La voce del popolo
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La voce del popolo
la Voce del popolo MIRANDOLINA AI PIEDI DELL’ARENA la Voce del popolo palcoscenico LA LOCANDIERA GOLDONIANA CAMBIA AMBIENTAZIONE, CALENDARIO E PARLATA, MA NON PERDE IL SUO FASCINO, LA SUA FRESCHEZZA E SOPRATTUTTO NON PERDE IL CARATTERE. IN SCENA AL TEATRO POLESE «OŠTARICA MIRANDOLINA» www.edit.hr/lavoce Anno 9 • n. 75 martedì, 4 giugno 2013 UN CAFFÈ CON RECENSIONI PROPOSTE TEATRALIA L’INTERVISTA Simone Leonardi Chiamatemi Italo. Italo Svevo Mirandolina... d’Asburgo Addio a Franca Rame David Petrović Quando le donne erano di sinistra La locandiera tradotta e rivisitata 2|3 4|5 6 7 8 Per mordere la gustosa crêpe che è la vita 2 palcoscenico martedì, 4 giugno 2013 UN CAFFÈ CON... la Voce del popolo di Rossana Poletti SIMONE LEONARDI N ato a Roma, studia recitazione con il regista Giovanni Nardoni. Fondamentale per la sua formazione l’approfondimento sul metodo realista con John Strasberg e il soggiorno di studio in Gran Bretagna, presso il Charioteer Theatre, dove perfeziona la conoscenza del repertorio shakespeariano. Studia canto con maestri prestigiosi fra i quali Jana Mrazova e Anna Maria Di Marco, tap-dance e repertorio musical con Ann Amendolagine. Per il teatro di prosa prende parte ad Adelchi, con la regia di E. Zingaro e per il teatro musicale interpreta il conte Gustav nell’operetta Il Paese del Sorriso di Lehár. Sotto la direzione di Gino Landi, veste i panni di Caderousse nel Conte di Montecristo al Teatro Brancaccio e quelli del nipotino del topo più famoso d’Italia in Geronimo Stilton Supershow. Nel 2007 è protagonista in Alta Società, nel ruolo di Dexter, prima ancora è Frank in Lady Day accanto ad Amii Stuart. Scelto come cover di Mr Higgins in My fair Lady per il Nazionale è qui in scena anche nel 2006 con Rent di J. Larson e prodotto da Pavarotti Int. nel ruolo di Mr Jefferson. Ancora è stato Malcolm in Full Monty, l’abate Narciso in Boccadoro The Traveller, Bob Cratchit in Canto di Natale al Sistina di Roma. Come doppiatore per la tv collabora a serial come Fastlane e Medium e documentari per NatGeo. Sulle reti Rai in Stellina, dove Simone è il clown Tataglio ed Elements, dove dà la voce al simpatico Merc. Nel 2010 a Roma cura l’adattamento della versione italiana del musical The Last Five Years. Nel frattempo Simone Leonardi è apprezzato interprete nel ruolo di Din Don ne La Bella e la Bestia a Milano e Roma. La sua fama va alle stelle quando diviene protagonista in Priscilla la regina del deserto, assieme ad Antonello Angiolillo e Mirko Ranù. A novembre 2012 riceve a Trieste, durante una serata di gala, il Premio Nazionale Sandro Massimini, assegnato annualmente ad un giovane attore brillante del teatro musicale leggero italiano che abbia dimostrato particolari doti di talento e di versatilità nella recitazione, nel canto e nella danza. Bernadette Bassenger, Mitzi Del Bra, e Felicia Jollygoodfellow sono i nomi d’arte di Ralph, Anthony “Tick” Belrose ed Adam Whitely, una transessuale e due drag queen che si esibiscono nei gay bar di Sydney. Dopo la morte del compagno di Bernadette, i tre partono alla volta di Alice Springs per esibirsi al Lasseters Casinò, del quale la ex-moglie di Tick è direttore. Le tappe del viaggio sono cittadine abitate da gente rude, che non ama confrontarsi con il mondo delle nostre tre “amiche”. Ne succedono di tutti i colori, compresa una zuffa nella quale per fortuna farà da paciere Bob, meccanico frustrato da una mogliettina troppo esuberante, che riparerà anche il pullman e andrà con loro ad Alice. Prima dell’inizio dello spettacolo nel casinò salta fuori che Tick ha avuto un figlio, un bambino molto sveglio che non farà nessuna difficoltà ad accettare la diversità del padre. Happy end sorprendente con tutti in scena in un sfarfallio di piume di struzzo, lustrini, costumi esorbitanti, l’eccesso è di rigore. Partiamo dal personaggio di Bernadette, protagonista assoluta del musical Priscilla la regina del deserto. Non solo protagonista ma emblema dello spettacolo, in quanto rappresenta tutto ciò che lo spettacolo vuole essere: lotta per l’accettazione, tolleranza, capacità di credere nei propri progetti sfidando l’opinione pubblica, irriverenza con cui certi temi vengono affrontati e totale mancanza di autocommiserazione nell’affrontarli. Lo spettacolo riflette tutto ciò e Bernadette lo incarna in prima persona. È un personaggio che offre una duplice sfida: gli autori Stephan Elliot e Allan Scott hanno deciso di difendere drammaturgicamente il personaggio, scovandone la forza e anche la poesia. L’attore è così protetto da questa forza drammaturgica ma nel contempo è minacciato dalla potenza drammaturgica del personaggio, che è rischiosissimo da interpretare perché si può facilmente sbagliare. Non si può portare in scena Bernadette esprimendo un giudizio su di essa. Noi attori siano portati ad esprimere giudizi su ciò che interpretiamo e questa è la nostra debolezza, perché vorremmo compartecipare al pensiero del pubblico. Ma non possiamo farlo, noi dobbiamo produrre la catarsi negli spettatori. È il pubblico stesso che deve riflettere sul personaggio e sentirlo, noi ci limitiamo a rappresentarlo. Rappresentare Bernadette significa rinunciare al proprio pensiero ed abbracciare a 360 gradi la sua visione. Io non la interpreto, cerco semplicemente di vedere con i suoi occhi. Questa è ovviamente una visione moderna del recitare, espressa da Declan Donnellan, che io stimo moltissimo, regista inglese di musical come di commedie shakespeariane. Che cosa dice Donnellan? Afferma che bisogna imparare a vedere con gli occhi del personaggio, senza chiedersi chi sia, semplicemente operando una rinuncia al proprio giudizio. Per me quando esiste Bernadette non esisto io; ciò che ci accomuna è la totale mancanza di giudizio nei confronti degli altri, io non giudico mai le persone che incontro, tento di capire e mettermi nei loro panni pur che mi lascino fare lo stesso. Bernadette è un uomo che ha fronteggiato molte difficoltà nella vita, avvicinandosi al mondo femminile come Drag Queen e poi addirittura affrontando un cambio di genere che l’ha portata a diventare una donna. Io ho certamente avuto meno difficoltà. Vengo comunque dalla periferia, da una famiglia molto umile, senza conoscenze e senza basi, ho cominciato un percorso a cui ho fortemente creduto, nonostante la vita mi desse molte spinte per farmi tornare indietro. E invece sei andato avanti. Mi bocciarono all’Accademia Silvio D’amico e rifiutarono il mio accesso alla scuola del Piccolo Teatro di Milano e, quando chiesi ragione di questo, mi fecero capire esplicitamente che dovevo lasciar perdere, che non era la strada giusta per me. Nonostante la sofferenza provata, ho creduto che avessero torto. Loro sono ancora “istituzioni” e io non sono “nessuno”, ma nell’essere nessuno sono comunque quattordici anni di felice lavoro. Con la Stage Entertainment e con Priscilla ho vissuto straordinarie prime volte: 509 repliche in due anni de La Bella e la Bestia, nel ruolo di Din Don, primo spettacolo “residente” in Italia, quello che ha incassato di più dal dopoguerra ai giorni nostri. E con Priscilla ho vissuto un’altra prima volta, nel senso che il format dello spettacolo è lo stesso in Italia e a New York. Il team creativo, venuto da America, Germania, Olanda, non si è chiesto chi fossi, da che scuola provenissi, mi hanno messo sotto torchio, alla prova duramente e hanno deciso che io ero adatto a quel ruolo. Tu reciti molto bene, cosa non comune nei musical, dove gli interpreti non brillano nelle doti attoriali. Interpreti Bernadette in maniera sobria e non caricaturale, come un trans potrebbe apparire nell’immaginario collettivo. In Italia si vive purtroppo ancora di un cliché, se fai parte di un certo giro passi se no sei fuori. Non così all’estero. Io volevo fare teatro, la prima pièce che vidi fu Natale in casa Cupiello. Amo particolarmente il teatro dialettale, perché credo che il dialetto, la lingua che parliamo, sia un tesoro per noi. Capisco che ci debba essere un italiano standard e lo conosco profondamente. In questi giorni studiare dizione inglese mi ha fatto comprendere quanto sia importante comprendere bene il lessico, la morfologia, ogni aspetto di una lingua per poter recitare bene con essa. I napoletani, o i veneti con il Goldoni, recitano con una lingua reale e realistica, mi vien da dire. Noi italiani abbiamo il problema di essere veri e reali in scena perché parliamo una lingua che non gode di uno standard nella società. Mi spiego. Gli inglesi recitano nella lingua che la regina parla, che una fetta della popolazione parla, e che viene difesa a spada tratta. Noi non abbiamo una lingua, per come si presenta da Accademia della Crusca, che sia parlata da una parte della popolazione. Ai miei allievi faccio lezioni di grammatica storica, gli faccio vedere come il latino si è evoluto non solo nel toscano emendato, ma in tutte quelle lingue italiane che costellano il paese. Un percorso affascinante che sarebbe bene studiare a scuola. Quando vidi appunto Natale in casa Cupiello ebbi la netta sensazione che il teatro dovesse rappresentare la vita e sono cresciuto con questa idea. Tutto quanto è intellettualismo, retaggio romantico, ingerenza cattolica nei testi lo rifiuto, perché il teatro deve tornare a parlare al popolo, senza dogmatismi e intellettualismi che separano il pubblico dal teatro. Quando ho scoperto Shakepeare a Londra, ho capito che noi allestiamo spettacoli pesanti, mentre il teatro shakespeariano è grande, lì sta l’invenzione della drammaturgia moderna, del gioco teatrale e filmico, lì c’è tutto: che festa popolare è quel teatro! E quanto perdiamo nelle traduzioni e quanto peggioriamo ancora le cose con le nostre costruzioni intellettuali. Questo deve farci riflettere sui limiti nel bene e nel male della nostra lingua, in modo da dare agli attori un’indipendenza e capacità personale di elaborare la propria performance. Se proponessi questo alle varie istituzioni e intellighenzie del nostro paese, mi scaccerebbero. Infatti è ciò che ti è successo. Con Bernadette ho potuto invece dimostrare che, se posso lavorare liberamente, al pubblico arriva il messaggio e il pubblico è pronto a riceverlo, non è stupido, il pubblico è sovrano. In Italia abbiamo forse un teatro drogato da un intellettualismo figlio del ’68, la classe dirigente teatrale è quella di quel periodo, non è cambiata, come del resto tutte le classi dirigenti di questo paese, e tiene stretto nelle proprie mani il potere di interdizione nei confronti delle spinte nuove. Della serie “deve essere reso serio anche ciò che serio non”. L’hai detto. L’altro giorno leggevo un articolo in cui si diceva che “il teatro può educare, può far ridere, l’importante è che interessi”. Non può e non deve essere una predica. Priscilla sta facendo passare un messaggio tostissimo, con leggerezza e divertimento. Ci preoccupavamo all’inizio del gergo, delle parolacce, delle drag queen, del senso, dei bambini. Le preoccupazioni pongono un freno all’emancipazione, nel momento in cui non le vivi, nel momento in cui ti fidi del messaggio e credi che sia forte e necessario da comunicare, ecco che improvvisamente si supera tutto. Non abbiamo mai dovuto spiegare niente ai bambini con cui abbiamo la Voce del popolo lavorato. Amo profondamente la prosa Ibsen, Shakespeare, ma anche i musical, i miei preferiti sono quelli della Golden Age, di Lerner e Loewe, di Rodgers e Hammerstein, ma anche alcuni moderni come Stephen Schwartz e Jason Robert Brown. Ci sono messaggi importanti, mediati in forma leggera, anche nel musical: come non ricordare Tutti insieme appassionatamente, quando la famiglia von Trapp esce dalla villa di notte di nascosto per sfuggire ai nazisti. A volte è il mezzo espressivo che interessa le persone e l’aspetto noioso e predicatorio di certi mezzi crea distanza. Un atteggiamento etico, nel senso negativo del termine. Ho studiato molto pur essendo un selfmade man, leggo molto, sono in continua formazione, cerco una conoscenza diffusa. Mi è capitato di tenere una lezione di dizione ad alcuni ragazzi. Mi soffermai sul primo coro dell’Adelchi del Manzoni per circa due ore e mezza e allora dissi di fare una pausa, temevo di averli stancati e questi invece presi dalla curiosità e dalla passione, che probabilmente trasmettevo loro, su tutto ciò che storicamente era avvenuto in quel frangente e che il Manzoni racconta, i Longobardi, Carlo Magno, cosa ha significato per la nostra lingua l’invasione dei Franchi e l’annientamento della civiltà longobarda, mi dissero di continuare. Scopro una generazione di ventenni, che contrariamente a quello che si pensa ha molta voglia di contenuti, bisogna darglieli con i mezzi giusti senza pontificare. È la passione quella che passa. Certo se gli insegnanti amano la materia anche i loro allievi la ameranno. Per il teatro vale lo stesso concetto. Il pubblico è come una persona, che a volte reagisce di più, a volte di meno, in un modo o in un altro. Nella vita incontri palcoscenico una persona che ha bisogno di comunicare un suo dramma e lo fa in modo noioso, tu lo ascolterai con sufficienza, se invece ti dimostra che vuole condividere con te la sua difficoltà, magari ti offre un caffè, mette un po’ di ironia nel suo racconto, tu lo ascolterai più volentieri. Questo non cancella il dramma ma ti permette di condividerlo meglio. Bisognerebbe fare il dramma con ironia e affrontare la comicità con un po’ più di serietà, affinché non sia becera e pecoreccia. La comicità fa parte del quotidiano, va proposta. Andai a vedere Romeo e Giulietta al Global di Londra, spettacolo che durò quattro ore e mezzo, per le prime due il pubblico si scompiscò dalle risate, perché Shakespeare offriva la risata per far entrare pian piano il dramma. Cosa c’è di più elementare di questo? Menphis, New Orleans, Nashville, Chicago, Detroit… Pensa che a Roma hanno fatto un’ordinanza per impedire agli artisti di strada di utilizzare la musica. Una mia amica faceva il tip tap a piazza Navona in mezzo ai turisti che la applaudivano felicemente, ora senza musica non può fare più niente. Mentre quando vai al nord d’Europa, anche nel gelo delle città innevate trovi artisti che si esibiscono, è un’abitudine antica. Questa è la grande differenza tra noi e gli altri. In America i grandi attori fanno tournée con le nuove produzioni di musical. In inglese si dice Musical Theatre, perché per loro sempre di teatro si tratta. Credo che l’Italia, se mi è permessa un’opinione, abbia un retaggio di regole bizantine e alcuni poteri consolidati, come la Siae (società italiana autori ed editori), per fare un esempio ma non solo, che se vedono sfuggire un loro utile ed è impossibile “agguantarlo” fanno di tutto per impedire che la cosa si faccia. Vale per l’arte, ma in Italia è un po’ così per qualsiasi cosa. Ci stiamo tarpando le ali, soffochiamo la nostra più grande qualità, fantasia, inventiva, arte dell’arrangiarsi, sotto un cumulo di regole che ci porteranno a picco. L’istituzione è tutelata protetta e non viene mai messa in discussione, vale anche per il teatro e tutto ciò che esce da questo contesto va frustrato ed annientato. Pensa alle selezioni dei teatri e delle scuole pubbliche, ti costringono a portare pezzi ben precisi, che “loro” ritengono giusta mediazione culturale: ma perché? cosa cambia se io scelgo cose diverse, testi classici, ma anche contemporanei. È solo un esercizio di potere. Benedico il giorno in cui sono stato scartato da queste scuole, perché sono tiranniche, lì c’è indottrinamento. Mi chiedo se producano attori validi. Un attore senza spirito critico, non so quanto possa comunicare al pubblico. Negli Stati Uniti la musica di strada è vita, gli artisti, i grandi musicisti si esibiscono dovunque, si confrontano continuamente: Il motivo forse va cercato nel fatto che questi signori si sono chiusi in un recinto nel quale si difendono, perché quello Il dramma a teatro da noi deve per forza di cose essere “martirizzazione”. Io combatterò per sradicare questo pensiero. Ed è attraverso queste asserzioni che passa la demonizzazione del musical da parte dell’”intellighenzia”. E siccome si considera il musical un teatro di serie B, è passato il concetto che non serva insegnare recitazione ai giovani performer. Le scuole di musical devono invece insegnare i classici, la tragedia greca, Shakespeare, Moliere, Goldoni, i ragazzi devono sapere recitare, non deve essere considerato un optional. martedì, 4 giugno 2013 3 sanno e niente di più. Il confronto con quello che c’è fuori potrebbe essere letale. Come in un organismo vivente per rinnovarsi devono morire le cellule vecchie, così anche la nostra società ha bisogno di tempo per il cambiamento, ci vorranno alcune decine d’anni perché qualcosa succeda. In natura le cellule vecchie sono generose nei confronti di quelle nuove, ecco nella società le cellule vecchie non sono affatto generose, per cui dobbiamo aspettare che muoiano perché possa nascere qualcosa di nuovo. Noi giovani o ce ne andiamo o stiamo qui ad aspettare che il ricambio generazionale avvenga, soffrendo però molto. Sto studiando dizione inglese proprio perché vorrei andarmene. Vivo però un conflitto, perché sento che c’è bisogno di me. Non lo dico per presunzione: quando parlo con i miei coetanei, sento che li ispiro. Questa cosa mi commuove più di tutto, più dell’applauso del pubblico, più dello stare in scena. Mi fa pensare che forse devo restare perché ho una missione, ma nel contempo mi costa un grande sforzo perché devo troppo spesso lottare contro i mulini a vento. L’Italia è un paese serioso e poco serio. Per concludere in bellezza, Priscilla ha una colonna sonora splendida fatta di grandi successi, bellissimi, un punto di forza del musical. Un jukebox, una collezione di pezzi che già esistono e che sono incastonati in maniera esemplare. La nostra produzione reca la song-list di New York, ce n’è stata una australiana, una inglese. Credo che questa sia la più azzeccata: ascolti il grande successo e vivi lo stato d’animo del momento, nel senso che le canzoni sono coerenti con il testo, con la storia. La musica è un coronamento di un intreccio drammaturgico, di un impasto emotivo, che è forte in Priscilla, che colpisce l’immaginario comune. Canzoni, costumi e scene sono l’addobbo di un albero che è già molto bello di suo. 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo martedì, 4 giugno 2013 LA RECENSIONE di Rossana Poletti CHIAMATEMI ITALO. LA RECENSIONE di E ITALOSVEVO T rieste. Sala Bartoli. Italo Svevo e Umberto Saba sono in campo letterario il culmine di una grande cultura che si formò a Trieste, grazie alla particolare condizione della città: il porto, l’impero, la ricchezza dei traffici, le tante etnie e religioni capaci di creare un brodo di cultura fervido e prolifico. Per Svevo l’essere vissuto immerso in quel mondo mitteleuropeo che diede i natali alla psicanalisi, averne assorbito profondamente e naturalmente lo spirito di innovazione nel pensiero umano, fu la svolta che determinò i suoi successi letterari. Egli è infatti considerato a posteriori un precursore nella letteratura, mentre i suoi contemporanei non si accorsero della sua grandezza, anche dopo aver pubblicato due romanzi, “Una vita” e “Senilità”, che da soli sarebbero stati sufficienti a riconoscerne la qualità. Ci vollero l’incontro con Joyce e le recensioni favorevoli di Larbaud e Montale de “La coscienza di Zeno”, uscito nel 1923, affinché il mondo si accorgesse che Svevo era stato il primo a cogliere il grande cambiamento che la nuova attenzione verso l’io profondo produsse nella psicanalisi, nella letteratura e diversamente nella società. Lo scrittore triestino racconta di un uomo solo, sconfitto, privo di valori saldi a cui ancorare la sua esistenza. Sembra, e lo è, il racconto di se stesso. Svevo visse in un mondo di ricchezza e benessere, soprattutto dopo il matrimonio con Livia Veneziani, in un’epoca in cui a godere di questa condizione nella società erano ancora pochissimi. Sperimentò però, soprattutto negli anni del tracollo finanziario del padre e del suo lavoro in banca, periodo durato vent’anni, il fatto che la felicità non sia questione di ricchezza, o perlomeno non solo. Il protagonista di “Una vita” è un giovane impiegato di banca, che non riesce ad accettare la vita di città, le regole della piccola borghesia, l’angusto spazio vitale, fino al suicidio. In “Senilità” un non più giovane letterato vive drammaticamente l’amore con Angiolina, una giovane popolana sfuggente e prepotentemente vitale. In Zeno trova spazio una maggior consapevolezza dell’analisi della psiche e dell’inconscio e anche la capacità di guardare a questo aspetto umano con una buona dose di ironia. Con Svevo si sono misurati tanti grandi registi nella storia del teatro italiano: Sandro Bolchi, Aldo Trionfo, Edmo Fenoglio, Giulio Bosetti, Furio Bordon, Andrea Camilleri, Francesco Macedonio, Gianfranco de Bosio, Marco Sciaccaluga e l’elenco non finisce qui. Mai nessuno però aveva avuto l’ardire e il discutibile gusto di farsi citare in scena, come invece avviene in questo testo di Lino Marrazzo, dedicato al grande scrittore triestino. E dopo interpreti del passato del calibro di Cesco Baseggio, Franca Nuti, Luigi Vannucchi, Massimo de Francovich, Tino Buazzelli, Ariella Reggio, Aroldo Tieri, Giuliana Lojodice e Tino Carraro, troviamo in scena alla Bartoli i bravi Sara Alzetta e Lorenzo Acquaviva ad interpretare i personaggi della vita di Svevo e della sua fantasia in questo “Chiamatemi Italo. Italo Svevo”. Sul fondale della sala scorrono le immagini di uno Svevo in un letto di ospedale. Accanto a lui la moglie Livia, la figlia Letizia e il nipote medico, Aurelio Finzi, che non smette mai di fumare (come Zeno Cosini). E’ appena accaduto l’incidente stradale in cui lo scrittore rimase coinvolto, nei pressi di Motta di Livenza, il 13 settembre 1928, e in conseguenza del quale morirà. Nel delirio si confondono realtà e fantasia, sogni e ricordi, vita privata e personaggi. Annetta, la coprotagonista del romanzo “Una vita”, pone domande a Ettore Schmitz, scrittore condannato all’inconsistenza. Svevo incontra poi la moglie “per la prima volta” nel giardino di casa Veneziani, e qui si compie il suo destino in mezzo alle vernici, lui che vorrebbe fare il letterato. E ancora in Austria durante una vacanza nella quale, fatto probabilmente accaduto, la figlia si è smarrita e Svevo non sa dove sia finita, perso com’è dietro alla sua creatività letteraria in una stanza senza finestre perché altrimenti l’ispirazione potrebbe volare via. E ancora Angiolina e Livia, fantasia e realtà, gelose una dell’altra. E per concludere il momento in cui si chiudono i conti con la vita, chiamando in causa la coscienza, l’intimo e i desideri repressi. QUANDO R ibellarsi per un perfetto ordine universale a misura di donna. E nel frattempo continuare a guardare al centro delle piccole cose. Questo potrebbe essere uno dei messaggi portanti dello spettacolo “Quando le donne erano di sinistra”, andato in scena a Gorizia lo scorso 20 maggio. Il testo, al suo debutto al Kulturni dom, è firmato da Marino Zanetti, un uomo che ha evidentemente voluto lanciarsi in una serie di gineprai come la politica, il rapporto uomo-donna, l’essere veramente comunisti, l’essere veramente comuniste. Un’avventura che oltretutto deve fare i conti con la Storia, con quello che ha lasciato ma anche con la rievocazione di un’epoca in cui il Sol dell’avvenir per qualcuno era all’orizzonte. Tematiche importanti, scelte per concludere la 18.esima edizione della rassegna “Un castello di… Musical & Risate”, organizzata dal collettivo “Terzo Teatro”. A posteriori, cercando qualche notizia sull’autore di Quando le donne erano di sinistra, si scopre tra l’altro che Zanetti è tutto fuorché un militante comunista, essendo stato consigliere comunale per il centrodestra e, più in generale, un esponente del mondo politico centrista-cattolico. Quindi, tutto sommato, ripensandoci il taglio dato alla storia in scena è politicamente corretto e intellettualmente onesto, sia sotto il profilo politico che di genere. Certo, poi bisogna essere nello stato d’animo giusto per assorbire alcuni argomenti forti del testo, che pur con molto ironia, non rinunciano a prendersi tremendamente la Voce palcoscenico del popolo martedì, 4 giugno 2013 5 Emanuela Masseria OLEDONNEERANODISINISTRA sul serio. D’altronde, era anche un fattore ben presente nel costume di certe donne e di certi uomini nel primo Dopoguerra. Tra le battute delle protagoniste, l’aria che si respira è quella di un comunismo domestico, dove solo gli uomini si occupano di vedere “lontano”. Già in questa frase si potrebbe ipotizzare del malsano, come può capitare quando si ha a che fare con concetti tagliati col coltello, dove le due metà del cielo diventano due lati distanti e contrastanti. Ma questo non significa che manchino delle sfumature e delle sottigliezza in tutta la storia, che diventa così più gradevole e agile, su uno sfondo dove l’uguaglianza dei diritti è ben lontana per tutti, per quanto per tutti auspicata. Tra le vicende raccontate si intuisce, fortunatamente, che la vita è più complessa non solo delle idee del singolo, ma, soprattutto, delle idee delle moltitudini irregimentate. A caratterizzare con il loro apporto l’opera in scena sono poi cinque protagoniste, abbastanza diverse fra loro ma tutte divertenti: Elena Bertuzzi, Giuliana Colella, Antonella D’Addato, Claudia Foscolini, Valeria Marchi e Arianna Remoli (ma del cast va ricordata anche la comparsata piccola Stella Nunin). Le cinque “compagne”si rapportano ogni giorno coi problemi di una condizione difficile come quella della provincia italiana del Dopoguerra, col boom economico raggiunto a suon di stenti e sacrifici. Un boom che poi non è per tutti e dove ancora le ragazzine sgobbano nelle fabbriche come nei decenni precedenti. Qui si tratta di mettere al centro un gruppetto ben assortito di donne dai vestiti lisi, lavoratrici ingenue e soprattutto madri e mogli di una volta. Nei loro dialoghi c’è tutto l’orgoglio di un genere che si spacca la schiena, guardando, talvolta in modo sconsolato e cinico, alle prodezze ideali dei propri mariti. Uomini che non ci guadagnano molto, poi, dai loro slanci di pensiero. Ma i nemici in realtà qui non sono gli uomini, quanto piuttosto un sistema oppressivo che potrebbe essere rovesciato, se solo le donne lo volessero. Certo, qui si vola abbastanza in alto, come a voler sottolineare una certa ingenuità magari velata di ignoranza. “In cinque minuti cambieremmo, se potessimo, questo mondo stupido e cattivo”- dice a un certo punto una delle protagoniste. Tra queste figure emerge poi anche un altro modo di faticare nella vita nel caso si nasca femmina. Chiara (Arianna Remoli), ad esempio, è giovane e se ne frega delle ideologie. Quello che vuole è solo evitare le lunghe ore alla catena di montaggio ma, “tradendo” la madre operaia, va solo incontro ad un futuro di stenti come prostituta. Il messaggio finale non è però per niente triste e dipinge, mano a mano che la storia si dipana, un quadro fatto di umorismo e buon senso, di orgoglio personale e di volontà di riscatto, oltre che di un’inarrestabile voglia di cantare. Rimane da dire che tutte le attrici se la sono cavata bene con le note, in particolare forse Arianna Remoli, con un contralto rauco ed emozionante. L’accompagnamento strumentale era di Fabrizio Battista alla chitarra e del noto batterista goriziano Gino Pipia alle percussioni, (le scene erano invece di Claudio Mezzelani, le luci di Giuliano Petterin, i costumi di Maria Nives Cernic; direttore di scena Gino Marchi). Un altro personaggio fuori dagli schemi è Milanta - Antonella d’Addato, che spunta dopo un po’ nella compagnia delle amiche operaie. In realtà i loro rapporti non sono né ottimi né trasparenti, ma sono illuminati da quella solidarietà di paese che nasce dal dialogo e dalla reale vicinanza. Milanta è l’anello di congiunzione naturale tra l’uomo comunista e la donna di un comunista. E’, fondamentalmente, una militante esaltata che riporta le gesta dei mariti delle altre ad una sedicente clamorosa manifestazione di protesta. Dalle sue parole di arguiscono anche i caratteri dei consorti delle “compagne”. Alcuni in prima fila, altri partecipi con lo sguardo basso, altri ancora “assenti giustificati” da una precedente morte in guerra. C’è anche chi, tra le più giovani e per il momento solo figlie, nasconde un pretendente di destra, ovvero un “padrone” che come tale è tacciato dei peggiori crimini. Milanta in qualche modo è pure lei l’uomo della situazione, di quelli “con una bandiera per parte e una fra le gambe”. E proprio per questo non viene presa troppo sul serio dalle amiche, che conoscono l’animo femminile, in questo caso quello di una zitella, che non può pretendere, ad esempio, di fingere di appartenere ad uno certo “standard” di sinistra votato all’amore libero. Nel dubbio, sia come sia, Milanta porta mutande rosse, un fazzolettone rosso, scarpe da arrampicata ed un irrimediabile entusiasmo per il partito. Di lei ricordiamo alcune tra le migliori battute contro il Creatore (personalmente vissute seduta casualmente accanto a un prete, che non rideva granché Ndr). Va da sé che Milanta in Dio non ci crede affatto, in quanto se ci fosse, avrebbe lasciato, con ogni evidenza, i poveri poveri e i ricchi ricchi. Ergo: “Dio è di destra”. Ma non Gesù, verrebbe da dire, visto che poco dopo la convintissima militante si lancia in svariate lodi sperticate per questo “giovane uomo dai capelli lunghi, dal portamento altero e sempre vestito di rosso”. Sia come sia, il calice delle cinque donne si alza, a un dato momento della discussione “A noi, madri, figlie, vedove, compagne. A noi, donne”. Ma chi sono queste persone che impugnano “falce e mattarello”, (come evidenzia pure la locandina dello spettacolo)? Sono, se non tutte noi, quelle che la vita riescono a darla e difficilmente a toglierla, come anche le protagoniste di favole tutte uguali dove il personaggio femminile è quasi sempre indifeso e in attesa di un qualche salvatore. Nella dura realtà, in scena c’erano le operaie di una volta, che con i calli alle mani avevano ancora occhi che splendevano alla sera, non si sa come. E gli si perdona facilmente battute come “il disastro è lo sbocco naturale del maschio”, in considerazione delle doppie fatiche che le attendevano ogni giorno. Ma se la vita non è perfetta per alcune, lo è meno anche per i loro Compagni, perché “se Marx è musica, bisogna saperlo suonare”. 6 palcoscenico martedì, 4 giugno 2013 UNA LOCANDIERA CIAKAVA la Voce del popolo di Cierre MIRANDOLINA...D’ASBURGO D alla locanda sull’Arno ad una sull’Adriatico. Mirandolina, la locandiera goldoniana, cambia panni, geografia, tempo. E cambia lingua, perché da locandiera si fa “oštarica” e nella traduzione e rivisitazione ciakava viene messa in scena dal Teatro Popolare Istriano, nel filone che vuole portare sul palco testi originali o traduzioni o libere ispirazioni - nella parlata dialettale della penisola. Firma la traduzione e l’adattamento Daniel Načinović, la regia è di Jasminko Balenović. Diciamo subito che non si tratta di una traduzione e trasposizione “pure”: Načinović ci ha messo un po’ di casa, e nemmeno la lingua è una, bensì il fiume di varianti ciakave e di parlata veneta. La messinscena è gustosa, per quanto inusuale, abituati come siamo alla locandiera goldoniana. Ma è questione di un attimo, perché l’ossatura della commedia è quella, e poi si viene presi dall’azione, condita da faccende di casa. In fondo, il teatro, come dire, è qui per questo: per puntare il dito contro i mali della società, per mettere in luce pecche, fatti e personaggi. Siamo a Pola, quindi, che sostituisce Firenze nell’ambientazione, l’anno è il 1913: un secolo fa. Belle epoque, che sta per essere sconquassata dalla bruttura della Prima guerra mondiale. Ma ancora nulla si sa del destino che incombe, non si ha sentore della gran catastrofe. Si vive. Si fa, si disfa, si litiga, ci si innamora. Tutto succede tra le quattro mura della locanda “3 soldata” (3 soldati), tra Arena e Casino Marina. Attorno a Mirandolina ruotano i personaggi maschili che troviamo anche nella commedia di Goldoni, manco a dire tutti innamorati della donna abile, si potrebbe dire emancipata, dotata di fascino e carattere. Tutti meno il solito misantropo. Ma chi sono questi uomini? Bartolo conte Škampavija (indaffarato uomo d’affari), Albino Ladrunkovitsch (dipendente delle Ferrovie), entrambi innamorati di Mirandolina e impegnati a fare bella, lucida figura. Poi c’è Felix Srećko Kosovits, capitano di fregata e ufficiale dei servizi segreti dell’imperial e regia marina e misantropo da morire. Il tempo di portare la commedia alle battute finali: nel suo destino c’è il cambiamento e l’innamoramento. Leggiamo i nomi: Škampavija e Ladrunkovitsch, come dire, il destino nel nome. E Kosovits di suo rimanda anche alla memoria i servizi segreti. All’osteria “3 soldata” si fanno un po’ beffe dell’oggi: c’è chi vorrebbe una sorta di Prater in Bosco Siana, c’è chi vorrebbe un ponte sullo stretto di Fasana per collegare la località alle Brioni, e metterci sopra una bella statua del granitico ammiraglio Tegethoff: un po’ insomma una parodia dei grandi progetti di oggi. Ah, dimenticavamo, tra Scampavia e Ladrunkovitsch, Mirandolina sceglie Mikula, il cameriere. Come nell’originale goldoniano, tra il Marchese di Forlipopoli e il Conte di Albafiorita sceglie Fabrizio, anche per una promessa fatta al padre. Gli attori. Lana Gojak è Mirandolina, Robert Ugrina è Felix Srećko Kosovits, Teo Tiani è Albino Ladrunkovitsch, Denis Brižić è Bartolo Conte Škampavija, Luka Juričić è Mikula. Poi ci sono Romina Vitasović ed Elena Orlić, nella pièce interessate a mettere in piedi una poco decorosa attività in proprio. Quella della locandiera Mirandolina è storia che si sa: un po’ per reminiscenze scolastiche, un po’ perché è impossibile parlare e trattare di teatro senza incontrarla: del resto l’hanno impersonata nomi grandi del palcoscenico (uno per tutti, Eleonora Duse). La commedia va gustata per il suo fascino e le sue punzecchiature, per ridere. Per teatro. palcoscenico la Voce del popolo TEATRALIA ADDIO A FRANCA RAME LA SUA VITA ORMAI RACCHIUSA IN DUE DATE. IL SALUTO ALLA DONNA E ALL’ARTISTA AL PICCOLO DI MILANO. IL COMMIATO SULLE NOTE DI «BELLA CIAO» E DELL’INTERNAZIONALE L a biografia di Franca Rame è racchiusa tra due date: Parabiago (Milano 18 luglio 1929) – Milano 29 maggio 2013. Si è spenta una grande attrice e una grande donna. Nata nello e per lo spettacolo, essendo figlia d’arte. Suoi, da bambina, i teatri di Lombardia e del Piemonte, per i quali girò con il padre Domenico, la madre Emilia, il fratello, gli zii, i cugini. Famiglia di teatranti, la sua, e lei è nata con la passione nel sangue. Non solo passione per il teatro. La passione proprio. Quella che l’ha portata sempre in prima linea, con forza, energia, coerenza. Donna di azione. “Una bionda mozzafiato, quando me la son trovata davanti il cuore ha cominciato a danzare a ritmo forsennato. Però poi è stata lei a spingermi contro un muro e a baciarmi la prima volta”, ha detto Dario Fo, con il quale è stata inseparabile compagna nella vita e sul palcoscenico, protagonista femminile di tutti gli spettacoli di Fo. Convinta e convincente sul palcoscenico come nella vita, protagonista indiscussa e mai comparsa in entrambi i casi. Ed è impossibile ricordare Franca Rame per quanto ha dato al teatro senza ricordare il suo grande impegno nel “movimento”, che l’ha portata a girare l’Italia con le collette per il Soccorso Rosso e per l’aiuto ai “compagni in galera”. L’impegno l’ha portata e mettere in gioco la sua carriera teatrale “per un ideale di militanza politica totalizzante e onnivora”. Impegno che ha pagato ad un prezzo dolorosamente alto: il 9 marzo 1973 fu sequestrata e stuprata per la sua attività nelle carceri con Soccorso rosso. Un Dramma che Franca portò sul palcoscenico per un gesto liberatorio e di condanna. Con Dario furono anche momenti di crisi: stanca per i tradimenti, annunciò in tv l’intenzione di divorziare. Un “sabato pomeriggio” tentò anche il suicidio. Ma poi restò accanto a Fo, “sul palcoscenico, nella vita privata, nella comunanza ideologica, nell’impegno politico attivo, nella scrittura, nell’amore per il figlio Jacopo e per i nipotini, nelle delusioni, nella coerenza, nella resistenza ai soprusi, nei litigi, nella messa al bando da una società vile, nell’ostracismo martedì, 4 giugno 2013 7 Hanno detto Un’altra come lei (Dario Fo) “Apprendo con personale commozione la triste notizia della scomparsa di Franca Rame, che ho conosciuto in anni lontani quando ebbe modo di dispiegarsi e affermarsi pienamente il suo talento in profonda e inseparabile unione con Dario Fo e con il mondo del suo teatro. Ricordo il suo appassionato impegno civile.” (Giorgio Napolitano) “Ha percorso, insieme alla società, i cambiamenti di un Paese in evoluzione, dal movimento femminista, alle battaglie per i diritti civili e sociali a fianco di studenti e lavoratori, fino al suo impegno nelle istituzioni.. Milano piange non solo una concittadina, ma una protagonista della storia italiana.” (Giuliano Pisapia, sindaco di Milano) “Ricorderò sempre la sua umanità. Il suo saluto: una carezza sul viso. Ciao Franca. (candidato del centrosinistra a sindaco di Roma, Ignazio Marino) “Ho sempre ammirato e apprezzato le sue straordinarie qualità umane e artistiche, la sua passione civile e l’impegno instancabile con cui ha portato avanti innumerevoli battaglie politiche in difesa dei diritti dei cittadini e dei più deboli.” (Antonio Di Pietro) “È morta Franca... non c’è mai fine a questo orrido massacro... Ma vive con lei, il simbolo dell’emancipazione e della lotta femminile e femminista in Italia. Una donna vera che ha cercato, con tutte le sue forze, di far rispettare in tutte le sue forme fisiche, morali e politiche l’universo femminile. Un abbraccio a Dario, suo fedele compagno di vita.” (Antonello Venditti) “Era una donna straordinaria, di una generosità davvero rara” (Gad Lerner) da parte del potere, nella generosità munifica, nella solidarietà e affetto per e degli altri. Insieme anche nei premi: quando a Stoccolma, nel dicembre del 1997 fu conferito a Fo il Nobel per la Letteratura, lui mostrò una foto della moglie, dedicandole parole bellissime per dividere con lei, com’era giusto, l’alto riconoscimento”. (Cit. Natalia Aspesi). si sono accomiatati da Franca in tanti, il teatro, la Politica, gli Amici... Tanti. Il suo impegno nelle istituzioni passa per le Politiche del 2006, quando si candidò capolista al Senato in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Umbria tra le file dell’Italia dei Valori. Venne eletta senatrice in piemonte. Nello stesso anno Di Pietro la propose come Presidente della Repubblica: franca ebbe 24 voti. Lasciò il Senato nel 2008, dichiarando che “le istituzioni mi sono sembrate impermeabili e refrattarie a ogni sguardo, proposta e sollecitazione esterna, cioè non proveniente da chi è espressione organica di un partito o di un gruppo di interesse organizzato”. Nel 2009 scrisse, con Dario Fo, l’autobiografia intitolata “Una vita all’improvvisa” e poi nel 2011 riportò in scena “Mistero Buffo”. Nell’aprile del 2012 l’ictus. Oltre al teatro e all’impegno sociale, anche il cinema. Ricordiamo alcuni titoli: Lo sai che i papaveri (1952, regia Marcello Pavesi), Rosso e Nero (1954, Domenico Paolella), Rascel-Fifi (1956, Guido Leoni), Lo svitato (1956, Carlo Lizzani), Il cocco di mamma (1957, Mauro Morassi), Caporale di giornata (1958, Carlo Ludovico Bragaglia), Amore in quattro dimensioni (1963, Massimo Mida), Extraconiugale (1964, Mino Guerrini), Nobel per due (1998, Filippo Piscopo). Ma quanta tristezza nel condensare così, nero su bianco una vita grande, di una donna che non si è risparmiata, che è bruciata per le sue passioni e le sue idee e i suoi ideali. Bisognerebbe (ri)pensarla sul palcoscenico, rivederla nei ruoli che ha sostenuto. pensarla nella sua forza e nella sua struggente malinconia, nella sua solitudine. “Non sarà una commemorazione, ma un commiato”, aveva detto Fo prima della cerimonia di addio. Così è stato. “C’è una regola antica nel teatro: quando hai concluso non c’è bisogno che tu dica un’altra parola: saluta e pensa che quella gente che hai accontentato nel pensiero e nella parola ti sarà riconoscente. Ciaooo!”. E così, Dario Fo si è accomiatato da Franca. Che si è inchinata alla fine della vita. Mentre il sipario si chiude sulle note di “Bella, ciao.” 8 martedì, 4 giugno 2013 L’INTERVISTA palcoscenico la Voce del popolo di Patrizia Chiepolo Mihočić DAVIDPETROVIĆ UN ONE MAN SHOW PER UN PROGETTO D’AUTORE TEATRALGASTRONOMICO EDUCATIVO. MA ACCANTO AL TEATRO DEGLI OGGETTI IL SOGNO DI GIRARE UN FILM “I l teatro è la mia vita”. Si presenta così David Petrović, giovanissimo attore del teatro dei burattini di Fiume, il quale, grazie al suo amore verso quest’arte, vanta tantissimi premi e riconoscimenti, tra i quali l’ultimo, conquistato a Spalato, al Festival “Mali Marulić” per la rappresentazione “La crêpe della mia vita” (Palačinka mog života). Oltre al riconoscimento per la particolare rappresentazione artistica, David è stato premiato anche da una mini giuria formata da alunni delle elementari, che all’unanimità hanno proclamato la pièce quale miglior spettacolo in assoluto. “La decisione delle giuria formata da ragazzi è quella che mi ha entusiasmato di più. Io lavoro per i giovanissimi e quindi il loro parere è per me la cosa più importante”. David Petrović, classe 1986, fa parte dell’ensemble del Teatro del Burattini di Fiume dal 2004. In questi nove ha interpretato un centinaio di ruoli. Questo è sicuramente un premio molto significativo. Parlaci dello spettacolo: quando e perché nasce l’idea di fare una rappresentazione dedicata alla crêpe? Di solito i personaggi sono animali o esseri umani... Lo scorso settembre, a Charleville-Mézières, in Francia, ho preso parte a dei laboratori di perfezionamento, condotti dall’attore e animatore di burattini inglese Rod Burnett, dal titolo “Punch and Judy“. La sua idea era quella di insegnarci a creare degli spettacoli con un solo attore e tanti burattini. L’idea mi ha entusiasmato tantissimo. Al mio rientro a casa ero pieno di idee. La prima era quella di creare un pezzo portato avanti solamente con burattini sotto forma di generi alimentari, il cosiddetto teatro degli oggetti. In questo caso si trasformava in teatro del cibo. Ma un cibo sano. Decisi allora di dedicarmi alla crêpe, forse perché è la prima cosa che ho imparato a preparare da piccolo. Sarà stato il mio subconscio a suggerirmelo! Si parla della crêpe più gustosa che sia mai stata preparata. Però sul palco “salgono” anche altri ingredienti che con essa non hanno troppo a che vedere. Come mai? Volevo inserire nello spettacolo anche tanti ingredienti sani, con lo scopo di invogliare i bambini a mangiarli. Troviamo così diverse verdure, tra cui la bietola e la melanzana che non sono tanto amate dai piccoli. Ci sono poi bambini ai quali non piacciono le uova e magari non sanno nemmeno che la Voce del popolo Anno 9 /n. 75 / martedì, 4 giugno 2013 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] Edizione Progetto editoriale Caporedattore responsabile Errol Superina PALCOSCENICO Silvio Forza Redattore esecutivo Carla Rotta Impaginazione Željka Kovačić Collaboratori Rossana Poletti, Emanuela Masseria, Patrizia Chiepolo Mihočić Foto Goran Žiković, Teatri sono l’ingrediente principale della crêpe. Lo spettacolo è poi un susseguirsi di momenti improvvisati, a seconda della reazione del pubblico. I pargoletti non appena vedono che la crêpe viene fatta ‘in diretta’, sul palco, vanno letteralmente in delirio. E ci sono grida, risate a non finire. Un successone. L’unico attore in pelle ed ossa sono io, accompagnato poi con la chitarra da Srđan Badurina. Quali sono i vantaggi di uno spettacolo con un solo attore, the one man show? Il nostro ensemble è formato da nove attori. Siamo in pochi, quindi, e nei vari spettacoli siamo sempre ingaggiati quasi tutti. Avendo uno spettacolo come il mio, il teatro può presentarsi in due luoghi allo stesso tempo, in quanto io porto avanti il mio pezzo e allo stesso tempo c’è un’altra rappresentazione da un’altra parte. Per questo motivo la mia idea è stata subito ben vista da parte dei miei colleghi. Oltre al premio “Mali Marulić”, nella tua carriera d’attore ci sono stati anche altri riconoscimenti. Nell’ambito dello SLUK 2011 (Rassegna dei teatri dei burattini) sono stato premiato per la migliore animazione nello spettacolo ‘Gulliver nel paese dei piccoli uomini’, mentre al Festival internazionale de teatri dei burattini (PIF), sempre nel 2011, ho vinto il premio per il miglior ruolo maschile (Peter Pan) nella pièce ‘Peter Pan Perdigiorno’ (Petar Pan Zgubidan). Questa è stato il tuo primo progetto d’autore. La parte del regista invece l’hai fatta più volte. Basta nominare spettacoli come “Il mago di Oz”, “Hocus pokus Brioni”, “Il castello magico”. L’ultima fatica da regista si intitola “La scelta di Lara è Solimano” (Larin izbor je Sulejman), che poi si è trasformato in un breve film. Il mio sogno è stato da sempre quello di girare un film. Mi piace stare dietro alla telecamera. L’idea principale però era quella di fare uno spettacolo teatrale in collaborazione con il RI Teatar di Fiume, durante il quale ci sarebbe stato un breve filmato. Alla fine però, lavorando giorno dopo giorno, il progetto ha cambiato un po’ la veste diventando un breve film ma che inizia dopo una presentazione puramente teatrale. Il progetto nasce come risposta a tutte le soap opera che ultimamente vengono trasmesse sulla tv nazionale, da “Larin izbor” (La scelta di Lara) a “Sulejman Veličanstveni“ (Solimano il Magnifico). Noi abbiamo deciso di unire proprio questi due e il risultato è stato più che soddisfacente; ne è scaturita una commedia che vi farà ridere un’ora intera. La trama, in breve, è questa: Lara, a bordo di una Renault 4, parte in giro per il mondo alla ricerca di suo figlio. Le situazioni nelle quali si ritroverà sono a dir poco esilaranti. Da vedere! La sceneggiatura è stata scritta assieme a Nisa Hrvatin. Devo ringraziare tutti gli attori che hanno dimostrato di non aver nulla da invidiare a quelli professionisti. Colgo anche l’occasione per ringraziare la mia direttrice, Zrinka Kolak – Fabijan (direttrice del Teatro dei burattini, ndr), la quale mi ha permesso di lavorare al di fuori della mia casa madre. Progetti per il futuro? Ho tante idee che mi frullano per la testa. Quella principale è di continuare con spettacoli ai quali prenderò parte come attore unico. Vorrei creare una pièce dove ci sarebbe una comunicazione non verbale, ma fatta solo di suoni e gesti, probabilmente con un clown. Non voglio svelare altro per ora…vedremo in futuro!