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All`origine dell`ingegneria gestionale in Italia Materiali per un
All’origine dell’ingegneria gestionale in Italia Materiali per un cantiere di ricerca a cura di Benito Brunelli e Giuliana Gemelli Biblioteca Centrale «G. P. Dore» Facoltà di Ingegneria Università degli Studi di Bologna 1998 Atti del seminario di studi “Percorsi individuali, “biografie” istituzionali e prosopografia delle élites: professione di ingegnere e sviluppo dell’ingegneria gestionale in Italia. Materiali per un cantiere di ricerca”, tenuto il 9 maggio 1997 presso la Biblioteca Centrale «G. P. Dore» della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna. Cura redazionale e impaginazione di Maurizio Zani. Finito di stampare il 30 settembre 1998 presso Tecnoprint S.n.c., Via del Legatore, 3 Bologna. 2 Indice Prefazione, di Benito Brunelli 4 Introduzione, di Giuliana Gemelli 10 L’ingegnere taylorizzato, ovvero alcune considerazioni sull’insegnamento della tecnica nella società postindustriale, di Vittorio Marchis 13 L’ingegnere gestionale al Politecnico di Milano. Dalla specializzazione industriale alla specializzazione aziendale, di Gian Carlo Cainarca 18 Alle origini dell’ingegneria gestionale in Italia. Francesco Mauro e il Politecnico di Milano: dal taylorismo ai sistemi complessi, di Giuliana Gemelli 48 Gli ingegneri della Scuola bolognese, 1878-1917. Percorsi biografici e carriere professionali, di Maurizio Zani 83 Le fonti per la storia dell’ingegneria tra Otto e Novecento. L’archivio Muggia e il suo fondo documentario, di Paolo Lipparini e Matteo Rozzarin 105 Jacopo Benetti, tra scuola e professione, di Gian Carlo Calcagno 119 Una scuola di applicazione per ingegneri agronomi? Francesco Botter e la riorganizzazione degli studi di ingegneria a Bologna (1868-1875), di Silvio Fronzoni 161 3 Prefazione Benito Brunelli Dipartimento di Ingegneria Elettrica, Università di Bologna Ringrazio i convenuti e tutti coloro che hanno accolto la proposta di designare la Biblioteca Centrale della Facoltà di Ingegneria di Bologna come sede di questa giornata di lavoro sulla storia dell’ingegneria. Il progetto di questo incontro è stato avanzato alcuni mesi fa dal Centro di Ricerche sull’Europa in seno all’Università di Bologna, nella persona del suo Direttore, dott.ssa Giuliana Gemelli, e immediatamente accolto dalla Biblioteca che ho l’onore di dirigere. Si tratta di un’occasione preziosa per fare il punto su una serie di ricerche e studi — alcuni in corso già da tempo e altri ancora agli inizi — che intendono illuminare le vicende storiche dell’ingegneria italiana con particolare riguardo a quella bolognese, secondo le più moderne teorie e pratiche storiografiche. Il luogo di questo incontro non è casuale e non è dettato solo da un pur doveroso senso dell’ospitalità. La Biblioteca Centrale della Facoltà di Ingegneria ha da tempo prodotto materiali che ritengo utili per lo studio della storia dell’ingegneria, in particolare con la catalogazione del suo patrimonio librario antico. Un’operazione che intendeva essere non solo una ricognizione inventariale ma dare il suo contributo alla storia dell’ingegneria bolognese a partire da un particolare ambito visuale, quello della Biblioteca, quest’ultima ritenuta fin dall’inizio di particolare importanza per l’intera Scuola d’applicazione e poi per la Facoltà. Ma la ragione sta anche nel desiderio di accomunare tradizioni di studio, metodologie e sensibilità diverse che in questi anni si sono interessate alla storia dell’ingegneria e delle professioni ingegneristiche, centrali per una completa ricostruzione della storia culturale, scientifico-tecnologica e politico-sociale del nostro paese e del contesto territoriale bolognese. In questa prospettiva, la collaborazione tra storici e ingegneri è di fondamentale importanza e andrà coltivata nei prossimi anni con par-ticolare impegno da ciascuno di noi. La Biblioteca si impegna a rimanere centro di iniziative, sia come punto di incontro tra queste diverse tra-dizioni, sia proponendosi come luogo di produzione, di diffusione e di conoscenza. Gli obiettivi sono molteplici e certamente ambiziosi. Innanzitutto la continuazione di un costante impegno nel restauro del patrimonio biblio-grafico più antico, la cui fruizione verrà incentivata, anche grazie al già approntato gabinetto fotografico, e per il cui sviluppo si può pensare anche alla digitalizzazione delle opere di maggiore pregio. In secondo luogo, si procederà con la bonifica del vecchio catalogo cartaceo della Biblioteca, per arrivare alla catalogazione automatizzata del patrimonio bibliografico ottocentesco, in particolare di quelle opere che per il loro argomento — idrologia, ferrovie, agronomia — rivestono un particolare interesse per lo studio dell’ingegneria e delle professioni ingegneristiche ottocentesche. La catalogazione delle opere — monogra-fie, opuscoli, dispense universitarie — redatte da docenti prima della Scuola e poi della Facoltà e dagli stessi ingegneri laureatisi via via a Bologna, contribuirà inoltre concretamente alla ricostruzione del loro per-corso professionale e dei rapporti con la cultura e il territorio bolognese. 4 Sono questi impegni ambiziosi per le forze quantitativamente mode-ste di cui dispone la nostra Biblioteca, ma che potranno contribuire alla crescita dell’interesse per la storia dell’ingegneria e dell’educazione tecnico-scientifica in senso più ampio, collocate nella storia della realtà bolognese. La Biblioteca centrale di Facoltà continuerà dunque a svolgere quell’opera di mediazione tra tradizioni e culture diverse che contrad-distingue sin dall’inizio la sua storia e che caratterizza il suo stesso patrimonio bibliografico. La creazione di questa imponente e prestigiosa costruzione e la traslocazione in questa sede della vecchia Scuola di applicazione per ingegneri fu infatti momento importante di crescita per tutte le istituzioni culturali di questa città. Nelle sue relazioni sullo stato della Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, il Direttore di quegli anni, Albano Sorbelli, soleva ricordare anno dopo anno l’estrema limitatezza degli spazi in cui la Biblioteca era costretta ad operare. Il trasloco della Scuola dagli ampi spazi del Convento di Piazza dei Celestini dette la possibilità di trasferirvi l’Archivio di Stato, così da liberare spazi adeguati per le esigenze della Biblioteca comunale, del Museo archeologico e del Museo del Risorgi-mento. In questa operazione di “travaso”, come la chiamava Sorbelli, io vedo l’origine della stretta integrazione che ancora oggi lega la Facoltà e la sua Biblioteca con le più prestigiose istituzioni culturali della città. L’attuale sede costruita negli anni ‘30, secondo il progetto dell’ar-chitetto Vaccaro, sembrava allora una cattedrale nel deserto, date le sue dimensioni a confronto del basso numero di docenti e studenti, un parto della megalomania politica di quei tempi. Uscendo dalla centrale Piazza dei Celestini per approdare in un’area allora periferica della città, la nuo-va sede della Scuola, divenuta poi Facoltà universitaria, ha del resto contribuito da un punto di vista urbanistico a dare respiro alla crescita cittadina 1. Inoltre, per quanto riguarda il suo rapporto con la città, la nuova sede della Scuola costituì indubbiamente quello che oggi si chiamerebbe un grande polo tecnologico, che ha contribuito non solo a rafforzare la crescita industriale della città, ma anche e soprattutto a legarla alle reti della ricerca scientifica e tecnologica italiana e in-ternazionale. L’edificio ha superato indenne i bombardamenti del L’attuale sistemazione della Facoltà di Ingegneria è conseguente a progetti di allogazione sia in prossimità della Porta Castiglione sia in posizione più vicina alla Porta Saragozza. Alla prima soluzione si frapposero difficoltà in ordine ai tempi di disponibilità dei terreni fabbricabili e a lungimiranti valutazioni del traffico motoriz-zato e delle aree di parcheggio per docenti, studenti e personale addetto in una zona residenziale “verde” di tipo estensivo. La seconda soluzione comportava l’occupazione di un’area privata da espropriare con non poche difficoltà giuridiche e procedurali. La proprietà dell’area, la quale dispo-neva dell’intera superficie oggi occupata dal Giardino di Porta Saragozza e dalla Fa-coltà con il suo retrostante terreno, dopo ragionevoli trattative accettò la soluzione dell’insediamento universitario oltre il predetto giardino, a condizione della destina-zione pubblica di quest’ultimo e del divieto di qualsiasi ulteriore espansione edilizia sull’area ceduta. Le cronache del tempo narrano curiosamente che allora si gridò alla scandalosa megalomania dei responsabili per un edificio che avrebbe dovuto acco-gliere ben 200 studenti circa di contro ai 120/130 di Piazza dei Celestini. I lavori di costruzione dell’edificio, condotti fra la primavera del 1933 e l’ottobre del ‘35, rispettarono pienamente il progetto di Giuseppe Vaccaro, già laureato ingegnere nella sezione di architettura della Scuola bolognese — nella quale, vale la pena di ricordarlo, conseguì la laurea, fra gli altri, anche Pier Luigi Nervi. Il giovane Vaccaro in quel tempo era già uno dei più promettenti architetti del movimento razionalista italiano, ai cui canoni improntò marcatamente il complesso universitario di Viale Risorgimento. L’edificio, la cui pianta è a forma di fascio littorio, fu approvata dallo stesso Mussolini in persona, nel quadro di un vasto programma di opere pubbliche che nei primi anni trenta fu attuato nella ricorrenza del decennale del regime. 1 5 periodo bellico ed il rifugio antiaereo realizzato nell’area adiacente con un’ampia galleria a due accessi sotto il terreno collinare ha fornito un sicuro riparo anche agli abitanti della zona. Il progressivo aumento degli studenti negli ultimi decenni e la proliferazione di nuovi insegnamenti ha dimostrato la lungimiranza dell’autorità dell’epoca, favorita anche dalla campagna demografica di quegli anni; non solo, gli spazi sono risultati via via insufficienti. Nep-pure l’utilizzo delle vecchie scuderie, gli ampliamenti e i nuovi edifici, ivi compreso quell’orrido “precario”, prefabbricato in ferro a lato dell’edi-ficio, hanno risolto il problema, tant’è che si è resa necessaria la proposta di un nuovo insediamento, assegnato in località Lazzaretto, ove sono trasferiti al momento i laboratori pesanti. Anche i laureati degli anni seguenti al conflitto mondiale non furono molti. Erano gli anni della ripresa industriale, della nascita di molte nuove piccole imprese in tutti i campi della produzione, quasi sempre ditte a carattere poco più che artigianale, che non potevano permettersi un ufficio tecnico, per cui si affidavano alla consulenza esterna di ingegneri che avessero una qualche competenza nel settore. I canali di accesso alla carriera universitaria erano sostanzialmente diversi da quelli attuali. Esisteva la figura dell’assistente volontario, che spesso era un ingegnere impiegato presso qualche grossa azienda, che per questioni di prestigio assumeva il compito di seguire le esercitazioni degli studenti. Veniva poi, dopo esami interni, l’assistente di ruolo, regolar-mente retribuito. L’assistente di ruolo, con incarico di insegnamento, doveva prendere la libera docenza, in un concorso nazionale da sostenere a Roma entro un decennio di assistentato, pena la perdita della qualifica e con essa dello stipendio. Parallelamente esisteva la figura del professore incaricato esterno, un ingegnere con valida esperienza professionale, chiamato a tenere un insegnamento annuale presso l’Università. Anche per lui la libera docenza significava la stabilizzazione dell’incarico. In tali condizioni, si vede come vi fosse un notevole travaso dal mondo del lavoro al mondo universitario e viceversa. Era allora un titolo di merito, da citare nei concorsi, svolgere o avere svolto attività presso industrie im-portanti; vi era quindi compatibilità tra insegnamento e professione. Tutti i miei illustri maestri ne furono un chiaro esempio, ed io stesso con loro. Oggi, al contrario, più che la sperimentazione sul banco, prevale la ricerca informativa di tipo virtuale, impostata prevalentemente sulla simulazione computerizzata. Ritengo opportuno ricordare che la carenza di spazi sopra citata non ha consentito sinora l’individuazione di locali idonei per sistemare e presentare tutti i materiali che ho avuto l’incarico di raccogliere per il co-stituendo Museo dell’ingegneria. La raccolta di materiale museale non è solo rivolta al reperimento di pezzi antichi o rari, ma intende anche con-servare quelle apparecchiature e quella strumentazione che hanno carat-terizzato, seppure in un recente passato, la ricerca svolta nei laboratori della Facoltà. Ma per venire ai risultati dell’incontro di questa giornata, mi sembra che gli interventi che qui si presentano — e che costituiscono per l’appunto dei materiali di lavoro per una ricerca di per sé in fase già avanzata — rafforzino soprattutto il desiderio di colmare rapidamente nei prossimi anni alcune lacune che pure si 6 prospettano. Intendo riferirmi al fatto che in questi ultimi anni si sono fatti decisi passi in avanti nella ricostruzione dell’origine della Scuola di applicazione d’Ingegneria di Bo-logna e della sua affermazione sotto la guida di illustri maestri come Cesare Razzaboni e Jacopo Benetti. E ulteriori passi in avanti sono stati fatti per comprendere i rapporti che tale Scuola ebbe con la città e il suo territorio. La relazione di Gian Carlo Calcagno illumina queste vicende, focalizzando l’attenzione sul ruolo di Jacopo Benetti, successore di Cesare Razzaboni nella guida della Scuola di applicazione. Inoltre, una sintetica immagine delle carriere e delle vicende professionali degli ingegneri laureati a Bologna a partire dalla fondazione della scuola sino al primo conflitto mondiale ci è offerta dall’intervento di Maurizio Zani. Eppure, tale ricerca si ferma proprio — viene da dire — sul più bello, alla soglia del secondo decennio di questo secolo, nel momento in cui inizia per l’ingegneria bolognese il suo periodo più prestigioso. Quando cioè maturano personalità di grande spessore scientifico e politico come Attilio Muggia, Umberto Puppini, Giuseppe Vaccaro e il ruolo della professione dell’ingegnere si va via via sempre più affermando nell’economia e nella società bolognese, allora in rapida evoluzione. Ebbene, il ruolo di sempre maggiore rilievo della Scuola di applicazione e poi della Facoltà di Ingegneria nel contesto locale e nazionale si afferma proprio nel secondo e nel terzo decennio di questo secolo, e questa storia attende ancora di essere scritta compiutamente. Spero dunque che questo incontro serva di stimolo per proseguire in questa direzione, e in particolare nella direzione indicata da diversi interventi presentati in questa sede, l’analisi del ruolo dell’ingegnere nella direzione aziendale e del ruolo dell’Università nella formazione dell’in-gegnere manager. Gli interventi che qui presentano Gian Carlo Cainarca e Giuliana Gemelli ci pongono di fronte a quello che nei decenni trascorsi è stato il ruolo guida in questo settore del Politecnico di Milano. Eppure sono sicuro che una ricostruzione accurata della storia della Facoltà ci porterebbe parecchie sorprese e ci obbligherebbe a riconsiderare il ruolo della Facoltà di Ingegneria di Bologna come non esclusivamente peri-ferico rispetto alle novità introdotte negli anni ‘40-’50 relativamente alla formazione dell’ingegnere direttivo. Chi avesse la pazienza di sfogliare, per esempio, la rivista Pirelli di quegli anni, troverebbe un intero servizio fotografico — particolarmente bello, debbo dire — che riprende uno dei numerosi incontri tenutisi negli anni ‘50 tra gli alti dirigenti della Pirelli e il corpo docente della Facoltà di Ingegneria di Bologna, guidato dal prof. Dore, proprio sui problemi relativi alla formazione dell’ingegnere destinato ad entrare nell’industria. Lo ricorda Giuliana Gemelli nel suo intervento, come risultato dell’opera di mediazione intellettuale di Luigi Manfredini. Si tratta di una significativa testimonianza del rilievo riconosciuto in quel tempo alla Facoltà bolognese, un segnale che andrebbe inserito in un contesto più ampio di ricerche. Proprio in quelle foto, sono riconoscibili molti colleghi docenti dell’epoca, che ormai solo i più anziani di noi possono ricordare personalmente, ma che pure hanno lasciato un segno nella storia della Facoltà. Considerata la natura di quegli incontri, era inevitabile che fossero presenti soprattutto i docenti di quelle discipline per le quali il rapporto tra università e industria era indispensabile: Giulio Supino, ordinario di Idraulica; Giuseppe Rossi, di Chimica applicata; Francesco Roma, di Impianti industriali meccanici; Luigi Manfredini, di Impianti industriali chimici; Giuseppe Evangelisti, di Costruzioni idrauliche; Stefano Basile, di Misure 7 elettriche; Gino Morandi, di Progetti di macchine e disegni; e poi gli incaricati Giuseppe Francini, Fausto Caboni, Francesco Barozzi, Arturo Giulianini, Dino Zanobetti, Giampaolo Dore, presto diventati a loro volta titolari di cattedre 2. Si occupa Giuliana Gemelli di ricostruire la carriera di Luigi Manfredini. Io ricorderò il rilievo di una personalità come Giulio Supino, preside della Facoltà dal 1965 al 1968 e vice Rettore dell’Università dal 1962 al 1968, prosecutore della grande scuola dell’idraulica bolognese. Oltre ad una più che quarantennale attività di studio e di insegnamento, Supino svolse una notevole attività professionale, partecipando a diversi pubblici organismi tecnici, tra i quali il Consiglio superiore dei lavori pubblici, e il Comitato per la difesa di Venezia, del quale fu nominato Presidente. Francesco Roma si occupò invece nella sua carriera dello sfruttamento dei combustibili, dei problemi relativi alle fonti di energia, dagli impianti a ricupero alle turbine a gas, dalle grandi centrali termoelettriche alla fissione nucleare, svolgendo numerosi incarichi ministeriali, in Commissioni di studio e in rappresentanza dell’Italia in congressi Internazionali, e risultando apprezzato consulente dei massimi Enti e delle più importanti società per i problemi dell’energia. Fu purtroppo anche una delle vittime — assieme a Emanuele Foà — di quel-la barbara legge che durante la dittatura fascista escluse dall’in-segnamento universitario i docenti di origine ebraica. Vorrei ricordare però anche Stefano Basile, che fu successore di Vittorio Gori, di Giovanni Sartori e di Luigi Donati alla cattedra di Elettrotecnica. Un insegnamento che nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale fu essenziale per la crescita della Facoltà e soprattutto per lo sviluppo dei rapporti tra la nascente attività industriale e l’Università dell’epoca. Sia Sartori che Donati non si erano laureati a Bologna — il primo a Milano, il secondo a Pisa — ma ebbero a svolgere gran parte della loro carriera di studio, di insegnamento e di lavoro proprio nel capoluogo bolognese. Giovanni Sartori, in particolare, fu impareggiabile progettista di centrali idroelettriche e apprezzato consulente con numerosi incarichi professionali; tra le altre, collaborò con le ditte bolognesi Calzoni e Parenti. Giovanni Sartori condivideva con il suo maestro ed amico Luigi Donati 3, la stessa vocazione e la stessa rigorosa preparazione professionale, che gli consentiva di risolvere i problemi pratici attraverso il rigore matematico, pure così lontano da ogni forma di empirismo. Sartori ebbe anche l’onore di dirigere la Scuola tra il 1932 e il 1937, nella delicata fase in cui divenne Facoltà universitaria ed avvenne il trasferimento da Piazza dei Celestini all’edificio di Vaccaro. Nelle pagine successive, due immagini dell’incontro, avvenuto nell’estate 1953, tra i docenti della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna e la direzione della Pirelli. Le foto sono riprodotte da «Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica», VI (1953), n. 4, pp. 53-55. Nelle due foto sono riconoscibili, della Facoltà di Ingegneria bolognese, il Preside prof. Paolo Dore e i professori e ingegneri: Giulio Supino, ordinario di Idraulica; Giuseppe Rossi, ordinario di Chimica applicata; Francesco Roma, ordinario di Impianti industriali meccanici; Luigi Manfredini, ordinario di Impianti industriali chimici; Giuseppe Evangelisti, ordinario di costruzioni idrauliche; Stefano Basile, ordinario di Misure elettriche; Gino Morandi, ordinario di Progetti di macchine e disegni; Giuseppe Francini, incaricato di Comunicazioni elettriche; Fausto Caboni, incaricato di Macchine e aiuto; Francesco Barozzi, incaricato di Costruzioni di macchine elettriche e aiuto; Arturo Giulianini, incaricato di Fisica tecnica e aiuto; Dino Zanobetti, incaricato di Impianti industriali elettrici II parte; Giampaolo Dore, assistente di Misure elettriche. 2 Luigi Donati fu titolare della cattedra di Fisica matematica dal 1879 al 1921, occupando inoltre presso la Scuola di ingegneria quella di Fisica tecnica dal 1877 e dunque quella di Elettrotecnica dal 1899. 3 8 Tra gli altri docenti dell’epoca, desidero ricordare inoltre Giuseppe Evangelisti, figura di rilievo nella Facoltà, prima incaricato del corso di Impianti speciali idraulici, poi di quello di Teoria dei circuiti elettrici, presso la Scuola di perfezionamento in radiocomunicazioni di questa Facoltà, quindi fondatore e direttore, a partire dal 1957 e fino al 1969, del Centro calcoli e servomeccanismi, mentre nel contempo era incaricato del corso di controlli automatici. Una carriera luminosa, dunque, e originale, nei cui passaggi è possibile leggere gran parte delle trasformazioni che hanno segnato l’ingegneria bolognese del secondo dopoguerra. Giuseppe Evangelisti fu inoltre a lungo direttore della Biblioteca centrale della Facoltà, dal 1938 al 1954 4. Ma la figura di Evangelisti risalta non solo per i meriti scientifici e accademici, ma anche perché proprio in uno dei contributi di questo volume si ricorda la prestigiosa e singolare carriera del padre, nativo della provincia di Ancona e ingegnere comunale di Molinella, in provincia di Bologna, all’inizio del secolo. Un legame di sangue, dunque, che è anche legame tra due generazioni e tra due epoche diverse dell’ingegneria bolognese. Non sarebbe completo il quadro degli illustri docenti che operarono a Bologna negli anni che seguirono il secondo conflitto mondiale senza ricordare le prestigiosissime figure di Odone Belluzzi, grande studioso e grande insegnante della Scienza delle costruzioni, che deve a lui uno dei suoi più lucidi trattati, e di Giovanni Michelucci, scomparso solo alcuni anni fa, una delle personalità più prestigiose dell’architettura italiana di questo secolo, autore di opere di straordinaria importanza e formatore di intere generazioni di ingegneri e architetti. Queste poche note — dettate sul filo anche di una memoria personale che vuole essere un omaggio a una generazione di maestri — desiderano essere uno stimolo per la prosecuzione della ricerca. L’obiettivo futuro potrebbe essere quello di delineare compiutamente le vicende della Scuola di applicazione e poi della Facoltà di Ingegneria, dalle sue origini ai nostri giorni, così da valutare con precisione la sua importanza per la crescita economica e culturale della città. La comunanza di interessi tra ingegneri e storici, che in questa occasione si è rivelata concreta e fattiva, mi fa ben sperare per il prosieguo di queste ricerche. I docenti incaricati dal Preside della Facoltà di guidare la Biblioteca centrale sono stati, in successione: Giulio Supino, dal 1935 al 1938; Giuseppe Evangelisti, dal 1938 al 1954; Piero Pozzati, dal 1954 al 1966; Gian Paolo Dore, dal 1966 al 1976; Ales-sandro Cocchi, dal 1976 al 1978; Pietro Guerrini, dal 1978 al 1979; Paolo Amadesi, dal 1979 al 1983; Paolo Raffaele Ghigi, dal 1984 al 1990, mio predecessore. 4 9 Introduzione Giuliana Gemelli Dipartimento di Discipline Storiche, Università di Bologna In un recente libro, Navigare nella turbolenza: la direzione d'impresa di terzo tipo, Erwin Lazlo cita una frase significativa di Einstein: “Non possiamo risolvere i problemi con i medesimi schemi di pensiero con cui li abbiamo creati”. Se risaliamo alle origini del pensiero che ha nutrito la formazione manageriale nel corso del XX secolo, notiamo che esse si sono innestate su un paradosso fondamentale: mentre l’approccio del general management sul modello delineato da Elton Mayo, alla Harvard Business School, nei tardi anni venti, si articolava sulla base di un pensiero trans-disciplinare e interscientifico, largamente ispirato allo stile di ragionamento delle scienze biologiche e sociali, l’organizzazione dell’impresa si andava costruendo su scala internazionale, ovviamente con rilevanti diversificazioni di contesto, nell’ambito dell’approccio tayloristico che valorizzava prevalentemente il modo di ragionamento meccanicistico e un approccio di tipo specialistico. Questo paradosso non è stato privo di conseguenze sull’evoluzione delle strategie formative inerenti “la gestione”. E questo non solo nell’ambito delle business schools, cioè delle istituzioni che hanno a lungo costituito l’ambito privilegiato per questo tipo di formazione, mano a mano che il modello statunitense andava affermandosi come dominante, ma anche nelle Facoltà di Ingegneria, dove come ha efficacemente sottolineato Luciano Gallino nel suo «Dizionario di sociologia»: L’insegnamento impartito (...) ipostatizza il ruolo storico dei tecnici, rendendo virtualmente impossibile a chi vi è esposto per molti anni di concepire la propria funzione in una luce diversa, non di depositari esclusivi del sapere tecnico, ma di istruttori, consulenti, educatori scientifici di gruppi di lavoratori. A partire dagli anni Ottanta del secolo, l’assetto sopra descritto è entrato progressivamente in una fase critica, caratterizzata ad un tempo da una transizione epistemologica e dal delinearsi di nuovi assetti istituzionali, con la creazione, in particolare, dei nuovi corsi di Laurea in Ingegneria Gestionale. Come ha sottolineato Gian Carlo Cainarca, nel suo contributo al volume, non è tuttavia ancora chiaro se “rispetto alla figura tradizionale, gli elementi di “discontinuità” dell’ingegnere gestionale siano più apparenti che reali e, forse paradossalmente, sostanzino la continuità con il modello che identifica nell’ingegnere una figura professionale fortemente specializzata”. La struttura del libro, nato da una collaborazione inter-scientifica tra storici ed ingegneri, ha un carattere regressivo, parte cioè dalla problematizzazione del presente, secondo le coordinate sopra evocate, per risalire all’indietro la corrente del tempo, attraverso la presentazione di una serie di casi di studio, inerenti il periodo tra le due guerre, l’inizio del XX secolo e, con la trattazione della nascita della figura dell’ingegnere agronomo, il secondo Ottocento. 10 Il punto di avvio è dunque l’enunciazione dei presupposti della “crisi dell’algoritmo degli ingegneri”, la cui formazione si è di volta in volta coniugata con differenti discipline, restando tuttavia, fino a tempi recenti, eminentemente tecnica e settoriale, come indicato da Gallino e come illustrato, nelle pagine che aprono il volume, da Vittorio Marchis, che è anche l’artefice dell’introduzione delle “scienze umane” nel curriculum del Politecnico di Torino. Alcuni degli effetti istituzionali del processo di trasformazione in atto sono stati individuati, con un’attenta ricognizione statistica e problematica dal contributo di Gian Carlo Cainarca, centrato sulle origini storiche e sulla configurazione degli studi di ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Il nucleo più propriamente storico del libro è situato nella individuazione di alcune fasi di sedimentazione istituzionale dell’algoritmo sopra evocato, focalizzando prevalentemente l’attenzione su due contesti istituzionali, il Politecnico di Milano e la Scuola di Ingegneria di Bologna, con l’intenzione di analizzare non solo il modo in cui la formazione degli ingegneri si è andata coniugando, o ha tentato di coniugarsi, in varie fasi storiche con altre discipline (l’agronomia, l’economia, l’architettura, l’analisi dei sistemi complessi), ma il modo in cui la figura dell’ingegnere gestionale (che rappresenta, per moti aspetti, l’elemento catalizzatore di questa fase critica) è emersa in un lungo processo di gestazione, caratterizzato da ibride forme di intreccio tra mondo industriale e formazione tecnica. E questo sia dal punto di vista dei processi di professionalizzazione che da quello delle forme di rappresentazione sociale del ruolo degli ingegneri. Tali forme ibride hanno avuto caratteristiche proprie in diversi contesti istituzionali, come appunto quello del Politecnico di Milano e quello della Scuola, poi della Facoltà di Ingegneria di Bologna. Nonostante la differenza di “spessore” e la differente configurazione del territorio industriale nelle due città, dai contributi raccolti in questo volume emergono alcune interessanti analogie nei profili e nei percorsi dei pionieri della “formazione gestionale”. Sia nel territorio bolognese che in quello del capoluogo lombardo, fino agli anni cinquanta e sessanta, gli ingegneri che acquisiscono un profilo “industriale”, hanno nella grande maggioranza dei casi compiuto esperienze di formazione all’estero e/o esperienze di lavoro, con effetti formativi, in settori di punta nello sviluppo tecnologico o di elevata applicazione scientifica (frigotecnica, impianti idraulici, settore elettrico ed elettrotecnico), acquisendo, ad un tempo, una consapevolezza più ampia e non meramente utilitaristica o burocratica dei problemi e la percezione della necessità di un allargamento al contesto europeo dei problemi connessi con la gestione delle risorse. Non fanno eccezione i grandi protagonisti di questo intreccio, a cominciare dai pionieri bolognesi dell’orientamento gestionale, come Francesco Botter (il cui ruolo di “traduttore”, tra ingegneria ed agronomia è analizzato da Silvio Fronzoni) e Jacopo Benetti o, nel periodo tra le due guerre, Francesco Mauro, fondatore, al Politecnico di Milano, della prima scuola di formazione post-lauream, che iniziò il proprio itinerario di formazione scientifica e professionale con un dottorato a Parigi e l’acquisizione in quel contesto di un’esperienza professionale di elevato livello, nel settore allora pionieristico della frigotecnica. Sotto questo profilo, i contributi di questo volume illustrano che, nel coagularsi delle forme di “modernità” e delle visioni sociali ed organizzative che esse comportano, non emerge tanto una configurazione basata sull’esistenza di “centri e 11 periferie istituzionali” (ad esempio i Politecnici, da un lato, e le scuole di Ingegneria, dall’altro) quanto, nei diversi contesti, di zone differenziate di “densità e di modernità” culturale ed organizzativa che delineano un’ampia articolazione dei percorsi individuali. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento si sono cioè delineate, nei diversi contesti istituzionali, zone a potenziale di trasformazione diversificato, che risultano, tuttavia e per lungo tempo, incapsulate in ampie aree di rigidità istituzionale, sociale e culturale, fino al momento in cui l’erosione del paradigma taylorista e la nascita dei nuovi scenari, derivati dall’emergere e dall’applicazione della teoria dei sistemi complessi e dallo sviluppo della formazione continua, non hanno portato, a partire dalla fine degli anni Settanta, ad una revisione del curriculum, culminata con la creazione, in alcune sedi universitarie italiane (tra cui appunto Milano e Bologna) di Corsi di Laurea in Ingegneria gestionale. Essi rappresentano un’area di sfida progettuale, nella costruzione di nuovi intrecci tra scuola ed impresa, basati non più soltanto sulla capacità di produrre e di applicare nuove tecnologie, ma anche sull’incremento delle potenzialità di trasferimento delle conoscenze in tempi sincronici, nonché, come ha dimostrato Gian Carlo Cainarca, un vettore ad alto potenziale di risorse per quel che riguarda il placement dei giovani laureati. Questo libro ha preso avvio dalla riflessione congiunta di due gruppi di ricerca: il primo, coordinato dal Prof. Angelo Ventura, nel quadro di un Programma di ricerca Ministeriale 40%, il secondo coordinato da chi scrive, nell’ambito dell’attività del Centro di Ricerche sull’Europa dell’Università di Bologna, e confluito in un progetto europeo, nel quadro del programma Target Socio-Economics, coordinato da Lars Engwall dell’Università di Uppsala. Tali progetti hanno travato un luogo di proficua intersezione e di rinnovato dinamismo nell’iniziativa presa dalla Biblioteca della Facoltà di Ingegneria di avviare un dialogo congiunto tra storici ed ingegneri, grazie alla disponibilità del suo direttore Professor Benito Brunelli ed alla lungimiranza dei Presidi che si sono succeduti alla guida della Facoltà negli ultimi anni, i Professori Enrico Lorenzini ed Arrigo Pareschi, i quali hanno voluto aprire, su vari fronti, un canale di dialogo con le scienze sociali ed umane che auspichiamo possa ulteriormente consolidarsi nell’immediato futuro. 12 L’ingegnere taylorizzato, ovvero alcune considerazioni sull’insegnamento della tecnica nella società postindustriale Vittorio Marchis Politecnico di Torino Potrebbe sembrare un gioco di parole, ma una “y” ci mette la coda e il sarto (tailor) non riesce a confezionare l’ingegnere prêt-à-porter. È indubbio che tra le professioni che sinora si sono dimostrate più “sicure” di fronte alla disoccupazione certamente l’ingegneria occupa un posto privilegiato; ma non mancano i lati oscuri, e soprattutto quelli che non concedono spazio a ottimistiche estrapolazioni, anche in un futuro prossimo. L’ingegneria è professione antica nel senso naïf del termine, ma ha ricevuto la sua istituzionalizzazione in tempi assai recenti. Le scuole di ingegneria, e soprattutto i Politecnici (che devono piuttosto ricercare le loro origini nelle Polytechnischen Hochschulen tedesche che non nelle Ecoles Polytechniques napoleoniche) si sono affermate, quali le vediamo oggi, soltanto verso la prima metà del secolo scorso. Nella dinamica della scuola, che si trova di fronte costanti di tempo biologiche assai lunghe, centocinquant’anni sono davvero pochi. Eppure, nella evoluzione dalla iniziale ragione politica e sociale, intesa a formare quadri per la nascente industria, al positivismo che cercò di dare una veste scientifica ai comportamenti umani è difficile individuare un modello unitario dell’ingegneria. La visione del mondo “ingegneristica” (e in certo qual senso “assio-matica”), applicabile anche a ciò che piuttosto è parte integrante di un sistema storico ed economico, ritrova ragioni (e giustificazioni) “tecniche” per processi che paradossalmente uniscono alienazione ed efficienza. Le grandi illusioni di un’industria globale e onnicomprensiva, sino alla smaterializzazione (dall’hard al soft) dei processi produttivi ed alla globalizzazione dei sistemi informativi e comunicativi, rendono difficile definire che cosa sia un ingegnere, e soprattutto diventa un azzardo progettare oggi ciò che dovrà servire domani. La rigidezza di una scuola strutturata a priori rischia di incontrare sempre nuovi motivi di fallimento. Recentemente Kenneth Kenyston del MIT ha ben focalizzato la nostra attenzione sulla “crisi dell’algoritmo degli ingegneri”. Sono finiti i tempi in cui si poteva pensare che i problemi tecnici potessero ritrovare da qualche parte una “formula risolutiva in forma chiusa”. Si potrebbe a questo punto postulare un “teorema dell’incom-pletezza” dell’ingegneria, perché essa non deve né può essere autoreferenziale. E allora, per venire a noi, sembrerebbe quasi che le nuove figure dell’ingegnere “gestionale”, dell’ingegnere “dell’ambiente e del territorio” (solo per citare i più noti) siano la risposta a queste nuove visioni del mondo. Ma non è purtroppo così e perplessi ci sentiamo impotenti di fronte a queste “innovazioni”. Azzardare una risposta sarebbe arrogarsi il ruolo di “mago della pioggia”. Alcune timide considerazioni mi portano ad affermare che probabilmente anche nel caso degli ingegneri gestionali (e degli altri) si è proceduto applicando proprio l’algoritmo degli ingegneri; le economie, le sociologie sono così diventate ingegnerie economiche, ingegnerie sociali, e ancora ingegnerie giuridiche... Ma altri sono i linguaggi, altre le dimensioni e le frontiere, se non praticate (e soprattutto attraversate) diventano limiti e confini insuperabili. Si rischia di cadere così, anacronisticamente, proprio nelle ragioni che spinsero nel secolo scorso a formare ingegneri “tuttologi”, anche un poco economisti, ragionieri, giuristi... e allora forse le ragioni di ciò erano plausibili. Oggi non più. Un ingegnere tailor-made è improponibile perché le dinamiche del cambiamento lo metterebbero fuori moda all’atto stesso in cui farà ingresso sul mercato del lavoro. Quali soluzioni proporre non è cosa facile, e forse neppure lo scopo di questo breve intervento, ma può essere utile, ritrovando nella storia la consapevolezza del presente, aprire alcune brecce nella dura compagine di una disciplina che rischia di chiudere le proprie frontiere, nell’illusione di proteggere la propria integrità. È curioso, oggi, rileggere un libro pubblicato nelle Edizioni di Comunità nel 1961 a firma di Gustavo Colonnetti. Si può salvare l’uni-versità italiana? Non è solo una domanda retorica a cui forse molti sanno già dare una fatale risposta, ma è una visione (profetica), una disamina acuta di un sistema che ha bisogno di piccoli ma significativi segnali in grado di preparare un sistema alle inevitabili nuove prospettive di una società che è diventata postindustriale. Gustavo Colonnetti, professore di Meccanica e di Scienza delle Costruzioni nelle Facoltà di ingegneria, membro della Costituente, presidente del CNR nella fase più difficile della ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale scrive: Alla domanda se gli studi che si compiono oggi negli Istituti tecnici ed industriali siano da considerarsi come i più idonei per la preparazione e l’avviamento dei giovani agli studi superiori, io non ho mai esitato, né esito oggi a rispondere negativamente. Ma non per questa o quell’altra manchevolezza dei relativi programmi, bensì per lo spirito che informa questi studi, spirito decisamente utilitario, laddove le più alte vette del pensiero sono più facilmente raggiungibili da uomini formati, fina dalla loro prima giovinezza, all’amore dello studio, alla ricerca disinteressata del vero e alla affermazione, attraverso lo studio e la ricerca, della personalità. Questo l’incipit, e ben poche pagine più avanti, con una sensibilità a problemi che oggi riconosciamo essere nostri — ricordiamo la data dello scritto! — si afferma che l’università “trasformata com’è da scuola delle élites a scuola di massa” deve offrire ai propri allievi quella cultura che “lo potrà abilitare ad assolvere nella società di domani funzioni più o meno elevate , ma comunque confacenti alle sue attitudini ed alle sue più legittime aspirazioni.” Si evince allora, come diretta conseguenza che se da un lato gli ordinamenti universitari devono essere resi “liberi ed elasti-ci per modo che possano venire sempre e prontamente adattati alle più mutevoli esigenze” dall’altro si provveda, nei “più diversi livelli di forma-zione intellettuale e di preparazione professionale”, a fornire alla sempre più “rapida e sorprendente” richiesta di competenze professionali da parte della società. Ciò che stupisce ancor più è l’attenzione già vivissima per una soluzione che possa “permetterci di 14 affrontare i problemi del Mercato Comune Europeo, evitando che i nostri giovani si trovino in condizioni di inferiorità rispetto a quelli di altre nazioni della Comunità Europea.” Lo spirito europeo è dunque “la condizione essenziale di questo movimento verso l’unità” perché l’Europa diviene ogni giorno più la patria comune di tutti i popoli che la compongono, incrollabilmente legati ai valori spiritua-li e morali che costituiscono il loro patrimonio comune.” Senza dilungare troppo questa digressione, vale la pena di concludere come l’attenzione di Gustavo Colonnetti per la “dimensione continentale europea” sia vista co-me una soluzione per una società in cui “il progresso tecnico sta creando nuovi e sempre più ardui problemi che soltanto i tecnici potranno risolvere”. La sua fiducia positiva nella tecnica non deve peraltro fuorviare dalle conclusioni perché, come già accennato nelle prime battute, è proprio la “cultura umanistica” a guardare all’uomo nella sua totalità, senza pretendere che i problemi siano risolvibili da proprio interno, in maniera autonoma, chiusa. Colonnetti parla infatti di cultura “umanistica” e non di una cultura classica imbevuta di passatismo, ma quei contenuti capaci di esprimere “le voci che nel frastuono della vita moderna, esprimono i sentimenti, le aspirazioni, le speranze dei nostri contemporanei, sentimenti, aspirazioni e speranze su cui siamo chiamati a costruire la nuova civiltà.” Nelle scuole di ingegneria, da alcuni anni nuovi scenari si prospettano: le maggiori attenzioni alla gestione delle risorse piuttosto che non alla progettazione e alla costruzione dei beni materiali sono in molti casi i paradigmi nuovi che sono imposti dalla società, che evolve rapidamente anche in virtù delle innovazioni tecnologiche nel settore dell’informazione. Dalla scuola secondaria, all’orientamento per gli studi superiori, alla formazione universitaria, sino a quella di terzo livello, e ancora oltre in un continuum di educazione permanente parallela all’attività professionale si deve riconoscere, oggi, che la scuola — ed in particolare la scuola professionalizzante, direttamente interagente con il mondo produttivo (in senso lato) — non è una realtà parallela e preparatoria alla vita sociale, ma intrinsecamente è nella vita sociale. In questa dimensione anche l’ingegnere gestionale (che non è un ingegnere che conosce l’economia e qualche altra disciplina affine) deve essere progettato con nuovi paradigmi, che non devono risultare la brutta copia di ciò che già esiste, ma piuttosto proporre, in accordo con chi meglio conosce la realtà del mondo produttivo e dei servizi, nuovi strumenti epistemologici di realtà che non possono non definirsi tecnologiche, ma in cui la componente “umana”, e perciò per sua natura non esclusivamente razionale, è la chiave di volta del sistema. L’orientamento universitario dei giovani che si affacciano al mondo dell’università e degli studi superiori sarà sempre più il dovere sociale (e culturale) di una classe di docenti che non potrà esimersi dall’assumere un ruolo “politico” di fondamentale importanza. L’illusione di “nuove tecnologie”, la deregulation delle strutture sociali nella gestione dei servizi e nuove dinamiche nella politica di nuovi sistemi sociali, apriranno certamente in un futuro assai prossimo scenari in cui sempre meno saranno richiesti gli ingegneri tradizionali. “Facile, troppo facile, inutile” è la frase che spesso capita di ascoltare quando due culture si scontrano, ed il passato, che ha consolidato le proprie basi e istituzionalizzato i propri saperi, sorride di fronte alle ingenuità di chi non sa ancora bene quale sarà il proprio futuro. 15 I miti del vecchio millennio dovranno riesaminare molte concezioni radicate nelle coscienze e nella società e riconsiderare che proprio le risorse umane e le risorse culturali saranno al centro di dispute della cui “violenza” è facile non dubitare. A questo punto è necessario guardare alla conclusione, non dimenticando le interconnessioni che si debbon instaurare tra industria e scuola. Ciò che sinora non ha funzionato è il nesso di fiducia reciproca. I sistemisti riconoscerebbero in ciò il tipico comportamento di una realtà “stiff” ossia rigida: in essa la presenza di due sottosistemi, fortemente interallacciati, ma caratterizzati da dinamiche con costanti di tempo assai diverse, genera tensioni che spesso impediscono un proficuo trasferimento dei “segnali” (questo è il termine tecnico dei sistemisti), qui diremmo della conoscenza. I tempi della scuola viaggiano con le epoche biologiche della vita e — per parlare in termini concreti e forse anche un po’ riduzionistici —ruotano intorno a costanti dell’ordine delle decine di anni; i tempi dell’industria sono regolati dalla vita media dei beni di consumo che spesso non superano la durata di alcuni mesi. Mettere d’accordo queste due realtà spesso significa lasciare spazio all’altro e all’altrove, perdere in centralità, dimenticare le illusioni di autoreferenzialità: in questo modo, ma non dimenticando che la scuola deve soprattutto produrre e trasferire cultura (e non profitti) e che l’industria deve invece creare lavoro e profitti (e non per questo proporsi come unico e vero attore culturale), si potrà pensare ad una società capace di far fronte alle sfide di un millennio che si presenta carico di inquietanti interrogativi. Quando alla fine degli anni venti Francesco Mauro scrisse le sue Osservazioni di un ingegnere negli Stati Uniti d’America (ENIOS, Milano, 1929) e propose alla giovane società industriale italiana il modello scientifico dell’organizzazione del lavoro si era ancora in pieno ottimismo positivista e la fiducia nella iperrazionalità degli ingegneri doveva ancora scontrarsi con molte delusioni. Le profonde istanze illuministiche della Veritas et Utilitas (non per nulla motto della Accademia delle Scienze di Torino fondata da scienziati ma anche da tecnici verso la metà del Settecento) nella cultura statunitense (che prelude al consumismo di massa, ma anche ai totalitarismi di questo secolo) diviene Beauty and Utility. Perché non preoccuparsi? Luciano Gallino così conclude la voce “tecnici” nel «Dizionario di sociologia» (Torino 1993): Funzione e ideologia dei tecnici, e con essi la loro omogeneità di classe, sono rafforzati dalla formazione scolastica che ricevono, tramite gli istituti tecnici, le facoltà di ingegneria e altre scuole di indirizzo tecnico-scientifico. L’insegnamento impartito in tali scuola ipostatizza il ruolo storico dei tecnici, rendendo virtualmente impossibile a chi vi è esposto per molti anni di concepire la propria funzione in una luce diversa, non di depositari esclusivi del sapere tecnico, ma di istruttori, consulenti, educatori scientifici di gruppi di la voratori. Il solo paese a tentare una revisione deliberata in tal senso del ruolo dei tecnici è stata forse la Cina, ma date le scarse informazioni disponibili è difficile dire con quale esito. Si ritiene che il suo limitato sviluppo industriale e tecnologico renderebbe poco istruttive per l’Occidente anche le innovazioni che mostrassero di riuscire. 16 L’esperimento — di cui lo scrivente è anche in parte responsabile — dell’introduzione, a titolo sperimentale, di un “pacchetto” di corsi di “Scienze Umane”5 per gli allievi ingegneri del Politecnico di Torino vuole essere invece un primo tentativo innovativo e controcorrente di fronte ad una professione il cui futuro si giocherà sempre di più sulle frontiere multilingue e multiculturali: non all’interno di superspecializzati edifici senza finestre. Per la risposta a questa sfida non si deve però soltanto aspettare. 5 Nell’anno accademico 1997-98 al Politecnico di Torino, per la prima volta in una Facoltà di Ingegneria italiana, sono state attivate discipline di “scienze umane” ed in particolare: Propedeutica filosofica, Il metodo scientifico, Sociologia del lavoro, Sociologia delle comunicazioni di massa, Storia della tecnica. L’offerta è stata proposta agli studenti in libera sostituzione di una delle materie di indirizzo. L’iniziativa, pur tenendo conto del ristretto lasso di tempo lasciato alla variazione dei piani di studio, ha visto già l’adesione di circa duecento studenti, per questo primo anno di sperimentazione. 17 L’ingegnere gestionale al Politecnico di Milano. Dalla specializzazione industriale alla specializzazione aziendale Gian Carlo Cainarca Dipartimento di Economia e Produzione, Politecnico di Milano La divisione del lavoro è funzione dell’estensione del mercato. Adam Smith Infine i campi di validità della meccanica classica e di quella quantistica possono essere delimitati uno rispetto all’altro proprio secondo questo punto di vista: la fisica classica rappresenta quella tendenza alla conoscenza della natura, in cui noi cerchiamo essenzialmente di arrivare a conclusioni su fatti obiettivi partendo dalle nostre percezioni, e perciò rinunciamo a considerare l’influenza esercitata da ogni osservazione sul fenomeno osservato; la fisica classica trova perciò il suo limite proprio nella fase in cui non si può prescindere dall’influenza dell’osservazione sul fenomeno. La meccanica quantistica, al contrario, sconta la possibilità di trattare fenomeni atomici con la rinuncia parziale a descriverli nello spazio e nel tempo e a obiettivarli. Werner Heisenberg Dall’inizio degli anni novanta, nonostante la recentissima costituzione, il corso di laurea in ingegneria gestionale registra ogni anno oltre 2mila immatricolazioni. La rapidità con cui si afferma l’ingegneria gestionale è plausibilmente il risultato sia del tradizionale credito di cui gode l’immagine professionale dell’ingegnere, sia della rispondenza delle sue peculiari competenze alle nuove esigenze del tessuto economico- industriale. Nel manifesto degli studi si legge che il corso di Laurea in Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano si prefigge di rispondere alla necessità di formare ingegneri preparati a svolgere funzioni di progettazione e gestione di sistemi complessi, e dotati di una visione d’insieme che assicuri coerenza delle scelte tecnologiche con la strategia aziendale e con il contesto del settore industriale di appartenenza. A tal fine vengono esplicitati i tre tratti che caratterizzano il profilo professionale: — l’approccio ingegneristico ai problemi; — la capacità di integrazione; ad indicare l’attitudine ad unire competenze di carattere tecnologico e gestionale, di comprendere le modalità di funzionamento dei sistemi produttivi, dei sistemi logistici e delle diverse aree della gestione aziendale; — la trasversalità dei contenuti del piano formativo; a cogliere la potenziale capacità dell’ingegnere gestionale ad adattarsi a imprese di ogni dimensione, operanti in settori differenti, siano esse nazionali o multinazionali. L’ingegnere gestionale si configura quindi come la versione attualizzata di una figura professionale — quella dell’ingegnere — finalizzata a fronteggiare problemi specifici la cui soluzione implichi il ricorso all’applicazione e la gestione delle 18 tecnologie corrispondenti. In ordine temporale l’ingegnere gestionale rappresenta quindi l’ultimo esempio di scelta di specializzazione dell’ingegnere, ovvero di delimitazione ed approfondimento di problemi specifici e delle corrispondenti soluzioni, in altri termini costituisce l’ennesimo risultato di quella dinamica che presiede alla differenziazione professionale che Francesco Brioschi pone alla base della fondazione del Politecnico. Il Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano secondo Brioschi doveva cioè essere una scuola speciale, diversa dall’università tradizionale, sufficientemente autonoma per poter perseguire, in modo flessibile e tempestivo con le esigenze nuove, i suoi obiettivi: coltivare la nuova cultura tecnico-scientifica necessaria alla nascente società industriale e formare quella classe di tecnici necessari al suo sviluppo. Questi non dovevano essere più generici, ma dovevano unire una vera capacità applicativa [...] a una lunga competenza metodologica e scientifica di base: una formazione opportunamente specializzata in settori di attività concrete doveva condurre allo sviluppo di queste capacità, come mostravano gli esempi europei. (Stracca 1981) L’impresa — quale insieme di risorse di varia natura, umane e tecnologiche — assurge ad oggetto della specializzazione dell’ingegnere gestionale in ragione dei livelli crescenti di complessità che ne caratterizzano l’evoluzione nella seconda metà del secolo. A richiedere un approccio sistemico è la stessa natura tecnologica dei problemi che l’impresa deve fronteggiare. La tecnologia non costituisce più un “patrimonio” di conoscenze circoscritte esclusivamente alla progettazione ed allo sviluppo del prodotto, ma pervade l’intera vita dell’impresa, divenendo parte integrante della sua gestione e, più in generale, della sua strategia. Il passaggio dall’innovazione di prodotto a quella di processo se da un lato consente all’impresa di fronteggiare ambienti più complessi, dall’altro lato segna un incremento della complessità interna che, a propria volta, impone lo sviluppo di nuove competenze e di nuovi profili professionali. La tecnologia cessa di essere conoscenza incorporata nel prodotto per divenire il tessuto vertebrante dell’impresa e quindi, non infrequentemente, invertire l’ordine di priorità delle conoscenze richieste all’ingegnere; il contributo apportato dalla nuova figura professionale alla competitività dell’impresa si manifesta attraverso la capacità di sfruttare la propria cultura tecnologica nel progettare e gestire il sistema impresa, piuttosto che nel progettare un prodotto — tuttora dominio dell’“ingegnere-scienziato” — tenendo conto della sua fattibilità economica. Rispetto alla figura tradizionale gli elementi di “discontinuità” dell’ingegnere gestionale sono più apparenti che reali e, forse paradossalmente, sostanziano la continuità con il modello che identifica nell’ingegnere una figura professionale fortemente specializzata. Anche nel caso dell’ingegnere gestionale le convinzioni di Brioschi per cui non si deve “far precedere la Scuola all’Industria” mostrano di rispecchiare sostanzialmente il principio Smithiano che lega la divisione del lavoro — cioè la specializzazione — alle dimensioni del mercato. Non essendo questo il luogo per comparare sviluppo industriale ed evoluzione della figura dell’ingegnere in paesi diversi al fine di evidenziare natura e direzione delle reciproche influenze, il lavoro si propone di evidenziare come la continuità professionale dell’ingegnere 19 gestionale discenda dalla condivisione del processo di formazione piuttosto che dal riscontro del ricorrere nel tempo di contenuti economici nella sua formazione; in tal senso, volendo interpretare la specializzazione quale discontinuità, questa è riscontrabile proprio nel passaggio dal trasferimento di competenze non tecnologiche, atte ad “estendere la cultura dei giovani” (Selvafolta 1981), alla formazione di profili professionali che alla padronanza di tali competenze legano la propria ragion d’essere. Ancor prima di tratteggiare il ruolo che il mondo universitario da un lato e quello industriale dall’altro svolgono nella creazione dell’ingegnere gestionale si rende necessaria una premessa “metodologica”. Data l’ancor breve esistenza dell’ingegneria gestionale, è plausibile pensare che l’osservazione di tale esperienza risenta dei limiti che Werner Heisenberg — nel caso dei fenomeni fisici — ha formulato nel principio di indeterminatezza, cioè che la possibilità di cogliere la portata storica del carattere di novità introdotta nella figura professionale dell’ingegnere risulti fortemente influenzata dalla prossimità temporale dell’evento. D’altro canto la possibilità di raccogliere informazioni direttamente dai neoingegneri gestionali offre lo spazio per tratteggiare un quadro, pur tentativo, della consistenza nonché della rilevanza dell’ingegneria gestionale. A partire dall’ennesimo tentativo di coniugare — o, più semplicemente, accostare — riscontri del passato ed evidenze del presente, le pagine che seguono si propongono il compito di dar ragione della specificità della figura dell’ingegnere gestionale e della rispondenza di quest’ultimo alle “esigenze” del tessuto economico-industriale. Per quanto detto l’analisi non presenta alcuna carattere di generalizzabilità sia perché la limitata disponibilità di dati di comparazione impone ovvie precauzioni nell’utilizzo delle informazioni, sia perché le considerazioni poggiano esclusivamente sulle impressioni dei neo-ingegneri gestionali e non possono che prescindere dalle valutazioni dirette delle imprese. Il lavoro si articola quindi in due parti logicamente distinte: ad una sintetica ricostruzione del ruolo attribuito alla formazione manageriale dell’ingegnere e della successiva nascita del corso di laurea in ingegneria gestionale del Politecnico di Milano segue la tentativa descrizione del successo dell’ingegnere gestionale tramite l’analisi dei percorsi di carriera dei laureati presso l’Ateneo milanese. 2. L’ingegnere gestionale al Politecnico di Milano Nel 1994, anno che chiude il periodo qui preso in considerazione per lo studio dell’Ingegneria gestionale, il Politecnico di Milano registra l’iscrizione di 591 matricole — cioè oltre il 26% degli aspiranti ingegneri gestionali italiani e circa il 12% dei nuovi iscritti alla Facoltà milanese — e laurea 375 dottori in ingegneria gestionale — dato che equivale al 75% degli ingegneri gestionali italiani ed al 19% dei neo ingegneri milanesi. I dati citati offrono un indubbio riscontro dello sviluppo che il corso di laurea in Ingegneria gestionale ha registrato nella sua pur breve storia. Ciò che rimane da raccontare è come il progetto prenda le mosse e come la sua evoluzione si inserisca nella tradizione che vede l’ingegnere dar vita a processi di “specializzazione” coerenti con l’esigenza di competenze manifestata dallo sviluppo industriale6. In tal A tal proposito Brioschi affermava “che se le scuole non hanno mai creato alcuna industria, esse sono per le industrie già esistenti e per le affini un potente mezzo di sviluppo e di progresso [...]. Fedeli 6 20 senso la novità del nome non deve fuorviare: anche l’ingegnere gestionale nel suo complesso non sfugge alla “visione del mondo” che caratterizza la figura dell’ingegnere. L’“adeguamento” tecnico-scientifico rappresenta in effetti il tratto peculiare del nuovo ingegnere per cui anche nel caso di quello gestionale si può dire con il Calcagno (1996): che le “metamorfosi” dell’ingegnere — in un instabile equilibrio tra continuità e cambiamento — sono un elemento che caratterizza permanentemente la sua figura (e la sua immagine), e quindi tutta la sua storia” [...] con riferimento al nuovo ingegnere “potremmo dire che il mutamento è l’autentica invarianza dell’ingegnere, perlomeno dalla prima rivoluzione industriale in poi. Sulle ragioni di tale “specializzazione”, l’ipotesi che appare più verosimile — e quindi la meno originale — è che il nuovo corso di Laurea rappresenti una volta di più il risultato del concorso di più fattori fra loro non infrequentemente in concorrenza, piuttosto che la realizzazione di un progetto “ingegneristico”. In tal senso alla competizione fra scuole di pensiero per l’egemonia culturale si sovrappongono le variabili esogene dell’ambiente ove alle esigenze — reali o presunte — dell’industria si contrappongono i tempi e talvolta le imperscrutabili ragioni della burocrazia ministeriale. 2.1. La formazione manageriale dell’ingegnere Fra le ragioni del “successo” dell’ingegnere gestionale dell’Ateneo milanese un ruolo importante è attribuibile al rispetto della tradizionale formazione dell’ingegnere. In particolare due “eredità” assumono un rilievo peculiare: — l’orientamento a sviluppare una figura specialistica destinata a progettare o gestire l’impiego di una tecnologia specifica o, in altri termini, rivolta all’applicazione di quanto prodotto dalla ricerca in determinate discipline scientifiche7; — l’importanza attribuita alle discipline economiche, i cui corsi — al di là delle “fortune” contingenti — fanno parte del bagaglio culturale dell’ingegnere milanese sin dalla nascita del Politecnico8. Pur rappresentando entrambi gli aspetti dei reali “contenuti” della figura professionale è cionondimeno possibile identificare prioritariamente nel primo la continuità del processo formativo, che consente di accomunare tutti i profili dell’ingegnere moderno al di là della specializzazione conseguita; e, diversamente, nel secondo il prevalere delle contingenze a rispecchiare la storia delle valenze attribuite alle “competenze peculiari”. La trasformazione nel tempo di queste ultime in oggetto di specializzazione formalmente riconosciuta avviene per il convergere di due processi concomitanti: da un lato la richiesta da parte del tessuto economico-industriale di “applicazioni” delle conoscenze rese disponibili dallo sviluppo o dalla creazione di nuove aree di ricerca scientifica e, dall’altro lato, dalla alla massima di non far precedere la Scuola all’Industria, non credemmo di seguire l’esempio della Germania, ma di avvicinarci gradatamente ad esso” (in Stracca 1981, p. 83, nota 2). 7 Esemplare di tale impostazione l’affermazione di Theodor Von Karman per il quale “lo scienziato descrive quel che c’è: l’ingegnere crea ciò che non c’era mai stato”. 8 In tal senso, fra gli insegnamenti impartiti il Regio Decreto di istituzione dell'Istituto Tecnico Superiore di Milano del 13 novembre 1862, include Economia industriale ed agricola, Elementi di diritto amministrativo e giurisprudenza agricola. 21 “spinta” esercitata da coloro che all’interno dell’università svolgono la ricerca in una delle sue innumerevoli forme 9. Le competenze che caratterizzano l’ingegnere si configurano in altri termini come il temporaneo conseguimento di un punto di equilibrio fra la specializzazione del suo sapere e l’esigenza di “estendere la cultura dei giovani”. L’instabile equilibrio fra continuità e cambiamento che connota l’ingegnere (Calcagno, 1996) si ripropone quindi a livello di definizione delle competenze nella costante ricerca del “corretto” livello di specializzazione. In tal senso, da un lato Brioschi pone alla base della nascita del Politecnico di Milano la differenziazione dei percorsi formativi dei futuri ingegneri per rispondere alle esigenze del mercato e l’esigenza di stare al passo coi <grandi progressi delle scienze applicate> e nel <modificare in relazione ai medesimi l’indole e l’estensione dell’esercizio> della professione (Lacaita, 1986); dall’altro Colombo sostiene che bisogna dunque che la scuola si limiti ad insegnare quelle materie che servono di fondamento o di avviamento alle applicazioni [...] se si volesse fin dal principio suddividere l’insegnamento in altrettante sezioni speciali quanti sono i rami dell’ingegneria [...] questa specializzazione [...] sarebbe tutta a danno della cultura generale e tecnica del giovane10. Per quanto attiene la natura delle materie atte ad “estendere la cultura dei giovani”, economia compare fra le discipline impartite all’ingegnere sin dalla fondazione del Politecnico di Milano. Cionondimeno, come traspare dalla sintesi di Tab. 1, l’insegnamento delle materie economiche, gestionali e giuridiche che viene impartito all’interno dei corsi di laurea in ingegneria è oggetto di frequente ridefinizione, sia in termini di ampiezza sia di approfondimento, il cui risultato è la trasformazione di queste ultime in corsi “non fondamentali” prima e successivamente, negli anni cinquanta, in facoltativi. Esemplare il costante ridisegno delle conoscenze economiche e giuridiche impartite all’ingegnere industriale tra la fondazione del Politecnico ed il 1945. Con l’inizio del nuovo secolo i corsi di Economia industriale, Economia politica e Materie 9 In altra forma Luigi Dadda, Rettore del Politecnico di Milano durante gli anni Ottanta, sostiene: “L’introduzione di un nuovo corso corrisponde all’emergere di una nuova disciplina, generalmente come sviluppo di temi, precedentemente costituenti una parte soltanto di un altro corso e cresciuti di importanza e complessità fino a doverli riconoscere sufficienti a giustificare un corso ad hoc” (Dadda, 1984) 10 Esempi emblematici della portata del dibattito sul tema della specializzazione possono essere ritrovati nelle riviste tecniche (Selvafolta 1981). Da un lato, si ricorda Pareto ed i richiami ai principi della divisione del lavoro. Dall’altro, l’intervento di Calisse sulle pagine de "L’Industria": "Le scuole degli ingegneri sono venute così di mano in mano declinando: si sono moltiplicati gli insegnamenti speciali con aggravio penoso delle giovani menti, le quali mangiano e non digeriscono: si danno cognizioni singole e staccate in numero infinito, che, tutte utilissime, riescono poi per la massima parte inutili, poiché nella vera pratica ogni ingegnere si serve di ben poche; si è formato tutto un indirizzo, per il quale gradatamente si tende a confondere l’ingegnere con il capo-tecnico [...]. Mentre tutti si sono sforzati di acquistare una sempre più larga coltura, anche nei limiti professionali, per poter meglio figurare nel mondo [...]: si è voluto ed ottenuto, che gli ingegneri restringessero sempre più il loro angolo visuale, che si circoscrivessero entro i rigidi limiti del tecnicismo materiale, che rimanessero fuori delle correnti di pensiero e di cultura, che animano la vita sociale"; (Calisse, 1918). 22 giuridiche si riducono a due, Economia politica e industriale e Materie giuridiche; con l’anno accademico 1912-’13 queste ultime a loro volta si fondono in un unico corso il cui titolo — Economia politica e industriale e materie giuridiche —, rimarrà invariato sino al 1926 quando si trasformerà in Economia politica e industriale. Successivamente — nel 1936 — il corso assume la nuova dizione di Materie giuridiche ed economiche I che, con la successiva introduzione del 1938 di Materie giuridiche ed economiche II, sembra precludere ad un rinnovato interesse per la formazione economico-aziendale dell’ingegnere. Anche in questo caso è utile rilevare come ai riorientamenti del Politecnico corrispondano alcuni eventi che caratterizzano l’evoluzione socio-culturale del Paese. In particolare due “coincidenze” storiche meritano di essere ricordate. La prima è rappresentata dal decreto Credaro del 1913 che, introducendo la distinzione fra esami di base e complementari, amplifica la tendenza alla progressiva marginalizzazione degli insegnamenti economici avviatasi con l’orientamento ad accentuare la specializzazione “tecnologica” dell’ingegnere. La seconda “coincidenza” — temporalmente identificabile con l’attivazione nel 1934 presso il Politecnico di Milano del “Corso per Dirigenti di Azienda” organizzato da Mauro — è riconducibile ad un intreccio di eventi quali, da un lato, il decreto del 1927 che sancisce la nascita delle scuole a fini speciali11 e, dall’altro, il riaccendersi del dibattito sul ruolo dell’ingegnere nell’impresa che culmina nel 1933 con la scelta dell’Associazione Nazionale Fascista dei Dirigenti di Aziende Industriali di sostenere la creazione di “corsi annuali di applicazione aziendale” proposta da De Vito12. Il clima socio-culturale in cui tali passi maturano è quello che traspare dalle posizioni di Calisse (1918) che contrapponendosi a chi vorrebbe relegare l’ingegnere in officina asserisce che le aziende governate da ingegneri sono quelle che più nobilmente tengono posto nel campo industriale, e che nelle attuali circostanze meglio hanno corrisposto alla fiducia del Governo e del paese, o dello stesso Francesco Mauro che già nel 1928, nel tentativo di sopperire a quella che sembrava una lacuna sempre più grave nella preparazione dei moderni ingegneri, aveva avviato un corso facoltativo di organizzazione di circa dieci lezioni centrato sulla organizzazione scientifica nell'economia aziendale (Fauri, 1997) e, successivamente, delinea quali competenze necessarie all’ingegnere 11 Il ruolo di formazione “complementare” svolto dalle scuole a fini speciali è reso esplicitamente da Stracca (1981) che le descrive come “un mezzo per venire incontro alla difficile esigenza [..] di contenere in soli cinque anni la sempre più estesa gamma di conoscenze specialistiche che si richiedevano agli ingegneri”. 12 Per una disamina del ruolo svolto da Mauro nello sviluppo della formazione manageriale degli ingegneri e, più in generale, delle iniziative a tal fine adottate al Politecnico di Milano si rimanda a Fauri (1997) 23 le matematiche; le nozioni essenziali della fisica, della chimica, della biologia, della geologia e della geografia [...] i fondamenti dell’economia e la loro estrinsecazione nell’industria e nel commercio; i principi che governano le relazioni tra gli uomini, non soltanto tra la direzione e gli impiegati di un’azienda ma anche tra il governo ed i cittadini di una nazione; la storia dei popoli; l’arte di una chiara e corretta espressione nel parlare, nello scrivere e nel disegnare (Mauro, 1938). Dopo la fine del secondo conflitto mondiale il dibattito sulle competenze economiche dell’ingegnere evidenzia prese di posizioni altrettanto favorevoli da parte di componenti del mondo accademico e di quello universitario, cionondimeno l’esigenza di profili altamente specializzati manifestata da settori nascenti quali quelli aeronautico, elettronico e delle comunicazioni elettriche e nucleare conduce all’attivazione dei corrispondenti corsi di laurea ed all’ennesima ridimensionamento del ruolo delle materie economiche. Se da un lato gli insegnamenti di Materie giuridiche ed economiche I e II divengono facoltativi con l’attivazione delle nuove Lauree nel 1956, dall’altro lato l’esigenza per l’ingegnere di acquisire competenze manageriali — anche sul modello di quanto avvenuto all’estero e, in particolare, negli Stati Uniti — viene argomentata da più parti. Guido Corbellini nella prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico 1952-1953 — il cui titolo “Tecnologia e sociologia nella formazione dell’ingegnere” è di per sé esplicativo — sostiene che l’ingegnere deve assolvere al compito delicato e preminente di trovare la condizione di equilibrio dei tre fattori essenziali della produzione che sono costituiti dall’idea creatrice permeata di conoscenze scientifiche, dalle possibilità finanziarie ed economiche che la rendono attuabile, e infine, dallo sforzo fisico ed intellettuale dei collaboratori a cui spetta il compito di dare forma concreta all’opera progettata, per cui gli insegnamenti a lui destinati “non possono trascurare questo complesso di necessità”. Nondimeno, nelle conclusioni, dopo aver premesso che nell’attuare riforme nell’insegnamento superiore “occorre sempre andar molto cauti e soprattutto procedere per gradi”, afferma che “la formazione dei futuri ingegneri dirigenti di aziende dovrebbe in un primo tempo ottenersi dopo completati gli studi generali scolastici attuali“. Su presupposti analoghi nel 1953 viene creata una commissione ad hoc per valutare l’introduzione di Economia ed organizzazione aziendale nel piano di studi degli ingegneri. La commissione che, oltre al Direttore del Politecnico ed al Preside della Facoltà di ingegneria, comprende fra gli altri Luigi Morandi, Adriano Olivetti e Pasquale Saraceno “riconosciuta la impossibilità di aggravare ulteriormente il curriculum degli studenti, si è orientata verso la soluzione di inserire fra gli insegnamenti a scelta un insegnamento annuale di Economia ed organizzazione aziendale”. Il corso di Economia ed organizzazione aziendale assume comunque un’importanza particolare nella storia della formazione manageriale dell’ingegnere in quanto nel decennio successivo diverrà obbligatorio per gli allievi elettronici e solo pochi dopo diverrà il punto di partenza per lo sviluppo di un primo nucleo di ingegneri impegnati nella ricerca nei campi dell’economia e della gestione d’impresa. In attesa 24 che i tempi maturino il corso viene tenuto da Roberto Tremelloni — che divenuto Ministro si farà coadiuvare da Luigi Guatri — e viene finanziato da IRI e Comitato Nazionale per la Produttività 13. 2.2. La specializzazione manageriale dell’ingegnere L’autorizzazione ministeriale che consente la modifica dello Statuto e la conseguente nascita del corso di laurea in Tecnologie industriali ad indirizzo economico-organizzativo perviene ad Emilio Massa — allora Preside della Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano — nell’ottobre del 198114; predisposto il Manifesto degli Studi, con l’Anno Accademico 1982-1983 la formazione della nuova figura di ingegnere proposta dal Politecnico prende il via. L’approvazione ministeriale rappresenta comunque solo il sigillo — pur imprescindibile — di un processo di maturazione che vede la convergenza sia delle forze interne al Politecnco che di quelle esterne del tessuto economico industriale. Volendo datare l’avvio della nuova specializzazione dell’ingegnere, si possono collocare negli anni sessanta i primi segnali dell’esigenza di sviluppare profili professionali alternativi a quelli tradizionali. In particolare sul versante industriale uno dei segnali forti è quello che giunge dal convegno su “Rapporti tra Università e Industria” indetto nel 1960 dalla Confederazione Generale dell'Industria, ove viene denunciata l’insufficiente preparazione economico-giuridica dell’inge-gnere e la sua scarsa attitudine a organizzare il lavoro altrui, a programmare ed a dirigere. Nel 1962 all’interno del XII Convegno nazionale degli ingegneri italiani quanto espresso dal mondo industriale diviene lo spunto di un più ampio dibattito che finisce per investire il profilo professionale dell’ingegnere e la connessa possibilità di coniugare attese dell’impresa e competenze acquisite nelle aule universitarie. Gino Bozza (1962) riconduce la mancanza di ingegneri manifestata “nelle grosse industrie” alla convinzione che in generale siano “utilizzati in posti in cui la loro capacità non è sufficientemente sfruttata”, e che la ragione di ciò debba essere addotta alla “carenza di tecnici intermedi ben preparati, al posto dei quali molto spesso veniva posto un ingegnere”. Agostino Capocaccia (1962), dopo aver convenuto sulle critiche mosse dal mondo dell’industria, avanza l’ipotesi che le attese di quest’ultimo potrebbero trovare risposta tramite un articolato ridisegno della formazione professionale. La carenza di tecnici intermedi può essere risolta o ampliando i corsi delle medie superiori o creando “speciali Istituti Tecnologici Superiori, di livello universitario [...]. Detti istituti dovrebbero sorgere a sé stanti, preferibilmente a lato di Facoltà di Ingegneria già funzionanti.” La riproposizione da parte di Capocaccia dell’orientamento a “estendere la cultura dei giovani” assume in questo caso un rilievo particolare in quanto, pur manifestando il proprio scetticismo ed il proprio disaccordo, affronta l’argomento del profilo di un ingegnere “nuovo”. In tal senso, egli da un lato non nasconde le 13 Che i tempi siano in un certo senso prematuri lo conferma il contenuto di una lettera inviata nel febbraio del 1955 da Gino Cassinis, rettore del Politecnico in quegli anni, ad Ivan Lombardo, presidente del Comitato Nazionale per la Produttività. Nella missiva, oltre alla richiesta di finanziamenti per il corso di Economia ed orgamizzazione, è possibile leggere “che il Corso è strettamente connesso con i programmi di produttività e che da questi ne abbiamo tratto l’ispirazione: in realtà esso rappresenta l’inizio di un piano più vasto che affronteremo non appena avremo non solo i mezzi materiali per attuarlo, ma — ciò che è assai più difficile — gli uomini per dargli serietà e la consistenza indispensabili”. 14 Per l’attuale dizione “Ingegneria Gestionale” occorrerà attendere il 1988 quando la Commissione Ministeriale Nazionale approverà la nuova Laurea inserendola in ambito intersettoriale 25 difficoltà nel “conciliare nel giovane le due formae mentis del tecnico puro e dell’economista”, e dall’altro lato afferma che per quanto attiene più specificatamente all’auspicato insegnamento di discipline aziendali, mi permetto riconfermare quanto già esposto in altre occasioni e cioè l’opportunità che esse vengano inquadrate in corsi di specializzazione post-lauream e che a tali corsi l’ammissione avvenga attraverso rigorosa selezione. (Capocaccia, 1962) Il riscontro dell’esistenza di un mutato livello del dibattito sulle direzioni da seguire nel definire il profilo dell’ingegnere all’interno del Politecnico, è inoltre testimoniato dai diversi orientamenti manifestati nei differenti corsi di laurea. All’interno del corso di laurea in Ingegneria elettronica, il primo a dare segnali di “riapertura culturale”, vengono compiuti due passi particolarmente significativi: rendere obbligatorio Economia e organizzazione aziendale a partire dall’anno accademico 1962-1963, e, successivamente, investire in ricerca su temi economici ed aziendali, nonché nel correlato sviluppo interno di ricercatori 15. All’inizio degli anni settanta è già presente all’interno dell’Istituto di Elettrotecnica ed Elettronica un piccolo nucleo di ingegneri che pone al centro della propria attività didattica e di ricerca le tematiche economiche ed organizzative16. I corsi iniziano a moltiplicarsi e ad Economia ed Organizzazione aziendale si sostituiscono Organizzazione aziendale e Gestione aziendale, mentre Economia politica e industriale viene sostituito da Istituzioni di economia. Per quanto concerne l’area dell’ingegneria meccanica, ove più antica è la tradizione, si è in presenza di un quadro storico articolato. Da un lato non si può prescindere dall’esperienza di Francesco Mauro con il corso per dirigenti di azienda, e dall’altro occorre registrare il deciso ridimensionamento delle materie economiche e gestionali. Seppur parzialmente il ridimensionamento viene limitato negli anni sessanta dall’introduzione di un corso complementare di Ergotecnica fortemente voluto — quasi imposto — dalla vedova Mauro che, in tal modo, intendeva dare continuità all’opera del marito. Il corso analogamente al Gabinetto di Ergotecnica, cui era associato, riduce progressivamente l’originaria focalizzazione sull’organizzazione del lavoro secondo l’ottica Taylorista per approfondire tematiche quali quelle connesse alla progettazione ed alla gestione dei sistemi di produzione, con una particolare attenzione alle implicazioni per il fattore umano. Le concomitanti pressioni esercitate dal mondo industriale e da una “massa crescente” di ricercatori interni al Politecnico iniziano ad orientare la riflessione su profili alternativi dell’ingegnere. In tal senso, Luigi Dadda (1973) nella prolusione alla XXXVIII edizione del corso di aggiornamento per dirigenti di azienda “Francesco Mauro” evidenzia come 15 Un ruolo di rilievo, quale iniziale luogo di aggregazione, è svolto dal Centro di Teoria dei sistemi. Una riprova delle scelte del Centro è offerta dal contenuto di un missiva del luglio del 1968 che il suo direttore, Emanuele Biondi, invia al Rettore ed in cui, oltre a reitare la concessione dei fondi che dall’anno precedente avevano consentito la presenza nel gruppo di uin ricercatore su problemi di organizzazione aziendale ed economia (Adriano De Maio), illustra le ricerche svolte. 16 Per “anzianità” di servizio si ricordano Francesco Brioschi, Adriano De Maio, Umberto Bertelè e Claudio Roveda. 26 la presenza di tali corsi [economico-gestionali] rivela una esigenza da tempo sentita e coltivata, in questo Politecnico, per l’ampliamento dell’insegnamento verso i settori della produzione e della gestione, ma non rappresenta una soluzione completa del problema. Questa si avrebbe concependo e realizzando corsi di laurea differenziati da quelli attuali per un orientamento preciso verso tali settori. Poco dopo nascono l’indirizzo “Organizzativo-sistemi” del corso di laurea in Ingegneria Elettronica e l'indirizzo “Impianti” del corso di laurea in Ingegneria Meccanica. La nascita dei due indirizzi dei corsi di laurea rappresenta la conferma che i tempi sono “maturi” per nuovi orientamenti. Il successo o il fallimento delle iniziative che si alternano durante gli anni settanta — all’attivazione di corsi di perfezionamento o di cultura ai progetti dar vita al corso di laurea in Tecnologie Industriali e di costituire un Istituto “interdisciplinare” attorno al Gabinetto di Ergotecnica — segnano il confronto fra le diverse anime dell’area e, di fatto, la convergenza verso quegli equilibri che presiederanno nel giugno del 1979 all’avvio della procedura per proporre le variazioni nello Statuto del Politecnico necessarie all’attivazione del corso di Ingegneria delle tecnologie industriali — ad indirizzo economico organizzativo. 3. Gli ingegneri gestionali del Politecnico di Milano Le dimensioni dell’esperienza maturata nell’ultimo decennio (1985-1994) presso il Politecnico rendono l’analisi relativa ai laureati in ingegneria gestionale difficilmente assimilabile ad un puro studio di caso. Se dopo poco più di un decennio gli studenti iscritti alla laurea in ingegneria gestionale assommano in tutta Italia ad oltre 16mila unità e quelli laureati sono già oltre 2mila, nel medesimo periodo il Politecnico di Milano ha immatricolato 6.845 aspiranti ingegneri gestionali e ne ha licenziati 1.237. Pur con le precauzioni ricordate in precedenza, i dati citati assumono un potere ancor più evocativo quando posti in relazione ai dati relativi all’intera Facoltà di Ingegneria dell’Ateneo milanese. In tal senso è sufficiente rilevare come il corso di laurea in Ingegneria gestionale, nel volgere dei pochi anni che lo separano dalla sua attivazione, sia divenuto nel 1994 uno dei primi corsi per immatricolazioni ed il secondo per numero di laureati all’anno17. Se ai fini di una valutazione delle attese degli studenti la numerosità degli iscritti al corso di laurea costituisce un riscontro diretto dell’ap-prezzamento di questi ultimi nei confronti della nuova figura professionale, nel caso della rispondenza della proposta culturale / professionale del Politecnico alle esigenze del tessuto industriale la risposta può oggi essere colta solo indirettamente attraverso le valutazioni espresse a tal fine dagli stessi ingegneri gestionali. Nello specifico la rispondenza alle esigenze del tessuto economico-industriale da parte della nuova figura di ingegnere “specialista” viene evidenziata attraverso tre distinti punti di osservazione: la “domanda” di ingegneri gestionali, la rispondenza delle competenze di questi ultimi alle attese delle imprese viene letta attraverso la “tempistica” che segna due scadenze della carriera della nuova figura professionale: l’attesa del primo impiego ed il conseguimento dello status di dirigente; Le tabelle in allegato consentono una rilevazione più articolata, oltre che più puntuale, del quadro tratteggiato. 17 27 la “destinazione”, intesa sia come settore che come funzione d’impiego dell’ingegnere gestionale, a cogliere l’effettiva poliedricità delle competenze “sistemistiche” di quest’ultimo; la “congruenza” fra livello della formazione universitaria fornita e competenze richieste dall’attività professionale svolta. Le considerazioni proposte poggiano sulle informazioni ottenute tramite un questionario sottoposto all’attenzione dei 1.237 ingegneri gestionali laureatisi al Politecnico di Milano fra il 1985 ed il 1994 ed a cui hanno risposto 414 di essi. Occorre porre in evidenza come il campione così ottenuto — anche in ragione della sua numerosità — non presenti alcuna polarizzazione e fornisca una rappresentazione statisticamente significativa del comportamento degli ingegneri gestionali sia rispetto alla distribuzione temporale dei laureati sia rispetto a quella corrispondente ai voti di laurea da questi ultimi conseguiti18. 3.1. La domanda di ingegneri gestionali Nel 1992 gli ingegneri gestionali laureatisi al Politecnico di Milano sono 183, un numero la cui consistenza permette di bilanciare almeno parzialmente l’effetto novità legato alla comparsa ancora recente della nuova figura professionale. Esaurita tale necessaria premessa i dati riportati nelle tabelle 1 e 2 relativi ai tempi che intercorrono in media fra il momento della laurea e l’immissione nel mondo del lavoro evidenziano una notevole attenzione da parte delle imprese nei confronti dell’ingegnere gestionale. Nell’anno preso come riferimento dalla rilevazione ISTAT i neo ingegneri gestionali del Politecnico di Milano che hanno trovato un impiego in meno di un mese sono stati oltre il 32% (ed oltre il 64% considerando un lasso temporale pari a 3 mesi), porzione di gran lunga superiore a quella rilevata per la media dei laureati italiani (19,2% che sale a 52,3% per i 3 mesi) e, soprattutto, di quella registrata per i laureati in economia (mediamente il 17,9% ed il 51,1%) e per l’insieme degli stessi ingegneri (19,2% e 54,5%). Una conferma contemporanea della richiesta del mercato del lavoro di nuove competenze e di una possibile sovrastima da novità e piccoli numeri è offerta dai dati relativi all’insieme dei laureati in ingegneria gestionale del Politecnico. In tal senso la suddivisione in due periodi (1985-1990 e 1991-1994) se da un lato mostra una flessione consistente della percentuale degli ingegneri gestionali che trovano lavoro in meno di 1 mese (dal 55,8% si scende al 33,6%) dall’altro ribadisce con più enfasi quanto emerso dal precedente confronto su base annuale; mentre il dato medio relativo ad un lasso di tempo di 3 mesi risulta ampiamente superiore al 70%, l’incidenza di coloro che trovano un impiego in un periodo compreso fra il mese ed i 3 mesi rimane costantemente elevato (33,6%) nell’intero periodo considerato. Sempre con l’obiettivo di cogliere il rilievo attribuito alla comparsa della figura professionale dell’ingegnere gestionale, tab. 3 presenta il quadro delle qualifiche rivestite nel 1995 dai laureati del 1992. I dati sui primi sviluppi della carriera mostrano — nel caso ve ne fosse bisogno — la condivisione della vocazione “aziendale” dell’ingegnere industriale che dell’operare all’interno dell’impresa fa il proprio tratto dominante. Se si escludono gli ingegneri civili — ove l’attività da libero professionista e quella imprenditoriale costituiscono una tradizione storica che li accomuna ad alcuni orientamenti delle lauree in economia — quelli Sempre in allegato vengono riportate la distribuzione sia del campione che dell’universo preso in considerazione dallo studio. 18 28 industriali confermano la propria vocazione d’impresa ad apportare cioè il proprio contributo tecnico all’interno dell’azienda. A vari livelli la presenza delle diverse specializzazioni ingegneristiche all’interno dell’impresa non scen-de mai al di sotto del 70% e superando il 90% nel caso dei chimici. In questo quadro gli ingegneri gestionali presentano come tratto peculiare l’elevata quota di qualifica di dirigente; in tal senso se la rapidità con cui i laureati in ingegneria gestionale trovano impiego suona a testimonianza delle attese delle imprese rispetto alla proposta di nuove professionalità, la progressione della carriera particolarmente accelerata (il 2,9% dei laureati del 1992 è già divenuto dirigente) suggerisce l’“apprezzamento” delle competenze che caratterizzano la nuova figura di ingegnere nonché, come trasparirà nel seguito, la rispondenza di queste ultime alle mutate condizioni dell’ambiente economico-industriale. Tab. 4 - Distribuzione dei laureati in ingegneria gestionale nel periodo 1985-1994 per anzianità di lavoro e qualifica rivestita. Qualifica Anni di anzianità 1-3 >=4 num. % num. 17 6,8 14 Imprenditore, libero professionista Dirigente 4 1,6 31 Quadro, funzionario 29 11,6 60 Impiegato 184 73,6 43 Insegnante, ricercatore 4 1,6 5 Altro 10 4 9 n.d. 2 0,8 2 Totale 250 100 164 Fonte: Banca dati GesTI-Politecnico di Milano. % 8,5 Totale num. % 31 7,5 18,9 36,6 26,2 3,0 5,5 1,2 100 35 89 227 9 19 4 414 8,5 21,5 54,8 2,2 4,6 1,0 100 L’analisi proposta in tab. 4 rende ancor più esplicita la vocazione “aziendale” dell’ingegnere gestionale; i ruoli rivestiti da quest’ultimo sono in questo caso quelli riferiti al campione nel suo complesso, ma è possibile distinguere fra coloro che possono annoverare un’anzianità di servizio superiore ai tre anni e quelli la cui assunzione risulta più recente. Se da un lato aumenta l’incidenza di imprenditori e professionisti, dall’altro l’incidenza di coloro che operano all’interno dell’impresa continua a permanere assolutamente maggioritaria (mediamente pari a circa lo 85%; — con circa lo 87% per quelli all’inizio della propria carriera e con circa lo 82% per quelli con almeno 3 anni di esperienza). Inoltre, a conferma della validità dell’impostazione data al nuovo ingegnere, a dinamica della carriera risulta molto accentuata e se per i primissimi anni l’incidenza delle mansioni corrispondenti alla qualifica di impiegato appare costituire la stragrande maggioranza del campione — pari a circa il 74% del campione, come del resto era logico attendersi — , a partire dai 3 anni di anzianità la percentuale di coloro che mantengono la qualifica di impiegato si riduce drasticamente — precipita al 26% — e crescono con pari 29 intensità i quadri-funzionari — dal 12% al 37% — e soprattutto i dirigenti — dal 2% al 19%. L’ingegnere gestionale quale “specialista” d’impresa mostra in tal senso di rientrare nella tradizione dell’ingegnere per il quale la conoscenza è uno “strumento per operare nel reale” e le cui competenze progettuali trovano esplicitazione nel “creare” nuove forme di governo dell’impresa e non tanto nel dar vita a nuovi business, nell’essere uomo d’impresa ancor prima che possibile imprenditore. La peculiarità della specializzazione dell’ingegnere gestionale rimanda alla verifica dello sfruttamento delle competenze che ne definiscono il profilo professionale e, in altri termini, rinvia all’osservazione-riscontro degli ambiti ove quest’ultimo trova impiego. 3.2. L’impiego degli ingegneri gestionali La focalizzazione sull’azienda diviene nel caso dell’ingegnere gestionale il presupposto della sua “versatilità”; in tal senso la sua vocazione “a gestire” assurge a specializzazione le cui fondamenta non vanno ascritte all’improvvisazione ma all’approccio “scientifico” che connota la figura dell’ingegnere. Il riscontro empirico di tutto ciò può essere colto sia osservando i settori ove trova impiego (tabb. 5 e 6) sia vagliando la “trasversalità” delle esperienze tramite il semplice rilievo dei settori e delle funzioni attraversate (tab. 7). La stretta connotazione “industriale” dell’ingegnere gestionale traspare immediatamente dal raffronto fra i laureati italiani del 1992; l’incidenza dei laureati in ingegneria gestionale assorbiti dall’industria appare nettamente maggioritaria — la percentuale degli occupati nei vari settori industriali supera i due terzi dei laureati di quell’anno contro il 16% dei laureati in economia e poco meno del 40% dell’insieme degli ingegneri 19. La presenza nel settore dei servizi apparentemente meno consistente che nel caso degli altri ingegneri risulta in realtà parimenti rilevante quando si consideri sia la “distorsione” indotta nel dato medio dalla presenza degli ingegneri civili, per i quali l’operare nei servizi rappresenta una scelta diffusa, sia, non meno importante, l’ampia tipologia di impieghi ove, a fianco della scelta consulenziale, merita di essere evidenziata la destinazione nel settore del credito ed in quello delle assicurazioni — da soli hanno assorbito oltre il 5% dei laureati in ingegneria gestionale del Politecnico (tab. 6). La “focalizzazione” sull’impresa — anziché su specifici settori dell’industria o dei servizi — rappresenta del resto la chiave di lettura capace di dar ragione sia della presenza praticamente omogenea degli ingegneri gestionali in ogni comparto del tessuto industriale ed economico nazionale sia delle dinamiche che a tale processo hanno dato concretezza. Il confronto fra settore d’impiego iniziale e settore d’impiego al momento dello svolgimento dell’indagine, nonché la distinzione fra il blocco degli anni legati all’introduzione della nuova figura professionale (19851990) e quelli della sua entrata a regime (1991-1994) rendono ancora più esplicita l’ampiezza della gamma degli sbocchi professionali possibili per chi sappia coniugare conoscenze versatili sulla tecnologia e competenze focalizzate sull’azienda, come nel caso dell’ingegnere gestionale. Inoltre, ad ulteriore supporto dell’omogeneità della diffusione degli ingegneri gestionali, il sostanziale equilibrio 19 Come evidenziato anche in precedenza, l’elevata percentuale di ingegneri non occupati nell’industria va attribuita alla scelta della libera professione che, soprattutto nel caso degli ingegneri civili è particolarmente rilevante. 30 fra la distribuzione settoriale degli impieghi iniziali e di quelli relativi al 1997, che caratterizza il campione nel suo complesso, emerge dai dati di tab. 6 come il risultato di dinamiche che connotano i due periodi secondo orientamenti opposti, oltre che quantitativamente significativi. In tal senso, se nel caso delle attività di servizio l’impiego complessivo di ingegneri gestionali — sia esso iniziale o riferito al 1997 — si attesta intorno al 67% — e specularmente al 33% per le attività di servizio — il quadro risulta ben più articolato quando si confrontino i due periodi; se fra il 1985 ed il 1990 l’incidenza dei laureati che hanno iniziato la propria carriera sul totale degli ingegneri gestionali del Politecnico di Milano è superiore al 72%, la quota di quelli che permangono nell’industria nel 1997 scende al 61% — specularmente il processo inverso interessa l’incidenza degli impieghi nell’ambito dei servizi —, nel periodo 1991-1994 l’orientamento si inverte e dal 64%, che pesa gli “inizi” nel comparto industriale, si passa 70% attuale. Se il passaggio alle attività di servizio per gli ingegneri gestionali del primo periodo provenienti dall’industria potrebbe essere interpretato come il tentativo di sfruttare le competenze accumulate dopo la laurea, nel caso inverso il passaggio dai servizi — all’industria per i laureati degli anni novanta può essere assunto ancora una volta come riprova della versatilità della preparazione della nuova figura professionale. La mobilità professionale dell’ingegnere gestionale evidenziata dagli ultimi dati — e l’associata versatilità — può infine essere maggiormente dettagliata considerando l’entità dei trasferimenti intersettoriali e di quelli interfunzionali20. Limitandosi a considerare i laureati con almeno un anno di impiego — dal 1985 al 1993 — tab. 7 evidenzia la propensione dell’ingegnere gestionale a ricoprire ruoli diversi; nel volgere di pochissimi anni il 54% del campione considerato ha trovato impiego in almeno due diversi settori, ed il 19% in almeno tre; analogamente per l’attività all’interno dell’impresa solo il 30% non ha cambiato funzione mentre il 47% ha operato in due funzione e circa il 24% in almeno 3 funzioni. Tab. 7 - Laureati in ingegneria gestionale per numero di settori e di funzioni d'impiego Ingegneri gestionali num. % Settori d'impiego 1 2 >= 3 Totale (a) 138 104 57 299 46,2 34,8 19,1 100,0 Funzioni aziendali d'impiego 1 2 89 140 29,7 46,7 20 Stante l’orientamento all’impresa dell’ingegnere gestionale si sono qui scelti cambiamenti di funzione all’interno dell’impresa e di settore — in quanto, almeno teoricamente, dovrebbero richiedere lo sviluppo od il possesso di un numero maggiore di competenze rispetto al caso di cambiamento di impresa. 31 >= 3 71 23,7 Totale (a) 300 100,0 sono stati considerati i soli laureati fino al 1993 (compreso) Fonte: Banca dati GesTI-Politecnico di Milano. 3.3. Le competenze richieste all’ingegnere gestionale Se in ultima istanza l’assunzione del lasso temporale intercorso fra laurea e prima occupazione può destare qualche perplessità, in quanto indicatore — tuttalpiù — di “attese” del tessuto industriale altrimenti non soddisfatte, l’analisi della congruenza fra quanto esercitato dagli ingegneri gestionali e quanto acquisito nelle aule universitarie si offre come verifica più coerente della rispondenza della nuova figura professionale alle mutate esigenze del tessuto economico. Ancor prima di vagliare la coerenza dei contenuti della laurea in ingegneria gestionale rispetto ai fini ipotizzati, il quesito cui occorre dare risposta concerne la natura dell’indicatore utilizzato, se cioè la categoria dell’“imprescindibilità” della laurea ai fini di quanto svolto dai laureati possa costituire un indicatore significativamente rappresentativo del fenomeno da osservare 21. Se da un lato, come sottolineato in precedenza, anche nel caso del ricorso all’imprescindibilità ogni pretesa di esaustività appare fuori luogo, dall’altro lato tale scelta consente la comparazione con quanto espresso in merito da laureati in discipline economiche ed in altre specializzazioni della laurea in ingegneria. I dati di tab. 8 — oltre a dar implicitamente concretezza a taluni luoghi comuni sulla natura “scientifica” dei contenuti delle diverse lauree — confermano sia l’elevata esigenza di percorsi formativi tramite cui trasferire competenze codificate che accomuna le figure professionali a specializzazione tecnico/scientifica, sia in termini comparativi il maggior rilievo — attribuito alle competenze acquisite attraverso la laurea da parte degli ingegneri gestionali rispetto ai laureati in discipline economiche e, più in generale, alla media dei laureati italiani. Se fra i laureati italiani del 1992 la percentuale di coloro che ritiene non necessaria la laurea è pari al 26% — quota che approssima il 28% per gli economisti d’impresa e ben il 35% per gli economisti in generale —, nel caso degli ingegneri gestionali l’incidenza degli insoddisfatti scende al 18%. Inoltre, anche all’interno del gruppo di lauree in ingegneria — ove la convinzione che si possa prescindere dallo studio formalizzato viene espressa solo dal 14% dei laureati — l’ingegnere non rappresenta il fanalino di coda nel valutare la necessità del sapere impartito nelle aule universitarie essendo evidenziata una maggior disaffezione da parte dei laureati in ingegneria elettronica. La coerenza relativa della “specializzazione” conseguita attraverso lo studio accademico rappresenta infine l’oggetto esplicito di quanto sintetizzato in tab. 9. In questo caso il riferimento ai laureati del 1992 evidenzia come le valutazioni positive sulla coerenza fra laurea e lavoro espresse dagli ingegneri gestionali risultino le più elevate del campione; in particolare, mentre in oltre l’83% dei casi i laureati in ingegneria gestionale riscontrano una relazione positiva fra contenuti del In realtà anche in questo caso l’“indicatore” di coerenza adottato non consente di risolvere ogni ambiguità interpretativa. In particolare l’ipotesi implicita — ovviamente non verificabile con i dati disponibili — è che l’attività professionale svolta dal laureato sia riconducibile al percorso formativo seguito e, quindi, che l’“indispen-sabilità” o meno della laurea non risulti motivata dallo svolgimento di un’altra professione. 21 32 corso di laurea ed attività professionale — per il 35% la coerenza è elevata —, per i laureati in discipline economiche la percentuale dei soddisfatti scende al 75% e si riduce al 70% quando il campione di riferimento è rappresentato dall’in-sieme dei laureati italiani. Tab. 8 - Necessità della laurea per attività svolta dai laureati italiani del 1992 Corso di Laurea Laurea Laurea Totale non necessaria necessaria Laureati in Ingegneria di cui: Laureati in Economia di cui: 86 Ing. Gestionale 81,8 (Politecnico-MI) Ing. elettronici 79 Ing. meccanici 87,1 14 18,2 100 100 21 12,9 100 100 64,9 63,9 35,1 36,1 100 100 27,6 100 Economia e Commercio Economia Aziendale 72,4 Totale Laureati in Italia 73,7 26,3 100 Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano. Tab. 9. Livello di coerenza fra contenuti del tipo di laurea ed attività svolta per i laureati italiani del 1992 Coerenza fra laurea e lavoro Corso di laurea Elevata Abbastanz Scarsa Nulla Totale a Laurea in Ingegneria 31,8 41,4 20,6 6,2 100 di cui Ing. Gestionale (a) 35,4 47,9 12,5 4,2 100 Laurea in Economia 33,6 41,6 17,8 7 100 Totale Università 33,1 37,2 18,1 11,6 100 Sono stati considerati i soli Gestionali laureati nel 1992 Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano. Bibliografia Bozza G., Scuole di Ingegneria, in L’ingegneria nei primi cento anni dell’u-nita d’Italia, Atti del XIII convegno nazionale degli ingegneri italiani, 17-20 giugno, Politecnico di Milano, Milano, 1962. Calcagno G.C., Il nuovo ingegnere (1923-1961), in «La storia d’Italia: le professioni», 1996, Torino, Einaudi. 33 Calisse A., Gli ingegneri nella vita pubblica, in «L’Industria: rivista di economia e politica industriale», vol. XXXVII, 1918. Capocaccia A., Sviluppi futuri prevedibili nelle Scuole di Ingegneria, Atti del XIII convegno nazionale degli ingegneri italiani, 17-20 giugno, Politecnico di Milano, Milano, 1962. Fauri F., Cenni storici sulla formazione degli ingegneri al Politecnico di Milano dal 1863 ai giorni nostri, «Archivi e Imprese», 1998, in corso di pubblicazione. Lacaita C.G., La professione degli ingegneri a Milano dalla fine del '700 alla prima guerra mondiale, in L’evoluzione delle professioni a Milano dalla prima metà dell’800 ad oggi, 1986. Maffioli F., Motolese F. (a cura di), Atti del Convegno su L'Ingegnere per il 2000, Politecnico di Milano, 1984. Stracca G., La formazione degli ingegneri nel Politecnico di Milano: 1914-1963, in A.A., Il Politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963), v. II, «Rivista milanese di economia», serie quaderni n. 17, 1981 Nelle pagine successive Tab. A.1 - Studenti iscritti al 1° anno universitario per anno e corso di laurea (19841994). Fonte: Bollettino mensile di statistica ISTAT. Tab. A.2 - Distribuzione dei laureati italiani per anno e corso di laurea nel periodo 1984-1984. Fonte: Annuario ISTAT. Tab. A.3 - Ripartizione dei laureati del Politecnico per corso di laurea ed anno (1988-1994). Fonte: Politecnico di Milano. Tab. A.4 - Composizione del campione degli ingegneri gestionali per anno e voto di laurea (1985-1994). Fonte: Politecnico di Milano. 34 Tab. A.1 - Studenti iscritti al 1° anno universitario per anno e corso di laurea (19841994) 1983- 1984- 1985- 1986- 1987- 1988- 1989- 1990- 1991- 1992- 199384 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 num. num. num. num. num. num. num. num. num. num. num. Laurea in Ingegneria 21.693 di cui: Ing. Gestionale 442 (Italia) Ing. Gestionale 147 (Politecnico-MI) Laurea in Economia 40.965 di cui: : Economia e 35.873 Commercio Economia 729 Aziendale Totale Lauree in Italia 256.61 1 % Laurea in Ingegneria 8,5 di cui: Ing. Gestionale 0,2 (Italia) Ing. Gestionale 0,1 (Politecnico-MI) Laurea in Economia 16,0 di cui: Economia e 14,0 Commercio Economia 0,3 Aziendale Totale Lauree in Italia 100 21.858 21.202 21.834 24.218 27.433 33.012 38.786 39.646 39.619 42.289 599 685 969 1.084 1.550 1.924 2.166 2.300 2.226 2.256 255 370 633 666 801 963 947 781 691 591 42.307 42.308 43.921 48.515 50.092 54.702 59.803 60.917 58.119 57.329 37.541 37.501 38.450 39.407 40.921 44.512 48.559 47.089 44.867 44.828 915 836 1.064 1.543 1.505 1.834 2.001 3.855 5.126 4.530 253.77 8 % 8,6 243.02 8 % 8,7 246.94 2 % 8,8 260.36 5 % 9,3 279.17 1 % 9,8 299.84 1 % 11,0 322.85 4 % 12,0 341.72 2 % 11,6 361.92 7 % 10,9 373.83 0 % 11,3 0,2 0,3 0,4 0,4 0,6 0,6 0,7 0,7 0,6 0,6 0,1 0,2 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,2 0,2 0,2 16,7 17,4 17,8 18,6 17,9 18,2 18,5 17,8 16,1 15,3 14,8 15,4 15,6 15,1 14,7 14,8 15,0 13,8 12,4 12,0 0,4 0,3 0,4 0,6 0,5 0,6 0,6 1,1 1,4 1,2 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 Tab. A.2 - Distribuzione dei laureati italiani per anno e corso di laurea nel periodo 1984-1984 198485 num. Laurea in Ingegneria 5.616 di cui: Ing. Gestionale 58 (Italia) Ing. Gestionale 2 (Politecnico-MI) Laurea in Economia 6.834 di cui: Economia e 5.139 Commercio Economia 711 Aziendale Totale Lauree in Italia 72.384 % Laurea in Ingegneria 7,8 di cui: Ing. Gestionale 0,1 (Italia) Ing. Gestionale 0,0 (Politecnico-MI) Laurea in Economia 9,4 di cui: Economia e 7,1 Commercio Economia 1,0 Aziendale Totale Lauree in Italia 100 198586 num. 198687 num. 198788 num. 198889 num. 198990 num. 199091 num. 199192 num. 199293 num. 199394 num. 5.901 92 5.791 64 6.107 106 6.944 149 7.252 169 7.507 229 7.747 261 8.031 389 8.756 501 22 21 35 67 89 162 183 283 373 8.141 6.122 8.967 6.821 9.812 7.338 11.612 12.556 13.881 15.260 16.010 16.704 7.338 9.603 10.644 11.670 12.385 12.794 853 986 1.142 1.419 1.579 1.627 1.674 1.499 1.665 75.810 % 7,8 0,1 77.869 % 7,4 0,1 81.266 % 7,5 0,1 87.714 % 7,9 0,2 89.481 % 8,1 0,2 90.657 % 8,3 0,3 90.113 % 8,6 0,3 92.467 % 8,7 0,4 96.278 % 9,1 0,5 0,0 0,0 0,0 0,1 0,1 0,2 0,2 0,3 0,4 10,7 8,1 11,5 8,8 12,1 9,0 13,2 8,4 14,0 10,7 15,3 11,7 16,9 13,0 17,3 13,4 17,3 13,3 1,1 1,3 1,4 1,6 1,8 1,8 1,9 1,6 1,7 100 100 100 100 100 100 100 100 100 Tab. A.3 - Ripartizione dei laureati del Politecnico per corso di laurea ed anno (1988-1994) Laurea in ingegneria Gestionale/Tecnologie industr. Elettronica Civile/Edile/Difesa suolo Meccanica Aeronautica Chimica Elettrotecnica Nucleare TOTALE 1988 num. % 36 3,1 1989 num. % 66 5,6 1990 num. % 91 6,7 Anno solare 1991 1992 1993 1994 num. % num. % num. % num. 162 10,7 185 12,6 284 16,3 375 426 249 227 75 49 41 57 1160 458 226 208 78 49 38 55 1178 571 224 219 104 52 38 53 1352 660 200 211 129 49 43 57 1511 36,7 21,5 19,6 6,5 4,2 3,5 4,9 100 38,9 19,2 17,7 6,6 4,2 3,2 4,7 100 42,2 16,6 16,2 7,7 3,8 2,8 3,9 100 43,7 13,2 14,0 8,5 3,2 2,8 3,8 100 586 195 234 105 59 50 58 1472 39,8 13,2 15,9 7,1 4,0 3,4 3,9 100 717 228 228 130 69 37 51 1744 41,1 13,1 13,1 7,5 4,0 2,1 2,9 100 746 242 238 158 131 59 40 1989 Tab. A.4 - Composizione del campione degli ingegneri gestionali per anno e voto di laurea (1985-1994) Anno Laurea 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 Totale di Universo (num.) 2 22 21 35 67 89 162 183 283 373 1237 Campione (num.) 2 9 10 16 32 45 50 54 85 111 414 Camp/univ (%). 100,0 40,9 47,6 45,7 47,8 50,6 30,9 29,5 30,0 29,8 33,5 Voto Laurea di Universo (num.) 71-75 76-80 81-85 86-90 91-95 96-100 Totale 20 137 349 318 235 174 1213 Campione (num.) Camp/u (%.) 7 36 119 98 88 66 407 35,0 26,3 34,1 30,8 37,4 37,9 33,6 Tab. 1 - Materie economiche, gestionali e giuridiche svolte nei corsi di laurea in ingegneria del Politecnico di Milano dalla fondazione al 1975. Civile Industrial Meccanic Elettrotec e a nica 1863-1945 1946-1975 1863-1945 1946-1975 Economia aziendale e organizzazione Economia generale e corporativa Economia industriale Economia politica Economia politica e industriale Chimica 1953<F>1 1953<F>1 1953<F> 956 970 956 1934<O> 1936 1875<O> 1886 1875<O> 1900 1901<O> 1911 1934<O> 1936 1863<O> 1900 1875<O> 1900 1901<O> 1911 1926<O> 1935 1912<O> 1925 1960<F>1 1961<F> 970 970 Economia politica e industriale 1912<O> e materie giuridiche 1925 Economia rurale 1863<O> 1889 Economia rurale ed estimo 1890<O> 1935 Elementi di diritto amministrativo 1863<O> e giurisprudenza agricola 1876 Elementi di scienza delle finanze 1935<O> 1935<O> e diritto tributario 1936 1936 Estimo 1960<O> 1975 Estimo civile e rurale 1936<O> 1946<O> 1945 1959 Gestione aziendale Istituzioni di economia 1973<F>1 975 Istituzioni di scienze economicosociali 1969<O> 1972 1973<F>1 975 38 1971 1971<O 1972 1973<F> 975 Materie giuridiche Materie giuridiche ed economiche I Materie giuridiche ed economiche II Organizzazione aziendale 1877<O> 1960<O> 1877<O> 1937 19721973 1911 <F>1975 1936<O> 1946<O> 1936<O> 1946<O> 1946<O>1 1945 1955 1945 1955 9551956<F 1956<F>1 >1959 959 1938<O> 1946<O> 1938<O> 1946<O> 1946<O>1 1945 1959 1945 1956 956 1973<F>1 1971<F>1 975 975 Tecnica ed economia dei trasporti 1936<O> 1946<O> 1946<O> 1945 1975 1975 NOTA: il corso di laurea comprende le sezioni: Meccanica, Elettrotecnica (dal 1887) e Chimica (dal 1900) Legenda: <O>indica l’obbligatorietà della materia durante il periodo evidenziato; — <F> indica la natura facoltativa della materia durante il periodo evidenziato. 39 1946<O 1955 1956<F> 959 1946<O 1956 Tab. 1. Tempi di attesa per la prima occupazione per tipo di Laurea dei laureati italiani del 1992. Corso di Laurea Tempo di attesa per la prima occupazione < 1 mese 1-3 mesi 4-12 mesi > 12 mesi Totale Laurea in Ingegneria 19,2 di cui: Ing. gestionale 32,1 (Politecnico-MI) 38,3 32,1 34,5 33,9 8 1,9 100 100 Laurea in Economia di cui: Economia e commercio Economia aziendale 33,2 32 41,6 36,3 35,5 35,6 12,6 14 4,3 100 100 100 17,9 18,5 18,5 Totale Lauree in Italia 19,2 33,1 33,2 14,5 100 Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano. Tab. 2. Tempi di attesa per la prima occupazione per i laureati in ingegneria gestionale del Politecnico di Milano (1985-1994) Laureati nel Tempo di attesa per la prima occupazione periodo < 1 mese 1-3 mesi 4-12 mesi > 12 mesi n.d. Totale 1985-1990 num. 63 % 55,8 38 33,6 11 9,7 0 0,0 1 0,9 113 100 1991-1994 num. 117 % 38,9 101 33,6 78 25,9 3 1,0 2 0,7 301 100 1985-1994 num. 180 139 89 % 43,5 33,6 21,5 Fonte: Banca dati GesTI-Politecnico di Milano. 3 0,7 3 0,7 414 100 Tab. 3 - Distribuzione percentuale dei laureati italiani del 1992 per tipo di laurea e qualifica ricoperta nel 1995. Qualifica Imprenditore, Dirigente Quadro, Impiegato Insegnante, Altro Totale Laurea libero profess. funzionar ricercatore in: io Ingegneria di cui: Ing. gestionale Ing. meccanica Ing. elettronica Ing. chimica Ing. civile 25,4 10,5 13,7 17,4 5,7 57,3 0,9 2,9 1,3 0,1 0,7 2,3 20,9 25,1 24,5 17,9 39,5 18,5 40 43,7 55,7 54,1 54,7 52,3 13,6 6,4 5,8 5,5 7,1 1,8 4,9 2,7 0 0,9 2,8 0 3,4 100 100 100 100 100 100 Laurea in: Qualifica Imprenditore, Dirigente Quadro, Impiegato Insegnante, Altro Totale libero profess. funzionar ricercatore io Ingegneria di cui: Ing. gestionale Ing. meccanica Ing. elettronica Ing. chimica Ing. civile 25,4 10,5 13,7 17,4 5,7 57,3 0,9 2,9 1,3 0,1 0,7 2,3 20,9 25,1 24,5 17,9 39,5 18,5 43,7 55,7 54,1 54,7 52,3 13,6 6,4 5,8 5,5 7,1 1,8 4,9 2,7 0 0,9 2,8 0 3,4 100 100 100 100 100 100 Economia e commercio 36,8 1,7 6,9 48,6 3,2 2,8 100 Economia aziendale 31,2 1,6 8,6 57,6 0,5 0,5 100 Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano. 41 Tab. 5. Distribuzione dei laureati italiani del 1992 per tipo di laurea e settore d'impiego. Settore di impiego Industria Servizi Altro Totale Laurea in Ingegneria 39,4 60,4 0,2 100 di cui: Ing. gestionale (Politecnico-MI) 67,5 32,5 0 100 Laurea in Economia 15,7 83,5 0,8 100 Totale Lauree in Italia 17,3 80,7 2 100 Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano. Tab. 6. Distribuzione dei laureati in d’impiego iniziale ed al 1997. Impiego degli Ing. gestionali 1985-94 Iniziale Attuale num % num % . . ingegneria gestionale (1985-1994) per settore Impiego degli Ing. gestionali 1985-90 Iniziale Attuale num % num % . . Impiego degli Ing. gestionali 1991-94 Iniziale Attuale num % num % . . Servizi 138 Consulenza 68 Credito e 19 assicurazio ni Istruzione e 15 ricerca Informatica 14 Altri 22 33,8 133 32,5 30 16,7 63 15,4 17 4,7 21 5,1 2 27,5 43 15,6 20 1,8 6 39,1 108 36,1 90 18,2 51 17,1 43 5,5 17 5,7 15 30,1 14,4 5,0 3,7 13 3,2 4 3,7 4 3,6 11 3,7 9 3,0 3,4 13 5,4 23 3,2 5 5,6 2 4,6 4 1,8 9 3,6 9 8,2 20 3,0 9 6,7 14 3,0 4,7 Industria 270 Elettronica, 34 Telecom. Imp. e 41 macch. meccanici Elettro26 meccanica Veicoli e 19 componenti Chimica 16 Alimentare 12 Energetica 16 Tessile e 13 abbigliamen to 66,2 276 67,5 79 8,3 30 7,3 16 72,5 67 14,7 11 60,9 191 63,9 209 69,9 10,0 18 6,0 19 6,4 10,0 39 9,5 8 7,3 8 7,3 33 11,0 31 10,4 6,4 22 5,4 7 6,4 1 0,9 19 6,4 21 7,0 4,7 24 5,9 7 6,4 6 5,5 12 4,0 18 6,0 3,9 2,9 3,9 3,2 4,6 3,7 4,6 4,6 8,3 1,8 6,4 3,7 7,3 3,6 5,5 4,5 2,3 3,3 3,0 3,0 3,7 3,7 4,3 4,7 19 15 19 19 9 2 7 4 42 8 4 6 5 7 10 9 9 11 11 13 14 Altro Totale Fonte: 93 22,8 89 21,8 19 17,4 18 16,4 74 24,7 71 23,7 408 100 409 100 109 100 110 100 299 100 299 100 Banca dati GesTI-Politecnico di Milano. 43 Tab. 1. Materie economiche, gestionali e giuridiche svolte nei corsi di laurea in ingegneria del Politecnico di Milano dalla fondazione al 1975. Civile Industrial Meccanic e a 1863-1945 1946-1975 1863-1945 1946-1975 Economia aziendale e organizzazione Economia generale e corporativa 1934<O> 1936 Economia industriale 1875<O> 1886 Economia politica 1875<O> 1900 Economia politica e industriale 1901<O> 1911 1953<F>1 956 1934<O> 1936 1863<O> 1900 1875<O> 1900 1901<O> 1911 1926<O> 1935 1912<O> 1925 Economia politica e industriale 1912<O> e materie giuridiche 1925 Economia rurale 1863<O> 1889 Economia rurale ed estimo 1890<O> 1935 Elementi di diritto amministrativo 1863<O> e giurisprudenza agricola 1876 Elementi di scienza delle finanze 1935<O> 1935<O> e diritto tributario 1936 1936 Estimo 1960<O> 1975 Estimo civile e rurale 1936<O> 1946<O> 1945 1959 Gestione aziendale Istituzioni di economia 1973<F>1 975 Istituzioni di scienze economico1969<O> sociali 1972 1973<F>1 975 Materie giuridiche 1877<O> 1960<O> 1937 19721973 <F>1975 Materie giuridiche ed economiche I 1936<O> 1946<O> 1945 1955 1877<O> 1911 1936<O> 1946<O> 1945 1955 1956<F>1 959 Materie giuridiche ed economiche II 1938<O> 1946<O> 1938<O> 1946<O> 1945 1959 1945 1956 Organizzazione aziendale 1973<F>1 975 Tecnica ed economia dei trasporti 1936<O> 1946<O> 1946<O> 1945 1975 1975 NOTA: il corso di laurea comprende le sezioni: Meccanica, Elettrotecnica (dal 1887) e Chimica (dal 1900) Legenda: <O>indica l’obbligatorietà della materia durante il periodo evidenziato; — <F> indica la natura facoltativa della materia durante il periodo evidenziato. 45 Elettrotec Chimica nica Aeronauti Elettronic Nucleare ca a 1956-1975 . 1953<F>1 1953<F>1 1953<F>1 1956<F>1 1961<F>1 Econ. e org. az 970 956 960 961 970 1962<O> 1967 Econ. gen. e corp. Econ. ind. Econ. pol. 1960<F>1 1961<F>1 1960 1960<F>1 1961<F>1 Econ. pol. 970 970 967 967 e ind. Econ. pol. e ind. e mat. giur. Econ. rurale Econ. rurale ed estimo El. diritto amm.vo e giur. agr. El. scienza fin. e dir. trib. Estimo Estimo civ. e rur. 1971<F>1 Gestione 972 aziendale 1973<O> 1975 1971 1971<O> 1971<F>1 Ist. di econ. 1972 972 1973<F>1 1973<O> 975 1975 Ist. di scienze econ.-soc. Materie giur. 1946<O>1 1946<O> 1956<F>1 1956<F>1 1958<O> Materie giur. 9551956<F 1955 959 959 1959 ed econ. I >1959 1956<F>1 959 1946<O>1 1946<O> 1956<F>1 1956 Materie giur. 956 1956 960 ed econ. II 1971<F>1 1971<F>1 1971<O> Org. azien. 975 972 1975 46 1950<F>1 959 1973<O> 1975 47 1956<F>1 Tecn. ed 959 trasporti econ. Alle origini dell’ingegneria gestionale in Italia. Francesco Mauro e il Politecnico di Milano: dal taylorismo ai sistemi complessi Giuliana Gemelli Dipartimento di Discipline Storiche, Università di Bologna Introduzione L’interesse degli storici dell'impresa per i percorsi biografici non solo individuali — nella ricostruzione dei profili di imprenditori — ma anche istituzionali — in chiave di monografie aziendali — non poteva certo trascurare la figura di Francesco Mauro. Come ben illustra una serie di studi, dal classico lavoro di Sapelli sulle origini dell’ENIOS, fino al recente saggio di Paolo Viani 22, che ha ricostruito puntualmente il tracciato biografico di Mauro, dai primi viaggi di istruzione all’estero, subito dopo la laurea conseguita al Politecnico di Milano nel 1909, alle ultime fasi della sua vita, culminate nel secondo dopoguerra con l’esperienza di organizzazione innovativa alla Breda, la centralità di questa figura di intellettualemanager è, innanzitutto, il prodotto della complessità del suo ruolo di innovatore. Mauro ha svolto infatti una funzione di primo piano nelle strategie di modernizzazione della gestione, non solo nei processi organizzativi inerenti l’impresa, ma anche nell’ambito della formazione dei dirigenti, con la creazione, nel 1934, del Corso per Dirigenti d’Azienda presso il Politecnico di Milano, denominato Scuola superiore di politica ed organizzazione delle imprese. Tecnico della produzione e dell’organiz-zazione Mauro è stato, dunque, anche un attore di primo piano della cultura organizzativa, con tutte le ambivalenze di “prospettiva” che tale posizione comporta nel contesto italiano del periodo tra le due guerre e che questo saggio cercherà di focalizzare, soprattutto dal punto di vista della storia delle istituzioni. Giulio Sapelli ha dato apporti importanti alla concettualizzazione di tale ambivalenza, tematizzando la compresenza, nelle configurazioni organizzative * I debiti di riconoscenza che ho accumulato nelle diverse fasi di redazione di questo lavoro sono molteplici. Ringrazio innanzitutto il professor Charles Wrege che mi ha generosamente aiutato a colmare i vuoti di una documentazione spesso lacunosa, per quel che riguarda la storia dell'IMI di Ginevra, ringrazio inoltre i professori Emanuele Biondi, Sergio Cavallone e Giancarlo Cainarca che hanno letto le prime versioni del manoscritto e mi hanno dato preziosi consigli, e gli archivisti del BIT di Ginevra, del Twentieth Century Fund di New York City e del Politecnico di Milano per la loro preziosa collaborazione. 22 G. SAPELLI, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale nell'ltalia tra le due guerre, Torino, I978 e P. VIANI , Progettare l'impresa: Francesco Mauro e il dibattito europeo tra le due guerre, in D. BIGAZZI, Storie di imprenditori, Bologna, l996, pp. 235-293; e inoltre: II Politecnico di Milano nella storia italiana (I914-1963), Milano-Bari, 1988, in particolare il saggio di C. LACAITA, I tecnici milanesi dal moderatismo al fascismo: il caso Fantoli. 48 inerenti la cultura d’impresa, di diverse matrici: il “paternalismo organicistico”, la “costituzionalità scientifica”, la “teoria della direzione e dell’impresa” 23. I1 saggio di Viani, che dichiara di prendere spunto dalla problematica di Sapelli, focalizza soprattutto un aspetto del percorso di Mauro, quello dell’organizzatore nell’impresa e per l’impresa. L’attenzione è rivolta alla pionieristica esperienza di frigotecnica, con la creazione della stazione sperimentale del freddo, nel primo dopoguerra, in cui le competenze di Mauro come tecnico della produzione cominciarono ad articolarsi con altre funzioni. Innanzitutto col suo ruolo di scienziato dell’or-ganizzazione e di progettista industriale, molto apprezzato nel contesto internazionale e in particolare in Francia, dove, peraltro, aveva completato la sua formazione conseguendo il dottorato. In secondo luogo con quello di imprenditore nella formazione dei quadri tecnici, con la creazione di una scuola professionale serale. Viani individua il momento culminante di questo percorso nel secondo dopoguerra quando Mauro fu l’artefice della riconversione organizzativa della Breda e rileva con convinzione la linearità di un tracciato che egli considera quello di un innovatore a tutto campo. Il mio contributo è piuttosto un tentativo di mettere in luce le ambivalenze di questo percorso eccezionale attraverso il confronto di intrecci significativi, all’incrocio tra itinerario biografico e percorsi istituzionali e centrando l’attenzione sul ruolo di Mauro come imprenditore culturale e politico. Riprendendo alcuni fili del dibattito sullo scientific management, con l’ausilio di materiale documentario raccolto non solo presso gli archivi del Politecnico di Milano ma anche negli Stati Uniti e presso il BIT di Ginevra, l’intento è di fare emergere aspetti forse ancora poco noti della scatola nera del dibattito taylorista, nel passaggio cruciale dagli anni venti agli anni trenta. In secondo luogo l’intento è di evidenziare la continuità del ruolo “simbolico” svolto da Mauro nel passaggio tra differenti fasi di evoluzione istituzionale del Politecnico di Milano, culminate nella seconda metà degli anni settanta con il rapido sviluppo della formazione continua e infine, tra i tardi anni settanta e i primi anni ottanta, con l’avvio della formazione in ingegneria gestionale. Pioniere dell’integrazione tra la cultura generale del tecnico e diversificazione degli itinerari formativi, il percorso di Mauro ha agito da capitale simbolico (oltre che, come vedremo, materiale) nella costruzione delle strategie di innovazione istituzionale promosse, dopo la sua scomparsa, nell’ambito del Politecnico di Milano. Nel lungo periodo queste hanno potenziato il ruolo competitivo degli ingegneri nei confronti di altre strategie di formazione dei dirigenti d’azienda (Scuole di commercio, Business Schools, Facoltà di economia e commercio) culminando, come si è detto, nel processo di istituzionalizzazione del corso di Laurea in Ingegneria Gestionale. Per quanto riguarda il primo degli obiettivi sopra indicati questo lavoro prende le mosse dall’effetto rivelatore che i percorsi di una biografia istituzionale, nel nostro caso l’International Management Institute di Ginevra, sono in grado di produrre nella focalizzazione di alcuni aspetti di un tracciato biografico individuale “esemplare”, rispetto alle tematiche qui affrontate, e di cui viene ripercorsa soprattutto una “congiuntura” ritenuta significativa, e cioè il periodo tra la metà degli anni venti e i tardi anni trenta. G. SAPELLI, Gli 'organizzatori della produzione' tra struttura dimpresa e modelli culturali, in Storia d'Italia, Annali 4, lntellettuali e potere, Torino, 1981, pp. 615 sgg. 23 49 Un intreccio rivelatore: le reti intellettuali e organizzative dell’Inter-national Management Institute Sulla scia di “testimonianze eccellenti”, gli storici dell’impresa hanno dato risalto soprattutto al ruolo dell’ingegnere milanese come “apostolo del progresso”. Particolarmente significativa è ritenuta la testimonianza di Lyndall Urwick, che fu a fianco di Mauro in numerose vicende e percorsi istituzionali legati al dibattito taylorista tra le due guerre e che lo inserì, unico tra gli italiani, nel suo “libro d’oro del management”, pubblicato nei tardi anni cinquanta 24. Viani sottolinea in particolare “l’armoniosa espansione” del ruolo di Mauro come protagonista del dibattito sullo scientific management. Nel volgere di un anno, tra il 1926 e il 1927, egli si trovò infatti a presiedere i due più importanti organismi internazionali in cui si dibattevano i problemi della razionalizzazione, il Comitato Internazionale di Organizzazione Scientifica del Lavoro, con sede a Bruxelles e l’International Management Institute, con sede a Ginevra, presso il BIT. Tra le due istituzioni — rileva Viani, attenendosi alle fonti ufficiali — “non vi era alcuna sovrapposizione di ruoli, piuttosto una vantaggiosa divisione del lavoro” 25. Ben diversa è la visione delle cose che emerge dall’analisi dei documenti e delle corrispondenze tra i diversi attori che animarono l’isti-tuzione ginevrina, così come in diversa luce appaiono anche i rapporti e le strategie operative dei grandi protagonisti della sua breve vicenda istituzionale, Mauro e Urwick. Si tratta di eventi non puramente episodici, che rivelano aspetti cruciali della “scatola nera” del dibattito taylorista, prima e dopo l’impatto con la crisi degli anni trenta. Questa provoca infatti una netta riconversione non solo dei contenuti e delle implicazioni sociali e culturali del dibattito, ma anche dei suoi effetti strategici, rispetto all’embrionale formazione di un’élite internazionale di tecnici della competenza, in grado di promuovere strategie di più ampio respiro della semplice applicazione dei metodi di Taylor nell’impresa. Tale formazione sociale fu il prodotto della cooperazione di diversi gruppi sociali, la cui eterogeneità è un tratto caratteristico di molte istituzioni internazionali del periodo tra le due guerre e in particolare dell’IMI, fondato nel 1927, col sostegno organizzativo e finanziario di un grande organizzatore delle vendite e mecenate americano, Edward Filene, fondatore degli omonimi grandi magazzini di Boston e presidente del 20th Century Fund 26 e con l’apporto della fondazione Rockefeller. È dunque necessario entrare nel vivo di questa vicenda istituzionale e studiare più da vicino le posizioni dei singoli attori e soprattutto le variazioni del loro atteggiamento nel passaggio significativo della crisi degli anni Trenta. Edward Filene è uno dei rappresentanti di spicco di una visione della modernità centrata sul modello cooperativo e inerente non solo le istituzioni sociali ed economiche ma anche l’individuazione di nuovi modelli di cooperazione tra le scienze che andò affermandosi nel corso degli anni Venti e in particolare nel 24 L.F. URWICK, The Golden Book of Management. A Historical Record of the Life and Work of Seventy Pioneers, London, 1956. 25 P. VIANI , Op. cit., p. 249. 26 Si v. al proposito, M. J ACOBS, From Bargaining Basement to Bargaining Table: Edward Filene and the Twentieth Century Fund, Comunicazione presentata al convegno Philanthropy in History, 25 Settembre 1997, Indiana University. 50 periodo dello “stato associativo” di Herbert Hoover 27. Tale visione fu sostenuta anche da alcune importanti istituzioni come l’International Chamber of Commerce, alle cui reti organizzative e di produzione scientifica e documentaria collaborò intensamente anche Filene e che assunse, fin dai suoi esordi, il problema del mantenimento e dello sviluppo dell’interscambio internazionale come oggetto della propria strategia politica. Questa non era centrata solo sull’organizzazione degli interessi economici su scala sovranazionale, ma anche sulla definizione di strategie culturali e di movimenti di opinione che dovevano agire da tessuto di collegamento delle élite del capitalismo internazionale, attente non solo alla logica dei profitti ma anche a quella dell’espansione del mercato attraverso la produzione di massa e la conseguente estensione dei livelli di consumo. Intorno alla metà degli anni Venti l’ICC elaborò un rapporto dettagliato sullo stato della distribuzione in Europa e in America che partiva da un assunto basilare e che segnò il passaggio epocale dal selling al marketing: La distribuzione — si sottolineava nel rapporto — è responsabile della creazione della domanda effettiva e dei beni che devono essere prodotti. Tale assunto fu particolarmente denso di conseguenze strategiche nell’applicazione su larga scala dello scientific management, spostandone il fulcro dalla produzione al consumo e accrescendo rapidamente il ruolo economico dei department stores (di cui — lo si ricordi — Filene fu uno dei “progettisti” più noti). Ne derivò la consapevolezza della necessità di costruire articolazioni teoriche e strategiche tra fattori produttivi e consumo, nonché tra una visione dello sviluppo delle forze produttive, che si delineava in una dimensione sovranazionale, e l’andamento del commercio tendente a restringere sempre più le relazioni internazionali delle singole economie, soprattutto in Europa, negli anni che seguirono l’impatto con la crisi. La creazione dell’International Management Institute presenta molti punti in comune con gli orientamenti dell’International Chamber of Commerce, in particolare nell’intreccio tra riconcettualizzazione del mercato, in relazione al fattore distributivo e sviluppo di una strategia di integrazione del mercato americano e di quello europeo. L’ispiratore dell’incontro istituzionale tra il BIT e il 20th Century Fund di Filene fu Paul Devinat, membro del consiglio di amministrazione del BIT e stretto collaboratore di A. Thomas, il quale realizzò una dettagliata inchiesta sull’organizzazione scientifica del lavoro in Europa, i cui risultati furono pubblicati nel 1927, a cura del BIT 28. Se Devinat fu l’ispiratore dell’Isti-tuto ginevrino di cui nelle primissime fasi di attività fu anche direttore, Filene fu l’animatore e l’organizzatore della sua rete sociale e istituzionale, cui fecero capo esperti, americani ed europei, provenienti dai diversi settori del mondo industriale e in rappresentanza delle principali istituzioni che sostenevano l’attività dell’IMI: imprenditori, come lo svizzero Tzaut e il belga Landaurer, l’inglese Renold e gli americani Dennison, Owen D. Young e Kendall; consulenti, come l’inglese L. Urwick e l’ame-ricano Wallace Clarck; rappresentanti delle organizzazioni sindacali come J. Dubreuil e L. Jouhaux per la CGT francese e W. Green e M. Woll, sul 27 Si v. al proposito G. GEMELLI, Le élites della competenza Scienziati sociali, istituzioni e cultura della democrazia industriale in Francia (1880-1945), Bologna, 1997. 28 P. DEVINAT, L'organisation scientifique du travail en Europe, Ginevra, 1927. 51 versante statunitense; esponenti degli organismi nazionali per l’orga-nizzazione scientifica, come Mauro per l’ENIOS, Ch. de Fremeville per la CEGOS francese e Kamo dell’Istituto giapponese, Limperg dell’Istituto olandese e Drzewiecki per la Polonia. Nel Board of Governors figuravano inoltre altre personalità, più politicamente orientate, come Gino Olivetti, segretario generale della Confederazione Nazionale Fascista degli Industriali 29, entrato a far parte del Consiglio di aministrazione del BIT. L’assunto di partenza nel costituirsi della rete della nuova istituzione era che tutti i suoi membri condividessero la prospettiva di un’ingegneria sociale basata sulle recenti articolazioni del dibattito taylorista. Il quadro era invece, inevitabilmente, più complesso. Ad una omogeneità di posizioni e di esperienze derivate dal fatto che la maggior parte di questi intellettuali-esperti aveva una conoscenza diretta del contesto americano, faceva riscontro una disomogeneità di culture sociali, imprenditoriali e organizzative, che gli effetti omologanti della problematica taylorista non potevano che parzialmente ridurre o modificare. Il viaggio di ricognizione nella modernità statunitense rappresenta indubbiamente un fenomeno ricorrente nelle biografie degli ingegneri europei negli anni Venti. Mauro non è affatto un’eccezione da questo punto di vista. È anzi uno dei rappresentanti più autorevoli della crescita della funzione culturale e politica del “punto di vista dell’ingegnere”. Ed è senz’altro un rappresentante tra i più accreditati sulla scena internazionale, non solo in Europa e negli Stati Uniti, dove si recò diverse volte tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta, traendone spunto per una serie di pubblicazioni di notevole interesse, ma anche in Giappone, dove svolse una missione ufficiale nel 1929, e persino in Unione Sovietica, dove ebbe l’opportunità di recarsi, seguendo quel percorso di “bipolarismo dello sguardo” sulle forme della modernità che fu proprio di altri organizzatori del periodo tra le due guerre. Si pensi in particolare ad Ernest Mercier che ne trasse spunto per un resoconto che suscitò un interessante dibattito in Francia, anche al di fuori del milieu dei tecnici dell’impresa 30. Il prestigio della figura di Mauro ne faceva indubbiamente il candidato ideale alla presidenza dell’Istituto ginevrino. Tanto più che il suo statuto prevedeva una composizione del Consiglio di amministrazione basata sulla rappresentanza di tre istituzioni: l’organismo che ospitava e forniva parte dei finanziamenti (e cioè il BIT), l’organizzazione che garantiva la quota maggiore di sostegno finanziario e che costituiva il fulcro organizzatore delle reti sociali e operative dell’IMI (e cioè il Twentieth Century Fund) americano e infine il CIOS, che doveva costituire la cinghia di collegamento, di trasmissione e di diffusione delle informazioni inerenti l’attività dell’istituto ginevrino nei diversi contesti nazionali. Sin dal 1928, alla direzione dell’Istituto in sostituzione di Devinat — sul quale la Fondazione Rockefeller, in procinto di intervenire nel finanziamento dell’IMI, nutriva qualche riserva — venne nominato Lyndall Urwick, personaggio di spicco nelle strategie di organizzazione dell’impresa e della cultura d’impresa britannica. Il ruolo di Urwick fu sin dall’inizio decisivo nell’aprire un nuovo fronte che avrebbe potuto potenziare l’espansione dell’istituto convergendo 29 Archivi dell'ILO, Ginevra, Fondo IMI HF 6301, I65 V.1-2 e N401/2/2/0l Procès verbale la réunion constitutive du Conseil de Direction. 30 R. K UISEL, Ernest Mercier. French Technocrat, Berkeley, 1967. 52 nella direzione del “taylorismo sociale”, auspicata da Filene e da altri esponenti dell’istituto ginevrino. 53 Nella scatola nera del taylorismo: pionieri del general management e “traduttori” continentali Le riserve nei confronti di Devinat da parte della Fondazione Rockefeller, che accoglieva il parere espresso dal fondatore di una delle più importanti società di consulenza americane, Arthur Young, riguardavano soprattutto il pericolo che Devinat trasformasse l’IMI in una sua “creatura”, piuttosto che in una rete di esperti accomunati dal committment istituzionale 31. La scelta di Urwick conveniva perfettamente anche ad un altro dei consulenti della Rockefeller Foundation, Joseph Willits, docente di relazioni industriali presso una delle più antiche e prestigiose scuole di management americane, la Warthon School di Philadelphia. A partire dalla metà degli anni venti col supporto finanziario e organizzativo del Laura Spellman Rockefeller Memorial e con l’appoggio di alcuni industriali, tra i quali lo stesso Henry Dennison, nominato vice-chairman dell’IMI, Willits aveva avviato un programma di ridefinizione dei modelli formativi nella management education, che lo portò ad esercitare un ruolo di prestigio come consigliere del dean di Harvard, W. Donham. Dalla metà degli anni venti questi aveva avviato un processo di rifondazione della sua scuola, centrato sulla ricerca e sulla definizione di metodologie appropriate di formazione, in particolare sul metodo dei casi valendosi della collaborazione di un eminente filosofo inglese che egli aveva chiamato ad insegnare ad Harvard, North Withehead. Professor Whitehead — sottolineava Doham in un memorandum a John D. Rockefeller del 24 febbraio 1927 — considers the problem of arousing the business community to their social responsabilities and developping an adequate intellectual background which will enable business leaders to assume their social responsability wisely among the most critical problems of civilization 32. L’azione di Willits e di Donham trovò punti di convergenza nella pressione esercitata, da Leon C. Marshall, del Dipartimento di economia dell’Università di Chicago, il quale sviluppò, col sostegno del LSRM, un articolato progetto di potenziamento della “Collegiate Education for Business”. Tale progetto muoveva significativamente da un’accurata ricognizione di quanto sembrava caratterizzare il contesto europeo, dove secondo l’ottimistica visione di Marshall si andava delineando a similar movement — although not so extensive. Belief in its permanence and importance is strengthened by a survey of the economic development of this and other coutries of western civilisation 33. 31 ROCKEFELLER ARCHIVE CENTER (RAC), Pocantico Hill, Northtarrytown, USA, Lettera di A. Young a B. Ruml, direttore del programma per le scienze della Rockefeller Foundation, del 16 dicembre 1926 e Memoradum 27 marzo 1929 Collection Industrial Relations RG 2F Series: IMI Box 13, Folder 100. Si v. anche la lettera di H. Dennison, a B. Ruml, del 28 maggio 1928: “Devinat was the organiser but is very obviously not an executiv. On account of his key position in the thing at the beginning, it has been necessary in making the re-organiztion, to use our financial power”. 32 RAC, Laura Spellman Rockefeller Memorial, RG III Box 53 Folder 572. 33 L. C. MARSHALL, Collegiate education for business, p. 5, RAC, LSRM, series III Box 62 folder 671. 54 I riformatori americani partivano da un assunto fondamentale, che avrebbe preso corpo in forma teorica e applicata negli anni successivi grazie alle ricerche di Elton Mayo, trasferitosi, proprio su suggerimento di Willits, e grazie a un finanziamento della Rockefeller Foundation da Warthon ad Harvard. Il ruolo di Mayo, che si era laureato in medicina in Inghilterra e che aveva una profonda conoscenza del pensiero sperimentale europeo, soprattutto nel campo della psicologia e della psicopatologia (egli fu, tra l’altro, il divulgatore dell’opera di Pierre Janet nel contesto anglosassone) fu decisivo nel delineare i presupposti per lo sviluppo dei behavioristic studies. Ciò avvenne non solo attraverso l’accelerato sviluppo dei famosi esperimenti di laboratorio, i cui risultati furono pubblicati nel 1939 e che furono alla base del movimento delle human relations, ma anche grazie all’intensificazione dei contatti con gli studiosi di scienze sociali europei, che arricchirono il retroterra problematico e concettuale in cui in seguito gli esperimenti presero corpo. Nel 1928 Mayo ebbe l’opportunità di compiere un lungo soggiorno a Londra, presso la London School of Economics, dove incontrò non solo i più eminenti scienziati sociali e antropologi inglesi come Malinowski, Frazer e Pitt-Rivers e gli studiosi del National Institute of Industrial Psychology, Myers, Miles e dell’IndustriaI Fatigue Research Board, ma fece la conoscenza di Marcel Mauss. L’antropologo francese impressionò enormemente Mayo per la sua concezione del “fatto sociale totale”, per gli effetti che il suo approccio andava producendo in settori disciplinari limitrofi e per l’affinità di tale prospettiva con quella che egli stesso andava sviluppando insieme ad Hendeerson. It is interesting to me — scriveva Mayo in un memorandum inviato a Doham da Londra, in cui citava estesamente Mauss — that Malinowski, the economists, the French sociologists, are equally, with Dr. Henderson and myself, finding ”total situation” necessary as an approach to the study of human problems 34. Quello stesso anno Donham fu invitato da Lord Beveridge a tenere una conferenza sui nuovi metodi di insegnamento della business administration, e il giovane vice dean Georges F. Doriot prese contatti in Francia per attivare strategie di formazione in questa direzione. Significativamente in entrambi i casi le istituzioni accademiche, la London School of Economics in Inghilterra e l’Ecole Libre de Sciences Politiques in Francia, avevano espresso posizioni alquanto riservate rispetto all’avvio di nuovi corsi di formazione ispirati alla business administration. Più interessati si erano invece mostrati gli istituti di ricerca e le istituzioni economiche, legate agli ambienti industriali, come il National Institute of Industrial Psychology di Londra e la Chambre de Commerce et de l’Industrie di Parigi. Pur attraverso reti politicoistituzionali molto diverse e in un clima che era già decisamente quello degli anni Trenta, una situazione analoga si delineò anche in Italia, alle origini della creazione del corso Mauro, su cui ci soffermeremo dettagliatamente in seguito. Ciò su cui mi vorrei soffermare ora è la genealogia del general management e l’opera svolta dai pionieri della sua disseminazione in Europa. Questi ultimi trovarono un apporto fondamentale non solo nel lavoro teorico di articolazione del dibattito interdisciplinare, ma anche nella reinterpretazione del taylorismo in chiave di total 34 E. MAYO, letter to W.B. Donham, Settembre 1928, RAC, LSRM, Box 53, Folder 572, Mayo. 55 situation, come abbiamo visto nel caso di Mayo, che coniò questa espressione. Nel 1929, intervenendo al IV congresso internazionale della CIOS, il brillante dean della scuola di Stanford, Willard E. Hotchkiss, enunciava chiaramente le matrici di questo orientamento. Until recently analysis of business along the lines laid down by Taylor has focused attention on the equipement, the organisation technique and the training of personnel required to turn out a factory product efficiently is of significance only to the extent that the product can be advantageously marketed (...) Marketing difficulties emphasized the need of bridging distribution data with the scope of accurate scientific analysis (...) But scientific study of distribution soon makes it clear that the effort to analyze either distribution or production and to organize them scientifically is likely to be relatively sterile unless the two are tied together and incorporated into an organic unity of purpose in the particular business. The focal points in management teaching must finally converge on the policies of general management 35. Significativamente il ruolo di Urwick, che era un elemento di punta tra gli intellettuali del management britannico fautori di tale approccio, fu quello di stimolare un allargamento dell’affiliazione all’IMI a tutti gli studenti di business administration che favorisse il consolidamento di una comunità di studiosi, in grado di operare in collaborazione con la business community, per una professionalizzazione del management in grado di far convergere “the engineering mind, the social mind and the international mind” 36. Questa filosofia di un taylorismo ritrascritto nel contesto del general management e orientato all’integrazione tra scienze sociali ed engineering e al potenziamento dello studio scientifico delle relazioni industriali, sostenuto da attivissimi interpreti del social planning, come la sociologa Mary Van Kleek, trovò in Mauro e in alcuni membri dell’IMI (in particolare nei rappresentanti del CIOS presso l’Istituto ginevrino) un tipo di sostegno piuttosto ambivalente. Si confronti ad esempio il testo della relazione presentata da Mauro a Tokyo nel 1929, che riprende, in parte, le tematiche enunciate dalla Van Kleeck e da Hotchkiss, richiamando le fondamentali linee programmatiche dell’IMI (maggiore interazione tra studiosi e business community, espansione di un mercato europeo integrato, standardizzazione della produzione) col rapporto ufficiale sulla sua missione inviato a “S.E. il Ministro dell’Educazione Nazionale”37. In esso il tema dell’internazionalismo e delle relazioni industriali è completamente trascurato e il focus è piuttosto rivolto all’analisi della politica di potenza nazionale del Giappone e alle “lezioni” che l’Italia potrebbe trarne. Osserviamo inoltre il sostanziale travisamento, nel contesto italiano, delle problematiche sollevate dai social planners e dai teorici del general management americani. Costoro sottolineavano il passaggio da un modello di direzione centrato sulla funzione del “big boss” ad una direzione basata piuttosto W. E. HOTCHKISS, Education for management in American Universities, in IV Congrès international de l'Organisation scientifique du travail, Paris, 1929, pp. 3-7. 36 L. URWICK, Memorandum to Edward A.Filene, 18 luglio 1932, N.Y.C. Twentieth Century Fund Archive, Collection: IMI 1932. 37 POLITENICO DI MILANO, Fascicolo personale Francesco Mauro. 35 56 sul coordinamento di diverse funzioni, in cui la leadership non era tanto emanazione del ruolo e della personalità di un capo, quanto dell’efficace esplicitarsi di quel coordinamento. Mauro considerava invece che ciò che si stava affermando nel contesto internazionale era l’ideale saint-simoniano, che comportava per l’ingegnere, identificato come “il nuovo capo”, il passaggio dall’amministrazione delle cose all’ingegneria degli uomini. Nella sue ampie riflessioni sul molo del capo mancava di fatto ogni concettualizzazione della leadership nel senso sopra indicato. Il capo sta nell’azienda — scrive l’ingegnere milanese — come nell’ordine naturale il capo sta sopra ed innanzi le altre membra del corpo umano e raccoglie dentro di sé le superiori facoltà che accentuano, graduano, ordinano azioni e reazioni 38. Sul piano del dibattito taylorista, la posizione dell’ingegnere milanese era egualmente caratterizzata da un focus divergente rispetto all’approc-cio dei “tayloristi sociali”. Egli individuava le spinte innovative create da questo orientamento, rispetto alla prima fase di sviluppo del taylorismo, tutta centrata sullo studio dei fattori “tecnici di esercizio”, nella sempre maggiore importanza accordata ai problemi che riguardano la progettazione degli impianti e il loro equipaggiamento (...) la determinazione dei costi (...) il controllo dei bilanci. Insomma se, anche per Mauro, il focus si spostava dai problemi della razionalizzazione a quelli dell’organizzazione delle produzione, l’accento nondimeno restava su quest’ultima, piuttosto che sull’organizzazione del coordinamento tra fattori produttivi e fattori distributivi. Ciò avveniva sulla base della constatazione dell’indisponibilità della maggior parte degli imprenditori europei ad accettare il radicale mutamento di mentalità che imponeva lo spostamento del focus sulla distribuzione e che inevitabilmente comportava la richiesta di tariffe doganali, di interventi statali, di preferenze al prodotto nazionale. In Italia, egli rappresentava autorevolmente il punto di vista di un gruppo, certo non minoritario, di “tecnici”, la cui posizione strategica, come rivelano recenti lavori statistici effettuati da Vera Zamagni e Renato Giannetti, a livello dei consigli di amministrazione delle joint stock companies italiane, era cresciuta notevolmente tra gli anni dieci e la seconda metà degli anni trenta e che era sostanzialmente lontano, anche prima dell’impatto con la crisi, dalla visione che aveva ispirato la concettualizzazione del general management nel contesto del social planning statunitense. Questo aspetto andò coniugandosi, tuttavia, tra la metà degli anni venti e la crisi del ‘29, con un rilevante movimento di pressione per lo sviluppo dell’industrial engineering a livello delle Facoltà di Ingegneria e dei Politecnici, soprattutto grazie all’azione di alcune figure che agivano da ponte tra il mondo dell’impresa e quello dell’Università. Tra questi, Giacomo Acerbo, il quale nel 1926 avviò un corso post-lauream presso la scuola di ingegneria di Roma, e Ugo Gobbato, che nel 1928 creò un corso analogo presso il Politecnico di Torino. Questo movimento di pressione ebbe un punto focale (seppure transitorio) nella promulgazione del R. D. del 7 ottobre 1926, poi abrogato nel 1928, che prevedeva 38 F. MAURO, Il capo nell'azienda industriale, Milano, 1941, p. 12. 57 l’istituzione di un diploma post-lauream per ingegneri e il cui piano di studi comportava l’integrazione delle materie scientifico-tecniche con quelle giuridicoeconomiche. Va inoltre rilevato che le pressioni nella direzione di un ampliamento della formazione degli ingegneri nell’ambito delle competenze legate all’industria continuarono in vari ambiti istituzionali anche nel corso degli anni trenta e in particolare nei primi anni del secondo conflitto mondiale, quando questo orientamento assunse una funzione strategicamente rilevante, soprattutto nel periodo dell’autarchia. Come vedremo anche analizzando le prime fasi del “corso Mauro”, queste iniziative maturarono prevalentemente nel quadro del “paternalismo organicistico”, né d’altro canto si creò quel fronte di convergenze tra industriali e universitari per il potenziamento delle strategie di formazione dei quadri dirigenti dell’impresa e della pubblica amministrazione, che caratterizzò gli sviluppi del general management negli Stati Uniti e che si delineò, pur tra resistenze e ambivalenze, anche in Francia e in Inghilterra. Tempi e politiche della crisi: Francesco Mauro e il doppio volto della modernità Gli orientamenti sopra descritti trovarono un catalizzatore nella congiuntura della crisi. Gli effetti di sconvolgimento, accompagnato da una radicale perdita di fiducia nella visione del social planning statunitense, provocati in Europa dalla crisi del ‘29, ebbero, come ha osservato Ch. Maier, ripercussioni di lungo periodo: almeno fino alla seconda guerra mondiale e anche oltre, il modello della produttività industriale americana perse la sua funzione di polo attrattore e venne, col tramonto dei sogni degli anni venti, meno anche la fiducia incondizionata negli effetti di redenzione sociale prodotti dal social engineering 39. Nel breve periodo e per quanto riguarda le reti istituzionali e sociali che stiamo analizzando, la crisi agì da acceleratore esponenziale di una divergenza di posizioni e di orientamenti tra i partners dell’IMI, già presente, come si è visto, alle origini dell’Istituto e che derivava principalmente da una diversa visione delle implicazioni politiche e sociali connesse alle strategie di organizzazione dell’impresa. Non è forse fuori luogo ricordare che i dirigenti e i finanziatori dell’Istituto ginevrino, avvertendo queste divergenze, avessero tentato sin dall’inizio di attivare processi di traduzione delle problematiche e della terminologia dello scientific management nei diversi contesti nazionali, in modo da produrre effetti di armonizzazione della visione sociale oltre che dell’interpretazione teorica dello scientific management, dando avvio tra l’altro alla pionieristica redazione di un dizionario internazionale del management e promuovendo una pervicace politica di multilinguismo attraverso le pubblicazioni scientifiche e le rassegne di documenti. Fin dai primi anni trenta, alcuni osservatori particolarmente acuti, seppure orientati su traiettorie politiche e teoriche alquanto eclettiche, come Francesco M. Pacces, osservarono le deviazioni del percorso italiano nell’ambito degli sviluppi del dibattito taylorista: Se in America — scriveva Pacces nel 1935 — si abbandonò il principio etico che Taylor aveva posto alla base di tutta la sua opera, in Europa (e particolarmente in Italia) si importò il meccanismo, non il suo spirito (...) Si credette, e taluno anche in buona fede, che fare del taylorismo volesse dire sfruttare “scientificamente”, invece C. S. MAIER, The Politics of Productivity: Foundation of America lnternational Economic Policy after World War II, in P.J. K ATZENSTEIN (a cura di), Between Power and Plenty, Madisonn 1978. 39 58 che empiricamente il lavoro mentre Taylor parlava di collaborazione e di alti salari 40 . La crisi dell’IMI, generalmente imputata al drastico venir meno dei finanziamenti da parte del Twentieth Century Fund e agli effetti prodotti sulla capitalizzazione delle quote degli associati dalla svalutazione del dollaro, ha cause ben più complesse. Queste risultano in larga misura connesse allo scontro tra la politica internazionalista ispirata ai principi del general management dei membri che si riconoscevano nella linea Filene-Urwick e che utopisticamente credevano nella rapido abbassamento delle barriere doganali europee e nell’altrettanto rapido sviluppo della produzione di massa 41, e quella dei sostenitori del ruolo e delle politiche di concertazione degli interessi nazionali attuata dal CIOS. Particolarmente interessante è il confronto-scontro che si delineò tra Mauro, appoggiato dal belga Landeuer, e Urwick e che caratterizzò le fasi finali della vita dell’Istituto di Ginevra tra il 1931 e il 1933. Nel novembre del 1931 Urwick inviava al segretario del Twentieth Century Fund, Evans Clarck, una lettera confidenziale in cui manifestava una forte preoccupazione per quanto era accaduto nel corso dell’ultimo riunione del Consiglio di Amministrazione dell’IMI, dopo che erano cominciate ad emergere difficoltà rispetto alla continuazione del finanziamento del 20th Century Fund, previsto fino al 1934. I was somewhat surprised and shocked at our Board Meeting — dichiarava Urwick — by a sudden attack on the part of Mauro and Landeuer on the executive management of the Institute. Since this attack was a complete reversal of expressions of opinion which they uttered publicly (...) It left me somewhat unconvinced. I am still a little uncertain as to the reason which lie behind this sudden change of attitude (...) I suggested that it was due to the apprehension that they might be asked to share in the responsability for a possible failure on the part of the Institute (...) Buther and Sokal (...) incline to the view that it is a deliberate attempt on the part of the hard-boiled employers’ associations in Europe, which have their headquarters at Brussels, to capture the Institute and to brig it completely under the control of reactionary elements. This of course is possible. Mauro is in fairly close contact with G. Olivetti, who is the Secreatary general of the Fascist Industrial Federation. Italian national views and their general tendency to deny the possibility of effective international action, might play a part in such a development Landauer is very close with the Belgian employers, who are an extremely reactionary group as a whole. On this side there is a certain tendency for Bruxelles to try to establish itself as the international town and to be jealous of the prestige of Geneva. Landauer’s (...) criticism has been expressed in terms of the “candid friend” (...) but they are both by nature intriguers. The Institute has been so successful lately in winning the support of the National Committee, that the latter F. M. Pacces, Introduzione agli studi di aziendaria, 1935, pp. 53-54. A. YOUNG, Letter to B. Ruml, 16 december 1926 RAC R.G. 2 F, Box 13, Folder 100: “'One important factor (...)is the agitation in Europe for the removal of the present customs barriers between European countries. I realize the hazard of prophecy; my observation is that such a move is inevitable. It will then pernit of mass production on a scale not now possible and this will be of tremendous significance in the modernising of manufacturing plants in Europe and the inculcation of scientific methods of manufacture”. 40 41 59 is somewhat blown upon. They may be genuinely apprehensive for their own personal positions (...) Thomas (...) takes Butler’s view that it is just a hard-boiled employer gang playng politics 42. Il contenuto di questa lettera, di cui abbiamo citato ampi stralci, al di là delle congetture inerenti le posizioni personali di Mauro (che si muoveva, “inevitabilmente” sul piano di una rappresentatività politicamente “neutra”) rivela l’inasprirsi di tensioni di segno opposto nel rapporto tra strategie nazionali e dinamiche di organizzazione delle reti internazionali. Rivela inoltre il consolidarsi del punto di vista degli esponenti ufficiali del CIOS, Mauro e Landeuer, che passano dal fluido atteggiamento di ambivalente riserva nei confronti della versione “internazionalista” e socialmente orientata del dibattito sul taylorismo, già presente negli anni venti, ad un atteggiamento di compatto rifiuto. The ideals and ideas — scrive Urwick — for which these two gentlemen stand are (...) 100 miles away from the ideals and ideas of the Twentieth Century Fund. They believe in Scientific Management, but merely as an employers instrument to lower costs. They don’t believe in the further essential conceptions either of lower prices or of higher wages (...) Landauer professes to believe in high wages, but I am very dubious of the industrial relations in his plants: at any rate, I hope they are better than his awoved theories 43. La situazione era aggravata innanzitutto dal generale inasprirsi delle sensibilità nazionali “which attribute — come notava il direttore dell’IMI in un memorandum dell’aprile 1932 — a great many of theirs ills to the United States”, era condizionata anche dalle procedure degli organismi internazionali in cui la concertazione avveniva come effetto di negoziati permanenti in larga parte verbali i cui effetti di compromesso — come sottolineava Urwick — “conceal rather than define differences of a fundamental viewpoint”. A queste disfunzionalità delle procedure decisionali si aggiungevano, come notava maliziosamente lo stesso Urwick a proposito di Mauro, gli effetti che posizioni di prestigio acquisite nel campo internazionale potevano avere nel rafforzamento di posizioni di potere in ambito nazionale, il che si verificava soprattutto quando l’orientamento internazionale entrava in fase critica e occorreva capire da che parte “soffiava il vento”, se verso Ginevra o verso Bruxelles ... Il fattore più rilevante fu senza dubbio il dibattito sulla possibile fusione del CIOS e dell’IMI che, a partire dalla fine del 1932, rese la situazione particolarmente incandescente, rivelando l’accrescersi delle tensioni non solo tra la rappresentanza dei due istituti, ma anche tra il bureau ristretto e non istituzionalizzato del CIOS, rappresentato dal team Landeuer-Mauro e gli altri rappresentanti degli organismi nazionali che aderivano al comitato di Bruxelles. In questa situazione complessa Urwick tentò di aggirare l’ostacolo in cui l’elemento politico era indissolubilmente legato a quello finanziario, rilanciando il progetto di creare nuovi legami istituzionali con le grandi università o coi gruppi di pressione 42 L. URWICK, Letter (private and confidential) to Evans Clarck, 17 Novembre 1931, Archivio del Twentieth Century Fund, 1931, pp. 1-2. 43 Ivi, p. 2. 60 che animavano il dibattito sul general management, in particolare con la Taylor Society. In una lettera a Filene del luglio 1932, facendo riferimento a contatti intercorsi con M. Shell, presidente del MIT, Urwick suggeriva, come si è ricordato sopra, di estendere l’affiliazione all’Istituto a tutti gli studenti delle scuole di Business administration. Negli anni trenta il messaggio della convergenza tra general management e taylorismo sociale andava tuttavia rapidamente sfumando, col tramonto dell’ottimistica visione del social planning e l’insorgere del fatidico quesito “knowledge for what”? E questo non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, dove il grande impatto della professionalizzazione del management si delineò solo nel secondo dopoguerra, attraverso il doppio registro del modello harvardiano e del new look inaugurato da Leland Bach al Carnegie Mellon e rinforzato dalle politiche di disseminazione e legittimazione attuate dalla Ford Foundation nella seconda metà degli anni Cinquanta. Di quella intensa e breve stagione di cui l’IMI fu un centro propulsore di primo piano, restarono tuttavia i germi di una fertilizzazione, che qua e là dette i suoi frutti. Si pensi in particolare alla creazione del Centre de Préparation aux Affaires di Parigi, che costituì una vera e propria antenna harvardiana in Europa e la cui configurazione organizzativa ci permette di evidenziare, comparativamente e per contrasto, alcuni elementi caratterizzanti l’esperimento condotto parallelamente in Italia da Mauro, con la creazione della “Scuola superiore di politica e organizzazione delle imprese”, in seguito (nel 1955) denominata, e più comunemente conosciuta, come Corso Francesco Mauro. La scuola fu istituita con una convenzione siglata in data 20 aprile 1934 nella sede della Prefettura di Milano tra il Direttore della Regia Scuola di Ingegneria, Fantoli, e il Presidente dell’Associazione Nazionale Fascista dei Dirigenti di Aziende Industriali (AFDAI), che finanziava il corso con 50.000 lire annue, Lo Cascio 44. La “Scuola superiore di politica e organizzazione delle imprese” fu davvero la prima business school italiana? Contrariamente a quanto si e sovente (e un po’ sbrigativamente) sostenuto, il Corso Mauro non fu affatto una business school sul modello statunitense. Un seppur rapido confronto con un esperimento coevo, il Centre de Préparation aux Affaires di Parigi, ci permetterà di chiarire questo punto. Creato nel 1930 su iniziativa del vice dean di Harvard, Georges Frederick Doriot, rampollo di una famiglia francese protestante e figlio di uno dei primi costruttori d’auto Peugeaut, e col supporto della Camera di Commercio di Parigi, il CPA fu sin dall’origine caratterizzato dalla produzione di casi inerenti il contesto imprenditoriale francese e questo non solo nell’ambito della produzione ma anche in quello della distribuzione, soprattutto negli anni successivi alla crisi quando, come ha rilevato M. Meleau 44 ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Corso Francesco Mauro. 61 la solution inventèe par un ensemble d’entreprises novatrices fut une nouvelle conception de la fonction commerciale qui crea les bases de ce qui deviendra le marketing aux annees cinquante 45. Questo orientamento fu reso possibile da due fattori: la creazione del BRIC (Bureau de Recherche Industrielle et Commerciale) e l’intensa collaborazione all’attività del Centre da parte delle società di consulenza francesi (Paul Planus, in particolare), che agirono da cinghie di trasmissione e da attori del processo di fertilizzazione dei metodi americani nel contesto imprenditoriale francese, della grande impresa innanzitutto, che cominciò ad impiegare consulenti americani, valendosi dell’attività di traduttori di “esperti” che erano in grado di adattare i modelli al contesto. Niente di tutto questo si verificò per la “Scuola Superiore di politica e organizzazione delle imprese”, i cui insegnamenti riguardarono soprattutto gli aspetti tecnici ed economici, suscettibili di apportare complementi di informazione al curriculum classico degli ingegneri di produzione. Nonostante la rete di relazioni del suo ispiratore e fondatore e il fatto che alcuni nomi prestigiosi dell’industria italiana, in particolare Alberto Pirelli, figurassero tra i conferenzieri del Corso, non si delineò alcuna permanente collaborazione col mondo dell’impresa, in termini di consolidamento dei canali di formazione che attivassero flussi costanti dalle imprese alla scuola, né tantomeno tale flusso si creò col settore della consulenza, pressoché inesistente in Italia, se si eccettua la pionieristica attività dell’ORGA di Milano fondata da Remo Malinverni, con cui Mauro fu in contatto, ma che non entrò a far parte del gruppo di docenti della scuola. Gli allievi della Scuola furono nei primi anni quantomai eterogenei per provenienza socioprofessionale, anche se risultarono piuttosto omogenei sul piano della provenienza geografica, prevalentemente lombarda e con una predominanza per la zona di Milano. Va detto comunque che, nel quadro di un’attenzione costante rivolta al settore della produzione e dell’impiantistica, vennero introdotti anche alcuni insegnamenti che sviluppavano gli orientamenti della contabilità aziendale come quello di “Organizzazione amministrativa e commerciale dell’impresa”, in seguito denominato “Ragioneria industriale”, affidato a Teodoro d’Ippolito, professore a Ca’ Foscari e studioso di ottimo livello della contabilità applicata all’impresa, in cui si insegnavano le tecniche di bilancio e di rilevazione statistica e contabile delle aziende, la contabilità del costo e le tecniche dei ricavi di gestione. L’insegnamento di d’Ippolito era affiancato da quello di “Tecnica amministrativa” tenuto dal prof. Giuseppe Garrani, che dava particolare risalto allo studio dei bilanci delle società per azioni. Il curriculum non fu tuttavia completato da insegnamenti inerenti la distribuzione che introducessero e applicassero, come nel caso del CPA di Parigi, le moderne tecniche del marketing, con l’eccezione di un corso tenuto per un anno da un giovane assistente della Bocconi, Mario Luporini, su “Sistemi e metodi di vendita”, in cui veniva tuttavia dato risalto soprattutto al ruolo della corporazione “come elemento riduttivo dei costi e dei prezzi”. Inoltre il corso di d’Ippolito e quello di Garrani durarono solo un paio di anni, facendo parte delle materie facoltative che, secondo l’art. 6 della convenzione che istituiva la Scuola, dovevano 45 M. MELEAU, De la distribution au marketing (1880-1939). Une reponse à l'évolution du marché, «Entreprises et histoire», n. 3, mai 1993, pp. 61-74. Sul ruolo dei co nsulenti, v. O. HENRY, Le conseil, un espace professionel autonome?, «Entreprises et histoire», n. 7, decembre 1994, pp. 37-58. 62 essere deliberate di anno in anno dal Consiglio della Facoltà di Ingegneria. Le materie obbligatorie sancite dalla convenzione erano: Teorica della direzione; Politica tecnica dell’impresa e Politica economica dell’impresa. Da questo punto di vista si comprende come la partecipazione di innovatori, come Giovanni Enriques (il quale nel secondo dopoguerra, avrà un ruolo di spicco nello sviluppo della management education, come direttore dell’IPSOA di Torino) come Ugo Gobbato, come Guglielmo Tagliacarne, ebbe un carattere transitorio. La collaborazione di Enriques, ad esempio, durò infatti solo un paio di anni, prima come docente di un Corso di tecnica delle esportazioni, poi con un insegnamento particolarmente innovativo — “Caratteristiche delle industrie complesse di massa” — ma il cui incarico non venne in seguito rinnovato. La guerra e le leggi razziali contribuirono ovviamente a ridurre il potenziale innovativo della Scuola. Di essa va rilevata, come connotato originario, la forte componente cattolica. Questo aspetto comunque non riguardava solo i conferenzieri del Corso, ma anche i docenti del Politecnico, soprattutto quelli a cui vennero stabilmente affidati gli insegnamenti di discipline economico giuridiche. Nel corso degli anni trenta il Politecnico milanese andò consolidando la propria rete di relazioni con l’Università cattolica, e in particolare col suo fondatore, Padre Agostino Gemelli, a cui Mauro affidò l’insegnamento di “Psi-cotecnica”. A partire dalla metà degli anni trenta, fino ai primissimi anni cinquanta, le materie economiche furono insegnate al Politecnico da Francesco Vito. Discepolo prediletto di Padre Agostino Gemelli, fervente ammiratore di Toniolo, Vito fu ad un tempo presente nelle reti internazionali (sin dagli anni giovanili fu borsista di prestigiose istituzioni in Europa e negli Stati Uniti, dove nel 1933 fu uno di primi fellow italiani nel settore delle scienze economicosociali) e radicato nel contesto italiano della cultura economica corporativa degli anni trenta, di cui fu uno dei teorici di spicco. La figura di Vito illumina quella simbiosi tra modernità scientifica e conservatorismo politico-istituzionale, tra apertura internazionale e radicamento culturale e ideologico, che caratterizza per molti versi anche il percorso di Mauro e che è fortemente presente nell’orientamento del corso da lui creato, per tutti gli anni trenta e soprattutto nel corso del periodo bellico; talora con accenti e prese di posizione da parte dei singoli docenti che segnano il passaggio dalla cauta acquiescenza di Mauro a dichiarate adesioni alla politica fascista. Si legga in particolare la prolusione di Alberto Pirelli, a cui Mauro affidò l’insegnamento di Teoria della Direzione, all’inaugurazione ufficiale del corso Mauro nel 1934. Con questa serie di corsi — dichiarava Pirelli — [ci si preoccupa] della preparazione alla vita come la vita la vuole il Fascismo cioè: valorizzazione della individualità, esaltazione della forza e della volontà; ma subordinazione di ogni azione e di ogni interesse individuale al superiore interesse nazionale (...) Il nostro compito dell’imprenditore o del dirigente (...) è facilitato dalla pace sociale che il Fascismo ha donato alla Nazione, dal principio di gerarchia e dalla instaurata maggiore disciplina, ma esso è reso più grave di responsabilità per il carattere sociale e nazionale della missione che il Regime gli affida 46. 46 ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Corso Mauro. 63 Le posizioni di Pirelli si andarono radicalizzando nel corso dei primi anni quaranta quando divenne più chiaro il messaggio dell’Associazione che finanziava il corso e che indicava chiaramente che la sua missione precipua era la formazione “dei dirigenti d’azienda nella battaglia per l’autarchia”. Significativamente il tema dell’autarchia, che fu per altri versi un vettore di forte espansione della scuola (i cui indicatori numerici aumentarono in modo esponenziale da poche decine di allievi a oltre 150), fu al centro della prolusione tenuta da Alberto Pirelli all’inaugurazione del corso 1940-41, Attorno al problema dei grandi spazi economici, in cui l’industriale milanese sottolineava la subordinazione dell’economia alla grande politica di potenza: La vittoria dell’Asse e la saggezza dei vincitori — scriveva Pirelli —determineranno i nuovi confini ed aggruppamenti politici e l’economia, come è sempre accaduto, pur influendo in una certa misura sulle determinazioni politiche, ne sarà a sua volta ed in maggior misura influenzata e condizionata (...) Scartata l’utopia di un internazionalismo economico su basi mondiali e scartata anche la soluzione minore, ma pur sempre illusoria (...) di un’unione doganale e monetaria estesa a tutta quanta l’Europa, sono apparsi i difetti della tendenza opposta (...)la creazione di altrettante unità chiuse (...) e va affermandosi la tesi intermedia della creazione di aggruppamenti economici abbastanza vasti e complementari da poter corrispondere alle esigenze dell’economia moderna, ma pur sempre di proporzioni e caratteristiche tali da poter essere efficacemente controllati da un centro direttivo comune (...) La pianificazione delle produzione sia essa più o meno estesa nello spazio e nel tempo e quella degli scambi, dovrebbero bensì ispirarsi (...) a concetti economici, ma altresì a concetti politici e sociali, e questa anzi è forse la caratteristica più originale del sistema 47. La composizione degli iscritti corrisponde perfettamente al quadro sin qui descritto. Accanto ai giovani laureati delle Facoltà di ingegneria, (la maggior parte dei quali provengono dal corso di Ingegneria industriale del Politecnico), di Economia e commercio e Giurisprudenza (prin-cipalmente lombarde e, in piccola percentuale, di altre regioni del nord d’Italia) accanto ai dirigenti industriali, ai costruttori edili e ai commercialisti, tra gli uditori e gli allievi figurano anche numerosi quadri sindacali fascisti, provenienti da tutte le regioni d’Italia. Un dato rilevante, come si è accennato sopra, è la rapida crescita degli iscritti tra il 1937 e la guerra. Si passa infatti dai 38 iscritti e 16 uditori del 1934, con un calo evidente nei due anni successivi, all’impennata del 1937-38 con 151 iscritti, seguita da un assestamento nel 1938-39 e da un nuovo incremento negli anni dell’autarchia: 169 iscritti nel 1939-40 e 173 nel 1941-42. Sospeso nel 1945, il Corso riprese con vigore nel 194647, con 171 iscritti, stabilizzandosi negli anni successivi, fino alla seconda metà degli anni sessanta, quando comincia il suo declino istituzionale per le ragioni che analizzerò in seguito. La morte di Mauro avvenuta improvvisamente il 13 febbraio del 1952, segna una fase di passaggio decisiva. È proprio nel corso dei primi anni cinquanta infatti che la Scuola Superiore, ribattezzata dopo la scomparsa di Mauro, “Corso di aggiornamento per dirigenti d’azienda Francesco Mauro”, rafforza la 47 Ivi. 64 propria stabilità e identità istituzionale, facendo convergere le problematiche affrontate nei suoi insegnamenti con lo sviluppo delle reti organizzative e istituzionali legate alla produttività. Intorno alla metà degli anni cinquanta si allarga rapidamente la partecipazione di docenti che vengono dal settore della consulenza (il giovane Pierluigi Malinverni, diplomato IPSOA), dal marketing (Guglielmo Tagliacarne), dalla dirigenza soprattutto del personale delle grandi imprese (Bozzola, Magnaghi) e di grandi intellettuali del management e delle relazioni industriali (Gino Martinoli, Mario Romani, Mario Marconi). La configurazione del corso si avvicina maggiormente a quella di altre analoghe istituzioni in Europa, con una maggiore articolazione degli insegnamenti e una più larga partecipazione dei discenti alle strategie formative (visite in azienda, stages, discussioni in aula). I docenti che provengono dal Politecnico sono spesso essi stessi degli uomini d’azione, fortemente impegnati nello sviluppo delle problematiche della produttività. È il caso di Guido Corbellini, ex ministro, vice presidente del CNP e professore ordinario di Tecnica dei trasporti al Politecnico e di Roberto Tremelloni, ex ministro del Tesoro, presidente dell’azienda elettrica municipale di Milano e docente di materie economico-giuridiche a partire dall’anno accademico 1953-54, quando fu chiamato ad affiancare Francesco Vito, che in seguito assunse il prestigiosissimo incarico di rettore della Cattolica. Sin dagli anni trenta entrambi avevano fatto parte di un ristretto gruppo di intellettuali interessati ai problemi della razionalizzazione, di cui facevano parte anche Libero Lenti, Di Fenizio, Pagni dell’Assolombarda e il fondatore dell’ORGA, Remo Malinverni. Essi dettero vita a una rete di sociabilità intellettuale o, se si vuole, a un circolo “invisibile” di intellettuali dell’organizzazione che era solito riunirsi in modo del tutto informale, ma i cui effetti di colportage delle idee e delle istituzioni hanno lasciato tracce anche nella vita delle istituzioni. Nel 1957-58, il corso di Tremelloni cambiò denominazione e divenne Economia e organizzazione aziendale. Esso era diviso in due parti, la prima che forniva agli studenti nozioni di Economia industriale, la seconda che sviluppava le problematiche dell’economia aziendale applicata all’impresa, con un’attenzione particolare alla trattazione dei costi di produzione e al calcolo del reddito d’esercizio. Accanto ai testi classici di Zappa, le letture consigliate erano i saggi di Marshall su industria e commercio, gli studi di Saraceno sulla banca e di Guatri sui costi d’azienda. L’insegnamento di Tremelloni è il principale rivelatore di un rapido e cruciale mutamento nella configurazione del Corso per dirigenti d’Azienda durante i primi anni cinquanta, in coincidenza con l’apparire di nuovi attori istituzionali (l’Associazione degli industriali lombardi che divenne il principale erogatore di finanziamenti del corso) e di nuove figure istituzionali, a cavallo tra l’Università, l’impresa e lo Stato, legate allo sviluppo della produttività e ai suoi effetti di potenziale networking istituzionale e socioculturale. Gli anni della produttività La prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico 1953-54 venne tenuta da Guido Corbellini, il quale, riprendendo in una nuova direzione il ruolo esercitato da Mauro nella diffusione del taylorismo, fu l’ispiratore di una più forte intersezione tra taylorismo e scienze sociali e umane, nel quadro delle problematiche delineate dal movimento delle “relazioni umane”. Significativamente il suo discorso, poi 65 pubblicato in forma ridotta dalla rivista “Produttività” e in seguito riproposto da “Mondo economico”, ebbe come tema “Tecnica e sociologia nella formazione dell’inge-gnere”. Se Mauro fu il “traduttore” di un taylorismo adattato alle politiche autarchiche, che segnarono in Italia un momento di punta nell’af-fermazione del punto di vista dell’ingegnere, Tremelloni e Corbellini furono i vettori della filosofia del piano Marshall nelle aule del Politecnico e in particolare proprio nel contesto del corso Mauro. Nella sua prolusione Corbellini forniva una nutrita serie di informazioni sulle strategie di formazione inerenti la business administration negli USA e sulla loro ricezione negli altri paesi europei, spostando decisamente l’accento dall’in-gegneria di produzione al management come scienza integrata delle funzioni produttive. Degno di rilievo — scrive Corbellini a proposito della Business School di Harvard — è il corso di Filosofia e tecnica della produzione in cui balza in primo piano il coordinamento e il controllo delle varie fasi della produzione attraverso la progettazione, la lavorazione e la distribuzione dei singoli prodotti in rapporto con le attitudini e la personalità dei singoli e del complesso organizzativo di cui fanno parte 48. Il punto focale della prolusione è in un’annotazione dai toni delicatamente polemici che Corbellini rivolge ai tecnici, agli studiosi e agli industriali, i quali dietro invito del Ministero della pubblica istruzione hanno espresso i loro pareri sulla riforma della nostra scuola superiore. Difatti nelle conclusioni dell’inchiesta nazionale per la riforma della Scuola, nella parte che riguarda l’insegnamento delle Facoltà di ingegneria e dei politecnici, non vi è nessun accenno agli argomenti delle relazioni umane nel senso (...) che si è imposto nei paesi industriali moderni e sull’importanza formativa che essi hanno nella preparazione dei nuovi ingegneri. Significativamente Corbellini individuava nel Corso Mauro il luogo di una più stretta e proficua interazione tra industria e università, centrata sul potenziamento di tale impulso formativo, valorizzato da una costellazione di esperimenti di analoga natura come quelli avviati nell’ambito delle grandi imprese (Edison, Montecatini, Pirelli) e, con particolare determinazione e cospicui investimenti di risorse materiali e umane, nel quadro dell’IPSOA, appena creata a Torino, sotto l’egida dell’Olivetti, della FIAT e dell’Unione Industriali. L’analisi dei programmi dei corsi tenuti da Corbellini rivela l’apporto determinante delle analisi di ordine economico e organizzativo, spesso affiancate da visite agli impianti nell’illustrare ai giovani allievi la tecnica dei trasporti. Un ruolo centrale veniva dato alla valutazione dei costi marginali, al sistema tariffario, agli schemi di organizzazione delle imprese di trasporto e alla loro produttività aziendale. Non è dunque sorprendente che la lezione conclusiva dell’attività didattica del Corso Mauro nel 1952, tenuta dal Direttore del Politecnico, Gino de Cassinis, a pochi mesi dalla morte di Mauro venisse dedicata proprio al “Politecnico e la produttività”. La lezione costituì anche la prima occasione ufficiale per rievocare la 48 Ivi. 66 figura e il percorso di Mauro, in un momento in cui il corso da lui creato entrava in una fase di espansione e di riorganizzazione, sotto l’egida dell’Associazione Lombarda Dirigenti Aziende Industriali, presieduta da Virginio Bontadini, molto legato alle reti della produttività e il cui figlio Pierluigi fu uno dei primi assistenti dell’IPSOA di Adriano Olivetti. In una lettera al rettore del Politecnico dell’11 dicembre 1954, Virginio Bontadini chiedeva espressamente che il Corso di Cultura per dirigenti d’azienda venisse intitolato a Francesco Mauro e che la direzione venisse affidata al professor Luigi Manfredini che a quell’epoca era amministratore delegato della SNIA. Si delineava così un più forte aggancio tra il Corso e il mondo dell’impresa, di cui occorrerebbe analizzare più approfonditamente le coordinate “sistemiche” indagando parallelamente, sul versante delle imprese, i criteri di selezione dei quadri tecnici e della dirigenza, le modalità del “prendere decisioni”, le posizioni nell’organigramma ecc. Due dati sono comunque evidenti. Innanzitutto, il ruolo svolto da Manfredini come Direttore del Corso agì come vettore di ampliamento del dibattito sulla formazione economica e aziendale degli ingegneri che si estese ad altre sedi universitarie, in particolare all’Università di Bologna, da cui Manfredini proveniva e con la quale aveva mantenuto una fitta rete di rapporti. Ed è proprio a Bologna che sotto la presidenza del professor Dore, si tenne nel 1953 un convegno su “Industria e Università”, immortalato dalla rivista Pirelli che vi dedicò ampio spazio. Questo allargamento del dibattito ebbe delle ripercussioni anche sulla visibilità nazionale del corso, che dalla morte di Mauro ai primi anni sessanta consolidò il suo assetto istituzionale, con un numero di iscritti pressoché costante (da 120 a 140), proveniente da molte regioni italiane e non solo dalla Lombardia. In questo arco di tempo, il corso, attraverso i percorsi dei docenti che ne orientarono l’organizzazione e le reti in cui questi risultavano inseriti, sviluppò una fisionomia fortemente correlata alle problematiche della produttività che, non lo si dimentichi, agì, seppure per un breve periodo, da vettore per lo sviluppo della consulenza aziendale. Come nel 1860-63 è stato necessario dar vita ad un Istituto Tecnico Superiore, occorre oggi, a somiglianza di quanto già fatto e di quanto si fa in altri paesi, trasformare il Politecnico in una Università tecnica, comprendente tutti gli studi superiori aventi attinenza con le scienze fisico-matematiche e con quelle economiche oltre che con quelle tecniche propriamente dette 49. Così si esprimeva il professor Cassinis nella sua prolusione all’apertura del Corso del 1953, dando rilievo alla necessità di attuare in tempi rapidi una riforma dell’ordine degli studi che attenuasse le rigidità del biennio propedeutico, sempre considerato elemento vitale della vecchissima Facoltà di scienze fisicomatematiche. Cassinis metteva in luce la crucialità dell’insegnamento delle discipline economiche e di organizzazione del lavoro, la cui “deficienza si ripercuote dannosamente non solo su molti giovani, ma sull’intera categoria degli ingegneri”, nel momento in cui la domanda di consulenza delle imprese si fa più forte, al punto che la “collaborazione con gli Enti produttivi è divenuta talmente stretta e intima da determinare in certi casi un apporto diretto del Politecnico alla 49 Ivi. 67 produttività degli enti con i quali esso opera”. Cassinis sottolineava inoltre il ruolo propulsore dell’impiantistica nel quadro dell’attività dell’Istituto di elettrotecnica industriale, “dovuto all’illuminato mecenatismo di Carlo Erba” e di quello di Chimica industriale dotato di un laboratorio di analisi e prove industriali di livello europeo. Due anni dopo egli riprendeva in una conversazione radiofonica gli stessi temi sottolineando la recente introduzione presso il Politecnico di Milano di un nuovo insegnamento di “Economia ed organizzazione aziendale”, a complemento del vecchio corso di Materie giuridiche ed economiche, che venne affidato come si è detto a Roberto Tremelloni, e il progetto di avviare un corso di “Estimo industriale”. La peculiarità del periodo intorno alla metà degli anni cinquanta, che corrisponde peraltro al momento più dinamico nello sviluppo della management education in Italia 50, rispetto al primo periodo del “Corso Mauro” fu quella di una più stretta e articolata intersezione tra il corso di studi del Politecnico e il Corso di perfezionamento per dirigenti d’azienda, stimolata da fattori di contesto, come si è detto, ma anche da altri elementi che individuano linee di continuità strategica rispetto al passato: innanzitutto la continuità della presenza, su entrambi i versanti istituzionali, di attori multiposizionali di cui analizzeremo brevemente i percorsi; in secondo luogo gli effetti “epsilon”, cioè gli effetti infinitesimali e in larga misura non calcolati, prodotti dall’eredità di Francesco Mauro, che, come si vedrà, rappresenta un fattore contingente ma certo non secondario della genealogia dell’ingegneria gestionale al Politecnico di Milano. Gli ingegneri “strategici” Alla morte di Mauro il corso fu affidato a Luigi Manfredini che lo diresse fino alla sua morte, avvenuta nel 1965. Questo arco di tempo corrisponde anche al periodo di più intensa attività e di maggiore visibilità nelle reti legate allo sviluppo della formazione dei dirigenti aziendali (produttività, business schools, scuole di specializzazione universitarie) di un altro docente del Politecnico che ebbe un ruolo determinante nel potenziamento dell’insegnamento di materie gestionali, Guido Corbellini. Il percorso di questi intellettuali dell’organizzazione presenta alcuni interessanti punti di intersezione e, soprattutto nel caso di Manfredini, alcune interessanti analogie col percorso di Mauro. Nati a un anno di distanza (Corbellini nel 1900 e Manfredini nel 1901), laureatisi entrambi in ingegneria civile, il primo a Roma nel 1913 e il secondo a Bologna nel 1914, i due giovani ingegneri fecero le prime esperienze significative nel corso della prima guerra mondiale, in settori strategici dell’economia di guerra. Assegnato alla VII compagnia Pontieri in zona di guerra, Manfredini progetta e dirige la costruzione di ponti fissi per gli itinerari della 4a armata. Nel 1919 collabora con l’impresa di costruzioni Ingegner Puccini di Firenze per il progetto e tracciato della Ferrovia Alto Pistoiese. Sviluppa poi una brillante carriera progettistica e imprenditoriale nel settore idroelettrico, a livello nazionale, prima tra il 1920 e il 1926 come ingegnere dell’Ufficio costruzioni idroelettriche delle Ferrovie dello Stato a Bagni della Porretta, poi come progettista firmatario delle dighe di Molino Si v. al proposito la mia introduzione al volume Scuole di management. Origini e primi sviluppi delle business schools in Italia, Bologna, il Mulino, 1997. 50 68 del Pallone a Suviana, infine per la Montecatini, come progettista dell’impianto idroelettrico di Mori sull’Adige, punto di avvio di una brillante carriera di dirigente nei settori dell’Alluminio e dell’Allumina e infine, dal 1947, alla SNIA Viscosa, quale Amministratore delegato e direttore generale della consociata SAICI. A partire dal 1946, opera anche in ambito internazionale (Brasile, Francia, Argentina) dove acquista una notevole fama nel settore della ricerca applicata, coronata da una rapidissima carriera accademica che nel 1941 lo porta a ricoprire la cattedra di Impianti industriali presso la Facoltà di ingegneria di Bologna. Qui nei primi anni cinquanta insieme ad altri docenti della Facoltà tra i quali il Preside, Paolo Dore, Manfredini è tra gli animatori di un intenso dibattito sui problemi del rapporto industria-università che lo porta ad organizzare, proprio grazie alle reti del Corso Mauro, di cui come si è detto è appena divenuto direttore, una serie di incontri con i quadri direttivi della Pirelli. Negli stessi anni in cui Manfredini compie le prime significative esperienze di organizzatore progettista, Guido Corbellini, che è già assistente di Geodesia teoretica e topografia presso la Scuola di ingegneria di Roma, entra col ruolo di Ingegnere allievo ispettore presso il Servizio materiale e trazione delle Ferrovie dello stato dove compie un significativo percorso di carriera passando dal grado di ispettore nel 1917 a quello di Ispettore principale nel 1921, anno in cui comincia a dirigere l’Ufficio studi ed esperimenti per le locomotive. Questo passaggio che occuperà la fase centrale della sua carriera di ingegnere “applicato” dal 1921 al 1938 segna un apporto decisivo nella formazione di Corbellini, il quale comincia a tradurne le acquisizioni nel settore dell’insegnamento universitario a partire dal 1936, quando ottenuta la libera docenza in “Costruzioni stradali e ferrovie”, ottiene l’incarico di insegnamento di Tecnica ed Economia dei trasporti presso la Facoltà di ingegneria dell’Università di Bologna, incarico svolto dal 1936 al 1947. Nel 1947, infatti, per circostanze fortuite, legate alle reti di socialità di un circolo ricreativo di alto livello che Corbellini, vedovo da tempo, era solito frequentare a Firenze, venne attratto nel mondo della politica, divenendo in rapida sequenza ministro Segretario di Stato per i Trasporti, del quarto e quinto Gabinetto De Gasperi (dal l giugno 1947 al 31 gennaio 1950) e dal novembre 1949 al gennaio 1950 Ministro segretario di Stato per la Marina mercantile nel quinto gabinetto De Gasperi. Un passaggio indubbiamente centrale nella sua carriera, considerando che esso coincise con l’ordinariato e il trasferimento al Politecnico di Milano. Sottolineando la funzione di coronamento del suo intero percorso, segnata dal conferimento della cattedra di Tecnica ed Economia dei Trasporti, Corbellini scriveva nel luglio del 1950: L’esperienza che ho fatto in questi ultimi tre anni di vita ministeriale in materia di trasporti mi ha convinto sempre più della necessità di dare al Corso universitario un indirizzo diverso da quello fino ad oggi tenuto in tutte le facoltà di ingegneria, per orientarlo gradualmente verso una trattazione che abbandoni la tradizionale materia ferroviaria, per svolgere sempre meglio la parte veramente sostanziale dei principi di economia e di tecnica che presiedono a tutti i tipi di trasporto 51. ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNIICO DI MILANO, 950, p. 2, Fascicolo personale Guido Corbellini. 51 69 Con Manfredini e Corbellini, il Corso per dirigenti d’azienda entrava in una fase di “modernità” non solo tecnica ma organizzativa e sociale, attraverso la capitalizzazione di reti istituzionali e sociali ad ampio raggio. Il ruolo strategico degli organizzatori del corso fu decisivo. Ricordiamo rapidamente che Corbellini oltre alle funzioni di Ministro e di Senatore delle Repubblica esercitò quella di Presidente della Commissione di inchieste e studi sull’industria meccanica (CISIM) e quella di vicepresidente del CNP. Tali funzioni gli permisero di entrare in contatto coi settori più innovativi della cultura delle organizzazioni per l’impresa e in particolare col “sistema olivettiano” che, come si è detto, nei primi anni cinquanta si pose, con la creazione dell’IPSOA, all’avanguardia delle strategie di formazione dei quadri aziendali. Corbellini esercitò questo suo ruolo di “imprenditore culturale” non solo nel contesto nazionale ma anche in quello europeo grazie ai rapporti tra il CNP e l’OECE, in particolare negli anni in cui l’Agenzia Europea di Produttività sviluppò articolati programmi per la formazione manageriale. Ciò implicava anche un più forte aggancio con le politiche scientifiche di organizzazione della ricerca applicata, promosse in quegli anni dal CNR. In una lettera a Gino Cassinis (che, lo si ricordi, fu anche sindaco di Milano) dell’8 agosto 1952, Corbellini scriveva: La missione OECE 84 di ritorno a Roma si è intrattenuta con la Giunta esecutiva del CNP e con me si è espressa in modo molto generale sulle possibilità della ricerca applicata della nostra Università in genere e del Politecnico di Milano in specie. Era presente alla riunione anche il professor Colonnetti che ha formalmente dichiarato che affiancherà nel modo migliore (...) le iniziative e le proposte del CNP (...) Mr. Hobson in quell’occasione ha detto che sarà prossimamente organizzata una missione di industriali americani che probabilmente verranno in Italia per assegnare commesse di particolari ricerche agli istituti universitari. Esse saranno remunerative anche per il personale in modo da creare un ambiente tecnico di sperimentatori che si dedichi non solo con passione ma anche con tranquillità a tale importante settore (... ) Ho ricevuto la tua interessante e dotta lezione di chiusura al corso per dirigenti d’azienda e ne ho passata copia agli uffici del CNP perché ne traggano il massimo insegnamento possibile. Ti prego pertanto di ricordarti di inviare a suo tempo al nostro CNP copia delle pubblicazioni che il Politecnico fa rà sulle possibilità di ricerca dei nostri istituti, perché ciò potrà essere molto utile 52. Significativamente in molte delle relazioni e dei discorsi ufficiali tenuti nel corso dei primi anni cinquanta, Corbellini insistette sul ruolo della formazione dei dirigenti come “fenomeno sociale e culturale ad ampio raggio” che implicava non solo lo sviluppo della scienza applicata ma anche “la seconda rivoluzione e cioè la rivoluzione del fattore umano”, da cui doveva scaturire una nuova scienza applicata (...) la conoscenza delle leggi che definiscono la capacità di dirigere e di stimolare il lavoro umano inteso nella sua espressione più nobile e sintetica (...) la ergotecnica, la cronotecnica e tutte le attività che perfezionano e completano con metodi razionali e scientifici l’efficienza dell’impiego della macchina debbono perciò venire animate e completate dalla sociologia applicata del lavoro (...) Le scuole che 52 Ivi. 70 formano i nuovi ingegneri futuri dirigenti di altri uomini, possono ignorare tutto questo poderoso complesso di nuovi indirizzi? Evidentemente no (...) La società chiede ai futuri ingegneri il compito sempre più vasto di aumentare la ricchezza collettiva con nuove creazioni e di operare in modo che essa possa venire equamente distribuita tra il capitale che la rende possibile, il lavoro che la realizza e la società che è avida di migliorare il tenore di vita di tutti gli esseri umani Nella prolusione di apertura dell’anno accademico tenuta al Politecnico nel 1952, Corbellini lamentava, come si è detto, che nel campo degli studi di ingegneria l’attenzione si concentrasse prevalentemente sui progressi della fisica applicata e delle nuove realizzazioni tecniche da essa realizza, ma che poco rilievo venisse dato “al fattore umano che ha una sua dinamica e trova il suo particolare equilibrio nei metodi che uniscono l’organizzazione scientifica del lavoro con la sociologia applicata ai complessi umani”. Egli rilevava dunque la necessità per il Politecnico di ampliare il suo raggio di contatti con le istituzioni che al di fuori dell’Università promuovevano attivamente lo sviluppo un tale approccio, le scuole di formazione dei grandi gruppi industriali (Falck e Pirelli), il CNP, il nuovo corso di Alti studi di organizzazione aziendale di Torino. Questo rapido e crescente effetto di inserimento del Corso Mauro nel dinamismo istituzionale e nel fervore innovativo dei primi anni cinquanta, pilotato da un ristretto numero di ingegneri in posizione “strategica” tra formazione, reti industriali e alta amministrazione dello stato, si delineò, come si è detto, soprattutto nel periodo che seguì la repentina e prematura scomparsa di Mauro, nel febbraio del 1952. Va detto tuttavia che la sua morte segnò più uno spostamento delle problematiche dal taylorismo “classico” all’organizzazione aziendale in chiave di gestione delle risorse umane, che una vera e propria cesura negli orientamenti dell’ingegneria gestionale. Uno spostamento che significativamente si concretizzò in un processo di ulteriore rafforzamento delle reti esterne al Politecnico rispetto alla configurazione originaria del Corso Mauro, ma in sostanziale continuità col suo assetto organizzativo, che faceva leva soprattutto sui docenti esterni. Tale continuità sembrò sancita, alcuni anni più tardi, dal cospicuo la scito che la vedova di Mauro, Maria Antonietta Fiorentini, deceduta nell’agosto del 1958, fece al Politecnico, compiendo così la volontà del marito di dare all’insegnamento dell’ergotecnica una stabilità istituzionale. E tuttavia furono proprio le vicende dell’“eredità Mauro” nel loro porsi in rapporto, attraverso la gestione del “fondo”, con l’evoluzione delle politiche scientifiche interne al Politecnico che rivelano, se considerate in una prospettiva di lungo periodo, l’emergere di un cruciale punto di passaggio dalle problematiche della produttività, ancora interne al campo problematico del taylorismo, a quelle dell’ingegneria gestionale, centrata sull’approccio dei sistemi complessi, che andò delineandosi a partire dai primi anni settanta in un contesto di crescente detaylorizzazione dell’ingegneria di produzione. L’“eredità Mauro” Francesco Mauro aveva redatto il suo testamento al compimento del suo sessantesimo anno di età, il 3 marzo del 1947, nominando erede universale la moglie Antonietta Fiorentini con la clausola che 71 se Ella mi fosse premorta siano versate l.500.000 a ciascuna delle nipoti Federica, Adriana e Nicoletta Fiorentini (...) la raccolta dei minerali vada al Museo Civico di Storia naturale di Milano (...) vadano ai civici Musei d’arte di Milano tutti e soli quegli oggetti gioielli, sculture, giade, dipinto oggetti di scavo, mobili che la direzione riterrà adatti per l’esposizione al pubblico; tutto il resto vada al Politecnico di Milano affinché col ricavo possa istituire una cattedra di ergotecnica (organizzazione scientifica del lavoro e razionalizzazione) 53 Alla morte della signora Mauro, avvenuta 15 agosto 1958, il patrimonio risultò ulteriormente accresciuto dai beni che Antonietta Fiorentini aveva ereditato dalla madre Antonietta Bezenzanica, vedova del prof. Angelo Fiorentini e che consistevano nella quarta parte di una casa di 83 vani in Milano, via Giannone 6, e di un’altra di 62 vani allo stesso numero; una quarta parte di una casa di 77 vani in Milano, via Giusti 5; una quarta parte di una casa di 75 vani in Milano, via Giusti 5; una quarta parte di una casa di 32 vani in Roma, via Villa Ruffo5. Il testamento olografo della vedova Mauro, redatto il 16 marzo 1952, un mese dopo la morte del marito, “istituiva suo erede universale il Politecnico di Milano”. L’opposizione fatta dalle nipoti della signora Mauro, che impugnarono il testamento (che essi ritenevano, stando alle dichiarazioni della defunta “superato”) con atto di citazione del 20 ottobre 1959, dichiarandosi legittime eredi, si risolse il 31 marzo del 1962, in un’istanza di transazione. In cambio della rinuncia delle signore Federica, Adriana e Nicoletta a “qualsiasi eccezione o diritto in ordine alla destinazione che il Politecnico di Milano riterrà di dare ai cespiti ereditari” venivano loro trasferiti in piena proprietà i seguenti beni: la quota indivisa delle proprietà immobiliari sopra descritte, trecento azioni nominative ordinarie della Pirelli e C., 5001 azioni ordinarie della Montecatini - Società Generale per l’Industria Mineraria e Chimica - Società per azioni, 999 azioni nominative ordinarie della Vizzola SPA, oggetti d’arte e di valore facenti parte degli arredi delle suddette abitazioni, la somma in contanti di L. 50.000.000, per un valore complessivo di L. 224.341.258. Nel documento notificato dal rettore del Politecnico al Ministro della pubblica istruzione l’11 ottobre 1965, si faceva osservare che le autorità accademiche del Politecnico avevano rilevato che, pur dopo il trasferimento in proprietà alle signore Fiorentini del complesso di beni concordato (...) la parte del patrimonio dell’eredità della Signora Fiorentini vedova Mauro (...) di cui il Politecnico di Milano ha acquisito l’effettiva proprietà, è ingente54. Si trattava di una somma complessiva di 637.526.997 lire che il Politecnico chiese di destinare alla costituzione di un’istituzione senza personalità giuridica, denominata Fondo Francesco e Antonietta Mauro. Il fondo — si precisava nel documento firmato dal rettore Gino Bozza in data ll ottobre 1965 — è destinato, in esecuzione del testamento o1ografo in data 16 marzo 1952 della signora Antonietta Fiorentini, a sostenere le spese necessarie per lo svolgimento presso la Facoltà di ingegneria del Politecnico di Milano: a) 53 54 ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNIICO DI MILANO, Fondo Francesco e Antonietta Mauro. Ivi. 72 dell’insegnamento di ergotecnica; b) di ricerche scientifiche e di ogni altra iniziativa intesa allo sviluppo della disciplina medesima. Va messo in rilievo che il Senato accademico cercò di mantenere l’assetto originario dell’insegnamento di ergotecnica presso il Politecnico, che era quello di disciplina complementare insegnata per incarico e dunque da un docente non di ruolo. Una delibera del Consiglio di Stato che rilevava l’incompleta ottemperanza di tale orientamento rispetto a quanto espresso nel testamento della defunta, che chiedeva la creazione di una cattedra, obbligò il Politecnico a mettere in atto la trasformazione dell’incarico in insegnamento di ruolo. Tuttavia dalle vicende che caratterizzarono in seguito la politica di investimenti del Fondo, si evince che fu soprattutto il secondo dei punti sopra elencati che costituì il catalizzatore dell’attività promossa dal Politecnico, nell’ambito delle prime fasi di sviluppo dell’ingegneria gestionale e nel suo processo di differenziazione dai principi ispiratori dell’ergotecnica. Tale orientamento fu reso possibile soprattutto dall’applicazione dell’articolo 7 del regolamento del Fondo il quale sanciva il ruolo decisionale del Comitato Direttivo (composto dal rettore del Politecnico, dal preside della Facoltà di ingegneria e da due membri scelti rispettivamente dal Consiglio della Facoltà di Ingegneria e dal Consiglio di Amministrazione del Politecnico) in materia di promozione delle iniziative ritenute utili per il raggiungimento delle finalità del Fondo 55. Un mutamento decisivo: l’organizzazione della ricerca negli anni settanta e la teoria dei sistemi complessi Il processo di allargamento delle reti esterne del Politecnico fu rafforzato dall’iniziativa di Dante Pagani, che era stato allievo di Giulio Natta, ma che aveva avuto una carriera accademica molto lenta. Incaricato dell’insegnamento di Tecnologie delle pitture e delle vernici presso il Politecnico di Milano dal 1958, era diventato professore ordinario presso lo stesso Politecnico solo nel 1967, quasi alle soglie del pensionamento. Subito dopo il conferimento della cattedra, con l’intento di dare ulteriore incremento alle tematiche e agli impulsi di collaborazione tra l’università e il mondo dell’impresa, egli aveva avuto l’idea di creare un “Corso di Cultura e Gestione delle Aziende” che aveva il compito di rafforzare le strategie del “Corso Mauro”, in anni in cui il sostegno degli industriali alle politiche scientifiche e di formazione si era notevolmente indebolito dopo la crisi economica del 196364. Nato con l’appoggio della Pirelli e della Associazione degli amici del Politecnico, di cui Pagani era presidente, il corso si teneva tutti i mercoledì e tutti i sabato, con la partecipazione di docenti che venivano dai diversi settori della formazione gestionale: Loriga, per la direzione del personale, Massa e Brunetti per il controllo di produzione, Talamona per il marketing, Bozza per l’analisi quantitativa. L’innovazione propulsiva per lo sviluppo dell’ingegneria gestionale non venne tuttavia dal rafforzamento di queste reti esterne. Il nucleo originario di un mutamento di grande portata venne piuttosto dallo sviluppo, in seno al fondo Mauro, di piccoli nuclei di ricerca applicata che andarono rafforzandosi soprattutto nel corso della seconda metà degli anni settanta. Uno di essi faceva capo all’Istituto di Elettrochimica, nell’ambito del quale un gruppo di studiosi — Mazza, Sinigaglia, 55 Estratto dal Verbale dell'Adunanza del Senato accademico in data 13 luglio 1962, ivi. 73 Dina, Nano — avviò, a partire dai primi anni settanta, un programma di ricerca sui fattori ambientali e l’inquinamento, i fattori di rischio nell’industria siderurgica e nell’acciaieria elettrica, sviluppando uno studio dei fattori di complessità sociale e non meramente tecnica nell’articolazione tra impiantistica e organizzazione del lavoro, elaborato sulla base di un approccio empirico, a partire dall’analisi approfondita di casi aziendali significativi. Lo sviluppo di tali ricerche si valse ampiamente delle risorse create dal fondo Mauro, integrate con altre risorse che si resero disponibili nel corso degli anni settanta con l’incremento delle strategie di formazione nell’ambito della gestione — in particolare il programma denominato PFM promosso dalla Confindustria con la collaborazione dell’EIASM di Bruxelles e con un finanziamento della Ford Foundation — che offriva supporto all’organizzazione di workshop di ricerca e borse di studio post-lauream 56. Il punto focale che innescò il mutamento fu comunque rappresentato dagli ingegneri che si raccolsero attorno ad un giovanissimo docente, Emanuele Biondi, che nel 1963, poco più che trentenne, aveva ottenuto la cattedra di elettrotecnica, succedendo al suo maestro Bottani, che era stato il primo presidente della Metropolitana di Milano. Dopo molti anni di ricerche nel settore dell’automazione industriale (a fianco di Quazza dell’Enel e di Costadoni della CGE di Bagnoli), Biondi sviluppò, soprattutto attraverso i suoi allievi Rinaldi, Guardabassi e Locatelli, intensi contatti coi docenti e i ricercatori dello IIASA (International Institut of Applied System Analysis), con Raiffa e Zipkin in particolare, i quali avevano elaborato un modello di teoria delle decisioni a carattere fortemente matematico. Creato a Laxemburg, all’inizio degli anni settanta, col sostegno della Fondazione Ford e delle alte autorità del governo sovietico (Gvishiani), l’IIASA si proponeva di favorire la ricerca operativa in chiave di ottimizzazione dei sistemi complessi attraverso lo sviluppo delle matematiche applicate e dare impulso alla cooperazione tra gli scienziati occidentali e quelli di oltre cortina, in particolare i polacchi che avevano fatto progressi importanti in questo settore di ricerca 57. Nel suo lavoro di ricerca Biondi aveva seguito il tracciato pionieristico di Zadeh, il quale, alla fine degli anni sessanta 58, era approdato a una definizione dei sistemi sfumati, sottoposti a trattamento algebrico in diversi settori di applicazione, che andavano dalla gestione alla meteorologia. In questo percorso Biondi e la sua équipe cominciarono a riflettere sulla crucialità dell’im-postazione dei problemi all’ingresso del tracciato che doveva portare al “progetto” e dunque operarono una riformulazione delle mappe cognitive dell’ingegnere progettista classico per il quale l’obiettivo è la realizzazione del “prodotto”, ridefinendo il punto focale: non più il progetto ma la programmazione concettuale necessaria alla comprensione del sistema (l’impresa, l’ambiente, e più recentemente, nel caso della bioingegneria, il sistema nervoso, muscolare ecc.) e la sua traduzione in linguaggio matematico. In 56 Si v. il mio The enclosure effect. Innovation without standardisation in Italian Management Education (1950's-1970's), in L. ENGWALL e V. ZAMAGNI (a cura di), Management Education in Historical Perspective, Manchester Universtity Press, in corso di pubblicazione. 57 Sulle origini dello IIASA e le politiche della Fondazione Ford, si v. G. GEMELLI, From Imitation to Competitive-Cooperation. The Ford Foundation and Management Education in Western Europe 1950s-1970s, EUI working papers, RSC No 97/35. 58 L. A. ZADEH, Toward a Theory of fuzzy systems, Washington, National Aereonautics and Space Administration, 1969. 74 questo percorso Biondi trovò resistenze e consensi in una rete di relazioni che è molto difficile dirimere per l’osservatore esterno e per di più fondamentalmente estraneo alle problematiche scientifiche qui sommariamente e superficialmente tratteggiate. Si può osservare che la policy che orientava questi programmi di ricerca, a differenza delle tendenze “centrifughe” del “Corso Mauro” era ispirata principalmente all’adattamento delle risorse alla configurazione istituzionale e strategica del Politecnico 59. Una circolare del Presidente del Comitato direttivo del Fondo Mauro del dicembre 1979 sanzionava una pratica che si era andata delineando “spontaneamente” nel corso di un decennio, attraverso la quale la strategia della politica scientifica alimentata dal fondo si era spostata dalla ergotecnica e da un’ingegneria di produzione che considerava l’approccio organizzativo in termini di interazione con variabili di tipo esterno alla problematica dei sistemi complessi che tendeva invece come si è detto a internalizzarle in forma processuale. Come si evince dal documento citato di seguito la configurazione delle strategie di ricerca fu all’inizio piuttosto ibrida e probabilmente anche attraversata da lotte non sempre palesemente dichiarate (tra meccanici e sistemistici ad esempio) ai quali il comitato direttivo cercò di ovviare con politiche di concertazione fatte convergere nel sempre più instabile e dinamico settore dell’“ingegneria di produzione”. Allo scopo di dare impulso sia pure parziale a quella integrazione e a quello sviluppo delle attività de Politecnico nel campo dell’ingegneria della produzione, che più volte sono stati riconosciuti auspicabili, il comitato direttivo raccomanda a tutti gli interessati a ricerche e attività afferenti le finalità istitutive del fondo Mauro, di costituirsi in un gruppo di lavoro permanente con precise procedure e regole di funzionamento da studiarsi (ad esempio sul tipo di quelle del CNR). In tal modo la molteplicità delle iniziative potrà trovare un coordinamento operativo stabile ed una integrazione culturale organica con effetti sinergici. Inoltre i docenti e ricercatori interessati cominceranno così ad acquisire la consuetudine ad un lavoro coordinato ed infine si avrà l’occasione di fornire alla Facoltà dimostrazione concreta delle opportunità di dare alle attività di ricerca attinenti le finalità del Fondo Mauro collocazione in una più vasta struttura riguardante l’area dell’ingegneria della produzione 60. Un settore decisivo nel potenziamento della ricerca e delle attività di coordinamento fu costituito dalla cooperazione instauratasi tra l’Istituto di ergotecnica, diretto da Renato Wegner, che faceva parte di diritto del Consiglio direttivo del Fondo, e l’Istituto di elettrotecnica e di elettronica che sin dalla metà degli anni settanta sotto l’impulso di Biondi e poi dei suoi allievi Adriano De Maio, Francesco Brioschi e Umberto Bertelé e nel quadro di un articolato progetto sul decentramento produttivo in diversi settori industriali (dalla lavorazione per asportazione del truciolo nell’industria meccanica al settore tessile) sviluppò Si v. al proposito E. Biondi, La bioingegneria: un passo verso una nuova cultura politecnica, Prolusione per l'apertura dell'Anno Accademico, 1995-96. 60 Verbale dell'adunanza del Comitato direttivo del Fondo Francesco e Antonietta Mauro, del 5 Febbraio 1979, p. 2, ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Fondo Francesco e Antonietta Mauro. 59 75 un’intensa collaborazione anche con altre università, in particolare la Bocconi e l’Università di Padova. La fase iniziale di questo processo di smantellamento del legame tra taylorismo e ingegneria di produzione e la crescita del nuovo paradigma dei sistemi complessi coincide con la crescita della strategie di sviluppo della “formazione continua” in cui i corsi di specializzazione non fecero che moltiplicarsi. Un fenomeno che non fu affatto limitato all’Italia ma che, come ha mostrato A. Grelon, si delineò anche in Francia più o meno nello stesso periodo. Nei confronti di questo processo di frammentazione specialistica emerse rapidamente una contro-tendenza rappresentata significativamente dagli ingegneri “sistemistici”. Nel novembre del 1977, su iniziativa del Rettore del Politecnico, professor Dadda, nell’adunanza del Comitato direttivo del Fondo Francesco Mauro venne espresso unanimemente l’auspicio che al Politecnico si venga a determinare nel prossimo futuro una concentrazione di tutte le attività di studio e ricerca sull’ambiente (analisi, controllo, e bonifica di tutti i tipi di ambiente e non soli industriali) in un “Centro” (...) unico e autosufficiente. Nell’immediato possono essere incoraggiate dal Fondo Mauro iniziative interdisciplinari che utilizzino competenze specializzate disponibili attualmente solo in ambiti disciplinari e specialistici. Tuttavia tali iniziative dovrebbero contribuire alla formazione di nuove competenze che si possono successivamente concentrare come auspicato in un centro unico 61. Nel 1976 venne ad esempio istituito il corso di perfezionamento in “Progettazione e gestione dei sistemi di produzione”. Nella lettera inviata da Renato Wegner e De Maio al Consiglio direttivo della Fondazione Mauro si faceva presente che L’esecuzione del corso nel 1977 avrebbe dovuto dare utili indicazioni per la progettazione di un corso analogo ma molto più esteso di durata annuale, che dovrebbe proporsi come VI anno di perfezionamento per i laureati in ingegneria 62. È interessante osservare che anche i criteri di attribuzione delle Borse di studio individuali nel quadro dell’attività della Fondazione seguivano un disegno istituzionale volto a promuovere non solo la logica interdisciplinare ma anche la sinergia dei gruppi di lavoro. La ricerca di uno dei borsisti per l’anno 1976, Franco Caron, sul tema “Organizzazione del lavoro e relativi riflessi impiantistici” prevedeva, ad esempio, non solo l’acquisizione di conoscenze inerenti la realtà aziendale, ma anche la collaborazione di esperti aziendali in sede di elaborazione delle metodologie generali di approccio alla progettazione degli impianti industriali. L’effetto sinergico prodotto dal coagularsi di gruppi di ricercatori nel corso degli anni settanta attorno ai laboratori di ricerca sopra menzionati portò alla creazione nel corso dei primi anni ottanta di un “Gruppo per gli studi sui sistemi di produzione del lavoro”, che si sviluppò secondo modelli di comportamento basati sulla cooperazione competitiva dei gruppi di ricerca. Le ricerche inerenti i settori 61 Verbale dell'adunanza del Comitato direttivo del Fondo Francesco ed Antonietta Mauro, in data 3 novembre 1977, in ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Fondo Francesco e Antonietta Mauro. 62 ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Fondo Francesco e Antonietta Mauro. 76 dell’analisi operativa — strategia della produzione, logistica industriale, programmazione della produzione — della simulazione tecnologica e dell’organizzazione e gestione aziendale divennero progressivamente dominanti, soprattutto attraverso il lavoro didattico e di ricerca svolto da Emanuele Biondi, rispetto al nucleo ergotecnico e dei meccanici che sviluppava le problematiche più tradizionali dell’ingegneria di produzione. Un impulso teorico di rilievo, che non costituì tuttavia il nucleo del “mutamento di prospettiva”, ma servì, comunque, da supporto alla trasformazione in atto venne dalla rapida disseminazione nell’ambito del Politecnico dell’approccio denominato strategic management. Al Politecnico di Milano tale approccio funzionò da supporto teorico e organizzativo allo sviluppo della teoria dei sistemi complessi e si innestò nel solido sviluppo di un altro settore di ricerca determinante per lo sviluppo dell’ingegneria gestionale: l’analisi operativa. Si noti che questo passaggio, dall’analisi operativa all’approccio in chiave di sistemi complessi, non era affatto inedito nel contesto europeo, dove era emerso con effetti istituzionali differenziati. In Francia, in particolare, il nucleo dei giovani polytechniciens formatosi attorno a Maurice Allais tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta fu portatore di un profondo mutamento nella configurazione professionale e nell’habitus mentale del polytechnicien tradizionale, dal quale non solo scaturì la figura dell’ingegnere-economista ma che, in alcuni casi, portò i giovani ingegneri verso le problematiche del management di derivazione harvardiana, dunque ad un allontanamento dalla professione di ingegnere che resta invece come un elemento fortemente caratterizzante gli ingegneri gestionali italiani. Ricordiamo che i fondatori della prima business school europea, l’INSEAD di Fontainebleau erano tutti dei polytechniciens, allievi di Allais che avevano completato la loro formazione alla Harvard Business School. Tornando al Politecnico di Milano e al ruolo della problematica dello strategic management, dobbiamo ricordare che nella nota introduttiva al programma di ricerche proposto dal “Gruppo per gli studi sui sistemi di produzione del lavoro” per il 1980 si moltiplicano le citazioni di Igor Ansoff, il massimo teorico di questo orientamento che si era rapidamente imposto nelle grandi scuole di management americane ed europee, ma che al Politecnico di Milano ha avuto come si è detto più una funzione di supporto allo sviluppo delle problematiche dei sistemi complessi che di una teoria autonoma, dotata di un effettivo potere di aggregazione accademica e scientifica. La nota sottolineava che l’automazione in produzione e l’introduzione dell’innovazione tecnologica hanno evidenziato il legame tra sistema sociale e sistema tecnico, nella rappresentazione della realtà dell’impresa, mettendo l’accento sulle necessità di una metodologia di valutazione dell’impatto dell’innovazione tecnologica sull’impresa e sull’“occupazione”. Lo sviluppo di questo orientamento portò rapidamente i ricercatori del Politecnico a rilevare l’inadeguatezza sia dell’ap-proccio di tipo funzionale che dell’approccio di tipo organico, e a mettere in rilievo la valenza strategica dei fattori evolutivi in una direzione di ricerca che faceva proprie le più recenti acquisizioni della teoria della complessità e che era volta prevalentemente ad applicarle al settore operativamente cruciale del decentramento delle strutture produttive. Il rapido sviluppo e l’effetto moltiplicatore delle ricerche promosse dal “Gruppo per gli studi sui sistemi di produzione del lavoro” alimentò un processo di accelerata integrazione tra le politiche scientifiche del Politecnico e l’ambiente industriale e 77 amministrativo lombardo. Il Comune, la Provincia, la Regione affidarono infatti ai docenti del Politecnico il ruolo di garanti della tutela ambientale e l’organizzazione dei progetti di prevenzione e bonifica. Si legga a esempio la lettera inviata dal sindaco del comune di Sesto San Giovanni al prof. Sergio Carrà dell’Istituto di Chimica Fisica Elettronica e Metallurgia del Politecnico: Questa Amministrazione comunale, ritenendo fondamentale per la realizzazione della prevenzione primaria garantire attraverso i servizi che gestisce, non solo l’individuazione degli agenti nocivi degli ambienti industriali, ma anche le indispensabili indicazioni per l’attuazione delle bonifiche ambientali, data la presenza nelle nostre città di grandi complessi industriali (Falk, E. Marelli, Breda) chiede di poter realizzare un rapporto di collaborazione costate con il vostro istituto 63 . Nel corso degli anni settanta il Fondo Mauro agì da contenitore e da vettore nella creazione di un vincolo dinamico tra il Politecnico e l’ambiente industriale lombardo, fondato però non sui principi dell’ergotecnica, come nel solco tracciato da Mauro, ma sull’assunzione del principio della complessità come orientamento del design della ricerca e poi di un progetto istituzionale dai connotati sempre più chiari. Parallelamente, tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta anche il Corso per dirigenti d’azienda che sino all’inizio degli anni settanta presentava un “manifesto” di rilievo con la partecipazione di consulenti con un ottimo profilo professionale (Pierluigi Malinverni, Ennio Baldini) e del marketing (Tagliacarne, Bellavista) e con la collaborazione dei più noti e competenti “direttori del personale” (da Bozzola a Di Colloredo), si svuotò delle funzioni propulsive che aveva avuto nel periodo precedente. Al tempo stesso maturò un processo di internalizzazione della formazione gestionale, che ebbe sempre meno bisogno di “supplenze” esterne e che si valse di canali autonomi e ormai consolidati col mondo industriale locale e regionale. Nel verbale del Consiglio della Facoltà di ingegneria del 15 febbraio 1977 si sottolineò con vigore il nuovo ruolo del Politecnico nella gestione del Corso Mauro, stabilendo in particolare che il coordinatore del corso dovesse essere un Docente della Facoltà di ingegneria del Politecnico e dovesse esercitare un controllo didattico e amministrativo. Nel corso del periodo compreso tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta l’innovazione del design formativo al Politecnico di Milano, derivò principalmente dall’intreccio tra l’assunzione del punto di vista della complessità sociale nell’analisi dei fenomeni di trasformazione industriale e tecnologica e da un processo di negoziazione e di articolazione tra lo sviluppo di strategie diversificate, delineatesi nel medio periodo (di cui come si è visto il Fondo Mauro fu un vettore a dinamismo decrescente) e la definizione nel breve periodo di una struttura istituzionale atta a fornire un assetto organizzativo alla logica del cambiamento epistemologico in atto. Da tale assetto, l’organizzazione scientifica del lavoro, che era stata il centro motore della problematica e dell’azione organizzativa di Mauro, veniva ormai definitivamente espunta. Lettera del sindaco di Sesto San Giovanni al professor Sergio Carrà del 27 gennaio 1978, ARCHIVIO GENERALE DEI POLITECNICO DI MILANO, Fondo Francesco e Antonietta Mauro. 63 78 Strategia e struttura: verso il corso di Laurea in Ingegneria Gestionale Ad una dimensione estrinsecamente interdisciplinare — coordinamento dei corsi specialistici — andò sostituendosi una logica interscientifica che poneva al suo centro la “formulazione dei problemi”. Alcune figure come quella del rettore Dadda agirono da punto di intersezione tra queste logiche opposte e potenzialmente confliggenti. In una relazione tenuta al “Corso Mauro” nei primi anni settanta il rettore del Politecnico, Luigi Dadda, dichiarava: Il tema dell’istruzione permanente — sosteneva Dadda — va ben oltre le motivazioni derivanti dalle necessità dell’aggiornamento professionale, per assumere il significato di una rivalutazione della cultura non più concepita come patrimonio di una ristretta élite, ma come il necessario fondamento della vita spirituale di tutti i cittadini (...) Se da una parte l’adeguamento dei programmi di studi allo sviluppo della tecnologia va perseguito per non correre il rischio del distacco fra la scuola e il mondo attivo, non si può d’altra parte non vedere il pericolo di una frammentazione della conoscenza, mentre è compito della scuola operare una sintesi della conoscenza stessa e di promuovere l’interdisciplinarietà. Anche per tale motivi (...) è indispensabile un ripensamento globale dei compiti del Politecnico. Dadda insisteva soprattutto sulla necessità di integrare diverse prospettive e approcci di analisi dei problemi ingegneristici, in conformità con lo spirito sintetico della moderna tecnologia, sulla necessità di formare il “nuovo ingegnere” all’uso simultaneo di più tecnologie e alla cooperazione con altri colleghi “per il raggiungimento di scopi complessi”. Tale osservazione, continuava Dadda, porta a segnalare la centralità della formazione sistemistica che non solo educa l’allievo ad una mentalità per la quale l’oggetto della propria attività di progetto è visto in relazione al più vasto sistema in cui esso è inserito, prevedendone tutte le interazioni, ma fornisce anche importanti metodologie scientifiche. Ricerca, progettazione, produzione o costruzione e gestione (non solo dei fattori economico-organizzativi ma anche dei fattori umani, nel contesto privato e in quello pubblico-servizi sociali e territorio) dovevano fare parte di un unico “design formativo”, in cui l’apporto delle discipline sociologiche, oltre che di quelle aziendali e economiche, ormai consolidate come fattori complementari della formazione tecnica e specialistica dell’ingegnere, risultata decisivo. Ritengo di grande importanza — concludeva il Rettore — che i tecnici si rivolgano ai problemi sociali e politici (e con ciò non intendo dire “partitici”) con la coscienza del rilevante ruolo che essi sono potenzialmente capaci di assolvere per il bene della comunità, cioè della “polis”. Ricordiamo che un paio di anni dopo il consiglio della Facoltà di ingegneria decideva l’introduzione di un insegnamento di Istituzioni di scienze economiche e sociali. 79 Il messaggio lanciato un quarantennio prima da Elton Mayo sulla necessità di fondare la gestione sull’interscienza, cioè sull’articolazione di “fenomeni sociali totali” e sul fatto che essa incorporasse, come connotato distintivo, rispetto alle prime fasi del taylorismo, una filosofia dei valori connessi al “ruolo sociale dell’ingegnere”, sembrava, dunque, farsi strada, attraverso il vettore teorico dello strategic management e i modelli organizzativi ad esso connessi e soprattutto grazie alla funzione, scientificamente e accademicamente aggregante, della teoria dei sistemi complessi, nel circuito formativo del Politecnico. E questo non più attraverso l’apporto esterno di un corso di perfezionamento in materia gestionale ma come “cultura di un’impresa educativa”, il cui principale obiettivo era l’internalizzazione dell’ambiente scientifico, tecnologico e industriale come sistema a complessità e interdipendenza crescente. Questo processo di internalizzazione dell’ambiente — che andò consolidandosi, come si è detto, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, con l’arrivo al Politecnico di una nuova generazione di docenti che avevano anche solide radici nel mondo della consulenza milanese — costituì ad un tempo il culmine dell’evoluzione storica e il punto critico di svuotamento della funzione strategica del corso Mauro, nonché il punto di avvio della definizione di una nuova “struttura organizzativa” il cui cardine non erano più i corsi di perfezionamento ma la differenziazione dei corsi di laurea. Occorre — scriveva il Rettore Dadda — che i laureati del Politecnico, che oggi si differenziano a seconda della specializzazione assunta e tuttavia conservano una comune, vasta preparazione di base, si differenzino ulteriormente non solo per le nuove specializzazioni apprese, ma anche per quanto riguarda la preparazione di base stessa, che potrà essere orientata in modo differenziato a seconda del tipo di laurea. Il fondo Mauro nel corso degli anni settanta e dei primi anni ottanta fornì senza dubbio un impulso allo sviluppo di strategie di formazione rispondenti a quanto enunciato dal Rettore nella relazione sopra citata, agendo come supporto all’attività di ricerca inerente i sistemi di produzione e in particolare alimentando il lavoro degli studiosi che facevano propria la logica dei sistemi complessi. Agì, però anche, paradossalmente, da vettore del processo di svuotamento della funzione propulsiva del Corso Mauro, attivando una sorta di “chiasmo” istituzionale, che si tradusse in un effetto di scambio energetico incrociato, a valenza entropica se rapportato al ruolo che il Corso Mauro e le problematiche del taylorismo e dell’ergonomia di ispirazione meccanicistica avevano avuto nei decenni precedenti. Nel 1979 il professor Adriano De Maio, al quale era stato affidato l’incarico di coordinare il corso e di dare seguito alla collaborazione con l’IDI (che su commissione dell’ALDAI, aveva dal 1971 il compito di seguire l’organizzazione e lo svolgimento del Corso Mauro) inviava una lettera piuttosto allarmata al rettore Dadda sottolineando la “situazione insostenibile” del Corso Mauro la cui edizione autunnale era stata annullata per non avere raggiunto un numero sufficiente di iscrizioni. La lettera faceva il punto sulla situazione di frizione che si era andata creando tra i partner tradizionali del Corso, il Politecnico, l’ALDAI e l’IDI, i cui obiettivi si andavano radicalmente differenziando, nel momento in cui il corso subiva una nuova riorganizzazione, nell’ambito del Programma di istruzione 80 permanente, sotto la guida di De Maio, assumendo anche la nuova denominazione di Corso Dirigenti di Aziende Francesco Mauro. È chiaro — scrive De Maio — che la responsabilità “tecnica” del corso, contenuti e modalità didattiche, deve essere di esclusiva pertinenza del Politecnico, con la precisazione del fatto che il corso, proprio in quanto tenuto dal Politecnico, ha senso soltanto se punta su un programma innovativo e non già se si pone l’obiettivo di fare concorrenza a corsi tradizionali, peraltro egregiamente condotti da organizzazioni “profit oriented” quali, ad esempio, l’ISEO, la CEGOS, e lo stesso IDI (...) molto impegnata su altre iniziative, che (...) erano fonti di profitto per l’IDI stesso e che per tale motivo non aveva alcun interesse a spendere tempo e risorse per curare l’attività promozionale relativa al corso Mauro 64. L’inserimento del corso nell’ambito del Programma di istruzione permanente a partire dal 1977, comportava, come si è accennato, non solo un processo di più forte internalizzazione delle sue strategie formative nella configurazione istituzionale del Politecnico ma anche il consolidamento della docenza interna rispetto alla tradizionale formula dei corsi, attribuiti a docenti esterni e provenienti sia da altre Università che dall’IDI stessa. La situazione altalenante che si creò negli anni successivi non portò affatto ad un “nuovo decollo”, anche se il corso continuò formalmente fino al 1983 sotto la direzione del professor Brandolese. Nel 1983 una breve nota nel verbale del consiglio della Facoltà di ingegneria (datata 3 novembre) informava che il Corso “Francesco Mauro” di formazione manageriale “ non potrà avere luogo per insufficienza di iscritti”. La data è significativa perché corrisponde al periodo immediatamente successivo al varo di due iniziative di ampia portata: il Corso di Laurea in Ingegneria delle Tecnologie Industriali ad indirizzo economico organizzativo e il Master in Ingegneria della Produzione. Il nuovo corso di Laurea — scriveva il professor Dadda, in una circolare del 22 maggio 1984 — ha come obiettivo la creazione di figure professionali, molto diffuse negli altri paesi industriali, che affianchino a solide conoscenze metodologiche e tecnologiche (soprattutto nelle aree più innovative) una cultura adeguata di carattere economico, organizzativo e gestionale (...) Il Master in Ingegneria della Produzione costituisce un importante complemento del corso di Laurea, per il suo carattere postlauream et post experientiam. Volto alla formazione di giovani manager in grado di gestire “sistemi complessi”, esso è caratterizzato, rispetto alle business schools tradizionali, dai problemi posti dalla introduzione e dall’utilizzo delle nuove tecnologie. Una tematica, non lo si dimentichi, che a partire dalla metà degli anni settanta era stata al centro del dibattito internazionale sulla ridefinizione del curriculum delle grandi business schools europee, e che aveva portato, in modo a dire il vero affrettato, alla creazione, seguita da una altrettanto rapida involuzione, dell’International Institut for Management of Technology, con sede proprio a Milano. Non si Lettera di A. De Maio a L. Dadda deI 21 dicembre 1979, ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO , Corso Mauro. 64 81 dimentichi inoltre che componenti significative dello stesso Politecnico avevano cercato di portare avanti, anche in questo caso senza successo, il progetto di creare un corso di laurea in Tecnologia della produzione. Considerando questi “scacchi”, la creazione e il potenziamento del MIP avevano dunque un rilievo strategico. Nella circolare Dadda dava risalto non solo alla strategie di coordinamento del MIP col nuovo corso di Laurea ma anche alla costruzione di un “contatto strutturato” con il mondo industriale, che “potrà poi essere esteso al complesso delle attività del Politecnico in questa area”. Il processo di creazione del corso di Laurea in Ingegneria gestionale iniziò nel gennaio del ‘79 con la proposta di sdoppiamento, su richiesta del Consiglio Delegato di Elettronica, del corso di Organizzazione aziendale che inizialmente comportava una sezione A, specificamente dedicata agli allievi che frequentano successivamente il corso di Gestione aziendale, ossia prevalentemente quelli del sottoindirizzo organizzativo, dell’indirizzo sistemi e quelli del sottoindirizzo sistemi informativi dell’indirizzo calcolatori del corso di Laurea in Ingegneria elettronica, ed una sezione B, differenziata nel contenuto, la quale si rivolge agli altri indirizzi del Corso di Laurea in Ingegneria elettronica. La proposta non venne accolta ma rivela, sul piano della programmazione didattica, il processo di sedimentazione istituzionale di una differenziazione che inizialmente e proprio nel quadro dell’attività e delle politiche scientifiche del “Fondo Mauro” aveva riguardato i gruppi di ricerca che sin dalla seconda metà degli anni settanta apparivano articolati tra un settore nettamente ergonomico, un nucleo di Progettazione dei sistemi di produzione, un nucleo studio e progettazione della tecnologia e un nucleo Organizzazione e gestione aziendale. Il settore della Ricerca operativa venne accademicamente rafforzato nell’aprile del 1979 con conferimento dell’ordinariato a Francesco Brioschi, che nel 1977 aveva fatto parte della Commissione incaricata dalla Presidenza del consiglio dei ministri di redigere il piano agricolo alimentare e che aveva messo a punto un modello per l’effetto della variazione dei prezzi agricoli sui prezzi degli alimenti destinati al consumo finale e un modello ingresso-uscita (del tipo von Neumann) per l’analisi dei flussi in quantità nell’intero compatto agro-alimentare. A proposito di Brioschi va detto che nella genealogia del corso di Laurea in Ingegneria gestionale vi sono aspetti antropologicamente interessanti. Alcuni degli attori di tale processo, in particolare Antongiulio Dornig e soprattutto Francesco Brioschi, sono infatti, per reti familiari, legati alle radici più profonde e illustri della storia del Politecnico. Questo aspetto inerente le forme elementari della vita associata, la “familiarità delle reti professionali e l’aristocrazia dei lignaggi accademici” si è integrato con forme più complesse di sociabilità come la creazione di “gruppi di pressione”, a carattere generazionale, piuttosto compatti, formatisi originariamente nel quadro della ricerca sui “sistemi complessi” e rinsaldati poi da attività professionali legate alla consulenza o alla comune appartenenza a frazioni politico-intellettuali dell’élite cittadina, di cui occorrerebbe analizzare più approfonditamente la genealogia e la configurazione in termini di relazioni e di evoluzione delle medesime tra gli anni settanta e i tardi anni ottanta. 82 Da una prima, parziale ricognizione compiuta nei verbali del Consiglio di corso di Laurea delle Facoltà di ingegneria si può ad esempio rilevare che il gruppo formato da Bertelé, De Maio, Maffioli e Brioschi, sostenuto dalla maggior parte dei membri del Consiglio delegato degli Elettronici, si è opposto concordemente all’attribuzione dell’incarico di Organizzazione aziendale per l’anno accademico 1979-80 ad un docente che aveva competenze di “aziendalista”, legate prevalentemente al settore gestione e controllo di produzione. Questi docenti sembravano condividere l’idea che la semplice introduzione nei Corsi di laurea esistenti di alcuni insegnamenti organizzativo-economici, non poteva fornire un curriculum organico né permettere la realizzazione di una figura professionale ben definita, in grado di rispondere alle esigenze del mondo del lavoro. Un ulteriore punto di iniziale aggregazione fu la resistenza alle pressioni, che provenivano dall’ergotecnica e dal settore “tecnologico”, verso la creazione di un corso di Laurea in Tecnologia della Produzione sostenuto in particolare da docenti, come Roversi e Bertolese, che avevano potenziato questo settore anche nel quadro dell’attività di ricerca legata alla cattedra di Ergotecnica e all’attività del Fondo Mauro. Da questa configurazione scaturì, sostanzialmente (anche se lo studio di questo processo andrebbe ulteriormente approfondito analizzando come si diceva la dinamica dei gruppi e le sue variazioni, il che esula dal tema di questo contributo) il design del nuovo corso di Laurea in Ingegneria delle Tecnologie Industriali ad Indirizzo Economico-Organizzativo. Esso venne presentato, insieme al progetto di creazione di un Corso di Laurea in Ingegneria civile per la difesa del suolo e la pianificazione territoriale con una relazione al Consiglio della Facoltà di ingegneria del 23 luglio 1979, sulla base di un’articolazione che riprendeva un’analoga richiesta dell’Università di Udine per l’integrazione del DPR del 31 gennaio 1960, e che prevedeva due indirizzi. Nato da una forte spinta interscientifica il nuovo Corso di Laurea nasceva all’insegna di una biforcazione tra l’indirizzo di Progettazione e gestione dei sistemi di produzione ed Economia e gestione dei sistemi industriali, che il Verbale del Consiglio di Facoltà così esplicitava: nell’indirizzo A si dà una notevole importanza alle interrelazioni fra le scelte tecnologiche, progettuali e gestionali relative ai sistemi di produzione ed i più ampi problemi economico-organizzativi dell’impresa industriale, ossia, pur restando il sistema della produzione al centro degli interessi dell’indirizzo, si tende ad estendere il campo di interesse anche ai problemi di analisi, pianificazione e controllo di gestione dell’impresa nella loro globalità (...) Nell’indirizzo B si dà notevole importanza alle interrelazioni esistenti fra problemi tecnici e problemi economico gestionali, pur lasciando l’azienda al centro degli interessi degli insegnamenti di indirizzo, si dà spazio ai problemi concernenti l’analisi, la pianificazione dei settori industriali e connessi interventi pubblici. Il problema che resta aperto e che è tutto da indagare è se, a oltre quindici anni dalla creazione del nuovo Corso di Laurea, sia effettivamente emersa una nuova figura professionale e se l’approccio sintetico, più volte conclamato come elemento di individuazione della figura del “nuovo ingegnere”, “concettuale e progettuale” sia davvero un effetto consolidato. Questa serie di interrogativi comporterà 83 inevitabilmente lo sviluppo di analisi comparative che illuminino, non solo lo sviluppo dell’ingegneria gestionale in altri contesti universitari in Italia, ma anche l’esplorazione delle linee evolutive di questo settore “prismatico”, tra ricerca, formazione ed applicazione, in altri contesti europei e negli Stati Uniti. 84 Gli ingegneri della Scuola Bolognese, 1878-1917. percorsi biografici e carriere professionali Maurizio Zani Biblioteca Centrale della Facoltà di Ingegneria, Università di Bologna La professione dell’ingegnere è ormai da tempo oggetto di ricerca per la storiografia italiana. Gli storici della tecnica, dell’economia e del-l’istruzione hanno sottolineato come l’affermazione di questa figura professionale sia andata di pari passo con lo sviluppo dei processi di industrializzazione e modernizzazione del paese. Lo stesso ruolo e lo status acquisito da questo professionista all’interno della società borghese sono stati recentemente oggetti di attenzione, come del resto i processi di istituzionalizzazione della professione a partire dalla fine del secolo scorso 65. Le ricerche svolte hanno comunque accresciuto la consapevolezza di quanto sia difficile affrontare in maniera unitaria le vicende di questa categoria professionale. Negli ultimi due secoli, il rapido divenire della ricerca scientifica e tecnologica ha prodotto sempre nuove specializzazioni professionali, e l’evoluzione dei rapporti tra capitale e lavoro ha modificato sostanzialmente il ruolo dell’ingegnere all’interno delle imprese industriali. Anche la figura dell’ingegnere libero professionista ha conosciuto momenti di successo e di difficoltà, conseguenza del suo difficile rapporto con il mercato e con le amministrazioni pubbliche. Inoltre lo stesso sviluppo economico e industriale italiano, ritardato e difficoltoso, ha contribuito a rendere mutevoli e alterne le fortune degli ingegneri, del loro ruolo nella società e della loro legittimazione professionale. A ciò ha concorso il differenziato sviluppo economico delle varie realtà geografiche di cui si compone l’Italia, e queste fratture territoriali hanno finito per riflettersi sui risultati della ricerca. Studi approfonditi sono stati prodotti per i casi di Milano e Torino, capoluoghi delle aree economicamente più sviluppate della nazione e sedi delle scuole politecniche; più recentemente sono stati studiati gli effetti dell’educazione superiore tecnica nell’area veneta 66. L’analisi ha preso avvio dalle biografie di alcune figure di ingegneri, eminenti per l’importanza scientifica e accademica e per il ruolo svolto all’interno delle associazioni professionali e delle istituzioni. Successivamente è stato posto sotto osservazione un sempre maggior numero di carriere professionali. Per quanto concerne la realtà emiliana, conosciamo le origini della Scuola di applicazione per gli ingegneri di Bologna e il suo consolidamento, i docenti più 65 Per una sintesi delle vicende della professione dell’ingegnere negli ultimi due secoli, cfr. i saggi di M. MINESSO, L’ingegnere dall’età napoleonica al fascismo, in Storia d’Italia, Annali 10, I professionisti, a cura di M. MALATESTA, Torino, Einaudi, 1996, pp. 261-302; G. C. CALCAGNO, Il nuovo ingegnere (1923-1961), ibid., pp. 305-336. Sempre nella stessa opera, cfr.: A. M. BANTI, Redditi, patrimoni, identità (1860-1922), ibid, pp. 491-518 e le considerazioni dell’introduzione di M. Malatesta, Professioni e professionisti, ibid., p. XVXXXII. Cfr. inoltre C. G. LACAITA, Ingegneri e scuole politecniche nell'Italia liberale, in S. SOLDANI , G. TURI (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, I, La nascita dello Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 213-253. 66 M. MINESSO, Tecnici e modernizzazione nel Veneto. La scuola dell’Università di Padova e la professione dell’ingegnere (1806-1915), Trieste, Lint, 1992. Per la bibliografia complessiva, rimando alle sintesi di Minesso, Calcagno e Lacaita citate nella nota precedente. prestigiosi e i loro insegnamenti 67. Se le figure di maggiore rilievo sono già state oggetto di studio, abbiamo minori informazioni sul complesso degli ingegneri laureati nel capoluogo emiliano. Eppure sappiamo come anche in Emilia - Romagna a partire dall’inizio del secolo, e soprattutto dopo la Prima guerra mondiale, si fosse prodotto un sensibile distacco tra un’élite affermata e influente e la massa serializzata degli ingegneri, fossero essi liberi professionisti, funzionari dello Stato, dipendenti da imprese private, oppure ancora in cerca di una stabile sistemazione. Le carriere di pochi prestigiosi studiosi e professionisti corrono dunque il rischio di non essere rappresentative. Quella che si richiede è un’analisi di taglio prosopografico delle biografie di tutti gli ingegneri laureati a Bologna. Ne dovrebbe conseguire una conoscenza più approfondita non solo del percorso professionale e del successo sociale di ciascun individuo, ma anche ulteriori riflessioni sul ruolo svolto da questi tecnici nello sviluppo industriale del paese e degli specifici contesti locali in cui operavano; tra questi, ovviamente, la provincia e la regione in cui sorgeva la Scuola. La ricerca di cui si presentano qui i primi risultati intende muoversi in questa direzione, analizzando le carriere dei laureati presso la Scuola di applicazione bolognese. La fonte principale di questo studio è stata l’«An-nuario dell’associazione tra gli ex-allievi della Scuola di applicazione di Ingegneria di Bologna», pubblicato a partire dal 1903 68. Oltre alle notizie sulla vita dell’associazione, l’«Annuario» riporta sintetiche informazioni sul percorso biografico-professionale di ciascun ingegnere, registrando la provenienza geografica e la residenza nel corso della carriera. Anno dopo anno gli iscritti all’associazione aggiornavano i loro dati, annotando i progressi di carriera, il grado raggiunto nella pubblica amministrazione, gli incarichi di lavoro ricevuti, la residenza. Tale fonte è già stata utilizzata per verificare l’esito professionale dei laureati, individuando in maniera sintetica il settore di impiego o la specializzazione di ciascun ingegnere. In questo modo è stato possibile fornire corrette indicazioni sulle figure professionali dominanti e, grazie al paragone con dati simili relativi ad altre Cfr. G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri: la «Scuola d’Applicazione» di Bologna, in Innovazione e modernizzazione in Italia fra Otto e Novecento, a cura di E. DECLEVA, C.G. LACAITA e A. VENTURA, Milano, Angeli, 1995, pp. 262-296 e dello stesso autore l’articolo pubblicato in questa sede; cfr. inoltre, V. TELMON, Professionalità e accademia fra il declinare del XIX e gli inizi del XX secolo; gli inizi dell’ingegneria a Bologna, «Inarcos. Ingegneri, Architetti, Costruttori», XLIII (1988), n. 1, pp. 15-28. Le vicende della Scuola di Bologna sono state ricostruite anche da un originale punto di vista, quello del suo patrimonio librario: cfr. Il patrimonio librario antico della Biblioteca d'Ingegneria, a cura di B. BRUNELLI, C. BUCCHIONI, M. P. TORRICELLI, Bologna, Università degli Studi di Bologna-Biblioteca «Dore»-Facoltà di Ingegneria, [1992]. 68 Come risulta dallo Statuto sociale, l’associazione degli ex-allievi della Scuola di applicazione di Ingegneria si costituì l’1 maggio del 1903, a partire dall’iniziativa di alcuni ingegneri, in larga parte bolognesi, sollecitati al proposito dal prof. Silvio Canevazzi (cfr. «Annuario della Associazione fra gli exallievi laureati nella R. Scuola di Applicazione per gli ingegneri di Bologna», I (1903), pp. 3-7). La costituzione del sodalizio è di pochi mesi successiva alla nascita dell’Associazione degli ex allievi del Politecnico di Milano, e testimonia del sensibile rafforzamento della figura dell’ingegnere nella società bolognese dell’e-poca (cfr. le indicazioni di A. ALAIMO, Società agraria e associazioni professionali a Bologna nell’Ottocento: una proposta di ricerca, in Fra studio, politica ed economia: la Società agraria dalle origini all’età giolittiana. Atti del 6° convegno, Bologna, 13-15 dicembre 1990, a cura di R. Finzi, Bologna, Comune di Bologna e Istituto per la Storia di Bologna, 1992, pp. 307-328). Le pubblicazioni dell’associazione, interrotte a quanto è dato sapere con la Prima guerra mondiale, riprendono negli anni ‘50 e proseguono sino agli anni ‘80. 67 86 sedi italiane di formazione superiore tecnica, disegnare la particolare fisionomia “regionale” dell’ingegnere bolognese 69. In occasione di questa ricerca, grazie allo spoglio degli «Annuari» dal 1903 al 1918 si sono create delle schede biografiche, che seguono in maniera diacronica la carriera di ciascun individuo, dal momento della laurea sino alla Prima guerra mondiale. Le informazioni riportate sugli «Annuari» sono molto schematiche, ma ci consentono comunque di porre le basi per un successivo approfondimento dell’indagine, che dovrà vagliare fonti a stampa e d’archivio, con l’obiettivo di ricostruire in maniera più complessiva la formazione, la carriera, i contesti di origine e di lavoro di ogni individuo. I dati attualmente disponibili rendono comunque possibile disegnare con maggiore precisione la figura dell’ingegnere bolognese e ricostruire alcuni percorsi biografici e professionali modello 70. I risultati di questa analisi confermano alcuni giudizi ormai acquisiti. La Scuola di applicazione bolognese era finalizzata alla formazione di ingegneri civili e di architetti, e non erano contemplati gli insegnamenti necessari alla preparazione dell’ingegnere industriale. Lo stesso ambiente cittadino e regionale, d’altro lato, non offriva ancora ai giovani tecnici reali possibilità di carriera e affermazione professionale in settori economici moderni. Se dunque Torino e Milano già preparavano gli ingegneri in maniera funzionale alle esigenze di un contesto territoriale ormai avanzato, gli ingegneri istruiti a Bologna erano ancora caratterizzati in maniera tradizionale. Ciò obbligava molti giovani bolognesi ed emiliani che aspiravano a specializzarsi come ingegneri industriali a frequentare le scuole politecniche. Non si deve comunque interpretare la cosa esclusivamente come sintomo di arretratezza economica e sociale. Malgrado l’area emiliana non conoscesse uno sviluppo industriale rilevante — e per questo bisognerà aspettare almeno gli anni ‘20-’30 71 — notevole era la ricchezza economica derivante da un’agricoltura evoluta e da un tessuto urbano di grandi tradizioni e aspirazioni. Ciò consentiva a una figura pur tradizionale come quella dell’ingegnere libero professionista di coltivare realistiche opportunità di affermazione economica e sociale. La presenza della Scuola a Bologna apriva inoltre a molti giovani la possibilità di inserirsi nelle reti “lunghe” della ricerca accademica e dello sviluppo industriale, a livello nazionale e internazionale. Alcune delle carriere studiate presentano a questo proposito novità degne di nota. Ancora all’inizio di questo secolo, è comunque la libera professione lo sbocco occupazionale più rilevante per gli ingegneri laureati a Bologna. Alla data del 1913, 69 Cfr. M . ROZZARIN, L’evoluzione degli studi di ingegneria tra riforma e conservazione, in G. C. CALCAGNO (a cura di), Ingegneri e modernizzazioni. Università e professione nell’Ita-lia del Novecento, Bologna, Esculapio, 1996, pp. 95-145; si veda in particolare la tabella a p. 101, in cui l’autore confronta la destinazione professionale degli ingegneri diplomati a Bologna con quelli diplomati a Torino. Altri dati relativi alle destinazioni professionali degli ingegneri laureati tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo secolo sono reperibili in: C. G. LACAITA, Ingegneri e scuole politecniche nell'Italia liberale, cit., pp. 228231 e in A. FERRARESI, La formazione degli ingegneri nella seconda metà dell’Ottocento. Per una ricerca sulla Scuola di applicazione e sul Museo industriale di Torino (1860-1906), «Nuova rivista storica», LXVII (1983), pp. 637656: in particolare, pp. 649-656. 70 I dati relativi al numero dei soci dell’Associazione degli ex-allievi della Scuola, distinti per anno di laurea, per luogo di nascita e per destinazione professionale sono riportati nell’Appendice statistica, al termine di questo lavoro. 71 Cfr. V. Z AMAGNI , Una vocazione industriale diffusa, in R. FINZI (a cura di), Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità a oggi, L’Emilia-Romagna, Torino, Einaudi, 1997, pp. 127-161. 87 la percentuale dei laureati a Bologna esercitanti la libera professione sfiora addirittura il 40% (v. tab. 3.1 dell’Appendice statistica). La maggior parte dei liberi professionisti che si presentano sul-l’Annuario non sente il bisogno di aggiungere alcuna precisazione alla propria condizione libero-professionale e non la modificano nel corso degli anni. Una così sintetica indicazione testimonia certo il ruolo autonomo del professionista sul mercato del lavoro, ma non ci consente di conoscere la sua effettiva specializzazione e le condizioni in cui si trovava a operare. Di grande interesse risultano quindi le indicazioni offerte da alcune carriere, che precisano incarichi e collaborazioni — in particolare con enti locali, con consorzi di bonifica e/o con ditte private, come dipendenti e/o come consulenti senza vincolo di subordinazione — partecipazioni a studi di liberi professionisti associati o diretti da professionisti di spicco, modificazioni nella carriera e nella residenza. Si riesce così a fare maggiore luce su una figura che negli anni presi in esame conosce comunque diverse modificazioni. È il caso dunque di esaminare alcuni casi su cui possediamo notizie biografiche più dettagliate. Prendiamo per esempio Italo Bernini, di S. Secondo Parmense, impiegatosi subito dopo la laurea, conseguita nel 1887, come ingegnere aiutante nel catasto modenese, e che durante i la vori del nuovo catasto per la perequazione fondiaria diventa ingegnere capo squadra. Bernini si dichiara comunque libero professionista — esercita nel suo comune di nascita —, tecnico di diversi comuni e consorzi idraulici, cassiere della Cassa di Risparmio di Parma. Anche Antonio Quarena, di Garardo (Bs), laureato nel 1882 si dichiara contemporaneamente libero professionista e ingegnere dei Comuni di Vobarno, Preseglie, Manerba, Sabbio, Volciano, Sopraponte e Vallio (Bs). Invece Luigi Crocco, di Rovigo, laureato nel 1896, libero professionista, lavora inizialmente presso il Comitato di bonifica polesana e poi diventa ingegnere del Consorzio idraulico a deflusso artificiale di Bresega. Nel 1899 è membro della Giunta provinciale amministrativa di Rovigo, nel 1902-1903 consigliere comunale e membro di giunta, nel 1904 consigliere e deputato provinciale. Nel 1914 si dichiara ancora libero professionista e ingegnere del consorzio idraulico di Pontecchio e Due Selve. Alfredo Ceriali, di Vescovato (Cr), a partire dal 1900, un anno dopo la laurea, è ingegnere addetto ai lavori di bonifica dell’agro mantovano-reg-giano, nel 1908-09 è ingegnere dei comuni di Gonzaga, Monza e Gallarate e nel 1909 libero professionista a Monza. Per finire un bolognese, Guido Brunelli, laureatosi nel 1889. Libero professionista, per qualche mese impiegato del nuovo catasto, poi per due anni tecnico dell’impresa del cav. Luigi Bonora, torna quindi a esercitare la libera professione; si dichiara inoltre ingegnere presso il 3° circondario idraulico della Bonifica bolognese e rappresentante dell’assicurazione Reale-Grandine. Scorrendo anche solo velocemente queste carriere ci rendiamo conto che la libera professione copre in realtà situazioni differenziate, consente specializzazioni diverse e permette all’ingegnere di svolgere contemporaneamente numerosi incarichi. Questi cinque ingegneri, pur lavorando per enti locali e consorzi di bonifica — dunque con competenze, si direbbe, di ingegneri civili e idraulici — continuano, o comunque non interrompono mai definitivamente, l’esercizio della libera professione, quasi sicuramente in forma singola. 88 Col trascorrere degli anni, però, al libero professionista tradizionale che esercita da solo, si aggiunge l’ingegnere inserito in studi tecnici più moderni — presso cui lavorano diversi ingegneri — e ditte che molto spesso si occupano di costruzioni edilizie, ferroviarie e di impianti elettrici. Esaminiamo alcuni casi. Alfredo Luppi, modenese, laureato nel 1895, fino al 1897 insegna fisica, matematica ed elettrotecnica, poi è libero professionista e direttore della ditta “ingegnere P. Viani” per industrie cementizie a Reggio Emilia; dal 1909 esercita la libera professione a Modena ed è proprietario della ditta “ing. A. Luppi” per lavori in cemento. Un’altra interessante carriera è quella di Cesare Tamburini, reggiano, laureato nel 1903 e diplomatosi nel 1905 in elettrotecnica a Milano, dopo avere contemporaneamente frequentato l’officina di costruzioni elettriche Gadda Brioschi Finzi e c. Successivamente Tamburini collabora a uno studio d’ampliamento d’officina presso le officine della casa Ansaldo Armstrong in Cornigliano Ligure, poi entra nello studio di ingegneria civile degli ingegneri Gattinori e Zanetti in Milano, quindi nello studio di ingegneria civile dell’ingegnere e architetto Stacchini in Milano. Nel 1908 -1909 è ingegnere e socio dell’impresa di costruzioni Lorini e C. di Milano, ed è impegnato nella direzione lavori di costruzione dell’esposizione di Faenza e di costruzioni antisismiche in Calabria. Trasferitosi nel 1910 a Roma presso lo studio dell’architetto Pio Piacentini, si dichiara poi libero professionista, assumendo pure l’incarico di ingegnere presso l’Istituto case popolari in Roma 72. È a partire dall’inizio del secolo che si affermano in misura sempre maggiore gli studi tecnici associati, e solo scorrendo indicatori, annuari e guide locali possiamo farci un’idea meno vaga di queste realtà. Poco prima dell’inizio del conflitto mondiale, a Bologna, sono pubblicizzati sull’«Indicatore emiliano» diversi studi tecnici edili e industriali, che si occupano di costruzioni, in particolare di costruzioni in cemento armato, di impianti di riscaldamento e di impianti elettrici e sono contemporaneamente rappresentanti di materiali da costruzioni. L’impegno dello studio ingegneristico copre in questo modo la progettazione e la direzione dei lavori e la rappresentanza di macchinari e di materiali, integrando al proprio interno specializzazioni differenziate, da quelle dell’ingegnere civile a quelle dell’ingegnere elettrotecnico. Una sintetica testimonianza di queste trasformazioni — solo iniziata nel primo decennio del secolo — si può cogliere, per esempio, anche in questo necrologio, apparso alcuni decenni più tardi sul giornale bolognese «Ingegneri, architetti e costruttori»: Brevemente, altri due casi. Francesco Saladini de’ Moreschi, veronese, laureato nel 1888, incaricato nel 1889 della parte meccanico-agricola in un’esposizione regionale e segretario di un comizio agrario, dal 1890 al 1901 è libero professionista in studio tecn ico, specializzato in costruzioni meccaniche, di stabilimenti industriali e in partite agricole, sistemazione di acque, ecc. A partire dal 1902 si dichiara libero professionista; nel contempo, oltre ad essere spesso chiamato come perito giudiziale in materia di espropriazione ferroviaria, assume l’incarico di perito presso la Cassa civica di Risparmio di Verona e nello stesso tempo diventa consigliere comunale di Bardolino. Nel 1906 è addetto al nuovo impianto idro e termoelettrico del nuovo canale Milani in Verona. Pasquale Penza, di Canosa di Puglia (Bari), laureatosi ingegnere civile nel 1898 e poi architetto due anni dopo, prima insegna disegno e architettura, poi dal 1901 al 1905 è aiutante straordinario presso la sez. speciale del Genio civile per la costruzione degli edifici universitari; dal 1907 lavora per il Comune di Bologna, assumendo la direzione dei lavori del costruendo palazzo delle Poste, ma nel 1911 si dichiara libero professionista con studio proprio, «L’Edile», a Bologna. 72 89 Il 30 agosto u.s. [1954] è deceduto in Roma il dr. ing. Dario Gasparini nell’83° anno di età. Il compianto ingegnere Gasparini ha svolto in Bologna per oltre un cinquantennio la sua attività professionale, largamente stimato per il suo valore tecnico e per le sue elette qualità di animo e di carattere. (...) Laureato nel 1894 presso la Scuola di Applicazione degli ingegneri di Bologna, dopo un breve periodo di attività presso alcuni comuni della provincia si affermò in Bologna nel campo più puro e più classico della libera professione. Ed in tale campo rimase anche quando i tempi, nell’evolversi, gradatamente andavano trasformando i vari «studi» dei liberi professionisti in direzioni di imprese costruttrici 73. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, la situazione bolognese è comunque più matura rispetto ad altri contesti locali in cui operano gli ingegneri laureati a Bologna 74 . Se ci spostiamo in provincia troviamo liberi professionisti con carriere più tradizionali. Sono casi in cui molto spesso luogo di nascita e residenza dopo la laurea si identificano o sono circoscritti in un ambito non più ampio della provincia di origine. Segno di una connotazione estremamente “localistica” di questo segmento della professione, che ne costituisce la forza e il limite nello stesso tempo. Può trattarsi infatti di un sintomo di debolezza economica e professionale per alcuni professionisti, particolarmente quelli residenti in aree rurali o in una fase ancora iniziale della carriera; ma può anche essere segnale di solidità di posizione, che consente di giocare su diversi piani e in diversi ambiti le proprie riconosciute capacità professionali, fino a cumulare — come abbiamo visto, e come vedremo ancora — diverse fonti di reddito. Gli esiti delle carriere libero-professionali possono dunque essere totalmente dissimili, sia in termini di affermazione sociale che di riuscita economica. È certamente ben diversa la condizione di un professionista, a seconda che eserciti in campagna o in città, al nord o al sud del paese. Dichiararsi libero professionista costituisce comunque un importante elemento di autoidentificazione per l’ingegnere. L’esercizio della professione in forma autonoma rappresenta per il giovane neolaureato un modo per iniziare la propria attività, magari all’interno di più ampi studi professionali, o un tentativo di affermazione nell’ambiente di origine, prima di optare per carriere più remunerate o più sicure nell’ambito della pubblica amministrazione. L’attività libero professionale costituisce inoltre — malgrado divieti e ostacoli — una risorsa sempre disponibile anche per funzionari pubblici o dipendenti di ditte private che dispongano o abbiano accumulato un consistente patrimonio di esperienza e di relazioni. L’inserimento nelle reti “corte” del contesto locale di origine consente inoltre ai professionisti di attivare le proprie relazioni per integrarsi nelle amministrazioni locali, in veste di sindaci, assessori e consiglieri comunali, membri del consiglio provinciale o di organi come il consiglio sanitario provinciale o il consiglio scolastico provinciale; senza tener conto di tutta una serie di partecipazioni ad associazioni professionali, politiche, educative, assistenziali e cooperative, che all’epoca connotano la figura sociale del notabile. È evidentemente difficile valutare sulla base della fonte presa in esame fino a che punto ci troviamo di fronte a Necrologio, «Ingegneri, Architetti, Costruttori», IX (1954), n. 9, p. 215. Si noti nella tab. 2 dell’Appendice statistica come neanche il 44% dei laureati a Bologna provenga dall’attuale regione emiliano-romagnola. 73 74 90 ingegneri che acquisiscono un ruolo preminente nella società locale in base al prestigio conseguente alla loro specializzazione professionale o, al contra-rio, si tratti di notabili che scelgono di svolgere la professione di ingegnere — una profesione il cui prestigio è in costante crescita — per rafforzare la propria posizione sociale e/o per gestire i propri patrimoni, in particolare quelli agrari. I rappresentanti di questa seconda “categoria” risultano di più difficile individuazione, almeno sulla base dei dati riportati sull’Annuario. È infatti comprensibile che fossero proprio gli ingegneri in via di affermazione a sottolineare i progressi della propria carriera sulla pubblicazione degli ex allievi della Scuola. Ciò poteva interessare meno i notabili ingegneri, spesso liberi professionisti e possidenti o provenienti da famiglie possidenti. Due casi illuminano bene quanto detto. Il primo è quello di Attilio Evangelisti, nato a Ripe (An). Laureato nel 1894, dal 1896 e sino al 1908 ingegnere comunale di Molinella (Bologna), Evangelisti è in quegli stessi anni anni direttore tecnico della società cooperativa operai del Mandamento di Budrio (dal 1899), direttore tecnico della società cooperativa operai Codifiume (Fe, dal 1901), direttore tecnico della società cooperativa operai Portomaggiore-Argenta e incaricato di lavori da privati e da amministrazioni locali quali il Comune di Budrio. A partire dal 1908, si dichiara libero professionista, e incaricato di lavori per comuni e amministrazioni pubbliche in genere e direttore tecnico di cooperative di lavoro e loro consorzi. Il legame con il mondo della cooperazione porta Evangelisti nel 1901 a essere membro del consiglio generale della Lega nazionale cooperative italiane e nel 1906 membro della commissione nominata dalle cooperative di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì per lo studio della colonizzazione e delle bonifiche della Sardegna e della Basilicata. Nel 1904 è consigliere provinciale di Bologna 75. Ingegnere comunale e libero professionista, Evangelisti assume dunque una posizione di prestigio nel contesto locale. Evangelisti è tra gli ingegneri sulla cui carriera l’«Annuario» si dilunga di più, mentre la stessa fonte dice ben poco di altri professionisti, il cui rilievo sociale non è dovuto solo alle capacità professionali, ma si fonda anche sull’estrazione sociale, sui diretti interessi nella proprietà agraria, sul pieno inserimento all’interno dei circuiti della sociabilità borghese o nobiliare. Un esempio interessante è quello di Raffaele Stagni, bolognese. Se l’«Annuario» ricorda solo la sua posizione di libero professionista, notizie più complete ci fornisce l’«Indicatore emiliano». Nel 1915 Stagni risulta infatti presidente dell’Associazione agraria di Bologna, presidente della Federazione delle consociazioni agrarie bolognesi, membro del comitato esecutivo della federazione interprovinciale agraria, ingegnere dell’ufficio del Un altro percorso biografico interessante, che individua bene quale potesse essere lo spessore delle reti di relazione di questi ingegneri in sede locale, è quello di Emilio Chierici, di Luzzara (Re), laureato nel 1883, dal 1885 al 1887 direttore dei lavori presso l’impresa Mantegazza per costruzioni ferroviarie sul tronco Gozzano-Domodossola, dal 1887 al 1888 straordinario nel nuovo Catasto per il rilevamento del Comune di Luzzara e dal 1888 libero professionista. Negli anni 1890-98 è membro del Consorzio di bonifica dell’agro mantovano-reggiano, nel ‘97-98 è ingegnere di riparto per i rilievi e la co mpilazione del progetto esecutivo di bonifica dell’agro suddetto, nel ‘91-93 è tecnico delle società cooperative di Luzzara e di S. Vittoria e ispettore della società italiana di assicurazione. Contemporaneamente, nel 1890-92 è consigliere comunale, membro della co ngregazione di carità di Luzzara, nel 1898 presidente di detta congregazione; sempre nel ‘91-92 è delegato del consorzio per la ferrovia Parma-Suzzara, dal 1891 al 1898 membro della commissione di prima istanza per l’imposta sui fabbricati, nel 1905 comm. governativo per la formazione delle tabelle dei valori immobiliari della provincia di Reggio Emilia, nel 1906 ingegnere consulente dell’amministrazione del Liceo musicale Rossini di Pesaro. 75 91 Cavamento Palata, consigliere della Mutua scioperi. Si tratta di incarichi di prestigio all’interno delle associazioni sorte a difesa degli interessi agrari, ma Stagni non costituisce un caso isolato. Nel capoluogo emiliano sono diversi gli ingegneri che a partire dall’inizio di questo secolo raggiungono ruoli direttivi nella locale Società agraria, e presumibilmente una minuziosa ricerca in altri ambiti provinciali ci fornirebbe ulteriori e più complete indicazioni 76. Presentando alcuni liberi professionisti, abbiamo notato come molti di essi avessero ricevuto incarichi di lavoro da parte delle amministrazioni degli enti locali. Se le province già da alcuni decenni avevano sviluppato propri apparati tecnici, in particolare per la cura della viabilità loro affidata, erano i comuni ad affermare proprio in quegli anni politiche di crescita urbana e di creazione di nuovi servizi per la popolazione che richiedevano l’impegno a tempo pieno di tecnici qualificati 77. Gli ex allievi della Scuola di Bologna dipendenti da comuni e province sono numerosi, spesso provengono dalla libera professione — o magari vi ritornano, senza probabilmente mai averla abbandonata del tutto — e come i liberi professionisti sono impiegati presso enti locali molto vicini alla loro città di nascita. Solo il vertice degli ingegneri comunali e provinciali percorre carriere geograficamente più ampie, per arrivare alla guida degli uffici tecnici di grandi città. Si prenda per esempio il caso di Catullo Fulgenzio Setti, nato a Modena e laureatosi nel 1890. Si tratta di una carriera prodiga di riconoscimenti ed onoreficenze, sviluppata grazie a un’accentuata mobilità di sedi e di incarichi. Dopo due anni come assistente alla cattedra di Fisica dell’Università di Modena, e dopo essersi laureato anche come architetto nel 1892, entra come allievo presso l’ufficio tecnico provinciale di Parma, diventa poi ingegnere capo del Municipio di Cagliari (dal 1897 al 1901), per poi passare a Vicenza (fino al 1910) e dunque a Venezia. Setti non è un’eccezione 78, ma la gran parte di questi ingegneri sono più simili a Ugo Fucini, nato a Empoli, laureato nel 1888, che si dichiara “ingegnere comunale di Empoli, incaricato del servizio tecnico del comune di Cerreto Guidi, esercente la libera professione” e risiede a Empoli. In casi come questi, la mobilità geografica ridotta consente — o obbliga — alla diversificazione delle fonti di reddito: la libera professione, il lavoro presso l’amministrazione locale, l’incarico per un altro ente. Un modello di comportamento simile a quello già individuato in molti liberi professionisti, e che si impone sia in piccole cittadine che in città di media 76 Su Raffaele Stagni, cfr. almeno E. Tornani, Commemorazione dell’ing. Raffaele Stagni, «Annali della Società Agraria di Bologna», LXV (1937), p. 119. Per diverse indicazioni generali e specifiche sui rapporti tra gli ingegneri e le rappresentanze degli interessi agrari, cfr. almeno P.P. D’ATTORRE, La Società agraria di Bologna nel Novecento, in Fra studio, politica ed economia: la Società agraria dalle origini all’età giolittiana cit., pp. 235-271; nello stesso volume, cfr. A. ALAIMO, Società agraria e associazioni professionali cit.; cfr. inoltre l’intervento di Silvio Fronzoni pubblicato in questa sede. 77 Una vasta bibliografia si è ormai accumulata sull’argomento; mi limito a segnalare A. ALAIMO , L’organizzazione della città. Amministrazione e politica urbana dopo l’unità (1859-1889), Bologna, Il Mulino, 1990, che focalizza particolarmente il ruolo dei professionisti, e in particolare degli ingegneri, nella politica locale bolognese. 78 Si prendano i casi di Alfonso Modonesi e di Cesare Selvelli. Il primo, nato a Bologna e laureato nel 1897, 1900 architetto nel 1900, fino al 1902 assistente alla cattedra di costruzioni civili della Scuola di applicazione di Ingegneria di Bologna, dal 1902 al 1902 capo della sezione edilizia dell’ufficio tecnico comunale di Modena, poi ingegnere capo al Municipio di Treviso e dal 1909 diventa ingegnere capo al Municipio di Verona. Il secondo, nato a Fano, inizia la sua carriera nel 1899 come assessore ai lavori pubblici del comune di nascita, ma nel 1900 è ingegnere comunale di Gubbio, nel 1902 ingegnere di sezione a Padova, per poi diventare nel 1913 ingegnere capo del Municipio di Ferrara. 92 grandezza. Giuseppe Tosini, per esempio, nato a Grosseto, laureato nel 1890, si qualifica inizialmente come libero professionista, poi svolge le funzione di ingegnere capo del Comune di Grosseto dal 1891 al 1897, quando diventa ingegnere capo della stessa Provincia. Tosini si dichiara progettista e direttore di lavori diversi per conto di Comuni e istituzioni di beneficenza, perito visitatore di caldaie a vapore, membro del consiglio sanitario provinciale, della commissione edilizia del Comune di Grosseto e del comitato forestale provinciale. Altri tecnici comunali riescono a godere di diversi vantaggi di carriera allontanandosi per alcuni anni dall’ambiente di origine, ma finiscono per tornare in ambito locale. È il caso di Enrico Camangi, faentino, laureato nel 1894, che si dichiara prima “ingegnere comunale di Russi e insegnante di matematica e scienze alla scuola tecnica comunale”, poi nel 1901-1902 è ingegnere comunale a Vittorio in provincia di Treviso, per poi tornare a svolgere le funzioni di ingegnere del consorzio idraulico Fosso Vecchio a Bagnacavallo (Ra), diventare nel 1906 ingegnere del 2° riparto provinciale di Ravenna con sede a Faenza, nel 1913 ispettore della provincia di Ravenna, capo del reparto di Faenza. Un altro ingegnere comunale che non esita a cambiare spesso impiego e a percorrere gran parte dell’Italia pur di ritornare nel suo ambiente di nascita è Ciro D’Agnone, originario di Lucera (Fg), laureato nel 1907, dal 1909 al 1910 praticante in uffici tecnici privati per costruzioni in cemento armato, nel 1910 ingegnere aiutante presso l’ufficio tecnico provinciale di Foggia, l’anno successivo ingegnere di sezione nell’ufficio tecnico provinciale di Siena, nel 1913 prima ingegnere di sezione a Pisa — sempre presso l’ufficio tecnico dell’amministrazione provinciale — poi a L’Aquila come ingegnere di I classe — ancora nell’ufficio tecnico provinciale; infine, nel 1914 ritorna con la stessa qualifica all’ufficio tecnico provinciale di Foggia e immediatamente dopo ne diventa vicedirettore. Un’altra carriera interessante tra i tecnici comunali è quella di Ernesto Festuccia, reatino, laureato nel 1899. Nel 1900 è professore di matematica nel Ginnasio di Rieti, nel 1901 aiutante dell’ufficio tecnico comunale, l’anno successivo si dichiara libero professionista; ma nel 1903 è apprendista nella C. Auxiliaire d’Electricité di Bruxelles, dal 1904 è ingegnere della Società industriale di elettricità di Rieti e libero professionista, accumulando incarichi e perizie, torna a dichiararsi nel 1914 libero professionista, per poi presentarsi nel 1917 come libero professionista, ingegnere capo del Comune di Rieti e della Società industriale elettrica. La residenza, ovviamente, la mantiene sempre a Rieti. Il caso di Festuccia ci consente di focalizzare meglio le carriere di quegli ingegneri che accrescono il proprio curriculum professionale grazie al contatto con ambiti locali diversi da quelli di origine, in particolare con una o più esperienze al di fuori dell’Italia. Il lavoro o la formazione all’estero — sia all’inizio della carriera che a carriera già iniziata — obbligano a lunghi periodi lontani dalla realtà di origine, ma sono estremamente utili anche per rafforzare la posizione dell’individuo nel contesto relazionale di origine. Vedremo nel prosieguo l’importanza rivestita da tali risorse per alcune carriere particolari. Nel presentare precedentemente alcune biografie abbiamo visto come alcuni ingegneri svolgessero la funzione di insegnanti. Tra i laureati a Bologna, il numero di docenti in scuole di istruzione media e media superiore non è particolarmente elevato, ma l’insegnamento rimane comunque un’opzione a disposizione per i 93 neolaureati, e talvolta anche nel corso della carriera. Per alcuni, infatti, si tratta di un’opportunità in più che consente di arricchire il proprio bagaglio di esperienze, mentre per altri si tratta di una scelta obbligata in un contesto locale periferico e poco sviluppato, con un ridotto numero di occasioni di impiego. Maurelio Mollini, ferrarese, rappresenta probabilmente il primo caso. Fino al 1886 è ingegnere aiutante nel consorzio idraulico del II circondario scoli in Ferrara, nel 1886 tiene un corso libero di celerimensura nell’Istituto tecnico di Ferrara, poi è assunto come insegnante di Estimo e costruzioni, divenendo successivamente titolare dello stesso corso. Dal 1896 al 1890 insegna macchine agricole per conto del Comizio agrario di Ferrara, in seguito tiene un corso libero annuale di macchine a vapore ed a gas. Ciò non gli impedisce di essere dal 1891 anche perito della prefettura di Ferrara per le verifiche e prove delle caldaie a vapore e di continuare a dichiararsi libero professionista. Senza contare che dal 1889 al 1903 è consigliere comunale della città estense, poi membro della giuria nominata dal Ministero di agricoltura, industria e commercio per il concorso internazionale di macchine e strumenti per la coltura e lavorazione della canapa, tenuto a Ferrara nel 1888; è inoltre relatore della commissione per la fondazione dell’associazione degli utenti di caldaie a vapore in Ferrara nel 1890 e membro di altre svariate commissioni 79. Insegnanti per necessità sono invece, Quirino Valente, nato e residente a Bisenti (Te), che si dichiara professore di matematica nelle scuole tecniche — ma Valente si laurea nel 1911, e dunque il periodo della sua carriera oggetto di attenzione è estremamente ristretto — e Romeo Maestri, riminese, nel 1894-95 supplente d’Italiano nella scuola tecnica pareggiata di Rimini, poi per tre anni insegnante di Matematica e scienze naturali nella Scuola tecnica comunale di S. Arcangelo di Romagna, quindi, nel 1898-1900, insegnante di Fisica, macchine a vapore, meteorologia e incaricato di Matematica nell’Istituto nautico di Rimini. A partire dal 1900, e sicuramente sino al 1906, insegna topografia, costruzioni ed estimo nell’Istituto tecnico pareggiato di Treviso. Un caso a parte è costituito dagli ingegneri che svolgono la propria carriera all’interno dell’Università, e in particolare della stessa Scuola di applicazione. Considerata la giovane età della Scuola, all’inizio di questo secolo i docenti provengono tutti o quasi da altre sedi universitarie e dunque si deve concentrare l’attenzione sulle carriere degli assistenti e degli incaricati di insegnamento. La figura dell’assistente è in quel momento quella di un’apprendista d’eccezione, che d’altra parte non sempre trova modo di effettuare una completa carriera universitaria. Spesso gli anni dell’assistentato consentono di costituire un patrimonio sociale e professionale non indifferente, un importante tessuto di relazioni per il prosegui-mento della carriera, in particolare nella condizione libero professionale. Particolarmente rilevanti sono comunque i casi di alcuni docenti di ingegneria laureatisi a Bologna e della cui carriera è possibile ricostruire una parte grazie ai dati forniti dall’«Annuario». Tra questi Domenico Gorrieri, Attilio Muggia, Francesco 79 Anche Alfredo Grassi ha la possibilità di contemperare l’insegnamento con altre attività. Assistente nella Scuola di applicazioni fino al 1900, libero professionista e nel 1900-1901 professore di topografia nel R. Istituto tecnico dell’Aquila, nel 1901-1902 professore di topografia nel R. Istituto tecnico di Modena, insegna successivamente Costruzioni nel R. Istituto tecnico di Bologna. Dal 1903 al 1905 è consigliere di amministrazione dell’officina comunale del Gas di Bologna, in seguito membro di varie commissioni. 94 Balatroni e Umberto Puppini, interpreti di una prestigiosa carriera accademica e nello stesso tempo al vertice della società bolognese. In particolare, Attilio Muggia — docente di architettura e alla guida di un affermato studio tecnico, capace di mantenere contemporaneamente diversi incarichi, funzioni e lavori e di mantenere reti relazionali di diversi ambiti e ampiezza — dimostra quale rilievo e autorità potesse raggiungere un tecnico all’inizio del secolo 80. I vertici della professione raggiungono successi economici e professionali impensabili per una gran parte degli altri ingegneri, soprattutto quelli che per ragioni diverse si distaccano in parte o del tutto dall’am-biente locale per entrare nei ranghi dell’amministrazione dello Stato. Particolarmente numerosi sono gli ingegneri civili impiegati nell’am-ministrazione del catasto, negli uffici tecnici di finanza e nel genio civile. La loro carriera si svolge molto spesso — ma non sempre — lontano dal luogo di nascita, spesso non è particolarmente brillante e comporta pure l’obbligo di cambiare la sede di lavoro con una certa frequenza. È notorio che l’amministrazione statale ha costituito per gli ingegneri una soluzione di ripiego, in particolare per quegli individui provenienti da aree geografiche in ritardo economico e dunque impossibilitati a giocare con concrete speranze di successo la carta della libera professione o dell’impiego alle dipendenze di imprese industriali. Soprattutto a partire dall’inizio di questo secolo, d’altra parte, l’attrattiva dell’impiego sicuro nell’amministra-zione dello Stato perde gran parte del suo fascino. Lo sviluppo economico consente, in particolare nel settore industriale, il moltiplicarsi di ben remunerate occasioni di lavoro per gli ingegneri industriali e per quegli ingegneri dalla formazione più tradizionale ma disposti a rimodellare le loro capacità professionali secondo le richieste del mercato 81. Nelle pubblicazioni dell’associazione degli ex-allievi gli ingegneri dipendenti dalle amministrazioni dello Stato sono fortemente sottostimati. Una rapida verifica effettuata su alcune annate campione del «Calendario generale del Regno d’Italia» consente di individuare numerosi casi di ingegneri dipendenti del catasto, del genio civile e degli uffici tecnici di finanza che non sono soci dell’Associazione bolognese degli ex-allievi ingegneri. È probabilmente il segnale della distanza di questi ingegneri dai reticoli di rapporti — professionali, ma non solo — che legano invece gli iscritti all’associazione, tra i quali prevalgono i liberi professionisti. L’esclusività del rapporto di dipendenza dall’amministrazione dello Stato impedisce evidentemente di mantenere la libera professione e le relazioni che ne possono conseguire. 80 Per quanto riguarda Attilio Muggia, cfr. l’intervento di Paolo Lipparini e Matteo Rozzarin pubblicato in questa sede; per Umberto Puppini, invece, direttore della Scuola dal 1927 al 1932 e della Facoltà dal 1937 al 1945, che ricoprì numerosi incarichi ministeriali e parastatali, cfr. almeno il necrologio di R. Belletti sugli «Annali dell'Accademia nazionale di Agricoltura di Bologna», V (1943-1949), pp. 207211. Le carriere di alcuni ingegneri divenuti docenti, del resto, non si svolgono esclusivamente all’interno dell’Università. È il caso di Armando Landini, bolognese, laureatosi a Bologna e per quattro anni assistente alla cattedra di meccanica applicata alle costruzioni e al laboratorio sperimentale per la resistenza dei materiali, nel 1907 ing. straordinario presso l’ufficio di edilità ed arte del Comune di Bologna, nel 1908 perito prefettizio per la visita delle caldaie a vapore, nel 1909 ing. nel Comune di Firenze e poi nella Provincia di Modena, prima di essere nominato aiuto presso la RSAI Bologna, poi libero docente ed incaricato dell’insegnamento di costruzioni civili e rurali e fondazioni nella scuola. 81 Rimando ovviamente alle già citate sintesi di M. MINESSO, L’ingegnere dall’età napoleonica al fascismo, cit. e di G.C. CALCAGNO, Il nuovo ingegnere (1923-1961), cit. 95 Con la nazionalizzazione nel 1905 delle linee ferroviarie, sino ad allora gestite da diverse società private, appare nell’amministrazione dello Stato un altro tipo di ingegnere, l’ingegnere ferroviario. Diverse decine sono gli ex allievi della Scuola alle dipendenze delle Ferrovie dello Stato, senza contare i molti altri impiegati in ditte che svolgono lavori di costruzione di ferrovie. Una rapida verifica sui «Calendari generali del Regno» sembra evidenziare come sia ridotta la percentuale degli ingegneri ferroviari laureati a Bologna non presenti nell’Annuario dell’associazione. La carriera nelle Ferrovie era probabilmente ambita — e in effetti sono pochi coloro che abbandonano quella carriera per la libera professione o altri impieghi — e comunque consentiva, malgrado l’obbligata mobilità geografica, il mantenimento di relazioni e contatti con gli altri segmenti della professione 82. Non appaiono invece significativi segnali di specializzazione professionale e non sembra necessaria una particolare formazione per diventare ingegnere ferroviario. Rimane un’eccezione il caso di Umberto Maccaferri, bolognese, laureatosi nel 1900, il quale, licenziato in elettrotecnica e costruzioni elettromeccaniche nel 1901, fino al 1904 si dedica all’esecu-zione di progetti di ferrovie e di impianti elettrici nello studio tecnico dell’ingegnere Lanino in Bologna e successivamente entra come ispettore di riparto della XVIII sezione di manutenzione della Rete Adriatica a Lecce. Nel 1906 Maccaferri è addetto al servizio movimento e traffico delle Ferrovie dello Stato, prima ad Ancona, poi a Venezia, infine a Bologna. Si tratta di una carriera specializzata sin dall’inizio nell’ambito delle strade ferrate, ma come detto, non sembra essere che un’eccezione. Il quadro delle carriere che abbiamo sin qui disegnato può apparire fortemente statico, e a ciò contribuisce sia il tipo di formazione fornito ai giovani ingegneri dalla Scuola di applicazione bolognese che la scarsa dinamicità dell’ambiente bolognese e/o degli ambienti di origine. Malgrado le pressioni esercitate dall’ambiente bolognese, una sezione di ingegneria industriale inizia i suoi corsi solo nell’anno accademico 1934-’35. I giovani che sino a quell’epoca acquisiscono il titolo di ingegnere a Bologna sono dunque costretti a giocare sul mercato del lavoro le possibilità offerte da una formazione sostanzialmente tradizionale. In un ambito locale può dunque risultare decisivo il capitale sociale acquisito grazie ai vincoli familiari e alle altre relazioni sociali. Ma se i giovani ingegneri sono disponibili a prolungare il proprio addestramento professionale, a ridisegnare la propria preparazione professionale secondo le richieste del mercato o eventualmente a 82 Poteva forse influire in questo senso una personalità come quella di Pietro Lanino, costantemente impegnata nel promuovere l’associazionismo professionale degli ingegneri e nel tentare di difenderne gli interessi. Lanino, sin dal 1903 componente del Comitato esecutivo dell’Associazione degli ex-allievi della Scuola d’ingegneria di Bologna, fu anche il fondatore della sezione di Bologna dell’Associazione elettrotecnica bolognese e dal 1910 al 1922 rivestì l’incarico di presidente del Collegio nazionale degli ingegneri ferroviari; sulla figura di Pietro Lanino, cfr. R. FERRETTI, Le organizzazioni professionali degli ingegneri nel primo dopoguerra, in G.C. CALCAGNO (a cura di), Ingegneri e modernizzazioni.cit., pp. 13-93: in particolare, pp. 33-34. Un esempio di carriera prestigiosa è quella di Arrigo Gullini, di Bazzano (Bo), laureato nel 1888 e subito ingegnere di manutenzione e lavori presso le ferrovie della Rete Adriatica, nel 1903 ispettore capo principale della 7a sezione movimento di Foggia, poi ispettore capo principale della 3a sezione movimento di Venezia. Nel 1908 sempre a Venezia diventa capo della divisione movimento e traffico della direzione compartimentale e inoltre svolge l’at-tività di docente di economia ferroviaria presso la R. Scuola superiore di commercio. Nel 1911 diventa dirigente del IX servizio, Navigazione, della Direzione generale delle Ferrovie dello Stato e nel 1915 capo esercizio di navigazione di stato e incaricato della costruzione e dirigenza delle ferrovie presso la stessa direzione generale delle Ferrovie. 96 accettare un più o meno breve allontanamento dal proprio ambiente di origine, ebbene per loro possono aprirsi prospettive interessanti di carriera, fino alla direzione di imprese industriali 83. Prendiamo per esempio Arturo Paoloni, anconitano, laureatosi nel 1898. Dopo avere seguito il corso di elettrotecnica alla Scuola Ferraris di Torino, diventa direttore di fabbrica di carburo di calcio di Foligno (Soc. forni elettrici), poi ingegnere addetto alla costruzione e all’esercizio della fabbrica di carboni elettrici di Narni (Soc. italiana dell’elettrocarbonium), direttore della Fabbrica di barite a Foligno e anche consulente di industrie elettriche, elettrochimiche ed elettrotecniche. Un altro anconitano percorre una brillante carriera, Giuseppe Camillo Borgnino. Fino al 1900 ispettore della trazione presso la Rete ferroviaria della società Adriatica, nel 1901 si laurea in Belgio ingegnere specialista per gli zuccherifici, dal 1901 al 1902 chimico e capofabbrica nello zuccherificio di Orp-le-Grand in Belgio e poi capo del laboratorio chimico dello zuccherificio di Massalombarda. A partire dal 1904 diventa direttore tecnico dello stesso stabilimento e nel 1914 direttore generale. Nel contempo, riceve l’incarico di membro del giurì straniero per gli esami di laurea al Politecnico di Glons (Liegi), assume la direzione della fabbrica di prodotti alimentari Barli, Gulinelli e C. di Massalombarda, la carica di sindaco delle compagnie di assicurazione Aurora di Ferrara e Concordia di Milano e la Presidenza dell’associazione impiegati industrie zucchero alcool ed affini. La frequentazione di corsi di elettrotecnica si rivela molto spesso decisiva per i successivi sviluppi della carriera. Pasquale Raffi, nato a Imola, dopo essersi laureato nel 1900 a Bologna, consegue l’anno successivo il diploma di elettrotecnica a Torino. Nei due anni successivi svolge la libera professione a Bologna, poi passa fino al 1901 alle dipendenze della ditta Conterio e Raffi di Sassuolo, per costruzioni di chimica tecnica, macchine per cartiere, elettrochimica, ecc. ed esercizio di cartiera. A partire dal 1913 lo ritroviamo direttore dell’Uff. materiali per elettrotrazione Richard Ginori, Tecnomasio italiano Pacini a Roma. Carriere direttive svolgono anche ingegneri civili come Carlo Rossi, che nel 1917 è capo sezione della Società alti forni e fonderie e acciaierie di Terni, impianto idroelettrico di Galleso; Giulio Barbieri, di S. Giovanni in Persiceto (Bologna), nel 1906 direttore dello stabilimento di altiforni dell’Elba a Portoferraio, nel 1913 direttore dello stabilimento siderurgico della Società Ilva a Bagnoli. Giuseppe Domenico Cangia, già assistente alla Scuola di Applicazione, e poi dal 1895 al 1900 ingegnere capo del Comune di Perugia, passa poi all’ufficio tecnico delle acciaierie di Terni e nel 1908 diventa direttore dei lavori dell’impianto metallurgico dell’Ilva. 83 Limitata appare invece la disponibilità verso l’imprenditoria; e d’altra parte il contesto economico in cui si trovano a operare i tecnici laureati a Bologna — e in particolare la regione emiliano-romagnola — non sembra ancora capace di stimolare o accogliere eventuali spinte in questa direzione. In pratica, gli «Annuari» non registrano che pochissimi imprenditori al di fuori del settore delle costruzioni. Le uniche eccezioni di rilievo nel settore dell’industria meccanica sembrano quelle di Pier Luigi Gozzini, fiorentino, laureatosi nel 1885, che si dichiara direttore proprietario di uno stabilimento industriale per la lavorazione del ferro a Scandicci; e di Romano Righi, di Modena, che dal 1900 è addetto all’officina meccanica «l’Emilia» di Modena, poi comproprietario e direttore dell’officina meccanica ingegnere Romano Righi e comp. di Reggio Emilia, e quindi, a partire dal 1904, consigliere delegato della società anonima Officine meccaniche Reggiane, mantenendo sempre inalterata anche la qualifica di libero professionista. Sulle Officine reggiane, cfr. S. SPREAFICO, Un’industria, una città. Cinquant’anni alle Officine «Reggiane», Bologna, Il Mulino, 1968. 97 L’esperienza di lavoro all’estero risulta spesso decisiva e consente rapide accelerazioni di carriera. Raffaello Gibelli, milanese, laureatosi nel 1881, si impiega come operaio fuochista e macchinista in Germania, prima di diventare nel 1886 capo officina costruzioni a Savigliano, dal 1889 al 1903 direttore dello stabilimento meccanico F.lli Koerting di Sestri Ponente per poi ritrovarsi nel 1906 a capo della suddetta casa a Milano. Un altro caso interessante è quello di Giorgio Calzolari di Cesena, invece, dal 1899 al 1900 assistente di meccanica razionale alla Scuola di Applicazione, ispettore generale ferroviario presso il circolo di Roma fino al 1905, e a partire da quell’anno capo del laboratorio elettrotecnico nell’Istituto sperimentale delle Ferrovie dello Stato a Roma. Si tratta di una carriera già di alto livello, ma evidentemente il lungo periodo di missione in Inghilterra per lo studio degli impianti della trazione elettrica consente un ulteriore avanzamento, la direzione generale della Società romana tramways omnibus Roma nel 1913. Per altri ingegneri, invece, la lontananza dall’Italia è più lunga e finisce quasi per diventare stabile, compensata peraltro da un indubbio successo professionale. Giuseppe Mattioli, nativo di Savignano sul Rubicone (Fo) e laureatosi nel 1887, dal 1889 al 1891 è addetto alle costruzioni delle ferrovie ravennati, ma si dimette volontariamente e fino al 1894 è vice direttore delle miniere di Boccheggino della Società Montecatini, poi fino al 1897 svolge la libera professione a Roma, con l’incarico di amministratore delle ferriere di Piombino e della Stearineria di Roma e di sindaco delle acciaierie di Terni. A partire dal 1897, invece, diventa impresario di lavori pubblici in Romania, dal 1904 al 1906 è architetto e costruttore in Egitto, condirettore della «Industrial building and commercial company of Egypt» e amministratore delegato della Società per azioni egiziana di costruzioni. Dal 1915 si dichiara facente parte della società Mattioli e Fumaroli per impresa di lavori pubblici. Giovanni Alberti, nativo di Castiglione Stiviere (Mn), dopo avere iniziato la carriera svolgendo degli studi per costruzioni idrauliche nel Bresciano, ed essere stato ingegnere aggiunto nell’ufficio tecnico comunale di Brescia, passa poi alla compagnia delle Ferrovie del Congo e nel 1899 diventa vicedirettore e caposervizio del Movimento e traffico nelle strade ferrate del Rio grande do Sud della Compagnie auxiliaire des chemins de fer in Brasile 84. Incarichi dirigenziali possono comunque essere offerti anche dalle nuove aziende municipalizzate che gestiscono i servizi a rete delle grandi città italiane. Un esempio è costituito dal caso di Carlo Cesari, modenese, che acquisisce il diploma di elettrotecnica a Torino nel 1898 e nel 1900 il diploma di ufficiale sanitario all’Università di Modena, e nel frattempo diviene membro della locale deputazione di storia patria e della accademia di belle arti. Dopo avere prestato servizio presso le Ferrovie piemontesi, società di Bruxelles, e alla Società Union des gas nelle officine di Modena e di Milano, nel 1905 diventa direttore dei servizi municipali del gas e dell’acqua di Forlì e direttore della compagnia meridionale e vesuviana per gas ed elettricità e, a partire dal 1906, vice direttore delle officine del gas di Genova e Sampierdarena. Un altro caso è quello di Angelo Silva, di Roncole di Busseto (Pr), laureatosi nel 1884; nel 1903 è direttore della Società parmense di elettricità, e nel 1905 delle officine elettriche comunali di Parma. Conclusioni Sul significato della presenza all’estero degli ingegneri laureati a Torino, cfr. le annotazioni di A. FERRARESI, La formazione degli ingegneri cit., pp. 655-6. 84 98 Le pubblicazioni dell’associazione degli ex allievi della Scuola di applicazione cessano con il primo conflitto mondiale — per quanto è dato di sapere riprendono solo negli anni ‘50 — e dunque si interrompe anche la possibilità di ricostruire le carriere dei laureati. A questo punto, esaurito il compito che ci si era prefissi in questa sede, si può solo progettare una ricerca più ampia che, utilizzando altre fonti a stampa e d’archivio, possa completare l’analisi prosopografica coprendo il periodo intercorrente tra le due guerre mondiali 85. La nascita di nuove branche dell’ingegneria, in particolare l’elettro-tecnica, e la crescita economica di età giolittiana avevano offerto agli ingegneri nuove possibilità di affermazione nel mondo del lavoro, riducendo l’importanza e il prestigio dell’impiego nel settore pubblico, trasformando la stessa figura del libero professionista e moltiplicando le possibilità di entrare nel mondo dell’industria con ruoli direttivi. Lo testimoniano le carriere degli ingegneri impiegati nell’industria con ruoli dirigenti che abbiamo illustrato nella sintetica tassonomia delle pagine precedenti. Gli anni del dopoguerra costituiranno invece un periodo estremamente delicato per la figura dell’ingegnere italiano, in difficoltà tra le speranze di affermazione coltivate nel periodo di crescita economica e la dura realtà degli anni dell’immediato dopoguerra 86. Lo sbocco dato alle tensioni e ai problemi di quel periodo è sufficientemente conosciuto per illustrarlo qui di nuovo. Meno si sa degli effetti sulle carriere degli ingegneri dell’epoca e in particolare su quelle dei sempre più numerosi laureati. Per quanto riguarda la realtà bolognese, gli anni ‘20 e ‘30 sono particolarmente interessanti per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, si tratta dei decenni in cui si assiste al primo, concreto decollo industriale della regione emiliano-romagnola 87. Inoltre, è in questi anni che la Scuola di applicazione, diventata Facoltà di Ingegneria dell’Università, si afferma compiutamente, con la definitiva costituzione dell’indirizzo in ingegneria industriale, la crescita di un corpo docente formato in loco e il trasloco dalla centrale Piazza dei Celestini all’ancora attuale sede progettata dall’architetto Giuseppe Vaccaro fuori della Porta Saragozza. Il peso stesso della Facoltà e dei suoi docenti all’interno dell’Ateneo, nella vita della città e nella crescita economica locale diviene via via maggiore. Alcune biografie di docenti esemplificano chiaramente questo processo — tra quelli sin qui ricordati, si pensi almeno a Muggia e a Puppini — ma delle diverse centinaia di laureati in quegli anni si sa ancora poco. 85 Per quanto riguarda le fonti a stampa, converrà utilizzare — come si è già fatto in alcuni casi — in primo luogo i «Calendari generali del Regno d’Italia», gli «Annuari generali d’Italia», e gli «Indicatori» cittadini, provinciali e regionali. Per quanto riguarda la provincia di Bologna, altre preziose indicazioni sono fornite dai necrologi e dalle notizie in occasione del cinquantenario della laurea apparsi — a partire dal secondo dopoguerra — sulla rivista Ingegneri, architetti e costruttori, rassegna mensile del Collegio costruttori edili della Provincia di Bologna, degli ordini e associazioni ingegneri di Bologna e Ravenna, dell’associazione architetti dell’Emilia e Romagna. L’ordine degli ingegneri della Provincia di Bologna ha pubblicato in due occasioni, nel 1959 e nel 1968, un albo degli ingegneri addirittura completo di informazioni relative all’occupazione. Grazie a queste fonti — e ad altre consimili, relative ad altre parti della regione e del paese — è forse possibile cominciare a vagliare le carriere degli ingegneri laureati a Bologna tra il primo e il secondo conflitto mondiale. 86 Si tratta di vicende ampiamente conosciute, per cui rimando ai già citati articoli di M. MINESSO, L’ingegnere dall’età napoleonica al fascismo, cit., e di G. C. CALCAGNO, Il nuovo ingegnere (1923-1961), cit. e agli interventi apparsi nel volume G. C. CALCAGNO (a cura di), Ingegneri e modernizzazioni, cit. 87 Cfr. V. Z AMAGNI , Una vocazione industriale diffusa,cit. 99 La tassonomia delle carriere illustrata nelle pagine precedenti ha indicato come i percorsi professionali più brillanti, in particolare nel settore industriale, fossero compiuti da coloro che avevano approfondito la tradizionale preparazione fornita dalla Scuola bolognese — per esempio, diplomandosi in Elettrotecnica a Torino o specializzandosi all’estero — oppure da coloro che si erano recati all’estero per accrescere la propria esperienza di lavoro. La ragione di ciò andava in gran parte individuata nello sviluppo economico ancora rallentato della regione emilianoromagnola e di gran parte del paese e nel non ancora completo sviluppo della Scuola di applicazione. Tutto ciò costituiva una forte penalizzazione per le carriere dei laureati bolognesi, almeno rispetto ai tecnici usciti dalle Scuole politecniche di Milano e Torino. Sarà dunque interessante verificare se il consolidamento della Facoltà d’Ingegneria e dei suoi corsi e il decollo economico dell’area bolognese ed emiliana abbiano consentito agli ingegneri laureatisi nel capoluogo emiliano migliori opportunità di carriera e successo professionale. 100 Appendice statistica Lo scopo di questa appendice è di fornire alcuni termini di riferimento per valutare sia la validità dei dati risultanti dall’«Annuario dell’associazione degli ex-laureati della Scuola di applicazione d’Ingegneria», sia la particolare fisionomia regionale dell’ingegnere laureato a Bologna, La tabella 1. ripartisce gli ingegneri laureati a Bologna — sulla sinistra — e gli ingegneri delle cui carriere gli «Annuari» ci forniscono notizie secondo l’anno di laurea. Evidentemente il numero maggiore di carriere di cui abbiamo notizie si riferisce a ingegneri laureati negli anni di pubblicazione dell’«Annuario», ma complessivamente i dati di cui disponiamo costituiscono un ottimo campione. Secondo la tabella 1.2., disponiamo infatti di notizie relative a circa il 30-40% degli ingegneri laureati a Bologna. La rappresentatività del campione è comunque sancita anche da un altro dato. La tabella 2 classifica gli ingegneri — a sinistra i laureati, a destra i soci dell’Associazione ex-allievi — secondo il luogo di nascita. Come si può notare, sono fortemente sovrarappresentati gli ingegneri nati a Bologna — dato in sé del tutto ovvio — e, in Emilia-Romagna, i ferraresi. Il campione degli ex allievi delle restanti regioni, comunque, è sufficientemente simile ai laureati. L’unica eccezione riguarda la Toscana, ma il dato è da attribuire al fatto che nel 1883 e 1884 la Scuola di applicazione degli ingegneri di Bologna, rilasciò il diploma di ingegnere civile ad alcuni allievi dell’Istituto tecnico di Firenze. Il dato di quegli anni — come si può vedere in tabella 1 — è dunque eccezionale e non sorprende che poi molti di quegli ingegneri non siano più reperibili all’interno dell’associazione degli ex-laureati. La tabella 3.1, invece, classifica gli ingegneri presenti nell’Annuario secondo la destinazione professionale. I dati riguardano per l’appunto il settore di impiego e/o la qualificazione professionale degli ingegneri presenti nell’«Annuario» alla data del 1913, senza tenere conto di precedenti e/o successive modifiche di carriera. Ho ricostruito tali tabelle seguendo l’impostazione di M. Rozzarin — cfr. la nota n. 6 — pur discostandomene per la maggiore analiticità dei dati e per alcune valutazioni divergenti. Nella tabella 3.2, i dati della tabella precedente sono stati integrati con una sintetica rilevazione effettuata sul «Calendario generale del Regno d’Italia», alla data del 1914. La consultazione del «Calendario» è stata effettuata ricercando gli ingegneri laureati a Bologna a partire dall’indice nominativo alfabetico. È difficile evitare il rischio di casi di omonimia con ingegneri laureati in altre Scuole di applicazione o nei Politecnici. I casi evidenti o dubbi non sono presi in considerazione. L’incrocio tra i dati del «Calendario» e i dati dell’«Annuario» consente di ritenere minima l’importanza dei casi di omonimia. 101 Tab. 1.1. Ingegneri laureati a Bologna e soci dell’Associazione ex allievi. Anno di laurea laureati 1878-1882 117 1883-1887 264 1888-1892 234 1893-1897 218 1898-1902 162 1903 24 1904 22 1905 27 1906 46 1907 45 1908 31 1909 51 1910 55 1911 56 1912 55 1913 57 1914 57 1915 43 1916 30 1917 7 Totale 1601 soci 39 47 75 93 78 16 5 7 9 12 2 19 46 52 47 37 38 10 8 3 643 Tabella 1.2. Laureati a Bologna a partire dal 1878 e soci dell’Associazione ex allievi. Anno di laurea laureati 1903 1904 1905 1906 1907 1908 1909 1910 1911 1912 1913 1914 1915 1916 1917 1019 1041 1068 1114 1159 1190 1241 1296 1352 1407 1464 1521 1564 1594 1601 soci ass. ex allievi v. a. % 348 34,15 353 33,91 360 33,71 369 33,12 381 32,87 383 32,18 402 32,39 448 34,57 500 36,98 547 38,88 584 39,89 622 40,89 632 40,41 640 40,15 643 40,16 102 Tabella 2. Laureati presso la Scuola d’ingegneria di Bologna (1) e laureati iscritti all’Associazione ex allievi (2) distinti per luogo di nascita (1878-1917) Luogo di nascita Bologna e provincia (1) v.a. 299 % 18,6 8 Ferrara e provincia 78 4,87 Ravenna e provincia 64 4,00 Forlì e provincia 34 2,12 Parma e provincia 38 2,37 Reggio e provincia 56 3,50 Modena e provincia 107 6,68 Piacenza e provincia 23 1,44 Totale Emilia-Romagna 699 43,6 6 Lombardia 248 15,4 9 Toscana 207 12,9 3 Marche 98 6,12 Veneto 93 5,81 Piemonte 46 2,87 Liguria 41 2,56 Abruzzi e Molise e Puglia 68 4,25 Umbria e Lazio 30 1,87 Altre regioni merid. 33 2,06 Isole 23 1,44 Estero 15 0,94 Totale 1601 100 (2) v.a. % 183 28,55 43 24 4 8 27 44 4 337 6,71 3,74 0,62 1,25 4,21 6,86 0,62 52,57 84 13,10 46 7,18 36 38 14 10 36 13 12 6 9 641 103 5,62 5,93 2,18 1,56 5,62 2,03 1,87 0,94 1,40 100 Tabella 3.1. Destinazione professionale degli ingegneri soci dell’Associazione fra gli ex-allievi alla data del 1913 (Fonte: «Annuario dell’Associazione», v. XI, 1913). Settori economici di attività Industrie Edilizia Liberi professionisti Ferrovie (dipendenti dalle Ferrovie dello Stato) Agricoltura (consorzi di bonifica) Uffici tecnici com.li e prov.li Totale ing. dipendenti dall'amm.ne dello Stato, Genio civile 27; Catasto Uff. tecnici di finanza 9 Esercito Insegnanti (scuole secondarie) Docenti universitari Ing. impiegati all'estero Altro Totale 9; v.a. 41 18 193 55 13 78 45 v. % 8,18 3,59 38,52 10,98 2,59 15,57 8,98 8 13 15 7 15 501 1,60 2,59 2,99 1,40 2,99 100,00 Tabella 3.2. Destinazione professionale degli ingegneri laureati a Bologna alla data del 1913 (Fonte: «Annuario dell’Associazione», v. XI, 1913; Calendario generale del Regno d’Italia, v. LII, 1914). Settori economici di attività v.a. Industrie 41 Edilizia 18 Liberi professionisti 193 Ferrovie (dipendenti dalle Ferrovie dello Stato) 67 Agricoltura (consorzi di bonifica) 13 Uffici tecnici com.li e prov.li 78 Ing. dipendenti dall'amm.ne dello Stato 138 Genio civile 63; Catasto 46; Uff. tecnici di finanza 26; Dirigenti di ministeri 3. Esercito 9 Insegnanti (scuole secondarie) 22 Docenti universitari 15 Poste e telegrafi 2 Impiegati all'estero 7 Altro 19 Totale 622 104 % 6,59 2,89 31,03 10,77 2,09 12,54 27,54 1,45 3,54 2,41 0,32 1,13 3,05 100 Anno di laurea laureati 1878 22 1879 13 1880 24 1881 30 1882 28 1883 104 1884 51 1885 37 1886 35 1887 37 1888 64 1889 24 1890 41 1891 55 1892 50 1893 48 1894 54 1895 53 1896 38 1897 25 1898 40 1899 35 1900 30 1901 29 1902 28 1903 24 1904 22 1905 27 1906 46 1907 45 1908 31 1909 51 1910 55 1911 56 1912 55 1913 57 1914 57 1915 43 1916 30 1917 7 Totale 1601 Anno di laurea laureati 1878-1882 117 1883-1887 264 1888-1892 234 soci 5 5 5 15 9 9 6 13 12 7 18 11 12 12 22 28 23 20 14 8 19 16 15 15 13 16 5 7 9 12 2 19 46 52 47 37 38 10 8 3 643 soci 39 47 75 105 1893-1897 1898-1902 1903 1904 1905 1906 1907 1908 1909 1910 1911 1912 1913 1914 1915 1916 1917 Totale 218 162 24 22 27 46 45 31 51 55 56 55 57 57 43 30 7 1601 93 78 16 5 7 9 12 2 19 46 52 47 37 38 10 8 3 643 106 Le fonti per la storia dell’ingegneria tra Otto e Novecento: l’Archivio Muggia e il suo fondo documentario Paolo Lipparini Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale, Università di Bologna Matteo Rozzarin Università di Bologna La recente donazione operata dalla famiglia a favore dell’Ordine degli Architetti di Bologna riguardante il vasto fondo archivistico appartenuto ad Attilio Muggia, ingegnere e architetto, attivo a Bologna tra la fine dell’‘800 e i primi decenni del ‘900, ha indubbiamente offerto l’occasione per un lavoro accurato di ricostruzione del percorso professionale, scientifico e artistico di una figura preminente dell’élite tecnica locale e nazionale. Uno sguardo per sommi capi alla vicenda biografica, insieme accademica e professionale, di Attilio Muggia vale certamente a spiegare il merito di quanto affermato e, conseguentemente, il valore intrinseco della importante acquisizione archivistica. Attilio Muggia inizia l’attività didattica ancora studente negli anni in cui frequenta il 2° e il 3° corso della Reale Scuola di Applicazione di Bologna, raccoglie infatti e pubblica le dispense relative al corso di “Meccanica applicata alle costruzioni” e “Ponti e Costruzioni idrauliche” tenute dal prof. Silvio Canevazzi. Due anni dopo (1885) consegue la laurea in Ingegneria Civile con la votazione di 98/100 che gli permette di classificarsi primo tra i laureati di quell’anno. Argomento della tesi è il “Progetto di un teatro”, brillante conclusione degli studi universitari che gli consente di essere nominato Assistente dal prof. Cesare Razzaboni suo relatore. I corsi ai quali collabora sono molteplici: Statica grafica, Meccanica applicata alle costruzioni, Ponti e costruzioni idrauliche, Geometria pratica e celerimensura, Stili architettonici, Costruzioni stradali e ferroviarie e Architettura tecnica. Questa intensa attività didattica lo porta in breve ad ampliare le proprie conoscenze ed esperienze nelle discipline tecniche ed architettoniche e a compiere una rapida carriera universitaria. Infatti, pochi anni dopo, consegue la libera docenza in Architettura tecnica con decreto ministeriale del 6 luglio 1891. L’anno successivo è incaricato dell’insegnamento della stessa materia nel primo corso della Scuola di Bologna, compilando in seguito i testi necessari al corso. Partecipa quindi al concorso per la cattedra di professore straordinario di Architettura nella Scuola di Palermo conseguendone la eleggibilità (1893). Il passaggio dal titolo di professore straordinario a ordinario avviene nel 1905 ed è trasferito nel 1912, sempre come professore ordinario, alla Cattedra di Architettura tecnica. Analizzando l’opera del Muggia sotto il profilo professionale notiamo come tutta la sua attività sia caratterizzata dalla volontà di conciliare l’aspetto tecnico e quello formale, l’architetto e l’ingegnere civile, lo strutturista e lo scenografo. Difficilmente uno dei due aspetti che caratterizzano il progettista prende il 107 sopravvento sull’altro; le conoscenze tecniche gli permettono infatti un assoluto controllo architettonico del progetto e le doti artistiche restituiscono all’opera stessa, dal semplice manufatto in cemento armato al grande capannone industriale, una “qualità architettonica” inconsueta. Risulta arduo quindi cercare di ricondurre l’opera di Muggia entro ambiti predefiniti proprio a causa della molteplicità e varietà dei progetti, rimanendo possibile però attribuirgli le qualità tipiche sia degli ingegneri, sia degli architetti: il rigore progettuale e strutturale applicato alla ricerca della “qualità” architettonica. L’impegno nella ricerca che Muggia profuse durante la sua vita professionale nella sua duplice veste di ingegnere accademico e di imprenditore edile costituì un fondamentale supporto all’insieme delle attività tecnico-progettuali. Egli, infatti, fu uno dei pionieri nel campo del cemento armato, un sistema costruttivo di cui comprese l’importanza per un paese come l’Italia povero di materie prime e arretrato dal punto di vista tecnologico. Peraltro, negli anni a cavallo dei due secoli fu tra i pochissimi che seppero accelerare la rivoluzione dei sistemi costruttivi che facevano dell’edilizia ancora un settore artigianale e che l’uso del cemento armato trasformò celermente in “industria”. Primo in Italia a trattare (in una conferenza pubblica alla Società Toscana degli Ingegneri nel 1899) del nuovo sistema anche dal punto di vista teorico, ne introdusse per primo l’insegnamento. Queste conoscenze tecniche gli permisero per molti anni di essere tra i pochi ingegneri in grado di realizzare grandi manufatti in cemento armato con ardite caratteristiche tecniche (il ponte sul Magra del 1905, lungo 300 metri ad archi ribassati). Inoltre di queste tecniche fece largo uso per ponti a travate (stradali e ferroviari), nelle fondazioni per agglomeramento pneumatico in posto (ponte sul Magra) con macchinari di sua ideazione e brevetto, nei lavori marittimi (moli di Porto Corsini a Ravenna nel 1900) e nei più diversi manufatti di cantiere, tutti con brevetti propri. Tali opere furono progettate e realizzate in tutta Italia dalla Società Costruzioni Cementizie (con sedi a Bologna e Firenze), una delle imprese edili allora maggiori d’Italia e di cui Muggia fu direttore tecnico generale dal 1905 al 1925. L’aspetto d’interazione fra cultura tecnico-scientifica e applicazione industriale e imprenditoriale è da considerarsi dunque quale tratto determinante per la comprensione dell’operato del Muggia, un operato quello professionale che trae forza e slancio dalla metodica applicazione dei principi economici e manageriali ad una pratica progettuale che per questi motivi assume un rilievo del tutto originale e innovativo. Non è raro ad esempio rinvenire nei progetti del professore veneziano l’indicazione degli elementi economico-contabili per la misurazione e la corretta valutazione dei costi di fabbricazione, nonché di quelli di tipo budgetario finalizzati alla determinazione delle risorse finanziarie reperibili per il completamento dell’opera progettata. Né per questi stessi motivi occorre sottovalutare come l’elevato tasso di professionalizzazione dell’operato didattico e scientifico abbia positivamente influenzato l’attività del Muggia organizzatore delle politiche didattiche per gli ingegneri sul piano locale (con la promozione di una importante iniziativa scolastica come la Scuola Superiore di Chimica Industriale di Bologna, nonché la stessa direzione della Scuola d’Applicazione) e su quello nazionale (con la proposizione di un organico progetto di riforma degli studi di ingegneria). Particolarmente interessante rimane il caso della Scuola di chimica in quanto assai paradigmatico dell’intreccio di alcune dinamiche culturali ed economico- 108 organizzative tipiche dell’Italia dell’immediato dopoguerra. Tali dinamiche possono essere riassunte principalmente nell’affermazione dell’importanza sociale e culturale dell’elemento tecnico, una posizione che possiamo ricondurre direttamente agli intendimenti programmatici del movimento scientista, e, soprattutto, nella ricerca di un maggiore collegamento fra scuola e industria attraverso la realizzazione di un ordinamento scolastico e istituzionale dotato di autonomia funzionale e didattica. Muggia si propone infatti sin dall’inizio (cioè sin dal 1916, anno in cui viene lanciato il progetto scolastico, un progetto che, per iniziativa dello stesso Muggia, fu accompagnato e integrato più tardi da una ardita ipotesi di intervento urbanistico relativo ad una vasta area immobiliare cittadina) quale promotore del Comitato Patrocinatore della Scuola, un organismo che sarà in grado di raccogliere un largo consenso nell’ambiente industriale bolognese ed emiliano, un consenso che si sarebbe infine tradotto nella rappresentanza diretta degli enti oblatori in seno alla Commissione amministrativa del Consorzio sovvenzionatore così come all’interno del Consiglio direttivo della Scuola inaugurata nel 1922. Analogamente, le proposte di riforma degli studi di ingegneria elaborate dal Muggia dapprima come presidente della Società degli Ingegneri di Bologna (1916) e successivamente (1922) come responsabile della commissione ANIAI (la neonata associazione professionale degli ingegneri e degli architetti italiani) alla quale era stato affidato il compito di studiare il problema e di proporre alcune soluzioni, rivelano indubbiamente il prevalere di alcuni tratti costitutivi di quella impostazione professionalizzante degli studi che tante difficoltà andava incontrando anche nell’ambito dell’establishment accademico delle scuole d’ingegneria. La posizione di Muggia si può infatti riassumere nel tentativo di favorire il raggiungimento di una soluzione della cogente “questione professionale”, così vivacemente dibattuta all’indomani della cessazione del conflitto bellico, non puramente in termini legalistici (riconoscimento del valore legale del titolo), né soltanto in virtù del riordinamento in senso restrittivo del sistema d’accesso agli studi di ingegneria, quanto grazie ad una maggiore cura degli aspetti relativi alla preparazione culturale tecnico-scientifica degli allievi ingegneri mediante la opportuna valorizzazione delle finalità applicative del quinquennio di studi e la suddivisione degli indirizzi in industriale (meccanica, elettrotecnica, chimica e agraria), civile (idraulica, trasporti) e architettonico, nonché attraverso la sperimentazione di alcune metodologie didattiche innovative quale in particolare la proposta dei periodi di esercitazione e perfezionamento in aziende allo scopo di favorire un più stretto contatto dello studente con la pratica professionale. Né possiamo stupirci di come queste posizioni non possano che esser sostenute da chi maturi, nel concreto dell’agire professionale e nella consapevolezza delle reali problematiche inerenti alla formazione tecnico-scientifica, la consapevolezza del lento ed inesorabile mutare delle condizioni che sottendono alla evoluzione della professione e in particolare di come gli elementi tecnologico, industriale ed organizzativo tendano pertanto a proporsi quale importante metro di valutazione e di indirizzo anche per i settori più tradizionali dell’ingegneria civile. È questa una sensazione che si percepisce nettamente allorché si verifichi tra le carte dell’archivio Muggia un più che appariscente moltiplicarsi tra il 1917 e il 1921 delle ipotesi di progettazione di quegli elementi tecnici e architettonici maggiormente riferibili ad una realtà produttiva di recente ed impetuosa formazione, quali ad 109 esempio solai e tettoie per fabbricati industriali, magazzini, silos, interi edifici di cartiere, zuccherifici, officine del gas ecc. Un passaggio invero assai critico e che pone in pieno risalto la progressiva deficienza degli ordinamenti scolastici nel campo dell’ingegneria laddove il problema oramai più avvertito è dunque quello dell’aggiornamento delle tecniche di progettazione e di edificazione, e, insieme, quello della gestibilità tecnica e amministrativa dei nuovi tipi di infrastrutture produttive. La qualità e i caratteri della progettazione didattica dei corsi per ingegneri chimici e dottori in chimica industriale presso la neonata scuola bolognese ci confermano ampiamente della netta e lucida percezione dei promotori dell’iniziativa intorno alla necessità strategica dell’approdo ad una visione complessiva del “ciclo progettuale”. Siamo pertanto al cospetto di una figura di ingegnere di eccezionale statura professionale per cifra tecnica, elaborazioni concettuali e assunzione di responsabilità sociali e civili, ma che dell’evoluzione delle problematiche dirompenti del professionalismo tecnico si pone indubbiamente quale cosciente e attivo interprete. La vicenda di Attilio Muggia può anche sotto questo punto di vista considerarsi paradigmatica dell’incipiente ed incisivo protagonismo professionale e sociale del ceto medio e dirigente tecnico alla ricerca delle forme di riconoscimento e di legittimazione culturale e politica oltre che economica in grado di decretarne a pieno titolo una presenza stabile e influente nell’assise della nuova classe dirigente urbana e nazionale. Un rapido sguardo all’elenco delle cariche ricoperte dal Muggia in ambito tecnico e civile può meglio illustrare il significato di quanto ora affermato in merito al processo di legittimazione sociale e civile dei tecnici: Attilio Muggia fu infatti membro della commissione che stilò le prime norme sulle costruzioni in cemento armato in Italia, presidente della commissione per la riforma del regolamento delle costruzioni in c.a., membro della commissione per le “invenzioni di guerra” durante il primo conflitto mondiale, membro della commissione dell’ingegneria del Consiglio nazionale delle ricerche, presidente della Società amatori e cultori d’architettura di Bologna, vice presidente delle commissione per la facciata di S. Petronio in Bologna. Non meno intensa fu l’attività di Muggia nel campo sociale, infatti nel 1887 promosse con altri la costituzione di una “Casa di lavoro per operai disoccupati” e ne fu vicepresidente, più tardi di una scuola per capimastri e per la qualificazione della mano d’opera edile realizzata nel primo dopoguerra. Fu membro del consiglio direttivo dell’istituto professionale Aldini-Valeriani e di quello dell’Accademia di Belle Arti, presidente dell’associazione ingegneri di Bologna e vice presidente dell’Associazione Nazionale Ingegneri. Per molti anni fu membro della commissione consultiva edilizia del Comune di Bologna. Del tutto paradigmatico altresì l’approdo politico del Muggia in un dopoguerra travagliato da profonde tensioni sociali e intense spinte modernizzatrici che delle prime parevano subire agli occhi del tecnico e dell’imprenditore l’effetto frustrante e distruttivo. Fondatore della sezione bolognese della Confederazione dei lavoratori intellettuali la cui sede venne posta proprio nella locale Scuola d’applicazione, nel 1921 si iscrisse al partito fascista, anticipando un percorso presto seguito da molti intellettuali e tecnici di questo paese. Né sarà irrilevante prendere in considerazione come il peso dei tecnici e degli ingegneri in particolare nel nuovo assetto politico e amministrativo municipale bolognese (il professor Umberto Puppini, docente di Idraulica presso la 110 Scuola d’Ingegneria, destinato ad una brillante carriera ministeriale e dirigenziale negli anni ‘30, venne nominato Sindaco dalla nuova maggioranza politica) costituisca per molti versi la naturale risultante di questo complesso processo sociale. Nella fase conclusiva della vicenda biografica del Muggia constatiamo un sostanziale ripiegamento verso l’impegno didattico che, con l’assunzione della direzione della Scuola d’Ingegneria nel 1923 succedendo in questo ruolo a Luigi Donati, docente di Fisica tecnica e fondatore della sezione bolognese della AEI, finirà per assorbire una grande parte del suo lavoro. I suoi primi interventi riguardano la riorganizzazione della Segreteria e dell’Economato che risentivano ancora delle vicissitudini derivanti dalla guerra da poco conclusa. Provvede poi ad organizzare il riordinamento generale della biblioteca e dei relativi schedari. Ripristina l’insegnamento dell’Ingegneria sanitaria e separa l’insegnamento di Costruzioni idrauliche da quello di Ponti. Istituisce inoltre l’insegnamento di Nozioni di Agronomia ed Attuaria annettendolo a quello di Estimo, promuovendo altresì, verso la fine del mandato, l’istituzione di un corso libero di Organizzazione scientifica del lavoro; istituisce inoltre corsi serali di inglese e tedesco necessari, a suo parere, ad un ingegnere che doveva essere competitivo a livello internazionale. Nel 1927 il suo mandato di direttore della Scuola termina, mantiene la Cattedra di Architettura tecnica fino al 1935 quando viene collocato a riposo per raggiunti limiti di età e nominato, nel 1936, professore Emerito. Non meno interessante e ugualmente suggestivo sotto i profili culturale, architettonico e delle relazioni internazionali, fu il ruolo di Muggia nella vicenda del concorso per il Palazzo della Società delle Nazioni, sulla quale non ci si vuole soffermare in questa sede per la molteplicità delle tematiche ad essa inerenti, ma la cui partecipazione in qualità di membro della giuria del Concorso (1927) vale a dimostrare altresì l’eccezionale credito di cui era oggetto la sua opera e il suo lavoro di docente. Considerata pertanto la complessità degli elementi biografici sinora addotti ben si comprende come la ricchezza degli elementi archivistici recentemente acquisiti possa aprire la strada in futuro ad una ricerca di ampio respiro, incentrata su una lettura che miri in primo luogo alla integrazione dei differenti aspetti interpretativi sui quali fondare l’analisi storiografica dell’attività professionale e culturale dell’ingegner Muggia. Ciò diviene tanto più significativo quanto maggiormente si mediti sulle difficoltà di individuazione e di un eventuale recupero di fondi archivistici e bibliotecari di qualche rilievo riferibili a singole figure di tecnici, sia per le peculiarità di una pratica professionale generalmente meno incline alla selettività conservativa dei materiali prodotti, sia perché l’intenso legame tra attività professionale e responsabilità istituzionali porta in molti casi alla frammentazione policentrica delle testimonianze archivistiche. Quando queste difficoltà tuttavia vengono superate, e si ha la possibilità di rinvenire buona parte dei materiali provenienti dalle attività di progettazione di uno studio tecnico, si è posti di fronte ad una mole di documenti il cui trattamento in termini archivistici pone non pochi problemi metodologici e procedurali. Tali problemi si sono puntualmente riproposti in merito al recupero e al riordinamento dell’archivio autografo che Attilio Muggia aveva conservato e sistemato, operazione della quale si vogliono qui presentare, a conclusione di questo intervento, le fasi e le caratteristiche salienti, e il cui merito va 111 innegabilmente ascritto all’impegno dal prof. Giuliano Gresleri, titolare della cattedra di Storia dell’Architettura e dell’Urbani-stica della Facoltà di Ingegneria di Bologna, impegnato da diversi anni, insieme ai suoi collaboratori, nel recupero e nella valorizzazione, in primo luogo didattica, delle testimonianze archivistiche e documentarie dell’ar-chitettura bolognese tra Otto e Novecento. Si tratta di un archivio il cui materiale si presentava al momento del rinvenimento in buono stato di conservazione e rappresentante la quasi totalità dell’opera del Maestro. Questa ricchezza di documenti ha permesso altresì di ricostruire la genesi e la realizzazione di circa 800 progetti, la maggior parte dei quali risultavano sconosciuti fino a quel momento. Il passo successivo è stato quello di organizzare i reperti secondo la metodologia archivistica più appropriata al fine di poterne catalogare tutto il contenuto e renderlo fruibile per ulteriori analisi. Si è scelto allo scopo di mantenere l’ordine adottato dall’autore, integrandolo tuttavia con una catalogazione alfabetica per soggetti e un regesto cronologico. In questo modo risulta possibile conoscere l’opera di Muggia attraverso i suoi elaborati grafici, facilmente rintracciabili sia cronologicamente che fisicamente. Il presente metodo si è reso obbligatorio in quanto il materiale catalogato risulta molto vasto e disarticolato perché ubicato in due differenti depositi. Accanto all’archivio vero e proprio è stato rinvenuto un fondo, il primo in realtà ad essere trovato (gennaio 1995), e che si trova in una stanza ubicata al primo piano di un edificio a Porta Mascarella, ossia la sede bolognese dell’impresa edilizia del Muggia. Il materiale si trovava in buono stato di conservazione ma in grande disordine, determinato probabilmente da un frettoloso accatastamento durante la collocazione avvenuta probabilmente in seguito della morte del figlio di Muggia, Guido. Quest’ultimo è stato infatti l’unico biografo del padre e, di conseguenza, doveva disporre di questo materiale. Esso costituisce una sorta di “compendio” dell’opera di Muggia, infatti si presenta come una raccolta dei suoi progetti più significativi catalogata in ordine cronologico e raccolta in una ventina di cartelle numerate. A queste si aggiungono dieci buste contenenti i carteggi relativi ad alcuni progetti, una raccolta di tavole sciolte eseguite da Muggia durante i suoi studi superiori ed universitari. Inoltre vi sono 6 quadri rappresentanti sempre alcune delle sue opere. L’impressione che si ricava dal riordinamento delle cartelle è quella di un lavoro interrotto: infatti le cartelle pur contenendo progetti realizzati in anni diversi sono tutte dello stesso materiale e forma e le singole opere vengono visualizzate mediante riduzioni fotografiche dei disegni originali e incollate su pannelli di cartone. Questo metodo di raccolta rende la consultazione molto più agevole rispetto agli originali. Appare evidente che Muggia stesse riordinando la sua opera e al tempo stesso desiderasse renderne più facile la sua collocazione. Il metodo di catalogazione proposto per il “fondo” è lo stesso usato da Muggia: quello cronologico per le opere più importanti, quello per tipo di opera per le altre. Per le buste ci si è limitati a numerarle nell’ordine in cui sono state trovate e lo stesso si è fatto per le tavole sciolte e per i quadri. L’archivio Muggia è stato donato dagli eredi del maestro all’Ordine degli Architetti di Bologna dove è attualmente depositato, purtroppo l’attuale sistemazione lo rende difficile da consultare tranne per quella piccola ma significativa parte custodita nel dipartimento di Architettura e pianificazione territoriale della Facoltà di Ingegneria, costituita da un centinaio di 112 tavole architettoniche che riassumono in maniera esaustiva tutta l’opera e dalla riproduzione fotostatica di parte del carteggio privato del maestro. 113 Jacopo Benetti, tra scuola e professione Gian Carlo Dipartimento di Discipline Storiche, Università di Bologna Calcagno Essendo oggidì altamente accertata la benefica influenza dell'istruzione tecnica sul progresso industriale [...] mi riuscì assai gradito [...] il Suo grande e sentitissimo interessamento a favore dell'istruzione superiore [...] presso questa R[egia] Scuola 88. Così scriveva Jacopo Benetti, il 6 novembre 1907, «all'Ill.mo Signor Sindaco della Città di Bologna», in risposta ad una richiesta di preventivo per «l’istituenda sezione industriale» nella Scuola d’applicazione per gli ingegneri, ubicata in San Giovanni dei Celestini 89. Il Benetti, Direttore della Scuola bolognese dal 1893, era di origini veneziane e si era laureato presso l’Università di Padova nel 1863. Docente dal 1867 di Meccanica industriale (poi Meccanica applicata) presso la locale Scuola di ingegneria, ed ivi anche docente di Macchine agricole, idrauliche e termiche90, era poi passato alla Scuola d’applicazione di Bologna, in coincidenza con l’attivazione piena e «completa» 91 di tale istituto, in cui aveva insegnato, come ordinario — ed J. BENETTI (a cura di), Commentari dell'organizzazione e di un trentennio di vita della Scuola ed Annuario per l'anno scolastico 1908-09, Regia scuola d'applicazione per gli ingegneri in Bologna, Bologna, Stabilimento poligrafico emiliano, 1909, Allegato XLV, «Preventivo per l’istituenda sezione industriale», p. 339. 89 Ibidem; sulla Scuola d'applicazione di Bologna, cfr. C. G. LACAITA, Istruzione e sviluppo industriale in Italia 1859-1914, Firenze, Giunti-Barbèra, 1973, pp. 134-135; C. BUCCHIONI, L'Ottocento e la Scuola d'Applicazione per gli ingegneri in Bologna, in Il patrimonio librario antico della Biblioteca d'Ingegneria, a cura di B. BRUNELLI, C. BUCCHIONI, M. P. TORRICELLI, Bologna, Università degli Studi di Bologna-Biblioteca «Dore»-Facoltà di Ingegneria, [1992], p. XXVIII e Ibidem, nota 6; G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri: la «Scuola d'Applicazione» di Bologna, in E. DECLEVA, C. G. LACAITA, A. VENTURA (a cura di), Innovazione e modernizzazione in Italia fra Otto e Novecento, Milano, Angeli, 1995, pp. 262-296. 90 M. MINESSO, Tecnici e modernizzazione nel Veneto. La Scuola dell'Università di Padova e la professione dell'ingegnere (1806-1915), Centro per la storia dell'Università di Padova, Padova, Lint, 1992, pp. 24, 80 nota 36, 88 tav. (Docenti della Scuola di Applicazione, a. a. 1875-76/1914-15); cfr. anche ARCHIVIO CENTRALE DELLO STATO, ROMA (ACS), Ministero della pubblica istruzione, Direzione istruzione superiore, Personale universitario, I vers., b. 155, Jacopo Benetti; sul Benetti si veda inoltre la voce Benetti, Jacopo in Dizionario biografico degli italiani, VIII, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1966, p. 481-482; e G. C. CALCAGNO, La Scuola per gli ingegneri dell'Università di Bologna tra Otto e Novecento, «Annali di storia delle università italiane», 1, 1997, pp. 149-163 (Clueb, Bologna). 91 J. B ENETTI (a cura di), Commentari, cit., p. 13. Il Direttore indicava con il termine «completa» la Scuola attivata in tutti e tre gli anni di corso del triennio; tale attivazione era avvenuta nell'anno scolastico 1877/78; in precedenza, per l'anno 1875/76, a Bologna era stata istituita una Scuola, caratterizzata solo da un anno (il primo) di corso, cui si era aggiunto, nel 1876/77, un secondo anno, istituito sub condicione, su iniziativa autonoma dell'Ateneo bolognese. Peraltro, va rico rdato che vi è un'altra accezione del termine «completa» — cui più frequentemente gli storici fanno riferimento — ed è quella che si riferisce alle scuole per ingegneri che oltre al triennio avevano anche un proprio biennio, più o meno autonomo, e comunque distinto dal primo biennio della Facoltà di scienze matematiche, fisiche, chimiche e naturali. In tale accezione, «completo» poté essere definito per primo — già pochi anni dopo la sua attivazione — l'Istituto tecnico superiore di Milano (detto appunto per questo il Politecnico). Successivamente, dai primi anni del Novecento, «complete» (più che altro formalmente, però, e non senza resistenze degli Atenei, con interpretazioni riduttive delle leggi, che richiesero da parte degli istituti per la formazione degli ingegneri ricorsi al Consiglio di Stato) poterono essere definite pure la Scuola d'applicazione di Napoli divenuta Scuola superiore politecnica nel 1904 e la Scuola d'applicazione di Torino, unitasi con il Museo industriale e divenuta — nel 1906 — Politecnico. Cfr. G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit., pp. 272-273, nota 25; vedi anche C. G. LACAITA, Istruzione e sviluppo industriale, cit., pp. 121122. 88 114 insegnava ancora, al momento in cui presentava al sindaco il proprio progetto di sezione industriale — Macchine termiche, idrauliche e agricole, e — come incaricato — Strade ferrate (poi Ferrovie) 92. Le indicazioni di Jacopo Benetti sull’istituenda sezione industriale della Scuola d’Applicazione bolognese 93 e le sue articolate riflessioni sulla storia della sezione civile, istituita con triennio completo dal 1877, costituiscono una tra le testimonianze più interessanti del dibattito sulla figura (sul ruolo sociale e sulla cultura) dell’ingegnere tra Otto e Novecento; dibattito che rifletteva domande di rinnovamento nelle scuole e di adeguamento ai grandi cambiamenti a livello professionale, dibattito che confermava peraltro come le esigenze della formazione teorica e quelle del “mestiere” dell’ingegnere, non fossero sempre facilmente componibili 94. Il progetto relativo ad un ramo di ingegneria industriale, che avrebbe dovuto integrare il ramo d’ingegneria civile e d’architettura attivato nella Scuola bolognese da più di un trentennio, si collocava nel contesto di quello che Jacopo Benetti definiva «il grandioso sviluppo dell’insegna-mento industriale all’estero ed anco fra noi (per ora più a Milano ed a Torino)» , sviluppo che gli era «ben noto» grazie ad «una esperienza di quarant’anni di vita scolastica e tecnica all’estero ed in paese»95. Elaborato tra l’altro sotto la spinta di pressanti richieste provenienti dall’associazione degli «ex allievi laureati, molti dei quali già [...] entrati in carriere industriali» 96, il progetto veniva presentato dal Benetti come una sorta di compromesso realistico tra esigenze che gli apparivano per molti aspetti antagonistiche. Esigenze riconducibili — da un lato — all’impossibilità di un adeguamento totale, per ragioni diverse, locali e non solo locali, al «grandioso sviluppo accennato», e — dall’altro — al suo proprio [di Benetti] irrinunciabile «decoro» di «insegnante e tecnico [...] al corrente [...] dei progressi industriali», che impediva di «abboz-zare» un disegno troppo modesto e riduttivo 97. Le difficoltà maggiori, come era già accaduto altre volte alla Scuola, anzi forse più ancora d’altre volte, erano d’ordine economico 98. Benetti stimava comunque che una convergenza tra forze cittadine e regionali, quali la «Municipalità, le rappresentanze provinciali della Regione, le Aziende Aldini-Valeriani, i Collegi Bertocchi, Comelli, le Camere di Commercio ed altri Enti della Regione Emiliana e delle Marche, nonché Associazioni industriali e perfino benemeriti cittadini» in concorso «col R. Governo» avrebbero garantito la copertura finanziaria all’attivazione della «Sezione Industriale» 99. J ACOPO BENETTI (a cura di), Commentari, cit., Allegato VIII a-g. In realtà i tempi (ma anche i modi) dell'istituzione del ramo industriale furono molto diversi da quelli auspicati dal Benetti, che sembrava dare la sezione industriale come fattibile a brevissimo termine. Cfr. G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit., pp. 289-296. 94 Cfr. G. C. CALCAGNO, Il nuovo ingegnere, in Storia d'Italia. Annali 10. I professionisti, a cura di M. MALATESTA, Torino, Einaudi, 1996, pp. 315-316; ID. (a cura di), Ingegneri e modernizzazioni. Università e professione nell'Italia del Novecento, Bologna, Esculapio, 1996; M. MINESSO, L'ingegnere dall'età napoleonica al fascismo, in I professionisti, cit., p. 259-302. 95 J. B ENETTI (a cura di), Commentari, cit., Allegato XLV, p. 339. 96 Ivi, p. 340; cfr. anche Ivi, pp. 48-49. 97 Ivi, pp. 339-340. 98 Cfr. G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit., pp. 292-293; J. B ENETTI (a cura di), Commentari, cit., pp. 12, 53-54. 99 J. B ENETTI (a cura di), Commentari, cit., Allegato XLV, p. 340. 92 93 115 L’apporto del Governo appariva al Benetti opportuno, per non dire doveroso, per due ordini di motivi. In primo luogo, alla luce della centralità anche sociale che si doveva riconoscere ai processi di industrializzazione e di modernizzazione del Paese — e quindi anche e soprattutto alla formazione dei tecnici chiamati a gestire quei processi — la «nuova istituzione» appariva indubbiamente di «utilità pubblica» 100. In secondo luogo — ma non meno importante per il Benetti — «in favore di un concorso largo del R. Governo» militava il fatto che «alcune grandi Amministrazioni dello Stato» richiedevano nei concorsi «per l’ammissione dei loro funzionari tecnici, il diploma d’ingegnere industriale od almeno d’ingegnere elettrotecnico». Ma, così facendo, non ponevano «in eguali condizioni gli allievi di tutte le R. Scuole d’applicazione per gli ingegneri del Regno». Gli «Istituti superiori per gli ingegneri» che conferivano le «lauree d’ingegnere industriale ed elettrotecnico» osservava in particolare il Benetti, erano quelli «(in ordine di anzianità) di Milano, Torino, Napoli e Palermo; quanto alle scuole d’applicazione di Roma e di Padova, esse rilasciavano «diplomi (più limitati) d’ingegneri elettricisti». Solo la Scuola di Bologna non poteva rilasciare «che semplici certificati di frequentazione e di profitto nelle lezioni e nelle esercitazioni sperimentali del corso complementare facoltativo impartito (a titolo onorario) dal chiarissimo prof. dott. Luigi Donati» 101. Per ovviare «a tale condizione di cose» — che appariva tra l’altro «tanto più da lamentare in quanto che l’art. 2 della nuova Convenzione Universitaria» faceva obbligo espresso al Governo di conservare la «R. Scuola d’applicazione per gli ingegneri in Bologna in quel grado e con quelle prerogative» che avevano «gli altri consimili principali istituti del Regno» 102 —, il Benetti proponeva quindi l’attivazione della sezione con un ordine degli studi che teneva conto della situazione specifica di Bologna e si presentava a suo giudizio come una sorta di accettabile mediazione tra quelle esigenze contrastanti cui si è accennato. In questo quadro il nuovo ordine degli studi, «da aggiungersi» all’ordine degli studi esistente (quello per ingegneri civili ed architetti) «a fine d’introdurvi la Sezione industriale», prevedeva — nel programma benettiano — due insegnamenti triennali, da coprirsi con ordinari: Costruzione delle macchine e Tecnologie meccaniche ed impianti relativi; due insegnamenti biennali: Elettrotecnica e misurazioni elettriche (da coprirsi con un ordinario) e Costruzioni ed impianti elettrici (da coprirsi con uno straordinario); quattro insegnamenti annuali: Metallurgia ed arte mineraria (da coprirsi con un incaricato), Tecnologie chimico-fisiche ed elettrochimiche (da coprirsi con un ordinario), Esercizio delle ferrovie - Economia e giurisprudenza ferroviaria (da coprirsi con un incaricato), Economia e giurisprudenza industriale (da coprirsi con un incaricato) 103. Il senso del progetto è particolarmente evidenziato dal raffronto dell’istituendo ramo industriale con l’ordine degli studi del ramo civile. Al momento in cui il Benetti proponeva la sezione industriale, risultavano attivati nel ramo civile 104 gli insegnamenti di Geodesia teoretica (tenuta da Federigo Guarducci, ordinario), Ibidem. Ivi, pp. 340-341. 102 Ivi, p. 341; vedi anche Ivi, p. 49. 103 Ivi, Allegato XLV, «Preventivo per le cattedre fondamentali da aggiungersi a quelle della Scuola a fine d'introdurvi la sezione industriale», pp. 342-343. 104 Ivi, Allegato VIII g, p. 113. 100 101 116 Meccanica razionale (Giuseppe Picciati, straordinario), Chimica docimastica (Alfredo Cavazzi, ordinario), Costruzioni civili e rurali - Fondazioni I (Attilio Muggia, straordinario), Geologia applicata (Vittorio Simonelli, incaricato), Applicazioni di geometria descrittiva (Giulio Stabilini, secondo insegnamento tenuto per incarico), Statica grafica (Domenico Gorrieri, straordinario), Costruzioni civili e rurali - Fondazioni II (Attilio Muggia, straordinario), Economia ed Estimo rurale (Giuseppe Berti, straordinario), Fisica tecnica (Luigi Donati, ordinario), Geometria pratica e Celerimensura (Francesco Cavani, ordinario), Meccanica applicata alle costruzioni (Silvio Canevazzi, secondo insegnamento tenuto per incarico), Meccanica applicata alle macchine (Francesco Masi, ordinario), Architettura tecnica (Antonio Zannoni, ordinario), Costruzioni stradali e ferroviarie (Giulio Stabilini, ordinario), Ferrovie (Jacopo Benetti, secondo insegnamento tenuto per incarico), Idraulica (Giacomo Torricelli, straordinario), Macchine termiche, idrauliche ed agrarie (Jacopo Benetti, ordinario), Materie giuridiche (Francesco Cavani, secondo insegnamento tenuto per incarico), Ponti e costruzioni idrauliche (Silvio Canevazzi, ordinario), Elettrotecnica (Luigi Donati, secondo insegnamento tenuto per incarico), Igiene applicata (Guido Ruata, secondo insegnamento tenuto per incarico) 105. È significativo che l’ordine degli studi del ramo civile fosse ancora — come rilevava lo stesso Benetti — abbastanza simile a quello previsto al momento dell’istituzione della scuola «completa» (anno scolastico 1877-78). In quell’anno risultavano infatti attivati gli insegnamenti di Geodesia teorica (insegnamento tenuto da Matteo Fiorini, ordinario), Meccanica razionale (Ferdinando Ruffini, ordinario), Chimica docimastica (Domenico Santagata, incaricato), Stili architettonici (Raffaele Faccioli, incaricato 106), Geologia applicata (Giovanni Capellini, secondo insegnamento tenuto per incarico), Applicazioni di geometria descrittiva (Pietro Boschi, incaricato), Statica grafica (Antonio Fais, incaricato), Mineralogia applicata (Luigi Bombicci, incaricato), Celerimensura (Francesco Cavani, supplente 107), Economia ed Estimo rurale (Francesco Botter, ordinario), Fisica tecnica (Luigi Donati, straordinario), Geometria pratica (Pietro Riccardi, ordinario), Meccanica applicata alle costruzioni (Silvio Canevazzi, incaricato), Meccanica applicata alle macchine (Antonio Silvani, supplente), Materie giuridiche (Oreste Regnoli, incaricato), Architettura tecnica (Fortunato Lodi, incaricato), Strade ordinarie (Giulio Stabilini, supplente), Strade ferrate (Jacopo Benetti, secondo insegnamento tenuto per supplenza), Idraulica (Cesare Razzaboni, ordinario), Macchine termiche, idrauliche ed agricole (Jacopo Benetti, ordinario), Materiali da costruzioni ed elementi delle fabbriche (Luigi Venturi, straordinario), Ponti e costruzioni idrauliche (Silvio Canevazzi, secondo insegnamento tenuto per supplenza). Peraltro, per ciò che riguardava il nodo scuola-professione, o preparazione teoricamercato del lavoro (o, come amava dire Giuseppe Colombo, cultura dell’ingegnere«Su proposta del Consiglio dei Professori della scuola l'incarico dell'insegnamento di Igiene applicata è stato affidato al prof. G. Ruata, docente presso la R. Università di Bologna e sostituto del chiar.mo prof. Giuseppe Sanarelli», Ivi, cit., Allegato VIII g, nota. 106 Insegnamento attivato dal 1878/79 al 1890/91, Ivi, cit., Allegato VIII a, p. 112. Nell' Allegato VIII a è riportato anche il quadro completo degli altri insegnamenti attivati dal 1877/78. 107 Insegnamento attivato dal 1879/80, unificato con Geometria pratica dal 1888/89, Ivi, cit., Allegato VIII a e c. 105 117 mestiere dell’ingegnere) 108, quella continuità che caratterizzava in Italia — più di ogni altro istituto per la formazione degli ingegneri — proprio la Scuola bolognese, si presentava per Benetti con un segno ambivalente, negativo e ad un tempo positivo. Per comprendere tale atteggiamento, è necessario richiamare alcuni elementi delle vicende della Scuola d’applicazione di Bologna, nonché della biografia dello stesso Benetti almeno sommariamente — più in dettaglio se ne è già trattato in altre sedi 109 . Succeduto al primo direttore della Scuola, Cesare Razzaboni — idraulico di grande fama, «scienziato, insegnante, cittadino venerato in tutta Italia» 110 — Benetti tenne la carica di direttore dal 1893 al 1910. Uomo di vari e vasti interessi tecnici e scientifici, e di esperienze, contatti e collegamenti che andavano ben oltre i confini nazionali, si era sempre mostrato nel corso della sua vita particolarmente sensibile alla questione del contraddittorio adeguamento dell’Italia agli standard dei Paesi europei più avanzati. Benetti era venuto individuando — analogamente ad altri tecnici protagonisti delle vicende anche politiche dell’Italia liberale, tra i più famosi il già ricordato Colombo — era venuto individuando, si diceva, nello sviluppo degli studi di ingegneria uno dei capitoli più interessanti del faticoso avvio del processo di modernizzazione italiano negli anni immediatamente successivi all’Unità. La riforma delle Scuole di ingegneria aveva trovato, seguendo le indicazioni della Legge Casati del 1859, pratica attuazione nell’attivazione di una Scuola d’applicazione per ingegneri a Torino e di un Istituto tecnico superiore a Milano (ben presto noto come Politecnico); a queste due «scuole politecniche» 111 — ma potremmo anche dire tre, tenuto conto che nella formazione degli ingegneri era attivo a Torino anche il Museo industriale 112 — se ne erano poi aggiunte altre, situate a Padova, Bologna, Roma, Napoli e Palermo, peraltro non senza dibattiti caratterizzati da contrasti e polemiche (anche sui casi di Genova — Istituto navale superiore — e di Pisa — Scuola d’appli-cazione — che qui non è possibile trattare) 113 . Gli elementi profondamente innovativi contenuti nei programmi di riforma degli studi di ingegneria, dovettero misurarsi, già a partire dalla Legge Casati — come Si veda G. COLOMBO, Industria e politica nella storia d'Italia. Scritti scelti: 1861-1916, Milano-Roma-Bari, Cariplo-Laterza, 1985; e C. G. LACAITA, Giuseppe Colombo e le origini dell'Italia industriale, Ivi, pp. 5-86. 109 G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit.; ID., La Scuola per gli ingegneri dell'Università di Bologna, cit. 110 J. B ENETTI (a cura di), Commentari, cit., Allegato VIII d, nota, p. 112; cfr. anche Allegato XV e XVI, pp. 153 ss. 111 Così il Lacaita definisce — con un unico termine — i diversi istituti per la formazione degli ingegneri (erano prevalentemente scuole d'applicazione) attivati in Italia dall'Unità al primo Novecento. C. G. LACAITA, Ingegneri e scuole politecniche nell'Italia liberale, in S. SOLDANI , G. TURI (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, I, La nascita dello Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 213253. 112 Sul Museo Industriale di Torino, cfr. C. G. LACAITA, Istruzione e sviluppo industriale, cit., pp. 122, 125, 131, 140; A. FERRARESI, Nuove industrie, nuove discipline, nuovi laboratori: la Scuola superiore di elettrotecnica di Torino (1886-1914), in E. DECLE-VA, C. G. LACAITA, A. VENTURA (a cura di), Innovazione e modernizzazione in Italia, cit., pp. 381, 385 ss. 113 Cfr. M. MORETTI , La riorganizzazione degli studi di ingegneria nell'Italia liberale. Documenti sulla preparazione del Regolamento del 1875, in AA. VV., Ricerche di storia moderna IV. In onore di Mario Mirri, Pisa, Pacini, 1995, pp. 404-411 (Ap-pendice). Vedi anche R. MAIOCCHI, Il ruolo delle scienze nello sviluppo industriale italiano, in Storia d'ltalia. Annali 3. Scienza e tecnica, Torino, Einaudi, 1980. 108 118 Benetti rilevò più volte —, con le tradizioni relative alla formazione teorica e pratica degli ingegneri (e degli architetti), tradizioni che rimandavano a differenziazioni consolidatesi nelle varie sedi prima dell’Unità, e che per vari aspetti continuavano a permanere anche dopo. Le vicende relative alla nascita e allo sviluppo della scuola d’appli-cazione di Bologna confermavano al Benetti, come la storia delle varie scuole si fosse svolta comunque in un quadro caratterizzato da uno stretto intreccio tra fattori riconducibili allo “specifico” delle varie sedi e fattori riportabili al contesto nazionale114. La scuola bolognese nacque tra il 1875 e il 1877, superando diverse difficoltà locali, d’ordine finanziario e non solo finanziario, ma anche un’iniziale opposizione di importanti e qualificati esponenti del mondo tecnico-scientifico italiano, quali Prospero Richelmy, Luigi Cremona e Fortunato Padula, rispettivamente direttori della Scuola d’applicazione di Torino (che fu la prima ad essere attivata, nell’ambito della già più volte ricordata Legge Casati), di quella di Roma e di quella di Napoli115. Non mancavano peraltro anche tenaci assertori dell’utilità d’una rinnovata scuola per ingegneri all’ombra delle due torri: tra questi va ricordato in particolare Quirico Filopanti116, nativo della vicina Budrio, formatosi come ingegnere a Bologna e docente nell’Università, uomo di vastissima cultura e di lunga militanza politica (era stato uno dei protagonisti della Repubblica romana), non certo alieno da atteggiamenti utopici — e talvolta campanilistici 117 quando affrontava questioni felsinee (o emiliane o romagnole) —, ma capace comunque anche di valutazioni non irrealistiche e di proposte credibili nel contesto della situazione italiana postunitaria. L’evoluzione della scuola — sotto la ferma direzione, quasi militare, di Cesare Razzaboni prima, e quella non meno severa dello stesso Benetti poi 118 — testimoniava come fosse stata condizionante per Bologna la collocazione (in senso storico, si potrebbe dire, prima ancora che in senso geografico) in un’area esterna al triangolo industriale propriamente detto119. Appariva così particolarmente significativo al Benetti il fatto che la Scuola — nella sua vita istituzionale condotta nel segno della massima continuità possibile — fosse rimasta, in un arco di tempo più che trentennale, (dalla seconda metà degli anni Settanta dell’Ottocento al primo decennio del Novecento) fondamentalmente incentrata attorno agli studi di ingegneria civile ed architettura. Tuttavia quella collocazione “esterna” di cui si è G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit.; ID, La Scuola per gli ingegneri dell'Università di Bologna, cit.; ID., Scuole per la formazione degli ingegneri e modernizzazione in Italia tra Otto e Novecento, in M. SALVATI (a cura di), Per una storia comparata del municipalismo e delle scienze sociali, «Quaderni di Discipline Storiche», n° 4, 1993 (Bologna, Clueb). 115 Cfr. M. MORETTI , La riorganizzazione degli studi di ingegneria nell'Italia liberale, cit. 116 Cfr. L. LAMA, Comune, Provincia, Università. Le Convenzioni a Bologna fra Enti Locali e Ateneo (1877-1970), Bologna 1987, pp. 14-15. 117 Nei suoi vagheggiati Stati uniti del Mondo, se a Gerusalemme spettava la funzione di capitale religiosa e a Roma quella di capitale politica, era però a Bologna che toccava il ruolo di capitale culturale (Q. FILOPANTI , Miranda! A book on wonders hitherto unheeded, London, James Morgan, 1858-1860, § 1324). Tra i contributi su Filopanti, si vedano in particolare, A. PRETI ET AL., Quirico Filopanti. Studi e ricerche, Budrio, Comune di Budrio, 1980; F. SERVETTI DONATI, Ricordando Filopanti 1894-1994, Budrio, Comune di Budrio-Assessorato alla promozione culturale, 1994; A. PRETI (a cura di), Un democratico del Risorgimento: Quirico Filopanti, Bologna, Il Mulino, 1997. 118 J. BENETTI (a cura di), Commentari, cit., pp. 8-58. 119 G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit., p. 294. 114 119 appena detto, non aveva certo impedito che Bologna fosse pur essa investita da una varietà di mutamenti connessi con il processo di industrializzazione; né al Benetti sfuggiva il fatto che nel nuovo secolo da pochi anni iniziato il fenomeno si sarebbe verosimilmente consolidato e radicalizzato. Da tutto ciò scaturiva un giudizio ambivalente, come si è già accennato, sulla Scuola e sulle sue caratteristiche più specifiche. Lo sviluppo della Scuola bolognese, che appariva al Benetti — rispetto allo sviluppo degli altri istituti italiani per la formazione degli ingegneri — maggiormente vincolato al modello originario di tutte le scuole d’applicazione, aveva finito per accentuare lo scarto tra la preparazione teorica e l’attivi-tà pratica dell’ingegnere, soprattutto nell’ambito industriale (ma non esclusivamente in questo), a causa delle trasformazioni tecnologiche in vari settori, da quello elettrico a quello chimico. In questo senso il Benetti — anche alla luce delle normative per i concorsi pubblici — non poteva che condividere i rilievi negativi che sempre più frequentemente venivano fatti all’insegnamento impartito dalla Scuola. Le critiche venivano in particolare da ingegneri ex-allievi, che si erano trovati spesso obbligati a frequentare — dopo il diploma — corsi integrativi presso altre scuole italiane o straniere al fine di acquisire competenze, che colmassero le loro lacune, e specializzazioni da “spendere” sul mercato del lavoro. Inoltre il Benetti tendeva a collegare alle carenze della Scuola che venivano denunciate da più parti anche il fatto che il numero di iscritti ai corsi era rimasto in un trentennio complessivamente modesto, soprattutto se raffrontato con il numero di iscritti alla Scuola d’applicazione di Torino (politecnico dal 1906) e al politecnico di Milano. Tutto ciò serviva a Jacopo Benetti per ribadire la necessità ormai inderogabile di attivazione del ramo industriale anche nella sede bolognese 120. Peraltro, tale trasformazione della Scuola doveva avere per il Direttore il significato di un arricchimento della tradizione dell’istituto bolognese, e non di una rottura di quella tradizione, o comunque di un’inversione di tendenza. Infatti il Benetti dava un giudizio decisamente positivo della qualità didattica proposta dalla Scuola. E ciò valeva in assoluto; non solo quindi per il passato e per il presente (la formazione di ingegneri civili e di architetti), ma anche per il futuro: la specializzazione in senso industriale, o ulteriori specializzazioni, sarebbero state caratterizzate da quella stessa qualità didattica affermatasi nel trentennio di vita della Scuola. Lo sviluppo limitato della Scuola (solo diplomi in ingegneria civile ed architettura, numero di allievi non elevato) non aveva quindi inciso sulla bontà degli studi, che sin dalle origini si erano mantenuti su validi livelli, nel complesso analoghi, sottolineava il Benetti, a quelli delle altre scuole di ingegneria italiane e straniere 121. L’ambivalenza del giudizio sulla Scuola formulato dal Benetti, che sapeva ben valutare i lati positivi non meno di quelli negativi, non è quindi un segno di contraddizione, ma al contrario mostra come Benetti avesse degli studi di ingegneria una visione matura e realistica. In questo senso è persino secondario che poi l’attivazione della sezione non si sia realizzata nei modi e nei tempi immaginati dal Benetti. Letta nella totalità del contesto dei Commentari, la proposta relativa alla sezione industriale, conteneva un messaggio forte che scavalcava lo stesso progetto di istituzione di una specializzazione adeguata alle richieste di nuove professionalità. 120 121 J. BENETTI (a cura di), Commentari, cit. Ivi. 120 Arricchire gli studi di ingegneria con nuovi rami, mantenendo nel contempo intatti i caratteri (di serietà e di severità) della Scuola, significava per Benetti, non un mero appiattimento sulle esigenze del mercato del lavoro, bensì un ulteriore contributo alla dignità scientifica di quegli studi. Il disegno di fondo del Direttore era infatti quello di far comprendere che le conoscenze tecniche degli ingegneri, avendo da tempo smesso di rinviare a saperi empirici, erano scienze — a tutti gli effetti — in versione applicativa. Le discipline degli ingegneri andavano così considerate, nell’ambito universitario, sempre più come «sorelle» delle scienze pure, e sempre meno come «ancelle» 122. La richiesta “professionale” di una sezione industriale si collocava quindi per Benetti in un discorso più ampio. Chiedere l’allineamento della Scuola bolognese con le altre scuole politecniche italiane implicava allora, almeno in prospettiva, una richiesta — per tutti gli istituti di formazione degli ingegneri — di parità “accademica” con le Facoltà universitarie, e di equipollenza completa del diploma di ingegnere con le lauree da esse conferite 123. Ivi. Gli obiettivi di Jacopo Benetti, sia quelli a breve termine (la sezione industriale), sia quelli a medio o lungo termine (la modifica dello status dell'ingegnere) — si sarebbero realizzati solo alcuni lustri dopo la sua morte, negli anni compresi tra le due guerre. Sulle trasformazioni della figura dell'ingegnere negli anni successivi alla prima guerra mondiale, cfr. G. TURI (a cura di), Libere professioni e fascismo, Milano, Angeli, 1994. 122 123 121 Una scuola di applicazione per ingegneri agronomi? Francesco Botter e la riorganizzazione degli studi di ingegneria a Bologna (1868-1875) Silvio Fronzoni Settore Beni Culturali, Amministrazione Provinciale di Bologna In molti paesi europei e americani, come segnalano da tempo i rapporti presentati a congressi e seminari internazionali, gli istituti di istruzione agraria superiore conferiscono ai propri laureati un titolo accademico — ingénieur agronome, diplom– agraringenieur, ingeniero agrònomo, engenheiro agrònomo, agricultural engineer, a seconda dei casi — che suona piuttosto diverso da quello dei laureati delle Facoltà di agraria italiane — dottore in scienze agrarie o dottore agronomo — e che suggerisce, all’impronta, l’idea di un profilo professionale differente e più vicino a quello di un ingegnere 124. In realtà, come i risultati di recenti ricognizioni mostrano chiaramente, la formazione richiesta a “ingegneri agronomi” e “ingegneri agrari”, nei paesi nei quali questi titoli hanno corso ufficiale, non si discosta radicalmente, nella maggior parte dei casi, da quella dei dottori agronomi italiani e non appare caratterizzata, in generale, da una intersezione con gli studi di ingegneria più profonda di quella che si realizza da tempo anche nelle nostre facoltà di agraria 125. La qualifica di “ingegnere” — il comune denominatore di questi titoli — si direbbe quindi significativa, in prima istanza, soltanto di un più marcato indirizzo tecnicoprofessionale dell’insegnamento impartito, e il riflesso di ordinamenti universitari che, a differenza di quello italiano, riservano sempre il titolo dottorale alla conclusione di un corso di studi successivo alla laurea 126. In alcuni casi, però, i titoli conferiti rivestono certamente un significato più specifico. In vari paesi, infatti, alcune facoltà di agraria, ma anche di ingegneria, vedono attivati corsi di laurea in ingegneria agraria, mentre in altri si registra la 124 Tra le relazioni, presentate a conferenze e convegni internazionali, che segnalano la diversità dei titoli conferiti dagli istituti di istruzione agraria superiore, si vedano: G. DALLARI , Protection et réglementation des titres et des professions agronomiques dans les divers pays du monde, Roma 1935; F. ANGELINI , Equivalence et reconnaissance des titres academiques agricoles et protection et réglementation des titres professionnels, in CONFEDERATION I NTERNATIONALE DES I NGENIEURS ET TECHNICIENS DE L’AGRI-CULTURE, V° Congresso internazionale dell’insegnamento agrario, Roma 1957, pp. 25-33; T. DORÉ, Towards integration: problems to be solved, in Integration of agricultural science education in E. C. countries, Bologna, Avenue media, 1994, pp. 13-30. 125 Il confronto, istituito recentemente da L. Cavazza, Higher education in the agricultural sciences in Italy and paremeter analysis for comparison to other systems, in Integration of agricultural science education ... cit. pp. 31-71, tra il sistema di istruzione agraria superiore italiano e quelli francese e olandese, mostra come i tre sistemi constino, sia pure in proporzioni diverse e con qualche significativo “vuoto” in quello italiano, delle stesse componenti principali: le “discipline a fondamento biologico e chimico”, le “discipline a fondamento economico” e le “discipline a fondamento matematico” nelle quali Arrigo Serpieri — cfr. A. Serpieri, La politica agraria in Italia e i recenti provvedimenti legislativi, Piacenza 1925, p. 145 — individuava, non a caso in quest’ordine, gli elementi costitutivi degli studi superiori di agraria italiani. 126 È questa la tesi sostenuta da R. GIULIANI , L’insegnamento agrario superiore in Italia, in V° Congresso internazionale..., cit., pp. 243-50 122 presenza di vere e proprie facoltà con questo nome. In questi casi, che – importa rimarcarlo — non trovano alcun riscontro nel nostro paese, la distanza che separa la formazione degli “ingegneri agronomi” e degli “ingegneri agrari” francesi, tedeschi, spagnoli, ecc., da quella dei dottori agronomi italiani, appare reale e trova conferma in una incidenza nettamente diversa, all’interno del carico didattico, sia degli insegnamenti di base di matematica e fisica, sia di quelli di altre discipline a fondamento matematico 127. Non mancano le ragioni, quindi, per chiedersi perché un corso di studi di questo tipo non trovi posto anche in Italia e quando abbia preso forma, invece, nei sistemi di istruzione tecnica degli altri paesi. Tenendo presente, in particolare, che risalgono al 1862 e a Carlo Cattaneo le prime proposte italiane orientate precisamente in questa direzione 128. Rispondere a queste domande va certamente al di là di un contributo dedicato all’analisi e all’identificazione del protagonista di un episodio specifico: il progetto di istituzione di una scuola di applicazione per ingegneri agronomi che, tra il 1868 e il 1875, fu al centro del lungo negoziato condotto intorno alle sorti degli studi di ingegneria a Bologna. Mi è sembrato opportuno formularle per segnalare il significato che sembrano rivestire — se considerati nel loro insieme e in un contesto più ampio di quello nazionale — i ripetuti tentativi di dare forma a un corso di studi di ingegneria agraria che accompagnarono, almeno fino al 1940, lo sviluppo delle istituzioni dell’insegnamento agrario superiore e, in alcuni momenti, quello delle scuole di ingegneria italiane. Il significato, si direbbe, di una alternativa o di una possibile integrazione, al progetto formativo sotteso all’istituzione delle prime scuole superiori di agricoltura e alla lunga e difficile biforcazione dei destini professionali di agronomi e ingegneri alla quale quest’ultima aprì la strada 129. Nessuno di questi tentativi ebbe successo e viene da chiedersi per quali ragioni, ma anche con quali conseguenze per lo sviluppo delle professioni agronomiche nel nostro paese. Sono numerosi infatti, nelle discussioni intorno ai problemi e alle prospettive dell’insegnamento agrario superiore svoltesi tra Ottocento e Novecento, i riferimenti alle difficoltà di accesso alla libera professione da parte dei laureati in agraria e, in particolare, al rapporto tra queste difficoltà e l’indirizzo prevalentemente biologico ed economico della formazione da essi ricevuta 130. Così come non mancano nelle stesse discussioni accenni al diverso grado di sviluppo dell’attività libero-professionale dei tecnici agricoli nei differenti paesi, in relazione anche al più o meno pronunciato “orientamento ingegneristico” della loro 127 Cfr. I NTERNATIONAL COMMISSION OF AGRICULTURAL E NGINEERING, The university structure and curricula on agricultural engineering. An overview of 25 countries, a cura di G. Pellizzi e P. Febo, 1994. 128 C. CATTANEO, Sul riordinamento degli studi scientifici in Italia. Lettera al sen. Matteucci, in «Il Politecnico. Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale», XII (1862), pp. 61-75. 129 Per la biforcazione, certamente più rapida e netta, tra le professioni di veterinario e agronomo, cfr. C. FUMIAN, Scienza e agricoltura. Aspetti comparati dell’istruzione superiore agraria in Europa (1840-1875), in Innovazione e modernizzazione in Italia fra Otto e Novecento, a cura di E. DECLEVA, C. G. LACAITA E A. VENTURA, Milano, Angeli, 1995, pp. 49-50. 130 A questo proposito si vedano, ad esempio: la Relazione sul riordinamento degli studi della R. Scuola superiore di agricoltura in Portici, in «Annali di agricoltura» n. 203, Roma 1894, pp. 581-89; e gli interventi di vari partecipanti al Convegno intorno a “La Carta della scuola e l’istruzione agraria (Firenze 3-4 luglio 1939)”, in «I Georgofili. Atti della R. Accademia dei Georgofili», V (1939), pp. 391-422. 123 preparazione e al più o meno solido ancoraggio di quest’ultima a una “iniziale preparazione matematica” 131. Per verificare questa ipotesi — che articola ulteriormente il quadro di quelle formulate per spiegare il difficile trend professionale degli agronomi italiani — sarebbe necessario, come ha sottolineato qualche anno fa Carlo Fumian, confrontare questo trend con quello degli “ingegneri agronomi” di altri paesi europei 132 . Ma sin d’ora si può osservare come il successo dei progetti di impianto di uno specifico corso di studi universitari di ingegneria agraria avrebbe quanto meno sgombrato il campo da una parte degli equivoci e delle periodiche controversie ai quali le espressioni “ingegnere agronomo” e “ingegnere agrario” diedero adito a partire dai primi decenni unitari: richiamando immediatamente l’interesse dei diplomati delle sezioni di agronomia e agrimensura degli Istituti Tecnici e, più tardi, almeno in alcuni momenti, quello di un numero più o meno largo di ingegneri civili; e suscitando le reazioni ora degli uni, ora degli altri, e le preoccupazioni di agronomi e periti agrari 133. Ma, venendo al nocciolo della questione, se gli studi di sociologia delle professioni fanno riferimento anche al ruolo e alle rivendicazioni di agrimensori e geometri, quelli di storia dell’agricoltura e dell’istruzione tecnica non sembrano avere dubbi a proposito degli ingegneri agronomi e fermano l’attenzione, innanzitutto, sulle centinaia di ingegneri civili impegnati prevalentemente nel settore agricolo, segnalati in Lombardia, ma anche in altre aree della Valle Padana, lungo tutto l’Ottocento. Individuando qui le radici del problema dell’ingegneria agraria nell’Italia unita; ma mettendo l’accento, in alcuni casi, sull’efficacia e le potenzialità Cfr. M. BANDINI , L’insegnamento agricolo superiore, in V° Congresso internazionale..., cit., p. 10; F. ANGELINI , Equivalence et reconnaissance des titres academiques agricoles..., cit., p. 43; R. GIULIANI , L’insegnamento agrario superiore..., cit., p. 244. 132 C. FUMIAN, Gli agronomi da ceto a mestiere, in Storia dell’ agricoltura italiana in età contemporanea, v. III, Mercati e istituzioni, a cura di P. BEVILACQUA, Venezia, Marsilio, 1991, p. 388. 133 I primi a rivendicare apertamente il titolo professionale di ingegneri-agronomi furono i diplomati delle sezioni di agronomia e agrimensura degli Istituti tecnici e, in particolare, quelli delle regioni centro-meridionali del paese. Come ha ricordato vari anni fa E. LUCIANI , Storia degli agrimensori e geometri dalle origini al 1900, Roma, T.E.R., 1966, pp. 193-201 e, più di recente, F. BUGARINI , Ingegneri, architetti, geometri: la lunga marcia delle professioni tecniche, in Le libere professioni in Italia, a cura di W. TOUSIJN, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 305-335, risale al gennaio-febbraio del 1877 il I Congresso nazionale tecnico-agronomico che riunì a Roma i rappresentanti delle associazioni di periti agrimensori, geometri o ingegneri-agronomi costitute nei mesi precedenti in molte province, e che si concluse, tra l’altro, con l’approvazione di una mozione che proponeva la trasformazione degli organismi esistenti in Collegi, ne chiedeva il riconoscimento legale al Governo e optava per la denominazione di Collegi degli ingegneriagronomi. La «Rivista nazionale di ingegneria agraria», la cui fondazione era stata pure proposta e approvata in occasione del Congresso, vide la luce nel 1889 sotto il titolo di «Atti del Collegio degli ingegneri-agronomi di Roma e provincia» e, dopo avere vestito, tra il 1890 e il 1891, i panni di organo dell’ Associazione nazionale degli ingegneri-agronomi in Italia e del Collegio centrale di Roma, continuò a essere pubblicata sino al 1902 come «Bollettino del Collegio degli ingegneri-agro-nomi di Roma e provincia». Nel frattempo, un secondo congresso nazionale, svoltosi a Torino nel 1898, aveva ripreso in esame la questione del titolo e, allo scopo di non urtare “la suscettibilità dei laureati delle scuole superiori di agricoltura di Milano e di Portici”, aveva approvato, contro il parere dei partecipanti piemontesi e lombardi, preoccupati delle reazioni degli ingegneri, aveva approvato la proposta di sostituire il titolo di ingegnere rurale a quello di ingegnere agronomo. Cfr. Atti del II congresso nazionale dei geometri italiani, Torino, Derossi, 1899. 131 124 di questa specializzazione pratica; in altri, sui suoi limiti e la sua continuità con il passato 134. E così, mentre alcuni studi sembrano dare qualche credito alla proposta di Carlo Cattaneo di innestare “un forte insegnamento di scienze agrarie” sul tronco degli studi di ingegneria, per “compiere e perfezionare” la formazione di questa “classe di ingegneri” 135, altri identificano la figura dell’ingegnere agronomo con quella dell’ingegnere proprietario e vedono in essa il riflesso, non solo di una società e di un’economia ancora dominate dai valori fondiari, ma anche di una ampia “coincidenza tra possesso terriero e professione”, considerandola, in prospettiva, come un ostacolo allo sviluppo delle specializzazioni dell’ingegneria contemporanea e alla “emancipazione della professione dalle sue origini rurali”136. Quale riscontro trovano queste interpretazioni nelle condizioni dell’agricoltura e negli sviluppi dell’istruzione tecnica delle province orientali dell’Emilia? Anche qui alcuni studi e varie fonti segnalano la presenza, dalla metà dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento, di un gruppo di ingegneri impegnati soprattutto nel settore agricolo 137. Ma, al di là delle sue dimensioni, sempre inferiori a quelle raggiunte intorno alla metà del secolo dal “corpo” degli ingegneri pavesi e milanesi, quel che importa sottolineare, a proposito di questo gruppo di tecnici, è come la specializzazione dei suoi componenti sembri in parte diversa da quella degli ingegneri agronomi lombardi 138. Malgrado la crescente importanza assunta nella pianura bolognese, tra Settecento e Ottocento, dalla pratica delle irrigazioni e dal grande affitto — l’istituto che aveva “reso possibile”, secondo Luigi Einaudi, “il fiorire della professione di (...) ingegnere agronomo” in varie province lombarde 139 — questi elementi, se trovano posto anche all’interno del sistema agrario dell’area sud-orientale della Valle Padana, non giungono certamente a sostituirne i cardini. E, così, mentre la “misura e la distribuzione delle acque per l’irrigazione giusta” e la regolazione dei rapporti tra proprietari e affittuari, continuano a rappresentare il baricentro della 134 Alla “questione decisiva della professionalità degli ingegneri” agronomi, alla loro “specializzazione pratica”, ma anche alla loro “netta specificità professionale”, ha dedicato pagine interessanti G. FUMI, Gli sviluppi dell’agronomia nell’Italia settentrionale durante la prima metà dell’Ottocento, in Le conoscenze agrarie e la loro diffusione in Italia nell’Ottocento, a cura di S. ZANINELLI, Torino, Giappichelli, 1990, pp. 221-26. 135 C. CATTANEO, Sul riordinamento degli studi scientifici in Italia..., cit., p. 62. 136 È questa, in estrema sintesi, la tesi sostenuta in più sedi da Maria Malatesta. Cfr. M. MALATESTA, I signori della terra. L’organizzazione degli interessi agrari padani (1860-1914), Milano, Angeli, 1989, pp. 118123; E ADEM, Gli ingegneri milanesi e il loro Collegio professionale, in Milano fin de siècle e il caso Bagatti Valsecchi. Memoria e progetto per la metropoli italiana, a cura di C. MOZZARELLI e R. PAVONI , Milano, Guerini, 1991, pp.307-318; E ADEM, La Società agraria di Lombardia e le élites fondiarie milanesi, in Fra Studio, politica ed economia: la Società agraria dalle origini all’età giolittiana, a cura di R. FINZI, Bologna, Istituto per la Storia di Bologna, 1992, pp. 198-202. 137 Tra gli studi, cfr. C. PONI , Gli aratri e l’economia agraria nel bolognese dal XVII al XIX secolo, Bologna, Zanichelli, 1963, pp. 177-79 e 257-63 e G. FUMI, Gli sviluppi dell’agronomia nell’Italia settentrionale..., cit., pp. 224-25. 138 Dà un’idea del numero degli ingegneri attivi, tra il 1806 e il 1807, nei diversi Dipartimenti del Regno d’Italia, un’interessante tabella costruita da G. BIGATTI , Il Corpo di acque e strade tra età napoleonica e restaurazione (1806-1848). Reclutamento, selezione e carriere degli ingegneri, «Società e storia», n. 56, (1992), pp.267-297. 139 Cfr. C. CATTANEO, Saggi di economia rurale, a cura di L. Einaudi, Torino, Einaudi, 19752, p. XVIII. 125 specializzazione degli ingegneri lombardi 140, l’attività professionale dei loro colleghi modenesi, bolognesi e ferraresi continua a confrontarsi in primo luogo con i problemi della costruzione e della conservazione di un efficiente sistema di scolo delle acque e della modernizzazione della mezzadria 141. Con un risultato per certi aspetti paradossale: quello di consentire loro, stante la relativa novità e accessorietà del contratto di affitto, di rendersi interpreti delle esigenze di sviluppo di questa forma di conduzione con minori imbarazzi dei loro colleghi lombardi; e di apparire, quindi, meno legati di questi ultimi alla tutela degli interessi della proprietà terriera e più sensibili, invece, a quelli degli affittuari 142. Testimonia certamente di questa propensione dei tecnici emiliani una memoria dell’ingegnere bolognese Tommaso Biagi che, intervenendo nel 1854, in una seduta della Società agraria di Bologna, sul tema Delle affittanze e del modo di renderle utili all’economia campestre, tracciava un bilancio largamente positivo dell’esperienza quasi secolare di questa forma di conduzione e prendeva chiaramente posizione a favore di una sua ulteriore estensione 143. Su questo scritto, che evidenzia, anche, uno dei caratteri differenziali del contratto di affitto diffuso della pianura bolognese tra Ottocento e Novecento — la sua intersezione con quello di mezzadria — vale la pena di fermare brevemente l’attenzione. Negli ultimi decenni l’agricoltura bolognese aveva fatto, secondo Tommaso Biagi, molti passi avanti; e là dove una volta trovavansi ampie possessioni (...) di pochissimo profitto”, perché male lavorate e concimate, ora, “divise quelle possessioni in due o più poderi, (...) ognuno sa — scriveva — di quanto abbiamo aumentato le rendite. “Ma se si riguarda buona parte dei vasti tenimenti (...) che appartengono a proprietari non di rado mal periti delle faccende agrarie e del modo di condurle, e non sempre provvisti dei mezzi necessari”, ci si può rendere conto — proseguiva — di quanto i progressi compiuti lascino ancora “a desiderare, sia in rapporto al vantaggio del privato che del pubblico”. Come risolvere questo problema? Avvalendosi “delle cognizioni e dell’opera di agenti — i fattori di campagna — che, se non avversa[va]no le modificazioni”, certamente non avevano “interesse (...) a contrastare e vincere le consuetudini dei coloni che lavora[va]no materialmente i terreni”? L’ingegnere lo riteneva quanto mai improbabile e, dopo avere sottoli-neato, con qualche cautela, i meriti di “non pochi degli affittuari” che, “collo studio, coll’applicazione di migliorie e colla buona conduzione” avevano contribuito ai progressi dell’agricoltura della provincia — impiantando “vaste risaie”, alimentandole “con acque studiosamente derivate e 140 L’espressione è dell’ingegnere milanese Luigi Tatti ed è citata da M. MALATESTA, Gli ingegneri milanesi e il loro Collegio professionale..., cit., p. 309. 141 Visite ai beni rurali affittati oppure affidati alle cure di un amministratore o di un fattore; progetti di miglioramento fondiario; costruzione di case coloniche e stalle; riparti di spese consorziali; opere di difesa idraulica e di viabilità interpoderale: queste alcune delle “tante attribuzioni” degli ingegneri civili e idraulici bolognesi che Carlo Berti Pichat avrebbe voluto mettere in capo a “ingegneri puramente agrari”. Cfr. C. BERTI PICHAT, Istituzioni scientifiche e tecniche di agricoltura, v. II, p. II, Torino, Unione TipograficoEditrice, 1858, pp. 397-402. 142 Cfr. M. Malatesta, I signori della terra..., cit., pp. 173-177. 143 Sullo sviluppo parallelo, nel territorio bolognese tra Settecento e Ottocento, di un nutrito gruppo di affittuari rurali e di un solido nucleo di tecnici e professionisti cittadini, ha richiamato da tempo l’attenzione Alfeo Giacomelli. Tra i suoi contributi più recenti si veda A. GIACOMELLI, Proprietari, affittuari, agronomi a Bologna. Le origini settecentesche della Società agraria, in Fra Studio, politica ed economia..., cit., pp. 43-116. 126 condotte” e realizzando “utili colmate e riduzione di terreni” — individuava proprio nell’estensione del “sistema” dell’affitto all’area appoderata della pianura, la chiave di volta di una nuova fase di sviluppo dell’a-gricoltura bolognese, dichiarandosi testimone e rendendosi garante dei risultati dell’applicazione di questo contratto in alcune aziende agrarie. Qui — scriveva — “nell’esercizio della mia professione, non di rado vedo lavori e cure che difficilmente si praticano nelle tenute non affittate, e i coloni, (...) più solerti e attivi, (...) soggiacciono (...) più volentieri al carico di parte delle spese di riduzione delle terre, alla maggior quota di concorrenza nella provvista dei concimi grossi (...) e ad opere e lavori che in passato gravavano in buona parte il solo possidente; e ciò (...) perché l’interesse degli affittuari ve li costrinse e il loro esempio fu poscia imitato per li beni non affittati”. E, tuttavia – aggiungeva subito – non sempre “i capitolati delle affittanze in corso sono così modellati” da garantire questi risultati. La “gravezza dei patti” e della “corrisposta”, la loro mancanza di gradualità e la breve durata del contratto – soltanto novennale – soffocavano sul nascere, a volte, l’esperienza imprenditoriale dell’af-fittuario, impedendogli di “migliorare la sua condizione” e di “aumentare — progressivamente — la corrisposta di affitto a favore del locatore”. Per questo, concludeva, era necessario giungere alla definizione di “patti convenienti e ben appropriati”, stabiliti “in relazione ai bisogni dei singoli fondi” e tali da contemperare gli interessi di proprietari e affittuari e promuovere “l’attività dei coloni lavoratori dei fondi (...) tanto necessaria per ottenere la maggior copia di prodotti di cui questi sono suscettibili”144. Il ragionamento del perito bolognese, come si può vedere, disegna un quadro nel quale trovano posto tutti i personaggi impegnati sulla scena dell’agricoltura della provincia emiliana: i proprietari, gli affittuari, gli agenti di campagna, i mezzadri e, indirettamente, gli ingegneri. Ma prende le mosse e si conclude, chiaramente, facendo riferimento al ruolo decisivo dei mezzadri. E proprio nella capacità di intensificare il loro sforzo produttivo individua il principale titolo di merito del contratto di affitto e il più importante argomento a sostegno della proposta di estendere ulteriormente questa forma di conduzione 145. Risultano evidenti, così, i limiti del-l’opzione a favore dell’affitto espressa dagli ingegneri bolognesi e l’ambiguità del loro progressismo; e viene da chiedersi come interpretarli: se come un riflesso del contesto nel quale essi si trovavano ad operare, oppure come un effetto, anche in questa area, della loro estrazione sociale. Che tutti gli ingegneri, bolognesi e ferraresi, impegnati nella libera professione, provenissero — intorno alla metà del secolo scorso — da famiglie di possidenti, è un dato senz’altro scontato. Per ottenere l’iscrizione nei ruoli professionali era necessario, infatti, che essi producessero una “cauzione ipotecaria” del valore di almeno 1000 scudi romani, a garanzia dei danni eventualmente arrecati nell’ambito 144 T. BIAGI , Delle affittanze e del modo di renderle utili all’economia campestre, «Memorie della Società agraria della provincia di Bologna», VII (1854), pp. 340-351. 145 “L’affittamento dei beni a mezzadria, poco o (...) niente fu contemplato dagli scrittori di economia rurale” osservava nel 1858 Carlo Berti Pichat, che dedicava un paragrafo del suo trattato alla figura dell’“affittuario di mezzadria”, sottolineandone “l’esosa e severa dominazione” esercitata sui contadini e mettendo in guardia i proprietari rispetto alla “maggiore avversione del lavoratore” che poteva derivarne per lo-ro. Cfr. C. BERTI PICHAT, Istituzioni scientifiche..., cit., v. II, p. II, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1858, pp. 354-55. 127 della loro attività; ed era necessario, più in particolare, che il nome del bene ipotecato — il più delle volte un fondo agricolo — venisse registrato accanto al loro nei ruoli provinciali 146. Ingegneri proprietari, dunque? Sì e, tavolta, anche nobili. Ma a giudicare dalle informazioni disponibili e dal patrimonio di alcuni di essi, soprattutto di piccole e medie proprietà 147. Mentre certamente più numerosi dei casi di esponenti di famiglie della grande proprietà terriera avviati agli studi di ingegneria, sembrano quelli che, pur coinvolgendo a volte semplici laureati, rinviano a combinazioni piuttosto diverse, come quelle di ingegnere affittuario, oppure di ingegnere direttore agronomico 148. E, se da una considerazione sincronica della figura degli ingegneri agronomi bolognesi e ferraresi, fosse possibile passare a una diacronica, si ricaverebbe l’impressione, penso, di un sensibile aumento di questi casi proprio nei decenni centrali del secolo. Un indizio di questa tendenza, e delle forme in cui si manifestò, può essere rinvenuto, mi pare, nella sequenza delle vicende della Scuola speciale di idraulica dell’Università di Ferrara e della Scuola teorico-pratica territoriale di agraria della stessa città; e, più in particolare, negli esiti di alcuni dei percorsi formativi iniziati nell’una e proseguiti nell’altra. Fondata nel 1804 con il nome di Scuola di idrostatica e riattivata, dopo lunghe insistenze, nel 1840, anche allo scopo di offrire ai giovani laureati delle Legazioni la possibilità di seguire, senza trasferirsi a Roma, un corso di studi in grado di dare accesso al Corpo degli ingegneri pontifici di acque e strade, la Scuola ferrarese fallì l’obiettivo di una completa equiparazione con la Scuola degli ingegneri di Roma. I suoi allievi restarono esclusi dalle carriere direttive del Corpo e alcuni di essi colsero, così, l’occasione dell’apertura della Scuola di agraria comunale (1843) per specializzare la loro formazione sul versante agronomico e dedicarsi in seguito alla gestione tecnica ed economica di grandi aziende agrarie in veste di affittuari o direttori 149. 146 Cfr. il Regolamento per l’abilitazione alle professioni di perito, architetto e ingegnere civile (25 giugno 1823), in Regolamento della Scuola degl’ingegneri (23 ottobre 1817), Bologna, Gamberini e Parmeggiani, 1826, p. 1314. L’evoluzione, tra Settecento e Ottocento, della normativa in materia di studi e competenze professionali degli ingegneri bolognesi è stata utilmente ricostruita da M. P. TORRICELLI, L’ingegneria a Bologna tra XVIII e XIX secolo, in Il patrimonio librario antico della biblioteca d’in-gegneria, a cura di B. BRUNELLI, C. BUCCHIONI, M. P. TORRICELLI, Bologna, Biblioteca «G. P. Dore», s.d., pp. XI-XXV. 147 Dei dieci ingegneri che, nell’anno accademico 1848-49, sedevano tra i quaranta soci ordinari della Società agraria di Bologna, soltanto uno non possedeva terre nel bolognese. Cfr. ARCHIVIO DELLA SOCIETÀ AGRARIA DI BOLOGNA, cart. 5 (1848-49), tit. 4°, Deputazioni sezionali (l’archivio è conservato presso l’Accademia Nazionale di Agricoltura di Bologna). Ma i terreni di proprietà dell’ingegnere conte Pietro Negri, membro della Conferenza agraria di Bologna e autore di due noti manuali di estimo civile e rurale, non superavano i venti ettari. Cfr. S. FRONZONI , Pietro Negri: ingegnere bolognese della prima metà dell’Ottocento, in San Lazzaro di Savena. La storia, l’ambiente, la cultura, a cura di W. ROMANI, Bologna, L. Parma, 1993, pp. 516-522. Mentre Filippo Re aveva segnalato da tempo come, dei pochi allievi della sua cattedra reclutati tra le fila dei possidenti, la maggior parte provenisse da famiglie di piccoli proprietari. Cfr. F. RE, Elementi botanico-agrari del dottor Filippo Gallizioli, «Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia», VIII, luglio-settembre 1810, pp. 265-283. 148 Esponenti della grande proprietà terriera, borghese e nobiliare, erano certamente Carlo Berti Pichat e il conte Gaetano Isolani, che, dopo avere concluso, ripettivamente nel 1818 e nel 1823, il corso di studi universitari di agrimensura e di ingegneria, non si abilitarono all’esercizio di queste professioni, ma si dedicarono: l’uno, soprattutto alla gestione del proprio patrimonio fondiario e all’attività amministrativa e politica; l’altro, all’ammistrazione, quale “assunto di campagna”, del patrimonio terriero dell’Ospedale degli Esposti di Bologna. 149 Alle vicende della Scuola speciale di idraulica e della Scuola teorico-pratica territoriale di agraria di Ferrara sono dedicati, rispettivamente, i contributi di A. FIOCCA e L. PEPE, L’Università e le le scuole per gli 128 E, mentre le forti aspettative suscitate e deluse dalla riapertura della Scuola di applicazione ferrarese e dalla sua mancata equiparazione con quella romana rinviano certamente a uno degli sbocchi professionali preferiti dagli ingegneri delle province orientali dell’Emilia, le riflessioni svolte negli stessi anni da un esponente della generazione di tecnici laureatasi a Bologna nel primi decenni del secolo, segnalano le crescenti difficoltà alle quali andavano incontro nello stesso periodo quanti cercavano reddito e prestigio nell’altro ruolo tradizionalmente rivestito e ancora particolarmente ambito dagli ingegneri emiliani: quello di liberi professionisti. Facendo luce, in questo modo, sia su alcuni degli obiettivi dell’istituzione della Scuola di agraria ferrarese, sia sulle ragioni del coinvolgimento di un numero crescente di ingegneri in inediti ruoli imprenditoriali e gestionali in ambito agricolo. Le “operazioni proprie di periti e ingegneri” — osservava nel 1839 l’ingegnere Giacomo Maffei, riferendosi “a quanto, (...) proprio giornalmente, ci si presenta sott’occhio” — “sono in proporzione assai minore del numero di coloro che da ogni parte (...) si affacciano per eseguir[le] e sorvegliar[le]”. E se la situazione era difficile per tutti i giovani laureati — per la forbice apertasi tra il forte sviluppo della scolarità superiore avviato negli anni del Regno d’Italia e la drastica riduzione degli impieghi pubblici realizzatasi in quelli della Restaurazione — lo era in particolare per medici e ingegneri, fra i quali si contava “appunto (...) il maggior numero di coloro” che, “a meno di allontanarsi dal proprio paese, maggiormente stenta[va]no a trovare impiego”. E di qui la proposta, rivolta agli uni e agli altri, a superare “la eccessiva concorrenza” creatasi anche nell’“esercizio delle professioni liberali”, battendo vie diverse e, in particolare, applicando in modo più diretto il “capitale scientifico acquistato” alle industrie e, innanzitutto, a quella agraria 150. Una proposta che, secondo l’ingegnere Maffei, traduceva semplicemente una “tendenza” in atto ormai “in molte parti” d’Italia e che egli stesso — è importante sottolinearlo — non mancava di mettere in pratica, concludendo la sua carriera, negli anni ’50 e ’60, nelle vesti di “ispettore di grandi tenute” agricole della provincia di Reggio Emilia 151. Come si può vedere, è una specifica congiuntura del mercato del lavoro intellettuale — oltre, naturalmente, alle condizioni più generali dell’economia della area considerata — che, a partire dagli anni ’40, sembra orientare un numero crescente di ingegneri bolognesi, ferraresi e modenesi, probabilmente quelli più intraprendenti ingegneri a Ferrara, «Annali dell’Uni-ver-sità di Ferrara», Sez. VII, Scienze matematiche, XXXII, (1986), pp. 125-166, e di R. PAZZAGLI, La meccanizzazione agricola delle campagne padane nel dibattito agronomico preunitario, «Padania. Storia, cultura, istituzioni», II (1988), pp. 14-20. Per quel che riguarda il gruppo di ingegneri che seguirono i corsi dell’una e dell’altra, uno, Giuseppe Nigrisoli, si dedicò all’insegnamento agrario, mentre altri due, Domenico Barbantini ed Eusebio Ardizzoni, divennero, rispettivamente, direttore e affittuario della grande tenuta di Casaglia di proprietà del duca Scotti di Milano. Si veda, a proposito di questi ultimi, F. BOTTER, Notizie intorno alla tenuta di Casaglia presso Ferrara, Ferrara, Taddei, 1849. 150 G. Maffei, Riflessioni sulla convenienza di impiegare maggior copia di capitali in alcuni rami d’industria manifatturiera propri della città e provincia di Bologna, in Memorie di agricoltura, manifatture e commercio, Bologna, Nobili, 1838-39, pp. 185-206. 151 Cfr. «L’incoraggiamento. Giornale di agricoltura, industria e commercio», IX (1857), n. 34. Fermano l’attenzione sulla figura del Maffei, che aveva completato il corso di studi di ingegneria a Bologna nel 1818 e che, in seguito, aveva insegnato algebra e geometria a Ferrara, anche A. FIOCCA E L. PEPE, L’insegnamento della matematica nell’Università di Ferrara dal 1771 al 1942, in Università e cultura a Ferrara e Bologna, Firenze, Olschki, 1989, pp. 1 e 30-32 129 e meno dotati di beni di fortuna, nella direzione di un impegno più diretto sul terreno della gestione tecnica ed economica di grandi aziende agricole; e che ravviva, al tempo stesso, il loro interesse per l’insegnamento delle scienze agrarie e per lo sviluppo delle istituzioni deputate ad impartirlo 152. Qui affonda le radici, probabilmente, quello che può essere considerato come uno dei primi tentativi di istituzionalizzazione della figura dell’ingegnere agronomo compiuti nel nostro paese: il progetto di istituzione di una Scuola di applicazione per ingegneri di questo tipo che, tra il 1868 e il 1875, fu al centro del lungo negoziato condotto intorno alla riorganizzazione degli studi di ingegneria a Bologna. E proprio nel sostanziale cambiamento intervenuto nei primi decenni unitari negli equilibri del mercato del lavoro degli ingegneri può essere rintracciata, forse, una delle principali ragioni del fallimento di questa proposta. Prima di analizzare i suoi contenuti è opportuno, tuttavia, sgombrare il campo da un equivoco. Nel ricostruire le fasi del lungo contraddittorio relativo alle sorti degli studi di ingegneria bolognesi che oppose i rappresentanti della comunità scientifica e del ceto politico locale a quelli dell’amministrazione centrale della pubblica istruzione, mettendo capo, da ultimo, alla istituzione di una scuola di applicazione per ingegneri civili, alcuni studi, infatti, sembrano attribuire al ministro Ruggero Bonghi la paternità del progetto della scuola per ingegneri agronomi e interpretarla quasi come un piatto di lenticchie offerto in cambio della rinuncia da parte dell’Università di Bologna al “diritto (...) di fare degli ingegneri”153. Ora, se è certamente vero che, alla stretta finale, la proposta di una trasformazione in questo senso del preesistente corso pratico di ingegneria suscitò critiche e obiezioni anche nel campo bolognese, non esistono dubbi, tuttavia, né sulla sede in cui essa maturò, la Facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali, né sul suo autore, il professore Francesco Botter. E una semplice cronistoria della vicenda che volgesse lo sguardo sino alla Proposta di un corso pratico di ingegnere civile-agronomo 152 Tra gli ingegneri emiliani impegnati, intorno alla metà del secolo scorso, nella direzione o nella conduzione in affitto di grandi aziende agrarie, occorre ricordare almeno: il bolognese Annibale Certani, che dopo avere fatto pratica per alcuni anni presso lo studio dell’ing. Tommaso Biagi, nel 1854 prese a gestire in affitto, con alcuni soci, la grande tenuta di Mezzolara; un altro bolognese Pietro Pancaldi e il reggiano Lazzaro Terrachini, direttori, uno dopo l’altro, della vasta tenuta del Duca di Galliera. Mentre alla libera professione si dedicò, soprattutto, il modenese Eugenio Canevazzi, autore, come è noto, di un importante trattato di estimo rurale e, assieme a Francesco Marconi, del primo vocabolario di agricoltura dell’Italia unita. Cfr. G. ROVERSI, Annibale Certani, l’agricoltura diventa moderna, «Saecularia Nona», XIII, (1996-97), pp. 109-113; S. RENTALI, Un esempio di conduzione di una azienda agraria nella pianura bolognese: Galliera tra il 1837 e il 1851, in I Duchi di Galliera. Alta finanza, arte e filantropia tra Genova e l’Europa nell’Ottocento, II, Genova, Marietti, 1991, pp. 537-549; G. CANEVAZZI, Un ingegnere agronomo: patriota e scrittore, Bologna, Azzoguidi, 1930. 153 Tra i contributi che hanno fermato l’attenzione sulle vivaci discussioni che precedettero l’istituzione della Scuola di applicazione di Bologna, occorre ricordare: M. P. CUCCOLI, Marco Minghetti e la “questione universitaria” a Bologna, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», XXIX-XXX (1978-1979), pp. 209-223; V. TELMON, Professionalità e accademia fra il declinare del XIX e gli inizi del XX secolo: gli inizi dell’ingegneria a Bologna, in Cento anni di università. L’istruzione superiore in Italia dall’Unità ai giorni nostri, a cura di F. DE VIVO e G. GENOVESI, Napoli, E.S.I., 1986, pp. 65-97; L. LAMA, Comune, Provincia, Università. Le convenzioni a Bologna fra Enti Locali e Ateneo (1877-1970), Bologna, Istituto per la Storia di Bologna, 1987, pp. 13-25. 130 formulata dal Botter nel 1868 e fatta immediatamente propria dalla Facoltà, sarebbe in grado di dimostrarlo 154. Più importante di questo, però, è fermare brevemente l’attenzione, da un lato, sul profilo e le tappe della carriera del professore veneto e, dall’altro, sulla dichiarata ambivalenza degli obiettivi della sua Proposta. Figlio di agiati agricoltori di Moriago in provincia di Treviso, laureato ingegnere architetto all’Università di Padova alla fine degli anni ‘30, supplente della cattedra di matematica e, poi, di quella di agraria e storia naturale della stessa Università, professore di agricoltura teorico-pratica all’Accademia agraria di Pesaro, protagonista dell’esperienza della Scuola territoriale e dell’Istituto agrario di Ferrara, professore di agronomia nella Facoltà di scienze e nel corso pratico degli ingegneri di Bologna, Francesco Botter è forse l’unico dei pionieri dell’insegnamento agrario italiano ad avere ricevuto una formazione da ingegnere e ad essersi trovato a insegnare, a Ferrara come a Bologna, soprattutto ad allievi dei corsi di ingegneria. Non stupisce quindi che proprio a lui si debba la proposta della scuola bolognese per ingegneri agronomi 155. Ma, come ha sottolineato qualche anno fa Carlo Poni, l’insegnamento fu soltanto il punto di partenza dell’attività dell’agronomo o, piuttosto, dell’ingegnere agronomo di Moriago; egli si impegnò, infatti, anche a Bologna, in una nutrita serie di iniziative collaterali alla didattica quali: l’affitto e la sistemazione dell’orto agrario; la costituzione di un deposito di macchine agricole; la progettazione e la costruzione, in collaborazione con Alessandro Calzoni, di aratri di nuovo tipo; l’impianto di una biblioteca e l’attivazione di una piccola casa editrice specializzata; la redazione e la stampa di un giornale di agricoltura a diffusione nazionale; l’istituzione, infine, di un’agenzia, denominata “ufficio centrale di commissioni agrarie”, volta ad agevolare gli scambi di piante e semi, a provvedere macchine, strumenti, ecc. da stabilimenti italiani ed esteri, e a mettere in rapporto la domanda e l’offerta di beni e servizi agricoli. Dimostrando chiaramente, anche nel confronto con Carlo Berti Pichat, di avere molto dell’imprenditore e praticamente nulla del proprietario terriero156. Non tutte le iniziative da lui avviate ebbero, naturalmente, lo stesso successo. Ma il terreno sul quale le sue speranze andarono quasi completamente deluse fu certamente quello della costruzione, intorno al nucleo della cattedra di agraria, di un vero e proprio istituto di istruzione agraria superiore. Un obiettivo che egli aveva cominciato a perseguire sin dal suo arrivo a Bologna, informando i lettori dei suoi giornali, «L’incoraggia-mento» e il «Giornale d’agricoltura, industria e commercio del Regno d’Italia», degli sviluppi dell’insegnamento agrario nelle altre regioni Il testo della Proposta di un corso pratico d’ingegnere civile-agronomo nella R. Università di Bologna in luogo dell’attuale corso pratico di ingegneria, trascritto in appendice, è conservato nella BIBLIOTECA COMUNALE DELL’ARCHIGINNASIO DI BOLOGNA, Manoscritti Santagata, XXII, 2. 155 Il più recente profilo biografico del Botter, corredato anche da un’ampia bibliografia, è quello di G. FUMI, Francesco Luigi Botter, in Scritti teorici e tecnici di agricoltura, Milano, Il Polifilo, 1992, 93-103. In questa sede merita, comunque, di essere ricordata anche la testimonianza di un collega e amico come D. SANTAGATA, Cenno necrologico del professore cavaliere Francesco Luigi Botter, in Programma della R. Scuola di applicazione per gli ingegneri in Bologna. Anno scolastico 1878-79, Bologna, Compositori, 1879. Confermano, poi, l’originalità del percorso formativo e professionale del Botter le precise osservazioni di A. GALBANI , La modernizzazione in agricoltura: scienza e tecnica nella lotta alla pebrina. Il contributo di Emilio Cornalia e Gaetano Cantoni, in Innovazione e modernizzazione in Italia..., pp. 58-59, a proposito del denominatore comune di quasi tutti gli agronomi italiani del secolo scorso: la provenienza da studi di medicina. 156 Cfr. C. PONI , Francesco Botter, in Dizionario biografico degli italiani, XIII, Roma 1971, pp. 429-431. 154 131 italiane ed elaborando nel 1861, assieme a Domenico Santagata e sulla base, soprattutto, dell’esempio dell’istituto agrario lombardo di Corte del Palasio, il Programma di una associazione per (...) la fondazione di un istituto agrario teorico-pratico in Bologna 157. Non se ne fece nulla e si può immaginare, quindi, con quanta apprensione, ma anche con quale ipotesi di fondo, egli partecipasse, a partire dalla metà degli anni ‘60, alla riflessione sulle prospettive del corso pratico di ingegneria di Bologna, aperta nella comunità scientifica bolognese dalla proposta del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione di concentrare la formazione degli ingegneri italiani in tre sole Scuole di applicazione con sede a Torino, Milano e Napoli 158. Ammalatosi gravemente nel 1873 e costretto a limitare sempre più le sue attività, il Botter, che morì nel 1878, rimase estraneo alle fasi conclusive del negoziato che si svolsero tra i primi mesi del 1875 e quelli del 1877 e che portarono, come è noto, prima, alla chiusura del corso pratico e, poi, grazie alla costituzione di un apposito consorzio, all’apertura di una Scuola di applicazione abilitata alla formazione di ingegneri civili 159. Non sorprende quindi che il suo nome non figuri quasi mai nei documenti di questi mesi e che il testo finale del Progetto per una scuola di applicazione per gli ingegneri agronomi, presentato al Ministro dalla Facoltà di scienze nell’aprile del 1875, non rechi la sua firma, ma quella del professor Giovanni Battista Ercolani, direttore della Scuola di veterinaria di Bologna 160. “Non si riuscì a nulla” affermò alcuni anni dopo il naturalista bolognese 161. Il progetto, che — come la proposta formulata nel 1868 dal Botter — prevedeva di innestare una nutrita serie di “insegnamenti applicati” sul tronco del corso triennale per la licenza in matematiche pure — portando, tuttavia, la durata dell’intero ciclo di studi da cinque a sei anni — non venne accolto dal Ministero che avanzò la controproposta di un corso di laurea in agronomia di quattro anni, simile a quello della Scuola agraria di Pisa e, come quello, finalizzato alla formazione non di ingegneri agronomi, ma di “agrimensori, direttori di aziende industriali e rurali, possidenti e — soprattutto — professori di scienze agrarie”. Chiedendo, al tempo stesso, all’Università di Bologna di rinunciare ad alcuni degli insegnamenti necessari per il conseguimento delle lauree in matematica e in lettere e filosofia 162. Non è difficile, a questo punto, comprendere le ragioni dell’indi-gnazione — di cui si rese interprete, non a caso, anche Giosuè Carducci — che le proposte di Ruggero «L’incoraggiamento. Giornale di agricoltura, industria e commercio», XIII (1861), n. 27. La Facoltà di scienze affidò a una commissione, composta da Luigi Bombicci, Francesco Botter e Giulio Carini, il compito di dare forma, con una relazione, alle obiezioni e alle contro-proposte dell’Università di Bologna. E, non a caso, il testo della relazione, redatto dal Bombicci e approvato dalla Facoltà, venne pubblicato nel 1866 dalla tipografia del Botter. Cfr. Sulla convenienza ed opportunità di conservare e completare presso la R. Università di Bologna la Scuola di applicazione degli ingegneri. Relazione letta ed approvata dalla Facoltà matematica nell’adunanza del 7 febbraio 1866, Bologna, Tip. degli agrofili italiani, 1866. 159 Informa della lunga malattia del Botter un necrologio di G. RICCA ROSELLINI , Francesco Luigi Botter, estratto da «Il calabro», Catanzaro, 1878. 160 Il Progetto per una scuola di applicazione per gli ingegneri agronomi, redatto dall’Ercolani, venne trasmesso al Ministro della Pubblica Istruzione, Ruggero Bonghi, dal Rettore dell’Università di Bologna, Giovanni Capellini, il 14 aprile 1875 e costituisce l’allegato n. 13 a R. BONGHI, Dell’Università di Bologna. Lettera all’on. conte Capitelli, prefetto di Bologna, estratto dal «Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione», fasc. X, Roma 1875, pp. 59-63. 161 Verbale della adunanza ordinaria del 18 aprile 1880, «Annali della Società agraria provinciale di Bologna», XX (1880), p. 177. 162 R. BONGHI, Dell’Università di Bologna..., cit., Allegato n. 18, Lettera del Ministro Bonghi al Rettore Capellini del 20 maggio 1875, pp. 68-69. 157 158 132 Bonghi suscitarono in larga parte della comunità scientifica bolognese; e quelle della mobilitazione dell’intero ceto politico locale contro il minacciato “dimezzamento della Facoltà di lettere e filosofia”, nonché a difesa dell’“onore avito” dell’Università e del suo ”diritto (...) di fare degli ingegneri” 163. Più interessante, tuttavia, è chiedersi, a proposito di questi ultimi, se l’accoglimento del progetto di scuola per ingegneri agronomi avrebbe potuto dare vita a Bologna a un’isti-tuzione e a un’offerta formativa in grado di rispondere alle aspettative e di incontrare il favore dei giovani interessati a dedicarsi a una professione tecnica e di reclutare, quindi, un numero significativo di allievi. Sì e no, a seconda dei casi, viene da rispondere e, comunque, con una netta prevalenza di risposte negative. Certamente no, nel caso in cui la lunghezza del corso fosse rimasta quella prevista dall’Ercolani. Come è mai sperabile — obiettava il Ministro al naturalista bolognese — di trovare studenti i quali vogliano con un corso di sei anni abilitarsi ingegneri agronomi, quando con un corso di cinque sono in grado di abilitarsi ingegneri civili? Come potrebbero questi ultimi essere esclusi dall’adoperarsi da ingegneri agronomi? 164 Decisamente no, ancora, nel caso, opposto a quest’ultimo, ma fatto balenare in qualche modo dal Ministro, in cui agli ingegneri agronomi fosse stata preclusa la possibilità di svolgere le funzioni degli ingegneri civili e di accedere ai relativi concorsi pubblici. Forse sì, infine, nel caso di un corso quinquennale e sostanzialmente equiparato a quelli di ingegneria civile, come prevedeva l’iniziale e realistica proposta di Francesco Botter. Ma in questo caso, ammesso che fosse possibile garantire al nuovo corso il necessario livello tecnico e scientifico, sarebbe stato necessario, anche, assicurargli una sorta di esclusiva in un ampio ambito territoriale. Lo dimostrano chiaramente, mi pare, i risultati dell’esperienza del corso per ingegneri delle industrie agricole attivato nel 1866 nell’ambito della Scuola di applicazione di Torino. Un corso che tra il 1867-68 e il 1876-77, a parità, si direbbe, di ogni altra condizione istituzionale, non riuscì a formare un solo ingegnere agronomo, a fronte di ben 782 ingegneri civili, 28 architetti, 11 ingegneri meccanici e 5 ingegneri chimici, laureati dagli altri corsi della Scuola 165. Troppe condizioni erano richieste, evidentemente, per il successo del nuovo percorso formativo. E, se si rammentano i molti progetti di modernizzazione urbana che interessarono anche il capoluogo emiliano nei primi decenni unitari e lo spostamento in città del baricentro dell’attività professionale degli ingegneri bolognesi che essi, probabilmente, recarono con sé — assieme, forse, a un miglioramento delle condizioni di mercato dei loro servizi — non è difficile capire come, di fronte all’indisponibilità del governo a finanziare la realizzazione del progetto presentato dalla Facoltà di scienze, si rivelassero minoritarie, alla fine, nel dibattito locale, le posizioni di coloro che, pur nell’ambito di un compromesso con 163 Per i riferimenti alla Facoltà di lettere e all’“onore avito” cfr. R. BONGHI, Dell’Università di Bologna..., cit., Allegato n. 19, Lettera del Rettore Capellini al Ministro Bonghi del 26 maggio 1875, pp. 70-71; a insistere sul “diritto (...) di fare degli ingegneri” fu, in particolare, Giuseppe Ceneri, come risulta dagli Atti della sessione ordinaria del Consiglio Provinciale di Bologna. Adunanza del 20 agosto 1875, p. 34. 164 R. BONGHI, Dell’Università di Bologna..., cit., p. 7. 165 Cfr. G. CURIONI , Cenni storici e statistici sulla Scuola di applicazione per gli ingegneri fondata in Torino nell’anno 1860, Torino, Candeletti, 1884, pp. 22-25. 133 gli studi di ingegneria civile, ritenevano prioritario un indirizzo di “ingegneria agricola” e fondata la prospettiva di una istituzionalizzazione della figura dell’ingegnere agronomo 166. Come spiegare diversamente il fatto che, costituito il Consorzio tra gli Enti Locali e reperiti, così, i mezzi necessari per attivare l’intero corso di studi di una Scuola di applicazione, il progetto della formazione di “ingegneri veramente agronomi” non venne in alcun modo riproposto? E, tuttavia, l’affermazione di Giovanni Battista Ercolani — “non si riuscì a nulla” — non deve trarre in inganno. Il passaggio del testimone dal corso pratico a quello di ingegneria civile della Scuola di applicazione, che si realizzò tra il 1875 e il 1877, non portò a un superamento della connotazione agronomica degli studi di ingegneria bolognesi e, tanto meno, mise fine all’impegno nel settore agricolo di molti degli ingegneri formati nell’Università di Bologna. Il nuovo corso, pur sostituendo, secondo le disposizioni del regolamento nazionale entrato in vigore nel 1876, l’inse-gnamento di agrononomia teorico-pratica con quella di economia ed estimo rurale, continuò a dare largo spazio alla “parte agronomica” 167; e, pur non avendo l’obiettivo di preparare tecnici agricoli, vide molti dei suoi diplomati impegnarsi, come liberi professionisti, “specialmente nel campo tecnico-agrario”168. Significativa del rapporto tra esercizio della libera professione e impegno nel settore agricolo che coinvolse, a partire dalla sua istituzione, larga parte degli ingegneri usciti dalla Scuola di applicazione di Bologna, è la testimonianza resa da uno di essi molti anni dopo, nel contesto della commemorazione di un collega, letta alla Società agraria di Bologna. Nel tempo in cui ha vissuto l’ing. [Augusto] Peli — scriveva nel 1930 Raffaele Stagni — non era possibile esercitare proficuamente la professione libera, senza estendere le proprie attribuzioni all’agricoltura. Non esisteva casato di nobiltà o di doviziosa borghesia dotato di un cospicuo patrimonio terriero, che non annoverasse, fra le persone addette all’anda-mento della propria amministrazione, un laureato ingegnere, al cui consiglio e discernimento era deferita, non solo la soluzione di qualsiasi que-stione riguardante i beni rustici della proprietà, ma più ancora l’approva-zione di qualsiasi iniziativa che si avesse in animo di attivare a miglioramento dell’azienda agraria. Veniva in certo qual modo considerato l’inge166 Il rapporto tra i progetti di modernizzazione urbana che interessarono Bologna nei primi decenni unitari e la “valorizzazione delle competenze professionali degli ingegneri” è evidenziato da A. ALAIMO, L’organizzazione della città. Amministrazione e politica urbana dopo l’unità (1859-1889), Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 233-243. 167 È questa l’impressione che suggeriscono i rilievi fatti molti anni dopo da Jacopo Benetti a proposito dei corsi di economia ed estimo rurale, e di macchine agricole. Cfr. R. SCUOLA D’APPLICAZIONE PER GLI I NGEGNERI IN BOLOGNA, Commentari dell’organizzazione e di un trentennio di vita della Scuola, Bologna, Stabilimento poligrafico emiliano, 1909, pp. 9-10. 168 Cfr. A. MASETTI Z ANNINI , Commemorazione dell’ing. Carlo Pilati, «Annali della Società agraria provinciale di Bologna», LXII, 1934, pp. 19-25, e, più in generale, le commemorazioni degli ingegneri Augusto Peli, Guido Lisi, Alfonso Sacenti, Pietro Fanelli e Raffaele Stagni lette negli anni ’30 alla Società agraria di Bologna e pubblicate nei suoi «Annali». “Egli appartiene — scriveva nel 1933 Ulderico Somma di Giuseppe Berti — a quella pleiade di ingegneri che usciti dalla nostra Scuola di applicazione dedicarono attività e sapere all’industria agraria, bonificando terreni, promuovendo ed intensificando le colture e le industrie agrarie, sì da fare dell’Emilia una delle regioni più progredite della nostra Italia”. Cfr. U. SOMMA, Commemorazione del prof. ing. Giuseppe Berti, «Annali della Società agraria provinciale di Bologna», LXI, 1933, pp. 153-156. 134 gnere, svisandone alquanto il significato della parola, come il tecnico agrario conoscitore della natura dei terreni, della coltivazione delle varie piante e delle rispettive esigenze, delle norme e delle consuetudini che regolano i vari contratti di conduzione agraria, e cioè di mezzadria, di terzeria, di boaria, ecc., e quindi il più competente a giudicare non solo in materia di tecnica agricola, ma ancora nell’impostazione dei vari conti di amministrazione attinenti alla gestione agraria; in una parola l’ingegnere era il consigliere che veniva sempre sentito sopra ogni argomento riguardante la conduzione e l’amministrazione dei beni rustici costituenti il patrimonio fondiario del casato 169. Nel richiamare l’attenzione su questa testimonianza, Agostino Bignardi l’ha accostata, diversi anni fa, alla “magnifica pagina” di Carlo Cattaneo sul contributo degli ingegneri rurali allo sviluppo dell’agri-coltura lombarda 170. Un accostamento che appare certamente fondato, a patto di non passare sotto silenzio un particolare importante: e cioè che la situazione alla quale l’ingegnere bolognese faceva riferimento non era quella precedente, ma, indubbiamente, quella successiva, sia all’istitu-zione della scuola di applicazione di Bologna, sia all’apertura delle prime scuole superiori di agricoltura italiane. Furono proprio i responsabili di queste Scuole, di fronte agli sviluppi dell’insegnamento agrario superiore in alcuni paesi europei e di fronte, soprattutto, alle difficoltà incontrate dai loro laureati nell’estendere l’ambito della loro attività professionale dal settore pubblico dei servizi tecnici per l’agricoltura (l’insegnamento delle scienze agrarie e la gestione degli interventi statali e provinciali), a quello privato (la direzione aziendale e l’esercizio della libera professione, ovunque monopolizzato dagli ingegneri), a prendere nuovamente in considerazione la prospettiva di un percorso formativo simile a quello immaginato a Bologna da Francesco Botter. Prima a Milano, con l’ipotesi, formulata nel 1887 da una commissione presieduta da Francesco Brioschi, di fare della locale Scuola superiore di agricoltura la sede della preparazione “non più di semplici laureati agronomi, ma di veri ingegneri agronomi” 171. Poi a Portici, dove nel 1893 il Consiglio dei professori della Scuola di agricoltura, nell’attribuire le difficoltà professionali degli agronomi all’indirizzo prevalentemente biologico della loro formazione, elaborava il progetto di affiancare, a quello in scienze agronomiche, un corso di laurea in ingegneria agraria, connotato da una approfondita preparazione matematica di base 172. Anche queste proposte, come le altre che le seguirono, a intervalli regolari, sino al 1940 — provenienti quasi tutte dagli ambienti agronomici — non trovarono attuazione. Secondo il più convinto dei loro fautori, Italo Giglioli, soprattutto per il “preconcetto che gli studiosi dell’agri-coltura dovessero essere principalmente i 169 R. STAGNI , Commemorazione dell’ing. cav. Augusto Peli, «Annali della Società agraria provinciale di Bologna», LVIII, 1930, p. 111. 170 A. BIGNARDI , Tre agronomi bolognesi: Pedevilla, Contri, Botter, in Settecento agrario bolognese e altri saggi, Bologna 1969, p. 99. 171 Alcuni passi della relazione presentata dalla commissione al Ministro di agricoltura sono riprodotti in I. GIGLIOLI, Insegnamento superiore di agricoltura, in «Giornale degli economisti», X (1895), p. 80-81. 172 Cfr. la Relazione sul riordinamento degli studi della R. Scuola superiore di agricoltura in Portici..., cit., pp. 581-89. 135 proprietari delle terre” e che “le scuole agrarie dovessero servire per ‘attrarre’ i figliuoli dei proprietari” e non scoraggiarli con “l’estensione e la severità degli studi” 173 . Secondo il più autorevole dei loro oppositori, Arrigo Serpieri, per l’esigenza di “guardare”, nell’ambito degli studi di agronomia, “soprattutto al proprietario e all’affittuario che dirige la propria azienda” e di “mantenere ben fermo e predominante nella sua preparazione l’indirizzo biologico ed economico-politico” 174 . Quale di queste valutazioni e di questi orientamenti avesse basi più solide e individuasse la rotta più sicura per lo sviluppo tecnico dell’agri-coltura italiana; se la realizzazione delle proposte di Italo Giglioli avrebbe concorso efficacemente al successo del “progetto professionale” degli agronomi italiani: sono questioni alle quale è difficile rispondere. Ma sin d’ora appaiono chiare le conseguenze del loro fallimento. Le informazioni disponibili sul numero degli ingegneri e degli agronomi impegnati rispettivamente, tra il 1930 e il 1936, nel settore agricolo e nella libera professione — sono raccolte nella Tabella I — mostrano chiaramente, al di là di alcuni problemi di interpretazione, come, a sessant’anni dall’istituzione delle Scuole superiori di agricoltura e all’indo-mani del riconoscimento giuridico della professione di agronomo, il settore privato dei servizi tecnici per l’agricoltura fosse ancora saldamente nelle mani dei primi. Soprattutto in regioni come la Lombardia e l’Emilia-Romagna dove il rapporto tra ingegneri agronomi e agronomi si scostava significativamente dalla media nazionale di 5 a 1, per raggiungere proporzioni di 10 a 1 o 20 a 1175. Tornando alle scuole degli ingegneri, ora, è interessante rilevare come, rimaste estranee, dopo il progetto elaborato dal Botter, a qualsiasi tentativo di attivazione di uno specifico corso di studi di ingegneria agraria, esse registrassero, proprio negli anni del riconoscimento giuridico del-le professioni agronomiche, “una impressionante fioritura di corsi di coltura agraria”: di specializzazione, di perfezionamento e, in prospettiva, di laurea 176. Una coincidenza che è impossibile ritenere fortuita e che appare ancor più significativa, se si tiene conto di un’altra circostanza: la forte disoccupazione che colpiva negli stessi anni i laureati in Si veda la relazione manoscritta del 1902 di I. GIGLIOLI, Osservazioni intorno alla nuova Scuola Superiore di Agraria che si va formando in Bologna, conservata in ARCHIVIO STORICO DELL’UNIVERSITÀ DI BOLOGNA, Fondazione della Scuola superiore di agraria, (1901-1910). 174 Convegno intorno a “La Carta della scuola e l’istruzione agraria”..., cit., p. 397 e 421. 175 Come ha osservato F. TACCHI, L’ingegnere, il tecnico della “nuova” società fascista, in Libere professioni e fascismo, a cura di G. TURI, Milano, Angeli, 1994, pp. 208-209, “i Gruppi ingegneri agrari, nati in seno al Sindacato nazionale fascista degli ingegneri fin dal 1927, non ebbero grande sviluppo”. E, tuttavia, anche al di là di un confronto con il numero degli agronomi liberi professionisti, il concentrarsi dei loro iscritti in province come quella di Milano (258), Pavia (101), Padova (109), Bologna (140), Modena (76) e Ferrara (42), non può non apparire significativo. Cfr. Stato della costituzione dei gruppi ingegneri agrari al 20 gennaio 1930, «L’ingegnere», IV (1930), pp. 70-71. 176 Prende le mosse dalla constatazione di questa “fioritura” una serie di articoli di Aldo Pagani, un economista agrario, pubblicati tra il febbraio e l’aprile del 1933 dal «Giornale di agricoltura della domenica». Gli articoli vennero riprodotti e commentati, con una certa aria di sufficienza, nel «Bollettino del Sindacato provinciale fascista degli ingegneri di Bologna», VII, n. 2, marzo-aprile 1933. Per i corsi di specializzazione, di perfezionamento e di laurea in ingegneria agraria, attivati, oppure allo studio, a partire dal 1927, presso le Scuole di applicazione di Milano, Padova e Roma, si veda L. GUSSONI , L’ingegneria agraria come dottrina e come pratica, in «L’ingegnere», I (1927), pp. 137-139. 173 136 ingegneria 177. Come se gli ingegneri, al peggiorare delle condizioni generali del mercato dei loro servizi professionali e di fronte ai progressi compiuti dagli agronomi sul terreno del riconoscimento dell’esclusiva dei servizi tecnici per l’agricoltura, si fossero, infine, resi conto dell’importanza di questo sbocco professionale e convinti della necessità di difenderlo e giustificarlo, dandogli una base più solida e aggiornata. Un ripensamento tardivo, evidentemente, privo di conseguenze durature e, per quel che riguarda le scuole degli ingegneri, certamente l’ultimo. Ma, se per i docenti e gli allievi di queste scuole lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra ha definitivamente trasformato la questione dell’ingegneria agraria in un problema storiografico, lo stesso non si può dire con la medesima sicurezza per le scuole di agraria. L’attiva-zione, a partire dal 1993, del mercato unico europeo dei servizi professionali ha richiamato ancora una volta l’attenzione sull’esistenza di significative differenze nella struttura e nei contenuti degli studi superiori agrari e ha segnalato l’opportunità di un’armonizzazione dei curricula universitari di agraria e di ingegneria agraria. E di recente in un convegno internazionale uno dei relatori ha evocato nuovamente, sia pure per contestarla, l’idea di un “politecnico agrario”178. 177 Cfr. M. BARBAGLI, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 254-60 e F. TACCHI, L’ingegnere..., cit., 196-200. 178 Cfr. I NTERNATIONAL COMMISSION OF AGRICULTURAL E NGINEERING, The university structure..., cit., p. 9, e L. CAVAZZA, Higher education in the agricultural sciences in Italy..., cit., p. 37. 137 Ingegneri liberi Agronomi liberi Aderenti ai Regioni professionisti al professionisti al “Gruppi ingegneri 1936 1936 agrari” al 1930 Piemonte 626 11 42 Lombardia 1597 34 622 Veneto 660 20 185 Venezia Trid.na 130 2 Venezia Giulia 115 2 30 Liguria 413 7 Emilia-Romagna 527 31 367 Toscana 352 43 74 Marche 110 13 44 Lazio-Umbria 1029 43 45 Abruzzi 145 7 25 Campania 957 27 67 Calabria 189 13 61 Basilicata 44 6 Puglie 379 25 73 Sicilia 615 24 47 Sardegna 87 3 22 Totale 7975 311 1704 Tab I. Ingegneri e agronomi impegnati nella libera professione e “ingegneri agrari” per regione tra il 1930 e il 1936. Fonte: VIII censimento generale della popolazione, v. IV. Le professioni, Roma 1939; Stato della costituzione dei gruppi ingegneri agrari al 20 gennaio 1930, «L’ingegne-re», IV (1930), pp. 70-71. 138 Appendice Proposta di un Corso pratico d’ingegnere civile-agronomo nella R. Università di Bologna in luogo dell’attuale Corso pratico d’ingegneria, a S.E. il Sig. Ministro della Pubblica Istruzione. L’Università di Bologna, al ricevere il dispaccio ministeriale, dall’una parte ha provato, ben a ragione, il massimo giubilo, appalesandosi in esso che l’E.V. ha in animo di migliorarne le condizioni e lo stato, dall’altra parte la Facoltà matematica, per ciò che in quel dispaccio medesimo è detto sul Corso pratico degli ingegneri, sente il più vivo dispiacere pel timore di essere ferita gravemente, con danno della stessa Università; perciocché tolto in essa il Corso pratico di ingegneria fin qui avuto, ora sotto una forma, ora sotto un’altra, verrebbe la Facoltà di matematica ristretta in modo da temere assai che i giovani non trovassero più cosa opportuna di venire ad attendere in Bologna agli studi matematici, e quindi, in breve periodo di anni, la Facoltà matematica sarebbe al nulla ridotta e da qui il danno all’Università di Bologna. Prima, pertanto, che l’E.V. sia per appigliarsi a una determinazione su questo proposito, la Facoltà matematica sente il dovere di presentare all’E.V. la seguente proposta di Corso pratico di ingegneria. La Facoltà di matematica ritiene che gli elementi che ora già possiede l’Università, siano tali da metterla in grado, con lievi aggiunte che vi si facciano, di trasformare l’attuale Corso pratico di ingegneria in un Corso pratico d’ingegnere civileagronomo e ciò per la necessità e l’utile di questo corso in Italia. E, di fatto, se l’ingegneria è una professione assai complessa e se estesi sono i campi in cui si applica, come la costruzione delle macchine, le miniere, le vie ferrate, i fiumi e i corsi d’acqua, le vie ordinarie, le costruzioni civili, idrauliche e stradali, nessuno di questi rami può paragonarsi, per vastità, per molteplicità, per importanza e per utilità, a quello estesissimo dell’agronomia. Ora, dai nostri Istituti politecnici escono ingegneri meccanici, idraulici, architetti, ma non ingegneri veramente agronomi, per lo ché avviene che la professione dell’ingegnere civile-agronomo, propriamente detta, manca assolutamente in Italia, mentre già esiste in altre nazioni e ora si sta fondando appunto per la Francia in Parigi una Facoltà speciale per ingegneri agricoli. Nessuno vorrà porre in dubbio la somma utilità di questa classe di persone. In Italia, con tante centinaia di migliaia di ettari di terreno incolto, con estesissimi tenimenti pressoché privi di tecniche direzioni, coll’agricoltura in molte provincie affatto negletta; in Italia, insomma, è reclamata dovunque l’opera di ingegneri agronomi; vuoi per le più appropriate costruzioni rurali, vuoi per le irrigazioni, vuoi pel prosciugamento di paludi, vuoi per vasti progetti di ammendamenti. Ché, anzi, la Facoltà matematica, non può non richiamare l’attenzione dell’E.V. sulla necessità che ai giorni nostri, in tanto sviluppo delle scienze e delle pratiche applicazioni di esse, si formino ingegneri specialmente versati nel ramo agricolo, la cui mancanza fa sì che i Comizi, le Società e le amministrazioni rurali sono paralizzate nella loro attività e nei loro intendimenti; quando, invece, un numero strabocchevole di ingegneri civili, architetti, idraulici e meccanici, esce ogni anno dalle Scuole universitarie e dagli Istituti superiori. E chi non s’accorge che una gran parte di questi, per la precarietà dei lavori di vie ferrate ed ordinarie, di ponti e strade, sono 139 già o saranno tra breve nel novero indefinito dei postulanti impieghi? Ma il campo dell’agronomia, oltreché più vasto di tutti, presenta un insieme di applicazioni oltre dir duraturo e sommamente proficuo a promuovere gli interessi più vitali della Nazione. Per queste ragioni tutte, la Facoltà matematica si crede in dovere di farsi iniziatrice di questo ramo di ingegneria, persuasa inoltre che questa scuola e questo corso pratico speciale dell’ingegnere civile-agronomo, più che altrove debba aver sede in Bologna. Non v’ha chi non sappia che Bologna è il massimo centro italiano geograficamente parlando; che anzi lo è soprattutto se la si consideri economicamente e dal lato agronomico; prova ne sono gli incrementi che tutto giorno subisce e che tutti conoscono. Inoltre in Bologna, più che altrove, può meglio formarsi un ingegnere civile-agronomo. Qui l’Università con la completa teorica di matematica e di scienze fisico-naturali; qui una Società agraria antica e stimata; qui un Comizio agrario; qui l’agricoltura in ottimo sviluppo, se si confronti con quella della maggior parte delle provincie italiane; qui già da molti anni aperto un Ufficio centrale di commissioni agricole a cui fanno capo gli agronomi delle più lontane parti della penisola; qui si sta aprendo (ben si noti) un grande deposito di macchine agrarie e industriali, annunziato già dai giornali, con relativo atelier di costruzioni al quale presiederà un costruttore teorico e pratico di molta vaglia; e qui, finalmente, una scuola agraria che fa annuali escursioni; avvertendo poi, soprattutto, che nella provincia bolognese si praticano le coltivazioni dell’alta montagna, del piano, sia asciutto, sia umido di risaie e di valli; e dove pure si hanno ancora fondi paludosi da redimere, e nelle province prossimane si trovano oggetti molteplici di speciale istruzione agraria. Bologna è dunque, fin d’ora, il maggiore centro agricolo d’Italia ed in Bologna conviene per ogni titolo l’applicazione delle matematiche e delle scienze fisiconaturali all’agronomia. E la Facoltà matematica, avuto ancora riguardo alla minima possibile spesa governativa e fatto calcolo degli elementi di studio e di pratica posseduti dalla città e dalla provincia e che possono venire proficui, propone all’E.V. il seguente prospetto degli insegnamenti applicati al Corso pratico speciale d’ingegnere civile-agronomo: 1° Mineralogia 2° Geologia 3° Chimica agraria 4° Botanica 5° Agronomia teorico-pratica 6° Topografia 7° Costruzioni civili, idrauliche e stradali 8° Meccanica e idraulica applicata 9° Disegni topografici e architettura compositiva 10° Materie legali 11° Disegni e costruzione di macchine (per le quali potranno pure giovare il Gabinetto meccanico Aldini, la Scuola speciale del Valeriani, l’atelier agricolo, la fonderia Calzoni) Se l’E.V. si compiacerà di analizzare il personale dell’Università di Bologna, facilmente s’accorgerà che con l’aggiunta soltanto di due professori o personaggi speciali, l’uno per la Meccanica e idraulica applicata, l’altro per le Costruzioni civili, 140 idrauliche e stradali, e con qualche incaricato tratto dallo stesso personale, l’E.V. avrà la gloria di fondare nel centro d’Italia il primo corso pratico speciale d’ingegnere civile-agronomo. E qui la Facoltà desidera far notare semplicemente all’E.V. come, ammessi ancora i due professori suddetti, il personale già stabilito nella pianta organica della R. Università di Bologna non verrebbe aumentato, poiché la cattedra di astronomia, di meccanica applicata e di chimica docimastica figurano sempre in essa; ma, comunque sia, la Facoltà matematica confida nel favore dell’E.V. la quale, convinta che sia dell’utilità e della necessità di un corso pratico speciale di ingegnere civile-agronomo a servizio di tutta l’Italia, accorderà provvidente e benefica i mezzi a ciò necessari, che non possono essere gravi, tanto più che ad un tempo si viene a sorreggere e favorire un’Università di prim’ordine che altrimenti potrebbe gravemente soffrirne. E a muovere e sostenere maggiormente l’animo dell’E.V. la Facoltà matematica rammenta come sia già nel proposto del governo e dell’E.V. di fondare un Istituto veterinario universitario in Bologna, per la qual cosa s’avverte sommamente l’opportunità di regolare qui ancora lo studio e la pratica agraria, pei grandi rapporti che hanno tra loro le due istituzioni di veterinaria e di agronomia, per darsi vicendevolmente, a così dire, la mano. E con questo verrebbe creata una nuova professione e dato impulso all’esercizio di un ramo che sorge tra i primi degli studi applicativi di massima e generale utilità. La commissione Francesco Botter Giulio Casini Domenico Santagata Antonio Saporetti Letta ed approvata dalla Facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali nella sessione del 22 agosto 1868 141