My London Calling - EKT
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My London Calling - EKT
Marta Gaggini My London Calling Vademecum minimo per sopravvivere a Londra Parte 3 EdiKiT MY LONDON CALLING - parte 3 - CARTOGRAFIA DI UN CARNEVALE Dopo un mese di giri occasionali, visite random e tratte pendolari su autobus a due piani, comincio a disegnare la mia personale mappa di questa città apparentemente senza confine. Se Mayfair e lo Strand erano le residenze dell’aristocrazia londinese, il quartiere bene di Kensington è quello che ospita i ricchi di più recente formazione, che magari non hanno un titolo nobiliare, ma possiedono patrimoni da milioni di sterline. I palazzi bianchi con l’ingresso a colonnati costeggiano il lato occidentale dei Kensington Gardens fino a Knightsbridge, dove le facciate si colorano delle tinte del mattone. Aggirando il St. James’s Park, l’abbazia di Westminster ci introduce alla vista del Big Ben e ci indirizza a Trafalgar Square lungo la Whitehall, il viale della democrazia. L’atmosfera che domina in questa strada, circondata da strutture semplici, eleganti e luminose, è totalmente diversa da quella delle piazze vivaci verso cui si dirige. Il traffico inspiegabilmente si attenua, i turisti si diradano, ed è come se ogni rumore venisse attutito, per lasciare agli uomini che dietro quelle mura lavorano, il silenzio necessario a prendere le decisioni che influenzeranno il futuro dello stato. Whitehall è una sorta di santuario politico, racchiude la storia del regno britannico e in qualche modo commemora le gesta dell’impero, inesorabilmente vincolato ai cambiamenti del futuro ma legato in modo tangibile alla memoria viva di un glorioso passato. Ed è come se da questi palazzi dovessero uscire antichi governatori con completi color crema e cappelli da safari pronti a solcare l’oceano su un piroscafo a vapore che li conduca a compiere in nome della regina il loro dovere: amministrare le Indie orientali. Questi edifici sono come la politica agli occhi dei cittadini, vibranti all’interno ma all’apparenza muti, immobili, segreti. Attraversando Leicester, rivestita di cinema come se fossero locandine in formato gigante, e Covent Garden, la piazza assolata dove le statue prendono vita ballando al suono di una moder- na musica classica, oltrepassati Aldwich, dominio incontrastato della magistratura, e Fleet Street, fino a qualche anno addietro sede di tutta la stampa londinese, ma accomunati entrambi da un passato poco nobile, ci si imbatte nella City, centro dell’attività finanziaria, con grandi edifici cupi accanto a futuristici palazzi trasparenti, piena di orologi, di giorno proliferante di vita e dopo le sei spettrale come una città fantasma. Più a nord i quartieri popolari di Spitalfields e Shoreditch, in epoca vittoriana bassifondi malfamati e oggi rivalutati dai creativi, Bloomsbury, posato ritrovo degli intellettuali, con casette a schiera di mattoncini neri che sembrano dover uscire Sherlock Holmes e Watson da uno di quei portoni, e finalmente Soho. Soho il quartiere degli artisti, l’anima del West End londinese, piena di teatri, animati locali notturni e sexi shop mascherati. Soho e Chinatown, con vicoli stretti, cornici di legno intorno alle vetrine dei negozi, tinte scure sulle facciate dei palazzi. E se anche Soho e la City sono tra loro tanto diverse, contrastanti come solo Londra potrebbe essere, c’è comunque un elemento inconsueto che le accomuna: una buona birra prima di cena. Giovani alternativi espressione di una tipica rivolta culturale anni Novanta e altrettanto giovani in carriera espressione di una nuova filosofia di vita di questi vuoti anni Duemila. Coppole e gilet, completi giacca e cravatta. Tutti a farsi una pinta, riversandosi chiassosi nelle strade davanti ai pub, quelli sì ancora inglesi, liberando la sregolatezza trattenuta con sobrietà durante una lunga giornata lavorativa. Perché gli inglesi, il venerdì sera, perdono la testa. Dire che sanno come divertirsi sarebbe discutibile, ma di sicuro sanno come prendersi una sbronza. E considerando che rimangono nordici nell’essenza, che sono spesso costretti a una forzata compostezza, e che non sono esattamente noti al mondo per essere un popolo di gente estroversa, arrivare spolpi a fine serata non è solo un intrattenimento ma una scelta di vita. Avere un po’ d’alcool in corpo aiuta a sconfiggere le inibizioni, la sobrietà per gli inglesi resta uno degli ostacoli maggiori. Anche perché la loro giornata è una facciata, come le loro case, che viste dall’esterno sono immacolate, ma se fai tanto di oltrepassare l’ingresso ti ritrovi a combattere con batteri secolari annidati nella moquette delle stanze e con la muffa persistente negli angoli delle vasche. Da Soho, percorrendo Regent Street, neoclassica e lussuosa via del commercio di classe, si lascia Londra per raggiungere un posto che a Londra non sembra appartenere e che in realtà ne racchiude tutte le tinte: Camden. Appena usciti dalla stazione, dopo un viaggio che può durare dai venti minuti alle due ore, ci si imbatte in una periferia londinese dove i colori vittoriani lasciano il posto a delle sfumature nuove, non meno neogotiche. Ci sono piercing che traforano le facciate dei palazzi, modellini di aerei appesi ai tetti, statue di Dr. Martens semoventi. Ma il mercato vero, come di consueto, è un labirinto sotto le arcate del ponte ferroviario. ‘Camden Lock’ è una scritta gialla in campo verde, attaccata al panorama accanto a un palazzone di vetro semicircolare protetto da statue enormi di divinità egizie. Si allarga sulla strada, e dietro la strada si nasconde un intreccio irregolare di negozi che altrove non avrebbero ragione di esistere. Vicoli, passaggi segreti, tetti trasparenti e gallerie con take away cinesi: Camden ha la forma irregolare di un Tetris. Mutevole come gli schemi del campo minato nei computer portatili. Ci sono semafori, orologi vittoriani, slarghi inaspettati con locali cubani, manichini vittoriani e piccioni. Non sai mai cosa ti aspetta quando alzi gli occhi: archi, vetri, lampadari marocchini, cavalli imbizzarriti o cuscini indiani. L’unica certezza è la piazza col tè arabo al riparo del robot di Cyberdog. Le scale conducono a un piano interrato con altre bancarelle e il bagno, ma per imboccarle devi superare lo shock di imbatterti in qualche gigante testa di cavallo. Più avanti, cariatidi greche difendono i gazebo, mentre altri cavalli di bronzo coi loro carri al traino aspettano in eterno che si concluda il lavoro del maniscalco, per tornare a popolare il mercato terrorizzando i passanti come ne ‘La mummia’ al suo ritorno. Camden è un posto senza senso. Per questo ci piace tanto. Ecco un breve elenco dei negozi che potete trovare a Camden: assortimento di kimono, varietà di corpetti, tendaggi indiani, bigiotteria araba, abbigliamento etnico di grido, vestiti che sembrano usciti dallo ‘Star Trek’ degli anni migliori e altri riadattati da costumi settecenteschi, tutto pizzo, accessori fluorescenti, vintage, uno stuolo di mini abitini con fantasie anche improbabili e orologi a forma di autobus londinesi. A malincuore ho scoperto che non c’era più il negozietto specializzato in gonnelline di tulle multicolore, ma al suo posto c’era una nuova attività commerciale, dal futuro radioso e brillante, probabilmente partorita dalla stessa mente criminale che aveva immaginato di poter ricavare una rendita dalla vendita di articoli che almeno da noi non andrebbero a ruba nemmeno sotto carnevale: ogni genere di calzari. Orpelli decorativi del polpaccio che possono avere almeno la funzione, in un paese in cui il must è non indossare le calze per nessuna ragione, di proteggere dalle intemperie le vene varicose. Da lunghi cappotti di pelle a calzettoni fosforescenti a righe, Camden accontenta i dark e i punk di tutti i tipi, anche se in realtà non so bene cosa questo significhi. Ma del resto conoscere Camden fino in fondo non è possibile, perché sarebbe come conoscere l’umanità in tutte le sue sfumature: ogni filosofia di vita e stile, stranezze incluse, da un estremo all’altro di quello che il tempo moderno può offrire, fino alle scelte più estreme di una gioventù senza confine, unita nel mondo da culture nuove che non appartengono a nessun paese. Lasciando Camden si raggiunge Regent’s Park, con coppie arabe e indiane che portano a passeggio il futuro multiculturale di questa nazione, e si raggiunge Notting Hill, cuore della popolazione caraibica e del suo caraibico carnevale. Case bianche che brillavano nitide nel sole di un pomeriggio di fine estate e ragazze nere che ancora mi chiedo come facessero a muovere in quel modo il sedere. Qualcuno la sera prima si era divertito troppo, e adesso dormiva sdraiato sui gradini di un palazzo. Le giovani inglesi sedevano sui davanzali, sventolando le loro birre al passaggio dei carri musicali su cui si innalzavano, imperturbabili, bambini in età prescolare immersi in multistrati di tulle verde. Le gonnelline candide delle ragazze di colore si dimenavano nell’aria insieme a tutto quello che la natura aveva dato loro in dono, mentre loro, consapevoli, guardavano con aria di sfida nel mio obiettivo. L’apice della giornata è vedere un clone di Eddie Murphy scatenarsi nelle danze davanti all’elmetto impassibile di un poliziotto della City. Il colore del febbraio di New Orleans non era più così distante. E c’era la Giamaica, con le sue bandiere e i cappelli da rasta, e c’era Cuba, con le strade invase dalla salsa. Una strada sola, a dirla tutta, Portobello Road, quella tanto famosa, improvvisamente trasformata in balera sudamericana. Perché il bello di Londra è questo, puoi essere ovunque semplicemente svoltando l’angolo. Ma se alzi lo sguardo, oltre i cartelli stradali in cinese e le insegne scritte in arabo, le facciate essen- ziali in mattoncini, scure come dovevano essere le case ai tempi della Rivoluzione industriale e piene di comignoli come in ‘Mary Poppins’, quelle immacolate decorate con colonne corinzie, e quelle di un colore che lavorando da Intimissimi posso chiamare solo creta scuro, con le finestre incorniciate e il pianterreno nel sottosuolo, che ignoro se siano in stile georgiano o vittoriano, sono comunque britannico puro. E spuntano tutte sotto allo stesso arcobaleno. FAMILIARITA’ E SORPRESA Tanto presto o tardi sarebbe dovuto succedere. Nonostante stia tentando di ricacciare i dubbi là da dove sono venuti, le prime insicurezze cominciano a farsi avanti. E se anche la mattina vado a prendere l’autobus passeggiando per il parco allegra come Heidi, la sera sulla via del ritorno mi chiedo se stare qui abbia davvero un senso. Certo, sto imparando a sopravvivere a me stessa, che è cosa non di poco conto. Adesso so cucinare le pennette alle zucchine, anche se continuo a toglierle dal fuoco sempre un minuto più tardi di quanto avrei dovuto, so preparare un purè, che il più delle volte non è condito e sembra un frullato costretto a riversarsi in un piatto piano, so fare una lavatrice, anche se le lenzuola diventano sempre più rosate. E so tenere più o meno pulita una casa, anche se impiegando la metà del tempo ci riesce molto meglio la mia coinquilina. E con dodici sterline per le mie prime scarpe da donna e trenta per una sorta di tailleur di seconda scelta, almeno per qualche minuto ho avuto l’aspetto di una persona adulta, anche se non c’è niente da fare, invecchierò senza mai diventare grande. Ora, dopo una superba lezione di rumba flamenca, un tuffo nella vita notturna, un incontro occasionale con Guildenstern e Rosencrantz, e un carnevale che era una vera botta di vita, la routine comincia a farsi viva, e comincia a salire, strisciante, la sensazione spiacevole che questo posto non possa affatto darmi tutte le risposte. Forse il punto è che tutta l’energia che sento non deriva dal fatto di essere a Londra, ma dal fatto di esserci arrivata. Dal cambiamento, dalla novità, dalla scoperta. Ora ho una casa che conosco, al punto che io e la mia dirimpettaia laviamo i piatti la sera alla stessa inconsulta ora, un lavoro che non è mai cambiato e un intrattenimento che per fortuna ancora non ha perso il suo fascino: fare la spesa da Tesco. Mi sto avvicinando al punto di prendere un autobus a due piani come prendevo un ventotto. E sarebbe una conquista, sarebbe davvero la prova che mi sento a casa, se non fosse che io per sentirmi a casa in una città nuova ci metto al massimo una mezza giornata. Forse sta proprio qui la faccenda. La leggerezza di essere in un posto che mi appartenga non dovrebbe trasformarsi di conseguenza in un’abitudine già scritta, non dovrei perdere il fascino della scoperta, riuscire a mescolare nella giusta dose familiarità e sorpresa. Certo continuerà a mancarmi qualcosa, ma Londra magari, inaspettatamente amica e sconosciuta, riuscirà a suggerirmi cosa. E se è la varietà che mi manca, troverò il modo di viaggiare stando ferma, in una città che come nessun’altra sa moltiplicare se stessa. Ma se comunque la varietà non dovesse bastare? Se spostarmi da un locale sudamericano a un tablao spagnolo incontrando arabi, pakistani e sudamericani non bastasse comunque a riempire questo vuoto? HABIBI Ci voleva un incontro occasionale nel parco con un ragazzo inglese iracheno per farmi capire che invece questo per me potrebbe essere davvero il posto giusto. Perché per viaggiare ci vuole un attimo, e mettendoci giusto un po’ d’impegno, applicandosi un tantino, a Londra si può girare il mondo. E se è il mondo, che hai voglia di conoscere, se è il mondo, che vuoi scoprire, forse non esiste posto migliore, perché da qui il mondo passa per intero. Come se il mappamondo ti rotolasse sotto i piedi. Come se sul nastro del tapis roulant fosse disegnato il planisfero. Così riscopri la voglia di scendere le scale di un seminterrato cubano dove si ballano le danze proibite del ritmo latino, o di varcare un patio sivigliano per accompagnare i compas di un quadro flamenco quasi del tutto gitano. Quasi. Perché se puoi superare lo stupore di vedere un indiano col turbante che impara a ballare la rumba e a tenere il controtempo con le palmas, vedere esibirsi sul palco, con movenze che a tratti ricordano le danze africane, una ragazza di colore con un’enorme crocchia fatta di treccine, sconfina nel paranormale. Perché tu, tentando di apprendere una danza che per natura non ti appartiene, dopo esserti scontrata con la vera espressività andalusa ed esserne uscita distrutta ma arricchita, avevi tratto una conclusione fondamentale, forse anche per giustificare così le tue incolmabili lacune: il flamenco è questione di sangue. Non ballerai mai il vero flamenco andaluso se non è il sangue andaluso a scorrerti nelle vene. E del resto il duende non è qualcosa che si impara, ma che semplicemente si possiede. Ma adesso che vedi quella ragazza ballare, superato il primo momento di confusione e la difficoltà di accettare un cambiamento tale in un mondo che volevi immaginare ancora legato alla tradizione, devi riconoscere che forse il sangue non c’entra. E questo ti costringe a rivalutare le tue doti come bailaora. Ma quel che più conta è che ti costringe anche a rivalutare il legame che ci unisce alla nostra terra d’origine. Forse l’impronta che ci portiamo addosso non è un fattore genetico, forse nascendo in un paese diverso da quello a cui sono legate le radici del nostro albero genealogico noi apparterremo a un altro mondo. Il nostro DNA è un foglio bianco, su cui si divertiranno a disegnare insieme la realtà in cui viviamo e quella da cui stiamo arrivando. E non apparterremo più a una patria soltanto. Perché se è vero che quella ragazza, originaria come credo dell’Africa nera, ballava il flamenco come una vera gitana, tanto da diventare, anzi da essere a tutti gli effetti andalusa, è pur vero che quel ragazzo inglese iracheno, che rispettava il Ramadan per dare al suo stomaco un po’ di riposo, dichiarandosi britannico e non religioso, che vedeva in un’esibizione di danza del ventre la stessa funzione delle poesie di Natale recitate dai bambini durante il cenone, e aveva in programma di trovarsi una moglie e non farla lavorare come un perfetto italiano del pieno meridione, salutava i suoi amici con un’espressione che non era proprio del tutto inglese: habibi. Habibi è sintomatico. Della forza che ci tiene legati al nostro passato proiettandoci allo stesso tempo verso un futuro sconosciuto. Della strada nuova che stiamo percorrendo, che forse cambierà l’essenza di quello che siamo o forse ne cambierà soltanto l’aspetto. Continua...