Nella del - La Repubblica.it

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Nella del - La Repubblica.it
Domenica
l’attualità
I duellanti, condannati all’odio-amore
La
di
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
EMANUELA AUDISIO
il reportage
Repubblica
Famagosta, la bella addormentata
MARCO ANSALDO e DARIO BIOCCA
Nella
Macchina
del
Tempo
Al Cern di Ginevra sta per essere avviato l’Lhc,
FABRIZIO RAVELLI
A
GINEVRA
cavallo della frontiera franco-svizzera, fra il lago
Lemano e il paese di Voltaire, la storia del mondo
si prepara a una svolta. In mezzo a paesini ordinati
coi loro campanili, i prati ben rasati, i vigneti e le
mucche che brucano, l’umanità intera sta per fare un passo
avanti, un salto forse, nella conoscenza dell’universo, della materia e delle forze sconosciute che lo tengono insieme. «Sappiamo che qualcosa succederà — dice Fabiola Gianotti, milanese
—. È un momento storico per la scienza, e quel che scopriremo
potrebbe cambiare i libri di testo. Fra un anno o due, c’è la possibilità che si scopra l’origine della materia oscura che costituisce il venticinque per cento dell’universo».
Quando sente parole del genere, un povero profano ha due
scelte. O si arrende, volta le spalle e torna alla sua esistenza semi-animale, alle prese con forme di materia rozza (carta, benzina, asfalto, pastasciutta). Oppure passa i cancelli del Cern, si affida a una serie di gentili scienziati compatrioti che qui lavorano, e prova — se non a capire — a immaginare almeno, a percepire le vibrazioni del momento storico. Mancano poche settimane. Poi il più grande acceleratore di particelle del mondo,
l’Lhc (Large Hadron Collider), verrà avviato.
(segue nelle pagine successive)
FOTO CORBIS
il più grande acceleratore di particelle del mondo
Ci riporterà al Big Bang e ai suoi misteri
Siamo andati a visitare quest’opera straordinaria
DANIELE DEL GIUDICE
la memoria
H
Pissard, lo stregone del petrolio
erbert George Wells pubblicò questo romanzo
breve nel 1895 come Una esplorazione per il futuro. E a dire il vero, l’esplorazione e l’esperimento
e il futuro furono la vita stessa di Wells.
All’inizio del romanzo il viaggiatore nel tempo, così chiamato, si rivolge ai suoi amici raccolti nel salotto, uno psicologo, un
matematico, un medico, il Sindaco provinciale, tutti ad ascoltare un nuovo paradosso del viaggiatore.
Il problema che vuole trattare è che qualsiasi corpo reale deve estendersi in quattro direzioni: lunghezza, larghezza, spessore e durata. Ma per una imperfezione di natura viene trascurato l’ultimo fattore, ai tre corpi dello spazio conosciuti occorre
aggiungerne un altro, lo spazio del tempo. Del resto gli scienziati, dice il viaggiatore, sanno perfettamente che il tempo è soltanto una specie di spazio.
La grande difficoltà, secondo lo psicologo, è che ci si può muovere in tutte le direzioni dello spazio, ma non nel tempo. Il viaggiatore nel tempo, sorridendo, risponde che noi ci muoviamo
liberamente nello spazio, certo, liberamente in due dimensioni, ma la gravità ci pone dei limiti.
(segue nelle pagine successive)
con un’illustrazione di MIRCO TANGHERLINI
FILIPPO CECCARELLI
i luoghi
Il museo dei soldatini, giocattoli da re
ALESSANDRO BARBERO e GIAN LUCA FAVETTO
cultura
Quando D’Annunzio querelò Scarpetta
LEONETTA BENTIVOGLIO, BENEDETTO CROCEeSALVATORE DI GIACOMO
l’incontro
Spike Lee, così cambia la mia rabbia
MARIA PIA FUSCO
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
la copertina
Un tunnel circolare, lungo ventisette chilometri
e profondo cento metri, costruito per “sparare” fasci
di protoni alla velocità della luce e farli collidere
sotto lo sguardo di ottomila scienziati. Permetterà
Macchine del tempo
di far luce su misteri della fisica come la materia
oscura, l’antimateria, la “particella di Dio”
All’origine dell’universo
(segue dalla copertina)
ue fasci di protoni cominceranno a viaggiare, nei
due sensi, lungo il tunnel
di ventisette chilometri a
cento metri sotto terra. Si
scontreranno in quattro
rivelatori, sorta di colossali macchine fotografiche che fisseranno le immagini
dell’impatto.
Vedremo l’origine dell’universo, che
cosa è successo un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, perché
quelle sono le condizioni che verranno ricreate. Un progetto simile non è mai stato tentato, ed è il più ambizioso al mondo.
Non poteva succedere che qui al Cern, il
più importante laboratorio planetario
per la fisica delle particelle, l’impresa che
(dal 1954) tiene insieme venti stati membri europei, e circa sessanta di tutto il
mondo, impegnando ogni giorno ottomila scienziati. Da luglio in avanti, e per i
prossimi anni, ci si aspetta di scoprire
qualcosa che non è mai stato visto, ma solo immaginato coi modelli teorici. Oggetti misteriosi come la materia oscura, l’antimateria, le supersimmetrie “Susy”, o il
bosone di Higgs, ipotetica particella elementare che il Nobel Leon Max Lederman ha chiamato (facendo storcere la
bocca a molti colleghi) «la particella di
Dio».
L’attenzione (non eccessiva) della
gente normale verso questo progetto è
stata risvegliata poco tempo fa dall’iniziativa di due personaggi che hanno tentato di bloccarlo. Con un appello al tribunale delle Hawaii (uno dei due abita lì, e vi
ha fondato l’orto botanico), Walter Wagner e Luis Sancho hanno sostenuto che
l’Lhc è una sorta di «arma fine di mondo»
come quella del Dottor Stranamore, che
può produrre “buchi neri” in grado di inghiottire Ginevra e poi l’intero pianeta.
Tesi bizzarra, che gli scienziati considerano un’autentica fesseria. Già in passato esperimenti simili (ma più limitati)
avevano fatto gridare al pericolo di fine
del mondo, e poi non era successo niente. Ma, paradossalmente, la boutade di
D
Wagner-Sancho ha avuto il merito di ricordare che qui al Cern qualcosa di sensazionale sta per avvenire. Non «fine di
mondo» ma, casomai, la messa in scena
del suo inizio.
Nella sala controllo del Cern un fisico
italiano, Roberto Saban, tiene d’occhio
sui monitor l’anello sotterraneo che si avvia verso il momento dello start. È il responsabile del collaudo. «Il fascio di protoni viaggia all’interno di una conduttura sotto vuoto, e viene guidato da magneti che gli danno la curvatura necessaria
lungo l’anello. Sono 1232 magneti superconduttori, ognuno un bestione lungo 15
metri e pesante 32 tonnellate, alimentati
a 12mila ampére. Specie di thermos, che
all’interno hanno una massa raffreddata
a 1,9 kelvin, cioè meno 271 gradi». A quella temperatura, le bobine di niobio-titanio non presentano resistenza. Se si usassero magneti “caldi”, per raggiungere la
stessa energia l’anello dovrebbe essere
lungo 120 chilometri, e consumerebbe
40 volte tanta elettricità. «Sono magneti
“di frontiera”, che lavorano al limite della loro progettazione — spiega Saban —
Così come la criogenia, cioè il sistema di
raffreddamento».
Tutto qui è di frontiera, innovativo,
avanti: l’ingegneria, i materiali, i progetti.
In ogni campo, la sperimentazione produce ricadute che fanno fare passi avanti
alla vita di tutti i giorni. La tecnologia degli acceleratori trova applicazione in
campo tumorale e nella diagnostica medica, così come nello studio dei superconduttori, o nei sistemi di screening delle merci negli aeroporti. Il Cern è, insomma, anche un buon affare per gli Stati che
lo finanziano, Italia compresa. Ma vediamo l’anello che Saban sta collaudando. I
fasci di protoni (cento miliardi di protoni,
in 2800 «pacchetti») viaggeranno all’interno di un condotto (dieci cm di diametro interno) dove viene creato l’“ultravuoto”, più vuoto che nello spazio, un decimillesimo di miliardesimo della pressione al livello del mare. I protoni andranno alla velocità della luce, e faranno
il giro dei 27 chilometri undicimila volte
al secondo. Alla massima potenza dell’Lhc, ogni fascio avrà un’energia pari a
quella di un auto lanciata a 1600 chilometri orari. Ogni protone 7 tev (tera elettrovolt), quindi ogni collisione raggiungerà i 14 tev: una soglia mai raggiunta, e
considerata necessaria per liberare e riconoscere particelle mai viste. Saban si
prepara a controllare l’anello, i magneti
che guidano, ripuliscono e concentrano
il fascio, le temperature di esercizio: «All’inizio, succederà che non sapremo pilotare la macchina, ma ci aggiusteremo
presto».
Lungo il percorso, dentro enormi caverne sotterranee, ci sono i rivelatori,
quattro in tutto. Due (Atlas e Cms) sono
“general purpose”, hanno cioè compiti di
osservazione più larghi, seppure con tecnologie diverse. Gli altri due (Alice e Lhcb)
sono indirizzati a obiettivi più specifici.
Paolo Giubellino, fisico torinese dell’Infn
(Istituto nazionale di fisica nucleare), è
uno dei responsabili di Alice (A Large Ion
Collider Experiment): «Alice studia la
materia nucleare ad alta densità, e cioè il
momento in cui si è passati dalla pappa di
quark-gluoni alla formazione di protoni
e neutroni. Circa venti milionesimi di secondo dopo il Big Bang». Sarà la prima fase dopo l’avviamento del grande acceleratore, quando per creare Qgp (il plasma
di quark-gluoni) si faranno scontrare nuclei di piombo: «Alice è progettata per la-
ELETTRONI
PROTONI
o
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ci
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La
MUONI
QUATTRO STRATI
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CMS
SEZIONE TRASVERSALE
Punto
d’impatto
Disegna l’esatto tracciato
che ogni particella caricata
sta compiendo
FOTONI
NEUTRONI
Cattura l’energia di adroni,
particelle come protoni,
neutroni, pioni e kaoni
CMS
l’acceleratore Lhc per la prima volta raggiungerà. Il termine materia oscura indica anche la nostra ignoranza. Siamo di
fronte a un muro, e abbiamo moltissime
domande. In questo senso, ci si può aprire un nuovo mondo, e la posta in gioco è
bellissima».
Tutti i libri di testo potrebbero finire in
archivio. Dietro quel muro si potrebbe
scoprire l’esistenza del bosone di Higgs,
finora solo ipotizzata: un campo di energia che determina le diverse masse delle
particelle. O delle particelle supersimmetriche dette “Susy”, che potrebbe
spiegare la materia oscura, e di massa abbastanza elevata da non poter essere state prodotte finora artificialmente. Non
con il Lep, l’acceleratore del Cern che ha
preceduto l’Lhc.
Guido Tonelli, fisico pisano, è uno degli scienziati responsabili del Cms, l’altro
grande rivelatore. Ha gli stessi obiettivi,
grosso modo, di Atlas, ma con tecnologie
diverse. E ciascuno dei due, in pratica, verifica i risultati dell’altro. «Osserveremo
un miliardo di collisioni al secondo. Fra
queste ne sceglieremo centomila che potrebbero essere interessanti, e alla fine
solo cento da immagazzinare su disco. E
un flusso di informazioni paragonabile,
in quell’istante, all’intero flusso di informazioni del mondo». Ecco quindi che, in
un caverna adiacente a quella di Atlas, c’è
una grandissima “farm” di computer per
selezionare i dati prima di inviarli al centro di calcolo.
Il tunnel sta per essere chiuso, in preparazione dello start. L’ultimo segmento
aperto è quello che ci mostra Francesco
Bertinelli, ingegnere milanese, che per
andare avanti e indietro sotto terra usa la
sua mountain-bike: «Questa che vediamo al Punto 4 è la cavità di radiofrequen-
peso
12.500 tonnellate
Lastre d’acciaio
Entrata
protoni
COLLISIONE
E RIVELAZIONE
Fasci di protoni lanciati
gli uni contro gli altri
si scontrano. L’esplosione
di energia emette nuove
particelle. Queste passano
attraverso una serie
di rivelatori disposti
a strati come
una cipolla
Cattura l’energia di elettroni
e protoni
vorare a intensità più bassa, quindi per il
primo anno lavorerà bene. A bassa intensità, gli eventi sono più rarefatti. Poi gli altri si metteranno a correre. Ma tutti e
quattro continueranno a prendere dati
insieme. Qui è come se si lavorasse in
grandi esplorazioni geografiche, con un
gran numero di persone: per ogni rivelatore c’è il contributo di cento istituti di
una trentina di paesi diversi».
I rivelatori sono macchine enormi, costruite intorno alla condotta centrale dove passerà il fascio. Fabiola Gianotti lavora ad Atlas, un arnese lungo 46 metri con
un diametro di 25 e pesante circa settemila tonnellate: «Qualunque sia la fisica
nuova che si rivelerà, Atlas e Cms la vedranno. Oggi conosciamo bene il mondo
delle particelle elementari, descritte dalla teoria del Modello Standard. Il modello spiega bene, ma non risponde a tutte le
domande. Sappiamo che nell’universo
c’è un venticinque per cento di materia
oscura, e un settanta di energia oscura.
Nessuna delle particelle che conosciamo
può spiegare la materia oscura». Il Modello Standard è una teoria che disegna la
situazione delle nostre conoscenze. Ma
la cosa che sembra sensazionale (a un
profano) è che tutto quello che si conosce, la cosiddetta materia ordinaria di cui
noi e ogni oggetto sulla Terra sono costituiti, non rappresenta che il sei per cento
della materia ed energia dell’universo.
La nostra ignoranza è sconfinata: «Al di
là del Modello Standard ci sono molte
teorie, e fenomeni che oggi non conosciamo, anche se abbiamo qualche idea.
La soglia in cui il Modello Standard comincia a dare segni di cedimento è proprio a quella scala del tev, di energia, che
altezza 15 metri
FABRIZIO RAVELLI
lun
gh
ezz
a
21
me
tri
CMS
Uno dei due grandi
rilevatori costruito
intorno a un solenoide
Individua un ampio
spettro
di particelle
Serpentina cilindrica
di magneti
Fatta di lastre di acciaio
per contenere
il campo magnetico
Rileva i muoni, le uniche
particelle cariche che possono
sfuggire agli altri strati
ALICE
Ricrea
le condizioni
subito dopo
il Big Bang
LHCB
ATLAS
Analizza
le differenze
tra materia
e antimateria
ACCELERAZIONE
Due fasci di protoni che viaggiano
in direzione opposta vengono accelerati
quasi alla velocità della luce
percorrendo l’anello più volte
mentre attraversano una serie di rilevatori
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
Gli esploratori del futuro
DANIELE DEL GIUDICE
l’esperimento
LA MACCHINA
Il Large Hadron Collider
è un acceleratore di particelle:
un tunnel circolare lungo
27 km cento metri sottoterra
I RIVELATORI
L’impatto delle particelle avviene
in quattro rivelatori che fissano
le immagini dell’esperimento:
Atlas, Cms, Alice e Lhcb
GLI SCIENZIATI
Al Cern lavorano ottomila
scienziati. Gli Stati membri
del laboratorio sono sessanta
nel mondo e venti in Europa
LE APPLICAZIONI
La tecnologia Lhc, tra l’altro,
ha applicazioni nella diagnostica
medica, nei superconduttori,
nello screening delle merci
curioso che il romanziere inglese affronti questo
tema nel 1895, prima ancora che nel 1905 il giovane fisico tedesco Albert Einstein pubblicasse i primi lavori sulla simmetria della relatività ristretta. Era forse l’epoca per una narrativa scientifica, e nelle sue fattispecie anche per il “romanzo di utopia” che mirava con
una fantasia precisa all’ambito sociale.
Ritornando al racconto, il nostro viaggiatore discute
con i suoi amici della novità concreta di una quarta dimensione temporale. Passo per passo Wells e il suo viaggiatore cercano di accreditare ai loro amici la possibilità
di un esperimento. Un viaggio nel tempo! Gli altri amici,
fortemente scettici, chiedono come sia possibile. Ma il
viaggiatore ne ha fatto già l’esperienza. A fatica, sono
confortati dalla prova fornita dal viaggiatore, che presenta la Macchina con cui viaggiare nel tempo. Ma la
macchina non è quella vera che si aspettavano, è un piccolo modello nel salotto. Bellissima astuzia di Wells per
prolungare l’attesa degli astanti, e le loro curiosità. La
macchina vera è nel laboratorio del viaggiatore: sporca,
acciaccata per gli incidenti nell’attraversamento di secoli e millenni.
Incantati dalla grandezza della macchina gigantesca e
vera, smagliante nella sua nuova tecnologia, gli amici si
attendono l’esperimento promesso e quindi una partenza immediata del viaggiatore. Scopriamo invece che
il viaggiatore nel tempo non è in partenza, anzi è appena
ritornato. Stanco, dolorante, devastato per quello che ha
visto e sofferto, e così la narrazione procede all’indietro.
Il racconto che ci offre il viaggiatore è una sequenza di
È
stazioni in cui ha sostato con la sua macchina specialissima. La prima stazione, ricorda, è stata nel mondo dell’anno 802.000, una stazione successiva all’Età dell’oro
quando i popoli ci avrebbero superato nelle scienze, nelle arti, insomma in tutto, avrebbero superato anche le
previsioni più ottimistiche su una futura umanità molto
austera e intelligente. Ma il viaggiatore nel tempo a una
stazione successiva, incontra anche il Tramonto dell’umanità, gente totalmente indolente, priva di interessi e
facile a stancarsi.
In una stazione ancora più successiva il viaggiatore nel
tempo scopre un popolo sotterraneo, i Morlocchi, creature del buio, creature della terra del profondo illimitato.
E che in un momento sono emersi in superficie, e gli hanno rubato La macchina del tempo.
In questo mondo tellurico il viaggiatore non riesce a
credere che queste creature possano vivere nel sottosuolo. La prima ipotesi che formula è quella di una società del benessere, affrancata da ogni lavoro e mantenuta da una specie di proletariato antropologico che vive nelle viscere della terra e lì lavora producendo le cose
necessarie per il sostentamento di quella società “di sopra”. In questo senso, la divisione tra sopra e sotto mi ricorda le divisioni esasperate in classi sociali nelle grandi
città europee a cavallo del secolo, tra Ottocento e Novecento.
Nel grande esperimento in corso al Cern di Ginevra, in
questi tempi, fisici, matematici, tecnici hanno accolto
con molta felicità la lettura specifica de La macchina del
tempo di Wells. A tal punto che il Grande Lhc, Large Hadron Collider, l’acceleratore più potente al mondo, potrebbe trovare un modo per viaggiare nel tempo.
NEUTRINI
Sono così piccoli che passano
attraverso il rilevatore senza
essere rilevati. La loro presenza
si deduce dalla differenza
tra l’energia iniziale
e finale della collisione
Circonfere
nza 27 km
km
8,5
tro
e
m
Dia
ATLAS
Il secondo dei due
grandi rilevatori
che analizza anche
particelle
che potrebbero
formare materia
oscura
COLLISIONE
E RIVELAZIONE
Fasci di protoni lanciati
gli uni contro gli altri
si scontrano. L’esplosione
di energia emette nuove
particelle. Queste passano
attraverso una serie
di rivelatori disposti
a strati come
una cipolla
peso
7.000 tonnellate
altezza 25 metri
Entrata
protoni
etri
6m
za 4
z
e
h
lung
ATLAS
SEZIONE TRASVERSALE
QUATTRO STRATI
Disegna l’esatto tracciato
che ogni particella caricata
sta compiendo
Punto
d’impatto
ELETTRONI
Cattura l’energia di elettroni
e protoni
MUONI
NEUTRONI
Pista sagomata da magneti
Pista sagomata
da magneti
Cattura l’energia di adroni,
particelle come protoni,
neutroni, pioni e kaoni
Rileva i muoni, le uniche
particelle cariche che possono
sfuggire agli altri strati
Il passaggio avviene
attraverso magneti
non composti da pesanti
lastre d’acciaio. Questo rende
la struttura più grande
ma meno pesante del Cms
Repubblica Nazionale
ILLUSTRAZIONE DI MIRCO TANGHERLINI
(segue dalla copertina)
za, in pratica il pedale dell’acceleratore.
Ad ogni passaggio il flusso di protoni aumenta la sua energia». Moltissima tecnologia è di produzione italiana: un terzo
degli enormi magneti, per esempio, o i tubi senza saldature della Dmv di Costa Volpino. Infine l’ultimo rivelatore, l’Lhcb:
«Questo è diverso dagli altri — spiega Carlo Forti, romano — perché non è circolare ma asimmetrico. Osserverà i mesoni B,
che dopo la collisione vanno da una parte sola. E studieremo l’asimmetria materia-antimateria, un miliardesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. A
una temperatura di dieci milioni di miliardi di gradi».
Tutti i dati degli esperimenti finiscono
al Computer centre: «L’analisi è la parte
finale — spiega Massimo Lamanna, udinese — Ma qui è anche il punto di ingresso nella struttura del Grid». Qui, nel 1990,
Tim Berners-Lee inventò il web, quel
www che tutti ora conoscono: c’è ancora,
in vetrina, il pc marca Next che venne usato. E qui si è creato adesso il Grid: «La necessità di calcolo era enorme, e si è pensato a una “griglia” che funzionasse come
la rete elettrica. L’Lhc produrrà 15 milioni di gigabytes di dati ogni anno, qualcosa come tre milioni di dvd». Questa capacità di calcolo, e di stoccaggio dati, è stata
distribuita in circa duecento centri sparsi per il mondo, e interconnessi. In Italia il
nodo è Bologna, a sua volta collegato con
altri nove istituti.
Bene, qualche settimana e l’Lhc comincerà a funzionare. Ma c’è qualcos’altro, al di là delle probabili rivelazioni in
grado di sconvolgere la conoscenza, che
impressiona qui al Cern. Si sono fatte tesi
di sociologia e di antropologia per capire
come può funzionare tanto bene: «Qui lavora gente di culture diverse, senza avere
una struttura coercitiva — dice Paolo
Giubellino —. E si cerca, quindi, ogni volta il consenso». «C’è competizione, ma in
assoluta trasparenza e totale condivisione dei dati — dice Guido Tonelli —. È
qualcosa che in una struttura privata non
esiste».
Uscendo dal Cern, dopo questa sbornia di eccitazione per il futuro in arrivo,
c’è solo da chiedersi: perché non esiste un
Cern per la cura del cancro o dell’aids?
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
l’attualità
Oltre lo sport
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
Oggi è Inter-Roma. Prima erano state Juve-Roma,
Mazzinghi-Benvenuti, Coppi-Bartali. Sfide infinite
tra avversari che si giocavano molto più della vittoria
Perché nella lotta tra Frazier e Ali, Borg e McEnroe,
Trillini e Vezzali, Rossi e Biaggi quello che conta davvero
è liberarsi dall’incubo dell’appuntamento con la nemesi
EMANUELA AUDISIO
o sport è promiscuità, è sentire l’altro vicino, troppo vicino. Roma contro Inter,
again. Un serial infinito,
pieno di repliche e di prossime puntate. Conrad l’aveva
capito: l’odio di chi duella non ha mai
pace. Non è solo agonismo, è molto di
più. Un impasto di cose brutte: rancore,
gelosia, ossessione. E di roba freudiana:
invidia, diversità, tu che ti specchi e vedi
l’altro. E ogni volta sembra la prima. Il
nemico, quel nemico, sempre tra i piedi.
Lui sale, tu scendi. Ti ruba il fiato, la vita,
il desiderio. Insomma, ti scassa.
Una spina che non ti togli, che viaggia
dentro e ti fa uscire pazzo. Anche dire cose assurde e farne altre da mascalzone,
sbattere fuori l’altro, il compagno di
squadra. Odiarsi un po’, per tre anni, anzi meglio speronarsi. «Ayrton pensa di
non poter morire perché crede in Dio»,
così nell’89 il francese Alain Prost, ragioniere della pista, laureato in Formula
Uno, liquida il suo nemico, il brasiliano
Senna, che incurante della pioggia al
quarantaseiesimo giro a Suzuka lo attacca come uno squalo. Morsi in velocità, di chi sguazza nel talento. E allora
tiè, ti vengo addosso. La rabbia non ha
l’alzheimer, ma solo precedenti. Braci
mai fredde. L’anno dopo, stesso circuito, è Senna in partenza a centrare Prost,
passato alla Ferrari. A Jerez de la Frontera nel ‘97 Schumacher rovina la fiancata
della Williams di Jacques Villeneuve che
lo sta sorpassando. Lui è un computer,
mai un guasto, l’altro è un ragazzino ribelle che suona il rock, gira in infradito,
e diventa campione del mondo. Francamente troppo.
Le rivalità sono nuove e antiche, fantasmi che non se ne vanno. La genetica
dello sport crea nuove permalosità. Il
nemico non si perde, si trasforma. Prima era Juve-Roma, nord contro centro,
la fabbrica contro i palazzinari, il potere
contro gli emergenti, chi è abituato a comandare contro chi non vuole più ubbidire, noi lupi, voi Agnelli, il gol di Turone
cancellato, i refusi del calcio sempre a
danno di chi vorrebbe scrivere pagine
nuove. Ora la faida è Inter-Roma, i bianconeri sono stati sostituiti dai nerazzurri. L’Inter compra, la Roma vende; l’Inter è internazionale, parla straniero, la
Roma ha il vivaio e un accento locale;
l’Inter spesso si perde, la Roma spesso si
ritrova; una è più tattica, l’altra fa più
movimento. Questione di feeling, che
non c’è. L’Inter, per i giallorossi, è la nuova Juve: arrogante, prepotente, antipatica. Quando il presidente Moratti spendeva duecento milioni di euro l’anno e
perdeva, stava simpatico. Ora che vince
non più, è solo un petroliere che allo stadio dice parolacce. La Roma non sopporta che l’Inter si sia aggiunta sulle maglie lo scudetto vinto a tavolino e poi tutto quel vantarsi di fare parte della banda
degli onesti. Se non ti offrono la tentazione, inutile dichiararsi santi. E così i
difetti del vecchio nemico (Juve) diventano i tratti somatici di quello nuovo (Inter).
Nel libro di Conrad i duellanti sono il
tenente Feraud e il tenente D’Hubert,
soldati nell’esercito napoleonico. Feraud è un solitario e violento, D’Hubert
è un aristocratico, capace di avere legami. Due tipi opposti, condannati a inseguirsi, a non sopportarsi per tutta la vita,
anche sotto la stessa divisa. Come Ali e
Frazier, entrambi neri, americani e pugili. Frazier, ultimo di dodici figli, a tredici anni lascia la scuola per andare a rubare macchine, va a lavorare in un mattatoio, nel ‘65 passa professionista. Ali
per deriderlo lo chiama Gorilla o zio
Tom. I loro tre incontri, anzi scontri, nel
‘71, ‘74, ‘75, sono passati alla storia come
la più grande tragedia shakesperiana sul
ring. «La cosa più vicina alla morte»,
confessò Ali. Nel primo combattimento
Frazier vince ai punti grazie a un gancio
sinistro che frattura la mascella di Ali. La
rivincita a Manila è ancora più violenta.
L
Ali vinse, ma pisciò sangue. Non si reggeva in piedi, aveva la bocca tumefatta,
l’occhio destro viola. Imelda Marcos lo
accompagnò al buffet, lui urlò: «Quell’uomo è una bestia». Anche Joe Frazier
era al buio. L’occhio sinistro era nero,
Eddie Futch con la lama da rasoio tagliò
il bozzo troppo tardi, per far defluire il
sangue. Delirava: «L’ho colpito con dei
pugni che avrebbero fatto crollare i muri di una città. Cosa l’ha tenuto in piedi?».
Quando nel ‘96 ai Giochi di Atlanta vide
il suo vecchio avversario, con la torcia in
mano, tremare per il parkinson, dichiarò: «Spero bruci anche all’inferno
quel bastardo». Ali gli rispose: «Se lo vedete, ditegli che è sempre un gorilla».
Mazzinghi-Benvenuti è la versione
italiana di quella rivalità. Coppi e Bartali che scendono dalla bici e se le danno.
Sandro era il toscano ombroso, Nino il
triestino spavaldo. Il primo ruvido e malinconico, il secondo bello e moderno.
L’Italia si divide: Mazzinghi è generoso e
sfortunato, perde la moglie in un incidente d’auto, lui ne esce con una frattura alla scatola cranica. Non è ancora a
posto, ma è campione del mondo e deve difendere il titolo entro sei mesi. Luci
a San Siro. È il ‘65, Sandro combatte, si spreca, ma è Nino con un
montante destro a vincere al sesto round. La rivincita, sei mesi dopo, a Roma. Mazzinghi fa il match,
però il successo ai punti è di Benvenuti. Sandro non la manderà mai giù, né
perdonerà. «Nino è stato molto scorretto, nessuna tecnica da parte sua, solo
grandi scorrettezze, mai rilevate dall’arbitro che stava per lui. Dopo il match, dal
suo camerino invocavano un medico.
Mandai il mio. Mi avesse mai detto una
parola per quella gentilezza».
Niente da fare. Se l’altro ti ruba la gloria, tu ti senti portare via la vita. Però lentamente diventa parte della famiglia. Ti
NINO BENVENUTI
C O N I L N AT I O N A L G E O G R A P H I C D I G I U G N O
UNO STRAORDINARIO SPECIALE
Mondiale
dei superwelter
ai danni di Mazzinghi
nel 1965. Passa
ai pesi medi e vince
anche lì, nel 1967
MUHAMMAD ALI
Il grandissimo
campione combatté
contro Joe Frazier
in tre incontri:
una sconfitta
e due vittorie
BJÖRN BORG
Il campione svedese,
asso del gioco
da fondocampo,
è ancor oggi
l’unico ad aver vinto
sei Open di Francia
VALENTINO ROSSI
La rivalità con Biaggi,
l’altro campione
italiano di moto,
è definita spaghetti duel
dalla stampa
anglosassone
BEN JOHNSON
Uno sterminato altopiano sferzato dal vento sul tetto del mondo, un popolo che
da oltre mezzo secolo lotta per preservare la propria autonomia culturale e religiosa
dal dominio cinese: è il Tibet, protagonista delle cronache internazionali degli
ultimi mesi per le manifestazioni represse nel sangue dalle truppe di Pechino.
DAL 28 MAGGIO A 5,80 EURO IN PIÙ CON
Perse per doping
l’oro olimpico
e il record mondiale
sui 100 m. Sconfitto
sette volte da Lewis
prima di batterlo
AYRTON SENNA
Il campione brasiliano
morì per un incidente
in pista nel 1994
Nell’88 fu con Prost
alla McLaren: celebre
la loro rivalità
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
il reportage
Muri
Nel 1974, quando l’invasione turca del nord di Cipro
sembrava conclusa, i soldati di Ankara occuparono
a sorpresa anche un’ultima città. La popolazione greca
dovette fuggire in poche ore. Tutto è rimasto fermo
com’era quel giorno: pentole nelle cucine, libri
di scuola, foto alle pareti, auto con le chiavi nel cruscotto...
Famagosta
la bella addormentata
DARIO BIOCCA
D
NICOSIA (Cipro
a più di trenta anni Famagosta, lungo la costa
orientale di Cipro, è circondata da un muro grigio
di cemento e filo spinato, presidiata da
soldati. Non ci sono varchi né check
point. Motovedette turche impediscono
la navigazione nel raggio di alcune miglia. È proibito anche fotografare la barriera che separa la città dal resto del mondo. Tra gli edifici e dalle crepe dell’asfalto, con il passare degli anni sono cresciuti alberi di cedro, palme e fichi d’india;
nelle piscine degli alberghi hanno nidificato i fenicotteri; sulle spiagge, tra gli ombrelloni strappati dal vento, approdano
indisturbate le tartarughe.
Famagosta è stata il centro commerciale di Cipro e del Medio Oriente ma è divenuta il fantasma di se stessa. A chi entra
nella città, eludendo la sorveglianza dei
soldati, si apre uno scenario desolante e
straordinario, unico al mondo. È una
città immobile che vive nel silenzio, senza voci né rumori. Lentamente la natura
se ne impadronisce.
Una barriera
di cemento
circonda l’abitato
La popolazione di Famagosta, alcune
decine di migliaia di donne e uomini in
larga parte di lingua e cultura greca, è fuggita nell’estate del 1974 per la paura, i colpi di mortaio e le bombe lanciate dall’aviazione turca; ancora oggi non può tornare a visitare, anche solo per qualche
ora, le proprie case, i giardini, gli oggetti
abbandonati nella fuga. Nelle abitazioni
sono rimasti abiti e pentole da cucina, libri di scuola e foto appese ai muri; nei vicoli sono parcheggiate auto ricoperte di
polvere, le chiavi nel cruscotto. Oggi il
lungo muro costruito intorno alla città
non separa più religioni né etnie, non
previene conflitti e non protegge da assalti; è un muro diverso dal fenceisraeliano e dal wall messicano; il muro di Famagosta nasconde il mare, cancella la
memoria, aspetta che gli anni passino.
Fino a quando dall’altra parte non vi siano profughi a ricordare che quella era la
loro città.
Nell’Otello Shakespeare descrive l’immensa fortezza di Famagosta e il grande
porto chiuso ogni notte da una poderosa
catena di ferro. Settecento anni fa, si legge nei libri di storia, la città era la più ricca
al mondo, la più bella, la più contesa. Riccardo II la conquistò sulla via di Gerusalemme, poi giunsero i Templari, quindi
gli arabi, i genovesi, poi i veneziani e i bizantini; gli ottomani ne fecero l’avamposto dei loro commerci verso la Siria e l’Egitto. E ciascuno degli invasori, invece di
saccheggiare, arricchì la città di torri merlate, tesori di architettura e opere d’arte;
anche nel corso dei lunghi assedi, le navi
puntarono i cannoni con cautela evitando danni irreparabili alla città. Alla fine,
nel 1878, giunsero gli inglesi con le loro
corazzate, ma non spararono (a Famagosta) neppure un colpo. Quando nel
1960 i ciprioti ottennero finalmente l’indipendenza, sembrò aprirsi un capitolo
nuovo per l’isola di Makarios e per la stessa Famagosta, riconsegnata intatta ai
suoi abitanti. Invece la libertà durò appena qualche anno: nel 1974 arrivarono,
improvvisamente, le forze armate turche
che occuparono il nord dell’isola e, senza ragioni apparenti, si impadronirono
anche di Famagosta nascondendola al
mondo.
Le operazioni militari ebbero inizio in
luglio. Il governo di Ankara, da tempo
persuaso che i nazionalisti di Nicosia —
con la complicità della giunta dei colonnelli di Atene — volessero annettere l’isola alla Grecia, intervenne senza proclamare lo stato di guerra né consultare gli
alleati. Gli attaccanti guadagnarono rapidamente il controllo dei cieli e lanciarono i primi paracadutisti. Anche le forze
navali si mossero trasportando mezzi corazzati, artiglieria e truppe. La guerra
sembrò concludersi in pochi giorni con
la conquista della periferia settentrionale di Nicosia.
Alla fine di luglio i rappresentanti di
Turchia, Grecia e Gran Bretagna, garanti dell’indipendenza di Cipro in ragione
di un accordo siglato nel 1960, si impegnarono a consentire l’inserimento di
una forza multinazionale di pace in una
zona cuscinetto. Il controllo della buffer
zone fu affidato a una missione delle Nazioni Unite, la Unificyp, che avrebbe
tracciato una “linea verde” lunga circa
trecento km separando non solo la capitale Nicosia in due parti ma dividendo
villaggi, fiumi, strade, campi, consentendo alla popolazione greca di migrare
verso sud e alla popolazione turca di migrare verso nord. L’invasione assunse il
carattere di una vasta pulizia etnica e segnò la fine di una secolare convivenza:
migliaia di persone furono uccise nei
giorni del conflitto, più di 230mila furono i rifugiati — quasi il novanta per cen-
to dei greci residenti al nord.
In agosto, mentre sembrava delinearsi un accordo stabile, i comandi militari
turchi lanciarono l’attacco improvviso
contro Famagosta, rimasta fino ad allora
sotto il controllo del governo cipriota. Le
truppe irruppero dal mare e da terra lasciando alla popolazione solo uno stretto corridoio di fuga. Dopo una breve resistenza, migliaia di greci lasciarono la città
portando con sé ciò che potevano caricare sulle spalle, chiudere in una valigia, tenere tra le mani. Le forze di Unificyp accolsero i profughi e li scortarono fino ai
centri di raccolta di Limassol e Larnaka,
nel sud dell’isola — dove molti di loro ancora vivono.
Occupata Famagosta, i militari turchi
eressero immediatamente il muro per
impedire il ritorno dei profughi e poco
dopo, finalmente, firmarono il cessateil-fuoco. Anche a Nicosia, nei mesi seguenti, i militari di Ankara eressero un
muro per delimitare la zona sotto il loro
controllo; i greci fecero subito altrettanto. Nel mezzo della capitale si aprì dunque (e rimane ancora) una ferita, un lembo di terra di nessuno con edifici vuoti,
carcasse di auto, negozi saccheggiati,
macerie, proiettili conficcati nel cemento delle case. I due muri di Cipro divennero il simbolo di una pace fragile, minata dal risentimento, dalla paura e dal ricordo di sofferenze e lutti.
Nel corso della guerra i militari turchi
costrinsero i ciprioti di etnia greca ad abbandonare case, negozi, fattorie, ma anche monasteri, scuole, siti archeologici,
monumenti, opere d’arte, biblioteche e
musei. Venne cambiato il nome anche alle strade e alle città; le chiese, anche la celebre cattedrale di San Nicola, divennero
moschee, il passato fu cancellato. Solo a
Famagosta, chiamata dal 1974 Gasimagusa, il governo di Ankara non consentì
l’ingresso della popolazione turca né la
confisca dei beni appartenuti ai greci, impedì la devastazione. Forse l’occupazione della città era intesa ad acquisire uno
strumento per negoziare nuovi confini
tra i due Stati. Ma i negoziati non si aprirono. E quando Kofi Annan, nel 2004, sottopose alla popolazione un piano di pace, la comunità greca rifiutò il riconoscimento dell’occupazione turca e si oppose alla federazione tra i due Stati; i turchi,
al contrario, si dichiararono pronti a trattare e restituire Famagosta. In cambio,
speravano, avrebbero ottenuto il riconoscimento della comunità internazionale
e l’ingresso nell’Unione europea.
Nell’entroterra, intorno al muro di Famagosta, è sorta in questi anni una città
nuova che sembra temporanea, artificia-
le, senza storia; le palazzine sono basse,
bianche, i tetti coperti di parabole satellitari e rostri di cemento armato protesi
verso il cielo. Da nessun angolo della città
si intravedono il porto e il mare. Vivono
insieme turco-ciprioti e turchi, in prevalenza agricoltori provenienti dall’Anatolia, attratti o spinti dalla politica coloniale di Istanbul. Tra le due comunità ci sono
differenze profonde e ben visibili: le abitudini, il colore degli occhi, gli abiti, persino i gesti. I turco-ciprioti, in particolare,
si sentono spogliati della loro identità, sopraffatti numericamente dai coloni.
Il sindaco della città, Oktay Kayalp, è
un uomo intelligente, cordiale, giunto al
suo terzo mandato; è turco-cipriota,
parla misurando le parole. Spera di essere lui a riaprire i varchi del muro. Ci ha
spiegato, incontrandoci nella sagrestia
della cattedrale di Famagosta, eretta dai
veneziani e ora trasformata in una grande moschea: «La città non riceve aiuti,
neanche dalle Nazioni Unite; da soli non
possiamo ricostruirla né salvarla, i politici devono trovare una soluzione. Molti
edifici e monumenti dovranno essere
demoliti, altri restaurati, avremo davvero molto da fare. Ma turchi o greci, noi
siamo ciprioti, siamo pronti a restituire,
Nelle piscine vuote
degli alberghi
nidificano i fenicotteri
a lavorare insieme. Abbiamo conservato
a Famagosta tutto ciò che potevamo. A
ben guardare, quel muro è anche un
simbolo di pace…».
Gli fa eco Umit Inatci, artista, scrittore
e protagonista di una lunga e appassionata battaglia in difesa di Famagosta e
dell’identità culturale cipriota: «Molta
gente che vedete è nata qui, alcuni portano persino nomi veneziani. A Famagosta,
dietro il muro, ci sono anche le loro case,
i loro ricordi, la loro storia. Vorrei che i greci tornassero a vivere qui come prima.
Non siamo noi a tenere chiusa la città, sono quelli che trenta anni fa hanno fatto di
Cipro e di Famagosta il loro campo di battaglia... Gente che ha saputo fare la guerra e che adesso non sa fare la pace».
L’autore, docente di storia
contemporanea, lavora a uno studio
sui muri e le barriere di separazione nel
mondo. Un suo saggio su Famagosta
è di prossima pubblicazione sulla rivista
Nuova Storia Contemporanea,
diretta da Francesco Perfetti
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
LE IMMAGINI
CIPRO
FAMAGOSTA
Pafos
Nicosia
Larnaca
Limassol
Le foto che illustrano queste pagine
sono di Laura Bizzarri. Nelle immagini
piccole in alto e in basso, vedute
delle abitazioni abbandonate
di Famagosta. La fotografia grande
è un poster con i ritratti dei ciprioti
dispersi nell’invasione del 1974,
esposto in un piccolo museo
in Leda Street, l’arteria principale
che divide Nicosia
Accanto, la cartina dell’isola
L’isola dove i morti
parlano più dei vivi
MARCO ANSALDO
ultima istantanea da Cipro è beneaugurante. Mostra due giovani uomini politici, i nuovi presidenti della parte greca e di quella
turca dell’isola, il comunista Demetris Christofias e il socialdemocratico Mehmet Ali Talat, dividersi una coppa di limone dentro una
gelateria presso una breccia del Muro da poco aperta. Quanta strada e
quante ferite ha dovuto sopportare Cipro per arrivare alla vigilia di un
negoziato che, oggi più che mai, può sbloccare un’impasse che dura da
troppo tempo, da secoli?
Famagosta intorno al 1200 era il porto più ricco del Mediterraneo, circondato da mura di pietra rinforzate quasi quattrocento anni dopo dagli ingegneri militari veneziani che si preparavano all’arrivo degli ottomani. L’invasione avvenne nel 1570, sbarcarono in cinquantamila. I turchi bombardarono le mura con centomila palle di cannone. Alla fine, i
soldati veneziani di Marcantonio Bragadin proposero stremati la resa.
Invano. Infuriato per le perdite subite, Lala Mustafa Pash continuò l’eccidio e ordinò l’atroce morte del rivale, che fece spellare vivo e a cui furono tagliati naso e orecchie.
Ferite mai chiuse da secoli e riaperte nel 1954, quando due navi greche
sbarcarono sulla costa occidentale. A bordo quintali di esplosivo e un ex collaboratore dei nazisti, George Grivas, leader dell’Eoka, la famigerata Organizzazione nazionale dei combattenti ciprioti. Con una missione: cacciare
gli inglesi presenti a Cipro da fine Ottocento, quando gli ottomani cedettero loro l’isola, e riunire il Paese alla Grecia. È il progetto di enosis, subito visto come una minaccia per la minoranza turca (diciotto per cento). Nel 1959
gli inglesi decidono di concedere l’indipendenza ai ciprioti.
A tutti è chiaro che Grivas non intende fermarsi, e che i turchi sono pronti a rispondere militarmente. Per prevenire il disastro la Gran Bretagna organizza in Svizzera un incontro che partorisce un accordo fragile: una nuova Costituzione, un capo dello Stato greco cipriota, un vice turco cipriota e
una consistente rappresentanza della minoranza in Parlamento. L’anno
dopo nasce la Repubblica di Cipro, con un ex leader dell’Eoka, l’arcivescovo Makarios, come presidente. Fin dalle prime battute la convivenza si trasforma in un incubo. Gli squadroni della morte, formati da nazionalisti greci, cominciano a eliminare i turco ciprioti. La minoranza si ribella, si arma
e risponde. La Linea verde, istituita nel 1963, non serve a fermare i combattimenti. Makarios chiede aiuto all’Onu, che invia i caschi blu. Ma gli scontri continuano. Nel sangue. Per anni.
Nel 1974 entra in scena Atene, accusata dall’arcivescovo di minare il
suo potere. Percepita l’ostilità di Makarios alla stregua di un tradimento, un manipolo di funzionari di destra sbarcano a Nicosia devastando
il palazzo presidenziale e costringendo il capo dello Stato alla fuga. Centinaia di greco ciprioti moderati, sospettati di comunismo o di debolezza verso i turchi, vengono uccisi. Poche ore dopo, Makarios è sostituito
da uno dei leader dell’Eoka, Nikos Sampson. La mattina seguente, il 24
luglio, una piccola flotta turca sbarca a nord, con seimila soldati. Compaiono nel cielo i jet di Ankara. La battaglia si trasforma in massacro. Gli
aerei bombardano le postazioni militari, decimano i blindati greco ciprioti, ripuliscono le montagne. L’«Operazione Pace» continua per tre
settimane, mentre la diplomazia internazionale tenta freneticamente
una soluzione. La Turchia aumenta il contingente fino a raggiungere i
trentamila uomini. I soldati di Ankara sconfinano, occupando più di un
terzo dell’isola e creando una frontiera che diventa l’attuale confine fra
le due Cipro.
Nessuno è disposto a scordare il passato. Anche se un’intesa sembra
l’unica soluzione possibile. Scrive Yannis Papadakis, considerato uno
degli studiosi più autorevoli ed equilibrati dell’isola, nel suo recente
Echoes from the Dead Zone, Echi dalla zona morta (I.B. Tauris): «Cipro è
un posto dove i morti sono stati ammucchiati insieme sottoterra. Restano là, non tumulati, con i cimiteri tutti intorno. Un posto abitato dai
fantasmi dei dispersi. Fantasmi che possiedono proprietà, ricevono salari e risultano sposati. Un posto dove si dice che i morti parlino più forte dei vivi, e dove solo ai defunti è permesso di parlare, mentre i vivi devono inchinarsi, ascoltare attentamente e obbedire ai loro ordini. Tutti
noi a Cipro, i greco ciprioti da una parte della Zona morta, i turco ciprioti
dall’altra, siamo ossessionati da una domanda: “A chi dare la colpa?”».
FOTO LAURA BIZZARI
L’
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
la memoria
Microstoria
L’oro nero è sempre più raro, costa sempre di più,
è al centro della crisi economica globale
È il momento giusto per celebrarne l’epopea. L’Eni
lo ha fatto pubblicando “La leggenda del pioniere”,
il diario di Mazzini Pissard, un “eroe per caso”
che girò il mondo per procurare energia all’Italia
LE IMMAGINI
Da sinistra, il catalogo della Mostra autarchica
del minerale (Roma 1939) e un biglietto d’ingresso;
i campi petroliferi di Montechino; Enrico Mattei
a Cortemaggiore nel 1951; Mazzini Pissard
(nel cerchio) con i colleghi. Le immagini, concesse
da Paolo Pissard, sono tratte dal libro La leggenda
del pioniere (Archivio storico dell’Eni)
Lo stregone del petrolio
FILIPPO CECCARELLI
l fuoco, le eruzioni, il ruggito della terra, le colonne d’acqua che
allagano le vasche, il vento che
non dà tregua, le resistenze della
roccia, gli schizzi di fango, lo sferragliare delle macchine. E poi le
urla dei pompisti che si trasmettono gli
ordini, i muti calcoli degli ingegneri che
li scrivono lì, col gessetto, ai piedi dell’impianto, incuranti delle zaffate di
idrogeno solforato. E ogni tanto, anzi
sempre, c’è qualcosa che non va, qualcosa che rimane o precipita giù nel pozzo, l’incidente, magari la domenica
notte, magari con un caldo infernale,
oppure sotto zero; e allora salgono al
cielo le bestemmie dei meccanici in tutti i dialetti d’Italia, e poi in tutte le lingue
del mondo.
Eppure scavare bisogna, e poi ancora
scavare, a forza di pistoni, carote, aste,
ciabatte, perché il gergo dei perforatori
è iniziatico e colorito, per cui ci sono anche «zampe d’elefante», «preventori»,
«cucchiaie», «manicotti», «code di pesce», comunque occorre scendere sempre più in basso, nel profondo dell’ipogeo, poi anche nell’abisso dei mari, a
3.500 metri, il che significa vincere le
onde, dominare la natura, rapinarle
energia in forma di gas e petrolio, conquistare ricchezza — e nemmeno per se
stessi.
Un’epopea è appunto un’epopea: e a
raccontarla come il mito di Prometeo
torna utile al giorno d’oggi un’innocente e sbrigativa inconsapevolezza. Eppure forse è arrivato per tutti il tempo di
rendere merito a quelli che in un passato ormai remoto la retorica definiva
«eroi del lavoro»: perché lo furono sul
serio. Leggendari protagonisti del lavoro italiano, entità d’incerta definizione,
virtù estinta o in via d’estinzione, un mi-
I
scuglio d’inventiva, coraggio, spirito
d’adattamento, armonia, abnegazione, furbizia e spavalderia; una vitalità
rapida e imprevedibile, «alla bersagliera», come si diceva, o «alla garibaldina».
Ecco, appunto. Questo eroico protagonista della ricerca petrolifera in Italia
e all’estero, personaggio del quale l’archivio storico dell’Eni lodevolmente
pubblica un diario che fu scritto per i nipotini (La leggenda del pioniere, a cura
di Daniele Pozzi, con una ricca e poetica appendice del figlio Paolo), è una figura singolare fin da come si chiamava.
Mazzini Garibaldi era infatti il suo nome, che più repubblicano non poteva
suonare, e Pissard il cognome. Famiglia
originaria della Savoia, lui orgoglioso
sardo mai più ritornato nell’isola, studi
di perito minerario a Iglesias negli anni
Venti del secolo scorso, poi professionalmente stabilizzato (anche per via di
un felice matrimonio) in Emilia, tra Parma e Piacenza, zona di giacimenti.
E quindi: i primi arcaici impianti dell’Agip, a percussione, nella campagna
della Bassa, dormitori e pasti di fortuna,
carri tirati da animali, biciclette rubate,
l’insidia della ghiaia, delle falde inattese, delle ispezioni dei superiori, della
solitudine. Il racconto procede vivace,
vera storia umana e imprenditoriale dal
basso: i pozzi ricchi e quelli sterili, lo stupore della neve, lo spirito dei precursori, gente straordinaria, pazzi e assennati, maestri e lestofanti.
C’è un ingegnere scapolo che vive
con una anziana governante rumena,
orba, che gli ha salvato la vita nei Balcani. C’è un capo-cantiere che a ogni notizia di ritrovamento tira fuori il revolver
e spara sul soffitto. Ci sono illustri geologi, non sai bene se più bizzarri o ispirati, rabdomanti e al tempo stesso stregoni del petrolio, che al momento di decidere dove cominciare la trivellazione
IL LIBRO
È il secondo numero
della collana editoriale
dell’Archivio storico Eni
Si intitola La leggenda
del pioniere. Diario di Mazzini
Garibaldi Pissard (a cura
di Daniele Pozzi). È lo scritto
autobiografico del tecnico
minerario sardo che ripercorre
la sua vita di cercatore
di petrolio e scavatore di pozzi
per l’Agip e l’Eni dagli anni
Venti agli anni Ottanta
usano la tecnica del «lancio del cappello», oppure portano nel campo un bambino e gli fanno fare pipì — e là precisamente ha inizio lo scavo.
Romanzo a suo modo tenero e grandioso di un’Italia così spartana da risultare irriconoscibile. Volonterosi e poveri italiani spediti a zonzo per il pianeta,
a cercare petrolio e magagne, ammirazione e sconfitte. Pagine così ricche di
storie che il responsabile culturale dell’Eni, Giorgio Secchi, ne ha tratto una
canovaccio per farlo recitare a un attore (Flavio Albanese, del Piccolo) davanti agli anziani dell’Eni, e alla fine molti
nel pubblico avevano gli occhi lucidi.
Però, a veder bene, c’è anche da ridere. Mazzini ricorda quando, convocato
a Roma per una dimostrazione alla mostra autarchica del minerale, dalle parti
del Circo Massimo, si trova davanti il segretario del Pnf Starace che gli chiede fino a quanto può calare la sonda. Sono
2.500 metri. «Allora si proceda» ordina.
L’imprevista penetrazione del suolo
dell’Urbe va avanti per tre mesi fra vivaci peripezie, compreso l’allontanamento da parte delle maestranze di un
supposto iettatore con spruzzi limacciosi.
Poco dopo Pissard è spedito in Africa
a cercare invano il petrolio su una torrida isoletta davanti a Massaua, popolata
da placidi galeotti eritrei e temerari avvoltoi che durante i pasti scendono in
picchiata sul cibo, e in assenza di alcol il
medico cura le ferite con la benzina. Ulcera perforante, e salvifico ritorno in
Italia.
Ma pure qui in patria, con la guerra e
poi i bombardamenti, le vendette, le
epurazioni, i sabotaggi sindacali, ecco,
non è che la vita sia così facile. Eppure la
missione è la solita: scavare, bucare, indagare, succhiare via i fiumi neri e gassosi del sottosuolo. E allora ricomincia
il giro, Casalpusterlengo, Podenzano,
Crema: sempre c’è Pissard, con le sue
eterne recriminazioni contro i laureati,
dietro la scoperta del fantastico e celebratissimo bacino di Cortemaggiore
che dà l’avvio all’era di Mattei. Così come lo si trova nel mezzo dell’incendio
spettacolare di Bordolano, cento metri
di fiamme visibili nel raggio di cinquanta chilometri, scenario dentro cui s’intravede l’abbagliante ed esplosiva conclusione di quella stagione.
Sempre lì, sul pezzo, a disposizione,
con tanto di famiglia ormai ridotta in felice condizione nomade. Monta e
smonta cantieri, segue l’evoluzione
tecnologica, azzarda soluzioni, risolve
grane, impartisce e riceve cicchetti, si
sforza di far quadrare i conti, batte i tacchi, gonfia il petto e piange in cinese per
ottenere fondi e macchinari. In quella
specie di compagnie militari e aziendali che furono allora l’Agip e poi la Saipem egli rappresenta la punta di diamante e insieme il modello dei quadri
tecnici e operativi, forse i migliori, certo
i più avventurosi di cui l’imprenditoria
italiana abbia mai disposto. Mattei li
entusiasma, li trascina, li premia, li paga meglio di qualunque altra azienda
italiana. Ma in buona sostanza gli prende la vita e l’anima, al condottiero basta
un’occhiata per ricevere in cambio una
obbedienza totale. Sono i monaciguerrieri dell’autonomia energetica
nazionale, per essa disdegnano locali
notturni ed entreneuses, si sentono «nati — come si legge nel diario — soltanto
per lavorare».
Così Pissard, ormai capo-perforatore
della Saipem, viene spedito in America,
la Mecca petrolifera, a studiare e a trattare con un ristretto gruppo di manager
l’acquisto di nuovi impianti. Qui scopre
la Polaroid e fotografa tutto, come i cinesi in Europa qualche anno fa. Dopo
• LA VIA ITALIANA ALLA BANDA LARGA
Come creare una convergenza di attori diversi oltre a Telecom per realizzare le nuove reti in fibra ottica
• I MINATORI URBANI
In Cina, India e Giappone è corsa al recupero dell'oro e del rame nascosto nei telefonini
• LA CUCINA CHE LAVORA DA SOLA
Sempre più microprocessori negli elettrodomestici stanno per cambiare la vita nelle nostre case
• GOOGLE, UN MOTORE ANCHE PER IL DNA
Il gruppo entra nella società “23andMe”, che vende un kit per la rilevazione del patrimonio genetico
Nel numero in edicola domani con
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
I DOCUMENTI
Qui sotto, la pergamena donata a Pissard
per la pensione (1968); una cartolina dell’Agip
con le colonie italiane nel Corno d’Africa
(1937); un autografo di Pissard
trattative epiche, da quel giro in Texas
nasce la piattaforma “Scarabeo”, meravigliosa città d’acciaio galleggiante; poi
sarà la volta della “Perro Negro”, che pesa 5.200 tonnellate e arriva a estrarre petrolio a 4.500 metri.
Dalla Patagonia, trecento pozzi scavati da quattrocento italiani con famiglie e anche scuole al seguito, fino ai
monti Zagros, in Persia, dove le trivellazioni sono eseguite a 3.000 metri di altitudine, il passo sembra breve, ma non lo
è per niente. Poi è la volta del Brasile,
dell’Arabia Saudita, del mare del Nord e
dell’Egitto, dove le grane sono tutte politiche, i tecnici italiani finiscono spesso in galera, gli impianti rischiano la
confisca e, insomma, oltre al resto arrivano addosso a Mazzini Garibaldi Pissard compiti di puro lavoro politico e diplomatico.
È così fino al momento della pensione, dicembre del 1968. Lo congeda Eugenio Cefis: «Al momento dell’abbraccio mi omaggia di un orologio da polso
Vacheron Constantin raccomandandomi che è da sera. Lo uso di tanto in
tanto. È nella cassaforte».
Fa parecchie consulenze per i privati,
per altri dieci anni non riesce a stare lontano dai campi, dalle trivelle. Ma anche
in seguito, con qualche malinconia, si fa
accompagnare nei cantieri: «Gli impianti — scrive — sono talmente sofisticati che mi fanno sbavare dalla meraviglia e sentire obsoleto». È a questo punto che comincia a scrivere i suoi ricordi.
La leggenda del pioniere cessa una notte di giugno del 1997. Poco dopo compare in sogno al figlio Paolo. «Come stai,
babbo?», gli chiede e lui sorride, indietreggia, prende una breve rincorsa e fa
un salto mortale in avanti, come gli
acrobati del circo che amava tanto. «Ecco come sto», gli disse, scomparendo
pian piano in dissolvenza.
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
i luoghi
Il Museo storico dell’arma di cavalleria, a Pinerolo, ha appena
dedicato otto stanze ai settantaduemila militari in miniatura
In mostra
donati da due collezionisti privati. Lancieri, ussari, dragoni; zuavi
e garibaldini; alpini sciatori e bersaglieri ciclisti: tutti lì, congelati
nel tempo a evocare un racconto, un ricordo, una fantasia...
do, un racconto, una
fantasia; a suggerire
quelle storie che i bambini hanno sempre inventato giocando con loro. Qui ci sono marinai e
zuavi, arabi e garibaldini,
truppe coloniali e crocerossine, cucinieri, bersaglieri ciclisti e alpini sciatori. Soprattutto ci sono cavalleggeri, lancieri, ussari, ulani e dragoni che
cavalcano fra il Diciottesimo e il
Ventesimo secolo. Anche egiziani,
cavalieri medioevali e antichi romani. E cantinieri, trombettieri, fabbri, guardie svizzere. Ci sono italiani, spagnoli, inglesi, francesi,
tedeschi, turchi, canadesi. Sparano, galoppano, fanno la
GIAN LUCA FAVETTO
D
PINEROLO
i regine ce ne sono dieci. Sarebbe
sempre la stessa, in verità, Elisabetta
II d’Inghilterra, inconfondibile. Il fatto è che compare in pose diverse e in
differenti dimensioni, così risulta, di volta in volta,
unica: seduta sul trono, in piedi mentre saluta militarmente, in sella a un cavallo. Alcune Elisabette sono ancora chiuse negli scatoloni, insieme a mille altri armati e popolani, ufficiali e gentiluomini. Un
paio, invece, spiccano nel centro di due vetrine: una
sfila fiera a cavallo, con tanto di guardia reale e banda; l’altra preferisce rimanere solitaria, in attesa di
omaggio. Niente borsetta o cappellino, niente abiti
civili: tutte sfoggiano una sgargiante uniforme rossa. È qui per quello che è, rara donna in un mondo
storicamente maschile. E per quello che è viene trattata: mica femmina, mica bambola, ma soldatino. È
uno dei settantaduemila, e nemmeno il più pregiato, che occupano un’ala di uno storico palazzo di Pinerolo, provincia di Torino, ricco di cimeli, stendardi, armi, divise, cavalli e leggende. Sette stanze tutte
per loro — otto, contando quella usata come provvisorio magazzino, zeppa di cassette, scatole, imballaggi che ammassati insieme danno l’idea di una fortezza inespugnabile.
Nella vetrina di fronte a quella di Elisabetta, c’è anche il Papa, portato a spalle da dodici valletti. Visto
da vicino, ha le sembianze di Giovanni XXIII. Sebbene appaia più smilzo di corporatura, i lineamenti e
l’espressione ricordano quelli di papa Roncalli. Un
soldatino anche lui, qui, in queste teche, in queste stanze bene illuminate, al secondo piano
del Museo storico dell’arma di cavalleria,
già caserma Principe Amedeo.
Come tutti i soldatini, anche la
regina e il papa sono normale
nostalgia di un’azione.
Bloccati nel tempo a
evocare un ricor-
rivista, bevono, festeggiano, accendono fuochi, trascinano cannoni, compiono gli abituali gesti della
vita da campo.
Sono di carta, di legno, di stagno, di piombo. Piatti, semitondi e tondi. Pieni e vuoti. Alti trenta millimetri. Ottanta, se montano a cavallo. Ma arrivano
anche a centoventi o a centoquarantacinque millimetri. Formano un colorato esercito diviso in reggimenti, legioni, compagnie. Più che un esercito, un
popolo nomade costituito da tribù differenti — in
un’altra vita e in un’altra storia, nemiche. Più che un
popolo, una sorprendente società multietnica con
uomini di tutte le razze e fedi, epoche e ideologie. Più
che una società, un vero universo, cominciato qualche secolo fa come gioco e ora diventato una preziosa collezione ammirata da fanciulli cresciuti.
Da due collezioni, in effetti, arrivano i settantaduemila soldatini finiti agli ordini del tenente colonnello Giuseppe Dieni, dal 2001 direttore del museo
di Pinerolo. Due collezioni donate da privati nei mesi scorsi. La prima è composta da 7.328 uomini
piantati in una mezza dozzina di plastici che
sembrano scene da film. Raccontano la battaglia di Waterloo. Li ha donati il cavaliere
Carl Bächstädt-Malan, uno dei vecchi
proprietari della Caffarel, la fabbrica
che produceva cioccolato. Un modellista, uno che i soldatini se li costruisce. Monta, smonta, piega,
modifica, colora, reinventa e ti
piazza davanti agli occhi una
serie di sequenze animate, dei
fotogrammi cinematografici
degni di Abel Gance o Sam
Peckinpah. Con tanto di fumo
in forma di cotone che esce dai
fucili. E ufficiali che guidano l’assalto. E corazzieri francesi che si
lanciano alla carica contro gli highlanders scozzesi. Su tutti domina, dal
suo angolo, il sergente Ewart dei Royal
Scots Greys che ha catturato l’aquila, lo
stendardo del 45° reggimento di fanteria
di Napoleone.
Non c’è guerra nelle altre sale, non
c’è Waterloo, ci sono uomini di trenta millimetri in uniforme. Marciano
in pattuglia, formano squadre o capannelli, piccoli cortei. Qualcuno
ha portato gli strumenti, tromba,
trombone, flauto, tamburo, corno, anche il sax. La maggior parte è
a cavallo e lo guida al passo. Sembrano fermi, ma è un luogo comune, un’illusione ottica, una pigrizia
della vista. Se osservi bene, a muoverli sono le tante possibili storie
che raccontano. Un arcobaleno di
possibilità, visti i colori delle divise
che indossano, giallo acceso, rosso
cadmio, blu cobalto, verde cinabro, ma-
Soldatini
Il giocattolo dei re
Corazziere francese (1980)
Ussaro (XIX sec.)
Esercito prussiano (XIX sec.)
Bersagliere (XX sec.)
Esercito pontificio (metà XIX sec.)
Guardia svizzera
genta, scarlatto, arancio, sabbia, grigio piombo.
Cinquemila sono in libera uscita, esposti in ampie vetrine. Altri sessantamila sono rimasti in consegna nei loro appartamenti, nelle loro camerate,
che poi sarebbero scatole di confetture di mele cotogne o di Vecchia Romagna etichetta nera o di
Timberland o di Carpano Vermouth. Sono in buona compagnia, insieme a decine di macchinine, treni e carrozze; ad alcune squadre di pompieri anglosassoni; a pezzi di Polo Nord e Antartide con esquimesi, orsi, balene e pinguini; a un variopinto circo
fatto di tigri, elefanti, leoni, giocolieri e clown.
Aspettano con pazienza di essere catalogati e di trovare il loro posto al sole, la loro vetrina. È solo questione di tempo e di turn over. Appartengono tutti
alla collezione dell’architetto Remigio Gennari, donata dalla moglie Livia Laura Gennari.
Le bighe e la cavalleria romana affiancano le milizie del Faraone. I crociati se la intendono con i
persiani. I dragoni di Luigi XIV, i lancieri di Federico II, i portastendardi dell’impero germanico, i
granatieri spagnoli del tempo che fu, gli ulani zaristi di inizio Novecento, le Life Guards di sua maestà britannica, le truppe anglo-sudanesi, i mamelucchi francesi, il Nizza Cavalleria del Regno d’Italia, tutti cavalcano insieme. E poi ci sono gli ussari.
Te li raccomando, gli ussari. Sono nati ungheresi,
ma ce ne sono di polacchi, francesi, tedeschi, austriaci, russi, britannici. Come diceva un loro generale, Antoine Charles Louis Lasalle, primo sciabolatore di Francia: «Un ussaro che a trent’anni è
ancora vivo è un cialtrone». Lui è morto quattro anni in ritardo sulla tabella di marcia, nel 1809, in battaglia, con una palla in fronte. Si pavoneggiano, gli
uni accanto agli altri, gli ussari neri teutonici e
quelli inglesi finiti contro i cannoni russi a Balaclava insieme a un reggimento di dragoni.
Ma in mezzo a tanta gloria ed eroismo, i pezzi più
pregiati sono tre cavalieri francesi di latta di fine Ottocento, sciabola, kepy, divisa blu, cavallo giallo e
aria da tinello. Ancora più preziosi, una ventina di cavalieri tedeschi di legno con ambulanza e cucina al
seguito. Molto rari sono i dieci elementi di una banda bavarese in divisa verde. Non sarà raro, non sarà
prezioso, ma quello con il drappo giallo che spunta
in mezzo a un gruppo di armati spagnoli del Cinquecento è il più tenero, il più malinconico. Lo diresti Don Chisciotte. Accanto, ha Sancio Panza.
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
Antico romano
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Cavaliere medievale spagnolo
Trombettiere spagnolo (XVI sec.)
Ufficiale spagnolo (XVI sec.)
Lanciere del Regno Unito (XIX sec.)
Prussia, l’esercito bonsai
di Federico il Grande
ALESSANDRO BARBERO
iù che un giocattolo, i soldatini sono una metafora del potere. Non per nulla li hanno inventati i Faraoni: al museo
del Cairo sono esposti due reparti di soldatini di legno,
fanteria pesante egiziana e arcieri numidi, ritrovati nella tomba di un principe che voleva continuare a comandare nella vita futura come aveva fatto in questa. Anche il primo imperatore Qin, che unificò la Cina due secoli prima di Cristo, desiderava continuare le sue conquiste nell’altro mondo, e ovviamente aveva bisogno di un esercito. Perciò si fece seppellire a Xian
con oltre ottomila guerrieri di terracotta; che peraltro è arduo
definire “soldatini”, visto che sono a grandezza naturale, e tutti diversi l’uno dall’altro.
In Europa, l’epoca del soldatino comincia con le monarchie
assolute del Sei-Settecento. Quei sovrani sono i primi a non comandare più squadre di vassalli armati ed equipaggiati ciascuno a proprie spese, come i re del Medioevo, o bande di mercenari reclutati da imprenditori privati, come i monarchi del
Rinascimento: ora gli eserciti sono composti da reggimenti regolari, vestiti con divise fornite dal governo, e addestrati a marciare in ordine chiuso con la precisione d’una macchina. È naturale che nasca il desiderio di riprodurre in miniatura le loro
formazioni meravigliosamente ordinate, espressione della superiore razionalità dello Stato. Imparando, fin dalla più tenera
età, a manovrare reggimenti e a mandarli con un cenno al massacro, i principini si abituano senza accorgersene al loro mestiere di re.
Non tutti si accontentavano dei giocattoli. All’inizio del Settecento il principe ereditario di Prussia, il futuro Federico il
Grande, si vide regalare dal padre una compagnia di soldatini
in carne e ossa, bambini della sua età vestiti in uniforme, e poté
divertirsi a farli manovrare sulla piazza d’armi di Potsdam; ma
si sa, la Prussia era un piccolo paese dove il mestiere militare
era preso tremendamente sul serio. Gli altri principi si accontentavano di soldatini di cartapesta o magari d’argento, come
quelli del Re Sole: che peraltro da adulto li fece fondere in un
momento di difficoltà finanziaria, per la disperazione dei collezionisti d’oggi.
L’Ottocento è il vero secolo del soldatino. Diventato un prodotto di massa, grazie al diffondersi dello stagno, è anche mezzo di propaganda e di riscrittura della storia. Nel 1838 il capitano William Siborne espose a Piccadilly un colossale diorama
della battaglia di Waterloo, di sei metri per otto, con ben settantamila soldatini. Siborne, che sperava di arricchirsi con
quell’opera, aveva impiegato otto anni per allestirla e si era indebitato fino al collo; dovendo attrarre visitatori a tutti i costi,
preferì ignorare il contributo delle truppe olandesi, belghe e tedesche, che costituivano l’ottantasette per cento delle forze alleate, ed esaltare spudoratamente l’eroismo di quelle britanniche. Il duca di Wellington fece sapere che non intendeva
avallare un’operazione del genere, e si rifiutò sempre di andare a vedere i soldatini di Siborne; ma il capitano era ormai accreditato come la massima autorità su Waterloo, e pubblicò
una storia della battaglia che fece subito testo, alimentando lo
sciovinismo dell’Inghilterra vittoriana.
Il trionfo ottocentesco del soldatino va di pari passo con l’affermazione dello stato nazionale: ormai il soldato in uniforme
non è più visto come lo strumento della tirannia, ma come il difensore della patria, e i soldatini fanno parte dell’educazione di
tutti quelli che possono permetterseli. Il divario classista comunque rimane: le immagini di Epinal ritagliate dai bambini
borghesi servivano a convincerli che è bello e nobile marciare
inquadrati seguendo la bandiera, ma gli squadroni e le batterie
con cui giocava il piccolo Winston Churchill al castello di
Blenheim avevano lo scopo chiarissimo di creare un condottiero. Sovrani e ministri del 1914 furono gli ultimi a giocare, da
adulti, con reggimenti di uomini veri in divise sgargianti, così simili, per bellezza e meccanica obbedienza, a quelli di piombo
che avevano manovrato da bambini. All’orizzonte si profilava
già l’epoca delle mimetiche, del fango e della plastica: i soldatini, beninteso, si sono adeguati, ma non è più la stessa cosa.
P
Ufficiale zarista (1910)
Dragone del Regno d’Italia (fine XIX sec.)
Guardia di Sua Maestà
Ufficiale spagnolo (seconda metà XIX sec.)
Cavalleria francese. Mammelucco (XIX sec.)
Guardia reale inglese. Tamburo maggiore
Dragone. Impero britannico (XIX sec.)
Truppe coloniali inglesi (XIX sec.)
Cavaliere spagnolo (metà XIX sec.)
Truppe coloniali inglesi (XIX sec.)
Cavalleria piemontese (fine XIX sec.)
Cavalleria bavarese (seconda metà XIX sec.)
Lanciere del Regno Unito (XIX sec.)
Regina Elisabetta d’Inghilterra (XX sec.)
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
CULTURA*
D’Annunzio
contro
Scarpetta
La parodia alla sbarra
LEONETTA BENTIVOGLIO
S
NAPOLI
toria di uno spettacolo
buffo e accidentato, di un
geniale commediografo
napoletano che perse il
sonno nell’impresa, di un poeta invasato e compiaciuto del proprio talento, oltre che inviperito contro eventuali sbeffeggiatori, e del processo
epocale che derivò dal loro incontroscontro. Il vorticoso impiccio
parte la sera del 2
marzo
1904,
quando al Lirico
di Milano debutta
La figlia di Jorio di
Gabriele D’Annunzio, protagonista la giovane
Irma Grammatica, nuova fiamma
(così si mormora)
del Maestro. Frenetici applausi e
lodi compatte per
l’autore di questa
enfatica tragedia
pastorale: l’eco
del trionfo attraversa l’Italia e colpisce la fantasia di
Eduardo Scarpetta, che ha appena presentato al Valle di
Roma una pièce parodistica, La Geisha, nata nel segno dell’orientalismo
diffuso all’alba del Novecento. Nello
spettacolo ha festeggiato tra l’altro l’esordio di uno dei suoi figli: Eduardo De
Filippo, che a quattro anni recita vestito da giapponesino. Subito dopo quel
successo, il copione dannunziano gli
ispira un’esilarante parodia intitolata
Il figlio di Jorio, che gioca sul capovolgimento caricaturale della trama e
sulla trasformazione dei personaggi
maschili in femminili e viceversa.
L’esito è una catastrofe, un fiasco
senza precedenti nella carriera di Scarpetta. Poco dopo quella prima e unica
rappresentazione, avvenuta il 3 dicembre del 1904 al Mercadante di Napoli, Marco Praga, fondatore e direttore della Società italiana autori editori e
amministratore privato di D’Annunzio (con evidente conflitto d’interessi),
Intorno all’accusa
di plagio
memorabili arringhe
e un tribunale
trasformato
in palcoscenico
presenta una querela per plagio e contraffazione contro Scarpetta in rappresentanza sia del Vate che della Siae. Tale è la fama dei contendenti e la novità
del tema (è il primo processo sul diritto d’autore) che la questione balza sotto i riflettori, anche per il livello dei periti di parte: Benedetto Croce si schiera
con l’imputato, Salvatore Di Giacomo
difende D’Annunzio. Memorabili sono le arringhe per argomenti giuridici
e preziosità oratorie. E il processo diventa un palcoscenico, dove Scarpetta
www.micromega.net
EMERGENZA
XENOFOBIA
interventi di
L’EVENTO
Lo spettacolo ’A causa mia è una
delle quaranta produzioni originali
della prima edizione del Napoli Teatro
Festival Italia (6-29 giugno), sotto
la direzione artistica di Renato Quaglia
Tra le novità, la prima compagnia teatrale
europea: attori e professionisti di vari
Paesi della Ue, affidati a un regista diverso
ogni anno. www.napoliteatrofestival.it
padre Alex Zanotelli
Alessandro Dal Lago
Marco D’Eramo, don Enzo Mazzi
Ulderico Daniele, don Luigi Ciotti
Luigi Irdi, Fernando Savater
don Paolo Farinella
offre irresistibili exploit teatrali. Il
mondo ne parla, i giornali si accendono, scoppiano tra i membri dell’intellighenzia partenopea diatribe feroci,
l’aula è sempre gremitissima. Il caso si
risolverà con un giudizio favorevole a
Scarpetta (il reato non esiste), dunque
con un implicito via libera a tutte le parodie successive: filoni interi di spettacoli e film che scherzano su nobili titoli precedenti, come nel cinema di Totò
e di Franco e Ciccio.
L’episodio, con annessi e connessi,
è stato scovato negli archivi del Tribunale di Napoli dall’avvocato e sceneggiatore Antonio Vladimir Marino, che
lo ha proposto al regista Francesco Saponaro. Dalla documentazione nasce
‘A causa mia (cioè “la mia causa” o “il
mio processo”, titolo di un poemetto
dedicato alla vicenda da Scarpetta),
evento multimediale che Saponaro
firma per la prima edizione del Napoli
Teatro Festival in coproduzione con
Teatri Uniti e due Stabili: il Mercadante di Napoli e quello d’Abruzzo. La prima fase della messinscena, concepita
come “work in progress”, debutterà il
18 giugno (fino al 21) in una delle sale
più fastose di Castel Capuano, sede
storica del Tribunale di Napoli, e la
versione definitiva approderà al San
Ferdinando in autunno, con ulteriori
aggiunte nella ripresa all’Aquila.
‘A causa mia usa un intreccio di linguaggi, nel senso che «a sequenze filmiche», spiega Saponaro, «s’alternerà
il teatro vero e proprio. Scarpetta è l’incarnazione dell’arte scenica: apoteosi
della napoletanità ed eroe carnale e
denso di passioni (lo dimostra anche la
sua bizzarra doppia famiglia: quella
con la moglie Rosa De Filippo e quella,
parallela e dichiarata, con Luisa De Filippo, nipote di Rosa). Dunque ciò che
lo riguarda, in ‘A causa mia, s’affiderà al
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Il genio del teatro comico aveva messo in scena
un pastiche ispirato a “La figlia di Jorio”. Il Vate lo fece
querelare. Di Giacomo e Benedetto Croce furono periti
di parte. Dagli atti di un processo celebre e dimenticato
“Un’imitazione
stomachevole”
nasce uno spettacolo per il nuovissimo Festival di Napoli
SALVATORE DI GIACOMO
l lavoro, il travaglio, le sofferenze
che sono dietro al parto di un’opera
d’arte sono entità sacre e vanno rispettate. Noi siamo artisti. Noi siamo
artisti e giudichiamo col cuore. Noi siamo artisti e non sappiamo portare il rigore della razionalità, della dialettica là
dove invece siamo sopraffatti dall’impulso dei gagliardi sentimenti che si
agitano nell’anima nostra. Come volete che l’artista si compiaccia di vedere
le sue creature esposte al riso della folla? Scarpetta con la sua parodia ha ferito il D’Annunzio nelle pieghe più impenetrabili della sua anima. Cosa doveva fare il poeta, restare inerme di
fronte a tale affronto? Non esistono
nell’arte teatrale italiana precedenti di
parodie sceneggiate come Il figlio di Iorio di Eduardo Scarpetta. In questa parodia si segue il dramma pastorale del
D’Annunzio non solo scena per scena,
ma quasi verso per verso. È così assidua
ed inviolata la prevalenza dell’originale che non è difficile constare che l’orditura della commedia presepiana, così nel primo come nel secondo atto, salvo qualche lievissima infrazione, denunzia costantemente il risultato di
una imitazione tutt’altro che accidentale. Inefficaci riescono i ricordi e la trasposizioni di usi, costumanze e riti caratteristici dell’Abruzzo nell’ambiente
di Pozzuoli. Se bastasse ad una vera trasformazione comica mutare il sesso alle figure della poesia e dell’arte e attenuarne la nobiltà del linguaggio nelle
pedestri e pur tanto espressive forme
dialettali, anche dei più celebri capolavori sarebbe facile cogliere la fisionomia comica. Il sesso, il linguaggio
ed anche il contributo di un determinato attore che trasforma nel
suo accento e nei suoi atti anche
l’eloquio più alto e passionale in
ridicolo, non possono essere se
non elementi secondari in un
lavoro, che voglia aver carattere di parodia.
Ma Scarpetta, anzi che opera
di parodista, ha compiuto con il Figlio
di Iorio, opera da riproduttore. [...] Il figlio di Iorio contiene triviali e disadorne traduzioni dei magnifici versi dell’originale: è stomachevole.
I
“Ma è un tributo
non un’ingiuria”
BENEDETTO CROCE
er risolvere il quesito se il figlio di
Iorio sia contraffazione o parodia,
bisogna distinguere bene due termini che gli illustri periti che mi hanno
preceduto mi pare abbiano confuso.
Contraffare un’opera d’arte significa
appropriarsi dell’effetto artistico di
quell’opera, sia col tradurla sia col ridurla, sia col mutare superficialmente
qualche nome o qualche particolare,
sempre mirando a sostituire con l’opera così camuffata e alterata quella originale, dando luogo in tal modo a una vera concorrenza sleale. La contraffazione presuppone l’inganno, la frode e, per
le forme ingannevoli che assume, non
sempre può essere colpita dalla legge.
Essa può cambiare anche le forme esteriori, ma rimane il germe, lo spirito, la
parte inventiva che costituisce l’anima
del lavoro contraffatto. La parodia invece ha un’esistenza propria per il tono, il
genere, l’emozione diversa rispetto all’opera a cui si è ispirata. Suscita il riso
anziché il pianto, sostituisce un matrimonio ad un assassinio, la soluzione
gioconda ad una catastrofe.
La parodia può conservare moltissimi particolari e perfino quasi integro il
linguaggio dell’opera parodiata; ma ne
muta sempre lo spirito animatore. Ora
che ciò sia accaduto nel figlio di Iorio
dello Scarpetta rispetto alla tragedia pastorale del D’Annunzio è cosa che a noi
appare evidente. La parodia è nell’arte
perché è nella vita: accanto all’infinitamente grande vi è l’infinitamente piccolo. Non a caso qualcuno ha definito il
ridicolo come il sublime al rovescio. Ed
è ovvio quindi che delle opere più in voga, dei capolavori, in ogni tempo, si sia
sempre fatta la parodia. Sotto questo
aspetto la parodia è un tributo all’autore e non un’ingiuria. [...] Lo Scarpetta
forse avrà ingiuriato l’arte facendo
un’opera sbagliata ma non ha offeso il
diritto del D’Annunzio, facendogli sleale concorrenza. Qui siamo innanzi ad
un Collegio che amministra giustizia,
non dinnanzi ad una commissione che
deve concedere un premio artistico. Se
si ammettesse di condannare in giudizio gli autori di opere letterarie sbagliate, troppo gran lavoro avrebbero i Tribunali.
P
linguaggio vivo del teatro. D’Annunzio
è invece aereo, inafferrabile. Si specchia in un bianco e nero trascendente
ed è un artista sedotto dal cinema. Perciò il racconto a lui riferito scorre in film
fatti per l’occasione, mostrati in scena
e girati nello stile del cinema muto. Utilizziamo anche brandelli dell’unica testimonianza filmica rimasta di una
rappresentazione della vera Figlia di
Jorio, ripresa nel Vittoriale». Cornice di
altre nuove parti filmate è un fascinoso
mausoleo di gusto floreale, riadattato
dallo scenografo Lino Fiorito. Immerso
tra le più belle ville storiche di Napoli, a
via Posillipo, l’edificio sfoggia scale
sontuose e colonne corinzie, riproducendo i climi decadenti e onirici della
villa di Marina di Pisa, dove D’Annunzio apparirà circondato da tiratrici
d’arco e fanciulle discinte in pose da
San Sebastiano.
Sono nel cast di ‘A causa mia attori di
spicco quali l’“eduardiano” Gianfelice Imparato (Scarpetta), il cantante
degli Avion Travel Peppe Servillo
(D’Annunzio), Andrea Renzi (Marco
Praga) e Gigio Morra nel ruolo di Lustig, l’insigne giurista che curò l’istruttoria del processo, celebrato a Castel
Capuano il 30 aprile 1908 con gli interventi di Benedetto Croce (lo interpreta l’antropologo Marino Niola) e Salvatore Di Giacomo (Enzo Moscato).
«Dalla perizia del secondo», prosegue
Saponaro, «si evince una rivalità esacerbata nei confronti di Scarpetta, di
cui Di Giacomo segnala la povertà
d’ingegno in base alla bruttezza della
sua parodia. Croce replica che se si dovessero processare tutti i creatori di
cose brutte i tribunali esploderebbero. Sono due mondi a confronto: il
conservatore reazionario e il progressista che invoca la libertà d’espressione». Le due perizie, in ‘A causa mia, sa-
Racconta il regista Saponaro:
“Cinque mesi dopo la sentenza
l’autore di ‘Miseria e nobiltà’
decise di ritirarsi dalle scene”
ranno presentate come interviste «fatte dalla televisione in tempo reale».
Perché la parodia Il figlio di Jorio
scomparve dalle scene? «Fu un progetto sfortunato fin dalla genesi», risponde Saponaro. «Rosa, moglie di
Scarpetta, vi si oppose subito. Capì
che quel genere di parodia arcaica rischiava d’essere un passo indietro rispetto alle commedie brillanti del marito, che col personaggio di Felice
Sciosciammocca aveva costruito una
fortuna immensa. Infatti era ricchissimo, con una villa strepitosa al Vomero
chiamata “Santarella”, come una delle sue opere». Tuttavia l’autore di Miseria e nobiltà non sente ragioni e si reca a Marina di Pisa per ottenere dal Va-
te un permesso scritto. D’Annunzio
glielo nega, ma i due si lasciano con
apparente cordialità. «Poi il poeta ci ripensa, teme una pubblicità dannosa,
scatta la querela. E alla prima de Il figlio di Jorio irrompe in platea un gruppo di incattiviti dannunziani manovrato per fare scandalo. A inizio secondo atto, all’acme comico dello
spettacolo, quando Scarpetta sta per
entrare in scena vestito da donna, sono tali le urla e le aggressioni che l’attore deve far calare il sipario. Onta e ferita non rimarginabile per una star.
Cinque mesi dopo l’assoluzione deciderà di ritirarsi dalle scene. Confesserà che ancora sente l’amarezza di
quel fallimento».
LE IMMAGINI
Nella foto grande, un’udienza
del processo intentato
da Gabriele D’Annunzio
contro Eduardo Scarpetta
Sopra, dall’alto: l’ultima
pagina del manoscritto
autografo del Figlio di Jorio
di Scarpetta (per gentile
concessione di Maria Vittoria
Scarpetta); due fotoritratti
di D’Annunzio e Scarpetta
e i due in una caricatura
dell’epoca relativa
al processo. A sinistra, la tela
di Francesco Paolo Michetti
La figlia di Jorio (1895)
che ispirò D’Annunzio
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
Ngli anni Sessanta riprese per primo
la Londra “swinging”. Poi portò
la musica nel cinema lavorando
con Hendrix, Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd, Beach Boys
Una decina di film e l’addio negli anni Settanta. Ora il Bellaria Film
SPETTACOLI
PINK FLOYD
Una delle più grandi
band musicali
che fin dagli esordi
trovò con Whitehead
una splendida
collaborazione
Festival e il Biografilm di Bologna gli dedicano una retrospettiva
LED ZEPPELIN
La band
fu protagonista
di un celebre
videoclip nel 1970
Whitehead li fece
suonare e rotolare
sulla ribalta
PETER WHITEHEAD
Peter Whitehead
fotografato
con la macchina
da presa
per le strade
di New York
nel 1968
THE ANIMALS
Formatosi
a Newcastle
tra il 1962 e il 1963,
il gruppo fu filmato
da Whitehead
con effetti speciali
di stampo bellico
L’inventore
dei
Videoclip
Whitehead, l’occhio pop
MARIO SERENELLINI
stato l’occhio del pop, prima
della leggenda. Occhio di falco,
come i rapaci di cui è da sempre
amico, allevatore e, un po’,
suddito fedele. Lui stesso è una
leggenda prima della leggenda: da quando, ex studente prodigio a
Cambridge, incline all’arte e alla scrittura,
imbraccia a metà anni Sessanta una Eclair
e comincia a filmare le notti e gli happening di Londra, non ancora ma già swinging London. Talento versatile e rapido,
subito cameraman Rai («è stata la mia vera scuola») ai tempi delle corrispondenze
di Sandro Paternostro, lesto nel cogliere al
volo altre opportunità italiane, intrufolandosi nella troupe di Tinto Brass quando in un night uno sdegnoso John Lennon
si nega al suo obiettivo, Peter Whitehead,
inventore del videoclip moderno, archivio vivente della protesta giovanile in
Gran Bretagna e Stati Uniti (‘68 e dintorni), è il protagonista perduto e ritrovato
della prima personale italiana (dopo l’integrale dell’anno scorso alla Cinémathèque Française de Paris) organizzata dal 5
al 15 giugno da Bellaria Film Festival e Biografilm di Bologna.
A settantun anni d’inalterato charme,
fluida chioma ora color neve e pelle levigatissima, cui han dovuto soccombere le più
invidiate celebrità della prima generazione in minigonna (da Bianca Jagger alla “lolita” Mia Martin, alla modella Alberta Tiburzi, Niki de St. Phalle, Nico), il cineasta
sarà presente a entrambi i festival, dove
film e videoclip da noi inediti riaccenderanno l’iconografia grande schermo di big
band e vocalist allora emergenti: Rolling
Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd, Small Faces, Beach Boys, Jimi Hendrix, Nico. Veder
rifluire, in massa, le star allora implumi di
un’infinita arca del rock, il ‘68 di chitarre
elettriche e batterie indemoniate, urli soffiati nei doppi microfoni, strilli e svenimenti isterici di ragazzine all’assalto, sarà
come iniettarci negli occhi un concentrato
di Woodstock, un’overdose d’utopie anche sonore, di sogni formato slogan.
«Mio primo obiettivo è sempre stato di
trasferire nell’immagine l’energia della
musica», dice oggi Whitehead, che, in Led
Zeppelin del ‘70, martella e trapassa lo
schermo con i gridi riccioluti, quasi femminili, della band, rovesciandoci addosso
le chitarre taglienti, con effetti di 3D al naturale, senza bisogno di occhialini polarizzati. Ma la cinepresa di Whitehead — e, soprattutto, il suo meticoloso montaggio —
non si dà come unico orizzonte il palcoscenico. Le neo-star suonano e si rotolano
alla ribalta, ma fuori, attorno a quella mu-
È
sica, ci sono i suoni della guerra (all’epoca
il Vietnam, «prova generale dell’Iraq»), le
manifestazioni di protesta, gli assalti della
polizia, le barricate che stanno dividendo
l’Europa del passato da quella del futuro.
Nel filmato del ‘66 sui Beach Boys (voce
narrante Marianne Faithfull, poi compagna di Whitehead), le camicie pop, un po’
galeotte, a larghe strisce bianche e blu, si alternano agli statici, millenari passi ritmati,
davanti a Buckingham Palace, della Guardia della Regina. E nell’impressionante videoclip su Eric Burdon & the New Animals
(When I Was Young), le immagini sgranate e danzanti d’un documento tv su cabrate e avvitamenti dei caccia nei cieli di morte della Seconda guerra mondiale cadenzano il respiro musicale dell’artista. Ma
anche nel chiuso covo di fumo, fili elettrici
e riflettori, dentro il cerchio magico di una
ribalta ridotta a un volto e una chitarra —
Jimi Hendrix (Hey Joe) — il regista sa suscitare l’eco d’un’epoca. Capigliatura corvina, la bocca scolpita dai controluce, in uno
psichedelico va e vieni di rosso e di nero,
che ridipinge mani e faccia, Hendrix, che
bacia e lecca la chitarra, è un uccellaccio
solitario, l’ultimo milite d’una trincea musicale: già un fantasma, il mito che, dopo,
lo riporterà in vita. Ma il capolavoro è Lady
Jane (1967). Le immagini dei Rolling Sto-
nes e Mick Jagger, gote di poppante, scivolano dolci sullo schermo in un astratto ralenti, che avvolge la canzone in un tempo
di panna, soffice schiuma, nebbiosa, sospesa. Si parte da un sussurro e si finisce in
uno spezzone di cinema muto.
Nel cinema di Whitehead si trova solo
un’altra immagine d’incanto tanto limpido: in Fire in the Water, il film “d’addio” del
1977, l’aerea cascata — cui ci conduce il capriccioso pellegrinaggio agroturistico di
Nathalie Delon (altra love story) — che
perde ogni forza di gravità e si dipana nel
vento, in uno svaporìo di gocce senza peso. Si era letta, ai titoli di testa, un’epigrafe
brechtiana: «Delle grandi metropoli non
rimarrà nulla: solo il vento che le ha sfiorate». La magia di Whitehead, “registratore”
attento, tempestivo della cronaca, dell’istante che diventerà storia, è anche questa: il suo cinema si gonfia, vola, si fa vento,
è il falco che si solleva in solitudine, riplasmando il suo sguardo e spalmando lo
schermo di immagini liquide, pennellate
sulla tela — fire in the water, fuoco nell’acqua — promuovendo le asprezze della prima occhiata a una fluida rotazione di visioni e di simboli. Antonioni, Bergman,
Fellini: sono i registi, insieme al Godard
delle provocazioni intellettuali, che Whitehead chiama a modello, «i veri grandi au-
tori di cinema degli anni Sessanta», come
li definisce nella lunga videointervista di
due anni fa con Paul Cronin, In the Beginning Was the Image, anch’essa proiettata a
Bellaria e a Bologna.
Con Antonioni (oltre che con Godard,
ma con esiti grotteschi), ha avuto occasione di confrontarsi un paio di volte, ai tempi delle riprese a Londra di Blow Up: «La
prima è stata quando giravo A Rare Rolling
Stones Film (1966) sul tour in Irlanda dei
Rolling Stones, che ne ha fatto delle star anche cinematografiche, primo gradino di
una escalation ora giunta a Shine a Lightdi
Martin Scorsese. Antonioni ha visto un
montato nel mio appartamento a Soho
prima di girare la celebre scena in cui Jeff
Beck degli Yardbirds fa a pezzi la chitarra.
La seconda volta è stata per Tonite Let’s all
Make Love in London, sulla scena pop degli anni Sessanta: gli era molto piaciuta la
sequenza in cui faccio andare avanti e indietro, a fisarmonica, lo zoom, per seguire
i su e giù dell’inno nazionale».
Giovane, istintivo, entusiasta, Whitehead non si è mai fatto sfuggire una committenza, anche quando filmare era un
salto nel buio: «Quando ho detto sì al
manager dei Rolling Stones, non
avevo ancora ascoltato una loro canzone. È anche vero che
loro non erano ancora i Rolling Stones... Sono stato la
loro cavia e, forse, un po’
il loro trampolino: li ho
filmati proprio l’attimo prima che divenissero famosi. Esattamente quel che è
successo con i Pink
Floyd: sono stato il primo a riprenderli. Il filmato in cui si esibiscono
a Londra al poi mitico Night Club Ufo è il loro battesimo di celebrità: fino a quel
momento non erano nessuno. Senza saperlo, mi hanno ricambiato il favore: grazie alla riedizione in dvd nel ‘94 dei miei filmati, il mondo del cinema e della musica mi
ha “riscoperto”».
Figlio, e padre, dei leggendari Sixties
(«mi hanno definito il regista degli anni
Sessanta. Ma quando filmavo, filmavo
quel che vedevo, non mi ero fatto un programma, tipo: sto documentando un’epoca. Memorizzavo solo esperienze, emozioni, ribellioni di quel momento. Solo dopo, sarebbero divenute storia»), Whitehead ha stipato dentro una cinematografia contratta in poco più di dieci anni,
dal ‘64 al ‘77, un patrimonio di eventi e di
icone, non solo musicali: da Robert Rau-
LE RASSEGNE
La prima personale italiana
di Peter Whitehead è l’evento di
due rassegne, Bellaria Film
Festival - AnteprimaDoc, diretta
da Fabrizio Grosoli,
e Biografilm Festival
di Bologna, diretta da Andrea
Romeo. Alla presenza del cineasta
britannico, i film, per la maggior parte
inediti in Italia, verranno presentati
a Bellaria Igea Marina dal 5 al 9
e a Bologna dall’11 al 15 giugno
L’iniziativa, che ha il sostegno
della Regione Emilia-Romagna,
è completata dalla pubblicazione,
prodotta dal Festival di Bellaria
e edita da DeriveApprodi,
della monografia Peter Whitehead
Cinema, musica, rivoluzione,
a cura di Laura Buffoni
e Cristina Piccino, con contributi critici,
tra gli altri, di Nicole Brenez
e di Giandomenico Curi
(176 pagine, 13 euro)
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
BEACH BOYS
Nel filmato del 1966
Whitehead alterna
i passi del gruppo
a quelli della Guardia
della Regina davanti
a Buckingham Palace
A centro pagina:
Sandie Shaw nel 1967
nella sua boutique
di Londra
MICK JAGGER
Peter Whitehead
pettina Mick Jagger
prima delle riprese
Accanto, il leader
dei Rolling Stones
in un fotogramma
di Charlie
JIMI HENDRIX
FOTO JAMES JACKSON/GETTY IMAGES
Whitehead scelse
per il videoclip
di Hendrix effetti
psichedelici
con grandi
zoomate di luce
rossa e nera
schenberg e Bob Kennedy in The Fall
(1969) a David Hockney (con un paio d’occhialoni alla Elton John ricavati dalla scritta luminescente “zOOm!”), alla celebre
performance della gallina bianca strisciata su una tastiera e poi sbattuta (“suonata”)
contro i resti del pianoforte distrutto, fino
allo storico reading nel ‘65 di Allen Ginsberg alla Albert Hall, epico raduno londinese della Beat Generation (da Ferlinghetti a Corso) racchiuso nei trentaquattro minuti di Wholly Communion, secondo reportage (videoclip letterario?) del cineasta. Dopo trentun anni di esilio dal set, in
cui s’è dedicato
alla scrittura, alla
ceramica e all’allevamento dei falchi in Arabia Saudita, Whitehead è
tornato dietro la macchina da presa per girare a Vienna Terrorism Considered as One
of the Fine Arts(Il terrorismo come una delle belle arti) ispirato a un suo racconto: «Il
“film” Svariati aerei missile che Bin Laden
ha abilmente concepito e realizzato l’11
settembre non è un supremo esempio di
arte d’avanguardia?», è la caustica spiegazione. Di nuovo, con la cinepresa, sulle
tracce di un’altra leggenda, stavolta sanguinosa. Con l’immutata disposizione alla quête solitaria e già disillusa d’ogni suo
film. «Cerchiamo qualcosa che ci paia tanto reale da poter dimenticare noi stessi e la
nostra solitudine, per un secondo, un minuto, forse per anni... Sfuggiamo all’assurdo confidando fermamente in momenti di
comunione con il mondo fuori di noi»,
scriveva, già nel ‘67, in I Destroy Therefore I
Am (Distruggo dunque sono). Parole che
potrebbero essere pronunciate dal fotografo di Blow Up, anch’egli alle prese con
l’illusoria registrazione d’una realtà subito
mitizzata, perciò inafferrabile, di cui non
rimane tra le mani che un’invisibile palla
da tennis: o «il vento che l’ha sfiorata».
FESTARCH
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Riscatto rosa
TRE STELLE MICHELIN (Italia)
Nadia Santini
DAL PESCATORE
Località Runate
Tel. 0376-723001
Canneto sull’Oglio (Mantova)
TORTELLI DI ZUCCA
Due studenti di scienze politiche si innamorano:
il ristorante di famiglia da salvare, la suocera,
Bruna, ancora in cucina, a supporto
di Nadia, mentre Antonio sta in sala. Piatto-culto,
i tortelli di zucca mantovana: sfoglia soave
e ripieno arricchito da amaretti, mostarda, pepe,
noce moscata, chiodi di garofano,
cannella e parmigiano
Annie Feolde
ENOTECA PINCHIORRI
Via Ghibellina 87
Tel. 055-242757
Firenze
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
Come tutti i mestieri di successo
anche quello di chef è declinato
al maschile. L’Italia non fa
eccezione ma può vantare
la pattuglia di cuoche pluristellate
più folta d’Europa. Ora due libri
raccontano le storie di volontà e sacrificio
di chi è riuscita a rompere con la catena
di montaggio alimentare casalinga
e a tradurre il suo talento in piatti griffati
La
cucina
delle
Donne
LICIA GRANELLO
FEGATO GRASSO AFFUMICATO
Una marsigliese bella e indomita, un esperto
di vini, una città magica. A Firenze nasce
così l’enoteca più prestigiosa del pianeta,
impreziosita da piatti affascinanti. Il tradizionale
foie gras francese viene elaborato e servito
con una composta e gelatina di mele
A côté, pane tostato alle prugne
per accompagnare la dolcezza del fegato
Luisa Valazza
AL SORRISO
Via Roma 18
Tel. 0322-983228
Soriso (Novara)
FUNGO DEL SORRISO
Autodidatta di talento, entra in cucina
dopo la laurea in Lettere, rilevando un locale
di tradizione con il marito Angelo. La grazia
artistica (è pittrice) si esprime nel porcino
in doppia cottura: cappella passata pochi istanti
in forno, gambo tagliato in lamelle, spadellato
con erbe fresche e ricomposto, con emulsione
d’olio e prezzemolo
«Q
uando la gastronomia sarà una religione, con
il suo calendario, i suoi santi e i suoi confessori, le sue vergini e i suoi martiri, la Mère Fillioux
sarà canonizzata e diventerà una delle patrone della cucina francese». Scriveva così, adorante e mistico, monsieur Curnonsky — alias
Maurice-Edmond Sailland — principe dei gastronomi francesi negli anni Trenta. Oggetto di tanta devozione, Francoise Fayolle sposata Filloux, una de “Le Mères”, le Madri della cucina francese, piccolo gruppo di indomabili donne dei fornelli che a cavallo tra le due
guerre riscattarono generazioni di cuoche silenziose e dimenticate, conquistando il Gotha dell’haute cuisine internazionale a colpi
di Tre Stelle Michelin. Solo pochi mesi fa, Anne Sophie Pic è riuscita a rinverdirne i fasti, conquistando la terza stella e il titolo di migliore chef di Francia.
Due libri e un pranzo di piazza celebrano in questi giorni gli splendori dell’alta cucina al femminile, movimento a lungo trascurato e
misconosciuto in nome di una superiorità maschile tradotta in premi, stelle e classifiche gourmand. Da una parte, Le cuoche che avrei
voluto diventare, di Roberta Corradin (Einaudi); dall’altra Eugénie
Brazier e le altre, scritto da Alessandra Meldolesi per Le Lettere. In
entrambi i casi, scrittrici-gourmand e cuoche provette pronte a
riannodare il filo con le radici del proprio savoir-faire: ovvero dire,
fare, raccontare cucina e dintorni.
«Gli uomini sono dei geni, ma
noi siamo la storia», ama ricordare
Nadia Santini, chef tristellata da
una dozzina d’anni, considerata la
più grande cuoca italiana. Non è la
sola, se è vero che, unico caso al
mondo, la guida Michelin attribuisce il massimo dei giudizi possibili
a ben tre donne dello stesso Paese
(Annie Feolde, pur nata in Costa
Azzurra, vive a Firenze da oltre
trent’anni). A loro, vanno aggiunte altre tre super-cuoche con due
stelle Michelin: come dire che in nessun altro posto la cucina femminile viene riconosciuta, apprezzata, amata come da noi.
Eppure, quando si parla di cucina d’autore, facce, nomi e indirizzi sono tutti declinati al maschile. «Questione di fatica, di orari, di
sacrifici», sostengono i critici gastronomici (uomini), svelando solo una parte di verità. Perché le donne cucinano da sempre, coniugando come possono il meglio e il peggio della quotidianità alimentare, dalla necessità di variare i menù ai pochi soldi con cui realizzarli, accontentando bimbi svogliati e adolescenti a dieta, mariti ipertesi e anziani diabetici. Così, nella maggior parte dei casi, le
donne lasciano il palcoscenico all’artista di turno, ritagliandosi
ruoli esterni al cono di luce della celebrità, diventando sous-chef,
executive, capi brigata. In quanto alle nostre Magnifiche Sei Pluristellate, le loro storie sono storie di straordinaria volontà: spose con
mariti eredi di trattorie e locali, supportate da suocere disposte a
passare i loro saperi, assemblando amore, passione lavorativa e vita famigliare.
Ma le più giovani non ci stanno. Rivendicano una professionalità
svincolata dal passaporto matrimoniale. Vogliono essere cuoche
come sarebbero medici, insegnanti, avvocate, artigiane. Se non
avete tempo e modo di fermarvi in uno dei tanti indirizzi di alta cucina femmina sparsi per l’Italia, regalatevi una sera a teatro a Bologna. A luglio, dopo uno degli appuntamenti che fanno ricco il cartellone dell’Arena del Sole, potrete godervi una meravigliosa cena
nel chiostro annesso, curata dagli chef stellati dell’Emilia Romagna.
Scoprirete il talento di Aurora Mazzucchelli, stella Michelin a Sasso Marconi: giovane, sveglia, bravissima. Perfino senza avere un
marito accanto.
Nadia, Luisa,
Annie e le altre
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
TRE STELLE MICHELIN (Europa)
DUE STELLE MICHELIN (Italia)
Anne-Sophie Pic
Carme Ruscalleda
Nadia Moroni
MAISON PIC
285, avenue Victor Hugo
Tel. (+33) 475441532
Valence (Drôme)
SANT PAU
Calle Nou 10
Tel. (+34) 93-7600662
Sant Pol de Mar (Barcellona)
IL LUOGO DI AIMO E NADIA
Via Montecuccoli 6
Tel. 02-416886
Milano
AGNELLO CON GIALLO DI CECI
TONNO CON PISELLI TENERI
SPAGHETTI AL CIPOLLOTTO
Nipote e figlia di cuochi “tristellati”
(il nonno André nel 1934, il padre Jacques
nel 1973) è salita sul podio più alto l’anno scorso,
dopo quarant’anni di assenze femminili
Il trancio di sella di agnello da latte arrostita
in casseruola viene adagiato su un ristretto
fondente di verdure aromatizzato alla cannella,
con sfera cremosa di ceci
Autodidatta virtuosa, capace
di inventarsi cuoca quando, insieme al marito
Toni, trasforma in locale gourmand un vecchio
hostal di fronte al mare in Catalogna
Il cubo di tonno rosso, dalla doppia
consistenza – croccante e sapido all’esterno,
crudo e dolce all’interno – si gusta al meglio
con una zuppetta tiepida di primizie di piselli
Due chef per una storia d’amore e di cucina
che dura da più di mezzo secolo. Oggi, Aimo
è soprattutto affabulatore in sala, mentre Nadia
è ancora e sempre in cucina
Gloriosi i suoi spaghetti Senatore Cappelli,
spadellati in un sugo di cipollotti, alloro, aglio,
timo, origano, pomodori, peperoncini,
rifiniti con extravergine e basilico
Valeria Piccini
L’appuntamento
DA CAINO
Via della Chiesa 4
Tel. 0564-602817
Montemerano (Grosseto)
Appuntamento femminile
e goloso, oggi, a San Vincenzo,
Livorno, regno del “Gambero Rosso”
di Emanuela e Fulvio Pierangelini. All’interno
della festa “Tutti pazzi per la palamita”
che ogni anno celebra le virtù del fratellino
misconosciuto del tonno, il grande ribelle
della cucina d’autore, dedicherà un pranzo
intero alle “over 65”, in segno
di riconoscenza per la grande
tradizione culinaria perpetrata
ai fornelli dalle donne
del borgo
PiCCIONE CON CROCCHETTA DI CASTAGNE
Trent’anni fa, la studentessa-sposina Valeria
entrò nella cucina della trattoria dei suoceri
con il neomarito sommelier Maurizio, facendone
un approdo goloso e raffinato. Strepitoso
il piccione con le sue frattaglie a guisa di patè
e crostino, con crocchetta di castagne del monte
Amiata e salsa di uva fragola allo champagne
Siamo nutrici, ci mettiamo il cuore
ALICE WATERS
enso che esista un approccio realmente diverso tra la cucina femminile e quella maschile. Noi cuciniamo in un
modo molto più fisico, mentre gli uomini agiscono secondo termini più astratti. Per carità, non credo si debba
fare necessariamente una divisione di sesso, nel modo di fare e gustare il cibo. Però, in un certo senso, la nostra
è una cucina più morbida e sentimentale, ancorata alla nostra origine, alla nostra storia millenaria, alla nostra attitudine a nutrire le persone. È un compito ancestrale che ci portiamo dentro, ed è strettamente connesso con la vita.
Nutrire, sfamare, sono imperativi che arrivano perfino prima di cucinare e infinitamente prima di “giocare” con il
cibo. Da sempre ci prendiamo cura del prossimo, a partire dalla nostra famiglia. Stiamo più attente all’intero percorso
del nutrire, dalla materia prima all’accoglienza del cliente. Ci riesce naturale. La vera differenza è questa. “Chez Panisse” è nato così, nel 1971, come bistrò di quartiere, dove mangiare esattamente come per un “dinner party” a casa:
goloso, piacevole, informale. Ogni sera serviamo menù a prezzo fisso che cambiano quotidianamente, secondo gli
ingredienti di stagione e la spesa del mercato.
Per quanto riguarda la cucina, il mio non è approccio gastronomico tout court, non ho mai pensato a me stessa come una chef in maniera stereotipata. Ho cominciato a fare questo lavoro, a vivere le mie prime esperienze nel settore, cercando semplicemente di dare il meglio di me stessa. Avevo come idea principale, quella di ricercare ed esaltare i sapori, i gusti primari. Fin da subito, ho scelto di usare materie prime biologiche, privilegiando un rapporto diretto con gli agricoltori. Piuttosto che procacciarmi gli ingredienti da negozianti o commercianti, ho deciso di andare alla fonte. C’è gente che mette tutta la propria coscienza e la propria passione nel lavoro che fa. Sono queste le persone
con cui mi piace relazionarmi.
Un’altra tappa importante è stata la nascita della “Fondazione Chez Panisse”, nel 1996. Lo staff è formato da tutte
donne. Supportiamo programmi di educazione alimentare nelle scuole, per far sì che il cibo serva non solo da nutrimento, ma anche per formare e dare forza ai ragazzi. Siamo riuscite a trasformare i cortili scolastici in orti. Gli “Edible
Schoolyards” rappresentano un’esperienza che può cambiare la loro vita, visto che obesità e diabete sono malattie
sempre più diffuse tra i nostri giovani. In classe, si studiano anche i problemi ambientali e i principi dell’agricoltura
biologica. Non è un caso se tra i libri che ho scritto, uno, Fanny at Chez Panisse, è dedicato proprio ai bambini, con ricette e piccoli racconti… Ma non pensiamo solo ai più piccoli. Nel 2003, abbiamo supportato l’avvio dello “Yale Sustainable Food Project”, con l’obbiettivo di rendere il cibo parte integrante dell’esperienza universitaria. L’altro impegno forte, è all’interno del “San Francisco Ferry Plaza Farmers Market”, l’associazione che promuove i mercati contadini e il consumo di cibo biologico e locale.
Al di là di queste attività con una grande presenza femminile, mi piace pensare che le nostre qualità culinarie e quelle maschili siano egualmente utili. Ciò non toglie che continuo a giudicare la cucina delle donne più strutturata. Certo, quando cercano di cucinare alla maniera degli uomini — così razionale e artistica, ma non voglio mettermi contro la mascolinità, almeno per come gli chef cucinano qui, negli Stati Uniti! — perdono qualcosa di stesse. Invece, le
donne che cucinano col cuore, sono convinta possano far passare questa pienezza, farla arrivare nei piatti, al palato
e all’anima dei commensali.
L’autrice, considerata una delle più colte e prestigiose cuoche del mondo,
gestisce il ristorante “Chez Panisse” a Berkeley, California, ed è vicepresidente di Slow Food International
FOTO WEBPHOTO
P
Maria Salcuni
LA TENDA ROSSA
Piazza del Monumento 9
Tel. 055-826132
San Casciano (Firenze)
BOCCONCINI DI CALAMARI
Un felice tandem romagnolo-pugliese:
lui, Silvano, in sala, lei, Maria, ai fornelli
Vent’anni di pizza come specialità della casa,
poi il grande salto nell’alta cucina
Golosissimi e appetitosi i bocconcini di piccoli
calamari, farciti con la polpa dell’astice,
appoggiati su vellutata di porcini
aromatizzata al timo
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
le tendenze
Corsi e ricorsi
Nata povera, la maglina che Chanel e Pucci resero
celebre torna oggi come protagonista assoluta
degli abiti primaverili firmati e non. Leggerissima, versatile,
ingualcibile, esalta il corpo delle donne, appaga la creatività
degli stilisti e promette perfetti drappeggi.Verrà festeggiata
tra qualche giorno con una mostra che s’inaugura a Prato
Jersey
un tessuto duttile, sensuale,
perfetto per le donne. E che
quest’estate farà da filo conduttore alla moda sia sartoriale che casual. Il jersey fa da asso pigliatutto, imperversa
nelle collezioni e, magicamente, mette
d’accordo tutti gli stilisti che lo amano e
lo considerano la «maglina dalle mille
opportunità». «É confortevole, fluida,
malleabile, piacevole al tatto — spiega
Antonio Marras, lo stilista di Alghero che
a Parigi disegna Kenzo —, la maglia di jersey non manca mai nelle mie collezioni.
Trovo che sia un tessuto con un alto indice di femminilità: conservo gelosamente
diverse foto di mia madre che risalgono
agli anni Sessanta, quando indossava
meravigliosi abiti in jersey fantasia».
Il jersey, che ha mille varianti tecniche
celebrate al museo di Prato, dove (dal 20
giugno) s’inaugura la mostra su L’evoluzione del tessuto per lo sport, ha una storia che parte nel secolo scorso, ma a farlo grande fu nel 1916 madame Coco che
aveva puntato gli occhi su questo materiale perfetto per realizzare capi essenziali. Da allora il jersey si è conquistato
un posto importante nel mondo della
moda. Ma i fasti veri li ha conosciuti negli anni Sessanta, grazie a Emilio Pucci.
«Ricordo una mitica sfilata a New York
— spiega Mario Boselli, presidente della Camera della moda e “re del jersey” in
quanto imprenditore del settore —. Il
marchese Emilio Pucci, osannato dalle
È
AFFUSOLATO
Linee affusolate
e stampe dai mille
colori. La nuova
collezione
Emilio Pucci,
disegnata
da Matthew
Williamson, gioca
su stampe
con onde e stelle
SPETTACOLARE
L’abito di Blumarine,
disegnato
da Anna Molinari,
è all’insegna
del glamour
Il corpo è fasciato,
esibito e la scollatura
sul seno abissale
La gonna lunga
e frusciante,
è perfetta
per il “red carpet”
La riscossa del tessuto
che si piega a tutto
LAURA ASNAGHI
SENSUALE
Anche le “signore
grandi forme”
di Elena Mirò,
marchio
del gruppo
Miroglio,
apprezzano
la sensualità
avvolgente
del jersey
signore americane, per dimostrare le incredibili performance del jersey aveva
portato in scena una modella in calzamaglia. Davanti a un pubblico incuriosito, la ragazza apriva un beauty case,
prendeva un pigiama palazzo, lo indossava, sfilava in passerella. E poi, sotto gli
occhi di tutti, si cambiava indossando
un abito da sera che estraeva sempre dal
beauty. Questo gioco la modella l’ha ripetuto dieci volte, dimostrando così che
in un contenitore piccolo piccolo poteva starci un guardaroba completo. Tutto in jersey, confortevole e chic».
Negli anni Sessanta il jersey era molto
popolare. La stragrande maggioranza
delle donne aveva le classiche vestagliette fantasia, più o meno colorate,
morbide, confezionate dalle sarte o acquistate nei negozi dove si faceva largo il
primo pret-à-porter industriale.
«Il jersey è uno dei pilastri del guardaroba femminile», conferma Anna Molinari di Blumarine che per l’estate ha
proposto abiti cortissimi, dai colori brillanti, arricchiti da drappeggi, perfetti
per le ragazze dai corpi scolpiti in palestra. Il jersey è donante e, come dice Alberta Ferretti, «ha un grande pregio: sa
esaltare le curve femminili e attenuare
le silhouette troppo spigolose o troppo
rotonde».
Una versatilità che ne fa il tessuto
ideale per mise sensuali. Donatella
Versace stravede per il «jersey di seta che accarezza il corpo delle donne e segue, con naturalezza, tutti i
loro movimenti». Tra i fan del jersey ci sono anche Prada, Moschino, Max Mara, Dior, Cavalli, Iceberg, Francisco Costa di Calvin Klein
(«l’effetto scultura è sorprendente») e
Tomas Maier di Bottega Veneta («la
fluidità del jersey è impareggiabile»). E,
come ricordano i due giovani stilisti di
Frankie Morello, il jersey ha pure un’anima democratica: «Nella sua versatilità si piega a tutto, diventando il massimo della semplicità e del comfort,
con le tradizionali t-shirt». A tutto jersey anche le collezioni “low price” di
Zara, Benetton, Stefanel, H&M, Mango
e Combipel.
DA VIAGGIO
GRINTOSO
RIGOROSO
Abito stile impero
con doppia
cintura
sotto il seno
Da Stefanel
la collezione
estiva è ricca
di abiti in maglina:
non si sciupano,
ideali da viaggio
I miniabiti
di Hugo Boss,
con le spalline
che si incrociano
davanti, hanno
la grinta che piace
alle ragazze
Ai piedi, gli stivali
estivi in morbido
camoscio
Un rigoroso
tubino nero
in jersey di Chanel
impreziosito
da una “pettorina
di piume”,
costata cinque
giorni di lavoro
agli artigiani
della Maison Desrues
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
Quel soffio sexy
addosso a Marilyn
LAURA LAURENZI
tutta donna. È la donna più donna
che abbia mai visto», disse allibito
Arthur Miller la prima volta che incontrò Marilyn Monroe. Quel giorno Marilyn
indossava un impalpabile abito in maglina di
jersey di Emilio Pucci. Un nulla, un soffio,
quanto di più sexy potesse accarezzare il suo
celebre corpo. Oggi quella stoffa leggerissima
e inconsistente la diamo per scontata, elastica quanto basta, pratica, luminosa, donante.
In realtà lo sdoganamento del jersey non fu
così automatico. E anche le sue metamorfosi
tecniche.
Le origini sono poverissime. Il jersey era un
tessuto di maglia che vestiva i pescatori dell’isola di Jersey, per questo si chiama così. Fu
l’attrice Lily Langtry, oggi dimenticata, a usare per prima questa stoffa per i suoi abiti, negli
anni Venti. Detta anche Jersey Lily perché era
nata in quell’isola, era considerata una delle
donne più belle ma anche più eleganti del suo
tempo, conosciuta più che per il suo talento
nel recitare perché diventò l’amante del principe del Galles, il futuro Edoardo VII.
Ma fu grazie a un’altra donna che negli stessi anni il jersey venne nobilitato: colei che trasformò radicalmente l’eleganza femminile,
non più basata sull’opulenza strutturale e sull’affettazione dei dettagli e dei tessuti, bensì
sulla semplicità, sulla linea sciolta, sul
comfort. Fu Coco Chanel a inserire con prepotenza la maglia e la maglina nel panorama
dell’alta moda.
Una moda prevalentemente sportiva, pratica — quella disegnata da Mademoiselle — di
derivazione maschile, nel rispetto delle esigenze del corpo, in aperto contrasto con il gusto imperante. Ma «la moda passa e lo stile resta», teorizzò Coco Chanel. Una rivoluzione
epocale, la sua: aver mandato in soffitta i corsetti e le stecche di balena, aver liberato la donna dal busto e dalla gabbia delle impalcature
e delle stoffe troppo rigide è il motivo per cui
passerà alla storia. La maglina, il tessuto lievemente cedevole ma che impeccabilmente
torna al suo posto, è un po’ la sua stoffa simbolo. E non importa che questa stoffa abbia, o
nasconda, umili origini: «Alcune persone
pensano che il lusso sia l’opposto della povertà. Non lo è. È l’opposto della volgarità», sosteneva Coco Chanel.
Ma dovettero passare vari anni prima che la
maglina di jersey avesse un rilancio glamour
come quello impressole dal marchese Emilio
Pucci, il sarto (la parola stilista non si usava ancora) del jet set nel vero senso della parola:
quelli e soprattutto quelle — ancora assai poche — che si spostavano continuamente in jet
e apprezzavano un bagaglio leggero e ridotto.
Vestiti esclusivi, certo, ma soprattutto pratici,
no iron. Non poteva essere che in maglina di
jersey il suo abito più famoso, da sera ma che
ripiegato aveva l’ingombro di un fazzoletto da
naso e pesava appena centosettanta grammi,
perfettamente ingualcibile anche se stretto in
un pugno, e coloratissimo grazie ai nuovi sistemi di tintura. Una tavolozza rubata alla natura: il rosa acceso della buganvillea mediterranea, il giallo dei limoni di Capri, il verde dei
prati di Toscana, il turchese dei fondali marini fotografati dallo stesso sportivissimo Pucci,
accostati e rimixati come in un caleidoscopio.
Era tutto nero, per la verità, l’aderente ed
elastico tubino che Marilyn indossava al primo incontro con Arthur Miller. Altre donne
molto celebri, non solo star ma aristocratiche
paladine del gusto, diventarono testimonial
di Emilio Pucci e dei suoi abiti leggeri come un
soffio: Consuelo Crespi e Diana Vreeland,
Gloria Guinness e Lauren Bacall, Marisa Berenson e naturalmente Jacqueline Kennedy,
tutte ingualcibili, nel viso e nello chemisier,
tutte vestite di maglina destrutturata.
Il resto è storia di anni recenti. Armani, per
citare solo il più noto. Ma anche Loris Azzaro,
che negli anni Settanta creò vestiti in jersey così fluidi e sciolti da sembrare dipinti addosso.
Perché un vestito deve soprattutto donare.
Deve stare bene e fare sentire bene chi lo porta. E poi Azzedine Alaia, già apprendista scultore, virtuoso dell’abito fasciante che somiglia a una seconda pelle.
Per tutti la moda del peplo, puntualmente rilanciata a ogni Olimpiade. Provate a fare un peplo con la seta cruda, con il rigido raso, con il ricco broccato, con le stoffe nobili:
impossibile.
«È
ACCESSORIATO
L’abito nero,
da gran sera,
di Dior fa parte
della collezione
dedicata al jazz
I sandali,
con tacchi
scultura,
sono tempestati
di cristalli
Svarowski;
la borsa
è zebrata;
il basco è nero,
ricoperto di anelli
EMILIO PUCCI
MORBIDO
È datato 1966 l’abito in jersey
in stampa multicolore creato
dal marchese Emilio Pucci
Fu lui, il sarto del jet set,
che nobilitò e rese di moda
la fluidissima maglina
oggi tornata in auge
Il vestito da sera più celebre
realizzato da Pucci
pesava solo 170 grammi
Abiti gioiello
per Alberta
Ferretti, amata
dalle star
del cinema
I drappeggi
in jersey
attenuano
le silhouette
spigolose
SENZA TEMPO
Con il jersey,
tessuto
ad alto indice
di seduzione,
Antonio Marras
crea abiti
senza tempo,
perfetti
sia per l’estate
che per l’inverno
MINIMALISTA
Il bello del jersey
è che sa scolpire
magicamente
il corpo. Così
pensa Francisco
Costa, il creativo
di Calvin Klein,
abile nel fondere
minimalismo
e sensualità
Repubblica Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 MAGGIO 2008
l’incontro
Sta ultimando “Miracle at St. Anna”,
il suo primo lavoro “italiano”,
un’opera sul massacro nazista
a Sant’Anna di Stazzema, che uscirà
in autunno. Lo chiama “il film
della mia maturità,
il più personale,
un omaggio
al neorealismo”
Il suo rimane ancora
un cinema scomodo,
spesso irriverente,
e non solo per i bianchi
“Non vado in giro a mordere
la gente - dice -. Ma i motivi
per esprimere rabbia ci sono sempre”
Arrabbiati
Spike Lee
bama 08” è la
scritta in bianco
sul nero della tshirt di Spike Lee e
accanto, a colori tenui, un disegno stilizzato suggerisce un astro nascente. Nessun dubbio, «No if!» ripete Spike Lee come uno slogan e, se la candidatura di
Obama risvegliasse barlumi di razzismo
negli americani democratici, «we shall
overcame», dice perentorio. L’incontro
con Spike Lee avviene in un padiglione
sulla spiaggia della Croisette a Cannes,
dove il cineasta «più arrabbiato d’America» è arrivato per presentare Miracle at
St. Anna, il film che sarà pronto per la fine di luglio, l’uscita negli Stati Uniti è
prevista il 20 ottobre e successivamente
nel resto del mondo, magari dopo la partecipazione al festival di Venezia o di Toronto. Tratto dal bestseller dell’americano James McBride, Miracle at St. Anna
racconta la vicenda di quattro soldati di
colore della 92ma divisione dell’esercito
americano che nel 1944 si ritrovarono
intrappolati a Sant’Anna di Stazzema in
Toscana, a combattere contro i nazisti e
contro il razzismo dei loro superiori.
Spike Lee lo definisce «il mio tentativo
di rinnovare il genere del cinema di
guerra. Dico che è come David Lean in
Italia, ha lo stesso spirito dei film del regista inglese. È una storia epica, per uso
di mezzi e di persone è la più impegnativa della mia carriera, più di Malcolm X. È
anche il film della maturità, dieci anni fa
non avrei potuto farlo, non ero pronto. È
vero che in tutti i film c’è qualcosa di personale dell’autore, ma questo è il più
personale, anzi famigliare». E ricorda
che, da bambino ancora in Georgia — è
nato ad Atlanta nel 1957 — ascoltava i
racconti di famiglia sulla guerra e «nel libro di McBride li ho ritrovati. Non mio
padre che aveva problemi di salute, ma i
sempre pronti ad accogliere i registi che
fanno soldi, ma il rapporto con Spike Lee
è stato sempre disturbato. Nel 1992 riuscì ad ottenere di fare Malcolm X grazie
anche a Denzel Washington, che con
l’interpretazione del leader dei diritti civili ebbe la candidatura all’Oscar, e «soprattutto perché convinsi Norman
Jewison, che era stato scelto per primo,
che solo un afroamericano poteva raccontare quella storia». Ma nel 2001 non
gli fu concesso di dirigere Will Smith in
Alì, un film che sentiva “suo”. «Will
Smith mi disse che avrebbe dovuto essere un film di grande respiro internazionale e capii subito che ripeteva l’idea
dei produttori che non mi ritenevano all’altezza».
Non è un caso che per Miracle of St.
Annanon è riuscito a trovare i quarantatré milioni di dollari negli Usa e considera «un altro miracolo l’intervento degli
europei, soprattutto degli italiani Roberto Cicutto e Luigi Musini che mi hanno permesso di fare il film, che peraltro
è molto diverso da film di guerra anche
belli come Soldato Ryan di Spielberg,
appartiene alla grande scuola del neo-
Una pellicola
non può e non deve
accontentare tutti
Non capisco perché
a me chiedono
sempre: “Pensa
che piacerà
agli afroamericani?”
FOTO CATARINA VANDEVILLE / EYEDEA
“O
CANNES
suoi fratelli erano stati nella Seconda
guerra mondiale. Guidavano camion,
perché allora, all’inizio del conflitto agli
uomini di colore non era consentito
combattere, potevano occuparsi dei
trasporti, delle pulizie, della cucina, lavori umili. Solo più tardi fu permesso loro di combattere, una delle prime divisioni di neri combattenti fu la 96ma che
sbarcò ad Anzio e in Sicilia».
Per Lee bambino, ancora Shelton
Jackson — Spike (punta) era il modo in
cui lo chiamava sua madre sgridandolo
per gli eccessi di vivacità ribelle —, «molto prima del Vietnam la guerra era quella di cui parlavano i miei zii: parlavano di
paura, di fughe, di compagni perduti, di
distruzione, il nemico erano i tedeschi.
Come molti reduci avevano bisogno di
tirare fuori l’orrore che si portavano
dentro. Ma Miracle non è solo un film
sugli afroamericani in guerra, è sul loro
rapporto con la Resistenza e i civili italiani, per loro erano i salvatori e si unirono per combattere insieme contro i nazisti. So che i partigiani in Italia sono un
argomento delicato e che qualcuno vorrebbe riscrivere la Storia, soprattutto
con un governo di destra, ma abbiamo
fatto ricerche accurate, abbiamo rispettato la verità. Comunque penso che il
film non piacerà a Berlusconi», dice poi
alzando il braccio nel saluto fascista, «è
vero che il sindaco di Roma era uno così?». Alla risposta affermativa ride.
Spike Lee non è uno di quelli dalla triste storia di ghetti e di violenza. Suo padre era un musicista jazz, sua madre insegnante, ma da giovanissimo, da quando la famiglia si trasferì a Brooklyn lasciando la Georgia devastata dai disordini per i diritti civili, ha recepito i problemi del razzismo, che hanno poi
alimentato il suo cinema, spesso irriverente, dove di frequente qualcuno grida
«Wake up!». Un cinema scomodo e non
solo per i bianchi. Film come Jungle Fever, in cui ironizza sulla «mitologia sessuale della donna bianca considerata
simbolo della bellezza e sugli uomini di
colore dotati di organi extrasize», oBamboozled, una satira feroce sulla tv, su come i bianchi mostrano i neri in tv, ma anche sull’immagine che gli afroamericani offrono di se stessi, hanno irritato parte della popolazione nera. «Un film non
può e non deve accontentare tutti. Non
capisco perché a me chiedono sempre
“pensa che piacerà agli afroamericani?”.
Ma a un regista bianco chiedono mai se
il suo film piacerà a tutto il pubblico del
suo colore?».
La fama di «più arrabbiato» l’ha conquistata fin dagli inizi con il cinema indipendente e a basso costo, prodotto
con la sua compagnia chiamata “40
acres and a mule filmworks” in riferimento alla promessa, mai mantenuta,
fatta dai politici sull’abolizione della
schiavitù dopo la Guerra civile. Il suo fu
un esordio grandioso, Lola darling, costato 175mila dollari, in parte messi insieme dalla nonna, ne incassò sette milioni. Gli Studios di Hollywood sono
realismo, è un omaggio a Ladri di biciclette, Paisà, Roma città aperta». La differenza da Spielberg? «Spero che il pubblico la capisca quando lo vedrà. Io la so
ma non sta a me dirla». La dice il produttore Cicutto: «C’è chi tende allo spettacolo della guerra e chi, come Spike, cerca l’umanità di chi la guerra subisce».
Con il film Lee ha realizzato un sogno.
«Sono venuto in Italia per la prima volta
a presentare Lola darling, il mio primo
film, e mi sono trovato così a casa che ho
deciso di girare in Italia appena possibile. Sono passati più di vent’anni e ci sono riuscito». Lo Spike Lee timido e smarrito che vent’anni fa scopriva Roma «è
andato, non c’è più. Spike Lee è cresciuto, oggi è un padre, un marito, un filmmaker più bravo», dice lui. Molte cose
sono cambiate nella sua vita. Non appare più sulla stampa pettegola che ne stanava i flirt con modelle e attrici (una era
Halle Berry) e appare in pubblico con la
moglie Tonya Lewis e i due figli, è passato da Brooklyn a Manhattan, ha imparato a ridere delle sue contraddizioni: come quella di non aver mai preso la patente e aver girato spot per una marca di
auto; o il contrasto tra il suo cinema da
grande schermo e la partecipazione come giudice a Babelgum, il concorso per
brevissimi film destinati all’online. Non
è cambiato però nell’attaccamento alla
famiglia, padre, fratelli e sorelle sono impegnati nella produzione e a Manhattan
ha comprato una casa gigantesca dove
sono sistemati i diversi nuclei famigliari.
Ma è rimasto «il più arrabbiato»? «Non
vado in giro a mordere la gente, ma i motivi per esprimere rabbia ci sono sempre». L’ultimo è stato l’uragano Katrina,
su cui ha realizzato un bellissimo, commovente film documento, Requiem in
quattro atti. Fu un’esperienza dolorosa
vedere i miei concittadini, per la maggior parte afroamericani, vivere quell’orrore ed ero scandalizzato dalla lentezza degli interventi del governo federale. Ogni volta che vengo in Europa i
giornalisti mi fanno domande sulla situazione dei neri, come se fossi il portavoce di quarantacinque milioni di afroamericani, e non lo sono. Non avevo risposte alle tante domande che mi facevano in quell’occasione, ma mi confortò
che anche la stampa italiana era scandalizzata, qualcuno scrisse che New Orleans non sembrava America, ma Terzo
Mondo».
Tornato in patria le risposte le ha trovate. «Misi insieme una piccola troupe a
andammo a New Orleans. La prima scoperta fu che a distruggere la città non era
stato tanto l’uragano quanto il sistema
di fognature che si era rovinato e che
aveva allagato l’ottanta per cento del territorio. Ho scoperto anche che, mentre
gli abitanti di New Orleans sparivano
nell’acqua o erano costretti a lasciare la
città con mezzi di fortuna, la signora Rice era a Madison Avenue a comprare le
scarpe di Ferragamo, Cheney era in vacanza, e così pure il presidente Bush.
Che interruppe la vacanza ma aveva al-
tri impegni prima di dirigersi a New Orleans».
Requiem in quattro atti«è stato il lavoro più duro della mia vita. Per chiunque
credo sia difficile andare a parlare con
persone che hanno perso famigliari e
amici, che non hanno più niente, neanche la speranza. Ma penso che valesse la
pena. Intanto ha dimostrato quanto a
Bush interessi poco la vita e il destino dei
poveri e degli afroamericani, la maggioranza degli abitanti di New Orleans. È
curioso che, se succede un disastro naturale in Birmania o in Cina, leggiamo
che il governo Usa è subito pronto ad intervenire… Il film è stato utile nel tempo,
ha risvegliato le coscienze di tanti americani che ignoravano la realtà ed è diventato difficile per il governo non darsi
da fare per la ricostruzione».
Per ora c’è un’altra rabbia repressa
che Lee vorrebbe sfogare in un film:
quella per i disordini di Los Angeles e per
il comportamento razzista della polizia,
su cui ha raccolto una lunga documentazione e steso una prima sceneggiatura, ma non riesce a trovare qualcuno disposto a finanziare il film. Per fortuna sta
per andare in porto un altro progetto che
gli è caro. Spike Lee è appassionato di
molti sport, compreso il calcio, è un ammiratore entusiasta dell’Arsenal, è amico da anni dell’ex capitano Thierry
Henry, gli piace indossare la maglia della squadra. Ma il vero amore è il basket,
non a caso nei suoi film c’è sempre qualche personaggio che ne discute. E se nel
cinema il suo film preferito è Il cacciatoree il suo autore è Michael Moore, nel basket l’idolo è Michael Jordan. Si sono incontrati per la prima volta in occasione
degli spot per la Nike e «ho scoperto un
essere umano fantastico con una bellissima storia personale da raccontare.
L’ho scritta e, quando avrò finito Miracle
of St. Anna, comincerò a girarla. Michael
è prontissimo e mi ha espresso spesso il
desiderio di venire a Cannes. L’anno
prossimo ci saremo con il film».
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MARIA PIA FUSCO
Repubblica Nazionale