveland, attribuita al Pittore di di Efesto ed Atena (per le quali non apro, però, la diMeidias, interessante è la circostanza che solo figure scussione circa la determinazione del tipo che pure femminili assistono alla nascita del piccolo eroe. Lì, non mi vede dissentire dalla Karouzou), secondo in accordo con l’interpretazione della Neils,90 il thiaquanto si legge nella succinta notizia riferita da Pausos potrebbe comprendere divinità (Afrodite, Igea) e sania (i, 14, 6). personificazioni (Eukleia, Eunomia, Paidia, EudaiSul basamento, dunque, verosimilmente nella monia, Eutychia e Armonia). Le tre mezze figure tecnica à journ,85 viene rappresentato un mito stretche dall’alto presenziano all’evento indicano forse le tamente legato alle divinità venerate nel tempio, tre figlie di Cecrope: Pandroso sarebbe quella che, riEfesto ed Atena, ed al contempo alla storia delle orispetto alle sorelle Herse ed Aglauro,91 presta maggini della città. L’episodio rappresentato mostra la giore attenzione alla triade Ghe/Erittonio/Atena e consegna del neonato Erittonio, figlio biologico di reca in mano una ghirlanda dorata, da intendere proEfesto, da parte della madre naturale Ghe ad Atena babilmente come un’offerta al bimbo. Oltre che un di cui, in accordo con quanto proposto da Loraux,86 fausto messaggio di augurio per il nuovo nato, queil piccolo diventa ‘figlio sociale’: accogliendolo, la sta scena ‘al femminile’ lascia intravedere anche un dea gli garantisce lo status di polites e, contemporaaltro più profondo significato, ovvero lo struggente neamente, lo immette nel consorzio civile. Nato ricordo del glorioso passato della città riverberato dalla terra (e questa nascita ha soprattutto un senso dal regno di Erittonio. Ma questo viene ora quasi cirpolitico, sebbene ciò non escluda affatto la comprecoscritto entro un giardino paradisiaco (indiziato fra senza di un complesso rituale iniziatico),87 l’eroe è l’altro dall’esuberante presenza femminile), i cui autoctono e come tale identitario per tutti gli Ateniecontorni si confondono con l’Elysion, il luogo dove si. Il suo iniziale dimorfismo (di uomo anguipede, ineluttabilmente approderà la ‘migliore gioventù’ che viene volutamente obliterato nella redazione ateniese secondo quanto esibisce la ben più complesplastica) si lascia comprendere anche nel passaggio sa hydria eponima del Pittore, conservata a Londal caos all’ordine del kosmos regolato dal nomos, perdra.92 Non a caso, la produzione ‘elegiaca’ del Pittotanto nel passaggio dalla natura alla civiltà. Tale rafre di Meidias si colloca in una fase delicata per Atene, figurazione è cronologicamente coordinata alla coimpegnata con alterne sorti nella guerra del Pelostruzione dell’Eretteo (senza entrare nella questione ponneso. La città vuole ricordare il suo passato (e, relativa all’ipostasi/duplicazione di Erittonio/Eretperché no, celebrare i suoi caduti), attualizzandolo teo)88 e ha significativo riscontro nella produzione attraverso il filtro del mito, in tal senso già oculataceramica contemporanea. mente impiegato nella decorazione architettonica Come ha indicato la Burn, infatti, la scena della (nel fregio dell’Ilisso, ad esempio, e nel più articolato nascita così organizzata ricorre su almeno dodici vasistema figurativo del tempietto di Atena Nike). Sesi databili nelle ultime due decadi del v sec. a.C.89 condo la Kosmopoulou,93 dunque, anche il tema 85 Quest’ipotesi formulata dalla Karouzou (art. cit. a nota 79), tenendo conto anche della conformazione degli ortostati, mi sembra convincente, tanto più se la si mette in relazione con quanto realizzato nel monumento con le Saltantes Lacaenae, accettando la lettura di Fuchs, op. cit. a nota 17, pp. 91-94. Cfr. Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 13-18. 86 N. Loraux, Les enfants d’Athéna. Idées athéniennes sur la citoyenneté et la division des sexes, Paris 1981, pp. 132-136; Ead., Né de la terre. Mythe et politique à Athènes, Paris 1996, pp. 51-58; J. P. Bonnard, Le complexe de Zeus. Représentations de la paternité en Grèce ancienne, Paris 2004, pp. 82-88. 87 Nell’accezione, però, suggerita da Metzger, art. cit. a nota 76, p. 302 che, a mio parere giustamente, esclude l’anodos come pure il passaggio ctonio, sostenuti invece da Bérard, op. cit. a nota 76, p. 37. 88 Kron, op. cit. a nota 68, pp. 52-56. 89 Burn, art. cit. a nota 9, pp. 62-68. Per una lettura delle modalità costruttive la scena: K. Lorenz, The anatomy of metalepsis: visuality runs around on late fifth-century pots, in R. Osborne (a cura di), Debating the Athenian Cultural Revolution. Art, literature, philosophy and politics 430-380 B.C., Cambridge 2007, pp. 131-138. 90 J. Neils, A Greek nativity by the Meidias Painter, in BullClevMus, 70, 1983, pp. 274-289. 93 Pandora cit. a nota 42, pp. 39-48. 92 L. Burn, The Meidias Painter, Oxford 1987, pp. 17-19. Qui, tra l’altro, è concretamente evidenziato anche il giardino delle Esperidi con Eracle seduto presso l’albero dai pomi favolosi (cfr. ancora: E. B. Harrison, Hesperides and Heroes: a note on Three-figure reliefs, in Hesperia, 33, 1964, pp. 76-82). Escludo la prioritaria lettura in senso erotico delle presenze femminili nelle raffigurazioni del Pittore di Meidias seguita da B. E. Borg, Der Logos des Mythos. Allegorien und Personifikationen in der frühen griechischen Kunst, München 2002, pp. 190-194, p. 217 nota 720, fig. 78. 93 Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, p. 130. Vale allora la pena di ricordare che un altro eroe ateniese (Teseo) compare nella decorazione architettonica dell’edificio. Anche per Delivorrias, art. cit. a nota 81, pp. 85-86 gli eroi e le divinità associate ad Erittonio ricorderebbero l’orgoglio patriottico degli Ateniesi e le battaglie raffigurate nei fregi del pronao e dell’opistodomo e nelle metope proporrebbero il drammatico confronto tra ratio umana e forze irrazionali. 82 maria elisa micheli della nascita di Erittonio – l’eroe autoctono – esibita sulla base di culto dell’Hephaisteion acquisterebbe un’accezione più propriamente ‘patriottica’, nel momento in cui serpeggia in città un collettivo sentimento antidorico sollecitato dai drammatici fatti della guerra: così, la raffigurazione, di rigorosa coerenza formale, si sarebbe piegata a dare voce alle vocazioni dell’intera comunità. Purtroppo, non è affatto chiaro come si sviluppasse la scena sul basamento, che avrebbe dovuto comprendere quanto meno dodici figure a giudicare dalle dimensioni del rilievo al Louvre, più congruo (come, a mio parere, ha convincentemente dimostrato la Karouzou) con le misure dei blocchi conservati rispetto al frammento Vaticano, che è appena sovradimensionato. Non mi sembra comunque proponibile né la serie dei mitici re di Atene, come voleva la Karouzou, né il thiasos delle Aglauridi e delle Horai, come ha ipotizzato la Harrison,94 sebbene la scelta ‘al femminile’ sia allineata con le raffigurazioni ceramiche di poco posteriori; più probabilmente, in stretta coerenza con i basamenti fidaci, si potrebbe immaginare una teoria di divinità olimpie, e – fra di esse – quelle più consone al pantheon ateniese. In tal caso, si potrebbe riconoscere Zeus nel personaggio seduto sul marmo a Parigi; forse, accogliendo un suggerimento della Harrison, anche quello Zeus Ombrios venerato sull’Imetto. Né mi sembra condivisibile la proposta di Delivorrias di unire al frammento in Vaticano un altro frammento, sempre da Villa Adriana e anch’esso nei Musei Vaticani, in cui sono raffigurati Afrodite, Hermes e Paride quest’ultimo da intendere però (proiettandolo nella redazione originale) come un Ares,95 sì da restituire in tal modo un’originaria sequenza delle divinità presenti all’actio. Se, dunque, pur tra molte incertezze momento della creazione e finalità della scena acquistano una loro specificità nel clima dell’Atene dell’ultimo ventennio del v sec. a.C., non è inutile chiedersi perché venga ripreso a Roma proprio questo determinato episodio mitico, così profondamente innervato nella tradizione ateniese religiosa e politico-istituzionale.96 Poco risolutive appaiono infatti le considerazioni della Böhm rivolte al solo aspetto compositivo e stilistico-formale dei marmi Vaticano-Louvre, tendenti ad escludere la discendenza da un modello unitario in base alla scomposizione dei possibili referenti a tutto tondo per le singole figure.97 Modalità di esecuzione e codice stilistico-formale dei due rilievi con Erittonio sono rispondenti alle tendenze di età adrianea: interessanti le dissimiglianze rispetto ai rilievi Del Drago-Corinto nel modo di trattare le superfici, che li riportano ad un diverso atelier (e che, forse, indiziano anche della ‘diversità artistica’ dei ‘prototipi’). Alcuni elementi utili per tale collocazione cronologica si recuperano dalla maniera con la quale è reso il taglio delle pieghe; dalla conformazione dell’orlo della veste ricadente sul piede di Efesto nel frammento in Vaticano; dalla metallica scansione dei capelli, specie nelle ciocche di Ghe del pezzo vaticano. Più significative sono le consonanze con il rendimento delle superfici nel rilievo con la nascita di Dioniso dalla coscia di Zeus nei Musei Vaticani98 (Fig. 14), derivato da un originale di iv sec. a.C. e possibile parte di un articolato monumento coregico ateniese. Va notato ancora che il trattamento delle superfici, l’impaginato entro un campo largo, la generale sintassi compositiva tornano di nuovo, declinati con differenti esiti formali, su un cospicuo numero di rilievi proto e tardoadrianei a soggetto mitologico dipendenti da originali plastici e pittorici, per lo più di provenienza urbana. Qui il formulario – di diversa matrice figurativa (tardo-classica, ellenistica) – è stato volutamente amalgamato proprio attraverso le cifre del linguaggio formale classicheggiante, cosicché ai temi selezionati corrisponde un codice lessicale omogeneo, evocativo delle storie rappresentate, che riescono a visualizzare bene le 94 E. B. Harrison, Alkamenes’ Sculptures for the Hephaisteion: Part II, The Base, in AJA, 81, 1977, pp. 265-287. 95 A. Delivorrias, A new Aphrodite for John, in O. Palagia (a cura di), Greek Offerings. Essays on Greek Art in honour of John Boardman, Oxford 1997, pp. 113-115, fig. 6. 96 Seguendo Fuchs e la Simon (W. Helbig, Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom4, I, Tübingen 1963, pp. 35-36, n. 43: E. Simon - W. Fuchs) una redazione romanizzata della nascita di Erittonio si lascia eventualmente apprezzare su un piccolo rilievo frammentario tardo-repubblicano conservato nei Musei Vaticani (h. della parte antica cm. 26; l. cm. 40), la cui provenienza da Ostia è stata di recente revocata a favore di una da Porto (I. Bignamini, Ostia, Porto e isola Sacra: scoperte e scavi dal Medioevo al 1801, in riasa , 58, 2003 [2004], p. 48, fig. 3). A livello iconografico, la traduzione figurata nel nuovo linguaggio è meglio percepibile nel tipo di Efesto/Vulcano; a livello compositivo, si può cogliere nella distribuzione dei diversi personaggi che sono sfalsati su piani diversi. È un riconoscimento escluso da Meyer, con un’alternativa interpretativa – Vulcano e Iside – secondo me poco convincente (H. Meyer, Vulcan und Isis in der Sala Rotonda. Ein Beitrag zur Kunst um Pompeius d. Gr., in RendPontAcc, 43-44, (1980-1981), 1981-1982, pp. 247-271). 97 Böhm, op. cit. a nota 2, pp. 35-37. 98 Sala delle Muse: Touchette, op. cit. a nota 1, pp. 28-29, fig. 54b. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 83 Fig. 14. Musei Vaticani. Rilievo con la nascita di Dioniso. vocazioni culturali proprie della società urbana della media età imperiale.99 Più che ai materiali censiti dalla Böhm, mi riferisco, in specie, alla serie tardoadrianea-protoantoniniana dei rilievi Spada, che offrono un repertorio coerente sia nelle soluzioni stilistico-formali sia nelle tematiche, relative ad episodi mitici rari (Adone, Bellerofonte e Pegaso, Anfione e Zeto, Pasifae e Dedalo, la morte di Ofelte, il ratto del Palladio, Paride ed Eros, Paride ed Enone). Come ha segnalato la Kampen,100 sono temi noti dalle mitografie di Apollodoro e Igino e dai più tardi romanzi di Longo o Eliodoro di Emesa; esibiscono un mondo lontano, nel tempo e nello spazio, che non è organizzato in una narrazione continua, nonostante un apparente impianto teleologico. A questa coesa serie si aggiungono i due rilievi con Satiro e Ninfa e con Paride ed Enone documentati dal 1623 nella collezione Ludovisi: e non sono affatto sicura, come è stato suggerito più di recente da Stephan Lehmann,101 che siano entrambi moderni, esemplati sui rilievi Spada. Non va infatti dimenticato che proprio del rilievo con Anfione e Zeto Spada esiste a Ravenna una redazione frammentaria, protoadrianea, che documenta un’iterazione del soggetto secondo modalità operative peraltro note, ad esempio, dalla serie augustea e protoclaudia dei rilievi con eroti e troni vuoti o dai più tardi cicli con choroi femminili.102 Ancora, si iscrivono entro queste coordinate i rilievi con Amaltea ed il piccolo Zeus; con Artemide a Villa Borghese; con Perseo ed Andromeda; i tre Colonna, rispettivamente con Ermafrodito, Narciso ed Olimpo; con Endimione dormiente (per il quale escludo la datazione, recentemente avanzata, in epoca claudia); con Satiro e Pantera al Louvre e con Satiro già a Ince Blundell; con Dedalo e Icaro, con Teseo e Minotauro.103 Le dissonanze nel lessico e nel codice stilistico tra i rilievi citati offrono un ulteriore piccolo indizio della compresenza di officine scultoree di diversa provenienza geografica e di differente tradizione manifatturiera operanti nell’Urbe a seguito delle grandiose commesse imperiali. Ed alcune di queste 99 Cfr. A. Sharrock, Representing Metamorphosis, in J. Elsner (a cura di), Art and Text in Roman Culture, Cambridge 1996, pp. 103-110; T. Whitmarsh, The Cretan lyre paradox: Mesomedes, Hadrian and the poetics of patronage, in B. E. Borg (a cura di), Paideia: the world of the Second Sophistic, Berlin-New York 2004, pp. 385-415. 100 N. B. Kampen, Observations on the Ancient Uses of the Spada Reliefs, in AntCl, 48, 1979, pp. 583-600. Cfr. S. Lehmann, Mythologische Prachtreliefs, Passau 1996, pp. 13-26. Rifiuto la datazione al 30-20 a.C. e l’attribuzione ad un atelier orientale attivo anche nella decorazione del palazzo di Giuba II di Mauretania, avanzate da H. Herdejürgen, Östliche Bildhauerwerkstätten im frühkaiserzeitlichen Rom. Bemerkungen zu den Spadareliefs, in AntK, 44, 2001, pp. 24-35. 101 S. Lehmann, Die Reliefs im Palazzo Spada und ihre Ergänzungen, in Antikenzeichnung und Antikenstudium in Renaissance und Frühbarock. Aktens des internationalen Symposions, 8.-10. September 1986 in Coburg, Mainz 1989, pp. 221-263. Sono, inoltre, apparentati a questa serie due frammenti a Palazzo Rondinini: E. Paribeni, in E. Salerno (a cura di), Palazzo Rondinini, Roma 1966, p. 211, n. 25, fig. 119; p. 212, n. 26, fig. 120. 102 Lehmann, op. cit. a nota 100, pp. 136-140; L. Beschi, I rilievi ravennati dei “Troni”, in Felix Ravenna, 127-130, 1984-1985, pp. 37-80; T. Hölscher, Fromme Frauen um Augustus. Konvergenzen und Divergenzen zwischen Bilderwelt und Lebenswelt, in F. Hölscher - T. Hölscher (a cura di), Römische Bilderwelten. Von der Wircklichkeit zum Bild und zurück, Heidelberg 2007, pp. 112-115; V. Saladino, Un nuovo rilievo con l’immagine del tempio di Vesta, in RendPont Acc, 80, 2007-2008, pp. 309339. 103 Rispettivamente: Sinn, op. cit. a nota 74, pp. 203-206, n. 72, tavv. 62, 1-3, 63; Böhm, op. cit. a nota 2, p. 15, fig. 6; Lehmann, op. cit. a nota 100, pp. 103-109, tav. 32; pp. 111-115, tav. 33; pp. 117-123, tav. 34; pp. 87-90; pp. 129-135. Cfr. M. Cipriani, Il rilievo con Endimione dormiente del Museo Capitolino, in BC, 97, 1996, pp. 197-212 84 maria elisa micheli botteghe sono attive anche nella lavorazione di statue di piccolo formato, spesso a soggetto mitologico, analogo a quello proposto sui rilievi: un buon esempio è costituito dal piccolo gruppo con Perseo e Andromeda di provenienza urbana, la cui attuale sistemazione deve tenere conto degli interventi integrativi di Bartolomeo Cavaceppi.104 Riguardo ad esso è da valutare l’esistenza in Spagna di un gruppo del tutto simile (nelle proporzioni, nella tecnica di lavorazione, oltre che nello schema compositivo) rivenuto nella Villa di El Ruedo, dove faceva parte di un multiforme, ma raffinato arredo scultoreo, allineato a quello di prestigiosi modelli urbani.105 I soggetti esibiti sui rilievi appena ricordati, quasi nei toni di una celebrazione antiquaria, si rifanno per lo più a miti greci, di colta tradizione letteraria, estranei alla religione olimpica; a miti che, nella maggior parte, non sono stati figurativamente elaborati prima dell’età ellenistica. Trovare un carattere ‘significante’ che li unifichi è forse possibile solo considerando l’ambiguità, la nostalgia, l’elegia di amori non corrisposti, la fragile caducità delle sorti che vengono proiettati dalle storie scolpite sui marmi. Tuttavia, anche i cicli (e penso a quello Spada e a quello Colonna) mancano di centralità e le associazioni tra i vari soggetti non colmano lo iato tra passato mitico e tempo presente, sicché un’ipotetica attualizzazione delle tematiche rimane generica e poco credibile.106 Da questo tipo di considerazioni potrebbero rimanere ai margini i due rilievi, databili forse in età tardoflavia, con Dedalo e Icaro, Teseo e Minotauro rinvenuti nel 1734 sul Palatino, che dovevano far parte della decorazione del complesso imperiale. Purtroppo, poi, la scarsità di notizie relative al ritrovamento rende arduo ipotizzare la destinazione dei marmi, le modalità di alloggiamento e gli spazi ad essi destinati:107 prendendo ancora una volta a campione il ciclo Spada, se sono note le circostanze del rinvenimento risalente ai primi del Seicento, più vago rimane circoscrivere l’originario contesto antico.108 Le grandi dimensioni delle lastre implicano senz’altro l’incasso alle pareti ed i soggetti selezionati non fanno affatto escludere la possibilità di un inserimento in uno spazio aperto quale un monumentale giardino (comprensivo di porticati e ricche architetture mistilinee), a delimitare euripus e bacini;109 del resto, il rilievo con Zeus bambino ed Amaltea era pertinente alla decorazione di un lacus (verosimilmente pubblico), di cui furono rinvenute anche le strutture murarie, distrutte dalle fabbriche secentesche. I due rilievi con Erittonio, apparentati ai materiali citati per la ‘rarità’ del soggetto, se ne distaccano sotto più aspetti: sotto il profilo formale e quello contenutistico. Per quanto concerne la costruzione della scena, questa non è realizzata sulla scorta di motivi letterari né rendendo uniformi prototipi diversi secondo il codice classicistico; i due rilievi sono filiati da un prototipo definito e circoscritto nelle sue coordinate geo-culturali. Per quanto riguarda il contenuto, infatti, il soggetto propone un episodio mitico coerente e chiuso in sé: in origine, inscindibile dalle origini di Atene. Da non sottovalutare poi è la circostanza che di uno dei due marmi è conosciuta la provenienza: come s’è visto dalla sua storia antiquaria, il frammento nei Musei Vaticani è stato scoperto a Tivoli, nell’area della villa di Adriano. Quest’ultimo elemento rafforza l’ipotesi che si sia di fronte ad una scelta mirata del tema. Nell’intentio, pertanto, proprio il tema si dissocia dai contemporanei cicli di rilievi mitologici e si avvicina, piuttosto, alla riedizione della figurazione sul basamento della statua di culto di Nemesi a Ramnunte (infra: § 4), se non anche ai marmi Del Drago-Corinto. Quella della nasci- 104 Göttingen. Archäologisches Institut der Universität Göttingen. Ausstellung zum Gedenken an Christian Gottlob Heyne (1729-1812), Göttingen 1979, pp. 25-27, n. 1. 105 J. Beltrán Fortes - M. L. Loza Azuaga (a cura di), El Mármol de Mijas. Explotación, commercio y uso en época antigua, Mijas 2003, pp. 76-79, n. 9. 106 Cfr. M. Erasmo, Roman Tragedy. Theatre to Theatricality, Austin 2004, pp. 52-56: “Dramatizing History”; 122-16: “Metatragedy”. 107 Dei rilievi citati sappiamo che quello: con Amaltea ed il piccolo Zeus fu rinvenuto nel 1635 durante i lavori per le fondamenta di palazzo Giustiniani in via della Dogana Vecchia; con Perseo ed Andromeda, ai primi del Seicento durante i lavori per Palazzo Muti a Piazza Santi Apostoli; con Endimione, sull’Aventino, sotto il pontificato di Clemente XI; con Satiro, già a Ince Blundell, fu acquistato a Roma nella prima metà del Settecento. 108 I rilievi furono scoperti nel 1621 durante i lavori promossi dal cardinale Fabrizio Veralli per il rifacimento dello scalone nella chiesa di Sant’Agnese, dove erano stati reimpiegati capovolti nella pavimentazione medievale (M. G. Picozzi, Restauri del xviii secolo per sculture appartenute alla collezione Vitelleschi, in Illuminismo e Ilustración. Le Antichità e i loro protagonisti in Spagna e in Italia nel xviii secolo, Atti del Convegno Internazionale, Roma 30 novembre-2 dicembre 2001, Bibliotheca Italica 27, 2003, p. 316 nota 21) verosimilmente recuperati da uno dei contesti imperiali o privati situati –come ha indicato U. Fusco, Considerazioni sul rinvenimento di sculture antiche da S. Agnese fuori le mura, in ACl, 55, 2004, pp. 399-419 – sulla finitima via Nomentana (escludo l’intrigante proposta, già avanzata dalla Kampen, art. cit. a nota 100, e argomentata da Lehmann, op. cit. a nota 100, pp. 195-198, di una loro provenienza da Villa Adriana). 109 Cfr. R. B. Lloyd, Three Monumental Gardens on the Marble Plan, in AJA, 86, 1982, pp. 91-100. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 85 ta di Erittonio sembra, infatti, una scelta intenzionaldella frontescena del teatro, nonché la ripresa della mente perseguita, che ha quasi il sapore di una erutradizione dei monumenti coregici classici nella Via dita ‘riesumazione’; viene spontaneo attribuirla solo dei Tripodi in coerenza con il revival del costume ad un colto e sensibile conoscitore del ‘passato clasdella coregia.112 sico’ quale era Adriano. Per di più, si sa bene che Se ci soffermiano su questi ultimi aspetti, risulta l’imperatore seguiva con competenza i lavori della che l’imperatore (mystes ed evergete insieme) fu atvilla tiburtina, che si rivela come un ‘microcosmo’ – tento e rispettoso delle più venerande divinità della mentale e fattuale – estremamente complesso, tanto città di Atene: non a caso volle nell’Olympieion la a livello architettonico quanto a livello di elementi statua di culto crisoelefantina e modellata su quella d’arredo (mobili e non).110 È quasi un gigantesco olimpica di Fidia. Ma osò spingersi oltre: come ricormonumento di autorievocazione, un luogo della da un’iscrizione edita da Raubitschek,113 in quanto memoria, portato avanti di pari passo con il sussefiglio di Zeus Eleutherios, Adriano volle che la sua guirsi degli itinera, anche se la gamma delle citazioni statua affiancasse quella della Parthenos nel tempio messe in opera non significa ovviamente nostalgica sull’Acropoli. È un segnale forte, che testimonia anadesione ad un mondo passato.111 che la piena compartecipazione dell’imperatore con Nei viaggi di Adriano in Grecia, al di là dell’aspetla ‘storia’ ateniese; del resto, quella religiosa verrà to propriamente politico, colpisce in particolare il riassunta – quasi nei toni di una fabella – e trascritta culto tributato dall’imperatore alle reliquie. Come su un piccolo fregio a destinazione architettonica non pensare, allora, che la visita a Cizico, nel temrinvenuto a Ostia.114 In questo ‘percorso a ritroso’ pio dove erano ancora esibiti i celebri stylopinakia, compiuto da Adriano, il richiamo alle origini ed il possa avere fornito la spinta per la creazione di un senso di orgogliosa appartenenza alla polis erano ciclo che, al pari dei famosi pannelli pergameni, proquindi egregiamente rappresentati da Erittonio, poneva miti rari e di impianto letterario anche se l’eroe nel quale si era identificata l’autoctonia degli non legati a scelte di carattere politico? Un’eco poAteniesi ed il primo polites; ed Adriano, nuovo ed effitrebbe venire forse colta proprio nei rilievi noti dalla mero ecista della città, avrebbe potuto proiettare di redazione Spada. È un culto che passa anche attrasé l’immagine dell’antenato mitico, di Erittonio apverso le visite alle tombe degli eroi e degli uomini ilpunto, re di una nuova stirpe.115 lustri, in bilico tra eusebeia, aretè e sophia come si coNella villa di Tivoli poteva trovare degna collocaglie dagli omaggi rivolti alla tomba di Archiloco, ma zione la celebrazione della nascita dell’eroe, così anche a quelle di Alcibiade, di Epaminonda (assurto come era stata concepita ad Atene da un grande ad icona di una fabula tragica), tanto che in Egitto si maestro di v sec. a.C. a suggello delle vocazioni di solidifica nella pietas per la tomba di Pompeo. Un’atun’intera comunità; nel nuovo contesto romano, titudine ‘antiquaria’ sembra caratterizzare pure la questa diventa però una ‘citazione’, decisamente audevozione verso alcune divinità, sublimata dalle initoreferenziale in uno spazio riconosciuto come ‘priziazioni rituali (ad Eleusi, ma anche a Delfi), e che, vato’. Dubbio resta se il principio della reduplicaziose riferita a Dioniso, ad Atene si concreta nella carine,116 che guida tante delle proposte allestitive ca di agonoteta ricoperta da Adriano durante lo restituite dalla villa, possa venire esteso anche al risvolgimento delle Grandi Dionisie. Con una tale cirlievo al Louvre, o se questo, secondo una possibile costanza è verosimilmente da legare la decorazione gerarchia dei luoghi, abbia invece trovato sistema110 Cfr. sempre J. Raeder, Die statuarische Ausstattung der Villa Adriana bei Tivoli, Frankfurt - Bern 1983 e, per i contributi più recenti, Villa Adriana. Paesaggio antico e ambiente moderno. Elementi di novità e ricerche in corso, Atti del Convegno Roma 23-24 giugno 2000, Milano 2002. 111 E. Calandra, Arcaismi della memoria: il rilievo da Villa Adriana al British Museum di Londra, in Ostraka, 6, 1997, pp. 23-34. 112 M. Sturgeon, The reliefs on the Theater of Dionysos in Athens, in AJA, 81, 1977, pp. 31-53 e G. I. Despinis, Hochrelieffriese des 2. Jahrhunderts n. Chr. aus Athen, München 2003, pp. 75-78. Dubbio resta il posizionamento di un fregio frammentario ad altorilievo con Amazzonomachia (Despinis, ibidem). Per la ripresa della coregia: P. Wilson, The Athenian Institution of the Khoregia. The Chorus, the City and the Sta- ge, Cambridge 2000, pp. 276-279. In generale, A. Galimberti, Adriano e l’ideologia del principato, (Centro Ricerche e Documentazione sull’Antichità Classica, Monografie 28), Roma 2007, pp. 123-132. 113 Ancora: A. E. Raubitschek, Hadrian as the son of Zeus Eleutherios, in AJA, 49, 1945, pp. 128-133 (cfr. Lapatin, op. cit. a nota 19, p. 127). 114 F. Zevi, Un fregio tra Ostia e Berlino, s.l, s.a [Ostia 2003]. 115 È solo suggestivo pensare che con l’eroe nato dalla terra – entrato per il tramite di Atena nel consorzio civilizzato – potevano immedesimarsi le ascendenze del nuovo imperatore, la cui adozione (e conseguente assunzione al trono) era avvenuta proprio per volere di una domina, che sarà da lui innalzata a diva. 116 Villa Adriana cit. a nota 110, pp. 52-61. 86 maria elisa micheli Fig. 15. Stoccolma, Museo Nazionale. Rilievo con quattro figure dalla base di Nemesi a Ramnunte. zione in un contesto urbano altrettanto prestigioso ed interessato dai rifacimenti edilizi adrianei: a questi può essere virtualmente riferito anche il rilievo a Stoccolma che, nei termini del reinterpretato linguaggio classicistico atticizzante di età adrianea, riprende parte della figurazione sulla fronte della base di culto a Ramnunte. 4. Il basamento di Nemesi a Ramnunte e il rilievo a Stoccolma Documentato a Roma nel 1763 nella collezione di Giovanni Battista Piranesi, il rilievo (Fig. 15) venne acquistato nel 1784 per le raccolte svedesi da Gustavo III; nell’elenco di vendita sono riferiti sia il prezzo (40 zecchini) che la provenienza «pescato a caso nel Tevere verso Marmorata da un frate di S. Carlo a Catinari», nonché le modalità di recupero «con un ordegno d’un forbice con cui vastò il Tevere in diversi siti». Questo secondo dettaglio permette di non dubitare troppo della bontà circa la provenienza e, al tempo stesso, di valutare lo stato di conservazione del marmo. La descrizione inventariale riporta «bassorilievo rappresentante 4 deità Giove, Marte Diana, Giunone» corredata di un blando giudizio qualitativo «di buona maniera e ben conservato»; omette gli 117 E. Kjellberg, Piranesis antiksamling, Nationalmusei Årsbok, Stockholm 1920, pp. 146-147, 169 n. 69; A. M. Leander Touati, Ancient Sculpture in the Royal Museum, 1, Stockholm 1998, p. 76. In gene- interventi integrativi, attuati dal venditore-proprietario in conformità con quanto noto dalle altre sculture cedute nel medesimo lotto.117 In marmo pentelico, il rilievo – lungo cm 120 ed alto cm 54 – si presenta abbastanza manipolato; sono stati anzitutto risarciti tre grossi frammenti (più un quarto di minori dimensioni) e regolarizzati i lati, in origine chiusi in basso da un listello che funge da piano di posa per le figure, mentre in alto (e anche sui due fianchi) corre la modanatura composta da listello piatto e gola rovescia; sono state integrate le singole figure. Della prima a sinistra sono stati completate le braccia e la mano destra; della successiva, oggi priva della mano destra, la mano sinistra; della seguente, il naso e la mano destra, mentre è stata rimodellata la sinistra; dell’ultima figura, tutto il braccio destro disteso in fuori. Uno scialbo giallastro, di cui restano dense tracce, unificava le superfici e, rendendole omogenee, mascherava meglio le fratture. Da sinistra a destra il rilievo esibisce quattro figure ben aggettanti dal piano di fondo. Sono due maschili e due femminili, spazieggiate e – a differenza del rilievo Del Drago – non prive di una qualche coloristica teatralità, conferita dal movimento delle braccia, ancora avvertibile nonostante i restauri; sono i gesti, infatti, che stemperano la postura di per sé rigida di rale, C. Gasparri, La Galleria Piranesi da Giovan Battista a Francesco, in Xenia, 3, 1982, pp. 91-107. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 87 ciascuna figura. Il primo personaggio a sinistra è matiene ciascuna figura isolata dall’altra, sebbene (e lo schile, barbato, panneggiato nell’himation che, creasi recupera dalla direzione di ognuna) tutte partecito un triangolo, dal fianco destro risale sulla spalla sipino ad uno stesso evento: la ‘presentazione’ di Elenistra, lasciando scoperto il torso muscoloso in cui na a Nemesi, sua vera madre, come riferito dalle pasono evidenziati i pettorali. Ripreso con il torso lierole di Pausania (i, 33, 7-8). Il fatto avrebbe dovuto vemente ruotato alla sua sinistra (direzione verso cui consumarsi subito dopo la seconda figura femminivolge lo sguardo), a causa del restauro tende entramle, che l’impianto medesimo nel rilievo a Stoccolma be le braccia in fuori, piegandole all’altezza dell’adindica coinvolta nell’actio. Al di là delle specifiche dome; reca i fulmini in mano. È seguito da un persodenominazioni dei personaggi (come si vedrà, a naggio giovanile in nudità eroica con il mantello tutt’oggi fonte di discussione), l’inventario settecenche, dalla spalla destra, ricade sul braccio in una serie tesco aveva dunque colto nel segno sia nel riconoscidi pieghe parallele le quali colmano così il vuoto tra mento del soggetto (una teoria divina) sia nell’apil torso ed il braccio, piegato al gomito ed alzato in prezzamento qualitativo della raffigurazione. Nelle avanti. Il giovane, dal corpo tonico, pondera sulla forme alquanto raggelate del linguaggio artistico gamba destra e scarta di lato la sinistra, sicché il pieadrianeo, le quattro figure si stagliano con autorevode risulta di poco arretrato rispetto all’altro; a questo lezza dal fondo neutro; acquistano consistenza movimento si conforma l’inclinazione a sinistra delgrazie al modellato delle membra ed al gioco dei la testa. La figura seguente è femminile, frontale, vepanneggi che, nella descrizione dei personaggi femstita di peplo altocinto, rimborsato sopra il ventre; minili, alterna con sapienza linee verticali e linee curpoggia sulla gamba destra, coperta dalle pieghe rigive, reinterpretando con finezza le clausole formali damente parallele della veste, la sinistra è portata di degli originali ai quali conferisce una più decisa spetlato iterando l’andamento delle gambe del giovane. tacolarità, sottomessa al codice accademico. L’attenCon la mano destra scesa all’altezza del fianco (un zione ai particolari, trattati con calligrafica minuzia, restauro che non osta il movimento originario), tratsi sostanzia nel modo di rendere i capelli (che nella tiene un lembo del mantello che, passato dietro alle prima figura femminile è prossimo a quello della spalle, viene sollevato all’altezza della guancia dalla donna su un rilievo a due figure a Villa Albani)118 e mano sinistra in modo che ampie pieghe dall’andadi ritmare i margini: un leggero cordolo marca, ad mento curvilineo ricadano fino a terra, offrendo una esempio, le palpebre ed un solco continuo profila i scenografica quinta alla donna. Di impianto matrolembi dei panneggi. È questo pezzo, benché isolato, nale è anche la figura successiva, presentata con la che consente di valutare bene due aspetti tra di loro ponderazione invertita rispetto alla precedente e con complementari, appena impliciti nei rilievi Del Drala testa appena girata alla sua sinistra. Veste il peplo go/Corinto echeggianti il basamento fidiaco del con il kolpos incurvato in alto ed è tutta avvolta nel Partenone (§ 2) e soltanto sottesi dai rilievi Vaticanomantello, che le copre la sommità del capo: con la Louvre riferiti, nella prospettiva di lettura seguita, a mano sinistra sollevata tiene discosto il mantello dal quello alcamenico dell’Hephaisteion (§ 3): corpo, laddove il braccio destro, di restauro, è tutto a) l’aderenza all’originale; teso in fuori. Come alla precedente, anche a questa b) la ripresa a Roma, in età adrianea, di un soggetfigura il dispiegarsi del mantello, che si apre in ricche to che, carico di specifiche valenze cultuali legate alle pieghe attorno al corpo, aumenta l’impressione di vicende dell’Atene dell’ultimo trentennio del v sec. maestosa imponenza. a.C., viene rifunzionalizzato qualificandosi come auIl rilievo propone con discreto grado di aderenza tonomo ornamentum architettonico. quattro delle figure scolpite sulla fronte del basamento della statua di culto di Nemesi a Ramnunte a) Per quanto riguarda il primo aspetto, dal confron(Fig. 16); la loro altezza (cm 45-47) è in scala rispetto to tra le figure scolpite sul rilievo – sottostimato all’originale e del pari aderente al modello è la clauanche nelle indagini più recenti, con l’eccezione di sola compositiva. Questa dà risalto alla stasi e manLapatin119 – e quelle originali possono essere guada118 Forschungen zur Villa Albani. Katalog der antiken Bildwerke, iii, Berlin 1992, p. 113, n. 291, tav. 77 (P. C. Bol); Böhm, op. cit. a nota 2, pp. 81-84, fig. 46. 119 K. D. S. Lapatin, A family gathering at Rhamnous? Who’s who on the Nemesis base, in Hesperia, 61, 1992, pp. 110-111; P. Karanastasses, Wer ist die Frau hinter Nemesis? (Studien sur Statuenbasis der Nemesis von Rhamnus), in AM, 109, 1994, p. 124. Cfr. Palagia, op. cit. a nota 1, p. 64, fig. 47. 88 maria elisa micheli Fig. 16. Fronte del basamento della statua di Nemesi a Ramnunte (da Petrakos 1986). gnati elementi utili per ricomporre movimenti e rapporti tra i personaggi (se non le loro identità), che nel basamento sono estremamente lacunosi. Noto dai primi dell’Ottocento, sono state le ricerche condotte dalla seconda metà del Novecento da Petrakos120 a chiarire che il basamento, giunto in stato molto frammentario, misura cm 238-241 × 166 × 50; è composto da due blocchi di marmo pentelico; è articolato in tre parti: zoccolo modanato, fascia decorata (entrambi in marmo pentelico), coronamento – costituito da un cavetto – in pietra nera di Eleusi. Davanti ad esso, nel pavimento della cella era collocata una lastra di marmo ed una barriera (verosimilmente mobile) impediva ai fedeli di avvicinarsi alla statua della dea. Questa è stata magistralmente ricomposta da Despinis che, dopo avere individuato i frammenti originali, ha ricostruito il tipo, lo ha riconosciuto nelle copie di età romana121 e lo ha attribuito con sicurezza ad Agoracrito a dispetto delle discordanti fonti antiche.122 A differenza della de- 120 B. Petrakos, La base de la Némesis d’Agoracrite, in BCH, 105, 1981, pp. 227-253; Id., ¶ÚÔ‚ÏËÌ·Ù· Ù˘ ‚·Û˘ ÙÔ˘ ·Á·ÏÌ·ÙÔ˜ Ù˘ NÂÌËÛˆ˜, in Kyrieleis, op. cit. a nota 54, pp. 89-107. 121 G. I. Despinis, ™˘Ì‚ÔÏ‹ ÛÙË ÌÂÏÂÙË ÙÔ˘ ÂÚÁÔ˘ ÙÔ˘ AÁÔÚ·ÎÚÈÙÔ˘, Athinai 1971, pp. 55-59. 122 W. Ehrhardt, Versuch einer deutung des Kultbildes der Nemesis von Rhamnus, in AntK, 40, 1997, pp. 30-31. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 89 Fig. 17a. Fianchi del basamento della statua di Nemesi a Ramnunte (da Petrakos 1986). scrizione offerta da Pausania, il posizionamento (non ancora concluso) dei frammenti scultorei superstiti effettuato da Petrakos (ed accolto dalla critica) ha accertato che la decorazione, organizzata con calcolata simmetria, si snoda su tre lati della base di culto (fronte e fianchi), mentre il retro, situato a circa cm 70/75 dal muro di fondo della cella, è liscio. Su ciascun fianco (Fig. 17a-b) sono scolpiti tre perso- 90 maria elisa micheli Fig. 17b. Fianchi del basamento della statua di Nemesi a Ramnunte (da Petrakos 1986). naggi ed un cavallo, una quarta figura è posizionata all’angolo con la fronte, dove sono pertanto sistemate otto figure: quattro femminili e quattro maschili. Le femminili occupano la zona centrale, due rivolte a sinistra e due a destra, in maniera da fronteggiarsi; il fuoco della composizione cade nello spazio vuoto tra le due donne che convergono rispettivamente da sinistra e da destra. Il numero delle figure (cavalli scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 91 esclusi) assomma a 14 (4 donne e 10 uomini) ed è, le’ della battaglia di Maratona segna il ruolo di Ramquindi, superiore alle 12 (3 donne e 9 uomini) mennunte tra gli altri demi ed è, forse, un motivo in più zionate dal Periegeta che, oltre ad indicare il tema, per spiegare la presenza di eroi locali sul basamento. nomina alla rinfusa i diversi personaggi implicati In tale contesto acquista una più definita credibilità nella scena: la ‘presentazione’ di Elena a Nemesi, anche l’aneddotica sulla statua di culto, ricavata dal sua vera madre, da parte di Leda, sua madre adottiblocco di marmo pario dal quale Dario avrebbe vova, alla presenza di Tindaro, Menelao, Agamennoluto fare inalzare un monumento per la sua (mancane, dei Dioscuri, degli eroi Hippeus ed Epochos, di ta) vittoria: così la statua poteva essere percepita coun giovane sconosciuto e di Pirro, al quale viene agme segno tangibile della punizione della hybris giunta la chiosa di essere stato il marito di Ermione (prima di tutto quella del Gran Re e dei Persiani), a (figlia di Elena e Menelao). Stile e tecnica dei framriprova della potenza della dea. Viceversa, poco comenti evidenziano strette corrispondenze con quelli strutto hanno le discussioni circa la riconversione di pertinenti alla statua di culto, in specie nell’impiego una statua di Afrodite come Nemesi (che ne suggedi incisioni continue e costanti che risaltano nelle rirebbero una ‘profanizzazione’), valide solo se lette pieghe delle vesti; inoltre, partendo da sinistra, la in funzione della redazione iconografica che, però, terza figura femminile molto frammentata – identigli attributi legano efficacemente alla dea, dichiaranficata come Nemesi – richiamerebbe il tipo della done qualità e specificità (Fig. 18). Nikai e cervi sulla statua di culto. Come ribadito da Despinis, statua di corona manifestano la sua invincibilità ed ineluttabiculto e basamento debbono essere stati realizzati lità (accolgo la lettura di Ehrhardt);127 gli Etiopi sulla nello stesso arco di tempo, il decennio 430-420 phiale tenuta nella mano destra ed il ramo con i poa.C.:123 a questa cronologia si accordano tipologia e mi, esibito nella sinistra, alludono alla sua genealomodi costruttivi usati nel tempio, per il quale gia e rappresentano il suo dominio, esteso ovunque Miles124 ha enucleato le tangenze stilistiche con le nel mondo fino alla terra delle Esperidi che, vale la membrature dei Propilei ad Atene, della Stoa a pena ricordare, in uno dei rilievi a tre figure (come Brauron e del Tempio degli Ateniesi a Delo. sull’hydria del Pittore di Meidias) è una terra allusiva La coesistenza di fonti archeologiche e letterarie all’Elysion.128 permette di conguagliare le informazioni su tempio, Anche il rilievo sulla base è per l’appunto «geneastatua e basamento e di tracciare un più articolato logico»: connesso alla dea ed al luogo in cui ella è vequadro storico entro cui va ad innestarsi il culto di nerata come propongono ‘geograficamente’ gli eroi Nemesi nel demo di Ramnunte nel primo decennio Hippeus, Epochos e – secondo la proposta di Petradella guerra del Peloponneso. Il Nemeseion risulta kos – Oinoe e Neanias. In virtù di questi, la ‘presenben integrato nel sistema di culti dislocati lungo la tazione’ di Elena avverrebbe nel sito stesso in cui sorzona costiera nord-orientale, finitima ad Atene, che ge il santuario della dea, che assurge a ‘spazio del nella seconda metà del v sec. a.C. furono interessati mito’. Così facendo, viene recuperata anche l’atticità da un’intensa attività, legata alla loro riorganizzaziodi Elena che, non bisogna dimenticare, godeva di un ne tanto strutturale quanto rituale.125 Satellite nella suo autonomo culto non lontano da Ramnunte, a tetrapoli di Maratona, Ramnunte acquista una più Thorikos. In confronto alle basi fidiache, dal fregio spiccata rilevanza a seguito della battaglia quando, emerge una (apparente?) distorsione delle genealoancora nel racconto di Pausania (i, 33, 2-3), contro i gie mitiche ed una nuova edizione di queste: tre gePersiani si era rivelato provvidenziale l’aiuto della nerazioni di divinità ed eroi sono infatti presentate dea. Non è dunque da sottovalutare la considerazio‘sincronicamente’, circostanza che sembrerebbe corne di Petrakos126 che proprio il significato ‘universaroborare l’interpretazione, fuori dal coro, di Deli123 Intervento di Despinis in Petrakos, ¶ÚÔ‚ÏËÌ·Ù· cit. a nota 120, p. 107; dalle prime indagini risultava uno scarto cronologico tra statua di culto, datata da Despinis al 430 a.C., e basamento, per Petrakos di un decennio più recente. Cfr. anche Karanastasses, art. cit. a nota 119, pp. 126-127. 124 M. M. Miles, A reconstruction of the temple of Nemesis at Rhamnous, in Hesperia, 58, 1989, pp. 223-240. 125 B. Knittlmayer, Kultbild und Heiligtum der Nemesis von Rhamnous am Beginn des peloponnesischen Krieges, in AM, 114, 1999, pp. 15-18. 126 B. Petrakos, TÔ NÂ̤ÛÂÈÔÓ ÙÔ˘ P·ÌÓÔÓÙÔ˜, in ºÈÏÈ· ÂË ÂȘ °ÂÔÚÁÈÔÓ E. M˘ÏÔÓ·Ó, Athinai 1987, pp. 295-326. 127 Ehrhardt, art. cit. a nota 122, pp. 33-39; Knittlmayer, art. cit. a nota 125, pp. 8-9 n. 36. 128 Micheli, art. cit. a nota 82, pp. 128-130; A. Delivorrias, T¿ TÚ›ÌÔÚÊ· ·Ó¿ÁÏ˘Ê· ÁÈ· Ì›· ·ÎÔÌË ÊÔÚ¿, in AÌ˘ÌÔÓ· ÂÚÁ·, Athinai 2007, p. 385. 92 maria elisa micheli vorrias sullo svolgimento della scena (relativa a suo avviso alla deificazione di Elena). Questa non avverrebbe in un luogo fisico e geograficamente definito (Ramnunte, appunto), bensì nell’Aldilà, dove possono coesistere tutti i partecipanti:129 vero è che ad Atene la celebrazione delle Nemesie era collegata al culto dei morti. Rispetto alla lezione fidiaca, sulla base è dismessa la teoria olimpia ed un ‘declassamento divino’ emerge anche a fronte del basamento alcamenico, in cui la nascita di Erittonio – l’eroe autoctono, il fondatore della stirpe dalla quale per i dossografi attici130 nascerà Teseo – avviene davanti alle divinità poliadiche (Atena, Efesto, Ghe). È un ‘declassamento’ presumibilmente funzionale al contesto, peraltro riflesso dall’ambiguità delle fonti coeve pertinenti sia a Nemesi, dissonanti dall’immagine arcaica della dea come tracciata nelle opere di Esiodo,131 sia ad Elena, il cui profilo si differenzia da quello imposto nell’epica. Riguardo all’eroina, è nelle opere di Euripide che si coglie appieno l’antinomia tra il giudizio negativo espresso nelle Troiane ed il conclamato riscatto nella tragedia omonima, dove Elena è presentata come vittima innocente; due aspetti che, nella lettura di Shapiro,132 erano ben presenti anche agli artisti, non ultimi i ceramografi attici (in specie il Pittore di Meidias), pienamente partecipi al dibattito sulla ‘natura’ di Elena. L’anforisco a Berlino del Pittore di Heimarmene mostra infatti l’eroina ‘assediata’ da Afrodite e Peithò che quasi la ‘sospingono’ verso Paride presso cui è Eros, mentre a distanza proprio Nemesi, che assiste vicino a Tyche, punta il dito: un monito per le conseguenze dell’evento.133 Nell’ambivalenza dei testimonia corre forse un sottile legame con la complessità del mito di Pandora, allusivo al suo legame con Atena, qual è proposto sulla base partenonica. Sul basamento del Nemeseion, infatti, è del pari dialogico il rapporto Nemesi/Elena, poiché – grazie alla compresenza – entrambe ricevono una dignità che dalla religio sfuma nell’etica, alla quale per l’appunto rinvia Ó¤ÌÂÛȘ; questo aspetto ‘concettuale’ (parallelo al fiorire ad Atene di monumenti per personificazioni ‘cittadine’ e ‘morali’) sembrerebbe peraltro tradotto e sostenuto dallo schema compositivo, privo di una figura centrale a marcare il fuoco.134 Le contraddizioni ‘cronologiche’ implicite nei partecipanti e le innovazioni dei loro significati affermate all’epoca avrebbero dovuto contribuire a fortificare il messaggio inviato dalla figurazione, di cui rimangono comunque impalpabili alcuni elementi nodali: l’occasione (ed il motivo) della ‘presentazione’ – che riterrei avere lo stesso valore di una ‘rinascita’ – di Elena, nonché il ruolo di Nemesi. Si può discutere se riabilitazione (culminata nell’Encomio dell’occidentale Gorgia), doppia genealogia divina (Nemesi e Zeus) ed atticizzazione di Elena (concretata nel culto a Thorikos) non abbiano subito un incremento durante il (e/o a seguito del) conflitto peloponnesiaco e se, in certo qual modo, anche la figura dell’eroina – qui nel suo stato di dea – non abbia avuto un ruolo strumentale nella ‘propaganda di guerra’ tra Atene e Sparta (che giunge a toccare pure il santuario). Cratino nella Nemesi paragonava Pericle a Zeus (specificamente indicato come il padre di Elena), mentre nel Dionysosalexandros avanzava un parallelo tra Pericle e Paride, tra la guerra del Peloponneso e la guerra di Troia.135 Peraltro, la guerra di Troia era l’equivalente mitico della guerra persiana che aveva il suo monumento celebrativo a Maratona, dove proprio Nemesi aveva concorso alla sconfitta dei Persiani. Attraverso il linguaggio polisemico del mito la scena si apre dunque alla multivocalità, sottraendosi ad una lettura unidirezionale: situazione che, nel contingente, è però gravata dall’incertezza sull’esatta identificazione dei partecipanti, stante l’estrema frammentarietà delle figure superstiti. Non vi è unanimità tra gli studiosi nel riconoscimento dei protagonisti e le diverse denominazioni suggerite finora aprono, ovviamente, scenari interpretativi non conciliabili.136 Questi si legano anche al nome della quarta figura femminile (quella assente nella descrizione di Pausania), di cui si conserva un lacerto: Oinoe, Ermione, Clitemnestra o Themis. A livello ermeneutico, pertanto, la prima viene 129 A. Delivorrias, in H oros, 2, 1984, pp. 83-102. 130 Shapiro, art. cit. a nota 47, p. 151. 131 Karanastasses, art. cit. a nota 119, pp. 129-130; Ehrhardt, art. cit. a nota 122, pp. 32-33; Knittlmayer, art. cit. a nota 125, pp. 12-14. Del resto, è stato notato come le altre statue raffiguranti Nemesi obliterino la creazione di Agoracrito. 132 H. A. Shapiro, The judgment of Helen in Athenian Art, in J. Barringer - J. Hurwit (a cura di), Periclean Athens and its legacy: problems and perspectives, Austin 2005, pp. 47-62. 133 ARV2, p. 1173. Lo stesso soggetto è noto da tre rilievi in marmo (frammentari) di età tardo repubblicana-protoaugustea: Micheli, art. cit. a nota 82, p. 86 nota 22. 134 Cfr. anche Petrakos, ¶ÚÔ‚ÏËÌ·Ù· cit. a nota 120, p. 97. 135 Palagia, op. cit. a nota 1, p. 68. 136 Cfr. la sintesi in Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 130-135, 244248, n. 62. scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina Fig. 18. Nemesi di Ramnunte. Ricostruzione della statua e della base di culto. 93 94 maria elisa micheli ad accrescere la componente locale dell’evento; la seconda e la terza aiutano a rafforzare i legami parentali di Elena e prospettano la possibilità sia di proiettare l’attualità nel mito sia di trasporre quest’ultimo sul piano filosofico; la quarta insiste sulla storia locale del santuario, dove si sa bene che Themis affianca Nemesi, entrambe garanti dell’ordine e della misura nel kosmos. Egualmente ondivaga è la denominazione – e conseguente collocazione – dei personaggi maschili e, nella proposta di Lapatin, anche l’individuazione della stessa Elena. In questo senso mi sembra di una qualche utilità proprio il rilievo a Stoccolma: - il primo personaggio maschile stante, panneggiato nel mantello, corrisponde perfettamente (nella ponderazione, nell’andamento delle pieghe della veste, specie nel lembo di stoffa triangolare ricadente tra le gambe) a quello posto sull’angolo sinistro della fronte, di cui è conservata la metà inferiore del corpo. Considerato il tipo statuario, non escludo affatto che l’originale fosse completato da una testa barbata (quale appare sul rilievo), ad indicare la ‘maturità’ dell’uomo. Non dovrebbe trattarsi di Zeus come prospetta Lapatin (ovviamente i fulmini nella mano sono di restauro, e perché non pensare che la scelta di un tale attributo possa essere stata suggestionata da quelli che Zeus – simile è anche la conformazione della testa – impugna sul rilievo Del Drago?), ma di un personaggio di rango: Tindaro, in accordo con l’opinione più diffusa; - il personaggio successivo corrisponde ai frammenti che sul basamento restituiscono i pettorali ed il bacino di un giovane; in particolare, analogo è l’andamento delle anche, le quali lasciano ricostruire il movimento delle gambe come visualizzato dal rilievo. Anche la lieve rotazione del torso originale indica che avrebbe dovuto essere appena rivolto alla sua sinistra. Incerto, benché molto probabile, è se dal braccio destro ricadesse il mantello in armonia con quanto appare sul pezzo a Stoccolma, sebbene non con il gesto ampio del braccio portato in fuori (amplificato dal copista romano ed esacerbato dal restauro settecentesco), ma con uno appena più contenuto, come è segnalato proprio dall’inclinazione della spalla. Circa la sua identità, non è da scartare il suggerimento che si tratti di uno dei Dioscuri (un frammento originale della testa calza il pileo) e, con migliore probabilità, quello mortale; - la seguente figura femminile concorda con il frammento del torso sistemato sul basamento dopo il giovane sia nella disposizione della veste, larga at- torno al collo e scesa a formare un motivo a V tra le mammelle (interpretato con rigidità sul rilievo tramite un’alquanto meccanica serie di triangoli inscritti), sia nell’inclinazione delle spalle. Sulla sinistra ricade il mantello di cui si conservano le doppie pieghe ammassate sulla spalla della quale evidenziano il movimento verso l’alto. Questo è coerente con la posizione del braccio che il rilievo, a causa del restauro settecentesco, mostra però troppo sollevato al fine di tenere discosto il mantello dal capo, che è scoperto. Difforme dal rilievo a Stoccolma è invece il frammento posizionato in basso, che restituisce dai piedi al ginocchio le gambe del personaggio: la gamba destra è scartata, tornita dalle pieghe circolari della veste, mentre la sinistra, stante, è celata dalla ricaduta a bande parallele dell’abito. Rispetto alla redazione romana, è clamorosamente invertita la ponderazione. Nel frammento originale risulta, però, con chiarezza la disposizione delle gambe come è esibita dal successivo personaggio femminile sul rilievo a Stoccolma che, nel linguaggio del freddo formulario accademico il quale annulla la raffinatezza del marmo agoracriteo, riproduce con acribia tanto l’andamento circolare delle pieghe modellanti la gamba destra, quanto le rigide scanalature parallele che obliterano la sinistra. Considerando la vigile attenzione al modello espressa dal pezzo a Stoccolma (ben apprezzabile nei due personaggi maschili come anche nel torso femminile in oggetto), sorge il dubbio se il frammento lì collocato non sia invece pertinente alla figura successiva. Al riguardo non sottovaluterei che: il modulo di entrambe le figure è costante; mancano punti di attacco con la parte superiore conservata del tronco della prima donna; la ricaduta delle pieghe parallele si attaglia egregiamente a ciò che rimane della figura seguente; - la seconda figura femminile concorda con ciò che resta della quarta, ovvero una piccola parte a sinistra del bacino (con l’attacco delle pieghe del peplo) presso cui è un lacerto del mantello del quale si recupera l’andamento circolare, a pieghe concentriche. Questo stesso effetto è restituito dalla redazione romana tramite una serie di increspature che dal fondo piatto – con effetto virtuosistico – acquistano consistenza volumetrica fino a formare un rotolo più pesante per avvolgere scenograficamente l’intera figura. Valutando la posizione del bacino, a questa figura si conformerebbe bene il frammento di gambe che sulla base è riferito alla precedente, della quale segnala la direzione a sinistra verso il personaggio successivo: Nemesi. Questa è costruita con anda- scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 95 mento opposto, sì da formare con l’altra donna una ro/Neottolemo. Ma allo stato attuale è forse inutile coppia convergente che viene ad occupare la zona di spingersi oltre, introducendo e sottomettendosi al rispetto della fronte. In accordo con quanto anticipagioco dei nomi.138 to sopra, è proprio questa seconda figura femminile scolpita sul rilievo a Stoccolma che – non solo per b) Dunque, il rilievo a Stoccolma è aderente all’oril’impianto complessivo in sé, ma soprattutto dal ginale tanto nell’impianto complessivo quanto nella confronto con l’originale – appare maggiormente descrizione delle singole figure (unica discrasia la coinvolta nell’accadimento e permette di verificare metà inferiore della prima donna, come è presentata al meglio direzione e strategia compositiva dell’intenella ricomposizione di Petrakos), attualizzate nel ra scena. Essa è incentrata sulle quattro donne, due linguaggio espressivo di epoca adrianea. C’è da chierivolte alla loro sinistra e due alla loro destra in madersi se del rilievo ci sia arrivata solo una parte – cioè niera da ricreare – con cadenza quasi processionale – se la redazione originaria riproduceva o meno tutta l’atmosfera sacrale dell’incontro, tutto consumato al la raffigurazione della fronte ramnusia – o se sia finifemminile. to in sé. Ovviamente, guardando soltanto alle modaAnche in base agli elementi appena riferiti, apprezlità di lavorazione di una bottega, non vi sarebbe bizo la proposta di riconoscere Leda nel primo persosogno di supporre l’intero: un segmento sarebbe naggio femminile (quello che la redazione romana stato sufficiente; anzi, la scena nel suo complesso pomostra a capo scoperto: forse un indizio del suo stato teva venire parcellizzata, scomposta e ricomposta, sì mortale) ed Elena nel secondo137 che, velata, impoda risultare innescato quel processo di desemantiznente ed accompagnata dalla sua famiglia umana zazione del modello originario, rifunzionalizzato (Leda, un Dioscuro e Tindaro), è presso la madre bioper le esigenze dei fruitori romani. Il ‘nuovo’ pezzo logica, Nemesi. La dea – egualmente velata – è seguipoteva così inviare messaggi altri dal prototipo, disota da un personaggio femminile, a mio parere ‘l’indimogenei comunque per livello di emittenti e desticatore’ della localizzazione dell’evento (Oinoe o natari. Ma, come s’è visto, il rilievo mantiene sia la Themis) attraverso il quale si materializzava con più forma che la figurazione dell’originale, allineandosi immediatezza il rapporto con l’eikon soprastante; dal ad esso per lo meno a livello ‘rappresentativo’. A secondo Dioscuro, verosimilmente il gemello imsciogliere il virtuale quesito non aiutano né il rilievo mortale (un significante, funzionale a trasmettere Del Drago (di cui la maggior parte degli studiosi nel’accadimento dalla geografia circostanziale al piano ga relazioni con il basamento della Parthenos e che, degli astri – ed anche degli Inferi – dove si estendevaperaltro, si presenta ‘parziale’ a fronte della virtuale no le competenze della dea); da un personaggio mae labile derivazione) né i rilievi con la nascita di Eritschile più anziano (i frammenti superstiti indiziano tonio (che, grazie alla provenienza da Villa Adriana circa la geminatio del tipo posizionato sull’angolo opdel frustolo nei Musei Vaticani, si prestano, però, a posto). L’identità di quest’ultimo (scartata la possibiconsiderazioni culturali utili a motivarne la scelta lità di creare un rapporto binario con la metà sinistra ‘indirizzata’). Se, poi, la riconoscibilità del soggetto della fronte, determinabile dall’introduzione di Zeus era affidata ad un elemento significante, nel rilievo a che con Nemesi fornirebbe il corrispettivo divino alla Stoccolma questa ‘spia’ (quanto meno oggi) è sfugcoppia mortale Leda/Tindaro) rientra nei nomi forgente, come non ha mancato di avvertire il venditore niti da Pausania. È allora plausibile Menelao, lo sposo settecentesco che, con acutezza, ha attribuito nomi ‘umano’ di Elena, che immette nel fregio la compo‘tradizionali’ alle figure scolpitevi: risultano identità nente spartana (quella declinabile pure nell’attualità divine che avrebbero potuto essere così percepite da politica), nonché il grande tema della guerra di Troia un indeterminato destinatario antico. (da intendere positivamente, quale collante per tutti Tuttavia, nonostante il fatto che la porzione sui Greci come nei fatti era avvenuto nella lotta contro persiste presenta una sequenza di personaggi ‘neui Persiani), cui rinviavano anche Agamennone e Pirtri’ ed all’apparenza duttili ad un più ampio spettro 137 Contra: Lapatin, art. cit. a nota 119, pp. 111-113, che inverte le identità delle due donne. 138 Secondo la ricostruzione di Petrakos, sul fianco sinistro avrebbero dovuto trovarsi Agamennone o Menelao, Pirro, Hippeus o Epochos con il cavallo e poi all’angolo con la fronte Tindaro; su quello destro, Neanias (il giovane sconosciuto ricordato da Pausania), Hippeus o Epochos con il cavallo e sull’angolo con la fronte Menealo o Agamennone (Petrakos ¶ÚÔ‚ÏËÌ·Ù· cit. a nota 120; cfr. Lapatin, art. cit. a nota 119, p. 110 e nota 9). 96 maria elisa micheli semantico, non ascriverei il pezzo ad una generica attività manifatturiera per un altrettanto generico destinatario,139 piuttosto ad una specifica committenza: un aspetto che, più che dall’oggetto in sé, mi sembra possa acquisire una sua sostanza da alcune (indubbiamente tenui) argomentazioni collaterali. E queste ruotano attorno al ‘perché’ di un qualcosa legato a Nemesi (ma alla dea di Ramnunte), nel più ampio contesto culturale adrianeo. Certo è che a Roma Nemesi rimane una divinità straniera (nel nome stesso: altrimenti, è Fortuna o anche Iustitia ed Aequitas), anche se Plinio (nh , 28, 22) ricorda una sua statua sul Campidoglio, di cui restano purtroppo ignoti lo schema iconografico, la cronologia ed il nome dell’artista. Con l’epiclesi di Rhamnusia è chiamata da Ovidio nei Tristia (5, 8, 3: ultrix Rhamnusia), che ne accentua il carattere di vendicatrice della hybris degli uomini; si sa che a lei Cesare era devoto, tanto da fondare un Nemeseion ad Alessandria a seguito della morte di Pompeo. Comunque, se ci volgiamo ai periodi successivi e ad un allargato ambito romano, le competenze della dea si esplicano negli agoni (nei teatri ed anfiteatri) ed attecchiscono soprattutto negli accampamenti militari, specie tra le truppe di origine orientale, forse il maggiore veicolo di diffusione del culto in Occidente. Sono state altresì suggerite tangenze cultuali tra Apollo e Nemesi, mettendo in parallelo il rilievo da Fourni con quello da Brindisi in cui trionfa ‘Dea Nemesis Regina’: ma queste si limitano per me alla sola impaginazione, organizzata secondo precisi criteri di taxis, con la divinità al centro e personaggi sussidiari distribuiti attorno in maniera simmetrica e speculare secondo la soluzione a pannelli propria dei rilievi mitriaci.140 In età adrianea, però, a Roma un culto di Nemesi (nella sua declinazione di Rhamnusia) è attestato – certo nella sfera del privato – da un sacello nel contesto del Triopio della grande villa che Erode Attico possedeva tra il ii ed il iii miglio della via Appia (ig xiv 1389, ii, 1-5); riguardo alla figura di Erode e ad un suo legame con quella divinità, vale la pena di ricordare che nella replica frammentaria della Nemesi rinvenuta a Corinto va probabilmente riconosciuta una statua-ritratto di Annia Regilla.141 La quantità e la qualità dei materiali recuperati nella villa extraurbana a partire dalle esplorazioni cinquecentesche mostrano non solo una naturale adesione (rispettosa delle origini del proprietario), ma una programmatica citazione dell’Atene classica.142 Essa è praticata sia attraverso la ripresa di alcuni suoi imponenti monumenti143 sia attraverso la ricomposizione dei più venerandi culti attici (non ultimi quelli eleusini), del tutto in sintonia con le propensioni filoelleniche del grande etairos di Erode, l’imperatore Adriano. Questa attestazione – pur circostanziata e sporadica – invita nondimeno a non escludere che il rilievo, recuperato dal Tevere secondo la testimonianza settecentesca, sia proprio una voluta edizione del basamento ramnusio, mirato ad una nuova collocazione a Roma. L’impossibilità di prospettarne una contestualizzazione nel sistema urbano non permette comunque di andare oltre, nonostante il fatto che (casualità o meno) non lontano dal luogo del recupero, sull’altra sponda del fiume, si estendevano proprietà che, nei passaggi di mano imperiali, vedevano una parte dei lussureggianti Horti Domitiae occupati dal Mausoleo di Adriano. 139 Sul problema generale, cfr. le posizioni contrarie di Böhm, op. cit. a nota 2. 140 Micheli, art. cit. a nota 53, pp. 10-11. 141 E. Brigger, Roman adaptations of classical Greek cult Statues. The case of Nemesis of Rhamnous, in MedA, 15, 2002, p. 78 nota 36. 142 Del resto, un atteggiamento ‘musealizzante’ non è estraneo alle opere recuperate nella villa che Erode possedeva a Loukou: G. Spyropoulos, Drei Meisterwerke der griechischen Plastik aus der Villa des Herodes Atticus zu Eva, Loukou, Frankfurt 2001. 143 Valgano, tra i tanti, le due imponenti statue di Cariatidi (una oggi nei Musei Vaticani, Braccio Nuovo; una seconda al British Museum, dove è entrata per il tramite della collezione di Ch. Townley) venute alla luce sotto Sisto V; da ultimo: F. Rausa, L’album Montalto e la collezione di sculture antiche di Villa Peretti Montalto, in Pegasus, 7, 2005, pp. 102-103 (ivi bibl. prec.). Per la valenza cultuale del luogo, cfr. M. Galli, Die Lebenswelt eines Sophisten. Untersuchungen zu den Bauten und Stiftungen des Herodes Atticus, Mainz 2002, pp. 124-125. Sintesi: LTUR Suburbium, V, 2008, pp. 189-201, s. v. 144 Cfr. la sintesi di Böhm, op. cit. a nota 2. 5. Una nota conclusiva Il rilievo a Stoccolma permette dunque di verificare la fedeltà al modello per quanto concerne sia morfologia che figurazione ed impaginato; al tempo stesso mostra bene l’acquisizione in età adrianea del linguaggio formale ‘atticizzante’, secondo un codice espressivo che permea anche il rilievo Del Drago ed il frammento da Villa Adriana nei Musei Vaticani.144 Per entrambi, tuttavia, la derivazione ‘diretta’ dal modello classico si pone con maggiore margine di incertezza: nel caso del frammento con la nascita di Erittonio, questa va anzitutto ad intersecarsi con l’accoglimento o meno dell’ipotesi della Karouzou circa la pertinenza alla base della statua di culto nel cd. Theseion sul Kolonos Agoraios e solo in seconda scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina 97 istanza si estende all’esplicita intonazione dello scheNuma Pompilio. Attutito (ma non del tutto dismesma compositivo e dei tipi iconografici (§ 3); nel caso so) il significato cultuale, i rilievi conservano comundel marmo Del Drago, invece, investe soprattutto i que un forte valore culturale, forse di segno autorapreferenti iconografici usati per costruire la scena, che presentativo come indizia il frammento a Villa a mio parere va ancora letta nei termini di un’assunAdriana; la ripresa dei temi deve essere ovviamente zione – attuata attraverso mediazioni – della rapprescaturita dagli interventi che l’imperatore attuò in sentazione sulla base dell’eikon partenonica (§ 2). Grecia e, più specificamente, ad Atene. Se lì la costiLa mancanza di informazioni affidabili sui nuovi tuzione di un Panhellenion, organismo eminentecontesti d’impiego e di fruizione dei rilievi non conmente religioso e preposto al culto imperiale, dovesente tuttavia di postulare ipso facto un mantenimenva diventare strumento e garanzia di integrazione to consapevole dei significati peculiari ai soggetti oriper le élites greche, una risposta dialogica ed applicaginari che pure, nell’ottica della politica (anche tiva nell’Urbe non avrebbe che potuto venire assunta religiosa) perseguita da Adriano,145 potrebbe non esattraverso una redistribuzione dei signa della storia sere del tutto escluso: come neos Teseo, Adriano è so‘comunitaria’ ateniese, vivido riflesso di un atteggiater e ktistes ad Atene; a Roma è un Romulus Conditor mento – anche retrospettivo – che nella villa tiburtiche, sul versante dei culti, rivolge però lo sguardo a na trova una sua organica specificità. 145 Galimberti, op. cit. a nota 112. SANT’URBANO ALLA CAFFARELLA: NUOVE INDAGINI E SCOPERTE Stefania Pinsone a storia di questo monumento è stata, senza dubbio, tra le più travagliate in rapporto all’importanza davvero incommensurabile dell’edificio, antico tempio del ii sec., fra i pochissimi pervenutici pressoché intatti; in seguito convertito in chiesa, stando all’affresco nella cripta, circa nella seconda metà del ix sec., e secondo la testimonianza di uno dei cicli più importanti della pittura monumentale romana e probabilmente italiana dell’xi sec. La storia del monumento è stata contrassegnata da ripetute e cicliche “escursioni” d’interesse antiquario, archeologico, artistico e religioso dal momento della sua riscoperta e restauro nel xvii sec., durante il pontificato di Urbano VIII. La letteratura al riguardo è piuttosto avara: le fonti, pur preziosissime, degli antiquari del xvii e del xviii secolo, tendono a privilegiare o solo la fase antica o solo quella medievale ed in entrambi i casi, ci restituiscono prevalentemente informazioni parziali ed ideologicamente orientate. Studi moderni e monografici risalgono solo all’inizio del secolo scorso grazie, soprattutto, alla scuola romena (Busuioceanu, 1924), con la focalizzazione sui soli affreschi, poi a quella tedesca (Kammerer-Grothaus, 1971; 1974) e francese (Gros, 1969), che per converso hanno analizzato la sola struttura antica ed, infine, agli studiosi anglosassoni (Williamson 1984; 1987 e Noreen, 19982002), che hanno segnato la sintesi, specie con la Noreen, dell’approfondimento su entrambe le fasi. Dal fronte italiano sono pervenuti studi sporadici, per lo più nel contesto della manualistica d’approfondi- mento, di solito relativa alla pittura medievale romana (Matthiae, 1987), oppure nell’ambito dell’analisi suburbicaria di Roma, in relazione alla catacomba di Pretestato (Spera, 2004). Attualmente, le monografie degli studiosi americani hanno riacceso il dibattito e l’interesse verso Sant’Urbano, che ha visto l’Andaloro schierarsi nuovamente in prima fila nel rivendicare la correttezza della tradizione attributiva italiana, relativa alla cronologia degli affreschi (Andaloro, 2007). L’antico tempio, originalmente costruito poco dopo la metà del ii sec. d. C. da Erode Attico per il suo “Triopio”, fra il ii e iii miglio della via Appia, si trova attualmente sulla sinistra della via Appia Pignatelli, all’interno del parco della Caffarella, a circa 3 Km di distanza dalla porta di San Sebastiano. L’edificio pagano, successivamente assimilato al culto cristiano, fu associato ai martiri sepolti nelle vicine catacombe di Pretestato e Callisto ed ebbe una specifica importanza per la venerazione di Papa Urbano I (222-30), che la tradizione voleva sepolto nella limitrofa catacomba di Pretestato.1 Nel corso degli studi e degli scavi archeologici che hanno interessato l’edificio, il tempio ebbe le più disparate denominazioni, nonché notevoli tentativi di ricostruzioni ideali: Tempio delle Camene,2 Tempio di Bacco,3 Tempio dell’Onore e della Virtù4 (Fig. 1), Tempio della Caffarella,5 infine la denominazione, condivisa dalla critica attuale, di Tempio di Cerere e Faustina,6 che rimanda all’antica proprietà del fondo e alle vicende di cui fu protagonista. 1 Vedi principalmente: K. Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century Roman Wall Painting and the Sanctity of Martyrdom, Baltimora 1998, pp. 76-77 e Ead., Sant’Urbano alla Caffarella, Rome: the Reconstruction of an Ancient Memorial, in MAAR, 46, 2002, pp. 51-57. 2 A tale riguardo vedi F. Nardini, Roma Antica, ed. quarta, riscontrata, ed accresciuta delle ultime scoperte, con note ed osservazioni criticoantiquarie di Antonio Nibby, membro ordinario dell’accademia romana di archeologia e con disegni rappresentanti la faccia attuale dell’antica topografia di Antonio De Romanis membro della stessa accademia, tomo I, Roma 1843, pp. 150-151. 3 G. Piranesi, Varie vedute di Roma antica e moderna, Roma 1748. 4 F. Piranesi, Raccolta De’ Tempj Antichi. Parte i - I Tempj di Vesta Madre, ossia della Terra e della Sibilla, ambedue in Tivoli, e dell’Onore e della Virtù, fuori di Porta Capena, Roma 1780; così G. Guattani, Roma descritta e illustrata dall’Abbate Giuseppe Antonio Guattani Romano, Roma 1805, p. 44-45. 5 J. B. L. G. Seroux D’Agincourt, Historie de l’art par les monuments, depuis sa dècadence au iv siècle jusqu’à son renouvellement au xvi e, Parigi 1823-29, vol. 4, p. 20, per la cripta, vol. 5, pp. 116-117, tavole 94-95. 6 Per L. Quilici, La Valle della Caffarella e il Triopio di Erode Attico, in Capitolium, xliii, n. 9-10, settembre ottobre 1968, p. 339. J. Griesbach, Villa e mausoleo: trasformazioni nel concetto della memoria nel suburbio romano; in Suburbium. Il suburbio di Roma dalla crisi delle ville a Gregorio Magno, (Atti del Convegno), a cura di Ph. Pergola, Santangeli, R. Valenzani, R.Volpe, Roma 2003, pp. 4-6. Vedi anche H. Kammerer-Grothaus, Der Deus Ridiculus in des Herodes Atticus Untersuchung am Bau L «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 99-120 100 stefania pinsone Fig. 1a. Piranesi F., Pianta del Tempio dell’Onore e della Virtù, in Raccolta De’ Tempj antichi. Parte I - I Tempj di Vesta Madre, ossia della Terra e della Sibilla, ambedue in Tivoli, e dell’Onore e Della Virtù, fuori di Porta Capena, Roma, 1780 (foto da originale, per gentile concessione dell’Accademia di Belle Arti di Tokyo). Lungo l’Appia si trovavano le proprietà agricole degli Annii di là di una fascia d’orti coltivati, esistenti intorno al centro di Roma. Queste proprietà furound Polychromer Ziegelarchitektur des 2. Jharhunderts nach Chr. in Latium, in RM, 81, 1974, pp. 131-252. Vedi anche K. Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella, Rome, op. cit. a nota 1, p. 71. Per l’identificazione della Caffarella con un tempio: Rodolfo Lanciani (Christian and Pagan Rome, Houghton, Mifflin e Company, Boston e New York, 1892, p. 290-93), Giuseppe Lugli (La tecnica edilizia romana con particolare riguardo a Roma e Lazio, Roma, 1975, pp. 608, 610), Mariano Armellini (Le Chiese di Roma dal sec. iv al sec. xix , Tipografia Vaticana, 1891, p. 909-910), Lorenzo Quilici (op. cit. in questa nota, p. 339), Pierre Gros (Un décor d’époque antonine et sa significations: le stucs du «temple de Céreè s et de Faustine, mefra 81,1969, pp. 167-169), Rita Volpe (R. Volpe, Il Suburbio, in Roma Antica a cura di Andrea Giardina, Milano, 2000, pp. 201-202), Lucrezia Spera (Il paesaggio suburbano di Roma dall’antichità al Medioevo: il comprensorio tra le vie Latina e Ardeatina dalle Mura di Aureliano al iii miglio, L’Erma di Bretschneider, Roma 1999, p. 426); per quella con una tomba: Giuseppe Tomassetti (La campagna romana antica, medievale e moderna, a cura di L. Chiumenti, Bilancia F., vol. ii, Via Appia, Ardeatina ed Aurelia, Firenze 1979, p. 115), Christian Hülsen (Le chiese di Roma nel Medio Evo, Firenze 1927, pp. 26-43), Helke Kammerer-Gro- no portate in dote da Appia Annia Attilia Caucidia Tertulla quando andò sposa, intorno al 140 c.a., ad Erode Attico. Annia Regilla era imparentata con l’imperatrice Annia Galeria Faustina, moglie di Antonino Pio, e con l’omonima imperatrice, moglie di Marco Aurelio. Lucio Vibullo Ipparco Tiberio Claudio Attico Erode (101-175 d. C.),7 filosofo sofista, retore, precettore dei futuri imperatori Marco Aurelio (161180) e Lucio Vero (161-169), di famiglia ateniese illustre, fu tra le più eminenti personalità dell’impero, durante la metà del ii sec. d. C. Erode fu accusato nel 160 ca. dal fratello di Annia, Appio Annio Attilio Bradua, di averla uccisa, incinta del quinto figlio. Assolto dall’accusa, secondo quanto ci riferiscono Filostrato e le “iscrizioni triopee”, Erode, per dimostrare il dolore vero o presunto che fosse, si diede ad onorarne la memoria con manifestazioni di lutto esagerate ed innalzò il tempio consacrato alle dee elusine, per le quali Regilla era stata sacerdotessa, ed un tèmenos con statue, dedicato ad Atena ed a Nemesi di Ramnunte, posti all’interno dei praedia sull’Appia e ristrutturati in forma di comunità religiosa, cui impose il nome di Triopio. Il pagus era il luogo dove abitava la popolazione rurale del fondo e dove si svolgeva la sua amministrazione agricola. Il fondo sacro si poteva circoscrivere approssimativamente a sinistra della via Appia, dal colombario dei Liberti di Livia, al colle occupato dal forte dell’Acquasanta fino all’Almone, valle compresa. Il palazzo di rappresentanza doveva sorgere probabilmente tra le due vie, Appia e Appia Pignatelli, ed il circo di Massenzio. Restaurata e ricostruita sempre nel medesimo luogo, inglobando ed interrando man mano gli impianti più antichi, la villa fu alla fine a sua volta in gran parte distrutta ed interrata, thaus (op. cit. in questa nota, pp. 131-252), Paul Williamson (Notes on the Wall-painting in Sant’Urbano alla Caffarella, Rome, Papers of the British School at Rome 55, 1987, pp. 224-28), Kirstin Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century (op. cit. a nota 1, p. 27-28), Jochen Greisbach (Villa e mausoleo: trasformazioni nel concetto della memoria nel suburbio romano; in Pergola Ph., Santangeli, Valenzani R., Volpe R. (a cura di), Suburbium. Il suburbio di Roma dalla crisi delle ville a Gregorio Magno, Atti del Convegno, Roma 2003, pp. 4-6), benché questi ultimi vi vedano più una fusione di entrambe le funzioni: tomba e tempio, per la Noreen, e cenotafio per Griesbach. 7 G. Pisani Sartorio e R. Calza, La villa di Massenzio sulla Via Appia, Roma 1976, p. 139. Vedi anche Quilici, op. cit. a nota 6, p. 332. Vedi inoltre G. Tomassetti La campagna romana antica, medievale e moderna, vol. II, via Appia, Ardeatina ed Aurelia, a cura di L. Chiumenti, F. Bilancia, Firenze 1979, pp. 115-116 (il Tomassetti ci rammenta che Filostrato ha iniziato il ii libro delle sue Vite dei Sofisti, proprio da quella di Erode). Vedi anche E. Caetani Lovatelli, Il triopio e la villa di Erode Attico, p. 129 e 131-32 e R. Lanciani, op.cit. a nota 6, p. 289-290. sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte 101 Fig. 1b. Piranesi F., Spaccato per lungo dell’interno del Tempio e suo portico (per gentile concessione dell’Accademia di Belle Arti di Tokyo). per far posto alla costruzione del grandioso complesso massenziano.8 Due colonne furono trovate all’inizio del ’600 di fronte a San Sebastiano, consistenti di un lungo panegirico in versi, scolpito su due cippi di marmo pentelico.9 Queste due iscrizioni metriche scritte da Marcello di Sidone, in esametri omerici, facevano probabilmente parte dell’ingresso al Triopio sull’Appia di fronte all’attuale basilica di San Sebastiano, dove è oggi la tomba c.d. di Romolo. Le iscrizioni, come si evince dal testo, descrivevano il complesso indicando la presenza del “recinto” sacro a Nemesi e Minerva e comminavano pene severissime a chi avesse voluto violare il Triopio. S’invitavano le donne romane al tempio delle “due Cereri”, innalzato nel Pagus e si celebrava la defunta Regilla, la cui statua si trovava all’interno del tempio stesso. Nell’archivio di Documentazione Archeologica a Palazzo Altemps, un documento registra la presenza di una statua femminile, posta all’interno del pronao di Sant’Urbano, che chi scrive rende pubblico per la prima volta (Fig. 2); dietro la foto, che ri- 8 Quilici, op. cit. a nota 6, p. 334-335 e Pisani Sartorio, Calza, op. cit. a nota 7, p. 113 e sgg.; vedi anche Caetani-Lovatelli, op. cit. a nota 7, p. 137; facevano parte del complesso anche il ninfeo comunemente detto della “ninfa Egeria” presso la valle dove scorre l’Almone, attuale marrana della Caffarella, forse il “lacus Salutaris” e la tomba cosiddetta di Annia Regilla (morta nel 160-161 d. C., in laterizio a due colori: sepolcro del tipo a tempio). 9 Quilici, op. cit. a nota 6, p. 333-40: secondo le notizie che ne forniscono il Ligorio ed il Canina, le colonne sostenevano il pronao di un edificio circolare; il testo in greco e la traduzione sono stati pubblicati in E. Q. Visconti, Le iscrizioni triopee ora borghesiane, Roma 1794. Altra fonte per le iscrizioni triopee e relativa traduzione, è quella di G. Leopardi, Epistolario con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte e lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all’autore, Napoli 1860, Vol. II, pp. 147-172. Vedi anche L. Spera, S. Mineo, Via Appia. I. Da Roma a Bovillae, Roma 2004, p. 104. Pisani Sartorio, Calza, op. cit. a nota 7, pp. 133-137. 102 stefania pinsone di lì. Per tale furto vi fu un procedimento penale. Em. (En?) Gatti 1971)”.10 La critica attuale si è trovata in disaccordo su quale “tempio” potesse essere realmente identificato con la tomba di Regilla. Nella valle della Caffarella, nella parte quasi certamente appartenente al Triopio, si conoscono almeno tre edifici di tipo templare: il cosiddetto “Dio Redicolo”, “Sant’Urbano” ed il mausoleo erroneamente denominato “Colombario Costantiniano”.11 Il tempio di Cerere e Faustina descritto nelle “iscrizioni triopee”, il tempio dedicato alle due dee per le quali Regilla aveva una particolare reverenza: Cerere e Faustina, la moglie di Antonino Pio (soprannominata anche la nuova Cerere), è stato identificato, infine, con l’attuale chiesa di Sant’Urbano;12 doveva svettare scenograficamente sulla bassa valle della Caffarella, al centro di un vastissimo recinto rettangolare, oggi in gran parte interrato, che fungeva da terrazzamento artificiale alla collina e su cui si aprivano, forse, portici, colonnati ed ambienti. trae la statua di profilo, è scritto testualmente: “Foto di statua posta nel pronao di Sant’Urbano alla Caffarella, proveniente da ?, la cui faccia fu rubata nel 1970 o giù Nel vi sec., dopo le devastazioni seguite alla guerra greco-gotica iniziò il fenomeno della traslazione dei corpi dei martiri all’interno dell’Urbe. Non meno devastatrice fu l’invasione saracena dell’anno 846, che dopo il saccheggio della città interessò anche il suburbio. Nel ix-x sec., di fatto la via Appia aveva cessato di essere la principale strada di collegamento con il sud. In questo periodo va facendosi più evidente il processo di smembramento dei terreni, da patrimonio di pubblica utilità a proprietà privata o controllata da nuclei nobiliari. Si registra, infatti, una presenza preponderante della proprietà d’enti religiosi, ma limitata alla coltivazione dei terreni. Nel ix sec. la valle della Caffarella, per i cumuli di marmi degli antichi edifici crollati e sparsi per tutta l’antica tenuta, porta il nome di La Marmorea ed il fondo valle acquitrinoso è diviso in due fondi: una Terra Sancti Zenonis è ricordata a metà strada sul diverticolo che unisce l’Appia alla Latina ed altri fondi appaiono di proprietà del Vestiario di Roma.13 Il Tomassetti indicò la tenuta del Triopio come il Fundus Tertium, inteso toponimo per la sua posizione al iii miglio, termine che compare in 10 Soprintendenza Archeologica di Roma, Palazzo Altemps, Archivio di Documentazione Archeologica, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Archivio Storico di Palazzo Altemps. Id: 607, Collocazione: 31/28, Toponimo: Sant’Urbano alla Caffarella, Oggetto: Sant’Urbano alla Caffarella: statua, foto. Data Iniziale: Non specificata. Data Finale: Non specificata. 11 Per Quilici, op. cit. a nota 6, p. 339, il cosiddetto tempio del Dio Redicolo era il sepolcro di Annia: doveva trovarsi proprio di fronte a coloro che accedevano al Triopio dalla via Latina, mentre il vero tempio del Dio Redicolo doveva sorgere all’inizio del rettifilo dell’Appia, di fronte alla porta San Sebastiano. Griesbach, op. cit. a nota 6, pp. 4-6. Vedi anche Kammerer-Grothaus, op. cit. a nota 6, pp. 131-252. 12 Ibidem. Vedi anche Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Rome, op. cit. a nota 1, p. 71. 13 Quilici, op. cit. a nota 6, p. 342. Fig. 2. Foto della statua già nel pronao di Sant’Urbano (nel retro la testimonianza del furto avvenuto nel 1970). (Soprintendenza Archeologica di Roma, Palazzo Altemps Archivio Documentazione Archeologica. Id: 607, Collocazione: 31/28). sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte un atto di permuta del 1043, fra la basilica di San Lorenzo ed il monastero gregoriano del Celio; tale nome si conserverà fino a tutto il Medioevo.14 Nel frattempo, il trasferimento del culto d’Urbano I alla chiesa di Sant’Urbano ai Pantani, monastero e chiesa ubicati presso il foro di Nerva e d’Augusto da Urbano IV (1261-64), forse accelerò il declino del molto meno accessibile Sant’Urbano alla Caffarella.15 D’altro canto, la prima volta che si attesta la denominazione della chiesa in assoluto, è solo con il “Catalogo di Torino” del 1320 ca., che però include la chiesa in una lista di strutture ecclesiastiche non più funzionanti.16 Difatti, all’inizio del xv sec., entrambi le vie Appia e Latina erano di nuovo in disuso per via degli sbarramenti militari creati sull’Appia e sulla Latina dai castelli dei Caetani e dei Savelli; all’inizio del 1400 il territorio del secondo e terzo miglio della via Appia, inclusa la chiesa di Sant’Urbano, erano accessibili solo dalla distante Porta Lateranense. All’inizio del xvi sec., l’antica tenuta appare smembrata nei vicini latifondi, specialmente fra quelli dei Torlonia ed altri minori, con ingenti distruzioni delle antiche vestigia. Nel 1521, la valle della Caffarella sarà incorporata nelle proprietà di San Sebastiano e solo nel marzo 1529, la famiglia Caffarelli otterrà il possesso della Valle dell’Almone dalla Casa Cenci; questa transazione territoriale, che includeva anche la chiesa di Sant’Urbano, dava alla zona il suo nome corrente: Valle della Caffarella. Nel 1547, la valle appare aver riottenuto la sua antica unità: una mappa di Eufrosino della Volpaia mostra la vigna dei Caffarelli insieme alla fonte Egeria, Sant’Urbano (non nominato), l’Almone (non nominato), le due torri Valca, una fonte e la torre “Mormorata” (Fig. 3).17 La restituzione grafica su Sant’Urbano esiste solo dal xvi sec.: attualmente, i disegni rinascimentali sono contenuti nel Codex Destailleur a Berlino (fogli 67, 67v. 68, 68v) e nel Codex Albertina a Vienna.18 I disegni 14 Tomassetti, op. cit. a nota 7, p. 115. Al riguardo vedi anche G. M. De Rossi, I monumenti dell’Appia da Porta San Sebastiano alle Frattocchie, in Capitolium, 9-10, settembre-ottobre 1968, pp. 307-328. 15 F. Lombardi, Roma: le chiese scomparse. La memoria storica della città, Roma 1996, p. 139. La chiesa con l’annesso monastero verranno ricostruiti all’inizio del xvii sec., a spese del cardinal Baronio e degli Sforza, accanto agli antichi edifici, presso il foro di Traiano. 16 Torino, Biblioteca dell’Università degli Studi, cod. Miscell. E.V. 17: “Ecclesia sancti Urbani non habet servitorem”. La lista delle chiese è riprodotta anche in C. Hülsen, Le chiese di Roma nel Medio Evo, Firenze 1927, pp. 26-43. Vedi anche in Lombardi, op. cit. a nota 15, in appendice. Vedi inoltre R. Valentini, G. Zucchetti, Codice topografico della città di Roma, ii, Roma 1942, p. 311. 103 Fig. 3 La mappa di Eufrosino della Volpaia del 1547 (da Quilici L. La valle della Caffarella ed il Triopio di Erode Attico Capitolium 9-10, settembre-ottobre 1968, p. 347). si focalizzano sull’antica struttura nominata Tempio di Marte ed ignorano completamente la decorazione medievale. Nel xvi sec. il pronao era ancora aperto, ed almeno tre gradini del podio erano visibili (Fig. 4). Dopo la morte di Callisto I (il 14 ottobre, 222), Urbano fu scelto come Vescovo di Roma. Il “catalogo liberiano” dei papi pone l’inizio del suo pontificato nell’anno 223 e la fine nel 230.19 Nel 222, Alessandro Severo, 17 Quilici, op. cit. a nota 6, p. 346. Vedi anche Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, p. 9, nota 4. 18 H. Kammerer-Grothaus, Sant’Urbano della Caffarella. Nach Renaissancezeichnungen des Codex Destailleur in Berlin, in RM, 78, 1971, pp. 203-207. 19 Sulla passio di Urbano vedi: Acta Sanctorum Maii sub felicissimis auspiciis Innocentii 11. Romani Pontificis optimi maximi et Caroli 2. Hispaniarum Indiarumque Regis catholici in septem tomos digesta auctoribus Godefrido Henschenio & Daniele Papebrochio operam & studium Francisco Baertio & Conrado Janningo Societatis Iesu Fiandro-belgica presbyteris teologis. Belgio, 1685, vol. vi, pp. 7-14. Vedi anche A. Bosio, Historia Passionis B. Caeciliae Virginia, Valeriani, Tiburtii et Maximi Martyrum. Necnon Urbani et Lucii Pontificum et Mart. vitae, Roma 1600. Vedi inoltre, J. P. Kirsch, s.v. Urbano, in Catholic Encyclopedia, New York 1907-1914. 104 stefania pinsone Fig. 4. Sant’Urbano alla Caffarella, sezione trasversale, dal Codex Destailleur, foglio 67v, sinistra (da Kammerer-Grothaus H., Sant’Urbano della Caffarella, Nach Renaissancezeichnungen des Codex Destailleur in Berlin. Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Bd. 78, 1971, tavola 100). divenuto imperatore, favorì l’eclettismo religioso proteggendo anche i cristiani. Gli Acta di Santa Cecilia (vi sec.)20 collegano la santa stessa, così come il marito Valeriano ed il cognato Tiburzio, ad Urbano, che li avrebbe battezzati. I particolari della morte di Urbano sono sconosciuti, ma, giudicando dal momento storico pacifico, egli dovette morire di morte naturale. Il Liber Pontificalis dichiara che egli divenne confessor sotto il regno di Diocleziano, ma la data aggiunta è senza autorità. Il suo nome non compare nella Depositio Episcoporum del iv secolo, nel calendario Philocalianum. Due affermazioni differenti emergono dalle fonti sulla deposizione di Urbano, di cui, tuttavia, una sola si riferisce al papa con questo nome. Negli Acta di Cecilia e nel Liber Pontificalis, si sostiene che Urbano era stato sepolto nella catacomba di Praetextatus sulla Via Appia. Gli Itinerari del vii sec. accennano alla tomba di Urbano in relazione a quelle di altri martiri sepolti nella catacomba medesima. Nella Notitia Ecclesiarum Urbis Romae (il c.d. “itinerario salisburghese”, la prima guida, scritta probabilmente sotto Onorio I, 625-38), arrivati alla Via Appia si legge: Postea pervenies via Appia ad sanctum Sebastianum martire…et in occidentali parte ecclesiae per gradus descendis ubi sanctus Cyrinus papa et martir pausat¸ et eadem via ad aquilonem ad sanctos martires Tiburtium et Valerianum et Maximum. Ibi intrabis in speluncam magnam et ibi invenies sanctum Urbanum episcopum et confessorem.21 Il titolo di episcopum et confessorem comportò come conseguenza, fin dal iv secolo, che la tradizione romana abbia venerato il papa con questo nome, nell’Urbano della catacomba di Pretestato. Un dettaglio tratto dalla passio di Urbano, sulla traslazione del corpo del martire narra, che la ma- 20 Biblioteca Sanctorum, xii, 837, riportato in L. Spera, Il paesaggio suburbano di Roma dall’antichità al Medioevo: il comprensorio tra le vie Latina e Ardeatina dalle Mura di Aureliano al III miglio, Roma 1999, pp. 283-286. Vedi anche A. Amore, I martiri di Roma, Roma 1975, pp. 183- 184: Amore ha dimostrato che la passio di Santa Cecilia è destituita di ogni fondamento storico. 21 Valentini, Zucchetti., op. cit. a nota 16, pp. 67-87. sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte 105 Fig. 5b. Studio dell’anfora trovata nella volta. (Anacleto Bonserini, 1962). trona Marmenia aveva recuperato le sante spoglie dal locus in quo sancta corpora erant humata, per riporle in un sepulchrum, completamente foderato di marmo, in quo recondiderunt cum aromatibus corpus Beatissimi Urbani et Mamiliani presbyteri e sul quale (desuper quod) fu costruito un ingens antrum…quadratum et firmissime fabricae. Alcuni studiosi hanno ritenuto che questo spostamento cultuale presente nel racconto leggendario, possa essere il sintomo di una confusione formatasi già in antico, in relazione al luogo originario di sepoltura di papa Urbano. La stessa Domus Marmeniae, in base alle indicazioni fornite dallo stesso autore della passio è suggerita essere collocata al iii miglio della via Appia, oltre il palatium Vespasiani (vale a dire il circo di Massenzio) e presso una struttura colonnata che, secondo la Spera, potrebbe verosimilmente essere l’ingresso al Triopio di Erode Attico. L’uso del termine antrum per alludere al sepolcro, descritto, appunto, come un ingens antrum quadratum et firmissime fabricae non è insolito, nel latino medievale, come sinonimo di templum o sepulcrum; quindi quello dell’agiografo deve considerarsi un riferimento ad un monumento, forse da situare nell’area tra il circo di Massenzio ed il sepolcro di Cecilia Metella. La Domus Marmeniae, prima ancora, era stata già ricercata ed identificata nel vano della Cripta quadrata (Ax) e nel sepolcro in laterizio rinvenuto nella proprietà Lugari al iv miglio dell’Appia,22 ma difatti queste interpretazioni sono state respinte,23 benchè studi recenti puntino ad identificarla, in un loculo del 22 G. B. Lugari:, La domus Marmaniae ed il Sepolcro di Sant’Urbano al IV miglio all’Appia, in Dissertazioni della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, ii, 3, 1888, pp. 87-114. 23 Vedi F. Tolotti, Ricerca dei luoghi venerati nella spelonca magna di Pretestato, in Rivista di Archeologia Cristiana, 53, 1977, pp. 55-57, G. B. De Rossi, Le cripte storiche del cimitero di Pretestato, in Bullettino di Archeologia Cristiana, Serie II, 1872, p. 79; M. Armellini, Lezioni di archeologia cristiana, Roma 1898, pp. 113-116 e soprattutto: L. Spera, Il complesso di Pretestato sulla via Appia, storia topografica e monumentale di un insediamento funerario paleocristiano nel suburbio di Roma, Città del Vaticano 2004, pp. 182-183. De Rossi aveva ravvisato un collegamento fra il vano Ax in Pretestato ed il santuario di papa Urbano (conosciuto col nome di S. Gennaro per l’attribuzione ad esso dell’epigrafe Beatissimo Martyri Januario Damasus Episcopus Fecit, recuperata in frammenti davanti alla porta); De Rossi vi aveva, all’inizio, identi- ficato la cripta quadrata di Urbano: la cripta quadrata rivestita di marmi, costruita da “Armenia”, correzione del De Rossi per Marmenia, nome inteso in rozzo latino e trovato in una delle lapidi ivi emerse. Ma dopo la scoperta dell’epigrafe damasiana per Gennaro, De Rossi ritenne che la cripta di Urbano dovesse ancora emergere dai futuri scavi. Quest’ipotesi è stata riconsiderata più recentemente dal Tolotti, e secondo la Spera: “…ciò muove soltanto dall’analogia descrittiva tra questo cubicolo e l’ingens antrum…quadratum et firmissimæ fabricæ, descritto dall’autore della passio di Urbano come luogo di sepoltura del papa. Le difficoltà insite in tale interpretazione emergono, in effetti, proprio attraverso la lettura del racconto agiografico, che non può essere utilizzato come una descrizione realistica di un ambiente del complesso di Pretestato: nella successione narrativa, infatti risulta chiaramente che il sito cui si fa riferimento non va identificato né in un vano della catacomba di Pretestato (come per Fig. 5a. Prospetto della trabeazione di Sant’Urbano rilevata in occasione dei restauri degli anni ’60. (Anacleto Bonserini, 1962). 106 stefania pinsone vano Ak a Pretestato.24 Resta problematica, tuttavia, la comprensione, nell’economia della passio, dell’origine dell’idea di una traslazione delle spoglie di Urbano dal complesso di Pretestato e l’attribuzione ad un edificio molto probabilmente subdiale, di una funzione cultuale. Tale dato ha indotto gli studiosi a ritenere che, al tempo della compilazione del racconto agiografico, esistesse anche una chiesa memoriale dedicata a Sant’Urbano, cui poi nel medioevo fu consacrata l’attuale chiesa; tuttavia i dati topografici forniti dal compilatore del racconto agiografico non sembrano concordare con l’identificazione nella chiesa medesima.25 Si tratta di un edificio prostilo, tetrastilo, con la cella quasi quadrata (Fig. 6: 9,48 × 11,91 m). Con l’esclusione dell’elegante colonnato corinzio in marmo pentelico, che sostiene un pronao con architrave a fasciae non decorate, anch’esso di marmo, l’intera struttura e l’ornamentazione sono in Opus Testaceum.26 Il materiale del fregio, dell’attico, del frontone e delle pareti laterali presenta dimensioni e gradi di cottura disuguali, ma il modulo rimane costante: da 22,5 a 25 cm. Ben datato al tempo di Marco Aurelio (161-80), per un bollo laterizio trovato da Francesco Piranesi sul tetto, questa costruzione testimonia il gusto dell’architettura antonina per le strutture ed i rivestimenti dei mattoni. La parte superiore della facciata secondo il Gros, ritmata da pesanti modanature, separate da vaste superfici prive d’ornamenti, l’attico molto alto senza proporzione con gli altri elementi architettonici, meriterebbe un esame attento.27 Il timpano è caduto in avanti di 50 cm ca., anche i muri laterali minacciavano il crollo e sono stati rinforzati con contrafforti obliqui, durante il restauro barberiniano. Il bollo laterizio, circolare, lunato orbicolato ed a doppia riga concentrica copiato da Francesco Piranesi offre una più specifica datazione al Tolotti 1977), dove era la tomba originaria, da cui, come precisamente attestato dal passo agiografico, i corpi vennero traslati, né con il sepolcro in laterizio rinvenuto nella proprietà Lugari al iv miglio dell’Appia.”. 24 Spera, op. cit. a nota 23, pp. 199-206, 343. 25 Vedi anche Spera, op. cit. a nota 20, p. 303. Per la studiosa il sito potrebbe coincidere con il futuro fondo Sex Columnas di un documento del 961 ed il possedimento Tres Columnas di uno del 1158, che anche il Tomassetti ritenne coincidenti, parte della tenuta Statuario, nell’area dei Quintili: L. Spera, Il territorio della via Appia, forme trasformative del paesaggio nei secoli della tarda antichità, in Suburbium, op. cit. a nota 6, p. 326. 26 Lugli, op. cit. a nota 6, p. 608. Gros, op.cit. a nota 6, pp. 161-193. Kammerer-Grothaus, op. cit. a nota 6, pp. 131-252, ma vedi anche tempo di Marco Aurelio (161-180); nel bollo è, infatti, impresso: ex re faustinae aug figlin ponticl opus dol aeli asclepi.28 Per quanto riguarda l’interno, la cella è di 9,48 metri d’ampiezza e di 11,91 m di lunghezza. La volta è a botte ed è portata in avanti fino all’attico e nel pronao è protetta da un soffitto di legno. L’entrata della cella consiste in una porta sormontata da un bassorilievo con lo stemma barberiniano, databile al xvii sec., che oscura ciò che rimane della porta ancora nella sua posizione originale, stando alla piattabanda tuttora presente. Di sotto lo stemma vi sono ancora tracce della cornice marmorea, con perline e fusarole ed un motivo d’alloro in fasce che restituiscono la misura dell’antica porta.29 All’attacco della volta, sul lato nord, è rimasto ancora il “fregio d’armi” con armature e scudi oblunghi. La volta è coperta interamente con medaglioni ottagonali, che formano fra di loro dei campi quadrati; gli uni e gli altri sono uniti per mezzo di una larga fascia con depressione centrale, le cui modanature laterali si ornano alternativamente di una fila d’ovoli ed una banda di foglie “lesbiche”. La ricomposizione dello schema è stata tramandata tramite le incisioni dei Piranesi.I restauratori hanno scelto di dissociare gli ottagoni ed i quadrati nella serie che sovrasta immediatamente i fregi; in questo modo, la base degli ottagoni combacia con la parte superiore del rilievo d’armi. Il presupposto è basato sulla presenza delle tracce sul bordo dello stucco e sulla testimonianza di G. B. Piranesi, che non è d’accordo, su questo punto, con l’opinione del figlio; secondo il disegnatore Destailleur tutti gli ottagoni erano dissociati tra loro e su questa testimonianza riteniamo di poterci, infine, affidare (Fig. 1b, 4).30 Il resto di un piccolo cassettone ad angoli retti, con stucchi ad ovuli ed una rosetta al centro, è antico come lo è anche il medaglione ottagono con le due figure in stucco. All’imposta, nella parete settentrioKammerer-Grothaus, op. cit. a nota 18, pp. 98-100. Piranesi, op. cit. a nota 4. Quilici, op. cit. a nota 6, p. 139, nota 44, osserva che le colonne e l’architrave di Sant’Urbano, come pure le due lastre con le iscrizioni di Marcello, non ultimo lo stadio in Atene, sono in marmo pentelico, rafforzando così il legame fra Sant’Urbano, il Triopio ed Erode Attico. Al riguardo vedi anche Caetani Lovatelli, op. cit. a nota 7, p. 142: Erode possedeva alcune cave di questo marmo. 27 Gros, op. cit. a nota 6, p. 161. 28 Piranesi, op. cit. a nota 4. Vedi anche Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Rome, op. cit. a nota 1, p. 70. 29 Il portale originale è così inventariato nella scheda dei Beni storici ed artistici del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, ufficio centrale per il catalogo e la Documentazione, Roma: 3,3 m. di altezza e 2, 65 m di larghezza. 30 Kammerer-Grothaus, op. cit. a nota 18, pp. 203-207. sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte Fig. 6. Pianta della chiesa (Hvorslev-Pinsone). 107 108 stefania pinsone nale, una cornice rettangolare meno lunga della cella stessa, contiene un fregio d’armi in alto rilievo; tracce di stucco poste orizzontalmente e parallelamente al livello opposto, suggeriscono che quest’area ospitasse un fregio simile, che deve essere sparito, indubbiamente, piuttosto presto, poiché “gli antiquari” del xviii sec. non lo vedevano già più. La muratura interna è frammentata da paraste nella parte superiore, un bancale corre lungo i lati della cella. Sotto il cornicione marcapiano scorrono gli archi orizzontali (piattabande) e le imposte d’arco (i “cunei” trapezoidali), che secondo la maggior parte degli studiosi, rispecchiano la divisione superiore. Questa piattabanda era una volta stuccata ed affrescata con motivi di viti ed uccelli su uno sfondo bianco. Sono presenti undici cunei sul lato lungo, sette sul lato corto occidentale e sei sul lato corto orientale (parete d’ingresso); i cunei sono, alternativamente, in travertino e malta. La presenza dei cunei, secondo la Noreen indicherebbe che mensole o pilastri avevano dovuto occupare la zona inferiore, un’ipotesi supportata dallo scolorimento dei mattoni sotto i cunei; per la Kammerer-Grothaus, gli elementi architettonici che si trovavano sotto ai cunei, dovevano essere probabilmente colonne, perché più facili da rimuovere non avendo, difatti, lasciato tracce sulle pareti.31 Di là delle teorie contrapposte, è innegabile che sotto alcuni cunei, in particolare quelli dispari in travertino, sia ben distinguibile, nonostante i rattoppi in malta, la forma lasciata dallo strappo dei capitelli; dunque di colonne doveva trattarsi (Fig. 7). Chi scrive ha rinvenuto un altro bollo laterizio, sfuggito agli studiosi precedenti, all’interno della cella dell’antico tempio. Il bollo, piuttosto differente da quello trovato dal Piranesi sul tetto, è coperto di malta per poco meno della sua metà, rendendo indecifrabili una o due lettere, ma nel complesso è ben leggibile: si trova nel ii bipedale (tagliato per metà) partendo da sinistra, della piattabanda del registro inferiore, nella parete occidentale. Il bipedale, lungo 62 cm. e largo 27 cm., presenta impresse le orme di un bambino e di un cane (Figg. 8-9), e nel margine adiacente alla parete, quasi alla sua metà, mostra il bollo circolare, orbicolato, ad unica riga concentrica, su cui è impresso: ( + + )i∙ (?)mis∙e∙(?)p∙/. La S è rovesciata, il punto fra la E la P è in posizione eccentrica, quasi a ridosso della sommità dell’asta della P, rimandando, forse, ad una forma d’abbreviazione, mentre l’orbicolo presenta a sua volta, nel centro, ciò che sembra essere una C con un punto al suo centro. L’iscrizione impressa è indecifrabile, anche per la sua lacunosità, tuttavia la mancanza della forma lunata, la presenza dell’unica riga concentrica, l’esilità delle lettere, la scrittura poco elegante rimandano ad una produzione più tarda delle figline,32 che non si può escludere essere pertinente ai restauri d’età massenziana del tempio. Si può ipotizzare, forse, che sia stato lo stesso Massenzio ad asportare le colonne del registro inferiore ed a reintegrarne la piattabanda. Una notizia riportata esclusivamente dal Parker, riferisce della presenza di tessere di mosaico trovate dallo stesso studioso nel pavimento della cella: egli ne dedusse che una decorazione in mosaico doveva decorare l’intero pavimento.33 All’esterno, un muro, ancora visibile sopra terra, è parallelo alla parete sud, ad una distanza di 1.8 m.: in opera listata, consiste, infatti, di ricorsi doppi di mattoni separati da una singola fila di tufelli; questo sistema di costruzione era frequentemente usato nelle fabbricazioni massenziano-costantiniane e negli edifici tardo-antichi riutilizzati dai cristiani. È, probabilmente, tutto ciò che rimane delle evidenze archeologiche menzionate da Francesco Piranesi e finalizzate alla creazione dell’ambito, che separasse il luogo sacro dagli ambienti circostanti destinati alla custodia degli oggetti sacri.34 Un’incisione del 1853, tratta dalla Raccolta Lanciani sui monumenti della via Appia, ricostruisce il complesso di edifici e portici che una volta circondavano Sant’Urbano. In aggiunta alle tre mura ed alle stanze adiacenti a nord, sud e ovest del monumento, l’incisione descrive anche un largo quadriportico con una serie di scalini ad est e stanze chiuse ad ovest, tuttavia questa ricostruzione non sembra essere corretta dal punto di vista di un’oggettiva restituzione delle condizioni tardoantiche del luogo.35 Nel 1893, il Ministero dell’Istruzione 31 Kammerer-Grothaus, op. cit. a nota 6, pp. 155-161. Benché studiosi successivi, come Kirstin Noreen, siano stati propensi a ritenere questi elementi equivalenti a paraste, io ritengo corretta l’ipotesi delle semicolonne: vedi al riguardo i disegni del Codex Destailleur (figg. 22-24) e Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, p. 27-28. Anche il cosiddetto libro di disegni di Giulio Romano (Biblioteca civica Passionei, Fossombrone, fol. 19r), include colonne nel livello inferiore. 32 Vedi al riguardo: Lugli, op. cit. a nota 6, pp. 554-559. 33 J. H. Parker, The Archaeology of Rome, Oxford, 1874-1877, vol viii, p. 78: “the soil…was decorated with mosaics, but there is no other trace of them”. 34 Vedi anche Spera, op. cit. a nota 20, pp. 203-204 e ASR, Camerlangato, Parte ii, titolo iv, busta 217, f. 1727. 35 Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, Roma, xi. 34. 113 e 34.119-2. In tal senso si sono pronunciati sia Vincenzo Fiocchi Nicolai, sia Lucrezia Spera in occasione di un sopraluogo. sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte 109 Fig. 7. Particolare della piattabanda nell’angolo nord-occidentale, con i cunei in travertino ed i rattoppi in malta a forma di capitello (foto dell’autrice). Pubblica registra che “un muro vi fu costruito nei bassi tempi tutt’attorno al tempio, alla distanza di metri 1.80Ora questo muro è stato demolito, e ne restano soltanto alcuni tratti dal lato di mezzogiorno”.36 Una finestra è ancora visibile in questo muro meridionale e, correntemente, essa si affaccia sul contrafforte aggiunto nel restauro barberiniano, mentre originariamente doveva permettere l’ingresso della luce nello spazio chiuso a sud-ovest. In un altro documento dell’Ufficio Tecnico per la Conservazione dei Monumenti del Regno d’Italia, sempre dell’archivio Altemps, datato al 1908 ed oggi conservato nell’Archivio (anche questo inedito), si fa menzione al ritrovamento di alcune “strutture romane”. Nel documento è scritto testualmente: “Il signor Venanzio Dalboccio custode per casa Barberini della Chiesa di Sant’Urbano alla Caffarella, nell’aprire un cavo per costruire una grotta da vino, mise allo scoperto alcuni avanzi di una costruzione romana che merita l’attenzione della S. V. Illustra. Il dottor Valli di quest’ufficio recatosi sul luogo e constatato che il Dalboccio avea nell’avviso del custode dell’Appia Antica sospeso i lavori appena vennero in luce gli antichi avanzi, gli ha intimato di non riprendere l’escavazione finché la S. V. non avrà dato il suo parere al riguardo, consegnando il permesso del Ministero. L’Architetto Direttore F. Marchetti (?)”.37 Non è da esclude- 36 Archivio centrale dello Stato, Direzione Generale Antichità e Belle Arti, Divisione Musei e Oggetti d’Arte, 1891-97, Busta 421, fasc. 4662, anche in Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 17, p. 33, nota 31. 37 Archivio di Documentazione Archeologica, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Archivio Storico di Palazzo Altemps: Id: 758, Collocazione: 39/9, Toponimo: Sant’Urbano alla Caffarella, Oggetto: Resti di strutture antiche. Data Iniziale: 1908. Data Finale: 1908. 110 stefania pinsone Fig. 8. Particolare del bipedale con impronte e bollo, nella parete occidentale (foto dell’autrice). re che queste “strutture antiche” fossero pertinenti proprio alle costruzioni massenziane, tuttora presenti e sepolte sotto il piano di calpestio. Nella sua dissertazione probante la funzione templare dell’antica struttura, Gros notava, prima di tutto, l’assenza di una stanza sotterranea ove depositare i sarcofagi. La maggior parte delle tombe “a camera” dell’epoca contenevano, infatti, proprio a differenza dei templi, da uno a tre hypogea, più la camera superiore riservata alle cerimonie funerarie. L’attuale cripta, molto piccola, della chiesa non poteva dunque essere una sala sepolcrale antica. Le dimensioni molto ridotte, l’ubicazione ed il rapporto con l’altare dimostravano chiaramente che essa doveva essere stata concepita fin dall’inizio come una “confessione”.38 Una scala adiacente al muro sud della cella fornisce l’accesso allo spazio rettangolare, voltato a botte, della cripta della Caffarella, uno spazio angusto di 1,72 m. di larghezza per 2,50 m. di lunghezza e 2,60 m. d’altezza. Sebbene la camera in Sant’Urbano sia stata chiamata sia confessio (come dal Gros), sia cripta per il suo carattere di piccolo sacello sotterraneo, il collegamento con l’altare e la decorazione pittorica, il fatto di essere, in breve, il discendente più tardo dell’hypogeum o del cubicolo delle catacombe cristiane, lo fa propriamente identificare come cripta (Fig. 10).39 Nella parete settentrionale è stata ricavata una nicchia di 1.20 m. di larghezza, 1.14 d’altezza e 0.30 di profondità, che contiene l’affresco con l’immagine della Vergine e del Bambino tra Sant’Urbano e San Giovanni Evangelista. L’immagine è sistemata in asse perpendicolare a quella dell’altare superiore, in contrasto con simili altre rappresentazioni nelle cripte, come quella di Santa Prassede, la cui orientazione è la medesima dell’altare. La nicchia è in posizione asimmetrica e presenta, sulla sinistra, un riempi- 38 Gros, op. cit. a nota 6, p. 164. Per lo studioso anche il colonnato doveva costituire un’aggiunta insolita perché escluso, generalmente, dall’organizzazione romana delle tombe “a tempietto”, che non nascondevano le facciate con il portico; l’hypogeum, solitamente più lungo della cella, impediva la messa in posa di colonne, che si sarebbero sovrapposte direttamente alla volta sotterranea 39 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, p. 61, nota 110. Vedi anche Kirsch, op. cit. a nota 19. A tal ri- guardo vedi anche D. De Bernardi Ferrero, Cripte presbiteriali romane e cripte carolinge, in Roma e l’età Carolingia, Roma 1976, pp. 125129. Alcune cripte più tarde, all’interno della città, tentarono di riprodurre uno spazio catacombale; per esempio, nella crypta confessionis in San Marco, all’inizio del ix sec., si usarono lastre di marmo trasportate dai cimiteri, per creare un nuovo sito funerario, vedi al riguardo: Rilevamento delle decorazioni in stucco altomedievali di Roma, in Roma e l’età Carolingia, Roma 1976, p. 310. sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte 111 Fig. 9. Dettaglio del bollo laterizio (foto dell’autrice). mento in malta che sembra indicare l’esistenza di una primitiva apertura sulla parete settentrionale od un suo ripensamento e che, comunque, indica che la sua esecuzione dovette essere successiva a quella della cortina laterizia e non contestuale o pianificata. Mattoni, malta, tufo e concreto formano le pareti e la volta della cripta. L’ingresso alla cripta appare formato da materiale eterogeneo per lo più di riuso, tufelli e mattoni, che sembrano essere stati originati da bipedali. I mattoni occupano anche la quota superiore delle pareti laterali, estendendosi per cinque filari. La lunghezza dei mattoni varia fra i 30-40 cm. ed i 19 cm., la malta è molto grossolana e spessa (da 3 a 5 cm.) nonché ricca d’inclusi. Intorno alla nicchia affrescata nella parete nord, invece, il suo spessore si riduce sensibilmente (da 2,50 a 3 cm), la grana stessa si affina ed il modulo laterizio risulta più regolare. Sot- to i filari di mattoni, il tufo si estende fino al livello del pavimento. Sulla mensola antistante la nicchia è stata scavata nella superficie del tufo, una cavità posta ortogonalmente all’immagine della Madonna e del Bambino. Questa cavità è visibile nelle mensole di alcune nicchie affrescate in Santa Maria Antiqua e nell’atrio del Coemeterium di San Valentino. Nella prima, una nicchia è al di sotto dell’icona della Vergine e del Bambino – databile al pontificato di Giovanni VII (705-707) – nella navata centrale, vicino alla schola cantorum; l’altra, ben conservata è quella di Sant’Abbakyros a destra della parete orientale nell’atrio della stessa chiesa, tradizionalmente assegnata al pontificato di Paolo I (757-767).40 Infine, un’altra nicchia è visibile nella parete sinistra dell’atrio, nella catacomba di San Valentino.41 David Knipp, riportando il pa- 40 J. Osborne, The atrium of Santa Maria Antiqua, Rome: a History in Art, in Papers of the British School at Rome, 55, 1987, pp. 186-228, in particolare pp. 193-199. Le datazioni proposte da Osborne rispecchiano quelle già in J. Wilpert, Die römischen Mosaiken und Malereien der Kirchlichen Bauten vom iv bis xiii Jarhundert., Friburgo 1916, vol. 2, pp. 990-99, vol. 4, p. 229. Su Santa Maria Antiqua vedi anche C. Hülsen, Il Foro Romano - Storia e Monumenti, Roma 1905, pp. 142-153 e M. Petrassi, Mille anni di fede, Roma Cristiana da Costantino a Bonifacio VIII, Roma 1992, p. 134. 41 D. Knipp, The chapel of the physicians at Santa Maria Antiqua, Washington 2002, pp. 19-20, nota 100: lo studiso avanza una serie di ipotesi circa la funzione della nicchia e si ricollega alle proposte già del Rushfort, che ha proposto che la cavità poteva servire a tenere un lume e del Weis, che ha ammesso la possibilità che potesse essere un sepulcrum per piccole reliquie indirette; infine cita il Tea, che per quanto riguarda la nicchia di Sant’Abbaciro aveva proposto che la cavità una volta potesse contenere strumenti chirurgici come reliquie del santo medico. 112 stefania pinsone Fig. 10. Spaccato laterale della Chiesa di Sant’Urbano alla Caffarella, proposta ricostruttiva. Con integrazioni antiche e di età barocca (Stefania Pinsone). rere sia del Rushforth, sia del Weis, mette in rapporto queste nicchie con quella della cripta della Caffarella, ritenute tutte contenitori per piccole reliquie indirette. Nel caso della Caffarella questa tesi sembra confermata anche dal fatto che non ci sono tracce sull’affresco o nella mensola stessa, indicanti la presenza lasciata da olea. In particolare è stato il Weis a notare la similarità fra la nicchia della cripta della Caffarella e le nicchie sopramenzionate, come quella di San Valentino, che lo studioso datava al pontificato di Paolo I (757-767) o successivamente.42 La giustapposizione fra mensa, nicchia e probabile concavità per le reliquie ricorre, anche, con l’altare del ix sec., nella cripta anulare in Santa Maria in Vescovio, presso Rieti.43 Sulla parete orientale, una sorta di fenestella attraversa la volta a botte, diagonalmente, verso l’alto, fornendo una comunicazione diretta con il pavimento della cella superiore: la galleria della fenestella punta direttamente verso l’oculo della controfacciata della cella, da cui, precedentemente alla “chiusura” del pronao, doveva ricavarne illuminazione; la galleria della fenestella si apre direttamente di fronte ai gradini dell’altare, ricoperta da una griglia metallica. La costruzione della galleria diagonale, poco comune rispetto a quelle verticali, troverebbe una spiegazione nella necessità di dover oltrepassare l’“ipogeo” superiore: questo secondo spazio voltato, localizzato fra la cripta inferiore ed il pavimento della cella, aiuta ad illustrare l’apparenza 42 A. Weis, Ein vorjustinianischer Ikonentypus in Santa Maria Antiqua, in RömJb, 8, 1958, pp. 17-61, in particolare pp. 49-50, fig. 20. Raffaella Farioli, invece, ha datato l’affresco della Vergine con il Bambino, nella catacomba di San Valentino al VII sec., anche se con non troppa certezza: F. Farioli, Pitture di epoca tarda nelle catacombe romane, Ravenna 1963, p. 40. 43 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, p. 62, nota 113. sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte 113 originale e spiegare la funzione iniziale dell’ambiente sotterraneo. Chi scrive ha potuto effettuare un sopralluogo all’interno dello spazio voltato superiore ed effettuare alcuni rilievi e fotografie. L’accesso è possibile solo tramite una piccola apertura ellittica (alta ca. 42 cm), sulla fronte dell’altare seicentesco, da cui, affacciandosi oggi, si scorge solo una discarica per legname e pietrisco, che ne ha pregiudicato lo studio come spazio sacro ed elemento importante per la ricostruzione storica e archeologica del sito (i rilievi del Bonserini, del 1961, per esempio hanno sorvolato su tale spazio). Questo spazio non fu l’esito di una creazione barberiniana, operazione, tra l’altro, che sarebbe stata priva di senso. Nel 1636, poco tempo dopo la riscoperta della cripta, l’Holstenio ricordò l’evento in una lettera a Nicolas-Claude Fabri de Peiresc. L’Holstenio propose che l’ambiente della volta a botte, sopra la cripta, fosse originalmente il coenaculum superius e suggestionato dalla lettura degli Acta di Urbano e Marmenia, concluse che il “loculo” superiore era stato una volta il sito delle tombe dei martiri del iii sec., Urbano, Cecilia e Tiburzio: “Supra cryptam alius est locus cavus, in quo SS. Urbani, Caeciliae, Tiburtii, aliorumque corpora reposita jam olim fuere: Acta S. Urbani coenaculum superius (sic) appellant.”.44 Il locus cavus era preesistente alla riscoperta barberiniana e la sacralità del sito fu talmente presa sul serio, che il cardinale Barberini restaurò la volta reintegrandola con una gettata di malta, senza toccare il pavimento e le pareti, e lasciò aperto un foro rettangolare largo ca. 55 cm all’apice, cui sovrappose un altare asimmetricamente cavo, dalla cui apertura frontale si poteva mirarne l’interno. Non solo, la funzione presunta del locus cavus fu rimarcata anche dall’affresco aggiunto all’interno dell’altare, con angeli che reggono le corone del martirio e guardano in basso. Pubblichiamo qui per la prima volta il risultato delle ricerche svolte e delle scoperte effettuate. Gismondi45 e la Noreen46 hanno rappresentato lo spazio voltato dell’ipogeo superiore completamente assiale all’altare, ma non è così (Fig. 11). Il loculo superiore ha il disegno ed i mattoni simili a quelli della cripta inferiore, con la volta in concreto (calce- struzzo) e le pareti dei lati corti in mattoni (Fig. 12); le misure sono corrispondenti, benché l’ipogeo superiore risulti leggermente più corto di 10 cm e più stretto d’altrettanti 10, misurando: 1,60 × 2,40 × 1,0 m ed, inoltre, non è completamente in asse con la cripta inferiore, poiché è sfalsato di ca. 40 cm verso ovest. Dal lato lungo occidentale è rimasta traccia di un saggio perlustrativo verso l’alto, sopra la superficie tufacea, che, oltre uno strato di calcestruzzo (rudus) e malta (nucleus), ha scoperto una porzione dei mattoni e tufelli che dovevano, forse, costituire la base per l’antico pavimento della cella (Fig. 13). Il pavimento del loculo, ricavato nel tufo e sito a ca. un metro sotto il livello del pavimento attuale, è coperto di bipedali romani (ca. 60 × 60 cm), ben visibili, ancora, nel tratto nord-occidentale e nordorientale (Figg. 14-15), i quali conservano uno strato superiore di malta, denunciando, così, un’ulteriore sovrapposizione materica. Che si tratti di bipedali di tradizione romana non v’è dubbio: la qualità e la fattura sono ottime, l’impasto è molto depurato, lo spessore non supera i 2,5 cm. ed il colore è giallorossastro, come nella migliore tradizione dell’età antonina;47 anche la malta che li ricopre è molto fine, priva d’inclusi e chiara. Il tratto meridionale è completamente ricoperto dai detriti esito del saggio perlustrativo e lì abbandonati, che, una volta rimossi, potrebbero svelare gli altri eventuali bipedali rimasti. Come spiegare la presenza dei bipedali ad un metro dal livello del pavimento dell’antica cella? Sempre al livello del pavimento, una cavità rettangolare di 108 × 60 cm, distante 63 cm dal lato occidentale, 34 da quello orientale e 33 da quello settentrionale, potrebbe implicare la precedente presenza di una lapide od epigrafe rettangolare: la cavità profonda ca. 18 cm, più lo spessore dei bipedali (2,5 cm), è in posizione asimmetrica rispetto all’affaccio dell’apertura ellittica dell’altare moderno, ma da questo, comunque, ben visibile. Ciò potrebbe indicare, per via del tutto ipotetica, che l’apertura nell’altare moderno funzionasse, di nuovo, quasi come fenestella confessionis per qualcosa che era inserito in questa cavità nel pavimento, ovvero forse, per la visione dello spazio intero, in se stesso.48 44 Holstenii Lucae-Holstenio, Epistolae ad diversos, ed. J. F. Boissonade, Parigi 1817, pp. 496-498. 45 A. Busuioceanu, Un ciclo di affreschi del secolo xi : Sant’Urbano alla Caffarella, in Ephemeris Dacoromana, ii, 1924, p. 6. 46 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, pp. 63-64. Secondo la Noreen, che ha potuto solo compiere dei rilievi indiretti senza potervisi introdurre, i due spazi voltati avrebbero avuto misure corrispondenti. 47 Vedi Lugli, op. cit. a nota 26, p. 608. 48 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, p. 65, nota 122: la Noreen ha annotato che tale la concavità nel pavimento poteva datarsi anche al xvii sec., quando gli esploratori 114 stefania pinsone Fig. 11. Sezione trasversale degli ipogei, la linea indica il livello ipotetico del pavimento antico (Hvorslev-Pinsone). sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte 115 Fig. 12. Parete laterale della camera ipogea superiore, lato settentrionale (foto dell’autrice). L’intervento barberiniano ha innalzato un basamento gradinato per l’altare moderno, alto 28,5 cm ca., ma se si considera il livello generale del pavimento della cella, che pure è di restauro, l’apice della volta del loculo superiore si troverebbe direttamente a pochi centimetri dal livello di calpestio del pavimento stesso (Fig. 11), rendendo veramente pericolosa, proprio in quel punto, la percorribilità del tratto; senza contare, che il livello del pavimento antico, probabilmente, era più alto di quello attuale, visto che le basi delle colonne del pronaos sono rialzate rispetto al pavimento moderno (i probabili mosaici dell’antico pavimento erano stati completamente asportati). Paolo Aringhi, nel suo testo sulla Roma sotterranea,49 descrive il ritrovamento fortuito della cripta: mentre un muratore stava pulendo delle macerie dalla chiesa cadde in una cavità nascosta. Dopo aver gridato aiuto ai suoi compagni, egli ricevette assistenza e ritornò in superficie: “…Accidit enim, ut dum quis è caementariorum numero pavimentum Ecclesiae ruderibus expurgaret, humus sub pedibus extemplo dehisceret, quapropter ruinam ille repentino è lapsu pertimescens, caeteros, qui aderant, ut sibi periclitanti opem fer- della chiesa avrebbero “disturbato” l’area mentre cercavano evidenze dei siti funerari d’Urbano e dei suoi seguaci. È dubbio se tale cavità possa essere il frutto di un “disturbo” degli esploratori, che per saggiare il terreno non avrebbero di certo proceduto di pochi centimetri formando, così, una cavità di dimensioni ben definite e ben livellata alla sua base! 49 P. Aringhi, Roma Subterranea Novissima., (Fascimile reprint of 1659 edition), Portland 1972, ii, pp. 290-91, sez. 10. Pubblicato in Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, p. 70, nota 136. 116 stefania pinsone Fig. 13. Dettaglio dell’ispezione archeologica sulla volta della camera ipogea superiore, lato occidentale (foto dell’autrice). rent, inclamavit: sed dicto citius ab accurrentibus sociis è fovea, in quam labi coeperat, erutus, liber omnino evasit …”; la testimonianza dell’Aringhi appare preziosa in questo contesto, perché alla luce dei rilevamenti qui documentati, sembra plausibile ritenere che il muratore sia caduto, proprio, all’interno del locus cavus. La superficie tufacea del pavimento del loculo superiore dista solo 60 cm dall’apice della volta della cripta, posta leggermente fuori asse, al di sotto. L’esame della camera superiore rende persuasiva l’ipotesi della loro contestuale edificazione: per l’assialità quasi diretta e le dimensioni e la tecnica costruttiva; anche l’ipogeo superiore, infatti, sopra una “scaffalatura” costituita da filari di mattoni (qui due, alti 10 cm.), eleva una volta a botte cementizia. Inoltre, la cortina laterizia dei lati corti è inequivocabilmente simile a quella della parete settentrionale della cripta inferiore – quella dell’affresco – parete che appare più regolare nella sua cortina. Osservando lo schema architettonico, effettivamente, la suggestione di ritenerli eseguiti in una prima fase, alla medesima maniera, id est, solo lo spazio della volta più qualche filare di mattoni (1,10 m d’altezza per entrambi, mentre i filari restanti di mattoni nei lati lunghi della cripta inferiore, sarebbero spolia aggiuntive), appare fortissima. Come spiegare la storia e la funzione di queste due camere poste verticalmente l’una sopra l’altra? E come interpretare i bipedali romani nel pavimento del locus cavus? Frutto di un reimpiego? A prima vista, pare di trovarsi di fronte ad un vero e proprio rebus. La cortina laterizia delle pareti brevi dei due spazi, non appare, concretamente, altomedievale ed è arduo supporre, altrettanto, che i bipedali siano il frutto di un reimpiego altomedievale o, peggio, seicentesco (oltretutto nell’archivio Camerale i, relativo alla campagna di restauri barberiniana, che pure è molto dettagliata, non è menzionato nessun inter- sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte 117 Fig. 14. Ipogeo superiore, dettaglio dei bipedali sul pavimento, lato settentrionale (foto dell’autrice). vento di questo genere),50 tant’è accurata la loro messa in opera, che non appare per nulla l’effetto di un’operazione di recupero materico. Allo stesso tempo, non è meno arduo ipotizzare la singolare invenzione delle due camere ipogee sovrapposte, che sarebbe stata attuata da Erode Attico in età antonina o, al massimo, in seguito, massenziana, certamente un unicum nel panorama architettonico funerario romano, perché di spazi simbolicamente funerari doveva trattarsi, vista la scala dimensionale adottata. La tipologia funeraria comunemente adottata era quella del sepolcro a “camera” e del “tempietto”, edificio funerario a due o tre piani che prevede l’uso di rivestimenti laterizi anche policromi e che trova a Roma ampio favore per tutto il ii secolo d. C. e fino agli inizi del seguente. Tali edifici documentati nella necropoli dell’Isola Sacra, in quella scavata sotto la Basilica Vaticana ed in altri nuclei cimiteriali isolati e fuori della stretta continuità degli allineamenti sepolcrali o inseriti nel complesso di ville padronali, presentavano un piano centrale, utilizzato per i riti funebri, un piano inferiore, la camera funeraria, comunemente seminterrata o ipogea, che poteva ricevere luce sia da finestre a feritoia, sia da un cortile seminterrato a cielo aperto, in cui si discendeva per mezzo di scalette. Edifici sepolcrali, religiosi e con altra destinazione d’uso, così contraddistinti per tipologia e per caratteri figurali nell’ambito della cultura architettonica romana sono stati ampiamente studiati. All’interno di questo panorama emerge, 50 I documenti del Camerale i, Registro dé Chirografi, del Registro dei mandati ed il Libro della Depositeria, nell’Archivio di Stato di Roma, relativi alla Campagna di restauri barberiniana, sono stati pubblicati in Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, pp. 229-232. 118 stefania pinsone Fig. 15. Dettaglio dei bipedali sul pavimento, lato occidentale (foto dell’autrice). dunque, per singolarità la tipologia adottata in Sant’Urbano, con le due piccole camere, identiche e sovrapposte. Se frutto di un intervento d’Erode Attico stesso, potrebbero trovare una loro posizione all’interno di quella volontà di ricreare una funzione cenotafica, per sé e per Regilla, che, forse, spiegherebbe il “binomio” adottato per i due ipogei. Non potendo proporre, comunque, altro che ipotesi non comprovabili in mancanza di scavi scientifici, si può solo fornire qualche suggestione: i fedeli altomedievali dovettero rimanere altrettanto impressionati dalla singolarità del sito funerario (che forse nei secoli precedenti era stato sfruttato come tale) e che forse dovette suggerire loro il collegamento con il papa martire, con l’altrettanto singolare sepolcro costruito dalla matrona Marmenia e con la vicina cata- comba di Pretestato. Ricavarono, dunque, lo spazio per una cripta, scavandolo nel tufo, che rimase angusto perché anguste erano le dimensioni di partenza e fornendolo di un nuovo accesso; aprirono una nicchia nella parete settentrionale, di fronte ad un’approntata, rozza, mensa cementizia, e dipinsero l’immagine votiva. Ciò, in definitiva, potrebbe anche spiegare perché l’immagine della cripta è perpendicolare, ma non assiale all’altare. 51 Spera., op. cit. a nota 23, pp. 317-18: Pasquale I (817-824) spostò le reliquie di Tiburzio, Valeriano e Massimo e di papa Urbano da Prete- stato nella chiesa trasteverina di Santa Cecilia, benché sussista qualche incertezza sul valore di questa notizia. La presenza nella chiesa di Il fenomeno della traslazione delle reliquie, che divenne sistematico nel corso del ix sec. (traslazione di Sisto II e Cecilia da San Callisto, di Tiburzio, Valeriano e Massimo e dello stesso Urbano, da Pretestato),51 comportò l’abbandono graduale dei tradizionali luoghi del pellegrinaggio; un nuovo assetto sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte 119 degli insediamenti cultuali si sviluppò, così, nel suburbio, con la nascita d’edifici legati al valore memoriale d’alcuni luoghi leggendari, basti citare i casi rappresentativi della Chiesa di Santa Maria Domine Quo Vadis? che sorge nel luogo dove la tradizione colloca l’incontro tra Cristo e San Pietro (in seguito al quale l’apostolo ritorna in città per affrontare il martirio) e, appunto, la Chiesa di Sant’Urbano alla Caffarella, in cui gli affreschi dell’xi sec. rappresentano il ciclo agiografico d’Urbano, di Tiburzio, Valeriano e Massimo e scene del martirio di Papa Sisto, avvenuto probabilmente nell’area dell’antico Clivus Martis. Robert Coates-Stephens, all’interno del suo saggio sull’architettura del Medioevo a Roma,52 parlando delle chiese riconvertite da antiche strutture nel secondo medioevo, ha rilevato come, dopo la pausa intercorsa fra la metà dell’viii sec. (Santa Petronilla è del 750), fino al ix sec., con il “secondo medioevo” ricominciò la tendenza al riuso delle antiche strutture da convertire in chiese, principalmente per ragioni economiche; tale pratica veniva incontro, in particolar modo, alle esigenze della nobiltà in ascesa. L’aspetto più rilevante, soprattutto durante il x sec., è che nessuno di questi esempi corrisponde a fondazioni papali né, perfino, a sue iniziative eccetto San Bartolomeo all’Isola e Santo Stefano degli Ungari, che però erano nuove costruzioni. Tutte le altre chiese sorsero per iniziativa privata. In un certo qual modo sembrò di ritornare al periodo della tardoantichità. La tipologia di queste chiese, circa ventidue53 – di cui quelle riconvertite, circa cinque: Santa Maria Egiziaca, San Basilio, Santa Barbara dei Librai, San Lorenzo in Miranda e lo stesso Sant’Urbano alla Caffarella – era di essere, in generale, piccole, a singola navata, con piccole finestre ma con interni piuttosto ricchi, soprattutto per mezzo di cicli pittorici ed arredamenti liturgici marmorei. Esattamente come Sant’Urbano alla Caffarella. Per quanto riguarda, in particolare, l’area rurale, Settia ha rilevato come fra l’viii ed il ix sec., nell’Italia centro-settentrionale, si sia assistito alla moltiplicazione degli edifici religiosi, ben oltre le reali necessità delle popolazioni locali. Secondo lo studioso, questo fenomeno dimostrerebbe l’incidenza della committenza privata, in oratori che dovevano fondamentalmente soddisfare la devozione individuale. Queste chiese “curtensi”, tra l’altro, fungevano prevalentemente da “necropoli” per le famiglie dei fondatori.54 L’interno stesso della chiesa, nonostante le ricorrenti proibizioni canoniche, era destinato a luogo di sepoltura, come prova il formulario databile al sec. vi, conservato nel liber diurnus: la consacrazione di un oratorio privato era permessa solo se “nullum corpus ibi constat humatum”, ma a testimonianza dell’elusione della proibizione, sta il ritrovamento di tombe di quell’epoca, sotto il pavimento delle chiese.55 Il Monastero di Sant’Erasmo al Celio, proprietario dell’area del ii e iii miglio dell’Appia, nei secoli ix-x sec., concedette molti fondi di sua proprietà a privati cittadini, benché nessuna registrazione accordi specificatamente con il terreno di Sant’Urbano.56 Si sa, inoltre, per quanto riguarda la “dinamica dell’insediamento rurale” che, in generale, talvolta fu il villaggio a chiamare la chiesa, altre volte fu la chiesa che creò il villaggio. L’attitudine di una chiesa a richiamare attorno a sé gli abitanti “diventa sicuramente molto più spiccata se custodisce un prestigioso corpo santo, il quale ha, dunque, un rilevante potere d’attrazione. In luoghi come questi, non solo le dimenticate necropoli Santa Cecilia di un’iscrizione ex-voto con dedica a Tiburzio, Valeriano e Massimo ed il ricordo del loro dies natalis, generalmente attribuita al vi sec. e con probabilità proveniente proprio da Pretestato, può assumere un qualche significato a garanzia di un reale spostamento delle spoglie sante nell’edificio intramuraneo: tra l’altro qui nel xvi secolo, Pompeo Ugonio ricordava non solo la presenza delle reliquie di Urbano, ma anche di “più corpi…trasferiti qua dal Cemeterio di Pretestato dal Papa Pascale I”. Reliquie del papa e dei suoi tradizionali compagni sono annoverate tra i furta sacra effettuati nella prima metà del ix sec., dalla “banda” del diacono Deusdona, mentre, a proposito delle spoglie di Urbano si ha notizia del dono di Nicolò I nell’862 ai messi dell’imperatore Carlo il Calvo, che portarono tali reliquie ad Auxerre. Allo stesso Pasquale I si deve probabilmente anche la traslazione di Zenone a Santa Prassede, tra i multa corpora sanctorum dirutis in cimiteriis iacentia, che il papa, stando ad un’iscrizione corrente nell’abside, subter haec moenia ponit. 53 Per quanto riguarda il periodo dal 860 al 1015: Santa Maria in Aventino, San Sebastiano al Palatino, San Tommaso in Formis, Santa Maria Dominae Rosae, Santa Maria in Via Lata, San Pietro in Horrea, Santa Maria in Monasterio, San Ciriaco in Via Lata, San Cosimato, Santa Maria in cella Farfae, San Benedetto di Thermos, San Teodoro, Porta Maggiore, Santi Benedetto e Scolastica, San Bartolomeo, San Trifone, Santo Stefano degli Ungari. Vedi: Coates-Stephens R., op. cit. a nota 51, p. 222; più in generale si rimanda a Hülsen, op. cit. a nota 6. 54 A. Settia, Pievi e Cappelle nella dinamica del popolamento rurale, in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’alto medioevo: espansione e resistenze, (Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’alto medioevo, 27), Spoleto 1982, pp. 445-93. 55 Ibidem, p. 455. 56 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, p. 90, nota 202: i documenti 84 e 106 del registro di Subiaco dell’xi sec. descrivono transazioni catastali fra il monastero di Sant’Erasmo e privati cittadini. 52 R. Coates-Stephens, Dark Age Architecture in Rom, in Papers of the British School at Rome, 1997, pp. 215-220. 120 stefania pinsone forniscono corpi santi da scoprire, ma le rovine, ancora vistosamente emergenti dal piano di campagna, offrono un copioso materiale da costruzione, per la gente richiamata ad abitare accanto alla chiesa che custodisce le reliquie miracolosamente ritrovate e a dissodare le terre vicine da lungo tempo in abbandono”.1 Non sembra questa una suggestione piuttosto proponibile per la “sorte altomedievale” di Sant’Urbano? Quella gente che osservando la magnificenza del tempio ancora intatto, la singolarità delle due camere ipogee sovrapposte, volse il pensiero agli Acta di Urbano e Marmenia, alle vicine catacombe ed ai numerosi martiri ivi custoditi e che forse proprio in quell’antico tempio avevano trovato il martirio o si erano nascosti a battezzare, come si narrava del papa Urbano, o di Cecilia, Lorenzo, Sisto II, i suoi diaconi e suddiaconi le cui passiones sono ancora oggi narrate sulle pareti della cella. Abbreviazioni citate maar = Memoirs of the American Academy in Rome. mefra = Melanges de l’Ecole Francaise de Rome - Antiquite. rm = Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung. 1 Settia, op. cit. a nota 54, p. 462. FRANCESCO PERRINI E I RAPPORTI TRA ABRUZZO E MOLISE AI PRIMI DEL TRECENTO Francesco Gandolfo l nome di Francesco Perrini compare scritto, a grandi caratteri gotici, come autore dell’opera, sul fondo della lunetta del portale (Fig. 1) della chiesa di S. Maria Maggiore a Lanciano, dove si associa alla data del 1317, apposta al di sotto del gruppo formato dal Cristo crocifisso, affiancato dai due dolenti I e incoronato da un angelo.1 Non abbiamo altre testimonianze documentarie relative alla sua attività e dunque, per rintracciarne la presenza e ricostruirne il percorso, occorre inevitabilmente partire da quell’opera. La sola altra notizia che viene dall’iscrizione è che l’artista era originario della stessa Lan- Fig. 1. Lanciano, S. Maria Maggiore, Francesco Perrini, lunetta del portale, Crocifissione. 1 Esiste a proposito dello scultore una questione che investe la lettura del suo cognome. Nella epigrafe disposta sul fondo della lunetta del portale sia il nome sia il cognome sono riportati in maniera abbreviata. Lo scioglimento della abbreviazione del nome [FRA(N)C(ISCUS)] è del tutto naturale, molto meno giustificata quella del cognome [P(ER)RINI] in Petrini e non Perrini come impone il fatto che la P con l’asta tagliata può valere soltanto come abbreviazione di PER e non certo di PET, per la quale non esistono riscontri. V. Bindi, Monumenti storici e artistici degli Abruzzi, Napoli 1889, p. 713 non fece minimamente caso alla questione, dando per scontato che lo scultore si chiamasse Petrini, verosimilmente sulla scia delle tradizioni locali, mentre I. C. Gavini, Storia dell’architettura in Abruzzo, (ristampa dell’edizione Milano-Roma 1926-1927), Pescara 1980, II, p. 445 qualche dubbio in proposito lo dovette avere, perché nell’indice introdusse le due possibilità, utilizzando però nel testo la sola versione Petrini; anche in P. Toesca, Il Trecento, Torino 1951, p. 77 il dubbio rimase ma venne fornita una improbabile alternativa di lettura tra Prini o Petrini, dopo di che la versione Petrini fu definitivamente e inspiegabilmente ufficializzata e il problema della lettura di quel cognome non fu più posto. «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 121-154 122 francesco gandolfo ciano, mentre la sua ambigua collocazione, in rapporto al contesto, non chiarisce se l’opera alla quale si fa riferimento sia l’intero portale o solo il gruppo statuario della lunetta. In realtà ciò che venne realizzato in quella occasione nella chiesa andava ben al di là, perché l’edificio fu mutato nell’orientamento e dotato di una nuova facciata, con un intervento del quale fanno parte anche le due finestre ai lati del portale e l’ampio rosone che si apre al di sopra di esso.2 Nel panorama della scultura abruzzese del primo Trecento il portale (Fig. 2) rappresenta una indubbia novità, non tanto per la varietà dei motivi decorativi, quanto per la loro sovrabbondanza, in virtù di un ricercato sistema di ampliamento del numero delle ghiere e dei passaggi da un piano all’altro. Da questo punto di vista propone una monumentalità nuova di cui il suo autore doveva certamente andare fiero, il che potrebbe giustificare la speciale collocazione e il grande risalto dati alla sua firma. Con la creazione di questo portale si portava a compimento un processo significativo, quello di realizzare un ingresso di tipo monumentale, in linea, in termini assolutamente generali, con il gusto e con le tendenze del momento, utilizzando però i mezzi e il repertorio decorativo che facevano parte della tradizione locale precedente. Per valutare a pieno il valore di questa novità, un utile confronto può essere fatto con il portale di facciata (Fig. 3) della cattedrale di Atri che dovette essere realizzato negli stessi anni.3 Il portale atriano utilizza ancora l’arco a tutto sesto, mentre quello di Lanciano sfrutta al massimo l’arco a sesto acuto, al fine di dare all’insieme una maggiore altezza e lo fa mettendo in campo anche un altro passaggio determinante. Una nuova e insolita enfasi monumentale viene attribuita alla successione degli stipiti, in modo tale da ottenere una strombatura marcatamente profonda, a fronte invece di una sostanziale compressione dei motivi decorativi dell’altro portale. Tanto è vero che, pur in presenza di un numero di ghiere pressoché eguale e di motivi decorativi spesso identici, perché tipici del repertorio utilizzato dai lapicidi attivi nella regione, l’effetto che ricaviamo dalla visione comparata delle due opere è diametralmente opposto e distante. In un caso si ha l’impressione di una formicolante compressione, nell’altro di una ariosa espansione. Questo processo si accompagna a tutta una serie di espedienti come l’introduzione dei nodi nel corpo delle colonnine, per permettere di diversificare il tipo dell’ornato, nel passaggio da un troncone all’altro, o come la inserzione di bande decorative in corrispondenza degli spigoli degli stipiti, così da creare il senso di una vasta e movimentata varietà di decorazioni che, tuttavia, non intendono mai prevaricare, con la loro presenza, nei confronti della forma architettonica che rimane limpidamente presente, al contrario di quelle che sono invece le intenzioni rifuse nel portale della cattedrale di Atri, dove l’ornato finisce per fagocitare qualunque altra componente architettonica. Da questo punto di vista si può dire che mentre il portale atriano resta volutamente ancorato a quella che era stata la tradizione locale in voga negli anni precedenti, bene testimoniata dai portali disposti sul fianco meridionale dello stesso edificio e realizzati tra il 1287 e il 1305, quello di S. Maria Maggiore a Lanciano, pur continuando sul piano formale a parlare abruzzese, pretende di conquistare, più che le forme, il sapore di un portale ‘moderno’, ossia intriso degli stessi spiriti di quelli delle grandi cattedrali del momento. In realtà l’intenzione non era nuova e occorre mettere alle spalle del portale di S. Maria Maggiore a Lanciano almeno un precedente: il portale (Fig. 4) della cattedrale di S. Tommaso a Ortona.4 Vincenzo Bindi ha riportato il testo di una perduta iscrizione che ne attribuisce la realizzazione all’ortonese Nicola Mancino nel 1312, una indicazione che stride violentemente al confronto con il portale che lo stesso artista firma nel 1321 in S. Maria della Civitella a Chieti, del tutto diverso per intenzioni e qualità.5 Comunque, prescindendo da questa questione che, forse, può generare soltanto dai comportamenti della bottega, a fronte delle disponibilità finanziarie messe sul tavolo dai committenti, e dunque essere il frutto di uno scarso interesse da parte dello scultore che ne era a capo per un lavoro minore, dall’esecuzione tutta affidata a modesti collaboratori, resta il fatto che il portale ortonese per primo si impegna in un’opera di modernizzazione delle forme. 2 Bindi, op. cit. a nota 1, pp. 712-713; Gavini, op. cit. a nota 1, pp. 337341; Toesca, op. cit. a nota 1, pp. 76-77; M. Moretti, Architettura medioevale in Abruzzo (dal vi al xvi secolo), Roma 1971, pp. 376-389. 3 F. Aceto, La cattedrale di Atri, in Dalla valle del Piomba alla valle del basso Pescara. Documenti dell’Abruzzo teramano, V, 1, a cura di L. Franchi dell’Orto, Teramo 2001, pp. 187-206. 4 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 317-320; Toesca, op. cit. a nota 1, p. 77; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 538-539. 5 Bindi, op. cit. a nota 1, pp. 686-687. Per il portale di S. Maria della Civitella a Chieti cfr. Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 320-321; Toesca, op. cit. a nota 1, p. 77; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 540-541. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise Fig. 2. Lanciano, S. Maria Maggiore, Francesco Perrini, portale di facciata. 123 124 francesco gandolfo Fig. 3. Atri, Cattedrale, Rainaldo (attribuito a), portale di facciata. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise Fig. 4. Ortona, Cattedrale, Nicola Mancino, portale. 125 126 francesco gandolfo Distrutto da un bombardamento nel corso dell’ultima guerra mondiale, il portale ha visto riuniti i pochi frammenti superstiti in una raggelata ricostruzione che solo in parte riesce a esprimere l’antico sapore di novità. Eppure il portale si muoveva già con grande coerenza nella direzione di attribuire enfasi monumentale alle forme decorative locali, ad esempio introducendo l’arco a sesto acuto, la spezzatura in tre tronconi delle colonnine della strombatura, con la relativa diversificazione nell’ornato, infine la cesura decorativa imposta sugli spigoli degli stipiti, ossia tutti quegli elementi che, cinque anni dopo, ricompaiono nel portale di S. Maria Maggiore a Lanciano che li sfrutta a fondo, aggiungendo di suo soltanto l’insinuarsi violento e corposo dello stipite nel passaggio da una colonnina all’altra. In più il portale di Ortona suggeriva il ritorno alla lunetta con decoro figurato, dopo il lungo periodo in cui l’Abruzzo era stato dominato dalla sobrietà cistercense imposta dai portali di S. Maria della Vittoria.6 Su questa stessa linea di recupero dei temi caratteristici del grande portale monumentale, si poneva anche la novità rappresentata dall’utilizzo di elementi figurati nelle ghiere dell’archivolto, come la corona di angeli, posti in successione, di cui rimane oggi solo qualche isolato esemplare, reso con forme che spesso rivelano una disinvolta capacità descrittiva. Nel quadro dell’Abruzzo meridionale il vero momento di svolta è dunque rappresentato dal portale della cattedrale di Ortona, in cui è del tutto evidente l’intenzione di recuperare una serie di passaggi formali tipici delle cattedrali transalpine, calandoli all’interno delle forme suggerite in precedenza dal portale (Fig. 5) di S. Pietro a Vasto, ammesso che, per la sua datazione, si possa utilizzare l’ambigua indicazione del 1293, fornita dalla iscrizione posta nella lunetta del portale della cattedrale di S. Giuseppe, nella stessa città, e la comunanza di ornati che esso ha con il rosone di quest’ultimo edificio.7 Al di là di questo però, il portale di S. Pietro pone bene in risalto il debito contratto, in sede locale, nei confronti del portale laterale (Fig. 6) di S. Maria Maggiore a Lanciano, realizzato prima del 1240, nel pieno del classicismo federiciano.8 Da lì infatti derivano l’arco a tutto sesto dell’archivolto, i capitelli a crochet e le paraste scanalate laterali che salgono in direzione del timpano conclusivo, a dimostrazione del fatto che la riflessione sulle forme del portale monumentale che si conclude con quello di facciata di S. Maria Maggiore a Lanciano è decisamente circoscritta, fino a questo momento, all’Abruzzo costiero e meridionale. Sul piano stilistico niente ci autorizza a riconoscere la presenza del Perrini nel cantiere della cattedrale di Ortona e dunque il rapporto tra questa impresa e quella della facciata di S. Maria Maggiore a Lanciano deve essere mantenuto nei termini della elaborazione di un modello di suggestiva novità. Per cercare di definire meglio compiti e personalità dello scultore occorre confrontare la sua opera maggiore con un altro intervento che egli dovette condurre negli stessi anni a Lanciano, quello sulla facciata della chiesa di S. Agostino.9 In questo caso la committenza decise a favore di una più tradizionale sobrietà di forme, maggiormente adatta a una chiesa mendicante. Dunque venne scelto un tipo di portale (Fig. 7) di modesta strombatura, con un solo passaggio tra gli stipiti interni e quelli esterni e, di conseguenza, con una sola coppia di colonnine a separarli, tra l’altro divise in due tronconi da un solo nodo intermedio, come del resto quelle esterne, connesse alla risalita in direzione del timpano, data anche la limitata altezza dell’insieme. Quello a cui non si rinunciò fu di collocare una statua all’interno della lunetta ed è proprio questo gruppo della Madonna con il Bambino ad aiutarci nel definire la personalità e il ruolo del Perrini. Non vi possono essere dubbi sul fatto che vi sia una totale parentela stilistica tra questa statua (Fig. 8) e quelle che si accampano nella lunetta (Fig. 1) del 6 Per il ruolo di modello svolto in Abruzzo, per tutto l’ultimo quarto del Duecento, dai portali della fondazione angioina di S. Maria della Vittoria a Scurcola Marsicana cfr. Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 133-140. 7 L’epigrafe, oltre alla data, riporta anche il nome di un magister Rogerius de Fragenis: il problema nasce dal fatto che la lastra su cui è scritta è collocata, all’interno della lunetta, in una posizione che nulla assicura che sia quella originaria, di conseguenza non è categorico che la sua testimonianza fornisca indicazioni puntuali in merito al portale della cattedrale e, di riflesso, a quello della chiesa di S. Pietro, come riteneva invece Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 174-181, ripreso in questo anche da Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 500-505. 8 Per la dimensione federiciana della chiesa di S. Maria Maggiore a Lanciano cfr. M. Righetti Tosti Croce, La chiesa di S. Maria Maggiore a Lanciano: un problema dell’architettura italiana del Duecento, in I Cistercensi e il Lazio. Atti delle giornate di studio dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Roma. 17-21 Maggio 1977, Roma 1978, pp. 187211. Per le ragioni che debbono portare a una datazione del portale immediatamente precedente all’avvio dei lavori a Castel del Monte, con il cui portale questo di Lanciano viene costantemente paragonato, cfr. F. Gandolfo, Scultura medievale in Abruzzo. L’età normannosveva, Pescara 2004, pp. 210-213. 9 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 342-343; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 546-547; E. La Morgia, La chiesa e il convento di S. Agostino a Lanciano, Pescara 1998. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise Fig. 5. Vasto, S. Pietro, Ruggero De Fragenis (attribuito a), portale. 127 128 francesco gandolfo Fig. 6. Lanciano, S. Maria Maggiore, portale laterale. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise Fig. 7. Lanciano, S. Agostino, Francesco Perrini (attribuito a), portale. 129 130 francesco gandolfo Fig. 8. Lanciano, S. Agostino, Francesco Perrini (attribuito a), lunetta del portale, Madonna con il Bambino. portale di S. Maria Maggiore. Basta confrontare la stesura dei panneggi per pieghe grandi e pacate o la definizione dei volti per passaggi larghi e inespressivi, per cogliere all’opera lo stesso scultore. Ma ciò che conta non è tanto questo, quanto la comunanza negli ornati che corre tra i due portali (Figg. 2 e 7), nel senso concreto di un unico repertorio di tipi e di soluzioni che coinvolge colonnine, stipiti, capitelli e ghiere in un solo sentire, così da poter pensare che a eseguire entrambi i portali sia intervenuta una stessa bottega, capeggiata dal Perrini e dotata al suo interno di varie specificità operative. In questo modo si risponde anche alla domanda che ci si era posti all’inizio: se al Perrini si dovessero solo le sculture della lunetta del portale di S. Maria Maggiore oppure l’in- tera facciata. Il suo ruolo dovette essere piuttosto quello di un capobottega che aveva al suo seguito varie e articolate competenze, una sorta di impresa al cui interno si dovevano diversificare i ruoli, visto che ciò che contava era il risultato finale, piuttosto che il singolo dettaglio. Questo aspetto è messo in evidenza dai rosoni che si accampano al di sopra dei due portali lancianesi e che debbono essere stati eseguiti entrambi dalla bottega del Perrini. Si può arrivare con facilità a questa conclusione attraverso dei rimandi interni ai due edifici. Nel caso di S. Maria Maggiore la cornice che cinge l’oculo (Fig. 9), fatta di grandi foglie di acanto spinoso, trova una ragione di immediato confronto con quella che borda il timpano immediatamente sottostante (Fig. 2), rivelando con questo una diretta continuità operativa. Nel caso di S. Agostino il legame si crea invece tra la cornice fogliata che sormonta l’oculo (Fig. 10) e quella subito a ridosso della lunetta del portale (Fig. 7), segno evidente della continuità operativa ma anche del giuoco combinatorio che, volta a volta, presiedette alla scelta dei motivi e alla loro distribuzione all’interno delle opere. I rosoni realizzati dalla bottega del Perrini in questi due edifici sono simili ma non identici, soprattutto propongono una novità che godrà in zona di una certa fortuna e che è stata certamente ricavata da modelli pugliesi, come quello fornito dall’oculo in facciata della cattedrale di Bitonto.10 Mi riferisco alla cornice che circonda la porzione superiore dell’oculo e che va a poggiare su due colonnine, tangenti alla circonferenza, rette da elementi figurati poggianti su mensole. A S. Maria Maggiore (Fig. 9) si tratta di telamoni, stilisticamente imparentati con le sculture della lunetta del portale e assai espressivi, memori di quelli (Fig. 11), altrettanto vitali, che reggono l’architrave del portale della cattedrale di Ortona. In S. Agostino (Fig. 10) si utilizzano invece dei più tradizionali leoni stilofori, ma si sperimenta anche qualcosa di diverso, perché, nella porzione superiore, la cornice viene sollevata in un andamento a cuspide che permette di inserire subito sotto, nello spazio fino alla ruota vera e propria, un’aquila ad ali patenti. Proprio il rosone di S. Agostino è lo strumento migliore per associare all’attività della bottega del Perrini anche la facciata della cattedrale di Larino e aprire così un ulteriore scenario, caratterizzato dalla diretta presenza dello scultore, malgrado che questo 10 Il carattere pugliese di questi rosoni è stato colto da Toesca, op. cit. a nota 1, pp. 76-77. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise Fig. 9. Lanciano, S. Maria Maggiore, Francesco Perrini, rosone. Fig. 10. Lanciano, S. Agostino, Francesco Perrini (attribuito a), rosone. 131 132 francesco gandolfo Fig. 11. Ortona, Cattedrale, Nicola Mancino, portale, telamone a sostegno dell’architrave. sia stato messo in dubbio da chi si è occupato più diffusamente dell’edificio molisano.11 Diversi sono gli aspetti di immediato e diretto rapporto. La cornice che corre intorno all’oculo di Lanciano ritorna, con le stesse fattezze e in una identica posizione, a Larino (Fig. 12), dove, ancora una volta, si accompagna, nell’ornato soprastante, a una sequenza di foglie di acanto che ritornano intatte nella cuspide del sottostante portale (Fig. 13). In questo poi, a separare il percorso delle colonnine più esterne, sovrapposte l’una all’altra e terminanti nella cuspide, intervengono figure leonine di fattura analoga rispetto a quelle poste alla base delle colonnine che reggono la cornice esterna del rosone (Fig. 10) di S. Agostino a Lanciano. Una particolarità soprattutto le accomuna: malgrado che le belve siano rappresentate sedute sul tre11 M. S. Calò Mariani, Due cattedrali del Molise. Termoli e Larino, Roma 1979, pp. 72-79 ritiene che a Larino abbia operato «un maestro affine per formazione ma non identico a Francesco Petrini», privilegiando in alternativa una prospettiva di provenienza pugliese. Di maestranze abruzzesi, in stretto rapporto con quelle operanti alla no posteriore, esse reggono con le groppe le colonnine soprastanti, ma questo provoca la singolarità di una ricaduta in falso delle due basi che non si appoggiano su di esse, ma semplicemente si incastrano tra loro e il muro, una situazione che la dice lunga sui metodi di lavoro della bottega, strettamente legati a una ripetizione artigianale e meccanica dei tipi e per questo fortemente condizionati nelle possibilità di scelta a seconda delle circostanze. Un limite questo, del rapporto tra tipo e funzione e della difficoltà a uscire dai confini del tipo in relazione alla funzione, che è messo bene in risalto dal fatto che, nello stesso portale di Larino, i grifoni che si dispongono al di sopra dei capitelli e che fanno da stilofori per le colonnine che reggono la cuspide sono posizionati correttamente, con le groppe in relazione a quella loro funzione, segno che essa era già insita nel modello di partenza, come non avveniva invece per i leoni sottostanti, dei quali non ci si avventurava a mutare la posa, nella trascrizione dall’ipotetico modello, per tema di incappare in un errore. Queste considerazioni appaiono più che sufficienti per attribuire al Perrini e al suo certamente nutrito gruppo di collaboratori la facciata della cattedrale di Larino. Da un punto di vista architettonico l’impresa ha tutte le caratteristiche di una elaborazione del progetto di S. Maria Maggiore a Lanciano, nel senso che le due finestre che in quel caso erano state poste ai lati del portale, qui vennero sollevate ai lati del rosone, a occupare le due zone a vento della facciata a coronamento rettilineo, tagliata al mezzo da una cornice di foglie di acanto a doppia banda, la superiore legata ai modi dell’ornato esterno del rosone, la inferiore a quelli della cornice interna dell’archivolto, a sintetizzare visivamente l’unicità progettuale e operativa dell’intero sistema architettonico. Sull’architrave del portale (Fig. 14) della cattedrale di Larino è scritta la data del 1319. È da pensare che questa indicazione coinvolga in maniera diretta il portale, al cui interno l’architrave è collocato, e che la conclusione di tutta la facciata sia avvenuta solo successivamente. L’indicazione cronologica interviene a due anni soltanto da quella relativa ai lavori a S. Maria Maggiore di Lanciano e, tra l’altro, è fornita anch’essa in una situazione di contesto pressoché identica, in quanto collocata in rapporto con la facciata di S. Maria Maggiore a Lanciano, aveva parlato Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 343-345, mentre non disdegnavano l’ipotesi di una diretta attribuzione al Perrini Toesca, op. cit. a nota 1, p. 77 e L. Mortari, Molise. Appunti per una storia dell’arte, Roma 1984, p. 20. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise 133 Fig. 12. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a), rosone. lunetta del portale, dunque con le stesse conseguenze in relazione ai tempi di esecuzione dell’intera facciata. Questo mette bene in risalto la solida capacità operativa della bottega capeggiata dal Perrini, il cui pregio maggiore doveva consistere proprio nel saper tradurre nella pietra, con millimetrica precisione ripetitiva e con grande celerità, il ricco repertorio decorativo di cui era in possesso, così da essere in grado di garantire una qualità e una eleganza insolite, anche in una realtà come quella abruzzese, da sempre abituata alla straordinaria abilità, nella resa degli ornati, da parte dei suoi lapicidi. Il portale (Fig. 13) della cattedrale di Larino, dal punto di vista tipologico, è sostanzialmente una ripetizione di quello (Fig. 2) di S. Maria Maggiore a Lanciano e la scelta del Perrini, come organizzatore dell’opera, da parte del vescovo Raone de Comestabulo, dovette avvenire sulla scorta delle indicazioni ricavate da quel monumento. Nello stesso tempo il Perrini, nel riprendere nella lunetta (Fig. 14) il tema della Crocifissione, cercò di migliorarne il rapporto con l’architettura, alzando l’angelo che incorona il Cristo e ribaltandone la posizione, mettendolo non più, poco credibilmente, in piedi, dietro la testa, ma scendente in volo, al di sopra di essa. Nello stesso tempo fece reclinare di lato il capo del Cristo, conquistando una posa decisamente più patetica che tuttavia non nasconde gli stretti rapporti con l’altro analogo gruppo statuario (Fig. 1). Sul piano stilistico però le due figure dei dolenti sono ancora più saldamente legate ai modi della Madonna con il Bambino (Fig. 8) della lunetta del portale di S. Agostino a Lanciano, con una identità, nella sintesi e nella laconicità dei passaggi plastici, che conferma non solo la comunanza ma la sostanziale contemporaneità dei tre interventi. Ciò che di veramente diverso compare a Larino è tutto concentrato nel rosone (Fig. 12) dove, ancora 134 francesco gandolfo Fig. 13. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a), portale. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise 135 Fig. 14. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a), lunetta del portale, Crocifissione. una volta, il Perrini sviluppa in termini nuovi il rapporto tra l’oculo e la cornice, retta da colonnine, che lo abbraccia nella porzione superiore. La novità in questo caso è fornita dal suo generale andamento a cuspide poligonale, riprendendo il tipo di soluzione tradizionalmente utilizzata nei portali, in modo tale che il distacco totale, rispetto all’oculo vero e proprio, permetta l’inserzione, nello spazio murario intermedio, di un Agnus Dei, accompagnato dai simboli dei quattro evangelisti. Che sia sempre il Perrini a intervenire a questo livello della facciata lo dimostrano gli stretti legami che gli animali dei simboli hanno con quelli stilofori del sottostante portale e soprattutto il nesso che l’angelo di Matteo (Fig. 15) mostra con le sculture della lunetta (Fig. 14), per via del volto largo e inespressivo e dei panneggi ricadenti per pieghe ondulanti e cadenzate, come quelle del pallio della Vergine. Le due finestre ai lati del rosone (Fig. 16) riprendono, nel gusto decorativo, quelle (Fig. 17) ai lati del portale di S. Maria Maggiore a Lanciano, ma si caratterizzano per una nuova e più convinta enfasi monumentale, dettata dalla presenza di animali stilofori a reggere le colonnine, dal ricco decoro, che ne spartiscono in due la luce e soprattutto dall’idea di introdurre a incorniciarle una struttura a timpano, analoga a quella (Fig. 12) che abbraccia il rosone e Fig. 15. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a), rosone, simbolo dell’evangelista Matteo. 136 francesco gandolfo Fig. 16. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a), bifora sulla sinistra del rosone. Fig. 17. Lanciano, S. Maria Maggiore, Francesco Perrini (attribuito a), monofora sulla sinistra del portale. realizzata con le stesse forme decorative. La variante più consistente è rappresentata dalla presenza di protomi umane, una maschile e una femminile, secondo una formula iconografica largamente sfruttata nel corso del Duecento, a reggere le colonnine sulle quali appoggia il sistema poligonale. È un motivo del tutto assente, in questa funzione, negli altri cantieri guidati dal Perrini, visto che a Lanciano, sia in S. Maria Maggiore sia in S. Agostino, la testina umana viene utilizzata per chiudere il percorso, all’apice superiore, delle bande decorative che smussano lo spigolo degli stipiti, come del resto avviene anche a Larino, ma non in funzione di mensola, carica ad evidenza di ricordi federiciani.12 La ragione formale però impedisce di pensare che il loro autore sia qualcuno diverso rispetto al Perrini, perché i volti delle protomi, in particolare quelli delle due disposte sulla destra, per via del modulo facciale dilatato, dei grandi occhi spalancati e fissi, con le pupille destinate ad essere riempite con il piombo, rimandano, in modo diretto e immediato, alle sculture nella lunetta del portale, indicando di essere tutte opere di uno stesso scultore e ribadendo dunque, se mai ve ne fosse bisogno, la unitarietà progettuale ed esecutiva dell’intera facciata. Sulla base di dati stilistici confrontabili in maniera affidabile, l’attività accertabile della bottega guidata da Francesco Perrini si conclude con la realizzazione della facciata della cattedrale di Larino, dunque essa si incentra prevalentemente nel secondo decennio del Trecento. È questo un dato sul quale riflettere nel momento in cui si voglia dare un giudizio sulla scul- 12 Il rinvio più immediato è ovviamente alle teste mensola del donjon nel castello di Lagopesole su cui cfr. M. Righetti TostiCroce, La scultura del Castello di Lagopesole, in Federico II e l’arte del Duecento italiano. Atti della III settimana di studi di storia dell’arte medie- vale dell’Università di Roma. 15-20 maggio 1978), a cura di A. M. Romanini, Galatina 1980, pp. 237-252, in particolare pp. 247-250: anche in questo caso si tratta di una coppia, formata da una testa maschile e da una femminile. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise 137 Fig. 18. Fossacesia, S. Giovanni in Venere, particolare della lunetta del portale di facciata, Deesis. tura figurata di cui l’artista si fa portatore. Non ha nessun senso porsi nell’ottica di un confronto con ciò che contemporaneamente accade in altri ambiti culturali. Anzitutto perché le sue sculture rispondono a canoni compositivi, di silenziosa fissità cerimoniale e di ruvida solennità, che sono tradizionali per i non molti portali figurati della tradizione plastica abruzzese, a partire dal primo e più antico, quello dell’abbazia di S. Clemente a Casauria.13 Se si guarda al portale più vicino e significativo, in questo senso, per l’ambiente di formazione del Perrini, quello (Fig. 18) dell’abbazia di S. Giovanni in Venere, non si può non consentire sul fatto che lo scultore ne abbia tratto più di una indicazione nel dimensionare e col- locare in reciproco rapporto i protagonisti del suo dramma sacro, così come del resto era già accaduto per l’autore del portale della cattedrale di Ortona (Fig. 4), ammesso che sia stato il Mancino.14 Questo malgrado che certi passaggi iconografici come la croce a Y e l’uso di tre soli chiodi, nelle lunette di Lanciano e di Larino, o il tipo della Madonna con il Bambino in S. Agostino a Lanciano lascino intendere che il Perrini aveva conoscenza anche di altri fatti, certamente più moderni, ma che non aveva modi, ma soprattutto ragioni per scindere il legame con le logiche della tradizione locale, come fattore di identità, che è il tratto preponderante di tutta la scultura medievale abruzzese e che si manifesta nella qualità, 13 F. Gandolfo, S. Clemente a Casauria. I portali e gli arredi interni, in Dalla valle del Fino alla valle del medio e alto Pescara, Documenti dell’Abruzzo teramano, vi , 1, a cura di L. Franchi dell’Orto, Teramo 2003, pp. 272-297, in particolare pp. 272-283; Gandolfo, op. cit. a nota 8, pp. 116-123. 14 Sul portale dell’abbazia di S. Giovanni in Venere cfr. F. Aceto, “Magistri” e cantieri nel “Regnum Siciliae”: l’Abruzzo e la cerchia federiciana, in BdA, serie vi, lxxv, 1990, n. 59, pp. 15-96, in particolare pp. 49-58 e Gandolfo, op. cit. a nota 8, pp. 181-184. 138 francesco gandolfo nella ricchezza e nella fantasia profuse nella resa dell’apparato ornamentale, fino a farlo diventare di gran lunga l’aspetto di maggiore originalità e di più marcata autonomia. Del resto l’approvazione dei modi decorativi elaborati dalla bottega del Perrini è bene testimoniata dalla loro fortuna locale che davvero, malgrado il valore desueto del termine, configura quel radicamento nel territorio che Gavini definiva come ‘scuola di Lanciano’.15 È anzitutto nella città stessa in cui il Perrini si forma che si colgono i segni di una ripresa del suo modo di fare. È questo il caso della chiesa di S. Lucia dove, emblematicamente, al portale si contrappone il soprastante rosone, a segnalare l’acquisizione delle novità intervenute nell’arco di tempo che passa dalla esecuzione dell’uno rispetto a quella dell’altro.16 Il portale (Fig. 19) è infatti del tipo, fatto di poche e semplici modanature, prive di ornato, se si esclude la ghiera interna della lunetta, sobrio ed essenziale, prevalso in città sulla scia del modello fornito dalla eleganza raffinata del portale laterale (Fig. 6) di S. Maria Maggiore, secondo una formula che si ripete anche nei portali di S. Francesco, di S. Biagio, di S. Spirito e del Seminario Arcivescovile, che è poi quello dell’antica cattedrale della città.17 Sulla scia di ciò che era avvenuto poco prima tra Vasto e Ortona, la furia decorativa del Perrini rompe e rende obsoleta quella soluzione e così quando a S. Lucia, dopo una evidente interruzione dei lavori, si arriva all’altezza del rosone (Fig. 20), non si può evitare di rifarsi a quello di S. Maria Maggiore. I tratti formali indicano in maniera evidente che gli scultori che sono all’opera non sono più quelli della bottega del Perrini, perché le varie componenti decorative, pur tenendosi fedeli al modello in termini generali, si muovono con disinvolta libertà esecutiva. Sono soprattutto la cornice esterna, quella che circonda l’oculo, e la raggiera che rivelano l’utilizzo di schemi esecutivi diversi, dunque di un formulario di bottega che è stato costruito ex novo, sulla falsariga di quello a disposizione dei lapicidi agli ordini del Perrini, ma che non si identifica con esso e dunque rivela la presenza di un gruppo di lavoro diverso ed estraneo. Questo aspetto è messo in risalto anche dai pochi elementi figurati rappresentati dai leoni stilofori e dai telamoni che reggono le mensole sulle quali essi poggiano perché, pur fondendo motivi presenti nelle soluzioni introdotte a Lanciano dal Perrini, tra S. Agostino e S. Maria Maggiore, le rendono stilisticamente in maniera diversa e indifferente nei confronti di un qualsiasi ricordo della metallica ruvidità del modello, visto che, al contrario di quello, appaiono inclini a una certa morbidezza di tratti. Una situazione analoga si proponeva nella chiesa di S. Francesco a Monteodorisio dove, al di sopra di un portale dalle forme assai semplici, si disponeva un rosone chiaramente modellato su quello della cattedrale di Larino, per via della grande incorniciatura cuspidata che avvolgeva la ruota, retta da colonnine poggianti su leoni stilofori.18 La insensata demolizione del monumento nel 1964, per fare posto all’attuale palazzo comunale, rende ormai impossibile rendersi conto, in concreto, della situazione stilistica e formale dell’opera, né è utile in questo senso una vecchia fotografia della facciata, troppo indeterminata nel dettaglio.19 Né si ricavano indicazioni positive dagli sparsi frammenti dell’insieme che sono oggi conservati tra le sale del Museo Civico e un magazzino comunale, anche perché sembrano provenire in prevalenza dal portale, almeno rapportandoli a ciò che si intuisce dalla fotografia. In ogni caso almeno a una conclusione si può arrivare e cioè che anche qui non operava la bottega del Perrini. Ci aiuta in questo senso la considerazione che nessuno dei frammenti superstiti può essere associato alla sua maniera, visto che è totalmente estraneo a quell’ambiente il carattere morbido e flessuoso con cui sono realizzati i capitelli, a foglia allungata e a crochet, che formano la parte più cospicua dei resti (Fig. 21). Dunque, in considerazione anche del fatto che l’insediamento venne fondato nel 1334, occorre arrivare alla conclusione che quel tipo di rosone fu indicato come modello da seguire a scultori di tutt’altra estrazione, con ogni probabilità provenienti dalla vicina Vasto, nella cui tradizione più agevolmente si colloca la fattura di quei capitel- 15 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 337-346. 16 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 341-342; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 444-445. 17 Su questi portali cfr. Gavini, op. cit. a nota 1, II, pp. 155-156 e Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 440-449. 18 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 345-346 e p. 397; L. Bartolini Salimbeni, Architettura francescana in Abruzzo dal xiii al xviii secolo, Roma 1993, pp. 89-90; P. Cerella, Monteodorisio. Convento di S. Fran- cesco d’Assisi, in Fabbriche francescane in antologia. Gli insediamenti dei Frati Minori Conventuali e delle Clarisse tra il xiii e il xv secolo, a cura di M. Massone, Vasto 2000, pp. 91-94. 19 C. Robotti, Monteodorisio. Ambiente, immagini, documenti, Cavallino di Lecce 1990, pp. 49-51 pubblica una buona fotografia del monumento prima della distruzione e fornisce anche ragguagli documentari sulle vicende della sua non ottimale conservazione. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise Fig. 19. Lanciano, S. Lucia, portale. 139 140 francesco gandolfo Fig. 20. Lanciano, S. Lucia, rosone. li, largamente utilizzati, sul finire del Duecento, in S. Giuseppe e in S. Pietro (Fig. 5). Del resto è proprio partendo da Vasto che è possibile avviare una ricognizione che metta in risalto il fatto che la diffusione della maniera divulgata dal Fig. 21. Monteodorisio, Museo Civico, capitello proveniente dal portale di S. Francesco. Perrini non coinvolse, in quell’area, soltanto gli aspetti decorativi, ma fu altrettanto incisiva in termini figurativi. Al culmine della facciata barocca (Fig. 22) della chiesa di S. Maria Maggiore, ai lati di un leone reggicroce, forse anch’esso di recupero ma decisamente più tardo, sono stati collocati due leoni stilofori, accosciati sul treno posteriore, secondo la soluzione resa popolare dallo scultore. Anche i tipi riflettono la sua maniera, per via dei musi tondeggianti, della finta ferocia, espressa dalle lingue protruse all’infuori e fatte aderire alla mandibola, delle criniere rese per grandi ciocche piatte e dall’andamento a punta di lancia. Le due belve tengono delle prede tra gli artigli. Quella sulla sinistra ha il busto di un uomo e ancora una volta il tratto formale appare essere quello, statico e inespressivo, suggerito dal Perrini, per via dei grandi occhi, dilatati e fortemente segnati al mezzo dalla pupilla, e delle gote, rese per piani larghi e continui. Eppure, malgrado così tanta comunanza, è altrettanto evidente che lo scultore che ha realizzato le due belve non è il Perrini né tantomeno un qualche diretto appartenente alla sua bottega, perché il suo modo di fare, nell’insieme, è francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise 141 Fig. 22. Vasto, S. Maria Maggiore, facciata, leoni erratici. ancora più greve e violento di quello che poteva essere suggerito dai modelli utilizzati. Basta vedere l’enfasi esagerata con cui sono resi gli artigli o i musi, segnati da linee e scarti di livello che fanno pensare ad esotiche stilizzazioni del tipo, estranee alla maniera del Perrini, così come indifferente al suo modo di fare appare l’insistere sul motivo del labbro superiore fesso al mezzo e degli occhi ingigantiti e resi spiritati. Dunque la conclusione non può essere altro che quella di riferire le due sculture a un convinto imitatore di quel modo di fare. Allo stesso risultato occorre arrivare anche a proposito delle sculture che si dispongono sulla facciata della chiesa di S. Leucio ad Atessa.20 Si tratta di una struttura cinquecentesca che ingloba al suo interno, in condizione di reimpiego, sparsi resti di quello che era stato l’ornato della struttura medievale della quale, in sostanza, non rimane più traccia, salvo il breve tratto di parato lapideo che si dispone al di sotto del rosone (Fig. 23) e che è stato conservato all’interno del rifacimento, in virtù del fatto che la porzione sottostante della facciata non è altro che una fodera applicata sulla muratura più antica, come evidenzia la sua vistosa sporgenza. Come già notava il Gavini, ciò che resta di antico nei portali non ha nulla a che vedere con la maniera del Perrini e deve appartenere a una fase di intervento immediatamente precedente. È nel rosone che è invece facile riconoscere un adeguamento alle novità che sono state divulgate dalla bottega dello scultore nel corso del secondo decennio del Trecento, visto che si riprende in toto, nella forma e nella tipologia dell’apparato decorativo, la soluzione (Fig. 9) introdotta entro il 1317 nella facciata di S. Maria Maggiore a Lanciano. Le varianti 20 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, p. 345; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 394-395. 142 francesco gandolfo Fig. 23. Atessa, S. Leucio, rosone. Fig. 24. Atessa, S. Leucio, mensola sulla sinistra del rosone. sono fornite dalla diversa qualità di esecuzione degli elementi decorativi, decisamente più rigidi e spinosi, e dalla sostituzione dei telamoni con due protomi leonine dall’aria fintamente feroce, molto più banali e sgangherate rispetto a quelle a cui ci ha abituato il Perrini. Tuttavia che ci si muova, anche sul piano figurativo, nella scia del suo modo di fare lo puntualizza, in modo inequivocabile, la testa umana (Fig. 24) che è stata posta a fare da ornamento alla fronte della mensola che regge il leone sulla sinistra e nella quale tornano tutti i tratti tipici della maniera, slargata e attonita, con cui in quel contesto viene reso il volto. Anche in questo caso che l’autore non possa essere identificato nel Perrini in prima persona, ma in un suo distaccato imitatore, è nei fatti, nel senso che alla fin fine mancano il garbo e la delicatezza che lo scultore sapeva comunque imprimere alle sue opere, mentre qui si scivola sempre più in una resa tutta di maniera. Ciò malgrado quel volto è utile perché permette di associare allo stessa fase di intervento e agli stessi realizzatori anche le altre sculture che si dispongono sulla facciata, anzitutto i quattro simboli francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise 143 Fig. 25. Atessa, S. Leucio, facciata, simboli degli evangelisti Matteo e Giovanni. degli evangelisti entro nicchie che oggi si collocano al di sopra del portale, ai lati della statua del santo titolare della chiesa, ma che un tempo, come prova una vecchia fotografia, si trovavano ai lati del rosone e non è detto che questa non fosse anche la loro collocazione originaria, se si riflette sul rapporto che esiste, nella perriniana facciata della cattedrale di Larino (Fig. 12), tra quelle figure e quella struttura.21 L’ipotesi viene confermata dalla sopravvivenza, subito tangente alla porzione superiore del rosone, di un Agnus Dei, chiuso all’interno di una cornice che potrebbe benissimo avere fatto parte di quel sistema, mentre non sembra avere avuto nulla a che fare con esso il piccolo Crocifisso, dai toni brutalmente sbrigativi, che lo sormonta. In ogni caso, se confrontato con quello dell’angelo simbolo di Matteo (Fig. 25), il volto umano che compare sulla mensola (Fig. 24) del rosone conferma la presenza, a operare nei due casi, dello stesso scultore. Il quale forza, fino all’inverosimile, le possibilità di immota e metallica resa delle forme che ricava da quello che possiamo cogliere come il suo inevitabile punto di riferimento: le opere del Perrini. La scelta, oggi inspiegabile, di dover collocare i simboli degli evangelisti entro nicchie lo costringe a soluzioni ai limiti dell’ingenuità, come quella di disporre il leone di Marco e il bue di Luca (Fig. 26) seduti in una maniera del tutto innaturale come se, trovandosi all’impiedi, fossero stati ruotati, finendo, senza molto senso, con le zampe tese in avanti, mal- 21 La fotografia è pubblicata da Gavini, op. cit. a nota 1, ii, p. 345, fig. 645. Debbo correggere l’ipotesi che ho formulato, circa la datazione e l’ambiente di riferimento di queste sculture, in Gandolfo, op. cit. a nota 8, p. 167, legandole ai tardi esiti del cantiere di S. Clemente a Casauria, dunque a quella che può essere considerata soltanto la preistoria del modo di fare del Perrini. 144 francesco gandolfo Fig. 26. Atessa, S. Leucio, facciata, simboli degli evangelisti Marco e Luca. grado la posa. Più logico appare il rapporto degli altri due simboli con la nicchia, perché sia l’angelo di Matteo sia l’aquila di Giovanni risultavano più facilmente adattabili a quella forma da parte di uno scultore che, evidentemente, non aveva la capacità di uscire dagli schemi in base ai quali si era abituato ad operare. L’angelo simbolo di Matteo (Fig. 25), per la compattezza e la sintetica essenzialità delle forme, è lo strumento migliore per verificare la vicinanza dello scultore che lo ha realizzato con la maniera del Perrini. Nel senso che è partendo dal suo esempio che egli ha disteso la trama dei panneggi che imbozzolano il corpo, come se fosse chiuso all’interno di una conchiglia. La differenza pesante è data dal fatto che nel rendere questo effetto, per semplificare il procedimento, egli ha agito per falde sovrapposte, accavallando una piega sopra l’altra, con un andamento a salire coscienziosamente disteso lungo tutto il percorso, mentre il Perrini procede per piani continui, ondulando morbidamente i passaggi, là dove sia ne- cessario in conseguenza delle pose e degli atteggiamenti. In questo modo la condizione imitativa, ma semplificatoria, dello scultore di Atessa rimane fissata in maniera indiscutibile. A lui appartiene certamente anche il S. Leucio (Fig. 27) collocato entro la nicchia disposta tra i simboli degli evangelisti, realizzato ancora una volta sulla base del solito copione. Il suo modello è il S. Pardo (Fig. 28) posto al di sopra della cuspide che circonda il rosone (Fig. 12) della cattedrale di Larino, dunque proviene ancora una volta dall’ambiente del Perrini. Come sempre questo è confermato anzitutto dal carattere della statua, tutta chiusa in un blocco compatto e in una immobile fissità, resi più freddi dalla forzata frontalità dello sguardo, suggerita dai grandi occhi spalancati e dalle pupille segnate con il piombo. Ancora una volta però, nel ricavare suggerimenti dalla maniera del Perrini, lo scultore di Atessa semplifica i passaggi, trasformando in secche incisioni quelle che sono le ondulazioni che danno sostanza lineare al ricadere della pianeta e delle altre vesti che compongono l’ab- francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise 145 Fig. 27. Atessa, S. Leucio, facciata, ritratto del santo titolare. Fig. 28. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a), ritratto di S. Pardo. bigliamento vescovile, dimostrando di essere soltanto un imitatore di quel modo di fare. Forse fu proprio la laconica sinteticità di espressione inventata dal Perrini, a proposito della scultura figurativa, più ancora dell’ornato profuso a piene mani nei portali, ad avere fortuna nell’area di confine tra l’Abruzzo e il Molise, nella quale egli svolse la sua attività e nella quale dovette indubbiamente lasciare un segno. Una volontà imitativa della sua maniera, sotto il profilo decorativo, segna in modo chiaro il portale (Fig. 29) della chiesa di S. Emidio ad Agnone. Malgrado che il portale venga di frequente ritenuto quattrocentesco, per via della notizia di un ampliamento della chiesa primitiva promosso, nel 1443, da alcuni mercanti ascolani, occorre arrivare alla conclusione che esso è trecentesco e prossimo al tempo di attività del Perrini, dalla cui maniera deriva molte delle sue componenti.22 Le ragioni per arrivare a tale conclusione sono sostanzialmente due. Nella facciata si colgono chiari i segni di due tempi costruttivi, con il più recente che muove dalla zona immediatamente soprastante al portale. All’interno poi, le forme e i confini di quello che è stato l’ampliamento quattrocentesco, operato su un precedente edificio a navata unica, si colgono bene, grazie alla presenza del grande arcone che sfonda la parete destra, introducendo la presenza di una seconda navata inizialmente non prevista. I capitelli che stanno alla base della ghiera che ne cinghia il percorso non hanno nessuna parentela possibile con quelli utilizzati nel portale, dai quali si distinguono per un fare più morbido e dinamico nella resa della foglia di acanto, dun- 22 La notizia dell’intervento quattrocentesco nella chiesa è riportata da G. B. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, iii, Cava dei Tirreni 1952, p. 45 ed è stata interpretata come una sostanziale ricostruzione da A. Trombetta, Arte medioevale nel Molise, s.l. 1971, p. 118; Mortari, op. cit. a nota 11, p. 20; A. Trombetta, Arte nel Molise attraverso il Medioevo, Campobasso 1984, pp. 431-432. 146 francesco gandolfo Fig. 29. Agnone, S. Emidio, portale. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise 147 que appartengono a un momento nettamente diverso rispetto a quelli e non disdicono al confronto con quella che era la ragione formale della scultura architettonica nella zona alla metà del Quattrocento. In conclusione il portale di S. Emidio può essere tranquillamente sganciato dalla sua tradizionale datazione quattrocentesca e portato sulla scia del Perrini, nei confronti del quale ha debiti, ma anche una certa libertà di azione. Strettamente legati ai modi posti in auge dallo scultore lancianese sono gli apparati decorativi e il sistema di incorniciatura, retto dai due leoni stilofori, poggianti su mensole sovrapposte alle colonne addossate lateralmente a chiudere la strombatura. Proprio le due belve sono il punto di maggiore contatto con il Perrini, perché riprendono la posizione accosciata e le forme di quelle poste ai lati della strombatura del portale della cattedrale di Larino. Vi è tuttavia un particolare che non può essere trascurato: al contrario di quelli di Larino, che hanno una valenza puramente araldica, i due leoni tengono stretta tra gli artigli una testa umana che, nel caso di quello sulla sinistra (Fig. 30), è vicinissima, per tipo e ragione formale, a quella afferrata dal leone posto al di sopra della facciata (Fig. 22) di S. Maria Maggiore a Vasto. Non vi è spazio per pensare di trovarsi in presenza dello stesso scultore, perché la resa della belva è nei due casi troppo distante, ma la situazione fa almeno pensare che entrambe derivino da un comune e perduto prototipo, da assegnare al Perrini, a testimonianza della sua larga penetrazione in quella zona. Malgrado il peso di questo rapporto, chi ha realizzato il portale (Fig. 29) ha mantenuto una sostanziale autonomia progettuale, almeno su due punti. Anzitutto, giudicandola inadatta a un portale di non troppo marcata impronta monumentale, come, nel caso specifico, quello destinato a un piccolo edificio a navata unica, ha rifiutato la formula delle colonnine della strombatura spezzate dai nodi intermedi, che è essenziale nel segnare il gusto compositivo del Perrini, il quale la usa anche in un portale di modeste dimensioni come quello (Fig. 7) di S. Agostino a Lanciano, sia pure con la riduzione a un solo nodo. Poi ha fatto proprio il tipo del portale, privo di architrave e di lunetta, con la specchiatura dominata da un grande arco a sesto acuto, che in quella zona del Molise si propone come una formula dominante, di sobria ed essenziale eleganza, segnalando con questo il suo radicarsi nel territorio e la libertà con la quale ha utilizzato i modelli ricavati dal Perrini. Sempre ad Agnone un altro ricordo dello scultore lancianese va colto nel rosone (Fig. 31) della chiesa di S. Francesco.23 In questo caso però deve trattarsi di una citazione tarda. Il tipo è quello imposto dalla facciata (Fig. 9) di S. Maria Maggiore a Lanciano, ma realizzato in termini formali che, da un punto di vista qualitativo, hanno ormai in sé ben pochi ricordi delle modalità decorative che erano state messe in atto in quella occasione. Il motivo della cornice a dentelli che abbraccia la porzione superiore della ruota è del tutto estraneo nei confronti della tradizione decorativa imposta dal Perrini che pretendeva, in quel caso, la presenza di grandi foglie a punta di diamante. Lo stesso vale per la cornice fogliata che corre intorno all’oculo e che, nella semplicità della stesura a ventaglio, non ha più nulla della complessa articolazione dell’acanto perriniano. Infine i due leo- 23 Trombetta (1971), op. cit. a nota 22, pp. 116-117; Mortari, op. cit. a nota 11, p. 20; Trombetta (1984), op. cit. a nota 22, p. 427; A. Ardui- no, Convento di S. Francesco d’Assisi, in Massone, op. cit. a nota 18, pp. 120-122. Fig. 30. Agnone, S. Emidio, portale, particolare del leone stiloforo sulla sinistra. 148 francesco gandolfo Fig. 31. Agnone, S. Francesco, rosone. ni stilofori rievocano la soluzione architettonica, ma non certo i tipi imposti dal Perrini. Ora tutte queste considerazioni vanno confrontate, da un lato, con la notizia della fondazione della costruzione nel 1343 riportata dalle fonti, una data che tutto sommato calza bene con il portale, dall’altro, con la somiglianza di ornato e di gusto che corre tra il rosone di S. Francesco e quello di S. Emidio (Fig. 32), collocato nella porzione della facciata che, come si è visto in precedenza, deve appartenere all’ampliamento successivo al 1443. La comunanza è data essenzialmente dalla presenza, anche in quel caso, di una cornice a dentelli, a circondare la porzione superiore dell’oculo, una scelta singolare che rende inevitabile la dipendenza dell’una dall’al- tra. Ovviamente nulla esclude che sia S. Emidio a ricalcare S. Francesco, tuttavia la logica dei fatti e le scelte formali impongono di pensare che la realizzazione del rosone di quest’ultimo si allontani di parecchio rispetto alla fondazione del 1343. Il che sta comunque a significare una radicata continuità di utilizzo nel tempo dei tipi imposti in quell’area dal Perrini. Di questo fenomeno sono insieme testimonianza e conferma le due statue in pietra (Fig. 33), oggi collocate nella lunetta del portale di ingresso alla canonica della chiesa di S. Maria Maggiore o ad Nives a Casacalenda, con la quale non hanno nessun documentabile rapporto diretto, se non quello derivante dalla occasionale disposizione che le ha coinvolte.24 24 Trombetta (1971), op. cit. a nota 22, p. 131 interpretava le due sculture come rappresentanti una Visitazione, datandole tra xiii e xiv secolo; ipotesi entrambe modificate successivamente, in Trombetta (1984), op. cit. a nota 22, pp. 452-453, a favore di un più ragio- nevole riconoscimento come una coppia di dolenti provenienti da una Crocifissione, da porre in rapporto con le sculture nella lunetta del portale della cattedrale di Larino e da datare agli inizi del xiv secolo. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise 149 Fig. 32. Agnone, S. Emidio, rosone. Che si tratti di due dolenti, il S. Giovanni a sinistra e la Vergine a destra, provenienti da un gruppo della Crocifissione, simile, come composizione d’insieme, a quello collocato nelle lunette dei portali di S. Maria Maggiore a Lanciano (Fig. 1) e della cattedrale di Larino (Fig. 14), è nei fatti, anche se non abbiamo nessuna notizia utile per individuare il portale per il quale furono creati. Che poi ricavino il loro modo di essere dalla tradizione di silenzioso e composto dolore inaugurata dal Perrini è altrettanto evidente. In questo senso, al di là dell’immobile distacco dei volti tondeggianti e della struttura colonnare dei corpi, infagottati nei panneggi, esistono anche dei dettagli significativi nell’indicare il rapporto, come il lembo del pallio che, raccolto davanti al corpo, viene girato intorno all’avambraccio, per essere trattenuto e farlo poi ricadere in avanti, piatto e aguzzo come una punta di lancia, riprendendo la soluzione utilizzata dal Perrini nella Madonna (Fig. 8) del portale di S. Agostino a Lanciano. È proprio partendo dal confronto di questo motivo che è possibile mettere in evidenza anche le molte differenze che vi sono nelle due statue, rispetto alla maniera del Perrini. La prima e più vistosa consiste in una marcata diversità nel trattamento dei panneggi che non hanno mai la cadenzata ondulazione del tipo da cui partono, ma si organizzano per linee seccamente incise, inclini a ricordare il modo di fare dello scultore dei simboli degli evangelisti di Atessa (Fig. 25), piuttosto che quello del Perrini. Il risultato è una dura compattezza di forme che sembra quasi voler spingere nuovamente le due figure nel blocco di pietra dal quale sono state cavate. Un altro aspetto di diversità è fornito dai gesti di espressione del dolore. Nei casi che conosciamo, il Perrini ha fatto ricorso a formule tradizionali in questo senso, come le mani giunte protese in avanti, il capo reclinato di lato, la mano appoggiata alla guancia o la mano che stringe il polso dell’altro braccio, tutte soluzioni che avevano alle spalle una lunga storia di uso, non solo 150 francesco gandolfo Fig. 33. Casacalenda, S. Maria Maggiore o ad Nives, casa canonica, lunetta del portale. Fig. 34. L’Aquila, S. Biagio, Monumento Camponeschi, ritratto di Ludovico Camponeschi a cavallo. in scultura. In questo caso invece sembra quasi che lo scultore non volesse rompere la tondeggiante uniformità delle due statue, perché in entrambe ha disposto le mani, congiunte in posizione di preghiera, all’altezza del ventre, con il margine delle palme appoggiato al corpo, mentre le dita sono, nel S. Giovanni, protese all’infuori e nella Vergine intrecciate, con una espressione del dolore che tende, almeno nelle intenzioni, a farsi tutta interiore. Spingendo in questa stessa direzione, cambiano anche i volti che sono ancora confrontabili con quelli, tondi e immobili, messi in voga dal Perrini, ma che, rispetto ad essi, si sforzano di esprimere una vitalità interiore che si coglie bene nel tipo delicato della Vergine, incorniciato dai lunghi capelli ricadenti con garbo sulle spalle, il quale, nella ragione compositiva d’insieme, riflette soluzioni che debbono ormai risalire almeno al pieno Quattrocento. Analoghe considerazioni valgono anche per il S. Giovanni, nel cui volto, non segnato, come del resto quello della Vergine, dal piombo fuso nel foro delle pupille e dunque destinato a una finitura tutta pittorica, traspare la delicatezza di un paggio, piuttosto che lo sgomento di un dolente, con un passaggio che, ancora una volta, fa pensare alla trasposizione, nei modi della ormai vecchia messa in scena perriniana della Crocifissione, di tipi degni dell’avanzato francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise 151 Fig. 35. Trivento, Cattedrale, cripta, lunetta di portale erratica. Quattrocento, come può suggerire un confronto con il volto (Fig. 34) di Ludovico Camponeschi, rappresentato a cavallo nella tomba conservata in S. Biagio a L’Aquila.25 Il caso delle due statue di Casacalenda, in bilico tra i ricordi del passato e un presente che ci si rifiuta di fare proprio fino in fondo, non è isolato. Nella cripta della cattedrale di Trivento si conserva la lunetta di un portale (Fig. 35) che deve provenire dall’edificio medievale. Già sul piano iconografico la struttura è insolita, perché presenta al centro una imponente figura di Dio Padre che regge con le mani il Cristo crocifisso, rappresentato vivo, mentre l’aquila dello Spirito Santo gli si dispone, ad ali patenti, davanti al petto. Questa immagine trinitaria è affiancata da due angeli oranti, di proporzioni decisamente più piccole. Il tutto è poi chiuso lateralmente tra due giganteschi delfini, disposti a muso all’ingiù, con le code che terminano ai lati della testa del Dio Padre in due fiori assai stilizzati, un giglio a sinistra e una rosa a destra. Per quanto sia stata proposta per questa scultura, sia pure con qualche dubbio, una datazione al xiii secolo, occorre pensare che si tratti di un’opera di epoca decisamente più tarda.26 Peraltro quel tipo di rappresentazione della Trinità è già usato nel xii secolo, dunque non possono essere iconografiche le ragioni che debbono portare a pensare alla sua esecuzione in un momento assai più tardo.27 25 Bindi, op. cit. a nota 1, p. 814-815; Gavini, op. cit. a nota 1, iii, pp. 10-11; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 620-623; V. Pace, Il sepolcro Caldora nella Badia Morronese presso Sulmona: una testimonianza delle presenze tedesche in Italia nel primo Quattrocento, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien. Akten des Kongresses «Scultura e monumento sepolcrale del tardo medioevo a Roma e in Italia». Roma. 4-6 luglio 1985, a cura di J. Garms e A. M. Romanini, Wien 1990, pp. 413422, in particolare, pp. 420-421; L. Cavazzini, Il crepuscolo della scultura medievale in Lombardia, Firenze 2004, p. 51. 26 Trombetta (1971), op. cit. a nota 22, p. 35 data, sia pure dubitativamente, al secolo xiii la scultura, con una proposta che viene ribadita anche in Trombetta (1984), op. cit. a nota 22, pp. 194-200. 27 W. Braunfels, Dreifaltigkeit, in Lexikon der christlichen Ikonographie, a cura di E. Kirschbaum, Rom-Freiburg-Basel-Wien 1994, I, coll. 526-537. 152 francesco gandolfo Fig. 36. Amatrice, S. Francesco, lunetta del portale, Madonna con il Bambino tra angeli. Il guizzo naturalistico con cui sono colti i due delfini, con una calcata attenzione alla descrizione dei musi, la posa garbata dei due angeli, dominata dalle grandi ali svolazzanti e dai lunghi capelli che ricadono sulle spalle, sono tutti aspetti che, ancora una volta, fanno pensare al Quattrocento, come momento più plausibile di esecuzione. Dal punto di vista tipologico un buon confronto può essere quello con i due angeli che, nel portale (Fig. 36) della chiesa di S. Francesco ad Amatrice, affiancano la statua della Madonna con il Bambino perché, per posa e qualità di forme, riflettono bene il tipo di soluzione che lo scultore della lunetta di Trivento ha inteso fare propria.28 Del resto nel motivo dei due delfini si coglie una eco di ornati marginali ormai di sapore umanistico, di certo male intesi e per questo gonfiati a dismisura. Resta comunque il fatto che, soprattutto la figura del Dio Padre mostra una parentela assai stretta con il modo di fare delle due statue di Casacalenda (Fig. 33), visto che esibisce lo stesso sistema, piatto e lineare, di rendere i panneggi e la stessa struttura del volto che, dietro la immobile fissità dei tratti, lascia intravedere il ricordo di soluzioni più duttili ed espressive. Suggerire che lo scultore di Casacalenda possa essere lo stesso che opera a Trivento è operazione che si può anche compiere, sulla base delle risultanze formali, ma che sul piano della valutazione storica non aiuta più di tanto ad andare al di là dell’anonimato che coinvolge entrambi i casi, né fornisce gli strumenti per ricostruire una ben precisa personalità di artista. Ciò che va colto piuttosto è la testimonianza che quelle opere portano di una lunga sta- 28 Gavini, op. cit. a nota 1, iii, pp. 72-75 pone il portale della chiesa di S. Francesco ad Amatrice in rapporto con quello, datato al 1428, della chiesa di S. Agostino nella stessa località. Sull’edificio cfr. G. Carbonara, Gli insediamenti degli ordini mendicanti in Sabina, in Lo spazio dell’Umiltà. Atti del Convegno di Studi sull’edilizia dell’Ordine dei Minori, Fara Sabina, 3-6 novembre 1982, Fara Sabina 1984, pp. 123-223, in particolare pp. 150-160. francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise gione di fortuna delle soluzioni compositive che il Perrini aveva introdotto, nel corso del secondo decennio del Trecento, in quell’area di confine tra l’Abruzzo e il Molise che solo la geografia politica moderna tende a cogliere come non omogenea. In maniera più netta i due dolenti di Casacalenda, ma a suo modo anche la Trinità di Trivento, si rifanno al senso di impaginazione del racconto e alla spazialità gerarchica delle lunette del Perrini. È ovvio che queste operazioni non possono essere valutate sulla scorta del confronto con i risultati plastici raggiunti in ambienti contemporanei ad esse estranei. Esse stesse dicono con chiarezza che vogliono essere giudicate all’interno delle tradizioni e delle scelte formali, sorte in quell’area, che riconoscono come proprie e necessarie alla loro identità culturale. Il che mette altrettanto bene in risalto il ruolo determinante svolto, in quell’ambiente, da Francesco Perrini, nel suggerire dei modi, facili ed essenziali, con i quali realizzare un tipo di scultura che, sia sul piano decorativo, sia su quello figurativo, per un lungo periodo di tempo si ritenne che soddisfacesse in pieno a quelle istanze. Bibliografia Aceto F. 1990, “Magistri” e cantieri nel “Regnum Siciliae”: l’Abruzzo e la cerchia federiciana, «Bollettino d’arte», s. vi, lxxv, n. 59, pp. 15-96. Aceto F. 2001, La cattedrale di Atri, in Franchi dell’Orto (a cura di) 2001, pp. 187-206. Arduino A., Convento di S. 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BERNARDINO LUINI NEL SECONDO DECENNIO DEL CINQUECENTO* Cristina Quattrini D urante il secondo decennio del Cinquecento Bernardino Luini divenne uno dei maggiori pittori di Milano, dopo una formazione oscura e dopo una permanenza in Veneto nella quale credono molti studiosi.1 Nello stesso periodo, che corrisponde alla dominazione francese con la breve parentesi della restaurazione di Ercole Massimilano Sforza fra il 1512 e il 1515, è difficile seguire i maestri delle generazioni precedenti: Bernardo Zenale, che muore nel 1526, Andrea Solario e Bramantino, scomparsi rispettivamente nel 1524 e nel 1530. È possibile, ma non provato, che Cesare da Sesto sia stato a Milano fra 1515 e il 1518, prima del rientro definitivo nel 1519.2 Poco si sa di Giovanni Agostino da Lodi,3 che risulta abitare a Milano nel 1510, e di Giampietrino4 e sfugge del tutto la fisionomia di Niccolò Appiani, nonostante i molti documenti.5 La più antica attestazione della fama di Luini si trova nel commento al De Architectura di Vitruvio di Cesare Cesariano, stampato nel 1521 ma intrapreso intorno al 1508.6 All’incirca coetaneo di Luini, Cesariano, nato nel 1477 o nel 1478 e collaboratore nel 1493 di Matteo de Fedeli, è di nuovo documentato a Milano nel 1513, dopo anni trascorsi fra Parma, Reggio Emilia, Ferrara, forse Roma nel 1508-1509 e Piacenza.7 Nel commento al terzo libro di Vitruvio stila un elenco di artisti che non si erano limitati a studiare le proporzioni dal naturale e a leggere Plinio, Vitruvio, * Questo articolo è l’aggiornamento di un testo consegnato alla «riasa» nel 2003, tratto a sua volta dalla mia ricerca di post-dottorato svolta negli anni 1998-2000 presso il Dipartimento di Storia delle Arti Visive e della Musica dell’Università di Padova con Alessandro Ballarin, al quale va la mia gratitudine. Ringrazio inoltre per la loro generosità Raffaella Besta e Anna Orlando. 5 Cfr. R. Sacchi, Il disegno incompiuto. La politica artistica di Francesco II Sforza e di Massimiliano Stampa, Milano, 2005, i, pp. 192-196. 6 Sul commento a Vitruvio di Cesariano B. Agosti, Qualche novità su Cesare Cesariano, in Istituto Lombardo. Accademia di Scienze e Lettere. Rendiconti. Classe di Lettere e Scienze morali e Storiche, cxxvii, 1993, n. 2, pp. 231-239; Ead., Riflessioni su un manoscritto di Cesare Cesariano, in Cesariano e il classicismo di primo Cinquecento, atti del seminario di studi (Varenna 1994), a cura di M. L. Gatti Perer e A. Rovetta, Milano, 1996, pp. 67-74; A. Rovetta, Cesariano, Bramante e gli studi vitruviani nell’età di Ludovico il Moro, in Bramante milanese e l’architettura del Rinascimento lombardo, atti del Seminario Internazionale di Studi (Vicenza 2001) a cura di C. L. Frommel, L. Giordano e R. Schofield, Venezia, 2002, pp. 83-98; Id., I Francesi a Milano: il punto di vista di Cesariano attraverso l’erudizione vitruviana, in Louis XII en Milanais. xli Colloque International d’Études Humanistes (Parigi 1998), a cura di P. Contamine e J. Guillaume, Parigi, 2003 pp. 355-367. Per la formazione milanese e i possibili rapporti con Bramante R. Schofield, Gaspare Visconti, mecenate del Bramante, in Arte, committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento. 1420-1530, atti del Convegno Internazionale (Roma 1990) a cura di A Esch e L. Giordano, Torino, 1995, pp. 297-324; Id., Il periodo giovanile di Cesare Cesariano, ivi, pp. 325-330. Inoltre M. G. Albertini Ottolenghi, Cesare Cesariano: un inedito, in Arte Lombarda, cliii, 2008, n.1, pp. 25-35. 7 La notizia di Cesariano a Roma è data da G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze 1568, ed. consultata G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e del 1568, a cura di P. Barocchi e R. Bettarini, 6 voll., Firenze, 1966-1987, vi, p. 179, secondo il quale Jacopo Sansovino da giovane vi avrebbe conosciuto lui, Bramantino, Pintoricchio e Signorelli. Tale viaggio è stato ritenuto possibile fra il 1508 e il 1509 da M. Pirondini, La pittura del Cinquecento a Reggio Emilia, Milano, 1985, pp. 13, 88-91, e da G. Agosti, Bambaia e il classicismo lombardo, Torino, 1990, p. 81. Per Cesariano pittore A. Pattanaro, Garofalo e Cesariano in Palazzo Costabili a Ferrara, in Prospettiva, 1994, nn. 73-74, pp. 97-110; A. Bacchi, A. De Marchi, Francesco Marmitta, Torino 1995, pp. 286- 1 Questa ipotesi ha come perno la pala raffigurante la Madonna con il Bambino e due angeli musici firmata e datata «bernardinus mediolanensis faciebat mdvii» del Museo Jacquemart-André di Parigi, attribuita a Luini quando ancora si trovava nella collezione Manfrin di Venezia da A. Nicoletti, La Pinacoteca Manfrin a Venezia, Venezia, 1872, p. 28. Intorno a quest’opera, nella quale si combinano una cultura milanese fra Zenale e Bramantino e caratteri che ricordano Cima da Conegliano, il giovane Lorenzo Lotto e Pier Maria Pennacchi, è stato nel tempo riunito un piccolo gruppo di dipinti, la cui attribuzione a Bernardino Luini non trova tuttora un consenso unanime. Per un riepilogo della questione rimando a C. Quattrini, I primi anni di Bernardino Luini dal soggiorno in Veneto alla Madonna di Chiaravalle, in Nuovi Studi, vi-vii, 2001-2002, n. 9, pp. 57-76. 2 Sul problema della presenza di Cesare a Milano in questi anni cfr. M. Carminati, Cesare da Sesto. 1477-1523, Milano, 1994, pp. 93-108 cui rimando per la bibliografia precedente. La questione è stata poi riaperta da F. Frangi, Una traccia per la storia della pittura a Milano dal 1499 al 1535, in Pittura a Milano, Rinascimento e Manierismo, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1998, pp. 23-36, 241. 3 Per Giovanni Agostino da Lodi L. Simonetto, Giovanni Agostino da Lodi, in DBI, 56, Roma, 2001, pp. 272-276. 4 Il punto sulla difficile cronologia di Gianpietrino in C. Geddo, Appunti sulla cronologia del Giampietrino, in Arte e Storia di Lombardia. Scritti in memoria di Grazioso Sironi, Roma, 2006, pp. 255-262; G. Agosti, in Restituzioni 2008. Capolavori restaurati, catalogo della mostra (Cornuda 2008), Vicenza, 2008, pp. 344-353 scheda 45. «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 155-198 156 cristina quattrini Filostrato e altre fonti classiche e si erano recati a Roma per conoscere direttamente l’antico.8 La nota lista di scultori e pittori annovera Michelangelo, Gian Cristoforo Romano, Bartolomeo Spani, Tullio Lombardo e una serie di rappresentanti illustri dell’ambiente milanese: Cristoforo Solari, il Bambaia, Giovanni Antonio Boltraffio, Marco d’Oggiono, Bernardo Zenale,9 Bramantino e Bernardino Luini, gli ultimi tre segnalati per l’abilità nel dipingere architetture negli affreschi.10 Il passo, che continua a provocare ipotesi differenti sulla data del viaggio a Roma, accosta Luini proprio a Zenale e a Bramantino, due maestri che lo influenzarono per buona parte del suo percorso, e dimostra inoltre come all’epoca egli apparisse ormai uno dei principali artisti sulla piazza milanese. Una fama di pittore colto è indirettamente confermata da anche da un brano del settimo libro,11 nel quale Cesariano enumera i notabili milanesi appassionati di architettura e fra loro Gerolamo Rabia, committente di Bernardino per la decorazione della villa Pelucca nei pressi di Monza e del palazzo di Milano, e un commitente possibile, Giovanni Angelo Selvatico, che fu forse il primo proprietario di una casa costruita da Cristoforo Solari vicino a San Maurilio, nella quale Venanzio De Pagave scrive di avere visto un vestibolo ottagonale affrescato dal nostro artista.12 Un documento di rilievo per il periodo qui preso in considerazione è costituito dall’atto di dote monacale della figlia di Zenale, Maria Lucrezia, che nel 1516 entrava nel monastero domenicano di San Lazzaro. Luini vi compare come testimone, a prova di 287; per una nuova attribuzione M. Lucco in Pinacoteca Civica di Vicenza. Dipinti dal xiv al xvi secolo, a cura di M. E. Avagnina, M. Binotto, G. C. F. Villa, Vicenza, 2003, pp. 254-256 scheda 100. Per l’attività a Reggio Emilia cfr. A. Rovetta, E. Monducci, C. Caselli, Cesare Cesariano e il Rinascimento a Reggio Emilia, Cinisello Balsamo, 2008. 8 Sui viaggi degli artisti Lombardi a Roma in questo periodo cfr. Agosti, op. cit., alla nota 7, pp. 68-85; Id., Cronaca delle «Antiquarie», in Antiquarie prospettiche romane, a cura di G. Agosti e D. Isella, Busto Arsizio, 2004; V. Farinella, Archeologia e pittura a Roma tra Quattrocento e Cinquecento. Il caso di Jacopo Ripanda, Torino, 1992 pp. 3-26. 9 Il viaggio di Zenale a Roma è ora collocato poco prima del 1521 da S. Buganza, Bernardo Zenale: un’aggiunta al catalogo e una nuova prospettiva sugli anni tardi, «Nuovi Studi», xi, 2006 [2007], 12, pp. 55-70, p. 62 10 Vitruvio, De architectura, traslato, commentato et affigurato da Caesare Caesariano, Como, Gottardo da Ponte, 1521 ed. anastatica a cura di A. Bruschi, A Carugo e F. P. Fiore, Milano, 1981 p. xlviiiv. 11 Vitruvio, op. cit., alla nota n. 10, p. cxr-v. 12 V. De Pagave, Dialogo fra un forestiere ed un pittore che si incontrano nella basilica di S. Francesco in Milano, ms., 3 voll., s.d. [seconda metà del xviii secolo], Milano, Biblioteca d’Arte del Castello Sforzesco, ms. D 21, pp. 305-310 Per S. Gatti, Il palazzo di Giovanni Angelo Salvatico a un’amicizia che in quel momento riguardava anche il modo di dipingere.13 Per questi anni, durante i quali avvenne l’ascesa di Luini, si può contare su un certo numero di opere datate, ma non su una cronologia assestata. Questo articolo ricostruisce per confronti stilistici questa fase della sua carriera, che verosimilmente precede l’esperienza romana. Dalla Madonna di Chiaravalle alla pala del duomo di Como La prima opera documentata di Bernardino Luini è la Madonna con il Bambino e due angeli musici affrescata su una scala che portava al dormitorio dell’abbazia di Chiaravalle Milanese (Fig. 1), per la quale i libri contabili registrano un pagamento di 55 lire nel 1512.14 La commissione cadeva in un momento particolare: nello stesso 1512 l’abate Agostino Sansoni partecipò al concilio di Pisa-Milano che elesse il cardinale Bernardino Lopez da Carvajal antipapa con il nome Martino VI e quest’ultimo fu per un certo periodo ospite di Chiaravalle. Contemporaneamente la cappella maggiore fu rinnovata e affrescata, e si fecero eseguire un’ancona dell’Adorazione dei Magi e un palio e un piviale ottenuti dai resti del sontuoso drappo impiegato per le esequie di Gaston de Foix nel Duomo di Milano. Imponente benché ridotta da una cornice marmorea settecentesca, questa Madonna è un testo rivelatore dell’influenza su Luini di Bramantino e di Zenale,15 del quale ricorda la pala del 1510 per la cappella di Santa Maria della Vittoria in San Francesco Milano. Contributo allo studio della corrente classicheggiante nell’architettura lombarda del primo Cinquecento, in Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna, Università degli Studi di Messina, ii, 1976, pp. 21-30, in part. p. 26 potrebbe essere questa la provenienza dell’affresco raffigurante Curio Dentato rifiuta i doni dei Sanniti del Louvre, mentre per M. T. Binaghi Olivari, Bernardino Luini, Milano 2007, pp. 36-38, tavv. 21 e 22, verrebbero da questo palazzo le Storie di Cefalo e Procri della National Gallery di Washington, sulle quali si veda più avanti nel testo a proposito di Palazzo Rabia. 13 Pubblicato in V. Pini, G. Sironi, Bernardino Luini. Nuovi documenti biografici, Milano, 1993, ii, pp. 39-40, doc. 28. 14 A. Ratti, Il secolo xvi nell’Abbazia di Chiaravalle di Milano. Notizia di due altri codici manoscritti chiaravallesi, in Archivio Storico Lombardo, xxiii, 1896, pp. 91-161, in part. p. 99, cui si fa riferimento per le successive notizie sull’abbazia. 15 Questa lettura stilistica, proposta da G. Romano in Zenale e Leonardo. Tradizione e rinnovamento della pittura lombarda, catalogo della mostra (Milano 1982-1983), p. 104 e da Id., La ‘Sacra Famiglia’ del Bramantino già in casa Silva, in Arte all’incanto. Mercato e prezzi dell’arte e dell’antiquariato alle aste Finarte 1988/89, Milano, 1990, pp. 36-39, in part. p. 38, è stata accolta da molti studiosi. Cfr. A. Di Lorenzo in Pittura a Como e nel Canton Ticino dal Mille al Settecento, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1994, pp. 284-285; Frangi, op. cit., alla bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 1. Bernardino Luini, Madonna con il Bambino e due angeli musicani, Milano, abbazia di Chiaravalle Milanese, 1512. 157 158 cristina quattrini Grande ora al Denver Art Museum. Non sono invece palesi le componenti leonardesca e raffaellesca talvolta rilevate dagli studiosi. Forse precedono di poco la Madonna di Chiaravalle gli affreschi realizzati per Gerolamo Rabia nella villa suburbana della Pelucca (ora nel comune di Sesto San Giovanni e adibita a casa di riposo), conservati per la maggior parte a Brera, dai connotati fortemente bramantineschi.16 All’incirca fra il 1513 e il 1515 Luini intraprese a mio avviso la decorazione della cappella di San Giuseppe nella chiesa milanese Santa Maria della Pace dei Francescani amadeiti, uno dei punti più controversi del suo catalogo. Dopo la soppressione del convento nel 1805, gli affreschi – raffiguranti Storie dei santi Gioacchino e Anna, della Vergine e di san Giuseppe, una Sibilla, Profeti che ornavano l’arco d’ingresso e Arcangeli e angeli sulla volta (Figg. 3-6, 9) – entrarono a Brera in fasi successive.17 Un primo lotto di stacchi dei dipinti murali del complesso della Pace fu deciso da Andrea Appiani, commissario delle Belle Arti della Repubblica Italiana, e affidato forse a Giuseppe Appiani. Fra le pitture della cappella di san Giuseppe vi erano comprese per certo la Presentazione di Maria al Tempio, pubblicata e incisa da Ignazio Fumagalli nel 1811 insieme alla frammentaria Visitazione, stilisticamente affine ma che era detta ubicata in origine sul pianerottolo di una scala.18 Nel 1816 furono prelevati quattro storie non specificate, una Sibilla, e i brani raffiguranti San Giuseppe e la Vergine dopo le nozze e Tre giovani. Fra il 1819 e il 1820 Stefano Barezzi staccò altri affreschi, fra i quali l’Infanzia di Maria al Tempio, l’Angelo inventariato nel Registro Cronologico di Brera con il numero 13, una lunetta della volta con Angeli musicanti (Registro Cronologico 25), forse anche San Giuseppe eletto sposo della Vergine. Infine nel 1875 Antonio Zanchi compì il trasporto degli affreschi della volta. Dopo queste vicissitudini il ciclo, ricomposto per approssimazione nel museo, risulta tutt’altro che integro e mostra di avere perduto intere scene. La cappella era un corpo quadrangolare addossato al presbiterio in fondo alla navata sinistra, confinante con un ambiente che era stato la cella del beato Amadeo Mendez da Silva, il fondatore del convento e della provincia dei francescani amadeiti. L’iconografia di San Giuseppe eletto sposo della Vergine (Fig. 6) corrisponde al racconto dell’episodio nell’Apocalypsis Nova, il testo delle visioni del beato, dove si parla dell’annuncio dell’angelo a Giuseppe e dei due sposi in preghiera dopo le nozze.19 L’aspetto dell’ambiente è parzialmente tramandato da un acquerello di Ludovico Pogliaghi, all’epoca allievo dell’Accademia di Brera, che nel 1875, alla vigilia dell’intervento di Zanchi, lo ritrasse dando le spalle all’altare e mostrando sulle pareti laterali e d’ingresso gli affreschi, ormai quasi tutti staccati, distribuiti su due registri (Fig. 2). È poco verosimile che le scene, alcune tuttora inquadrate da modanature dipinte e forse in origine scandite da finte colonne o paraste, fossero incorniciate in stucco come le opere romane di Baldassarre Peruzzi, come si è pensato equivocando un passo della guida settecentesca di Milano di Carlo Bianconi.20 L’affermazione di Bianconi che nella cappella di san Giuseppe Luini avrebbe dipinto su stucco bianco sembra piuttosto riferirsi all’opus albarium o ‘marmorino’ – impasto di calce e polvere di marmo da impiegare come base – e alla tecnica della pittura a calce descritti da Vitruvio nel terzo e nel settimo libro del De architectura.21 La notizia è ripresa poco dopo da Luigi Lanzi, che negli appunti di viag- nota n. 2, p. 30; Id., in Pittura a Milano, op. cit. alla nota n. 2, p. 231; P. C. Marani, Luini, Bernardino, in DBI, 66, Roma 2006, pp. 510-518, in part. p. 514; Quattrini, op. cit., alla nota n. 1, pp. 66-67. Per l’iconografia dell’opera cfr. M. T. Binaghi Olivari, L’immagine sacra in Luini e il circolo di Santa Marta, in Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini, catalogo della mostra (Luino), Cinisello Balsamo, 1975, pp. 49-76, pp. 101-102; G. Mulazzani, Chiaravalle: la pittura nel Quattro e Cinquecento, in Chiaravalle. Arte e storia di un’abbazia cistercense, a cura di P. Tomea, Milano, 1992, pp. 374-403, in part. pp. 393-395. rappresentati sono: Cacciata di Gioacchino dal Tempio; Gioacchino e l’angelo; Annuncio a sant’Anna; Incontro alla Porta Aurea; Natività della Vergine; Presentazione di Maria al Tempio; Infanzia di Maria al Tempio; Congedo di Maria dal Tempio; San Giuseppe eletto sposo della Vergine; Tre giovani; San Giuseppe e la Vergine dopo le nozze; Sogno di san Giuseppe e inoltre un frammento con un Angelo in volo e un altro con una veduta di città. 18 I. Fumagalli, Scuola di Lionardo da Vinci in Lombardia, o sia raccolta di varie opere eseguite dagli allievi e imitatori di quel gran maestro, Milano, 1811, s.p. 19 Come accertato da Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 15,pp. 49-76, pp. 62-63; Ead., op. cit., alla nota n. 17, p. 251. La maggior parte delle altre scene si può invece ricondurre a fonti tradizionali, come il Proto Vangelo di Giacomo, il Vangelo dello Pseudo Matteo, il Vangelo dell’infanzia armeno, la Storia di Giuseppe il falegname, la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze e le Meditationes vitae Christi di Giovanni de Calvoli. 20 Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 17, p. 238. 21 C. Bianconi, Nuova guida di Milano per gli amanti delle Belle Arti e delle sacre e profane antichità, Milano, 1787, pp. 109-110. 16 Per un riepilogo della letteratura sulla controversa datazione della Pelucca Quattrini, op. cit., alla nota n. 1, pp. 60-64; Ead. Bernardino Luini, Gerolamo Rabia e l’“Ovidio Metamorphoseos Vulgare” di Giovanni Bonsignori. Un’interpretazione degli affreschi mitologici della villa Pelucca, in BdA, lxxxix, 2004, n. 130, pp. 25-44. Una collocazione più avanzata, sul 1524, è tuttora proposta da Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, p. 39. 17 Ricostruite da M. T. Binaghi Olivari, in Pinacoteca di Brera. Scuole lombarda e piemontese 1300-1535, Milano 1988, p. 234. Gli episodi bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 159 Fig. 2. Ludovico Pogliaghi, La cappella di San Giuseppe, acquarello, Milano, Pinacoteca di Brera. gio del 1793 dice come Bianconi dipinse allo stesso modo gli affreschi di Luini in San Maurizio al Monastero Maggiore, dove di stucco non c’è traccia.22 Secondo Luca Beltrami23 e Maria Teresa Binaghi Olivari24 la scena di San Giuseppe eletto sposo della Vergine, molto più grande delle altre superstiti (315 × 178 22 L. Lanzi, Il taccuino lombardo. Viaggio del 1793 specialmente pel milanese e pel parmigiano, mantovano e veronese. Musei quivi veduti: pittori che vi sono vissuti, a cura di P. Pastres con prefazione di G. C. Sciolla, Udine, 2000, pp. 204, 206; Bianconi, op. cit. alla nota 21, pp. 272-273. 23 L. Beltrami, Luini 1512-1532. Materiale di studio raccolto a cura di Luca Beltrami, Milano 1911, p. 113. 24 Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 17, p. 251. 160 cristina quattrini cm, contro i 176 × 109 della più alta fra le altre scene, la Cacciata di Gioacchino dal Tempio) si sarebbe trovata in posizione centrale, sopra l’altare. Una conferma a questa ipotesi sembra venire da alcune notizie sulla chiesa del convento amadeita di Santa Maria della Pace a Genova. Riedificata dagli Amadeiti nell’area della piccola chiesa di san Martino da loro acquisita nel 1489 e distrutta alla fine dell’Ottocento, Santa Maria della Pace di Genova possedeva una pianta e una distribuzione degli altari del tutto simile a quelle dell’edificio di Milano e una cappella dedicata a san Giuseppe nella stessa posizione.25 Sull’altare di questa si trovava una pala raffigurante proprio lo Sposalizio della Vergine, datata 1523 e riferita a un anonimo toscano, conservata presso la Curia Vescovile.26 San Giuseppe eletto sposo della Vergine non doveva essere l’unico episodio di grandi dimensioni nel ciclo affrescato da Luini: il taccuino di viaggio di Lanzi segnala infatti come particolarmente bella una «[…] disputa di Gesù fra i dottori che occupa una parete […]».27 A immaginare l’aspetto dell’insieme possono aiutare gli affreschi di Nicola Moietta in Santa Maria Assunta ad Abbiategrasso (1519), palesemente influenzati da Luini.28 Non si sa chi abbia commissionato gli affreschi della cappella di San Giuseppe in un periodo in cui la chiesa e il convento di Santa Maria della Pace erano uno dei cantieri più vivaci di Milano e vi lavoravano, oltre a Luini, Giovanni Agostino da Lodi, Marco d’Oggiono, Bernardino Ferrari, Niccolò Appiani e lo scultore Ambrogio Montevecchia.29 La tradizione che riferiva il patronato ai Castiglioni non regge a una rilettura delle fonti. Il manoscritto settecentesco del francescano Bernardino Burocco segnala infatti una sepoltura di quel casato, ornata da un gruppo marmoreo del Compianto su Cristo morto, nella quinta cappella della navata sinistra, che all’epoca appariva decorata da Gerolamo Chignoli e Melchiorre Gherardini e che dalla fine del Seicento conteneva anche la tomba dei Rosales.30 Non si può confermare neppure l’ipotesi di Binaghi Olivari, che collegava la decorazione della cappella agli ingenti legati di Bartolmeo e Pietro Pagnani nel 1521 e nel 1524.31 I legati di membri di questa famiglia proseguirono fino al Settecento; nel 1687 Carlo Pagnani destinò una somma alla celebrazione di messe presso le cappelle di San Francesco e di Sant’Antonio da Padova. Della decorazione di quest’ultima, dovuta anch’essa a Luini ma più tardi rifatta dai Fiammenghini e da Cristoforo Storer,32 resta l’Annunciazione con i santi Giovanni Battista e Caterina d’Alessandria che ornava l’arco d’ingresso, trasportato in due parti su tela nel 1900, passato nella collezione Lurani nel 190533 e attualmente di proprietà della Compagnia di San Paolo di Torino. Nella totale mancanza di notizie, si può immaginare che la cappella di San Giuseppe fosse di patronato di una delle numerose confraternite dedicate al santo che si diffusero, incoraggiate dai Francescani, tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.34 Farebbe 25 R. Besta, Un episodio di francescanesimo in Liguria. Chiesa e convento di Santa Maria della Pace, tesi di laurea, Università degli Studi di Genova, Facoltà di Lettere Filosofia, relatrice E. Parma, anno accademico 1993-1994, p. 104; Ead., Un duplice ritratto di Amadeo Mendezes da Sylva in un affresco genovese, in Studi di Storia delle Arti, viii, 1995-1996, pp. 265-275. 26 G. Zanelli, Genova e Savona nel primo Cinquecento, in La pittura in Liguria. Il Cinquecento, a cura di E. Parma, Genova, 1999, pp. 27-67, p. 37. 27 Lanzi, op. cit., alla nota n. 22, p. 204. Non c’è modo di confermare l’ipotesi di Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, p. 27, che ritiene si possa forse collegare a una scena perduta di questo ciclo il disegno raffigurante il Bagno del Bambino Gesù con un committente degli Uffizi (Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 13276 F), per il quale cfr. G. Agosti, Disegni del Rinascimento in Valpadana, Firenze, 2001, pp. 227230 scheda 44. 28 Cfr. F. Cavalieri, L’ arte, in Il convento dell’Annunziata di Abbiategrasso, a cura di M. Comincini, Mazzo di Rho, 2006, pp. 107-160, pp. 119-130. 29 Per la pittura e la scultura del primo Cinquecento in Santa Maria della Pace cfr. V. Zani, Ambrogio Montevecchia, scultore nel Duomo di Milano e per Battista Bagarotti, in Nuovi Studi, iv, 1999, 7, pp. 35-56; C. Quattrini, Giovanni Agostino da Lodi e Marco d’Oggiono. Quadri a due mani da Santa Maria della Pace, catalogo della mostra, Brera mai vista, 3, Milano, 2002; F. Frangi, Bernardino Ferrari, in Nuovi Studi, ix, 20012002 [2003], pp. 77-102, 90-91. 30 B. Burocco, Chronologia Serafica. Origini e Felici progressi dei Frati Minori Osservanti della Provincia Milanese, 1716, ms., 2 voll., Milano, Biblioteca Francescana di Sant’Angelo, ii, pp. 63 e seguenti. I testi della lapide del medico Paolo Donato Castiglioni, morto nel 1490, e di quella posta nel 1561 da Francesco Abbondio Castiglioni, che commemorava il nonno Branda e il padre Gerolamo, scomparso nel 1528, sono riportate senza specificarne la collocazione da V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano dal secolo viii ai giorni nostri, Milano, 1889, i, pp. 293, 302. 31 Archivio di Stato di Milano, Fondo Religione, Archivio Generale, Cartella 1457, cfr. Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 17, pp. 237-238. 32 Come scrivono C. Torre, Il ritratto di Milano diviso in tre libri, Milano, 1674, pp. 303-304 e S. Latuada, Descrizione di Milano ornata con molti disegni in rame, 5 voll., Milano, 1737-1738, ed. anastatica consultata Assisi 1995-1998, i, p. 274. In Burocco, op. cit. alla nota n. 30, p. 107 la cappella di Sant’Antonio è ricordata come altare privilegiato per morti. 33 Cfr. Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, pp. 132-135; A. Ottino Della Chiesa, Bernardino Luini, Novara, 1956, p. 70 scheda 29. 34 Cfr. A. Dallaj, Aspetti della produzione figurativa delle confraternite di S. Giuseppe nel ducato di Milano agli inizi del Cinquecento, in Il pubblico dei Santi. Forme e livelli di ricezione dei messaggi agiografici, Atti del iii Convegno di Studio dell’Associazione italiana per lo studio della Santità, dei culti e dell’agiografia (Verona 1998), Roma, 2000, pp. 251-283. La diffusione del culto di san Giuseppe in ambito milanese è collegata anche alla figura del domenicano Isidoro Iso- bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 161 pensare a una committenza di questo tipo il fatto che, diversamente da quasi tutte le altre, la cappella di San Giuseppe mantenne la propria intitolazione anche al tempo della Controriforma e nel secondo quarto del Seicento venne dotata di una pala raffigurante la morte del Santo di Gerolamo Chignoli.35 La letteratura sulla cappella di san Giuseppe registra una grande difformità di pareri riguardo alla datazione e all’autografia. Bianconi,36 seguito da Lanzi37 sostenne che Luini vi sarebbe intervenuto prima del 1520. Una collocazione analoga o di poco successiva è stata sostenuta anche da Mongeri38 (circa 1524), Beltrami39 (fra 1516 e 1521, ma più vicino a quest’ultima data), Venturi,40 Ottino Della Chiesa,41 Berenson42 (circa 1518/1520), Freedberg;43 Bandera44 e in un primo momento da Roberta Battaglia.45 Il ciclo è stato riferito agli anni 1517/1522 da Mallé;46 Rio47 lo considerò giovanile, come poi Mazzini,48 che vi ravvisava un amalgama non del tutto riuscito di influssi di Foppa Bramantino e Leonardo e riflessi di Raffaello, visto a suo avviso prima della Madonna di Chiaravalle. Williamson,49 Bertini50 e Autelli51 hanno collocato la cappella di san Giuseppe entro gli anni dieci. In seguito una datazione entro la prima metà di quel de- cennio è stata sostenuta da Giovanni Romano,52 da Francesco Frangi,53 da Giulio Bora,54 dalla scrivente,55 da Federico Cavalieri,56 che ritiene la cappella di San Giuseppe un possibile precedente degli affreschi del 1519 di Nicola Moietta in Santa Maria Annunziata ad Abbiategrasso, e da Roberta Battaglia.57 Sulla base dell’iconografia di San Giuseppe eletto sposo della Vergine, Maria Teresa Binaghi Olivari ha supposto che la decorazione della cappella di san Giuseppe segua l’arrivo a Milano nel 1514 di Giorgio Benigno Salviati, che vi diffuse l’Apocalypsis Nova del beato Amado Mendez presso gli ambienti filofrancesi. Salviati trascrisse e interpolò l’Apocalypsis Nova dopo che nel 1502 Bernardino da Carvajal era venuto in possesso del manoscritto originale e ne aveva intrapreso la diffusione in un disegno di opposizione a Giulio II, sostenuto dal re di Francia. La sua venuta a Milano, tuttavia, non sembra un discrimine troppo rigido per la conoscenza del testo in area lombarda. La studiosa ha pensato inizialmente a una datazione fra il 1516 e il 1521,58 poi sul 1520/1521,59 infine negli anni 1518/1520,60 comunque subito dopo un soggiorno a Roma che avrebbe fatto conoscere a Bernardino Raffaello e Peruzzi. lani, autore della Summa de donis Sancti Joseph pubblicata nel 1522, da C.C. Wilson, St. Joseph in Italian Renaissance Society and Art. New Directions and Interpretations Philadelphia 2001, p. 81; Forse alla nascita delle confraternite in quel periodo contribuitì anche il prestigio di quella che aveva sede nel Duomo di Milano, per la quale nel 1472 Galeazzo Maria Sforza aveva commissionato un grande altare marmoreo, portato a termine solo nel 1499 e in seguito disperso, al quale lavorò un gruppo di scultori che annoverava Gian Giacomo Dolcebuono, Antonio Piatti, Lazzaro Palazzi, Benedetto Briosco e in seguito Giovanni Antonio Amadeo. Sui possibili riflessi di quell’opera perduta cfr. M. T. Binaghi Olivari, Lorenzo da Mortara e l’Amadeo, in Giovanni Antonio Amadeo. Scultura e architettura del suo tempo, Atti del Convegno (Milano-Bergamo-Pavia 1992) a cura di L. Castelfranchi e J. Shell, Milano, 1993, pp. 462-468. 45 R. Battaglia, in Pittura a Milano, Rinascimento e Manierismo, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1998, p. 232. 46 L. Mallé, Incontri con Gaudenzio. Raccolta di studi e note su problemi gaudenziani, Torino, 1969, pp. 227-233. 47 A. F. Rio, Leonardo da Vinci e la sua scuola, Milano, 1856, p. 151. 48 F. Mazzini, La pittura del Cinquecento, in Storia di Milano, viii, Milano, 1957, pp. 567-655, in part. pp. 627-628. 49 C. G. Williamson, Bernardino Luini, Londra, 1899, ed. consultata 1907, pp. 26-27, 32, 121. 50 A. Bertini, La giovinezza di Bernardino Luini. Revisioni critiche, in Critica d’Arte, serie 9, iii, 1962, 53-54, pp. 20-61, pp. 42, 43. 51 F. Autelli, Pitture murali a Brera, Milano, 1989, pp. 83-93. 52 Romano, op. cit. alla nota n. 15, p. 104. 53 Frangi, op. cit. alla nota n. 2, p. 32; Id., in Pittura a Milano, op. cit. alla nota n. 2, p. 239. 54 G. Bora, Firenze 1510-Milano 1515 circa, in Settanta Studiosi per l’Istituto Germanico di Storia dell’Arte di Firenze, a cura di C. Acidini Luchinat, L. Bellosi, M. Boskovits, P. P. Donati e B. Santi, Firenze, 1997, pp. 239-246, in part. pp. 242-245; Id. Bernardino Luini, in I leonardeschi. L’eredità di Leonardo in Lombardia, Milano, 1998, pp. 325-370, pp. 34-340; Id., Nicola Moietta “de Mangonis” da Caravaggio a Abbiategrasso, 1519: l’anello mancante, in Rinascimento ritrovato, cit., ii, Nell’età di Bramante e Leonardo tra i Navigli e il Ticino, pp. xiii-xlii, p. xviii. 55 C. Quattrini, Lo Scherno di Cam. Un dipinto riscoperto di Bernardino Luini, catalogo della mostra a cura di V. Maderna e C. Quattrini, Milano, 2006, pp. 11-14, 37-39. 56 Cavalieri, op. cit. alla nota n. 28, p. 128. 57 R. Battaglia, Leonardo e i leonardeschi, Firenze, 2007, allegato a «Il Sole 24 Ore», p. 375. 58 Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 15, p. 61. 59 Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 17,, p. 231. 60 Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, pp. 21, 27, tavv. 16, 17. 35 Il dipinto è ricordato da Torre, op. cit., alla nota n. 32, pp. 302304 e Latuada, op. cit., alla nota 32, i, pp. 275-277, 279. 36 Bianconi, op. cit. alla nota n. 21, pp. 108-110. 37 Lanzi, op. cit. alla nota n. 22, p. 204. 38 G. Mongeri, La cappella di San Giuseppe della Pace e gli ultimi suoi avanzi, in Archivio Storico Lombardo, S. i, iii, 1876, n. 3 pp. 101-116. 39 Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 107. 40 A.Venturi, Storia dell’arte italiana, ix, La pittura del Cinquecento. Parte ii , Milano 1926, p. 748. 41 Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, pp. 96-97 scheda 115. 42 B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance. Central Italian & North Italian Schools, 3 voll., New York 1968, p. 231. 43 S. J. Freedberg, Painting in Italy 1500-1600, New York, ed. italiana La pittura in Italia dal 1500 al 1600, Bologna 1988, p. 468. 44 S. Bandera, Testimonianze pittoriche rinascimentali nel territorio di Abbiategrasso, in Rinascimento ritrovato, catalogo della mostra (Abbiategrasso 2006) a cura di P. De Vecchi e G. Bora, Milano, 2006, 2 voll., i, La chiesa e il convento di Santa Maria Annunziata ad Abbiategrasso, pp. 151-166, p. 165. 162 cristina quattrini Fig. 3. Bernardino Luini e bottega, Natività di Maria, Milano, Pinacoteca di Brera, dalla cappella di san Giuseppe in Santa Maria della Pace. L’autografia stessa delle pitture della cappella di San Giuseppe è tuttora dibattuta. Giovanni Morelli le attribuì a un seguace di Bramantino influenzato da Gaudenzio Ferrari. 61 Giulio Bora ha ritenuto di mano diversa la volta con Arcangeli e angeli, l’Annuncio a Sant’Anna, l’Incontro alla Porta Aurea (Fig. 4) e la Natività della Vergine (Fig. 3).62 Lo studioso ha pensato inoltre che questo pittore abbia collaborato con 61 Lermolieff [G. Morelli], Die Werke Italienisches Meister in den Galerien von München, Dresden und Berlin: ein Kritischen Versuch, Lipsia, 1980, ed. italiana Le opere italiane nelle Gallerie di Monaco, Dresda e Berlino: saggio critico, Bologna, 1886, p. 450. 62 G. Bora, Firenze 1510-Milano 1515 circa, op. cit. alla nota n. 54, pp. 242-245; Id., Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, pp. 34-340; Id., Nicola Moietta…, cit., p. xviii. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 163 Luini stesso e con Zenale alla pala di Brera che rappresenta l’Annunciazione alla presenza degli arcangeli Ecudiele e Barachiele e di angeli secondo il testo dell’Apocalypsis Nova, opera che Stefania Buganza ha ultimamente ricondotto all’altare di Bernardino Bascapè in Santa Marta e attribuito alla fase estrema Zenale.63 In effetti l’intervento di un aiuto, tradita dai tratti zenaliani di certi personaggi, si coglie in più parti, ad esempio nell’Incontro alla Porta Aurea, nei Tre giovani o in alcune figure angeliche della volta.64 In anni di grande affinità stilistica e di amicizia fra Luini e Zenale, si tratta di un dato indubbiamente interessante, ma non tale da incoraggiare una drastica distinzione di mani in un ciclo stilisticamente omogeneo. Luini stesso doveva ritenere questa commissione molto prestigiosa, se inserì, come sembra, un autoritratto in San Giuseppe eletto sposo della Vergine.65 L’uomo con il berretto sotto l’arco, infatti, ricomparirà nella cappella maggiore di Santa Maria dei Miracoli a Saronno, del 1525 nell’Adorazione dei Magi e nello Sposalizio della Vergine, e ancora fra gli astanti nella grande Crocifissione in Santa Maria degli Angeli a Lugano, del 1529. Gli sfondi della Presentazione di Maria al Tempio e di San Giuseppe eletto sposo della Vergine (Figg. 5, 6), il cui bramantinismo è stato sottolineato da Wilhelm Suida,66 fanno comprendere a cosa si riferissero le lodi di Cesariano a Luini, al Suardi stesso e a Zenale per le architetture raffigurate negli affreschi. Rispetto alla Madonna di Chiaravalle, presumibilmente di poco precedente e interamente caratterizzata dai riferimenti a Zenale e a Bramantino, nella cappella di San Giuseppe si avverte un certo un cambiamento, ma nulla costringe imputarlo al viaggio a Roma. L’opinione di Morelli, che vedeva in questi affreschi un anonimo influenzato da Gaudenzio Ferrari, offre un utile suggerimento. Il rapporto fra Bernardino Luini e il maestro valsesiano fu brevemente trattato da Luigi Mallé,67 che escluse la comune formazione presso Stefano Scotto tramandata da Lomazzo68 e finora confermabile su basi stilistiche soltanto per Gaudenzio e negò l’influenza di Luini su quest’ultimo. Lo studioso parlò tuttavia di carattere preluinesco degli affreschi di Santa Maria delle Grazie a Varallo Sesia: della cappella di santa Margherita, del 1507 e del tramezzo, 63 S. Buganza, op. cit. alla n. 9, p. 62. È così venuta meno l’ipotesi di Romano, op. cit. alla nota n. 15, p. 104, che sulla base dell’iconografia dipendente dall’Apocalypsis Nova del beato Amadeo indicava l’Annunciazione come possibile pala della cappella di san Giuseppe. 64 Come ho rilevato in altra occasione (Quattrini, op. cit. alla nota n. 55, p. 39) e come accenna in modo più generico Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, p. 21. 65 La presenza del probabile autoritratto in questo affresco è stata segnalata per la prima volta da Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, p. 26. 66 W. Suida, Bramante pittore e il Bramantino, Milano 1953 p. 143. 67 L. Mallé, op. cit. alla nota 46, pp. 227-233 68 G. P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, della scoltura e dell’architettura, Milano, 1584, ed. consultata in G. P. Lomazzo, Scritti sulle arti, a cura di R. P. Ciardi, 2 voll., Firenze, 1973-74, ii, p. 366. Sul problema degli esordi di Gaudenzio Ferrari E. Villata, Gaudenzio Ferrari, gli anni di apprendistato, in E. Villata, S. Baiocco, Gaudenzio Ferrari. Gerolamo Giovenone. Un avvio e un percorso, Torino, 2004, pp. 1396, con bibliografia precedente; G. Romano, Pittori in bottega: Gaudenzio Ferrari, tra avanguardia e tradizione, in Fermo Stella e Sperindio Cagnoli seguaci di Gaudenzio Ferrari. Una bottega d’arte nel Cinquecento padano, catalogo della mostra (Bergamo 2006) a cura di G. Romano, Cinisello Balsamo, 2006, pp. 11-37, pp. 13-17; D. Mirabile, Un nuovo documento per Santa Maria delle Grazie a Varallo Sesia: un nuovo appiglio per Gaudenzio giovane?, in Sacri Monti. Rivista di arte, conservazione, paesaggio e spiritualità dei Sacri Monti piemontesi e lombardi, i, 2006, pp. 365-379. Fig. 4. Bernardino Luini e bottega, Incontro alla Porta Aurea, Milano, Pinacoteca di Brera, dalla cappella di san Giuseppe in Santa Maria della Pace. 164 cristina quattrini Fig. 5. Bernardino Luini, Presentazione di Maria al Tempio, Milano, Pinacoteca di Brera, dalla cappella di san Giuseppe in Santa Maria della Pace. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 6. Bernardino Luini, San Giuseppe eletto sposo della Vergine, Milano, Pinacoteca di Brera, dalla cappella di san Giuseppe in Santa Maria della Pace. 165 166 cristina quattrini concluso nel 1513. Per quanto concerne la cappella di san Giuseppe, che faceva risalire agli anni 1517/1522, giustificò gli elementi di contatto apparenti come «[…] rielaborazioni personali su Bramantino, senza alcun appoggio né tramite ferrariano», dati gli esiti molto differenti dei due maestri a date che credeva fossero le stesse. È verosimile che al momento di questo lavoro Luini avesse visto gli affreschi di Gaudenzio nella chiesa francescana di Varallo e che esso si possa leggere come reazione a quelle novità. Sebbene si debba anche pensare a modelli comuni, gli edifici monumentali della Cacciata di Gioacchino dal Tempio, della Presentazione di Maria al Tempio e di San Giuseppe eletto sposo della Vergine assomigliano molto a quelli di Gaudenzio Ferrari nella Disputa con i dottori nella cappella di Santa Margherita o sul tramezzo nella Lavanda dei piedi (Fig. 7), in Cristo davanti a Pilato (Fig. 8) o nella Flagellazione. La figure su quinte sopraelevate nella Presentazione di Maria al Tempio e nel Sogno di San Giuseppe (Fig. 9) ricordano anch’esse le soluzioni adottate da Gaudenzio nella Disputa con i dottori nella cappella di Santa Margherita o in alcune scene del tramezzo. Il secondo punto fermo nella cronologia di Luini in questo decennio sono le tavole e gli affreschi della cappella della scuola del Santissimo Sacramento in San Giorgio al Palazzo a Milano [Figg. 10, 13-15], che nel 1516 fece costruire e decorare Luca Terzaghi, consigliere e sindaco fin dai primi documenti che riguardano il sodalizio dal 1506.69 Le società del Santissimo Sacramento o del Corpo di Cristo risultano molto diffuse a partire dalla fine del Quattrocento. A Milano quella di San Giorgio al Palazzo era una delle più importanti e la famiglia Terzaghi, dedita alle professioni mercantili e forensi, ne fece parte per tutto il Cinquecento.70 La commissione venne poco dopo un evento importante: nel 1513 Massimiliano Sforza aveva dotato la confraternita dei diritti in campo patrimoniale e giudiziario di cui godevano dal 1486 i principali enti caritativi di Mi- lano.71 Si tratta dunque di un’ulteriore attestazione dell’ascesa di Bernardino Luini e anche di un testo illuminante sulla sua cultura in quel momento. La decorazione consta della pala d’altare con il Compianto su Cristo morto con due santi vescovi (Fig. 10), di altre due tavole con la Flagellazione (Fig. 15) e l’Ecce Homo, di una lunetta con l’Incoronazione di spine (Fig. 14) e dalla Crocifissione affrescata sulla volta (Fig. 13). Le scene sono commentate da iscrizioni, delle quali non si è ancora individuata l’eventuale fonte. La combinazione di tavole e affreschi ha un precedente nella sacrestia di Santa Maria della Passione, decorata da Bergognone nella prima parte dello stesso decennio. Il quadro centrale, un disegno preparatorio per il quale è conservato al Louvre (Département des Arts graphiques, inv. rf 476)72 (Fig. 11), presenta alcuni elementi iconografici inconsueti. Oltre alla Vergine, a san Giovanni Evangelista, alle pie donne, a Nicodemo e a Giuseppe d’Arimatea prendono parte alla lamentazione altri personaggi, alcuni dei quali con cappelli che li connotano come ebrei. È probabile che all’origine di questa rappresentazione vi sia la Passione di Niccolò Cicerchia, della cui recezione in campo artistico si contano numerosi esempi.73 Nel cantare trecentesco, infatti, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo sono accompagnati da «[…] certi amici e sergenti/devoti di Iesù […]», che assistono alla deposizione di Cristo dalla croce e poi partecipano al compianto: «Ioseppe e Niccodemo allor s’appressa/a la donna, e Giovanni con lor gía./Intorno a le’ di gente avie gran pressa,/con dolenti sospir ciascun piangía./Giunser a lei e ‘nginocchiarsi ad essa./Ioseppe parla e piangendo dicía:/– No’ vi preghiam, Madonna, che vi piaccia/che seppellir Iesù omè si faccia –».74 In secondo piano a destra una giovane donna e un bimbo con un cardellino, simbolo della Passione, apparentemente estranei all’evento guardano lo spettatore e sembrerebbero dare alla scena il senso di una visione della Vergine del destino di Cristo. I due santi vescovi so- 69 G. C. Sacco, Stato della Venerabile e Insigne Confraternita del Santissimo Sacramento, Monza, 1652, p. 8. Cfr. Il cardinale Giuseppe Pozzobonelli e gli atti della visita pastorale nella collegiata di San Giorgio al Palazzo, a cura di M. L. Gatti Perer, Milano, 1970, p. 53. 70 D. Zardin, Solidarietà di vicini. La confraternita del Corpo di Cristo e le compagnie devote di S.Giorgio al Palazzo tra Cinque e Seicento, in Archivio Storico Lombardo, cxviii, 1992, pp. 361-604, in part. p. 369 nota 17. 71 Zardin, op. cit. alla nota n. 70, p. 371. 72 Cfr. F. Viatte, in Léonard de Vinci. Dessins et manuscrits, catalogo della mostra a cura di V. Forcione e F. Viatte, Parigi 2003, p. 378 scheda 141, con bibliografia precedente. Per i pochi disegni di Bernardino Luini cfr. Agosti, op. cit. alla nota n. 27, pp. 223-230 schede 43 e 44. 73 L. Sebregondi, La Deposizione di Cristo dalla croce, prima scena della “tetralogia funebre”, in Filippino Lippi e Pietro Perugino. La deposizione della Santissima Annunziata e il suo restauro, catalogo della mostra (Firenze 2004) a cura di F. Falletti e J. Katz Nelson, Livorno, 2004, pp. 50-65, pp. 54-55. 74 N. Cicerchia, La Passione, in Cantari religiosi senesi del Trecento, a cura di G. Varanini, Bari, 1965, pp. 309-379, pp. 363 e 367. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 7. Gaudenzio Ferrari, Lavanda dei piedi, Varallo Sesia, Santa Maria delle Grazie, 1513. 167 168 cristina quattrini Fig. 8. Gaudenzio Ferrari, Cristo davanti a Pilato, Varallo Sesia, Santa Maria delle Grazie, 1513. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 9. Bernardino Luini, Sogno di san Giuseppe, Milano, Pinacoteca di Brera, dalla cappella di san Giuseppe in Santa Maria della Pace. 169 170 cristina quattrini Fig. 10. Bernardino Luini, Compianto su Cristo morto coi santi Leone Magno e Natale, Milano, San Giorgio al Palazzo, cappella del Santissimo Sacramento, 1516. no presumibilmente sant’Agostino e san Natale, al quale si riferisce la fondazione di San Giorgio al Palazzo dove è sepolto. Anche nel caso della cappella del Santissimo Sacramento sono stati espressi dubbi sull’autografia integrale, che credo si possano accantonare.75 La cappella del Santissimo Sacramento rappresenta un punto di estrema vicinanza di Luini a Bernardo Zenale e la stessa sofisticata impostazione prospettica ha fatto pensare a una collaborazione di quest’ultimo come architetto.76 Proprio nel 1516, come si è detto Luini fece da testimone all’atto di stesura della 75 Bianconi, op. cit. alla nota n. 21, p. 253 accennò alla presenza di aiuti ma trovò estremamente originale l’ideazione del complesso; Williamson, op. cit. alla nota n. 49, pp. 17-18 e Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, pp. 34-51 parlarono di opera giovanile non del tutto risolta, seguiti Venturi, op. cit. alla nota n. 40, p. 744 (in una lettura complessivamente negativa dell’artista, sulla linea di Berenson), da G. R. Ansaldi, Il primo tempo dell’arte di Bernardino Luini, in Nuova Antologia, lxviii, 1933, n. 1473, pp. 439-451, pp. 449-451, che vide l’intervento della bottega nelle scene laterali, e da. Mazzini, op. cit. alla nota n. 48, p. 626. Infine Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, p. 21, asserisce che nella cappella del Santissimo Sacramento collaborerebbe con Luini il pittore dell’Annunciazione di iconografia amadeita di Brera, data a Zenale negli anni venti da S. Buganza, Bernardo Zenale, op. cit. alla nota n. 9, p. 62. 76 Bora, Bernardino, Luini, op. cit. alla nota n. 54, pp. 333-334; F. Frangi, in Pittura a Milano, op. cit. alla nota n. 2, pp. 233-234. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 171 Fig. 11. Bernardino Luini, Compianto su Cristo morto, penna e inchiostro bruno, acquarello bruno, matita nera, biacca su carta nocciola, Parigi, Museo del Louvre, Département des Arts Graphiques, inv. RF 476. dote monacale di Maria Lucrezia, figlia del maestro di Treviglio, entrata come suor Mansueta nel monastero domenicano di San Lazzaro.77 L’ascendente del pittore più giovane su Zenale è dimostrato nello stesso momento dalla pala per l’altare di Antonio Busti in Santa Maria di Brera, ora in Pinacoteca, restituita a quest’ultimo da un documento ritrovato di recente. Zenale, infatti, nel 1518 ricevette un saldo insieme all’intagliatore Bernardino da Legnano, autore della perduta cornice.78 L’ancona, pertanto, do- vrebbe essere stata dipinta fra il 1515, anno della consacrazione dell’altare indicato dall’iscrizione sul basamento del trono della Vergine (che sembra aggiunta poco dopo la sua esecuzione) e quell’anno. Di Zenale, in San Giorgio al Palazzo Bernardino Luini ha chiaramente presente il Compianto di San Giovanni Evangelista a Brescia (Fig. 12), commissionato anch’esso da una confraternita del Santissimo Sacramento, forse concluso poco prima del 1509, quando fu ordinata la cornice a Stefano Lamberti,79 77 Archivio di Stato di Milano, Notarile 4591, notaio Angelo Galli, 3 maggio 1516, pubblicato in Pini, Sironi, op. cit. alla nota n. 13, II, doc. 28 pp. 39-40. 78 C. Geddo, G. Sironi, Luini o Zenale? Un pagamento per la pala Busti, in Archivio Storico Lombardo, cxxviii, 2002 [2003], pp. 313-324, dove, sulla scia di una cospicua letteratura che attribuiva la pala all’uno o all’altro dei due maestri, il Bernardino menzionato con Zenale nel documento è ritenuto un collaboratore la cui fisionomia è resa problematica dalla fortissima vicinanza ai modi di Bernardino Luini che la pala presenta. Che si tratti di Bernardino da Legnano è stato invece segnalato da M. Ceriana, C. Quattrini, Per Vincenzo Foppa e per Bernardino Luini in Santa Maria di Brera, con alcune note sulla cappella Bottigella in San Tommaso a Pavia, in BdA, lxxxviii, 2003, serie vi, 124, pp. 27-46, p. 34; M. Tanzi, Siparietti cremonesi, in Prospettiva, 113-114, 2004, pp. 117-162, p. 157 nota 38; S. Facchinetti, Estremi di Zenale: nuovi documenti figurativi, in Paragone, lv, 2005, 659, terza serie, n. 59, pp. 1435, pp. 27-28. Cristina Geddo in seguito è tornata sulla questione sostenendo che il pagamento potrebbe riferirsi alla sola cornice (C. Geddo, Postilla alla pala Busti, in Arte e storia di Lombardia, cit., pp. 263264). Sulla pala Busti si veda la lettura stilistica di Romano, op. cit. alla nota n. 15, p. 104. 79 Come proposto da A. Ballarin, La “Salomè” del Romanino ed altri studi sulla pittura bresciana del Cinquecento, a cura di B. M. Savy, 2 voll., Cittadella, 2006, i, pp. 58-59. 172 cristina quattrini Fig. 12. Bernardo Zenale, Compianto su Cristo morto, Brescia, San Giovanni Evangelista. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 13. Bernardino Luini, Crocifissione, Milano, San Giorgio al Palazzo, cappella del Santissimo Sacramento, 1516, particolare durante il restauro del 1989. 173 174 cristina quattrini Fig. 14. Bernardino Luini, Incoronazione di spine, Milano, San Giorgio al Palazzo, cappella del Santissimo Sacramento, 1516. e comunque dopo il 1505.80 Il gesto del san Giovanni dell’ancona bresciana è infatti ripreso nella pia donna che piange a mani giunte sulla sinistra del Compianto di San Giorgio al Palazzo. Inoltre nel disegno del Louvre la figura femminile che urla con le braccia levate, poi eliminata, è un’altra citazione dell’opera di Zenale, a monte della quale c’è però una delle due incisioni di Mantegna con il Seppellimento di Cristo. Nella stessa tavola il san Giovanni sostiene Cristo in ginocchio come nei Compianti fiorentini del Perugino di Palazzo Pitti per Santa Chiara (1495) e degli Uffizi per San Giusto fuori le Mura e come in quello della National Gallery of Ireland di Dublino. Questo motivo nei primi anni del Cinquecento incontrò grande fortuna e fu adottato, fra gli altri, da Gaudenzio Ferrari, Sodoma, Gerolamo Savoldo.81 Luini po- Fig. 15. Bernardino Luini, Flagellazione, Milano, San Giorgio al Palazzo, cappella del Santissimo Sacramento, 1516, particolare. 80 S. Buganza, in Édouard e Nélie a Milano: i loro rapporti con gli antiquari, i restauratori e i collezionisti, in Due collezionisti alla scoperta dell’Italia. Dipinti e sculture da Museo Jacquemart-André di Parigi, catalogo della mostra a cura di A. Di Lorenzo, Cinisello Balsamo, 2002, p. 95 nota 27. 81 A. Griseri, Gaudenzio e il suo cantiere: i viaggi, la provincia, il teatro e i cartoni. una fortuna critica dal 1956 al 1981, in Gaudenzio Ferrari e la sua scuola. I cartoni cinquecenteschi dell’Accademia Albertina, catalogo della mostra (Torino 1982) a cura di G. Romano, Milano, 1982 pp. 7-25, p. 24; M. Gregori, Savoldo ante 1521: riflessioni per una inedita ‘Crocifissione’, in Paragone, l, 1999, 583, serie iii, 23, pp. 46-85, pp. 54-55. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 175 trebbe averlo conosciuto tramite qualche disegno di Filippino Lippi o di Fra’ Bartolommeo e Mariotto Albertinelli per la mai realizzata pala dell’altare maggiore della Certosa di Pavia,82 come per il primo il foglio n. 129 del Fogg Art Museum di Cambridge (Mass.) e per Fra’ Bartolommeo il n. 6827 F del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi e i nn. 164, 165 e 182 del Museo Boymans Van Beuningen di Rotterdam.83 In San Giorgio al Palazzo si riscontra – specie nel Compianto – un dialogo ancora molto serrato con Bramantino, che fino all’inizio degli anni venti influì su Bernardino in modo determinante. Le figure tornite, i panneggi ridondanti e alcuni profili volti quasi interamente all’indietro si prestano al confronto con opere di Bramantino che si fanno risalire agli anni dieci, come il Compianto e la Pentecoste della parrocchiale di Mezzana o la Sacra Conversazione degli Uffizi (Fig. 20). A quadri come questi sembra rivolto il commento di Giovanni Paolo Lomazzo sulla maniera di Bramantino dopo il viaggio a Roma, quando «[…] usò un’altra foggia di panni, che parevano all’incontro troppo molli e rilasciati»,84 commento che avrebbe potuto estendere ai panneggi di Luini nelle cappelle di San Giuseppe e del Santissimo Sacramento o alle opere coeve di Giovanni Agostino da Lodi e di Marco d’Oggiono. L’impianto teatrale della Crocifissione sembra una personale reazione alle Storie di Cristo di Gaudenzio Ferrari in Santa Maria delle Grazie a Varallo Sesia; i manigoldi nelle scene della Passione mostrano la suggestione delle «teste caricate» di Leonardo ma anche quella delle stampe di Martin Schongauer e Albrecht Dürer,85 condivisa in quegli anni da tanti pittori di area padana ma nel caso di Luini depurata dagli aspetti più brutali. Per finire è palese il rapporto con la pittura smaltata di Andrea Solario,86 un rapporto che in questi anni riguarda anche temi iconografici e tagli compositivi – Salomè con la testa del Battista (Figg. 16, 17), i dittici Cristo portacroce/Mater dolorosa, San Gerolamo penitente87 – e che negli ultimi dipinti di 82 Come propone Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, p. 23, che vede una diretta influenza di Fra’ Bartolommeo e Mariotto Albertinelli su Luini. 83 Cfr. C. Fischer, Filippino Lippi, Mariotto Albertinelli, Fra’ Bartolommeo e l’ancona per l’altar maggiore della certosa di Pavia, in Perugino, Lippi e la bottega di San Marco alla Certosa di Pavia. 1495-1511, catalogo della mostra (Milano 1986) a cura di B. Fabjan, Firenze. 1986, pp. 59-64. 84 Lomazzo, op. cit. alla nota n. 68, ii, p. 395, il passo è ricordato da G. Agosti… Disegni, op. cit. alla nota n. 27, p. 213. Per la cronologia di Bramantino si rimanda ad A. Ballarin Dosso Dossi. La pittura a Ferrara negli anni di Alfonso I, 2 voll., Cittadella, 1995, i, pp. 12-13; G. Romano La ‘Sacra Famiglia’ del Bramantino, già in casa Silva, in Arte all’incanto. Mercato e prezzi dell’arte e dell’antiquariato alle aste Finarte 1989/90, Milano, 1990, pp. 36-39; Id., Per un documento sul Bramantino, in Quaderno di studi sull’arte lombarda dai Visconti agli Sforza per gli 80 anni di Gian Alberto Dell’Acqua, a cura di M. T. Balboni Brizza, Milano 1990, pp. 85-93; Id. U n seminario su Bramantino, in Intorno a Giovan Battista Cavalcaselle. Il caso Bramantino, «Concorso arti e lettere», i, 2007, pp. 39-69; Agosti, op. cit. alla nota n. 27, pp. 207-214 schede 37 e 38 e con una ricostruzione in parte diversa M. Natale in Capolavori da scoprire. La collezione Borromeo, catalogo della mostra a cura di M. Natale con la collaborazione di A. Di Lorenzo, Milano 2006, pp. 130137 scheda 9. 85 Come rilevato da Bertini, op. cit. alla nota n. 50, pp. 34-36. Non mi pare invece necessario ritenere un diretto precedente del Compianto di Luini quello di Giovan Francesco Caroto dipinto nel 1515 a Casale Monferrato, ora in collezione privata, secondo una proposta di M. T. Franco Fiorio, Giovan Francesco Caroto, Verona, 1971, pp. 40, 44-45, 90, ripresa da G. Fossaluzza, Pittori veneti a Milano nel Cinquecento, in Pittura a Milano. Rinascimento e Manierismo, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1998, pp. 44-52, in part. p. 45; Viatte, loc. cit. alla nota n. 72, p. 378; Marani, loc. cit., alla nota n. 15, e nemmeno parlare di un confronto con Giovan Angelo Del Maino, come Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, pp. 25-26. Per Giovan Angelo Del Maino e il suo rapporto con Gaudenzio Ferrari, cfr. M. Albertario, Giovanni Angelo Del Maino e Gaudenzio Ferrari, alle soglie della maniera moderna, «Sacri Monti. Rivista di arte, conservazione, paesaggio e spiritualità dei Sacri Monti piemontesi e lombardi», i, 2005-2006, pp. 339-364. 86 Venturi, op. cit. alla nota n. 40, p. 744; W. Suida, Leonardo und sein Kreis, Monaco di Baviera 1929, ed. italiana a cura di M. T. Fiorio, Vicenza, 2001, p. 274; Bertini, op. cit. alla nota n. 50, p. 36; P. C. Marani, in Pinacoteca di Brera, op. cit. alla nota 17, p. 196; Id., loc. cit. alla nota n. 15; M. Ceriana, in Pinacoteca di Brera, op. cit. alla nota 17, p. 196; Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, p. 240; Frangi, op. cit. alla nota n.2, p. 31; Id., in Pittura a Milano, op. cit alla nota n. 2., pp. 233234; Viatte, loc. cit. alla nota n. 72; Quattrini, op. cit. alla nota n. 55, p. 26. Per il rapporto fra Luini e Solario si veda inoltre D. A. Brown, Andrea Solario, Milano, 1987, pp. 20-21, 26, 29. 87 Si vedano ad esempio il San Gerolamo penitente del Museo Poldi Pezzoli di Milano (cfr. M. Natale, Museo Poldi Pezzoli. Dipinti, Milano, 1982, p. 94 scheda 45) collocabile intorno al 1520 e simile a quello di Solario del Bowes Museum di Barnard Castle a County Durham (circa 1515) anche negli inserti di vita campestre sullo sfondo, il dittico Mater dolorosa/Cristo porta croce dello stesso Museo, di analoga datazione, che riprende modelli solariani noti in diversi esemplari (Natale, op. cit. in questa nota, pp. 93-94 scheda 44: circa 1525) e delle Salomè del Louvre [Fig. 19], della collezione Borromeo all’Isola Bella, degli Uffizi, del Museum of Fine Arts di Boston e del Prado. Fra queste i quadri del Louvre e dell’Isola Bella dovrebbero risalire all’epoca di San Giorgio al Palazzo e della pala di Como, insieme alla Salomè del Kunsthistorisches Museum di Vienna, mentre le altre sembrano riferibili agli anni venti. Binaghi Olivari (M. T. Binaghi Olivari, Partita doppia milanese per Tiziano, in Venezia Arti, viii, 1994, pp. 37-46, pp. 3839; Ead. op. cit. alla nota n. 12, p. 15) ha messo in relazione questa iconografia e di quella affine della Testa del Battista e la loro diffusione ai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, supponendo che tutte le Salomè di Luini e in generale l’affermazione di questo tema a Milano risalgano al periodo 1503-1512, quando fu gran maestro dell’ordine Aimery d’Amboise, fratello del cardinale Georges e zio del governatore di Milano Charles, al quale ipotizza sia appartenuta la Salomè di Solario della Galleria Sabauda di Torino. Un esempio del rapporto fra i Cavalieri e questo genere di oggetti è, come nota la studiosa, il bellissimo piatto del Battista del Duomo di Genova (dove si conservano dal xi secolo le reliquie del Precursore), composto da una testa del santo in smalto en ronde-bosse legata in oro e pietre preziose a un piatto di calcedonio del x-xi secolo, donato nel 1492 da Innocenzo VIII e prima appartenuto a Jean Balue, vescovo di Evreux e di Angers e nel 1491 di 176 cristina quattrini Fig. 16. Andrea Solario, Salomè con la testa del Battista, Vienna, Kunsthistorisches Museum. Solario si manifesta anche come influsso del più giovane Luini.88 Senza volere dare qui un elenco esaustivo, per confronto con i dipinti di Bernardino Luini visti finora i se ne possono riferie altri al medesimo periodo. Appaiono all’incirca coevi alla cappella di san Giuseppe il frammento di una Circoncisione unico avanzo delle pitture di una cappella in Santa Maria Nuova ad Abbiategrasso,89 il San Cristoforo e il San Sebastiano affrescati nel vestibolo della Certosa di Pavia e la MaPalestrina, cardinale di Santa Susanna e protettore dell’Ordine di San Giovanni Battista (cfr. C. Di Fabio, in I gusti collezionistici di Leonello d’Este. Gioielli e smalti en ronde-bosse a corte, catalogo della mostra (Modena 2002-2003) a cura di F. Trevisani, Modena, 2002, pp. 173-179). È altrettanto vero, però che i piatti del Battista potevano essere legati alle confraternite di Disciplini, dedicate a san Giovanni e dedite all’assistenza ai condannati a morte, all’epoca numerose (per un esempio marchigiano, l’esemplare ligneo da San Giovanni Decollato a Matelica e ora in San Filippo, cfr. A. Delpriori, in I pittori del Rinascimento a Sanseverino. Bernardino di Mariotto, Luca Signorelli, Pinturicchio, catalogo della mostra (San Severino Marche 2006), Milano, 2006, p. 138, scheda 21). Per questa iconografia si veda B. Baert, “The Head of St. John the Baptist om a Tazza” by Andrea Solario (1507): the transformation and the transitino of the “Johanneschüssel” from the Middle Age to the Renaissance, in Critica d’arte, lxix, 2007, pp. 60-82. 88 Luini non è estraneo alla svolta classico e monumentale che contraddistingue gli ultimi dipinti di Solario: il Cristo benedicente del Metropolitan Museum di New York e l’ancona dell’Assunzione della sacrestia nuova della Certosa di Pavia, rimasta incompiuta alla morte dell’artista nel 1524 e portata a termine da Bernardino Campi (cfr. Brown, op. cit. alla nota n. 86, pp. 285-286 schede 71 e pp. 287-288 scheda 74). In quest’ultima Andrea si ricorda di un’opera licenziata due anni prima da Luini e dalla bottega: il polittico dell’Assuntadi Bobbio (per i documenti Fig. 17. Bernardino Luini, Salomè con la testa del Battista, Parigi, Museo del Louvre. donna con il Bambino dal xix secolo nella sacrestia del lavabo. Per quest’ultima, in origine sul muro esterno di una cella, si può accettare il termine post quem dell’inizio di lavori nel chiostro grande fornito dalle Memorie della Certosa di Pavia di Matteo Valerio, da estendere anche alle due figure di santi.90 P. Ceschi Lavagetto, Due lettere e qualche documento per il polittico di Luini a Bobbio, in Scritti di Storia dell’arte in onore di Sylvie Béguin, Napoli, pp. 205-218) dal quale ha ripreso ripresi i gesti degli Apostoli. 89 Cavalieri, op. cit. alla nota n. 28, p. 130; M. Comincini, La storia, in Il convento dell’Annunziata di Abbiategrasso, op. cit. alla nota n. 28, pp. 9-104, pp. 61-62, 245. 90 Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 52. Questa ipotesi è stata accolta da Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, pp. 130-131 schede 212 e 213; F. R. Pesenti, La pittura, in La Certosa di Pavia, Milano 1968, pp. 83-113, p. 93; R. Battaglia, La Certosa, in Pittura a Pavia dal Romanico al Settecento, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1988, pp. 86-95; Ead., Bernardino Luini, ibidem, p. 232; Quattrini, op. cit., alla nota n. 1, p. 66. Una datazione alla fine del primo decennio è stata invece proposta da Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 17, pp. 190192. e ripresa da P. C. Marani, in Il Museo della Certosa di Pavia. Catalogo generale, a cura di B. Fabjan e P. C. Marani, Firenze, 1992, pp. 171172 e G. Giacomelli Vedovello, ivi, pp. 173-174. Dopo il restauro recentemente ultimato da Luigi Parma, condivido ora la collocazione nei primi anni venti, proposta da Dario Trento (comunicazione riferita da L. Lodi, in Certosa di Pavia, Parma, 2006, pp. 331-332), delle tavole di polittico con Sant’Ambrogio e del San Martino del Museo della Certosa, in precedenza poste anch’esse sul 1514/1515 da Battaglia, op. cit. in questa nota, p. 93 e in Pittura a Pavia, cit., p. 232, e da me (op. cit., alla nota n. 1, p. 66 e Quattrini, op. cit. alla nota n. 55, p. 37). bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 177 Sono vicini alla cappella di San Giuseppe l’affresco di Brera con la Madonna con il Bambino e sant’Anna,91 di provenienza ignota, e la bella Madonna del grappolo d’uva già nella collezione di Angelo Costa a Genova (Fig. 18).92 In quest’ultima l’aquilegia stretta dal Bambino e il cardellino alludono alla Passione, l’uva al vino eucaristico e alla salvezza attraverso il sacrificio di Gesù («Io sono la vite»: Giovanni 15:15) ed è probabile che la committenza sia da cercare nell’ambiente delle confraternite dette del Corpo di Cristo o del Santissimo Sacramento, le cui relazioni con Luini alla stessa epoca sembrerebbero non limitate alla cappella di San Giorgio al Palazzo. Per la loro iconografia sembrano infatti legate a quest’ambito altre due opere databili intorno alla metà degli anni dieci e contraddistinte da un intenso rapporto di scambio con Zenale: la Pietà del Museum of Fine Arts di Houston93 e lo Scherno di Cam di Brera, denso di riferimenti eucaristici e salvifici.94 Alla stessa epoca dovrebbe risalire la Madonna del roseto di Brera95 (Fig. 19), anch’essa da leggere fra Zenale e Bramantino, nella quale il Bambino deriva dagli studi di Leonardo per la Madonna del gatto, mentre la spalliera di rose ricorda soprattutto esempi di area renana, come quelli di Stephan Lochner del Museo Wallraf-Ri- chartz di Colonia e di Martin Schongauer nella chiesa dei Domenicani di Colmar. Sono da porre all’incirca nel periodo 1515/1517 anche il polittico di Sant’Andrea a Maggianico,96 gli affreschi del Louvre staccati nell’Ottocento da un oratorio annesso a una residenza suburbana dei marchesi Litta nel quartiere milanese di Greco e – a giudicare dalle fotografie che lo ritraggono prima dei danni subiti durante la seconda guerra mondiale – quello raffigurante Curio dentato rifiuta i doni dei Sanniti, presumibilmente tolto da quella casa.97 Ricostruendo i passaggi di proprietà Binaghi Olivari è risalita al probabile committente, Giovan Pietro Porro, membro della famiglia che possedeva il fondo nella prima metà del Cinquecento.98 Un’altra testimonianza della fortuna di Luini pittore di dimore aristocratiche negli stessi anni è il grande affresco a chiaroscuro della Pinacoteca del Castello Sforzesco con Ercole e Atlante (Fig. 21), proveniente dalla parete di fondo di Palazzo Landriani a Milano (ora sede dell’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere) e forse avanzo di un ciclo perduto. È uno dei testi che meglio illustrano l’ascendente di Bramantino su Luini e va collocato poco dopo il 1513,99 anno in cui Tommaso Landriani acquistò 91 Entrato a Brera con il legato Oggioni nel 1855, l’affresco è già stato accostato a quelli della cappella di San Giuseppe da Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 145. Cfr. G. B. Sannazzaro, in Pinacoteca di Brera, op. cit. alla nota 17, pp. 320-322, scheda 141, con bibliografia precedente. 92 Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, pp. 76-77 scheda 55; A. Orlando, Angelo Costa e la pittura genovese: per la genesi e la storia di una collezione, in Genova e il collezionismo del Novecento. Studi nel centenario di Angelo Costa (1901-1976), a cura di A. Orlando, Torino, 2001, pp. 151-159, p. 152. 93 La Pietà di Houston è ritenuta di poco anteriore alla cappella di San Giorgio al Palazzo da Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, p. 77 scheda 56, da Mazzini, op. cit. alla nota n. 48, p. 626; L. Cogliati Arano, Andrea Solario, Milano 1965, p. 41; F. R. Shapley, Paintings from the Samuel H. Kress Collection. Italian Schools, xv-xvi Century, Oxford, 1968, p. 140 e Freedberg, op. cit. alla nota n. 43, p. 468, e di poco successiva da Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, p. 344. Per gli aspetti iconografici cfr. C. C. Wilson, Focus on Luini’s Houston Pietà, in Arte Lombarda, xxx, n.s., 1995/1, pp. 39-42; Ead., Italian Paintings xiv-xvi Centuries in the Museum of Fine Arts, Houston, Londra 1996, pp. 300-302 scheda 29, con datazione agli anni 1515/1520. 94 Quattrini, op. cit. alla nota n. 55, cui rimando anche per la bibliografia. 95 Tradizionalmente ritenuta proveniente dalla Certosa di Pavia, la Madonna del roseto prima di essere acquistata per Brera nel 1825 da Francesco I d’Austria presso l’antiquario monzese Giuseppe Bianchi si trovava presso casa Bellingeri a Pavia. Cfr. D. Vicini, I leonardeschi nelle collezioni civiche di Pavia, in I leonardeschi a Milano. Fortuna e collezionismo, atti del Convegno (Milano 1991) a cura di M. T. Fiorio e P. C. Marani, Milano, 1993, pp. 235-252, che ipotizza che in origine l’opera appartenesse al distrutto oratorio pavese di Santa Maria della Rosa. Ritenuta tarda da P. Gauthiez, Notes sur Bernardino Luini. Deuxième article, in Gazette des Beaux Arts, xli, 1899, 22, pp. 89-197, p. 114, essa è stata collocata intorno alla metà degli anni venti da Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 535; Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, pp. 34, 102-103 cat. 126; Freedberg, op. cit. alla nota n. 43, cit., p. 320; Natale, op. cit. alla nota n. 87, p. 92 e Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, p. 356. M. T. Binaghi Olivari, in Disegni e dipinti leonardeschi dalle collezioni milanesi, catalogo della mostra (Milano 1987-1988), Milano 1987, p. 143 vedendo nel quadro influssi di Raffaello, Sodoma e Baldassarre Peruzzi ha supposto che Luini l’abbia dipinto sul 1508, dopo un viaggio a Roma molto precoce. P. C. Marani, in Pinacoteca di Brera, op. cit. alla nota 17, pp. 193-195 scheda 119, rilevando la derivazione dagli studi di Leonardo per la Madonna del gatto, ha pensato a un’opera giovanile, poi (Luini Bernardino, cit., p. 513) a una datazione fra primo e secondo decennio, notando l’influsso di Zenale e le somiglianze con il ciclo di San Giorgio al Palazzo; anche S. Bandera, La Madonna del roseto della Pinacoteca di Brera in un dipinto di Bernardino Luini, Lions Club Milano al Cenacolo Vinciano 2000 ha ritenuta la tavola successiva alla Madonna di Chiaravalle del 1512. 96 Questa proposta di Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, pp. 24-25, cui sembra pensare anche Marani, op. cit. alla nota n. 15, p. 513, posticipa di qualche anno la datazione del polittico rispetto al 1511/1512 proposta da F. Moro, Il polittico di Maggianico e gli esordi di Bernardino Luini, in Archivi di Lecco, ix, 1986, 1, pp. 129-171, seguito da Quattrini, op. cit., alla nota n. 1, p. 66; Ead., op. cit. alla nota n. 55, p. 33. 97 Cfr. J. Habert, S. Loire, C. Scailliérez, D. Thiébaut, Catalogue des peintures italiennes du musée du Louvre, a cura di É. FoucaurtWalter, Parigi, 2007, pp. 84-85, con bibliografia precedente. 98 Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, pp. 27-29. 99 Tale datazione è sostenuta da Suida, op. cit. alla nota n. 66, pp. 143, 220; Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, p. 106 scheda 137; M. T. Fiorio in Disegni e dipinti, op. cit. alla nota n. 95, p. 146 scheda 76; Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, pp. 332-333; F. 178 cristina quattrini Fig. 18. Bernardino Luini, Madonna del grappolo d’uva, Genova, collezione privata. Frangi in Pittura a Milano, op.cit. alla nota n. 2, p. 229; Agosti, op. cit. alla nota n. 27, p. 226. Bertini, op. cit. alla nota n. 50, p. 43 anticipa l’affresco al primo decennio, G.B. Sannazzaro, in Museo d’arte antica del Castello Sforzesco. Pinacoteca. Tomo I , Milano, 1997, pp. 329-331 scheda 225 lo pone intorno al 1524, N. Forti Grazzini, L’arazzo fer- rarese, Milano 1982, p. 92 nota 96 e S. Leydi, Sub umbra imperialis aquilae. Immagine del potere e consenso politico nella Milano di Carlo V, Firenze 1999, p. 148 nota 124 sul 1520. Per l’iconografia, tratta dalla Bibliotheca Storica di Diodoro Siculo, cfr. Forti Grazzini, op. cit. in questa nota, p. 92 nota 96. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 179 Fig. 19. Bernardino Luini, Madonna del roseto, Milano, Pinacoteca di Brera. la casa dalla famiglia Bossi e ne intraprese la ristrutturazione, forse affidandola a Cesariano. L’edificio, che secondo una fonte seicentesca avrebbe vantato bellissimi busti di marmo antichi, conserva tuttora un ambiente al piano terreno con affreschi raffiguranti scene di storia romana e segni zodiacali, riferiti 180 cristina quattrini Fig. 20. Bramantino, Madonna col Bambino e santi, Firenze, Galleria Nazionale degli Uffizi. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 181 Fig. 21. Bernardino Luini, Ercole e Atlante, Milano, Pinacoteca Civica del Castello Sforzesco. recentemente a Niccolò Appiani.100 Tommaso apparteneva a una grande famiglia di tradizione sforze- sca. Giureconsulto nel 1497, condottiero al servizio del re di Napoli, di Alessandro VI, di Venezia e di 100 Nel 1539 Tommaso Landriani, poco prima di morire, incaricò di affrescare la propria cappella in San Dionigi Niccolò Appiani, al quale gli affreschi della Sala del Centenario di Palazzo Landriani sono attribuiti in via ipotetica da M. Rossi, Cesariano in Duomo, in Cesariano e il classicismo di primo Cinquecento, Atti del Seminario di Studi (Varen- na 1994) a cura di M. L. Gatti Perer e A. Rovetta, Milano, 1996, pp. 4566, pp. 47-48, che li ritiene posteriori a un incendio che colpì l’edificio nel 1526, da Agosti, op. cit. alla nota n. 8, p. 128 nota 3, da Sacchi, op. cit. alla nota n. 5, i, p. 193. 182 cristina quattrini Fig. 22. Bernardino Luini, Madonna con il Bambino, i santi Gerolamo, Domenico, Antonio da Padova, Agostino e il cardinale Scaramuccia Trivulzio. Como, Cattedrale. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 183 Firenze,101 nel 1518 era decurione del consiglio generale del sestiere di Porta Nuova nel 1518 e nel 1519 membro dell’ufficio di provvisione.102 Il fratello Luchino, commendatario di Sant’Antonio a Piacenza avrebbe portato a Milano da Roma statue antiche; la nipote Angela, figlia del fratello Maffeo, sposò Francesco Melzi.103 La figura più interessante per i rapporti con gli ambienti artistici sembrerebbe però il fratello Maffeo, presente nella Fabbrica del Duomo come deputato per la Porta Orientale negli anni 1509, 1510, 1515, 1516, 1519 e come membro dei Dodici di Provvisione nel 1520 e nel 1529, e inoltre rappresentante del Luogo Pio delle Quattro Marie nel 1524.104 Segue a breve la cappella di San Giorgio al Palazzo la solenne pala di San Gerolamo del Duomo di Como (Fig. 22), ricondotta qualche anno fa da Maria Teresa Binaghi Olivari alla committenza di Scaramuccia Trivulzio, vescovo della città fra il 1507 e l’otto gennaio del 1518, che vi è ritratto in abito cardinalizio, particolare che rende possibile circoscrivere la commissione fra l’investitura avvenuta nel luglio 1517 e la conclusione del mandato.105 Questo prestigioso incarico è preceduto dal contratto del 20 ottobre del 1516106 con l’arciprete di Santa Maria del Tiglio a Gravedona, Antonio Curtoni, per un polittico che probabilmente non fu realizzato, poiché entro il novembre seguente il committente fu assassinato.107 Nessuno dei lavori considerati finora presenta tracce significative di incontri con la cultura centroitaliana e nemmeno quell’accentuarsi di elementi leonardeschi che si riscontra nelle opere degli anni venti. Questa fase stilistica si interrompe dopo l’ancona di Como ed è probabile che Bernardino Luini sia andato a Roma poco dopo averla eseguita. La prima opera datata successiva, l’affresco del 1521 di Santa Maria di Brera a Milano (Fig. 32) raffigurante l’Eterno benedicente, la Vergine con il Bambino, i Santi Antonio Abate e Barbara e un angelo musico,108 riflette la visione di opere di Raffaello. I riferimenti al Sanzio e ai suoi incisori compariranno sul tramezzo di San Maurizio al Monastero Maggiore fra la fine degli anni dieci e i primi anni venti109 e diverranno espliciti con quelli a Michelangelo negli affreschi della cappella Maggiore di Santa Maria dei Miracoli a Saronno, del 1525, probabilmente anche per effetto del ritorno di Cesare da Sesto a Milano nel 1519.110 101 M. F. Sansovino, Origine e fatti delle famiglie illustri d’Italia, Venezia, 1670, p. 90. 102 A. Salomoni, Memorie storico-diplomatiche degli Ambasciatori, Incaricati d’affari, Corrispondenti e Delegati, che la città di Milano inviò a diversi suoi principi dal 1500 al 1796, Milano, 1806, ed. anastatica Milano, 1975, pp. 16-17; F. Calvi, Famiglie notabili milanesi, 4 voll., Milano, 18751885, iii, s.p. 103 F. Ciceri, Epistolae, ms., s.d. [seconda metà del xvi secolo}, Milano, Biblioteca Trivulziana, cod. 756, f. 41; cfr. R. Sacchi, op. cit. alla nota n. 5, i, p. 194. 104 Annali della Fabbrica del Duomo di Milano dall’origine fino al presente pubblicati a cura della sua amministrazione, 9 voll., Milano 18771885, iii, pp. 145, 148, 171, 176, 206, 212, 242; R. Schofield, J. Shell, G. Sironi, Giovanni Antonio Amadeo. I documenti, Milano 1988, pp. 438 doc. 1181, 528 doc. 1490; 534 doc. 1509. Si trova il nome di Maffeo Landriani in atti che riguardano Giovanni Stefano Scotti e Giovan Francesco Niguarda (pagamento per la pittura della copertura dell’altare dell’albero e la doratura della trave cui è appeso il crocifisso nel 1509), Cristoforo Lombardi (autorizzato dalla Fabbrica nel 1515 a ultimare il monumento a Lancino Curzio in San Marco), Paolo Solari, figlio di Cristoforo (pagamento nel 1515), Cristoforo Lombardi, Antonio Porro e Ambrogio Ferrari (pagamento per una piramide a guglia nel 1519), Zenale (commissione del modello del Duomo nel 1519) e Pietro da Velate (pagamento per «[…] aptatura […]» della vetrata di san Giorgio nel 1519). 105 M. T. Binaghi Olivari, I vescovi Trivulzio e il Duomo di Como, in Le arti a Como durante i vescovi Trivuzio, atti del Convegno, Como 1998 (Como 1996), pp. 11-19, 15-19. 106 Archivio di Stato di Milano, Fondo Notarile, notaio Giovanni Antonio Taegi, fasc. 5339, documento pubblicato da J. Shell, Bernardino Luini’s lost altarpiece for the Church of S. Vincenzo at Gravedona, in Arte Lombarda, xxiv, n.s. 1989, 90/91, pp. 189-191; Pini, Sironi, op. cit. alla nota n. 13, ii, pp. 42-43. La carpenteria avrebbe dovuto essere ese- guita da Francesco de’ Donati e dorata da Alessandro da Vaprio. Il miniatore Gerolamo Taegio avrebbe dovuto compiere la stima del lavoro ultimato. 107 L’omicidio fu perpetrato per vendetta dal soldato di ventura Giovanni da Brenzio il cui padre Antonio, brigante e partigiano dei Grigioni, sarebbe stato ucciso su istigazione di Gian Giacomo Trivulzio, come narra B. Giovio, Historiae patriae libri duo, Biblioteca Civica di Como, ms. 8.i.21, s.d., ed. consultata Como 1982, p. 134. 108 Per un’ipotesi sulla committenza di questo affresco, diviso in due frammenti e ora in deposito da Brera al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica “Leonardo da Vinci” di Milano, cfr. Ceriana, Quattrini, op. cit. alla nota n. 78, pp. 33-38. 109 Per Luini a San Maurizio P. C. Marani, Gli affreschi di Bernardino Luini in San Maurizio tra circoli letterari, tradizione lombarda e classicismo centro-italiano, in Bernardino Luini e la pittura del Rinascimento a Milano. Gli affreschi di San Maurizio al Monastero Maggiore, a cura di S. Bandera e M. T. Fiorio, Milano, pp. 53-77; D. Trento, Alessandro e Ippolita Bentivoglio in San Maurizio, ivi, pp. 37-44; Id., Alessandro Bentivoglio, Bernardino Luini e la sua scuola in San Maurizio al Monastero Maggiore, in Ricerche di Storia dell’Arte, XXV, 2000, 77, pp. 61-83; Sacchi, op. cit. alla nota n. 5, I, pp. 328-355; Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, pp. 25-26. 110 Cfr. Quattrini, op. cit. alla nota n. 16, pp. 37-39; Ead., Tangenze centroitaliane nella pittura del ducato di Milano al tempo di Bernardino Ferrari, in Viglevanum, xvi, 2006, marzo, pp. 34-57, pp. 47-49. Un secondo viaggio a Roma nel 1523/1524, a ridosso di questa impresa, è ipotizzato da P. C. Marani, Pittura e decorazione dalle origini fino al 1534. Giorgio da Saronno, Alberto da Lodi, Bernardino Luini e, Cesare Magni, in Il Santuario della Beata Vergine dei Miracoli di Saronno, a cura di M. L. Gatti Perer, Milano, pp. 144-169, pp. 154 e 183 nota 38; Id., op. cit. alla nota n. 109, p. 62. 184 cristina quattrini Il viaggio romano è spesso evocato per un’impresa di Bernardino Luini dalla datazione incerta: la decorazione di palazzo Rabia a Milano, che doveva comprendere molte stanze, un vestibolo dove figurazioni a chiaroscuro del Laocoonte e di altre statue antiche erano ancora visibili ai primi dell’Ottocento,111 una cappella dedicata al culto della Vergine e dei Sette Dormienti di Efeso, la facciata e il cortile con tre ordini di logge. La perdita della gran parte delle pitture e il distacco delle poche superstiti avvenne dopo il 1786, quando il Luogo Pio di Santa Corona, che si era insediato nel palazzo nel 1577, dopo un ultimo ampliamento nel 1781 si trasferì all’Ospedale Maggiore. L’edificio venne destinato ad uso privato e subì successive modifiche che ne compromisero l’aspetto originario. All’inizio dell’Ottocento nell’albergo della Croce di Malta, che occupava una parte dello stabile, si vedevano ancora le Storie di Europa ora alla Gemäldegalerie di Berlino112 (Figg. 25, 27-29); poco dopo Carlo Morbio riferiva che Giovan Battista Silva le aveva fatte staccare dalla stanza al piano superiore nella quale si trovavano e le aveva trasferite nel vestibolo della propria casa nello stesso stabile, insieme ad altri lacerti di soggetto imprecisato che riferiva in parte alla bottega di Bernardino e in parte al figlio Aurelio.113 In quel momento le scene raffiguranti Europa e le compagne raccolgono fiori ed Europa e il toro si dirigono verso Creta con un corteo di divinità marine furono divise in due e ridotte di dimensioni: le si vede ancora intere nelle incisioni di Gaetano Zancon.114 Nel 1845 nove frammenti delle Storie di Europa furono acquistati dal Kupferstichkabinett di Berlino, poi passarono al Kaiser Friederich Museum. Una sorte analoga ebbero i due brani di vedute architettoniche offerte nel 1911 da un abitante del palazzo, Franco Bordini, all’Ambrosiana e i tre frammenti con teste della Pinacoteca Civica del Castello Sforzesco, donati nel 1865 dalla contessa Lidia Attendolo Bolognini e già appartenuti ad Andrea Appiani, per i quali iscrizioni sul retro attestano la provenienza dal cortile.115 Non è invece documentata la provenienza dalla ex casa Rabia delle nove Storie di Cefalo e Procri della National Gallery di Washington (Figg. 23, 24), entrate a far parte in data imprecisata della collezione di Michele Cavaleri, passate nel 1874 al Museo di Enrico Cernuschi a Parigi e in seguito nelle raccolte Kann e Duveen,116 e del cosiddetto Silenzio del Louvre, già di proprietà Vallardi a Milano e His de la Salle a Parigi.117 È disperso un affresco staccato con San Rocco su sfondo architettonico e più grande del naturale che intorno al 1865 si trovava in un ambiente divenuto la scuderia del dottor Marco Palletta, allora proprietario dell’immobile, e che alla stessa epoca fu acquistato da Giuseppe Baslini, restautato e trasportato su tela da Giuseppe Bertini e venduto per sedicimila lire a Gerolamo Napoleone Bonaparte.118 Per finire provengono forse dal medesimo complesso anche due frammenti con le teste di una giovane donna e di un personaggio con elmo già nella collezione Cologna.119 Questa rovina consumata in breve tempo ha ridotto a pochi lacerti uno dei più celebri capolavori di Bernardino Luini. Nel Cinquecento inoltrato casa Rabia era ancora molto rinomata, tanto da essere 111 Tutte le stanze e il cortile cinto da colonne su due lati sono detti affrescati da Luini da Torre, op. cit., alla nota n. 32, p. 138. Il vestibolo affrescato è menzionato come da poco distrutto da G. Zancon, Galleria inedita raccolta da privati gabinetti milanesi, Milano 1812, s.p. 112 Zancon, op. cit. alla nota n. 111, con le incisioni degli affreschi; G. B. Carta, Nouvelle description de la ville de Milan, Milano, 1819, p. 201. 113 C. Morbio, Cenni storici e descrizione delle pitture di Bernardino Luini rappresentanti il ratto d’Europa possedute dal vv. Gio. Battista Silva abitante nella Piazza di San Sepolcro n. 3176, ms., s.d., Milano, Biblioteca Ambrosiana, miscellanea R. 185 Inf. 114 Zancon, op. cit. alla nota n. 111; Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, pp. 169-171. 115 Sannazzaro, op. cit. alla nota n. 99, pp. 331-332 schede 226-228 116 Per questo motivo Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, pp. 35-38, suppone che le Storie di Cefalo e Procri vengano da un vicino palazzo di via San Maurilio, di proprietà fra il 1514/1515 e il 1521 di Giovan Angelo Selvatico, altro nobile milanese cultore di architettu- ra ricordato da Cesariano, che nel 1520 ne aveva fatto trasformare il cortile da Cristoforo Solari. L’ipotesi parte dalla testimonianza di De Pagave, op. cit. alla nota n. 12, ff. 305-310, che alla fine del Settecento segnalava nel vestibolo della casa, all’epoca dei conti Bossi, pitture di Luini di tema imprecisato. In mancanza di elementi più stringenti che permettano di legare gli affreschi di Washington a qesto edificio, si preferisce qui continuare a riferirli a casa Rabia. Potrebbero essere state fra gli affreschi che Morbio, op. cit. alla nota 113, segnalava in casa Silva riferendoli alla bottega e non dicendone il soggetto, o fra le pitture cui fa cenno P. Canetta, Storia del Pio Istituto di Santa Corona di Milano, Milano, 1883, pp. 7-20 riferendo che secondo alcuni un tale Carisio, residente nel complesso nel 1778, le avrebbe vendute all’estero. 117 J. Habert, S. Loire, C. Scailliérez, D. Thiébaut, op. cit. alla nota n. 97, p. 85. 118 Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 173. 119 F. Wittgens, Alcune opere della collezione Cologna in Milano, in L’Arte, xxxii, 1929, n. 1, pp. 210-222, pp. 218-219. Gli affreschi del palazzo di Gerolamo Rabia bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 23. Bottega di Bernardino Luini, Cefalo punito da Diana, Washington, National Gallery of Art, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano. 185 186 cristina quattrini Fig. 24. Bottega di Bernardino Luini, La disperazione di Cefalo, Washington, National Gallery of Art, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 187 Fig. 25. Bernardino Luini, Europa in mare sul toro, Berlino, Gemäldegalerie, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano. fra le pochissime opere di Luini menzionate da Giorgio Vasari nell’edizione del 1568 delle Vite. Vasari, reduce da un soggiorno a Milano due anni prima ospite di Leone Leoni, tratta in realtà del nostro pittore molto sbrigativamente, nominandolo in margine alla biografie di Boccaccino e Lorenzetto e di Garofalo e Girolamo da Carpi e accenna così al palazzo: «i[…] dipinse già in Milano vicino a San Sepolcro la casa del signor Gian Francesco Rabbia, cioè la facciata, le logge, sale e camere facendovi molte Trasformazioni et altre favole […]».120 La di- mora, in realtà, non appartenne mai a Giovan Francesco Rabia, di un diverso ramo della famiglia, ma a Gerolamo, il patrizio appassionato di ‘scienza vitruviana’ ben noto a Cesariano, che lo descrive «[…] amicissimo dei francesi […]» ed «[…] egregio e di magnificenza come uno Lucullo […]» e ne ricorda le splendide «[…] fabrice […]», ossia la Pelucca, dove 120 Vasari, op. cit. alla nota n.7, iv p. 312 per casa Rabia e v, p. 435 per gli affreschi di San Maurizio al Monastero Maggiore e di Santa Maria dei Miracoli a Saronno. 188 cristina quattrini Fig. 26. Agostino Busti detto il Bambaia, Apostolo, Milano, Musei Civici del Castello Sforzesco, dalla tomba di Gaston de Foix in Santa Marta. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 27. Bernardino Luini, Corteo di divinità marine, Berlino, Gemäldegalerie, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano. 189 190 cristina quattrini Fig. 28. Bernardino Luini, Europa in mare e una fanciulla, Berlino, Gemäldegalerie, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento 191 Fig. 29. Bernardino Luini, Europa consolata da Venere e Imeneo, Berlino, Gemäldegalerie, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano. verosimilmente Luini lavorò sul 1510/1512, e la residenza urbana.121 Gerolamo Rabia era un intellettuale in vista nella Milano di primo Cinquecento. Lancino Curzio († 1515) gli dedicò tre oscuri epigrammi, stampati postumi nel 1521;122 i suoi interessi letterari e le sue belle residenze sono ancora evocati in una lettera dell’umanista Francesco Ciceri (Lugano 1521Milano 1596), scritta forse nel penultimo decennio del secolo, che fa riferimento alla casa di Milano decorata dal «pittore di nobilissima arte».123 121 Vitruvio, op. cit., alla nota n. 10, f. cxr. 122 Lancinus Curtius, Lancini Curtii Epigrammaton libri decem, Milano, Rocco e Ambrogio de Valle, 1521. Per Lancino Curzio cfr. D. Isella, Lo sperimentalismo dialettale di Lancino Curzio e compagni, in In ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, Milano, 1979, pp. 146-179, ripubblicato in D. Isella, Lombardia stravagante. Testi e studi dal Quattrocento al Seicento e per i suoi rapporti con gli artisti Agosti, op. cit. alla nota n. 7, pp. 120-122; Id., Scrittori che parlano di artisti, tra Quattro e Cinquecento in Lombardia, in B. Agosti, G. Agosti, C. B. Strhelke, M. Tanzi, Quattro pezzi lombardi (per Maria Teresa Binaghi), Brescia, 1998, pp. 57-60. 123 F. Ciceri, Epistolae, ms., s.d., Milano, Biblioteca Trivulziana, cod. 756, ff. 25v-26v. La lettera in questione è pubblicata in in Francisci Cicereri epistolarum libri xii et orationes quatuor. M. Maphaei filii epistolarum liber singularis et aliorum varia quae omnia ex mss. codicibus nunc primum in luce prodent adiectis illustrationibus et Francisci vita cura et studio D. Pompei Casati, 2 voll., Milano, 1782. Un tentativo di identificare i testi della biblioteca di Gerolamo Rabia è stato fato da G. Ferri Piccaluga, Il sincretismo religioso e culturale nell’età dei Della Rovere: la pittura “profana” in Lombardia tra Quattrocento e Cinquecento, in Sisto IV e Giulio II mecenati e promotori di cultura, atti del Convegno internazionale di Studi a c. di S. Bottaro, A. Dagnino e C. Rotondi, Savona, 1989 (Savona 1985), pp. 140-141. 192 cristina quattrini Qualcosa dei gusti letterari di Gerolamo si può capire dai soggetti degli affreschi delle sue case, molto meno eterodossi di quanto si sia voluto credere.124 Il fortunatissimo Ovidio Metamorphoseos vulgare di Gerolamo Bonsignori, versione in volgare di Ovidio non sempre fedele, e le xilografie dell’edizione a stampa del 1490 sono utilizzati per alcuni soggetti mitologici della Pelucca e per le Storie di Europa.125 La fonte delle Storie di Cefalo e Procri è stata individuata da Irvin Lavin126 nel dramma Cefalo di Niccolò da Correggio, il quale alla fine del Quattrocento aveva lungamente soggiornato alla corte sforzesca ed era certo noto agli ambienti letterari e cortigiani milanesi. Della famiglia di Gerolamo sappiamo che il padre Aloisio, dal quale egli ereditò la Pelucca nel 1506,127 fu membro dei Dodici di Provvisione negli anni 1469 e 1475 e deputato dell’Ospedale Maggiore nel 1471, fece parte del Luogo Pio della Rosa e fu tra i fondatori della chiesa domenicana di Santa Maria della Rosa nel 1480 e delle Scuole Taverna nel 1492.128 Il fratello maggiore Giacomo risulta in rapporto con la Fabbrica del Duomo fin dal 1507, quando l’Amadeo compì la stima di una lapide da lui richiesta,129 poi come deputato per la Porta Ticinese fra il 1508 e il 1510 e in seguito come tesoriere.130 Il 20 ottobre 1510 prese parte alla commissione degli stalli del coro della Cattedrale insieme ai nobili Marco Antonio Dugnani e Francesco Corio, a Leonardo da Vinci, a Giovanni Antonio Amadeo, ad Andrea Fusina e a Cristoforo Solari detto il Gobbo.131 Proprio quest’ultimo, morto nella peste del 1524 al vertice di una fama che scavalcava i confini dello stato di Milano,132 era l’architetto di palazzo Rabia. Lo si sa grazie a una delle lapidi che nel Settecento ancora si vedevano nei basamenti delle semicolonne del portico trasformato nella farmacia dei confratelli di Santa Corona, dove presumibilmente erano state murate in seguito ai rimaneggiamenti della casa, e dove furono viste e trascritte da Giuseppe Allegranza.133 Alla fine dell’Ottocento Vincenzo Forcella po- 124 Si veda la letteratura legata alla cabala e alle presunte origini sefardite della famiglia Rabia proposta da Ferri Piccaluga, loc. cit. alla nota n. 123; Ead., Bernardino Luini tra Milano e Saronno nella cultura milanese del Cinquecento, in Arte religione, comunità nell’Italia Rinascimentale e barocca, Atti del convegno di studi in occasione del v centenario di fondazione del Santuario della Beata Vergine de Miracoli di Saronno (1498-1998) (Saronno 1998) a cura di L. Saccardo, Milano, 2000, pp. 140154, pp. 152-154. 125 Cfr. per la Pelucca Quattrini, op. cit. alla nota n. 16, pp. 25-44. In precedenza una lettura degli affreschi mitologici della Pelucca in relazione a un carme di Lorenzo il Magnifico dedicato al mito di Amore e Psiche è stata proposta da G. Mulazzani, Temi profani in Luini: gli affreschi per Gerolamo Rabia, in Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini, catalogo della mostra (Luino), Cinisello Balsamo, 1975, pp. 2947, pp. 35-38, mentre K. Windt, Kunst unter Fremdherrschaft. Bernardino Luinis Bei, Parigi 1849.trag zur Profanmalerei in der Lombardei zu Zeiter der französischen Beisetzung, Berlino, 1994, ha rilevato corrispondenze con l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. 126 I. Lavin, Cephalus and Procris. Trasformations of an Ovidian Myth, in Journal of the Warburg and Courtald Institutes, xvii, 1954, pp. 260-286, 366-372. Per Niccolò da Correggio P. Farenga, Correggio (Correggio Visconti) Niccolò Postumo, in DBI, 29, Roma, 1983, pp. 466-474: S. Cavicchioli, Le Metamorfosi di Psiche. L’iconografia della favola di Apuleio, Venezia, 2002, pp. 55-64. Per la sua attività di ideatore di programmi iconografici V. Farinella, L’immagine del nuovo duca: le prime commissioni di Alfonso I d’Este e l’avvio dello “studio dei marmi” di Antonio Lombardo, in Tullio Lombardo scultore e architetto nella Venezia del Rinascimento, atti del convegno di studi (Venezia 2006) a cura di M. Ceriana, Verona, 2007, pp. 291-319, 309-311. Cefalo fu rappresentato la prima volta a Ferrara nel 1487, per le nozze di Lucrezia d’Este e Annibale Bentivoglio, la prima edizione a stampa uscì a Venezia presso Manfrino Bono da Monferrato nel 1507. 127 Archivio di Stato di Milano, Fondo Notarile, notaio Stefano Cardano, faldoni 2064 e 2065, documenti pubblicati da Binaghi Olivari, in op. cit. alla nota n. 17, pp. 267-268; Ead., Gerolamo Rabia, Luini e la Pelucca: documenti inediti, in Gli affreschi di Sesto San Giovanni. Cicli decorativi nelle ville del territorio, Milano, 1988, pp. 45-51; Ead., Il giardino di Gerolamo Rabia nella villa Pelucca a Sesto San Giovanni, in Giardini e parchi di Lombardia dal restauro al progetto, atti della giornata di studio (Cinisello Balsamo 2000) a cura di G. Guerci, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 59-67. 128 G. Gattico, Descrizione succinta e vera delle cose spettanti alla chiesa e al Convento di Santa Maria delle Grazie e di Santa Maria della Rosa, e suo luogo, et altre loro adherenze in Milano dell’ordine de’ Predicatori, ms., Milano, 1638, edizione consultata Milano, Ente Raccolta Vinciana, 2004, p. 84; M. Gazzini, Scuola, libri e cultura nelle confraternite milanesi fra tardo medioevo e prima età moderna, in La Bibliofilia, ciii, 2001, 3, pp. 215-261. 129 Archivio della Fabbrica del Duomo, Giornale di cassa 1507, n. 86, f. 6v, pubblicato in Schofield, Shell, Sironi, op. cit. alla nota n. 104, pp. 393-394. Più avanti, divenuto tesoriere, Giacomo Rabia dà ordine di effettuare un pagamento al lapicida Andrea Candiano per un lavoro stimato da Amadeo: Archivio della Fabbrica Del Duomo, Liber mandatorum 1509-11, n. 701, f. 48r, pubblicato in Schofield, Shell, Sironi, op. cit. alla nota n. 104, p. 433. 130 Annali, op. cit. alla nota n. 104, iii-iv e Archivio della Fabbrica del Duomo, Giornale di cassa 1507, n. 86, f. 6v, documenti pubblicati in R. Schofield, J. Shell, G. Sironi, Giovanni Antonio Amadeo, cit., pp. 393-394; 431, 433. 131 Annali, op. cit. alla nota n. 104, pubblicato anche in Schofield, Shell, Sironi, op. cit. alla nota n. 104, p. 440 e in Leonardo da Vinci. I documenti e le testimonianze contemporanee, a cura di E. Villata con presentazione di P. C. Marani, «Raccolta Vinciana», Milano, 1999, p. 236. 132 G. Agosti, La fama di Cristoforo Solari, in Prospettiva, 46, 1986, pp. 57-65; Id., op. cit. alla nota n. 7, pp. 83, 112, 121, 173-174; 177; Id., Su Mantegna I. La storia dell’arte libera la testa, Milano 2005, pp. 389, 425 nota 131; A. Markham Schulz, Cristoforo Solari at Venice: Facts and Suppositions, in Prospettiva, nn. 53-56, 1988-1989, pp. 309-316; B. Jestaz, Les rapports des Français avec l’art et les artists lombarda: quelques traces, in Louis XII en milanais. xii colloque international d’études humanistes, a cura di P. Contamine e J. Guillaume, Paris, 2003 (Paris 1998), pp. 293298; S. Zanuso, Cristoforo Solari tra Milano e Venezia, n Nuovi Studi, v, 2000, 8, pp. 17-34; M. T. Binaghi Olivari, Cristoforo Solari: notizie da Vigevano, in Arte e storia di Lombardia, cit., pp. 216-223; C. R. Morscheck Jr., Grazioso Sironi and the unfinished Sforza Monument for Santa Maria delle Grazie, ivi, pp. 227-242. 133 G. Allegranza, lettera a Pompeo Casati in Francisci Ciceri epistolarum libri, op. cit. alla nota n. 123, ii, pp. 287-294. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 30. Andrea Fusina, Maddalena, Milano, Museo del Duomo. 193 194 cristina quattrini té osservarne solo alcune abbandonate in un giardino adiacente, mentre delle altre si erano perse le tracce. I testi, non del tutto comprensibili nelle trascrizioni di Allegranza e Forcella, erano stati composti dallo stesso Gerolamo Rabia. Tre celebravano la magnificenza di «Ieronimus Arabus» e la bellezza della sua dimora, una era dedicata a Priapo custode degli orti, una ai piaceri della vita, una riguardava un sacello dedicato alla Vergine e ai Sette Dormienti di Efeso, altre due ricordavano rispettivamente Solari, paragonato a Dedalo, e il defunto Giacomo, invocato come lare protettore.134 Probabilmente proprio grazie al fratello Gerolamo si poté permettere il Gobbo, che era architetto del Duomo dal 1501 e poteva essere ingaggiato da altri solo con il benestare dei fabbricieri. La decorazione di casa Rabia è legata al termine ante quem della scomparsa di Cristoforo Solari nel 1524 e apparentemente al termine post quem di quella di Giacomo Rabia, che nel 1506 aveva ereditato una casa presso la chiesa del Santo Sepolcro destinatagli dal testamento del padre nel 1500 e che nel 1519, morendo senza figli, lasciò una casa nella stessa area a Gerolamo.135 A ripercorrere per quanto si riesce la storia del palazzo, quest’ultimo termine non risulta però vincolante e si può proporre per gli affreschi una datazione agli anni 1517/1520, in anticipo rispetto a quella al principio del decennio seguente generalmente accolta.136 Un primo indizio importante, ma poi poco considerato, fu segnalato da Luca Beltrami che pure poneva gli affreschi in apertura degli anni venti.137 Il Fondo Fagnani della Biblioteca Ambrosiana, una raccolta di attestati di nobiltà delle famiglie milanesi risalente al 1575, contiene la testimonianza dell’ottantacinquenne Giovanni Antonio da Fossate, che dichiara di avere assistito in gioventù alla costruzione del palazzo di Girolamo «[…] circa il 1516 […]» e ne ricordava il successivo acquisto da parte di Domenico Sauli, nel 1531.138 Altre notizie rilevanti si trovano nei libri mastri della confraternita, in parte pubblicati nella Storia del Pio Istituto di Santa Corona pubblicata da Pietro Canetta nel 1883. Nel 1577 il Luogo Pio di Santa Corona traslocò nell’ex palazzo Rabia dalla sua sede più antica nella stessa piazza San Sepolcro, della quale rimane la cappella con l’Incoronazione di spine affrescata dallo stesso Luini fra il 1521 e il 1522 ora inglobata nell’Ambrosiana. Il devoto sodalizio aveva acquistato l’edificio e il complesso dei corpi di fabbrica annessi dai fratelli Ambrogio e Camillo Rho.139 L’anno seguente la casa fu oggetto di migliorie fra le quali l’adattamento del portico a farmacia, mentre la vecchia sede fu affittata e poi venduta nel 1584 agli oblati di Sant’Ambrogio. Nel 1581 Pietro e Aurelio Luini furono pagati per pitture nell’oratorio, fra le quali «[…] li ritratti delli signori Deputati Vecchi quali erano pincti nell’Oratorio vecchio nella casa dove si faceva la Spezieria vecchia di S. Corona […]», probabilmente una replica dell’affresco di Bernardino nell’antica sede; fra il 1600 e il 1601 lavorarono nel Pio Luogo anche Camillo Landriani detto il Duchino e Drago Cornelio, autori di dipinti nella sala del capitolo. Il complesso acquistato dai confratelli di Santa Corona nel 1577 è così descritto in un atto del notaio Ambrogio Spanzotta del 20 settembre di quell’anno:140 134 Forcella, op. cit. alla nota n. 30, v, pp. 48-56. 135 Archivio di Stato di Milano, Fondo finanze, Confische, P.A., cart. 2428, documenti resi noti da Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 17, p. 267. 136 L. Beltrami, op. cit., pp. 160-174; Freedberg, op. cit. alla nota n. 43, pp. 468-469 (che ritiene gli affreschi di casa Rabia coevi a quelli della Pelucca e li taccia tutti di arcaismo); M. T. Binaghi Olivari, Regesto, in Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini, catalogo della mostra (Luino), Cinisello Balsamo, 1975, pp. 77-85, p. 83, limitatamente alle Storie di Europa, Windt, op. cit. alla nota n. 125; M. Rossi, Trasformazioni dell’immagine urbana e decorazione pittorica fra Quattrocento e Cinquecento, in Milano ritrovata. L’asse di via Torino, catalogo della mostra a cura di M. L. Gatti Perer, Milano, 1986, pp. 157-177, pp. 167, 168-172; F. Moro, Pittura in Brianza e in Valsassina dall’Alto Medioevo al Neoclassicismo, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1993, p. 262; Gemäldegalerie Berlin. Gesamtverzeichnis, Berlino, 1996, p. 73 (con errata provenienza dalla Pelucca). 137 Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 164. 138 R. Fagnani, Carte e documenti riguardanti famiglie diverse, Milano, Biblioteca Ambrosiana, T 160 Sup., vol. xiii, f. 42. L’unica fonte che menziona il palazzo all’epoca della proprietà Sauli, B. Taegio, La villa, Milano, 1559, p. 105, non parla degli affreschi, ma solo del giardino fra i più belli di Milano. 139 P. Canetta, Storia del Pio Istituto di Santa Corona in Milano, Milano , 1883, pp. 7-20. Le pitture della casa Rho sono ricordate come di Bramante da I. Valerio, Cose degne d’esser viste et considerate nella grande città di Milano, ms., s.d. [prima metà del xvii secolo?], in P. Mazzucchelli, Miscellanea, Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. S. 117 Sup., ff. 250-257, f. 257r. La stessa fonte (f. 256v) ricorda anche Luini nel Luogo Pio di Santa Corona, ma non è chiaro se si riferisca alla prima sede o all’ex casa Rabia. 140 Archivio di Stato di Milano, Fondo Notarile,cartella 10733. notaio Ambrogio Spanzotta, 20 settembre 1577, trascritto da Canetta, op. cit. alla nota n. 139, p. 15. Nominative de sedimine uno sito in porta ticinense parrocchia Sancti Sebastiani Mediolani quod est cum suis benefitiis, cameris, salis, curiis, porticibus, viridario, canepis, stallis, portis, tribus putheis, necessarii et aliis suis locis juribus etc. cui toto sedimini coheret ab una parte plathea Sancti bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 31. Cristoforo Solari, Sant’Elena, Milano, Museo del Duomo. 195 196 cristina quattrini Sepulcri et Alia parte monacorum Sancti Ambrosii Majoris Mediolani, et in parte d. Hercoli Fontanae ab alia haeredum q.m. spect. Domini Francisci de Ello, et ab alia in parte bona et domus Sancti Sebastiani et in parte mediante accessio. Non penso che, come credeva Canetta, l’immobile acquistato da Santa Corona nel 1577 fosse la proprietà venduta da Gerolamo Rabia nel 1520. Sebbene non si riesca a ricostruire puntualmente tutti i passaggi delle case dei Rabia e delle proprietà di Santa Corona, si deduce che sul lato di piazza San Sepolcro attualmente occupato dal palazzo costruito dal Savoldi si trovavano più edifici. È probabile che il sedime venduto da Gerolamo Rabia nel 1520 fosse quello ereditato da Giacomo l’anno precedente, ma non il palazzo in cui egli abitava, già edificato da Cristoforo Solari secondo Ambrogio da Fossate intorno al 1516 e almeno in parte già dipinto da Bernardino Luini. Il quadro è reso ancora più complicato dall’esistenza di un altro immobile sullo stesso lato della piazza, annesso alla prima sede del Luogo Pio di Santa Corona nel 1540, come recita una lapide murata sulla facciata del palazzo costruito nel 1875 dall’architetto Angelo Savoldi per Angelo Palletta, realizzata presumibilmente in occasione dell’ampliamento del 1781-«christo redemptore/sanctae coronae sa- cro nomine dicata societas/hic pavperibvs maximeqve aegrotantibvs/opportvna svbsidia liberaliter elargitvr/mdxl/laxitas et amplitvdo/aedibvs adivncta/mdcclxxxi» – e dal fatto che nel 1661 il Luogo Pio di Santa Corona aveva comprato dai da Ello – gli armaroli Missaglia – una casa con l’intento mai realizzato di costruire una chiesa. Collocare approssimativamente la decorazione di casa Rabia nel periodo 1517/1520 non contraddice lo stile degli affreschi e in particolare delle Storie di Europa, le più significative riguardo alla cultura di Luini in quel momento. Il dislivello fra le Storie di Europa e le Storie di Cefalo e Procri, più rigide e sommarie, è motivo di un imbarazzo che percorre la letteratura sul’artista e che talvolta si è tentato di risolvere immaginando uno scarto cronologico in parallelo a quanto sarebbe avvenuto alla Pelucca.141 È però ragionevole riferire le Storie di Cefalo e Procri alla bottega, data anche la vastità che dovevano avere le superfici affrescate della casa di Gerolamo Rabia. Il classicismo dei frammenti berlinesi è stato visto come conseguenza del soggiorno a Roma, dove Luini avrebbe potuto vedere Raffaello e Baldassarre Peruzzi nel cantiere della Farnesina.142 Dato il poco che resta di un’impresa di così vaste proporzioni, non si può scartare del tutto la possibilità che il viaggio sia avvenuto mentre essa era in corso, ma le Storie di Europa, ancora molto bramantinesche, eludono confronti diretti con modelli romani. Già negli affreschi della Pelucca alcune figure facevano pensare alla conoscenza di opere di Antonio Lombardo forse, avvenuta durante il viaggio in Veneto. Nelle Storie di Europa si legge un riflesso della scultura milanese coeva. I veli leggeri e trasparenti, talvolta gonfiati dal vento, sembrano volere tradurre gli effetti ottenuti sul marmo dal Bambaia; è possibile, del resto, che Luini fosse all’opera nella distrutta chiesa di Santa Marta proprio mentre nel 1517 questi 141 Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, pp. 27-29, 113-116 scheda 154 collocò l’inizio della decorazione di casa Rabia intorno al 1520 e ipotizzò postulare che gli affreschi di Washington – con le eccezioni della Preghiera di Procri a Diana e di Procri trafitta – fossero stati dipinti per primi e seguiti a breve dagli affreschi mitologici della Pelucca, ponendo invece quelli di Berlino a conclusione di entrambi i cicli per Gerolamo Rabia e dopo le Storie Esodo della villa suburbana. L’idea di una distanza temporale fra il gruppo di Washington e quello berlinese è stata in seguito ripresa da Mazzini, op. cit. alla nota n. 48, p. 629 da Mulazzani, op. cit. alla nota n. 125, pp. 40-42 e da L. Tognoli Bardin, in Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini, catalogo della mostra (Luino), Cinisello Balsamo, 1975, pp. 89-91, che hanno datato i secondi intorno al 1523, e da F. R. Shapley, National Gallery of Art, Washington. Catalogue of the Italian Paintings, 2 voll., Washin- gton 1979, i, pp. 285-288, che ha posto le Storie di Cefalo e Procri prima del 1520 e le Storie di Europa sul 1522. G. Bora, I leonardeschi e il disegno, in I leonardeschi. L’eredità di Leonardo in Lombardia, Milano 1998, pp. 93120, pp. 111-115 e Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, p. 332 ha ipotizzato una distanza di circa un ventennio fra le due serie, collocando la seconda nei primi anni venti dopo il viaggio di Luini a Roma. Infine Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, pp. 34-38 le ha datate entrambe agli anni 1519/1523, dopo il soggiorno romano, supponendo però che le Storie di Cefalo e Procri, imputabili alla bottega, vengano dal palazzo di Giovan Angelo Selvatico (cfr. nota 115) 142 Cfr. Bora, I leonardeschi, op. cit. alla nota n. 141, p. 115; Ceriana, Quattrini, op. cit. alla nota n. 78, p. 37, con datazione di entrambi i gruppi intorno al 1519/1520; Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, pp. 34-38. La proprietà che il 5 luglio 1520 Gerolamo Rabia aveva venduto ai fratelli Giovanni Paolo e Giovanni Filippo Roma è così definita in un atto del notaio Freganeschi già all’Archivio di Stato di Milano, trascritto da Beltrami e ora non più esistente: De sedimine uno sito in P.T.P.S. Sebastiani Mediolani cui toto sedimini coheret ab una parte strata et platea Sancti Sepulcri, ab alia illorum de Ello in parte et in parte hospitii puthei, ab alia parte haeredes q.m d.omini de Brone in parte et in parte quoddam accessum seu steciolum inter ecclesia Sancti Sebastiani. bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento Fig. 32. Bernardino Luini, Madonna col Bambino, i santi Antonio abate e Barbara e un angelo musico, Milano, Pinacoteca di Brera (in deposito presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica “Leonardo da Vinci”), da Santa Maria di Brera, 1521. 197 198 cristina quattrini vi iniziava a lavorare alla tomba di Gaston de Foix (Fig. 26).143 Le teste pettinate ‘alla greca’ ricordano, ad esempio, la Maddalena del Duomo di Andrea Fusina, insieme al Giuda Maccabeo documentato al 1497 sole statue note di uno degli scultori più importanti di Milano al passaggio tra Quattro e Cinquecento (Fig. 30).144 Le imponenti fanciulle assomigliano alle statue di Cristoforo Solari, in particolare a quelle più tarde come la Sant’Elena (anteriore al 1514) (Fig. 32) e la Giuditta del Duomo145 ed evocano i commenti di Pomponio Gaurico sulle membra erculee delle statue del Gobbo.146 L’affinità con il classicismo degli scultori è una delle chiavi della modernità di Bernardino Luini, che nel secondo decennio del Cinquecento gli valse il favore di committenti colti e aristocratici e lo fece diventare uno dei pittori più importanti di Milano. 143 La portata e i tempi dell’intervento di Luini in Santa Marta, del quale parlano le antiche guide a partire da Torre, op. cit., alla nota n. 32, pp. 123-124 ma sopravvivono pochi frammenti a Brera, sono difficili da determinare. Si può solo contare sul termine post quem della consacrazione dell’edificio appena riedificato nel 1516 e sull’indicazione fornita dalla Nota di quelli sepolti nella nostra chiesa esteriore, redatta fino al 1517 dalla tesoriera e cancelliera delle agostiniane e proseguita fino al xviii secolo da altre monache (Biblioteca Ambrosiana, ms. A. 198 Suss.), di numerose sepolture avvenute nella chiesa claustrale e in quella esterna nel 1514, quando la ricostruzione doveva dunque essere a buon punto. Cfr. F. Frangi, in Pinacoteca di Brera, op. cit. alla nota 17, pp. 224-234 schede 130a-g; Quattrini, op. cit., alla nota n. 1, p. 65; per l’ambiente delle agostiniane di Santa Marta cfr. Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 15, in part. pp. 56-60. Per la tomba di Gaston de Foix cfr. Agosti, op. cit. alla nota n. 8, pp. 136-169 e p. 149; S. Leydi, «Con pompa más triunfante que fúnebre». I funerali milanesi di Gaston de Foix (25 aprile 1512), in Milano e Luigi XII. Ricerche sul primo dominio francese in Lombardia (1499-1512), a cura di L. Arcangeli, Milano 2002, pp. 70-73, Jestaz, op. cit. alla nota 132, pp. 280-281. M. T. Fiorio, “Una archa molto superba”: il monumento di Gaston de Foix, in Lombardia rinascimentale. Arte e architettura, a cura di M. T. Fiorio e V. Terraroli, Milano, 2003, pp. 237-245. Per Bambaia si veda inoltre V. Zani, Il Bambaia. Madonna Taccioli, catalogo della mostra, Trinity Fine Art s.r.l., Milano, 2000. 144 Per una revisione della figura di Andrea Fusina Zani, op. cit. alla nota n. 29, p. 44. 145 Per questa fase dell’attività di Cristoforo Solari Zanuso, op. cit. alla nota n. 132. La Sant’Elena sembra nota anche a Giovan Francesco Caroto nella Santa Caterina d’Alessandria del Museo di Castelvecchio. 146 P. Gauricus, De sculptura [1504], edizione a cura di A. Chastel e r. Klein, Parigi, 1969, p. 255. Appartiene al periodo considerato in questo articolo anche un’Annunciazione in due pannelli già nella collezione Breadalbane a Taymouth Castle, vicine in particolare al polittico di Maggianico. La tavola con l’Annunciata, ora in collezione tedesca, è pubblicata come opera di Leonardo da I. ed E. Bubenik, Leonardo da Vinci’s Madonna Immaculata rediscovered, Wolnzach, 2009, volume del quale sono venuta a conoscenza al momento di correggere le bozze del mio contributo. LA COMMITTENZA DEL CARDINALE GIOVANNI GARZIA MELLINI A ROMA: GIOVANNI DA SAN GIOVANNI, AGOSTINO TASSI E VALENTIN DE BOULOGNE Fausto Nicolai a fonte più importante per ricostruire la vita del cardinale Giovanni Garzia Mellini (1562-1629) è rappresentata dalla biografia che il suo segretario personale, Decio Memmolo, diede alle stampe nel 1644, a pochi lustri dalla morte del prelato.1 Vi si celebrano con toni encomiastici le azioni di carità e magnificenza, quest’ultima spesso legata alla promozione e al sostegno di importanti imprese artistiche: «se egli fusse stato men liberale, ò più ricco – scrive il segretario –; si sarebbe fatto scorgere anco magnifico: e per quel poco che poté ne diede qualche saggio nelle fabriche, che fece nella Chiesa de Santi Quattro coronati suo titolo; nella cappella della sua Fameglia nella chiesa del Popolo; e nelle proprie case…certamente egli haveva quello che è proprio del magnifico di pensare, non quanto si habbia a spendere; ma come l’opera debba riuscire nobile e grata».2 Il biografo elenca le varie opere finanziate dal Mellini senza alcun riferimento agli artisti coinvolti, limitandosi a sottolineare l’alto profilo del personaggio, più interessato alla buona riuscita dei lavori che preoccupato degli oneri per realizzarli. Più di recente nuovi studi hanno approfondito l’attività di committente e di collezionista del Mellini con aggiunte significative su tempi e modi delle imprese promosse.3 La scoperta di nuovi documenti permette ora una migliore conoscenza di questi aspetti con particolare riferimento ai cicli pittorici della tribuna della chiesa dei Ss. Quattro Coronati, della cappella di famiglia a S. Maria del Popolo, del palazzo avito a piazza Navona e della villa a Monte Mario, commissionati dal Mellini e da altri componenti del casato durante il terzo decennio del Seicento. Inoltre, grazie alla lettura comparata di alcuni inventari è stato possibile individuare nelle raccolte del cardinale opere di autori celebri, alcune delle quali identificabili con certezza. La tribuna e la calotta absidale della chiesa dei Ss. Quattro Coronati a Roma, come noto, furono affrescate con storie dei santi omonimi da Giovanni da San Giovanni su richiesta del cardinale Giovanni Garzia Mellini titolare della chiesa dal 1606 al 1627.4 Un’iscrizione rinvenuta lungo l’arco del catino absidale in occasione dei restauri dei primi del Novecento ricorda che l’opera fu eseguita dal Mannozzi nel 1623.5 Anna Banti suggeriva per questi affreschi una cronologia prossima al ciclo di San Carlo Borromeo nella cappella Baccini a S. Maria dei Monti, opera che secondo la studiosa Mannozzi realizzò nel 1623, appena dopo i lavori per il Mellini.6 Una lettera pubblicata da Orbaan nel 1927 e ripresa dalla studiosa ricorda che il 16 gennaio 1623 l’ambasciatore mediceo a Roma Francesco Niccolini chiese aiuto alla Granduchessa Cristina di Lorena per trovare in tempi rapidi un collaboratore da affiancare al Mannozzi nella conduzione degli affreschi ai Ss. Quattro.7 Pur man- 1 D. Memmolo, Vita dell’Eminentissimo Signor Cardinale Gio. Garzia Mellino Romano, Roma, 1644. 2 Ivi, p. 59. 3 A. Banti, Giovanni da San Giovanni pittore della contraddizione, Firenze, 1977, in part. pp. 15-18, pp. 58-59; S. Neuburger, Zur Apsis der SS. Quattro Coronati in Rom, «Storia dell’Arte», 58, 1986, pp. 207-222; per gli affreschi a S. Maria del Popolo si veda: E. Bentivoglio, S. Valtieri, S. Maria del Popolo, Roma, 1976, p. 86; M. P. Mannini, Alcune lettere inedite e un ciclo pittorico di Giovanni da San Giovanni, «Rivista d’Arte», 38, 1986, p. 192. Per l’inventario dei quadri lasciati in eredità dal cardinale al nipote Urbano Mellini nel 1629 cfr.: F. Nicolai, La collezione di quadri del cardinale Scipione Cobelluzzi. Cavarozzi, Grammatica e Ribera in un inventario inedito del 1626, «Studi Romani», nn. 3- 4, 2004, pp. 440-462, part. 461-462. Sulla raccolta di Pietro Mellini nel 1680 con alcune opere provenienti dall’eredità di Giovanni Garzia si veda: Jorge Fernandez-Santos Ortiz-Iribas, The inventory of Pietro Mellini’s collection at the palazzo del Rosario in 1680, «The Burlington Magazine», 150, 2008, pp. 512-520. 4 G. Moroni, Dizionario di erudizione ecclesiastica, 1857, vol. xlv, p. 141. 5 A. Munoz, Il restauro della chiesa e del chiostro dei SS. Quattro Coronati, Roma, 1914, p. 80: «Gio. de S(anct)o Gio(van)ni Toschano fecit 1623». 6 Banti, op. cit., p. 58. 7 J. A. F. Orbaan, An unknown Giovanni da San Giovanni, «Apollo», iv, 1927, p. 28. L «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 199-206 200 fausto nicolai Fig. 1. Giovanni da San Giovanni, Episodio di conversione, Ss. Quattro Coronati, Roma, 1622-1624. tenendo la medesima datazione (1623 ca.) Suzanne Neuberger, al contrario, collocava l’intervento del Mannozzi alla Madonna dei Monti appena prima di quello dei Ss. Quattro Coronati.8 Per quest’ultimo intervento la Neuberger proponeva come termini cronologici di avvio e conclusione dei lavori, rispettivamente il 16 gennaio 1623, data della lettera inviata dall’ambasciatore Niccolini a Cristina di Lorena, e il 8 Neuburger, op. cit., pp. 207-210. 9 Ivi, pp. 209-210. 10 Carolyn H. Wood, Giovanni da San Giovanni and Innocenzo Tacconi at the Madonna dei Monti, Rome, «The Burlington Magazine», 143, 2001, pp. 11-18. In precedenza già Maria Barbara Guerrieri Borsoi aveva approfondito la vicenda degli affreschi del Mannozzi alla Madonna dei Monti, pubblicando in sintesi gli stessi documenti poi ripresi in forma più estesa dalla Wood. M. B. Guerrieri Borsoi, Un’eredità e i suoi frutti: opere di Giovanni da San Giovanni e Innocenzo Tacconi nella cappella Baccini in Santa Maria dei Monti a Roma, «Paragone», 46, 1995, pp. 115-125. 11 I registri contabili consultati sono conservati tra le carte dell’Archivio Mellini conservato nel palazzo Serlupi-Crescenzi di Roma. Ringrazio il marchese Giovanni Serlupi-Crescenzi per la gentile disponibilità nel concedermi l’accesso alla frequentazione dell’archivio. 12 Archivio Mellini (palazzo Serlupi-Crescenzi Roma, d’ora in poi am), Tomo 91, Entrate e Uscite 1608-1613, s.f., 13 agosto 1622. Il volume riporta i mandati di pagamento effettuati dal cardinale attraverso il banco di Giovanni Rotoli per un periodo di tempo più esteso rispetto a quanto indicato sulla costa, dal 1608 al 1628. periodo settembre-ottobre 1624, quando vennero sistemate a ridosso dell’abside le reliquie dei Ss. Quattro, rinvenute pochi anni prima.9 La recente pubblicazione del contratto per il ciclo di San Carlo datato 10 giugno 1622 sembrava confermare la priorità temporale di questi affreschi, ritenuti la prima commissione romana al pittore toscano e, quindi, precedenti l’attività per il Mellini.10 Il rinvenimento delle carte contabili del cardinale Giovanni Garzia permette ora di datare con precisione le varie imprese decorative di cui fu promotore, a partire dalla decorazione dei Ss. Quattro Coronati commissionata al Mannozzi.11 Il primo pagamento di 30 scudi all’artista «a bon conto delli lavori che fa a Sancti Quattro» è riportato nel libro delle Entrate e Uscite del cardinale in data 13 agosto 1622.12 La registrazione contabile testimonia che Mannozzi nell’agosto del 1622 stava già lavorando in quel cantiere e che, trattandosi di un primo acconto, il contratto per l’opera doveva già essere stato stipulato qualche tempo prima, in modo da dare possibilità al pittore di preparare modelli e attrezzature tecniche necessari all’impresa. I compensi al Mannozzi si susseguono con una certa regolarità fino ai primi di aprile del 1624, data di conclusione del ciclo, contestualmente al termine per la realizzazione delle decorazioni in stucco e pietra dell’altare eseguite dagli scalpellini Daniele Guidotti e Giovanni de Rossi.13 Le nuove carte dimostrano che nell’estate del 1622 Mannozzi entrò in contatto con il cardinale Mellini e che in quello stesso momento furono avviati i lavori nella tribuna dei Ss. Quattro Coronati. Questi dati permettono ora di rivedere la cronologia da assegna13 am, Tomo 91, Entrate e Uscite 1608-1613, 25 gennaio 1623: «Alli 25 di Genaro 1623 si fece mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 20 moneta da pagare a m[astr]o Gio: Pictori a bon conto, sc. 20»; Idem, 6 aprile 1623: «Adi 6 di aprile 1623 facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 30 moneta da pagarsi al Pictore a bon conto, sc. 30»; Idem, 13 settembre 1623: «Alli 13 di sectembre 1623 facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 100 si moneta da pagarsi a M[astr]o Gio. Pictori a bon conto»; Idem, 20 ottobre 1623: «Adi 20 di ottobre 1623, facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 100 di moneta da pagarsi al Pictore a bon conto di lavori che fa a Sancti Quattro»; Idem, 12 gennaio 1624: «Adi 16 genaro 1624, si fece un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 50 moneta da pagarsi al Pictore a bon conto di quello che ha da havere»; Idem, 5 febbraio 1624: «Alli 5 di febraro facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 30 da pagarsi al Pictore a bon conto»; Idem, 5 marzo 1624: «Adi 5 marzo facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 25 da pagarsi al Pictore a bon conto»; Idem, 2 aprile 1624: «Adi 2 aprile 1624 facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 15 da pagarsi al Pictore a bon conto»; Idem, 30 maggio 1624: «Adi 30 magio 1624 facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 43 moneta da pagarsi a mastro Daniele Guidottti e Giovanni de Rossi scarpellini per intiero pagamento di tutto quello ch’hanno fatto a Sancti Quattro». la committenza del cardinale: giovanni garzia mellini a roma 201 Fig. 2. Giovanni da San Giovanni, Temperanza, S. Maria del Popolo, Roma, 1627. re alle pitture della cappella di S. Carlo Borromeo nella chiesa della Madonna dei Monti, opera commissionata al Mannozzi dall’Arciconfraternita di S. Giuseppe dei Catecumeni e Neofiti e per la quale l’artista toscano aveva siglato il relativo contratto il 10 giugno del 1622. Secondo il contratto Mannozzi si impegnava a concludere l’opera entro il novembre successivo per un ammontare di 120 scudi, divisi in un primo acconto di 20 scudi, un secondo di altri 30 da versare entro agosto e il resto man mano che l’impresa veniva svolta fino al saldo finale.14 Se si esclude l’acconto iniziale di 20 scudi «per le pitture da farsi» sborsato contestualmente alla stipula del contratto il 10 giugno 1622, gli altri pagamenti al pittore riportati nei registri dell’Arciconfraternita datano rispettivamente 10 gennaio 1623 (trenta scudi) e marzo 1626 (settanta scudi).15 La sequenza dei compensi, come già evidenziato da Maria Barbara Guerrieri, non sembra rispettare le clausole contrattuali e lascia, quindi, supporre, in presenza delle nuove carte d’archivio qui riportate, che Mannozzi dopo la stipula del contratto nel giugno del 1622 abbia poi abbandonato l’opera non ancora iniziata o appena approntata per dedicarsi esclusivamente al ciclo dei Ss. Quattro finanziato da Giovanni Garzia Mellini.16 Pur considerando la possibilità che il pittore abbia potuto lavorare contemporaneamente in entrambi i cantieri, i pagamenti a suo nome registrati nella contabilità del cardinale Mellini provano, tuttavia, che il ciclo dei Ss. Quattro Coronati venne concluso nella primavera del 1624, mentre per la decorazione della cappella di San Carlo i tempi di realizzazione si protrassero, probabilmente, fino al 1626. I nuovi dati a disposizione dimostrano che gli affreschi ai Ss. Quattro furono la prima opera romana del Mannozzi e che solo in seguito l’artista portò a termine i lavori alla Madonna dei Monti, secondo una cronologia che su base stilistica aveva già proposto Anna Banti.17 Non è ancora chiaro il contesto all’interno del quale Mannozzi mosse i suoi primi passi romani né per quali vie entrò in rapporti con l’Arciconfraternita di S. Giuseppe dei Catecumeni e 14 Wood, op. cit., p. 18. 15 Guerrieri Borsoi, op. cit., p. 118; Wood, op. cit., p. 13 n. 16. 16 Nel leggere i documenti relativi alla decorazione pittorica della cappella di San Carlo Maria Barbara Guerrieri rilevava alcune incongruenze tra i contenuti del contratto del giugno 1622 e i relativi compensi per l’opera, distanti dal contratto al punto da offrire due possibili ipotesi, da un lato, che la confraternita a corto di denari abbia temporeggiato dilazionando i pagamenti e lasciando protrarre i lavori, dall’altro, che Mannozzi nel frattempo si fosse impegnato in altre imprese che lo indussero ad allungare i tempi di consegna dell’opera. La Guerrieri quindi notava la sequenza incongrua dei pagamenti rispetto ad una ipotetica campagna di lavori coerente e continua. Cfr. Guerrieri Borsoi, op. cit., p. 118. 17 Banti, op. cit., pp. 58-59. 202 fausto nicolai Fig. 3. Domenico Barrière e Carlo Rainaldi, Veduta di piazza Navona in occasione della processione di Pasqua, incisione, 1650, (Bibliotheca Hertziana, Max-Planck-Institut fur Kunstgeschichte, Roma, palazzo Mellini è evidenziato dalla linea nera) Neofiti e con il cardinale Mellini. Quest’ultimo era legato da lunga amicizia al cardinale Fabrizio Veralli, protettore dell’Arciconfraternita negli anni in cui furono realizzati gli affreschi della cappella di San Carlo (1622-1626).18 I buoni rapporti tra i due prelati sarebbero confermati sia dalla presenza del ritratto del Veralli tra i quadri posseduti da Giovanni Garzia, sia dalle trattative, poi fallite, per il matrimonio tra Urbano Mellini, nipote del cardinale e Maria Veralli, figlia di Giovan Battista e a sua volta nipote del cardinale Veralli.19 Tuttavia, non sono finora emersi riscontri inequivocabili di un eventuale legame diretto tra il Mellini e l’Arciconfraternita di S. Giuseppe, istituzione assente dall’elenco dei legati disposti da Giovanni Garzia nel proprio testamento.20 Forse, la scelta del Mannozzi da parte del Mellini potrebbe essere stata favorita dalla comune provenienza geografica, dal momento che anche Giovanni Garzia come il pittore era originario di Firenze, città dove nacque nel 1562 durante l’esilio del padre da Roma.21 Giovanni da San Giovanni compare di nuovo nella contabilità del Mellini per l’anno 1627, in particolare a suo nome è registrato un esborso di 130 scudi datato 27 ottobre «per resto e final pagamento di diversi lavori fatti nella nostra cappella di S. Maria del Popolo come anco di qualsivoglia altro lavoro fatto di nostro ordine [Giovanni Garzia] quanto della bo: me: del Sr. Gio Batta Mellino nostro nipote».22 18 Wood, op. cit., p. 11; Guerrieri Borsoi, op. cit., p. 120. 19 Nicolai, op. cit., p. 462. Sul tentativo di matrimonio tra Urbano Mellini e Maria Veralli nel 1632 si veda: Santolini, op. cit., p. 240. 20 Archivio di Stato di Roma, 30 notai capitolini, uff. 31, vol. 125, 4 ottobre 1629, ff. 823-826, 841-844. 21 Giovanni Garzia Mellini nacque a Firenze nel 1562 poiché il padre era esule da Roma. Dopo aver intrapreso la carriera ecclesiastica Giovanni Garzia si riavvicinò a Roma fino a ricoprire incarichi di alto prestigio quali Vicario Generale e Segretario del Supremo Tribunale dell’Inquisizione. Nel conclave del 1623 che portò alla nomina di Ur- bano VIII Barberini, il cardinale Mellini ottenne ben 22 voti, sfiorando il soglio pontificio. Memmolo, op. cit., pp. 32-36. 22 am, Libro dei Mandati, 27 ottobre 1627. Lo stesso pagamento è riportato con una trascrizione diversa e relativa ai soli lavori del Mannozzi nella cappella Mellini a S. Maria del Popolo nel volume siglato Entrate e Uscite 1608-1613, alla medesima data: «Adi 27 ottobre facto mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 130 di moneta da pagarsi a Gio. Mannozzi Pictore per resto di quello che ha fatto alla cappella del Popolo». la committenza del cardinale: giovanni garzia mellini a roma 203 Fig. 4. Valentin de Boulogne, Negazione di San Pietro, Firenze, Fondazione Longhi. A questa data il pittore fiorentino aveva ormai concluso l’altra importante opera commissionata dal cardinale Mellini gli affreschi della cappella di famiglia a S. Maria del Popolo, ricevendone il saldo finale.23 Oltre a fissare un termine preciso per la cronologia delle pitture nella cappella, il documento lascia intendere che Mannozzi lavorò anche per Giovan Battista Mellini, nipote del cardinale e proprietario agli inizi del ’600 della villa a Monte Mario, poi trasformata negli anni ’30 del secolo scorso in osservatorio astronomico.24 Forse, l’artista fiorentino potrebbe aver eseguito quelle «molte pitture moderne buone» ricordate da Giulio Mancini nel suo Viaggio per Roma risalente ai primi anni ’20 del Seicento.25 Le profonde modifiche architettoniche subite dall’edificio nel corso dei secoli non hanno lasciato nulla dell’originaria decorazione seicentesca e le uniche pitture ancora esistenti risalgono al 1915 e al 1935, eseguite rispettivamente da T. Sordini e Giuseppe Boscarino.26 23 L’impresa, come accennato in precedenza, è già ricordata nella biografia del cardinale compilata da Decio Memmolo nel 1644 (Vedi supra). Memmolo, op. cit., p. 59. 24 Sulla villa Mellini a Monte Mario e la trasformazione dell’edificio in osservatorio astronomico si veda: S. Santolini, Due esempi di residenze suburbane sul Monte Mario a Roma: la villa Mellini e i casali Strozzi, in Delizie in villa: il giardino rinascimentale e i suoi committenti, a cura di G. Venturi, Firenze, 2008, pp. 229-253; M. Carisi, C. Moraschini, La Villa dei Mellini sul meridiano di Monte Mario, «Capitolium», n.s., iv, 8, maggio 2006, pp. 41-44. 25 G. Mancini, Viaggio per Roma, 1622ca., ed. a cura di A. Marucchi e L. Salerno, Roma, 1956-1957, f. 1. Tra le voci di spesa riportate nella contabilità del cardinale per l’anno 1623 risulta al 20 ottobre un pagamento di 100 scudi versato al «Sr. Giulio Medico per sua provisione per l’anno 1623». Forse si tratta di Giulio Mancini, medico personale di Paolo V Borghese e che potrebbe aver svolto la sua attività anche per il cardinale Mellini dopo la morte del pontefice (1621). 26 P. Hoffmann, Le ville di Roma, Roma, 2001, pp. 555-557; M. Carisi, C. Moraschini, op. cit., pp. 41-44. I soggetti di entrambi i cicli pittorici oggi presenti sono legati al tema moderno dell’aviazione militare e, pertanto, non sono riconducibili in nessun modo ad eventuali immagini preesistenti. 204 fausto nicolai Fig. 5. Ricevuta firmata da Agostino Tassi e Fausto Tucci per i perduti affreschi nella villa di Giovan Battista Mellini a Monte Mario (Archivio Serlupi-Crescenzi, Roma). Una ricevuta firmata da Agostino Tassi conservata tra le carte contabili di Casa Mellini rivela che l’artista e un suo collaboratore Fausto Tucci realizzarono nel 1625 alcune imprecisate «pitture» nella villa di Giovan Battista Mellini a Monte Mario, opere delle quali oggi non rimane più traccia.27 Qualche anno più tardi nel 1629 il nome del Tassi torna di nuovo nei registri contabili del cardinale Giovanni Garzia per alcuni lavori eseguiti nel palazzo a piazza Navona. Al pittore e al suo collaboratore, l’indoratore Fausto Tucci, furono elargiti diversi compensi nel luglio di quell’anno, prima di un saldo finale di 500 scudi a carico degli eredi del cardinale da estinguere dopo la morte di quest’ultimo (ottobre 1629).28 Il conto da saldare andava a coprire le spese «per la pittura e indoratura dei soffitti di tutte le stanze» eseguite dal Tassi e dal Tucci su richiesta del cardinale.29 Non si conoscono i soggetti di questi affreschi presumibilmente andati distrutti in seguito all’inglobamento di palazzo Mellini nel cantiere della nuova chiesa di S. Agnese a partire dal 1652, data della cessione dell’edificio da Urbano e Mario Mellini eredi di Giovanni Garzia a Camillo Pamphilj.30 Per quanto riguarda l’attività collezionistica svolta dal cardinale Mellini notizie interessanti possono essere tratte dall’inventario dei quadri appartenuti a Pietro Mellini nel 1680, recentemente pubblicato da 27 am, Ricevute del SR. Gio. Garzia Mellino, 1586-1629, Tomo 9a, 7 agosto 1625: «Adi 7 agosto 1625. Noi infrascritti avemo ricevuto dall’Ill.mo Sig.re Gian Battista Milino scudi sessanta di moneta quali sono a bon conto delle pitture che si fanno alla vignia di detto Sig.re. Io Agostino Tassi mano p(ro)p(ria). Io Fausto Tucci o ricevuto come di sopra mano propria». Nel ricostruire la vicenda della villa Mellini a Monte Mario Santolini non ricorda Giovan Battista Mellini tra i proprietari durante i primi decenni del xvii secolo. Lo studioso rileva che nel 1632 la villa rientrava tra i beni ereditari di Urbano Mellini (Santolini, op. cit., p. 240). Come provato da alcuni documenti, all’inizio del Seicento la villa apparteneva a Giovan Battista prima di passare nel 1627 al cardinale Giovanni Garzia e da questi nel 1629 al nipote Urbano. La villa e i mobili in essa contenuti sono citati nell’inventario post mortem di Giovanni Battista stilato a favore del cardinale Giovanni Garzia nel 1627: asr, 30 notai capitolini, uff. 31, vol. 118, ff. 774-788. La villa è citata come «casino del Sr. Gio. Batta alla Croce di Monte Mario», f. 782. La cronologia di questi affreschi, completamente perduti, non sembra collegabile alla testimonianza del Mancini (1621ca.) sulle “buone pitture” presenti nell’edificio, considerando la differenza temporale che separa la fonte dalla realizzazione dei cicli pittorici (1625). 28 am, Libro dei Mandati, luglio 1629: «Sig.re Herede di Gio. Rotoli piacerà pagare ad Agostino Tassi Pittore e Fausto Tucci indoratore scudi 50 moneta sono a bon conto delli lavori che fanno per servitio del nostro Palazzo, dandone debito che con loro ricevuta saranno ben pagati. Di Casa li 10 di Luglio 1629… Sig.re Herede di Gio. Rotoli piacerà pagare ad Agostino Tassi Pittore e Fausto Tucci indoratore scudi 50 moneta sono a bon conto delli lavori che fanno per servitio del nostro Palazzo, dandone debito che con loro ricevuta saranno ben pagati. Di Casa li 15 di Luglio 1629… Sig.re Herede di Gio. Rotoli piacerà pagare ad Agostino Tassi Pittore e Fausto Tucci indoratore scudi 50 moneta sono a bon conto delli lavori che fanno per servitio del nostro Palazzo, dandone debito che con loro ricevuta saranno ben pagati. Di Casa li 21 di Luglio 1629». 29 am, Ricevute del SR. Gio. Garzia Mellino, 1586-1629, Tomo 9a, f. 648: «Denari pagati dalla Bo: Me: del Sig.r Cardinale Mellini come da suoi Heredi a diversi muratori e altri per la fabrica della casa a Piazza Navona come costa per saldi e ricevute. A mastro Niccolò Valle muratore scudi 3419, A mastro Viano Lucatelli falegname scudi 1174, A mastro Daniele Scarpellino scudi 230, A mastro Luca Ferraro scudi 582, al Sig.r Agostino Tassi e Fausto Tucci per pittura et indoratura de soffitti di tutte le stanza scudi 500». Le spese complessive da saldare a carico degli eredi del cardinale per la costruzione e sistemazione del palazzo di famiglia a piazza Navona ammontano a 6815 scudi. 30 Sulla vicenda edilizia della chiesa di S. Agnese a Piazza Navona si veda: G. Simonetta, L. Gigli, G. Marchetti, Sant’Agnese in Agone a Piazza Navona: bellezza, proporzione, armonia nelle Fabbriche Pamphilj, Roma, 2003. (il riferimento all’acquisto e all’inglobamento di palazzo Mellini p. 82); J. Garms, Quellen aus dem Archiv Doria-Pamphilj zur Kunsttätigkeit in Rom unter Innocenz X, Wien, 1972. Garms pubblica una trascrizione parziale dell’atto di cessione del palazzo dai Mellini ai Pamphilj nel 1652, pp. 33 n. 104, 41 n. 144, 67 n. 246. Una copia dell’atto di vendita del palazzo è conservata anche nel tomo vi dell’Archivio Mellini ai fogli 420-432 in data 6 agosto 1652. Nell’atto è chiaramente espressa da parte degli acquirenti la volontà di costruire di nuovo sul palazzo per ingrandire la chiesa di S. Agnese: «il palazzo dei SS.ri Mellini…oggi vendutoci ad effetto di fabricar di nuovo et ampliare la suddetta chiesa di S. Agnese… (f. 442)». la committenza del cardinale: giovanni garzia mellini a roma 205 Jorge Fernandez-Santos Ortiz-Iribas. Alcune opere riportate nell’elenco provengono direttamente dall’eredità di Giovanni Garzia per il tramite del nipote Urbano Mellini, zio di Pietro, morto a Roma nel 1667.31 Ho avuto già modo di presentare la lista dei quadri presenti nell’eredità di Giovanni Garzia ma la mancanza di riferimenti agli autori aveva impedito in quell’occasione una più approfondita riflessione sugli interessi artistici del cardinale, al di là dell’evidente favore nei confronti dei tipici temi della scuola caravaggesca.32 Le informazioni tradite dal nuovo inventario del 1680 permettono ora di precisare meglio questa tendenza, in particolare grazie alla presenza di opere di Bartolomeo Manfredi e Valentin de Boulogne, provenienti dalla raccolta di Giovanni Garzia. Di Manfredi sono ricordate due tele, una con I Ss. Pietro e Paolo, l’altra raffigurante David con la testa di Golia, di Valentin è invece citata una Negazione di San Pietro. I tre quadri compaiono nell’inventario post mortem del cardinale Mellini (1629) con la sola indicazione del soggetto, prima di passare in eredità ad Urbano e da questi nel 1667 al nipote Pietro.33 La puntuale descrizione delle opere riportata nel documento del 1680 con dettagli precisi sulla composizione e sulle misure permette di identificare con certezza la Negazione di San Pietro riferita al Valentin con il dipinto oggi in Fondazione Roberto Longhi a Firenze.34 La grande tela (174,5 × 241 cm) segnalata da Roberto Longhi nel 1943 in raccolta privata milanese poi pervenuta nella raccolta del critico intorno ai primi anni Sessanta del secolo scorso corrisponde esattamente per dimensioni e descrizione del soggetto al quadro originariamente appartenuto al cardinale Millini: «S. Pietro, che si scalda al foco, scoperto dall’Ancella, che stà ad una tauola assieme con cinque soldati, che giocano a dadi Stà in tela di p[alm]i dieci di larghezza, e sette d’altezza Orig[ina]le eccellentiss[im]o di Monsù Valentino».35 Il dipinto del celebre caravaggista francese, databile tra la fine del secondo e l’inizio del terzo decennio del Seicento, forse fu realizzato direttamente per il cardinale Giovanni Garzia o pervenne a quest’ultimo comunque entro il 1629. Nella contabilità del cardinale ancora conservata risalente ai primi decenni del Seicento non sono rintracciabili riferimenti né al dipinto, né al suo autore, condizione che tuttavia non esclude la possibilità di una commissione diretta, magari assolta da un agente incaricato del pagamento. I due dipinti attribuiti al Manfredi, invece, non sembrano corrispondere a nessuna delle opere note del pittore lombardo. Il Trionfo di David ricordato nelle carte Mellini presenta una composizione con la figura del giovane che tiene in mano la testa del gigante e «quattro donzelle, che sonano uarij instrum[en]ti» a grandezza naturale non riscontrabile nel dipinto di analogo soggetto attribuito al Manfredi oggi conservato al Louvre dove le figure femminili sono soltanto due. Un discorso analogo vale per i Ss. Pietro e Paolo ritenuto opera del Manfredi (raccolta privata, Stati Uniti), di dimensioni molto più ridotte rispetto all’esemplare ricordato nella collezione Mellini.36 I dati sin qui raccolti gettano una nuova luce sul mecenatismo del cardinale Giovanni Garzia Mellini e sui suoi rapporti con la scena artistica romana del primo Seicento. I cicli pittorici commissionati a Giovanni da San Giovanni e ad Agostino Tassi, nonché le tele del Valentin e del Manfredi, forse anch’esse eseguite su commissione, testimoniano l’attenzione del Mellini verso le novità offerte dalla cultura figurativa di quegli anni e contribuiscono a far luce su un personaggio rimasto finora ai margini degli studi sul collezionismo romano del Seicento. 31 Vedi n. 3. Urbano Mellini, erede testamentario del cardinale, ricevette i dipinti e a sua volta nel 1667 li lasciò al nipote Mario nell’inventario del quale risultano ancora citati, come confermato più di recente da Jorge Fernadez-Santos Ortiz-Iribas. Cfr. Fernadez-Santos Ortiz-Iribas, op. cit., pp. 513, 519-520. 32 Nicolai, op. cit., pp. 453-454. 33 Nell’inventario dei beni ereditari del cardinale Giovanni Garzia figurano: un «Quadro con S. Pietro e S. Paolo…David con la testa del Gigante Golia…un Quadro grande con San Pietro quando nega con diverse figure». Cfr. Nicolai, op. cit., pp. 461-462. 34 Sul quadro si veda la recente scheda offerta da Mina Gregori nel catalogo Caravaggio e l’Europa, a cura di Luigi Spezzaferro, Milano, 2005, cat. iv.8, con ampia bibliografia precedente. 35 La trascrizione completa dell’inventario Mellini del 1680 è reperibile on-line sul sito: www.burlington.org.uk/ferandezsantosappx. php. 36 N. Hartje, Bartolomeo Manfredi (1582-1622): ein Nachfolger Caravaggios und seine europäische Wirkung; Monographie und Werkverzeichnis, Weimar, 2004, p. 379 con bibliografia precedente. TRADIZIONE ED INTERPRETAZIONE LETTERARIA, MAGI A ED ETICA NELLE RAFFIGURAZIONI DI CIRCE DI GIOVANNI BENEDETTO CASTIGLIONE IL GRECHETTO Piera Ciliberto T ra i personaggi femminili raffigurati da Giovanni Benedetto Castiglione il Grechetto in una delle pose più ricorrenti nelle sue opere pittoriche e grafiche, posti, cioè, a sedere in un ambiente aperto, fra oggetti dalla disposizione casuale al suolo o nella vegetazione incolta, reperti antichi privi di decoro e simboli della vanità, la maga Circe assume preminenza per frequenza di rappresentazione, complessità e coerenza di soluzione, problematiche connesse. Le opere attualmente note del Grechetto dedicate all’incantatrice omerica che abita con le sue ancelle fra i boschi dell’isola di Ea ed esprime i propri poteri trasformando gli esseri umani in animali o mostri1 si situano prevalentemente negli anni Quaranta e Cinquanta del Seicento. La critica infatti data agli anni attorno al 1650 la Circe conservata presso la Galleria degli Uffizi a Firenze;2 allo stesso decennio è stata riferita la tela conservata a New York in collezione privata (Fig. 1);3 all’aprile del 1652 è registrato il pagamento di Ansaldo Pallavicino al Grechetto per il quadro oggi conservato a Genova presso la Galleria Nazionale di Palazzo Spinola di Pellicceria;4 firmati e datati 1653 sono il dipinto di proprietà del Sovrano Ordine Militare di Malta (Fig. 2) e quello di ubicazione ignota, ma già a Genova nella collezione Sanguineti.5 Al quinto decennio o agli inizi di quello successivo si situa l’acquaforte firmata G. Bened. S Castilionus / Genuensis. In Pin, di cui si conservano esemplari relativi a due stati (Fig. 3)6 e che presenta una figura di Circe molto simile a quella del dipinto passato dalla Collezione Robiati ai depositi del Museo Poldi Pezzoli di Milano (Fig. 4).7 Della tela comparsa sul mercato antiquario fiorentino alla fine degli anni Sessanta del Novecento si sono perse le tracce,8 mentre trova ubicazione in collezione privata un dipinto reso noto nell’ultimo decennio, affine alla tela del Sovrano Ordine Militare di Malta e, nella posa ed atteggiarsi della maga, a quella degli Uffizi.9 Altre opere del Grechetto raffiguranti la maga Circe sono note per citazione documentaria. L’inventario dei lasciti di Gerolamo Balbi del 1649 segnala un quadro del Castiglione con la maga Circe e uomini trasformati in pesci; un «quadro piccolo» con Circe fu acquistato da Gio Luca Durazzo nella vendita in pubblica callega dei beni di Giovan Battista Raggio il 22 gennaio 1659,10 mentre fonti più tarde 1 Omero, Odissea, x, 133-574; Ovidio, Metamorfosi, xiv, 242-440; Apollonio Rodio, Argomentiche, libro iv, vv. 659-752. Cfr. inoltre M. Warner, Gli incantesimi di Circe. La fuga di Ulisse e la scelta di Grillo, in «Intersezioni», xvi, 1936, n. 2 agosto, pp. 225-239. 2 L. Lanzi, Storia pittorica della Italia dal risorgimento delle arti fin presso alla fine del secolo xviii , Bassano, 1795-1796, ed. 1809, v, p. 336; M. Chiarini, I quadri della collezione del Principe Ferdinando di Toscana, Paragone, xxvi, 301, marzo 1975, p. 69; S. Meloni Trkulja, in Gli Uffizi. Catalogo generale, a cura di C. Caneva, Firenze, 1979, p. 211; M. Newcome, in Kunst in der Republik Genua 1528-1815, cat. mostra, Frankfurt, 1992, n. 60, p. 131, tav. 61. 3 B. Suida Manning, The Transformation of Circe. The Significance of the Sorceress as Subject in 17th Century Genoese Painting, in Scritti di storia dell’arte in onore di Federico Zeri, Milano, 1984, ii, p. 692; Il genio di G. B. Castiglione il Grechetto, cat. mostra, Genova, 1990, n. 28. 4 P. Boccardo, Per la storia della Quadreria di Palazzo Spinola, in Palazzo Spinola a Pellicceria. Due musei in una dimora storica, QuadPalazzoSpinola, 10, 1987, pp. 63-86. 5 G. Delogu, G. B. Castiglione detto Il Grechetto, Bologna, 1928, pp. 25-26, tav. 22. Una copia settecentesca del dipinto, proveniente dal soppresso Ospedale di Pammatone (1836), è conservata presso il Museo dell’Ospedale di S. Martino a Genova. 6 Un esemplare è conservato a Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 100902, mm. 213 × 301 (inciso), mm. 219 × 308 (lastra). Altri due si trovano a New York, l’uno al Metropolitan Museum of Art, 1980.ii 35.i, l’altro nella Collezione Manning. Cfr. Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 697; G. Dillon, in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3, 1990, n. 89, p. 229, fig. 217 (con bibl. prec.). Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 697, fig. 688, ha considerato preparatorio per l’incisione il disegno conservato conservato a Darmastadt, Hesschisches Landesmuseum, AE 1857. 7 Suida Manning, op. cit. a nota 3, pp. 697-700, fig. 690; G. Albricci, La vera ‘Malinconia’ del Castiglione, QuadConStampe, xvi, 1973, marzo-aprile, pp. 40-43; F. Lamera, Miti, allegorie e tematiche letterarie per la committenza privata, in E. Gavazza, F. Lamera, L. Magnani, La Pittura in Liguria. Il Secondo Seicento, Genova, 1990, p. 176, fig. 211. 8 Albricci, op. cit. a nota 7, p. 43, nota 5. 9 A. Orlando, Anton Maria Vassallo, Genova, 1999, p. 35, fig. 44. 10 F. Lamera, Opere di Gio. Benedetto Castiglione nelle collezioni genovesi del xvii e del xviii secolo, in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3, p. 33 nota 15. «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 207-214 208 piera ciliberto Fig. 1. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe, New York, Collezione privata. attestano la presenza di quadri di analogo soggetto, ed attribuiti sempre al pittore genovese, nella collezione del marchese del Carpio a Madrid nel 1688 e un’altra versione nella raccolta Gonzaga nel 1705, 1707 circa e 1708.11 Nelle opere del Castiglione la figura di Circe mantiene posa e caratteri costanti, è circondata da animali e da oggetti dalla ricca e complessa simbologia e solo in una tela è raffigurata la metamorfosi in atto di un uomo in cinghiale. Non vi è dunque il riferimento ad episodi che possano essere individuati con precisione nella narrazione letteraria – quello più celebre la trasmutazione dei compagni di Ulisse in porci – ma la maga è raffigurata in un momento successivo al compimento dei suoi sortilegi, in posizione sovrastante e dominante sul contesto, ed in atteggiamento che assume due diverse ed opposte connotazioni: di imperturbabile, se non divertito, distacco dagli avvenimenti di cui è stata artefice; di assorta e melanconica meditazione sugli esiti del proprio operato e della sua arte. Anche gli attributi iconografici non subiscono sostanziali variazioni, ma la presenza, o per contro, l’assenza di un elemento in una raffigurazione indica valori specifici conferiti al soggetto, un significato univoco nel suo complesso fatto sfociare tuttavia in problematiche diverse e di moderna attualità. Gli abiti orientaleggianti, dal tessuto pregiato e ricco di preziosi ornamenti di alcune tele – il damasco rosso dei dipinti del 1653 o della Circe già in Collezione Sanguineti12 – completati in molti casi dal turbante piumato con gemme, indicano una collocazione esotica del mito circeo, sulla scia di una tradizione più solida di quella che pone il regno della 11 V. Meroni, Fonti per la storia della pittura, i, Il Grechetto a Mantova, Genova, 1971, p. 108; ii, G.B. Castiglione il Grechetto, Genova, 1973, pp. 38, 39, 41; F. Simonetti, in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3, n. 28, p. 145. 12 A proposito della Circe, al tempo nella Collezione Sanguineti, Delogu, op. cit. a nota 5, p. 26, parla di una figura «in regali vesti, che il genio pittorico del Castiglione ha tessuto con abilità prodigiosa trapungendo d’oro una seta del più bel scarlatto e pieghettando i veli azzurri delle maniche, cinto il capo d’un turbante adorno di piume e di gemme». magia ed etica nelle raffigurazioni di circe di giovanni benedetto castiglione 209 Fig. 2. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe, proprietà Sovrano Ordine Militare di Malta. maga sul territorio laziale13 e che è decisamente prevalente in pittura fin dalla tela eseguita a Ferrara da Dosso Dossi e oggi conservata presso la Galleria Borghese di Roma – un’opera soggetta soltanto nel Novecento all’ampio dibattito interpretativo risolto di volta in volta a favore di soluzioni diverse e nota per tutta l’età moderna come Maga Circe.14 L’aspetto sfarzoso e solenne del personaggio, figlia del dio Sole, trova riscontro nei versi delle Metamorfosi ovidiane, dove è descritta – nelle edizioni di età moderna – al suo apparire ai compagni di Ulisse, seduta «nel modo reale […] vestita de uno vestimento splendidissimo circondata de fino oro»,15 maestosa, cordiale, accogliente e dunque facilmente trionfante sugli ospiti ignari. Ad identificare la sua arte e far intendere i fatti antecedenti, di cui il contesto rimane profondamente segnato, immancabile, è la bacchetta magica che Circe stringe nella mano in tutte le raffigurazioni del Castiglione. La ricorrenza di tale attributo pare motivata soprattutto da ragioni di ordine visivo e di consuetudine inerente la pratica magica, poiché la sua importanza è, in realtà, assai sminuita nelle ampie descrizioni dei sortilegi di Circe presenti nel testo ovidiano, in cui una funzione determinante ai fini della metamorfosi è attribuita alle erbe che la maga fa raccogliere alle sue serve e di cui mostra di conoscere a fondo proprietà ed effetti.16 Se nell’Odissea il filtro servito da Circe agli uomini di Ulisse ha l’unica funzione di far perdere agli eroi la me- 13 Una tradizione meno diffusa situa Ea in Italia, nei pressi di Gaeta e Terracina, sull’attuale Monte Circeo. 14 Cfr. A. Ballarin, Dosso Dossi. La pittura a Ferrara negli anni di Alfonso I, Cittadella (Padova), 1994, scheda n. 372, p. 312, tav. 484; P. Humfrey, scheda n. 12, in Dosso Dossi pittore di corte a Ferrara nel Rinascimento, cat. mostra Ferrara-New York-Los Angeles, 1998-1999, a cura di P. Humfrey, M. Lucco, Ferrara, 1998, pp. 114-117, part. 114. 15 A. Ermans, Ovidio Methamorphoseos Vulgare, s.l., s.d., xiiii, cap. xxi. 16 A questa occupazione sono intente le serve della maga allo sbarco dei compagni di Ulisse sull’isola di Ea, mentre l’attenzione di Circe è volta a selezionare le erbe. Per le variazioni apportate da Ovidio al testo omerico, A. M. Tupet, La magie dans la poésie latine, Paris, 1976, pp. 395-397. 210 piera ciliberto Fig. 3. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe (incisione), Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, n. 100902. moria dei loro affetti e della patria, nelle Metamorfosi gli sono riferite le cause stesse della trasformazione e per tale ragione solo Euriloco, che non ha preso parte al banchetto offerto dalla signora dell’isola, scampa la sorte comune.17 In ambito genovese il momento della preparazione del filtro magico da parte di Circe, seduta al suolo e in atto di mestare il liquido contenuto in un vaso metallico che le sta innanzi, è raffigurato da Gioacchino Assereto nella tela conservata all’Art Institute di Dayton, Ohio, datata generalmente attorno alla metà del terzo decennio del Seicento.18 Tale iconografia tuttavia non sembra portare ad ulteriori sviluppi e rimane prerogativa della cultura e dell’aggiornamento del repertorio figurativo dell’Assereto. Nelle opere del Castiglione il riferimento all’impiego di erbe dalle proprietà magiche è limitato alla presenza della coppa vuota, che ella sfiora con la mano sinistra, sul grembo o sulle ginocchia di Circe. Fanno eccezione l’acquaforte, il dipinto già in Collezione Bacarelli, quelli di Palazzo Spinola di Pellicceria e del Poldi Pezzoli e l’assenza di questo elemento è significativa della maggior forza che la bacchetta ha di qualificare ed alludere alle arti magiche e alle scienze occulte per tradizione, forza ed impatto visivo. È agitando la bacchetta magica che Circe, la cui comparsa al centro della scena è sottolineata da vari accorgimenti ‘scenotecnici’, realizza i suoi prodigi nelle numerose produzioni teatrali dell’età moderna.19 17 Un’altra pianta magica, chiamata moli, è l’antidoto alle pozioni di Circe e rende inoffensivo il colpo di bacchetta da lei inferto ad Ulisse: cfr. Tupet, op. cit. a nota 17, p. 398. 18 Cfr. Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 689, fig. 677; F. R. Pesenti, La pittura in Liguria. Artisti del primo Seicento, Genova, 1986, p. 374, fig. 324; T. Zennaro, Sull’attività giovanile di Gioacchino Assereto, Paragone, 4, 549, nov. 1995, p. 36. 19 Chiara testimonianza rimane per Le Ballet comique de la Royne, tenuto nel 1581 e pubblicato l’anno successivo a Parigi da Ballard, e per il Ballet de Circé chassée de ses Etats, che nel 1627 chiudeva gli spettacoli carnascialeschi organizzati dal duca di Savoia: cfr. J. Rousset, La letteratura dell’età barocca in Francia. Circe e il pavone, Bologna 1985, pp. 22-38; ed anche Jacque Callot 1592-1635, cat. mostra Nancy 1992, Paris, 1992, pp. 194-195. magia ed etica nelle raffigurazioni di circe di giovanni benedetto castiglione 211 Fig. 4. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe, Milano, Museo Poldi Pezzoli. Sono proprio le ammirate testimonianze relative a tali spettacoli, tuttavia, a far emergere con chiarezza l’idea che qualsiasi mirabile accadimento, al di là del ricorso ad uno strumento materiale, è subordinato alla volontà di agire della maga.20 Nella tela della collezione privata di New York21 l’incantatrice solleva appena la sua verga, rimanendo impassibile dinnanzi all’uomo dal capo mutato in cinghiale che si protende energicamente verso di lei con le braccia distese in avanti in un estremo, vano, tentativo di reazione, mentre al ragazzo con il berretto rosso piumato sulla sinistra, atterrito e sgomento, non resta che prendere la via della fuga compiendo un movimento affine, ma in direzione opposta, a quello dell’uomo-cinghiale. In nessun’altra opera il Grechetto ha rappresentato la metamorfosi in atto, ma ha delineato un contesto dal quale emergono con evidenza le tracce dei prodigi di cui esso è stato teatro. Le armature degli eroi che hanno perso il sembiante umano giacciono al suolo insieme a drappi ed armi, alla faretra con le frecce, confuse fra altri oggetti, mentre la massiccia presenza animale non attiene alla narrazione mitologica. Attorno a Circe infatti non compaiono mai i porci in cui furono trasformati gli uomini dell’equipaggio di Ulisse, Pico22 o il mostro marino Scilla – e 20 Tupet, op. cit. a nota 17, p. 395. 21 Due disegni sono in relazione alla tela. Quello conservato a Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, n. 7054S (fig. 5), è privo del busto di Pan e aggiunge un’architettura sullo sfondo: cfr. Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 692; Disegni genovesi dal xvi al xviii secolo, cat. mostra, a cura di M. Newcome Schleier, Firenze, 1989, n. 53, pp. 119-121, fig. 67; L. Tagliaferro, in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3, n. 43, pp. 169-170. Il disegno a Windsor Castle, n. 4067, può essere collegato alla tela per la figura del giovane in atto di fuggire ed è affi- ne al disegno a Stoccolma, Nationalmuseum: cfr. A. Percy, in Giovanni Benedetto Castiglione Master Draughtsman of the Italian Baroque, cat. mostra, a cura di A. Percy, Philadelphia, 1971, n. 71, pp. 98-99; Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 692, figg. 682, 683. 22 La trasformazione in atto di Pico in uccello è raffigurata nel dipinto di Luca Giordano (olio su tela, cm 98 × 128), conservato a Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum, che la critica data agli anni attorno al 1652: cfr. O. Ferrari, G. Scavizzi, Luca Giordano, Napoli, 1966, i, p. 60. 212 piera ciliberto Fig. 5. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe, disegno, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, n. 7054S. non i leoni, lupi ed orsi che, secondo la letteratura classica, accolsero i naufraghi allo sbarco su Ea.23 Prevalgono nettamente gli animali domestici, giovenche e buoi, pecore e capri, conigli e volatili da cortile, tacchini, anatre, galli e galline, accompagnati spesso da cane o gatto, mentre la fauna selvaggia appare in funzione di un ambiente esotico: pavone, tartarughe, scimmia, alce o cerbiatti. Se per alcuni di essi il valore simbolico, connotato in senso morale – di solida ascendenza medievale – è di immediata percezione,24 l’estrema libertà interpretativa del mito sciolta da una stretta aderenza filologica rivela l’influsso di fonti moderne ed appare sminuito il carattere allegorico della grande varietà di bestie raffigurate. Animali in veste di protagonisti compaiono nel dialogo di Giambattista Gelli e animali passati a tale condizione per trasformazione dalla primitiva natura umana sono presenti anche nel Cantus Circaeus di Giordano Bruno. In entrambe le opere la rivisitazione del celebre racconto mitologico è l’occasione per demolire le antiche teorie umanistiche sulla dignità dell’uomo e per un’aspra critica sociale che ha come presupposto il ribaltamento di segno della valutazione e del ruolo del personaggio, le cui trasformazioni acquisiscono – pur nella diversità di impostazione ed intenti – valore e funzione benefica.25 I rapporti tra le raffigurazioni del Castiglione e il testo del Gelli si sono imposti all’attenzione della cri- 23 Leoni e lupi in Omero, Odissea, x, 135; Virgilio, Eneide, vii, 17, e Ovidio, Metamorfosi, xiv, 255 aggiungono gli orsi: cfr. Tupet, op. cit. a nota 17, p. 397. 24 Per il pavone simbolo di vanagloria e lussuria: il Libro della natura degli animali, il Bestiario moralizzato e L’Acerba, in Bestiari medievali, a cura di L. Morini, Torino, 1996, pp. 449-450, 516, 594-595; per la tartaruga sinonimo di lentezza, fisica e intellettiva: C. Ripa, Iconologia overo Descrittione di diverse Imagini cavate dall’antichità, & di propria inventione trovate, et dichiarate da Cesare Ripa perugino, cavaliere de Santi Mauritio, & Lazaro, Roma, L. Facij, 1603, ed. anastatica, a cura di E. Mandowsky, Hildesheim-New York, 1979, p. 78. Il Fisiologo medievale, il Bestiaire di Philippe de Thaün, il Libro della natura degli animali, in Bestiari, cit. supra, pp. 51, 211, 441, interpretano la scimmia come figura del demonio. 25 Cfr. Opere di Giovan Battista Gelli, a cura di I. Senesi, Torino, 1968, Introduzione, pp. 18-22; A. L. De Gaetano, Giambattista Gelli and the Florentine Academy. The rebellion against Latin, Firenze, 1976, pp. 51-54, 164-173. Cfr. M. Ciliberto, Introduzione a Il canto di Circe di Filoteo Gior- magia ed etica nelle raffigurazioni di circe di giovanni benedetto castiglione 213 tica in riferimento all’indicazione contenuta nell’inventario dei beni di Gerolamo Balbi, in cui la descrizione del soggetto del quadro dell’artista genovese è parso chiaro rimando al dialogo di Ulisse con il primo degli undici personaggi incontrati ed interrogati sull’isola di Circe, il pescatore greco Ittaco, ossia l’Ostrica.26 Il clima dominante nell’opera, caratterizzato dalla libertà di agire e dalla coincidenza fra essere e volere dei protagonisti,27 dall’esclusione di qualsiasi inganno e, in apertura, dalla pacata discussione fra Circe ed Ulisse, sembra appartenere ai dipinti di Jan Roos28 e Francesco Castiglione,29 nei quali la donna – stante nel primo quadro, a sedere nel secondo – accostata all’eroe omerico, indica con la bacchetta stretta nella mano destra il gruppo compatto di animali radunato sulla sinistra, in un paesaggio privo di elementi di perturbazione o segnali di un equilibrio ricomposto. Una condizione che si ripropone anche nel quadro, oggi a Palazzo Bianco a Genova, di Sinibaldo Scorza, che ripete la scena con la variante dell’incedere dei due personaggi e di una marcata ‘umanizzazione’ delle bestie, evidente nella reazione alla vista dell’eroe greco.30 Le implicazioni delle opere del Grechetto appaiono tuttavia più complesse della mera valenza positiva insita nella metamorfosi – il passaggio, per assurdo, ad una condizione più felice di quella umana e la trasformazione come consapevole scelta personale e non soccombenza. Lo lasciano intendere l’atteggiamento pensoso di Circe nella tela del Museo Poldi Pezzoli, nell’incisione, nel disegno a penna ad Amsterdam, J. Q. Van Regteren Altena,31 in quello al Hessisches Landesmuseum di Darmstadt32 o in quello di incerta identificazione iconografica presso la Royal Library di Windsor Castle,33 gli strumenti delle attività conoscitive e i testi scritti raffigurati senza emergenza o evidenza specifica, i frammenti dell’antichità classica ed un paesaggio antico ‘usurato’ dallo scorrere del tempo e dalla storia. La colonna istoriata nel dipinto del museo milanese, l’elegante colonna scanalata dell’acquaforte, le anfore, le anfore istoriate e i vasi dalla foggia antica in tutte le raffigurazioni della maga del Castiglione sono testimonianza di una civiltà soggetta alle medesime mutazioni di quelle operate dalla maga, allusione ad uno stato di precarietà che diviene assoluto. Trovano così fondamento l’inserimento nell’iconografia del personaggio del teschio, oggetto di meditazione e contemplazione da parte della protagonista nel disegno di Windsor Castle, e le affinità, nella posa – ravvisabile oltre che nelle opere citate anche nel dipinto già appartenente alla Collezione Bacarelli – e nella presenza di strumenti scientifici e di indagine conoscitiva34 con l’allegoria della Melanconia, a cui l’accomuna lo stesso intendimento della vanità come ‘disordine’ dell’ordine naturale determinato dal sovrapporsi dei cicli storici e dalle vacue pretese intellettive dell’uomo.35 Il busto del dio dei boschi, della natura, Pan, che campeggia nel regno di Circe – assente solo nell’acquaforte e nel dipinto al Museo Poldi Pezzoli – pur non avendo attinenza specifica con la figura della maga36 si pone in rapporto alla cura e all’attenzione che ella riserva alle piante da cui ricava i suoi filtri e dano Bruno nolano composto per una ordinata esposizione di quella prassi della memoria che egli stesso chiama prassi del giudicare, Parigi, presso Egidio Gillio, mdlxxxii, ed. Milano, 1997, trad. e note di N. Tirinnanzi. Le coincidenze nella scelta degli animali fra i due testi e le raffigurazioni del Grechetto sembrano casuali. Nella Circe del Gelli essi sono, nell’ordine di presentazione: Ostrica, Talpa, Serpente, Lepre, Capra, Cerva, Leone, Cavallo, Cane, Vitello, Elefante; nel Cantus Circaeus del Bruno sono porco, cani, muli, capri, scimmie, cammelli, orsi, pavoni. 30 Cfr. Orlando, op. cit. a nota 9, fig. 36. 31 Penna e inchiostro marrone su carta color camoscio di formato irregolare, mm. 163 × 259. Cfr. Percy, op. cit. a nota 21, n. 129, p. 131; Il genio di G. B. Castiglione cit. a nota 3, p. 169; Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 697. 32 N. AE 1857, mm. 198 × 280: cfr. Percy, op. cit. a nota 21, n. 70, p. 98; Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 697, fig. 688. Un disegno affine, la cui attribuzione al Grechetto appare assai dubbia, è a Parigi, Institut Néerlandais, Collezione M. Frits Lugt: cfr. Percy, op. cit. a nota 21, p. 98; L. Tagliaferro, in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3, p. 163. 33 N. 3924, penna marrone su carta color camoscio con una traccia di pastello rosso, mm. 220 × 345: Cfr. Percy, op. cit. a nota 21, n. 66, p. 97; C. Dempsey, Castiglione at Philadelphia, BurlMag, cxiv, 1972, pp. 117-120, in part. p. 119. L’interpretazione che divide la critica oscilla fra la figura di Circe e quella di Melanconia. 34 La sfera armillare e volumi non necessariamente di argomento magico sono presenti nel dipinto conservato al Museo Poldi Pezzoli di Milano. 35 Cfr. P. Ciliberto, Le raffigurazioni della Melanconia di Giovanni Benedetto Castiglione il Grechetto: tradizione e modernità nelle elaborazioni secentesche di un’allegoria antica, StStorArti, x, 2000-2003, pp. 77-92. 36 L’osservazione è di Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 692. Il busto di Pan è assai ricorrente nelle opere a carattere allegorico 26 «sopra porta di Circe con Ulisse che parla a diversi trasformati in pesci», Lamera, op. cit. a nota 7, p. 173, ma cfr. anche pp. 174-176. 27 Come è noto, solo l’Elefante Aglafemo, che nella precedente esistenza umana fu filosofo, acconsente a riguadagnare la natura umana. 28 Già presso la Galleria Ravasco. Cfr. O. Grosso, A. M. Vassallo e la pittura d’animali nei primi del ’600 a Genova, Dedalo, iii, fasc. viii, gennaio 1923. Jan Roos è uno di quegli artisti che «possono aver fatto scuola» al Grechetto: cfr. E. Gavazza, Giovanni Benedetto Castiglione e Genova (1640-1650), in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3, p. 35. 29 Lugano, collezione privata. Cfr. Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 701, fig. 698. Per Francesco Castiglione (1642-1710) cfr. Allgemeines Künstler Lexikon. Die Bildenden Künstler aller Zeiten und Völker, München-Leipzig, 1997, band 17, pp. 225-226. 214 piera ciliberto da cui deriva gran parte del suo potere sugli uomini, ma è anche riferimento agli appetiti amorosi a cui soggiace Circe e a cui sono sottomessi anche i suoi visitatori, al trionfo dei vizi sulla ragione e sull’intelletto,37 per cui può essere sostituito, nel dipinto di proprietà del Sovrano Ordine Militare di Malta, dalla statua di Priapo.38 La metamorfosi fisica acquista il valore di allegoria della metamorfosi spirituale che ha investito l’individuo. Il concetto che l’anima «disumana e prende qualità ferina», di ascendenza medievale,39 trova infatti nuova riformulazione agli inizi del Seicento nella Pittura, Diceria Prima di Giovan Battista Marino sulla scorta dei versetti dei Salmi con l’originale connotazione del passaggio dell’anima umana alla natura animale come palangenesia,40 una visione che può essere considerata affine a quella sottesa al Cantus di Giordano Bruno. La saggia Circe creata dal letterato nolano, infatti, consapevole del fraintendimento in cui possono incorrere i suoi incantesimi, ne spiega la ratio obbiettiva, lascia trapelare attraverso il proprio «lamento», il «principio ‘obbiettivo’ di giustizia» che anima il suo operato, dal momento che esso non fa che ripristinare la corrispondenza violata fra anime e corpi, essere ed apparire.41 Il grave stato di decadenza, il caos che ha travolto l’ordine naturale delle cose ha alterato i normali criteri di percezione del reale e di senso della giustizia, per cui la barbara, benefica magia di Circe riplasma l’effettiva natura degli individui, ripara alla corruzione universale disarmando i malvagi che so- no privati della loro potenza offensiva.42 Solo pochi mantengono il loro aspetto umano, i giusti e gli onesti che, atterriti, corrono a mettersi al riparo. Proprio quest’immagine, raccontata nel suo compiersi dall’interlocutore di Circe, Meri, richiama la figura del giovane che si dà alla fuga mentre il compagno si trasforma in cinghiale nel dipinto del Castiglione conservato in collezione privata a New York, riprova dei caratteri fortemente ‘plastici’, ‘figurativi’ della narrazione di Giordano Bruno, ricercati anche in riferimento alla prassi dell’ars memoriae che l’autore intende esporre.43 Accanto all’interpretazione tradizionale, di stampo moraleggiante, dei commentari medievali perpetuata ancora, ad esempio, da Andrea Alciati e dalle xilografie di Bernard Salomon e Virgil Solis,44 Circe è, per la cultura più libera e non costretta entro i limiti e le imposizioni della cultura ufficiale, figura mitologica che permette di proporre la magia quale unico mezzo possibile di riappropriazione di una realtà sfuggente, che può essere dominata dal libero pensiero soltanto attraverso la costruzione di apparati simbolici.45 Con tale cultura il Castiglione entrò sicuramente in contatto a Genova, Roma, Napoli46 ed il coinvolgimento personale dell’artista nei problemi etici e morali sollevati dalla sua arte emerge proprio con il personaggio spaventato e in fuga del dipinto di New York, intaccato dagli incantesimi della maga, che indossa il berretto piumato con cui Giovanni Benedetto si è ritratto e ha alluso a sé.47 o mitologiche dell’artista. Ad es., nell’Allegoria della Poesia (o Musica) in collezione privata o nell’opera di soggetto specifico Sacrificio a Pan a Mosca, Museo Puskin: cfr. T. J. Standring, schede nn. 60, 58, in Genova nell’età barocca, cat. mostra Genova 1992, a cura di E. Gavazza, G. Rotondi Terminiello, Bologna, 1992; e in altra versione a Ottawa, National Gallery of Canada: cfr. Il genio di G. B. Castiglione cit. a nota 3, n. 23, tav. 109. Per Bacco cfr. V. Cartari, Imagini delli Dei de gl’Antichi, Venezia, Ziletti, 1587, ed. Vicenza, 1996, pp. 230-232. sia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma, 1997, part. p. 26. 40 Marino, op. cit. a nota 37, 1960, p. 123. 41 M. Ciliberto, Introduzione a Bruno, Roma-Bari, 1996, pp. 40-42. 42 Tali strumenti sono principalmente la lingua e le mani: cfr. Ciliberto, op. cit. a nota 25, p. 23. 43 Ciliberto, op. cit. a nota 41, p. 39. 44 Guthmüller, op. cit. a nota 39, cap. x, Picta poesis ovidiana, pp. 213-236, part. a 213 l’indicazione dell’emblema con il motto Cavendum a meretricibus dell’Alciati. Per Virgil Solis cfr. anche I. O’Dell-Franke, Kupferstiche und Radierungen aus der Werkstatt des Virgil Solis, Wiesbaden, 1977, fig. d29. 45 C. Mongardini, Sociologia del pensiero magico, in La strega, il teologo, lo scienziato (Atti del Convegno Magia, stregoneria, superstizione in Europa e nelle zone alpine, Borgosesia 1983), a cura di M. Cuccu, P. A. Rossi, Genova, 1986, p. 342. 46 Si rimanda agli studi, più volte citati, di Gavazza-Lamera-Magnani, op. cit. a nota 7, e al catalogo della mostra Il genio di G. B. Castiglione cit. a nota 3. Ancora da verificare i rapporti fra il Grechetto e Anton Maria Vassallo, il cui atteggiamento nei confronti del soggetto appare tuttavia di mera illustrazione più che di interpretazione e approfondimento delle tematiche connesse. 47 Cfr. L. Magnani, Tra Muse, iconografie della lettura e un berretto rosso, in «Studi di Storia delle arti», numero speciale in onore di Ezia Gavazza, Università degli Studi di Genova, d.i.r.a.s., 2003, pp. 146-147. 37 Il concetto – come osservato da L. Magnani, Cultura laica e scelte religiose: artisti, committenti e tematiche del sacro, in Gavazza-Lamera-Magnani, op. cit. a nota 7, pp. 272-273, part. 273, che indaga gli aspetti della cultura del Castiglione più vicini alle accademie di marca stoica e libertina e al Mascardi – è ne La pittura. Diceria Prima di G.B. Marino del 1614: cfr. G. B. Marino, Dicerie Sacre e La Strage degl’innocenti, ed. a cura di G. Pozzi, Torino, 1960, p. 123. 38 La statua è affine a quella raffigurata all’estrema destra nel dipinto con Deucalione e Pirra a Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie, inv. 2078: cfr. T. J. Standring, scheda n. 59, in Genova nell’età barocca cit. a nota 36. Per Priapo, «detto da gli antichi dio de gli orti», cfr. Cartari, op. cit. a nota 36, pp. 390-391, part. 391; R. Graves, I miti greci, Milano, 199612, pp. 89-91. 39 Riscontrabile, ad esempio, nell’Allegoriae super Ovidii Metamorphosin di Arnolfo d’Orléans (sec. xii): cfr. B. Guthmüller, Mito, poe- IL PROSPETTO DELLA PIAZZA DEL POPOLO DI LIEVIN CRUYL DELLA RACCOLTA LANCIANI* Giorgia Pollio G li anni del pontificato di Alessandro VII (15991667) sono cruciali per l’immagine di Roma. Proprio nell’epoca che segna l’inizio del declino del prestigio politico papale sullo scacchiere internazionale, e forse proprio in virtù di questa consapevolezza, Alessandro VII, profondamente interessato in prima persona all’urbanistica e all’architettura, imprime un nuovo assetto alla città con una serie di iniziative edilizie su larga scala. A questa inesausta attività urbanistica, che si configura come una vera ‘politica d’immagine’, Alessandro VII affianca sapientemente un’altrettanto energica propaganda, sostenendo anche con investimenti economici imprese editoriali che avessero favorito la diffusione su larga scala della rinnovata immagine di Roma. Fioriscono così nuove pubblicazioni che divulgano il volto della Roma moderna con pari dignità rispetto all’immagine della Roma classica e cristiana consacrata dalla tradizione, imprimendo ulteriore dinamismo all’editoria romana, già florida per la richiesta di prodotti come guide e vedute destinati ai visitatori e ai pellegrini. Ne ricevono impulso non solo la trattatistica,1 ma anche le raccolte di vedute della città abbellita dalle recenti fabbriche.2 È in questo febbrile contesto che bisogna inquadrare gli esordi dell’attività romana di Lievin Cruyl (Gand 1634-1720 ca. ?), giunto a Roma nel 1664 ormai trentenne, già cimentatosi con studi di architettura, e subito ingaggiato dall’editore Giovan Battista De Rossi con stamperia in Piazza Navona. A Cruyl viene conferito l’incarico di elaborare una serie di vedute della città di Roma destinate ad una raccolta di stampe che vedrà la luce nel 1666.3 Il Prospetto della Piazza del Popolo della Raccolta Lanciani, firmato e datato 1664, è stato realizzato nell’ambito di questa commitenza e appartiene quindi alla primissima produzione di Cruyl durante il suo soggiorno romano. Il disegno (Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Raccolta Lanciani, xi. 11. ii. 66, proprietà dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte) è realizzato con penna ad inchiostro seppia e con matita nera, su entrambe le facce di un foglio di carta giallo avorio, non filigranata (Figg. 1-2). Misura mm. 336 × 528 ed è in buono stato di conservazione: presenta infatti solo rare macchie per ingiallimento della carta e la traccia di una piegatura al centro, segno che dovette essere conservato piegato a metà. La firma e la data sono apposte in basso a destra, in carattere corsivo, mense dec. 1664 L. Cruyl delineavit. Inoltre il disegno reca le seguenti iscrizioni: Prospetto della Piazza del Popolo, in alto al centro; A. ordine dorico, in basso a sinistra, riferita al prospetto meridionale della Porta del Popolo presso al fornice della quale è replicata la lettera A; infine, in basso a destra, dall’alto, S.a Ludovico Casali Mrg de strada (?), in una corsiva poco leggibile e, sotto Campo Marzio. Queste ultime annotazioni hanno forse una funzione di pro memoria per l’artista. Alle iscrizioni autografe si aggiungono un titolo e dei numeri di catalogo apposti da mani successive. Secondo due diverse * Un sentito ringraziamento a Ursula Fischer Pace per aver ‘controllato’ il presente lavoro e a Valentino Pace per il suo sempre generoso sostegno. 254-257; Ead., Declino dello stato e trionfo dell’architettura, ivi, pp. 226231; sempre sull’uso politico delle incisioni, cfr. anche R. D’Amico, La veduta nell’incisione fra ’600 e ’700. G. B. Falda e G. Vasi, RicStorArte, I-II, 1972, pp. 81-101, part. 81-83. 3 L. Cruyl, Prospectus locorum urbis Romae insignium, Roma, G. G. De Rossi, 1666. Per la biografia di Lievin Cruyl cfr. B. Jatta, Lievin Cruyl e la sua opera grafica, Bruxelles-Roma, 1992, pp. 7-11, alla quale spetta anche il merito di aver precisato, sulla base di documenti di archivio, la data di nascita dell’artista all’anno 1634, anziché al 1640 precedentemente indicato; anche la data di morte indicata attorno al 1720 appare discutibile a Jatta, dal momento che l’ultimo disegno noto di Cruyl è datato 1690. 1 Come i due volumi di G. Alveri, Roma in ogni suo stato alla Santità di N. S. Alessandro VII, Roma, 1664. 2 Sulla Roma di Alessandro VII cfr. R. Krautheimer, La Roma di Alessandro VII (1655-1667), Roma, 1987, part. il cap. x dedicato a Urbanistica e politica. In relazione alla propaganda dell’attività urbanistica del papa, si vedano i due contributi di D. Del Pesco, Le incisioni e la diffusione internazionale dell’immagine di Roma di Alessandro VII, in Alessandro VII Chigi (1599-1667). Il papa senese di Roma moderna, cat. mostra, Siena 2000, a cura di A. Angelini, M. Butzek, B. Sani, Siena, 2000, pp. «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 215-222 216 giorgia pollio Fig. 1. L. Cruyl, Veduta di Piazza del Popolo, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Raccolta Lanciani, xi. 11. ii. 66, recto proposte, non necessariamente alternative, il Ludovico Casale citato nell’appunto a margine del disegno è identificabile con un maestro di strada di Alessandro VII, in servizio tra 1662 e 1667,4 oppure come il figlio di Marco Casali e Margherita Teofili.5 Sappiamo, grazie ad Ashby, che il disegno faceva parte della ricca collezione del senatore Lanciani.6 Alla morte del senatore, nel 1929, parte della sua raccolta fu acquisita dall’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte e con essa anche questo disegno. La veduta, orientata verso est, spalle al Tevere, abbraccia l’intera Piazza del Popolo dalla Porta urbica all’imbocco del tridente, includendo però sul recto solo Via del Babuino, la Chiesa di S. Maria di Montesanto e il Corso. Il disegno deve poi proseguire sul verso per completare il panorama con la Chiesa di S. Maria dei Miracoli e il tratto iniziale di Via di Ripetta. Appare dunque evidente che Lievin Cruyl non avesse ben calcolato il rapporto tra le dimensioni del foglio e l’estensione della veduta. L’intero prospetto è realizzato con una mano veloce, appena abbozzato: pochi tratti a matita costituiscono una sommaria griglia di riferimento prospettica, con linee di fuga e ortogonali, secondo le modalità verificate da Barbara Jatta in altri disegni.7 Molti elementi sono tracciati direttamente con l’inchiostro, con un tratto sottile e preciso ma poco accurato nei particolari minuti. L’ausilio di strumenti per il disegno appare saltuario: l’impiego di una riga sembrerebbe riscontrabile, oltre che nelle linee di fuga, solo in pochi casi, come 4 H. Hager, Zur Plannung und Baugeschichte der Zwillingskirchen auf der Piazza del Popolo, in RömJb, xi, 1967/68, 191-306, pp. 215-220, part. 216 nota 59. 5 C. Pietrangeli, Vedute romane di Lievin Cruyl al Museo di Roma, BMusCom, 1972, pp. 7-21, part. 21 n. 34, che trae la notizia da T. Ashby, Lievin Cruyl e le sue vedute di Roma (1664-1670), MemPontAcc, serie iii, vol. i, parte i, Roma, 1923, p. 225. 6 Ashby, loc. cit. a nota 5. 7 Jatta, op. cit. a nota 3, p. 12. il prospetto della piazza del popolo di lievin cruyl della raccolta lanciani 217 Fig. 2. L. Cruyl, Veduta di Piazza del Popolo, Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Raccolta Lanciani, xi. 11. ii. 66, verso. nel fusto dell’obelisco, oggetto di un trattamento più accurato, eseguito prima a matita e poi ripassato ad inchiostro. La facciata della Chiesa di S. Maria del Popolo è delineata solo a metà e non rifinita nei dettagli. L’intero proscenio appare inconsuetamente deserto: sono accennate sinteticamente solo due figurette, con la verosimile funzione di indicatori di dimensioni. In questo disegno risulta evidenziato il modo di procedere tipico di Cruyl, che affianca distinte vedute facenti riferimento a diversi coni visivi e le compone in un’unica panoramica, al fine di ampliare il più possibile la visione senza alterare i rapporti prospettici.8 Infatti l’intero blocco delle chiese gemelle è schizzato direttamente a penna e a mano libera e parrebbe inserito in un secondo momento rispetto alla realizzazione dell’impianto generale, il che spiegherebbe l’errato calcolo dell’estensione complessiva del panorama rispetto alle dimensioni del foglio e la conseguente prosecuzione dell’abbozzo sul retro. D’altro canto le chiese gemelle di Piazza del Popolo, lungi dall’essere completate come appaiono nei disegni di Cruyl, all’epoca erano state appena fondate.9 L’artista per rappresentare artificiosamente i due edifici come ultimati dovette far ricorso a progetti fatti circolare apposta, coerentemente con la politica di propaganda papale, o comunque entrati in possesso del suo editore. Non a caso nella veduta di Cruyl le due chiese presentano lungo i lati dei portici assenti nella loro effettiva redazione finale: evidentemente il progetto fornito a Cruyl fu cassato in corso d’opera. La variante dei portici laterali delle chiese gemelle, peraltro, non è altrimenti documentata, nemmeno dalla medaglia di fondazione nel 1662 della chiesa di S. Maria in Montesanto.10 Tale 8 Per la tecnica prospettica di Cruyl cfr. Jatta, op. cit. a nota 3, pp. 15-23; M. Furnari, Progetto e tecnica delle immagini della città nelle vedute di Lievin Cruyl, ivi, pp. 369-381. 9 Per la vicenda edilizia delle chiese gemelle cfr.: Hager, op. cit. a nota 3; vedi inoltre, con qualche divergenza rispetto ad Hager circa la cronologia dei progetti e del cantiere, il contributo di Krautheimer, op. cit. a nota 2, p. 126 e note a pp. 195-196. 10 Per una riproduzione della medaglia di fondazione della chiesa, cfr. Hager, op. cit. a nota 4, fig. 144. 218 giorgia pollio versione delle chiese gemelle è ascrivibile, secondo Krautheimer, ad una delle innumerevoli revisioni operate, negli anni 1661-’65, da Carlo Fontana e da Bernini sul progetto di Rainaldi, per meglio conformarlo al classicismo neo-cinquecentesco prediletto da Alessandro VII. I portici furono alla fine eliminati, probabilmente perché troppo ingombranti rispetto alla sede stradale.11 La rapidità di esecuzione, la scarsa finitezza, il forzoso inserimento di S. Maria dei Miracoli sul verso e la presenza di annotazioni non destinate ad un eventuale pubblico concorrono a dimostrare che questa tavola è uno schizzo preparatorio, come già suggerito da Ashby che la mise giustamente in relazione con un’altra Veduta di Piazza del Popolo, sempre di Cruyl, oggi conservata nel Cleveland Museum of Art (Dudley P. Allen Fund 43.261), ma proveniente dall’Albertina di Vienna (Fig. 3).12 Il disegno della Raccolta Lanciani, infatti, differisce per pochi ma significativi dettagli dalla Veduta di Cleveland, nella quale l’intera estensione della piazza è correttamente raffigurata sul recto, peraltro adattandosi ad un foglio dal formato meno allungato (mm 388 × 492). Inoltre la veduta della Raccolta Lanciani non è eseguita in controparte, come invece quella di Cleveland, evidentemente destinata a trarne una copia calcografica per la traduzione a stampa. Le note ad uso dell’artista, presenti in questo bozzetto, sono sostituite nella veduta di Cleveland da un apparato di didascalie esplicative dei singoli monumenti. Inoltre nell’esemplare in esame manca il palazzo che nella veduta di Cleveland è posto in proscenio, a mo’ di quinta. La facciata di S. Maria del Popolo, abbozzata a metà nel nostro schizzo, è invece completa di tutti i dettagli nella replica di Cleveland, dove ogni particolare architettonico è meticolosamente registrato. Anche la piazza, in questo schizzo quasi deserta, nel disegno di Cleveland brulica di una folla di piccoli personaggi minuziosamente descritti, a piedi o in carrozza, tipica del gusto del pittoresco comune agli artisti fiamminghi, cui Cruyl non fa eccezione. Infine mancano nel- l’esemplare romano le acquarellature ad inchiostro che rifiniscono la tavola statunitense. È quindi evidente che il nostro disegno rappresenta un studio preparatorio della veduta conservata a Cleveland, destinata a sua volta ad essere tradotta a stampa. Cruyl stesso trasse dal disegno di Cleveland l’incisione ad acquaforte edita da Giovan Battista De Rossi nel Prospectus del 1666.13 Le varianti tra il disegno e l’incisione si limitano all’eliminazione, nella stampa, della recinzione che nel disegno delimita a ovest la piazza, al cambiamento dei personaggi in primo piano e all’ulteriore aggiunta di qualche figurina per aumentare l’animazione della piazza. Nella seconda edizione del Prospectus, edita negli anni ’90 del Seicento da Matteo Gregorio De Rossi, la Veduta di Piazza del Popolo fu ristampata con poche varianti, tra le quali la principale è l’inserimento delle figure allegoriche in alto a sinistra.14 Una terza edizione del Prospectus vide la luce nel xviii secolo per i tipi di Carlo Losi, con poche ulteriori modifiche.15 Lo schizzo in questione era stato dato per disperso da quasi tutta la moderna letteratura critica, pur essendo rimasto, molto probabilmente, sempre presso la Raccolta Lanciani. Ashby fu il primo a darne notizia, quando era ancora presso la collezione privata del senatore Lanciani, ma lo pubblicò senza alcuna riproduzione fotografica.16 Parecchio tempo dopo, il disegno, nel frattempo acquisito dall’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, fu esaminato per il suo saggio sulla vicenda edilizia delle chiese gemelle da Hager,17 il quale, allo scopo di documentare la variante progettuale dei portici addossati ai fianchi delle chiese gemelle, affiancò al testo anche la riproduzione fotografica dei due dettagli della veduta relativi ai due edifici. Trascorsi solo cinque anni, Pietrangeli, nel presentare la serie dei disegni di Lievin Cruyl appena entrati in possesso del Museo di Roma, dichiarò la scomparsa della veduta della Raccolta Lanciani,18 notizia che fu rapidamente ripresa e da quel momento ribadita fino ai nostri giorni.19 L’unica eccezione è costituita da Krautheimer che, nel capitolo dedicato a Piazza del 11 Krautheimer, op. cit. a nota 2, p. 132. 12 Ashby, op. cit. a nota 5, p. 225. La veduta allora all’Albertina di Vienna era stata pubblicata in Römische Veduten. Handzeichnungen aus dem xv.-xviii . Jahrhundert, a cura di H. Egger, Wien-Leipzig, 1911, i, p. 20, Taf. 5. In seguito, delle 21 vedute conservate a Vienna, 18 confluirono al Museo di Cleveland e 3 al Rijksmuseum di Amsterdam. Sulla Veduta di Piazza del Popolo di Cleveland cfr. Jatta, op. cit. a nota 3, cat. 69, fig. 71, tav. xxi, con bibl. prec.; D. Del Pesco, Lievin Cruyl, Prospetto della Piazza del Popolo, in Alessandro VII Chigi, cit. a nota 2, p. 264, cat. 162. 13 Jatta, op. cit. a nota 3, p. 157, cat. 9 S, fig. 72. 14 Ivi, p. 157, cat. 9 S, fig. 73. 15 Ivi, p. 153. 16 Ashby, op. cit. a nota 5, p. 225. 17 Hager, op. cit. a nota 4, figg. 148-149. 18 Pietrangeli, op. cit. a nota 5, p. 21, n. 34. 19 Roma sparita. Donazione Anna Laetitia Pecci Blunt, cat. mostra a c. di G. Incisa della Rocchetta, Roma 1976, p. 17, cat. 10;Vedute romane di Lievin Cruyl: paesaggio urbano sotto Alessandro VII, cat. mostra, a cura di B. Jatta, J. Connors, Roma, 1989, p. 49, cat. 5; M. G. Massafra, Roma: l’immagine della memoria, in Una collezionista e mecenate il prospetto della piazza del popolo di lievin cruyl della raccolta lanciani 219 Fig. 3. L. Cruyl, Veduta di Piazza del Popolo, Cleveland (usa), The Cleveland Museum of Art, Dudley P. Allen Fund 43.261. Popolo nel suo magistrale saggio sulla Roma di Alessandro VII, mostra di aver consultato de visu proprio questo disegno e proprio presso la Raccolta Lanciani, ma, forse inconsapevole che la veduta da lui esaminata fosse quella ritenuta sparita, la cita solo en passant, nelle ricchissime note.20 Così il riferimento è passato inosservato. È invece proprio grazie all’indicazione di Krautheimer che mi è stato possibile constatare la permanenza di questo schizzo di Cruyl nella pertinente sede, ovvero nella Raccolta Lanciani presso la Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Roma.21 Questa curiosa sorte ha ovviamente condizionato la ‘fortuna critica’ del disegno della Raccolta Lanciani. Dopo la sua pubblicazione per merito di Ashby, lo schizzo è stato preso in considerazione solo in saggi romana. Anna Laetitia Pecci Blunt (1895-1971), cat. mostra a cura di L. Cavazzi, Roma, 1991, pp. 19-49, p. 25, cat. 7; Jatta, op. cit. a nota 3, cat. 69; E. Marconcini, Lievin Cruyl. Serie di vedute di Roma, in Il Museo di Roma racconta la città, cat. mostra, a cura di R. Leone, F. Pirani, M. E. Tittoni, Roma, 2002, p. 124 sgg., part. 128, cat. i. d. 41. Archeologia e Storia dell’Arte, Raccolta Lanciani, Roma, xi, ii, 1, c. 115r. 21 Colgo l’occasione per esprimere la mia viva gratitudine all’arch. Luciano Arcadipane e alla dott. Ludovica Mazzola, entrambi della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Roma, per la cortese sollecitudine con cui mi hanno aiutato a trovare il presente disegno, malgrado la collocazione datata. 20 Krautheimer, op. cit. a nota 2, p. 196, ne indica la seguente collocazione, non corrispondente a quella odierna: Roma, Biblioteca di 220 giorgia pollio di interesse eminentemente storico-architettonico, legando quindi la sua notorietà al solo valore storico-documentario, quale testimonianza di una variante progettuale altrimenti ignota delle chiese gemelle di Piazza del Popolo, peraltro ovviamente presente anche nella ‘versione in bella’ di Cleveland e nelle stampe che da essa derivano. Lo schizzo della Raccolta Lanciani può invece presentare uno specifico interesse anche come documento della tecnica di ripresa di Cruyl, se non altro a conferma dei dati già acquisiti circa il suo metodo di lavoro. Tanto più che gli studi preparatori per le vedute di Cruyl sono pervenuti in numero davvero esiguo. In qualche caso l’artista ha realizzato sul verso dei suoi disegni degli accenni di schizzi per registrare varianti della tavola in corso di elaborazione o propedeutici a vedute diverse, ma si tratta solo di sintetiche annotazioni, non confrontabili con il complesso e articolato esempio in esame.22 L’unico esemplare analogo al Prospetto delle Piazza del Popolo romano potrebbe essere quello di una Veduta di Piazza Navona, recentemente battuta ad un’asta di Christie’s, che parrebbe anch’essa un bozzetto. Secondo l’expertise di Barbara Jatta, in questo disegno si può riconoscere una rappresentazione preliminare alla Veduta di Piazza Navona pubblicata nel Prospectus del 1666.23 Questo studio per una veduta di Piazza Navona, in base alla riproduzione fotografica ed alla relativa scheda, si direbbe più rifinito del disegno della Raccolta Lanciani: realizzato su due foglietti di carta attaccati, a matita nera e penna ad inchiostro marrone, è perfezionato con le acquarellature ad inchiostro. È interessante notare come il prospetto della Chiesa di Santa Agnese vi sia raffigurato con una sola delle due torri campanarie, peraltro incastellata nei ponteggi, mentre nella corrispondente incisione del Prospectus le torri sono entrambe presenti e per di più quasi del tutto ultimate. Inoltre la facciata del palazzo che chiude la piazza in fondo a sinistra è definita solo in parte, con le file di finestre abbozzate a metà, secondo un espediente che abbia- mo osservato anche per la facciata di S. Maria del Popolo nella veduta della Raccolta Lanciani. Infine nemmeno questo studio è disegnato in controparte, come invece tutti i disegni noti destinati alle incisioni per il Prospectus. La ‘versione in bella’ dello studio per Piazza Navona in esame, finalizzata alla traduzione a stampa, risulta invece smarrita.24 Si conoscono altre due vedute di Piazza del Popolo successivamente eseguite da Lievin Cruyl. Una di queste è il disegno su pergamena oggi a Palazzo Braschi (Museo di Roma, gs 854): non datato, si può tuttavia ascrivere alla più tarda produzione romana di Cruyl, nella quale l’artista ha ormai messo a punto la sua tecnica di ripresa a ‘volo d’uccello’.25 Il punto di vista è esterno alla Porta del Popolo e lo sguardo spazia non solo sulla piazza vista dall’alto, ma su tutto il circostante tessuto urbano, fino alle colline all’orizzonte. Come per il precoce esemplare della Raccolta Lanciani, anche qui le distanze sono irrealisticamente dilatate, per cui Villa Medici e Trinità dei Monti si stagliano sull’orizzonte, apparendo ben più lontane di quanto non siano davvero. In questa veduta, che rappresenta la summa del talento di Cruyl, i soggetti centrali sono delineati con tratti sfumati, mentre i contorni degli edifici più lontani sono ispessiti con l’inchiostro per meglio esaltare la ricchezza dei dettagli, meticolosamente raffigurati malgrado la distanza. Questa tecnica peculiare varrà alle vedute di Cruyl la definizione «telescopiche e grandangolari». La Veduta di Piazza del Popolo di Palazzo Braschi si ritiene proveniente dalla collezione dell’editore Conrad Ruysch di Leida, in quanto da essa, o da un esemplare identico, è stata tratta una delle incisioni che compongono il iv volume del Thesaurus di Graevius, edito ad Amsterdam nel 1697.26 Un altro disegno pressoché uguale, sempre eseguito con inchiostro su pergamena, battuto ad un’asta di Sothesby’s a Montecarlo nel 1984,27 si differenzia dal disegno di Palazzo Braschi per il solo ragguardevole dettaglio della cupola di S. Maria dei Miracoli, che non vi appare anco- 22 Sul verso della Veduta di Piazza del Popolo di Cleveland è raffigurato un autoritratto dell’artista intento a disegnare sotto un arco romano. L’immagine è stata riconosciuta da Jatta, op. cit. a nota 3, catt. 69, 4S, come preliminare alla dispersa Veduta di S. Giovanni in Laterano stampata nel Prospectus. Il verso della Veduta del Collegio di Propaganda Fide, anch’essa conservata a Cleveland (ivi, cat. 75), presenta uno schizzo delle finestre e dei pilastri del piano superiore del palazzo. Infine, sul retro del I foglio delle tavole progettuali per la Torre del S. Michele di Gand (Gand, Stadsarchief.: ivi, cat. 4) è annotata una possibile variante architettonica. 23 Christie’s London, Old Master Drawings, Jul. 6, 1999, lot 61, p. 56, fig. 61; il parere di Barbara Jatta non è riferito nel catalogo a stampa dell’asta, ma solo nella versione di esso riportata nelle pagine del sito web artfact.com. 24 Jatta, op. cit. a nota 3, cat. 5S, figg. 55-58. 25 Su questo disegno: Pietrangeli, op. cit. a nota 5, p. 21, n. 74; Roma sparita cit. a nota 19, p. 17, cat. 10; Vedute romane, cit. a nota 19, p. 9; Massafra, op. cit. a nota 19, p. 25, cat. 7; Jatta, op. cit. a nota 3, p. 114, cat. 60; Marconcini, op. cit. a nota 19, p. 128, cat. i. d. 41. C. De Seta in: Imago urbis Romae: l’immagine de Roma in età moderna, catalogo della mostra (Roma 2005), a. c. di C. De Seta, Milano 2005, p. 23, fig. 9. 26 Jatta, op. cit. a nota 3, p. 161, cat. 16 S. 27 Ivi, p. 114, cat. 100. il prospetto della piazza del popolo di lievin cruyl della raccolta lanciani ra costruita. Da notare che in entrambe queste seriori vedute Cruyl ha ormai modificato l’impianto delle due chiese gemelle, eliminando il particolare dei portici laterali e adeguandone quindi l’aspetto ad una versione più aderente all’attuale. La carrellata dallo schizzo della Raccolta Lanciani alle ultime due vedute su pergamena esemplifica l’evolversi del percorso artistico di Lievin Cruyl, da- 221 gli esordi al raffinamento di una tecnica di ripresa che, innalzando il punto di vista, consente uno straordinario ampliamento dell’orizzonte di riferimento per realizzare vedute non vere ma verosimili. Vedute che con la loro dovizia di particolari coniugata alla vertiginosa ampiezza dell’orizzonte costituiscono un autentico resoconto ed un omaggio alle imprese urbanistiche della Roma di seconda metà Seicento. PER UNA STORIA DELLE COLLEZIONI DI ANTICHITÀ DEI DUCHI D’ESTE. APPUNTI SUL COSIDDETTO ‘APOLLO DI FERRARA’: DA ALFONSO II A LOUIS XV* Stefano Bruni · Cristina Cagianelli C omponente centrale del collezionismo estense fin dai tempi di Leonello, l’interesse per l’antico della corte estense di Ferrara è stato finora oggetto di indagine solo per gli aspetti relativi ai marmi,1 alle iscrizioni2 e alle monete,3 mentre sono rimaste in ombra, anche per l’oggettiva difficoltà a rintracciare i vari monumenti, le raccolte di gemme4 e quella dei bronzi.5 La dispersione dei materiali dopo la devoluzione di Ferrara allo Stato della Chiesa, da un lato, e la limitata conoscenza dei materiali conservati a Mo- * Il testo è una versione più ampia di quello letto in occasione del convegno Cultura nell’età delle Legazioni, svoltosi a Ferrara dal 20 al 22 marzo 2003 (cfr. il volume degli Atti, Firenze 2005, pp. 287-327), ed è frutto del lavoro comune degli autori; a C.C. si deve in particolare la ricerca sulla fortuna dell’Apollo di Ferrara nella letteratura antiquaria settecentesca. Un caloroso ringraziamento per l’aiuto prestato va a tutto il personale dell’Archivio di Stato di Modena e a quello dell’Archivio di Stato di Ferrara, nonché alle signore della sala manoscritti della Biblioteca Ariostea di Ferrara e ai dr. Giuseppe Moscardini e Elena Bonati dei Musei Civici d’Arte Antica di Ferrara. Gli autori tengono a ringraziare in particolare il prof. Gehrard Wolf, attuale direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze, la cui biblioteca è stata di fondamentale aiuto per lo svolgimento della ricerca, e il prof. Salvatore Settis, che da anni coordina il gruppo di lavoro a cui è stata affidata la pubblicazione dei bronzetti della Galleria Estense di Modena, con cui è stato possibile discutere alcuni dei problemi qui affrontati e che ha più volte incoraggiato gli autori a portare avanti questa ricerca. Il lungo tempo trascorso da quando fu consegnato alla redazione della Rivista e il proseguimento delle ricerche sul collezionismo estense avrebbero imposto una revione massiccia; tuttavia si è preferito non stravolgere il testo, limitandoci ad un sommario aggiornamento delle note, permettendoci di rinviare per alcuni problemi alla relazione di S.Bruni, Pirro Ligorio e l’Antichario di Alfonso II, in stampa nel volume degli atti del convegno “Collezionismo e mercato negli Stati Estensi e nella Legazione di Ferrara” svoltosi a Ferrara dal 13 al 14 novembre 2008. gna, 1987, p. 155 sg.; F. Rebecchi, Il ritratto di età traianea della Galleria Estense di Modena. Storie parallele di un busto romano e della sua iscrizione (cil xi 818), in Miscellanea di studi archeologici e di antichità, a cura di F. Rebecchi, iii, Modena, 1990, p. 221 sg. S.Corsi, in Sulture a corte. Terrecotte, marmi e gessi della Galleria Estense dal xvi al xix secolo, a cura di J.Bentini,Modena 1986, p. 6 sgg. nn. 3, 4, 5 [ora in S. Corsi, Virtù e conoscenza. Scritti di Stefano Corsi, Firenze 2009, p. 59 sgg.]; Idem, Dal “Lecto de Policrate” al “Letto di Policleto”. Prima ipotesi sulla genesi di un’attribuzione, «Prospettiva» 117-118, 2005, p. 145 sgg. [ora in S.Corsi, Virtù e conoscenza. Scritti di Stefano Corsi, Firenze 2009, p. 127 sgg.]. 2 Per le iscrizioni cfr. S. Grandini, Pandolfo Collenuccio e i duchi d’Este. Collezioni ed antichità epigrafiche a Ferrara, in L’ideale classico a Ferrara e in Italia nel Rinascimento, a cura di P. Castelli, Firenze, 1998, p. 89 sg. Cfr. anche F. Rebecchi, La contraffazione di antiche epigrafi di Girolamo Falletti, in “In supreme dignitatis…”. Per la storia dell’Università di Ferrara (1391-1991), a cura di P. Castelli, Firenze, 1995, p. 405 sg.; G. Gregori, Genealogie estensi e falsificazione epigrafica, Girolamo Falletti e lo studio delle iscrizioni del Cinquecento, in Miscellanea di studi archeologici e di antichità, a cura di F. Rebecchi, iv, Modena, 1995, p. 155 sg. (una prima versione in OpEpigr, i, 1990); F. Rebecchi, Girolamo Falletti storiografo estense e la stele cil xi , 928, ivi, p. 209 sg. 3 Per la raccolta numismatica cfr. E. Corradini, Il medagliere dei Duchi d’Este: i 550 anni di una Collezione, in Atti xi Congresso Internazionale di Numismatica (Bruxelles 8-12 settembre 1991), ??? ????; G. Missere, F. Missere Fontana, Una silloge numismatica del secolo xvi : Celio Calcagnini e la raccolta estense, Modena, 1993; F. Missere Fontana, Raccolte numismatiche e scambi antiquari del xvi secolo. Enea Vico a Venezia, QuadTic, xxiii, 1994, p. 00 sg.; G. Poggi, Le collezioni numismatiche estensi tra xvii e xviii secolo, in J. Bentini (a cura di), Sovrane passioni. Studi sul collezionismo estense, Milano, 1998, p. 215 sg. Cfr. anche A. Maestri, Il Marchese Scipione Maffei e il Medagliere Estense 1720-1722, AttiAccVerona, s. iv, xxiii, 1921, p. 99 sg. Per la raccolta di monete auree di Ercole II, conservate entro piccole teche a vetri predisposte da Pistofilo, segretario di Alfonso, si veda ora L. Tondo, Celio Calcagnini: l’uomo e l’umanista, in Castelli, “In supreme dignitatis…”, cit. a nota 2, p. 173 sg. 4 Per la raccolta di gemme si veda adesso F. Trevisani (a cura di), I gusti collezionistici di Leonello d’Este. Gioielli e smalti en ronde-bosse a corte, cat. mostra, Modena 2003. Cfr. anche P. L. Calvani, Statue e cammei della Galleria delle medaglie nella seconda metà del Settecento: incrementi e dispersioni, in Bentini, op. cit. a nota 3, p. 237 sg. 5 Su cui si veda, per quanto divulgativo, Corradini, Le raccolte cit. a nota 1, p. 175 sg. 1 Sulle collezioni di antichità della corte estense di Ferrara si veda, oltre al fondamentale A. Venturi, La R. Galleria Estense in Modena, Modena, 1882, p. 14 sg.; E. Corradini, Per una storia delle collezioni di antichità dei duchi d’Este, in Da Borso a Cesare d’Este, Ferrara, 1985, p. 179 sg.; Ead., Le raccolte estensi di antichità. Primi contributi documentari, in L’impresa di Alfonso II, a cura di J. Bentini, L. Spezzaferro, Bologna, 1987, p. 163 sg.; S. Corsi, Le antichità Carpi a Ferrara. Cronaca di un acquisto, Prospettiva, lxiv, 1993, p. 66 sg. Cfr. anche G. F. Ferrari Moreni, Notizia di alcuni pregevoli bassi rilievi in marmo esistenti nella R. Galleria Palatina di Modena, AttiMemModenaParma, iv, 1868, p. 65 sg.; G. Campori, Enea Vico e l’antico Museo Estense delle Medaglie, AttiMemModenaParma, vii, 1874, pp. 37-45; R. Weiss, La scoperta dell’antichità classica nel Rinascimento, Padova, 1989, p. 229 sg.; V. Di Pietro, Notizie intorno ad un frammento perduto di sarcofago dionisiaco, in Miscellanea di studi archeologici e di antichità, a cura di F. Rebecchi, ii, Modena, 1986, p. 257 sg.; E. Corradini, Le raccolte estensi di antichità, in La Galleria Estense di Modena. Guida illustrata, a cura di J. Bentini, Bolo- «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 223-246 224 stefano bruni · cristina cagianelli dena – dei quali sono noti alla letteratura scientifica solo pochi pezzi, alcuni peraltro confluiti nelle collezioni estensi nel 1803 con l’eredità del marchese Tommaso Obizzi6 – dall’altro, non contribuiscono, certo, a diradare la nebbia che ancora avvolge quest’ultimo aspetto del collezionismo degli Este. Pur tuttavia anche da una semplice lettura degli inventari superstiti appare con una certa chiarezza come i bronzi debbano essere stati una componente affatto secondaria dell’interesse collezionistico dei Duchi di Ferrara. Ancora assai poco riusciamo a sapere sull’origine di questa raccolta e sulle vicende della sua formazione, e solo uno studio complessivo, a cui stiamo attendendo da tempo, che allo spoglio integrale del vasto materiale archivistico, conservato principalmente nell’Archivio di Stato di Modena, ma non solo in quello, unisca il riconoscimento, non sempre agevole, dei singoli pezzi dispersi in numerose collezioni italiane ed europee, potrà chiarire i termini della questione e far emergere il significato che i bronzi hanno avuto nel quadro del collezionismo dei Duchi di Ferrara. In questa sede vorremmo fin d’ora richiamare l’attenzione su alcuni problemi che – com’è ovvio nel caso di raccolte rinascimentali e come ha recentemente ricordato Salvatore Settis – coinvolgono, intrecciandole intimamente fra loro, archeologia e storia dell’arte rinascimentale,7 puntando infine il discorso su un singolo monumento, il cosiddetto “Apollo di Ferrara” (Figg. 1-2)8 che, come vedremo, 6 Dalla raccolta Obizzi – su cui, oltre a I. Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma 1990, p. 243 sg., si veda G. Tormen, “Una piccola Atene sempre crescente”: aspetti e problemi della collezione Obizzi, in Gli Estensi e il Cataio. Aspetti del collezionismo tra Sette e Ottocento, a cura di E. Corradini, Milano 2007, p. 87 sgg. – provengono certamente il celebre “danzatore armato” (per il quale cfr. F. A. Visconti, Museo Chiaramonti descritto e illustrato, Milano 1820, tav. Agg. a.iii, n. 7; C. Cavedoni, Indicazione antiquaria del Reale Museo Estense del Catajo, Modena 1843, p. 10, nota 7; A. Furtwängler, Aegina. Das Heiligtum der Aphaia, München, 1906, p. 347, figg. 409-410; H. Bulle, Der schöne Mensch in Altertum, München, 1922, p. 61, tav. 94; P. Ducati, Storia dell’arte etrusca, Firenze, 1927, p. 260; G. M. A. Richter, The Sculptures and Sculptors of the Greeks, New Haven 1929, fig. 128; U. Zandrino, Il thymiaterion della Boncia, StEtr, xxii, 1952-1953, p. 338; Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, cat. mostra, Milano, 1955, p. 90 n. 320; Kunst und Leben der Etrusker, cat. mostra, Zürich, 1955, p. 111 n. 283; H. e I. Jucker, L’art des Étrusques, Paris, 1955, p. 21, figg. 83-84; A. Hus, Les Etrusques, Paris, 1959, fig. a p. 137) e la c.d. “Proserpina” (su cui cfr. ora M. Bonamici, La Proserpina del Catajo ritrovata, Prospettiva, 81, 1996, p. 2 sg., figg. 1-4, con bibl. prec.). Gli altri bronzi antichi della raccolta di Modena noti nella letteratura archeologica si limitano a un Discoforo (per il quale cfr. P. E. Arias, Discoforo della Galleria Estense di Modena, StEtr, xxii, 1952-1953, p. 69 sg.; M. Cristofani, StEtr, xlvii, 1979, p. 90), al celebre Fufluns (cfr. M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara, 1985, p. 283 sg. n. 99, con bibl. prec.; P. J. Riis, Vulcentia vetustiora. A Study of Archaic Vulcian Bronzes, Copenhagen, 1997, p. 51; E. Corradini, in Gli Etruschi, cat. mostra, Venezia, 2000, p. 604 n. 197, con altra bibl.), all’altrettanto celebre Menerva (Cristofani, I bronzi, cit. supra, p. 280 n. 88, con bibl. prec.; Corradini, op. cit. supra, p. 605 n. 198, con altra bibl.), ad un kouros greco (cfr. R. Thomas, Athletenstatuetten der spätarchaik und der strengen Stils, Roma, 1981, p. 131, con altra bibl. a nota 621, tav. lxxxii, 1) e ad un offerente verosimilmente selinuntino (cfr. Thomas, op. cit. supra, p. 114 e nota 533, tav. lxvi, 2). 7 S. Settis, Collecting Ancient Sculpture: the Beginnings, in Collecting Sculpture in Early Modern Europe, a cura di N. Penny e E. D. Schmidt, [Studies in the History of Art 70 Center for Advanced Study in the Visual Arts. Symposium Papers xlviii], Washington 2008, p. 13 sgg. In particolare per i bronzetti si vedano le osservazioni di M. G. Ciardi Duprè, I bronzetti toscani del Quattrocento, AntViva, xviii, 2, 1979, p. 31 e nota 18. 8 Per questo bronzetto cfr. S. V. Pighius Campensis, Hercules Prodicius seu Principi iuventuti vita et peregrinatio. Historia Principis adulescentis institutrix, et antiquitatum, rerumque scitu dignirum varietate non minus utilis quam iucunda, Antverpia, ex officina Christophori Plautini, 1587, p. 353; Copia del testamento solenne e codicilli Del Molto Illustre Si- gnor Roberto Canonici, Ferrara, appresso Gioseppe Gironi, mdcxxxii, p. 57; G. Fontanini, De antiquitatibus Hortae coloniae Etruscarum. Libri tres, Romae mdccviii (tre edizioni, la terza del 1723), p. 146; B. De Montfaucon, L’Antiquité expliquée et représentée en figures, iii, tomo ii, Paris, 1719, p. 268, tav. clvii; F. Buonarroti, Ad Monumenta Etrusca Operi Dempsteriano addita Explicationes et conjecturae, in T. Dempster, De Etruria Regali, Florentiae mdccxxiv, ii, p. 12 sg., 92 e nota [c]; A. F. Gori, Museum Etruscum exibens insignia veterum Etruscorum Monumenta, Florentiae mdccxxxvii, i, tav. xxxii; ii, pp. 95-96; F. De Thoms, Onuitgegeven af beelingen van eenige der voornaamste antieke stukken … voormaals behoord hebbende aan den Graeve van Thoms, Amstelodami mdccxl, tav. 3; A. F. Gori, Storia Antiquaria Etrusca…, Firenze 1742, p. ccli sg.; G. B. Passeri, Continuazione delle Lettere Roncagliesi di Giovan Battista Passeri … Lettera undecima, in A.Calogerà, Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, tomo xxiii, in Venetia mdccxli, p. 339 n. 4, 350 sg.; M. Guarnacci, Origini italiche o siano memorie istorico-etrusche sopra l’antichissimo Regno d’Italia, e sopra i di lei primi abitatori nei secoli più remoti, Roma mdcclxvii, i, p. 69; Antiquitates Etruscae a viro amplissimo doctissimoque Antonio Francisco Gorio in florentino lyceo olim historiarum professore celeberrimo concinnatae; nunc vero in commodum antiquitatis litterarumque cultorum in compendium redactae schematibusque minori forma exornatae, ita quidem ut Montofauconiani operis supplementa haberi possint, a M. Nicolao Schwebellio illustr. Carol. Onold. P.P. Et Rect. Accademiarum, imperial. Theres. Roboret. Elector. Bavar. nec non Societ. Hist. Goetting. Et Ienens. Lat. Collega, impensis Georgii Lichtenstegeri, calcographi Norimb. mdcclxx, p. 17, tav. v, 6; L. Lanzi, Saggio di lingua etrusca, Roma, 1789, ii, p. 525; iii, tav. xi.3; D. Raul Rochette, JSav, mai 1834, p. 289; T. 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Della Fina, La scoperta degli Etruschi, Milano, 2004, p. 91, fig. 28; N. T. de Grummond, Etruscan Myth, Sacred History, and Legend, Philadel- è certamente il bronzo più famoso dell’intera raccolta estense e che già nel secondo Cinquecento doveva costituire il pezzo più celebre della collezione. Costituitasi verosimilmente sull’esempio della raccolta fiorentina di Lorenzo il Magnifico e dei vari studioli del primo Rinascimento, dei quali Carpaccio con la Visione di s. Agostino nella Scuola di S. Giorgio degli Schiavoni (1505) ci lascia intravedere la realtà,9 la collezione di bronzi estense sembra acquistare contorni più definiti sul finire del xv secolo con Ercole I, per quanto il suo studio sia praticamente sconosciuto a causa della mancanza di documenti.10 Tuttavia, se rimane ancora piuttosto vago il riferimento al secondo Duca di Ferrara di alcuni pezzi («un cavallino mirabilissimo […] uno morino d’Augusto mirablissimo […] uno Bacco piccolo bellissimo») ricordati nell’inventario del 1584 come «antiquamente di casa»,11 non sembra un caso che nella prospettiva dell’esaltazione dei temi erculei, particolarmente cari alla corte estense – che riconosceva nell’eroe antico una sorta di speculum principis, personificazione della ragione e delle virtù vincenti sulle avversità della natura12 – figuri tra gli arredi del Castello il bellissimo Heracle a cavallo del fiorentino Bertoldo di Giovanni (Fig. 3).13 phia 2006, p. 103, fig. v.34; D. F. Maras, Il dono votivo. Gli dei e il sacro nelle iscrizioni etrusche di culto, Pisa-Roma 2009, p. 313 sg. n. OB do.1. 9 Il quadro è stato più volte richiamato nell’ambito delle ricerche sul collezionismo rinascimentale. Si veda per tutti Z. Wazbinski, Portrait d’un amateur d’art de la Renaissance, ArtVen, xxii, 1968, p. 21 sg.; W. Liebenwein, Studiolo. Die Entstehung eines Raumtyps und seine Entwicklung bis um 1600, Berlin, 1977 (trad. it. Modena, 1992), p. 107 sg., fig. 103. 10 Cfr. S. Hickson, Bishop-Elect Ludovico Gonzaga, Ercole d’Este and Isabella d’Este and the Pietre Dure Vases of Lorenzo deí Medici, CivMant, xxxv, n. 111, 2000, p. 89 sg. Di nessun aiuto nella prospettiva del nostro lavoro uno stralcio di inventario, privo di indicazioni relative al luogo (ma verosimilmente il Castello), all’anno di compilazione e all’autore, ma certamente del xv secolo, rintracciato tra le carte estensi a Modena, Archivio di Stato, Cose d’arte b, fasc. 18/1, in cui è registrata solo una serie di statue, tra cui un ritratto di Adriano. 11 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale Estense, Archivio per materie, Gallerie e Museo: Inventario delle statue vasi ed altre cose di guardaroba del Duca Alfonso II (d’ora in poi citato: Inventario 1584), pubblicato in Documenti inediti per servire alla storia dei Musei d’Italia, iii, Firenze-Roma, 1880, p. 6 sg. (i tre bronzi sono ricordati a p. 15). 12 Su questi aspetti si veda, ora, T. Matarrese, Il mito di Ercole a Ferrara nel Quattrocento tra letteratura e arti figurative, in Castelli, L’ideale classico, cit. a nota 2, p. 191 sg. Cfr. anche A. Tissoni Benvenuti, Il mito di Ercole. Aspetti della ricezione dell’antico alla corte estense del primo Quattrocento, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, 1993, p. 773 sg. 13 A. Ghidiglia Quintavalle, La Galleria Estense di Modena, Genova, 1959, p. 32, tav. 7; J. Pope Hennessy, Bronzetti italiani del Rinascimento, cat. mostra, Firenze 1962, n. 15 (con altra bibl.). Cfr. anche Bentini, op. cit. a nota 3, p. 476. appunti sul cosiddetto ‘ apollo di ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 227 Fig. 4. Scuola fiorentina xv secolo, Gnudo della paura, Modena, Galleria Estense inv. 2240. Per quanto difettino al momento riscontri archivistici, possono rientrare tra le acquisizioni di Ercole I o di Alfonso I altri bronzetti all’antica di origine fiorentina, quali, ad esempio, quello che ripete un tipo iconografico tra i più fortunati nella storia della piccola plastica rinascimentale e noto nell’ambiente fiorentino con il singolare appellativo di “ignudo della paura”, originato dalla mancanza del doppio flauto e dalla conseguente errata interpretazione del gesto (Fig. 4).14 Molto è stato scritto su questa iconografia dai tempi dello studio dedicatogli dal Mitteldorf nel 1956 e non è qui il caso di ripercorrere il problema;15 la citazione del bronzetto nell’affresco patavino della Natività della Vergine della Chiesa 14 Modena, Galleria Estense, inv. 2240, bronzo che compare come «Il Villano della Paura» nell’inventario redatto nel 1559 alla morte di Ercole II: Ferrara, Biblioteca Ariostea, coll. Antonelli n. 963, fasc. vi: Inventario di oggetti d’arte e di antichità lasciati dal Duca Ercole II (d’ora in poi cit.: Inventario 1559), pubblicato in L. N. Cittadella, Il Castello di Ferrara, Ferrara, 1875, p. 98 sg., ed ora in A. Marchesi, La collezione d’arte nelle stanze di Ercole: l’inventario Antonelli, in Il Camerino di alabastro. Antonio Lombardo e la scultura all’antica, cat. mostra, Ferrara 2004, p. 119 sg. Nell’Inventario 1584, c. 11 (p. 18) è descritto come «Un’altra simile a quella uno poco più granda quasi con il medemo atto di sonare uno strumento de bocca. Alcuni lo nominano il nudo dalla paura». Per il bronzetto cfr. Venturi, op. cit. a nota 1, p. 98, fig. 30; Natur und Antike in der Renaissance, Frankfurt am Main, 1985, p. 388 sg., n. 84 (con altra bibl.); W. Stedman Sheard, Antonio Lombardoís reliefs for Alfonso d’Este’s studio di marmi: their significance and impact to Titian, in Titian 500, Atti convegno Washington, 25-27 ottobre 1990, a cura di J. Manca, Washington, 1993, p. 323; Marchesi, op. cit. supra, p. 124 sub. D, fig. 1. 15 U. Middeldorf, Su alcuni bronzetti all’antica del Quattrocento, in Il mondo antico nel Rinascimento, Atti del v Conv. Int. di studi sul Rinascimento, Firenze 2-6 settembre 1956, Firenze, 1958, p. 170 sg., tav. vii. Sul tipo si veda L. Beschi, Bronzi antichi nel Rinascimento fiorentino: alcuni problemi, Alba Regia, xxi, 1984, p. 120 sg., tav. lviii; P. P. Bober, R. Rubinstein, Renaissance Artists and Antique Sculpture. A Handbook of Sources, London, 1986, p. 73 sg., n. 30; P. P. Bober, The Census of Antiquities Known to the Renaissance, in Roma, centro ideale della cultura dell’Antico, a cura di S. Danesi Squarzina, Milano, 1989, p. 375; e da ultimo G. Agosti, V. Farinella, scheda n. 3, in Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo, a cura di cat. mostra, P. Barocchi, Firenze, 1992, p. 38 sg. 228 stefano bruni · cristina cagianelli del Carmine, eseguito da Giulio Campagnola nel 1505, ne conferma la notorietà anche nell’ambiente veneto.16 Preme tuttavia ricordare come solo gli esemplari delle collezioni fiorentine siano accompagnati dalla denominazione di «gnudo della paura», denominazione che appare per la prima volta nell’inventario laurenziano del 149217 e come forse non casualmente il bronzo estense sia ricordato nell’inventario redatto alla morte di Ercole II come «il villano della paura» e in quello del 1584 come «il nudo dalla paura».18 La presenza della statuetta a Ferrara non sorprende, ma anzi sembra inserirsi compiutamente nel quadro dei rapporti, politici e culturali, tra la capitale del Ducato degli Este e Firenze che segnano la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento e che vedono, tra l’altro, il trasferimento di docenti dallo Studio Ferrarese a quello fiorentino e viceversa, la presenza di membri degli Strozzi residenti sia a Firenze che a Ferrara, ovvero la predicazione del ferrarese Savonarola nella Firenze post laurenziana, per non ricordare che i casi più noti.19 Nella stessa prospettiva può essere inserito anche un bronzo di Ercole appoggiato alla clava, significativamente riprodotto assieme allo Gnudo della Paura estense in un disegno degli inizi del xvi secolo dell’Ashmolean Museum di Oxford20 e ricordato nell’inventario del 155921 – che deve riconoscer- si in un bronzetto alto cm 35 della Galleria modenese, recentemente riferito ad un atelier attivo nell’Italia settentrionale, forse ferrarese, nell’ultimo quarto del xv secolo,22 ma verosimilmente anch’esso fiorentino e comunque espletato su coevi modelli fiorentini23 – ovvero in una statuetta di Pier Jacopo Alani Bonacolsi ora a Modena:24 entrambi sono descritti nell’inventario del 1584.25 Non è possibile in questa sede seguire passo passo l’accrescersi della collezione. Tuttavia andrà ricordato come la documentazione d’archivio risulti per gli anni di Alfonso I, per quanto riguarda questo specifico settore, drammaticamente poco eloquente. Alfonso, infatti, impegnato nella realizzazione dei suoi celebri Camerini secondo un ben preciso programma volto ad esaltare il Duca e la dinastia degli Este, oltre che con le grandi tavole dipinte – anche con le copiose citazioni dell’antico e con i riferimenti eruditi alle più famose statue antiche, dal Torso del Belvedere al Laocoonte, alla c. d. Madonna Ferrara, della decorazione scultorea del Lombardo26 – sembra prediligere nei suoi gusti collezionistici il settore delle monete e delle medaglie.27 Tuttavia se alcune lettere dei suoi ambasciatori testimoniano come il Duca ricercasse a Roma «medaglie, teste e figure», contando sull’aiuto, oltre che del suo rappresentante Beltramo Costabili,28 anche di Raffaello, nominato 16 L. Grossato, Affreschi del Cinquecento a Padova, Padova, 1966, p. 42. Cfr. anche A. M. Massinelli, Bronzi ed anticaglie nella Guardaroba di Cosimo I, cat. mostra, Firenze, 1991, p. 31, figg. 23-24. Per la fortuna del tipo nella produzione veneta del xvi secolo si veda, inoltre, A. Augusti, Bronzetti veneti del Rinascimento nelle collezioni pubbliche a Venezia, in Lo statuario pubblico della Serenissima. Due secoli di collezionismo di antichità 1596-1797, cat. mostra, Venezia, 1997, p. 120, fig. 17 Si veda la bibl. citata nella scheda di G. Agosti, V. Farinella, op. cit. a nota 15. 18 Cfr. nota 14. 19 Per i rapporti dello Studio Ferrarese con l’ambiente fiorentino si veda A. F. Verde, Studenti e professori fra l’Università di Ferrara e l’Università di Firenze: fine del Quattrocento-inizio del Cinquecento, in Castelli, L’ideale classico, cit. a nota 2, p. 75 sg. (con altri rifer.). Per gli Strozzi si veda, per ora, il volume Gli Strozzi Sacrati a Ferrara. Gli splendori estensi e la raffinatezza fiorentina rivivono nella storia del marchese Massimiliano, Ferrara, 1997. Per l’arrivo del Savonarola a Firenze la bibliografia è sterminata. 20 K. T. Parker, Catalogue of the Collection of Drawings in the Ashmolean Museum. 2. The Italian School, Oxford, 1956, n. 624. 21 Inventario 1559: «Un Hercole con la clava». 22 Modena, Galleria Estense inv. 6924: cfr. Natur cit. a nota 14, p. 395 sg., n. 92. 23 Natur cit. a nota 14, p. 396, n. 93 (con altra bibl.). 24 L. Planiscig, Die estensische Kunstsammlung. i . Skulpturen und Plaketten des Mittelalters und der Renaissance, Kunsthistorisches Museum Wien, Wien, 1919, p. 146, n. 231, fig. 231; A. H. Allison, Un riesame dell’opera di Antico, in Bonacolsi l’Antico. Uno scultore nella Mantova di Andrea Mantegna e di Isabella d’Este, cat. mostra, Mantova, 2008, p. 18 sg., figg. 2-6. 25 Inventario 1584, c. 20 (p. 19): «Un Hercole grande in piedi si posa su la clava con un poco di panno alla man manca. Un altro pur simile a quello quasi in tutto». 26 M. J. Marek, Alfonso I d’Este e il programma del suo studiolo, in Frescobaldi e il suo tempo, Venezia, 1983, p. 77 sg. Cfr. anche K. Faber, Il trionfo di Bacco. Capolavori della scuola ferrarese a Dresda, cat. mostra, Ferrara, 2003, p. 28 sg.; C. Hope, Cacce e baccanali nei Camerini d’Este, in Un Rinascimento singolare. La corte degli Este a Ferrara, cat. mostra, Bruxelles, 2003, p. 279 sg.; Idem, I Camerini d’alabastro: la collocazione e la decorazione pittorica, in Il Camerino di alabastro, cit. a nota 14, p. 83 sg.; J. Bentini, La via coperta e i camerini: ipotesi per la restituzione di un percorso artistico, in Il Castello e la città. Esperienze di restauro, riuso e musealizzazione, Atti del convegno Ferrara 13-14 novembre 2000, Ferrara 2002, p. 31 sgg; C. Hope, Il Camerino di marmo: ipotesi per una ricostruzione, in Atti di convegni di studi “Il restauro del Camerino dei Marmi di Alfonso I d’Este ed i rilievi di Antonio Lombardo. Studi dei bassorilievi del museo Ermitage e ricerche per ilrestauro dei camerini di Alfonso”, Ferrara, 7 aprile 2005 e 30 settembre 2005, Ferrara 2008, p. 21 sgg.; cfr. anche in questo stesso volume la relazione di M. Borrella, Il camerino dei marmi nell’appartamento di Alfonso I e le tracce architettoniche nella via Coperta, p. 17 sgg. Sugli indirizzi collezionistici di Alfonso I cfr. ora W. Gunderscheimer, Alfonso I d’Este and the Limits of Princely Patronage, in L’età di Alfonso I e la pittura del Dosso, Atti convegno Ferrara, 9-12 dicembre 1998, Modena, 2004, p. 3 sg. 27 Su cui si veda ora M. Ceriana, Materia e ornamento dello Studio dei marmi, in Il Camerino di alabastro, cit. a nota 14, p. 55 sg., con bibl. prec. 28 Corradini, Per una storia, cit. a nota 1, p. 180, con rifer. appunti sul cosiddetto ‘ apollo di dal 1515 commissario alle antichità di Roma,29 i bronzi dovevano costituire per Alfonso un tema particolarmente caro, stante la sua passione per la fusione in metallo di cui offre testimonianza Paolo Giovio,30 riverberata anche dalla centralità del mito di Vulcano a Ferrara in quegli stessi anni.31 L’assenza di un inventario e di altri documenti impedisce, al momento, di diradare la nebbia che avvolge la collezione di Alfonso e di dare una più precisa consistenza all’immagine di quel «bellissimo camerino fatto tutto di marmoro da carrara et di meschi con figure et fogliamenti molto belli excellentemente lavorati, adornato de vassetti et figurine antiqua et moderne i di marmor i di metall» che Stazio Gadio, agente dei Gonzaga, decantò ad Isabella il 1 giugno 1517 nel resoconto della visita alle stanze della Via Coperta del figlio Federico, futuro signore di Mantova, durante il suo soggiorno ferrarese.32 Ciononostante, se resta assai incerta l’appartenenza alla collezione del terzo duca di Ferrara del bronzetto di Eracle, modellato sul tipo del Torso del Belvedere, opera di Andrea Brioso detto Il Riccio conservata a Madrid,33 certa è la presenza nella raccolta del terzo Duca di un Ercole 29 G. Campori, Notizie inedite di Raffaello da Urbino tratte dai documenti dell’Archivio Palatino di Modena, Modena, 1863, p. 6 sg.; Corradini, Per una storia, cit. a nota 1, p. 180 e nota 13. 30 P. Giovio, La vita di Alfonso d’Este duca di Ferrara, Firenze, 1553; Id., La vita di Alfonso d’Este duca di Ferrara, tradotta in lingua toscana da Giovanbattista Gelli Fiorentino, Venezia, 1597. Cfr. E. Milano, Casa d’Este dall’Anno Mille al 1598, in Gli Estensi. i. La corte di Ferrara, a cura di R. Iotti, Modena, 1997, p. 61. 31 A. Ballarin, in Il Camerino delle pitture di Alfonso I, a cura di A. Ballarin, i-iv, Padova, 2002, i, p. 91 sg. 32 Mantova, Archivio di Stato, Archivio Gonzaga, busta 1246. La lettera è riportata in C. Hope, The “Camerini di Alabastro” of Alfonso d’Este, in BurlMag, cxiii-cxiv, 1971, p. 649. 33 Madrid, Museo Arquéologico Nacional, inv. 52.72.9. Cfr. M. Erwel, I. von zur Mühlen, Il torso del Belvedere da Aiace a Rodin, cat. mostra, Città del Vaticano, 1998, p. 179 n. 110. 34 Corradini, in Bentini-Spezzaferro, op. cit. a nota 1, p. 163. 35 Verosimilmente opera dell’Antico (così ora anche Marchesi, op. cit. a nota 14, p. 124) sono tre bronzi descritti nell’Inventario 1559 come «Una figura grande con li capelli adorati […] Una figura con un panno adorato […] Un’altra figura con un panno adorato», nei quali le dorature dei particolari sembrano rimandare alle cifre stilistiche di questo artista, per il quale si veda ora A. H. Allison, The Bronzes of Pier Jacopo Alari-Bonacolsi called Antico, JbKuSammlWien, lxxxix-xc, 1993-1994, p. 37 sg.; su questo artista si veda ora il bel catalogo dell’esposizione tenutasi a Mantova nel 2008, cit. a nota 24. Non rientra tra questi il “Meleagro” conservato al Victoria and Albert Museum di londra (inv. A.27-1960), o una sua replica ad oggi sconosciuta, in cui Radcliffe ha proposto di riconoscere il “Villanello” ricordato nell’inventario del 1584 della Guardaroba di Alfonso II (Inventario 1584, p. 8. Cfr. A. Radcliff, in Splendors of the Gonzaga, cat. Mostra London 1981, p. 46 sgg., p. 134 sg. n. 54; e ora M. Hammett - P. Motture, in Bonacolsi l’Antico cit. a nota 24, p. 192 n. 3). Su questa identificazione gravano, tuttavia, non pochi dubbi: la scarna descrizione dell’inventario (“Uno Villanello già donato all’Ill.mo sig.Don Francesco”), che ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 229 di Antonio Elia, spedito a Ferrara da Roma nel 1517 da Beltramo Costabili,34 mentre solo congetturale può considerarsi l’assegnazione agli anni di Alfonso I di alcuni bronzi riconducibili con verosimiglianza all’opera di Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto L’Antico, ricordati nell’inventario del 1559 come posti sopra la cornice del «Camerino minor» ovvero il «Camerino di marmo»,35 acquisiti forse grazie all’influenza della sorella Isabella,36 che negli stessi anni andava favorendo questo settore collezionistico, riunendo nell’appartamento della Grotta nella Corte vecchia della Reggia di Mantova una coerente raccolta di piccoli bronzi,37 e che aveva sollecitato proprio l’opera dell’Alari.38 Del pari priva di riscontri inventariali la presenza già negli anni di Alfonso I del cosiddetto “Apollo di Ferrara”,39 che – come vedremo – risulta invece acquisizione del nipote, Alfonso II. Un notevole impulso a questo settore delle raccolte dei duchi di Ferrara sembra essere stato dato da Ercole II, come lascia intravedere, ad esempio, l’acquisto nel 1553 dal veneziano Monsignor Martini di «una figura di bronzo antiquo e bella di un giovine»40 (che ancora non siamo riusciti ad identificare) o il doperaltro non fa cenno alle estese dorature esibite dal bronzo dell’Antico, sembra infatti riferirsi piuttosto ad una scultura in marmo e non ad un bronzo, ricordando la statua già donata a Francesco d’Este, fratello di Ercole II e marchese di Massalombarda, tra le sculture in pietra poste a terra di fianco alla porta d’ingresso dell’Antichario, sotto la pianta di Roma disegnata da Pirro Ligorio. 36 Per i rapporti di Alfonso I con la sorella Isabella cfr. ora C. M. Brown, Per dare qualche splendore a la gloriosa cità di Manta. Documents for the Antiquarian Collection of Isabella d’Este, Roma, 2002, p. 324 sg. 37 Sulla raccolta ha scritto pagine importanti C. M. Brown, op. cit. a nota 36; Id., “Lo Insaciabile desiderio nostro de cose antique”: New Documents on Isabella d’Este”s Collection of Antiquities, in Cultural Aspects of the Italian Renaissance. Essays in Honour of P. O. Kristeller, Manchester, 1976, p. 324 sg.; Id., La Grotta di Isabella d’Este. Un simbolo di continuità dinastica per i duchi di Mantova, Mantova, 1985; Id., “Fruste et strache nel fabbricare”: Isabella d’Este’s apartments in the Corte Vecchia of the Palazzo Ducale in Mantua, in La Corte di Mantova nell’età di Andrea Mantenga: 1450-1550, a cura di C. Mozzarelli, R. Oresko, L.Ventura, Roma, 1997, p. 295 sg.; Id., Isabella d’Este Gonzaga’s Augustus and Livia cameo and the Alexander and Olympias gems in Vienna and Saint Petersburg, in Engraved Gems: Survival and Revival, a cura di C. M. Brown, Hannover-London 1997, p. 85 sg.; cfr. anche C. M. Brown, A. M. Lorenzoni, The Grotta of Isabella d’Este, gba , lxxxix, 1977, p. 155 sg. e xci, 1978, p. 72 sg.; Id., Collecting Greco-Roman Art in Mantua in the Age of Francesco I Gonzaga and the documentation for the date of Isabella d’Este’s move in the Corte Vecchia, QuadPalTe, n.s. iii, 1996, p. 19 sg.; C. M. Brown, L. Ventura, Le raccolte di antichità dei duchi di Mantova e dei rami cadetti di Guastalla e Sabbioneta, in Gonzaga. La Celeste Galleria. L’esercizio del collezionismo, cat. mostra, a cura di R. Morselli, Mantova, 2002, p. 53 sg. 38 M. Leithe-Jasper, Isabella d’Este und Antico, in “La prima donna del mondo” Isabella d’Este. Fürstin und Mäzenatin der Renaissance, cat. mostra, Wien, 1994, p. 317 sg. 39 Ipotizzata da Venturi, op. cit. a nota 1, p. 65. 40 Venturi, op. cit. a nota 1, p. 71 e nota 2. 230 stefano bruni · cristina cagianelli no di «uno cingiaro sul piedistallo di marmor molto bello» da parte del fratello,41 card. Ippolito, che nella sua villa di Tivoli conservava, tra le altre antichità, anche una piccola raccolta di bronzi.42 Alla morte del quarto Duca di Ferrara, nel 1559, l’inventario della guardaroba del Castello di Ferrara registra trentotto pezzi distribuiti sopra la cornice del «Camerino minor», definito anche «studio overo Camerino di marmo». Non tutti i bronzi sono stati al momento rintracciati e per alcuni di essi l’identificazione, stante la genericità della descrizione dell’inventario, è operazione disperante, se non del tutto illusoria. Oltre all’Ercole e allo Gnudo della paura, nonché l’Ercole a cavallo di Bertoldo di Giovanni prima ricordati, l’inventario ricorda, tra gli altri, due statuette di «Hercole con Cacho», un «Mercurio», «un bambino che ha sulle spalle una cornucopia» che ancora non è stato possibile recuperare al godimento nel loro concreto aspetto, ma certamente non antiche; inoltre, un satiro verosimilmente da riconoscersi nel bel bronzo di Severo da Ravenna43 e il giovane elmato con trofeo, di scuola nord-italica, della prima metà del xvi secolo,44 nonché tre teste, una di «donna mora […] bellissima e comodata», forse da identificare in un bronzo veneto della Galleria Estense, e verosimilmente i due busti femminili della bottega dei Lombardo, forse fusi da Severo da Ravenna, anch’essi a Modena.45 Con ogni probabilità antiche dovevano essere, invece, «una piccola figura con un sol braccio», «una figura che non ha braccia», per quanto non manchino opere rinascimentali concepite come frammentarie ad imitazione di reperti antichi,46 e «una figura granda con uno scudo in mano» che, per quanto finora non rintracciata, è meglio descritta nell’inventario del 1584 co- me «una figura d’uno piede s’un piedistallo vestita molto vagamente con uno scudo alla man manca con conciero di capo assai minuto, la man drita alta come che tenga una hasta in mano, così potrebbe essere una Pallade come un altro soldato».47 Per quanto le dimensioni – la statua sembra essere alta una quarantina di centimetri – sembrino coerenti più con un bronzo rinascimentale che non antico, anche se non mancano esempi di altezza similare,48 la statua sembra restituire, come ha ben visto l’estensore dell’inventario del 1584, l’iconografia di una Athena Promachos, tipo conosciuto attraverso non pochi bronzetti etruschi e di area centro-italica di età tardoarcaica e classica,49 ma pressoché estraneo – per quanto è noto – nel repertorio dei soggetti della piccola plastica del Rinascimento. Le caratteristiche di scritto amministrativo dell’inventario e la genericità delle descrizioni dei vari bronzi, ventiquattro dei quali collocati sulla cornice del Camerino di marmo e gli altri distribuiti in alcuni di quelli che l’estensore del documento definisce «quadri», verosimilmente scansie lignee, assieme a ceramiche e altri oggetti, impediscono di valutare il rapporto di queste sculture con il programma concettuale dello studio, di cui, peraltro, la perdita della cornice architettonica e le difficoltà di interpretazione, quanto alla funzione decorativa e alla collocazione, dei raffinati rilievi di Antonio Lombardo consentono in forme solo estremamente congetturali, se non disperanti ed illusorie, una valutazione. Tuttavia se le vicende che hanno segnato la storia del Camerino di marmo e dei suoi apparati – di cui dovevano essere parte integrante anche le «varie teste antiche et moderne de sculptori» collocate «sopra tutti li ussi», ricordate da Bernardino de’ Prosperi in 41 Inventario 1584, c. 7v (p. 15). 42 Venturi, op. cit. a nota 1, p. 66. 43 Recentemente Marchesi, op. cit. a nota 14, p. 124, ha proposto di riconoscervi un’opera di Andrea Brisco detto Il Riccio (su cui si veda ora C. Avery, Andrea Brioso detto Il Riccio, in Donatello e il suo tempo. Il bronzetto a Padova nel Quattrocento e nel Cinquecento, cat. mostra, Padova, 2001, p. 93 sg. nonché adesso il monumentale catalogo della mostra tenutasi a Trento nel 2008 a cura di A. Bacchi e L. Giacomelli, Rinascimento e passione per l’antico. Andrea Riccio e il suo tempo) L’ipotesi, per quanto verosimile e seducente, resta tuttavia altamente congetturale, mancando di qualsiasi riscontro oggettivo. 44 Modena, Galleria Estense, inv. 2126. Cfr. Venturi, op. cit. a nota 1, p. 98 sg., fig. 32; Marchesi, op. cit. a nota 14, p. 124. 45 Modena, Galleria Estense, inv. 2123. Cfr. Venturi, op. cit. a nota 1, p. 98 sg., fig. 34; W. Bode, Die italienischen Bronzestatuetten de Renaissance, Berlin, 1907, tav. 85.3. A. Luchs, Tullio Lombardo and ideal portrait sculpture in Renaissance Venice: 1490-1530, Cambridge 1995, p. 99 e p. 288, fig. 164; T. Rago, in Rinascimento e passione per l’antico. Andrea Riccio e il suo tempo, cit. a nota 43, p. 310 n. 34.. 46 Pope Hennessy, op. cit. a nota 13, n. 35. 47 Inventario 1584, p. 18. 48 Si vedano, a titolo di esempio, la statuetta da Apiro (alt. cm 40: cfr. Cristofani, I bronzi, cit. a nota 6, p. 270, n. 55, con bibl.); il c. d. Laran di Ravenna (alt. cm 37: cfr. ora C. Cagianelli, Sulla provenienza del Marte cosiddetto di Ravenna, StClOr, lxvii, 1, 1999, p. 367 sg., tav. i); il Guerriero di Berlino (alt. cm 36: cfr. Cristofani, I bronzi, cit. a nota 6, p. 272, n. 58, con bibl.); un Offerente già nella collezione di Francesco de Medici ed ora al Museo Archeologico di Firenze (alt. cm 35: Cristofani, I bronzi, cit. a nota 6, p. 270, n. 56, con bibl.). 49 Si veda G. Colonna, s.v. Athena/Menerva, in limc , ii, p. 1056 sg., n. 53 sg. Per il tipo cfr. anche H. G. Niemeyer, Promachos. Untersuchungen zur Darstellung der bewaffneten Athena in archaischer Zeit, Waldsassen, 1960, p. 89 sg. Per i tipi greci cfr. P. Damargne, s.v. Athena, in limc , ii, p. 969 sg.; I. Kasper Butz, Die Göttin Athena im klassischen Athen, Frankfurt-Bern-New York-Paris, 1990, p. 178 sg.; per i rari esempi romani cfr. F. Canciani, s.v. Athena/Minerva, in limc , ii, p. 1090, nn. 224-226. appunti sul cosiddetto ‘ apollo di ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 231 una lettera del 4 ottobre 1518 ad Isabella d’Este50 – non permettono di riguadagnare il programma ideologico del complesso, le annotazioni dell’inventario del 1559 circa la distribuzione dei bronzi lasciano supporre che essi non rientrassero nel programma iconografico del Camerino, ma costituissero solo una delle componenti la collezione dei Duchi di Ferrara, di cui il Camerino di marmo con il suo apparato decorativo rappresentava – per dirla con un brutto termine oggi anche troppo abusato – il prezioso contenitore. I bronzi, assieme agli altri oggetti (maioliche, ceramiche, vasi in pietre dure, medaglie, mirabilia, sculture ed altri manufatti antichi e rari), erano, apparentemente, parte di quella raccolta che rappresentava, secondo un costume che affondava le proprie radici nel xv secolo,51 uno degli aspetti caratterizzanti le forme autocelebrative della ricchezza e del potere degli Este. Una conferma a questa ipotesi sembra venire dal destino dei bronzi e degli altri oggetti negli anni immediatamente successivi, quando, verso il 1571, Pirro Ligorio mise mano, su incarico di Alfonso II, alla realizzazione del nuovo complesso dell’Antichario, realizzato, assieme alla biblioteca, al piano superiore del lato sud-orientale del Castello (Fig. 5),52 progetto che si inserisce nel quadro degli interventi ligoreschi nel Castello dopo il terremoto che colpì Ferrara il 16 novembre del 1570, in particoFig. 5. Pirro Ligorio, lare con la realizzazione del grande appartamento di Progetto per la libreria e per l’Antichario di Alfonso II, rappresentanza, noto come “dello Specchio”, da Torino, Archivio di Stato, ii. 20, J.7, f. 87r. 50 Mantova, Archivio di Stato, Archivio Gonzaga, busta 1246. La lettera è stata pubblicata da Hope, op. cit. a nota 32, p. 649. 51 Si vedano al riguardo le osservazioni di Liebenwein, op.cit. a nota 9, part. p. 62 sg. 52 Sul progetto della Libraria e dell’Antichario, e il suo coerente inserimento nella cultura erudita ed antiquaria del secondo Cinquecento, si veda C. Franzoni, “Rimembranze d’infinite cose”. Le collezioni rinascimentali di antichità, in Memoria dell’antico nell’arte italiana. I. L’uso dei classici, a cura di S. Settis, Torino, 1984, p. 314. Le piante di questo progetto sono conservate a Torino, Archivio di Stato, ms. J.a.ii.7, vol. xx, cc. 87r-88v, riprodotte qui alle figg. 00-00. Per Pirro Ligorio cfr. E. Mandowsky, C. Mitchell, Pirro Ligorio’s Roman Antiquities, The Drawings in ms.xiii .B.7 in the National Library in Naples, London, 1963; Pirro Ligorio. Artist and Antiquarian, Atti del colloquio Settignano 1983, a cura di R. W. Gaston, Milano, 1988; G. Vagenheim, Les inscriptions ligoriennes. Notes sur la tradition manuscripte, ItMedUman, xxx, 1987, p. 199 sg. [p. 264 per Ferrara]; A. Schreurs, Das antiquarische und das kunsttheorische Konzept Pirro Ligorios, KölnJb, xxvi, 1993, p. 57 sg. Cfr. anche Pirro Ligorio e le Erme tiburtine I. 1. Le Erme tiburtine e gli scavi del Settecento, a cura di B. Palma Venetucci, i, 2, Roma, 1992; G. Vagenheim, La falsification chez Pirro Ligorio. A la lumière des Fasti Capitolini et des inscriptions de Préneste, Eutopia, III, 1994, n. 1-2, p. 67 sg.; F. Rausa, Pirro Ligorio. Tombe e mausolei dei Romani, Roma, 1997; B. Palma Venetucci (a cura di), Pirro Ligorio e le Erme di Roma, Roma 1998; A. Schreurs, Antikenbild und Kunstansschauungen des Pirro Ligorio (1513-1583), Köln 2000; A. Ranaldi, Pirro Ligorio e l’interpretazione delle ville antiche, Roma 2002. Si veda ora anche D. R. Coffin, Pirro Ligorio. The Renaissance Artist, Architect an Antiquarian, University Park, Pennsylvania, 2004. R. W. Gaston, Merely antiquarian: Pirro Ligorio and the critical tradition of antiquarian scholarship, in The Italian Renaissance in the twentieth century, Atti del colloquio Firenze 9-11 giugno 1999, Firenze 2002, p. 355 sgg.; G. Vagenheim, Pirro Ligorio et les descriptions de la Ville d’Hadrien à Tivoli, in M. Mosser e H. Lavagne (a cura di), Hadrien, empereur et architecte: la Ville Hadrien, Genève 2002, p. 63 sgg.; A. Schreurs, Ein Blick auf die Statuen im Belvederehof: Pirro Ligorio, Benvenuto cellini und die Antike, in A. Nova e A. chreurs (a cura di), Benvenuto Cellini: Kuns und Kunsttheorie im 16. Jahrhundert, Böhlau 2003, p. 275 sgg.; G. Vagenheim, Pirro Ligorio e le false iscrizioni della collezione di antichità del cardinale Rodolfo Pio di Carpi, in Alberto III e Rodolfo Pio da Carpi, collezionisti e mecenati, Atti del seminario Carpi 22-23 novembre 2002, Udine 2004, p. 109 sgg.; C. Volpi, La favola moralizzata nella Roma della Controriforma: Pirro Ligorio e Federico Zuccari, tra riflessioni teoriche e pratica artistica, «Storia dell’arte» n.s. 9 (109), 2004, p. 131 sgg.; G. Vagenheim, “Manus epigraphicae”: Pirro Ligorio et d’autres érudits dans les recuils d’inscriptions latines de Jean Matal, in M. Deramiax e G. Vagenheim (a cura di), L’Italie et la France dans l’Europe latine du xiv e au xvii e siècle: influences, émulation, traduction, Rouen 2006, p. 233 sgg.; Eadem, Appunti per una posopografia dell’Accdemia dello Sdegno a Roma. Pirro Ligorio, Latino Latini, Ottavio Pantagato e altri, «Studi umanistici piceni» 26, 2006, p. 211sgg.; A. Schreurs, Lo studio dell’antico a Napoli: il tempio dei Dioscuri, disegnato da Pirro Ligorio, «Journal de la Renaissance» 4, 2006, p. 89 sgg.; 232 stefano bruni · cristina cagianelli identificarsi con ogni probabilità negli ambienti affrescati oggi noti come “Salone” e “Saletta dei Giochi” o “delle Stagioni” e “Sala dell’Aurora”.53 I bronzi, unitamente agli altri oggetti che nel Camerino di marmo si trovavano nei “quadri”, sulla “panca” e sulle “tavole”,54 furono trasferiti nell’Antichario e vennero collocati assieme agli altri monumenti acquisiti dall’ultimo Duca di Ferrara senza tener conto della loro originaria provenienza.55 In questo stato di cose, se è pur vero che Ercole II sembra, al pari di suo nonno, particolarmente attratto nei propri gusti collezionistici dalla ricerca di soggetti erculei – sia perché esempio di virtus e di fortitudo, sia in forza della sua omonimia con l’eroe greco, come testimonia, da un lato, il poema che nel 1557 gli dedica Giovan Battista Cinzio Giraldi,56 e dall’altro, la serie di statue di Ercole che ora il fratello, card. Ippolito, ora altri personaggi legati alla corte estense a più riprese gli inviano –,57 per quanto riguarda i bronzi enfatizzare questo aspetto, come pure è stato recentemente fatto,58 risulta operazione sostanzialmente illusoria. Infatti per quanto la mag- gior parte dei bronzetti del Camerino di marmo celi il proprio aspetto dietro le generiche descrizioni dell’inventario, che ricordano il più delle volte solo «una figura di metallo», limitandosi a indicare solo gli aspetti dimensionali dei singoli pezzi, le immagini di Ercole sembrano costituire una componente nettamente minoritaria della raccolta, risultando solo tre (quattro considerando anche l’Ercole equestre di Giovanni di Bertoldo). Tuttavia è con Alfonso II che la raccolta di bronzi di Ferrara acquista un rilievo inusitato che la pone, senza ombra di dubbio, sia per il numero dei pezzi che per lo spettro dei tipi rappresentati, sullo stesso piano di importanza della collezione medicea. Se l’inventario della guardaroba compilato tra il febbraio e il giugno del 1561 da Francesco Contugi non ricorda nessun bronzo,59 certamente tra il 1561 e il 1584 le acquisizioni di bronzi, e non solo di quelli, devono essere divenute sempre più frequenti, tanto che pare fuorviante, se non errato, il ritratto, recentemente delineato, di un Alfonso «meno determinato del padre a raccogliere testimonianze di C. Bragaglia Venuti, Etienne Dupérac and Pirro Ligorio, «Print Quarterly» 23, 2006, p. 408 sgg.; S. Russell, Pirro Ligorio, Cassiano dal Pozzo and the Republic of Letters, «Papers of the British School at Rome» lxxv, 2007, p. 239 sgg.; C. Occhipinti, Pirro Ligorio e la storia cristiana di Roma. Da Costantino all’Umanesimo, Pisa 2007; G. Vagenheim, La collaboration de Benedetto Egio aux Antichità romane de Pirro Ligorio: à propos des inscriptions grecques, in Testi, immagini e filologia nel xvi secolo, Atti delle giornate di studio Pisa 30 settembre - 1 ottobre 2004, Pisa 2007, p. 205 sgg.; S. Tomasi Velli, Pirro Ligorio tra ricostruzione antiquaria e invenzione: i circhi e le naumachie di Roma, ibidem, p. 225 sgg.; G. Vagenheim, Une lettre inédite de Pirro Ligorio à Ercole Basso sur la “Dichiaratione delle medaglie antiche”: naissance de la numismatique à la Renaissance, in L’antiche e le moderne carte. Studi in memoria di Giuseppe Billanovich, Padova 2007, p. 569 sgg.; S. Tomasi Velli, Le immagini e il tempo. Narrazione visiva, storia e allegoria tra Cinque e Seicento, Pisa 2007; G. Vagenheim, Una collaborazione tra antiquario e erudito: i disegni e le epigrafi di Pirro Ligorio nel De arte gymnastica di Girolamo Mercuriale, in Girolamo Mercuriale: medicina e cultura nell’Europa del Cinquecento, Atti del convegno Forlì 8-11 novembre 2006, Firenze 2008, p. 127 sgg.; C. Cieri Via, Tempus vincit omnia: Pirro Ligorio fra Roma e Ferrara, in Programme et invention dans l’artde la Renaissance, Paris 2008, p. 127 sgg.; C. Bragaglia Venuti, Per l’interretazione dei cicli decorativi di Pio IV: alcune considerazioni di Pirro Ligorio, ibidem, p. 109 sgg.; C. Occhipinti, Daniele Barbaro, Pirro Ligorio e Andrea Palladio: incontri romani, in Palladio 1508-2008, Atti del simposio PadovaVicenza-Verona-Venezia 5-10 maggio 2008, Venezia 2008, p. 109 sgg.; U. Peter, Die Münzprägung des Galba in der Interpretation von Pirro Ligorio, «Pegasus. Berliner Beiträge zum Nachleben der Antike» 10, 2008, p. 123 sgg.; G. Vagenheim, Le “Antichità Romane” de Pirro Ligorio et l’Accademia degli Sdegnati, in Les Académies dans l’Europe humaniste: idéaux et pratiques, Atti del colloquio Parigi 10-13 giugno 2003, Genève 2008, p. 99 sgg. Per l’attività del Ligorio a Ferrara, dove giunge nel 1568-1569 raccomandato dal card. Ippolito II d’Este (cfr. ?. Pacifici, Ippolito secondo d’Este, dove quando, p. 399) e dal card. Alessandro Farnese (cfr. la lettera pubblicata in C. Lamb, Die Villa d’Este in Tivoli. Ein Beitrag zur Geschichte der Gartenkunst, München 1966, p. 86) e vi ri- mane sino alla morte, si veda, in part., D. R. Coffin, Pirro Ligorio and the Decoration of the late Sixteenth Century at Ferrara, ab , xxxvii, 1955, p. 167 sg.; A. Cavicchi, Appunti su Ligorio a Ferrara, in BentiniSpezzaferro, op. cit. a nota 1, p. 137 sg.; B. Palma Venetucci, Pirro Ligorio and the Rediscovery of Antiquity, in The Rediscovery of Antiquity. The Role of the Artist, a cura di J. Fejfer, T. Fischer Hansen, A. Rathje, (= ActaHyp, X), Copenhagen 2003, p. 74 sg.; Coffin, Pirro Ligorio. The Renaissance Artist cit.supra, p. 107 sg. Per la biblioteca di Alfonso II cfr. D. Fava, Alfonso II raccoglitore di codici greci, RendIstLom, 41, 1918, p. 481 sg.; Id., La biblioteca estense nel suo sviluppo storico, Modena. 53 Importante per le precisazioni e le proposte di identificazione degli interventi ligoriani J. Bentini, Precisazioni sulla pittura a Ferrara nell’età di Alfonso II, in Bentini-Spezzaferro, op. cit. a nota 1, p. 84 sg., nota 17. Per il Castello di Ferrara si veda, ora, M. Borella, Il Palazzo di Corte dei duchi d’Este in Ferrara (1471-1598), in Il trionfo di Bacco, cit. a nota 26, p. 17 sg.; Il Castello Estense, a cura di J. Bentini, M. Borella, Ferrara, 2003. 54 Per i vasi si veda ora Le Ceramiche dei Duchi d’Este. Dalla Guardaroba al collezionismo, cat. mostra, a cura di F. Trevisani, Sassuolo, 2000, ed in particolare il saggio di C. Ravanelli Guidotti a p. 30 sgg., con bibl. 55 Vedi infra p. 00. 56 Dell’Hercole di M. Giovanbattista Giraldi Cinthio nobile ferrarese, secretario dell’illustrissimo et eccellentissimo Signore Hercole Secondo da Este, duca quarto di Ferrara, canti ventisei, Modena, 1557. 57 Corradini, Per una storia, cit. a nota 1, p. 180 sg., con rifer. 58 Marchesi, op. cit. a nota 14, p. 123 sg. 59 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale Estense, 12 Amministrazione della Casa. Guardaroba, 185: Inventario delle robbe della Ducale gardarobba principiato alli 16 di febraro 1561, et li quali robbe furono consegnate insieme con le chiavi di essa guardarobba al molto Ill. Sign. Hercole Bonaccioni fatto et pubblicato da Sua Ecc.zia Suo Ducale Guardarrobbiero il di ultimo di giugno 1561. Si segnala che alle cc. 142r-v sono registrati «Diversi retratti et pitture et impronti» e alla c. 90 «figure di santi et altre cose di marmore», tra cui varie statue di santi, madonne, un S. Francesco ed infine «figurine di marmore a più sorti». appunti sul cosiddetto ‘ apollo di antichità».60 L’inventario della Guardaroba compilato nel 1584 da Agostino Mosti elenca, infatti, ben 166 bronzi più «parecchi fragmenti antiqui et non antiqui umani et d’animali et alcune metope non mala robba, e manine, pedini, et gambe», raccolti, assieme ad «una tazza granda col piede», in una «tavoletta da medaglie» posta in fine sulla prima «scaffa».61 Per quanto la realizzazione del progetto ligoriano dell’Antichario debba aver verosimilmente provocato una ricerca e una raccolta dalle varie residenze estensi dei piccoli bronzi e delle altre sculture e sebbene non tutti i monumenti, certamente, siano stati trasferiti nella nuova sede, come insegna il caso dell’Ercole equestre di Giovanni di Bertoldo – forse rimasto nel Camerino di marmo, non comparendo nell’inventario della Guardaroba del Mosti –, molte devono essere state le nuove acquisizioni, che la documentazione d’archivio finora rintracciata non consente di seguire puntualmente. E se Pirro Ligorio a proposito di una moneta di Pirro il Molosso che si trovava a Ferrara “nelle preciose cose antiche dell’Altezza e serenità de Duca Alfonso secondo” annotava che “lo quale principe, è stato lo primo che habbi fatta una grande et bella ricolletta delle cose antiche più degne di laude”,62 non sembra dovuto alla sola pratica cortigiana la dedica al quarto Duca di Ferrara della raccolta di Antichità, sorta di monumentale enciclopedia in xxxiii libri rimasta manoscritta e conservata a Torino, che lo stesso Ligorio premette al primo libro, rivolgendosi ad Alfonso “come a quel Signore benigno, et amatore degli huomini virtuosi, et amatore della fama di coloro che furono pria triomphanti, et tanto prudenti et forti, che ascesero perlo mezzo della verità sul carro dell’oro, et hebbero le corone, et le imagini del valore nelli Templi d’essa virtù et dell’Hono60 J. Bentini, “Rabeschi, frisi e grottesca”. Un esempio di decorazione pittorica nel Castello Estense di Ferrara fra Ercole I e Alfonso II, in Torquato Tasso e la cultura estense, Atti convegno Ferrara, 10-13 dicembre 1995, Firenze, 1999, ii, p. 685. 61 Inventario 1584, p. 14 sg. 62 Torino, Archivio di Stato, ms. a.ii.14: Libri di Antichità. Vol. xxvii : Medaglie, c. 70v. (il passo è trascritto in A. Schreurs, op. cit., a nota 52, p. 370 n. 180). 63 Torino, Archivio di Stato, ms. a.iii.3: Libri di Antichità. Vol. i , c. 1r. (il passo è trascritto in A. Schreurs, op. cit., a nota 52, p. 340 sg.). Su quest’opera si veda anche L. Mercando, L’opera manoscritta di un erudito rinascimentale: le Antichità di Pirro Ligorio. Alcune note di lettura dei libri 1-23, in I. Massabò Ricci e M. Gattulo (a cura di), L’Archivio di Stato di Torino, Fiesole 1994, p. 201 sgg. 64 Inventario 1584, p. 13. Per i due busti a Adriano e di Vibia Sabina in sembianze di Cerere (quest’ultimo da riconoscere in Modena, Galleria Estense inv. 2621), attribuiti alla cerchia di Ludovico Lombardo, cfr. V. Avery, The production, display andreception of bronze heads and ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 233 re, nei quali ogni huomo nobile deve sedere nella sua gloria. Sendo concultore et Amico della tristitia, et amico della Fortezza, et della salda constantia, de i buoni, et prudenti huomini, lhavemo voluto perciò porre davante a cui degnamente le ama, et le honora. Sapendo io quanto sia l’Amore grande portato da quelle alle Cose buone et eccellenti, lho voluto darle cosi raccolte a vostra Altezza come conserator de molte cose nobile dell’antichi. […]”.63 La collocazione degli oggetti nell’Antichario doveva seguire schemi appena intuibili nei documenti di archivio, ma tuttavia ispirati a criteri largamente diffusi presso i grandi collezionisti e la precedenza nell’inventario dell’elencazione dei marmi riflette evidentemente i criteri amministrativi del documento e non la reale successione dei vari pezzi nell’ambiente. Alcuni bronzi – una testa di Adriano e una di Cerere acquistate a Brescia e «una figurina di bronzo d’uno puttino» – sono ricordati come esposti tra i marmi collocati «sotto la finestra ultima et anco in capo di detta Sala».64 I piccoli bronzi erano invece posti su alcune scafe lungo le pareti, secondo una prassi espositiva nota nel Rinascimento e di cui l’affresco di Carpaccio ricordato all’inizio restituisce, tra gli altri, un’idea. Per quanto l’impossibilità di riguadagnare nel loro reale aspetto molte di queste fusioni ponga non poche limitazioni, dalle indicazioni dell’inventario pare di poter vedere che l’ordinamento non dovesse essere casuale, ma sembra seguire criteri classificatori che distinguono tra i due comparti della stanza. Su un lato, dopo le statuette di animali – tema che proprio nel Cinquecento aveva visto il crescente interesse dei collezionisti, anche a seguito dei nuovi procedimenti tecnici che prevedevano la riproduzione attraverso il calco su animali veri –,65 erano posti i bronzetti di soggetto erotico, le veneri, un arbusts in Renaissance Venice and Padua: surrugate antiques, in J. Kohl (a cura di), Kopf-Bild: die Buste in Mittelalter und Früher Neuzeit, München 2007, p. 85 sgg.; M. Negri, in Rinascimento e passione per l’antico. Andrea Riccio e il suo tempo, cit. a nota 43, p. 528 n. 126. 65 Si vedano le osservazioni di C. Cennini, Trattato della pittura, cap. clxxv. La realizzazione di piccoli bronzi di animali attraverso il calco di esemplari reali doveva essere in quegli anni particolarmente di moda, come testimonia M. de Montagne, Journal du voyage de Michel de Montagne em Italie par la Suisse et l’Allemagne en 1580 et 1581, ed. A. D’Ancona, Città di Castello, 1889, pp. 179 sg., 464, a proposito della Chimera di Arezzo, da lui vista nel maggio del 1581 a Firenze e di cui ricorda come gli fosse stato detto che la statua riproducesse un mostro «trové dans une caverne de montagne de ce pais, et mené vif il y a quelques années» (cfr. anche M. Cristofani, Per una storia del collezionismo archeologico nella Toscana granducale. i. I grandi bronzi, Prospettiva, 17, 1979, p. 12). Sul tema N. Gramaccini, Das genaue Abbild der Natur. Riccios Tiere und die Teorie des Naturabgusses seit Cennino Cennini, in Natur und Antike, cit. a nota 14, p. 198 sg. 234 stefano bruni · cristina cagianelli pocrate, putti ed amorini, tra i quali anche una replica dello Spinario,66 alcuni di quelli di soggetto bacchico e quelli considerati in relazione con la sfera agraria, nonché teste e busti. Sull’altro le lucerne e i bronzi raffiguranti eroi e divinità. La collezione di Alfonso divenne ben presto oggetto dell’interesse di visitatori ed eruditi, come testimonia l’eco che del complesso ligoriano resta negli scritti di Ulisse Aldrovandi, il celebre naturalista ed antiquario bolognese,67 che, oltre ad una descrizione della raccolta «in palatio Ducis Ferrariae», scritta dopo il 1573 – registrando anche il busto di Lucio Vero, la testa di Polifemo, il c.d. Letto di Policleto e altre sculture acquistate nel 1572 dagli eredi del card. Rodolfo Pio di Carpi e giunte a Ferrara tra l’aprile e il maggio dell’anno successivo –,68 nei suoi appunti ricorda sia la «novi castelli structura magnifica et sumptuosa», sia i «Bibliothecae novae praeparamenta esimia: magna vidilicet vetera manuscriptorum librorum copia, at[que] rarissimae antiquitatum reliquiae, nimirum statuae marmoreae. Item nummorum antiquissimorum et elegantissimorum ex auro, argentq[ue] et aere omnis generis. Item gemmarum celatarum capsulae plurimae, quae toto quatriduo exacte perlustrari non possunt. Instrumenta Longo- bardicis literis peririnis exaratum, ex antiquissimo volutine papiraceo descriptum».69 Le note dell’Aldrovandi, finora non richiamate nei vari lavori che sono stati dedicati ai vari aspetti della corte ferrarese di Alfonso II e dell’attività di Pirro Ligorio al suo servizio, offrono una preziosa testimonianza non solo per collocare con maggior puntualité nel tempo la realizzazione della Libraria e dell’Antichario di Alfonso II, ma anche per sottolineare come il progetto ligoriano della biblioteca e della galleria avesse fin dall’origine carattere unitario e ben definito. La galleria, a cui non a caso viene dato – in luogo delle più usuali denominazioni di camerino, studium, museum, theatrum, microcosmus, ovvero archivio o galleria70 – il nome di antichario, non altrimenti attestato per nessun altra raccolta, se non il «camerino nominato el studio delle Antiquità» di Federico II Gonzaga,71 rappresenta, nella sua netta distinzione dalla biblioteca, il luogo deputato dove, pur nella convivenza tra antico e moderno – ma comunque un moderno che consentiva quella sorta di viaggio iniziatico verso l’antico che impronta tutto il collezionismo rinascimentale – ritrovare quegli esempi tangibili della grandezza degli antichi che costituiva l’exemplum per il principe. 66 Modena, Galleria Estense, inv. 2249, riferito alla bottega de l’Antico: E. Corradini, in Bentini, op. cit. a nota 3, p. 475. Per la fortuna del soggetto cfr. Bober-Rubinstein, op. cit. a nota 15, p. 235 sg. A. H. Allison, art. cit. a nota 24, p. 212 sgg.; V. Avery, in In the Light of Apollo. Italian Renaissance amd Greece, cat. mostra Athens 2003, p. 373 n. viii.7; A. Augusti, Riflessi delle scoperte archeologiche sui bronzetti veneti del Cinquecento, in Tullio Lombardo scultore e architetto nella Venezia del Rinascimento, Atti del convegno Venezia 4-6 aprile 2006, Verona 2007, p. 378 e p. 387, nota 5, fig. 1; K. Malatesta, in Rinascimento e passione per l’antico. Andrea Riccio e il suo tempo, cit. a nota 43, p. 302 n. 30; D. Gasparotto, in Bonacolsi l’Antico cit. a nota 24, p. 204 n. v.3. Priva, al momento, di oggettivi riscontri nei documenti d’archivio l’ipotesi – recentemente proposta da T. Previdi, in Gli inventari dell’eredità del Cardinale Rodolfo Pio da Carpi, a cura di C. Franzoni et Alii, Pisa, 2002, p. 117 sub n. 93-che il bronzetto estense sia quello già nella collezione del card. Rodolfo Pio da Carpi, di cui Alfonso II acquistò nel 1572 alcune sculture (cfr. infra, nota 70). 67 Su Ulisse Aldrovandi, che trascorse gran parte della sua vita (1522-1605) a raccogliere, studiare e catalogare animali, piante e minerali per il suo Theatrum Naturae, si veda Il teatro della natura di Ulisse Aldrovandi, cat. mostra, a cura di R. Simili, Bologna, 2001, in part. l’intervento di A. M. Brizzolara, Lo studio dell’antichità, p. 95 sg. (con bibl. prec.). Per la sua collezione cfr. A. M. Brizzolara, Il Museo di Ulisse Aldrovandi, in Dalla stanza delle antichità al Museo Civico. Storia della formazione del Museo Civico Archeologico di Bologna, cat. mostra, a cura di C. Morigi Govi, G. Sassatelli, Bologna, 1984, p. 119 sg.; Eadem, Collezioni di antichità nello Studio, in Il contributo dell’Università di Bologna alla storia della città: l’evo antico, Atti convegno Bologna, 11-12 marzo 1988, Bologna, 1989, p. 131 sg. L’Aldrovandi fu a Ferrara, presso i fratelli Alfonso e Alessandro Panza, nel 1569 e poi nel 1571, come si ricava dalla sua autobiografia: Bologna, Biblioteca Universitaria, Fondo Aldrovandi, ms. 97, cc. 647-670, La vita di Ulisse Aldrovandi comin- ciando dalla sua natività sin a l’età di 64 anni vivendo ancora, ora in Simili, op. cit. supra, p. 131 sg. Per i rapporti dell’Aldrovandi con l’ambiente ferrarese si veda L. Frati, Ulisse Aldrovandi e Ferrara, AttiMemFerrara, s. i, xvii, 1908, p. 75 sg. 68 Bologna, Biblioteca Universitaria, fondo Aldrovandi, ms. 143/ iii, Peregrinorum rerum catalogi, cc. 18r-21r. Il ms. cartaceo, in 4º, in forma di vacchetta, terzo di quattordici volumi legati in mezza pergamena, contiene pagine solo in parte autografe dell’Aldrovandi: cfr. Catalogo dei manoscritti di Ulisse Aldrovandi, a cura di L. Frati, Bologna, 1957, p. 176 sgg.; la descrizione in parola è di mano di un copista ed è stata pubblicata, non senza errori di trascrizione e omissioni, in L. Frati, op. cit. a nota 69, p. 97 sgg. Per quanto riguarda i bronzi, nella descrizione dell’Aldovrandi sono ricordati a c. 20v solo «Lynx ex aere antiquus a/nostro diversus/Venus Anadiomene e mari/egrediens/Bubo ex aere dedicatus Isidi/Harpocrates ex aere/Aper ex aere antiquissimus». Per i marmi della collezione Carpi acquistati da Alfonso II si veda ora Corsi, op. cit. a nota 1, p. 66 sg. Per il busto di Lucio Vero si veda anche E. Corradini, in Bentini, op. cit. a nota 3, p. 178 sg. n. 19. Per la collezione del card. Rodolfo Pio da Carpi si veda ora anche C. Franzoni, Rodolfo Pio e una discussione antiquaria, in Prospettiva, 65, 1992, p. 66 sgg.; H. Wrede, Ein imaginierter Besuch im Museo Carpi, in Le collezioni di antichità nella cultura antiquaria europea, Atti convegno Varsavia-Nieborow 1996 = RdA, Suppl. 21, Roma, 1999, p. 18 sgg.; F. Capanni, Rodolfo Pio da Carpi (1500-1564) diplomatico, cardinale collezionista. Appunti bio-bibliografici, Meldola, 2001; Franzoni et Alii, op. cit. a nota 68. 69 Peregrinorum rerum catalogi cit. a nota 70, c. 29r e 30v. 70 Cfr. P. Findlen, The Museum: its classical etymology and Renaissance genealogy, JHistColl, i, 1, 1989, p. 59 sg. 71 H. P. Hermann, Pier Jacopo Alari-Bonacolsi, genannt Antico, JbKuSammlWien, xxviii, 1909-1910, p. 217; Franzoni, op. cit. a nota 55, p. 314. appunti sul cosiddetto ‘ apollo di L’Antichario di Alfonso II doveva risultare agli occhi dei contemporanei una raccolta del più alto interesse: ne è testimonianza la descrizione che ne dette l’umanista olandese Stephanus Winadus Pighius, che in veste di precettore accompagnò in giro per l’Italia il principe Karl Friederich von Jülich Cleve e che nel 1574 fu ospite di Alfonso II a Ferrara.72 La descrizione non si discosta molto dalla nota dell’Aldovrandi;73 tuttavia se la si confronta con le poche parole con cui è ricordata la collezione di Cesare Gonzaga a Mantova.74 si può intravedere la meraviglia e lo stupore che la quantità di materiali messa insieme dagli Este deve aver destato nel visitatore. Il Pighius, vecchia conoscenza del Ligorio, a cui viene attribuito il merito di aver raccolto molte delle cose riunite nell’Antichario, si sofferma infine su quattro monumenti: il codice con «Langebardicis literis» ricordato già dall’Aldrovandi, una lastra di bronzo con un’iscrizione latina che menzionava Marco Aurelio, un rilievo di marmo con una scena di sacrificio e un’iscrizione latina, nonché una sta72 Pighius, op. cit. a nota 8, pp. 350-353. L’opera, di cui nel 1609 venne pubblicata una nuova edizione postuma a Colonia, deve aver avuto una certa fortuna tra gli eruditi e i viaggiatori del tardo Cinquecento e del primo Seicento: cfr. M. Azzi Visentini, Le collezioni veneziane d’arte antica nelle testimonianze dei viaggiatori dell’Europa centrale tra ’500 e ’600, in Venezia e l’archeologia. Un importante capitolo nella storia del gusto dell’antico nella cultura artistica veneziana (= RdA, Suppl. 7), Roma 1990, p. 57 sgg. Fortuna testimoniata ancora, nell’ambiente degli eruditi della prima metà del xviii secolo, in una lettera a Gori del 25 settembre 1734 (Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo Gori, ms. B.viii.4, c. 328; cfr. F. Borroni Salvadori, Tra la fine del Granducato e la Reggenza: Filippo Stosch a Firenze, AnnPisa, s. iii, viii, 2, 1979, p. 569, nota 15), nella quale Filippo Stosch chiede che sia riservata a lui la copia della Biblioteca del Doni. L’ipotesi (avanzata da Mandowsky-Mitchell, Pirro, cit. a nota 55, p. 22), che la visita del Pighius sia stata fatta dopo la morte a Roma del principe di Cleves nel 1575, durante il viaggio di ritorno a casa, non sembra trovare conferma nei dati a disposizione. Su questo umanista, amico di Pirro Ligorio (Pighius, op. cit. a nota 8, p. 351: «Gavisus etiam vehementer est, quod repperisset ibidem bona fortuna valentem et sanum Pyrrhum Ligorium, quemante multos annos Romae familiariter noverat»), si veda A. Roersch, Pighius, E.W., in Bibliographie Nationale de Belgique, xvii, 1903, p. 502 sg.; J. H. Jongkees, Stephanus Winadus Pighius Compensis, MededRome, viii, 1954, p. 120-185; H. de Vocht, History of the foundation and rise of the Collegium Trilingue Lovaniense 1517-1750, iii, Louvain, 1954, p. 309-311; J. H. Jongkees, De brieven van Stephanus Pighius, BijdrGeschNederland, xvi, 1961, pp. 228-243. Cfr. anche de Vocht, Literae Virorum Eruditorum ad Franciscum Craneveldium, Louvain, 1928, p. 256260; Vagenheim, Les Inscriptions cit. a nota 55, passim. In particolare per la sua attività antiquaria si veda O. Jahn, Die Zeichnungen antiker Monumente im Codex Pighianus, BerVerhLeipzig, xix, 1867, p. 161 sgg. Cfr. anche A. Nesselrath, I libri di disegni di antichità. Tentativo di una tipologia, in Memoria dell’antico nell’arte italiana. iii . Dalla tradizione all’archeologia, a cura di S. Settis, Torino, 1986, p. 140, figg. 140-141; Bober-Rubinstein, op. cit. a nota 15, pp. 47, 465; Franzoni, op. cit. a nota 70, p. 66 sg. In generale anche A. Gerlo, H. Vervliet, Bibliographie générale de l’humanisme des anciens Pays-Bas, Bruxelles 1972. ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 235 tuetta di bronzo, nella cui descrizione si può facilmente riconoscere il c. d. Apollo di Ferrara, uno dei più famosi bronzetti etruschi della prima metà del iv secolo a.C.75 L’interesse del Pighius appare rivolto essenzialmente a monumenti iscritti; tuttavia se non sembra senza conseguenza che una pari attenzione non si sia appuntata sul gruppo di iscrizioni collocate nell’Antichario che ricordavano personaggi con il nome di Atius o Attius – riconosciute solo in epoca moderna come contraffazioni erudite – procurate negli anni 1560-1561 da Girolamo Falletti76 e che dovevano avere un’estrema importanza agli occhi dello stesso Alfonso, impegnato in quegli anni in una vera e propria guerra diplomatica con i Medici per il primato della casata ed intento a ricercare ossessivamente le radici della genealogia della famiglia,77 del pari colpisce l’interesse per il bronzetto, in cui l’erudito riconosce correttamente l’immagine di Apollo e di cui ricorda l’«inscriptio Etrusca in femore sinistro antiquissimis characteribus insculpta». 73 Pighius, op. cit. a nota 8, p. 350: «Mostrata Carulo et hospitibus Palatis insignia atque regalia monumenta: item novi castelli structurae magnificae et sumptuosae: bibliothecae novae praeparamenta esimia: magna videlicet veterum manuscriptorum librorum copia, atque rarissimae antiquitatum reliquiae, nimirum statuae marmoreae artificis singularis, signa, tabulae, sigilla aerea, ac marmorea;item nummorum antiquissimorum et elegantissimorum ex auro, argento et aere omnis generis: item gemmarum caelatarum capsulae plurimae, quae toto quatriduo exacte perlustrari non possent». 74 Pighius, op. cit. a nota 8, p. 305: «Post meridiem a nobilitate ductus ad aedes opulentas Caesaris Gonzagae, ubi ostensae Deorum artificiosae statuae plures et aliquae Imperatorium marmoreae ad vinum factae imagines, Corinthia signa ac aurea sigilla infinita». Per la collezione di Cesare Gonzaga, in particolare, si veda C. M. Brown, Our accustomed Discorse on the Antique. Cesare Gonzaga and Gerolamo Garimberto. Two Renaissance Collectors of Greco-Roman Art, New York London 1993, p. 22 sgg. e (per la visita di Pighius) 127. 75 Pighius, op. cit. a nota 8, p. 353: «Erat et iuvenis laurea coronati signum aeneum pulcherrimum et vetustissimum: in cuius collo torques, in sinistro superiore braccio armillae bullis dependentibus planae, rotundis alternatim et umani cordis specie factis: dicere Apollinis bullati signum esse, qui et BÂÏËÊÔ˜ vel BÂÏ·È appellatus est propter oracula: et a BÂÏË bullam dictam Festus auctor est; quae a collo in pectore praetextatorum dependebat nobilium, aurea et umani cordis figurata, teste Macrobio, ut ita denum se homines cogitarent, se corde praestarent et consilio uterentur. In femore quidam signi sinistro antiquissimis characteribus insculpta est inscriptio Etrusca: quae paucis legi, a nemine fere intelligi potest». 76 Sulla questione si vedano Rebecchi, op. cit. a nota 2; Gregori, op. cit. a nota 2. 77 Si veda al riguardo V. Santi, La precedenza tra gli Estensi e i Medici e l’Historia de’ Principi d’Este di G. Battista Pigna, in AttiMemFerrara, ix, 1897, p. 37 sgg.; G. Mondaini, La questione di precedenza tra il duca Cosimo I deí Medici e Alfonso II d’Este, Ferrara 1898; L. Chiappini, Gli Estensi, Milano 1967, p. 283 sg. Cfr. anche R. Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna, Bologna 1995, pp. 13 sg., 197 sg., 206 sg., 255 sg. 236 stefano bruni · cristina cagianelli Figg. 6-7. Sacerdote etrusco (xvi secolo), Ferrara, Musei Civici, inv. 8462. Il bronzetto non compare nell’inventario del 1559, o quanto meno nessuna indicazione permette di riconoscerlo tra quelli ricordati, ed è verosimilmente un’acquisizione di Alfonso II. Tuttavia le ricerche finora fatte tra le carte dell’Archivio di Modena non hanno permesso di recuperare elementi sulla sua origine e l’ipotesi di una sua provenienza da Spina, proposta recentemente,78 non sembra fondarsi su alcun elemento oggettivo e pare doversi rigettare, anche in considerazione del fatto che l’inventario del 1584 registra solo per «una tromba antiqua […] di metallo» il ritrovamento in Comacchio.79 Né l’iscrizione sul bronzo, per quanto molta strada sia stata fatta nella conoscenza dell’etrusco da quando il Pighius concludeva «pauci legi, a nemine fere intelligi potest», offre indicazioni in questa direzione.80 78 Torelli, op. cit. a nota 8, p. 201; Malnati, op. cit. a nota 8, p. 165; Maggiani, op. cit. a nota 8, p. 34 sg. 79 Inventario 1584, p. 19. 80 Per le conoscenze sull’etrusco nel xvi secolo si veda, per ora, G. Bartoloni - P. Bocci Pacini, Tentativi di lettura dell’etrusco nella To- scana del Cinquecento: un alfabeto “dal Vasari”, AnnSiena, xxi, 2000, p. 143 sgg. Eaedem, La divulgazione di scoperte di antichità etrusche a Firenze da Lorenzo a Cosimo I, «ArchCl» lvi, 2005, p. 378 sgg. Per quanto riguarda l’ambiente emiliano particolare interesse rivestono le notazioni sulla lingua etrusca di Ulisse Aldrovandi, che si trovano in appunti sul cosiddetto ‘ apollo di L’interesse archeologico, e in particolare per il mondo etrusco, dell’ultimo Duca di Ferrara non sembra comunque casuale e se molti dei piccoli bronzi apparentemente antichi della sua raccolta nascondono ancora il loro volto, una conferma a questa prospettiva viene da un bronzo descritto nell’inventario del 1584 come «un figura s’un base con una patera in la man destra, et l’altra vota con uno pertuso che li poteva esser qualche stilo, et un gran panno che la vela quasi tutta»,81 collocato dal Ligorio poco dopo l’Apollo, lo Gnudo della Paura e subito a seguire l’Athena Promachos prima ricordati. La statua è, infatti, verosimilmente da riconoscere, per quanto manchino immediati riscontri inventariali, in uno straordinario bronzetto ‘all’etrusca’ del Museo Civico di Ferrara (Figg. 6-7),82 che con un polito e compiuto linguaggio cinquecentesco ripropone, invertendolo, lo schema iconografico e l’impostazione stilistica di un bronzetto della piena età ellenistica (Fig. 8) forse rinvenuto nel 1554 ad Arezzo assieme alla Chimera, ora al Museo Archeologico di Firenze, ma presente negli inventari delle raccolte granducali fin da quello del 1589.83 Ma è forse il caso di tornare all’Apollo. La situazione creatasi alla morte di Alfonso II con la devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio e la conseguente dispersione delle raccolte ducali sembra colpire in modo particolare questo settore dell’Antichario e non sempre facile è seguire la sorte dei vari pezzi descritti nell’inventario del 1584. Le carte d’archivio non offrono che un quadro dai contorni piuttosto incerti e riflettono assai bene il clima che caratterizzò Ferrara dall’ottobre del 1597, quando il 27 morì Alfonso e Clemente VIII non riconobbe la successione a Cesare d’Este, alla scomunica dello stesso Cesare il 23 dicembre 1597 e alla ribellione nel ferrarese, culun’opera, composta tra il 1579 e il 1582 e rimasta inedita, conservata a Bologna, Biblioteca Universitaria, Fondo Aldrovandi, ms. 83 ms 124: De Academiis et De Linguiis, vol. ii, cc. 221r-222v. Su quest’opera cfr. A. Adversi, Ulisse Aldrovandi. Bibliofilo, bibliografo e bibliologo del Cinquecento, in AnnScuolaArchivRoma, viii, n. 1-2, 1968, p. 85 sgg. Per l’iscrizione (TLE2, n. 737; ET, OB 3.2), la cui lettura è mi : fleres : spulare : aritimi/fasti : rufris : trce : clen : ce¯a, si veda Colonna, StEtr, cit. a nota 8, p. 274 n. 181. Maras, op. cit. a nota 8, p. 313 sgg. L’ipotesi di riconoscere in aritimi un locativo da identificare con ‘Arezzo’, recentemente proposta da Steinbauer, Zur Grabinschrift, cit. a nota 8, da cui discenderebbe una provenienza del bronzetto da questo centro, non sembra avere possibilità di essere accolta: su questo cfr. Agostiniani [G. Giannecchini], op. cit. a nota 8, p. 209 nota 2. 81 Inventario 1584, p. 18. 82 Ferrara, Civici Musei d’Arte Antica, inv. 8462: R. Varese, Ferrara, Civici Musei d’Arte Antica. Placchette e bronzi nelle Civiche Collezioni, Firenze 1975, p. 202 n. 196, con bibl. prec. ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 237 Fig. 8. Bronzetto di età ellenistica, Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 15. minata a Comacchio nel sacco del Palazzo estense delle Casette, all’abbandono di Ferrara nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 1598 da parte di Cesare e all’ingresso in città, lo stesso 29 gennaio, delle truppe papali e del card. Pietro Aldobrandini, ai mesi successivi.84 Perdute nel corso del secondo conflitto mondiale le carte della Legazione apostolica conservate nell’Archivio di Ferrara, andate disperse quelle di Anna83 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 15: A. Maggiani, I “compagni” della Chimera. Qualche spunto sulla stipe di Porta S. Lorentino ad Arezzo, in Etruschi nel tempo. I ritrovamenti di Arezzo dal Cinquecento ad oggi, cat. mostra, Arezzo 2001, p. 61 n. 1. 84 Per il quadro storico si veda A. Biondi, Ferrara: cronache della caduta, in A. Prosperi (a cura di), Storia di Ferrara. VI: Il Rinascimento: situazioni e personaggi, Ferrara 2000, p. 494 sgg., nonché la bibliografia raccolta in G. Guerzoni, Le Corti Estensi e la devoluzione di Ferrara del 1598, Modena 2000, p. 33 nota 1. Cfr. anche C. L. Masetti Zannini, La capitale perduta. La devoluzione di Ferrara 1598 nelle carte vaticane, Ferrara 2000. Molte notizie, anche minute, su quello che avvenne in Ferrara si trovano in D. Rainaldi, Relatione di quello che è successo in Ferrara dopo la morte del duca Alfonso fino al possesso preso dal Signor Cardinale Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barb.lat. 5259, c. 79 sgg. (ricordata in G. Ricci, Il principe e la morte. Corpo, cuore, effigie nel Rinascimento, Bologna 1998, p. 183 nota 10). 238 stefano bruni · cristina cagianelli bale Foschieri, fattore generale della corte ferrarese di Cesare d’Este, non molti sono i dati che si ricavano dai documenti conservati a Modena e in altri fondi archivistici e solo a fatica, in forme sostanzialmente congetturali, si può intravedere la situazione subita dall’Antichario e dai suoi materiali. Infatti se, al pari dell’inventario testamentario di Alfonso II redatto il 21 ottobre 1598,85 di nessuna utilità risulta la «Stima fatta li 17 aprile 1598 di case e beni lasciati in Ferrara e in Voghiera dal Duca Cesare d’Este»,86 che, mirata essenzialmente verso gli aspetti immobiliari, non riporta nessuna suppellettile artistica, è certo che Cesare, sebbene in base alla convenzione stipulata a Faenza con l’Aldobrandini il 13 gennaio 1598 avesse facoltà di portare a Modena «tutte le sue gioie, ori, argenti & altre cose pretiose; […] & altri mobili se moventi, siano di qualunque qualità»,87 già prima del 28 gennaio abbia mandato a Modena oggetti che aveva riunito nel Palazzo dei Diamanti.88 Tuttavia dopo la partenza da Ferrara dell’Este molte cose devono essere state trafugate e perdute, se nel giugno del 1598 il Duca lamenta che «v’è stato robato roba del valore di scuti 500 milia dopo la morte del duca Alfonso, sin ora, da Ferraresi», come registra lo Spaccini nella sua Cronaca.89 Non sappiamo nel dettaglio cosa si celi dietro quel generico «roba» ricordato dallo Spaccini. Oltre al caso delle pitture del Camerino,90 quello del ritratto di fanciulla detta La Violante di Tiziano, donato ad Alfonso II ed ora alla Gemäldegalerie di Dresda, in possesso di Alessandro Balbi, architetto ferrarese, «superiore della munizione ducale», è il solo di cui si abbia contezza con un certo agio di particolari.91 Tuttavia la stima di 500 milia scuti fatta dal Duca per le cose trafugate e perdute lascia intravedere lo scenario di un saccheggio piuttosto ampio e diffuso, la cui eco deve essersi riverberata anche dalle vendite pubbliche, come si può ricavare, indirettamente, dalla notizia offerta da una lettera di Lucio (ma in realtà Lucilio) Gentiloni – Cameriere di Cesare d’Este fino al 1606 e dall’anno successivo Gentiluomo di Sua Altezza – inviata da Modena il 15 giugno 1607 al conte Giustiniano Masdoni a Ferrara sulla proposta di vendita a Cesare d’Este da parte di un certo Abram di un quadro del Dosso, già in Castello, da quest’ultimo acquistato sulla pubblica piazza a Ferrara.92 Per quanto riguarda i bronzi, è noto da tempo che il 27 luglio 1601 Annibale Foschieri, fattore generale della corte ferrarese di Cesare d’Este, spedì a Modena quanto restava della raccolta in tre piccole casse.93 L’inventario allegato alla lettera del Foschieri non è stato rintracciato tra le carte degli agenti estensi a Ferrara; tuttavia se almeno una parte del contenuto delle tre piccole casse inviate alla nuova reggia di Modena è noto,94 è comunque certo che in esse non avesse trovato posto l’Apollo etrusco. 85 Città del Vaticano, Archivio Segreto, Armadio 46, vol. 16. L’inventario, che riporta solo i beni immobili, è pubblicato in P. Sella, Inventario testamentario dei beni di Alfonso II d’Este, in AttiMemFerrara, xxxviii, 1931, p. 131 sgg. 86 Ferrara, Biblioteca Ariostea, Fondo Deputazione di Storia Patria, cart. 8, fasc. 56. L’originale risulta attualmente (ottobre 2002) scomparso; una copia fotostatica si conserva a Ferrara presso la biblioteca dei Musei Civici di Arte Antica. Il documento è pubblicato, in parte, in A. Mezzetti, Il Dosso e Battista ferraresi, Milano 1965, p. 138 sg. 87 Il testo della “Convenzione faentina”, conservato a Modena, Archivio di Stato, e pubblicato per la prima volta in A. Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara, v, Ferrara 1848, p. 13 sg., è ora riprodotto integralmente in Ballarin, op. cit. a nota 31, iii, Regesto generale, p. 259 sg. 88 A. Ballarin, M. L. Menegatti, I camerini di Alfonso I nella via Coperta in Castello. Analisi dei documenti di archivio. Restituzione dei cantieri edilizi. Cronaca della dispersione, in Ballarin, op. cit. a nota 31, iv, p. 260. 89 G. B. Spaccini, Cronaca di Modena, a cura di A. Biondi, R. Bussi, C. Giovannini, Modena, 1993, p. 126. 90 Sulla questione esiste ormai una vasta letteratura; si veda in ultimo Ballarin - Menegatti, op. cit. a nota 90, p. 481 sg., con bibl. prec. 91 Sulla questione, oltre a O. Baracchi Giovannardi, Arte alla corte di Cesare d’Este, AttiMemModena, serie ix, vol. xviii, p. 157, si veda ultimo Ballarin - Menegatti, op. cit. a nota 90, p. 543 sg. Per Alessandro Balbi si veda il breve profilo in C. Cavicchi - G. Marcolini, Il Castello Estense di Ferrara in epoca ducale, in Bentini - Borella, op. cit. a nota 56, p. 66, nota 186. 92 Venturi, op. cit. a nota 1, p. 116, doc. xi. 93 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale, Carteggio degli Agenti Estensi a Ferrara, busta 7, fasc. 12. Cfr. Venturi, op. cit. a nota 1, pp. 16, 115 doc. ix. 94 Stante la genericità delle descrizioni relative ai bronzi, di scarso aiuto appare al riguardo l’inventario della Galleria Ducale di Modena del 1668-1669: Modena, Archivio di Stato, Archivio per materie. Gallerie e Musei Estensi, Inventario delle robbe della ducal Galleria che tiene in consegna il Cavagliere Donzi, cc. 21r-23v. Cfr. Ducal Galleria Estense. Dissegni, Medaglie e altro. Gli inventari del 1669 e del 1751, a cura di J. Bentini, P. Curti, Modena, 1990, p. 18 sgg. Tuttavia, oltre all’Ercole equestre di Bertoldo di Giovanni (cfr. supra, nota 13), allo Gnudo della Paura (cfr. supra, nota 14), alle due statuette di Herakles appoggiato alla clava, a Modena (cfr. supra, nota 23, nota 24), al Giovane con trofeo sulla spalla (cfr. supra, nota 49), allo Spinario (cfr. supra, nota 69), al Satiro di Severo da Ravenna (cfr. supra, nota 48), alla Testa di donna mora (cfr. supra, nota 50) e ai due busti femminili su modello dei Lombardo (cfr. supra, nota 51), sono certamente giunti nel 1601 a Modena i seguenti bronzetti documentati nell’Inventario 1589: «quattro tigri di metalo d’appoggio tutti ad uno modo» (Venturi, op. cit. a nota 1, p. 99, fig. 35); «un bambozo asentato, forsi moderno moderno» (Modena, Galleria Estense inv. 2114); «una lucerna ad uso d’uno bambozo con la testa fra le gambe, si crede sia moderna» (Modena, Galleria Estense inv. 2179; cfr. Da Borso a Cesare d’Este cit. a nota 1, p. 152 s. n. 89, tav. lxxx.2); «una lucernina moderna ad uso di maschera. Un’altra lucerna pur mostruosa» (Modena, Galleria Estense, inv. 2177 e inv. ?: cfr. Bode, op. appunti sul cosiddetto ‘ apollo di Al pari del «sacerdote etrusco»,95 il piccolo bronzo non ha comunque abbandonato Ferrara, ricomparendo, attraverso vicende che restano per noi solo ipotizzabili, nella raccolta che Roberto Canonici ha messo insieme nel suo palazzo in Via S. Benedetto su il Canton del Pavone.96 La descrizione che viene fatta nell’inventario allegato al testamento del Canonici redatto il 26 giugno 1627 non lascia dubbi in proposito: «Una figura di un giovine in piedi di bronzo, la mano dritta l’appoggia al galone, e intorno al braccio gli ha un panno, manca del braccio stanco, ha in gamba i burracchini, e nella stanca tiene certe lettere».97 L’incendio che il 26 marzo 1639 divampò nel Palazzo Canonici e investì il museo, la biblioteca e la quadreria, distruggendoli in parte,98 nonché la perdita di quasi tutte le carte di Roberto, di cui restano nell’archivio di famiglia, conservato nell’Archivio di Stato di Ferrara, solo pochi fogli,99 pongono forti limitazioni alla possibilità di recuperare fonti documentarie che offrano dati sulle modalità e le motivazioni dell’acquisizione del bronzetto ducale. Non sembra, tuttavia, casuale che la statuetta sia entrata a far parcit. a nota 46, tav. 55, 2-3; «testa di uno Bacco coronata di vite, e barba molto ricia» (Modena, Galleria Estense, inv. 2090: cfr. Venturi, op. cit. a nota 1, p. 81, fig. 29); «uno satiro cornuto con uno bello manto atorno senza il brazzo destro et senza gambe assai bello» (Modena, Galleria Estense, inv. ?, attribuito al Riccio: cfr. R. Salvini, Bronzetti veneti al Museo Estense di Modena, ArtVen, ii, 1948, p. 108, fig. 118); «una figuretta che fa certi sforci con le bracie et la gamba destra» (Modena, Galleria Estense, inv. ?, bottega padovana degli inizi del xvi secolo: cfr. Salvini, op.cit. supra, p. 106, fig. 117; L. Martini, in Piccoli bronzi cit. a nota 46, p. 15 n. 14). Forse, oltre ad un bronzetto raffigurante «uno tauro belissimo, manca dui piedi» (Modena, Galleria Estense, inv. ?: cfr. Krahn, op.cit. a nota 48, p. 230), facevano parte del gruppo anche il bronzetto di Herakles con clava nella destra e pomi delle Esperidi nella sinistra della Galleria Estense di Modena (cfr. Bode, op. cit. a nota 46, tav. 86.2), verosimilmente da riconoscersi nella statuetta descritta nell’Inventario 1584 come «un’altra della medema invenzione, ma non simil della testa» subito dopo un Ercole imberbe con clava e i pomi delle Esperidi. 95 Cfr. supra, nota 95. 96 Per Roberto Canonici (1568-1631) si veda A. Superbi, Apparato degli Huomini illustri della città di Ferrara, Ferrara, mdcxx, dedica e s.v. Antiquari; nonché A. Borsetti, Supplemento al Compendio Historico del Signor D. Marc’Antonio Guarini Ferrarese, Ferrara mdclxx, p. 61 sg.; L. Ughi, Dizionario degli uomini illustri ferraresi, Ferrara, 1804, i, p. 113 sg. Per la collezione Canonici cfr. Superbi, op. cit. supra, p. 120; M. A. Guarini, Compendio Historico dell’origine, accrescimento, e prerogative delle Chiese e luoghi Pii della città e diocesi di Ferrara, Ferrara, 1621, p. 342; A. Frizzi, Memorie per la Storia di Ferrara, v, Ferrara, 1809, p. 88; G. Campori, Raccolta di cataloghi e inventari inediti di quadri, statue, disegni, bronzi, dorerie, smalti, medaglie, avori, ecc. dal secolo xv al secolo xix , Modena, 1870, p. 104 sg.; N. Barbantini, La pinacoteca del comune di Ferrara, Ferrara, 1906, pp. 21 sg., 67-99; C. Padovani, La critica d’arte e la pittura ferrarese, Rovigo, 1954, pp. 132-136; A. Chiappini, Immagini di vita ferrarese nel secolo xvii , in La Chiesa di San Giovanni Battista e la cultura ferrarese del Seicento, cat. mostra, Ferrara 1981, p. 48 sg.; A. M. Fiora- ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 239 te di quella che fra le raccolte ferraresi del xvii secolo appare come la più organica e consapevole di quel fenomeno collezionistico che aveva nell’esperienza estense il proprio modello di riferimento. Tra le personalità più in vista della Ferrara del tardo Cinquecento e delle prime decadi del xvii secolo,100 Roberto Canonici, «inclinato al diletto e alla bellezza delle lettere e all’amore di ogni virtuoso» e «dilettandosi sommamente di ogni sorte di antichità, e avendone non mediocre intelligenza», fu, «si per questo effetto, come per altri affari» – come ricorda Agostino Superbi, che nel 1620 gli dedicò la propria serie di medaglioni dei personaggi che avevano reso illustre Ferrara101 – al servizio di Alfonso II e del suo ruolo, nonché della considerazione che doveva godere all’interno della corte estense, di cui offrono una significativa cartina di tornasole i doni fattigli da regnanti e cardinali importanti. Se una lettera del 30 aprile 1605 indirizzata al card. d’Este a Roma, relativa all’invio di alcune reliquie,102 documenta i rapporti con gli Este ancora dopo la devoluzione di Ferrara, le annotazioni registrate nell’inventario della collezione allegato al vanti Baraldi, La pittura a Ferrara nel secolo xvii , ivi, p. 118; A. M. Visser Travagli, Primi appunti per la storia del collezionismo a Ferrara nel secolo xvii , ivi, p. 180 sg.; J. Bentini, Il collezionismo ferrarese: una tradizione ininterrotta, in La leggenda del collezionismo. Le quadrerie storiche ferraresi, cat. mostra, Ferrara, 1996, p. 52 sg.; Inventari d’arte, a cura di G. Agostini, L. Scardino, Ferrara, 1997, p. 59 sg.; L. Majoli, in Il Paradiso perduto. Per un archivio della memoria estense, cat. mostra, Ferrara 1999, p. 21 sg.; M. Mazzei Traina, L. Scardino, Fughe e arrivi. Per una storia del collezionismo d’arte a Ferrara nel Seicento, Ferrara, 2002, p. 00. Per il Palazzo Canonici cfr. G. A. Scalabrini, Guida per la città e borghi di Ferrara in cinque giornate, Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, ms. Cl. I.58, p. 85 (ricordato in A. Chiappini, Catalogo dei manoscritti di G.A.Scalabrini conservati presso la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara e loro descrizione, in Giuseppe Antenore Scalabrini nel secondo centenario della morte (Atti dell’incontro di studio Ferrara 11 dicembre 1976 = AttiMemFerrara, s. iii, xxv, 1978, p. 154 sgg. Cfr. anche G. Melchiorri, Nomenclatura ed etimologia delle piazze e strade di Ferrara, Ferrara 1918, p. 161; A. Mezzetti - E. Mattaliano, Indice ragionato delle “Vite de’ pittori e scultori ferraresi” di Gerolamo Baruffali, Bergamo 1981, ii, p. 137. 97 Copia del testamento cit. a nota 8, dove il bronzetto è ricordato a p. 57. Il testamento è stato ripubblicato da Campori, loc. cit. a nota 98; Barbantini, loc. cit. a nota 98; e in ultimo da Visser Travagli, loc. cit. a nota 98. 98 Per l’incendio si veda Ferrara, Archivio di Stato, Archivio Canonici-Mattei, Serie Patrimoniale, busta 40, mazzo vvv: Attestati dell’incendio della casa padronale di Ferrara di giacinto Canonici, Aprile 1539. Il documento è pubblicato in E. Mattaliano, Il Baccanale di Dosso Dossi: nuove acquisizioni documentarie, in Titian 500 cit. a nota 14, 1993, p. 363. 99 Ferrara, Archivio di Stato, Archivio Canonici-Mattei, Serie Patrimoniale, busta 44, fasc. 3: Memorie di Roberto Canonici. 100 Per l’ambiente ferrarese del periodo, oltre a Chiappini, op. cit. a nota 98, p. 9 sg., si veda W. Angelini, Economia e cultura a Ferrara dal Seicento al tardo Settecento, Urbino, 1979. 101 Superbi, op. cit. a nota 98, dedica. 102 Modena, Archivio di Stato, Cancelleria Ducale, Particolari, Roberto Canonici. 240 stefano bruni · cristina cagianelli suo testamento ricordano come Giacomo Serra, card. Legato di Ferrara, gli avesse donato «una Tazzetta di terra antica» e «un vaso antico di rame», nonché altre curiosità;103come il card. Sacchetti, Legato di Ferrara, gli avesse fatto dono di «un vasetto di corno di Rinoceronte», che si diceva avesse virtù taumaturgiche «contro Veneni» e «altre cose bellissime»;104 come il Patriarca di Venezia, il card. Francesco Vendramin, gli avesse inviato due bronzetti etruschi trovati, assieme ad altri duecento, nel corso di alcuni lavori alla Chiesa della Madonna della Tomba ad Adria;105 e come il Granduca di Toscana, Francesco I, che nel 1600 aveva cercato di acquistare l’intera raccolta Canonici,106 avesse cercato di avere, in cambio di «una croce di San Stefano con una commenda di scudi trecento», «una Gabieta d’Ebano, & Avorio in uno scatulino d’Argento cosa rara unica, e singolare».107 La rarità di questi oggetti e l’importanza dei donatori, unitamente alla qualità della quadreria e dei disegni che componevano la collezione,108 se, da una parte, facevano del museo di Roberto Canonici una raccolta di particolare rilievo, meta di «qualsivoglia virtuoso e gran signore che capita in questa città», come orgogliosamente affermava Agostino Superbi nel 1620,109 dall’altra, il museo Canonici, come si sottolineava ancora nel corso della seconda metà del xvii secolo, «poteva stare a paragone di qualsivoglia principe».110 Se alcuni pezzi, come il Baccanale del Dosso ora alla National Gallery di Londra, forse proveniente dalle collezioni estensi,111 furono acquistati 103 Copia del testamento cit. a nota 8, p. 53: «Una Tazzetta di terra antica fu trovata sopra la testa d’Antonino Imperatore, aprendosi la sua sepoltura, & mi fu donata dal Signor Cardinal Serra, e lustre, che pare inverniciata, e ha nel fondo alcuni bolli»; p. 58: «Un vaso antico di rame con il manico d’honesta grandezza, assai ben fatto, fu ritrovato nel sepolcro d’Antonino Imperatore con un tal ferro, che gl’è dentro, & una tazza di terra, mi fu donato dal Signor Cardinale Serra». Cfr. anche p. 55: «Una Scatola tonda di legname rosso lavorata di sopra, e d’intorno di lavoro indiano, dentro segli trovano dodici scodelline poste una nell’altra, dell’istesso legno è lavorata di dentro ciasched’una d’esse, ma di differente lavoro, […], mi fu donata dall’Illustr. Sig. Card. Serra nostro Legato»; p. 59: «Un bichiero di legno fatto à torno con il suo piede alto, di fattura più sotile della carta da scrivere, dentro al quale gli sono quarantacinque mastelline dell’istessa qualitade, […] questo mi fu donato, dall’Illustrissimo Signor Cardinale Serra nostro Legato». 104 Copia del testamento cit. a nota 8, p. 59: «Un vasetto di corno di Rinoceronte, che hà del bislungo, d’abasso ha un cerio d’intorno, che gli serve per piede, del quale si partono tre rami, che formano un poco più di sopra tre fogliami, che hanno assai del bizaro, cioè uno per parte, & uno d’avanti, dalla parte di dietro, nel spigolo di sopra gl’è una tal cosa, che pare una vespe con le alli aperte, di dentro hà dui segni, che per la longa vanno da un capo all’altro, & uno, che và da una parte all’altra, hà virtù mirabili contro Veneni, mi fù donato dall’Illustrissimo Signor Cardinale Sacchetti nostro Legato, con altre cose bellissime, pesa onzie due, carati venti». 105 Copia del testamento, cit. a nota 8, p. 58: «Una figurina di bronzo con un berrettino aguzzo in testa, hà le braccia distese alla longa della vita, mà non hà forma di mani, ne meno di gambe, ò piedi, mà hà due punte, che guardano inanzi con un poco di coda, che è alquanto storta, la figura è tutta piena disegni. […] Una figurina di bronzo con il brazo drito solevato in alto, senza gambe, e piedi, mà con due punte, che gardano inanzi con un buso nel mezo è tutta piena di segni, queste due figurine sono in una scatola, furono ritrovate nel fondare la Chiesa della Madonna della Tomba, nella Città di Adria in una camera tutta lavorata di musaico finissimo, che mai non si è visto il più bello, appresso delle quali, gli erano tre altre, mà non così belle, e pure seguitavano altre fabriche, le figure che erano in questa camera furro duecento, queste due mi furono donate dal Signor Cardinale Vendramino patriarcha di Venetia, senza dubio queste furno le prime figure, che mai furno fabbricate al Mondo, poiché si tiene, che Adria ruinasse prima del Diluvio universale, e però se bene le figure sono mal fatte, hanno da esser tenuto in grandissima stima per l’antichità loro, come anco molte altre di sopra descrite, si per la bellezza loro, come anco per l’antichità, essendo fatte nel tempo della Repubblica Roma- na». Su Vendramin, oltre a G. Savi, Orazione in funere Francisci Cardinalis Vendramini, Venetiis, mdcxix, si vedano le notizie in G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro fino ai nostri giorni, xc, Venezia, 1858, p. 181 sg. Il ritrovamento è, verosimilmente, lo stesso di cui tratta L. Pignoria, Le origini di Padova, Padova, 1625, p. 66, tav. tra le p. 60-61, e deve essere avvenuto prima dei lavori del 1622, di cui dà notizia A. Bocca, Annali Adriesi (1506-1649), a cura di A. Lodo, Rovigo, 1985, p. 38. Per il tipo dei bronzetti cfr. M. Tombolani, Osservazioni su un gruppo di bronzetti di produzione adriese, AquilNost, xlv-xlvi, 1974, p. 57 sg.; E. H. Richardson, Etruscan Votive Bronzes. I. Geometric, Orientalizing, Archaic, Mainz, 1983, p. 326, The Kore, Late Archaic, Series C, Group 6.A, n. 1, tav. 234, fig. 786; e da ultimo S. Bruni, Interessi fiorentini per le antichità di Adria nel xviii e nel xix secolo, in Commerci e produzione in età antica nella fascia costiera fra Ravenna e Adria (Atti giornata di studi Ferrara 21 giugno 2001) = Suppl. AttiAccFerrara, lxxviii, 2000-2001, p. 67 sg., figg. 2-3. 106 La notizia è in E. Penolazzi, In memoria del compianto Don Cipriano Canonici-Mattei Marchese di Montebigio dei Duchi di Giove, Ferrara, 1899, p. 00. 107 Copia del testamento, cit. a nota 8, p. 52. 108 La quadreria, che alla morte di Roberto Canonici avvenuta il 15 agosto 1631 contava 136 pezzi, sembra riflettere i gusti di un collezionista informato dalla lettura delle Vite del Vasari, con una netta predilezione per la pittura del Cinquecento e in minor misura del secolo precedente, nonché una scarsissima incidenza di autori contemporanei e del tutto assenti i primitivi e opere antecedenti al Quattrocento. Le descrizioni fornite nell’inventario allegato al testamento, corredate sovente da attribuzioni che la moderna critica storico-artistica ha spesso confermato, presentano il quadro di una raccolta dal carattere, per così dire, internazionale, con dipinti, oltre che dei più importanti artisti ferraresi, di Giovanni Bellini, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese, Schiavone, Raffaello, Mantenga (ma rivelatosi poi Carpaccio), della scuola dei Carracci, ecc. Le stesse caratteristiche presentava anche la raccolta di disegni, che comprendeva, oltre agli ovvi maestri ferraresi, opere di Annibale Carracci, di Giulio Romano, del Primaticcio, di Tintoretto, del Veronese, di Mantenga, di Dürer, ecc. 109 Superbi, op. cit. a nota 98, dedica. 110 A. Maresti, Teatro genealogico et istorico dell’Antiche Famiglie & Illustri di Ferrara, i, Ferrara, mdclxviii, p. 42. 111 Su questo cfr. Mattaliano, op. cit. a nota 100, p. 359 sg. Il quadro, pur verosimilmente proveniente dalle raccolte estensi, non è certamente il dipinto commissionato da Alfonso I per il Camerino delle Pitture, non corrispondendo alla descrizione che di questa pittura si ha nell’inventario della collezione Aldobrandini del 1603: cfr. da ultimo Hope, I Camerini d’alabastro cit. a nota 26, p. 84 sg. (con rifer.). appunti sul cosiddetto ‘ apollo di dopo il 1 gennaio 1627, come attesta il Codicillo aggiunto il 22 luglio 1631 al testamento redatto quattro anni prima,112 la collezione può considerarsi già compiutamente strutturata prima della data del testamento. E prima del 1627 l’Apollo di Alfonso II era entrato a far parte della raccolta. In assenza di documenti non è possibile diradare l’ombra che offusca la storia del passaggio di questo bronzetto alla collezione Canonici e le considerazioni che possono essere fatte restano confinate in un campo altamente congetturale. Al pari di alcuni dipinti, come il ritratto di Alfonso I del Dosso o quello dello stesso duca in età infantile del Costa,113 anche il piccolo bronzo etrusco è verosimile che sia stato acquistato da Roberto sul mercato ferrarese dopo la partenza di Cesare d’Este da Ferrara, sembrando meno probabile – quanto meno per la statuetta – pensare a un dono ricevuto dall’ultimo Duca di Ferrara in cambio dei propri servigi. Tuttavia, al di là di ogni considerazione, i dubbi e le incertezze sull’acquisizione risultano aspetto di poco momento, rientrando nella dimensione dell’aneddoto. Quello che preme sottolineare è il fatto che Roberto Canonici si sia dato animo di avere nel proprio museo, quale che sia la particolare storia dell’acquisizione, il bronzetto di maggiore notorietà delle raccolte estensi. In questa prospettiva, se non poca parte deve aver avuto la fascinazione del modello collezionistico della vecchia casa regnante ferrarese subita dal Canonici nelle sue scelte, non sembra potersi escludere, nel caso specifico, un particolare interesse di Roberto per le antichità e le testimonianze della plastica antica, quale traspare, non tanto dai pochi pezzi di scavo presenti nella sua raccolta,114 quanto dalle osservazioni stese a margine delle due statuette da Adria donategli dal card. 112 Copia del testamento, cit. a nota 8, p. 73 sg. 113 Per il primo cfr. A. Ballarin, Dosso Dossi. La pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I, Cittadella, 1994-1995, p. 364 n. 489, fig. 1: 224 (con bibl. prec.). Per il ritratto, attribuito da Carlo Volpe a Battista Dosso, si veda anche C. Cieri Via, Il Principe in maschera: i ritratti allegorici di Dosso Dossi, in L’età di Alfonso I, cit. a nota 26, p. 170 sg., fig. 67. Il secondo, descritto come «Il Ritratto del Duca Alfonso primo di Lorenzo Costa Ferrarese, qua.do era Bambino, ha la cornice nera» e valutato scudi 25 nel testamento del 1632, è verosimilmente quello che G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, 1697-1722, ed. a cura di G. Boschini, Ferrara 1844-1846, p. 108, ricorda in possesso di suo padre (cfr. anche C. Cittadella, Catalogo istorico deí pittori e scultori ferraresi e delle opere loro, Ferrara, 1782-1783, ii, p. 100. Si veda anche Barbantini, op. cit. a nota 98, p. 10; C. Padovani, La critica d’arte e la pittura ferrarese, Rovigo, 1954, p. 133; Mattaliano, op.cit. a nota 100, p. 362. Per questo quadro, attualmente disperso, cfr. E. Negro, N. Roio, Lorenzo Costa 1460-1535, Modena, 2001, p. 151 n. 143.P. 114 Cfr. supra, nota 104. 115 Cfr. supra, nota 106. ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 241 Vendramin nell’inventario allegato al testamento del 1 gennaio 1627.115 L’incendio del 1639 – sulla cui origine grava il sospetto dell’intenzione da parte dell’erede di sottrarsi alle disposizioni di tipo fidecommissorio imposte con il testamento di Roberto Canonici116 – nonostante le affermazioni di storici locali di poco posteriori,117 non distrusse completamente il museo e la galleria, sebbene la cronaca dell’incendio ricordi, pur nella lacunosità del documento, come «la maggior parte dei [materiali] andarono a male consumarsi dal fuoco, ò portati via da genti di puoca coscienza sotto gli occhi dei peritissimi uomini, et persone onoratissime, et il restante per la maggior parte gettato senz’alcun riguardo dalle finestre restò grandissimamente dannificato».118 Giacinto Canonici ottenne così in breve tempo da Urbano VIII lo scioglimento dei vincoli che Roberto, suo zio, aveva stabilito con il testamento del 1627,119 iniziando una serie di alienazioni che, unitamente ai danni provocati dall’incendio, portarono in pochi anni alla quasi totale dispersione della collezione di Roberto Canonici, come conferma l’inventario redatto dal figlio Paris alla morte di Giacinto nel 1655.120 A questa data l’Apollo di Alfonso II risulta già alienato e della statuetta si perdono le tracce fino all’inizio del xviii secolo, quando il bronzetto – nel frattempo ricordato del 1708 da Giusto Fontanini sulla scorta della descrizione del Pighius,121 la cui opera ha conosciuto una certa fortuna nell’ambiente degli eruditi del primo Settecento, come conferma l’interesse per il volume dell’Hercules Prodicius appartenuto al Doni da parte di Filippo von Stosch122 – viene segnalato in Olanda da Bernard de Montfaucon, che ne dà la prima immagine nei rami del terzo volume del L’Antiquité expliquée (Fig. 9),123 ricordando il pic116 Sulle disposizioni e le sanzioni imposte con il testamento di Roberto Canonici si veda Mattaliano, op.cit. a nota 100, p. 361 sg. 117 Guarini, op. cit. a nota 98, p. 342; G. Baruffaldi, Dell’Istoria di Ferrara … dall’anno mdclv fino al mdcc , Ferrara, mdcc, iiii, p. 131132; Frizzi, op. cit. a nota 98, p. 89. 118 Cfr. supra, nota 99. 119 Baruffaldi, op. cit. a nota 119, iii, p. 132; cfr. anche Mattaliano, op. cit. a nota 100, p. 363. 120 Ferrara, Archivio di Stato, Archivio Canonici-Mattei, Serie Patrimoniale, busta 49, fasc. 9: Inventario dell’eredità di Giacinto Canonici fatta da Paris Canonici, suo erede ab erede abintestato. Cfr. Mattaliano, op. cit. a nota 100, p. 363 sg. 121 Cfr. supra, nota 74. 122 Cfr. E. Borroni Salvadori, art. cit. a nota 71. 123 B. de Montfaucon, L’Antiquité expliquée et représentée en figures, iii, tomo ii, Paris, 1719, p. 268, tav. clvii.: «Les athletes Hetrusques nous conduisent à l’explication d’une figure fort curieuse trouvée en Italie, qui est presentement en Hollande. C’est un athlete Hetrusque d’un beu dessin; il est victorieux, couronné de laurier, orné d’un bracelet 242 stefano bruni · cristina cagianelli Fig. 9. L’Apollo di Ferrara (incisione, 1719), da B. de Montfaucon, L’Antiquité expliquée, tav. clvii. Fig. 10. L’Apollo di Ferrara (incisione, 1737), da A. F. Gori, Museum Etruscum, i, tav. xxxii. colo bronzo nel corso della trattazione sugli atleti etruschi. Con l’opera del Montfaucon l’Apollo di Ferrara inizia la sua fortuna moderna nella letteratura antiquaria, prima, ed in quella propriamente archeologica, poi, comparendo in tutti i manuali relativi al mondo antico, in genere, e a quello etrusco, in particolare.124 Se quest’ultimo aspetto non interessa in questa sede, non sarà inutile, anche ai fini della ricostruzione delle sue vicende museali, ripercorrere per som- qui paroit être la recompense de sa victoire; nous avons dejà vu, et nous verrons encore dans la suite que les colliers et les bracelets se donnoient aux victorieux. Son collier a des bulles pendantes; ces bulles etoient une marque d’honneur, non seulement pour les jeunes garçons de qualité, mais encore pour ceux qui triomphoient, comme nous avons dit sur l’article des bulles. L’inscription sur la cuisse paroitroit extraordinaire, si nuos n’avions vu de pareilles inscriptions Hetrusques sur la cuisse, et quelque fois sur les habits. Sa chaussure est remarcable, c’est un ocrea ou un campagus». Ricorda quindi altri bronzi con iscrizioni ed in particolare un bronzetto del card. Gualtieri (tav. clvii, seconda figura a destra) e il cosiddetto Asklepio di Bologna (tav. clviii, in alto). Per quest’opera cfr. E. Vaiani, L’Antiquité expliquée di Bernard de Montfaucon: metodi e strumenti dell’antiquaria settecentesca, in Dell’antiquaria e dei suoi metodi (Atti giornate di studio = QuadAnnPisa, ii], Pisa, 1998, p. 155 sgg.; cfr. anche A. Schnapp, De Montfaucon à Caylus: le nouvel orizon de l’Antiquité, in La fascination de l’Antique 1700-1770. Rome découverte, Rome inventèe, a cura di F. de Polignac, J. Raspi Serra, Paris-Lyon, 1998, p. 142 sgg.; Cagianelli, op. cit. a nota 8, p. 39 sg. 124 Cfr. supra, nota 8. appunti sul cosiddetto ‘ apollo di mi capi il suo passaggio nella letteratura antiquaria della prima metà del xviii secolo. Ricordato da Filippo Buonarroti nelle sue aggiunte al testo del Dempster stampato nel 1724,125 il bronzetto è il soggetto di una delle tavole del primo volume del Museum Etruscum pubblicato nel 1737 da Anton Francesco Gori (Fig. 10),126 che, sia detto per inciso, riprende l’ipotesi, già proposta dal Pighius e ripresa dal Fontanini e dal Buonarroti, che la statuetta raffiguri Apollo.127 Il celebre antiquario fiorentino conosce, a questa data, la statuetta solo attraverso la tavola del Montfaucon, che, infatti, utilizza, modificandone alcuni particolari, per la propria incisione. Risulta tuttavia di estremo interesse la notizia,128 già nelle Explicationes del Buonarroti, che il bron125 F. Buonarroti, Ad Monumenta Etrusca Operi Dempsteriano addita. Explicationes et conjecturae, in T. Dempster, De Etruria Regali, Florentiae, mdccxxiv, ii, pp. 12 sg., 92 nota [c]. Su Filippo Buonarroti si veda, oltre a N. Parise, s. v. Buonarroti, Filippo, in dbi , xv, 1972, p. 145 sg.; M. Cristofani, La scoperta degli Etruschi. Archeologia e antiquaria nel Settecento, Roma, 1983, p. 22 sgg.; D. Gallo, Filippo Buonarroti tra Roma, Firenze e Cortona, in Filippo Buonarroti e la cultura antiquaria sotto gli ultimi Medici, Firenze, 1986, p. 9 sgg.; Cagianelli, op. cit. a nota 8, p. 38 sg. 126 A. F. Gori, Museum Etruscum exhibens insignia veterum Etruscorum Monumenta, Florentiae, mdccxxxvii, i, tav. xxxii; ii, pp. 95-96, dove è riportato anche il passo del Pighius relativo al bronzetto. Sul Gori si veda, oltre a F. Vannini, s. v. Gori, Anton Francesco, in dbi , lviii, 2002, p. 25 sg., C. Cagianelli, La collezione di antichità di Anton Francesco Gori. I materiali, la dispersione e alcuni recuperi, «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”» lxxi, n.s. lvii, 2006, p. 99 sgg. (con altra bibl. a nota 1); S. Bruni, Anton Francesco Gori, Carlo Goldoni e «La famiglia dell’antiquario». Una precisazione, «Symbolae Antiquariae» i, 2008, p. 11 sgg.; C. Cagianelli, La scomparsa di Anton Francesco Gori fra cordoglio, tributi di stima e veleni, ibidem, p. 71 sgg.; B. Gialluca, Anton Francesco Gori e lasua corrispondenza con Louis Bourguet, ibidem, p. 121 sgg.; C. Gambaro, Anton Francesco Gori collezionista. Formazione e dispersione della raccolta di antichità, Firenze 2008; M. E. Masci, Picturae Etruscorum in vasculis. La raccolta Vaticana e il collezionismo di vasi antichi nel primo Settecento, Roma 2008; M. Bernardini, “Il principio non può desiderarsi né più felice né più magnifico”. L’acquisto della raccolta Gori e la rifondazione della biblioteca dell’Università di Pisa, «Symbolae Antiquariae» ii, 2009, in corso di stampa; M. A. Morelli Timpanaro, Note su Ippolito Montelatici e su Anton Francesco Gori, i patrimoni librari e manoscritti dei quali entrarono, nel xviii secolo, nelle biblioteche di Pisa e di Firenze, ibidem; S.Paolinetti, L’antiquaria aretina nel Settecento attraverso la corrispondenza di G. Redi e di A. F. Gori, Firenze 2009; C. Cagianelli, Il Settecento, in G. Camporeale e G. Firpo (a cura di), Arezzo nell’antichità, Arezzo 2009, p. 15 sgg. 127 Sulla questione cfr. infra. 128 Il rame del Museum Etruscum, non firmato, ma verosimilmente dovuto a Vincenzo Franceschini, autore di molte delle incisioni pubblicate nell’opera del Gori, si discosta dall’immagine del Montfaucon solo per la diversa angolazione della base – non più di tre quarti, ma frontale – e per l’eliminazione della foglia cache-sexe, nonché per la diversa resa della faccia, più tondeggiante, e per l’errata resa della bulla centrale della collana sul collo. 129 C. Malvasia, Marmora Felsinea innumeris non solum Inscriptionibus exteris hucusque ineditis sed etiam quamplurimis Doctissimorum Virorum expositionibus roborata et aucta, Bononiae, mdclxxxx, p. 365, fig. ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 243 zetto fosse conservato allora in Olanda, a Leiden, nella raccolta di Roberto de Neuwille, della quale non si hanno molte notizie; ma non sembra un caso che anche il bronzetto greco di età classica con dedica ad Asklepio – rinvenuto nel xvii secolo a Bologna nel fare le fondamenta per il palazzo di Annibale Ranuzzi e già nella raccolta del pittore Gioseffo Magnavacca129 – facesse parte del museo di Roberto de Neuwille a conferma dei suoi contatti con l’ambiente antiquario emiliano. I rami del Montfaucon, prima, e del Gori, poi, consacrano la fortuna del bronzo già nelle raccolte di Alfonso II e il conte Frédérich de Thoms, una delle più interessanti figure di collezionista e mecenate del xviii secolo,130 quando nel 1739 entrò in possesso del a p. 367; de Montfaucon, op. cit. a nota 125, iii, tomo ii, p. 268, tav. clviii; di recente cfr. Thomas, op. cit. a nota 6, p. 121 sg., tavv. 73.1-2, 74, 1; M. Cristofani, Una dedica ad Asclepio da Felsina e i culti salutari in Etruria settentrionale, AnnPisa, s. iii, xv, 1, 1985, p. 1 sg., tav. 2, con bibl. (ora ristampato in M. Cristofani, Scripta selecta, Pisa-Roma, 2001, i, p. 297 sgg.); G. Sassatelli, L’Etruscheria e gli studi etruscologici, in Il contributo del’Università di Bologna alla storia della città: l’evo antico, Atti del convegno, Bologna 11-12 marzo 1988, Bologna, 1989, p. 219; G. Sassatelli, Ex voto, culti, divinità dell’Etruria padana, in Culti pagani nell’Italia settentrionale, Trento, 1994, p. 136 sg.; F. Gilotta, Note di plastica spinetica, Prospettiva, lxxvii, 1995, p. 55 nota 46, con altra bibl. Su Gioseffo Magnavacca, nato a Bologna il 29 giugno 1639 e ivi morto il 3 giugno 1724, pittore e antiquario, si veda G. Zanotti, Storia dell’Accademia Clementina di Bologna, aggregata all’Istituto delle Scienze e delle Arti, tomo i, In Bologna mdccxxxix, p. 187 sgg.; L. Crespi, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, tomo iii, Roma mdcclxix, p. 252; M. G. Bottari - S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura e architettura scritte da’ più celebri personaggi dei secoli xv , xvi e xvii , tomo vii, Milano 1822, p. 44 sgg.; A. Lombardi, Storia della letteratura italiana nel secolo xviii , tomo iv, Modena 1830, p. 63 sgg.; F. de Boni, Biografia degli artisti, Venezia 1840, p. 597; O. Bonfait, Les tableaux et les pinceaux: la naissance de l’école bolonaise 1680-1780, Paris 2000, p. 311 sg.; «Bollettino di numismatica» 36-39, 2001, p. 269 sg.; C. E. Dekesel - Th. Stäcker, Europäische numismatische Literatur im 17. Jahrhundert, Köln 2005, p. 327 e p. 333. 130 Per il conte Fréderich De Thoms cfr. H. L. Stoltenberg, De vooronders van Frederick (graaf) de Thoms, NedLeeuw, lxviii, 1951, p. 84 sg.; cfr. anche W. J. J. C. Bijleveld, Boerhaaveís schoonzoon, JbLeiden, xxxi, 1939, p. 157 sg. Della collezione esiste un catalogo redatto dallo stesso F. De Thoms, Onuitgegeven af beelingen van eenige der voornaamste antieke stukkenÖvoormaals behoord hebbende aan den Graeve van Thoms, Amstelodami, mdccxxxx, con venti tavole; un catalogo manoscritto, in francese, Les Antiquitées du Cabinet du Comte de Thoms si conserva nella Koninklijke Bibliotheek de L’Aja, ms. 72.A.20 (una copia anche presso la Bibliothèque Nationale di Parigi); cfr. H. Brunstings, Geschiedenis van het verzameien in Nederland, in Klassieke Kunst uit particulier Bezit. Nederlandse verzamelingen 1575-1975, cat. mostra, a cura di L. ByvanckQuarles van Ufford, Leiden, 1975, p. 16, nn. 31-33, figg. 6-7; cfr. anche F. L. Bastet, H. Brunsting, Corpus Signorum Classicorum. Museii Antiquarii Lugduno-Batavi. Catalogus van het klassieke Beeldhouwwerk in het Rijksmuseum van Oudhedente Leiden, Zutphen, 1982, p. 56 sg. n. 118, tav. 31, p. 106 sg. n. 197, tav. 53. In part. per la raccolta di gemme ed intagli cfr. M. Maaskant Kleinbruik, Catalogne of the Engraved Gems in the Royal Coin Cabinet, The Hague. The Greek, Etruscan and Roman Collection, The Hague-Wiesbaden, 1978, p. 22 sg., con bibl. prec. 244 stefano bruni · cristina cagianelli bronzetto, in una lettera del 4 giugno – con cui informava Anton Francesco Gori dell’acquisto fatto sul mercato antiquario di Amsterdam – si riferiva ad esso come al «famosissimo Idolo Etrusco di bronzo con 40 o 50 lettere etrusche».131 Abbandonata la proposta del Montfaucon che, come ricordava il de Thoms nella stessa missiva, riteneva che la statuetta raffigurasse un «Heroem sabinum», e correttamente riconosciuto in essa un Apollo, identificazione già avanzata dal Pighius, dal Fontanini e dal Buonarroti, al bronzetto accenna ancora nel 1749 Anton Francesco Gori,132 che, a proposito della collezione del Conte de Thoms, ricorda come in questa raccolta «è poc’anzi passato il bell’Apollo Toscanico di metallo con due linee di lettere etrusche incise nel fianco e gamba sinistra, il quale prima nella Galleria dei Duchi di Mantova si conservava», aggiungendo che «questo Signore ha […] donato all’autore del Museo Etrusco i disegni di queste sue rarità allorché si trattenne in Firenze nel 1740». Sorprende in questo caso il riferimento della statuetta ai Gonzaga e a Mantova, i cui nomi – ripresi ancora nel 1767 dal Guarnacci, evidentemente per influenza di questo passo del Gori133 – fanno solo ora la loro comparsa nella storia collezionistica dell’Apollo: tuttavia, in assenza di qualsiasi riscontro a questa notizia sia tra le carte del Gori conservate nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, sia nelle altre opere a stampa dello stesso, sia nella documentazione d’archivio relativa al bronzetto, sembra evidente che il riferimento a Mantova debba essere considerato un lapsus calami in luogo di Ferrara, fenomeno questo non ignoto nell’opera del Gori e che potrebbe trovare analogia con il caso del Marte Corazzi cosiddetto “di Ravenna”, recentemente segnalato.134 Alla morte del de Thoms, avvenuta nel 1746, la vedova mise in vendita la raccolta, che cinque anni dopo venne acquistata, in gran parte, da Guglielmo IV d’Orange, andando a formare il nucleo principale delle raccolte reali olandesi. L’Apollo di Ferrara, assieme ad un altro straordinario bronzetto di origine emiliana, la già ricordata statuetta con dedica ad Asklepio di Bologna, venne invece acquistato nello stesso 1751 da Gros de Boze, antiquario di Louis XV, 131 Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo Gori, ms. b.viii.5, c. 30r. Il carteggio del de Thoms con il Gori si trova nei mss. a.cxcviii, cc. 208r-239r; a.ccxcvi, cc. 537r-545v; b.viii.5, cc. 23r-64r. Stralci di alcune lettere sono trascritti in Documenti per la storia del collezionismo di vasi antichi nel xviii secolo. Lettere ad Anton Francesco Gori (Firenze, 1691-1757), Trascrizioni, annotazioni e commento di M. E. Masci, Napoli, 2003, p. 164 sgg. (a p. 12 la curatrice, che sembra ignorare completamente tutta la bibliografia sul conte de Thoms, accenna cursoriamente, e non senza ampie lacune ed imprecisioni, alla biografia del personaggio. Per i rapporti con Gori, mi limito a ricordare come il de Thoms acquistasse dal grande antiquario fiorentino una scultura trovata a Roma, che, donata da Violante Beatrice a Francesco Bianchini, era entrata, alla morte di questo, nella collezione del Gori: si tratta della nota statua marmorea raffigurante una civetta con lunga iscrizione in greco sulla base (cfr. bibl. alla nota prec.), pubblicata dal Gori nel 1743 nel terzo tomo delle Inscriptiones Antiquae (pp. lxviii-lxxii, tav. vi) con una tavola dedicata allo stesso de Thoms (cfr. p. clv) e l’anno successivo in un’operetta monografica dedicata sempre al Conte de Thoms (cfr. A. F. Gori, Archatis Bubonis vatis Assoriorum Statua marmorea quae antea in Goriano, nunc in Thomsiano museo exstat commentariolo illustrata quod illustrissimo ac nobilissimo Friderico Comiti de Thoms monumentorum eruditae antiquitatis cultori et investigatori eximio lubens merito D.D.D. Antonius Franciscus Gorius, Florentiae, in typographio Vivianio, mdccxliv). La vendita destò un certo clamore nell’ambiente fiorentino dell’epoca, come testimonia una lettera del 1739, in cui il Barone von Stosch esprime a Filippo Venuti tutto il proprio stupore per la cessione al de Thoms da parte del Gori di tutte le sue antichità più belle, tra cui la «statue de marbré d’un Hiboux avec l’inscription Grecque en bas d’un Pronosticateur de choses à venir»: cfr. R. Engelmann, Vier Brief en Filippo und Ridolfino Venuti, ArchKultGesch, vii, 1909, p. 322 sgg.). Si riporta, a ulteriore chiarimento dei rapporti di stima che legarono il Gori al de Thoms, i due passi dell’operetta del Gori nei quali l’antiquario fiorentino si riferisce al conte olandese: «Postmodum vero ipse tibi Nobilissimo Comiti de Thoms, rerum antiquarum aestimatori et conquisitori laudatissimo, ut gratiam referre, obtuli, quod mihi complura Musei tui locuplentissimi Etrusca monumenta digna publica luce, quae proferam, egregie delineata dono dederis, quum Florentiam lustrares» (p. 4); ed ancora (p. 8): «Hoc commentariolum offero tibi, amplissime Comes, tamquam auspicatissimam perennis obsequii mei tesseram, maiorem aliquando, ut sperare lubet, tibi daturus, dummodo studia mea humanissime foveas atque amplifices; praesertim, vero Syntagma, quod paro, antiquorum Diptychorum, et Monumenta Etrusca, dum interim tertium huius Operis mei Volumen in lucem prodit. His enim aliisque prisci aevi deliciis refertum maxime est Museum tuum celeberrimum, quod et in dies auges, eoque ita curas litterariam Republicam ornare ac locupletare, ut nomen tuum omni laude semper sit praedicandum». Nelle lettere del de Thoms al Gori si fa sovente cenno all’invito del conte all’antiquario fiorentino a comporre un catalogo della collezione, di cui invia i disegni dei materiali più importanti e sigillando le missive con l’impronta delle più belle gemme della raccolta. Il 18 aprile 1741 il de Thoms comunica di aver consegnato al celebre filologo e numismatico Sigebert Havercamp, amico e corrispondente del Gori, una «figuram Apollinis mei Etrusci, ut adjungat libris, quos tibi mittere in animo habet» (Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo Gori, ms. a.ccxcvi, c. 537v). 132 Gori, Storia, cit. a nota 8, p. ccli sg. 133 Guarnacci, op. cit. a nota 8, p. 69: «In varie Gallerie della Germania e in Olanda si conservano illustri monumenti etrusci. Si ammira in Leida quello del Conte di Thoms, in cui oltre a molti vasi, idoli, patere, ed altro, passò il celebre Apollo tuscanico di bronzo, con due linee di caratteri etrusci incisi nel fianco, e gamba sinistra; e che (come è scritto) trovato in Mantova, città degli Etrusci, e da essi, come si è detto, perduta dopo i tempi di Tarquinio Pisco, era stato prima posseduto il detto Apollo dai Duchi di Mantova». Sui rapporti Gori-Guarnacci si veda Mario Guarnacci (1701-1785). Un erudito toscano alla scoperta degli Etruschi (Atti convegno Volterra, 14-15 giugno 2002) = RassVolter, lxxxix, 2002, part. le relazioni di G. Camporeale, C. Cagianelli, G. Cateni, M. Bonamici e E. Spalletti. 134 Cagianelli, op. cit. a nota 51, p. 367 sg. Si veda ancora G. Colonna, Ravenna o Perugia? A proposito della provenienza del Marte Corazzi a Leida, ACl, liv, 2003, p. 443 sgg. appunti sul cosiddetto ‘ apollo di ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv 245 Fig. 11. Fantasia di antichità con l’Apollo di Ferrara (incisione, 1766), da P. H. d’Hancarville, Antiquitées Etrusques, Grecques et Romaines, i, p. 112. per il Cabinet du Roi135 e da allora l’Apollo di Alfonso II costituisce una delle perle più splendenti delle raccolte parigine, tanto che nel 1766 Pierre Hughes d’Hancarville (Fig. 11) scelse proprio questo bronzetto quale exemplum emblematico per illustrare la sua teoria artistica e l’origine della scultura antica, riconoscendo nell’Apollo la compiuta realizzazione di quel processo creativo che secondo la sua teoria farebbe emergere la divinità dalla natura informe attribuendole i tratti di una bellezza sovrumana.136 135 Per questo personaggio si veda ora I. Aghion, Collecting antiquities in eighteenth-century France: Louis XV and Jean-Jacques Barthélemy, JHistColl, xiv, 2002, n, 2, p. 193 sgg. 136 P. H. d’Hancarville, Antiquitées Etrusques, Grecques et Romaines tirées du Cabinet de M. Hamilton, envoyé extraordinaire de S.M.Britannique en Cour de Naples, Napoli, 1766, I, p. 112. Per quest’opera cfr. Grenier, op. cit. a nota 8. Cfr. anche Lissarague-Reed, op. cit. a nota 8, p. 275 sg. Su d’Hancarville cfr. F. Haskell, The “Baron D’Hancarville”, an adventurer and Art historian in Eighteenth century Europe, in Past and present in Art and Taste, New Haven, 1987, p. 32 sgg.; A. Schnapp, La pratica del collezionismo e le sue conseguenze nella storia dell’Antichità: il Cavaliere D’Hancarville, in La Grecia antica mito e simbolo per l’età della grande rivoluzione. Genesi e crisi di un modello nella cultura del Settecento (Atti convegno Salerno 11-15 dicembre 1989), Milano, 1991, p. 147 sgg. IL “GABINETTO DELLE MINIATURE” NELL’ASSETTO LANZIANO DELLA GALLERIA DEGLI UFFIZI A FIRENZE Piera Bocci Pacini · Vera Laura Verona I n precedenti annate di questa stessa Rivista1 sono stati affrontati temi riguardanti l’accrescimento del nucleo della statue della Galleria degli Uffizi e lo sviluppo del corridoio occidentale. Nel mutamento che viene impresso da Pietro Leopoldo nei primi anni ottanta del Settecento, oltre al completamento del corridoio occidentale con la Sala della Niobe, significativo esempio di spazio progettato in vista della sistemazione del gruppo di statue dei Niobidi, i lavori coinvolgono anche le sale più antiche del corridoio orientale, nucleo originario del collezionismo scientifico e artistico mediceo, che trovava il suo fulcro nella Tribuna. Ogni singola sala viene ora legata alle altre in un percorso continuo all’interno del quale consolida una propria specifica fisionomia. Luigi Lanzi ne La Real Galleria di Firenze accresciuta e riordinata per comando di S.A.R. l’Arciduca Granduca di Toscana del 1782 precisa che «quantunque nell’uscire dalla Tribuna possa ciascuno ripetere seco stesso quel noto verso non vide me’ di me chi vide il vero; tuttavia non dee credere, che nulla, o poco di bello contengano gli altri gabinetti, che le succedono e il primo massimamente. Esso è dedicato alla scultura e pittura minuta» (p. 193). Il nuovo ordinamento leopoldino della Galleria degli Uffizi dei primi anni ottanta del Settecento si ispira a un piano organico che ha in Luigi Lanzi e in Giuseppe Pelli Bencivenni i suoi ideatori. Lo studio della Galleria è stato affrontato sia nel suo insieme che per specifici argomenti da singoli specialisti.2 L’argomento che vogliamo trattare è quello del nuovo allestimento dato alla sala che sarà denominata nel 1784 Gabinetto delle Miniature per l’esistenza di un nucleo di ritrattini passati in Galleria dalla collezione del Cardinale Leopoldo de’ Medici.3 Giuseppe Pelli nel Saggio Istorico del 1779 definisce il numero 8 della pianta della Galleria come “gabinetto delle Miniature ove già stava l’Ermafrodito” e anticipa così la denominazione della sala ancora in via di allestimento.4 Nella guida della Real Galleria di Luigi Lanzi del 1782 il gabinetto risulta già sistemato ed è interessante seguire i criteri esposti dal regio antiquario per un allestimento che obbedisce a un disegno razionale, con implicazioni ancora oggi notevoli dal punto di vista museologico-museografico. L. Lanzi si sofferma a descrivere la saletta n. 8 (Fig. 1) adiacente alla Tribuna, ove gli strumenti di fisica e di matematica disegnati nel soffitto ricordano la più antica utilizzazione del vano5 in vigore dal 1 P. Bocci Pacini, Le statue classiche di Francesco I de’ Medici nel giardino di Pratolino, in Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, iii Serie, viii-ix, 1985-86, pp. 151-203; P. Bocci Pacini, La Galleria delle statue nel Granducato di Cosimo III, in riasa , iii Serie, xii, 1989, pp. 221-255; P. Bocci Pacini - V. L. Verona, Lo sviluppo della Galleria degli Uffizi sotto Ferdinando II con l’incremento e i restauri delle statue classiche, in riasa , 54, iii Serie, xxii, 1999, pp. 233-310. 2 P. Barocchi, La storia della Galleria e la storiografia artistica, in Gli Uffizi quattro secoli di una galleria, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Firenze 20-24 settembre 1982), a cura di P. Barocchi - G. Ragionieri, Firenze, 1983, vol. i, pp. 49-150. C. Gasparri, I marmi antichi degli Uffizi. Collezionismo mediceo e mercato antiquario romano tra il xvi e il xviii secolo, in Gli Uffizi quattro secoli, cit., vol. i, pp. 217-231. D. Heikamp, La Galleria degli Uffizi descritta e disegnata, in Gli Uffizi quattro secoli, cit., vol. ii, pp. 461-541. D. Heikamp, Zur Geschichte der UffizienTribuna und der Kunstschränke in Florenz und Deutschland, in ZKGesch, xxvi, 1963, pp. 193-268. D. Heikamp, Le sovrane bellezze della Tribuna, in Magnificenza alla Corte dei Medici. Arte a Firenze alla fine del Cinquecento, Milano, 1997, pp. 329-345 con bibliografia precedente. W. Prinz, Die Sammlung der Selbstbildnisse in den Uffizien, Berlin, 1971. 3 Le miniature sono state indagate di per sé da S. Meloni Trkulja e da M. Casarosa nell’attuale sistemazione agli Uffizi. S. Meloni Trkulja, Le miniature degli Uffizi, in Gli Uffizi, cat. gen., Firenze, 1979, pp. 1167-1172 e qui nota 17. M. Casarosa, La collezione granducale delle gemme dal Settecento ad oggi, in Arte illustrata, vi, 54, 1973, p. 286 sgg. Vedi anche qui nota 20. 4 Pelli testimonia i preparativi per la nuova sistemazione della sala: «Serbasi sempre lo stipo che in 60 quadretti contiene una copiosa serie di piccoli ritratti miniati di varie qualità. Altri sciolti ho fatto adattare in quadretti». G. Pelli Bencivenni, Saggio Istorico della Real Galleria di Firenze, Firenze, 1779, vol. ii, p. 256, nota 9. 5 D. Heikamp, L’antica sistemazione degli strumenti scientifici nelle collezioni fiorentine, in Antichità Viva, ix, 6, 1970, pp. 3-25. P. Galluzzi, Il mecenatismo mediceo e le scienze, in Idee Istituzioni Scienza e Arti nella Firenze dei Medici, Firenze, 1980, pp. 189-214. M. Bacci, Le collezioni scientifiche, in Gli Uffizi. Storia e Collezioni, prefazione di G. C. Argan, presentazione di L. Berti, Firenze, 1983, p. 244 sgg. P. Bocci Pacini, Un progetto di Giuseppe Del Moro per una Sala di Galleria, in Governare l’arte. Scritti per Antonio Paolucci dalle Soprintendenze Fiorentine, Firenze 2008, pp. 213-227. «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 247-280 248 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 1. Pianta da Lanzi. 1599 al 1635; gli strumenti nel 1677-82, oltremodo accresciuti per i lasciti di Mattias de’ Medici e del Cardinale Leopoldo, che li aveva studiati, oltre a quelli di Robert Dudley, vengono spostati da questa stanza un tempo denominata delle matematiche sull’antica terrazza, chiusa nel 1589 e dal 1613 diventata sala delle carte geografiche. La sistemazione del nuovo gabinetto viene progettata accostando le miniature moderne a piccole sculture classiche. Questo abbinamento segue il gusto, già espressione dei vecchi direttori G. Querci e R. Cocchi, che continuava ad associare antico e moderno perché una classe di materiali «può servire di ornamento all’altra».6 Lo spazio scelto per la realizzazione di questo progetto è la piccola sala (m 6 × 3) in cui negli anni immediatamente precedenti erano stati esposti qua- dri, bronzetti e statue di piccolo formato su scaffali e in armadi e, dal 1704, la statua dell’Ermafrodito al centro. Il riordinamento di età leopoldina implicò anche modifiche strutturali nella distribuzione delle stanze, con mutamenti riconoscibili a posteriori nella pianta del Ruggieri (1742), da cui si evince che la sala aveva un accesso sul corridoio orientale ed era divisa dalla Tribuna dalla scaletta che portava al teatro. Nella nuova sistemazione, dovuta all’architetto Zanobi Del Rosso, vengono aperte le porte (v. nota 29) che la rendono comunicante con le sale adiacenti, come del resto accade per le altre stanze affacciate sul corridoio orientale. La Memoria del Pelli inerente al nuovo piano per la Galleria informa come «la stanza ove era l’Ermafrodito, quantunque luminosa, per la sua figura lunga potrebbe conte- 6 agu, Filza ii, 1769-70, 46. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 249 nere le miniature e le piccole sculture e i lavori a sti, quali la c. d. Cleopatra e la c. d. Livia, visto che il scagliola».7 ruolo primario della scena cominciava a essere svolto Il Gabinetto viene ora adibito alla scultura e alla dalle statue e principalmente dalla Venere dei Medici. pittura minuta, «genere così separato dagli altri Al precedente e progressivo arricchimento della sala, com’è il talento per riuscirvi»;8 la precisazione è incolma di oggetti preziosi, seguirà in epoca neoclassiteressante perché Lanzi evidentemente ritiene queca lo smembramento dei materiali considerati minosti oggetti antichi e moderni parte di un ‘genere’ a sé ri e la conseguente irrimediabile perdita della facies stante da inserire fra le arti minori. Egli vuol mettere cinque-seicentesca di questa Wunderkammer. insieme piccole sculture di ascendenza classica con Oltre alla Tribuna il Ricetto decorativo dell’inuna serie di miniature dell’eredità del Cardinal Leogresso dalla scala buontalentiana, uno dei cardini poldo, facendo un accostamento tra la scultura rodella sistemazione di Cosimo III, risulta ugualmente mana miniaturizzata e le pitture moderne miniatusuperato per gli accostamenti ornamentali entro inristiche. In realtà tra le sculture romane sono anche crostazioni marmoree di pezzi appartenenti a classi inclusi Eroti di proporzioni normali, per cui questa diverse, come epigrafi e frammenti di sarcofagi misti divisione risulta parzialmente impropria. Si può tuta ritratti e sculture moderne e antiche. Questo tipo tavia apprezzare l’interesse dimostrato dal Lanzi per di musealizzazione diffuso in dimore patrizie, in cui l’artigianato minore in pietre dure e la continuità i marmi antichi erano inseriti in strutture architettonell’accostare il moderno con l’antico, avvicinando niche o in un’artificiale ambientazione decorativa, ritratti di personaggi famosi in miniatura con bustini viene ormai abbandonato per una nuova valutaziodi divinità e di imperatori, che si rifanno rispettivane del pezzo antico classificato ‘scientificamente’. In mente a prototipi della grande pittura e della grande effetti non si ha più in stima l’assemblaggio fogginiascultura, miniaturizzati a scopo decorativo. no del vecchio Ricetto e si pensa di fornire un nuovo Per la creazione di questa saletta e per il suo arreingresso alla Galleria dalla parte di levante prolundo saranno scelti determinati pezzi dagli ambienti gando la scala vasariana. più prestigiosi della Galleria, tra cui la Tribuna, l’ArQuesti mutamenti della Galleria non passano meria, la sala di Madama, il Ricetto in cima alla scala inosservati neanche ai contemporanei e specialmenbuontalentiana, la sala dei Vasi Etruschi nonché te all’avvertito e colto ambiente inglese della Firenze Palazzo Pitti. Questa osservazione basta di per sé a dell’epoca, come si può cogliere dalla corrispondenevidenziare quanto radicale sia stata la trasformazioza di Sir Horace Mann:10 «You would not know the ne della Galleria all’epoca di Pietro Leopoldo di Gallery in the present transformation of it». Con Lorena. Disinvoltamente vengono tolti dalla Tribugrande sensibilità egli capta la rivoluzione cui è sotna «il Morfeo bello» e «il Morfeo con 4 ale» che erano toposta la Tribuna: «by these means the Tribuna is ai lati della porta, secondo il disegno di G. Bianchi perforated. The octagon table is removed and only a nel Catalogo Dimostrativo9 (Fig. 2), insieme con l’Erfew principal statues and pictures remain in it. All the cole bambino che strozza i serpenti, acquisito dal hidden scaffali are taken away». L’assetto dei corridoi Granduca Francesco I, e il Neroncino dell’eredità del non è stato snaturato, tuttavia i muri dietro alle staCardinale Leopoldo. tue e ai busti «are covered with bad pictures, and striDopo l’arrivo delle grandi statue classiche all’epokes one with the idea of a magazine or an upholsteca di Cosimo III la sinfonia della Tribuna aveva subito rer’s shop». Viene anche criticato lo smantellamento una sua violenta drammatizzazione, per cui gli acdell’Armeria per fare delle brutte stanze e si irride alcordi di prima erano mutati e si potevano così togliel’uso di vendere i materiali medicei all’asta.11 Infine re alcuni arredi, come anche asportare alcuni dei bula Sala di Niobe, l’espressione più rappresentativa 7 agu, Filza xiii, 1780, 30. Cfr. anche asf, mf a 323, 18 aprile 1780, in M. Fileti Mazza - B. Tomasello, Galleria degli Uffizi 1775-1792. Un laboratorio culturale per Giuseppe Pelli Bencivenni, Modena, 2003, p. 155. 8 L. Lanzi, La Real Galleria di Firenze accresciuta e riordinata per comando di S.A.R. l’Arciduca Granduca di Toscana, in Giornale de’ Letterati, 1782, p. 193. 9 P. Barocchi - G. Gaeta Bertelà, Per una storia visiva della Galleria fiorentina. Il Catalogo Dimostrativo di Giuseppe Bianchi del 1768, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, s. iii, xvi, 4, 1986, pp. 1117-1230. 10 The Yale Edition of Horace Walpole’s Correspondence, a cura di W. S. Lewis, New Haven, 1971, vol. ix, pp. 168-171, in particolare la lettera di H. Mann del 24 luglio 1781. 11 In effetti la signora Damer e W. Beckford, autore del diario di viaggio Italy; with Sketches of Spain and Portugal, pubblicato a Londra solo nel 1834, sono scandalizzati da questa consuetudine fiorentina; a titolo esemplificativo si fa riferimento all’acquisto delle trine poste a coprire le sedie che, cucite insieme, sono diventate una magnifica tovaglia. 250 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 2. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxii a). della sistemazione leopoldina e del gusto neoclassico, incorre nelle critiche più accese sia per il costo eccessivo, sia per il suo aspetto «like an appurtenance to a Church», sia per la dislocazione dei Niobidi, non più raccolti in gruppo ma distanziati e sparsi, che appaiono come «our Riot Act». A questo giudizio fa eco J. Waldie che nei suoi Sketches of Italy li paragona a «opera-dancers practising to die gracefully»12 e anche in Italia A. Fabroni condivide: «i Niobidi pajon tanti pazzi». Ritornando al nostro argomento possiamo notare che quello che in età leopoldina sarà il Gabinetto delle Miniature era in precedenza denominato sala dell’Ermafrodito, in quanto vi era posta la statua giacente sul letto, decorato con statuette in legno dorato inserite in nicchie, che segnava uno degli acquisti più vistosi effettuato da parte di Ferdinando II a Roma della collezione Ludovisi, grazie alla mediazione del Cardinale Leopoldo. A questo marmo si era aggiunto in età successiva alla morte del Cardinale un mobile, prezioso scrigno di miniature, rimasto in un primo tempo a Palazzo Pitti, come del resto molti altri oggetti della collezione, che vengono acquisiti a mano a mano a seconda dell’interesse che suscitano al momento. Nonostante questi due pezzi significativi, Ermafrodito e mobile dell’eredità del Cardinale, la stanza non doveva avere un aspetto particolarmente attraente, secondo quanto testimoniano le parole di E. Gibbon, viaggiatore inglese13 che nel 1764 così la descrive: «Le mura di questo piccolo gabinetto sono tappezzate di quadri e gli scaffali coperti di frammenti di scultura o di bronzo, accolti tutti senza mol- 12 J. Waldie, Sketches of Italy, London, 1820, vol. iv, p. 35. 13 E. Gibbon, Viaggio in Italia, Milano, 1965, p. 178. La testimonianza di questo viaggiatore, che soggiorna a Firenze nel 1764, è ricordata anche in D. Heikamp, Le Musée des Offices au xviii siècle, un inventaire dessiné, in L’Oeil, clxix, 1, 1969, p. 2 e nella Mostra storica della Tribuna degli Uffizi, premessa di L. Berti, catalogo di S. Rudolph - A. Biancalani, Firenze, 1970, p. 27. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 251 Fig. 3. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxvii a). ta critica né scelta. Il numero di quelli che appaiono veramente buoni o antichi è di pochissimo rilievo». La descrizione del Gibbon conferma come l’allestimento sia sempre quello descritto nel Ragguaglio del 1759 da G. Bianchi,14 che nel Catalogo Dimostrativo del 1768 fa uno schizzo della sala con l’arredo (Fig. 3): del Cardinale Leopoldo risultano una statua di marmo di Priapo15 e il mobile denominato «la Galleria di viaggio». Il Priapo viene descritto dal Marchese de Sade durante la sua visita agli Uffizi: «Si vede anche, sempre in questa stanza [dell’Ermafrodito], il famoso Priapo, un oggetto antico raro e ben conservato. A far da piedistallo è un leone, emblema della forza; la statua consiste tutta di un priapo o membro virile, ma di così prodigiose dimensioni che è possibile vederla senza indovinarne il senso. In alto si scorge la parte peculiare del sesso femminile che sembra adattarvisi, senza dubbio un’allusione all’operazione praticata su questa statua dalle ragazze e dalle donne che le erano devote. Questo marmo è situato dietro la porta, coperto da una testa di leone di cartone, e non viene mostrato se si è in compagnia di persone giovani di cui si tema di risvegliare l’immaginazione, anche se in verità ritengo che la donna meglio edotta potrebbe vederlo senza comprendere, ed è necessario essere prevenuti per riconoscere la figura».16 A 14 G. Bianchi, Ragguaglio delle antichità e rarità che si conservano nella Galleria Mediceo-Imperiale di Firenze, Firenze, 1759, pp. 222-223. 15 Il Priapo del Museo Archeologico (M.A.) 13973 da Antiche Collezioni, neg. fot. 50119 si trova oggi nella Villa Corsini a Castello (vedi I marmi antichi conservati nella Villa Corsini a Castello, a cura di A. Romualdi, Città di Castello, 2004, n. 46 e anche Villa Corsini a Castello, a cura di A. Romualdi, Firenze, 2009). Nel 1687 secondo quanto testimonia il documento in asf, gm 932, c 237 era ancora a Palazzo Pitti e così è nel 1688 secondo asf, gm 741. Segnalato nell’eredità di Leopoldo, arriva nel 1771 in Galleria. Vedi G. Capecchi, La collezione di antichità del Cardinale Leopoldo de’ Medici: i marmi, in Atti e memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria, xliv, 1979, pp. 125-145. Altri pezzi leopoldini come la famosa anfora dipinta sono segnalati dal Bianchi nella sala dei Vasi Etruschi. 16 D.A.F. de Sade, Viaggio in Italia, Torino, 1996, p. 32. Il viaggio a Firenze risale al 1775. 252 piera bocci pacini · vera laura verona proposito del mobile invece il disegno del Bianchi suggerisce una cassa leggera sorretta da lunghi piedi a mo’ di cavalletto; è noto nella letteratura l’amore che Leopoldo nutriva per i ritratti in miniatura che lo seguivano nei viaggi e anche in conclave. Per Magalotti questa raccolta era il merito maggiore del Cardinale. G. Bianchi riprende la prima formulazione del concetto di galleria di viaggio che si deve a Paolo del Sera. Questi, mercante veneziano e collezionista, suggeriva a Leopoldo nel 1664, dopo un reciproco scambio di un elenco di 20 ritrattini, l’idea di raccogliere tali miniature in «uno stipetto bizzarro che fosse come una Gallerietta di simili cose».17 Questo genere di microcollezionismo segue il gusto più intimo e domestico del connoisseur per il quale i ritrattini, «doppo la stanchezza de’ gravi negotij, servono di gran divertimento, e senza muoversi di sedia, e senza disturbi si possono ad uno ad uno godere, mettendo a fronte l’una maniera con l’altra, con grandissima sodisfatione, e diletto, oltre che comodamente si trasportano per le ville, e si riportano, il che non si può fare delle cose grandi».18 Non sembra che all’epoca della suddetta lettera il Cardinale avesse già il mobile, di cui invece parla nella lettera senza data a Giovan Battista Bolognetti, dove dichiara che i ritrattini sono «accomodati in uno stipo in modo singolare, et anco ricco».19 La realizzazione di questo mobile si può presumibilmente porre intorno al 1672 quando Paolo del Sera, poco prima di morire, insiste su «quel pensiero altre volte avuto» e che «né mai ho potuto adempiere per mancanza di numero» (di ritrattini), cioè di fare «una Gallerietta in uno stipetto che sarebbe cosa ammirabile e regia».20 A questa data, accrescendo infatti la propria collezione di miniature con l’acquisto della raccolta di Paolo del Sera, Leopoldo realizza il progetto di costruire un mobile apposito. Lo stipo di Leopoldo si colloca come un estremo esemplare rispetto alla serie degli imponenti studioli dei vari membri della famiglia medicea, di cui si sono avute le rappresentazioni più vistose nel mobile erudito di Cosimo I e nel tempietto ottagonale, cuore della Tribuna di Francesco I, poi sostituito dallo studiolo di Ferdinando I altrettanto imponente e signi- ficativo posto nella nicchia di fronte all’entrata della Tribuna. Tali studioli vistosi e ingombranti, che spesso insieme ai tavoli di pietre dure definivano un ambiente, non appaiono più congeniali. Da una parte ci sono le proporzioni pesanti e dall’altra non sembra più consono ammucchiare pretiosa di epoche e tipi diversi in uno stesso mobile-museo. Lo stipo di Leopoldo, più leggero e intimo, accoglie con vistosa anticipazione una sola ‘classe’ di oggetti; del resto Leopoldo aveva già fatto suddividere le monete dal Fitton, considerandole un genere separato, cui aveva dedicato uno stipo di ebano con sportelli, suddiviso in due parti con 128 cassetti a tirella con bottoncini d’argento (asf, gm 826, c 99, n. 3070). I due mobili sono assai simili, tanto che il Marchese de Sade nel diario del suo viaggio in Italia (vedi nota 16) menziona il mobile con le miniature e significativamente lo chiama «medagliere», aggiungendo che Leopoldo portò con sé i quadretti anche in conclave per ornare la sua cella.21 I precedenti studioli granducali del resto accoglievano nei cassetti monete antiche, con una predilezione per le serie imperiali, e per le moderne di uomini illustri e «padroni delle città».22 Nel nostro caso le miniature assolvono il compito, altrove delegato alle medaglie moderne, di ricordare gli uomini illustri come pendant ai busti antichi di dei e di imperatori. Il quadro di Giulio Pignatta, raffigurante Andrew Fountaine e i suoi amici in Tribuna,23 mostra dal vivo il significato e l’importanza del mobile inteso come contenitore di oggetti preziosi, che attira principalmente l’interesse dei virtuosi intenti ad ammirare un tiretto colmo di monete, appoggiandosi negligentemente sulle tre Veneri classiche, descritte da E. Wright nel 1721-22: «What they always reserve for the Buon Boccone, to make up your mouth with, is the glorious octangular Room called the Tribuna, inhabited by Goddesses […]. Round the Table of Lapis Lazuli stand six admirable Statues, all of white Marble; three of them are of Venus, in different attitudes: One of them soon distinguishes herself to be the Venus of Medicis, so well known by the Copies in England, and all over Europe […]. If the other two have not so many Beauties as this, they 17 S. Meloni Trkulja, Leopoldo de’ Medici collezionista, in Paragone, 1975, n. 307, pp. 25-26. 18 asf, Carteggio d’Artisti, vi, cc 131r-v, già in Prinz, op. cit. a nota n. 1, e in Meloni Trkulja, art. cit. a nota n. 17, p. 26. 19 asf, Carteggio d’Artisti, xviii, 1, cc 538r-v, già in Prinz, op. cit. a nota n. 1, doc. 1, p. 165 e in Meloni Trkulja, art. cit. a nota n. 17, pp. 24-25. 20 M. Fileti Mazza, Notizie su Paolo del Sera e Marco Boschi, in P. Barocchi, Il Cardinale Leopoldo, Milano-Napoli, 1987, vol. i, p. 51 sgg. e doc. 3581, pp. 96-97. 21 de Sade, op. cit. a nota n. 16, p. 32. 22 L. Lanzi, Viaggio nel Veneto, a cura di D. Levi, Firenze, 19841988, p. 89. 23 B. Ford, Sir Andrew Fountaine, One of the keenest Virtuosi of his Age, in Apollo, cxxiii, 1985, pp. 352-363. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 253 have more than are to be found in most others […]: mello, con una nappa di seta e fili d’argento. Ogni Venus Urania, which stands on the left hand of it cassetto consiste in un quadretto, coperto per di so[…]; Venus Victrix which stands on the right».24 pra di velluto nero; una volta tirato fuori il quadretQuesto genere di arredo non risponde più al gusto to, Gibbon può osservare una piccola cornice in cui classificatorio dell’epoca illuministica che divide gli sono incastonati in argento su un fondo di velluto azoggetti per serie, per cui gli antichi mobili saranno zurro nove piccoli ritratti, il più grande dei quali è allontanati dalla Galleria. Allo stipo di Leopoldo sarà posto al centro. L’inventario precisa che i ritratti soriservato un trattamento particolare, che oggi pono «aovati, tondi e quadri in rame e carta di più grantrebbe essere definito di rifunzionalizzazione: esso dezze… con cristalli sopra», o ancora «esangoli o otsarà disfatto e il suo contenuto esposto sulle pareti tangoli», secondo le parole dello stesso Leopoldo del nuovo Gabinetto delle Miniature. E. Gibbon può nella citata lettera al Bolognetti (v. nota 19). Gibbon essere considerato uno degli ultimi ad aver ammiraricorda che nel mobile erano custodite 540 miniatuto il mobile nella sua integrità. Più che lo schizzo di re, numero probabilmente non verificato, ma preG. Bianchi che risulta fuorviante, la descrizione di sunto da calcoli matematici (60 × 9 = 540), mentre G. Bianchi ne ricorda 530 (Fig. 3), l’inventario del 1753 ne questo viaggiatore illumina sulle peculiarità del menziona 520 e 511 quello del 1769. Nel Gibbon, da mobile e sui modi della sua fruizione. Per rappresenquello storico che diventerà, cogliamo una valutatarne l’aspetto servono anche le descrizioni degli inzione dei ritratti miniati molto più accurata e critica ventari della Galleria del 175325 e del 1769,26 che replirispetto ai toni enfatici del Pelli: egli ritiene che il locano il n. 3190 di asf, gm 826, c 101, dove è citato in ro valore sia sminuito dalla mancanza di cartellini data 20 febbraio 1676 lo stipo de’ ritrattini restato in con nomi di identificazione e nota una varietà cronocamera di S. A. Serenissima dopo la morte del Cardilogica dei pezzi in base al costume.27 Un’idea visiva nale Leopoldo: “Uno stipo d’ebano a sportelli con di come doveva apparire lo stipo si può ricavare dal mastiettature d’argento, contiene dentro numero 60 mobile ottocentesco conservato al Museo Archeolocassette con ritrattini, con campanella d’argento alle gico, nel quale era custodita la collezione granducale dette cassette e rosetta simile, alto b 1 s 9 largo b 2 1/6 di glittica, sia per la struttura con sportelli intarsiati grosso 7/8, nelle quali cassette vi sono più e diversi in argento, sia per la fitta schiera di cassettini all’inritrattini come appresso”. Gli inventari della Galleria terno.28 ricordano uno stipo impiallacciato d’ebano, alto cirDagli inventari ricaviamo che dal 1781 il mobile del ca 90 cm e largo un metro e mezzo, sorretto da un Cardinale Leopoldo sarà rimesso alla Guardaroba;29 piede di pero intagliato, tinto di nero. Il mobile è coevidentemente questa data può indicare come alperto da due sportelli con chiusure in trafori d’argenl’epoca il Gabinetto delle Miniature fosse già allestito e paletti. Quando Gibbon visita la sala gli vengono to o in via di allestimento. Nel 178030 infatti «la Galaperti gli sportelli da un custode ed egli si trova daleria rimanda alla Guardaroba un palchetto di legno vanti a 60 cassettini, ciascuno munito, secondo gli inretto da alquante mensole intagliate e venate d’oro ventari, di una rosetta d’argento, a fungere da po24 E. Wright, Some Observations Made in Travelling through France, Italy, & c. in the Years 1720, 1721 and 1722, London, 1730, vol. ii, p. 405 sgg.; V.L. Verona, dalla tesi di dottorato Le vicende delle sculture antiche degli Uffizi attraverso la letteratura odeporica e il fenomeno del Grand Tour, vol. i, p. 80 e vol. ii, pp. 259-263. 25 bu, ms 95, inv. 1753, n. 1493. Cosimo III ha nuovi apporti (Meloni Trkulja, op. cit. a nota n. 17, p. 26) e così Vittoria della Rovere e Violante di Baviera. 26 bu, ms 98, inv. 1769, n. 2378. 27 Un altro illustre visitatore, l’imperatore Giuseppe II, si sofferma invece su aspetti più lievi ed esteriori: «Nella stanza dell’Ermafrodito, osservando sempre S.M.C. con la stessa attenzione le cose più singolari, gli è stato fatto vedere, nello stipo dei ritratti, quello che nella cassetta prima è collocato al n. 4 e che rappresenta un ritratto di femmina creduta una delle favorite di Carlo II re d’Inghilterra, miniata da Arlaud da un originale di Pietro Lillo e sopra del quale, nella sua venuta del dì 22 aprile 1769, si era trattenuto ad ammirarne la bellezza, ed ha confermato ora che veramente questa donna era d’un’avvenenza che incontrava il suo genio». agu, Filza viii, n. 23 e bncf, n.a. 1050, Efemeridi, s. ii, iii, c 473v, 7 giugno 1775, in Fileti Mazza-Tomasel- lo, op. cit. a nota n. 7, pp. 122-123. Viene ripresa la stessa segnalazione presente nel Catalogo Dimostrativo (Fig. 3). 28 A. Giuliano, I cammei della collezione medicea nel Museo Archeologico di Firenze, Firenze, 1989, p. 61 e per un mobile simile al Museo Archeologico di Rimini cfr. Storia e Archeologia per un Museo, 1980, tav. lxv. Sulle gemme del Cardinale Leopoldo si veda anche M.E. Miche li, Storia delle collezioni e regesto, in Giuliano, op. cit. a nota n. 28, pp. 300-301 con elenco dell’eredità di Leopoldo (asf, gm 826). 29 bu, ms 98, ii, 4, Giornale, c 746: 14 Agosto 1781, Filza xiii, 75: «Ricevuta della Guardaroba alla Galleria di uno stipo impiallacciato d’Ebano convi 60 quadretti di miniature». 16 agosto: «Altra fatta alla Galleria di porte di noce impiallacciate, ivi a 58». Durante la ristrutturazione leopoldina viene infatti aperta una serie di porte fra le sale del corridoio orientale, tra cui le porte del Gabinetto delle Miniature. Nella pianta del Ruggieri del 1742 si vedono ancora delle aperture intermittenti; con Pelli e con Lanzi si aprono queste tre sale che riprendono simmetricamente il percorso aperto delle sale dell’Armeria, dal lato opposto della Tribuna. 30 agu, Filza xiii, 65. 254 piera bocci pacini · vera laura verona che si rigira attorno alla stanza dell’Ermafrodito su cui posavano dei bronzi», avallando così la testimonianza di Gibbon (vedi nota 13) e di G. Bianchi. Secondo l’ordine di S.A.R. le miniature dovevano essere estratte dai cassetti e messe in vista «affinché il pubblico ne godesse». Lanzi si trova ora davanti al delicato compito di esporre i ritratti in miniatura contestualizzandoli con le statuette e i bustini. Egli non ha ancora approfondito la trattazione della storia pittorica secondo una suddivisione per scuole, ma agisce da antiquario eseguendo una classificazione per tipologia. Si deve presumere che si sia proceduto a un disegno preparatorio secondo uno spirito di simmetria che Lanzi stesso considerava utile «ad accrescere mirabilmente la comparsa e la stima dei pezzi», in modo da alternare sulle pareti le miniature con le statue classiche, che sarebbero state inserite in piccole nicchie, venute alla luce nel 1970 nei lavori di riordino della Tribuna e dell’annessa Saletta xvii, e quindi databili in età leopoldina.31 Lanzi nelle nicchie riprende una tradizione e una tematica che affondano le radici nel Rinascimento. Del resto lo stesso Lanzi considerava come il metodo più sicuro consistesse nel prendere spunto «da qualche buona stampa o imitargli da’ musei migliori di Roma». A Roma infatti erano frequenti gli esempi di pareti nicchiate per statue in palazzi e cortili e a Firenze restava il ricordo del primo antiquarium di Cosimo I nella Sala delle Nicchie a Palazzo Pitti. Gli architetti rinascimentali avevano voluto anche visivamente riprodurre l’effetto dei grandi edifici romani, decorati da statue inserite in absidi ed esedre, come si può per esempio vedere in un disegno di Marten van Heemskerck rappresentante Villa Madama.32 Anche nei grandi mobili medicei del resto si potevano vedere bronzetti e busti di imperatori romani inseriti in nic- chie, come nel mobile-museo di Cosimo I.33 Questo modulo a nicchie continua nel tempo, tanto che nel Guardaroba relativo alla morte del Cardinale Carlo Decano (gm 779 del 1666) è segnalato a Villa Medici uno «studiolo grande rabescato nero e oro all’indiana con 22 nicchie entrovi 29 statuine di metallo dorate di più grandezze che 3 essendo state rubate». Proprio per questo ricordo classicheggiante delle nicchie, pur avendo spostato la statua dell’Ermafrodito, il suo piedistallo ligneo viene mantenuto al centro della sala a sorreggere un Morfeo di dimensioni minori. Quindi il modulo a nicchie della sala sembra quasi ispirarsi a questo letto in cui erano intagliate le armi del Cardinale Ludovisi e inserite 10 figurine dorate entro una serie di nicchie con colonnette. Il piedistallo, che probabilmente data al momento del restauro dell’Ermafrodito nel 1623 e che poteva rappresentare le più famose statue Ludovisi34 nelle figurine lignee dell’Apollo con lira, dell’Afrodite con Eros, del Bacco con uve, del Saturno con putto, di Diana con arco fino a Marte, Ercole e alle teste di Giove e Nettuno,35 riprodotte anche nelle incisioni del Perrier, enfatizza come in un gioco di specchi il motivo ispiratore della sala36 (Figg. 4 a-b). Nelle pareti del gabinetto le nicchie dovevano avere dimensioni diverse per adattarsi alle sculture e ai busti ed essere disposte una sopra l’altra a creare delle file che Lanzi definisce «liste». Questo intervento alterava in modo definitivo la sistemazione precedente con scaffali e palchetti, come ricordavano E. Gibbon e G. Bianchi (Fig. 5). F. Zacchiroli nel 1783 attesta: «on a ensuite creusé dans la muraille une grande quantité de niches, dans les quelles son placés vingt-une petites statues, et vingt-trois petits bustes en marbre».37 «Lo spazio compreso fra le due liste è rivestito di quadretti con cornici d’ebano e in essi 31 Mostra storica della Tribuna degli Uffizi, op. cit. a nota 13, p. 6: «Il riordinamento della Tribuna si connette con quello dell’adiacente Saletta xvii che è stata restaurata a cura di Nello Bemporad. Qui abbiamo avuto la sorpresa anche di un recupero, perché durante i lavori è stato scoperto tutto un ordine di piccole nicchie affrescate in finto porfido, come le basi delle statue che sono posteriori, che aprendosi lungo le pareti caratterizzavano nettamente questo ambiente. Nel fregio di base e nel soffitto (a stoia affrescata) c’è tutta una serie di strumenti meccanici … che si riferiscono alla prima testimoniata destinazione dell’ambiente, creato al tempo di Ferdinando I». Le nicchie affrescate a finto porfido segnano un uso posteriore che ritroviamo espresso anche sulle basi delle statue dei corridoi. 32 E. Filippi, Maarten van Heemskerck. Inventio Urbis, Milano, 1990, tavv. 4, 42. 33 Vedi A. M. Massinelli, Magnificenze medicee: gli stipi della Tribuna, in Antologia di Belle Arti, ns. xxxv-xxxviii, n. 5, 1990, pp. 111-134. 34 B. Palma, I marmi Ludovisi: storia della collezione, in Museo Nazionale Romano, a cura di A. Giuliano, Roma, 1983, i, 4, doc. 11: Inven- tario 2 novembre 1623, n. 50 «Una statua di Ermafrodito a giacere attorno ad una coperta d’ermisino rossa ricamata d’oro». Per l’Ermafrodito vedi I marmi Ludovisi dispersi, in Museo Nazionale Romano, op. cit., Roma, 1986, i, 6, n. 111,4, p. 105. 35 L. Giovannini, L’acquisto di marmi Ludovisi per la Galleria degli Uffizi, in Annali della Fondazione Longhi, i, Pisa, 1984, pp. 139-164 con appendice n. 5. La descrizione del piedistallo è acclusa in una lettera di Leonardo Agostini al principe Leopoldo del 1669. 36 Giovannini, art. cit. a nota n. 35, p. 163 presenta la foto del letto tinto di un marrone brunito su cui era tornato a riposare l’Ermafrodito nella sala delle Iscrizioni. Il letto ha avuto vari passaggi: i drappi rossi che lo rivestivano nella prima fase Ludovisi diventano nel 1667 di «damasco turchino con frangetta d’oro e seta foderata di taffettano torchino» (Palma, art. cit. a nota n. 34, doc. 17, p. 99). Le stoffe amate nei periodi più antichi non sono più usate nella Galleria degli Uffizi. 37 F. Zacchiroli, Description de la Galerie Royale de Florence, Florence, 1783, p. 24. La guida dello Zacchiroli, ripubblicata in tante edizioni, segue quella del Lanzi. All’agu, Filza xvi, 1783, 1 abbiamo il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 255 Fig. 4a. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxviii c). dove in più numero e dove in meno sono riportati ritrattini e piccole miniature contornate tutte in argento».38 Si presume che in ogni specchiatura fossero disposte 6 tavolette, ciascuna delle quali corrispondeva a un tiretto del mobile. In realtà sappiamo dagli inventari che ai 60 tiretti con miniature del mobile vero e proprio se ne erano aggiunti 12 da altre provenienze per un totale di 72 tavolette, per cui le due pareti lunghe accoglievano ciascuna 36 quadretti, disposti a gruppi di 6 nei 6 intervalli tra le liste con nicchie di ogni parete (tre al di qua e tre al di là della porta) (Fig. 6). Il visitatore dunque non era più esterno allo studiolo: vi era inglobato. Il mobile aveva riversato i suoi tesori sulle pareti e il vano stesso era diventato uno studiolo, con le pareti che come cassetti aperti mostravano le loro meraviglie. Con questo assetto espositivo le miniature trovavano dunque una nuova collocazione all’interno di una stanza strutturata in modo da assumere i connotati del mobile, fino alla completa sovrapposizione e identificazione di funzioni. Il Gabinetto in questo aspetto ha avuto breve vita: da una pagina dell’inventario relativa al 1796,39 al momento del disfacimento ad opera di T. Puccini quando i mobili vengono rimessi alla Guardaroba, possiamo ricavare qualche ulteriore elemento per immaginare più compiutamente l’aspetto della sala curata da Lanzi, che pensava non dovesse «risparmiarsi diligenza per ben riuscire» nel creare una situazione museale adeguata ai pezzi. Le «liste» lanziane definiscono la parete con suddivisioni verticali in un’alternanza di pieni e vuoti; il numero delle nicchie assomma a 44, divise in 26 una lettera del Pelli in cui viene presentato al consigliere Schmidweiller il progetto dello Zacchiroli di scrivere una descrizione della Galleria in francese ad uso dei forestieri. In realtà sarà soprattutto il libro del Lanzi a servire da riferimento per la numerosa serie di diari di viaggio che renderanno conto della Galleria. 38 Lanzi, op. cit. a nota n. 8, p. 194. 39 bu, ms 113, ii, 2, c 327. Anche Pelli bu, ms 463,37 e 463,38: «C’era nella camera delle Miniature disfatta dal Puccini […]». 256 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 4b. Letto dell’Ermafrodito. piccole, 8 medie e 10 grandi, per accogliere 23 busti e 21 statue. Negli intervalli delle nicchie sono le miniature disposte nei «voti della parete» ricoperti «di parato di mantino verde con cornicetta di legno dorata» per un’altezza di b 3.12. Il documento di Galleria fa riferimento a 13 pezzi di stoffa (sei su ciascuna parete lunga e uno su quella corta) e a 26 «tirali di reggetta di ferro soppannati di mantino verde per sostenere i quadretti delle miniature con loro gangi e nappe». L. Pellegrini Boni40 riporta un documento che cita «i contorni a tutti gli scomparti fatti per le suddette miniature, e piccole statuine che in gran numero sono situate nelle loro nicchie», per cui il termine ‘lista’ usato dal Lanzi nel suo valore semantico sembra tradursi in incorniciature atte a suddivi- dere le singole ripartizioni verticali sia per gli spazi adibiti ai quadri di miniature, sia per le file di nicchie sovrapposte. La saletta doveva dunque apparire, sotto il soffitto affrescato da G. Parigi e F. Lucci,41 come un gioco di accordi tra il verde delle pareti con cornici dorate, i peducci dei bustini in «verde di Prato», le basi bianche e oro. Inoltre il candore delle statue era enfatizzato dall’asse cromatico che divideva in due la stanza con il Morfeo nero sul letto tinto ora di bianco e oro dell’Ermafrodito e il Nerone di basalto sulla colonna d’alabastro intagliata a spirale con il piedistallo di giallo antico e lo zoccolo di pavonazzetto, descritta dal Pelli, che chiama anche la stanza adiacente «camera verde»,42 confermando il gusto neoclassico di tutto l’insieme. 40 L. Pellegrini Boni, La Galleria degli Uffizi in età neoclassica: alcuni documenti inediti nell’Archivio di Stato di Firenze, in Paragone, xxxiii, 1982, n. 387, p. 83, nota 23 e p. 84, note 30-33, tav. 53 con ulteriori notizie riguardanti lo zoccolo con lambrì, la «cornice, e fregio, che serve d’impostatura alla volta», lavori eseguiti da Agostino Fortini. 41 Lucci raccorda il fregio sotto la volta alla decorazione affrescata nel 1599-1600 da Giulio Parigi. 42 Pellegrini Boni, art. cit. a nota n. 40, pp. 81-82, nota 5 si riferisce a un conto di Antonio e Giovanni Battista Chigi del 1 ottobre 1779 per aver «dato di color verdognolo alle mura di una stanza a levante, che ha dipinto il lambrì lo Spiombi». il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 257 Fig. 5. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxvii b). Fig. 6. Schema delle nicchie alle pareti. Le miniature si trovano oggi nell’ultima saletta del corridoio orientale degli Uffizi, in quella che a seconda delle epoche ha assunto i nomi di sala degli Idoli, sala di Madama, sala dell’Ermafrodito, oggi Gabinetto delle gemme e delle miniature (Fig. 7). 258 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 7. Il Gabinetto delle gemme odierno con le miniature del Cardinale. Per quanto attiene alla sistemazione dei pezzi archeologici nel Gabinetto delle Miniature sul piano del pavimento erano dieci statue di dimensioni maggiori di quelle poste nelle nicchie, secondo una sistemazione che aveva già visto i precedenti nella Tribuna. In questa prima fascia l’Herakliskos, i putti e gli eroti ricordavano vivamente anche la tematica infantile che caratterizzava la statuaria antica nel primitivo assetto della Tribuna. Poiché il Lanzi inizia la descrizione del Gabinetto con le parole «nell’uscire dalla Tribuna», seguendo il suo ipotetico percorso, potremmo immaginare una sistemazione delle statue che inizi dalla porta della Tribuna e giri a destra lungo il perimetro della sala, per cui avremmo due statuette ai lati delle due porte opposte lungo l’asse interno della sala, quattro statue ai quattro angoli, la colonna con il cd. Britannico, poi considerato Nerone fanciullo,43 spostata un po’ al centro della sala rispetto alla parete finestrata in fondo e una statua al centro della sala. Tale ipotetica sistemazione può essere riassunta visivamente in uno schema (Fig. 8) con i numeri dell’inventario del 178444 che rispondono nell’ordine alle seguenti statue: Ercole in atto di strozzare il serpente (n. 83);45 Bacco da putto in atto di cogliere un 43 Sull’interpretazione della statuetta come Britannico già Lanzi dubitava, confrontandola con la medaglia della collezione Biondacca poi Visconti: L. Lanzi, Taccuino di Roma e di Toscana, a cura di D. Levi, Pisa, 2002, p. 49. Nella guida della Real Galleria (p. 200) Lanzi racconta di averne discusso con Horace Benedict de Saussure, rendendo palese anche l’apporto dei viaggiatori che iniziano la ricognizione delle Alpi studiando i tipi di marmo: «Il marmo della statuetta si era tenuto per basalte ma è forte in contrario l’autorità di Mr de Saussure che nel suo viaggio dell’Alpi lo crede marmo di altra specie». Questa attenzione petrografica al materiale è rilevata anche da Pelli che nel ms 463,4 annota a margine del pezzo: «Monsieur De Saussure asseri- sce di aver veduta ‘un espece de grisverdatre extremement tacheté fort dur d’un grain treffin et tres different descrais basaltes volcaniques’ e di questa poter esser forse la presente preziosa statuina». Per il viaggiatore ginevrino, padre dell’alpinismo, si veda M. Ferrazza, Il Grand Tour alla rovescia. Illuministi italiani alla scoperta delle Alpi, Torino, 2003. 44 I numeri dell’inventario del 1784 riportato in G. A. Mansuelli, Galleria degli Uffizi. Le sculture, Roma, i-ii, 1958-1960 scorrono di uno a partire dal n. 82 (che equivale al n. 83), mentre i riferimenti dell’inventario del 1825 riportano il numero corretto. 45 1825: 88; 1914: 322; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, n. 63, fig. 60. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 259 TRIBUNA 84 83 91 90 F I N E 85 CORRIDOIO ORIENTALE 92 S T R A 86 87 88 89 Fig. 8. Schema della sistemazione delle statue sul pavimento del Gabinetto delle miniature. grappolo d’uva (n. 84);46 Nerone fanciullo togato (n. 85);47 Ermafrodito con Satiro (n. 86);48 due putti con anatra (nn. 87-88);49 due putti che dormono (nn. 8990);50 Sileno nudo a sedere (n. 91)51 e Morfeo (n. 92).52 Tutte queste statue si conservano attualmente alla Galleria degli Uffizi, ad eccezione del Sileno (n. 91) oggi al Museo Archeologico. La disposizione delle statue evidenzia la collocazione simmetrica dei due putti con l’anatra accanto alla porta e dei tre amorini ai vertici di un triangolo, con il Morfeo nero al centro della sala spostato sulla lunga base dell’Ermafrodito al posto di quella appositamente intagliata dal Balatri su cui si trovava quando era collocato davanti alla stanza di Madama.53 Dal piano terra con statue su basi tinte di bianco e oro si procede nei registri superiori a un progressivo alleggerimento fino alle nicchie minori in alto adatte ai piccoli busti. Tutta la parete sopra lo zocco- lo risulta decorata da un gioco di nicchie più grandi e più piccole simmetricamente disposte. A rendere più decorativo e omogeneo l’insieme molti bustini, che negli inventari più antichi hanno un peduccio di pero tornito tinto di nero e che potevano forse far parte dell’arredo degli antichi stipi, vengono ora uniformati con un peduccio di marmo di verde di Prato. Del resto la presenza di due testine ‘femminili’ (nn. 153 e 155)54 (Figg. 9 a-b) di marmi preziosi con borchie di lapislazzuli, parte integrante dell’arredo della cinquecentesca Tribuna, di divinità di alabastro trasparente quali Iside (n. 165) e Serapide (n. 161) e di imperatori con testa e busti di marmi colorati dimostra come nella saletta si desse la preferenza a oggetti di materiali pregiati. Alcuni piccoli marmi preziosi, quali i c. d. busti di Nerone, Livia, Cleopatra, Marco Aurelio, Vitellio e Traiano, erano già stati ricordati dal Marchese de Sade in Tribuna.55 46 1825: 145; 1914: 184; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, Schede aggiunte n. viii. 47 1825: 125; 1914: 400; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, n. 51, fig. 51. 48 1825: 86; 1914: 309; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, n. 129, fig. 128. Vedi agu, Filza iii, 1771 e nota 15. 49 1825: 147-148; 1914: 323 e 329; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, nn. 59-60, figg. 59 e 61. Vedi Palazzo Pitti. La reggia rivelata, Firenze-Milano, 2003, nn. 164-165. 50 1) 1825: 84; 1914: 279; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, n. 107, fig. 109. 2) 1825: 81; 1914: 169; Id., op. cit. a nota n. 44, i, n. 106, fig. 107. 51 1825: 105; M.A. 13848 (?); L. A. Milani, Il R: Museo Archeologico di Firenze, Firenze, 1923, n. 165. Il Sileno vecchio recumbente su un masso con grappoli d’uva può infatti probabilmente identificarsi in quello del Museo Archeologico dichiarato recumbente su un’anfora anziché su un piano roccioso, con patera nella destra e che si appoggia su grappoli d’uva con la sinistra, di cui coincidono le misure. 52 1825: 79; 1914: 279. 53 Bocci Pacini - Verona, art. cit. a nota n. 1, p. 266. Al tempo di Leopoldo la statua dell’Ermafrodito viene spostata dalla parte del corridoio occidentale tra la sala delle Iscrizioni e quella di Niobe, mentre la base rimasta in situ è destinata all’Erote nero. Per quest’ultima vedi L. Giovannini, Lettere di Ottavio Falconieri a Leopoldo de’ Medici, Firenze, 1984, p. 58. 54 1) 1825: 405; M.A. 14180. 2) 1825: 406; M.A. 14216, neg. fot. 40055. 55 “Va notata ancora in questa stanza [Tribuna] che può senz’altro essere considerata la più ricca della Galleria la presenza del busto di Nerone, raffigurato nella sua giovinezza, e di quelli di Livia, Cleopatra, Marco Aurelio, Vitellio e Traiano. Si ammirano inoltre parecchie altre teste romane, fatte di marmi preziosi, e numerosi bronzi antichi della più grande bellezza”. de Sade, op. cit. a nota n. 16, p. 31. 260 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 9a. C. d. Livia (Dionisio?) M.A. 14180. Fig. 9b. C. d. Cleopatra (Venere?) M.A. 14216. Anche per la disposizione delle statuette nelle nicchie è plausibile un ordinamento non casuale che tuttavia risulta difficoltoso ricostruire, perché l’inventario del 1784 divide le figure dai busti secondo uno schema tipologico e non più strettamente topografico. Lo stesso fa il Pelli nel Ristretto in preparazione all’inventario,56 limitandosi a segnare con una croce le 10 statue di maggiori dimensioni desti- nate alle 10 nicchie più grandi (Fig. 10): Venere (n. 93)57 (ancora oggi in situ, Fig. 11), Igea (n. 97)58 (Fig. 12), Venere e Amore (n. 99)59 (ancora agli Uffizi), Pocillatore (n. 101)60 (Fig. 13), Fauno con Genio sulla spalla (n. 102)61 (tuttora in situ), due Satiri (nn. 105-106)62 (Figg. 14 a-b), Sileno (n. 109)63 (Figg. 15 ab), Uomo nudo alto 1 b (Apollo?) (n. 110)64 (Fig. 13) e Amore con arco (n. 113)65 (Fig. 13). Sembra di co- 56 bu, ms 461,1; Catalogo delle pitture della Regia Galleria compilato da Giuseppe Bencivenni già Pelli. Gli Uffizi alla fine del Settecento, a cura di M. Fileti Mazza - B. Tomasello, Firenze, 2004, Appendice, pp. 326-327. 57 1825: 62; 1914: 443; ancora oggi in una nicchia della sala dell’Ermafrodito agli Uffizi. 58 1825: 57; M.A. 14005. 59 1825: 70; 1914: 553. Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 156, tav. vii, ancora oggi agli Uffizi. 60 1825: 139; M.A. 13807 da provenienza ignota; Milani, op. cit. a nota n. 51, n. 122 e tav. clvii, Arcata x nel giardino (la quarta figura da sinistra nella seconda fila in cui si nota l’antico restauro del braccio sinistro con un corno potorio che agevola l’identificazione con il «Pocillatore» di Galleria, restituendogli il numero di inventario del Museo Archeologico 13807 attribuito alla statuetta del Meleagro segnalata da Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, n. 10, figg. 7a-b); Romualdi, op. cit. a nota 15, nn. 7 e 28. 61 bu, ms 38, c 271: descritto da Lanzi nell’Armeria. 1825: 110; ancora oggi in una nicchia della sala dell’Ermafrodito agli Uffizi. Ritenuto antico nella Filza x, 1777, 28, n. 4091 con segnalazione della provenienza dalla Guardaroba Generale. 62 1) 1825: 99; M.A. 13804; Milani, op. cit. a nota n. 51, n. 119. 2) 1825: 100; M.A. 13814; Id., op. cit. a nota n. 51, n. 129. 63 1825: 104; M.A. 13805; Milani, op. cit. a nota n. 51, n. 120; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 29. 64 1825: 134; M.A. 13811; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 11. Già considerato Apollo negli inventari di Galleria, dal 1704 (203), 1753 (1689), 1769 (1229). 65 1825: 72; M.A. 13813, che riporta nell’inv. «prov. Ignota»; Milani, op. cit. a nota n. 51, n. 128; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 47. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 261 TRIBUNA 93 113 110 109 97 F I N E CORRIDOIO ORIENTALE S T R 106 A 99 101 102 105 Fig. 10. Schema della sala con indicazione delle 10 nicchie più grandi. Fig. 11. La parete della sala con la statuetta di Venere ancora in situ nella prima nicchia. 262 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 12. Igea M.A. 14005. gliere comunque una volontà preordinata nella sistemazione di una Venere (n. 93) e di un Cupido con l’arco (n. 113) a formare una coppia nella prima e nell’ultima nicchia registrate dall’inventario: le due divinità legate all’amore, presenti pure in un’altra nicchia nel gruppo di Venere con Eros (n. 99), si dovevano probabilmente trovare affiancate, ai lati della porta, ad apertura e chiusura di tutta la serie. La presenza della statuetta marmorea di Venere ancora in situ, insieme con altre, ci assicura come l’originale sistemazione della sala ospitasse nelle nicchie esemplari marmorei o busti di marmi preziosi. La Venere alta 1 b (n. 93), ancora oggi esposta nella sala, poteva del resto essere accostata alla figura virile nuda (n. 110) cui Pelli attribuisce il nome di Paride.66 In effetti le due statuette di marmo sono pressoché della stessa altezza e hanno una base rotonda, con toro e scozia. La coppia si potrebbe considerare replicata in misure minori dalla Venere allo specchio (n. 103) (Fig. 16) e da un ulteriore Paride (n. 112) (Fig. 17). Inoltre a proposito del Pocillatore (n. 101), visibile in due differenti fotogrammi del Museo Archeologico (1341 e 50120) (Fig. 13 e Fig. 18), nel primitivo aspetto con la base ottagonale di legno dipinto di nero e con il braccio sinistro ancora con un Fig. 13. Pocillatore (foto Milani con l’antico restauro) M.A. 13807, “Apollo” e Amore con arco M.A. 13811 e 13813. 66 Era già presente in Tribuna nel 1704: 2036; 1753: 1689; 1769: 1229 con l’appellativo di Apollo. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze corno potorio e nella fase successiva depauperato della base e dell’attributo, è interessante notare come i restauri puristi non siano stati rispettosi della storia collezionistica rendendo più difficile, se non impossibile, il ripristino della situazione originaria. È degno di attenzione anche il fatto che il Pocillatore divideva il suo numero d’inventario 252 nel 1753 con una «Venere nuda con un pomo nella destra che appoggia il fianco sinistro a un masso». Si trovavano ancora nel Ricetto d’ingresso nel 1769 con lo stesso numero 237. Il disegno De Greyss ugds 4573f ne presenta l’aspetto (Fig. 19). Le due statuette sono su mensole ai lati di un tondo con busto e appaiono corrispondersi non solo nella nudità ma nella gamba sinistra flessa, mentre le teste sono piegate sì che sembrano guardarsi. Al braccio sinistro piegato del giovane corrisponde il destro della Venere strettamente flesso con la mano appoggiata al seno de- 263 Fig. 14b. Satiro M.A. 13814. stro, mentre entrambi hanno l’altro braccio disteso. Le due statuette, una di seguito all’altra, sono segnalate in asf, gm 740 e 741 dell’eredità del Granduca Ferdinando II de’ Medici, con l’annotazione della c 155 di un precedente inventario in cui compariva anche l’Amorino afferrato all’orecchio, attestato fin dal 1560 nel Guardaroba di Cosimo, ma inventariato in Galleria solo dal 1753.67 Per le nostre «due figurine di marmo alte b 1 incirca un giovane et una giovane ignuda sopra a una basetta di legno nero» possiamo anche ritornare indietro nel tempo quando erano sistemate nella seconda camera accanto al Salone delle Nicchie secondo la descrizione del gm 525 di Palazzo Pitti del 1638 al n. 20. Fig. 14a. Satiro M.A. 13804. 67 Vedi la scheda di V. Saladino, in Palazzo Pitti. La reggia rivelata, op. cit. a nota n. 49. Per Venere non abbiamo trovato al Museo Archeologico una corrispondente figura. 264 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 15b. Sileno nel Ricetto (De Greyss 4575f). Le rimanenti 11 statue minori trovavano posto nelle 8 nicchie medie e in 3 nicchie piccole: due Diane Efesie (nn. 94-95),68 Musa con tibie (n. 96)69 (Fig. Fig. 15a. Sileno M.A. 13805. 68 1) 1825: 24; M.A. 13997. 2) 1825: 23; M.A. 13999. La prima (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 9) per la catena inventariale si può riportare all’eredità Bassetti, riprodotta in Gori e in Tribuna (ugds 4583f nel disegno di G. Magni). Risale infatti nell’inv. 1704 al n. 776. Una Dia- na Efesia simile senza restauri è edita in Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, n. 161 ed è stata studiata da F. Magi che l’ha considerata come la Diana Efesia edita da Gori, senza i restauri di completamento. In realtà quest’ultimo frammento, diverso anche per la mancanza delle due Nereidi su ippocampo, è un dono di Sua Altezza Reale nel 1790 segnalato nel Giornaletto di Galleria bu, ms 114, c 25. La seconda Diana (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 32), che si distingue negli inventari per la corona foliata anziché turrita, arriva in Galleria nel 1771 da Palazzo Pitti e si può considerare appartenuta al Cardinale Leopoldo, visto che è elencata nell’eredità «una figuretta di marmo alta 2/3 figurata per la Natura vestita fino a terra con molte figurine di bassorilievo nella veste». 69 1825: 31; M.A. 13996; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 16. Nell’inventario del 1825 la Musa è descritta con le doppie tibie nella destra e un pomo nella sinistra; negli inventari precedenti che risalgono fino al 1704 è chiamata Pomona (1769: 1280; 1753: 1740; 1704: 1990). È disegnata in Tribuna da G. Magni (ugds 4584f) e può risalire con Igea e altre statuette femminili di piccole dimensioni al Guardaroba di Cosimo. Potrebbe identificarsi con «Una Tersicore con flauto nella destra, il globo che ha nella sinistra è moderno e non conviene al soggetto» descritta da Lanzi in Tribuna (bu, ms 38, c 275). il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 265 Fig. 17. Paride M.A. 14002. 20), tre Esculapi (nn. 98, 100, 108)70 (Figg. 21 a-b-c), Venere allo specchio (n. 103),71 Venere tipo Medici (n. 104)72 (Fig. 22), Meleagro (n. 107),73 Giunone con globo (n. 111)74 (Fig. 23) e Paride (n. 112).75 Si può supporre che tra le statuette potesse esistere una relazione tematica; si ricordano per esempio Fig. 16. Venere allo specchio M.A. 13998. 70 1) 1825: 54; M.A. 13995. 2) 1825: 55; M.A. 14004. 3) 1825: 53; M.A. 14000; Romualdi, op. cit. a nota 15, nn. 50-51. Descritti da Lanzi (bu, ms 38, cc 274-275): «Un Esculapio assai bello: oltre al serpe ha torto il bastone ha un coperchio di tripode (omphalos) è nella Stanza delle Miniature. Altro ivi. Altro che tiene da man destra una patera … pasce un lungo serpente la cui estremità si annoda sopra la base». 71 1825: 63; M.A. 13998; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 26. 72 1825: 61; M.A. neg. fot. 50295. 73 Le misure non permettono di identificare la statuetta con quelle finora edite, né con quella M.A. 13823 (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 27) riconosciuta a torto nella tav. 67 del Gori (A. M. Massinelli, Intorno ad una statua di Ercole dell’Anfiteatro di Boboli, in Boboli ’90, Atti del Convegno Internazionale di Studi per la salvaguardia e la valorizzazione del giardino, Firenze, 1991, pp. 71-81, figg. 21-24), né con quella M.A. 14007 identificata da A. M. Massinelli, Bronzi e anticaglie nella Guardaroba di Cosimo I, Firenze, 1991, p. 50 (tav. 68 del Gori). Vedi V. Saladino, Sculture antiche per la reggia di Pitti, in Magnificenza alla Corte dei Medici, op. cit. a nota 2, p. 319. 74 1825: 4; M.A. 14012, neg. fot. 41039. Tav. 15 del Gori. Nel 1704 al n. 2070 è «una figura di marmo antica alta 2/3 che rappresenta Giunone con globo nella sinistra»; 1753: 1651. 75 1825: 138; M.A. 14002, negg. fot. 46090/1-4 e 60866/7-10. 266 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 19. De Greyss 4573f. le divinità salutari: Igea e tre Esculapi, di cui è già stata messa in luce la valenza rivestita a Firenze, dove una statua di questo dio si trovava nel Giardino dei Semplici. Poi erano anche due Diane Efesie a far parte del vario consesso di dei e ancora figure femminili vestite intervallate con figure maschili nude. Infine erano più figure del corteo dionisiaco, tra cui il gruppo di Fauno con Genio sulla spalla,76 ancora oggi nella stanza, considerato di epoca barocca, oltre ai Satiri antichi riconoscibili nei marmi del Museo Archeologico. Lo stesso tema dionisiaco ha larga parte nella serie dei busti in cui figurano quattro Fauni (nn. 157, 158, Fig. 18. Pocillatore nello stato attuale. 76 Per confronto si veda Il Museo Civico archeologico di Bologna, a cura di C. Morigi Govi - D. Vitali, Imola, 1982, fig. p. 178, p. 179. In realtà la nostra statuetta si rifà al prototipo creato nel tardo ellenismo del gruppo del Satiro con Dioniso bambino, anche se sulle spalle ha un genio alato. Ne esiste un altro esemplare della collezione ModiglianiRossi a Firenze, M.A. 85083; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 83. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 166, 168)77 (Fig. 24) con petto nudo e pelle di cerbiatto o coronati di edera. Ci sono poi busti di divinità tra cui Giove (n. 150),78 Plutone (n. 148)79 e due Serapidi in alabastro (nn. 161, 164)80 e di dee come Iside (n. 165)81 (Fig. 25). La serie dei 23 busti è completata da sei imperatori (nn. 147, 149, 152, 154, 156, 160),82 sei donne «Auguste» (nn. 151, 153, 155, 159, 163, 167)83 (Figg. 26-27) e da due teste, una di incognito con pileo (n. 162),84 l’altra di un giovane eroe (n. 146)85 (Fig. 28) riconducibile al Diadumeno policleteo.86 Nelle nicchie più piccole si alternano le teste maschili con quelle femminili secondo quanto può confermare l’inventario in cui i numeri dispari delle donne sono intervallati a quelli quasi tutti pari degli uomini. Quasi tutte le statuette del Gabinetto delle Miniature sono già presenti nei precedenti inventari di Galleria: particolarmente utili per il riconoscimento risultano quelli relativi al 1753 in cui le descrizioni possono trovare il riscontro sia nelle incisioni dei volumi di A. F. Gori che negli album De Greyss disegnati prima dell’incendio della Galleria e del grande rinnovamento leopoldino. Il maggior numero dei marmi del Gabinetto delle Miniature, grazie alle correlazioni inventariali, risale all’inventario di Galleria del 1704 anche se a ritroso si può trovarne traccia nelle sommarie descrizioni dei Guardaroba Medicei in cui sono elencate le consistenze ereditarie. I marmi menzionati nell’inventario del 1704 erano descritti in Tribuna, in cui erano presenti molte delle nostre statuette fin dal 1589. La Tribuna di Francesco I accoglieva infatti Ercole che strozza i serpenti (n. 83),87 77 1) 1825: 181; M.A. 14911 (scritto sul pezzo, tuttavia è diverso il busto con leontè inerente a Eracle forse sostituito). 2) 1825: 182; M.A. 14182. 3) 1825: 185; M.A. 14176. 4) 1825: 186; M.A. 14175, neg. fot. 49748. 78 1825: 172. Considerato Serapide nell’inv. 1825, Giove nell’inv. del Museo Archeologico. Visto al Museo Archeologico senza numero. M.A. 14192 altro Serapide in marmo nero dalle Antiche Collezioni. 79 1825: 175; M.A. neg. fot. 38589. 80 1) 1825: 173; M.A. 14181. 2) 1825: 174; M.A. 14172. 81 1825: 192; 1881: 387; 1914: 554; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, I, n. 69, fig. 66. 82 1) 1825: 331? 2) 1825: 364. 3) 1825: 366; M.A. neg. fot. 38588?. 4) 1825: 240; M.A. 14173. 5) 1825: 362; M.A. 14195. 6) 1825: 244; M.A. 14198. 83 1) 1825: 415; M.A. 14179. 2) 1825: 405; M.A. 14180. 3) 1825: 406; M.A. 14216, neg. fot. 40055. 4) 1825: 396; M.A. 14177, neg. fot. 49735. 5) 1825: 412; M.A. 14185, neg. fot. 50285. 6) 1825: 392; M.A. 14167. 84 1825: 363. 85 1825: 384; M.A. 14174, neg. fot. 49746. 86 D. Kreikenbom, Bildwerke nach Polyklet, Berlin, 1990, pp. 188203. Il pezzo è sconosciuto. 87 Potrebbe trattarsi de «l’Ercole che amaza li serpi grando cinque palmi» citato nel doc. 18, lettera del 26 febbraio 1577, in P. Barocchi - G. Gaeta Bertelà, Collezionismo mediceo Cosimo I Francesco I e il Cardinale Ferdinando. Documenti 1540-1587, Modena, 1993, pp. 124-125. Fig. 20. Musa M.A. 13996. 267 268 piera bocci pacini · vera laura verona due putti con anatra (nn. 87-88),88 Morfeo nero (n. 92),89 Venere alta 1 b (n. 93),90 Venere con amore (n. 99),91 Venere con specchio (n. 103),92 Venere tipo Medici (n. 104),93 due Satiri (nn. 105-106),94 un giovane nudo alto 1 b (n. 110),95 Giunone con globo (n. 111)96 e Amore con arco (n. 113).97 In particolare la Venere Attestato in Tribuna nell’inventario del 1589, bu, ms 70, c 1 (G. Gaeta Bertelà, La Tribuna di Ferdinando I de’ Medici. Inventari 1589-1631, Modena, 1997, n. 6; 1635: 424 (manca in Mansuelli, op. cit. a nota n. 44); 1676: 45 (Massinelli, op. cit. a nota n. 73, p. 133); 1704: 2125 (nella quinta stanza cioè nella camera di Madama); 1753: 1859 (Tribuna); 1769: 1397; Pelli, ms 463,1: braccio con parte del serpe e gamba sinistra moderna. Fig. 21a. Esculapio M.A. 13995. 88 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, nn. 4, 7); 1704: 2123; 1753: 1855; 1769: 1393; Pelli: il primo con braccio destro moderno, gamba destra, punta del piede sinistro e testa dell’anatra; il secondo con braccio destro, punta del piede sinistro e coda dell’anatra moderno. 89 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 10); 1676: 4 (Massinelli, o p. cit. a nota n. 73, p. 130 tra i marmi moderni); 1704: 114 (nella facciata del corridoio grande cioè corridoio sud); 1753: 111; 1769: 101; Pelli: nel mezzo della stanza, mezz’ala destra e punta del piede sinistro moderno. 90 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87,n. 272); 1704: 1977; 1753: 1767; 1769: 1307. Disegnata in Tribuna su una mensola da G. Neri nell’album De Greyss ugds 5487f (Massinelli, op. cit. a nota n. 73, fig. 84). 91 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 305); 1638 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 171: la Carità ignuda con un bambino a’ piedi a sedere che si porgon la mano); 1676: 56; 1704: 1963; 1753: 1678; 1769: 1218. 92 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 295); 1635: 298 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 167); 1638 (Id., op. cit. a nota n. 44, ii, p. 171); 1704: 2054; 1753: 1676; 1769: 1216. Disegnata in Tribuna da G. Sacconi nell’album De Greyss (2ª parete dell’ottagono, 3ª da sinistra in Heikamp, Le sovrane bellezze, art. cit. alla nota n. 2, p. 336, n. 11). 93 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 416); 1635: 283 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 167); 1638 (Id., op. cit. a nota n. 44, ii, p. 171); 1704: 2058; 1753: 1661; 1769: 1201. 94 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, nn. 391, 426); 1635: 372, 398 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota n. 44, II, p. 171); 1704: 2004, 2014; 1753: 1725, 1716; 1769: 1265, 1256. Una raffigurazione di un Satiro viene data da Gori, Museum Florentinum, tav. 60 e da G. Magni in Tribuna (ugds 4585f). Lanzi (bu, ms 38, c 274) ricorda in Tribuna «due satiri che d’una mano tengon dell’uva, dall’altra pare che amendue avevano un corno potorio, compagni in grandezza, ma in atteggiamento diverso. Uno di questi in atteggiamento di ebrioso è riferito nel Museum Florentinum». Si veda anche Massinelli, op. cit. a nota n. 73, figg. 106-107 e pp. 128-129. 95 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 341); 1635: 337 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota n. 44, II, p. 171); 1704: 2036; 1753: 1689; 1769: 1229. Lanzi (bu, ms 38, c 275) cita in Tribuna «Un Apollo con frammento di arco nella sinistra, è meno svelto di quel che veggasi comunemente nelle statue antiche e più complesso, fu lavorato per un Bacco, i lunghi e discriminati capelli che intorno a una vitta son ripiegati e raccolti possono convenire all’uno e all’altro». 96 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 402); 1635: 391 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota n. 44, ii, p. 171); 1704: 2070; 1753: 1651; 1769: 1191 (manca in Mansuelli). 97 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 357); 1635: 352 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota n. 44, ii, p. 171?); 1704: 2046; 1753: 1752; 1769: 1292; Pelli cita la tav. 42 del Gori: un Amorino in atto di aver scoccato una freccia; Lanzi (op. cit. a nota il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 269 Fig. 21b. Esculapio M.A. 14004. Fig. 21c. Esculapio M.A. 14000. con specchio nella destra e la sinistra appoggiata su un vaso di marmo mistio, identificata nella statuetta oggi al Museo Archeologico n. 13998, era già stata disegnata in Tribuna da G. Sacconi nell’album De Greyss 4588f, come la Venere del tipo Medici, identificabile con una molto frammentaria al Museo Archeologico (neg. 50295), che può essere riconosciuta in Tribuna nello stesso disegno. Per alcune di queste statuette è possibile risalire alla precedente sistemazione nella Sala delle Nicchie, in cui era il primo museo di scultura classica di Cosimo I a Palazzo Pitti (due putti con anatra nn. 8788, Morfeo nero n. 92).98 Per altre A. M. Massinelli aveva già indicato gli studioli di Cosimo I a Palazzo Vecchio.99 Potremmo ricordare come bronzi e marmi fossero divisi in due ambienti diversi, cioè nello n. 8): «…amorino assai conforme nella mossa a quello del gabinetto ix se non che a differenza di quello che saetta in senso orizzontale questo saetta in alto». Disegnato nell’album De Greyss su un palchetto della Tribuna dove lo ricorda anche Lanzi (bu, ms 38, c 274). mana un uccello assomigliante a un’anitra, et l’altro braccio alzono». E. Müntz, Les collections d’antiques formées par les Médicis au xvi e siècle, in Mémoires de l’Academie des Inscriptions et Belles Lettres, xxxv, 2e partie, 1895, p. 81. Nella stessa sala si trovava il Morfeo nero per cui vedi la scheda di P. Bocci Pacini, in La giovinezza di Michelangelo, Firenze-Milano, 1999, p. 320 con bibl. 99 E. Allegri - A. Cecchi, Palazzo Vecchio e i Medici, Firenze, 1980. 98 Giorgio Vasari ricorda nella Sala delle Nicchie: «Sopra la terza porta vi sono due putti posti a sedere in terra, che tengono sotto una 270 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 22. Venere M.A. neg. fot. 50295. Fig. 23. Giunone con globo M.A. 14012. scrittoio di Calliope e in quello di Minerva. Per quest’ultimo il Vasari chiede in una lettera a Cosimo se ci vuole «banco o cassette o scafali che melo avvisi, perché i palchetti per mettere le statue piccole di marmo già gli ho ordinati».100 A.M. Massinelli ha identificato alcuni pezzi oggi al Museo Archeologico come i due Esculapi (nn. 98, 100) giunti da Roma nel 1560,101 Igea (n. 97),102 le due Veneri (la Venere con Amore n. 99 e quella alta 1 b n. 93),103 oltre alla Cibele seduta su trono affiancato da due leoni (Fig. 29) o la Venere con base con lettere etrusche104 (Figg. 30 ab). Al nucleo cosimiano si può ricondurre anche la 100 K. Frey, Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, München, 1923-30, i, cclxix, p. 665. 101 asf, gm 65, Inventario generale della Guardaroba, 1560-67, c 170 (facevano parte dello scrittoio di Calliope): due Esculapi alti b ½ hauti come di sopra (da Roma); asf, gm 87, 1574, c 9 (Pitti): Esculapi di marmo n 2 di 0/2 di braccio. Per la sequenza inventariale vedi V. Saladino, L’Asclepio del Giardino di Boboli, in Boboli, ’90, op. cit. a nota n. 73, ii, p. 600, note 39-40-41, figg. 189-190-191. Per il terzo Esculapio si può ugualmente ricordare asf, gm 75, c 65r: un Erchole che sappoggia in su un bastone di braccia 0/2. 102 Si veda Massinelli, op. cit. a nota n. 73, pp. 114, 117, 135: dal Guardaroba del 1570 descritta come femmina con due teste, consegnata nel 1723 in Galleria a Francesco Bianchi, in Tribuna dal 1753: 1802; 1769: 1342. In Tribuna è descritta da Lanzi (bu, ms 38, c 275: “Un Igia di buon gusto, con soliti attributi. Ha sopra la tunica e la crocchia un manto assai grande. La sinistra è moderna”). 103 Attestata come venuta da Roma in asf, gm 65, 1560-67. Massinelli, op. cit. a nota n. 73, p. 104 ne ricostruisce il percorso più antico. In Tribuna dal 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 305); 1638 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44,, ii, p. 171); 1676: 56; 1704: 1963; 1753: 1678; 1769: 1218. La catena inventariale della Venere alta 1 braccio è stata ricostruita in Massinelli, op. cit. a nota n. 73, pp. 104-105, comprese le sequenze dell’inventario della Tribuna. 104 Massinelli, op. cit. a nota n. 73, pp. 117-118, figg. 98-99 e p. 106, figg. 88-89: Venere con lettere etrusche attestata fin dal gm 30 del 1559, ma in realtà documentata anche nel gm 25 del 1553. L. Beschi, Le sculture antiche di Lorenzo il Magnifico, in Lorenzo il Magnifico e il suo mondo, Convegno Internazionale di Studi (1992), a cura di G. Garfagnini, Firenze, 1995, pp. 291-317: G. Bartoloni - P. Bocci Verona, La divulgazione di scoperte di antichità etrusche a Firenze da Lorenzo a Cosimo I, in Archeologia Classica, n. s. 6, lvi, 2005, pp. 373-406. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 271 Fig. 24. Fauno M.A. 14175. statuetta del Sileno seduto (n. 91),105 ricordata nel gm 28 del 1553 come «Un Bacco di marmo antico piccolo a sedere», probabilmente al Museo Archeologico (13848?; Milani n. 165?). Per altri pezzi che risultano introdotti più tardi in Galleria si possono ugualmente postulare precedenti attestazioni nelle collezioni medicee. Questo riguarda per esempio il cosiddetto Paride (n. 112)106 che viene utilizzato per il Gabinetto delle Miniature, come dimostra il plinto di serpentino aggiunto all’an105 In Tribuna dal 1704: 2121; 1753: 1854; 1769: 1392; Pelli ne segna i restauri: braccio destro e braccio sinistro moderno con mano antica, gamba destra e punta del piede sinistro quasi moderno. Invece che a sedere recumbente su un masso con grappoli d’uva forse da identificare con quello del Museo Archeologico dichiarato recumbente su un’anfora anziché su un piano roccioso, con patera nella destra e che si appoggia su grappoli d’uva con la sinistra, di cui coincidono le misure. Il pezzo compare in Tribuna anche nei disegni di G. Magni e G. Sacconi (ugds 4588f). 106 asf, gm 399, Casino di San Marco, 1621, c 259r (nella Galleria): «Una figura di marmo di un giovane nudo con panno sulla spalla alto 2/3 con basa di marmo». Nel 1723 è consegnato a Francesco Bianchi: asf, gm 1292, c 146r, 280: «una figurina di marmo nuda alta 2/3 con palla di marmo si crede Paride». 1769: 3812: «Cinque statuette di marmo che tre rappresentano Ercole con clava in diverse attitudini sopra base di marmo simile e le altre due giovani appoggiati nudi ad un Fig. 25. Iside (Mansuelli i, fig. 66). tica base in marmo che reca ancora sul tronco il n. 3812 del 1769. A questa data la figura si trovava nella sala dei Vasi Etruschi di cui abbiamo uno schizzo nel Catalogo Dimostrativo di G. Bianchi107 (Fig. 31) e sotto lo stesso numero erano compresi altri quattro pezzi, tra cui tre Ercoli e un cd. Meleagro (n. 107),108 che tronco con panno avvolto alla spalla sinistra; ed una posa sopra base di marmo simile e l’altra sopra base di marmo mistio di più grandezze che il maggiore braccia 1 circa». Vedi Massinelli, op. cit. a nota n. 73, p. 129. 107 Cfr. nota 9. In quel momento la denominazione della sala si riferiva solo ai due grandi vasi apuli di Cosimo I, mentre in realtà la stanza doveva apparire come una congerie di materiali eterogenei con i pezzi raccolti dal Casino dei Medici e quelli tolti dalla Tribuna, quali la famosa e ammirata maschera di pietra «igiada» (Magnificenza alla Corte dei Medici, art. cit. a nota n. 2, p. 127), insieme alla copia in bronzo della Lotta del Soldani e all’«olla» dipinta leopoldina (vedi scheda di M. G. Marzi, in L’Idea del Bello. Viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, Roma, 2000, vol. ii, pp. 540-541, n. 22). 108 1769: 3812; Pelli, ms 463,1: Modello del Meleagro tutto antico di marmo greco. 272 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 26. Busto femm. M.A. 14177. Fig. 27. Busto femm. M.A. 14185. dovrebbe trovarsi al Museo Archeologico. A. M. Massinelli ha identificato uno degli esemplari in un Ercole moderno del Museo degli Argenti attestato fin dal 1587 nel Casino di S. Marco dove Francesco I aveva trasportato piccoli marmi della collezione paterna, che in parte con Ferdinando, in parte più tardi saranno reinseriti nell’inventario di Galleria. Ugualmente dal Casino proviene la statua di Bacco da putto (n. 84).109 Del resto a seconda delle vicende familiari e dell’interesse dei vari personaggi si notano traslochi di marmi e di bronzi: possiamo offrire un’esemplificazione con il caso dei due «putti con cagnoli»110 esistenti a Villa Medici fin dal 1598, passati a Firenze nel 1616 e poi da Pitti mandati alla Villa dell’Imperiale dove nel 1768 era segnato anche «un putto di marmo con cane» che potrebbe aver seguito la sorte degli altri due fino al Giardino del Museo Archeologico111 (Fig. 32). Inoltre occorre ricordare che Cosimo III riceve le eredità dai familiari, il Cardinale Carlo Decano, il 109 P. Bocci Pacini, Nota in margine a Boboli ’90. i , in Prospettiva, 95-96, 1999, p. 72 ipotizza che si trovasse in pendant con un altro putto, a lato del rilievo con bagno di Diana del Moschino. 110 Cfr. C. Gasparri, La collection d’antiques du Cardinal Ferdinand, in La Villa Médicis, 2, Rome, 1991, p. 479, cc 141-142 ripreso poi in Bocci Pacini - Verona, art. cit. a nota n. 1, p. 252, nota 42. 111 Neg. fot. 20085/7-8, 11-12 (M.A. 14321), 10 (M.A. 14318); Romualdi, op. cit. a nota 15, nn. 30 e 33. Una coppia di fanciulli in marmo che abbracciano «un orsacchino», nel 1687 ancora a Pitti secondo il gm 932, ritorna in Galleria nel 1792, secondo il Giornaletto bu, ms 114, c 31 e sono descritti nell’inventario dal 1825 ai numeri 151 e 152. Oltre ai «2 Putti di marmo che tengono 2 cagnoli in braccio alti p. 2 2/3» (F. Boyer, Un inventaire inédit des antiques de la Villa Médicis (1598), in Revue Archéologique, xxx, 1929, nn. 40-41), che considerati pendant hanno avuto uguali vicissitudini, si può ricordare anche il fanciullino con cane (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 34), per il quale dati i pesanti restauri potrebbe ugualmente reperirsi la descrizione in Boyer n. 73: «1 Puttino di marmo che sta a sedere con un cagniolo in braccio alto p. 13/4». Per quest’ultimo si può inoltre ricordare asf, gm 79, Inventario Generale del Guardaroba dell’Illustrissimo e Rev. Card. Ferdinando de’ Medici poi Granduca di Toscana (in E. Müntz, art. cit., a nota n. 98): «Uno putto di marmo che piange con un canino in braccio comperò insieme con altri arnesi dalli eredi dell’Illmo sig. Cardinale da Est (d’Este) sotto dì 11 di maggio 1583». il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 273 Fig. 28. Diadumeno M.A. 14174. Cardinale Leopoldo e il Gran Principe Ferdinando, per cui anche da queste fonti i materiali archeologici vengono acquisiti a mano a mano a seconda dello sviluppo della Galleria e messi negli inventari in diverse riprese. Oltre ai beni di famiglia, Cosimo riceve l’eredità del segretario Canonico Apollonio Bassetti in cui erano anche molte epigrafi,112 «preziosamente 112 Molti sono anche i recuperi che il Bassetti riesce a ottenere attraverso le sue amicizie, come il Provveditore di Volterra Benedetto Lisci, i Falconcini di Volterra, il Padre Provinciale Agostino Franceschini e Paolo Antonio Conti di Siena che gli procurano idoli da Chiusi e da Volterra, urne da Chianciano e da Montepulciano, marmi e iscrizioni lapidee da Castiglion della Pescaia e fino un miliario romano da Colle Salvetti. 113 Nel disegno dell’album De Greyss ugds 4578f, rappresentante la parete del Ricetto con il rilievo della Tellus dell’Ara Pacis (Gasparri, art. cit., a nota n. 110, p. 446, nota 9 per la storia collezionistica del Fig. 29. Cibele M.A. 14001. lapidate», che vengono utilizzate per i riquadri del nuovo Ricetto allo sbocco della scala buontalentiana, insieme a rilievi, a piccole sculture e a una serie di testine113 e frammenti marmorei, che secondo quanto racconta Lorenzo Magalotti nella sua lettera rilievo, arrivato a Firenze nel maggio 1569 per un acquisto di Cosimo I), compaiono pezzi dell’eredità Bassetti, segnatamente teste senza busto né collo: in particolare sembra di ravvisare nel primo puttino a sinistra la testina M.A. 14075, neg. fot. 50567, mentre a destra si riconoscono due vecchi con barba (M.A. neg. fot. 38590/2, 5). L’elenco dell’eredità Bassetti (asf, gm 1026) menziona infatti al n. 25 «Undici teste di marmo senza busti e senza peducci tutte di uomini cioè due di vecchi con barba, quattro con barba rasa e il resto di putti minori del naturale». 274 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 30a. Venere con lettere etrusche M.A. 14008. del 19 luglio 1695 avevano fatto parte «della sua bella stanza delle antichità». Grazie alla collazione tra i disegni De Greyss e gli inventari di Galleria si possono identificare alcuni marmi oggi al Museo Archeologico,114 dove è anche una delle Artemidi Efesie del Gabinetto delle Miniature.115 Il Gabinetto delle Miniature è decorato anche di pezzi provenienti dalla collezione di Leopoldo,116 già esposti come il Britannico della Tribuna117 o depositati in Guardaroba o rimasti a Pitti e riutilizzati in un secondo momento agli Uffizi. Fra questi ultimi sono l’Artemis Efesia,118 il gruppo di Satiro con Ermafrodito119 e il busto di Iside in alabastro che doveva avere come pendant il Serapide ugualmente in alabastro e con lo stesso tipo di «peduccio di Porto Venere scannellato nella scozia», passato sotto lo stesso numero da Pitti in Galleria nel 1771.120 Il secondo busto di Serapide del Gabinetto delle Miniature è ugualmente proveniente da Pitti, anche se non abbiamo una convalida che fosse appartenuto a Leopoldo. In effetti assecondando l’amore per la simmetria il Cardinale aveva dei pendant: ne è un esempio anche il busto della cd. Plautilla bambina (Mansuelli ii, 141), che doveva accompagnarsi ad Annio Vero,121 il cui busto (Mansuelli ii, fig. 120) ripete gli stilemi della fanciulla. Un altro marmo leopoldino è segnalato a Pitti nel 1687 (asf, gm 932, c 70v) come «base di marmo antica abbracciata di tre figure di mezzo ri- 114 Nel disegno De Greyss ugds 4570f si può riconoscere il Giove (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 63) presente in Galleria dal 1704 (vedi Bocci Pacini, art. cit. a nota n. 109, p. 70, fig. 9), mentre in ugds 4574f è l’altro Giove (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 68) cui si può restituire il numero d’inventario M.A. 13812 (Bocci Pacini, art. cit. a nota n. 109, p. 69, fig. 14) riconducibile a Uffizi n. 779 dell’inv. del 1704 proveniente dalla collezione Bassetti. Nel De Greyss ugds 4575f è disegnato il Sileno (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 29) che nel 1704 ha il n. 780; 1753: 254; 1769: 269, come in ugds 4576f è Cauthes (Id., op. cit. a nota 15, n. 52) completo della face cui si può restituire il numero d’inventario M.A. 13806. Era in Galleria nel 1704: 3469; 1753: 280; 1769: 265. Nella tavola De Greyss 4578F troviamo Ulisse (Id., op. cit. a nota 15, n. 64) inventariato nel 1704: 3548; 1753: 322 denominato gladiatore moderno, per cui è stato successivamente omesso negli inventari Mansuelli. Nello stesso disegno è presente Giunone-Fortuna (Id., op. cit. a nota 15, n. 24) completa della patera nella destra e con testa velata per cui era giudicata una Vestale; in Galleria dal 1704: 3476; 1753: 326; 1769: 311 appartenuta alla collezione Bassetti. 115 1704: 776; 1753: 1791; 1769: 1331 (vedi nota 68). 116 La formazione della collezione Bassetti sarà studiata in un prossimo contributo. 117 Per la statua vedi scheda di M. G. Marzi, in L’Idea del Bello, op. cit. a nota n. 107, vol. ii, pp. 496-497, n. 3 con bibl. prec.: la statua doveva appartenere all’antico arredo della domus dei Valerii, dove fu scoperta da L. Agostini che la vendette al Cardinale Leopoldo de’ Medici. Fu descritta dal Bellori come «Britannico pretestato di selce verde Egittia». Per la datazione vedi R. Belli Pasqua, Sculture di età romana in “basalto”, Roma, 1995, scheda n. 17, tav. xx con bibliografia. 118 Cfr. Capecchi, art. cit. a nota n. 15, p. 134. 119 Capecchi, art. cit. a nota n. 15, p. 131, nota 30 con riferimento ad agu, Filza iii, 1771, 28, c 17. Si veda anche asf, gm 932, anno 1687, c 69v relativa alla settima camera di Palazzo Pitti con finestra sulla piazza: «Un gruppo di due figure di marmo antiche d’un Satiro ritto et una Ermafrodita più che mezza nuda quale è a sedere e con la mano sinistra tiene il capo del Satiro, et esso con la mano sinistra tiene un papavero. Alto b 1 1/3». 120 agu, Filza iv, 1771-B, 25 registra sotto la stessa A 45, come mandati dal R. Palazzo dei Pitti alla R. Galleria, «2 busti d’alabastro alti b 1/2 che uno di femmina e l’altro di uomo con piccolo vaso in capo. Inv. 180 replicato nella Ricapitolazione con inv. 182». L’inv. del 1784 rimanda infatti per entrambi alla precedente segnatura A 45. 121 Per questo busto Beschi (L. Beschi, Bronzi antichi nel Rinascimento fiorentino: alcuni problemi, in Alba Regia, xxi, 1984, p. 120, tav. lvii, 4) aveva pensato a un possesso da parte di Lorenzo de’ Medici, dato che la testina di bronzo di Desiderio da Settignano di Palazzo Davanzati (L. Berti, Il Museo di Palazzo Davanzati a Firenze, Firenze, s.d., fig. 161) la riecheggia in maniera vistosa. Tuttavia per questo marmo la catena inventariale non risale in Galleria oltre il 1753 n. 114. Leopoldo potrebbe tuttavia aver fatto imbustare una testina già in possesso mediceo per farne un pendant alla Plautilla. K. Fittschen, Ritratti antichi nella collezione di Lorenzo il Magnifico e in altre collezioni del suo tempo, in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico. Politica Economia Cultura Arte, Convegno di Studi 1992, Pisa, 1996, vol. i, p. 14, tav. vi, 1, 2 riprende l’ipotesi di L. Beschi; in effetti il bronzo di Desiderio si limita alla testa con collo di cui esistono copie moderne (tav. vi, 3, 4) anche al Museo Civico di Bologna e all’Ermitage di San Pietroburgo. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 275 Fig. 30b. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxix e). lievo alta 7/8 con un imbasamento di marmo mischio». La descrizione combacia con la nota di Lanzi che ricorda nell’Arsenale una «colonna trilatera che in ognuno dei lati ha una statuetta di vergine: due di esse sono tutte involte nel pallio, la terza con vestito più svelto. Si tengono per mano», per cui si può identificare con lo Hekateion del Museo Archeologico.122 Più incerta risulta la storia dello Hekateion arcaistico del Museo Archeologico (Romualdi n. 85) cui andrà ridato il numero d’inventario 14003 che riporta a una puntuale descrizione dell’inventario di Galleria del 1825, n. 25, esposto nel 1784 nel Gabinetto delle Monete (n. 81), proveniente da antichi fondi del museo (Figg. 33 e 34). Gli imperatori e le donne auguste che servono di coronamento alla parete non appartengono a una serie omogenea tanto è vero che, come abbiamo già detto, per uniformare l’insieme i vari peducci vengono sostituiti con quelli nuovi di verde di Prato. Per alcuni busti possiamo risalire nell’inventario precedente a un unico numero, sotto cui vengono raccolti pezzi eterogenei probabilmente accorpati a seconda della più antica provenienza. Per esempio i numeri 148, 149, 151, 152, 156 del 1784 risalgono al 3781 dell’in- 122 M.A. 13994; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 86. Questi risultati erano già in P. Bocci Pacini - M.E. Micheli, Note in margine agli acquisti di sculture per la Galleria degli Uffizi negli anni 1669 e 1675. I marmi Ludovisi e la collezione di Leopoldo de’ Medici, studio che non è stato ancora edito causa la difficoltà di aggiornamento dopo i vari contributi usciti sulla collezione del Cardinale. Si veda anche il Giove Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 43 che C. Gasparri ha espunto dalla collezione Valle per le sue misure: C. Gasparri, Marmi senza pace. A proposito di un recente catalogo di sculture del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, in Prospettiva, 115/116, 2004 (2005), fig. 6, p. 100. «Una figuretta di marmo anticha di un Giove alto 7/8 con aguila ai piedi e fulmine nella destra rotto» passa in Galleria al tempo della riforma leopoldina (agu, Filza xii, 1780, 116, n. 245) da Pitti dove era attestato nel gm 932 del 1687 c 128v. 276 piera bocci pacini · vera laura verona Fig. 31. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxx). il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 277 Fig. 33. Hekateion M.A. 13994. Fig. 32. Putto con cane. ventario del 1769, numero che comprendeva 11 testine, parte antiche e parte moderne, probabilmente riunite in gruppo al momento che erano state tolte da un arredamento e appoggiate nella sala cd. dei Vasi Etruschi. La stessa situazione si ripete per il busto muliebre n. 159 di cui Pelli nel Ristretto dà la provenienza dalla Tribuna. Ha ancora il numero 3821 del 1769 relativo a quattro pezzi ugualmente sistemati nella sala dei Vasi Etruschi. L’inventario recita: «3821 4 busti di marmo con peducci simili che due alti in tutto 2/3 circa, rappresentanti due Cesari uno con barba e l’altro senza, altro alto … rappresenta un putto alato e l’altro alto s 11 rappresenta una donna 278 piera bocci pacini · vera laura verona Augusta con treccia dietro annodata». Per il gruppo di 11 testine segnate 3781 nell’inventario del 1769 troviamo a margine la nota «trovate cinque delle di contro undici testine, le altre a Pitti». Da ciò si deduce che in questi anni precedenti alla sistemazione leopoldina si registrano vasti spostamenti di statue e busti dalla Galleria ai palazzi residenziali e viceversa. Presumibilmente i pezzi moderni sono inviati a Pitti. Il nucleo raggruppato sotto il 3821 subisce uno smembramento se troviamo sotto questo numero passato a Palazzo Pitti solo un busto imperiale; la Filza xiii, 117 del 1780 con «Nota dei marmi mandati dalla Galleria al R. Palazzo di Residenza presi in consegna dal Granduca» riporta infatti accanto al 3821 «un busto di marmo con peduccio rappresenta un Cesare» e rimanda alla sigla 89G. Del resto a Pitti esistevano anche più serie di busti imperiali moderni di piccole proporzioni, confluiti poi al Museo Archeologico, che si potrebbero far risalire al Cardinale Leopoldo. In effetti nella Filza iv, 1771-B, 25 (vedi nota 120) si trovano tra i diversi generi segnalati in alcuni mezzanini del R. Palazzo di Pitti due serie di Cesari precedute dai numeri 38 e 39. Più sotto al numero A 45 sono registrati i due piccoli busti leopoldini di Iside (n. 165) e Serapide (n. 161) di cui si è parlato. Interessante notare che nella serie mandata al Poggio Imperiale la menzione dei 12 Cesari ha conservato oltre al numero 38 la lettera A che contrassegna «i capi e generi pervenuti dai magazzini del R. Palazzo dei Pitti» come si deduce dal Giornaletto di Galleria del 1769 alla c 706 datata 25 febbraio 1771. Accanto alle serie più preziose per lo più moderne esistono anche copie affini nella preziosità dei materiali come i bustini di Domiziano (n. 147)123 e di Ottone (n. 154)124 in marmo giallo di Siena per i quali come prima verifica si può risalire negli inventari di Galleria almeno fino all’esposizione in Tribuna del 1753. Per il Vespasiano (n. 160),125 con tutta l’incertezza dovuta alle vecchie iconografie, si può ricordare oltre al bustino del 1753 il gm 30 di Cosimo I in cui alla c 33 è attestata «una testa di marmo piccola pare di Vespasiano auta da messer Paulo Banchelli a dì 6 di maggio 1574 come al Giornale 64» che potrebbe identificarsi con la testa 14068 del Museo Archeologico alta cm 18. All’epoca di Francesco I riportavano anche, come già detto, le due donne nn. 153 e 155126 ugualmente con vesti in marmi policromi; per la c. d. Cleopatra possiamo ricordare che nel gm 75 del 1570 (c 64v) oltre a «una testa di marmo antica senza busto di una Cleopatra» è segnata anche «una testa d’alabastro con il busto moderno di una Creopata» con il rimando alla pagina 67 di un inventario precedente. Del re- 123 1753: 1764; 1769: 1304. 124 1753: 1777; 1769: 1317. 125 1753: 1753; 1769: 1293. 126 1) Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 306); 1635: 306 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota n. 44, ii, p. 171); 1704: 1949; 1753: 1784; 1769: 1324. 2) Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 304); 1635: 304 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota n. 44, ii, p. 171); 1704: 1952; 1753: 1786; 1769: 1326. Fig. 34. Hekateion M.A. 14003. il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze 279 sto in un documento ancora più antico che risale al ture. Il programma museografico della sala su cui si 1553 (gm 28) sono ricordate nello scrittoio di Cosimo erano esercitati il gusto per l’antico di L. Lanzi e la «tre teste piccole di marmo, una con barba» e nel passione per l’oggetto prezioso di G. Pelli non dovetGuardaroba «due testoline di marmo antiche» (c 30v) te riscuotere un particolare successo se, appena noe «due teste di marmo antiche piccole» (c 31r). minato, il direttore T. Puccini smantellò la sala135 Per le altre donne la catena inventariale di Galleria dando prova del suo purismo e avviando così quel si arresta al 1753 (n. 167)127 e al 1704 (n. 163);128 sempre processo che portò gli Uffizi a diventare una pinacoalmeno al 1704 risale l’attestazione più antica per i buteca; al di là della grande statuaria, funzionale alla sti del Diadumeno (n. 146),129 di Giove barbato (n. decorazione dei corridoi, le importanti reliquie del 150),130 di incognito con pileo (n. 162)131 e di due Faucollezionismo mediceo dell’antico, dopo aver gironi (nn. 158 e 166),132 mentre gli altri due pezzi di tema vagato per varie dimore da Pitti a Poggio Imperiale, dionisiaco sono immessi in Galleria nel 1753 (n. 157)133 vennero trasferite in blocchi al Museo Archeologico e nel 1704, se non addirittura nel 1676 (n. 168).134 che all’epoca, per regio decreto,136 si configurava coNel momento dell’allestimento del Gabinetto delme il primo museo italiano della civiltà etrusca, per le Miniature i piccoli marmi antichi del Cardinale cui i marmi degli Uffizi risultavano oggetti di accesLeopoldo vengono utilizzati insieme con altri delle sorio, disposti per lo più sotto le arcate del giardietà precedenti per correlare la preziosità delle miniano137 a intervallare la decorazione floreale. 127 1753: 1757; 1769: 1297. 128 1704: 3450; 1753: 1398; 1769: 2334?. 129 1704: 789; 1753: 1455; 1769: 2342. 130 1704: 798; 1753: 1677; 1769: 1217. 131 1704: 775; 1753: 1391; 1769: 2279. La catena inventariale rimanda nel 1769 al n. 2279 (bu, ms 98, non in Mansuelli) sotto cui sono indicate «due teste con poco busto di marmo antiche alte s 6 per ciascuna, che rappresentano due filosofi, che uno con berretto in testa, con piede alto 1/6 di serpentino». Nel 1753 sotto il n. 1391 è replicata la stessa descrizione che rimanda nel 1704 al n. 775, disposto nella «iv stanza con finestra che tiene tutta la facciata di esso e guarda verso levante». 132 1) 1704: 792; 1753: 1381; 1769: 2269. 2) 1704: 795; 1753: 1675; 1769: 1215. 133 1753: 1718; 1769: 1258. 134 1676: 130?; 1704: 781; 1753: 1377; 1769: 2265. 135 Gli oggetti furono spostati nel cd. Magazzino dei Piatti. Per la proposta di una sala dedicata alle piccole sculture si veda C. Gasparri, I marmi Farnese nel Museo Nazionale di Napoli e le sculture antiche degli Uffizi, in Le sculture antiche. Problematiche legate all’esposizione dei marmi antichi nelle collezioni storiche, Atti della giornata di studio, Galleria degli Uffizi, 10 aprile 2002, a cura di A. Romualdi, Firenze, 2003, pp. 108-109. 136 L’istituzione del Museo Etrusco risale al 17 marzo 1870. 137 Per la nuova sistemazione del giardino vedi Il Giardino del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, a cura di A. Romualdi, Firenze, 2000. ARTISTI NEOCLASSICI A ROMA: STUDI DALL’ANTICO DALLE COLLEZIONI LANTE, CONTI, VARESE, NARI E ALTRE RACCOLTE MINORI Anna Maria Riccomini S cendevano a Roma più o meno tutti per lo stesso motivo, molti vi arrivavano per la prima volta, a spese di una qualche accademia italiana (ma più spesso straniera) che aveva dato loro fiducia, giovani allievi mandati ad impratichirsi nell’arte del disegno attraverso lo studio dei maestri antichi e a conoscere le regole armoniche della statuaria classica. Alcuni, artisti già affermati, vi tornavano per la seconda o la terza volta, portando con sé gli studenti più dotati, come nel caso di Jacques Louis David (1748-1825), che nell’ottobre del 1784 giungerà di nuovo a Roma in compagnia del giovane Jean-Germain Drouais, l’allievo prediletto e sfortunato (morirà a soli venticinque anni nel 1788), insieme al quale David si impegnerà ad esplorare i tesori di arte antica celati nelle tante raccolte romane: i loro disegni, a volte semplici schizzi, fatti in contemporanea e quasi sempre dallo stesso punto di vista, ben ci documentano di queste uscite comuni e svelano i tentativi del più anziano maestro nel saggiare l’abilità dell’allievo, tentativi ben riusciti tanto che ancora oggi gli studiosi si confondono, talvolta, nell’attribuire all’uno o all’altro artista un qualche studio dall’antico.1 È lo stesso gio- co di imitazione, quasi una gara, che unirà nelle loro scorribande per la città e la campagna romana il romagnolo Felice Giani (1758-1823) e il friulano Franz Caucig (1755-1828), compagni di appartamento in vicolo S. Isidoro tra il 1785 e il 1787:2 una pratica, quella della copia in simultanea e dallo stesso angolo visuale che, unita all’abitudine di scambiarsi fogli, schizzi e disegni (gesto inevitabile tra compagni di studio), continua ancora oggi a mettere alla prova gli storici dell’arte sulla corretta attribuzione di questo abbondante e prezioso materiale grafico. È il caso, ad esempio, del taccuino di copie da rilievi e sculture antiche conservato tra i manoscritti Lanciani a Palazzo Venezia (Ms. Lanc. 35), la cui antica attribuzione a Felice Giani è stata sostituita da Ksenija Rozman con quella a Caucig e che l’Ottani Cavina preferisce dare ad un anonimo artista attivo a Roma nella loro stessa cerchia.3 Ma anche a prescindere dai problemi di precisa attribuzione, i taccuini di disegni dall’antico fatti per studio a Roma dai pensionnaires e dai tanti artisti italiani, tedeschi, scandinavi, britannici, solo in parte editi, ma spesso ancora nascosti nelle biblioteche di 1 Sui disegni dall’antico di David vedi David e Roma, catalogo della mostra (Roma dic. 1981-feb. 1982), Roma 1981 pp. 42-63; P. Rosenberg, L.-A. Prat, Jacques-Louis David 1748-1825. Catalogue raisonné des dessins, Milano 2002; P. Rosenberg, B. Peronnet, Un album inédit de David, in Revue de l’art, 142, 2003-2004, pp. 45-83. Per i disegni dall’antico del giovane Drouais, purtroppo solo in parte pubblicati, vedi A. Sérullaz, A propos d’un album de dessins de Jean-Germain Drouais au musée de Rennes, in La revue du Louvre et des Musées de France, 26, 5/6, 1976, pp. 380-387 e P. Ramade, Jean-Germain Drouais 1763-1788, catalogo della mostra (Rennes, giu.-set. 1985), s.l. 1985. 2 Su Felice Giani si veda A. Ottani Cavina, Felice Giani (1785-1823) e la cultura di fine secolo, Milano 1999, con ricca bibliografia precedente e, in particolare, per alcuni interessanti studi dall’antico, C. Stefani, Gli studi di Felice Giani del taccuino 2604 dell’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, in Xenia Antiqua, iv, 1995, pp. 119-158. L’attività artistica di Franz Caucig è stata da tempo indagata da Ksenija Rozman: in particolare, per i disegni dall’antico, vedi K. Rozman, Painter Franc Kavcic/Caugig and his Drawings of old Masterpieces, in Zbornik za Umetnostno Zgodovino, n.s. xi-xii, 1974-1976, pp. 39-69, in part. pp. 67-68 e ancora ead., Franc Kavcic/Caucig 1755-1828, Ljubljana, 1978, ead. 1980, ead., Franc Caucig 1755-1828. Drawings from the Narodna Galerija in Ljubljana, catalogo della mostra (Cambridge, ott. 1984-gen. 1985), Cambridge 1984; vedi anche A. Drigo, Francesco Caucig, un artista goriziano tra Roma e Vienna, in Ottocento di frontiera. Gorizia 1780-1850. Arte e cultura, Milano 1995 e soprattutto U. Müller-Kaspar, Franz Caucigs Aufnahmen antiker Skulpturen in Rom, in Jahresheften des Österreichischen Archäologischen Institutes, 61, 1991/1992, pp. 113-127 e K. Rozman, U. Müller-Kaspar, Franz Caucig. Ein Wiener Künstler der Goethe-Zeit in Italien, catalogo della mostra (Wien-Stendal, dic. 2004feb. 2005), Tübingen 2004 in part. pp. 66-95. Per il confronto tra alcune vedute romane eseguite, in contemporanea, da Caucig e da Giani, vedi Rozman 1980. Ringrazio sentitamente la dott.ssa Monika Knofler, dell’Akademie der bildenden Künste di Vienna, per avermi facilitato la consultazione dei disegni dall’antico del Fondo Caucig. 3 L’album, conservato alla Biblioteca Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Fondo manoscritti Lanciani, con l’antica attribuzione a Felice Giani (proposta in Faldi 1952), si compone di 166 fogli, di cui 96 numerati dall’autore (vedi M. P. Muzzioli, P. Pellegrino, Schede dei Manoscritti Lanciani, in RIASA, s. iii, xivxv, 1991-1992, pp. 399-422, in particolare p. 417). Per le più recenti ipotesi attributive, vedi Rozman, Franc Kavcic, op. cit. a nota 2 e Ead., Franc Caucig, op. cit. a nota 2, p. 9, nota 10; Ottani Cavina, op. cit. a nota 2, ii, pp. 759 e 908. «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 281-298 282 anna maria riccomini mezza Europa e d’oltreoceano, sono, come è noto, una imprescindibile fonte di informazione sulla consistenza, negli ultimi decenni del Settecento, delle principali collezioni romane di antichità,4 come la Pamphilj, la Giustiniani, l’Aldobrandini, l’Altemps, la Barberini, la Borghese, la Mattei e, ovviamente, quella del cardinale Albani, di cui i disegni di Caucig conservati a Vienna e soprattutto quelli dell’anonimo manoscritto Lanciani ci documentano oltre un’ottantina di pezzi (e vien quasi da sorridere a pensare alla segrete e un po’ illecite manovre con cui, solo pochi anni anni prima, il padre Paciaudi aveva tentato di procurarsi, per conto dell’amico conte di Caylus e con l’aiuto del giovane Hubert Robert, alcune riproduzioni delle sculture Albani).5 Ma persino più utili si rivelano questi taccuini laddove si tenti di ricostruire una collezione minore, magari di recente formazione e non altrimenti documentata, una di quelle raccolte un po’ snobbate dagli antiquari del tempo, ma per fortuna visitate dagli artisti, attratti forse dalla singolarità iconografica o dal pregio artistico di qualche scultura o forse semplicemente incoraggiati da una più semplice e disinvolta modalità di visita, non sempre garantita per le storiche raccolte cardinalizie. Questo studio non ha, certo, la pretesa di ricostruire per intero nuclei collezionistici ormai dispersi, né l’ambizione di maneggiare con disinvoltura l’immenso patrimonio di studi tardo-settecenteschi dall’antico giunto sino a noi, neppure di quello edito. Si tenta qui, con l’aiuto di alcuni, selezionati, fondi di disegni (solo in parte pubblicati) di ridare un nome a raccolte di antichità ancora poco note, se non addirittura sconosciute, e di fornire un volto a sculture un tempo ammirate nelle guide della città o anche solo apprezzate dagli artisti di fine secolo e oggi scomparse. Di grande utilità si sono rivelati, a questo scopo, i già ricordati disegni dall’antico di David, tanto quelli eseguiti nel corso del primo soggiorno romano, tra il 1775 e il 1780, che quelli elaborati insieme al giovane Drouais, tra il 1784 e il 1785, e naturalmente i disegni dello stesso Drouais (spesso corredati di interessanti annotazioni topografiche); preziose indicazioni si sono invece ricavate dall’album di disegni del pittore irlandese Henry Tresham, a Roma tra il 1775 e il 1789: pubblicato (con uno scarso apparato illustrativo) già alla fine dell’Ottocento, il taccuino raccoglie centinaia di studi da sculture delle grandi collezioni romane (Albani, Borghese, Medici, Barberini, Aldobrandini, Farnese, Ludovisi, Negroni, Santacroce), senza trascurare, come vedremo, alcune raccolte minori, individuate da utili (ma, purtroppo, non sempre corrette) didascalie.6 Ben più affidabili sono invece le didascalie apposte da Franz Caucig ai suoi disegni viennesi, tra cui oltre settecento studi dall’antico (in prevalenza statue e rilievi) eseguiti quasi certamente dal vero e con incredibile accuratezza filologica, un vero e proprio repertorio di statuaria classica, quasi un manuale di iconografia antica (e certo questo voleva essere nelle intenzioni dell’artista, che di lì a poco si sarebbe servito di questo materiale per le sue lezioni di all’Accademia di Vienna): esaminati a più riprese, anche di recente (compreso il fondo conservato nella Narodna Galerija di Lubiana), in studi che ne hanno ben valorizzato l’importanza per lo studio delle collezioni romane di antichità, i disegni viennesi del Caucig rimangono, tuttavia, ancora in parte inediti e mai pubblicati prima sono anche i fogli discussi in queste pagine. Probabili copie un po’ corsive e frettolose degli studi romani del Caucig, frutto forse dell’esercizio di un giovane seguace o di un compagno degli anni di formazione, sono i disegni raccolti in un album venduto all’asta a Londra nel 1981 e oggi disperso,7 un corpus di rilievi e sculture selezionati per temi e iconografie, secondo una pratica già adottata dall’anonimo 4 Per una panoramica sulla situazione, alla fine del Settecento, delle principali raccolte romane di antichità, vedi P. Liverani, La situazione delle collezioni di antichità a Roma nel xviii secolo, in Antikensammlungen des europäischen Adels im 18. Jahrhundert als Ausdruck einer europäischen Identität, a cura di D. Boschung e H. von Hesberg, Mainz am Rhein 2000, pp. 66-73. 5 Nell’estate del 1760 Paolo Maria Paciaudi aveva istruito il giovane Hubert Robert nel disegno documentario dall’antico e tentato di far giungere all’amico in Francia alcuni studi delle antichità Albani, all’epoca ancora in gran parte inedite. Sull’intera vicenda, vedi F. G. Pariset, Notes sur Victor Louis, I. Louis, Hubert Robert et le comte de Caylus, in Bulletin de la Société de l’Histoire de l’Art Français, 1959, pp. 41-47. Sull’attività di Hubert Robert come disegnatore di antichità per conto del Paciaudi e del conte di Caylus vedi anche J. Raspi Serra, La Roma di Winckelmann e dei «pensionnaires», in Eutopia, 2, 1993, pp. 79- 132, in particolare pp. 97-98 e Ead., Caylus et les artistes in J. Raspi Serra e F. de Polignac, La fascination de l’antique 1700-1770. Rome découverte, Rome inventée, catalogo della mostra, (Lyon, dic. 1998-mar. 1999), Paris 1998, pp. 170-178, in particolare p. 174. 6 C. Robert, Römisches Skizzenbuch aus dem achtzehnten Jahrundert im Besitz der Frau Generalin von Bauer geb. Ruhl zu Kassel, in Zwanzigstes Hallisches Winckelmannsprogramm, Halle, 1897. Sulle frequentazioni romane del Tresham vedi Ottani Cavina, op. cit. a nota 2, i, pp. 64 e 80-81. 7 L’album (indicato d’ora in poi come Album londinese), con una generica attribuzione ad un anonimo di scuola romana, è segnalato nel catalogo d’asta di Chaucer Fine Arts di Londra (Autunno 1981): Collecting in the 18th Century. Paintings and Drawings. Works of Art, n. 23 (ringrazio vivamente il dott. Marcello Violante, di Chaucer Fine Arts, per avermi fornito le riproduzioni dei disegni). Si tratta di un album dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori artista del Ms. Lanciani 35, che negli oltre centosessanta fogli dall’antico ha spesso indicato il soggetto delle sculture (e quasi mai, purtroppo, la collocazione). Ancora del tutto aperta, come abbiamo visto, è l’attribuzione del Ms. Lanciani, molto vicino allo stile di Caucig, tanto da essergli attribuito, ma un poco più debole nel tratto e non troppo lontano, in fondo, dal ductus dell’album londinese, così che verrebbe da chiedersi se non possano essere entrambi opera dello stesso (ancora anonimo) artista, anzi, se i due fondi non siano, in realtà, parti di un unico progetto di studio, un’ipotesi suggerita dalla omogeneità dei modelli scelti e rafforzata dalla perfetta complementarità, senza inutili ripetizioni, tra i soggetti copiati, proprio come se i due album avessero formato, in origine, un continuum di sculture e rilevi antichi, un unico corpus della statuaria classica visibile all’epoca a Roma, nei musei e nelle raccolte private: album che vanno quasi certamente intesi come copia e, forse, come selezione degli studi dall’antico realizzati a Roma dalla cerchia del Caucig, probabilmente da qualche compagno della casa di vicolo S. Isidoro.8 Collezione Lante Nel 1744 Francesco de’ Ficoroni segnalava, nel cortile di palazzo Lante, sulla piazza dei Caprettari, «non di 94 fogli numerati, quasi tutti con l’indicazione del soggetto, raffiguranti statue e rilievi antichi (vedi anche Rozman, Franc Caucig, op. cit. a nota 2, pp. 4-5, che individuava in questi disegni confronti tanto con le tipologie, soprattutto dei volti, tipiche di Caucig, che con il tratto disegnativo e chiaroscurale di Giani). Già la Rozman, Painter, op. cit. a nota 2 e Ead, Franc Kavcic, op. cit. a nota 2 aveva suggerito che i disegni eseguiti a Roma dal Caucig fossero destinati alla pubblicazione (mai realizzata) di un corpus di sculture antiche. 8 Mentre il Ms. Lanciani 35 documenta sculture antiche all’epoca conservate, soprattutto, nelle collezioni Albani, Mattei, Pamphilj, Borghese, Giustiniani, Barberini e nel Museo del Campidoglio, l’Album londinese riproduce prevalentemente marmi antichi delle raccolte minori, come quelle Altieri, Altemps, Lancellotti, Varese, Nari, Falconieri, Conti, oltre a documentare diverse sculture Albani e Capitoline non inserite nel Ms. Lanciani: e anche quando uno stesso monumento antico si trova riprodotto in entrambi gli album, i disegni non sono mai coincidenti, come nel caso della cd. Ara di Domizio Enobarbo, all’epoca ancora nel palazzo Santacroce, di cui il Ms. Lanciani 35 conserva quattro disegni relativi al lato lungo del thiasos marino (foll. 124-127), mentre l’Album londinese raccoglieva quelli raffiguranti i lati brevi del monumento (foll. 57-58). Non si tratta, comunque, di parti smembrate di uno stesso taccuino, considerate anche solo le diverse misure dei fogli (mm 271 × 190 per il Ms. Lanciani e 315 × 217 per l’Album londinese). Gli album presentano una simile mescolanza di disegni rifiniti con ombreggiature all’acquatinta e studi più sommariamente delineati a china; molti, in entrambi i casi, sono i soggetti comuni anche ai disegni del Caucig (spesso si tratta di vere e proprie copie) e talvolta si riscontrano sovrapposizioni anche 283 poche buone statue, come pure busti e dipinture»9 e intorno alla fine del secolo il Vasi precisava che i pezzi più degni di nota erano quelli di «une femme sur la fontaine qu’on y voit; un Bacchus; deux Muses, un Apollon et une Diane»,10 un gruppo di marmi che Antonio Nibby vide ancora, con una diversa distribuzione all’interno del palazzo, nella sua ricognizione del 1838.11 Sulla statua di donna seduta che ornava la fontana siamo bene informati dalle fonti dell’epoca: oltre alla breve menzione del Vasi, questa scultura, tradizionalmente identificata come Ino/Leucotea che allatta Bacco, fu inserita (con una tavola illustrativa) nei Monumenti inediti del Guattani, che ancora nel 1805 si stupiva di come un monumento così singolare fosse sino ad allora sfuggito all’attenzione degli antiquari e rimasto sconosciuto persino al Winckelmann.12 A notarlo, già prima della segnalazione del Vasi, saranno invece gli artisti, il David, il Caucig, gli architetti Pierre-Françoise-Léonard Fontaine e Charles Percier e l’anonimo autore del Ms. Lanciani (Fig. 1), che del gruppo ci hanno lasciato diversi studi.13 È questo l’unico marmo antico, tra quelli celebrati nelle Guide di Roma, ad essere rimasto, fino ad anni recenti, al suo posto, nel cortile del palazzo; di quasi tutte le altre statue si sono invece, nel tempo, perse le tracce. con studi dall’antico già attribuiti a Giani, come nel caso del foglio con quattro vasi antichi dell’Album londinese (fol. 56), identico a uno studio del fondo Giani al Cooper-Hewitt Museum di New York (Ottani Cavina, op. cit. a nota 2, ii, A1.9, fig. 1097). 9 F. de’ Ficoroni, Le Vestigia e rarità di Roma antica ricercate, e spiegate, ii. Le Singolarità di Roma moderna ricercate, e spiegate, Roma 1744. p. 49. 10 M. Vasi, Itinéraire instructif de Rome ou Description générale des monumens antiques et modernes, et des ouvrages les plus remarquables de peinture, de sculpture et d’architecture de cette célèbre ville et d’une partie de ses environs, Rome 1792, pp. 400-401. 11 A. Nibby, Roma nell’anno 1838, iv, Roma 1841, pp. 785-786. 12 G. A. Guattani, Monumenti antichi inediti, ovvero notizie sulle antichità e belle arti di Roma, vii, Roma, 1805, pp. xxv-xxxiii, tav. v (“Ino allattante Bacco”): nella sua pubblicazione del pezzo, il Guattani ricordava i restauri commissionati dal cardinale Marcello Lante allo scultore Gaspare Sibilla e si interrogava sulla provenienza del gruppo, ipotizzandone (ma molto dubitativamente) l’identità con la figura femminile seduta, acefala e senza braccia (e senza il putto) incisa in controparte alla fine del Cinquecento dal de’ Cavalleriis, come pertinente alla collezione del cardinale di Ferrara, Ippolito II d’Este, sul Quirinale. Su questo gruppo, oggi rimosso dal cortile, vedi C. Pericoli Ridolfini, Guide rionali di Roma. Rione viii, S. Eustachio, iii, Roma 1984, pp. 109-110 e Randolfi 2003, pp. 439-40 e 458 nota 80 (il gruppo, già trasferito nel giardino di Villa Grazioli Lante, si trova oggi in collezione privata: ringrazio per questa informazione Rita Randolfi, che ha in corso di pubblicazione uno studio su questo pezzo).. 13 Rosenberg e Prat 2002, i, p. 489, nn. 616 e 617 (“al pallazzo del duca lanti”); Rozman 1978, p. 216, fig. 13 e Eadem 1984, p. 29, n. 53 (“Pa- 284 anna maria riccomini Fig. 1. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Leucotea con Bacco bambino, disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190. Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 118. Fig. 2. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Apollo, disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190. Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 116. Insieme al gruppo della Leucotea, l’altro ‘pezzoforte’ della collezione, anch’esso esposto nel cortile, era una «copia del rinomato Apollo di Delfo, tanto celebre nell’Antichità»,14 una statua del Dio di tipo arcaistico, dall’eccezionale stato di conservazione, ele- menti entrambi che ne incoraggiavano il confronto con l’allora celeberrimo Apollo della raccolta Conti, accrescendone a dismisura il valore commerciale.15 Ancora una volta le fonti antiquarie tacciono su questo marmo, ma la particolare iconografia del pezzo lazzo Lanti”); per il disegno del Fontaine e quello di Charles Percier, che documentano entrambi anche la fontana su cui era collocato il gruppo, vedi Di Castro e Fox 2007, p. 20, fol. ii.2 e Fondo Percier, Bibliothèque de l’Institut, Paris, Ms. 1007, fol. 109, n. 256; Ms. Lanciani 35, fol. 118. Ringrazio sentitamente il prof. Henri Lavagne per avermi facilitato la consultazione del Fondo Percier. 15 «Questa statua è rarissima per una curiosa particolarità, mentre è opinione che possa essere la copia del rinomato Apollo Delfico, quel che è sicuro che altre copie così conservate non si conoscono. Lo stile della suddetta è del cosiddetto Etrusco, ma in sostanza Greco del rigido stile»: così è descritta la nostra statua nella stima dei marmi Lante fatta da Antonio D’Este poco dopo il 1808 (vedi Randolfi, op. cit. a nota 14, p. 440). L’Apollo della collezione Conti (discusso più avanti) è forse identificabile con la statua acquistata a Roma nel 1777 dal langravio d’Assia Federico II e oggi a Kassel, probabile replica dell’Apollo Parnopios di Fidia (M. Bieber, Die antiken Skulpturen und Bronzen des Königl. Museum Friedericianum in Cassel, Marburg 1915, n. 1, p. 1, tavv. i-viii; ma vedi, per una diversa identificazione con una replica romana dell’Apollo dell’Omphalos, nella collezione Torlonia, L. Guerrini, Due disegni di Pier Leone Ghezzi, in Studi Miscellanei, 15, 1970, pp. 27-32). 14 Come è descritto nell’elenco delle opere che il duca Vincenzo Lante dovette dare in assegna al pontefice, in ottemperanza del Chirografo di Pio VII, del 1802, riportato in R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, Roma 19892002 (ed. orig. dei voll. i-iv, Roma 1902-1912), vi, p. 263: vedi anche R. Randolfi, Albacini, Cades, Ceccarini, D’Este, Landi e Pacetti e la collezione di sculture dei Lante Vaini della Rovere nel palazzo di piazza dei Caprettari, in Sculture romane del Settecento, III, La professione dello scultore, a cura di E. Debenedetti, (Studi sul Settecento romano, 19), Roma 2003, pp. 439-440. dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori 285 Fig. 3. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Diana, disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190. Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 113. non sfuggì invece all’anonimo autore del Ms. Lanciani (Fig. 2), che dell’Apollo ci ha lasciato un disegno molto accurato, uno studio (il fol. 116) impaginato a poca distanza da quello con la Leucotea (fol. 118) e in mezzo ad altri disegni (foll. 113-115) riferibili, come vedremo, a sculture della collezione Lante. L’artista ha riprodotto con buona fedeltà lo stile arcaizzante e gli elementi distintivi di questa scultura (come la corona d’alloro e la faretra appesa al tronco d’albero), così da facilitarne l’identificazione con l’Apollo messo in vendita, alla fine dell’Ottocento, sul mercato antiquario romano, con una provenienza da palazzo Odescalchi e oggi conservato al Museo di Belle Arti di Budapest (Fig. 2a):16 pendenze creditizie, ben documentate dall’archivio Lante, avevano infatti spinto gli Odescalchi ad avanzare pretese, fin dai primi anni 16 Ancora nel 1893 il pezzo si trovava presso l’antiquario Marcocchia, in piazza di Spagna, dopo essere stato dell’antiquario Jandolo e prima ancora nel palazzo Odescalchi (ea 1986), dove ancora si trovava intorno al 1880 (F. Matz, F. von Duhn, Antike Bildwerke in Rom, mit Ausschluss der grösseren Sammlungen, i-iii, rist. anast. Roma 1968 (ed. orig. Leipzig 1881-1882), n. 180): sulle vicende collezionistiche di questo pezzo vedi A. Hekler, Museum der Bildenden Künste in Budapest. Die Sammlung Antiker Skulpturen, Wien 1929, n. 173, p. 174. Fig. 2a. Apollo arcaistico, marmo, età romana. Budapest, Museo di Belle Arti. (Foto: Gisela Fittschen-Badura) 286 anna maria riccomini Fig. 4. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Musa, disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190. Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 115. Fig. 5. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Musa, disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190. Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 114. del xix secolo, sui beni dei Lante, così che nel 1827 numerose sculture antiche finirono per migrare dal Palazzo di piazza dei Caprettari a quello degli Odescalchi, e tra queste il nostro Apollo, uno dei pezzi più quotati dell’intera raccolta.17 La statua di Diana del fol. 113 del Ms. Lanciani (Fig. 3) corrisponde allo stesso modello antico copiato dal Caucig in un disegno viennese,18 con la didascalia “Palazo Lanti”: si tratta certamente della sta- tua già esposta nel cortile del palazzo, descritta come «succinta» (e dunque in chitone corto) nella stima della statue Lante fatta nel 1794 da Vincenzo Pacetti e che un inventario del 1826 ricordava «con mezza luna in testa, e coturni alli piedi».19 Finita anch’essa sul mercato antiquario nel 1827,20 la Diana entrò a far parte del cabinet parigino del conte di Pourtalès, per essere nuovamente messa all’asta nel 1865, e infine dispersa.21 17 Sulle vertenze economico-giuridiche tra i Lante e gli Odescalchi, vedi M. G. Picozzi, D. Candilio, S. Brusini, Statue antiche restaurate a Palazzo Odescalchi, in Bollettino di Archeologia, 41-42, 1996, pp. 15-63, in particolare pp. 20-21 (in cui si fa riferimento anche all’Apollo arcaistico) e Randolfi, op. cit. a nota 14, p. 441. 18 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz 702. 19 La statua, giudicata «di buona stile» nella stima redatta da Antonio D’Este nel 1811, aveva braccia e gambe moderne (Randolfi, op. cit. a nota 14, p. 440 e p. 456, nota 74). 20 All’epoca della grande vendita all’asta dei marmi Lante, nel 1827, la Diana venne acquistata dall’antiquario Francesco Capranesi (Randolfi, op. cit. a nota 14, p. 443). 21 Tra i marmi messi invendita a Parigi dal conte di Pourtalès, nel 1865, figurava anche una Diana già a Palazzo Lanti (Catalogue des objets d’art et de haute curiosité antiques, du Moyen Age et de la Renaissance qui composent les collections de feu m. le comte de Pourtalès-Gorgier, Paris 1865, p. 16, n. 56), e molto somigliante alla nostra statua è, in effetti, l’incisione della Diana Pourtalès edita dal Clarac (Musée de sculpture antique et moderne, Paris 1826-1853, tav. 577, n. 1243; vedi S. Reinach, Répertoire de la Statuaire Grecque et Romaine, I, Paris 1897, p. 310, n. 1). dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori 287 Fig. 6. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Apollo, disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190. Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 117. Fig. 7. F. Caucig, Atena, 1780-87. Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett (inv. hz 701), mm 333 × 215 Come disperse sono anche le due statue di Muse, tanto celebrate dalle Guide di Roma e di cui i disegni viennesi del Caucig22 e quelli del Ms. Lanciani ci conservano, almeno, l’immagine (Figg. 4-5): una, con una maschera nella destra abbassata, corrisponde quasi certamente alla statua «con maschera in mano» toccata, nella ripartizione dei beni Lante ai vari creditori, conclusasi nel 1828, a Mario e Guglielmina Massimi, mentre l’altra, con un flauto nella mano destra, nella iconografia della Euterpe dell’Antikmuseum di Stoccolma, rientra in un tipo statuario troppo generico per riuscire a ripercorrerne le vicende collezionistiche.23 Tra i marmi Lante stimati dal Pacetti nel 1794 si fa menzione anche di una seconda, e assai meno pregiata, statua di Apollo, «nudo colla cetra», certo coincidente con la «statua di Apollo restaurata con lira accanto ora però mancante dove appoggia la mano sinistra», acquistata per pochi soldi dall’antiquario Ignazio Vescovali, nel 1826:24 si tratta forse dello stesso pezzo disegnato, ancora integro, nel Ms. Lanciani (Fig. 6), al fol. 117 (proprio accanto al più celebre Apollo arcaistico), ma oggi disperso. Non segnalata dalla guide, ma degna di nota per gli artisti del tempo doveva poi essere una statua di Atena, del tipo Ince, copiata dal Caucig in uno dei suoi studi 22 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz 585 e 635 (entrambi con la didascalia “Palazo Lanti”); Ms. Lanciani 35, foll. 114 e 115, senza alcuna didascalia. 23 Ma è forse utile segnalarne la somiglianza (ad eccezione della testa, girata dal lato opposto) con la statua documentata a Palazzo Valentini, alla fine dell’Ottocento (ea 2389), pubblicata in M. Conticello De’ Spagnolis, La collezione di sculture antiche, in Palazzo Valentini, a cura di G. Farina, Roma 1985, pp. 246-247, n. 10. 24 Randolfi, op. cit. a nota 14, p. 443 e pp. 455-456, note 67 (vendita Vescovali) e 72 (stima del Pacetti). 288 anna maria riccomini Fig. 8. F. Caucig, Imperatore romano, 1780-87. Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett (inv. hz 51), mm 333 × 215. Fig. 9. F. Caucig, Sacerdote romano, 1780-87. Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett (inv. hz 233), mm 333 × 215. viennesi (Fig. 7),25 ma anch’essa oggi di difficile identificazione. Tra i primi incarichi di Vincenzo Pacetti, da poco alla guida dello studio ereditato dal Pacilli, ci fu quello di restaurare una statua della raccolta Conti:26 all’epoca di questo giovanile ricordo del Pacetti, risalente all’aprile del 1773, il pezzo più noto della collezione di antichità riunita nel palazzo dei duchi di Poli, che ancora domina la Fontana di Trevi, era senza dubbio la statua di Apollo scoperta tra il 1721 e il 1724 presso il Lago di Soressa (oggi Lago di Paola), a nord del Circeo, che parte della critica archeologica ha proposto di identificare con l’Apollo oggi a Kassel.27 Ben noto a Pier Leone Ghezzi e ad Anton Francesco Gori, già a pochi anni dal suo ritrovamento, sarà questo l’unico marmo antico della collezione Conti ad essere citato nella Storia dell’arte del Winckelmann,28 in riferimento alle sculture di stile arcaistico, mentre del tutto ignorate rimasero, dalle fonti settecentesche e del primo Ottocento, le altre antichità della famiglia. Una statua di impera- 25 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz 701 (“Palazo Lanti”). 26 Come ricorderà lo stesso scultore nel suo Giornale, conservato manoscritto presso la Biblioteca Alessandrina di Roma (ms. 321): vedi Honour 1960, p. 174. 27 Bieber, op. cit. a nota 15, n. 1, pp. 1-2; E. Schmidt, Der Kasseler Apollon und seine Repliken, in Antike Plastik, V, Berlin 1966, pp. 10-14, tavv. 1-11; C. Gasparri, s.v. Collezioni archeologiche, in EAA, Suppl. II, 2, s.l. 1994. Vedi anche supra nota 15. 28 Vedi G. G. Winckelmann, Opere, Prato 1830, ii, pp. 48-49 e p. 555. Per le descrizioni di questo pezzo lasciateci da Pier Leone Ghezzi e da Anton Francesco Gori, vedi Guerrini, op. cit. a nota 15. Collezione Conti dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori 289 Fig. 10. F. Caucig, Musa, 1780-87. Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett (inv. hz 115), mm 333 × 215. Fig. 11. F. Caucig, Musa, 1780-87. Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett (inv. hz 253), mm 333 × 215. tore, con corta tunica e mantello, integrata con una testa di Settimio Severo, venne però disegnata, prima della sua dispersione,29 da Henry Tresham, negli anni del suo soggiorno romano (1775-1789), da Franc Caucig (Fig. 8) e copiata anche dall’anonimo autore dell’Album londinese;30 un pezzo cui forse faceva da pendant un’altra statua virile, dalla curiosa iconografia, riprodotta dal Tresham e ormai nota solo grazie ad un disegno del Caucig (Fig. 9):31 ve- stita di lunga tunica fermata sui fianchi e con ampie maniche a sbuffo, la figura ha sul petto un grosso collare a due giri, con teste di serpente affrontate che mordono una gemma ovale, e regge nella destra la patera per i sacrifici,32 elementi che, in età romana, dovevano caratterizzare i sacerdoti di Bellona, come dimostra anche il ritratto di L. Lartius Anthus, cistophorus del tempio di Bellona, scolpito a rilievo sul suo monumento funebre, oggi perduto.33 29 La statua si trovava ancora nel palazzo ormai noto come Palazzo Poli (i Conti erano duchi di Poli), ancora negli anni Ottanta dell’Ottocento (Matz, Duhn, op. cit. a nota 16, n. 1314). 30 Per questi disegni, vedi rispettivamente Robert, op. cit. a nota 6, p. 44, n. 185 (iii 6); Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz 51 (“Pallazo Conti”) e Album londinese (vedi supra nota 7), fol. 72 (“Palazo Conti”). 31 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz 233 (“Pallazo Conti”). Il disegno del Tresham è descritto (senza riproduzione fotografica) in Robert, op,. cit. a nota 6, p. 45, n. 194 (iii 14). 32 Ancora negli anni Ottanta dell’Ottocento la statua si trovava a Roma, nel palazzo Poli (Matz, Duhn, op. cit. a nota 16, n. 1316). Per questo pezzo, vedi anche J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie. Die Bildnisse der römischen Kaiser und ihrer angehörigen, II, 3, Stuttgart-Berlin-Leipzig 1894, n. 21, p. 23; A. M. Mc Cann, The Portraits of Septimius Severus (A.D. 193-211), in MAAR, xxx, 1968, p. 188, App. 1, cat. i (che già lo dava per disperso) e D. Soechting, Die Porträts des Septimius Severus, Bonn 1972, p. 245, n. 6. 33 Il cippo, rinvenuto a Roma nel 1729, è documentato dalla descrizione di Anton Francesco Gori (cil vi 2233): Matz, Duhn, op. cit. a nota 16, n. 3876. 290 anna maria riccomini Fig. 12. F. Caucig, Atena, 1780-87. Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett (inv. hz 59), mm 333 × 215. Fig. 11a. Musa, marmo, età romana, collocazione attuale sconosciuta. ta, nella grande statuaria; colpisce invece, ancora una volta, il silenzio degli antiquari. Collezione Varese La strana foggia dell’abito e il bizzarro collare di questi sacerdoti, attestati entrambi anche nel culto di Cibele,34 avevano già da tempo incuriosito gli artisti, e infatti anche Nicolas Poussin, nei suoi studi romani di antichità, si era soffermato a copiare (forse da un rilievo funerario), una simile figura con collare a forma di serpente,35 e dunque non stupisce che anche il Caucig abbia scelto di documentare questa strana iconografia, poco attestata, per giun- Commissionato a Carlo Maderno da monsignor Diomede (ca. 1582-1652), il palazzo Varese è ancora oggi una delle più eleganti presenze architettoniche tra quelle che prospettano su Strada Giulia ma, a dispetto dell’illustre nome del suo architetto, sono davvero poche le antiche guide di Roma che dedicano anche solo qualche parola all’edificio, e nessuna fa mai menzione della collezione di sculture antiche qui raccolta alla fine del Settecento. 34 Vedi ad esempio J. Vermaseren, Corpus Cultus Cybelae Attidisque (CCCA), III. Italia-Latium, Leiden 1977, nn. 249, 250 e 466. 35 Vedi P. Rosenberg, L.-A. Prat, Nicolas Poussin (1594-1665). Catalogue raisonnée des dessins, Milano 1994, I, p. 324, n. 169r e P. Rosen- berg, Un ensemble de copies de dessins d’après l’Antique de Poussin, in Studiolo, 4, 2006, pp. 129-166, in particolare p. 132, fig. 7 (Album de Louviers, fol. 67, da uno studio del Poussin. Il collare con teste di serpente è indicato con la scritta “torques”). dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori 291 Fig. 13. Anonimo della seconda metà del xviii sec., rilievo con ara, disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190. Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 8. Due statue, forse di Muse, sono però documentate a “Pallazo Varese” dai disegni viennesi del Caucig (Figg. 10-11): la prima, vestita di un lungo chitone con maniche e mantello frangiato, rimane ancora di difficile identificazione, mentre l’altra, anch’essa in chitone e mantello, con un flauto (?) nella destra abbassata e una tavoletta (o un volumen ripiegato) nella mano sinistra, va riconosciuta, credo, nella statua (ormai priva dell’attributo) in vendita, alla fine dell’Ottocento, sul mercato antiquario romano e di cui oggi si sono perse le tracce (Fig. 11a).36 Presenza più significativa, nella raccolta di sculture del palazzo, doveva certo essere la statua di Atena, replica di quella Giustiniani, appoggiata ad un vistoso supporto a tronco d’albero intorno a cui si attorciglia un enorme serpente: si tratta, senza dubbio, della statua entrata nell’Ottocento nella collezione Torlonia ed erroneamente elencata da Pietro Ercole Visconti tra i marmi rinvenuti negli scavi di Porto, promossi dal principe Alessandro a partire dal 1856.37 L’Atena venne disegnata da Henry Tresham, che la segnala a “Villa Medici”,38 una collocazione diversa da quella indicata nello studio viennese del Caucig (Fig. 12), sempre piuttosto affidabile nelle annotazioni topografiche e che invece la vide a “Pallazo Varese” (dove la statua è indicata anche dall’anonimo artista dell’Album londinese):39 si potrebbe facilmente pensare ad un errore del Tresham, già altrove inesatto sulla collocazione dei pezzi copiati 36 Per i disegni di queste statue, vedi rispettivamente Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz 115 e 253 (entrambi con didascalia “Pallazo Varese”). La statua di Musa con tavoletta, in vendita presso l’antiquario Simonetti, è documentata in ea 1185. 37 Visconti 1876, p. 74, n. 277; vedi anche Schreiber 1879. Sul ma- teriale proveniente dagli scavi eseguiti a Porto, presso Fiumicino, dai principi Torlonia, vedi Gasparri 1980. 38 Robert, op. cit. a nota 6, p. 24, n. 58 (ii 42). 39 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz 59 (“Pallazo Varese”) e Album londinese, fol. 83 (“Palazo Varese”). Fig. 12a. Atena tipo Giustiniani, marmo, età romana, Roma, Museo Torlonia. 292 anna maria riccomini nei suoi taccuini,40 o pensare che l’artista abbia disegnato da un gesso dell’Accademia di Francia, a Villa Medici, appunto. Il pezzo era comunque già noto fin dalla metà circa del Cinquecento, quando venne riprodotto da Jacopo Strada nel suo Codex Miniatus di Vienna, con l’aggiunta di una base votiva a Pallade Vincitrice, probabilmente falsa;41 quando e per quali vie collezionistiche l’Atena sia giunta in possesso della famiglia Varese e da lì ai Torlonia non è possibile dire, considerate le nostre scarsissime (o quasi inesistenti) conoscenze sulla collezione di antichità riunita alla fine del Settecento nel grande palazzo di Strada Giulia. E proprio tra queste antichità doveva trovarsi, alla fine del secolo, anche la Stele Borgia, uno dei pezzi più celebri e ammirati della collezione formata dal cardinale Stefano Borgia e riunita nel suo palazzo di Velletri: l’amico e antiquario del cardinale, il danese Georg Zoega, la ricorda infatti, nel 1791, ancora a Roma, nel Palazzo Varese, dove quasi certamente la copiò anche il Tresham;42 di lì a poco, forse per interessamento dello stesso Zoega, la stele sarebbe passata nelle raccolte borgiane e infine a Napoli, dove ancora si trova. Sono questi, infatti, gli anni in cui il cardinale è maggiormente impegnato nella formazione del suo museo, destinato ad ospitare anche importanti reperti archeologici, frutto in parte di scavi condotti nell’agro veliterno, e di certo le critiche condizioni finanziarie in cui ormai versavano molte famiglie della nobiltà romana, costrette a vendere intere collezioni d’arte, dovettero giocare a suo favore. È questo, forse, il caso del curioso rilievo raffigurante un’ara accesa (Fig. 13a), un frammento di un pannello marmoreo con scena idillico-sacrale, documentato a Velletri almeno dal 179443 ma riprodotto, quando ancora si trovava a Roma, dal Caucig (con l’indicazione “Cavaceppi”) e dall’anonimo autore del Ms. Lanciani (Fig. 13):44 lo studio dello scultore Bartolomeo Cavaceppi, con il suo inesauribile patrimonio di frammenti marmorei, gessi e repliche dall’antico rappresentava, come è ben noto, una forte attrazione per i giovani artisti bisognosi di far pratica e anche il Caucig non mancò di disegnarvi alcune riproduzioni in gesso di pezzi della collezione Albani,45 ma in questo caso viene da chiedersi se nella bottega dello scultore ci fosse non il gesso, ma il rilievo originale, già noto al Piranesi (che ce ne ha la- 40 Come sottolinea lo stesso Robert, nell’edizione degli album Tresham (Robert, op. cit. a nota 6, p. 3). 41 Wien, Österreichische Nationalbibliothek, Codex Miniatus 21,2, fol. 27; l’iscrizione leggibile sulla base (“Palladi Victrici sacrum … sum … g … d.d.”) non è riportata nel cil . 42 Per la notizia riferita dallo Zoega (nei suoi Appunti di antichità conservati a Copenhagen, fol. 108r) e il disegno di Henry Tresham, vedi Robert, op. cit. a nota 6, p. 48, n. 221 (i 2). Sulle collezioni riunite dal cardinale Stefano Borgia, vedi La collezione Borgia, curiosità e tesori da ogni parte del mondo, catalogo della mostra (Velletri, mar.-giu. 2001Napoli, giu.-sett. 2001), a cura di A. Germano e M. Nocca, Napoli 2001, in part. p. 108, n. iv.1 per la stele Borgia (documentata in proprietà della famiglia del cardinale a partire dall’inventario del 1814). Per il pezzo, oggi al Museo Archeologico di Napoli, vedi A. Ruesch, Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli, Napoli 1911, p. 26, n. 98 e R. Cantilena, E. La Rocca, U. Pannuti, L. Scatozza, Le colle- zioni del Museo Nazionale di Napoli I, 2, Roma-Milano 1989, p. 152, n. 270. 43 Il pezzo fu infatti disegnato “Dans le museum de M. Borgiani a Velletri” dal Fontaine, a Roma tra il 1785 e il 1791 (Di Castro e Fox 2007, p. 22, fol. iii.1) e, in quegli stessi anni, anche da Charles Percier (Fondo Percier, Bibliothèque de l’Institut, Paris, Ms. 1009, fol. 105, n. 196. Nel 1794 il rilievo venne visto, sempre nel Museo Borgiano, anche da Luigi Lanzi, che lo descrisse nel suo taccuino di viaggio: Germano e Nocca 2001, p. 111, n. iv.6 e Nocca 2001, pp. 165 e 166. 44 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz 764 (“Cavaceppi”) e Ms. Lanciani 35, fol, 8. 45 Per i disegni da repliche in gesso di marmi Albani, eseguiti dal Caucig nello studio del Cavaceppi, vedi U. Müller-Kaspar, Franz Caucigs Aufnahmen antiker Skulpturen in Rom, in Jahresheften des Österreichischen Archäologischen Institutes, 61, 1991/1992, pp. 113-127, in particolare, pp. 118-127. Fig. 13a. Rilievo con ara, marmo, età romana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (inv. man, igmn 128/82) dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori 293 Fig. 14. F. Caucig, Figure femminili, 1780-87. Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett (inv. hz 351), mm 333 × 215. sciato un’incisione)46 e poi finito, forse per essere integrato, nello studio dello scultore romano: e sarebbe allora per tramite del Cavaceppi che il cardinale Borgia poté aggiungere questo curioso pezzo antico alla sua collezione. Collezione Nari Fig. 14a. Rilievo con Ninfa seduta su una roccia, marmo, età romana. Berlino, Staatliche Museen (inv. Sk 899). Formata già a partire dal Cinquecento, la collezione di antichità raccolta nel palazzo di piazza Campo Marzio, che alla fine del secolo contava ancora solo una statua di Venere nuda ed un Ercole acefalo,47 venne notevolmente accresciuta nei primi decenni del Settecento grazie agli scavi condotti nella vigna dei marchesi Nari, sulla via Salaria, poco al di fuori delle mura. Qui, in località Grotta Pallotta, furono rimessi in luce, tra il 1733 e il 1754, decine di titoli sepolcrali pertinenti, in gran parte, ai colombari dei Vigelli e degli Octavii,48 un prezioso patrimonio epigrafico che si andava ad affiancare alle importanti testimonianze archeologiche scoperte nel primo mi- glio dell’Appia Antica, presso il Casino suburbano dei marchesi: ricordati quasi in tutte le guide settecentesche, erano infatti l’iscrizione «della prima latinità», commemorativa dei lavori di spianamento del clivo presso l’antico tempio di Marte, oggi nella Galleria Lapidaria dei Musei Vaticani,49 ma che all’epoca faceva ancora bella mostra di sé nel palazzo di città, e la colonna miliaria relativa al primo miglio della via (partendo dall’antica porta Capena), presto finita a decorare la balaustra del Campidoglio.50 Celebre, nel Settecento, era anche il rilievo con fasci consolari 46 G. B. Piranesi, Raccolta di vasi antichi, Milano 1834, tav. 87, 1. 47 Sono le statue ricordate in J. J. Boissard, Romanae Urbis Topographiae, I, Francofurti 1597, p. 106. 48 Sui risultati di queste ripetute campagne di scavo, che restituirono oltre centoquaranta titoli sepolcrali, vedi C. Fea, Frammenti di Fasti consolari e trionfali, Roma, 1820, p. 58; G. Kaibel, Inscriptiones graecae. Inscriptiones Italiae et Siciliae, xiv, Berolini 1890, nn. 1580 e 1582 e Lanciani, op. cit. a nota 14, vi, pp. 120-121 e 146. L’esito dei primi anni di ricerche è stato illustrato nell’opera di Domenico Giorgi, Monumenta eruderata annis 1733-1735 in vinea Naria ad viam Salariam, conservata manoscritta alla Biblioteca Casanatense (ms 1125). Per le iscrizioni provenienti dai colombari dei Vigelli e degli Octavii, vedi anche cil vi, 7845-7859 e 7860-7877. 49 Vedi A. Uncini, Il «Registro generale» del 1823-1824, in BMonMusPont, ix, 1989, pp. 141-177, in particolare pp. 148 e 174, n. 316: a vendere l’iscrizione ai Musei Vaticani, nei primi anni dell’Ottocento, fu l’antiquario Ignazio Vescovali. 50 Vedi ad esempio Ficoroni, op. cit. a nota 9, i, pp. 156-157 (iscrizione) e ii, p. 50 (colonna miliaria) e N. Roisecco, Roma antica e moderna ossia nuova descrizione di tutti gl’edifizj antichi e moderni sagri e profani della città di Roma, Roma 1765, I, p. 494 (iscrizione). Sull’iscrizione relativa al Tempio di Marte, nota fin dal Medioevo, vedi cil vi 1270. 294 anna maria riccomini Fig. 15. F. Caucig, Diana, 1780-87. Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett (inv. hz 223), mm 333 × 215. Fig. 16. F. Caucig, figura femminile, 1780-87. Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett (inv. hz 82), mm 333 × 215. e tre littori, murato sulle scale di Palazzo Nari, un pezzo forse di recente scoperta (sarà ricordato, infatti, dal Winckelmann nei Monumenti antichi inediti) e oggi non più rintracciabile.51 Ma i marchesi dovevano vantare una ben più ricca collezione di antichità, se già la guida di Filippo Titi ricordava i «molti marmi antichi» del palazzo e il Ficoroni elencava, nel solo cortile, «le statue di Minerva, d’Alessandro, e altre ignote».52 Una raccolta destinata, tuttavia, ad essere ben presto dispersa, tanto che oggi si fatica persino a farsi un’idea della sua originaria consistenza: le iscrizioni funerarie provenienti dagli scavi sulla Salaria entrarono, già nel corso del Settecento, nelle principali raccolte private del tempo (quella del Ficoroni, del barone Astuto a Catania, di Scipione Maffei a Verona, del cardinale Guarnacci a Volterra) o finirono nei grandi musei di antichità, come quello Capitolino; almeno quattro statue antiche, oggi a Dresda, furono vendute nel 1778 dal marchese Nari al re di Polonia53 e delle altre si persero ben presto le tracce. Sono, ancora una volta, i disegni degli artisti attivi all’epoca a Roma a dirci qualche cosa di più su questa raccolta ormai quasi dimenticata: alcuni studi romani di Drouais indicano “al Palazo Nari” un curioso rilievo raffigurante una coppia con un bambino (un’ico- 51 Winckelmann, op. cit. a nota 28, v, p. 400. Il rilievo (descritto come altorilievo dal Winckelmann e con i tre littori «disbarbati e coronati d’alloro») non è identificabile con sicurezza tra i pezzi elencati in T. Schäfer, Imperii insigna. Sella curulis und Fasces. Zur repräsentation römischer Magistrate, Mainz 1989. 52 F. Titi, Studio di pittura, scoltura et architettura nelle chiese di Roma (1674-1763), ed. a cura di B. Contardi e S. Romano, Firenze 1987, p. 106 e Ficoroni, op. cit. a nota 9, p. 50. 53 Gasparri, op. cit. a nota 27. dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori nografia inedita e dalla difficile identificazione), e permettono di aggiungere a questa collezione anche un secondo rilievo, con figura di ninfa seduta su una roccia,54 un pezzo riprodotto (con la stessa indicazione topografica) anche da David, dal Caucig (Fig. 14) e dall’anonimo artista dell’album londinese55 e quasi certamente identificabile nel rilievo neoattico conservato oggi a Berlino (e di generica provenienza romana), che ancora conserva il tronco d’albero fedelmente documentato dal Caucig (Fig. 14a).56 Completavano la raccolta dei marchesi due statue femminili oggi perdute, o comunque di difficile identificazione (Figg. 15-16): una Diana del tipo Dresda, con arco e faretra, e una peplophoros dal lungo mantello ricadente sulla schiena e con un mazzo di spighe (?) nella sinistra, un’attributo che farebbe pensare ad un’interpretazione della figura come Cerere; a palazzo Nari la Diana venne riprodotta, verso la fine del Settecento, da David, oltre che dal Caucig e dall’anonimo dell’Album londinese,57 i due artisti cui si deve anche la testimonianza della presenza, nel palazzo, della peplophoros. 295 ne e insieme studio d’artista del pittore Joahnn Riedel, condivisa per alcuni anni da Franz Caucig e da Felice Giani e in seguito abitata da altri artisti stranieri interessati, come loro, allo studio dall’antico: ed è probabilmente all’interno di questa cerchia di artisti, dalla loro comune curiosità per la statuaria classica, che dovette nascere l’ambizioso progetto di un nuovo corpus delle sculture antiche di Roma, un repertorio aggiornato alle nuove scoperte settecentesche e ricco di curiosità inedite o poco note, un materiale prezioso che, se pubblicato, avrebbe forse orientato in modo diverso le ricerche degli antiquari e, magari, arginato l’incontrollata dispersione di tanti marmi antichi. Bibliografia Ancora tutte da indagare restano le vicende che portarono al formarsi di altre collezioni minori, come quella di palazzo Pedroni, documentata da alcuni disegni del Caucig e del Ms. Lanciani 35 e presto dispersa,58 e certo interessante sarebbe anche ricostruire la piccola raccolta (di marmi antichi? di gessi?) riunita nella casa di vicolo S. Isidoro,59 la modesta abitazio- Bernoulli 1894 = J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie. Die Bildnisse der römischen Kaiser und ihrer angehörigen, ii, 3, Stuttgart, Berlin, Leipzig, 1894. Bieber 1915 = M. Bieber, Die antiken Skulpturen uns Bronzen des Königl. Museum Friedericianum in Cassel, Marburg, 1915. Boissard 1597 = J. J. Boissard, Romanae Urbis Topographiae, i, Francofurti, 1597 Catalogue des objets d’art = Catalogue des objets d’art et de haute curiosité antiques, du Moyen Age et de la Renaissance qui composent les collections de feu m. le comte de PourtalèsGorgier, Paris, 1865. Collezioni Napoli = R. Cantilena, E. La Rocca, U. Pannuti, L. Scatozza, Le collezioni del Museo Nazionale di Napoli I,2, Roma-Milano, 1989 54 Vedi rispettivamente Ramade, op. cit. a nota 1, p. 91, n. 125 (il modello, non identificato, è interpretato come una scena raffigurante Ettore, Andromaca e Astianatte) e n. 124. 55 Rosenberg, Prat, op. cit. a nota 1, n. 831 (“nel palazzo Nari”); Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig hz 351 (“Pallazo Narri”) e Album londinese, fol. 69 (“Palazo Narni”). 56 Hauser 1889, p. 32, n. 39 e Fuchs 1959, p. 180, n. 13, tav. 27,b. Il rilievo appartiene ad una serie di repliche neoattiche riproducenti la scena di Hermes che conduce Bacco bambino alle Ninfe di Nysa, nota in repliche parziali (col solo Dioniso o, come qui, con la sola Ninfa pronta a prendere il bambino) e ben documentata, per intero, nel celebre “Cratere di Salpion”, reimpiegato fin dal Cinquecento come fonte battesimale nel Duomo di Gaeta e oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Ruesch, op. cit. a nota 42, n. 283). Vedi anche Saladino 2007-2008, p. 329, figg. 10-11. 57 Numerosissime sono le repliche conservate della Diana del tipo Dresda e dunque molto difficile diventa l’identificazione, senza ulteriori elementi documentari, della statua già nella raccolta Nari. Per il disegno di David, databile tra il 1775 e il 1780, vedi Rosenberg, Perronet, op. cit. a nota 1, p. 59, feuillet 5, n. 18 (“nel palazzo/nari”). Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig hz 223 (“Pallazzo Narri”) e Album londinese, fol. 63 (“Palazo Narni”). La statua di peplophoros, disegnata in Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig hz 82 (“Palla- zo Narri”) e in Album londinese, fol. 62 (“Palazo Narni”), sembra dipendere tipologicamente dal modello dell’Apollo Patroos creato ad Atene da Euphranor intorno al 330 a.C.: una replica romana dell’Apollo si conserva nel torso antico già nella collezione Odescalchi e oggi a Madrid (S. F. Schröder, Katalog der antiken Skulpturen des Museo del Prado in Madrid, II: Idealplastik, Mainz am Rhein 2004, n. 120, p. 135), reintegrato già nel Seicento, così da ottenere una statua che, curiosamente, presenta molte somiglianze con la scultura Nari (ma le vicende collezionistiche del torso Odescalchi permettono di escludere la sua presenza a Roma ancora alla fine del Settecento). 58 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig hz 194 e 270 (“Palazo Pedroni”), corrispondenti a Ms. Lanciani 1 e 158 (raffiguranti rispettivamente una Vittoria in volo e una Flora, entrambe non identificate). Il Palazzo è forse da riconoscere nel Palazzo Petroni, poi Cenci Bolognetti, dalla bella facciata di Ferdinando Fuga (1737), prospiciente su piazza del Gesù. 59 Due disegni a Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig (hz 722 e 723), raffiguranti rispettivamente un rilievo con Vittoria alata (non rintracciato) e un rilievo (probabilmente tratto da un sarcofago romano) con filosofo e Musa (non identificabile tra i tanti simili editi in Ewald 1999), recano infatti la didascalia “in meiner Wohnung”). Compagni di casa in vicolo di S. Isidoro furono, tra gli altri, anche Michael Köck, Franz Schmidt, e il tedesco Joseph Bergler, che avrebbe copiato numerosi disegni eseguiti dal Caucig (Ottani Cavina, op. cit. a nota 2, ii, pp. 908 e 938). 296 anna maria riccomini Conticello De’ Spagnolis 1985 = M. Conticello De’ Spagnolis, La collezione di sculture antiche in Palazzo Valentini, a cura di G. Farina, Roma, 1985. 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LINEE DI FUGA E PARALLELE Michela Scolaro En essayant d’écarter les ténèbres avec ses doigts. Il s’est déchiré la figure et le cœur. Parigi, 1917, rue Gabrielle. È quasi sera, nella stanza del poeta Max Jacob, Pierre Reverdy, più giovane amico, poeta a sua volta, si avvicina incuriosito e incauto a un baule pieno di carte. È un attimo. Un lampo che frantuma la dolcezza della sera. L’ideale d’una sensibilità condivisa. È il gesto che abbassa brusco il coperchio e cambia la storia. Adieu Paris. Addio belle speranze, nasce il Ladro di talento.1 Qui non ci sono coperchi e, propriamente, non ci sono ladri. Al contrario, in questa storia il talento emerge alimentato dallo scambio, si rafforza nel confronto, le labbra bruciate a ogni parola dall’urgenza di comunicare, gli occhi dilatati dall’ansia di non perdere nulla. Ma se è vero, come è vero, che l’arte cresce sull’arte e che ogni opera è il risultato positivo di un’influenza e della sua angoscia,2 allora questo, a ben guardare, al contrario di quanto detto e fuor d’invenzione poetica, è proprio il tentativo di raccontare l’incontro di ladri di talento. La scena è diversa, all’inizio, ma non meno suggestiva e, anche in questo caso, si tratta di due artisti. Venezia, 1910, Ca’ Pesaro ll ’ esposizione primaverile della Fondazione Bevilacqua La Masa un giovane trevigiano, Arturo Martini (1889), si era soffermato a lungo davanti alle opere presentate da un pittore quasi coetaneo, Gino Rossi (1884), lasciandosi pervadere dalla poesia e dalla forza che le informava, dalla capacità di sovvertire senza clamori un orizzonte così stanco oramai d’attese da risultare quasi indifferente al nuovo, come insensibile al suo valore, ai suoi significati. Non fosse stato per l’attenzione sempre vigile a evitare l’ignoto, col suo potenziale pericolo e le conseguenti, inevitabili, derive incontrollate. Proprio nella città assurta a simbolo di un passato tanto splendido quanto opprimente, dal quale occor- A 1 P. Reverdy, Il ladro di talento, ed. it., Torino 1972. Tutti i versi citati nel testo sono tratti da quest’opera. 2 L’angoscia dell’influenza teorizzata da Harold Bloom, si ricorda, è una categoria elaborata per comprendere il rapporto di un autore con i suoi precursori e le strategie messe a punto per difendersi e poter creare, comprende: clinamen, correzione; tessera, integrazione; kenosis, svuotamento; daemonization, repressione; askesis, limitazione; apophrades, ritorno del precursore. reva liberarsi a ogni costo, proclamavano i Futuristi,3 era maturata l’offerta di un’espressione inedita, capace di corrispondere allo spirito del tempo, che, giovane ancora, richiedeva dell’altro, agli artisti, ai teorici, ai governanti. Pretendeva di non fermarsi alla superficie delle cose, che Albert Einstein aveva rivelato aver più dimensioni, di scendere nelle profondità ancora inesplorate dell’uomo, come insegnava a fare Sigmund Freud, di cercare al di là del mutevole, dell’accessorio, dell’effimero, l’essenziale, il durevole, ragioni e verità. Grazie all’arte a dispetto del tempo, che scorre, e dello spazio, che cambia, è possibile ricostruire alcuni passi del dialogo tra Gino Rossi e Arturo Martini. Il sentimento provato da Arturo Martini davanti ai dipinti di Gino Rossi trama le parole di Nino Barbantini: «i fasti di Ca’ Pesaro non ebbero inizio che nel 1910, quando ci raggiunsero due tele, Il muto e La fanciulla del fiore, che a me e a pochi amici con gli occhi aperti apparvero bellissime. Era arrivata la gioventù».4 I giovani in questione si erano incontrati pochi mesi prima, alle spalle avevano origini e storie diverse ma li univa un ideale comune e la stessa appassionata volontà di perseguirlo. Il fascino degli oggetti d’arte e l’influenza del luogo svolsero certamente un ruolo più importante nella formazione del pittore veneziano che non i rudimenti appresi non appena lasciati gli studi presso gli Scolopi di Badia Fiorentina. Grazie al padre agente per il conte Bardi, collezionista d’arte orientale in palazzo Vendramin, Rossi conobbe presto e da vicino la squisita raffinatezza dei manufatti che avevano incantato l’Europa. Porcellane, smalti, cristalli, avo3 Si veda il testo del volantino lanciato Il 27 aprile 1910 dalla Torre dell’Orologio di piazza San Marco, Contro Venezia passatista: «Noi vogliamo guarire e cicatrizzare questa città putrescente, piaga magnifica del passato», in Archivi del Futurismo, a cura di M. Drudi Gambillo e T. Fiori, Roma 1958, vol. 1, p. 19. 4 N. Barbantini, Quindici anni di sodalizio con Gino Rossi, in Scritti d’arte, a cura di G. Damerini, Venezia s.d., p. 271. «rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 299-308 300 michela scolaro ri, materie lisce e preziose la cui forma esalta, con l’ornamento, il valore della linea. Chine e acquerelli. Crebbe tra gli arabeschi e l’oro, prodigi millenari della Serenissima che le Secessioni dovevano riportare in uso, imparando a scorgere dietro alle cupole e agli archi che interrompevano l’orizzonte basso della laguna, l’onda fluida e continua di Bisanzio. Le Biennali gli avrebbero proposto alcuni esempi. Ma soprattutto dalla sua città in forma di museo, in cui passato e presente, natura e artificio convivono in miracolosi accordi, doveva ricevere il suggerimento fondamentale: occorre muoversi nel tempo oltre che nello spazio. Prima di De Chirico e di Carrà, prima di Casorati, ladro di talento come è inevitabile sia il genio, Rossi si volse proprio a quei templi della memoria, ai musei – i cimiteri dei Futuristi – per trovare risposte ai dubbi, ai mille interrogativi d’esistenza e d’arte che l’avrebbero portato ben presto sotto altri cieli. Superato il trauma della scuola dell’obbligo, Arturo Martini era cresciuto nella magia medioevale della Treviso prebellica, rievocata nei Colloqui con Gino Scarpa:5 «fatale come luogo di nascita. Ora lo capisco, lo vedo dopo trent’anni […] Quei portegheti, i Buranelli, la Pescheria con quell’isola centrale le acque, la disposizione delle chiese (o chiuse?), le vie particolari». Gli affreschi di Tomaso da Modena e i giornali umoristici. Apprendista orafo dal 1904, seguì i corsi serali d’arte e mestieri tenuti da Giorgio Martini, incisore e grafico, padre di Alberto. Disegnava e modellava con passione, come attestano le note positive sulla stampa locale che accompagnarono il suo debutto – con un busto di Giuseppe Mazzini – alla mostra di fine corso (agosto 1905, poi Roma, iniziativa del Ministero dell’industria). Gli furono utili, inoltre, le lezioni dello scultore Antonio Carlini, che gli insegnò «a formare, a cavare le forme dalla creta in gesso, e io so cosa vale saper questo. È un lavoro quasi mitologico; levare la forma mi ha dato in tutti i periodi possibilità diverse». Di questi primi anni d’attività rimangono scarse testimonianze, Martini realizzò piccole sculture, che lo rivelano portato a rendere i soggetti con vivace immediatezza, già sicuro delle sue capacità espressi5 A. Martini, Colloqui sulla scultura 1944-1945, raccolti da G. Scarpa, a cura di N. Stringa, Treviso 1997, p. 179. 6 Di quelle avventure serbano vivace ricordo alcuni brani di Martini, op. cit. a nota 5, in cui l’artista racconta dei viaggi in terza classe, premiati dai pidocchi, dei brevi sonni notturni in un capannone vici- ve, sia nella plastica di gusto impressionista sia nella stilizzazione sinuosa d’ascendenza Liberty. Anche le caricature eseguite per il foglio satirico «L’oca», al quale collaborava dal marzo del 1905, confermano la sua vocazione alla sintesi lineare. Intanto, per lui, si moltiplicarono le occasioni di incontro, di conoscenza, di riflessione. Visitò la mostra di Belle Arti presso l’Esposizione Universale di Milano (1906), si recò spesso a Venezia «per imparare»,6 fino a che la sovvenzione del Comune di Treviso gli consentì di allungare le sue permanenze in laguna. Profondamente affascinato della Serenissima, Martini frequentava i musei, copiava bassorilievi e mosaici, seguiva la linea. Le sale del bianco e nero della Biennale, che fornivano aperture sulle novità europee ben oltre le singole pur eccellenti occasioni, gli avevano offerto numerosi spunti di riflessione: James Ensor, Odilon Redon, Felicien Rops sono alcuni degli incisori presentati in quell’inizio di secolo. Non un coperchio bensì un cassettone doveva risultare fatale per il giovane scultore nel 1908, nello studio di Urbano Nono. Vi erano contenute venti fotografie di opere di Medardo Rosso, allora sconosciuto in Italia. Fu una rivelazione: «E mi, che aspettavo qualche cosa di vitale, è stato come buttare dell’aceto sul latte». E un trauma. Quelle forme dissolte dalla luce smentivano ogni convinzione. E il finale della storia si ripete: «El me ga mandà via». Il faut couper toutes les entraves et partir les mains devant. Versione ridotta del Grand Tour che, storicamente, compiva la formazione della gioventù europea dotata di talenti o di fortune, fu la prima, fondamentale esperienza di viaggio condotta da Rossi a Parigi e in Bretagna, e da Martini a Monaco di Baviera, quasi un preludio all’avventura comune che li attendeva nel 1912. Ai loro occhi doveva offrirsi l’Europa della più straordinaria modernità, quella solo intuita per frammenti attraverso le sale della Biennale o dalle pagine delle riviste. A Parigi, nel 1907, incerto ancora sulla solidità delle sue basi e sulla qualità della strabiliante offerta che caratterizzava la scena artistica della capitale, Rossi no alla stazione, della fame, della stanchezza e delle lacrime per l’emozione e il senso d’impotenza provate al cospetto delle opere dei maestri del suo tempo: Segantini, Morbelli, Mancini, Nomellini, Grubicy, Bistolfi … lo affascina anche l’aggraziato realismo di Troubetzkoj, già apprezzato alla Biennale del 1903. linee di fuga e parallele 301 frequentò per qualche tempo lo studio dello spagnolo Hermenegildo Anglada y Camarasa,7 apprezzato e superficiale pittore di soggetti ‘à la page’. «Maestro delle corride, tenebre con i verdesini» – ricorderà Martini – «Si ispirava da quella barbarietà dell’arte minore spagnola», Anglada, l’unico inciampo di Rossi al debutto parigino, doveva trattenerlo ben poco. La Ville Lumière, in quegli anni effervescenti d’inizio secolo, era una festa, secondo Hemingway, il capolinea del mondo nell’opinione comune, la Nouvelle Athène per le arti. Era un incredibile concentrazione di energie provenienti dal vecchio continente e dal Nuovo, difficile non sentirla come la tensione stessa che alimentava la folgorante Fée Electrique. Solo dall’Italia, nel breve giro di quei mesi, erano giunti Amedeo Modigliani, Leonardo Dudreville, Gino Severini, Anselmo Bucci, precursori di una intera legione d’artisti, della feconda compagine che sarebbe stata detta des Italiens de Paris. Il Salon d’Automne del 1907, scorrendo i resoconti di Guillaume Apollinaire,8 non presentava novità di rilievo e le opere di Cézanne, scomparso da pochi mesi, lo rappresentavano ‘scientemente’ in modo inadeguato. Occorreva integrare la conoscenza con una visita alla galleria Bernheim, dove facevano bella mostra di sé dodici capolavori, tra i quali un Ritratto di M.me Cézanne, alcune nature morte e un incredibile paesaggio capace di afferrare, di assorbire l’ignaro osservatore: «On vit revenir Frantz Jourdain [presidente del Salon d’Automne], rouge et essoufflé. Il apparut d’abord tout petit dans le fond du paysage et grandit en approchant». Nessuna sorpresa che Jourdain ritenesse quei dodici dipinti «quanto di più pericoloso». Alcuni Matisse, «le fauve des fauves», tra i quali Le luxe I, Vlaminck e Braque ricordavano le polemiche divampate per via della ‘prova del fuoco’ alla quale gli intrepidi coloristi, resi gruppo da una giuria ansiosa di circoscrivere il nuovo in una sola sala – la vii –, avevano sottoposto i visitatori del 1905. Nonostante le migliori intenzioni d’Elie Faure: «Nous devons avoir la liberté et la volonté de comprendre un langage absolument neuf»,9 non condivise dal presidente della Repubblica Emile Loubet, che si rifiutò d’inaugurare la mostra, e da buona parte della stam- pa, che sosteneva: «un pot de peinture a été jeté à la tête du public». Una situazione difficile, assolutamente sgradevole, che Gino Rossi e Arturo Martini dovevano sperimentare direttamente e in più occasioni, di lì a poco, negli «anni eroici di Ca’ Pesaro». Al momento, a Parigi, il giovane artista moltiplicava le emozioni, le scoperte e gli studi. Evento clou della stagione culturale appena trascorsa era stata la retrospettiva dedicata a Paul Gauguin, che aveva riportato l’attenzione sull’intera cosiddetta Scuola di Pont-Aven e sui Nabis. Altrettanti esempi e conferme fondamentali per l’artista, che completava altresì la sua formazione alternando al caos vitalissimo delle mostre, delle strade e degli ateliers la riflessione nelle sale silenziose del Louvre, negli ambienti suggestivi e raffinati del Musée de Cluny e Guimet, della casa museo di Jacquemart-André. Se pure molti elementi acquisiti in questa prima esperienza avrebbero dato esiti evidenti in un più distante futuro, il pittore che intraprendeva la strada per la Bretagna, ripercorrendo con fiducia i passi di Gauguin, ancora una volta riconosciuto maestro, aveva già ben chiari i termini fondamentali del discorso. Il vibrante accordo tra l’uomo e la natura, la luce e la retina, istituito per un attimo dagli Impressionisti, era già stato ampiamente superato. Doveva rivelarsi a breve quanto insanabile fossa la ferita causata dal crollo dell’illusione positivista. Ancora teneva l’ideale di una possibile armonia, nella vita e nell’arte, ma, come dimostrato al più alto livello proprio dall’esule di Pouldu, della Martinica e delle isole Marchesi, per cercare di stringerlo e renderlo concreto occorreva lasciare la città e la civiltà, le conquiste della scienza e della tecnica, il benessere equivoco del comfort, il progresso e i falsi miti dell’evoluzione progressiva. Si trattava ancora di una linea, erroneamente ritenuta retta, continua e solida. Gino Rossi aveva piena consapevolezza, invece, che tra le qualità della linea, l’eleganza e il dinamismo, il suo potere d’evocare, era insita la stessa fragilità che si ammira nei cristalli finemente intagliati, nelle trasparenze opaline delle porcellane. Sentiva con precisione che un quadro è in primo luogo una 7 Presente alle Biennali del 1903-1907. 8 G. Apollinaire, Chroniques d’art 1902-1918, Paris 1960. 9 E. Faure, catalogo della mostra, préface: «Il a le bonheur de grouper les jeunes énergies que le belles manifestations trop inquiètes, trop dispersées des Indépendants n’avaient pas pu nous faire pres- sentir, et c’est au spectacle des plus vivants efforts qu’ait accomplis depuis trente ans l’art français que convient ces étendards d’or». Per un quadro più ampio, si veda l’eccellente: Le fauvisme ou “l’épreuve du feu”, catalogo della mostra, Paris 2000. 302 michela scolaro superficie dipinta e poi il soggetto a volta a volta raffigurato, come aveva spiegato Maurice Denis,10 che va, di conseguenza, voluto e costruito. Sovrapponendo alla realtà apparente quella immaginata, ricreata con emozione sincera e mestiere. Con gli strumenti figurativi dell’ideale, dell’astrazione: il ricordo, la linea, il colore unito. Dalla Bretagna si spinse al nord, fino alla baia di Douarnenez. Eseguì una serie di opere di straordinaria intensità e lirismo, raccolse spunti e motivi che il tempo avrebbe rivelato fecondi. La luce più netta che definisce i contorni e appiattisce i colori valorizza la lezione dei maestri giapponesi, ben presente all’artista anche a livello di composizione. Essenziale e rigorosa. Al disegno e al colore, si affida l’espressione di una poesia interamente concentrata nella pittura. Al rientro in patria è un sovrapporsi di orizzonti, di linee basse d’acqua e terre affioranti. L’isola di Burano lo accolse insieme alla moglie pittrice, al triestino Umberto Moggioli e, ben presto, a Pio Semeghini. Personalità diverse che esprimevano con accenti e modi originali la stessa vocazione, strette per un breve tratto nel sodalizio creativo della Scuola di Burano. È una linea drammaticamente tesa, meno lirica e più moderna quella seguita da Martini a Monaco. La linea delle Secessioni e dell’Espressionismo, quella solo allusa dalla Giuditta II presentata da Klimt alla Biennale del 1899, ben motivata da Max Sauerlandt: «chi non è in grado di avvertire che il divino, l’umano, il diabolico e tutti i moti dell’anima possono essere espressi nella forma astratta di una linea o di una decorazione mossa resterà interdetto anche davanti a un quadro o a un’immagine».11 Lo stesso Martini commentava i fatti, le circostanze, le persone, conferendo vero spessore di vita a quello che riteneva il suo «periodo più infelice».12 «Tragedia monegasca. Era di moda in Italia di andare a Monaco. Mi ha fregato dieci anni per cavarmi la nebbia decorativa. Andato a Monaco invece che a Parigi, dove avrei trovato Renoir e i grandi. E invece ho trovato Hildebrand, che era un tecnico, ma l’opposto della mia mentalità. E mi sono incantato di 10 M. Denis: «Se rappeler qu’un tableau – avant d’être un cheval de bataille, une femme nue, ou une quelconque anecdote – est essentiellement une surface plane recouverte de couleurs en un certain ordre assemblées», 1890. Al proposito, si vedano: Maurice Denis, catalogo della mostra, Paris 2007; Nabis 1888-1900, catalogo della mostra, Paris 1994. Franz Stuck […] Mi sono messo nel movimento secessionista». Al di là delle ragioni pratiche contingenti e del giudizio negativo retroattivo sono più interessanti le considerazioni di Martini sulle difficoltà che un giovane artista deve superare per essere se stesso: «in questo viaggio alla ricerca della sua personalità l’artista cammina come allucinato in balia di ogni Fata Morgana, deviando a ogni apparenza, e dopo mille speranze deluse si volta a chiedere aiuto ad altri disperati che ne sanno come lui e meno di lui […] questo è il tempo del suo più grande supplizio, è l’epoca delle eroiche prove, delle grandi fatiche aumentate dall’inesperienza e delle grandi speranze liquidate da mediocri risultati fino a credersi dei perfetti imbecilli. Nessuno sa cosa voglia dire per un artista giovane, che sente di aver qualcosa da dire, sentirsi ogni giorno più degradato e smarrito e che più fa per sciogliere la matassa dell’arte e più invece la complica, e che più discute e sente, più si confonde, e più non cede in purezza più si sprofonda nella miseria».13 Per Gregorio Gregorj realizzò una serie di disegni con motivi decorativi per piastrelle, vasi e piccole sculture. A prescindere dalla valutazione negativa che avrebbe dato in seguito, si tratta di opere esemplari che attestano la qualità di adesione a un’estetica meno distante di quanto sembri dai suoi esiti. La linea dinamica che spiritualizzava le superfici, l’arabesco ideale per esprimere l’élan vital, dovevano trasformarsi ben presto nell’inquietante tracciato di un labirinto. Le rose senza spine dello Jugendstil sarebbero sbocciate in una foresta di rovi, simbolo scoperto della realtà che circondava l’uomo contemporaneo. Una volta sollevato il velo di Maya, non c’era ottimismo sufficiente a credere che i sogni intessuti da Olbricht riuscissero a nascondere l’abisso per più di un istante. Bastava esasperare lo slancio della linea o, al contrario, raggelarla. Come faranno gli artisti espressionisti. Come avrebbe fatto Arturo Martini che, in quell’anno scarso di soggiorno monacense, compì un tratto importante della sua evoluzione, perfettamente coerente sotto tutti i punti di vista. Frequentò gli ambienti artistici all’avanguardia e seguì attentamente l’azione esercitata dalla caricatura, protagonista influente della vita sociale in virtù 11 M. Sauerlandt, Im Kampf um die moderne Kunst. Briefe 1902-1933 [In lotta per l’arte moderna. Carteggio 1902-1933], Monaco 1957, p. 8. 12 Martini, op. cit a nota 5, p. 158. 13 Martini, op. cit. a nota 5, pp. 156-157. linee di fuga e parallele della capacità di diffusione dei periodici di critica e di satira. «Avevo abbandonato il secessionismo per i caricaturisti tedeschi che mi parevano più interessanti. I tedeschi non hanno di artistico, anche adesso, che i caricaturisti». Di autentico, tuttavia, e intensamente percepibile, vi era altresì quella particolare disposizione dello spirito riconosciuta propria dell’animus germanico, la vocazione all’assoluto. Una tensione del tutto connaturata all’artista veneto. Fa che io serva solo a me stessa. Fa di me un arco dello spirito. Fa che io non sia più rupe, ma acqua e cielo. Fa che io non sia piramide, ma clessidra per essere capovolta. Fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione. Fa che io non sia un confronto, ma un’unità Fa che io non sia un’immagine, così non mi esalteranno Fa che io non sia una pietra miliare dell’uomo, ma della mia natura. Fa che io non sia una vistosa virtù, ma un oscuro grembo. Fa che io non sia un peso, ma una bilancia. Fa che io non serva come una moneta, per comodità pratiche. Fa che io non resti nelle tre dimensioni, dove si nasconde la morte. Fa che io non sia prigioniera di uno stile, ma di una disinvolta sostanza. Fa che io sia l’insondabile architettura per raggiungere l’universale.14 A scorrere le immagini delle opere riferite a quei primi anni d’attività, siano plastiche o siano disegni e incisioni, emerge la straordinaria capacità di Martini di governare tecniche, materie e registri, di passare con estrema nonchalance dal riso al pianto, dal bozzetto impressionista al figurino di linearismo impeccabile, dalla caricatura, che sintetizza soggetti e significati nell’ironia di pochi segni, alla dilagante necessità gestuale assorbita dalle cheramografie. Nel ricordo sono coinvolte suggestioni lontane, del miglior Ottocento italiano, di Adriano Cecioni e Vincenzo Gemito, echi di Francia, da Honoré Daumier a Medardo Rosso, di riprese neoclassiche alla von Stuck o dal Simbolismo, fino alle più recenti scoperte di «Ver Sacrum», «Simplicissimus» e dell’opera di Ernst Barlach, scultore e ceramista. E se il mezzo uti14 È la preghiera che la scultura rivolge all’artefice, in A. Martini, La scultura lingua morta, s.l. 1945. 15 C. E. Oppo, Alla Esposizione Primaverile di Firenze. Valori Plastici, in L’idea Nazionale, 15 luglio 1922, ripreso in Cipriano Efisio Oppo. Un legislatore per l’arte. Scritti di critica e di politica dell’arte 1915-1943, a cura di F. R. Morelli, Roma, 2000, pp. 98-101, e da F. Fergonzi, nell’approfondita analisi delle fonti scultoree dell’artista trevigiano effettuata in occasione della mostra Arturo Martini, a cura di C. Gian Ferrari, E. Pontiggia, L. Velani, Milano 2006-2007, pp. 69-80. 303 lizzato seleziona spontaneamente, seguendo l’istinto, i modelli d’elezione, non si può fare a meno di sottolineare quanto ampio, vario e raffinato fosse il repertorio a disposizione dell’artista già nei primi anni del secondo decennio del secolo. Quanto fosse già radicata l’attitudine che doveva farlo definire di lì a poco, da parte di Cipriano Efisio Oppo, «l’uomo più assimilatore che si conosca».15 Da Balla e Boccioni prefuturisti, che traspaiono nell’intenso Ritratto della madre, alla libertà del tratto matissiano di Luxe calme et volupté, al quale rimandano le curve carezzevoli delle figure del Sogno, della Musica, delle Bagnanti. Per quanto abbandonata, la Secessione ritorna tanto nelle macabre anatomie dei baudelairiani Fiori della morte (1911), quanto nel più avanzato Ritratto di Giovanni Comisso (1916). Sciolto da qualsiasi abbraccio è il Superuomo di spalle, memore del Fregio di Beethoven16 realizzato da Gustav Klimt nel 1902 e riproposto nella Biennale del 1910. Mentre è alla grafica espressionista dei maestri di Die Brücke che rimandano le xilografie delle Due Bagnanti e del ciclo de La talpa. La linea continua delle stampe giapponesi, gli alberi con le chiome a nuvola che ripartiscono lo spazio de l’Ultima strada (1913), come il Cespo di rosa, la Pastora, la Fanciulla che legge e quella piena d’amore richiamano i nomi di Gauguin, di Modigliani, dietro a quello più familiare e immediatamente accostabile di Gino Rossi. È ora di tornare a Ca’ Pesaro.17 Al suo interno, intorno alla figura di Eugenio (Nino) Barbantini, primo direttore della Fondazione Bevilacqua La Masa dal 1907, si riunì, infatti, sono parole di Martini, «Il primo movimento vero in Italia, precursore dei movimenti moderni in Italia […] io e Gino Rossi, ancora i due artisti più veri che abbia l’Italia». La stessa consapevolezza sosteneva altresì Gino Rossi, araldo della «giovinezza ignota» chiamata da Barbantini a esprimersi – come da regolamento – nell’ammezzato del palazzo del Longhena affacciato sul Canal Grande, prestigiosa sede della Fondazione. Il poetico maestro della Fanciulla del fiore, era l’altra 16 In occasione della xiv Esposizione della Secessione viennese. 17 Fondamentale per la ricostruzione non solo delle vicende dell’Istituzione e dei personaggi che vi furono coinvolti ma della più ampia scena italiana di riferimento, sono gli studi contenuti nel catalogo: Venezia. Gli anni di Ca’ pesaro, 1908-1920, a cura di F. Scotton, Milano 1988. 304 michela scolaro anima, combattiva e appassionata, dell’Istituzione, alternativa inevitabile alla Biennale, alla quale venivano invitate a partecipare solo autorità accertate, interpreti di valori tradizionali secondo modalità altrettanto codificate. L’attrito era inevitabile.18 E nella lotta, intrapresa con vera giovanile irruenza, sarebbe rimasto sul campo proprio il più fragile e arrischiato. Il tratto aristocratico, nella persona e nei modi, la buona formazione, le esperienze di vita e le conoscenze aggiornate confluite in una precisa coscienza artistica, si univano in Gino Rossi a un’innata capacità di coinvolgere, di convincere arrivando nell’intimo. Fu un naturale e subito riconosciuto capofila, che conquistava con la pittura, con la parola, con l’esempio. La sua arte, il suo impegno, non erano volti solo a esprimere una visione personale ma aspiravano a conseguire un benefico fine collettivo: «l’ideale sarebbe di coordinare tutto il movimento giovanile italiano – scriveva nel 1910 – di raccogliere tante belle forze diverse, tante energie che noi ignoriamo ancora, altrimenti la nostra opera rimarrà limitata, e non riusciremo mai a svecchiare l’ambiente italiano». È quanto avrebbe contribuito a realizzare insieme a Nino Barbantini e ai colleghi più ardenti, da Felice Casorati a Umberto Boccioni, passando, naturalmente, per Arturo Martini. A legare fino a formare «tutti una famiglia» personalità così diverse e originali, non fu un’ideologia di gruppo strutturato o una declinazione di stile comune ma il «doppio filo», avrebbe ricordato Barbantini, di «una passione tale per l’arte […] una tal fede nella vita e in noi stessi», da non precludere alcun apporto purché «onesto» e «sincero». Così scriveva Rossi, firmatario insieme alla moglie, a Martini, Malossi e Pavan, della dichiarazione d’intenti indirizzata al direttore di Ca’ Pesaro: «anima libera e forte, che solo tra tutti ci inviò la sua entusiastica e giovanile adesione che comprende i nostri sforzi, le nostre idealità, e che ci seconda nella nobile e bella battaglia, il gruppo giovanile trivigiano manda il suo fervido ringrazia- mento e prende impegno fin d’ora di fare il possibile acciò la prossima permanente veneziana, sia fiera risposta, e monito insieme, alla grande camarilla, piaga di favoritismi, e di dedizioni vergognose che si chiama la biennale veneziana». Era il 1911 e di lì a poco, chiuse le sale personali offerte da Barbantini alla mostra primaverile, nel 1912 Rossi e Martini sarebbero partiti alla volta di Parigi, in compagnia di Bepi Fabiano. È adesso, più che mai, in questo tratto della straordinaria avventura condivisa che li vide, ennesimi emuli di Rastignac, affacciarsi sulla capitale del xx secolo, che assumono definitiva consistenza gli elementi che inducono a riconoscerli protagonisti della versione italiana del sodalizio più illustre e tragico dell’arte contemporanea, quello tra Vincent Van Gogh e Paul Gauguin.19 Tra le testimonianze biografiche e quelle eloquenti delle opere prende corpo questa riprova, con minime varianti, dell’eterno ritorno dell’identico. I precursori evidenti sulla via della creazione si trasformano, a ben vedere, in funesti modelli occulti. Anche tra loro era una distanza di cinque anni e l’arte il valore primario, il nucleo centrale della vita, quello in cui confluiscono ragioni e aspirazioni irragionevoli, in cui esplodono i conflitti e si compongono. Vicine, sostanzialmente, le strategie individuate per raggiungere l’obiettivo. Ma non poteva bastare. Gauguin aveva la «legittima ferocia dell’egoismo produttivo», Van Gogh coltivava l’illusione di una comunione totale, di un’intesa perfetta fino all’annullamento dell’io nel noi. L’assoluto presagito da entrambi sarebbe stato il precario collante di un impossibile accordo, il motivo di un incontro/ scontro fecondo e mortale. La sensibilità estrema, l’inclinazione al patetismo e l’incapacità di far fronte a una realtà ben diversa da quella colorata e vibrante dei suoi quadri, dovevano scontrarsi con la durezza allenata dal selvaggio, incline «alla tirannia» pur di conservarsi integro e libero. Echi esaltanti di quel dialogo sono i capolavori realizzati a gara, a fianco a fianco o a controcanto, gli autoritratti con dedica re- 18 Se alla prima occasione, nel 1908, Antonio Fradeletto, Segretario onnipotente della Biennale, richiamava Barbantini per aver osato richiedere la presenza di artisti già noti – Ciardi, Fragiacomo, Laurenti e Milesi –, venendo meno alla norma che riservava soltanto ai giovani la vetrina di Ca’ Pesaro, Barbantini criticava duramente la immotivata pretesa della Biennale di mostrare il nuovo: «Lei sempre dice e torna a dire e fa giurare e spergiurare dalla falange compunta dei critici ufficiosi pendenti dalle sue labbra, che l’arte di tutto il mondo di ieri e di oggi fu riassunta dalle mostre che si sono susseguite dal 1895 in giù […] lei invece ha fatto pochissimo, e quel poco l’ha fatto male…». La lettera è datata 1912 e nel gruppo dei ribelli, dei novatori ospitati in quei pochi anni di attività nelle salette dell’ammezzato di Ca’ Pesaro, si annoveravano Boccioni, Casorati, Moggioli, Garbari, Marussig, Scopinich, Wolf Ferrari e altri, oltre, naturalmente, a Gino Rossi e Arturo Martini. A questa prima lista sono da aggiungere, appena pochi mesi dopo, i nomi di Ubaldo Oppi, Mario Cavalieri e Vittorio Zecchin. Erano i prodromi di una lotta che sarebbe stata senza esclusione di colpi. 19 Per orientarsi nella bibliografia sterminata relativa ai due artisti è fondamentale strumento il catalogo della mostra: Van Gogh e Gauguin, Milano 2002. linee di fuga e parallele ciproca, espressa o celata. Con gli autolesionismi esibiti, omaggi ben più che colpevolizzanti. Indizi sulla strada di un’ulteriore affermazione di amore e di morte. Anche quella di Gino Rossi e di Arturo Martini, pure modelli l’uno per l’altro, fu una ricerca dell’assoluto, tesi a superare se stessi e il proprio tempo, per realizzare nell’arte una dimensione ideale, per rendere concreto un sogno individuale e collettivo. Di Van Gogh Gino Rossi condivideva la piega amara del sorriso, la tendenza a innamorarsi e a drammatizzare, a eliminare ogni filtro tra sé e il mondo. Un’operazione altamente pericolosa che, per quanto ripagasse con una visione più intensa e trasfigurata sulla superficie della tela, accumulava ferite sul cuore. È la stessa umanità derelitta che l’olandese ritraeva a Nuenen, quella privilegiata dal maestro del Muto, del Bevitore, dei pescatori buranesi o dell’Uomo dal canarino. Definizioni che colpiscono per il contrasto tra lo stile, energico, corposo, e la totale assenza della partecipazione emotiva che perfino l’ironia, con il suo accento amaro, prevede. L’umanità, per quanto al suo più elementare livello, ha per Rossi una capacità di imporsi che non richiede altro, per farsi figura significante, che di registrarla, di seguire la verità cieca della natura, facendo emergere col gesto il soggetto dalla materia indistinta. Proprio come faceva Martini nelle plastiche tormentate di quegli anni, nel Ritratto di Omero Soppelsa, nel Figliol prodigo, nella Maternità, repliche dirette all’amico pittore quanto esperimenti paralleli. Del tutto opposta l’attitudine di Rossi che si rileva nel rapporto col modello femminile. Se la Fanciulla del fiore è l’icona giovanile che riassume l’ideale amoroso dell’artista, rispettoso e devoto come un poeta del Dolce Stil Novo, la Signora ritratta nel 1914, così come l’Educanda, la Ragazza del 1920 o la Fanciulla che legge del 1922, accolgono nelle loro forme un sentimento maturo e affinato. I contorni più larghi, la stesura asciutta, il cromatismo severo costruiscono l’immagine di un riferimento che si afferma ideale e concreto al contempo. Sono presenze ammirate senza effusioni, che concentrano il senso della solidità dell’affetto e dell’essere, rappresentanti di un universo equilibrato a cui tendere. Quando sono popolane le donne di Rossi vestono anche panni colorati e portano fazzoletti in testa, possono avere fisionomie più marcate ma sono indenni da quel grado zero dello 305 spirito che si riscontra nei corrispettivi maschili, rilevato senza alcun enfasi dal pittore, egualmente indenne da ogni vicinanza emotiva. Di Gauguin Arturo Martini condivideva l’urgenza e l’irruenza, era animato dallo stesso senso di dover affermare sempre «il diritto di osare tutto». Al pari dell’esule volontario nei mari del Sud era completamente assorbito da una necessità imperiosa di essere se stesso. Che conquistava e travolgeva chi gli era vicino, che lo isolava, condannato alla solitudine, o lo costringeva a gettarsi nella mischia, sottoposto al logorio del contrasto continuo. Come Gauguin era curioso e sperimentale: materiali, generi, stili, tutto era oggetto di ricerca e si trasformava in espressione. Perfino le avverse condizioni economiche che lo privarono, come Gino Rossi del resto, della possibilità di acquistare l’occorrente per lavorare, divennero l’occasione per provare altre tecniche, rinnovando procedimenti quasi sconosciuti, come l’incisione su placche di ceramica che Giovanni Comisso riteneva avesse addirittura inventato. Nulla di ciò che faceva o che creava rimaneva inosservato. Conobbe presto il favore della critica e del mercato, così come il rifiuto e il rumore dello scandalo. Seppe modulare tutti i toni e tutti i registri. Dolce, ironico, raffinato e popolare, fiabesco e realistico. Quando inventava, come Gauguin non temeva «le astrazioni più spinte» e vinceva «ogni timidezza». Eppure, proprio a causa di Gauguin, Martini avrebbe formulato un giudizio severo su Rossi, che ritiene debole nella composizione. «Amava immensamente Gauguin, amore pericoloso, perchè non si accorse dei più grandi, e che fu il principio di tutta la malattia, cioè di quella fastosa inesperienza che passò poi per originalità. Amore dell’antico. Rossi studia a Parigi i cinesi (o i giapponesi) del Museo Guimet, e Gauguin. Tanto è vero che di tutti e due (di Rossi e di Gauguin) la pittura deriva dai vasi ceramici cinesi (opere popolari). Era geloso. Mi ha nascosto l’esistenza del Museo Guimet».20 E ancora: «Non dobbiamo credere che tutto nascesse da là [dai movimenti parigini]. Nasceva contemporaneamente questo bisogno di esotico, di infantilismo ecc. […]. Gino Rossi non mi parlava che di stile, talmente inebetendomi che m’imprigionava anche lui. […] Mentre Gino Rossi nasceva coi cinesi, mi nasceva colla storia della Pavona e del Gallo (Storia della ceramica). E quelli erano i nostri cinesi […] lui è an- 20 Martini, op. cit. a nota 5., p. 160. 306 michela scolaro dato molto giovane in Francia e ha visto che tutta una modernità (di Gauguin) nasceva da una figura disegnata dei piani, con contorno blu o nero, e campita di tinte color giallo. Noi gavemo delle cose più autentiche».21 A Parigi, in ogni caso, queste riserve non avevano ancora preso forma.22 E il dialogo si faceva più serrato e costruttivo, alimentato dall’emozione, dalle scoperte, dagli incontri con altri artisti. A partire da Amedeo Modigliani, con il quale si potevano scambiare i ricordi, condividere le impressioni di Venezia e la fascinazione per le arti primitive, considerate – come era stato per Gauguin e come ribadivano allora i pittori cubisti – parte essenziale di una dimensione creativa da recuperare interamente per fare nuovo. Grazie a Medardo Rosso, che Martini non tardò a cercare, i due veneti parteciparono al Salon d’Automne di quell’anno, accanto, tra i numerosi espositori italiani, allo stesso Modigliani, Libero Andreotti, Bugatti, Troubetzkoj e De Chirico. Rossi, che aveva portato anche un’opera della moglie, Bice Levi Minzi, presentava otto dipinti, Martini quattro incisioni e un dipinto. I Fauves che tanto avevano scandalizzato erano oramai ben ‘addomesticati’ e la mostra non presentava quell’aspetto da champ de bataille, sono parole di Apollinaire, che aveva avuto nel 1907, nel 1908 e nel 1911. Esponevano i cubisti, i futuristi e i postcubisti della Section d’or. L’arte dell’affiche, grazie a Cappiello, e il ritratto del xix secolo godevano di spazi esclusivi. È adesso che Gino Rossi si rivela sensibile alla lezione di Cézanne, che considera con una nuova attenzione, non distratto dalle conferme di Gauguin, di Van Gogh e di Matisse. Martini, da parte sua, osserva e replica, trasforma e estremizza i modelli accolti, elaborati e proposti dall’amico in opere stranamente vicine e, al contempo, lontane. Così alcuni paesaggi di Rossi, lieti di colore e di armoniche sovrapposizioni di piani, paiono virati da quella che sembra la fantasia bruciante di un regista di noir nei fogli di Martini, mentre alcuni tratti sembrano presenti al ricordo solo per essere alterati. 21 Martini, op. cit. a nota 5, pp. 176-77. 22 Mentre si fissavano con forza le suggestioni di un altro Oriente, non dei ‘cinesi’ di Rossi ma degli artisti giapponesi del Musée Guimet, autori delle statue di Buddha dei quali doveva riprendere attitudini e dettagli ne L’Amante morta (1921) e ne Il poeta e la moglie (1922). Cfr. Fergonzi, op. cit. a nota 15, p. 69. 23 A risarcire della sostanziale indifferenza che aveva accolto le precedenti proposte, la mostra del 1913 suscitò un interesse davvero clamoroso. Ne fu richiesta la chiusura, che il Comune avrebbe forse Difficile non ricordare il profilo regolare del Ritratto della moglie di Rossi, con la sua bizzarra acconciatura che cerca di comprometterne l’equilibrio all’indietro, osservando la straordinaria invenzione della Fanciulla piena d’amore, una ceramica presentata da Martini a Venezia nel 1913. Al ritorno da Parigi, quindi, dove lo scultore aveva ben meditato anche sulle sette Teste arcaizzanti esposte da Modigliani. E se il dipinto dell’amico dedicato alla moglie era un riferimento consapevole, il dato biografico lo carica di una cupa ironia, poiché il pittore – precoce amante e sposo nel 1903 – era stato abbandonato proprio in quei mesi. Altre avventure comuni li aspettavano in Italia, la mostra dello scandalo a Ca’ Pesaro, nel 1913,23 la replica dei Rifiutati dalla Biennale dell’anno successivo, nelle sale dell’Hôtel Excelsior, al Lido di Venezia, la partecipazione alla Mostra libera futurista di Roma, presso la galleria Sprovieri, la Secessione romana.24 Un secondo breve viaggio a Parigi e, per tutti, il baratro della Grande Guerra. «È una buona espressione: sconvolti. Io so perchè lo sono […]. Credi che ci possano essere guerre così, guerre terribili, terribili, e poi che si possa dire: bene, adesso è finita, torniamo alla normalità. Niente è normale ormai».25 Rientrato dal campo di prigionia di Restatt, dove era stato inviato dopo la rotta di Caporetto, Rossi ritorna alla pittura con l’ansia implacabile di un sopravvissuto. Battagliero ancora come un tempo, intimamente è disarmato e ferito. Ha ritrovato gli affetti degli amici, Barbantini, Casorati, Martini, e lo segue la stima conquistata negli anni precedenti. Ma, a ripristinare gli equilibri, individuali e collettivi, così tragicamente infranti, non potevano tuttavia bastare i risultati pur entusiasmanti della Mostra di Ca’ Pesaro del 1919,26 alla quale Rossi partecipa anche in qualità di giurato. Né il senso rinnovato di una piena corrispondenza di motivi e di obiettivi che era parte imprescindibile della Mostra dei Dissidenti di Ca’ Pesaro, allestita dietro istanza di Casoraconcesso se non fossero intervenuti alcuni artisti belgi ospiti della Biennale, propensi piuttosto a esporre «tra i vivi di Ca’ Pesaro invece che tra i morti dei Giardini». 24 Secessione romana 1913-1916, catalogo della mostra, a cura di R. Bossaglia, M. Quesada, P. Spadini, Roma 1987. 25 D. Lessing, Il sogno più dolce, ed. it., Milano 2001, p. 140. 26 Secondo Barbantini per Rossi la mostra del ’19 era «stata la sua ultima felicità in terra». linee di fuga e parallele 307 ti nelle sale della Galleria Geri Boralevi su piazza San Marco, pochi mesi più tardi. Il destino di Ca’ Pesaro è compromesso, la casa della gioventù riformatrice dell’arte del xx secolo sarebbe stata ben presto trasformata in Sindacale Veneta. Già nel 1920, a voler credere così ciecamente nella possibilità di un suo futuro Rossi era, forse, rimasto l’unico. «Quando penso che le tradizioni di Ca’ Pesaro sono ora affidate a gente simile, verrebbe voglia di piangere. Fanno sentire la inutilità d’ogni più nobile sforzo […] Com’è possibile far opere d’arte se giorno per giorno, ora per ora cadono le più belle illusioni?».27 Era davvero il crollo dell’ideale. Ca’ Pesaro era per Rossi il luogo dove assicurargli forma concreta, trovare corrispondenza, consonanza tra sé e gli altri. In quelle salette mezze buie, inoltre, era racchiusa parte luminosa della sua esistenza: «valeva la pena di aver data a un’istituzione tutta la propria giovinezza per assistere al suo sabotaggio compiuto da poche nullità […] non voglio esporre con quella gente; non intendo fare gli interessi dei manigoldi. Ho 36 anni».28 Ma l’evoluzione che ha compiuto la sua pittura, già presagita nelle opere del ’13 e annunciata con determinata chiarezza a Barbantini,29 non incontra lo stesso consenso. È l’inizio di una valutazione al ribasso spesso riaffiorante, che trasforma Rossi nel peggior nemico di se stesso.30 Nell’estate del 1921 il pittore spiegava all’amico critico: «Non condivido completamente le tue opinioni per quel che riguarda le mie ultime cose, risultati di una sensibilità nuova […] Andiamo verso un’architettura del quadro, che non ha proprio nulla a che fare con l’Accademia, almeno per conto mio […] Monet, Pissarro, Guillaumin ci avranno lasciato indubbiamente delle belle cose dal punto di vista del colore. Ma non si costruisce col colore, si costruisce colla forma. Un’arte dove il colore comanda è un’arte incompleta fin dalla base. Lo sforzo ostinato di Cézanne è stato, durante tutta la sua vita, quello di costruire dei volumi e subordinare il colore all’espressione della forma. Andare più innanzi a dipingere come prima di Cézanne è impossibile. Un pittore che non sente così è morto».31 La linea aerea e sapiente che definiva con slancio le descrizioni asolane si è fatta segno piatto e spesso, spezzato di continuo. Tratto, non più linea e forse, neppure possibilità di fuga. La campitura che conosceva le trasparenze dei soffiatori di vetro e i timbri puri delle murrine, sembra ora trarre dalla terra, dalle ombre bruciate la forza di trasformarsi in volume. Hanno una nuova, vera poesia queste composizioni severe, che potrebbero essere risentite ma sono solo spente, prosciugate, come passate attraverso l’antico fuoco. Non sorride più nulla nelle opere dell’ultima stagione di Gino Rossi. Ma vi sono giunti a maturazione elementi importanti: la lezione di Cézanne, del Cubismo e dell’amico Martini. Se il continuo parlare di stile certo impazientiva lo scultore, non meno frequente doveva essere per Rossi l’ascolto del discorso sulla plastica e il modellare o sul rapporto tra pieni e vuoti o tra il bianco e il nero, la luce e l’oscurità. Sui valori assoluti. Infine intimamente compresi. Anche per quanto riguarda Martini, oramai scultore in pieno possesso di un’espressione originale in grado di modularsi in infinite varianti, il tempo e la memoria dovevano rivelarsi custodi fedeli. A distanza il dialogo proseguiva e nella perfezione della Fanciulla col passero, nella purezza lineare di Ofelia tornano eco molteplici del «più bel poema» di Gino Rossi. 27 Lettera a Barbantini, in Scritti d’arte, op. cit. a nota 4, p. 275. 28 La lettera continua: «Vedo che tutti i nostri sforzi hanno avuto un risultato opposto a quello che speravo, Venezia mi fa schifo, e io ho bisogno di star lontano dal fango». 29 «Non farò più i quadretti leggiadri per i colori che accarezzano l’occhio, simpatici per la composizione decorativa, come una volta. Sono divenuto più aspro, più duro, più violento e sto facendomi una coscienza plastica», alla quale è certo che Martini abbia dato un contributo di tutto rilievo. 30 Basta sfogliare gli scritti dedicati alla sua opera, qui vale la nota di Fortunato Bellonzi: «…la svolta radicale che ne seguì fu pagata [… ] con la perdita di quell’eccezionale freschezza della “image mentale” che aveva brillato nell’adesione al misticismo visionario della cosiddetta Scuola di Pont-Aven…», in Gino Rossi, catalogo della mostra, Milano 1984, p. 36. 31 Gino Rossi, op. cit. a nota 30, pp. 276-277. Et là où ce qu’on aime devient plus intense Tout se fond pour rester à jamais immobile. Come in quella di Van Gogh e di Gauguin anche in questa storia, in qualche modo, si perde la vita. Rossi è colpevole, si è abbandonato alla malattia, l’ultima, imperfetta linea di fuga, percepita e rincorsa tra i fantasmi di una realtà opaca e ostile. Ha lasciato Martini e chi credeva nella sua luce, nella sua forza, soli a 308 michela scolaro combattere. Ma chi cercava di resistere, di non perdere il filo, forse, non era meno ferito. «La mia situazione è disperata – scriveva il pittore a Barbantini – la mia testa è stanca». L’epilogo è più che triste e noto. Le memorie dei pochi amici che di tempo in tempo cercavano di forzare la solitudine, fisica e psichica, di Gino Rossi riferiscono che la notizia della morte di Martini, sopraggiunta nel marzo del 1947, lo lasciò del tutto indifferente. Per lo scultore lui, d’altra parte, era morto già oltre vent’anni prima. j’oublie ton nom Et ton passé qui me ressemble Nous avons trop longtemps marché ensemble Et rien ne pourra m’obliger à te suivre Si je suis fatigué. Rossi l’avrebbe seguito nel dicembre dello stesso 1947. co m p o sto i n c a r attere da nte m onotype da lla fa b ri z i o se rr a edito re, pisa · ro m a . sta m pato e rilegato nella t i p o gr a f i a d i ag na no, ag na no pisa no (pisa ). * Gennaio 2010 (cz 2 · fg 21) Riviste · Journals AGRI CENTURIATI An International Journal of Landscape Archaeology Rivista diretta da Guido Rosada e Pier Luigi Dall’Aglio ARCHAEOLOGIA MARITIMA MEDITERRANEA An International Journal on Underwater Archaeology Rivista diretta da Roberto Petriaggi ARCHAEOLOGIAE Research by Foreign Missions in Italy Rivista diretta da Giuseppe M. Della Fina CALABRIA ANTICA Rivista internazionale diretta da Gioacchino Francesco La Torre EIDOLA International Journal on Ancient Art History Rivista diretta da Irene Favaretto e Francesca Ghedini FABRIZIO SERRA EDITORE PISA · ROMA www.libraweb.net Riviste · Journals FACTA A Journal of Roman Material Culture Studies Rivista diretta da Daniele Malfitana, John Lund e Jeroen Poblome KWKALOS Studi pubblicati dall’Istituto di Storia Antica dell’Università di Palermo Rivista diretta da Pietrina Anello LYBIA ANTIQUA Rivista diretta da Antonino Di Vita e Saleh R. Akab MARE INTERNUM Archeologia e culture del Mediterraneo Rivista diretta da Nicola Bonacasa MARMORA An International Journal for Archaeology, History and Archaeometry of Marbles and Stones Rivista diretta da Lorenzo Lazzarini FABRIZIO SERRA EDITORE PISA · ROMA www.libraweb.net Riviste · Journals PASIPHAE Rivista di filologia e antichità egee diretta da Louis Godart e Anna Sacconi MEDITERRANEA Quaderni annuali dell’Istituto di Studi sulle Civiltà Italiche e del Mediterraneo Antico del Consiglio Nazionale delle Ricerche MEDITERRANEO ANTICO Economie, Società, Culture Rivista diretta da Mario Mazza ORIZZONTI Rassegna di archeologia Rivista diretta da Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli PADUSA Bollettino del Centro Polesano di studi storici, archeologici e etnografici Rivista diretta da Paolo Bellintani PARTHICA Incontri di culture nel mondo antico Rivista diretta da Antonio Invernizzi FABRIZIO SERRA EDITORE PISA · ROMA www.libraweb.net Riviste · Journals RIVISTA DELL’ISTITUTO NAZIONALE D’ARCHEOLOGIA E STORIA DELL’ARTE Annuale diretta da Adriano La Regina RIVISTA DI STUDI FENICI A cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche Rivista fondata da Sabatino Moscati SARDINIA, CORSICA ET BALEARES ANTIQUAE An International Journal of Archaeology Rivista annuale SCIENCE AND TECHNOLOGY FOR CULTURAL HERITAGE Rivista diretta da Stefano Bruni SCRIPTA An International Journal of Palaeography and Codicology Rivista diretta da Mario Capasso e Francesco Magistrale FABRIZIO SERRA EDITORE PISA · ROMA www.libraweb.net Riviste · Journals SICILIA ANTIQUA An International Journal of Archaeology Rivista diretta da Ernesto De Miro STUDI DI EGITTOLOGIA E DI PAPIROLOGIA Rivista diretta da Mario Capasso SYMBOLAE ANTIQVARIAE Rivista diretta da Stefano Bruni e Mario Rosa TECHNAI An International Journal for Ancient Science and Technology Rivista diretta da Carlo Santini VESUVIANA An International Journal of Archaeological and Historical Studies on Pompeii and Herculaneum Rivista diretta da Fabrizio Pesando WORKSHOP di archeologia classica Rivista diretta da Andrea Carandini e Emanuele Greco FABRIZIO SERRA EDITORE PISA · ROMA www.libraweb.net F ABRI Z I O S E RR A E D I TO R E Pisa · Roma www.libraweb.net Fabrizio Serra Regole editoriali, tipografiche & redazionali Seconda edizione Prefazione di Martino Mardersteig · Postfazione di Alessandro Olschki Con un’appendice di Jan Tschichold Dalla ‘Prefazione’ di Martino Mardersteig O […] ggi abbiamo uno strumento […], il presente manuale intitolato, giustamente, ‘Regole’. Varie sono le ragioni per raccomandare quest’opera agli editori, agli autori, agli appassionati di libri e ai cultori delle cose ben fatte e soprattutto a qualsiasi scuola grafica. La prima è quella di mettere un po’ di ordine nei mille criteri che l’autore, il curatore, lo studioso applicano nella compilazione dei loro lavori. Si tratta di semplificare e uniformare alcune norme redazionali a beneficio di tutti i lettori. In secondo luogo, mi sembra che Fabrizio Serra sia riuscito a cogliere gli insegnamenti provenienti da oltre 500 anni di pratica e li abbia inseriti in norme assolutamente valide. Non possiamo pensare che nel nome della proclamata ‘libertà’ ognuno possa comporre e strutturare un libro come meglio crede, a meno che non si tratti di libro d’artista, ma qui non si discute di questo tema. Certe norme, affermate e consolidatesi nel corso dei secoli (soprattutto sulla leggibilità), devono essere rispettate anche oggi: è assurdo sostenere il contrario. […] Fabrizio Serra riesce a fondere la tradizione con la tecnologia moderna, la qualità di ieri con i mezzi disponibili oggi. […] * Dalla ‘Postfazione’ di Alessandro Olschki Q […] ueste succinte considerazioni sono soltanto una minuscola sintesi del grande impegno che Fabrizio Serra ha profuso nelle pagine di questo manuale che ripercorre minuziosamente le tappe che conducono il testo proposto dall’autore al traguardo della nascita del libro; una guida puntualissima dalla quale trarranno beneficio non solo gli scrittori ma anche i tipografi specialmente in questi anni di transizione che, per il rivoluzionario avvento dell’informatica, hanno sconvolto la figura classica del ‘proto’ e il tradizionale intervento del compositore. Non credo siano molte le case editrici che curano una propria identità redazionale mettendo a disposizione degli autori delle norme di stile da seguire per ottenere una necessaria uniformità nell’ambito del proprio catalogo. Si tratta di una questione di immagine e anche di professionalità. Non è raro, purtroppo, specialmente nelle pubblicazioni a più mani (atti di convegni, pubblicazioni in onore, etc.) trovare nello stesso volume testi di differente impostazione redazionale: specialmente nelle citazioni bibliografiche delle note ma anche nella suddivisione e nell’impostazione di eventuali paragrafi: la considero una sciatteria editoriale anche se, talvolta, non è facilmente superabile. […] 2009, cm 17 × 24, 220 pp., € 34,00 isbn: 978-88-6227-144-8 Le nostre riviste Online, la nostra libreria Internet www.libraweb.net * Our Online Journals, our Internet Bookshop www.libraweb.net Fabrizio Serra editore® Accademia editoriale® Istituti editoriali e poligrafici internazionali® Giardini editori e stampatori in Pisa® Edizioni dell’Ateneo® Gruppo editoriale internazionale® Per leggere un fascicolo saggio di ogni nostra rivista si visiti il nostro sito web: To read a free sample issue of any of our journals visit our website: www.libraweb.net/periodonline.php