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Domenica l’attualità I duellanti, condannati all’odio-amore La di DOMENICA 25 MAGGIO 2008 EMANUELA AUDISIO il reportage Repubblica Famagosta, la bella addormentata MARCO ANSALDO e DARIO BIOCCA Nella Macchina del Tempo Al Cern di Ginevra sta per essere avviato l’Lhc, FABRIZIO RAVELLI A GINEVRA cavallo della frontiera franco-svizzera, fra il lago Lemano e il paese di Voltaire, la storia del mondo si prepara a una svolta. In mezzo a paesini ordinati coi loro campanili, i prati ben rasati, i vigneti e le mucche che brucano, l’umanità intera sta per fare un passo avanti, un salto forse, nella conoscenza dell’universo, della materia e delle forze sconosciute che lo tengono insieme. «Sappiamo che qualcosa succederà — dice Fabiola Gianotti, milanese —. È un momento storico per la scienza, e quel che scopriremo potrebbe cambiare i libri di testo. Fra un anno o due, c’è la possibilità che si scopra l’origine della materia oscura che costituisce il venticinque per cento dell’universo». Quando sente parole del genere, un povero profano ha due scelte. O si arrende, volta le spalle e torna alla sua esistenza semi-animale, alle prese con forme di materia rozza (carta, benzina, asfalto, pastasciutta). Oppure passa i cancelli del Cern, si affida a una serie di gentili scienziati compatrioti che qui lavorano, e prova — se non a capire — a immaginare almeno, a percepire le vibrazioni del momento storico. Mancano poche settimane. Poi il più grande acceleratore di particelle del mondo, l’Lhc (Large Hadron Collider), verrà avviato. (segue nelle pagine successive) FOTO CORBIS il più grande acceleratore di particelle del mondo Ci riporterà al Big Bang e ai suoi misteri Siamo andati a visitare quest’opera straordinaria DANIELE DEL GIUDICE la memoria H Pissard, lo stregone del petrolio erbert George Wells pubblicò questo romanzo breve nel 1895 come Una esplorazione per il futuro. E a dire il vero, l’esplorazione e l’esperimento e il futuro furono la vita stessa di Wells. All’inizio del romanzo il viaggiatore nel tempo, così chiamato, si rivolge ai suoi amici raccolti nel salotto, uno psicologo, un matematico, un medico, il Sindaco provinciale, tutti ad ascoltare un nuovo paradosso del viaggiatore. Il problema che vuole trattare è che qualsiasi corpo reale deve estendersi in quattro direzioni: lunghezza, larghezza, spessore e durata. Ma per una imperfezione di natura viene trascurato l’ultimo fattore, ai tre corpi dello spazio conosciuti occorre aggiungerne un altro, lo spazio del tempo. Del resto gli scienziati, dice il viaggiatore, sanno perfettamente che il tempo è soltanto una specie di spazio. La grande difficoltà, secondo lo psicologo, è che ci si può muovere in tutte le direzioni dello spazio, ma non nel tempo. Il viaggiatore nel tempo, sorridendo, risponde che noi ci muoviamo liberamente nello spazio, certo, liberamente in due dimensioni, ma la gravità ci pone dei limiti. (segue nelle pagine successive) con un’illustrazione di MIRCO TANGHERLINI FILIPPO CECCARELLI i luoghi Il museo dei soldatini, giocattoli da re ALESSANDRO BARBERO e GIAN LUCA FAVETTO cultura Quando D’Annunzio querelò Scarpetta LEONETTA BENTIVOGLIO, BENEDETTO CROCEeSALVATORE DI GIACOMO l’incontro Spike Lee, così cambia la mia rabbia MARIA PIA FUSCO Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 MAGGIO 2008 la copertina Un tunnel circolare, lungo ventisette chilometri e profondo cento metri, costruito per “sparare” fasci di protoni alla velocità della luce e farli collidere sotto lo sguardo di ottomila scienziati. Permetterà Macchine del tempo di far luce su misteri della fisica come la materia oscura, l’antimateria, la “particella di Dio” All’origine dell’universo (segue dalla copertina) ue fasci di protoni cominceranno a viaggiare, nei due sensi, lungo il tunnel di ventisette chilometri a cento metri sotto terra. Si scontreranno in quattro rivelatori, sorta di colossali macchine fotografiche che fisseranno le immagini dell’impatto. Vedremo l’origine dell’universo, che cosa è successo un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang, perché quelle sono le condizioni che verranno ricreate. Un progetto simile non è mai stato tentato, ed è il più ambizioso al mondo. Non poteva succedere che qui al Cern, il più importante laboratorio planetario per la fisica delle particelle, l’impresa che (dal 1954) tiene insieme venti stati membri europei, e circa sessanta di tutto il mondo, impegnando ogni giorno ottomila scienziati. Da luglio in avanti, e per i prossimi anni, ci si aspetta di scoprire qualcosa che non è mai stato visto, ma solo immaginato coi modelli teorici. Oggetti misteriosi come la materia oscura, l’antimateria, le supersimmetrie “Susy”, o il bosone di Higgs, ipotetica particella elementare che il Nobel Leon Max Lederman ha chiamato (facendo storcere la bocca a molti colleghi) «la particella di Dio». L’attenzione (non eccessiva) della gente normale verso questo progetto è stata risvegliata poco tempo fa dall’iniziativa di due personaggi che hanno tentato di bloccarlo. Con un appello al tribunale delle Hawaii (uno dei due abita lì, e vi ha fondato l’orto botanico), Walter Wagner e Luis Sancho hanno sostenuto che l’Lhc è una sorta di «arma fine di mondo» come quella del Dottor Stranamore, che può produrre “buchi neri” in grado di inghiottire Ginevra e poi l’intero pianeta. Tesi bizzarra, che gli scienziati considerano un’autentica fesseria. Già in passato esperimenti simili (ma più limitati) avevano fatto gridare al pericolo di fine del mondo, e poi non era successo niente. Ma, paradossalmente, la boutade di D Wagner-Sancho ha avuto il merito di ricordare che qui al Cern qualcosa di sensazionale sta per avvenire. Non «fine di mondo» ma, casomai, la messa in scena del suo inizio. Nella sala controllo del Cern un fisico italiano, Roberto Saban, tiene d’occhio sui monitor l’anello sotterraneo che si avvia verso il momento dello start. È il responsabile del collaudo. «Il fascio di protoni viaggia all’interno di una conduttura sotto vuoto, e viene guidato da magneti che gli danno la curvatura necessaria lungo l’anello. Sono 1232 magneti superconduttori, ognuno un bestione lungo 15 metri e pesante 32 tonnellate, alimentati a 12mila ampére. Specie di thermos, che all’interno hanno una massa raffreddata a 1,9 kelvin, cioè meno 271 gradi». A quella temperatura, le bobine di niobio-titanio non presentano resistenza. Se si usassero magneti “caldi”, per raggiungere la stessa energia l’anello dovrebbe essere lungo 120 chilometri, e consumerebbe 40 volte tanta elettricità. «Sono magneti “di frontiera”, che lavorano al limite della loro progettazione — spiega Saban — Così come la criogenia, cioè il sistema di raffreddamento». Tutto qui è di frontiera, innovativo, avanti: l’ingegneria, i materiali, i progetti. In ogni campo, la sperimentazione produce ricadute che fanno fare passi avanti alla vita di tutti i giorni. La tecnologia degli acceleratori trova applicazione in campo tumorale e nella diagnostica medica, così come nello studio dei superconduttori, o nei sistemi di screening delle merci negli aeroporti. Il Cern è, insomma, anche un buon affare per gli Stati che lo finanziano, Italia compresa. Ma vediamo l’anello che Saban sta collaudando. I fasci di protoni (cento miliardi di protoni, in 2800 «pacchetti») viaggeranno all’interno di un condotto (dieci cm di diametro interno) dove viene creato l’“ultravuoto”, più vuoto che nello spazio, un decimillesimo di miliardesimo della pressione al livello del mare. I protoni andranno alla velocità della luce, e faranno il giro dei 27 chilometri undicimila volte al secondo. Alla massima potenza dell’Lhc, ogni fascio avrà un’energia pari a quella di un auto lanciata a 1600 chilometri orari. Ogni protone 7 tev (tera elettrovolt), quindi ogni collisione raggiungerà i 14 tev: una soglia mai raggiunta, e considerata necessaria per liberare e riconoscere particelle mai viste. Saban si prepara a controllare l’anello, i magneti che guidano, ripuliscono e concentrano il fascio, le temperature di esercizio: «All’inizio, succederà che non sapremo pilotare la macchina, ma ci aggiusteremo presto». Lungo il percorso, dentro enormi caverne sotterranee, ci sono i rivelatori, quattro in tutto. Due (Atlas e Cms) sono “general purpose”, hanno cioè compiti di osservazione più larghi, seppure con tecnologie diverse. Gli altri due (Alice e Lhcb) sono indirizzati a obiettivi più specifici. Paolo Giubellino, fisico torinese dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare), è uno dei responsabili di Alice (A Large Ion Collider Experiment): «Alice studia la materia nucleare ad alta densità, e cioè il momento in cui si è passati dalla pappa di quark-gluoni alla formazione di protoni e neutroni. Circa venti milionesimi di secondo dopo il Big Bang». Sarà la prima fase dopo l’avviamento del grande acceleratore, quando per creare Qgp (il plasma di quark-gluoni) si faranno scontrare nuclei di piombo: «Alice è progettata per la- ELETTRONI PROTONI o ai ci ac d’ re o ai st ci La ac d’ re st La MUONI QUATTRO STRATI i et gn a ma tin di en a rp ric Se ilind c CMS SEZIONE TRASVERSALE Punto d’impatto Disegna l’esatto tracciato che ogni particella caricata sta compiendo FOTONI NEUTRONI Cattura l’energia di adroni, particelle come protoni, neutroni, pioni e kaoni CMS l’acceleratore Lhc per la prima volta raggiungerà. Il termine materia oscura indica anche la nostra ignoranza. Siamo di fronte a un muro, e abbiamo moltissime domande. In questo senso, ci si può aprire un nuovo mondo, e la posta in gioco è bellissima». Tutti i libri di testo potrebbero finire in archivio. Dietro quel muro si potrebbe scoprire l’esistenza del bosone di Higgs, finora solo ipotizzata: un campo di energia che determina le diverse masse delle particelle. O delle particelle supersimmetriche dette “Susy”, che potrebbe spiegare la materia oscura, e di massa abbastanza elevata da non poter essere state prodotte finora artificialmente. Non con il Lep, l’acceleratore del Cern che ha preceduto l’Lhc. Guido Tonelli, fisico pisano, è uno degli scienziati responsabili del Cms, l’altro grande rivelatore. Ha gli stessi obiettivi, grosso modo, di Atlas, ma con tecnologie diverse. E ciascuno dei due, in pratica, verifica i risultati dell’altro. «Osserveremo un miliardo di collisioni al secondo. Fra queste ne sceglieremo centomila che potrebbero essere interessanti, e alla fine solo cento da immagazzinare su disco. E un flusso di informazioni paragonabile, in quell’istante, all’intero flusso di informazioni del mondo». Ecco quindi che, in un caverna adiacente a quella di Atlas, c’è una grandissima “farm” di computer per selezionare i dati prima di inviarli al centro di calcolo. Il tunnel sta per essere chiuso, in preparazione dello start. L’ultimo segmento aperto è quello che ci mostra Francesco Bertinelli, ingegnere milanese, che per andare avanti e indietro sotto terra usa la sua mountain-bike: «Questa che vediamo al Punto 4 è la cavità di radiofrequen- peso 12.500 tonnellate Lastre d’acciaio Entrata protoni COLLISIONE E RIVELAZIONE Fasci di protoni lanciati gli uni contro gli altri si scontrano. L’esplosione di energia emette nuove particelle. Queste passano attraverso una serie di rivelatori disposti a strati come una cipolla Cattura l’energia di elettroni e protoni vorare a intensità più bassa, quindi per il primo anno lavorerà bene. A bassa intensità, gli eventi sono più rarefatti. Poi gli altri si metteranno a correre. Ma tutti e quattro continueranno a prendere dati insieme. Qui è come se si lavorasse in grandi esplorazioni geografiche, con un gran numero di persone: per ogni rivelatore c’è il contributo di cento istituti di una trentina di paesi diversi». I rivelatori sono macchine enormi, costruite intorno alla condotta centrale dove passerà il fascio. Fabiola Gianotti lavora ad Atlas, un arnese lungo 46 metri con un diametro di 25 e pesante circa settemila tonnellate: «Qualunque sia la fisica nuova che si rivelerà, Atlas e Cms la vedranno. Oggi conosciamo bene il mondo delle particelle elementari, descritte dalla teoria del Modello Standard. Il modello spiega bene, ma non risponde a tutte le domande. Sappiamo che nell’universo c’è un venticinque per cento di materia oscura, e un settanta di energia oscura. Nessuna delle particelle che conosciamo può spiegare la materia oscura». Il Modello Standard è una teoria che disegna la situazione delle nostre conoscenze. Ma la cosa che sembra sensazionale (a un profano) è che tutto quello che si conosce, la cosiddetta materia ordinaria di cui noi e ogni oggetto sulla Terra sono costituiti, non rappresenta che il sei per cento della materia ed energia dell’universo. La nostra ignoranza è sconfinata: «Al di là del Modello Standard ci sono molte teorie, e fenomeni che oggi non conosciamo, anche se abbiamo qualche idea. La soglia in cui il Modello Standard comincia a dare segni di cedimento è proprio a quella scala del tev, di energia, che altezza 15 metri FABRIZIO RAVELLI lun gh ezz a 21 me tri CMS Uno dei due grandi rilevatori costruito intorno a un solenoide Individua un ampio spettro di particelle Serpentina cilindrica di magneti Fatta di lastre di acciaio per contenere il campo magnetico Rileva i muoni, le uniche particelle cariche che possono sfuggire agli altri strati ALICE Ricrea le condizioni subito dopo il Big Bang LHCB ATLAS Analizza le differenze tra materia e antimateria ACCELERAZIONE Due fasci di protoni che viaggiano in direzione opposta vengono accelerati quasi alla velocità della luce percorrendo l’anello più volte mentre attraversano una serie di rilevatori Repubblica Nazionale DOMENICA 25 MAGGIO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 Gli esploratori del futuro DANIELE DEL GIUDICE l’esperimento LA MACCHINA Il Large Hadron Collider è un acceleratore di particelle: un tunnel circolare lungo 27 km cento metri sottoterra I RIVELATORI L’impatto delle particelle avviene in quattro rivelatori che fissano le immagini dell’esperimento: Atlas, Cms, Alice e Lhcb GLI SCIENZIATI Al Cern lavorano ottomila scienziati. Gli Stati membri del laboratorio sono sessanta nel mondo e venti in Europa LE APPLICAZIONI La tecnologia Lhc, tra l’altro, ha applicazioni nella diagnostica medica, nei superconduttori, nello screening delle merci curioso che il romanziere inglese affronti questo tema nel 1895, prima ancora che nel 1905 il giovane fisico tedesco Albert Einstein pubblicasse i primi lavori sulla simmetria della relatività ristretta. Era forse l’epoca per una narrativa scientifica, e nelle sue fattispecie anche per il “romanzo di utopia” che mirava con una fantasia precisa all’ambito sociale. Ritornando al racconto, il nostro viaggiatore discute con i suoi amici della novità concreta di una quarta dimensione temporale. Passo per passo Wells e il suo viaggiatore cercano di accreditare ai loro amici la possibilità di un esperimento. Un viaggio nel tempo! Gli altri amici, fortemente scettici, chiedono come sia possibile. Ma il viaggiatore ne ha fatto già l’esperienza. A fatica, sono confortati dalla prova fornita dal viaggiatore, che presenta la Macchina con cui viaggiare nel tempo. Ma la macchina non è quella vera che si aspettavano, è un piccolo modello nel salotto. Bellissima astuzia di Wells per prolungare l’attesa degli astanti, e le loro curiosità. La macchina vera è nel laboratorio del viaggiatore: sporca, acciaccata per gli incidenti nell’attraversamento di secoli e millenni. Incantati dalla grandezza della macchina gigantesca e vera, smagliante nella sua nuova tecnologia, gli amici si attendono l’esperimento promesso e quindi una partenza immediata del viaggiatore. Scopriamo invece che il viaggiatore nel tempo non è in partenza, anzi è appena ritornato. Stanco, dolorante, devastato per quello che ha visto e sofferto, e così la narrazione procede all’indietro. Il racconto che ci offre il viaggiatore è una sequenza di È stazioni in cui ha sostato con la sua macchina specialissima. La prima stazione, ricorda, è stata nel mondo dell’anno 802.000, una stazione successiva all’Età dell’oro quando i popoli ci avrebbero superato nelle scienze, nelle arti, insomma in tutto, avrebbero superato anche le previsioni più ottimistiche su una futura umanità molto austera e intelligente. Ma il viaggiatore nel tempo a una stazione successiva, incontra anche il Tramonto dell’umanità, gente totalmente indolente, priva di interessi e facile a stancarsi. In una stazione ancora più successiva il viaggiatore nel tempo scopre un popolo sotterraneo, i Morlocchi, creature del buio, creature della terra del profondo illimitato. E che in un momento sono emersi in superficie, e gli hanno rubato La macchina del tempo. In questo mondo tellurico il viaggiatore non riesce a credere che queste creature possano vivere nel sottosuolo. La prima ipotesi che formula è quella di una società del benessere, affrancata da ogni lavoro e mantenuta da una specie di proletariato antropologico che vive nelle viscere della terra e lì lavora producendo le cose necessarie per il sostentamento di quella società “di sopra”. In questo senso, la divisione tra sopra e sotto mi ricorda le divisioni esasperate in classi sociali nelle grandi città europee a cavallo del secolo, tra Ottocento e Novecento. Nel grande esperimento in corso al Cern di Ginevra, in questi tempi, fisici, matematici, tecnici hanno accolto con molta felicità la lettura specifica de La macchina del tempo di Wells. A tal punto che il Grande Lhc, Large Hadron Collider, l’acceleratore più potente al mondo, potrebbe trovare un modo per viaggiare nel tempo. NEUTRINI Sono così piccoli che passano attraverso il rilevatore senza essere rilevati. La loro presenza si deduce dalla differenza tra l’energia iniziale e finale della collisione Circonfere nza 27 km km 8,5 tro e m Dia ATLAS Il secondo dei due grandi rilevatori che analizza anche particelle che potrebbero formare materia oscura COLLISIONE E RIVELAZIONE Fasci di protoni lanciati gli uni contro gli altri si scontrano. L’esplosione di energia emette nuove particelle. Queste passano attraverso una serie di rivelatori disposti a strati come una cipolla peso 7.000 tonnellate altezza 25 metri Entrata protoni etri 6m za 4 z e h lung ATLAS SEZIONE TRASVERSALE QUATTRO STRATI Disegna l’esatto tracciato che ogni particella caricata sta compiendo Punto d’impatto ELETTRONI Cattura l’energia di elettroni e protoni MUONI NEUTRONI Pista sagomata da magneti Pista sagomata da magneti Cattura l’energia di adroni, particelle come protoni, neutroni, pioni e kaoni Rileva i muoni, le uniche particelle cariche che possono sfuggire agli altri strati Il passaggio avviene attraverso magneti non composti da pesanti lastre d’acciaio. Questo rende la struttura più grande ma meno pesante del Cms Repubblica Nazionale ILLUSTRAZIONE DI MIRCO TANGHERLINI (segue dalla copertina) za, in pratica il pedale dell’acceleratore. Ad ogni passaggio il flusso di protoni aumenta la sua energia». Moltissima tecnologia è di produzione italiana: un terzo degli enormi magneti, per esempio, o i tubi senza saldature della Dmv di Costa Volpino. Infine l’ultimo rivelatore, l’Lhcb: «Questo è diverso dagli altri — spiega Carlo Forti, romano — perché non è circolare ma asimmetrico. Osserverà i mesoni B, che dopo la collisione vanno da una parte sola. E studieremo l’asimmetria materia-antimateria, un miliardesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. A una temperatura di dieci milioni di miliardi di gradi». Tutti i dati degli esperimenti finiscono al Computer centre: «L’analisi è la parte finale — spiega Massimo Lamanna, udinese — Ma qui è anche il punto di ingresso nella struttura del Grid». Qui, nel 1990, Tim Berners-Lee inventò il web, quel www che tutti ora conoscono: c’è ancora, in vetrina, il pc marca Next che venne usato. E qui si è creato adesso il Grid: «La necessità di calcolo era enorme, e si è pensato a una “griglia” che funzionasse come la rete elettrica. L’Lhc produrrà 15 milioni di gigabytes di dati ogni anno, qualcosa come tre milioni di dvd». Questa capacità di calcolo, e di stoccaggio dati, è stata distribuita in circa duecento centri sparsi per il mondo, e interconnessi. In Italia il nodo è Bologna, a sua volta collegato con altri nove istituti. Bene, qualche settimana e l’Lhc comincerà a funzionare. Ma c’è qualcos’altro, al di là delle probabili rivelazioni in grado di sconvolgere la conoscenza, che impressiona qui al Cern. Si sono fatte tesi di sociologia e di antropologia per capire come può funzionare tanto bene: «Qui lavora gente di culture diverse, senza avere una struttura coercitiva — dice Paolo Giubellino —. E si cerca, quindi, ogni volta il consenso». «C’è competizione, ma in assoluta trasparenza e totale condivisione dei dati — dice Guido Tonelli —. È qualcosa che in una struttura privata non esiste». Uscendo dal Cern, dopo questa sbornia di eccitazione per il futuro in arrivo, c’è solo da chiedersi: perché non esiste un Cern per la cura del cancro o dell’aids? 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA l’attualità Oltre lo sport DOMENICA 25 MAGGIO 2008 Oggi è Inter-Roma. Prima erano state Juve-Roma, Mazzinghi-Benvenuti, Coppi-Bartali. Sfide infinite tra avversari che si giocavano molto più della vittoria Perché nella lotta tra Frazier e Ali, Borg e McEnroe, Trillini e Vezzali, Rossi e Biaggi quello che conta davvero è liberarsi dall’incubo dell’appuntamento con la nemesi EMANUELA AUDISIO o sport è promiscuità, è sentire l’altro vicino, troppo vicino. Roma contro Inter, again. Un serial infinito, pieno di repliche e di prossime puntate. Conrad l’aveva capito: l’odio di chi duella non ha mai pace. Non è solo agonismo, è molto di più. Un impasto di cose brutte: rancore, gelosia, ossessione. E di roba freudiana: invidia, diversità, tu che ti specchi e vedi l’altro. E ogni volta sembra la prima. Il nemico, quel nemico, sempre tra i piedi. Lui sale, tu scendi. Ti ruba il fiato, la vita, il desiderio. Insomma, ti scassa. Una spina che non ti togli, che viaggia dentro e ti fa uscire pazzo. Anche dire cose assurde e farne altre da mascalzone, sbattere fuori l’altro, il compagno di squadra. Odiarsi un po’, per tre anni, anzi meglio speronarsi. «Ayrton pensa di non poter morire perché crede in Dio», così nell’89 il francese Alain Prost, ragioniere della pista, laureato in Formula Uno, liquida il suo nemico, il brasiliano Senna, che incurante della pioggia al quarantaseiesimo giro a Suzuka lo attacca come uno squalo. Morsi in velocità, di chi sguazza nel talento. E allora tiè, ti vengo addosso. La rabbia non ha l’alzheimer, ma solo precedenti. Braci mai fredde. L’anno dopo, stesso circuito, è Senna in partenza a centrare Prost, passato alla Ferrari. A Jerez de la Frontera nel ‘97 Schumacher rovina la fiancata della Williams di Jacques Villeneuve che lo sta sorpassando. Lui è un computer, mai un guasto, l’altro è un ragazzino ribelle che suona il rock, gira in infradito, e diventa campione del mondo. Francamente troppo. Le rivalità sono nuove e antiche, fantasmi che non se ne vanno. La genetica dello sport crea nuove permalosità. Il nemico non si perde, si trasforma. Prima era Juve-Roma, nord contro centro, la fabbrica contro i palazzinari, il potere contro gli emergenti, chi è abituato a comandare contro chi non vuole più ubbidire, noi lupi, voi Agnelli, il gol di Turone cancellato, i refusi del calcio sempre a danno di chi vorrebbe scrivere pagine nuove. Ora la faida è Inter-Roma, i bianconeri sono stati sostituiti dai nerazzurri. L’Inter compra, la Roma vende; l’Inter è internazionale, parla straniero, la Roma ha il vivaio e un accento locale; l’Inter spesso si perde, la Roma spesso si ritrova; una è più tattica, l’altra fa più movimento. Questione di feeling, che non c’è. L’Inter, per i giallorossi, è la nuova Juve: arrogante, prepotente, antipatica. Quando il presidente Moratti spendeva duecento milioni di euro l’anno e perdeva, stava simpatico. Ora che vince non più, è solo un petroliere che allo stadio dice parolacce. La Roma non sopporta che l’Inter si sia aggiunta sulle maglie lo scudetto vinto a tavolino e poi tutto quel vantarsi di fare parte della banda degli onesti. Se non ti offrono la tentazione, inutile dichiararsi santi. E così i difetti del vecchio nemico (Juve) diventano i tratti somatici di quello nuovo (Inter). Nel libro di Conrad i duellanti sono il tenente Feraud e il tenente D’Hubert, soldati nell’esercito napoleonico. Feraud è un solitario e violento, D’Hubert è un aristocratico, capace di avere legami. Due tipi opposti, condannati a inseguirsi, a non sopportarsi per tutta la vita, anche sotto la stessa divisa. Come Ali e Frazier, entrambi neri, americani e pugili. Frazier, ultimo di dodici figli, a tredici anni lascia la scuola per andare a rubare macchine, va a lavorare in un mattatoio, nel ‘65 passa professionista. Ali per deriderlo lo chiama Gorilla o zio Tom. I loro tre incontri, anzi scontri, nel ‘71, ‘74, ‘75, sono passati alla storia come la più grande tragedia shakesperiana sul ring. «La cosa più vicina alla morte», confessò Ali. Nel primo combattimento Frazier vince ai punti grazie a un gancio sinistro che frattura la mascella di Ali. La rivincita a Manila è ancora più violenta. L Ali vinse, ma pisciò sangue. Non si reggeva in piedi, aveva la bocca tumefatta, l’occhio destro viola. Imelda Marcos lo accompagnò al buffet, lui urlò: «Quell’uomo è una bestia». Anche Joe Frazier era al buio. L’occhio sinistro era nero, Eddie Futch con la lama da rasoio tagliò il bozzo troppo tardi, per far defluire il sangue. Delirava: «L’ho colpito con dei pugni che avrebbero fatto crollare i muri di una città. Cosa l’ha tenuto in piedi?». Quando nel ‘96 ai Giochi di Atlanta vide il suo vecchio avversario, con la torcia in mano, tremare per il parkinson, dichiarò: «Spero bruci anche all’inferno quel bastardo». Ali gli rispose: «Se lo vedete, ditegli che è sempre un gorilla». Mazzinghi-Benvenuti è la versione italiana di quella rivalità. Coppi e Bartali che scendono dalla bici e se le danno. Sandro era il toscano ombroso, Nino il triestino spavaldo. Il primo ruvido e malinconico, il secondo bello e moderno. L’Italia si divide: Mazzinghi è generoso e sfortunato, perde la moglie in un incidente d’auto, lui ne esce con una frattura alla scatola cranica. Non è ancora a posto, ma è campione del mondo e deve difendere il titolo entro sei mesi. Luci a San Siro. È il ‘65, Sandro combatte, si spreca, ma è Nino con un montante destro a vincere al sesto round. La rivincita, sei mesi dopo, a Roma. Mazzinghi fa il match, però il successo ai punti è di Benvenuti. Sandro non la manderà mai giù, né perdonerà. «Nino è stato molto scorretto, nessuna tecnica da parte sua, solo grandi scorrettezze, mai rilevate dall’arbitro che stava per lui. Dopo il match, dal suo camerino invocavano un medico. Mandai il mio. Mi avesse mai detto una parola per quella gentilezza». Niente da fare. Se l’altro ti ruba la gloria, tu ti senti portare via la vita. Però lentamente diventa parte della famiglia. Ti NINO BENVENUTI C O N I L N AT I O N A L G E O G R A P H I C D I G I U G N O UNO STRAORDINARIO SPECIALE Mondiale dei superwelter ai danni di Mazzinghi nel 1965. Passa ai pesi medi e vince anche lì, nel 1967 MUHAMMAD ALI Il grandissimo campione combatté contro Joe Frazier in tre incontri: una sconfitta e due vittorie BJÖRN BORG Il campione svedese, asso del gioco da fondocampo, è ancor oggi l’unico ad aver vinto sei Open di Francia VALENTINO ROSSI La rivalità con Biaggi, l’altro campione italiano di moto, è definita spaghetti duel dalla stampa anglosassone BEN JOHNSON Uno sterminato altopiano sferzato dal vento sul tetto del mondo, un popolo che da oltre mezzo secolo lotta per preservare la propria autonomia culturale e religiosa dal dominio cinese: è il Tibet, protagonista delle cronache internazionali degli ultimi mesi per le manifestazioni represse nel sangue dalle truppe di Pechino. DAL 28 MAGGIO A 5,80 EURO IN PIÙ CON Perse per doping l’oro olimpico e il record mondiale sui 100 m. Sconfitto sette volte da Lewis prima di batterlo AYRTON SENNA Il campione brasiliano morì per un incidente in pista nel 1994 Nell’88 fu con Prost alla McLaren: celebre la loro rivalità Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 MAGGIO 2008 il reportage Muri Nel 1974, quando l’invasione turca del nord di Cipro sembrava conclusa, i soldati di Ankara occuparono a sorpresa anche un’ultima città. La popolazione greca dovette fuggire in poche ore. Tutto è rimasto fermo com’era quel giorno: pentole nelle cucine, libri di scuola, foto alle pareti, auto con le chiavi nel cruscotto... Famagosta la bella addormentata DARIO BIOCCA D NICOSIA (Cipro a più di trenta anni Famagosta, lungo la costa orientale di Cipro, è circondata da un muro grigio di cemento e filo spinato, presidiata da soldati. Non ci sono varchi né check point. Motovedette turche impediscono la navigazione nel raggio di alcune miglia. È proibito anche fotografare la barriera che separa la città dal resto del mondo. Tra gli edifici e dalle crepe dell’asfalto, con il passare degli anni sono cresciuti alberi di cedro, palme e fichi d’india; nelle piscine degli alberghi hanno nidificato i fenicotteri; sulle spiagge, tra gli ombrelloni strappati dal vento, approdano indisturbate le tartarughe. Famagosta è stata il centro commerciale di Cipro e del Medio Oriente ma è divenuta il fantasma di se stessa. A chi entra nella città, eludendo la sorveglianza dei soldati, si apre uno scenario desolante e straordinario, unico al mondo. È una città immobile che vive nel silenzio, senza voci né rumori. Lentamente la natura se ne impadronisce. Una barriera di cemento circonda l’abitato La popolazione di Famagosta, alcune decine di migliaia di donne e uomini in larga parte di lingua e cultura greca, è fuggita nell’estate del 1974 per la paura, i colpi di mortaio e le bombe lanciate dall’aviazione turca; ancora oggi non può tornare a visitare, anche solo per qualche ora, le proprie case, i giardini, gli oggetti abbandonati nella fuga. Nelle abitazioni sono rimasti abiti e pentole da cucina, libri di scuola e foto appese ai muri; nei vicoli sono parcheggiate auto ricoperte di polvere, le chiavi nel cruscotto. Oggi il lungo muro costruito intorno alla città non separa più religioni né etnie, non previene conflitti e non protegge da assalti; è un muro diverso dal fenceisraeliano e dal wall messicano; il muro di Famagosta nasconde il mare, cancella la memoria, aspetta che gli anni passino. Fino a quando dall’altra parte non vi siano profughi a ricordare che quella era la loro città. Nell’Otello Shakespeare descrive l’immensa fortezza di Famagosta e il grande porto chiuso ogni notte da una poderosa catena di ferro. Settecento anni fa, si legge nei libri di storia, la città era la più ricca al mondo, la più bella, la più contesa. Riccardo II la conquistò sulla via di Gerusalemme, poi giunsero i Templari, quindi gli arabi, i genovesi, poi i veneziani e i bizantini; gli ottomani ne fecero l’avamposto dei loro commerci verso la Siria e l’Egitto. E ciascuno degli invasori, invece di saccheggiare, arricchì la città di torri merlate, tesori di architettura e opere d’arte; anche nel corso dei lunghi assedi, le navi puntarono i cannoni con cautela evitando danni irreparabili alla città. Alla fine, nel 1878, giunsero gli inglesi con le loro corazzate, ma non spararono (a Famagosta) neppure un colpo. Quando nel 1960 i ciprioti ottennero finalmente l’indipendenza, sembrò aprirsi un capitolo nuovo per l’isola di Makarios e per la stessa Famagosta, riconsegnata intatta ai suoi abitanti. Invece la libertà durò appena qualche anno: nel 1974 arrivarono, improvvisamente, le forze armate turche che occuparono il nord dell’isola e, senza ragioni apparenti, si impadronirono anche di Famagosta nascondendola al mondo. Le operazioni militari ebbero inizio in luglio. Il governo di Ankara, da tempo persuaso che i nazionalisti di Nicosia — con la complicità della giunta dei colonnelli di Atene — volessero annettere l’isola alla Grecia, intervenne senza proclamare lo stato di guerra né consultare gli alleati. Gli attaccanti guadagnarono rapidamente il controllo dei cieli e lanciarono i primi paracadutisti. Anche le forze navali si mossero trasportando mezzi corazzati, artiglieria e truppe. La guerra sembrò concludersi in pochi giorni con la conquista della periferia settentrionale di Nicosia. Alla fine di luglio i rappresentanti di Turchia, Grecia e Gran Bretagna, garanti dell’indipendenza di Cipro in ragione di un accordo siglato nel 1960, si impegnarono a consentire l’inserimento di una forza multinazionale di pace in una zona cuscinetto. Il controllo della buffer zone fu affidato a una missione delle Nazioni Unite, la Unificyp, che avrebbe tracciato una “linea verde” lunga circa trecento km separando non solo la capitale Nicosia in due parti ma dividendo villaggi, fiumi, strade, campi, consentendo alla popolazione greca di migrare verso sud e alla popolazione turca di migrare verso nord. L’invasione assunse il carattere di una vasta pulizia etnica e segnò la fine di una secolare convivenza: migliaia di persone furono uccise nei giorni del conflitto, più di 230mila furono i rifugiati — quasi il novanta per cen- to dei greci residenti al nord. In agosto, mentre sembrava delinearsi un accordo stabile, i comandi militari turchi lanciarono l’attacco improvviso contro Famagosta, rimasta fino ad allora sotto il controllo del governo cipriota. Le truppe irruppero dal mare e da terra lasciando alla popolazione solo uno stretto corridoio di fuga. Dopo una breve resistenza, migliaia di greci lasciarono la città portando con sé ciò che potevano caricare sulle spalle, chiudere in una valigia, tenere tra le mani. Le forze di Unificyp accolsero i profughi e li scortarono fino ai centri di raccolta di Limassol e Larnaka, nel sud dell’isola — dove molti di loro ancora vivono. Occupata Famagosta, i militari turchi eressero immediatamente il muro per impedire il ritorno dei profughi e poco dopo, finalmente, firmarono il cessateil-fuoco. Anche a Nicosia, nei mesi seguenti, i militari di Ankara eressero un muro per delimitare la zona sotto il loro controllo; i greci fecero subito altrettanto. Nel mezzo della capitale si aprì dunque (e rimane ancora) una ferita, un lembo di terra di nessuno con edifici vuoti, carcasse di auto, negozi saccheggiati, macerie, proiettili conficcati nel cemento delle case. I due muri di Cipro divennero il simbolo di una pace fragile, minata dal risentimento, dalla paura e dal ricordo di sofferenze e lutti. Nel corso della guerra i militari turchi costrinsero i ciprioti di etnia greca ad abbandonare case, negozi, fattorie, ma anche monasteri, scuole, siti archeologici, monumenti, opere d’arte, biblioteche e musei. Venne cambiato il nome anche alle strade e alle città; le chiese, anche la celebre cattedrale di San Nicola, divennero moschee, il passato fu cancellato. Solo a Famagosta, chiamata dal 1974 Gasimagusa, il governo di Ankara non consentì l’ingresso della popolazione turca né la confisca dei beni appartenuti ai greci, impedì la devastazione. Forse l’occupazione della città era intesa ad acquisire uno strumento per negoziare nuovi confini tra i due Stati. Ma i negoziati non si aprirono. E quando Kofi Annan, nel 2004, sottopose alla popolazione un piano di pace, la comunità greca rifiutò il riconoscimento dell’occupazione turca e si oppose alla federazione tra i due Stati; i turchi, al contrario, si dichiararono pronti a trattare e restituire Famagosta. In cambio, speravano, avrebbero ottenuto il riconoscimento della comunità internazionale e l’ingresso nell’Unione europea. Nell’entroterra, intorno al muro di Famagosta, è sorta in questi anni una città nuova che sembra temporanea, artificia- le, senza storia; le palazzine sono basse, bianche, i tetti coperti di parabole satellitari e rostri di cemento armato protesi verso il cielo. Da nessun angolo della città si intravedono il porto e il mare. Vivono insieme turco-ciprioti e turchi, in prevalenza agricoltori provenienti dall’Anatolia, attratti o spinti dalla politica coloniale di Istanbul. Tra le due comunità ci sono differenze profonde e ben visibili: le abitudini, il colore degli occhi, gli abiti, persino i gesti. I turco-ciprioti, in particolare, si sentono spogliati della loro identità, sopraffatti numericamente dai coloni. Il sindaco della città, Oktay Kayalp, è un uomo intelligente, cordiale, giunto al suo terzo mandato; è turco-cipriota, parla misurando le parole. Spera di essere lui a riaprire i varchi del muro. Ci ha spiegato, incontrandoci nella sagrestia della cattedrale di Famagosta, eretta dai veneziani e ora trasformata in una grande moschea: «La città non riceve aiuti, neanche dalle Nazioni Unite; da soli non possiamo ricostruirla né salvarla, i politici devono trovare una soluzione. Molti edifici e monumenti dovranno essere demoliti, altri restaurati, avremo davvero molto da fare. Ma turchi o greci, noi siamo ciprioti, siamo pronti a restituire, Nelle piscine vuote degli alberghi nidificano i fenicotteri a lavorare insieme. Abbiamo conservato a Famagosta tutto ciò che potevamo. A ben guardare, quel muro è anche un simbolo di pace…». Gli fa eco Umit Inatci, artista, scrittore e protagonista di una lunga e appassionata battaglia in difesa di Famagosta e dell’identità culturale cipriota: «Molta gente che vedete è nata qui, alcuni portano persino nomi veneziani. A Famagosta, dietro il muro, ci sono anche le loro case, i loro ricordi, la loro storia. Vorrei che i greci tornassero a vivere qui come prima. Non siamo noi a tenere chiusa la città, sono quelli che trenta anni fa hanno fatto di Cipro e di Famagosta il loro campo di battaglia... Gente che ha saputo fare la guerra e che adesso non sa fare la pace». L’autore, docente di storia contemporanea, lavora a uno studio sui muri e le barriere di separazione nel mondo. Un suo saggio su Famagosta è di prossima pubblicazione sulla rivista Nuova Storia Contemporanea, diretta da Francesco Perfetti Repubblica Nazionale DOMENICA 25 MAGGIO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 LE IMMAGINI CIPRO FAMAGOSTA Pafos Nicosia Larnaca Limassol Le foto che illustrano queste pagine sono di Laura Bizzarri. Nelle immagini piccole in alto e in basso, vedute delle abitazioni abbandonate di Famagosta. La fotografia grande è un poster con i ritratti dei ciprioti dispersi nell’invasione del 1974, esposto in un piccolo museo in Leda Street, l’arteria principale che divide Nicosia Accanto, la cartina dell’isola L’isola dove i morti parlano più dei vivi MARCO ANSALDO ultima istantanea da Cipro è beneaugurante. Mostra due giovani uomini politici, i nuovi presidenti della parte greca e di quella turca dell’isola, il comunista Demetris Christofias e il socialdemocratico Mehmet Ali Talat, dividersi una coppa di limone dentro una gelateria presso una breccia del Muro da poco aperta. Quanta strada e quante ferite ha dovuto sopportare Cipro per arrivare alla vigilia di un negoziato che, oggi più che mai, può sbloccare un’impasse che dura da troppo tempo, da secoli? Famagosta intorno al 1200 era il porto più ricco del Mediterraneo, circondato da mura di pietra rinforzate quasi quattrocento anni dopo dagli ingegneri militari veneziani che si preparavano all’arrivo degli ottomani. L’invasione avvenne nel 1570, sbarcarono in cinquantamila. I turchi bombardarono le mura con centomila palle di cannone. Alla fine, i soldati veneziani di Marcantonio Bragadin proposero stremati la resa. Invano. Infuriato per le perdite subite, Lala Mustafa Pash continuò l’eccidio e ordinò l’atroce morte del rivale, che fece spellare vivo e a cui furono tagliati naso e orecchie. Ferite mai chiuse da secoli e riaperte nel 1954, quando due navi greche sbarcarono sulla costa occidentale. A bordo quintali di esplosivo e un ex collaboratore dei nazisti, George Grivas, leader dell’Eoka, la famigerata Organizzazione nazionale dei combattenti ciprioti. Con una missione: cacciare gli inglesi presenti a Cipro da fine Ottocento, quando gli ottomani cedettero loro l’isola, e riunire il Paese alla Grecia. È il progetto di enosis, subito visto come una minaccia per la minoranza turca (diciotto per cento). Nel 1959 gli inglesi decidono di concedere l’indipendenza ai ciprioti. A tutti è chiaro che Grivas non intende fermarsi, e che i turchi sono pronti a rispondere militarmente. Per prevenire il disastro la Gran Bretagna organizza in Svizzera un incontro che partorisce un accordo fragile: una nuova Costituzione, un capo dello Stato greco cipriota, un vice turco cipriota e una consistente rappresentanza della minoranza in Parlamento. L’anno dopo nasce la Repubblica di Cipro, con un ex leader dell’Eoka, l’arcivescovo Makarios, come presidente. Fin dalle prime battute la convivenza si trasforma in un incubo. Gli squadroni della morte, formati da nazionalisti greci, cominciano a eliminare i turco ciprioti. La minoranza si ribella, si arma e risponde. La Linea verde, istituita nel 1963, non serve a fermare i combattimenti. Makarios chiede aiuto all’Onu, che invia i caschi blu. Ma gli scontri continuano. Nel sangue. Per anni. Nel 1974 entra in scena Atene, accusata dall’arcivescovo di minare il suo potere. Percepita l’ostilità di Makarios alla stregua di un tradimento, un manipolo di funzionari di destra sbarcano a Nicosia devastando il palazzo presidenziale e costringendo il capo dello Stato alla fuga. Centinaia di greco ciprioti moderati, sospettati di comunismo o di debolezza verso i turchi, vengono uccisi. Poche ore dopo, Makarios è sostituito da uno dei leader dell’Eoka, Nikos Sampson. La mattina seguente, il 24 luglio, una piccola flotta turca sbarca a nord, con seimila soldati. Compaiono nel cielo i jet di Ankara. La battaglia si trasforma in massacro. Gli aerei bombardano le postazioni militari, decimano i blindati greco ciprioti, ripuliscono le montagne. L’«Operazione Pace» continua per tre settimane, mentre la diplomazia internazionale tenta freneticamente una soluzione. La Turchia aumenta il contingente fino a raggiungere i trentamila uomini. I soldati di Ankara sconfinano, occupando più di un terzo dell’isola e creando una frontiera che diventa l’attuale confine fra le due Cipro. Nessuno è disposto a scordare il passato. Anche se un’intesa sembra l’unica soluzione possibile. Scrive Yannis Papadakis, considerato uno degli studiosi più autorevoli ed equilibrati dell’isola, nel suo recente Echoes from the Dead Zone, Echi dalla zona morta (I.B. Tauris): «Cipro è un posto dove i morti sono stati ammucchiati insieme sottoterra. Restano là, non tumulati, con i cimiteri tutti intorno. Un posto abitato dai fantasmi dei dispersi. Fantasmi che possiedono proprietà, ricevono salari e risultano sposati. Un posto dove si dice che i morti parlino più forte dei vivi, e dove solo ai defunti è permesso di parlare, mentre i vivi devono inchinarsi, ascoltare attentamente e obbedire ai loro ordini. Tutti noi a Cipro, i greco ciprioti da una parte della Zona morta, i turco ciprioti dall’altra, siamo ossessionati da una domanda: “A chi dare la colpa?”». FOTO LAURA BIZZARI L’ Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 MAGGIO 2008 la memoria Microstoria L’oro nero è sempre più raro, costa sempre di più, è al centro della crisi economica globale È il momento giusto per celebrarne l’epopea. L’Eni lo ha fatto pubblicando “La leggenda del pioniere”, il diario di Mazzini Pissard, un “eroe per caso” che girò il mondo per procurare energia all’Italia LE IMMAGINI Da sinistra, il catalogo della Mostra autarchica del minerale (Roma 1939) e un biglietto d’ingresso; i campi petroliferi di Montechino; Enrico Mattei a Cortemaggiore nel 1951; Mazzini Pissard (nel cerchio) con i colleghi. Le immagini, concesse da Paolo Pissard, sono tratte dal libro La leggenda del pioniere (Archivio storico dell’Eni) Lo stregone del petrolio FILIPPO CECCARELLI l fuoco, le eruzioni, il ruggito della terra, le colonne d’acqua che allagano le vasche, il vento che non dà tregua, le resistenze della roccia, gli schizzi di fango, lo sferragliare delle macchine. E poi le urla dei pompisti che si trasmettono gli ordini, i muti calcoli degli ingegneri che li scrivono lì, col gessetto, ai piedi dell’impianto, incuranti delle zaffate di idrogeno solforato. E ogni tanto, anzi sempre, c’è qualcosa che non va, qualcosa che rimane o precipita giù nel pozzo, l’incidente, magari la domenica notte, magari con un caldo infernale, oppure sotto zero; e allora salgono al cielo le bestemmie dei meccanici in tutti i dialetti d’Italia, e poi in tutte le lingue del mondo. Eppure scavare bisogna, e poi ancora scavare, a forza di pistoni, carote, aste, ciabatte, perché il gergo dei perforatori è iniziatico e colorito, per cui ci sono anche «zampe d’elefante», «preventori», «cucchiaie», «manicotti», «code di pesce», comunque occorre scendere sempre più in basso, nel profondo dell’ipogeo, poi anche nell’abisso dei mari, a 3.500 metri, il che significa vincere le onde, dominare la natura, rapinarle energia in forma di gas e petrolio, conquistare ricchezza — e nemmeno per se stessi. Un’epopea è appunto un’epopea: e a raccontarla come il mito di Prometeo torna utile al giorno d’oggi un’innocente e sbrigativa inconsapevolezza. Eppure forse è arrivato per tutti il tempo di rendere merito a quelli che in un passato ormai remoto la retorica definiva «eroi del lavoro»: perché lo furono sul serio. Leggendari protagonisti del lavoro italiano, entità d’incerta definizione, virtù estinta o in via d’estinzione, un mi- I scuglio d’inventiva, coraggio, spirito d’adattamento, armonia, abnegazione, furbizia e spavalderia; una vitalità rapida e imprevedibile, «alla bersagliera», come si diceva, o «alla garibaldina». Ecco, appunto. Questo eroico protagonista della ricerca petrolifera in Italia e all’estero, personaggio del quale l’archivio storico dell’Eni lodevolmente pubblica un diario che fu scritto per i nipotini (La leggenda del pioniere, a cura di Daniele Pozzi, con una ricca e poetica appendice del figlio Paolo), è una figura singolare fin da come si chiamava. Mazzini Garibaldi era infatti il suo nome, che più repubblicano non poteva suonare, e Pissard il cognome. Famiglia originaria della Savoia, lui orgoglioso sardo mai più ritornato nell’isola, studi di perito minerario a Iglesias negli anni Venti del secolo scorso, poi professionalmente stabilizzato (anche per via di un felice matrimonio) in Emilia, tra Parma e Piacenza, zona di giacimenti. E quindi: i primi arcaici impianti dell’Agip, a percussione, nella campagna della Bassa, dormitori e pasti di fortuna, carri tirati da animali, biciclette rubate, l’insidia della ghiaia, delle falde inattese, delle ispezioni dei superiori, della solitudine. Il racconto procede vivace, vera storia umana e imprenditoriale dal basso: i pozzi ricchi e quelli sterili, lo stupore della neve, lo spirito dei precursori, gente straordinaria, pazzi e assennati, maestri e lestofanti. C’è un ingegnere scapolo che vive con una anziana governante rumena, orba, che gli ha salvato la vita nei Balcani. C’è un capo-cantiere che a ogni notizia di ritrovamento tira fuori il revolver e spara sul soffitto. Ci sono illustri geologi, non sai bene se più bizzarri o ispirati, rabdomanti e al tempo stesso stregoni del petrolio, che al momento di decidere dove cominciare la trivellazione IL LIBRO È il secondo numero della collana editoriale dell’Archivio storico Eni Si intitola La leggenda del pioniere. Diario di Mazzini Garibaldi Pissard (a cura di Daniele Pozzi). È lo scritto autobiografico del tecnico minerario sardo che ripercorre la sua vita di cercatore di petrolio e scavatore di pozzi per l’Agip e l’Eni dagli anni Venti agli anni Ottanta usano la tecnica del «lancio del cappello», oppure portano nel campo un bambino e gli fanno fare pipì — e là precisamente ha inizio lo scavo. Romanzo a suo modo tenero e grandioso di un’Italia così spartana da risultare irriconoscibile. Volonterosi e poveri italiani spediti a zonzo per il pianeta, a cercare petrolio e magagne, ammirazione e sconfitte. Pagine così ricche di storie che il responsabile culturale dell’Eni, Giorgio Secchi, ne ha tratto una canovaccio per farlo recitare a un attore (Flavio Albanese, del Piccolo) davanti agli anziani dell’Eni, e alla fine molti nel pubblico avevano gli occhi lucidi. Però, a veder bene, c’è anche da ridere. Mazzini ricorda quando, convocato a Roma per una dimostrazione alla mostra autarchica del minerale, dalle parti del Circo Massimo, si trova davanti il segretario del Pnf Starace che gli chiede fino a quanto può calare la sonda. Sono 2.500 metri. «Allora si proceda» ordina. L’imprevista penetrazione del suolo dell’Urbe va avanti per tre mesi fra vivaci peripezie, compreso l’allontanamento da parte delle maestranze di un supposto iettatore con spruzzi limacciosi. Poco dopo Pissard è spedito in Africa a cercare invano il petrolio su una torrida isoletta davanti a Massaua, popolata da placidi galeotti eritrei e temerari avvoltoi che durante i pasti scendono in picchiata sul cibo, e in assenza di alcol il medico cura le ferite con la benzina. Ulcera perforante, e salvifico ritorno in Italia. Ma pure qui in patria, con la guerra e poi i bombardamenti, le vendette, le epurazioni, i sabotaggi sindacali, ecco, non è che la vita sia così facile. Eppure la missione è la solita: scavare, bucare, indagare, succhiare via i fiumi neri e gassosi del sottosuolo. E allora ricomincia il giro, Casalpusterlengo, Podenzano, Crema: sempre c’è Pissard, con le sue eterne recriminazioni contro i laureati, dietro la scoperta del fantastico e celebratissimo bacino di Cortemaggiore che dà l’avvio all’era di Mattei. Così come lo si trova nel mezzo dell’incendio spettacolare di Bordolano, cento metri di fiamme visibili nel raggio di cinquanta chilometri, scenario dentro cui s’intravede l’abbagliante ed esplosiva conclusione di quella stagione. Sempre lì, sul pezzo, a disposizione, con tanto di famiglia ormai ridotta in felice condizione nomade. Monta e smonta cantieri, segue l’evoluzione tecnologica, azzarda soluzioni, risolve grane, impartisce e riceve cicchetti, si sforza di far quadrare i conti, batte i tacchi, gonfia il petto e piange in cinese per ottenere fondi e macchinari. In quella specie di compagnie militari e aziendali che furono allora l’Agip e poi la Saipem egli rappresenta la punta di diamante e insieme il modello dei quadri tecnici e operativi, forse i migliori, certo i più avventurosi di cui l’imprenditoria italiana abbia mai disposto. Mattei li entusiasma, li trascina, li premia, li paga meglio di qualunque altra azienda italiana. Ma in buona sostanza gli prende la vita e l’anima, al condottiero basta un’occhiata per ricevere in cambio una obbedienza totale. Sono i monaciguerrieri dell’autonomia energetica nazionale, per essa disdegnano locali notturni ed entreneuses, si sentono «nati — come si legge nel diario — soltanto per lavorare». Così Pissard, ormai capo-perforatore della Saipem, viene spedito in America, la Mecca petrolifera, a studiare e a trattare con un ristretto gruppo di manager l’acquisto di nuovi impianti. Qui scopre la Polaroid e fotografa tutto, come i cinesi in Europa qualche anno fa. Dopo • LA VIA ITALIANA ALLA BANDA LARGA Come creare una convergenza di attori diversi oltre a Telecom per realizzare le nuove reti in fibra ottica • I MINATORI URBANI In Cina, India e Giappone è corsa al recupero dell'oro e del rame nascosto nei telefonini • LA CUCINA CHE LAVORA DA SOLA Sempre più microprocessori negli elettrodomestici stanno per cambiare la vita nelle nostre case • GOOGLE, UN MOTORE ANCHE PER IL DNA Il gruppo entra nella società “23andMe”, che vende un kit per la rilevazione del patrimonio genetico Nel numero in edicola domani con Repubblica Nazionale DOMENICA 25 MAGGIO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 I DOCUMENTI Qui sotto, la pergamena donata a Pissard per la pensione (1968); una cartolina dell’Agip con le colonie italiane nel Corno d’Africa (1937); un autografo di Pissard trattative epiche, da quel giro in Texas nasce la piattaforma “Scarabeo”, meravigliosa città d’acciaio galleggiante; poi sarà la volta della “Perro Negro”, che pesa 5.200 tonnellate e arriva a estrarre petrolio a 4.500 metri. Dalla Patagonia, trecento pozzi scavati da quattrocento italiani con famiglie e anche scuole al seguito, fino ai monti Zagros, in Persia, dove le trivellazioni sono eseguite a 3.000 metri di altitudine, il passo sembra breve, ma non lo è per niente. Poi è la volta del Brasile, dell’Arabia Saudita, del mare del Nord e dell’Egitto, dove le grane sono tutte politiche, i tecnici italiani finiscono spesso in galera, gli impianti rischiano la confisca e, insomma, oltre al resto arrivano addosso a Mazzini Garibaldi Pissard compiti di puro lavoro politico e diplomatico. È così fino al momento della pensione, dicembre del 1968. Lo congeda Eugenio Cefis: «Al momento dell’abbraccio mi omaggia di un orologio da polso Vacheron Constantin raccomandandomi che è da sera. Lo uso di tanto in tanto. È nella cassaforte». Fa parecchie consulenze per i privati, per altri dieci anni non riesce a stare lontano dai campi, dalle trivelle. Ma anche in seguito, con qualche malinconia, si fa accompagnare nei cantieri: «Gli impianti — scrive — sono talmente sofisticati che mi fanno sbavare dalla meraviglia e sentire obsoleto». È a questo punto che comincia a scrivere i suoi ricordi. La leggenda del pioniere cessa una notte di giugno del 1997. Poco dopo compare in sogno al figlio Paolo. «Come stai, babbo?», gli chiede e lui sorride, indietreggia, prende una breve rincorsa e fa un salto mortale in avanti, come gli acrobati del circo che amava tanto. «Ecco come sto», gli disse, scomparendo pian piano in dissolvenza. Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 MAGGIO 2008 i luoghi Il Museo storico dell’arma di cavalleria, a Pinerolo, ha appena dedicato otto stanze ai settantaduemila militari in miniatura In mostra donati da due collezionisti privati. Lancieri, ussari, dragoni; zuavi e garibaldini; alpini sciatori e bersaglieri ciclisti: tutti lì, congelati nel tempo a evocare un racconto, un ricordo, una fantasia... do, un racconto, una fantasia; a suggerire quelle storie che i bambini hanno sempre inventato giocando con loro. Qui ci sono marinai e zuavi, arabi e garibaldini, truppe coloniali e crocerossine, cucinieri, bersaglieri ciclisti e alpini sciatori. Soprattutto ci sono cavalleggeri, lancieri, ussari, ulani e dragoni che cavalcano fra il Diciottesimo e il Ventesimo secolo. Anche egiziani, cavalieri medioevali e antichi romani. E cantinieri, trombettieri, fabbri, guardie svizzere. Ci sono italiani, spagnoli, inglesi, francesi, tedeschi, turchi, canadesi. Sparano, galoppano, fanno la GIAN LUCA FAVETTO D PINEROLO i regine ce ne sono dieci. Sarebbe sempre la stessa, in verità, Elisabetta II d’Inghilterra, inconfondibile. Il fatto è che compare in pose diverse e in differenti dimensioni, così risulta, di volta in volta, unica: seduta sul trono, in piedi mentre saluta militarmente, in sella a un cavallo. Alcune Elisabette sono ancora chiuse negli scatoloni, insieme a mille altri armati e popolani, ufficiali e gentiluomini. Un paio, invece, spiccano nel centro di due vetrine: una sfila fiera a cavallo, con tanto di guardia reale e banda; l’altra preferisce rimanere solitaria, in attesa di omaggio. Niente borsetta o cappellino, niente abiti civili: tutte sfoggiano una sgargiante uniforme rossa. È qui per quello che è, rara donna in un mondo storicamente maschile. E per quello che è viene trattata: mica femmina, mica bambola, ma soldatino. È uno dei settantaduemila, e nemmeno il più pregiato, che occupano un’ala di uno storico palazzo di Pinerolo, provincia di Torino, ricco di cimeli, stendardi, armi, divise, cavalli e leggende. Sette stanze tutte per loro — otto, contando quella usata come provvisorio magazzino, zeppa di cassette, scatole, imballaggi che ammassati insieme danno l’idea di una fortezza inespugnabile. Nella vetrina di fronte a quella di Elisabetta, c’è anche il Papa, portato a spalle da dodici valletti. Visto da vicino, ha le sembianze di Giovanni XXIII. Sebbene appaia più smilzo di corporatura, i lineamenti e l’espressione ricordano quelli di papa Roncalli. Un soldatino anche lui, qui, in queste teche, in queste stanze bene illuminate, al secondo piano del Museo storico dell’arma di cavalleria, già caserma Principe Amedeo. Come tutti i soldatini, anche la regina e il papa sono normale nostalgia di un’azione. Bloccati nel tempo a evocare un ricor- rivista, bevono, festeggiano, accendono fuochi, trascinano cannoni, compiono gli abituali gesti della vita da campo. Sono di carta, di legno, di stagno, di piombo. Piatti, semitondi e tondi. Pieni e vuoti. Alti trenta millimetri. Ottanta, se montano a cavallo. Ma arrivano anche a centoventi o a centoquarantacinque millimetri. Formano un colorato esercito diviso in reggimenti, legioni, compagnie. Più che un esercito, un popolo nomade costituito da tribù differenti — in un’altra vita e in un’altra storia, nemiche. Più che un popolo, una sorprendente società multietnica con uomini di tutte le razze e fedi, epoche e ideologie. Più che una società, un vero universo, cominciato qualche secolo fa come gioco e ora diventato una preziosa collezione ammirata da fanciulli cresciuti. Da due collezioni, in effetti, arrivano i settantaduemila soldatini finiti agli ordini del tenente colonnello Giuseppe Dieni, dal 2001 direttore del museo di Pinerolo. Due collezioni donate da privati nei mesi scorsi. La prima è composta da 7.328 uomini piantati in una mezza dozzina di plastici che sembrano scene da film. Raccontano la battaglia di Waterloo. Li ha donati il cavaliere Carl Bächstädt-Malan, uno dei vecchi proprietari della Caffarel, la fabbrica che produceva cioccolato. Un modellista, uno che i soldatini se li costruisce. Monta, smonta, piega, modifica, colora, reinventa e ti piazza davanti agli occhi una serie di sequenze animate, dei fotogrammi cinematografici degni di Abel Gance o Sam Peckinpah. Con tanto di fumo in forma di cotone che esce dai fucili. E ufficiali che guidano l’assalto. E corazzieri francesi che si lanciano alla carica contro gli highlanders scozzesi. Su tutti domina, dal suo angolo, il sergente Ewart dei Royal Scots Greys che ha catturato l’aquila, lo stendardo del 45° reggimento di fanteria di Napoleone. Non c’è guerra nelle altre sale, non c’è Waterloo, ci sono uomini di trenta millimetri in uniforme. Marciano in pattuglia, formano squadre o capannelli, piccoli cortei. Qualcuno ha portato gli strumenti, tromba, trombone, flauto, tamburo, corno, anche il sax. La maggior parte è a cavallo e lo guida al passo. Sembrano fermi, ma è un luogo comune, un’illusione ottica, una pigrizia della vista. Se osservi bene, a muoverli sono le tante possibili storie che raccontano. Un arcobaleno di possibilità, visti i colori delle divise che indossano, giallo acceso, rosso cadmio, blu cobalto, verde cinabro, ma- Soldatini Il giocattolo dei re Corazziere francese (1980) Ussaro (XIX sec.) Esercito prussiano (XIX sec.) Bersagliere (XX sec.) Esercito pontificio (metà XIX sec.) Guardia svizzera genta, scarlatto, arancio, sabbia, grigio piombo. Cinquemila sono in libera uscita, esposti in ampie vetrine. Altri sessantamila sono rimasti in consegna nei loro appartamenti, nelle loro camerate, che poi sarebbero scatole di confetture di mele cotogne o di Vecchia Romagna etichetta nera o di Timberland o di Carpano Vermouth. Sono in buona compagnia, insieme a decine di macchinine, treni e carrozze; ad alcune squadre di pompieri anglosassoni; a pezzi di Polo Nord e Antartide con esquimesi, orsi, balene e pinguini; a un variopinto circo fatto di tigri, elefanti, leoni, giocolieri e clown. Aspettano con pazienza di essere catalogati e di trovare il loro posto al sole, la loro vetrina. È solo questione di tempo e di turn over. Appartengono tutti alla collezione dell’architetto Remigio Gennari, donata dalla moglie Livia Laura Gennari. Le bighe e la cavalleria romana affiancano le milizie del Faraone. I crociati se la intendono con i persiani. I dragoni di Luigi XIV, i lancieri di Federico II, i portastendardi dell’impero germanico, i granatieri spagnoli del tempo che fu, gli ulani zaristi di inizio Novecento, le Life Guards di sua maestà britannica, le truppe anglo-sudanesi, i mamelucchi francesi, il Nizza Cavalleria del Regno d’Italia, tutti cavalcano insieme. E poi ci sono gli ussari. Te li raccomando, gli ussari. Sono nati ungheresi, ma ce ne sono di polacchi, francesi, tedeschi, austriaci, russi, britannici. Come diceva un loro generale, Antoine Charles Louis Lasalle, primo sciabolatore di Francia: «Un ussaro che a trent’anni è ancora vivo è un cialtrone». Lui è morto quattro anni in ritardo sulla tabella di marcia, nel 1809, in battaglia, con una palla in fronte. Si pavoneggiano, gli uni accanto agli altri, gli ussari neri teutonici e quelli inglesi finiti contro i cannoni russi a Balaclava insieme a un reggimento di dragoni. Ma in mezzo a tanta gloria ed eroismo, i pezzi più pregiati sono tre cavalieri francesi di latta di fine Ottocento, sciabola, kepy, divisa blu, cavallo giallo e aria da tinello. Ancora più preziosi, una ventina di cavalieri tedeschi di legno con ambulanza e cucina al seguito. Molto rari sono i dieci elementi di una banda bavarese in divisa verde. Non sarà raro, non sarà prezioso, ma quello con il drappo giallo che spunta in mezzo a un gruppo di armati spagnoli del Cinquecento è il più tenero, il più malinconico. Lo diresti Don Chisciotte. Accanto, ha Sancio Panza. Repubblica Nazionale DOMENICA 25 MAGGIO 2008 Antico romano LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Cavaliere medievale spagnolo Trombettiere spagnolo (XVI sec.) Ufficiale spagnolo (XVI sec.) Lanciere del Regno Unito (XIX sec.) Prussia, l’esercito bonsai di Federico il Grande ALESSANDRO BARBERO iù che un giocattolo, i soldatini sono una metafora del potere. Non per nulla li hanno inventati i Faraoni: al museo del Cairo sono esposti due reparti di soldatini di legno, fanteria pesante egiziana e arcieri numidi, ritrovati nella tomba di un principe che voleva continuare a comandare nella vita futura come aveva fatto in questa. Anche il primo imperatore Qin, che unificò la Cina due secoli prima di Cristo, desiderava continuare le sue conquiste nell’altro mondo, e ovviamente aveva bisogno di un esercito. Perciò si fece seppellire a Xian con oltre ottomila guerrieri di terracotta; che peraltro è arduo definire “soldatini”, visto che sono a grandezza naturale, e tutti diversi l’uno dall’altro. In Europa, l’epoca del soldatino comincia con le monarchie assolute del Sei-Settecento. Quei sovrani sono i primi a non comandare più squadre di vassalli armati ed equipaggiati ciascuno a proprie spese, come i re del Medioevo, o bande di mercenari reclutati da imprenditori privati, come i monarchi del Rinascimento: ora gli eserciti sono composti da reggimenti regolari, vestiti con divise fornite dal governo, e addestrati a marciare in ordine chiuso con la precisione d’una macchina. È naturale che nasca il desiderio di riprodurre in miniatura le loro formazioni meravigliosamente ordinate, espressione della superiore razionalità dello Stato. Imparando, fin dalla più tenera età, a manovrare reggimenti e a mandarli con un cenno al massacro, i principini si abituano senza accorgersene al loro mestiere di re. Non tutti si accontentavano dei giocattoli. All’inizio del Settecento il principe ereditario di Prussia, il futuro Federico il Grande, si vide regalare dal padre una compagnia di soldatini in carne e ossa, bambini della sua età vestiti in uniforme, e poté divertirsi a farli manovrare sulla piazza d’armi di Potsdam; ma si sa, la Prussia era un piccolo paese dove il mestiere militare era preso tremendamente sul serio. Gli altri principi si accontentavano di soldatini di cartapesta o magari d’argento, come quelli del Re Sole: che peraltro da adulto li fece fondere in un momento di difficoltà finanziaria, per la disperazione dei collezionisti d’oggi. L’Ottocento è il vero secolo del soldatino. Diventato un prodotto di massa, grazie al diffondersi dello stagno, è anche mezzo di propaganda e di riscrittura della storia. Nel 1838 il capitano William Siborne espose a Piccadilly un colossale diorama della battaglia di Waterloo, di sei metri per otto, con ben settantamila soldatini. Siborne, che sperava di arricchirsi con quell’opera, aveva impiegato otto anni per allestirla e si era indebitato fino al collo; dovendo attrarre visitatori a tutti i costi, preferì ignorare il contributo delle truppe olandesi, belghe e tedesche, che costituivano l’ottantasette per cento delle forze alleate, ed esaltare spudoratamente l’eroismo di quelle britanniche. Il duca di Wellington fece sapere che non intendeva avallare un’operazione del genere, e si rifiutò sempre di andare a vedere i soldatini di Siborne; ma il capitano era ormai accreditato come la massima autorità su Waterloo, e pubblicò una storia della battaglia che fece subito testo, alimentando lo sciovinismo dell’Inghilterra vittoriana. Il trionfo ottocentesco del soldatino va di pari passo con l’affermazione dello stato nazionale: ormai il soldato in uniforme non è più visto come lo strumento della tirannia, ma come il difensore della patria, e i soldatini fanno parte dell’educazione di tutti quelli che possono permetterseli. Il divario classista comunque rimane: le immagini di Epinal ritagliate dai bambini borghesi servivano a convincerli che è bello e nobile marciare inquadrati seguendo la bandiera, ma gli squadroni e le batterie con cui giocava il piccolo Winston Churchill al castello di Blenheim avevano lo scopo chiarissimo di creare un condottiero. Sovrani e ministri del 1914 furono gli ultimi a giocare, da adulti, con reggimenti di uomini veri in divise sgargianti, così simili, per bellezza e meccanica obbedienza, a quelli di piombo che avevano manovrato da bambini. All’orizzonte si profilava già l’epoca delle mimetiche, del fango e della plastica: i soldatini, beninteso, si sono adeguati, ma non è più la stessa cosa. P Ufficiale zarista (1910) Dragone del Regno d’Italia (fine XIX sec.) Guardia di Sua Maestà Ufficiale spagnolo (seconda metà XIX sec.) Cavalleria francese. Mammelucco (XIX sec.) Guardia reale inglese. Tamburo maggiore Dragone. Impero britannico (XIX sec.) Truppe coloniali inglesi (XIX sec.) Cavaliere spagnolo (metà XIX sec.) Truppe coloniali inglesi (XIX sec.) Cavalleria piemontese (fine XIX sec.) Cavalleria bavarese (seconda metà XIX sec.) Lanciere del Regno Unito (XIX sec.) Regina Elisabetta d’Inghilterra (XX sec.) Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 MAGGIO 2008 CULTURA* D’Annunzio contro Scarpetta La parodia alla sbarra LEONETTA BENTIVOGLIO S NAPOLI toria di uno spettacolo buffo e accidentato, di un geniale commediografo napoletano che perse il sonno nell’impresa, di un poeta invasato e compiaciuto del proprio talento, oltre che inviperito contro eventuali sbeffeggiatori, e del processo epocale che derivò dal loro incontroscontro. Il vorticoso impiccio parte la sera del 2 marzo 1904, quando al Lirico di Milano debutta La figlia di Jorio di Gabriele D’Annunzio, protagonista la giovane Irma Grammatica, nuova fiamma (così si mormora) del Maestro. Frenetici applausi e lodi compatte per l’autore di questa enfatica tragedia pastorale: l’eco del trionfo attraversa l’Italia e colpisce la fantasia di Eduardo Scarpetta, che ha appena presentato al Valle di Roma una pièce parodistica, La Geisha, nata nel segno dell’orientalismo diffuso all’alba del Novecento. Nello spettacolo ha festeggiato tra l’altro l’esordio di uno dei suoi figli: Eduardo De Filippo, che a quattro anni recita vestito da giapponesino. Subito dopo quel successo, il copione dannunziano gli ispira un’esilarante parodia intitolata Il figlio di Jorio, che gioca sul capovolgimento caricaturale della trama e sulla trasformazione dei personaggi maschili in femminili e viceversa. L’esito è una catastrofe, un fiasco senza precedenti nella carriera di Scarpetta. Poco dopo quella prima e unica rappresentazione, avvenuta il 3 dicembre del 1904 al Mercadante di Napoli, Marco Praga, fondatore e direttore della Società italiana autori editori e amministratore privato di D’Annunzio (con evidente conflitto d’interessi), Intorno all’accusa di plagio memorabili arringhe e un tribunale trasformato in palcoscenico presenta una querela per plagio e contraffazione contro Scarpetta in rappresentanza sia del Vate che della Siae. Tale è la fama dei contendenti e la novità del tema (è il primo processo sul diritto d’autore) che la questione balza sotto i riflettori, anche per il livello dei periti di parte: Benedetto Croce si schiera con l’imputato, Salvatore Di Giacomo difende D’Annunzio. Memorabili sono le arringhe per argomenti giuridici e preziosità oratorie. E il processo diventa un palcoscenico, dove Scarpetta www.micromega.net EMERGENZA XENOFOBIA interventi di L’EVENTO Lo spettacolo ’A causa mia è una delle quaranta produzioni originali della prima edizione del Napoli Teatro Festival Italia (6-29 giugno), sotto la direzione artistica di Renato Quaglia Tra le novità, la prima compagnia teatrale europea: attori e professionisti di vari Paesi della Ue, affidati a un regista diverso ogni anno. www.napoliteatrofestival.it padre Alex Zanotelli Alessandro Dal Lago Marco D’Eramo, don Enzo Mazzi Ulderico Daniele, don Luigi Ciotti Luigi Irdi, Fernando Savater don Paolo Farinella offre irresistibili exploit teatrali. Il mondo ne parla, i giornali si accendono, scoppiano tra i membri dell’intellighenzia partenopea diatribe feroci, l’aula è sempre gremitissima. Il caso si risolverà con un giudizio favorevole a Scarpetta (il reato non esiste), dunque con un implicito via libera a tutte le parodie successive: filoni interi di spettacoli e film che scherzano su nobili titoli precedenti, come nel cinema di Totò e di Franco e Ciccio. L’episodio, con annessi e connessi, è stato scovato negli archivi del Tribunale di Napoli dall’avvocato e sceneggiatore Antonio Vladimir Marino, che lo ha proposto al regista Francesco Saponaro. Dalla documentazione nasce ‘A causa mia (cioè “la mia causa” o “il mio processo”, titolo di un poemetto dedicato alla vicenda da Scarpetta), evento multimediale che Saponaro firma per la prima edizione del Napoli Teatro Festival in coproduzione con Teatri Uniti e due Stabili: il Mercadante di Napoli e quello d’Abruzzo. La prima fase della messinscena, concepita come “work in progress”, debutterà il 18 giugno (fino al 21) in una delle sale più fastose di Castel Capuano, sede storica del Tribunale di Napoli, e la versione definitiva approderà al San Ferdinando in autunno, con ulteriori aggiunte nella ripresa all’Aquila. ‘A causa mia usa un intreccio di linguaggi, nel senso che «a sequenze filmiche», spiega Saponaro, «s’alternerà il teatro vero e proprio. Scarpetta è l’incarnazione dell’arte scenica: apoteosi della napoletanità ed eroe carnale e denso di passioni (lo dimostra anche la sua bizzarra doppia famiglia: quella con la moglie Rosa De Filippo e quella, parallela e dichiarata, con Luisa De Filippo, nipote di Rosa). Dunque ciò che lo riguarda, in ‘A causa mia, s’affiderà al Repubblica Nazionale DOMENICA 25 MAGGIO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Il genio del teatro comico aveva messo in scena un pastiche ispirato a “La figlia di Jorio”. Il Vate lo fece querelare. Di Giacomo e Benedetto Croce furono periti di parte. Dagli atti di un processo celebre e dimenticato “Un’imitazione stomachevole” nasce uno spettacolo per il nuovissimo Festival di Napoli SALVATORE DI GIACOMO l lavoro, il travaglio, le sofferenze che sono dietro al parto di un’opera d’arte sono entità sacre e vanno rispettate. Noi siamo artisti. Noi siamo artisti e giudichiamo col cuore. Noi siamo artisti e non sappiamo portare il rigore della razionalità, della dialettica là dove invece siamo sopraffatti dall’impulso dei gagliardi sentimenti che si agitano nell’anima nostra. Come volete che l’artista si compiaccia di vedere le sue creature esposte al riso della folla? Scarpetta con la sua parodia ha ferito il D’Annunzio nelle pieghe più impenetrabili della sua anima. Cosa doveva fare il poeta, restare inerme di fronte a tale affronto? Non esistono nell’arte teatrale italiana precedenti di parodie sceneggiate come Il figlio di Iorio di Eduardo Scarpetta. In questa parodia si segue il dramma pastorale del D’Annunzio non solo scena per scena, ma quasi verso per verso. È così assidua ed inviolata la prevalenza dell’originale che non è difficile constare che l’orditura della commedia presepiana, così nel primo come nel secondo atto, salvo qualche lievissima infrazione, denunzia costantemente il risultato di una imitazione tutt’altro che accidentale. Inefficaci riescono i ricordi e la trasposizioni di usi, costumanze e riti caratteristici dell’Abruzzo nell’ambiente di Pozzuoli. Se bastasse ad una vera trasformazione comica mutare il sesso alle figure della poesia e dell’arte e attenuarne la nobiltà del linguaggio nelle pedestri e pur tanto espressive forme dialettali, anche dei più celebri capolavori sarebbe facile cogliere la fisionomia comica. Il sesso, il linguaggio ed anche il contributo di un determinato attore che trasforma nel suo accento e nei suoi atti anche l’eloquio più alto e passionale in ridicolo, non possono essere se non elementi secondari in un lavoro, che voglia aver carattere di parodia. Ma Scarpetta, anzi che opera di parodista, ha compiuto con il Figlio di Iorio, opera da riproduttore. [...] Il figlio di Iorio contiene triviali e disadorne traduzioni dei magnifici versi dell’originale: è stomachevole. I “Ma è un tributo non un’ingiuria” BENEDETTO CROCE er risolvere il quesito se il figlio di Iorio sia contraffazione o parodia, bisogna distinguere bene due termini che gli illustri periti che mi hanno preceduto mi pare abbiano confuso. Contraffare un’opera d’arte significa appropriarsi dell’effetto artistico di quell’opera, sia col tradurla sia col ridurla, sia col mutare superficialmente qualche nome o qualche particolare, sempre mirando a sostituire con l’opera così camuffata e alterata quella originale, dando luogo in tal modo a una vera concorrenza sleale. La contraffazione presuppone l’inganno, la frode e, per le forme ingannevoli che assume, non sempre può essere colpita dalla legge. Essa può cambiare anche le forme esteriori, ma rimane il germe, lo spirito, la parte inventiva che costituisce l’anima del lavoro contraffatto. La parodia invece ha un’esistenza propria per il tono, il genere, l’emozione diversa rispetto all’opera a cui si è ispirata. Suscita il riso anziché il pianto, sostituisce un matrimonio ad un assassinio, la soluzione gioconda ad una catastrofe. La parodia può conservare moltissimi particolari e perfino quasi integro il linguaggio dell’opera parodiata; ma ne muta sempre lo spirito animatore. Ora che ciò sia accaduto nel figlio di Iorio dello Scarpetta rispetto alla tragedia pastorale del D’Annunzio è cosa che a noi appare evidente. La parodia è nell’arte perché è nella vita: accanto all’infinitamente grande vi è l’infinitamente piccolo. Non a caso qualcuno ha definito il ridicolo come il sublime al rovescio. Ed è ovvio quindi che delle opere più in voga, dei capolavori, in ogni tempo, si sia sempre fatta la parodia. Sotto questo aspetto la parodia è un tributo all’autore e non un’ingiuria. [...] Lo Scarpetta forse avrà ingiuriato l’arte facendo un’opera sbagliata ma non ha offeso il diritto del D’Annunzio, facendogli sleale concorrenza. Qui siamo innanzi ad un Collegio che amministra giustizia, non dinnanzi ad una commissione che deve concedere un premio artistico. Se si ammettesse di condannare in giudizio gli autori di opere letterarie sbagliate, troppo gran lavoro avrebbero i Tribunali. P linguaggio vivo del teatro. D’Annunzio è invece aereo, inafferrabile. Si specchia in un bianco e nero trascendente ed è un artista sedotto dal cinema. Perciò il racconto a lui riferito scorre in film fatti per l’occasione, mostrati in scena e girati nello stile del cinema muto. Utilizziamo anche brandelli dell’unica testimonianza filmica rimasta di una rappresentazione della vera Figlia di Jorio, ripresa nel Vittoriale». Cornice di altre nuove parti filmate è un fascinoso mausoleo di gusto floreale, riadattato dallo scenografo Lino Fiorito. Immerso tra le più belle ville storiche di Napoli, a via Posillipo, l’edificio sfoggia scale sontuose e colonne corinzie, riproducendo i climi decadenti e onirici della villa di Marina di Pisa, dove D’Annunzio apparirà circondato da tiratrici d’arco e fanciulle discinte in pose da San Sebastiano. Sono nel cast di ‘A causa mia attori di spicco quali l’“eduardiano” Gianfelice Imparato (Scarpetta), il cantante degli Avion Travel Peppe Servillo (D’Annunzio), Andrea Renzi (Marco Praga) e Gigio Morra nel ruolo di Lustig, l’insigne giurista che curò l’istruttoria del processo, celebrato a Castel Capuano il 30 aprile 1908 con gli interventi di Benedetto Croce (lo interpreta l’antropologo Marino Niola) e Salvatore Di Giacomo (Enzo Moscato). «Dalla perizia del secondo», prosegue Saponaro, «si evince una rivalità esacerbata nei confronti di Scarpetta, di cui Di Giacomo segnala la povertà d’ingegno in base alla bruttezza della sua parodia. Croce replica che se si dovessero processare tutti i creatori di cose brutte i tribunali esploderebbero. Sono due mondi a confronto: il conservatore reazionario e il progressista che invoca la libertà d’espressione». Le due perizie, in ‘A causa mia, sa- Racconta il regista Saponaro: “Cinque mesi dopo la sentenza l’autore di ‘Miseria e nobiltà’ decise di ritirarsi dalle scene” ranno presentate come interviste «fatte dalla televisione in tempo reale». Perché la parodia Il figlio di Jorio scomparve dalle scene? «Fu un progetto sfortunato fin dalla genesi», risponde Saponaro. «Rosa, moglie di Scarpetta, vi si oppose subito. Capì che quel genere di parodia arcaica rischiava d’essere un passo indietro rispetto alle commedie brillanti del marito, che col personaggio di Felice Sciosciammocca aveva costruito una fortuna immensa. Infatti era ricchissimo, con una villa strepitosa al Vomero chiamata “Santarella”, come una delle sue opere». Tuttavia l’autore di Miseria e nobiltà non sente ragioni e si reca a Marina di Pisa per ottenere dal Va- te un permesso scritto. D’Annunzio glielo nega, ma i due si lasciano con apparente cordialità. «Poi il poeta ci ripensa, teme una pubblicità dannosa, scatta la querela. E alla prima de Il figlio di Jorio irrompe in platea un gruppo di incattiviti dannunziani manovrato per fare scandalo. A inizio secondo atto, all’acme comico dello spettacolo, quando Scarpetta sta per entrare in scena vestito da donna, sono tali le urla e le aggressioni che l’attore deve far calare il sipario. Onta e ferita non rimarginabile per una star. Cinque mesi dopo l’assoluzione deciderà di ritirarsi dalle scene. Confesserà che ancora sente l’amarezza di quel fallimento». LE IMMAGINI Nella foto grande, un’udienza del processo intentato da Gabriele D’Annunzio contro Eduardo Scarpetta Sopra, dall’alto: l’ultima pagina del manoscritto autografo del Figlio di Jorio di Scarpetta (per gentile concessione di Maria Vittoria Scarpetta); due fotoritratti di D’Annunzio e Scarpetta e i due in una caricatura dell’epoca relativa al processo. A sinistra, la tela di Francesco Paolo Michetti La figlia di Jorio (1895) che ispirò D’Annunzio Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 MAGGIO 2008 Ngli anni Sessanta riprese per primo la Londra “swinging”. Poi portò la musica nel cinema lavorando con Hendrix, Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd, Beach Boys Una decina di film e l’addio negli anni Settanta. Ora il Bellaria Film SPETTACOLI PINK FLOYD Una delle più grandi band musicali che fin dagli esordi trovò con Whitehead una splendida collaborazione Festival e il Biografilm di Bologna gli dedicano una retrospettiva LED ZEPPELIN La band fu protagonista di un celebre videoclip nel 1970 Whitehead li fece suonare e rotolare sulla ribalta PETER WHITEHEAD Peter Whitehead fotografato con la macchina da presa per le strade di New York nel 1968 THE ANIMALS Formatosi a Newcastle tra il 1962 e il 1963, il gruppo fu filmato da Whitehead con effetti speciali di stampo bellico L’inventore dei Videoclip Whitehead, l’occhio pop MARIO SERENELLINI stato l’occhio del pop, prima della leggenda. Occhio di falco, come i rapaci di cui è da sempre amico, allevatore e, un po’, suddito fedele. Lui stesso è una leggenda prima della leggenda: da quando, ex studente prodigio a Cambridge, incline all’arte e alla scrittura, imbraccia a metà anni Sessanta una Eclair e comincia a filmare le notti e gli happening di Londra, non ancora ma già swinging London. Talento versatile e rapido, subito cameraman Rai («è stata la mia vera scuola») ai tempi delle corrispondenze di Sandro Paternostro, lesto nel cogliere al volo altre opportunità italiane, intrufolandosi nella troupe di Tinto Brass quando in un night uno sdegnoso John Lennon si nega al suo obiettivo, Peter Whitehead, inventore del videoclip moderno, archivio vivente della protesta giovanile in Gran Bretagna e Stati Uniti (‘68 e dintorni), è il protagonista perduto e ritrovato della prima personale italiana (dopo l’integrale dell’anno scorso alla Cinémathèque Française de Paris) organizzata dal 5 al 15 giugno da Bellaria Film Festival e Biografilm di Bologna. A settantun anni d’inalterato charme, fluida chioma ora color neve e pelle levigatissima, cui han dovuto soccombere le più invidiate celebrità della prima generazione in minigonna (da Bianca Jagger alla “lolita” Mia Martin, alla modella Alberta Tiburzi, Niki de St. Phalle, Nico), il cineasta sarà presente a entrambi i festival, dove film e videoclip da noi inediti riaccenderanno l’iconografia grande schermo di big band e vocalist allora emergenti: Rolling Stones, Led Zeppelin, Pink Floyd, Small Faces, Beach Boys, Jimi Hendrix, Nico. Veder rifluire, in massa, le star allora implumi di un’infinita arca del rock, il ‘68 di chitarre elettriche e batterie indemoniate, urli soffiati nei doppi microfoni, strilli e svenimenti isterici di ragazzine all’assalto, sarà come iniettarci negli occhi un concentrato di Woodstock, un’overdose d’utopie anche sonore, di sogni formato slogan. «Mio primo obiettivo è sempre stato di trasferire nell’immagine l’energia della musica», dice oggi Whitehead, che, in Led Zeppelin del ‘70, martella e trapassa lo schermo con i gridi riccioluti, quasi femminili, della band, rovesciandoci addosso le chitarre taglienti, con effetti di 3D al naturale, senza bisogno di occhialini polarizzati. Ma la cinepresa di Whitehead — e, soprattutto, il suo meticoloso montaggio — non si dà come unico orizzonte il palcoscenico. Le neo-star suonano e si rotolano alla ribalta, ma fuori, attorno a quella mu- È sica, ci sono i suoni della guerra (all’epoca il Vietnam, «prova generale dell’Iraq»), le manifestazioni di protesta, gli assalti della polizia, le barricate che stanno dividendo l’Europa del passato da quella del futuro. Nel filmato del ‘66 sui Beach Boys (voce narrante Marianne Faithfull, poi compagna di Whitehead), le camicie pop, un po’ galeotte, a larghe strisce bianche e blu, si alternano agli statici, millenari passi ritmati, davanti a Buckingham Palace, della Guardia della Regina. E nell’impressionante videoclip su Eric Burdon & the New Animals (When I Was Young), le immagini sgranate e danzanti d’un documento tv su cabrate e avvitamenti dei caccia nei cieli di morte della Seconda guerra mondiale cadenzano il respiro musicale dell’artista. Ma anche nel chiuso covo di fumo, fili elettrici e riflettori, dentro il cerchio magico di una ribalta ridotta a un volto e una chitarra — Jimi Hendrix (Hey Joe) — il regista sa suscitare l’eco d’un’epoca. Capigliatura corvina, la bocca scolpita dai controluce, in uno psichedelico va e vieni di rosso e di nero, che ridipinge mani e faccia, Hendrix, che bacia e lecca la chitarra, è un uccellaccio solitario, l’ultimo milite d’una trincea musicale: già un fantasma, il mito che, dopo, lo riporterà in vita. Ma il capolavoro è Lady Jane (1967). Le immagini dei Rolling Sto- nes e Mick Jagger, gote di poppante, scivolano dolci sullo schermo in un astratto ralenti, che avvolge la canzone in un tempo di panna, soffice schiuma, nebbiosa, sospesa. Si parte da un sussurro e si finisce in uno spezzone di cinema muto. Nel cinema di Whitehead si trova solo un’altra immagine d’incanto tanto limpido: in Fire in the Water, il film “d’addio” del 1977, l’aerea cascata — cui ci conduce il capriccioso pellegrinaggio agroturistico di Nathalie Delon (altra love story) — che perde ogni forza di gravità e si dipana nel vento, in uno svaporìo di gocce senza peso. Si era letta, ai titoli di testa, un’epigrafe brechtiana: «Delle grandi metropoli non rimarrà nulla: solo il vento che le ha sfiorate». La magia di Whitehead, “registratore” attento, tempestivo della cronaca, dell’istante che diventerà storia, è anche questa: il suo cinema si gonfia, vola, si fa vento, è il falco che si solleva in solitudine, riplasmando il suo sguardo e spalmando lo schermo di immagini liquide, pennellate sulla tela — fire in the water, fuoco nell’acqua — promuovendo le asprezze della prima occhiata a una fluida rotazione di visioni e di simboli. Antonioni, Bergman, Fellini: sono i registi, insieme al Godard delle provocazioni intellettuali, che Whitehead chiama a modello, «i veri grandi au- tori di cinema degli anni Sessanta», come li definisce nella lunga videointervista di due anni fa con Paul Cronin, In the Beginning Was the Image, anch’essa proiettata a Bellaria e a Bologna. Con Antonioni (oltre che con Godard, ma con esiti grotteschi), ha avuto occasione di confrontarsi un paio di volte, ai tempi delle riprese a Londra di Blow Up: «La prima è stata quando giravo A Rare Rolling Stones Film (1966) sul tour in Irlanda dei Rolling Stones, che ne ha fatto delle star anche cinematografiche, primo gradino di una escalation ora giunta a Shine a Lightdi Martin Scorsese. Antonioni ha visto un montato nel mio appartamento a Soho prima di girare la celebre scena in cui Jeff Beck degli Yardbirds fa a pezzi la chitarra. La seconda volta è stata per Tonite Let’s all Make Love in London, sulla scena pop degli anni Sessanta: gli era molto piaciuta la sequenza in cui faccio andare avanti e indietro, a fisarmonica, lo zoom, per seguire i su e giù dell’inno nazionale». Giovane, istintivo, entusiasta, Whitehead non si è mai fatto sfuggire una committenza, anche quando filmare era un salto nel buio: «Quando ho detto sì al manager dei Rolling Stones, non avevo ancora ascoltato una loro canzone. È anche vero che loro non erano ancora i Rolling Stones... Sono stato la loro cavia e, forse, un po’ il loro trampolino: li ho filmati proprio l’attimo prima che divenissero famosi. Esattamente quel che è successo con i Pink Floyd: sono stato il primo a riprenderli. Il filmato in cui si esibiscono a Londra al poi mitico Night Club Ufo è il loro battesimo di celebrità: fino a quel momento non erano nessuno. Senza saperlo, mi hanno ricambiato il favore: grazie alla riedizione in dvd nel ‘94 dei miei filmati, il mondo del cinema e della musica mi ha “riscoperto”». Figlio, e padre, dei leggendari Sixties («mi hanno definito il regista degli anni Sessanta. Ma quando filmavo, filmavo quel che vedevo, non mi ero fatto un programma, tipo: sto documentando un’epoca. Memorizzavo solo esperienze, emozioni, ribellioni di quel momento. Solo dopo, sarebbero divenute storia»), Whitehead ha stipato dentro una cinematografia contratta in poco più di dieci anni, dal ‘64 al ‘77, un patrimonio di eventi e di icone, non solo musicali: da Robert Rau- LE RASSEGNE La prima personale italiana di Peter Whitehead è l’evento di due rassegne, Bellaria Film Festival - AnteprimaDoc, diretta da Fabrizio Grosoli, e Biografilm Festival di Bologna, diretta da Andrea Romeo. Alla presenza del cineasta britannico, i film, per la maggior parte inediti in Italia, verranno presentati a Bellaria Igea Marina dal 5 al 9 e a Bologna dall’11 al 15 giugno L’iniziativa, che ha il sostegno della Regione Emilia-Romagna, è completata dalla pubblicazione, prodotta dal Festival di Bellaria e edita da DeriveApprodi, della monografia Peter Whitehead Cinema, musica, rivoluzione, a cura di Laura Buffoni e Cristina Piccino, con contributi critici, tra gli altri, di Nicole Brenez e di Giandomenico Curi (176 pagine, 13 euro) Repubblica Nazionale DOMENICA 25 MAGGIO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 BEACH BOYS Nel filmato del 1966 Whitehead alterna i passi del gruppo a quelli della Guardia della Regina davanti a Buckingham Palace A centro pagina: Sandie Shaw nel 1967 nella sua boutique di Londra MICK JAGGER Peter Whitehead pettina Mick Jagger prima delle riprese Accanto, il leader dei Rolling Stones in un fotogramma di Charlie JIMI HENDRIX FOTO JAMES JACKSON/GETTY IMAGES Whitehead scelse per il videoclip di Hendrix effetti psichedelici con grandi zoomate di luce rossa e nera schenberg e Bob Kennedy in The Fall (1969) a David Hockney (con un paio d’occhialoni alla Elton John ricavati dalla scritta luminescente “zOOm!”), alla celebre performance della gallina bianca strisciata su una tastiera e poi sbattuta (“suonata”) contro i resti del pianoforte distrutto, fino allo storico reading nel ‘65 di Allen Ginsberg alla Albert Hall, epico raduno londinese della Beat Generation (da Ferlinghetti a Corso) racchiuso nei trentaquattro minuti di Wholly Communion, secondo reportage (videoclip letterario?) del cineasta. Dopo trentun anni di esilio dal set, in cui s’è dedicato alla scrittura, alla ceramica e all’allevamento dei falchi in Arabia Saudita, Whitehead è tornato dietro la macchina da presa per girare a Vienna Terrorism Considered as One of the Fine Arts(Il terrorismo come una delle belle arti) ispirato a un suo racconto: «Il “film” Svariati aerei missile che Bin Laden ha abilmente concepito e realizzato l’11 settembre non è un supremo esempio di arte d’avanguardia?», è la caustica spiegazione. Di nuovo, con la cinepresa, sulle tracce di un’altra leggenda, stavolta sanguinosa. Con l’immutata disposizione alla quête solitaria e già disillusa d’ogni suo film. «Cerchiamo qualcosa che ci paia tanto reale da poter dimenticare noi stessi e la nostra solitudine, per un secondo, un minuto, forse per anni... Sfuggiamo all’assurdo confidando fermamente in momenti di comunione con il mondo fuori di noi», scriveva, già nel ‘67, in I Destroy Therefore I Am (Distruggo dunque sono). Parole che potrebbero essere pronunciate dal fotografo di Blow Up, anch’egli alle prese con l’illusoria registrazione d’una realtà subito mitizzata, perciò inafferrabile, di cui non rimane tra le mani che un’invisibile palla da tennis: o «il vento che l’ha sfiorata». FESTARCH Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i sapori Riscatto rosa TRE STELLE MICHELIN (Italia) Nadia Santini DAL PESCATORE Località Runate Tel. 0376-723001 Canneto sull’Oglio (Mantova) TORTELLI DI ZUCCA Due studenti di scienze politiche si innamorano: il ristorante di famiglia da salvare, la suocera, Bruna, ancora in cucina, a supporto di Nadia, mentre Antonio sta in sala. Piatto-culto, i tortelli di zucca mantovana: sfoglia soave e ripieno arricchito da amaretti, mostarda, pepe, noce moscata, chiodi di garofano, cannella e parmigiano Annie Feolde ENOTECA PINCHIORRI Via Ghibellina 87 Tel. 055-242757 Firenze DOMENICA 25 MAGGIO 2008 Come tutti i mestieri di successo anche quello di chef è declinato al maschile. L’Italia non fa eccezione ma può vantare la pattuglia di cuoche pluristellate più folta d’Europa. Ora due libri raccontano le storie di volontà e sacrificio di chi è riuscita a rompere con la catena di montaggio alimentare casalinga e a tradurre il suo talento in piatti griffati La cucina delle Donne LICIA GRANELLO FEGATO GRASSO AFFUMICATO Una marsigliese bella e indomita, un esperto di vini, una città magica. A Firenze nasce così l’enoteca più prestigiosa del pianeta, impreziosita da piatti affascinanti. Il tradizionale foie gras francese viene elaborato e servito con una composta e gelatina di mele A côté, pane tostato alle prugne per accompagnare la dolcezza del fegato Luisa Valazza AL SORRISO Via Roma 18 Tel. 0322-983228 Soriso (Novara) FUNGO DEL SORRISO Autodidatta di talento, entra in cucina dopo la laurea in Lettere, rilevando un locale di tradizione con il marito Angelo. La grazia artistica (è pittrice) si esprime nel porcino in doppia cottura: cappella passata pochi istanti in forno, gambo tagliato in lamelle, spadellato con erbe fresche e ricomposto, con emulsione d’olio e prezzemolo «Q uando la gastronomia sarà una religione, con il suo calendario, i suoi santi e i suoi confessori, le sue vergini e i suoi martiri, la Mère Fillioux sarà canonizzata e diventerà una delle patrone della cucina francese». Scriveva così, adorante e mistico, monsieur Curnonsky — alias Maurice-Edmond Sailland — principe dei gastronomi francesi negli anni Trenta. Oggetto di tanta devozione, Francoise Fayolle sposata Filloux, una de “Le Mères”, le Madri della cucina francese, piccolo gruppo di indomabili donne dei fornelli che a cavallo tra le due guerre riscattarono generazioni di cuoche silenziose e dimenticate, conquistando il Gotha dell’haute cuisine internazionale a colpi di Tre Stelle Michelin. Solo pochi mesi fa, Anne Sophie Pic è riuscita a rinverdirne i fasti, conquistando la terza stella e il titolo di migliore chef di Francia. Due libri e un pranzo di piazza celebrano in questi giorni gli splendori dell’alta cucina al femminile, movimento a lungo trascurato e misconosciuto in nome di una superiorità maschile tradotta in premi, stelle e classifiche gourmand. Da una parte, Le cuoche che avrei voluto diventare, di Roberta Corradin (Einaudi); dall’altra Eugénie Brazier e le altre, scritto da Alessandra Meldolesi per Le Lettere. In entrambi i casi, scrittrici-gourmand e cuoche provette pronte a riannodare il filo con le radici del proprio savoir-faire: ovvero dire, fare, raccontare cucina e dintorni. «Gli uomini sono dei geni, ma noi siamo la storia», ama ricordare Nadia Santini, chef tristellata da una dozzina d’anni, considerata la più grande cuoca italiana. Non è la sola, se è vero che, unico caso al mondo, la guida Michelin attribuisce il massimo dei giudizi possibili a ben tre donne dello stesso Paese (Annie Feolde, pur nata in Costa Azzurra, vive a Firenze da oltre trent’anni). A loro, vanno aggiunte altre tre super-cuoche con due stelle Michelin: come dire che in nessun altro posto la cucina femminile viene riconosciuta, apprezzata, amata come da noi. Eppure, quando si parla di cucina d’autore, facce, nomi e indirizzi sono tutti declinati al maschile. «Questione di fatica, di orari, di sacrifici», sostengono i critici gastronomici (uomini), svelando solo una parte di verità. Perché le donne cucinano da sempre, coniugando come possono il meglio e il peggio della quotidianità alimentare, dalla necessità di variare i menù ai pochi soldi con cui realizzarli, accontentando bimbi svogliati e adolescenti a dieta, mariti ipertesi e anziani diabetici. Così, nella maggior parte dei casi, le donne lasciano il palcoscenico all’artista di turno, ritagliandosi ruoli esterni al cono di luce della celebrità, diventando sous-chef, executive, capi brigata. In quanto alle nostre Magnifiche Sei Pluristellate, le loro storie sono storie di straordinaria volontà: spose con mariti eredi di trattorie e locali, supportate da suocere disposte a passare i loro saperi, assemblando amore, passione lavorativa e vita famigliare. Ma le più giovani non ci stanno. Rivendicano una professionalità svincolata dal passaporto matrimoniale. Vogliono essere cuoche come sarebbero medici, insegnanti, avvocate, artigiane. Se non avete tempo e modo di fermarvi in uno dei tanti indirizzi di alta cucina femmina sparsi per l’Italia, regalatevi una sera a teatro a Bologna. A luglio, dopo uno degli appuntamenti che fanno ricco il cartellone dell’Arena del Sole, potrete godervi una meravigliosa cena nel chiostro annesso, curata dagli chef stellati dell’Emilia Romagna. Scoprirete il talento di Aurora Mazzucchelli, stella Michelin a Sasso Marconi: giovane, sveglia, bravissima. Perfino senza avere un marito accanto. Nadia, Luisa, Annie e le altre Repubblica Nazionale DOMENICA 25 MAGGIO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 TRE STELLE MICHELIN (Europa) DUE STELLE MICHELIN (Italia) Anne-Sophie Pic Carme Ruscalleda Nadia Moroni MAISON PIC 285, avenue Victor Hugo Tel. (+33) 475441532 Valence (Drôme) SANT PAU Calle Nou 10 Tel. (+34) 93-7600662 Sant Pol de Mar (Barcellona) IL LUOGO DI AIMO E NADIA Via Montecuccoli 6 Tel. 02-416886 Milano AGNELLO CON GIALLO DI CECI TONNO CON PISELLI TENERI SPAGHETTI AL CIPOLLOTTO Nipote e figlia di cuochi “tristellati” (il nonno André nel 1934, il padre Jacques nel 1973) è salita sul podio più alto l’anno scorso, dopo quarant’anni di assenze femminili Il trancio di sella di agnello da latte arrostita in casseruola viene adagiato su un ristretto fondente di verdure aromatizzato alla cannella, con sfera cremosa di ceci Autodidatta virtuosa, capace di inventarsi cuoca quando, insieme al marito Toni, trasforma in locale gourmand un vecchio hostal di fronte al mare in Catalogna Il cubo di tonno rosso, dalla doppia consistenza – croccante e sapido all’esterno, crudo e dolce all’interno – si gusta al meglio con una zuppetta tiepida di primizie di piselli Due chef per una storia d’amore e di cucina che dura da più di mezzo secolo. Oggi, Aimo è soprattutto affabulatore in sala, mentre Nadia è ancora e sempre in cucina Gloriosi i suoi spaghetti Senatore Cappelli, spadellati in un sugo di cipollotti, alloro, aglio, timo, origano, pomodori, peperoncini, rifiniti con extravergine e basilico Valeria Piccini L’appuntamento DA CAINO Via della Chiesa 4 Tel. 0564-602817 Montemerano (Grosseto) Appuntamento femminile e goloso, oggi, a San Vincenzo, Livorno, regno del “Gambero Rosso” di Emanuela e Fulvio Pierangelini. All’interno della festa “Tutti pazzi per la palamita” che ogni anno celebra le virtù del fratellino misconosciuto del tonno, il grande ribelle della cucina d’autore, dedicherà un pranzo intero alle “over 65”, in segno di riconoscenza per la grande tradizione culinaria perpetrata ai fornelli dalle donne del borgo PiCCIONE CON CROCCHETTA DI CASTAGNE Trent’anni fa, la studentessa-sposina Valeria entrò nella cucina della trattoria dei suoceri con il neomarito sommelier Maurizio, facendone un approdo goloso e raffinato. Strepitoso il piccione con le sue frattaglie a guisa di patè e crostino, con crocchetta di castagne del monte Amiata e salsa di uva fragola allo champagne Siamo nutrici, ci mettiamo il cuore ALICE WATERS enso che esista un approccio realmente diverso tra la cucina femminile e quella maschile. Noi cuciniamo in un modo molto più fisico, mentre gli uomini agiscono secondo termini più astratti. Per carità, non credo si debba fare necessariamente una divisione di sesso, nel modo di fare e gustare il cibo. Però, in un certo senso, la nostra è una cucina più morbida e sentimentale, ancorata alla nostra origine, alla nostra storia millenaria, alla nostra attitudine a nutrire le persone. È un compito ancestrale che ci portiamo dentro, ed è strettamente connesso con la vita. Nutrire, sfamare, sono imperativi che arrivano perfino prima di cucinare e infinitamente prima di “giocare” con il cibo. Da sempre ci prendiamo cura del prossimo, a partire dalla nostra famiglia. Stiamo più attente all’intero percorso del nutrire, dalla materia prima all’accoglienza del cliente. Ci riesce naturale. La vera differenza è questa. “Chez Panisse” è nato così, nel 1971, come bistrò di quartiere, dove mangiare esattamente come per un “dinner party” a casa: goloso, piacevole, informale. Ogni sera serviamo menù a prezzo fisso che cambiano quotidianamente, secondo gli ingredienti di stagione e la spesa del mercato. Per quanto riguarda la cucina, il mio non è approccio gastronomico tout court, non ho mai pensato a me stessa come una chef in maniera stereotipata. Ho cominciato a fare questo lavoro, a vivere le mie prime esperienze nel settore, cercando semplicemente di dare il meglio di me stessa. Avevo come idea principale, quella di ricercare ed esaltare i sapori, i gusti primari. Fin da subito, ho scelto di usare materie prime biologiche, privilegiando un rapporto diretto con gli agricoltori. Piuttosto che procacciarmi gli ingredienti da negozianti o commercianti, ho deciso di andare alla fonte. C’è gente che mette tutta la propria coscienza e la propria passione nel lavoro che fa. Sono queste le persone con cui mi piace relazionarmi. Un’altra tappa importante è stata la nascita della “Fondazione Chez Panisse”, nel 1996. Lo staff è formato da tutte donne. Supportiamo programmi di educazione alimentare nelle scuole, per far sì che il cibo serva non solo da nutrimento, ma anche per formare e dare forza ai ragazzi. Siamo riuscite a trasformare i cortili scolastici in orti. Gli “Edible Schoolyards” rappresentano un’esperienza che può cambiare la loro vita, visto che obesità e diabete sono malattie sempre più diffuse tra i nostri giovani. In classe, si studiano anche i problemi ambientali e i principi dell’agricoltura biologica. Non è un caso se tra i libri che ho scritto, uno, Fanny at Chez Panisse, è dedicato proprio ai bambini, con ricette e piccoli racconti… Ma non pensiamo solo ai più piccoli. Nel 2003, abbiamo supportato l’avvio dello “Yale Sustainable Food Project”, con l’obbiettivo di rendere il cibo parte integrante dell’esperienza universitaria. L’altro impegno forte, è all’interno del “San Francisco Ferry Plaza Farmers Market”, l’associazione che promuove i mercati contadini e il consumo di cibo biologico e locale. Al di là di queste attività con una grande presenza femminile, mi piace pensare che le nostre qualità culinarie e quelle maschili siano egualmente utili. Ciò non toglie che continuo a giudicare la cucina delle donne più strutturata. Certo, quando cercano di cucinare alla maniera degli uomini — così razionale e artistica, ma non voglio mettermi contro la mascolinità, almeno per come gli chef cucinano qui, negli Stati Uniti! — perdono qualcosa di stesse. Invece, le donne che cucinano col cuore, sono convinta possano far passare questa pienezza, farla arrivare nei piatti, al palato e all’anima dei commensali. L’autrice, considerata una delle più colte e prestigiose cuoche del mondo, gestisce il ristorante “Chez Panisse” a Berkeley, California, ed è vicepresidente di Slow Food International FOTO WEBPHOTO P Maria Salcuni LA TENDA ROSSA Piazza del Monumento 9 Tel. 055-826132 San Casciano (Firenze) BOCCONCINI DI CALAMARI Un felice tandem romagnolo-pugliese: lui, Silvano, in sala, lei, Maria, ai fornelli Vent’anni di pizza come specialità della casa, poi il grande salto nell’alta cucina Golosissimi e appetitosi i bocconcini di piccoli calamari, farciti con la polpa dell’astice, appoggiati su vellutata di porcini aromatizzata al timo Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 MAGGIO 2008 le tendenze Corsi e ricorsi Nata povera, la maglina che Chanel e Pucci resero celebre torna oggi come protagonista assoluta degli abiti primaverili firmati e non. Leggerissima, versatile, ingualcibile, esalta il corpo delle donne, appaga la creatività degli stilisti e promette perfetti drappeggi.Verrà festeggiata tra qualche giorno con una mostra che s’inaugura a Prato Jersey un tessuto duttile, sensuale, perfetto per le donne. E che quest’estate farà da filo conduttore alla moda sia sartoriale che casual. Il jersey fa da asso pigliatutto, imperversa nelle collezioni e, magicamente, mette d’accordo tutti gli stilisti che lo amano e lo considerano la «maglina dalle mille opportunità». «É confortevole, fluida, malleabile, piacevole al tatto — spiega Antonio Marras, lo stilista di Alghero che a Parigi disegna Kenzo —, la maglia di jersey non manca mai nelle mie collezioni. Trovo che sia un tessuto con un alto indice di femminilità: conservo gelosamente diverse foto di mia madre che risalgono agli anni Sessanta, quando indossava meravigliosi abiti in jersey fantasia». Il jersey, che ha mille varianti tecniche celebrate al museo di Prato, dove (dal 20 giugno) s’inaugura la mostra su L’evoluzione del tessuto per lo sport, ha una storia che parte nel secolo scorso, ma a farlo grande fu nel 1916 madame Coco che aveva puntato gli occhi su questo materiale perfetto per realizzare capi essenziali. Da allora il jersey si è conquistato un posto importante nel mondo della moda. Ma i fasti veri li ha conosciuti negli anni Sessanta, grazie a Emilio Pucci. «Ricordo una mitica sfilata a New York — spiega Mario Boselli, presidente della Camera della moda e “re del jersey” in quanto imprenditore del settore —. Il marchese Emilio Pucci, osannato dalle È AFFUSOLATO Linee affusolate e stampe dai mille colori. La nuova collezione Emilio Pucci, disegnata da Matthew Williamson, gioca su stampe con onde e stelle SPETTACOLARE L’abito di Blumarine, disegnato da Anna Molinari, è all’insegna del glamour Il corpo è fasciato, esibito e la scollatura sul seno abissale La gonna lunga e frusciante, è perfetta per il “red carpet” La riscossa del tessuto che si piega a tutto LAURA ASNAGHI SENSUALE Anche le “signore grandi forme” di Elena Mirò, marchio del gruppo Miroglio, apprezzano la sensualità avvolgente del jersey signore americane, per dimostrare le incredibili performance del jersey aveva portato in scena una modella in calzamaglia. Davanti a un pubblico incuriosito, la ragazza apriva un beauty case, prendeva un pigiama palazzo, lo indossava, sfilava in passerella. E poi, sotto gli occhi di tutti, si cambiava indossando un abito da sera che estraeva sempre dal beauty. Questo gioco la modella l’ha ripetuto dieci volte, dimostrando così che in un contenitore piccolo piccolo poteva starci un guardaroba completo. Tutto in jersey, confortevole e chic». Negli anni Sessanta il jersey era molto popolare. La stragrande maggioranza delle donne aveva le classiche vestagliette fantasia, più o meno colorate, morbide, confezionate dalle sarte o acquistate nei negozi dove si faceva largo il primo pret-à-porter industriale. «Il jersey è uno dei pilastri del guardaroba femminile», conferma Anna Molinari di Blumarine che per l’estate ha proposto abiti cortissimi, dai colori brillanti, arricchiti da drappeggi, perfetti per le ragazze dai corpi scolpiti in palestra. Il jersey è donante e, come dice Alberta Ferretti, «ha un grande pregio: sa esaltare le curve femminili e attenuare le silhouette troppo spigolose o troppo rotonde». Una versatilità che ne fa il tessuto ideale per mise sensuali. Donatella Versace stravede per il «jersey di seta che accarezza il corpo delle donne e segue, con naturalezza, tutti i loro movimenti». Tra i fan del jersey ci sono anche Prada, Moschino, Max Mara, Dior, Cavalli, Iceberg, Francisco Costa di Calvin Klein («l’effetto scultura è sorprendente») e Tomas Maier di Bottega Veneta («la fluidità del jersey è impareggiabile»). E, come ricordano i due giovani stilisti di Frankie Morello, il jersey ha pure un’anima democratica: «Nella sua versatilità si piega a tutto, diventando il massimo della semplicità e del comfort, con le tradizionali t-shirt». A tutto jersey anche le collezioni “low price” di Zara, Benetton, Stefanel, H&M, Mango e Combipel. DA VIAGGIO GRINTOSO RIGOROSO Abito stile impero con doppia cintura sotto il seno Da Stefanel la collezione estiva è ricca di abiti in maglina: non si sciupano, ideali da viaggio I miniabiti di Hugo Boss, con le spalline che si incrociano davanti, hanno la grinta che piace alle ragazze Ai piedi, gli stivali estivi in morbido camoscio Un rigoroso tubino nero in jersey di Chanel impreziosito da una “pettorina di piume”, costata cinque giorni di lavoro agli artigiani della Maison Desrues Repubblica Nazionale DOMENICA 25 MAGGIO 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 Quel soffio sexy addosso a Marilyn LAURA LAURENZI tutta donna. È la donna più donna che abbia mai visto», disse allibito Arthur Miller la prima volta che incontrò Marilyn Monroe. Quel giorno Marilyn indossava un impalpabile abito in maglina di jersey di Emilio Pucci. Un nulla, un soffio, quanto di più sexy potesse accarezzare il suo celebre corpo. Oggi quella stoffa leggerissima e inconsistente la diamo per scontata, elastica quanto basta, pratica, luminosa, donante. In realtà lo sdoganamento del jersey non fu così automatico. E anche le sue metamorfosi tecniche. Le origini sono poverissime. Il jersey era un tessuto di maglia che vestiva i pescatori dell’isola di Jersey, per questo si chiama così. Fu l’attrice Lily Langtry, oggi dimenticata, a usare per prima questa stoffa per i suoi abiti, negli anni Venti. Detta anche Jersey Lily perché era nata in quell’isola, era considerata una delle donne più belle ma anche più eleganti del suo tempo, conosciuta più che per il suo talento nel recitare perché diventò l’amante del principe del Galles, il futuro Edoardo VII. Ma fu grazie a un’altra donna che negli stessi anni il jersey venne nobilitato: colei che trasformò radicalmente l’eleganza femminile, non più basata sull’opulenza strutturale e sull’affettazione dei dettagli e dei tessuti, bensì sulla semplicità, sulla linea sciolta, sul comfort. Fu Coco Chanel a inserire con prepotenza la maglia e la maglina nel panorama dell’alta moda. Una moda prevalentemente sportiva, pratica — quella disegnata da Mademoiselle — di derivazione maschile, nel rispetto delle esigenze del corpo, in aperto contrasto con il gusto imperante. Ma «la moda passa e lo stile resta», teorizzò Coco Chanel. Una rivoluzione epocale, la sua: aver mandato in soffitta i corsetti e le stecche di balena, aver liberato la donna dal busto e dalla gabbia delle impalcature e delle stoffe troppo rigide è il motivo per cui passerà alla storia. La maglina, il tessuto lievemente cedevole ma che impeccabilmente torna al suo posto, è un po’ la sua stoffa simbolo. E non importa che questa stoffa abbia, o nasconda, umili origini: «Alcune persone pensano che il lusso sia l’opposto della povertà. Non lo è. È l’opposto della volgarità», sosteneva Coco Chanel. Ma dovettero passare vari anni prima che la maglina di jersey avesse un rilancio glamour come quello impressole dal marchese Emilio Pucci, il sarto (la parola stilista non si usava ancora) del jet set nel vero senso della parola: quelli e soprattutto quelle — ancora assai poche — che si spostavano continuamente in jet e apprezzavano un bagaglio leggero e ridotto. Vestiti esclusivi, certo, ma soprattutto pratici, no iron. Non poteva essere che in maglina di jersey il suo abito più famoso, da sera ma che ripiegato aveva l’ingombro di un fazzoletto da naso e pesava appena centosettanta grammi, perfettamente ingualcibile anche se stretto in un pugno, e coloratissimo grazie ai nuovi sistemi di tintura. Una tavolozza rubata alla natura: il rosa acceso della buganvillea mediterranea, il giallo dei limoni di Capri, il verde dei prati di Toscana, il turchese dei fondali marini fotografati dallo stesso sportivissimo Pucci, accostati e rimixati come in un caleidoscopio. Era tutto nero, per la verità, l’aderente ed elastico tubino che Marilyn indossava al primo incontro con Arthur Miller. Altre donne molto celebri, non solo star ma aristocratiche paladine del gusto, diventarono testimonial di Emilio Pucci e dei suoi abiti leggeri come un soffio: Consuelo Crespi e Diana Vreeland, Gloria Guinness e Lauren Bacall, Marisa Berenson e naturalmente Jacqueline Kennedy, tutte ingualcibili, nel viso e nello chemisier, tutte vestite di maglina destrutturata. Il resto è storia di anni recenti. Armani, per citare solo il più noto. Ma anche Loris Azzaro, che negli anni Settanta creò vestiti in jersey così fluidi e sciolti da sembrare dipinti addosso. Perché un vestito deve soprattutto donare. Deve stare bene e fare sentire bene chi lo porta. E poi Azzedine Alaia, già apprendista scultore, virtuoso dell’abito fasciante che somiglia a una seconda pelle. Per tutti la moda del peplo, puntualmente rilanciata a ogni Olimpiade. Provate a fare un peplo con la seta cruda, con il rigido raso, con il ricco broccato, con le stoffe nobili: impossibile. «È ACCESSORIATO L’abito nero, da gran sera, di Dior fa parte della collezione dedicata al jazz I sandali, con tacchi scultura, sono tempestati di cristalli Svarowski; la borsa è zebrata; il basco è nero, ricoperto di anelli EMILIO PUCCI MORBIDO È datato 1966 l’abito in jersey in stampa multicolore creato dal marchese Emilio Pucci Fu lui, il sarto del jet set, che nobilitò e rese di moda la fluidissima maglina oggi tornata in auge Il vestito da sera più celebre realizzato da Pucci pesava solo 170 grammi Abiti gioiello per Alberta Ferretti, amata dalle star del cinema I drappeggi in jersey attenuano le silhouette spigolose SENZA TEMPO Con il jersey, tessuto ad alto indice di seduzione, Antonio Marras crea abiti senza tempo, perfetti sia per l’estate che per l’inverno MINIMALISTA Il bello del jersey è che sa scolpire magicamente il corpo. Così pensa Francisco Costa, il creativo di Calvin Klein, abile nel fondere minimalismo e sensualità Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 MAGGIO 2008 l’incontro Sta ultimando “Miracle at St. Anna”, il suo primo lavoro “italiano”, un’opera sul massacro nazista a Sant’Anna di Stazzema, che uscirà in autunno. Lo chiama “il film della mia maturità, il più personale, un omaggio al neorealismo” Il suo rimane ancora un cinema scomodo, spesso irriverente, e non solo per i bianchi “Non vado in giro a mordere la gente - dice -. Ma i motivi per esprimere rabbia ci sono sempre” Arrabbiati Spike Lee bama 08” è la scritta in bianco sul nero della tshirt di Spike Lee e accanto, a colori tenui, un disegno stilizzato suggerisce un astro nascente. Nessun dubbio, «No if!» ripete Spike Lee come uno slogan e, se la candidatura di Obama risvegliasse barlumi di razzismo negli americani democratici, «we shall overcame», dice perentorio. L’incontro con Spike Lee avviene in un padiglione sulla spiaggia della Croisette a Cannes, dove il cineasta «più arrabbiato d’America» è arrivato per presentare Miracle at St. Anna, il film che sarà pronto per la fine di luglio, l’uscita negli Stati Uniti è prevista il 20 ottobre e successivamente nel resto del mondo, magari dopo la partecipazione al festival di Venezia o di Toronto. Tratto dal bestseller dell’americano James McBride, Miracle at St. Anna racconta la vicenda di quattro soldati di colore della 92ma divisione dell’esercito americano che nel 1944 si ritrovarono intrappolati a Sant’Anna di Stazzema in Toscana, a combattere contro i nazisti e contro il razzismo dei loro superiori. Spike Lee lo definisce «il mio tentativo di rinnovare il genere del cinema di guerra. Dico che è come David Lean in Italia, ha lo stesso spirito dei film del regista inglese. È una storia epica, per uso di mezzi e di persone è la più impegnativa della mia carriera, più di Malcolm X. È anche il film della maturità, dieci anni fa non avrei potuto farlo, non ero pronto. È vero che in tutti i film c’è qualcosa di personale dell’autore, ma questo è il più personale, anzi famigliare». E ricorda che, da bambino ancora in Georgia — è nato ad Atlanta nel 1957 — ascoltava i racconti di famiglia sulla guerra e «nel libro di McBride li ho ritrovati. Non mio padre che aveva problemi di salute, ma i sempre pronti ad accogliere i registi che fanno soldi, ma il rapporto con Spike Lee è stato sempre disturbato. Nel 1992 riuscì ad ottenere di fare Malcolm X grazie anche a Denzel Washington, che con l’interpretazione del leader dei diritti civili ebbe la candidatura all’Oscar, e «soprattutto perché convinsi Norman Jewison, che era stato scelto per primo, che solo un afroamericano poteva raccontare quella storia». Ma nel 2001 non gli fu concesso di dirigere Will Smith in Alì, un film che sentiva “suo”. «Will Smith mi disse che avrebbe dovuto essere un film di grande respiro internazionale e capii subito che ripeteva l’idea dei produttori che non mi ritenevano all’altezza». Non è un caso che per Miracle of St. Annanon è riuscito a trovare i quarantatré milioni di dollari negli Usa e considera «un altro miracolo l’intervento degli europei, soprattutto degli italiani Roberto Cicutto e Luigi Musini che mi hanno permesso di fare il film, che peraltro è molto diverso da film di guerra anche belli come Soldato Ryan di Spielberg, appartiene alla grande scuola del neo- Una pellicola non può e non deve accontentare tutti Non capisco perché a me chiedono sempre: “Pensa che piacerà agli afroamericani?” FOTO CATARINA VANDEVILLE / EYEDEA “O CANNES suoi fratelli erano stati nella Seconda guerra mondiale. Guidavano camion, perché allora, all’inizio del conflitto agli uomini di colore non era consentito combattere, potevano occuparsi dei trasporti, delle pulizie, della cucina, lavori umili. Solo più tardi fu permesso loro di combattere, una delle prime divisioni di neri combattenti fu la 96ma che sbarcò ad Anzio e in Sicilia». Per Lee bambino, ancora Shelton Jackson — Spike (punta) era il modo in cui lo chiamava sua madre sgridandolo per gli eccessi di vivacità ribelle —, «molto prima del Vietnam la guerra era quella di cui parlavano i miei zii: parlavano di paura, di fughe, di compagni perduti, di distruzione, il nemico erano i tedeschi. Come molti reduci avevano bisogno di tirare fuori l’orrore che si portavano dentro. Ma Miracle non è solo un film sugli afroamericani in guerra, è sul loro rapporto con la Resistenza e i civili italiani, per loro erano i salvatori e si unirono per combattere insieme contro i nazisti. So che i partigiani in Italia sono un argomento delicato e che qualcuno vorrebbe riscrivere la Storia, soprattutto con un governo di destra, ma abbiamo fatto ricerche accurate, abbiamo rispettato la verità. Comunque penso che il film non piacerà a Berlusconi», dice poi alzando il braccio nel saluto fascista, «è vero che il sindaco di Roma era uno così?». Alla risposta affermativa ride. Spike Lee non è uno di quelli dalla triste storia di ghetti e di violenza. Suo padre era un musicista jazz, sua madre insegnante, ma da giovanissimo, da quando la famiglia si trasferì a Brooklyn lasciando la Georgia devastata dai disordini per i diritti civili, ha recepito i problemi del razzismo, che hanno poi alimentato il suo cinema, spesso irriverente, dove di frequente qualcuno grida «Wake up!». Un cinema scomodo e non solo per i bianchi. Film come Jungle Fever, in cui ironizza sulla «mitologia sessuale della donna bianca considerata simbolo della bellezza e sugli uomini di colore dotati di organi extrasize», oBamboozled, una satira feroce sulla tv, su come i bianchi mostrano i neri in tv, ma anche sull’immagine che gli afroamericani offrono di se stessi, hanno irritato parte della popolazione nera. «Un film non può e non deve accontentare tutti. Non capisco perché a me chiedono sempre “pensa che piacerà agli afroamericani?”. Ma a un regista bianco chiedono mai se il suo film piacerà a tutto il pubblico del suo colore?». La fama di «più arrabbiato» l’ha conquistata fin dagli inizi con il cinema indipendente e a basso costo, prodotto con la sua compagnia chiamata “40 acres and a mule filmworks” in riferimento alla promessa, mai mantenuta, fatta dai politici sull’abolizione della schiavitù dopo la Guerra civile. Il suo fu un esordio grandioso, Lola darling, costato 175mila dollari, in parte messi insieme dalla nonna, ne incassò sette milioni. Gli Studios di Hollywood sono realismo, è un omaggio a Ladri di biciclette, Paisà, Roma città aperta». La differenza da Spielberg? «Spero che il pubblico la capisca quando lo vedrà. Io la so ma non sta a me dirla». La dice il produttore Cicutto: «C’è chi tende allo spettacolo della guerra e chi, come Spike, cerca l’umanità di chi la guerra subisce». Con il film Lee ha realizzato un sogno. «Sono venuto in Italia per la prima volta a presentare Lola darling, il mio primo film, e mi sono trovato così a casa che ho deciso di girare in Italia appena possibile. Sono passati più di vent’anni e ci sono riuscito». Lo Spike Lee timido e smarrito che vent’anni fa scopriva Roma «è andato, non c’è più. Spike Lee è cresciuto, oggi è un padre, un marito, un filmmaker più bravo», dice lui. Molte cose sono cambiate nella sua vita. Non appare più sulla stampa pettegola che ne stanava i flirt con modelle e attrici (una era Halle Berry) e appare in pubblico con la moglie Tonya Lewis e i due figli, è passato da Brooklyn a Manhattan, ha imparato a ridere delle sue contraddizioni: come quella di non aver mai preso la patente e aver girato spot per una marca di auto; o il contrasto tra il suo cinema da grande schermo e la partecipazione come giudice a Babelgum, il concorso per brevissimi film destinati all’online. Non è cambiato però nell’attaccamento alla famiglia, padre, fratelli e sorelle sono impegnati nella produzione e a Manhattan ha comprato una casa gigantesca dove sono sistemati i diversi nuclei famigliari. Ma è rimasto «il più arrabbiato»? «Non vado in giro a mordere la gente, ma i motivi per esprimere rabbia ci sono sempre». L’ultimo è stato l’uragano Katrina, su cui ha realizzato un bellissimo, commovente film documento, Requiem in quattro atti. Fu un’esperienza dolorosa vedere i miei concittadini, per la maggior parte afroamericani, vivere quell’orrore ed ero scandalizzato dalla lentezza degli interventi del governo federale. Ogni volta che vengo in Europa i giornalisti mi fanno domande sulla situazione dei neri, come se fossi il portavoce di quarantacinque milioni di afroamericani, e non lo sono. Non avevo risposte alle tante domande che mi facevano in quell’occasione, ma mi confortò che anche la stampa italiana era scandalizzata, qualcuno scrisse che New Orleans non sembrava America, ma Terzo Mondo». Tornato in patria le risposte le ha trovate. «Misi insieme una piccola troupe a andammo a New Orleans. La prima scoperta fu che a distruggere la città non era stato tanto l’uragano quanto il sistema di fognature che si era rovinato e che aveva allagato l’ottanta per cento del territorio. Ho scoperto anche che, mentre gli abitanti di New Orleans sparivano nell’acqua o erano costretti a lasciare la città con mezzi di fortuna, la signora Rice era a Madison Avenue a comprare le scarpe di Ferragamo, Cheney era in vacanza, e così pure il presidente Bush. Che interruppe la vacanza ma aveva al- tri impegni prima di dirigersi a New Orleans». Requiem in quattro atti«è stato il lavoro più duro della mia vita. Per chiunque credo sia difficile andare a parlare con persone che hanno perso famigliari e amici, che non hanno più niente, neanche la speranza. Ma penso che valesse la pena. Intanto ha dimostrato quanto a Bush interessi poco la vita e il destino dei poveri e degli afroamericani, la maggioranza degli abitanti di New Orleans. È curioso che, se succede un disastro naturale in Birmania o in Cina, leggiamo che il governo Usa è subito pronto ad intervenire… Il film è stato utile nel tempo, ha risvegliato le coscienze di tanti americani che ignoravano la realtà ed è diventato difficile per il governo non darsi da fare per la ricostruzione». Per ora c’è un’altra rabbia repressa che Lee vorrebbe sfogare in un film: quella per i disordini di Los Angeles e per il comportamento razzista della polizia, su cui ha raccolto una lunga documentazione e steso una prima sceneggiatura, ma non riesce a trovare qualcuno disposto a finanziare il film. Per fortuna sta per andare in porto un altro progetto che gli è caro. Spike Lee è appassionato di molti sport, compreso il calcio, è un ammiratore entusiasta dell’Arsenal, è amico da anni dell’ex capitano Thierry Henry, gli piace indossare la maglia della squadra. Ma il vero amore è il basket, non a caso nei suoi film c’è sempre qualche personaggio che ne discute. E se nel cinema il suo film preferito è Il cacciatoree il suo autore è Michael Moore, nel basket l’idolo è Michael Jordan. Si sono incontrati per la prima volta in occasione degli spot per la Nike e «ho scoperto un essere umano fantastico con una bellissima storia personale da raccontare. L’ho scritta e, quando avrò finito Miracle of St. Anna, comincerò a girarla. Michael è prontissimo e mi ha espresso spesso il desiderio di venire a Cannes. L’anno prossimo ci saremo con il film». ‘‘ MARIA PIA FUSCO Repubblica Nazionale