All`origine dell`ingegneria gestionale in Italia Materiali per un

Transcription

All`origine dell`ingegneria gestionale in Italia Materiali per un
All’origine dell’ingegneria
gestionale in Italia
Materiali per un cantiere di ricerca
a cura di
Benito Brunelli e Giuliana Gemelli
Biblioteca Centrale «G. P. Dore»
Facoltà di Ingegneria
Università degli Studi di Bologna
1998
Atti del seminario di studi “Percorsi individuali, “biografie” istituzionali e
prosopografia delle élites: professione di ingegnere e sviluppo dell’ingegneria
gestionale in Italia. Materiali per un cantiere di ricerca”, tenuto il 9 maggio
1997 presso la Biblioteca Centrale «G. P. Dore» della Facoltà di
Ingegneria dell’Università di Bologna. Cura redazionale e impaginazione
di Maurizio Zani. Finito di stampare il 30 settembre 1998 presso
Tecnoprint S.n.c., Via del Legatore, 3 Bologna.
2
Indice
Prefazione, di Benito Brunelli
4
Introduzione, di Giuliana Gemelli
10
L’ingegnere taylorizzato, ovvero alcune considerazioni sull’insegnamento
della tecnica nella società postindustriale, di Vittorio Marchis 13
L’ingegnere gestionale al Politecnico di Milano. Dalla specializzazione
industriale alla specializzazione aziendale, di Gian Carlo Cainarca 18
Alle origini dell’ingegneria gestionale in Italia. Francesco Mauro e il Politecnico di
Milano: dal taylorismo ai sistemi complessi, di Giuliana Gemelli
48
Gli ingegneri della Scuola bolognese, 1878-1917. Percorsi biografici e carriere
professionali, di Maurizio Zani 83
Le fonti per la storia dell’ingegneria tra Otto e Novecento. L’archivio Muggia e il
suo fondo documentario, di Paolo Lipparini e Matteo Rozzarin 105
Jacopo Benetti, tra scuola e professione, di Gian Carlo Calcagno
119
Una scuola di applicazione per ingegneri agronomi? Francesco Botter e la
riorganizzazione degli studi di ingegneria a Bologna (1868-1875), di
Silvio Fronzoni 161
3
Prefazione
Benito Brunelli
Dipartimento di Ingegneria Elettrica, Università di Bologna
Ringrazio i convenuti e tutti coloro che hanno accolto la proposta di designare la
Biblioteca Centrale della Facoltà di Ingegneria di Bologna come sede di questa
giornata di lavoro sulla storia dell’ingegneria. Il progetto di questo incontro è stato
avanzato alcuni mesi fa dal Centro di Ricerche sull’Europa in seno all’Università di
Bologna, nella persona del suo Direttore, dott.ssa Giuliana Gemelli, e
immediatamente accolto dalla Biblioteca che ho l’onore di dirigere. Si tratta di
un’occasione preziosa per fare il punto su una serie di ricerche e studi — alcuni in
corso già da tempo e altri ancora agli inizi — che intendono illuminare le vicende
storiche dell’ingegneria italiana con particolare riguardo a quella bolognese, secondo
le più moderne teorie e pratiche storiografiche.
Il luogo di questo incontro non è casuale e non è dettato solo da un pur doveroso
senso dell’ospitalità. La Biblioteca Centrale della Facoltà di Ingegneria ha da tempo
prodotto materiali che ritengo utili per lo studio della storia dell’ingegneria, in
particolare con la catalogazione del suo patrimonio librario antico. Un’operazione
che intendeva essere non solo una ricognizione inventariale ma dare il suo
contributo alla storia dell’ingegneria bolognese a partire da un particolare ambito
visuale, quello della Biblioteca, quest’ultima ritenuta fin dall’inizio di particolare
importanza per l’intera Scuola d’applicazione e poi per la Facoltà.
Ma la ragione sta anche nel desiderio di accomunare tradizioni di studio,
metodologie e sensibilità diverse che in questi anni si sono interessate alla storia
dell’ingegneria e delle professioni ingegneristiche, centrali per una completa
ricostruzione della storia culturale, scientifico-tecnologica e politico-sociale del
nostro paese e del contesto territoriale bolognese. In questa prospettiva, la
collaborazione tra storici e ingegneri è di fondamentale importanza e andrà coltivata
nei prossimi anni con par-ticolare impegno da ciascuno di noi. La Biblioteca si
impegna a rimanere centro di iniziative, sia come punto di incontro tra queste
diverse tra-dizioni, sia proponendosi come luogo di produzione, di diffusione e di
conoscenza.
Gli obiettivi sono molteplici e certamente ambiziosi. Innanzitutto la continuazione
di un costante impegno nel restauro del patrimonio biblio-grafico più antico, la cui
fruizione verrà incentivata, anche grazie al già approntato gabinetto fotografico, e
per il cui sviluppo si può pensare anche alla digitalizzazione delle opere di maggiore
pregio.
In secondo luogo, si procederà con la bonifica del vecchio catalogo cartaceo della
Biblioteca, per arrivare alla catalogazione automatizzata del patrimonio
bibliografico ottocentesco, in particolare di quelle opere che per il loro argomento
— idrologia, ferrovie, agronomia — rivestono un particolare interesse per lo studio
dell’ingegneria e delle professioni ingegneristiche ottocentesche. La catalogazione
delle opere — monogra-fie, opuscoli, dispense universitarie — redatte da docenti
prima della Scuola e poi della Facoltà e dagli stessi ingegneri laureatisi via via a Bologna, contribuirà inoltre concretamente alla ricostruzione del loro per-corso
professionale e dei rapporti con la cultura e il territorio bolognese.
4
Sono questi impegni ambiziosi per le forze quantitativamente mode-ste di cui
dispone la nostra Biblioteca, ma che potranno contribuire alla crescita dell’interesse
per la storia dell’ingegneria e dell’educazione tecnico-scientifica in senso più ampio,
collocate nella storia della realtà bolognese. La Biblioteca centrale di Facoltà
continuerà dunque a svolgere quell’opera di mediazione tra tradizioni e culture
diverse che contrad-distingue sin dall’inizio la sua storia e che caratterizza il suo
stesso patrimonio bibliografico.
La creazione di questa imponente e prestigiosa costruzione e la traslocazione in
questa sede della vecchia Scuola di applicazione per ingegneri fu infatti momento
importante di crescita per tutte le istituzioni culturali di questa città. Nelle sue
relazioni sullo stato della Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, il Direttore di
quegli anni, Albano Sorbelli, soleva ricordare anno dopo anno l’estrema limitatezza
degli spazi in cui la Biblioteca era costretta ad operare. Il trasloco della Scuola dagli
ampi spazi del Convento di Piazza dei Celestini dette la possibilità di trasferirvi
l’Archivio di Stato, così da liberare spazi adeguati per le esigenze della Biblioteca
comunale, del Museo archeologico e del Museo del Risorgi-mento. In questa
operazione di “travaso”, come la chiamava Sorbelli, io vedo l’origine della stretta
integrazione che ancora oggi lega la Facoltà e la sua Biblioteca con le più prestigiose
istituzioni culturali della città.
L’attuale sede costruita negli anni ‘30, secondo il progetto dell’ar-chitetto Vaccaro,
sembrava allora una cattedrale nel deserto, date le sue dimensioni a confronto del
basso numero di docenti e studenti, un parto della megalomania politica di quei
tempi. Uscendo dalla centrale Piazza dei Celestini per approdare in un’area allora
periferica della città, la nuo-va sede della Scuola, divenuta poi Facoltà universitaria,
ha del resto contribuito da un punto di vista urbanistico a dare respiro alla crescita
cittadina 1. Inoltre, per quanto riguarda il suo rapporto con la città, la nuova sede
della Scuola costituì indubbiamente quello che oggi si chiamerebbe un grande polo
tecnologico, che ha contribuito non solo a rafforzare la crescita industriale della
città, ma anche e soprattutto a legarla alle reti della ricerca scientifica e tecnologica
italiana e in-ternazionale. L’edificio ha superato indenne i bombardamenti del
L’attuale sistemazione della Facoltà di Ingegneria è conseguente a progetti di allogazione sia in
prossimità della Porta Castiglione sia in posizione più vicina alla Porta Saragozza. Alla prima soluzione si
frapposero difficoltà in ordine ai tempi di disponibilità dei terreni fabbricabili e a lungimiranti valutazioni
del traffico motoriz-zato e delle aree di parcheggio per docenti, studenti e personale addetto in una zona
residenziale “verde” di tipo estensivo.
La seconda soluzione comportava l’occupazione di un’area privata da espropriare con non poche
difficoltà giuridiche e procedurali. La proprietà dell’area, la quale dispo-neva dell’intera superficie oggi
occupata dal Giardino di Porta Saragozza e dalla Fa-coltà con il suo retrostante terreno, dopo ragionevoli
trattative accettò la soluzione dell’insediamento universitario oltre il predetto giardino, a condizione della
destina-zione pubblica di quest’ultimo e del divieto di qualsiasi ulteriore espansione edilizia sull’area
ceduta. Le cronache del tempo narrano curiosamente che allora si gridò alla scandalosa megalomania dei
responsabili per un edificio che avrebbe dovuto acco-gliere ben 200 studenti circa di contro ai 120/130 di
Piazza dei Celestini.
I lavori di costruzione dell’edificio, condotti fra la primavera del 1933 e l’ottobre del ‘35, rispettarono
pienamente il progetto di Giuseppe Vaccaro, già laureato ingegnere nella sezione di architettura della
Scuola bolognese — nella quale, vale la pena di ricordarlo, conseguì la laurea, fra gli altri, anche Pier Luigi
Nervi. Il giovane Vaccaro in quel tempo era già uno dei più promettenti architetti del movimento
razionalista italiano, ai cui canoni improntò marcatamente il complesso universitario di Viale
Risorgimento. L’edificio, la cui pianta è a forma di fascio littorio, fu approvata dallo stesso Mussolini in
persona, nel quadro di un vasto programma di opere pubbliche che nei primi anni trenta fu attuato nella
ricorrenza del decennale del regime.
1
5
periodo bellico ed il rifugio antiaereo realizzato nell’area adiacente con un’ampia
galleria a due accessi sotto il terreno collinare ha fornito un sicuro riparo anche agli
abitanti della zona.
Il progressivo aumento degli studenti negli ultimi decenni e la proliferazione di
nuovi insegnamenti ha dimostrato la lungimiranza dell’autorità dell’epoca, favorita
anche dalla campagna demografica di quegli anni; non solo, gli spazi sono risultati
via via insufficienti. Nep-pure l’utilizzo delle vecchie scuderie, gli ampliamenti e i
nuovi edifici, ivi compreso quell’orrido “precario”, prefabbricato in ferro a lato
dell’edi-ficio, hanno risolto il problema, tant’è che si è resa necessaria la proposta di
un nuovo insediamento, assegnato in località Lazzaretto, ove sono trasferiti al
momento i laboratori pesanti.
Anche i laureati degli anni seguenti al conflitto mondiale non furono molti. Erano
gli anni della ripresa industriale, della nascita di molte nuove piccole imprese in
tutti i campi della produzione, quasi sempre ditte a carattere poco più che
artigianale, che non potevano permettersi un ufficio tecnico, per cui si affidavano
alla consulenza esterna di ingegneri che avessero una qualche competenza nel
settore.
I canali di accesso alla carriera universitaria erano sostanzialmente diversi da quelli
attuali. Esisteva la figura dell’assistente volontario, che spesso era un ingegnere
impiegato presso qualche grossa azienda, che per questioni di prestigio assumeva il
compito di seguire le esercitazioni degli studenti. Veniva poi, dopo esami interni,
l’assistente di ruolo, regolar-mente retribuito. L’assistente di ruolo, con incarico di
insegnamento, doveva prendere la libera docenza, in un concorso nazionale da
sostenere a Roma entro un decennio di assistentato, pena la perdita della qualifica e
con essa dello stipendio. Parallelamente esisteva la figura del professore incaricato
esterno, un ingegnere con valida esperienza professionale, chiamato a tenere un
insegnamento annuale presso l’Università. Anche per lui la libera docenza
significava la stabilizzazione dell’incarico. In tali condizioni, si vede come vi fosse
un notevole travaso dal mondo del lavoro al mondo universitario e viceversa. Era
allora un titolo di merito, da citare nei concorsi, svolgere o avere svolto attività
presso industrie im-portanti; vi era quindi compatibilità tra insegnamento e
professione. Tutti i miei illustri maestri ne furono un chiaro esempio, ed io stesso
con loro.
Oggi, al contrario, più che la sperimentazione sul banco, prevale la ricerca
informativa di tipo virtuale, impostata prevalentemente sulla simulazione
computerizzata.
Ritengo opportuno ricordare che la carenza di spazi sopra citata non ha consentito
sinora l’individuazione di locali idonei per sistemare e presentare tutti i materiali
che ho avuto l’incarico di raccogliere per il co-stituendo Museo dell’ingegneria. La
raccolta di materiale museale non è solo rivolta al reperimento di pezzi antichi o
rari, ma intende anche con-servare quelle apparecchiature e quella strumentazione
che hanno carat-terizzato, seppure in un recente passato, la ricerca svolta nei
laboratori della Facoltà.
Ma per venire ai risultati dell’incontro di questa giornata, mi sembra che gli
interventi che qui si presentano — e che costituiscono per l’appunto dei materiali di
lavoro per una ricerca di per sé in fase già avanzata — rafforzino soprattutto il
desiderio di colmare rapidamente nei prossimi anni alcune lacune che pure si
6
prospettano. Intendo riferirmi al fatto che in questi ultimi anni si sono fatti decisi
passi in avanti nella ricostruzione dell’origine della Scuola di applicazione
d’Ingegneria di Bo-logna e della sua affermazione sotto la guida di illustri maestri
come Cesare Razzaboni e Jacopo Benetti. E ulteriori passi in avanti sono stati fatti
per comprendere i rapporti che tale Scuola ebbe con la città e il suo territorio. La
relazione di Gian Carlo Calcagno illumina queste vicende, focalizzando l’attenzione
sul ruolo di Jacopo Benetti, successore di Cesare Razzaboni nella guida della Scuola
di applicazione. Inoltre, una sintetica immagine delle carriere e delle vicende
professionali degli ingegneri laureati a Bologna a partire dalla fondazione della
scuola sino al primo conflitto mondiale ci è offerta dall’intervento di Maurizio Zani.
Eppure, tale ricerca si ferma proprio — viene da dire — sul più bello, alla soglia del
secondo decennio di questo secolo, nel momento in cui inizia per l’ingegneria
bolognese il suo periodo più prestigioso. Quando cioè maturano personalità di
grande spessore scientifico e politico come Attilio Muggia, Umberto Puppini,
Giuseppe Vaccaro e il ruolo della professione dell’ingegnere si va via via sempre più
affermando nell’economia e nella società bolognese, allora in rapida evoluzione.
Ebbene, il ruolo di sempre maggiore rilievo della Scuola di applicazione e poi della
Facoltà di Ingegneria nel contesto locale e nazionale si afferma proprio nel secondo
e nel terzo decennio di questo secolo, e questa storia attende ancora di essere
scritta compiutamente.
Spero dunque che questo incontro serva di stimolo per proseguire in questa
direzione, e in particolare nella direzione indicata da diversi interventi presentati in
questa sede, l’analisi del ruolo dell’ingegnere nella direzione aziendale e del ruolo
dell’Università nella formazione dell’in-gegnere manager. Gli interventi che qui
presentano Gian Carlo Cainarca e Giuliana Gemelli ci pongono di fronte a quello
che nei decenni trascorsi è stato il ruolo guida in questo settore del Politecnico di
Milano. Eppure sono sicuro che una ricostruzione accurata della storia della Facoltà
ci porterebbe parecchie sorprese e ci obbligherebbe a riconsiderare il ruolo della
Facoltà di Ingegneria di Bologna come non esclusivamente peri-ferico rispetto alle
novità introdotte negli anni ‘40-’50 relativamente alla formazione dell’ingegnere
direttivo. Chi avesse la pazienza di sfogliare, per esempio, la rivista Pirelli di quegli
anni, troverebbe un intero servizio fotografico — particolarmente bello, debbo dire
— che riprende uno dei numerosi incontri tenutisi negli anni ‘50 tra gli alti dirigenti
della Pirelli e il corpo docente della Facoltà di Ingegneria di Bologna, guidato dal
prof. Dore, proprio sui problemi relativi alla formazione dell’ingegnere destinato ad
entrare nell’industria. Lo ricorda Giuliana Gemelli nel suo intervento, come
risultato dell’opera di mediazione intellettuale di Luigi Manfredini. Si tratta di una
significativa testimonianza del rilievo riconosciuto in quel tempo alla Facoltà
bolognese, un segnale che andrebbe inserito in un contesto più ampio di ricerche.
Proprio in quelle foto, sono riconoscibili molti colleghi docenti dell’epoca, che
ormai solo i più anziani di noi possono ricordare personalmente, ma che pure hanno
lasciato un segno nella storia della Facoltà. Considerata la natura di quegli incontri,
era inevitabile che fossero presenti soprattutto i docenti di quelle discipline per le
quali il rapporto tra università e industria era indispensabile: Giulio Supino,
ordinario di Idraulica; Giuseppe Rossi, di Chimica applicata; Francesco Roma, di
Impianti industriali meccanici; Luigi Manfredini, di Impianti industriali chimici;
Giuseppe Evangelisti, di Costruzioni idrauliche; Stefano Basile, di Misure
7
elettriche; Gino Morandi, di Progetti di macchine e disegni; e poi gli incaricati
Giuseppe Francini, Fausto Caboni, Francesco Barozzi, Arturo Giulianini, Dino
Zanobetti, Giampaolo Dore, presto diventati a loro volta titolari di cattedre 2.
Si occupa Giuliana Gemelli di ricostruire la carriera di Luigi Manfredini. Io
ricorderò il rilievo di una personalità come Giulio Supino, preside della Facoltà dal
1965 al 1968 e vice Rettore dell’Università dal 1962 al 1968, prosecutore della
grande scuola dell’idraulica bolognese. Oltre ad una più che quarantennale attività
di studio e di insegnamento, Supino svolse una notevole attività professionale,
partecipando a diversi pubblici organismi tecnici, tra i quali il Consiglio superiore
dei lavori pubblici, e il Comitato per la difesa di Venezia, del quale fu nominato
Presidente. Francesco Roma si occupò invece nella sua carriera dello sfruttamento
dei combustibili, dei problemi relativi alle fonti di energia, dagli impianti a ricupero
alle turbine a gas, dalle grandi centrali termoelettriche alla fissione nucleare,
svolgendo numerosi incarichi ministeriali, in Commissioni di studio e in
rappresentanza dell’Italia in congressi Internazionali, e risultando apprezzato
consulente dei massimi Enti e delle più importanti società per i problemi
dell’energia. Fu purtroppo anche una delle vittime — assieme a Emanuele Foà —
di quel-la barbara legge che durante la dittatura fascista escluse dall’in-segnamento
universitario i docenti di origine ebraica.
Vorrei ricordare però anche Stefano Basile, che fu successore di Vittorio Gori, di
Giovanni Sartori e di Luigi Donati alla cattedra di Elettrotecnica. Un insegnamento
che nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale fu essenziale per la
crescita della Facoltà e soprattutto per lo sviluppo dei rapporti tra la nascente
attività industriale e l’Università dell’epoca. Sia Sartori che Donati non si erano
laureati a Bologna — il primo a Milano, il secondo a Pisa — ma ebbero a svolgere
gran parte della loro carriera di studio, di insegnamento e di lavoro proprio nel
capoluogo bolognese. Giovanni Sartori, in particolare, fu impareggiabile progettista
di centrali idroelettriche e apprezzato consulente con numerosi incarichi
professionali; tra le altre, collaborò con le ditte bolognesi Calzoni e Parenti.
Giovanni Sartori condivideva con il suo maestro ed amico Luigi Donati 3, la stessa
vocazione e la stessa rigorosa preparazione professionale, che gli consentiva di
risolvere i problemi pratici attraverso il rigore matematico, pure così lontano da
ogni forma di empirismo. Sartori ebbe anche l’onore di dirigere la Scuola tra il 1932
e il 1937, nella delicata fase in cui divenne Facoltà universitaria ed avvenne il
trasferimento da Piazza dei Celestini all’edificio di Vaccaro.
Nelle pagine successive, due immagini dell’incontro, avvenuto nell’estate 1953, tra i docenti della Facoltà
di Ingegneria dell’Università di Bologna e la direzione della Pirelli. Le foto sono riprodotte da «Pirelli.
Rivista d’informazione e di tecnica», VI (1953), n. 4, pp. 53-55.
Nelle due foto sono riconoscibili, della Facoltà di Ingegneria bolognese, il Preside prof. Paolo Dore e i
professori e ingegneri: Giulio Supino, ordinario di Idraulica; Giuseppe Rossi, ordinario di Chimica
applicata; Francesco Roma, ordinario di Impianti industriali meccanici; Luigi Manfredini, ordinario di
Impianti industriali chimici; Giuseppe Evangelisti, ordinario di costruzioni idrauliche; Stefano Basile,
ordinario di Misure elettriche; Gino Morandi, ordinario di Progetti di macchine e disegni; Giuseppe
Francini, incaricato di Comunicazioni elettriche; Fausto Caboni, incaricato di Macchine e aiuto; Francesco
Barozzi, incaricato di Costruzioni di macchine elettriche e aiuto; Arturo Giulianini, incaricato di Fisica
tecnica e aiuto; Dino Zanobetti, incaricato di Impianti industriali elettrici II parte; Giampaolo Dore,
assistente di Misure elettriche.
2
Luigi Donati fu titolare della cattedra di Fisica matematica dal 1879 al 1921, occupando inoltre presso la
Scuola di ingegneria quella di Fisica tecnica dal 1877 e dunque quella di Elettrotecnica dal 1899.
3
8
Tra gli altri docenti dell’epoca, desidero ricordare inoltre Giuseppe Evangelisti,
figura di rilievo nella Facoltà, prima incaricato del corso di Impianti speciali
idraulici, poi di quello di Teoria dei circuiti elettrici, presso la Scuola di
perfezionamento in radiocomunicazioni di questa Facoltà, quindi fondatore e
direttore, a partire dal 1957 e fino al 1969, del Centro calcoli e servomeccanismi,
mentre nel contempo era incaricato del corso di controlli automatici. Una carriera
luminosa, dunque, e originale, nei cui passaggi è possibile leggere gran parte delle
trasformazioni che hanno segnato l’ingegneria bolognese del secondo dopoguerra.
Giuseppe Evangelisti fu inoltre a lungo direttore della Biblioteca centrale della
Facoltà, dal 1938 al 1954 4.
Ma la figura di Evangelisti risalta non solo per i meriti scientifici e accademici, ma
anche perché proprio in uno dei contributi di questo volume si ricorda la prestigiosa
e singolare carriera del padre, nativo della provincia di Ancona e ingegnere
comunale di Molinella, in provincia di Bologna, all’inizio del secolo. Un legame di
sangue, dunque, che è anche legame tra due generazioni e tra due epoche diverse
dell’ingegneria bolognese.
Non sarebbe completo il quadro degli illustri docenti che operarono a Bologna negli
anni che seguirono il secondo conflitto mondiale senza ricordare le prestigiosissime
figure di Odone Belluzzi, grande studioso e grande insegnante della Scienza delle
costruzioni, che deve a lui uno dei suoi più lucidi trattati, e di Giovanni Michelucci,
scomparso solo alcuni anni fa, una delle personalità più prestigiose dell’architettura
italiana di questo secolo, autore di opere di straordinaria importanza e formatore di
intere generazioni di ingegneri e architetti.
Queste poche note — dettate sul filo anche di una memoria personale che vuole
essere un omaggio a una generazione di maestri — desiderano essere uno stimolo
per la prosecuzione della ricerca. L’obiettivo futuro potrebbe essere quello di
delineare compiutamente le vicende della Scuola di applicazione e poi della Facoltà
di Ingegneria, dalle sue origini ai nostri giorni, così da valutare con precisione la sua
importanza per la crescita economica e culturale della città. La comunanza di
interessi tra ingegneri e storici, che in questa occasione si è rivelata concreta e
fattiva, mi fa ben sperare per il prosieguo di queste ricerche.
I docenti incaricati dal Preside della Facoltà di guidare la Biblioteca centrale sono stati, in successione:
Giulio Supino, dal 1935 al 1938; Giuseppe Evangelisti, dal 1938 al 1954; Piero Pozzati, dal 1954 al 1966;
Gian Paolo Dore, dal 1966 al 1976; Ales-sandro Cocchi, dal 1976 al 1978; Pietro Guerrini, dal 1978 al
1979; Paolo Amadesi, dal 1979 al 1983; Paolo Raffaele Ghigi, dal 1984 al 1990, mio predecessore.
4
9
Introduzione
Giuliana Gemelli
Dipartimento di Discipline Storiche, Università di Bologna
In un recente libro, Navigare nella turbolenza: la direzione d'impresa di terzo tipo, Erwin
Lazlo cita una frase significativa di Einstein: “Non possiamo risolvere i problemi
con i medesimi schemi di pensiero con cui li abbiamo creati”.
Se risaliamo alle origini del pensiero che ha nutrito la formazione manageriale nel
corso del XX secolo, notiamo che esse si sono innestate su un paradosso
fondamentale: mentre l’approccio del general management sul modello delineato da
Elton Mayo, alla Harvard Business School, nei tardi anni venti, si articolava sulla
base di un pensiero trans-disciplinare e interscientifico, largamente ispirato allo stile
di ragionamento delle scienze biologiche e sociali, l’organizzazione dell’impresa si
andava costruendo su scala internazionale, ovviamente con rilevanti
diversificazioni di contesto, nell’ambito dell’approccio tayloristico che valorizzava
prevalentemente il modo di ragionamento meccanicistico e un approccio di tipo
specialistico. Questo paradosso non è stato privo di conseguenze sull’evoluzione
delle strategie formative inerenti “la gestione”. E questo non solo nell’ambito delle
business schools, cioè delle istituzioni che hanno a lungo costituito l’ambito
privilegiato per questo tipo di formazione, mano a mano che il modello statunitense
andava affermandosi come dominante, ma anche nelle Facoltà di Ingegneria, dove
come ha efficacemente sottolineato Luciano Gallino nel suo «Dizionario di
sociologia»:
L’insegnamento impartito (...) ipostatizza il ruolo storico dei tecnici, rendendo
virtualmente impossibile a chi vi è esposto per molti anni di concepire la propria
funzione in una luce diversa, non di depositari esclusivi del sapere tecnico, ma di
istruttori, consulenti, educatori scientifici di gruppi di lavoratori.
A partire dagli anni Ottanta del secolo, l’assetto sopra descritto è entrato
progressivamente in una fase critica, caratterizzata ad un tempo da una transizione
epistemologica e dal delinearsi di nuovi assetti istituzionali, con la creazione, in
particolare, dei nuovi corsi di Laurea in Ingegneria Gestionale. Come ha
sottolineato Gian Carlo Cainarca, nel suo contributo al volume, non è tuttavia
ancora chiaro se “rispetto alla figura tradizionale, gli elementi di “discontinuità”
dell’ingegnere gestionale siano più apparenti che reali e, forse paradossalmente,
sostanzino la continuità con il modello che identifica nell’ingegnere una figura
professionale fortemente specializzata”.
La struttura del libro, nato da una collaborazione inter-scientifica tra storici ed
ingegneri, ha un carattere regressivo, parte cioè dalla problematizzazione del
presente, secondo le coordinate sopra evocate, per risalire all’indietro la corrente
del tempo, attraverso la presentazione di una serie di casi di studio, inerenti il
periodo tra le due guerre, l’inizio del XX secolo e, con la trattazione della nascita
della figura dell’ingegnere agronomo, il secondo Ottocento.
10
Il punto di avvio è dunque l’enunciazione dei presupposti della “crisi dell’algoritmo
degli ingegneri”, la cui formazione si è di volta in volta coniugata con differenti
discipline, restando tuttavia, fino a tempi recenti, eminentemente tecnica e
settoriale, come indicato da Gallino e come illustrato, nelle pagine che aprono il
volume, da Vittorio Marchis, che è anche l’artefice dell’introduzione delle “scienze
umane” nel curriculum del Politecnico di Torino. Alcuni degli effetti istituzionali
del processo di trasformazione in atto sono stati individuati, con un’attenta
ricognizione statistica e problematica dal contributo di Gian Carlo Cainarca,
centrato sulle origini storiche e sulla configurazione degli studi di ingegneria
gestionale al Politecnico di Milano.
Il nucleo più propriamente storico del libro è situato nella individuazione di alcune
fasi di sedimentazione istituzionale dell’algoritmo sopra evocato, focalizzando
prevalentemente l’attenzione su due contesti istituzionali, il Politecnico di Milano e
la Scuola di Ingegneria di Bologna, con l’intenzione di analizzare non solo il modo
in cui la formazione degli ingegneri si è andata coniugando, o ha tentato di
coniugarsi, in varie fasi storiche con altre discipline (l’agronomia, l’economia,
l’architettura, l’analisi dei sistemi complessi), ma il modo in cui la figura
dell’ingegnere gestionale (che rappresenta, per moti aspetti, l’elemento catalizzatore
di questa fase critica) è emersa in un lungo processo di gestazione, caratterizzato da
ibride forme di intreccio tra mondo industriale e formazione tecnica. E questo sia
dal punto di vista dei processi di professionalizzazione che da quello delle forme di
rappresentazione sociale del ruolo degli ingegneri. Tali forme ibride hanno avuto
caratteristiche proprie in diversi contesti istituzionali, come appunto quello del
Politecnico di Milano e quello della Scuola, poi della Facoltà di Ingegneria di
Bologna. Nonostante la differenza di “spessore” e la differente configurazione del
territorio industriale nelle due città, dai contributi raccolti in questo volume
emergono alcune interessanti analogie nei profili e nei percorsi dei pionieri della
“formazione gestionale”. Sia nel territorio bolognese che in quello del capoluogo
lombardo, fino agli anni cinquanta e sessanta, gli ingegneri che acquisiscono un
profilo “industriale”, hanno nella grande maggioranza dei casi compiuto esperienze
di formazione all’estero e/o esperienze di lavoro, con effetti formativi, in settori di
punta nello sviluppo tecnologico o di elevata applicazione scientifica (frigotecnica,
impianti idraulici, settore elettrico ed elettrotecnico), acquisendo, ad un tempo, una
consapevolezza più ampia e non meramente utilitaristica o burocratica dei problemi
e la percezione della necessità di un allargamento al contesto europeo dei problemi
connessi con la gestione delle risorse. Non fanno eccezione i grandi protagonisti di
questo intreccio, a cominciare dai pionieri bolognesi dell’orientamento gestionale,
come Francesco Botter (il cui ruolo di “traduttore”, tra ingegneria ed agronomia è
analizzato da Silvio Fronzoni) e Jacopo Benetti o, nel periodo tra le due guerre,
Francesco Mauro, fondatore, al Politecnico di Milano, della prima scuola di
formazione post-lauream, che iniziò il proprio itinerario di formazione scientifica e
professionale con un dottorato a Parigi e l’acquisizione in quel contesto di
un’esperienza professionale di elevato livello, nel settore allora pionieristico della
frigotecnica.
Sotto questo profilo, i contributi di questo volume illustrano che, nel coagularsi
delle forme di “modernità” e delle visioni sociali ed organizzative che esse
comportano, non emerge tanto una configurazione basata sull’esistenza di “centri e
11
periferie istituzionali” (ad esempio i Politecnici, da un lato, e le scuole di
Ingegneria, dall’altro) quanto, nei diversi contesti, di zone differenziate di “densità e
di modernità” culturale ed organizzativa che delineano un’ampia articolazione dei
percorsi individuali. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento si
sono cioè delineate, nei diversi contesti istituzionali, zone a potenziale di
trasformazione diversificato, che risultano, tuttavia e per lungo tempo, incapsulate
in ampie aree di rigidità istituzionale, sociale e culturale, fino al momento in cui
l’erosione del paradigma taylorista e la nascita dei nuovi scenari, derivati
dall’emergere e dall’applicazione della teoria dei sistemi complessi e dallo sviluppo
della formazione continua, non hanno portato, a partire dalla fine degli anni
Settanta, ad una revisione del curriculum, culminata con la creazione, in alcune sedi
universitarie italiane (tra cui appunto Milano e Bologna) di Corsi di Laurea in
Ingegneria gestionale. Essi rappresentano un’area di sfida progettuale, nella
costruzione di nuovi intrecci tra scuola ed impresa, basati non più soltanto sulla
capacità di produrre e di applicare nuove tecnologie, ma anche sull’incremento delle
potenzialità di trasferimento delle conoscenze in tempi sincronici, nonché, come ha
dimostrato Gian Carlo Cainarca, un vettore ad alto potenziale di risorse per quel
che riguarda il placement dei giovani laureati.
Questo libro ha preso avvio dalla riflessione congiunta di due gruppi di ricerca: il
primo, coordinato dal Prof. Angelo Ventura, nel quadro di un Programma di ricerca
Ministeriale 40%, il secondo coordinato da chi scrive, nell’ambito dell’attività del
Centro di Ricerche sull’Europa dell’Università di Bologna, e confluito in un
progetto europeo, nel quadro del programma Target Socio-Economics, coordinato
da Lars Engwall dell’Università di Uppsala. Tali progetti hanno travato un luogo di
proficua intersezione e di rinnovato dinamismo nell’iniziativa presa dalla Biblioteca
della Facoltà di Ingegneria di avviare un dialogo congiunto tra storici ed ingegneri,
grazie alla disponibilità del suo direttore Professor Benito Brunelli ed alla
lungimiranza dei Presidi che si sono succeduti alla guida della Facoltà negli ultimi
anni, i Professori Enrico Lorenzini ed Arrigo Pareschi, i quali hanno voluto aprire,
su vari fronti, un canale di dialogo con le scienze sociali ed umane che auspichiamo
possa ulteriormente consolidarsi nell’immediato futuro.
12
L’ingegnere taylorizzato,
ovvero
alcune considerazioni sull’insegnamento
della tecnica nella società postindustriale
Vittorio Marchis
Politecnico di Torino
Potrebbe sembrare un gioco di parole, ma una “y” ci mette la coda e il sarto (tailor)
non riesce a confezionare l’ingegnere prêt-à-porter.
È indubbio che tra le professioni che sinora si sono dimostrate più “sicure” di fronte
alla disoccupazione certamente l’ingegneria occupa un posto privilegiato; ma non
mancano i lati oscuri, e soprattutto quelli che non concedono spazio a ottimistiche
estrapolazioni, anche in un futuro prossimo. L’ingegneria è professione antica nel
senso naïf del termine, ma ha ricevuto la sua istituzionalizzazione in tempi assai
recenti. Le scuole di ingegneria, e soprattutto i Politecnici (che devono piuttosto
ricercare le loro origini nelle Polytechnischen Hochschulen tedesche che non nelle Ecoles
Polytechniques napoleoniche) si sono affermate, quali le vediamo oggi, soltanto verso
la prima metà del secolo scorso.
Nella dinamica della scuola, che si trova di fronte costanti di tempo biologiche assai
lunghe, centocinquant’anni sono davvero pochi. Eppure, nella evoluzione dalla
iniziale ragione politica e sociale, intesa a formare quadri per la nascente industria,
al positivismo che cercò di dare una veste scientifica ai comportamenti umani è
difficile individuare un modello unitario dell’ingegneria.
La visione del mondo “ingegneristica” (e in certo qual senso “assio-matica”),
applicabile anche a ciò che piuttosto è parte integrante di un sistema storico ed
economico, ritrova ragioni (e giustificazioni) “tecniche” per processi che
paradossalmente uniscono alienazione ed efficienza.
Le grandi illusioni di un’industria globale e onnicomprensiva, sino alla
smaterializzazione (dall’hard al soft) dei processi produttivi ed alla globalizzazione
dei sistemi informativi e comunicativi, rendono difficile definire che cosa sia un
ingegnere, e soprattutto diventa un azzardo progettare oggi ciò che dovrà servire
domani.
La rigidezza di una scuola strutturata a priori rischia di incontrare sempre nuovi
motivi di fallimento. Recentemente Kenneth Kenyston del MIT ha ben focalizzato
la nostra attenzione sulla “crisi dell’algoritmo degli ingegneri”. Sono finiti i tempi in
cui si poteva pensare che i problemi tecnici potessero ritrovare da qualche parte una
“formula risolutiva in forma chiusa”.
Si potrebbe a questo punto postulare un “teorema dell’incom-pletezza”
dell’ingegneria, perché essa non deve né può essere autoreferenziale. E allora, per
venire a noi, sembrerebbe quasi che le nuove figure dell’ingegnere “gestionale”,
dell’ingegnere “dell’ambiente e del territorio” (solo per citare i più noti) siano la
risposta a queste nuove visioni del mondo. Ma non è purtroppo così e perplessi ci
sentiamo impotenti di fronte a queste “innovazioni”.
Azzardare una risposta sarebbe arrogarsi il ruolo di “mago della pioggia”. Alcune
timide considerazioni mi portano ad affermare che probabilmente anche nel caso
degli ingegneri gestionali (e degli altri) si è proceduto applicando proprio l’algoritmo
degli ingegneri; le economie, le sociologie sono così diventate ingegnerie
economiche, ingegnerie sociali, e ancora ingegnerie giuridiche...
Ma altri sono i linguaggi, altre le dimensioni e le frontiere, se non praticate (e
soprattutto attraversate) diventano limiti e confini insuperabili. Si rischia di cadere
così, anacronisticamente, proprio nelle ragioni che spinsero nel secolo scorso a
formare ingegneri “tuttologi”, anche un poco economisti, ragionieri, giuristi... e
allora forse le ragioni di ciò erano plausibili. Oggi non più.
Un ingegnere tailor-made è improponibile perché le dinamiche del cambiamento lo
metterebbero fuori moda all’atto stesso in cui farà ingresso sul mercato del lavoro.
Quali soluzioni proporre non è cosa facile, e forse neppure lo scopo di questo breve
intervento, ma può essere utile, ritrovando nella storia la consapevolezza del
presente, aprire alcune brecce nella dura compagine di una disciplina che rischia di
chiudere le proprie frontiere, nell’illusione di proteggere la propria integrità.
È curioso, oggi, rileggere un libro pubblicato nelle Edizioni di Comunità nel 1961 a
firma di Gustavo Colonnetti. Si può salvare l’uni-versità italiana? Non è solo una
domanda retorica a cui forse molti sanno già dare una fatale risposta, ma è una
visione (profetica), una disamina acuta di un sistema che ha bisogno di piccoli ma
significativi segnali in grado di preparare un sistema alle inevitabili nuove
prospettive di una società che è diventata postindustriale.
Gustavo Colonnetti, professore di Meccanica e di Scienza delle Costruzioni nelle
Facoltà di ingegneria, membro della Costituente, presidente del CNR nella fase più
difficile della ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale scrive:
Alla domanda se gli studi che si compiono oggi negli Istituti tecnici ed industriali
siano da considerarsi come i più idonei per la preparazione e l’avviamento dei
giovani agli studi superiori, io non ho mai esitato, né esito oggi a rispondere
negativamente. Ma non per questa o quell’altra manchevolezza dei relativi
programmi, bensì per lo spirito che informa questi studi, spirito decisamente
utilitario, laddove le più alte vette del pensiero sono più facilmente raggiungibili da
uomini formati, fina dalla loro prima giovinezza, all’amore dello studio, alla ricerca
disinteressata del vero e alla affermazione, attraverso lo studio e la ricerca, della
personalità.
Questo l’incipit, e ben poche pagine più avanti, con una sensibilità a problemi che
oggi riconosciamo essere nostri — ricordiamo la data dello scritto! — si afferma che
l’università “trasformata com’è da scuola delle élites a scuola di massa” deve offrire
ai propri allievi quella cultura che “lo potrà abilitare ad assolvere nella società di
domani funzioni più o meno elevate , ma comunque confacenti alle sue attitudini
ed alle sue più legittime aspirazioni.” Si evince allora, come diretta conseguenza che
se da un lato gli ordinamenti universitari devono essere resi “liberi ed elasti-ci per
modo che possano venire sempre e prontamente adattati alle più mutevoli
esigenze” dall’altro si provveda, nei “più diversi livelli di forma-zione intellettuale e
di preparazione professionale”, a fornire alla sempre più “rapida e sorprendente”
richiesta di competenze professionali da parte della società. Ciò che stupisce ancor
più è l’attenzione già vivissima per una soluzione che possa “permetterci di
14
affrontare i problemi del Mercato Comune Europeo, evitando che i nostri giovani si
trovino in condizioni di inferiorità rispetto a quelli di altre nazioni della Comunità
Europea.” Lo spirito europeo è dunque “la condizione essenziale di questo
movimento verso l’unità” perché l’Europa diviene ogni giorno più la patria comune
di tutti i popoli che la compongono, incrollabilmente legati ai valori spiritua-li e
morali che costituiscono il loro patrimonio comune.” Senza dilungare troppo questa
digressione, vale la pena di concludere come l’attenzione di Gustavo Colonnetti per
la “dimensione continentale europea” sia vista co-me una soluzione per una società
in cui “il progresso tecnico sta creando nuovi e sempre più ardui problemi che
soltanto i tecnici potranno risolvere”. La sua fiducia positiva nella tecnica non deve
peraltro fuorviare dalle conclusioni perché, come già accennato nelle prime battute,
è proprio la “cultura umanistica” a guardare all’uomo nella sua totalità, senza
pretendere che i problemi siano risolvibili da proprio interno, in maniera autonoma,
chiusa. Colonnetti parla infatti di cultura “umanistica” e non di una cultura classica
imbevuta di passatismo, ma quei contenuti capaci di esprimere “le voci che nel
frastuono della vita moderna, esprimono i sentimenti, le aspirazioni, le speranze dei
nostri contemporanei, sentimenti, aspirazioni e speranze su cui siamo chiamati a
costruire la nuova civiltà.”
Nelle scuole di ingegneria, da alcuni anni nuovi scenari si prospettano: le maggiori
attenzioni alla gestione delle risorse piuttosto che non alla progettazione e alla
costruzione dei beni materiali sono in molti casi i paradigmi nuovi che sono imposti
dalla società, che evolve rapidamente anche in virtù delle innovazioni tecnologiche
nel settore dell’informazione. Dalla scuola secondaria, all’orientamento per gli studi
superiori, alla formazione universitaria, sino a quella di terzo livello, e ancora oltre
in un continuum di educazione permanente parallela all’attività professionale si deve
riconoscere, oggi, che la scuola — ed in particolare la scuola professionalizzante,
direttamente interagente con il mondo produttivo (in senso lato) — non è una realtà
parallela e preparatoria alla vita sociale, ma intrinsecamente è nella vita sociale.
In questa dimensione anche l’ingegnere gestionale (che non è un ingegnere che
conosce l’economia e qualche altra disciplina affine) deve essere progettato con
nuovi paradigmi, che non devono risultare la brutta copia di ciò che già esiste, ma
piuttosto proporre, in accordo con chi meglio conosce la realtà del mondo
produttivo e dei servizi, nuovi strumenti epistemologici di realtà che non possono
non definirsi tecnologiche, ma in cui la componente “umana”, e perciò per sua
natura non esclusivamente razionale, è la chiave di volta del sistema.
L’orientamento universitario dei giovani che si affacciano al mondo dell’università e
degli studi superiori sarà sempre più il dovere sociale (e culturale) di una classe di
docenti che non potrà esimersi dall’assumere un ruolo “politico” di fondamentale
importanza. L’illusione di “nuove tecnologie”, la deregulation delle strutture sociali
nella gestione dei servizi e nuove dinamiche nella politica di nuovi sistemi sociali,
apriranno certamente in un futuro assai prossimo scenari in cui sempre meno
saranno richiesti gli ingegneri tradizionali. “Facile, troppo facile, inutile” è la frase
che spesso capita di ascoltare quando due culture si scontrano, ed il passato, che ha
consolidato le proprie basi e istituzionalizzato i propri saperi, sorride di fronte alle
ingenuità di chi non sa ancora bene quale sarà il proprio futuro.
15
I miti del vecchio millennio dovranno riesaminare molte concezioni radicate nelle
coscienze e nella società e riconsiderare che proprio le risorse umane e le risorse
culturali saranno al centro di dispute della cui “violenza” è facile non dubitare.
A questo punto è necessario guardare alla conclusione, non dimenticando le
interconnessioni che si debbon instaurare tra industria e scuola. Ciò che sinora non
ha funzionato è il nesso di fiducia reciproca. I sistemisti riconoscerebbero in ciò il
tipico comportamento di una realtà “stiff” ossia rigida: in essa la presenza di due
sottosistemi, fortemente interallacciati, ma caratterizzati da dinamiche con costanti
di tempo assai diverse, genera tensioni che spesso impediscono un proficuo
trasferimento dei “segnali” (questo è il termine tecnico dei sistemisti), qui diremmo
della conoscenza.
I tempi della scuola viaggiano con le epoche biologiche della vita e — per parlare in
termini concreti e forse anche un po’ riduzionistici —ruotano intorno a costanti
dell’ordine delle decine di anni; i tempi dell’industria sono regolati dalla vita media
dei beni di consumo che spesso non superano la durata di alcuni mesi. Mettere
d’accordo queste due realtà spesso significa lasciare spazio all’altro e all’altrove,
perdere in centralità, dimenticare le illusioni di autoreferenzialità: in questo modo,
ma non dimenticando che la scuola deve soprattutto produrre e trasferire cultura (e
non profitti) e che l’industria deve invece creare lavoro e profitti (e non per questo
proporsi come unico e vero attore culturale), si potrà pensare ad una società capace
di far fronte alle sfide di un millennio che si presenta carico di inquietanti
interrogativi.
Quando alla fine degli anni venti Francesco Mauro scrisse le sue Osservazioni di un
ingegnere negli Stati Uniti d’America (ENIOS, Milano, 1929) e propose alla giovane
società industriale italiana il modello scientifico dell’organizzazione del lavoro si era
ancora in pieno ottimismo positivista e la fiducia nella iperrazionalità degli ingegneri
doveva ancora scontrarsi con molte delusioni. Le profonde istanze illuministiche
della Veritas et Utilitas (non per nulla motto della Accademia delle Scienze di Torino
fondata da scienziati ma anche da tecnici verso la metà del Settecento) nella cultura
statunitense (che prelude al consumismo di massa, ma anche ai totalitarismi di
questo secolo) diviene Beauty and Utility. Perché non preoccuparsi?
Luciano Gallino così conclude la voce “tecnici” nel «Dizionario di sociologia»
(Torino 1993):
Funzione e ideologia dei tecnici, e con essi la loro omogeneità di classe, sono
rafforzati dalla formazione scolastica che ricevono, tramite gli istituti tecnici, le
facoltà di ingegneria e altre scuole di indirizzo tecnico-scientifico. L’insegnamento
impartito in tali scuola ipostatizza il ruolo storico dei tecnici, rendendo
virtualmente impossibile a chi vi è esposto per molti anni di concepire la propria
funzione in una luce diversa, non di depositari esclusivi del sapere tecnico, ma di
istruttori, consulenti, educatori scientifici di gruppi di la voratori. Il solo paese a
tentare una revisione deliberata in tal senso del ruolo dei tecnici è stata forse la
Cina, ma date le scarse informazioni disponibili è difficile dire con quale esito. Si
ritiene che il suo limitato sviluppo industriale e tecnologico renderebbe poco
istruttive per l’Occidente anche le innovazioni che mostrassero di riuscire.
16
L’esperimento — di cui lo scrivente è anche in parte responsabile —
dell’introduzione, a titolo sperimentale, di un “pacchetto” di corsi di “Scienze
Umane”5 per gli allievi ingegneri del Politecnico di Torino vuole essere invece un
primo tentativo innovativo e controcorrente di fronte ad una professione il cui
futuro si giocherà sempre di più sulle frontiere multilingue e multiculturali: non
all’interno di superspecializzati edifici senza finestre. Per la risposta a questa sfida
non si deve però soltanto aspettare.
5 Nell’anno accademico 1997-98 al Politecnico di Torino, per la prima volta in una Facoltà di
Ingegneria italiana, sono state attivate discipline di “scienze umane” ed in particolare: Propedeutica filosofica,
Il metodo scientifico, Sociologia del lavoro, Sociologia delle comunicazioni di massa, Storia della tecnica. L’offerta è
stata proposta agli studenti in libera sostituzione di una delle materie di indirizzo. L’iniziativa, pur
tenendo conto del ristretto lasso di tempo lasciato alla variazione dei piani di studio, ha visto già
l’adesione di circa duecento studenti, per questo primo anno di sperimentazione.
17
L’ingegnere gestionale al Politecnico di Milano.
Dalla specializzazione industriale
alla specializzazione aziendale
Gian Carlo Cainarca
Dipartimento di Economia e Produzione, Politecnico di Milano
La divisione del lavoro è funzione dell’estensione del mercato.
Adam Smith
Infine i campi di validità della meccanica classica e di quella quantistica possono essere
delimitati uno rispetto all’altro proprio secondo questo punto di vista: la fisica classica
rappresenta quella tendenza alla conoscenza della natura, in cui noi cerchiamo essenzialmente di
arrivare a conclusioni su fatti obiettivi partendo dalle nostre percezioni, e perciò rinunciamo a
considerare l’influenza esercitata da ogni osservazione sul fenomeno osservato; la fisica classica
trova perciò il suo limite proprio nella fase in cui non si può prescindere dall’influenza
dell’osservazione sul fenomeno. La meccanica quantistica, al contrario, sconta la possibilità di
trattare fenomeni atomici con la rinuncia parziale a descriverli nello spazio e nel tempo e a
obiettivarli.
Werner Heisenberg
Dall’inizio degli anni novanta, nonostante la recentissima costituzione, il corso di
laurea in ingegneria gestionale registra ogni anno oltre 2mila immatricolazioni. La
rapidità con cui si afferma l’ingegneria gestionale è plausibilmente il risultato sia del
tradizionale credito di cui gode l’immagine professionale dell’ingegnere, sia della
rispondenza delle sue peculiari competenze alle nuove esigenze del tessuto
economico- industriale. Nel manifesto degli studi si legge che il corso di Laurea in
Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano
si prefigge di rispondere alla necessità di formare ingegneri preparati a svolgere
funzioni di progettazione e gestione di sistemi complessi, e dotati di una visione
d’insieme che assicuri coerenza delle scelte tecnologiche con la strategia aziendale e
con il contesto del settore industriale di appartenenza.
A tal fine vengono esplicitati i tre tratti che caratterizzano il profilo professionale:
— l’approccio ingegneristico ai problemi;
— la capacità di integrazione; ad indicare l’attitudine ad unire competenze di carattere
tecnologico e gestionale, di comprendere le modalità di funzionamento dei sistemi
produttivi, dei sistemi logistici e delle diverse aree della gestione aziendale;
— la trasversalità dei contenuti del piano formativo; a cogliere la potenziale capacità
dell’ingegnere gestionale ad adattarsi a imprese di ogni dimensione, operanti in
settori differenti, siano esse nazionali o multinazionali.
L’ingegnere gestionale si configura quindi come la versione attualizzata di una
figura professionale — quella dell’ingegnere — finalizzata a fronteggiare problemi
specifici la cui soluzione implichi il ricorso all’applicazione e la gestione delle
18
tecnologie corrispondenti. In ordine temporale l’ingegnere gestionale rappresenta
quindi l’ultimo esempio di scelta di specializzazione dell’ingegnere, ovvero di
delimitazione ed approfondimento di problemi specifici e delle corrispondenti
soluzioni, in altri termini costituisce l’ennesimo risultato di quella dinamica che
presiede alla differenziazione professionale che Francesco Brioschi pone alla base
della fondazione del Politecnico. Il Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano
secondo Brioschi
doveva cioè essere una scuola speciale, diversa dall’università tradizionale,
sufficientemente autonoma per poter perseguire, in modo flessibile e tempestivo
con le esigenze nuove, i suoi obiettivi: coltivare la nuova cultura tecnico-scientifica
necessaria alla nascente società industriale e formare quella classe di tecnici
necessari al suo sviluppo. Questi non dovevano essere più generici, ma dovevano
unire una vera capacità applicativa [...] a una lunga competenza metodologica e
scientifica di base: una formazione opportunamente specializzata in settori di
attività concrete doveva condurre allo sviluppo di queste capacità, come
mostravano gli esempi europei. (Stracca 1981)
L’impresa — quale insieme di risorse di varia natura, umane e tecnologiche —
assurge ad oggetto della specializzazione dell’ingegnere gestionale in ragione dei
livelli crescenti di complessità che ne caratterizzano l’evoluzione nella seconda
metà del secolo. A richiedere un approccio sistemico è la stessa natura tecnologica
dei problemi che l’impresa deve fronteggiare. La tecnologia non costituisce più un
“patrimonio” di conoscenze circoscritte esclusivamente alla progettazione ed allo
sviluppo del prodotto, ma pervade l’intera vita dell’impresa, divenendo parte
integrante della sua gestione e, più in generale, della sua strategia. Il passaggio
dall’innovazione di prodotto a quella di processo se da un lato consente all’impresa
di fronteggiare ambienti più complessi, dall’altro lato segna un incremento della
complessità interna che, a propria volta, impone lo sviluppo di nuove competenze e
di nuovi profili professionali. La tecnologia cessa di essere conoscenza incorporata
nel prodotto per divenire il tessuto vertebrante dell’impresa e quindi, non
infrequentemente, invertire l’ordine di priorità delle conoscenze richieste
all’ingegnere; il contributo apportato dalla nuova figura professionale alla
competitività dell’impresa si manifesta attraverso la capacità di sfruttare la propria
cultura tecnologica nel progettare e gestire il sistema impresa, piuttosto che nel
progettare un prodotto — tuttora dominio dell’“ingegnere-scienziato” — tenendo
conto della sua fattibilità economica.
Rispetto alla figura tradizionale gli elementi di “discontinuità” dell’ingegnere
gestionale sono più apparenti che reali e, forse paradossalmente, sostanziano la
continuità con il modello che identifica nell’ingegnere una figura professionale
fortemente specializzata. Anche nel caso dell’ingegnere gestionale le convinzioni di
Brioschi per cui non si deve “far precedere la Scuola all’Industria” mostrano di
rispecchiare sostanzialmente il principio Smithiano che lega la divisione del lavoro
— cioè la specializzazione — alle dimensioni del mercato. Non essendo questo il
luogo per comparare sviluppo industriale ed evoluzione della figura dell’ingegnere
in paesi diversi al fine di evidenziare natura e direzione delle reciproche influenze, il
lavoro si propone di evidenziare come la continuità professionale dell’ingegnere
19
gestionale discenda dalla condivisione del processo di formazione piuttosto che dal
riscontro del ricorrere nel tempo di contenuti economici nella sua formazione; in tal
senso, volendo interpretare la specializzazione quale discontinuità, questa è
riscontrabile proprio nel passaggio dal trasferimento di competenze non
tecnologiche, atte ad “estendere la cultura dei giovani” (Selvafolta 1981), alla
formazione di profili professionali che alla padronanza di tali competenze legano la
propria ragion d’essere.
Ancor prima di tratteggiare il ruolo che il mondo universitario da un lato e quello
industriale dall’altro svolgono nella creazione dell’ingegnere gestionale si rende
necessaria una premessa “metodologica”. Data l’ancor breve esistenza
dell’ingegneria gestionale, è plausibile pensare che l’osservazione di tale esperienza
risenta dei limiti che Werner Heisenberg — nel caso dei fenomeni fisici — ha
formulato nel principio di indeterminatezza, cioè che la possibilità di cogliere la
portata storica del carattere di novità introdotta nella figura professionale
dell’ingegnere risulti fortemente influenzata dalla prossimità temporale dell’evento.
D’altro canto la possibilità di raccogliere informazioni direttamente dai neoingegneri gestionali offre lo spazio per tratteggiare un quadro, pur tentativo, della
consistenza nonché della rilevanza dell’ingegneria gestionale. A partire
dall’ennesimo tentativo di coniugare — o, più semplicemente, accostare —
riscontri del passato ed evidenze del presente, le pagine che seguono si propongono
il compito di dar ragione della specificità della figura dell’ingegnere gestionale e
della rispondenza di quest’ultimo alle “esigenze” del tessuto economico-industriale.
Per quanto detto l’analisi non presenta alcuna carattere di generalizzabilità sia
perché la limitata disponibilità di dati di comparazione impone ovvie precauzioni
nell’utilizzo delle informazioni, sia perché le considerazioni poggiano
esclusivamente sulle impressioni dei neo-ingegneri gestionali e non possono che
prescindere dalle valutazioni dirette delle imprese. Il lavoro si articola quindi in due
parti logicamente distinte: ad una sintetica ricostruzione del ruolo attribuito alla
formazione manageriale dell’ingegnere e della successiva nascita del corso di laurea
in ingegneria gestionale del Politecnico di Milano segue la tentativa descrizione del
successo dell’ingegnere gestionale tramite l’analisi dei percorsi di carriera dei
laureati presso l’Ateneo milanese.
2. L’ingegnere gestionale al Politecnico di Milano
Nel 1994, anno che chiude il periodo qui preso in considerazione per lo studio
dell’Ingegneria gestionale, il Politecnico di Milano registra l’iscrizione di 591
matricole — cioè oltre il 26% degli aspiranti ingegneri gestionali italiani e circa il
12% dei nuovi iscritti alla Facoltà milanese — e laurea 375 dottori in ingegneria
gestionale — dato che equivale al 75% degli ingegneri gestionali italiani ed al 19%
dei neo ingegneri milanesi.
I dati citati offrono un indubbio riscontro dello sviluppo che il corso di laurea in
Ingegneria gestionale ha registrato nella sua pur breve storia. Ciò che rimane da
raccontare è come il progetto prenda le mosse e come la sua evoluzione si inserisca
nella tradizione che vede l’ingegnere dar vita a processi di “specializzazione”
coerenti con l’esigenza di competenze manifestata dallo sviluppo industriale6. In tal
A tal proposito Brioschi affermava “che se le scuole non hanno mai creato alcuna industria, esse
sono per le industrie già esistenti e per le affini un potente mezzo di sviluppo e di progresso [...]. Fedeli
6
20
senso la novità del nome non deve fuorviare: anche l’ingegnere gestionale nel suo
complesso non sfugge alla “visione del mondo” che caratterizza la figura
dell’ingegnere. L’“adeguamento” tecnico-scientifico rappresenta in effetti il tratto
peculiare del nuovo ingegnere per cui anche nel caso di quello gestionale si può dire
con il Calcagno (1996):
che le “metamorfosi” dell’ingegnere — in un instabile equilibrio tra continuità e
cambiamento — sono un elemento che caratterizza permanentemente la sua figura
(e la sua immagine), e quindi tutta la sua storia” [...] con riferimento al nuovo
ingegnere “potremmo dire che il mutamento è l’autentica invarianza dell’ingegnere,
perlomeno dalla prima rivoluzione industriale in poi.
Sulle ragioni di tale “specializzazione”, l’ipotesi che appare più verosimile — e
quindi la meno originale — è che il nuovo corso di Laurea rappresenti una volta di
più il risultato del concorso di più fattori fra loro non infrequentemente in
concorrenza, piuttosto che la realizzazione di un progetto “ingegneristico”. In tal
senso alla competizione fra scuole di pensiero per l’egemonia culturale si
sovrappongono le variabili esogene dell’ambiente ove alle esigenze — reali o
presunte — dell’industria si contrappongono i tempi e talvolta le imperscrutabili
ragioni della burocrazia ministeriale.
2.1. La formazione manageriale dell’ingegnere
Fra le ragioni del “successo” dell’ingegnere gestionale dell’Ateneo milanese un
ruolo importante è attribuibile al rispetto della tradizionale formazione
dell’ingegnere. In particolare due “eredità” assumono un rilievo peculiare:
— l’orientamento a sviluppare una figura specialistica destinata a progettare o
gestire l’impiego di una tecnologia specifica o, in altri termini, rivolta
all’applicazione di quanto prodotto dalla ricerca in determinate discipline
scientifiche7;
— l’importanza attribuita alle discipline economiche, i cui corsi — al di là delle
“fortune” contingenti — fanno parte del bagaglio culturale dell’ingegnere milanese
sin dalla nascita del Politecnico8.
Pur rappresentando entrambi gli aspetti dei reali “contenuti” della figura
professionale è cionondimeno possibile identificare prioritariamente nel primo la
continuità del processo formativo, che consente di accomunare tutti i profili
dell’ingegnere moderno al di là della specializzazione conseguita; e, diversamente,
nel secondo il prevalere delle contingenze a rispecchiare la storia delle valenze
attribuite alle “competenze peculiari”. La trasformazione nel tempo di queste
ultime in oggetto di specializzazione formalmente riconosciuta avviene per il
convergere di due processi concomitanti: da un lato la richiesta da parte del tessuto
economico-industriale di “applicazioni” delle conoscenze rese disponibili dallo
sviluppo o dalla creazione di nuove aree di ricerca scientifica e, dall’altro lato, dalla
alla massima di non far precedere la Scuola all’Industria, non credemmo di seguire l’esempio della
Germania, ma di avvicinarci gradatamente ad esso” (in Stracca 1981, p. 83, nota 2).
7 Esemplare di tale impostazione l’affermazione di Theodor Von Karman per il quale “lo
scienziato descrive quel che c’è: l’ingegnere crea ciò che non c’era mai stato”.
8 In tal senso, fra gli insegnamenti impartiti il Regio Decreto di istituzione dell'Istituto Tecnico
Superiore di Milano del 13 novembre 1862, include Economia industriale ed agricola, Elementi di diritto
amministrativo e giurisprudenza agricola.
21
“spinta” esercitata da coloro che all’interno dell’università svolgono la ricerca in
una delle sue innumerevoli forme 9. Le competenze che caratterizzano l’ingegnere si
configurano in altri termini come il temporaneo conseguimento di un punto di
equilibrio fra la specializzazione del suo sapere e l’esigenza di “estendere la cultura
dei giovani”.
L’instabile equilibrio fra continuità e cambiamento che connota l’ingegnere
(Calcagno, 1996) si ripropone quindi a livello di definizione delle competenze nella
costante ricerca del “corretto” livello di specializzazione. In tal senso, da un lato
Brioschi pone alla base della nascita del Politecnico di Milano
la differenziazione dei percorsi formativi dei futuri ingegneri per rispondere alle
esigenze del mercato e l’esigenza di stare al passo coi <grandi progressi delle
scienze applicate> e nel <modificare in relazione ai medesimi l’indole e
l’estensione dell’esercizio> della professione (Lacaita, 1986);
dall’altro Colombo sostiene che
bisogna dunque che la scuola si limiti ad insegnare quelle materie che servono di
fondamento o di avviamento alle applicazioni [...] se si volesse fin dal principio
suddividere l’insegnamento in altrettante sezioni speciali quanti sono i rami
dell’ingegneria [...] questa specializzazione [...] sarebbe tutta a danno della cultura
generale e tecnica del giovane10.
Per quanto attiene la natura delle materie atte ad “estendere la cultura dei giovani”,
economia compare fra le discipline impartite all’ingegnere sin dalla fondazione del
Politecnico di Milano. Cionondimeno, come traspare dalla sintesi di Tab. 1,
l’insegnamento delle materie economiche, gestionali e giuridiche che viene
impartito all’interno dei corsi di laurea in ingegneria è oggetto di frequente
ridefinizione, sia in termini di ampiezza sia di approfondimento, il cui risultato è la
trasformazione di queste ultime in corsi “non fondamentali” prima e
successivamente, negli anni cinquanta, in facoltativi.
Esemplare il costante ridisegno delle conoscenze economiche e giuridiche impartite
all’ingegnere industriale tra la fondazione del Politecnico ed il 1945. Con l’inizio del
nuovo secolo i corsi di Economia industriale, Economia politica e Materie
9 In altra forma Luigi Dadda, Rettore del Politecnico di Milano durante gli anni Ottanta, sostiene:
“L’introduzione di un nuovo corso corrisponde all’emergere di una nuova disciplina, generalmente come
sviluppo di temi, precedentemente costituenti una parte soltanto di un altro corso e cresciuti di
importanza e complessità fino a doverli riconoscere sufficienti a giustificare un corso ad hoc” (Dadda,
1984)
10 Esempi emblematici della portata del dibattito sul tema della specializzazione possono essere
ritrovati nelle riviste tecniche (Selvafolta 1981). Da un lato, si ricorda Pareto ed i richiami ai principi della
divisione del lavoro. Dall’altro, l’intervento di Calisse sulle pagine de "L’Industria": "Le scuole degli
ingegneri sono venute così di mano in mano declinando: si sono moltiplicati gli insegnamenti speciali
con aggravio penoso delle giovani menti, le quali mangiano e non digeriscono: si danno cognizioni
singole e staccate in numero infinito, che, tutte utilissime, riescono poi per la massima parte inutili,
poiché nella vera pratica ogni ingegnere si serve di ben poche; si è formato tutto un indirizzo, per il quale
gradatamente si tende a confondere l’ingegnere con il capo-tecnico [...]. Mentre tutti si sono sforzati di
acquistare una sempre più larga coltura, anche nei limiti professionali, per poter meglio figurare nel
mondo [...]: si è voluto ed ottenuto, che gli ingegneri restringessero sempre più il loro angolo visuale, che
si circoscrivessero entro i rigidi limiti del tecnicismo materiale, che rimanessero fuori delle correnti di
pensiero e di cultura, che animano la vita sociale"; (Calisse, 1918).
22
giuridiche si riducono a due, Economia politica e industriale e Materie giuridiche;
con l’anno accademico 1912-’13 queste ultime a loro volta si fondono in un unico
corso il cui titolo — Economia politica e industriale e materie giuridiche —, rimarrà
invariato sino al 1926 quando si trasformerà in Economia politica e industriale.
Successivamente — nel 1936 — il corso assume la nuova dizione di Materie
giuridiche ed economiche I che, con la successiva introduzione del 1938 di Materie
giuridiche ed economiche II, sembra precludere ad un rinnovato interesse per la
formazione economico-aziendale dell’ingegnere.
Anche in questo caso è utile rilevare come ai riorientamenti del Politecnico
corrispondano alcuni eventi che caratterizzano l’evoluzione socio-culturale del
Paese. In particolare due “coincidenze” storiche meritano di essere ricordate. La
prima è rappresentata dal decreto Credaro del 1913 che, introducendo la distinzione
fra esami di base e complementari, amplifica la tendenza alla progressiva
marginalizzazione degli insegnamenti economici avviatasi con l’orientamento ad
accentuare la specializzazione “tecnologica” dell’ingegnere. La seconda
“coincidenza” — temporalmente identificabile con l’attivazione nel 1934 presso il
Politecnico di Milano del “Corso per Dirigenti di Azienda” organizzato da Mauro
— è riconducibile ad un intreccio di eventi quali, da un lato, il decreto del 1927 che
sancisce la nascita delle scuole a fini speciali11 e, dall’altro, il riaccendersi del
dibattito sul ruolo dell’ingegnere nell’impresa che culmina nel 1933 con la scelta
dell’Associazione Nazionale Fascista dei Dirigenti di Aziende Industriali di
sostenere la creazione di “corsi annuali di applicazione aziendale” proposta da De
Vito12.
Il clima socio-culturale in cui tali passi maturano è quello che traspare dalle
posizioni di Calisse (1918) che contrapponendosi a chi vorrebbe relegare l’ingegnere
in officina asserisce che
le aziende governate da ingegneri sono quelle che più nobilmente tengono posto nel
campo industriale, e che nelle attuali circostanze meglio hanno corrisposto alla
fiducia del Governo e del paese,
o dello stesso Francesco Mauro che
già nel 1928, nel tentativo di sopperire a quella che sembrava una lacuna sempre
più grave nella preparazione dei moderni ingegneri, aveva avviato un corso
facoltativo di organizzazione di circa dieci lezioni centrato sulla organizzazione
scientifica nell'economia aziendale (Fauri, 1997)
e, successivamente, delinea quali competenze necessarie all’ingegnere
11 Il ruolo di formazione “complementare” svolto dalle scuole a fini speciali è reso esplicitamente da
Stracca (1981) che le descrive come “un mezzo per venire incontro alla difficile esigenza [..] di contenere in
soli cinque anni la sempre più estesa gamma di conoscenze specialistiche che si richiedevano agli
ingegneri”.
12 Per una disamina del ruolo svolto da Mauro nello sviluppo della formazione manageriale degli
ingegneri e, più in generale, delle iniziative a tal fine adottate al Politecnico di Milano si rimanda a Fauri
(1997)
23
le matematiche; le nozioni essenziali della fisica, della chimica, della biologia, della
geologia e della geografia [...] i fondamenti dell’economia e la loro estrinsecazione
nell’industria e nel commercio; i principi che governano le relazioni tra gli uomini,
non soltanto tra la direzione e gli impiegati di un’azienda ma anche tra il governo ed
i cittadini di una nazione; la storia dei popoli; l’arte di una chiara e corretta
espressione nel parlare, nello scrivere e nel disegnare (Mauro, 1938).
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale il dibattito sulle competenze
economiche dell’ingegnere evidenzia prese di posizioni altrettanto favorevoli da
parte di componenti del mondo accademico e di quello universitario, cionondimeno
l’esigenza di profili altamente specializzati manifestata da settori nascenti quali
quelli aeronautico, elettronico e delle comunicazioni elettriche e nucleare conduce
all’attivazione dei corrispondenti corsi di laurea ed all’ennesima ridimensionamento
del ruolo delle materie economiche. Se da un lato gli insegnamenti di Materie
giuridiche ed economiche I e II divengono facoltativi con l’attivazione delle nuove
Lauree nel 1956, dall’altro lato l’esigenza per l’ingegnere di acquisire competenze
manageriali — anche sul modello di quanto avvenuto all’estero e, in particolare,
negli Stati Uniti — viene argomentata da più parti. Guido Corbellini nella
prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico 1952-1953 — il cui titolo
“Tecnologia e sociologia nella formazione dell’ingegnere” è di per sé esplicativo —
sostiene che l’ingegnere deve
assolvere al compito delicato e preminente di trovare la condizione di equilibrio dei
tre fattori essenziali della produzione che sono costituiti dall’idea creatrice
permeata di conoscenze scientifiche, dalle possibilità finanziarie ed economiche che
la rendono attuabile, e infine, dallo sforzo fisico ed intellettuale dei collaboratori a
cui spetta il compito di dare forma concreta all’opera progettata,
per cui gli insegnamenti a lui destinati “non possono trascurare questo complesso di
necessità”.
Nondimeno, nelle conclusioni, dopo aver premesso che nell’attuare riforme
nell’insegnamento superiore “occorre sempre andar molto cauti e soprattutto
procedere per gradi”, afferma che “la formazione dei futuri ingegneri dirigenti di
aziende dovrebbe in un primo tempo ottenersi dopo completati gli studi generali
scolastici attuali“. Su presupposti analoghi nel 1953 viene creata una commissione
ad hoc per valutare l’introduzione di Economia ed organizzazione aziendale nel
piano di studi degli ingegneri. La commissione che, oltre al Direttore del Politecnico
ed al Preside della Facoltà di ingegneria, comprende fra gli altri Luigi Morandi,
Adriano Olivetti e Pasquale Saraceno “riconosciuta la impossibilità di aggravare
ulteriormente il curriculum degli studenti, si è orientata verso la soluzione di
inserire fra gli insegnamenti a scelta un insegnamento annuale di Economia ed
organizzazione aziendale”.
Il corso di Economia ed organizzazione aziendale assume comunque un’importanza
particolare nella storia della formazione manageriale dell’ingegnere in quanto nel
decennio successivo diverrà obbligatorio per gli allievi elettronici e solo pochi dopo
diverrà il punto di partenza per lo sviluppo di un primo nucleo di ingegneri
impegnati nella ricerca nei campi dell’economia e della gestione d’impresa. In attesa
24
che i tempi maturino il corso viene tenuto da Roberto Tremelloni — che divenuto
Ministro si farà coadiuvare da Luigi Guatri — e viene finanziato da IRI e Comitato
Nazionale per la Produttività 13.
2.2. La specializzazione manageriale dell’ingegnere
L’autorizzazione ministeriale che consente la modifica dello Statuto e la
conseguente nascita del corso di laurea in Tecnologie industriali ad indirizzo
economico-organizzativo perviene ad Emilio Massa — allora Preside della Facoltà
di Ingegneria del Politecnico di Milano — nell’ottobre del 198114; predisposto il
Manifesto degli Studi, con l’Anno Accademico 1982-1983 la formazione della
nuova figura di ingegnere proposta dal Politecnico prende il via.
L’approvazione ministeriale rappresenta comunque solo il sigillo — pur
imprescindibile — di un processo di maturazione che vede la convergenza sia delle
forze interne al Politecnco che di quelle esterne del tessuto economico industriale.
Volendo datare l’avvio della nuova specializzazione dell’ingegnere, si possono
collocare negli anni sessanta i primi segnali dell’esigenza di sviluppare profili
professionali alternativi a quelli tradizionali. In particolare sul versante industriale
uno dei segnali forti è quello che giunge dal convegno su “Rapporti tra Università e
Industria” indetto nel 1960 dalla Confederazione Generale dell'Industria, ove viene
denunciata l’insufficiente preparazione economico-giuridica dell’inge-gnere e la sua
scarsa attitudine a organizzare il lavoro altrui, a programmare ed a dirigere.
Nel 1962 all’interno del XII Convegno nazionale degli ingegneri italiani quanto
espresso dal mondo industriale diviene lo spunto di un più ampio dibattito che
finisce per investire il profilo professionale dell’ingegnere e la connessa possibilità di
coniugare attese dell’impresa e competenze acquisite nelle aule universitarie. Gino
Bozza (1962) riconduce la mancanza di ingegneri manifestata “nelle grosse
industrie” alla convinzione che in generale siano “utilizzati in posti in cui la loro
capacità non è sufficientemente sfruttata”, e che la ragione di ciò debba essere
addotta alla “carenza di tecnici intermedi ben preparati, al posto dei quali molto
spesso veniva posto un ingegnere”. Agostino Capocaccia (1962), dopo aver
convenuto sulle critiche mosse dal mondo dell’industria, avanza l’ipotesi che le
attese di quest’ultimo potrebbero trovare risposta tramite un articolato ridisegno
della formazione professionale. La carenza di tecnici intermedi può essere risolta o
ampliando i corsi delle medie superiori o creando “speciali Istituti Tecnologici
Superiori, di livello universitario [...]. Detti istituti dovrebbero sorgere a sé stanti,
preferibilmente a lato di Facoltà di Ingegneria già funzionanti.”
La riproposizione da parte di Capocaccia dell’orientamento a “estendere la cultura
dei giovani” assume in questo caso un rilievo particolare in quanto, pur
manifestando il proprio scetticismo ed il proprio disaccordo, affronta l’argomento
del profilo di un ingegnere “nuovo”. In tal senso, egli da un lato non nasconde le
13 Che i tempi siano in un certo senso prematuri lo conferma il contenuto di una lettera inviata nel
febbraio del 1955 da Gino Cassinis, rettore del Politecnico in quegli anni, ad Ivan Lombardo, presidente
del Comitato Nazionale per la Produttività. Nella missiva, oltre alla richiesta di finanziamenti per il corso
di Economia ed orgamizzazione, è possibile leggere “che il Corso è strettamente connesso con i
programmi di produttività e che da questi ne abbiamo tratto l’ispirazione: in realtà esso rappresenta
l’inizio di un piano più vasto che affronteremo non appena avremo non solo i mezzi materiali per
attuarlo, ma — ciò che è assai più difficile — gli uomini per dargli serietà e la consistenza indispensabili”.
14 Per l’attuale dizione “Ingegneria Gestionale” occorrerà attendere il 1988 quando la Commissione
Ministeriale Nazionale approverà la nuova Laurea inserendola in ambito intersettoriale
25
difficoltà nel “conciliare nel giovane le due formae mentis del tecnico puro e
dell’economista”, e dall’altro lato afferma che
per quanto attiene più specificatamente all’auspicato insegnamento di discipline
aziendali, mi permetto riconfermare quanto già esposto in altre occasioni e cioè
l’opportunità che esse vengano inquadrate in corsi di specializzazione post-lauream e
che a tali corsi l’ammissione avvenga attraverso rigorosa selezione. (Capocaccia,
1962)
Il riscontro dell’esistenza di un mutato livello del dibattito sulle direzioni da seguire
nel definire il profilo dell’ingegnere all’interno del Politecnico, è inoltre testimoniato
dai diversi orientamenti manifestati nei differenti corsi di laurea. All’interno del
corso di laurea in Ingegneria elettronica, il primo a dare segnali di “riapertura
culturale”, vengono compiuti due passi particolarmente significativi: rendere
obbligatorio Economia e organizzazione aziendale a partire dall’anno accademico
1962-1963, e, successivamente, investire in ricerca su temi economici ed aziendali,
nonché nel correlato sviluppo interno di ricercatori 15.
All’inizio degli anni settanta è già presente all’interno dell’Istituto di Elettrotecnica
ed Elettronica un piccolo nucleo di ingegneri che pone al centro della propria
attività didattica e di ricerca le tematiche economiche ed organizzative16. I corsi
iniziano a moltiplicarsi e ad Economia ed Organizzazione aziendale si sostituiscono
Organizzazione aziendale e Gestione aziendale, mentre Economia politica e
industriale viene sostituito da Istituzioni di economia.
Per quanto concerne l’area dell’ingegneria meccanica, ove più antica è la tradizione,
si è in presenza di un quadro storico articolato. Da un lato non si può prescindere
dall’esperienza di Francesco Mauro con il corso per dirigenti di azienda, e dall’altro
occorre registrare il deciso ridimensionamento delle materie economiche e
gestionali. Seppur parzialmente il ridimensionamento viene limitato negli anni
sessanta dall’introduzione di un corso complementare di Ergotecnica fortemente
voluto — quasi imposto — dalla vedova Mauro che, in tal modo, intendeva dare
continuità all’opera del marito. Il corso analogamente al Gabinetto di Ergotecnica,
cui era associato, riduce progressivamente l’originaria focalizzazione
sull’organizzazione del lavoro secondo l’ottica Taylorista per approfondire
tematiche quali quelle connesse alla progettazione ed alla gestione dei sistemi di
produzione, con una particolare attenzione alle implicazioni per il fattore umano.
Le concomitanti pressioni esercitate dal mondo industriale e da una “massa
crescente” di ricercatori interni al Politecnico iniziano ad orientare la riflessione su
profili alternativi dell’ingegnere. In tal senso, Luigi Dadda (1973) nella prolusione
alla XXXVIII edizione del corso di aggiornamento per dirigenti di azienda
“Francesco Mauro” evidenzia come
15 Un ruolo di rilievo, quale iniziale luogo di aggregazione, è svolto dal Centro di Teoria dei sistemi.
Una riprova delle scelte del Centro è offerta dal contenuto di un missiva del luglio del 1968 che il suo
direttore, Emanuele Biondi, invia al Rettore ed in cui, oltre a reitare la concessione dei fondi che dall’anno
precedente avevano consentito la presenza nel gruppo di uin ricercatore su problemi di organizzazione
aziendale ed economia (Adriano De Maio), illustra le ricerche svolte.
16 Per “anzianità” di servizio si ricordano Francesco Brioschi, Adriano De Maio, Umberto Bertelè e
Claudio Roveda.
26
la presenza di tali corsi [economico-gestionali] rivela una esigenza da tempo sentita
e coltivata, in questo Politecnico, per l’ampliamento dell’insegnamento verso i
settori della produzione e della gestione, ma non rappresenta una soluzione
completa del problema. Questa si avrebbe concependo e realizzando corsi di laurea
differenziati da quelli attuali per un orientamento preciso verso tali settori.
Poco dopo nascono l’indirizzo “Organizzativo-sistemi” del corso di laurea in
Ingegneria Elettronica e l'indirizzo “Impianti” del corso di laurea in Ingegneria
Meccanica. La nascita dei due indirizzi dei corsi di laurea rappresenta la conferma
che i tempi sono “maturi” per nuovi orientamenti. Il successo o il fallimento delle
iniziative che si alternano durante gli anni settanta — all’attivazione di corsi di
perfezionamento o di cultura ai progetti dar vita al corso di laurea in Tecnologie
Industriali e di costituire un Istituto “interdisciplinare” attorno al Gabinetto di
Ergotecnica — segnano il confronto fra le diverse anime dell’area e, di fatto, la
convergenza verso quegli equilibri che presiederanno nel giugno del 1979 all’avvio
della procedura per proporre le variazioni nello Statuto del Politecnico necessarie
all’attivazione del corso di Ingegneria delle tecnologie industriali — ad indirizzo
economico organizzativo.
3. Gli ingegneri gestionali del Politecnico di Milano
Le dimensioni dell’esperienza maturata nell’ultimo decennio (1985-1994) presso il
Politecnico rendono l’analisi relativa ai laureati in ingegneria gestionale
difficilmente assimilabile ad un puro studio di caso. Se dopo poco più di un
decennio gli studenti iscritti alla laurea in ingegneria gestionale assommano in tutta
Italia ad oltre 16mila unità e quelli laureati sono già oltre 2mila, nel medesimo
periodo il Politecnico di Milano ha immatricolato 6.845 aspiranti ingegneri
gestionali e ne ha licenziati 1.237. Pur con le precauzioni ricordate in precedenza, i
dati citati assumono un potere ancor più evocativo quando posti in relazione ai dati
relativi all’intera Facoltà di Ingegneria dell’Ateneo milanese. In tal senso è
sufficiente rilevare come il corso di laurea in Ingegneria gestionale, nel volgere dei
pochi anni che lo separano dalla sua attivazione, sia divenuto nel 1994 uno dei
primi corsi per immatricolazioni ed il secondo per numero di laureati all’anno17.
Se ai fini di una valutazione delle attese degli studenti la numerosità degli iscritti al
corso di laurea costituisce un riscontro diretto dell’ap-prezzamento di questi ultimi
nei confronti della nuova figura professionale, nel caso della rispondenza della
proposta culturale / professionale del Politecnico alle esigenze del tessuto
industriale la risposta può oggi essere colta solo indirettamente attraverso le
valutazioni espresse a tal fine dagli stessi ingegneri gestionali.
Nello specifico la rispondenza alle esigenze del tessuto economico-industriale da
parte della nuova figura di ingegnere “specialista” viene evidenziata attraverso tre
distinti punti di osservazione:
la “domanda” di ingegneri gestionali, la rispondenza delle competenze di questi
ultimi alle attese delle imprese viene letta attraverso la “tempistica” che segna due
scadenze della carriera della nuova figura professionale: l’attesa del primo impiego
ed il conseguimento dello status di dirigente;
Le tabelle in allegato consentono una rilevazione più articolata, oltre che più puntuale, del quadro
tratteggiato.
17
27
la “destinazione”, intesa sia come settore che come funzione d’impiego
dell’ingegnere gestionale, a cogliere l’effettiva poliedricità delle competenze
“sistemistiche” di quest’ultimo;
la “congruenza” fra livello della formazione universitaria fornita e competenze
richieste dall’attività professionale svolta.
Le considerazioni proposte poggiano sulle informazioni ottenute tramite un
questionario sottoposto all’attenzione dei 1.237 ingegneri gestionali laureatisi al
Politecnico di Milano fra il 1985 ed il 1994 ed a cui hanno risposto 414 di essi.
Occorre porre in evidenza come il campione così ottenuto — anche in ragione della
sua numerosità — non presenti alcuna polarizzazione e fornisca una
rappresentazione statisticamente significativa del comportamento degli ingegneri
gestionali sia rispetto alla distribuzione temporale dei laureati sia rispetto a quella
corrispondente ai voti di laurea da questi ultimi conseguiti18.
3.1. La domanda di ingegneri gestionali
Nel 1992 gli ingegneri gestionali laureatisi al Politecnico di Milano sono 183, un
numero la cui consistenza permette di bilanciare almeno parzialmente l’effetto
novità legato alla comparsa ancora recente della nuova figura professionale.
Esaurita tale necessaria premessa i dati riportati nelle tabelle 1 e 2 relativi ai tempi
che intercorrono in media fra il momento della laurea e l’immissione nel mondo del
lavoro evidenziano una notevole attenzione da parte delle imprese nei confronti
dell’ingegnere gestionale. Nell’anno preso come riferimento dalla rilevazione ISTAT
i neo ingegneri gestionali del Politecnico di Milano che hanno trovato un impiego in
meno di un mese sono stati oltre il 32% (ed oltre il 64% considerando un lasso
temporale pari a 3 mesi), porzione di gran lunga superiore a quella rilevata per la
media dei laureati italiani (19,2% che sale a 52,3% per i 3 mesi) e, soprattutto, di
quella registrata per i laureati in economia (mediamente il 17,9% ed il 51,1%) e per
l’insieme degli stessi ingegneri (19,2% e 54,5%).
Una conferma contemporanea della richiesta del mercato del lavoro di nuove
competenze e di una possibile sovrastima da novità e piccoli numeri è offerta dai
dati relativi all’insieme dei laureati in ingegneria gestionale del Politecnico. In tal
senso la suddivisione in due periodi (1985-1990 e 1991-1994) se da un lato mostra
una flessione consistente della percentuale degli ingegneri gestionali che trovano
lavoro in meno di 1 mese (dal 55,8% si scende al 33,6%) dall’altro ribadisce con più
enfasi quanto emerso dal precedente confronto su base annuale; mentre il dato
medio relativo ad un lasso di tempo di 3 mesi risulta ampiamente superiore al 70%,
l’incidenza di coloro che trovano un impiego in un periodo compreso fra il mese ed
i 3 mesi rimane costantemente elevato (33,6%) nell’intero periodo considerato.
Sempre con l’obiettivo di cogliere il rilievo attribuito alla comparsa della figura
professionale dell’ingegnere gestionale, tab. 3 presenta il quadro delle qualifiche
rivestite nel 1995 dai laureati del 1992. I dati sui primi sviluppi della carriera
mostrano — nel caso ve ne fosse bisogno — la condivisione della vocazione
“aziendale” dell’ingegnere industriale che dell’operare all’interno dell’impresa fa il
proprio tratto dominante. Se si escludono gli ingegneri civili — ove l’attività da
libero professionista e quella imprenditoriale costituiscono una tradizione storica
che li accomuna ad alcuni orientamenti delle lauree in economia — quelli
Sempre in allegato vengono riportate la distribuzione sia del campione che dell’universo preso in
considerazione dallo studio.
18
28
industriali confermano la propria vocazione d’impresa ad apportare cioè il proprio
contributo tecnico all’interno dell’azienda. A vari livelli la presenza delle diverse
specializzazioni ingegneristiche all’interno dell’impresa non scen-de mai al di sotto
del 70% e superando il 90% nel caso dei chimici. In questo quadro gli ingegneri
gestionali presentano come tratto peculiare l’elevata quota di qualifica di dirigente;
in tal senso se la rapidità con cui i laureati in ingegneria gestionale trovano impiego
suona a testimonianza delle attese delle imprese rispetto alla proposta di nuove
professionalità, la progressione della carriera particolarmente accelerata (il 2,9% dei
laureati del 1992 è già divenuto dirigente) suggerisce l’“apprezzamento” delle
competenze che caratterizzano la nuova figura di ingegnere nonché, come trasparirà
nel seguito, la rispondenza di queste ultime alle mutate condizioni dell’ambiente
economico-industriale.
Tab. 4 - Distribuzione dei laureati in ingegneria gestionale nel periodo 1985-1994
per anzianità di lavoro e qualifica rivestita.
Qualifica
Anni di anzianità
1-3
>=4
num. %
num.
17
6,8
14
Imprenditore,
libero professionista
Dirigente
4
1,6
31
Quadro, funzionario
29
11,6 60
Impiegato
184
73,6 43
Insegnante, ricercatore
4
1,6
5
Altro
10
4
9
n.d.
2
0,8
2
Totale
250
100
164
Fonte: Banca dati GesTI-Politecnico di Milano.
%
8,5
Totale
num. %
31
7,5
18,9
36,6
26,2
3,0
5,5
1,2
100
35
89
227
9
19
4
414
8,5
21,5
54,8
2,2
4,6
1,0
100
L’analisi proposta in tab. 4 rende ancor più esplicita la vocazione “aziendale”
dell’ingegnere gestionale; i ruoli rivestiti da quest’ultimo sono in questo caso quelli
riferiti al campione nel suo complesso, ma è possibile distinguere fra coloro che
possono annoverare un’anzianità di servizio superiore ai tre anni e quelli la cui
assunzione risulta più recente. Se da un lato aumenta l’incidenza di imprenditori e
professionisti, dall’altro l’incidenza di coloro che operano all’interno dell’impresa
continua a permanere assolutamente maggioritaria (mediamente pari a circa lo 85%;
— con circa lo 87% per quelli all’inizio della propria carriera e con circa lo 82% per
quelli con almeno 3 anni di esperienza). Inoltre, a conferma della validità
dell’impostazione data al nuovo ingegnere, a dinamica della carriera risulta molto
accentuata e se per i primissimi anni l’incidenza delle mansioni corrispondenti alla
qualifica di impiegato appare costituire la stragrande maggioranza del campione —
pari a circa il 74% del campione, come del resto era logico attendersi — , a partire
dai 3 anni di anzianità la percentuale di coloro che mantengono la qualifica di
impiegato si riduce drasticamente — precipita al 26% — e crescono con pari
29
intensità i quadri-funzionari — dal 12% al 37% — e soprattutto i dirigenti — dal
2% al 19%.
L’ingegnere gestionale quale “specialista” d’impresa mostra in tal senso di rientrare
nella tradizione dell’ingegnere per il quale la conoscenza è uno “strumento per
operare nel reale” e le cui competenze progettuali trovano esplicitazione nel
“creare” nuove forme di governo dell’impresa e non tanto nel dar vita a nuovi
business, nell’essere uomo d’impresa ancor prima che possibile imprenditore. La
peculiarità della specializzazione dell’ingegnere gestionale rimanda alla verifica
dello sfruttamento delle competenze che ne definiscono il profilo professionale e, in
altri termini, rinvia all’osservazione-riscontro degli ambiti ove quest’ultimo trova
impiego.
3.2. L’impiego degli ingegneri gestionali
La focalizzazione sull’azienda diviene nel caso dell’ingegnere gestionale il
presupposto della sua “versatilità”; in tal senso la sua vocazione “a gestire” assurge
a specializzazione le cui fondamenta non vanno ascritte all’improvvisazione ma
all’approccio “scientifico” che connota la figura dell’ingegnere. Il riscontro empirico
di tutto ciò può essere colto sia osservando i settori ove trova impiego (tabb. 5 e 6)
sia vagliando la “trasversalità” delle esperienze tramite il semplice rilievo dei settori
e delle funzioni attraversate (tab. 7).
La stretta connotazione “industriale” dell’ingegnere gestionale traspare
immediatamente dal raffronto fra i laureati italiani del 1992; l’incidenza dei laureati
in ingegneria gestionale assorbiti dall’industria appare nettamente maggioritaria —
la percentuale degli occupati nei vari settori industriali supera i due terzi dei laureati
di quell’anno contro il 16% dei laureati in economia e poco meno del 40%
dell’insieme degli ingegneri 19. La presenza nel settore dei servizi apparentemente
meno consistente che nel caso degli altri ingegneri risulta in realtà parimenti
rilevante quando si consideri sia la “distorsione” indotta nel dato medio dalla
presenza degli ingegneri civili, per i quali l’operare nei servizi rappresenta una scelta
diffusa, sia, non meno importante, l’ampia tipologia di impieghi ove, a fianco della
scelta consulenziale, merita di essere evidenziata la destinazione nel settore del
credito ed in quello delle assicurazioni — da soli hanno assorbito oltre il 5% dei
laureati in ingegneria gestionale del Politecnico (tab. 6).
La “focalizzazione” sull’impresa — anziché su specifici settori dell’industria o dei
servizi — rappresenta del resto la chiave di lettura capace di dar ragione sia della
presenza praticamente omogenea degli ingegneri gestionali in ogni comparto del
tessuto industriale ed economico nazionale sia delle dinamiche che a tale processo
hanno dato concretezza. Il confronto fra settore d’impiego iniziale e settore
d’impiego al momento dello svolgimento dell’indagine, nonché la distinzione fra il
blocco degli anni legati all’introduzione della nuova figura professionale (19851990) e quelli della sua entrata a regime (1991-1994) rendono ancora più esplicita
l’ampiezza della gamma degli sbocchi professionali possibili per chi sappia
coniugare conoscenze versatili sulla tecnologia e competenze focalizzate
sull’azienda, come nel caso dell’ingegnere gestionale. Inoltre, ad ulteriore supporto
dell’omogeneità della diffusione degli ingegneri gestionali, il sostanziale equilibrio
19 Come evidenziato anche in precedenza, l’elevata percentuale di ingegneri non occupati
nell’industria va attribuita alla scelta della libera professione che, soprattutto nel caso degli ingegneri civili è
particolarmente rilevante.
30
fra la distribuzione settoriale degli impieghi iniziali e di quelli relativi al 1997, che
caratterizza il campione nel suo complesso, emerge dai dati di tab. 6 come il
risultato di dinamiche che connotano i due periodi secondo orientamenti opposti,
oltre che quantitativamente significativi. In tal senso, se nel caso delle attività di
servizio l’impiego complessivo di ingegneri gestionali — sia esso iniziale o riferito al
1997 — si attesta intorno al 67% — e specularmente al 33% per le attività di
servizio — il quadro risulta ben più articolato quando si confrontino i due periodi;
se fra il 1985 ed il 1990 l’incidenza dei laureati che hanno iniziato la propria
carriera sul totale degli ingegneri gestionali del Politecnico di Milano è superiore al
72%, la quota di quelli che permangono nell’industria nel 1997 scende al 61% —
specularmente il processo inverso interessa l’incidenza degli impieghi nell’ambito
dei servizi —, nel periodo 1991-1994 l’orientamento si inverte e dal 64%, che pesa
gli “inizi” nel comparto industriale, si passa 70% attuale. Se il passaggio alle attività
di servizio per gli ingegneri gestionali del primo periodo provenienti dall’industria
potrebbe essere interpretato come il tentativo di sfruttare le competenze
accumulate dopo la laurea, nel caso inverso il passaggio dai servizi — all’industria
per i laureati degli anni novanta può essere assunto ancora una volta come riprova
della versatilità della preparazione della nuova figura professionale.
La mobilità professionale dell’ingegnere gestionale evidenziata dagli ultimi dati — e
l’associata versatilità — può infine essere maggiormente dettagliata considerando
l’entità dei trasferimenti intersettoriali e di quelli interfunzionali20. Limitandosi a
considerare i laureati con almeno un anno di impiego — dal 1985 al 1993 — tab. 7
evidenzia la propensione dell’ingegnere gestionale a ricoprire ruoli diversi; nel
volgere di pochissimi anni il 54% del campione considerato ha trovato impiego in
almeno due diversi settori, ed il 19% in almeno tre; analogamente per l’attività
all’interno dell’impresa solo il 30% non ha cambiato funzione mentre il 47% ha
operato in due funzione e circa il 24% in almeno 3 funzioni.
Tab. 7 - Laureati in ingegneria gestionale per numero di settori e di funzioni
d'impiego
Ingegneri gestionali
num.
%
Settori d'impiego
1
2
>= 3
Totale (a)
138
104
57
299
46,2
34,8
19,1
100,0
Funzioni aziendali d'impiego
1
2
89
140
29,7
46,7
20 Stante l’orientamento all’impresa dell’ingegnere gestionale si sono qui scelti cambiamenti di
funzione all’interno dell’impresa e di settore — in quanto, almeno teoricamente, dovrebbero richiedere lo
sviluppo od il possesso di un numero maggiore di competenze rispetto al caso di cambiamento di
impresa.
31
>= 3
71
23,7
Totale (a)
300
100,0
sono stati considerati i soli laureati fino al 1993 (compreso)
Fonte: Banca dati GesTI-Politecnico di Milano.
3.3. Le competenze richieste all’ingegnere gestionale
Se in ultima istanza l’assunzione del lasso temporale intercorso fra laurea e prima
occupazione può destare qualche perplessità, in quanto indicatore — tuttalpiù — di
“attese” del tessuto industriale altrimenti non soddisfatte, l’analisi della congruenza
fra quanto esercitato dagli ingegneri gestionali e quanto acquisito nelle aule
universitarie si offre come verifica più coerente della rispondenza della nuova figura
professionale alle mutate esigenze del tessuto economico. Ancor prima di vagliare
la coerenza dei contenuti della laurea in ingegneria gestionale rispetto ai fini
ipotizzati, il quesito cui occorre dare risposta concerne la natura dell’indicatore
utilizzato, se cioè la categoria dell’“imprescindibilità” della laurea ai fini di quanto
svolto dai laureati possa costituire un indicatore significativamente rappresentativo
del fenomeno da osservare 21. Se da un lato, come sottolineato in precedenza, anche
nel caso del ricorso all’imprescindibilità ogni pretesa di esaustività appare fuori
luogo, dall’altro lato tale scelta consente la comparazione con quanto espresso in
merito da laureati in discipline economiche ed in altre specializzazioni della laurea
in ingegneria. I dati di tab. 8 — oltre a dar implicitamente concretezza a taluni
luoghi comuni sulla natura “scientifica” dei contenuti delle diverse lauree —
confermano sia l’elevata esigenza di percorsi formativi tramite cui trasferire
competenze codificate che accomuna le figure professionali a specializzazione
tecnico/scientifica, sia in termini comparativi il maggior rilievo — attribuito alle
competenze acquisite attraverso la laurea da parte degli ingegneri gestionali rispetto
ai laureati in discipline economiche e, più in generale, alla media dei laureati
italiani. Se fra i laureati italiani del 1992 la percentuale di coloro che ritiene non
necessaria la laurea è pari al 26% — quota che approssima il 28% per gli
economisti d’impresa e ben il 35% per gli economisti in generale —, nel caso degli
ingegneri gestionali l’incidenza degli insoddisfatti scende al 18%. Inoltre, anche
all’interno del gruppo di lauree in ingegneria — ove la convinzione che si possa
prescindere dallo studio formalizzato viene espressa solo dal 14% dei laureati —
l’ingegnere non rappresenta il fanalino di coda nel valutare la necessità del sapere
impartito nelle aule universitarie essendo evidenziata una maggior disaffezione da
parte dei laureati in ingegneria elettronica.
La coerenza relativa della “specializzazione” conseguita attraverso lo studio
accademico rappresenta infine l’oggetto esplicito di quanto sintetizzato in tab. 9. In
questo caso il riferimento ai laureati del 1992 evidenzia come le valutazioni
positive sulla coerenza fra laurea e lavoro espresse dagli ingegneri gestionali
risultino le più elevate del campione; in particolare, mentre in oltre l’83% dei casi i
laureati in ingegneria gestionale riscontrano una relazione positiva fra contenuti del
In realtà anche in questo caso l’“indicatore” di coerenza adottato non consente di risolvere ogni
ambiguità interpretativa. In particolare l’ipotesi implicita — ovviamente non verificabile con i dati
disponibili — è che l’attività professionale svolta dal laureato sia riconducibile al percorso formativo
seguito e, quindi, che l’“indispen-sabilità” o meno della laurea non risulti motivata dallo svolgimento di
un’altra professione.
21
32
corso di laurea ed attività professionale — per il 35% la coerenza è elevata —, per i
laureati in discipline economiche la percentuale dei soddisfatti scende al 75% e si
riduce al 70% quando il campione di riferimento è rappresentato dall’in-sieme dei
laureati italiani.
Tab. 8 - Necessità della laurea per attività svolta dai laureati italiani del 1992
Corso di Laurea
Laurea Laurea
Totale
non
necessaria necessaria
Laureati in Ingegneria
di cui:
Laureati in Economia
di cui:
86
Ing.
Gestionale 81,8
(Politecnico-MI)
Ing. elettronici
79
Ing. meccanici
87,1
14
18,2
100
100
21
12,9
100
100
64,9
63,9
35,1
36,1
100
100
27,6
100
Economia
e Commercio
Economia Aziendale 72,4
Totale Laureati in Italia
73,7
26,3
100
Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano.
Tab. 9. Livello di coerenza fra contenuti del tipo di laurea ed attività svolta per i
laureati italiani del 1992
Coerenza fra laurea e lavoro
Corso di laurea
Elevata Abbastanz Scarsa Nulla Totale
a
Laurea in Ingegneria
31,8
41,4
20,6
6,2
100
di cui Ing. Gestionale (a)
35,4
47,9
12,5
4,2
100
Laurea in Economia
33,6
41,6
17,8
7
100
Totale Università
33,1
37,2
18,1
11,6
100
Sono stati considerati i soli Gestionali laureati nel 1992
Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano.
Bibliografia
Bozza G., Scuole di Ingegneria, in L’ingegneria nei primi cento anni dell’u-nita d’Italia, Atti
del XIII convegno nazionale degli ingegneri italiani, 17-20 giugno, Politecnico di
Milano, Milano, 1962.
Calcagno G.C., Il nuovo ingegnere (1923-1961), in «La storia d’Italia: le professioni»,
1996, Torino, Einaudi.
33
Calisse A., Gli ingegneri nella vita pubblica, in «L’Industria: rivista di economia e
politica industriale», vol. XXXVII, 1918.
Capocaccia A., Sviluppi futuri prevedibili nelle Scuole di Ingegneria, Atti del XIII
convegno nazionale degli ingegneri italiani, 17-20 giugno, Politecnico di Milano,
Milano, 1962.
Fauri F., Cenni storici sulla formazione degli ingegneri al Politecnico di Milano dal 1863 ai
giorni nostri, «Archivi e Imprese», 1998, in corso di pubblicazione.
Lacaita C.G., La professione degli ingegneri a Milano dalla fine del '700 alla prima guerra
mondiale, in L’evoluzione delle professioni a Milano dalla prima metà dell’800 ad oggi, 1986.
Maffioli F., Motolese F. (a cura di), Atti del Convegno su L'Ingegnere per il 2000,
Politecnico di Milano, 1984.
Stracca G., La formazione degli ingegneri nel Politecnico di Milano: 1914-1963, in A.A., Il
Politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963), v. II, «Rivista milanese di
economia», serie quaderni n. 17, 1981
Nelle pagine successive
Tab. A.1 - Studenti iscritti al 1° anno universitario per anno e corso di laurea (19841994). Fonte: Bollettino mensile di statistica ISTAT.
Tab. A.2 - Distribuzione dei laureati italiani per anno e corso di laurea nel periodo
1984-1984. Fonte: Annuario ISTAT.
Tab. A.3 - Ripartizione dei laureati del Politecnico per corso di laurea ed anno
(1988-1994). Fonte: Politecnico di Milano.
Tab. A.4 - Composizione del campione degli ingegneri gestionali per anno e voto di
laurea (1985-1994). Fonte: Politecnico di Milano.
34
Tab. A.1 - Studenti iscritti al 1° anno universitario per anno e corso di laurea (19841994)
1983- 1984- 1985- 1986- 1987- 1988- 1989- 1990- 1991- 1992- 199384
85
86
87
88
89
90
91
92
93
94
num. num. num. num. num. num. num. num. num. num. num.
Laurea in Ingegneria 21.693
di cui:
Ing. Gestionale 442
(Italia)
Ing. Gestionale 147
(Politecnico-MI)
Laurea in Economia 40.965
di cui:
:
Economia
e 35.873
Commercio
Economia
729
Aziendale
Totale Lauree in Italia 256.61
1
%
Laurea in Ingegneria 8,5
di cui:
Ing. Gestionale 0,2
(Italia)
Ing. Gestionale 0,1
(Politecnico-MI)
Laurea in Economia 16,0
di cui:
Economia
e 14,0
Commercio
Economia
0,3
Aziendale
Totale Lauree in Italia 100
21.858 21.202 21.834 24.218 27.433 33.012 38.786 39.646 39.619 42.289
599
685
969
1.084 1.550 1.924 2.166 2.300 2.226 2.256
255
370
633
666
801
963
947
781
691
591
42.307 42.308 43.921 48.515 50.092 54.702 59.803 60.917 58.119 57.329
37.541 37.501 38.450 39.407 40.921 44.512 48.559 47.089 44.867 44.828
915
836
1.064 1.543 1.505 1.834 2.001 3.855 5.126 4.530
253.77
8
%
8,6
243.02
8
%
8,7
246.94
2
%
8,8
260.36
5
%
9,3
279.17
1
%
9,8
299.84
1
%
11,0
322.85
4
%
12,0
341.72
2
%
11,6
361.92
7
%
10,9
373.83
0
%
11,3
0,2
0,3
0,4
0,4
0,6
0,6
0,7
0,7
0,6
0,6
0,1
0,2
0,3
0,3
0,3
0,3
0,3
0,2
0,2
0,2
16,7
17,4
17,8
18,6
17,9
18,2
18,5
17,8
16,1
15,3
14,8
15,4
15,6
15,1
14,7
14,8
15,0
13,8
12,4
12,0
0,4
0,3
0,4
0,6
0,5
0,6
0,6
1,1
1,4
1,2
100
100
100
100
100
100
100
100
100
100
Tab. A.2 - Distribuzione dei laureati italiani per anno e corso di laurea nel periodo
1984-1984
198485
num.
Laurea in Ingegneria 5.616
di cui: Ing. Gestionale 58
(Italia)
Ing. Gestionale 2
(Politecnico-MI)
Laurea in Economia 6.834
di cui: Economia
e 5.139
Commercio
Economia
711
Aziendale
Totale Lauree in Italia 72.384
%
Laurea in Ingegneria 7,8
di cui: Ing. Gestionale 0,1
(Italia)
Ing. Gestionale 0,0
(Politecnico-MI)
Laurea in Economia 9,4
di cui: Economia
e 7,1
Commercio
Economia
1,0
Aziendale
Totale Lauree in Italia 100
198586
num.
198687
num.
198788
num.
198889
num.
198990
num.
199091
num.
199192
num.
199293
num.
199394
num.
5.901
92
5.791
64
6.107
106
6.944
149
7.252
169
7.507
229
7.747
261
8.031
389
8.756
501
22
21
35
67
89
162
183
283
373
8.141
6.122
8.967
6.821
9.812
7.338
11.612 12.556 13.881 15.260 16.010 16.704
7.338 9.603 10.644 11.670 12.385 12.794
853
986
1.142
1.419
1.579
1.627
1.674
1.499
1.665
75.810
%
7,8
0,1
77.869
%
7,4
0,1
81.266
%
7,5
0,1
87.714
%
7,9
0,2
89.481
%
8,1
0,2
90.657
%
8,3
0,3
90.113
%
8,6
0,3
92.467
%
8,7
0,4
96.278
%
9,1
0,5
0,0
0,0
0,0
0,1
0,1
0,2
0,2
0,3
0,4
10,7
8,1
11,5
8,8
12,1
9,0
13,2
8,4
14,0
10,7
15,3
11,7
16,9
13,0
17,3
13,4
17,3
13,3
1,1
1,3
1,4
1,6
1,8
1,8
1,9
1,6
1,7
100
100
100
100
100
100
100
100
100
Tab. A.3 - Ripartizione dei laureati del Politecnico per corso di laurea ed anno
(1988-1994)
Laurea in ingegneria
Gestionale/Tecnologie
industr.
Elettronica
Civile/Edile/Difesa suolo
Meccanica
Aeronautica
Chimica
Elettrotecnica
Nucleare
TOTALE
1988
num. %
36 3,1
1989
num. %
66 5,6
1990
num. %
91 6,7
Anno solare
1991
1992
1993
1994
num. %
num. %
num. %
num.
162 10,7 185 12,6 284 16,3 375
426
249
227
75
49
41
57
1160
458
226
208
78
49
38
55
1178
571
224
219
104
52
38
53
1352
660
200
211
129
49
43
57
1511
36,7
21,5
19,6
6,5
4,2
3,5
4,9
100
38,9
19,2
17,7
6,6
4,2
3,2
4,7
100
42,2
16,6
16,2
7,7
3,8
2,8
3,9
100
43,7
13,2
14,0
8,5
3,2
2,8
3,8
100
586
195
234
105
59
50
58
1472
39,8
13,2
15,9
7,1
4,0
3,4
3,9
100
717
228
228
130
69
37
51
1744
41,1
13,1
13,1
7,5
4,0
2,1
2,9
100
746
242
238
158
131
59
40
1989
Tab. A.4 - Composizione del campione degli ingegneri gestionali per anno e voto di
laurea (1985-1994)
Anno
Laurea
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
Totale
di Universo
(num.)
2
22
21
35
67
89
162
183
283
373
1237
Campione
(num.)
2
9
10
16
32
45
50
54
85
111
414
Camp/univ
(%).
100,0
40,9
47,6
45,7
47,8
50,6
30,9
29,5
30,0
29,8
33,5
Voto
Laurea
di Universo
(num.)
71-75
76-80
81-85
86-90
91-95
96-100
Totale
20
137
349
318
235
174
1213
Campione
(num.)
Camp/u
(%.)
7
36
119
98
88
66
407
35,0
26,3
34,1
30,8
37,4
37,9
33,6
Tab. 1 - Materie economiche, gestionali e giuridiche svolte nei corsi di laurea in
ingegneria del Politecnico di Milano dalla fondazione al 1975.
Civile
Industrial Meccanic Elettrotec
e
a
nica
1863-1945 1946-1975 1863-1945 1946-1975
Economia
aziendale
e
organizzazione
Economia generale e corporativa
Economia industriale
Economia politica
Economia politica e industriale
Chimica
1953<F>1 1953<F>1 1953<F>
956
970
956
1934<O>
1936
1875<O>
1886
1875<O>
1900
1901<O>
1911
1934<O>
1936
1863<O>
1900
1875<O>
1900
1901<O>
1911
1926<O>
1935
1912<O>
1925
1960<F>1 1961<F>
970
970
Economia politica e industriale 1912<O>
e materie giuridiche
1925
Economia rurale
1863<O>
1889
Economia rurale ed estimo
1890<O>
1935
Elementi di diritto amministrativo 1863<O>
e giurisprudenza agricola
1876
Elementi di scienza delle finanze 1935<O>
1935<O>
e diritto tributario
1936
1936
Estimo
1960<O>
1975
Estimo civile e rurale
1936<O> 1946<O>
1945
1959
Gestione aziendale
Istituzioni di economia
1973<F>1
975
Istituzioni di scienze economicosociali
1969<O>
1972
1973<F>1
975
38
1971
1971<O
1972
1973<F>
975
Materie giuridiche
Materie giuridiche ed economiche I
Materie giuridiche ed economiche II
Organizzazione aziendale
1877<O> 1960<O> 1877<O>
1937
19721973 1911
<F>1975
1936<O> 1946<O> 1936<O> 1946<O> 1946<O>1
1945
1955
1945
1955
9551956<F
1956<F>1 >1959
959
1938<O> 1946<O> 1938<O> 1946<O> 1946<O>1
1945
1959
1945
1956
956
1973<F>1
1971<F>1
975
975
Tecnica ed economia dei trasporti
1936<O> 1946<O>
1946<O>
1945
1975
1975
NOTA: il corso di laurea comprende le sezioni: Meccanica, Elettrotecnica (dal
1887) e Chimica (dal 1900)
Legenda:
<O>indica l’obbligatorietà della materia durante il periodo
evidenziato; — <F> indica la natura facoltativa della materia durante il periodo
evidenziato.
39
1946<O
1955
1956<F>
959
1946<O
1956
Tab. 1. Tempi di attesa per la prima occupazione per tipo di Laurea dei laureati
italiani del 1992.
Corso di Laurea
Tempo di attesa per la prima occupazione
< 1 mese
1-3 mesi 4-12 mesi > 12 mesi Totale
Laurea in Ingegneria
19,2
di cui: Ing.
gestionale 32,1
(Politecnico-MI)
38,3
32,1
34,5
33,9
8
1,9
100
100
Laurea in Economia
di cui: Economia e commercio
Economia aziendale
33,2
32
41,6
36,3
35,5
35,6
12,6
14
4,3
100
100
100
17,9
18,5
18,5
Totale Lauree in Italia
19,2
33,1
33,2
14,5
100
Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano.
Tab. 2. Tempi di attesa per la prima occupazione per i laureati in ingegneria
gestionale del Politecnico di Milano (1985-1994)
Laureati
nel Tempo di attesa per la prima occupazione
periodo
< 1 mese
1-3 mesi 4-12 mesi > 12 mesi n.d.
Totale
1985-1990 num. 63
%
55,8
38
33,6
11
9,7
0
0,0
1
0,9
113
100
1991-1994 num. 117
%
38,9
101
33,6
78
25,9
3
1,0
2
0,7
301
100
1985-1994 num. 180
139
89
%
43,5
33,6
21,5
Fonte: Banca dati GesTI-Politecnico di Milano.
3
0,7
3
0,7
414
100
Tab. 3 - Distribuzione percentuale dei laureati italiani del 1992 per tipo di laurea e
qualifica ricoperta nel 1995.
Qualifica
Imprenditore, Dirigente Quadro, Impiegato Insegnante, Altro Totale
Laurea
libero profess.
funzionar
ricercatore
in:
io
Ingegneria
di cui:
Ing. gestionale
Ing. meccanica
Ing. elettronica
Ing. chimica
Ing. civile
25,4
10,5
13,7
17,4
5,7
57,3
0,9
2,9
1,3
0,1
0,7
2,3
20,9
25,1
24,5
17,9
39,5
18,5
40
43,7
55,7
54,1
54,7
52,3
13,6
6,4
5,8
5,5
7,1
1,8
4,9
2,7
0
0,9
2,8
0
3,4
100
100
100
100
100
100
Laurea
in:
Qualifica
Imprenditore, Dirigente Quadro, Impiegato Insegnante, Altro Totale
libero profess.
funzionar
ricercatore
io
Ingegneria
di cui:
Ing. gestionale
Ing. meccanica
Ing. elettronica
Ing. chimica
Ing. civile
25,4
10,5
13,7
17,4
5,7
57,3
0,9
2,9
1,3
0,1
0,7
2,3
20,9
25,1
24,5
17,9
39,5
18,5
43,7
55,7
54,1
54,7
52,3
13,6
6,4
5,8
5,5
7,1
1,8
4,9
2,7
0
0,9
2,8
0
3,4
100
100
100
100
100
100
Economia e commercio
36,8
1,7
6,9
48,6
3,2
2,8 100
Economia aziendale
31,2
1,6
8,6
57,6
0,5
0,5 100
Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano.
41
Tab. 5. Distribuzione dei laureati italiani del 1992 per tipo di laurea e settore
d'impiego.
Settore di impiego
Industria Servizi
Altro Totale
Laurea in Ingegneria
39,4
60,4
0,2
100
di cui: Ing. gestionale (Politecnico-MI) 67,5
32,5
0
100
Laurea in Economia
15,7
83,5
0,8
100
Totale Lauree in Italia
17,3
80,7
2
100
Fonte: ISTAT-Indagine 1995 sulle professioni dei laureati; Banca dati GesTIPolitecnico di Milano.
Tab. 6. Distribuzione dei laureati in
d’impiego iniziale ed al 1997.
Impiego degli Ing.
gestionali 1985-94
Iniziale
Attuale
num % num %
.
.
ingegneria gestionale (1985-1994) per settore
Impiego degli Ing.
gestionali 1985-90
Iniziale
Attuale
num % num %
.
.
Impiego degli Ing.
gestionali 1991-94
Iniziale
Attuale
num % num %
.
.
Servizi
138
Consulenza 68
Credito e 19
assicurazio
ni
Istruzione e 15
ricerca
Informatica 14
Altri
22
33,8 133 32,5 30
16,7 63 15,4 17
4,7 21 5,1 2
27,5 43
15,6 20
1,8 6
39,1 108 36,1 90
18,2 51 17,1 43
5,5 17 5,7 15
30,1
14,4
5,0
3,7 13
3,2 4
3,7 4
3,6 11
3,7 9
3,0
3,4 13
5,4 23
3,2 5
5,6 2
4,6 4
1,8 9
3,6 9
8,2 20
3,0 9
6,7 14
3,0
4,7
Industria 270
Elettronica, 34
Telecom.
Imp.
e 41
macch.
meccanici
Elettro26
meccanica
Veicoli
e 19
componenti
Chimica
16
Alimentare 12
Energetica 16
Tessile
e 13
abbigliamen
to
66,2 276 67,5 79
8,3 30 7,3 16
72,5 67
14,7 11
60,9 191 63,9 209 69,9
10,0 18 6,0 19 6,4
10,0 39
9,5 8
7,3 8
7,3 33
11,0 31
10,4
6,4 22
5,4 7
6,4 1
0,9 19
6,4 21
7,0
4,7 24
5,9 7
6,4 6
5,5 12
4,0 18
6,0
3,9
2,9
3,9
3,2
4,6
3,7
4,6
4,6
8,3
1,8
6,4
3,7
7,3
3,6
5,5
4,5
2,3
3,3
3,0
3,0
3,7
3,7
4,3
4,7
19
15
19
19
9
2
7
4
42
8
4
6
5
7
10
9
9
11
11
13
14
Altro
Totale
Fonte:
93
22,8 89
21,8 19
17,4 18
16,4 74
24,7 71
23,7
408 100 409 100 109 100 110 100 299 100 299 100
Banca
dati
GesTI-Politecnico
di
Milano.
43
Tab. 1. Materie economiche, gestionali e giuridiche svolte nei corsi di laurea in
ingegneria del Politecnico di Milano dalla fondazione al 1975.
Civile
Industrial Meccanic
e
a
1863-1945 1946-1975 1863-1945 1946-1975
Economia
aziendale
e
organizzazione
Economia generale e corporativa
1934<O>
1936
Economia industriale
1875<O>
1886
Economia politica
1875<O>
1900
Economia politica e industriale 1901<O>
1911
1953<F>1
956
1934<O>
1936
1863<O>
1900
1875<O>
1900
1901<O>
1911
1926<O>
1935
1912<O>
1925
Economia politica e industriale 1912<O>
e materie giuridiche
1925
Economia rurale
1863<O>
1889
Economia rurale ed estimo
1890<O>
1935
Elementi di diritto amministrativo 1863<O>
e giurisprudenza agricola
1876
Elementi di scienza delle finanze 1935<O>
1935<O>
e diritto tributario
1936
1936
Estimo
1960<O>
1975
Estimo
civile
e
rurale 1936<O> 1946<O>
1945
1959
Gestione
aziendale
Istituzioni
di
economia
1973<F>1
975
Istituzioni di scienze economico1969<O>
sociali
1972
1973<F>1
975
Materie
giuridiche 1877<O> 1960<O>
1937
19721973
<F>1975
Materie giuridiche ed economiche I 1936<O> 1946<O>
1945
1955
1877<O>
1911
1936<O> 1946<O>
1945
1955
1956<F>1
959
Materie giuridiche ed economiche II 1938<O> 1946<O> 1938<O> 1946<O>
1945
1959
1945
1956
Organizzazione
aziendale
1973<F>1
975
Tecnica ed economia dei trasporti 1936<O> 1946<O>
1946<O>
1945
1975
1975
NOTA: il corso di laurea comprende le sezioni: Meccanica, Elettrotecnica (dal
1887) e Chimica (dal 1900)
Legenda:
<O>indica l’obbligatorietà della materia durante il periodo
evidenziato; — <F> indica la natura facoltativa della materia durante il periodo
evidenziato.
45
Elettrotec Chimica
nica
Aeronauti Elettronic Nucleare
ca
a
1956-1975 .
1953<F>1 1953<F>1 1953<F>1 1956<F>1 1961<F>1 Econ. e org. az
970
956
960
961
970
1962<O>
1967
Econ. gen. e corp.
Econ. ind.
Econ. pol.
1960<F>1 1961<F>1 1960
1960<F>1 1961<F>1 Econ.
pol.
970
970
967
967
e ind.
Econ.
pol.
e ind. e mat. giur.
Econ. rurale
Econ. rurale ed estimo
El. diritto amm.vo
e giur. agr.
El.
scienza
fin.
e dir. trib.
Estimo
Estimo
civ. e rur.
1971<F>1
Gestione
972
aziendale
1973<O>
1975
1971
1971<O>
1971<F>1
Ist.
di
econ.
1972
972
1973<F>1
1973<O>
975
1975
Ist.
di
scienze
econ.-soc.
Materie
giur.
1946<O>1 1946<O> 1956<F>1 1956<F>1 1958<O> Materie
giur.
9551956<F 1955
959
959
1959
ed econ. I
>1959
1956<F>1
959
1946<O>1 1946<O> 1956<F>1 1956
Materie
giur.
956
1956
960
ed econ. II
1971<F>1
1971<F>1 1971<O> Org.
azien.
975
972
1975
46
1950<F>1
959
1973<O>
1975
47
1956<F>1 Tecn.
ed
959
trasporti
econ.
Alle origini dell’ingegneria gestionale
in Italia.
Francesco Mauro e il Politecnico di Milano:
dal taylorismo ai sistemi complessi
Giuliana Gemelli
Dipartimento di Discipline Storiche, Università di Bologna
Introduzione
L’interesse degli storici dell'impresa per i percorsi biografici non solo individuali —
nella ricostruzione dei profili di imprenditori — ma anche istituzionali — in chiave
di monografie aziendali — non poteva certo trascurare la figura di Francesco
Mauro. Come ben illustra una serie di studi, dal classico lavoro di Sapelli sulle
origini dell’ENIOS, fino al recente saggio di Paolo Viani 22, che ha ricostruito
puntualmente il tracciato biografico di Mauro, dai primi viaggi di istruzione
all’estero, subito dopo la laurea conseguita al Politecnico di Milano nel 1909, alle
ultime fasi della sua vita, culminate nel secondo dopoguerra con l’esperienza di
organizzazione innovativa alla Breda, la centralità di questa figura di intellettualemanager è, innanzitutto, il prodotto della complessità del suo ruolo di innovatore.
Mauro ha svolto infatti una funzione di primo piano nelle strategie di
modernizzazione della gestione, non solo nei processi organizzativi inerenti
l’impresa, ma anche nell’ambito della formazione dei dirigenti, con la creazione, nel
1934, del Corso per Dirigenti d’Azienda presso il Politecnico di Milano,
denominato Scuola superiore di politica ed organizzazione delle imprese. Tecnico
della produzione e dell’organiz-zazione Mauro è stato, dunque, anche un attore di
primo piano della cultura organizzativa, con tutte le ambivalenze di “prospettiva”
che tale posizione comporta nel contesto italiano del periodo tra le due guerre e che
questo saggio cercherà di focalizzare, soprattutto dal punto di vista della storia delle
istituzioni. Giulio Sapelli ha dato apporti importanti alla concettualizzazione di tale
ambivalenza, tematizzando la compresenza, nelle configurazioni organizzative
* I debiti di riconoscenza che ho accumulato nelle diverse fasi di redazione di questo lavoro sono
molteplici. Ringrazio innanzitutto il professor Charles Wrege che mi ha generosamente aiutato a colmare
i vuoti di una documentazione spesso lacunosa, per quel che riguarda la storia dell'IMI di Ginevra,
ringrazio inoltre i professori Emanuele Biondi, Sergio Cavallone e Giancarlo Cainarca che hanno letto le
prime versioni del manoscritto e mi hanno dato preziosi consigli, e gli archivisti del BIT di Ginevra, del
Twentieth Century Fund di New York City e del Politecnico di Milano per la loro preziosa
collaborazione.
22 G. SAPELLI, Organizzazione, lavoro e innovazione industriale nell'ltalia tra le due guerre, Torino, I978 e
P. VIANI , Progettare l'impresa: Francesco Mauro e il dibattito europeo tra le due guerre, in D. BIGAZZI, Storie di
imprenditori, Bologna, l996, pp. 235-293; e inoltre: II Politecnico di Milano nella storia italiana (I914-1963),
Milano-Bari, 1988, in particolare il saggio di C. LACAITA, I tecnici milanesi dal moderatismo al fascismo: il caso
Fantoli.
48
inerenti la cultura d’impresa, di diverse matrici: il “paternalismo organicistico”, la
“costituzionalità scientifica”, la “teoria della direzione e dell’impresa” 23.
I1 saggio di Viani, che dichiara di prendere spunto dalla problematica di Sapelli,
focalizza soprattutto un aspetto del percorso di Mauro, quello dell’organizzatore
nell’impresa e per l’impresa. L’attenzione è rivolta alla pionieristica esperienza di
frigotecnica, con la creazione della stazione sperimentale del freddo, nel primo
dopoguerra, in cui le competenze di Mauro come tecnico della produzione
cominciarono ad articolarsi con altre funzioni. Innanzitutto col suo ruolo di
scienziato dell’or-ganizzazione e di progettista industriale, molto apprezzato nel
contesto internazionale e in particolare in Francia, dove, peraltro, aveva completato
la sua formazione conseguendo il dottorato. In secondo luogo con quello di
imprenditore nella formazione dei quadri tecnici, con la creazione di una scuola
professionale serale. Viani individua il momento culminante di questo percorso nel
secondo dopoguerra quando Mauro fu l’artefice della riconversione organizzativa
della Breda e rileva con convinzione la linearità di un tracciato che egli considera
quello di un innovatore a tutto campo.
Il mio contributo è piuttosto un tentativo di mettere in luce le ambivalenze di
questo percorso eccezionale attraverso il confronto di intrecci significativi,
all’incrocio tra itinerario biografico e percorsi istituzionali e centrando l’attenzione
sul ruolo di Mauro come imprenditore culturale e politico. Riprendendo alcuni fili
del dibattito sullo scientific management, con l’ausilio di materiale documentario
raccolto non solo presso gli archivi del Politecnico di Milano ma anche negli Stati
Uniti e presso il BIT di Ginevra, l’intento è di fare emergere aspetti forse ancora
poco noti della scatola nera del dibattito taylorista, nel passaggio cruciale dagli anni
venti agli anni trenta. In secondo luogo l’intento è di evidenziare la continuità del
ruolo “simbolico” svolto da Mauro nel passaggio tra differenti fasi di evoluzione
istituzionale del Politecnico di Milano, culminate nella seconda metà degli anni
settanta con il rapido sviluppo della formazione continua e infine, tra i tardi anni
settanta e i primi anni ottanta, con l’avvio della formazione in ingegneria gestionale.
Pioniere dell’integrazione tra la cultura generale del tecnico e diversificazione degli
itinerari formativi, il percorso di Mauro ha agito da capitale simbolico (oltre che,
come vedremo, materiale) nella costruzione delle strategie di innovazione
istituzionale promosse, dopo la sua scomparsa, nell’ambito del Politecnico di
Milano. Nel lungo periodo queste hanno potenziato il ruolo competitivo degli
ingegneri nei confronti di altre strategie di formazione dei dirigenti d’azienda
(Scuole di commercio, Business Schools, Facoltà di economia e commercio)
culminando, come si è detto, nel processo di istituzionalizzazione del corso di
Laurea in Ingegneria Gestionale.
Per quanto riguarda il primo degli obiettivi sopra indicati questo lavoro prende le
mosse dall’effetto rivelatore che i percorsi di una biografia istituzionale, nel nostro
caso l’International Management Institute di Ginevra, sono in grado di produrre
nella focalizzazione di alcuni aspetti di un tracciato biografico individuale
“esemplare”, rispetto alle tematiche qui affrontate, e di cui viene ripercorsa
soprattutto una “congiuntura” ritenuta significativa, e cioè il periodo tra la metà
degli anni venti e i tardi anni trenta.
G. SAPELLI, Gli 'organizzatori della produzione' tra struttura dimpresa e modelli culturali, in Storia
d'Italia, Annali 4, lntellettuali e potere, Torino, 1981, pp. 615 sgg.
23
49
Un intreccio rivelatore: le reti intellettuali e organizzative dell’Inter-national
Management Institute
Sulla scia di “testimonianze eccellenti”, gli storici dell’impresa hanno dato risalto
soprattutto al ruolo dell’ingegnere milanese come “apostolo del progresso”.
Particolarmente significativa è ritenuta la testimonianza di Lyndall Urwick, che fu a
fianco di Mauro in numerose vicende e percorsi istituzionali legati al dibattito
taylorista tra le due guerre e che lo inserì, unico tra gli italiani, nel suo “libro d’oro
del management”, pubblicato nei tardi anni cinquanta 24. Viani sottolinea in
particolare “l’armoniosa espansione” del ruolo di Mauro come protagonista del
dibattito sullo scientific management. Nel volgere di un anno, tra il 1926 e il 1927, egli
si trovò infatti a presiedere i due più importanti organismi internazionali in cui si
dibattevano i problemi della razionalizzazione, il Comitato Internazionale di
Organizzazione Scientifica del Lavoro, con sede a Bruxelles e l’International
Management Institute, con sede a Ginevra, presso il BIT. Tra le due istituzioni —
rileva Viani, attenendosi alle fonti ufficiali — “non vi era alcuna sovrapposizione di
ruoli, piuttosto una vantaggiosa divisione del lavoro” 25.
Ben diversa è la visione delle cose che emerge dall’analisi dei documenti e delle
corrispondenze tra i diversi attori che animarono l’isti-tuzione ginevrina, così come
in diversa luce appaiono anche i rapporti e le strategie operative dei grandi
protagonisti della sua breve vicenda istituzionale, Mauro e Urwick. Si tratta di
eventi non puramente episodici, che rivelano aspetti cruciali della “scatola nera” del
dibattito taylorista, prima e dopo l’impatto con la crisi degli anni trenta. Questa
provoca infatti una netta riconversione non solo dei contenuti e delle implicazioni
sociali e culturali del dibattito, ma anche dei suoi effetti strategici, rispetto
all’embrionale formazione di un’élite internazionale di tecnici della competenza, in
grado di promuovere strategie di più ampio respiro della semplice applicazione dei
metodi di Taylor nell’impresa.
Tale formazione sociale fu il prodotto della cooperazione di diversi gruppi sociali, la
cui eterogeneità è un tratto caratteristico di molte istituzioni internazionali del
periodo tra le due guerre e in particolare dell’IMI, fondato nel 1927, col sostegno
organizzativo e finanziario di un grande organizzatore delle vendite e mecenate
americano, Edward Filene, fondatore degli omonimi grandi magazzini di Boston e
presidente del 20th Century Fund 26 e con l’apporto della fondazione Rockefeller. È
dunque necessario entrare nel vivo di questa vicenda istituzionale e studiare più da
vicino le posizioni dei singoli attori e soprattutto le variazioni del loro
atteggiamento nel passaggio significativo della crisi degli anni Trenta.
Edward Filene è uno dei rappresentanti di spicco di una visione della modernità
centrata sul modello cooperativo e inerente non solo le istituzioni sociali ed
economiche ma anche l’individuazione di nuovi modelli di cooperazione tra le
scienze che andò affermandosi nel corso degli anni Venti e in particolare nel
24 L.F. URWICK, The Golden Book of Management. A Historical Record of the Life and Work of Seventy
Pioneers, London, 1956.
25 P. VIANI , Op. cit., p. 249.
26 Si v. al proposito, M. J ACOBS, From Bargaining Basement to Bargaining Table: Edward Filene and the
Twentieth Century Fund, Comunicazione presentata al convegno Philanthropy in History, 25 Settembre 1997,
Indiana University.
50
periodo dello “stato associativo” di Herbert Hoover 27. Tale visione fu sostenuta
anche da alcune importanti istituzioni come l’International Chamber of Commerce,
alle cui reti organizzative e di produzione scientifica e documentaria collaborò
intensamente anche Filene e che assunse, fin dai suoi esordi, il problema del
mantenimento e dello sviluppo dell’interscambio internazionale come oggetto della
propria strategia politica. Questa non era centrata solo sull’organizzazione degli
interessi economici su scala sovranazionale, ma anche sulla definizione di strategie
culturali e di movimenti di opinione che dovevano agire da tessuto di collegamento
delle élite del capitalismo internazionale, attente non solo alla logica dei profitti ma
anche a quella dell’espansione del mercato attraverso la produzione di massa e la
conseguente estensione dei livelli di consumo. Intorno alla metà degli anni Venti
l’ICC elaborò un rapporto dettagliato sullo stato della distribuzione in Europa e in
America che partiva da un assunto basilare e che segnò il passaggio epocale dal
selling al marketing:
La distribuzione — si sottolineava nel rapporto — è responsabile della creazione
della domanda effettiva e dei beni che devono essere prodotti.
Tale assunto fu particolarmente denso di conseguenze strategiche nell’applicazione
su larga scala dello scientific management, spostandone il fulcro dalla produzione al
consumo e accrescendo rapidamente il ruolo economico dei department stores (di cui
— lo si ricordi — Filene fu uno dei “progettisti” più noti). Ne derivò la
consapevolezza della necessità di costruire articolazioni teoriche e strategiche tra
fattori produttivi e consumo, nonché tra una visione dello sviluppo delle forze
produttive, che si delineava in una dimensione sovranazionale, e l’andamento del
commercio tendente a restringere sempre più le relazioni internazionali delle singole
economie, soprattutto in Europa, negli anni che seguirono l’impatto con la crisi.
La creazione dell’International Management Institute presenta molti punti in
comune con gli orientamenti dell’International Chamber of Commerce, in
particolare nell’intreccio tra riconcettualizzazione del mercato, in relazione al
fattore distributivo e sviluppo di una strategia di integrazione del mercato
americano e di quello europeo. L’ispiratore dell’incontro istituzionale tra il BIT e il
20th Century Fund di Filene fu Paul Devinat, membro del consiglio di
amministrazione del BIT e stretto collaboratore di A. Thomas, il quale realizzò una
dettagliata inchiesta sull’organizzazione scientifica del lavoro in Europa, i cui
risultati furono pubblicati nel 1927, a cura del BIT 28. Se Devinat fu l’ispiratore
dell’Isti-tuto ginevrino di cui nelle primissime fasi di attività fu anche direttore,
Filene fu l’animatore e l’organizzatore della sua rete sociale e istituzionale, cui
fecero capo esperti, americani ed europei, provenienti dai diversi settori del mondo
industriale e in rappresentanza delle principali istituzioni che sostenevano l’attività
dell’IMI: imprenditori, come lo svizzero Tzaut e il belga Landaurer, l’inglese Renold
e gli americani Dennison, Owen D. Young e Kendall; consulenti, come l’inglese L.
Urwick e l’ame-ricano Wallace Clarck; rappresentanti delle organizzazioni sindacali
come J. Dubreuil e L. Jouhaux per la CGT francese e W. Green e M. Woll, sul
27 Si v. al proposito G. GEMELLI, Le élites della competenza Scienziati sociali, istituzioni e cultura della
democrazia industriale in Francia (1880-1945), Bologna, 1997.
28 P. DEVINAT, L'organisation scientifique du travail en Europe, Ginevra, 1927.
51
versante statunitense; esponenti degli organismi nazionali per l’orga-nizzazione
scientifica, come Mauro per l’ENIOS, Ch. de Fremeville per la CEGOS francese e
Kamo dell’Istituto giapponese, Limperg dell’Istituto olandese e Drzewiecki per la
Polonia. Nel Board of Governors figuravano inoltre altre personalità, più
politicamente orientate, come Gino Olivetti, segretario generale della
Confederazione Nazionale Fascista degli Industriali 29, entrato a far parte del
Consiglio di aministrazione del BIT. L’assunto di partenza nel costituirsi della rete
della nuova istituzione era che tutti i suoi membri condividessero la prospettiva di
un’ingegneria sociale basata sulle recenti articolazioni del dibattito taylorista. Il
quadro era invece, inevitabilmente, più complesso. Ad una omogeneità di posizioni
e di esperienze derivate dal fatto che la maggior parte di questi intellettuali-esperti
aveva una conoscenza diretta del contesto americano, faceva riscontro una
disomogeneità di culture sociali, imprenditoriali e organizzative, che gli effetti
omologanti della problematica taylorista non potevano che parzialmente ridurre o
modificare.
Il viaggio di ricognizione nella modernità statunitense rappresenta indubbiamente
un fenomeno ricorrente nelle biografie degli ingegneri europei negli anni Venti.
Mauro non è affatto un’eccezione da questo punto di vista. È anzi uno dei
rappresentanti più autorevoli della crescita della funzione culturale e politica del
“punto di vista dell’ingegnere”. Ed è senz’altro un rappresentante tra i più
accreditati sulla scena internazionale, non solo in Europa e negli Stati Uniti, dove si
recò diverse volte tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta, traendone spunto
per una serie di pubblicazioni di notevole interesse, ma anche in Giappone, dove
svolse una missione ufficiale nel 1929, e persino in Unione Sovietica, dove ebbe
l’opportunità di recarsi, seguendo quel percorso di “bipolarismo dello sguardo” sulle
forme della modernità che fu proprio di altri organizzatori del periodo tra le due
guerre. Si pensi in particolare ad Ernest Mercier che ne trasse spunto per un
resoconto che suscitò un interessante dibattito in Francia, anche al di fuori del
milieu dei tecnici dell’impresa 30. Il prestigio della figura di Mauro ne faceva
indubbiamente il candidato ideale alla presidenza dell’Istituto ginevrino. Tanto più
che il suo statuto prevedeva una composizione del Consiglio di amministrazione
basata sulla rappresentanza di tre istituzioni: l’organismo che ospitava e forniva
parte dei finanziamenti (e cioè il BIT), l’organizzazione che garantiva la quota
maggiore di sostegno finanziario e che costituiva il fulcro organizzatore delle reti
sociali e operative dell’IMI (e cioè il Twentieth Century Fund) americano e infine il
CIOS, che doveva costituire la cinghia di collegamento, di trasmissione e di
diffusione delle informazioni inerenti l’attività dell’istituto ginevrino nei diversi
contesti nazionali. Sin dal 1928, alla direzione dell’Istituto in sostituzione di
Devinat — sul quale la Fondazione Rockefeller, in procinto di intervenire nel
finanziamento dell’IMI, nutriva qualche riserva — venne nominato Lyndall Urwick,
personaggio di spicco nelle strategie di organizzazione dell’impresa e della cultura
d’impresa britannica. Il ruolo di Urwick fu sin dall’inizio decisivo nell’aprire un
nuovo fronte che avrebbe potuto potenziare l’espansione dell’istituto convergendo
29 Archivi dell'ILO, Ginevra, Fondo IMI HF 6301, I65 V.1-2 e N401/2/2/0l Procès verbale la réunion
constitutive du Conseil de Direction.
30 R. K UISEL, Ernest Mercier. French Technocrat, Berkeley, 1967.
52
nella direzione del “taylorismo sociale”, auspicata da Filene e da altri esponenti
dell’istituto ginevrino.
53
Nella scatola nera del taylorismo: pionieri del general management e
“traduttori” continentali
Le riserve nei confronti di Devinat da parte della Fondazione Rockefeller, che
accoglieva il parere espresso dal fondatore di una delle più importanti società di
consulenza americane, Arthur Young, riguardavano soprattutto il pericolo che
Devinat trasformasse l’IMI in una sua “creatura”, piuttosto che in una rete di
esperti accomunati dal committment istituzionale 31. La scelta di Urwick conveniva
perfettamente anche ad un altro dei consulenti della Rockefeller Foundation,
Joseph Willits, docente di relazioni industriali presso una delle più antiche e
prestigiose scuole di management americane, la Warthon School di Philadelphia. A
partire dalla metà degli anni venti col supporto finanziario e organizzativo del Laura
Spellman Rockefeller Memorial e con l’appoggio di alcuni industriali, tra i quali lo
stesso Henry Dennison, nominato vice-chairman dell’IMI, Willits aveva avviato un
programma di ridefinizione dei modelli formativi nella management education, che lo
portò ad esercitare un ruolo di prestigio come consigliere del dean di Harvard, W.
Donham. Dalla metà degli anni venti questi aveva avviato un processo di
rifondazione della sua scuola, centrato sulla ricerca e sulla definizione di
metodologie appropriate di formazione, in particolare sul metodo dei casi valendosi
della collaborazione di un eminente filosofo inglese che egli aveva chiamato ad
insegnare ad Harvard, North Withehead.
Professor Whitehead — sottolineava Doham in un memorandum a John D.
Rockefeller del 24 febbraio 1927 — considers the problem of arousing the business
community to their social responsabilities and developping an adequate intellectual
background which will enable business leaders to assume their social responsability
wisely among the most critical problems of civilization 32.
L’azione di Willits e di Donham trovò punti di convergenza nella pressione
esercitata, da Leon C. Marshall, del Dipartimento di economia dell’Università di
Chicago, il quale sviluppò, col sostegno del LSRM, un articolato progetto di
potenziamento della “Collegiate Education for Business”. Tale progetto muoveva
significativamente da un’accurata ricognizione di quanto sembrava caratterizzare il
contesto europeo, dove secondo l’ottimistica visione di Marshall si andava
delineando
a similar movement — although not so extensive. Belief in its permanence and
importance is strengthened by a survey of the economic development of this and
other coutries of western civilisation 33.
31 ROCKEFELLER ARCHIVE CENTER (RAC), Pocantico Hill, Northtarrytown, USA, Lettera di A.
Young a B. Ruml, direttore del programma per le scienze della Rockefeller Foundation, del 16 dicembre
1926 e Memoradum 27 marzo 1929 Collection Industrial Relations RG 2F Series: IMI Box 13, Folder 100.
Si v. anche la lettera di H. Dennison, a B. Ruml, del 28 maggio 1928: “Devinat was the organiser but is
very obviously not an executiv. On account of his key position in the thing at the beginning, it has been
necessary in making the re-organiztion, to use our financial power”.
32 RAC, Laura Spellman Rockefeller Memorial, RG III Box 53 Folder 572.
33 L. C. MARSHALL, Collegiate education for business, p. 5, RAC, LSRM, series III Box 62 folder 671.
54
I riformatori americani partivano da un assunto fondamentale, che avrebbe preso
corpo in forma teorica e applicata negli anni successivi grazie alle ricerche di Elton
Mayo, trasferitosi, proprio su suggerimento di Willits, e grazie a un finanziamento
della Rockefeller Foundation da Warthon ad Harvard. Il ruolo di Mayo, che si era
laureato in medicina in Inghilterra e che aveva una profonda conoscenza del
pensiero sperimentale europeo, soprattutto nel campo della psicologia e della
psicopatologia (egli fu, tra l’altro, il divulgatore dell’opera di Pierre Janet nel
contesto anglosassone) fu decisivo nel delineare i presupposti per lo sviluppo dei
behavioristic studies. Ciò avvenne non solo attraverso l’accelerato sviluppo dei famosi
esperimenti di laboratorio, i cui risultati furono pubblicati nel 1939 e che furono
alla base del movimento delle human relations, ma anche grazie all’intensificazione
dei contatti con gli studiosi di scienze sociali europei, che arricchirono il retroterra
problematico e concettuale in cui in seguito gli esperimenti presero corpo. Nel 1928
Mayo ebbe l’opportunità di compiere un lungo soggiorno a Londra, presso la
London School of Economics, dove incontrò non solo i più eminenti scienziati
sociali e antropologi inglesi come Malinowski, Frazer e Pitt-Rivers e gli studiosi del
National Institute of Industrial Psychology, Myers, Miles e dell’IndustriaI Fatigue
Research Board, ma fece la conoscenza di Marcel Mauss. L’antropologo francese
impressionò enormemente Mayo per la sua concezione del “fatto sociale totale”,
per gli effetti che il suo approccio andava producendo in settori disciplinari limitrofi
e per l’affinità di tale prospettiva con quella che egli stesso andava sviluppando
insieme ad Hendeerson.
It is interesting to me — scriveva Mayo in un memorandum inviato a Doham da
Londra, in cui citava estesamente Mauss — that Malinowski, the economists, the
French sociologists, are equally, with Dr. Henderson and myself, finding ”total
situation” necessary as an approach to the study of human problems 34.
Quello stesso anno Donham fu invitato da Lord Beveridge a tenere una conferenza
sui nuovi metodi di insegnamento della business administration, e il giovane vice dean
Georges F. Doriot prese contatti in Francia per attivare strategie di formazione in
questa direzione. Significativamente in entrambi i casi le istituzioni accademiche, la
London School of Economics in Inghilterra e l’Ecole Libre de Sciences Politiques
in Francia, avevano espresso posizioni alquanto riservate rispetto all’avvio di nuovi
corsi di formazione ispirati alla business administration. Più interessati si erano invece
mostrati gli istituti di ricerca e le istituzioni economiche, legate agli ambienti
industriali, come il National Institute of Industrial Psychology di Londra e la
Chambre de Commerce et de l’Industrie di Parigi. Pur attraverso reti politicoistituzionali molto diverse e in un clima che era già decisamente quello degli anni
Trenta, una situazione analoga si delineò anche in Italia, alle origini della creazione
del corso Mauro, su cui ci soffermeremo dettagliatamente in seguito.
Ciò su cui mi vorrei soffermare ora è la genealogia del general management e l’opera
svolta dai pionieri della sua disseminazione in Europa. Questi ultimi trovarono un
apporto fondamentale non solo nel lavoro teorico di articolazione del dibattito
interdisciplinare, ma anche nella reinterpretazione del taylorismo in chiave di total
34
E. MAYO, letter to W.B. Donham, Settembre 1928, RAC, LSRM, Box 53, Folder 572, Mayo.
55
situation, come abbiamo visto nel caso di Mayo, che coniò questa espressione. Nel
1929, intervenendo al IV congresso internazionale della CIOS, il brillante dean della
scuola di Stanford, Willard E. Hotchkiss, enunciava chiaramente le matrici di
questo orientamento.
Until recently analysis of business along the lines laid down by Taylor has focused
attention on the equipement, the organisation technique and the training of
personnel required to turn out a factory product efficiently is of significance only to
the extent that the product can be advantageously marketed (...) Marketing
difficulties emphasized the need of bridging distribution data with the scope of
accurate scientific analysis (...) But scientific study of distribution soon makes it
clear that the effort to analyze either distribution or production and to organize
them scientifically is likely to be relatively sterile unless the two are tied together
and incorporated into an organic unity of purpose in the particular business. The
focal points in management teaching must finally converge on the policies of
general management 35.
Significativamente il ruolo di Urwick, che era un elemento di punta tra gli
intellettuali del management britannico fautori di tale approccio, fu quello di
stimolare un allargamento dell’affiliazione all’IMI a tutti gli studenti di business
administration che favorisse il consolidamento di una comunità di studiosi, in grado
di operare in collaborazione con la business community, per una professionalizzazione
del management in grado di far convergere “the engineering mind, the social mind and
the international mind” 36.
Questa filosofia di un taylorismo ritrascritto nel contesto del general management e
orientato all’integrazione tra scienze sociali ed engineering e al potenziamento dello
studio scientifico delle relazioni industriali, sostenuto da attivissimi interpreti del
social planning, come la sociologa Mary Van Kleek, trovò in Mauro e in alcuni
membri dell’IMI (in particolare nei rappresentanti del CIOS presso l’Istituto
ginevrino) un tipo di sostegno piuttosto ambivalente. Si confronti ad esempio il
testo della relazione presentata da Mauro a Tokyo nel 1929, che riprende, in parte,
le tematiche enunciate dalla Van Kleeck e da Hotchkiss, richiamando le
fondamentali linee programmatiche dell’IMI (maggiore interazione tra studiosi e
business community, espansione di un mercato europeo integrato, standardizzazione
della produzione) col rapporto ufficiale sulla sua missione inviato a “S.E. il Ministro
dell’Educazione Nazionale”37. In esso il tema dell’internazionalismo e delle
relazioni industriali è completamente trascurato e il focus è piuttosto rivolto
all’analisi della politica di potenza nazionale del Giappone e alle “lezioni” che
l’Italia potrebbe trarne. Osserviamo inoltre il sostanziale travisamento, nel contesto
italiano, delle problematiche sollevate dai social planners e dai teorici del general
management americani. Costoro sottolineavano il passaggio da un modello di
direzione centrato sulla funzione del “big boss” ad una direzione basata piuttosto
W. E. HOTCHKISS, Education for management in American Universities, in IV Congrès international
de l'Organisation scientifique du travail, Paris, 1929, pp. 3-7.
36 L. URWICK, Memorandum to Edward A.Filene, 18 luglio 1932, N.Y.C. Twentieth Century Fund
Archive, Collection: IMI 1932.
37 POLITENICO DI MILANO, Fascicolo personale Francesco Mauro.
35
56
sul coordinamento di diverse funzioni, in cui la leadership non era tanto emanazione
del ruolo e della personalità di un capo, quanto dell’efficace esplicitarsi di quel
coordinamento. Mauro considerava invece che ciò che si stava affermando nel
contesto internazionale era l’ideale saint-simoniano, che comportava per
l’ingegnere, identificato come “il nuovo capo”, il passaggio dall’amministrazione
delle cose all’ingegneria degli uomini. Nella sue ampie riflessioni sul molo del capo
mancava di fatto ogni concettualizzazione della leadership nel senso sopra indicato.
Il capo sta nell’azienda — scrive l’ingegnere milanese — come nell’ordine naturale
il capo sta sopra ed innanzi le altre membra del corpo umano e raccoglie dentro di
sé le superiori facoltà che accentuano, graduano, ordinano azioni e reazioni 38.
Sul piano del dibattito taylorista, la posizione dell’ingegnere milanese era
egualmente caratterizzata da un focus divergente rispetto all’approc-cio dei
“tayloristi sociali”. Egli individuava le spinte innovative create da questo
orientamento, rispetto alla prima fase di sviluppo del taylorismo, tutta centrata sullo
studio dei fattori “tecnici di esercizio”, nella sempre maggiore importanza accordata
ai problemi che riguardano la progettazione degli impianti e il loro equipaggiamento
(...) la determinazione dei costi (...) il controllo dei bilanci.
Insomma se, anche per Mauro, il focus si spostava dai problemi della
razionalizzazione a quelli dell’organizzazione delle produzione, l’accento
nondimeno restava su quest’ultima, piuttosto che sull’organizzazione del
coordinamento tra fattori produttivi e fattori distributivi. Ciò avveniva sulla base
della constatazione dell’indisponibilità della maggior parte degli imprenditori
europei ad accettare il radicale mutamento di mentalità che imponeva lo
spostamento del focus sulla distribuzione e che inevitabilmente comportava la
richiesta di tariffe doganali, di interventi statali, di preferenze al prodotto nazionale.
In Italia, egli rappresentava autorevolmente il punto di vista di un gruppo, certo non
minoritario, di “tecnici”, la cui posizione strategica, come rivelano recenti lavori
statistici effettuati da Vera Zamagni e Renato Giannetti, a livello dei consigli di
amministrazione delle joint stock companies italiane, era cresciuta notevolmente tra gli
anni dieci e la seconda metà degli anni trenta e che era sostanzialmente lontano,
anche prima dell’impatto con la crisi, dalla visione che aveva ispirato la
concettualizzazione del general management nel contesto del social planning
statunitense. Questo aspetto andò coniugandosi, tuttavia, tra la metà degli anni
venti e la crisi del ‘29, con un rilevante movimento di pressione per lo sviluppo
dell’industrial engineering a livello delle Facoltà di Ingegneria e dei Politecnici,
soprattutto grazie all’azione di alcune figure che agivano da ponte tra il mondo
dell’impresa e quello dell’Università. Tra questi, Giacomo Acerbo, il quale nel 1926
avviò un corso post-lauream presso la scuola di ingegneria di Roma, e Ugo Gobbato,
che nel 1928 creò un corso analogo presso il Politecnico di Torino. Questo
movimento di pressione ebbe un punto focale (seppure transitorio) nella
promulgazione del R. D. del 7 ottobre 1926, poi abrogato nel 1928, che prevedeva
38
F. MAURO, Il capo nell'azienda industriale, Milano, 1941, p. 12.
57
l’istituzione di un diploma post-lauream per ingegneri e il cui piano di studi
comportava l’integrazione delle materie scientifico-tecniche con quelle giuridicoeconomiche. Va inoltre rilevato che le pressioni nella direzione di un ampliamento
della formazione degli ingegneri nell’ambito delle competenze legate all’industria
continuarono in vari ambiti istituzionali anche nel corso degli anni trenta e in
particolare nei primi anni del secondo conflitto mondiale, quando questo
orientamento assunse una funzione strategicamente rilevante, soprattutto nel
periodo dell’autarchia. Come vedremo anche analizzando le prime fasi del “corso
Mauro”, queste iniziative maturarono prevalentemente nel quadro del
“paternalismo organicistico”, né d’altro canto si creò quel fronte di convergenze tra
industriali e universitari per il potenziamento delle strategie di formazione dei
quadri dirigenti dell’impresa e della pubblica amministrazione, che caratterizzò gli
sviluppi del general management negli Stati Uniti e che si delineò, pur tra resistenze e
ambivalenze, anche in Francia e in Inghilterra.
Tempi e politiche della crisi: Francesco Mauro e il doppio volto della modernità
Gli orientamenti sopra descritti trovarono un catalizzatore nella congiuntura della
crisi. Gli effetti di sconvolgimento, accompagnato da una radicale perdita di fiducia
nella visione del social planning statunitense, provocati in Europa dalla crisi del ‘29,
ebbero, come ha osservato Ch. Maier, ripercussioni di lungo periodo: almeno fino
alla seconda guerra mondiale e anche oltre, il modello della produttività industriale
americana perse la sua funzione di polo attrattore e venne, col tramonto dei sogni
degli anni venti, meno anche la fiducia incondizionata negli effetti di redenzione
sociale prodotti dal social engineering 39.
Nel breve periodo e per quanto riguarda le reti istituzionali e sociali che stiamo
analizzando, la crisi agì da acceleratore esponenziale di una divergenza di posizioni
e di orientamenti tra i partners dell’IMI, già presente, come si è visto, alle origini
dell’Istituto e che derivava principalmente da una diversa visione delle implicazioni
politiche e sociali connesse alle strategie di organizzazione dell’impresa. Non è
forse fuori luogo ricordare che i dirigenti e i finanziatori dell’Istituto ginevrino,
avvertendo queste divergenze, avessero tentato sin dall’inizio di attivare processi di
traduzione delle problematiche e della terminologia dello scientific management nei
diversi contesti nazionali, in modo da produrre effetti di armonizzazione della
visione sociale oltre che dell’interpretazione teorica dello scientific management, dando
avvio tra l’altro alla pionieristica redazione di un dizionario internazionale del
management e promuovendo una pervicace politica di multilinguismo attraverso le
pubblicazioni scientifiche e le rassegne di documenti. Fin dai primi anni trenta,
alcuni osservatori particolarmente acuti, seppure orientati su traiettorie politiche e
teoriche alquanto eclettiche, come Francesco M. Pacces, osservarono le deviazioni
del percorso italiano nell’ambito degli sviluppi del dibattito taylorista:
Se in America — scriveva Pacces nel 1935 — si abbandonò il principio etico che
Taylor aveva posto alla base di tutta la sua opera, in Europa (e particolarmente in
Italia) si importò il meccanismo, non il suo spirito (...) Si credette, e taluno anche in
buona fede, che fare del taylorismo volesse dire sfruttare “scientificamente”, invece
C. S. MAIER, The Politics of Productivity: Foundation of America lnternational Economic Policy after
World War II, in P.J. K ATZENSTEIN (a cura di), Between Power and Plenty, Madisonn 1978.
39
58
che empiricamente il lavoro mentre Taylor parlava di collaborazione e di alti salari
40 .
La crisi dell’IMI, generalmente imputata al drastico venir meno dei finanziamenti da
parte del Twentieth Century Fund e agli effetti prodotti sulla capitalizzazione delle
quote degli associati dalla svalutazione del dollaro, ha cause ben più complesse.
Queste risultano in larga misura connesse allo scontro tra la politica
internazionalista ispirata ai principi del general management dei membri che si
riconoscevano nella linea Filene-Urwick e che utopisticamente credevano nella
rapido abbassamento delle barriere doganali europee e nell’altrettanto rapido
sviluppo della produzione di massa 41, e quella dei sostenitori del ruolo e delle
politiche di concertazione degli interessi nazionali attuata dal CIOS.
Particolarmente interessante è il confronto-scontro che si delineò tra Mauro,
appoggiato dal belga Landeuer, e Urwick e che caratterizzò le fasi finali della vita
dell’Istituto di Ginevra tra il 1931 e il 1933. Nel novembre del 1931 Urwick inviava
al segretario del Twentieth Century Fund, Evans Clarck, una lettera confidenziale
in cui manifestava una forte preoccupazione per quanto era accaduto nel corso
dell’ultimo riunione del Consiglio di Amministrazione dell’IMI, dopo che erano
cominciate ad emergere difficoltà rispetto alla continuazione del finanziamento del
20th Century Fund, previsto fino al 1934.
I was somewhat surprised and shocked at our Board Meeting — dichiarava Urwick
— by a sudden attack on the part of Mauro and Landeuer on the executive
management of the Institute. Since this attack was a complete reversal of
expressions of opinion which they uttered publicly (...) It left me somewhat
unconvinced. I am still a little uncertain as to the reason which lie behind this
sudden change of attitude (...) I suggested that it was due to the apprehension that
they might be asked to share in the responsability for a possible failure on the part
of the Institute (...) Buther and Sokal (...) incline to the view that it is a deliberate
attempt on the part of the hard-boiled employers’ associations in Europe, which
have their headquarters at Brussels, to capture the Institute and to brig it
completely under the control of reactionary elements. This of course is possible.
Mauro is in fairly close contact with G. Olivetti, who is the Secreatary general of
the Fascist Industrial Federation. Italian national views and their general tendency
to deny the possibility of effective international action, might play a part in such a
development Landauer is very close with the Belgian employers, who are an
extremely reactionary group as a whole. On this side there is a certain tendency for
Bruxelles to try to establish itself as the international town and to be jealous of the
prestige of Geneva. Landauer’s (...) criticism has been expressed in terms of the
“candid friend” (...) but they are both by nature intriguers. The Institute has been so
successful lately in winning the support of the National Committee, that the latter
F. M. Pacces, Introduzione agli studi di aziendaria, 1935, pp. 53-54.
A. YOUNG, Letter to B. Ruml, 16 december 1926 RAC R.G. 2 F, Box 13, Folder 100: “'One
important factor (...)is the agitation in Europe for the removal of the present customs barriers between
European countries. I realize the hazard of prophecy; my observation is that such a move is inevitable. It
will then pernit of mass production on a scale not now possible and this will be of tremendous
significance in the modernising of manufacturing plants in Europe and the inculcation of scientific
methods of manufacture”.
40
41
59
is somewhat blown upon. They may be genuinely apprehensive for their own
personal positions (...) Thomas (...) takes Butler’s view that it is just a hard-boiled
employer gang playng politics 42.
Il contenuto di questa lettera, di cui abbiamo citato ampi stralci, al di là delle
congetture inerenti le posizioni personali di Mauro (che si muoveva,
“inevitabilmente” sul piano di una rappresentatività politicamente “neutra”) rivela
l’inasprirsi di tensioni di segno opposto nel rapporto tra strategie nazionali e
dinamiche di organizzazione delle reti internazionali. Rivela inoltre il consolidarsi
del punto di vista degli esponenti ufficiali del CIOS, Mauro e Landeuer, che
passano dal fluido atteggiamento di ambivalente riserva nei confronti della versione
“internazionalista” e socialmente orientata del dibattito sul taylorismo, già presente
negli anni venti, ad un atteggiamento di compatto rifiuto.
The ideals and ideas — scrive Urwick — for which these two gentlemen stand are
(...) 100 miles away from the ideals and ideas of the Twentieth Century Fund. They
believe in Scientific Management, but merely as an employers instrument to lower
costs. They don’t believe in the further essential conceptions either of lower prices
or of higher wages (...) Landauer professes to believe in high wages, but I am very
dubious of the industrial relations in his plants: at any rate, I hope they are better
than his awoved theories 43.
La situazione era aggravata innanzitutto dal generale inasprirsi delle sensibilità
nazionali “which attribute — come notava il direttore dell’IMI in un memorandum
dell’aprile 1932 — a great many of theirs ills to the United States”, era condizionata
anche dalle procedure degli organismi internazionali in cui la concertazione
avveniva come effetto di negoziati permanenti in larga parte verbali i cui effetti di
compromesso — come sottolineava Urwick — “conceal rather than define
differences of a fundamental viewpoint”.
A queste disfunzionalità delle procedure decisionali si aggiungevano, come notava
maliziosamente lo stesso Urwick a proposito di Mauro, gli effetti che posizioni di
prestigio acquisite nel campo internazionale potevano avere nel rafforzamento di
posizioni di potere in ambito nazionale, il che si verificava soprattutto quando
l’orientamento internazionale entrava in fase critica e occorreva capire da che parte
“soffiava il vento”, se verso Ginevra o verso Bruxelles ...
Il fattore più rilevante fu senza dubbio il dibattito sulla possibile fusione del CIOS e
dell’IMI che, a partire dalla fine del 1932, rese la situazione particolarmente
incandescente, rivelando l’accrescersi delle tensioni non solo tra la rappresentanza
dei due istituti, ma anche tra il bureau ristretto e non istituzionalizzato del CIOS,
rappresentato dal team Landeuer-Mauro e gli altri rappresentanti degli organismi
nazionali che aderivano al comitato di Bruxelles.
In questa situazione complessa Urwick tentò di aggirare l’ostacolo in cui l’elemento
politico era indissolubilmente legato a quello finanziario, rilanciando il progetto di
creare nuovi legami istituzionali con le grandi università o coi gruppi di pressione
42 L. URWICK, Letter (private and confidential) to Evans Clarck, 17 Novembre 1931, Archivio del
Twentieth Century Fund, 1931, pp. 1-2.
43 Ivi, p. 2.
60
che animavano il dibattito sul general management, in particolare con la Taylor
Society. In una lettera a Filene del luglio 1932, facendo riferimento a contatti
intercorsi con M. Shell, presidente del MIT, Urwick suggeriva, come si è ricordato
sopra, di estendere l’affiliazione all’Istituto a tutti gli studenti delle scuole di
Business administration.
Negli anni trenta il messaggio della convergenza tra general management e taylorismo
sociale andava tuttavia rapidamente sfumando, col tramonto dell’ottimistica visione
del social planning e l’insorgere del fatidico quesito “knowledge for what”? E questo
non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, dove il grande impatto della
professionalizzazione del management si delineò solo nel secondo dopoguerra,
attraverso il doppio registro del modello harvardiano e del new look inaugurato da
Leland Bach al Carnegie Mellon e rinforzato dalle politiche di disseminazione e
legittimazione attuate dalla Ford Foundation nella seconda metà degli anni
Cinquanta. Di quella intensa e breve stagione di cui l’IMI fu un centro propulsore di
primo piano, restarono tuttavia i germi di una fertilizzazione, che qua e là dette i
suoi frutti. Si pensi in particolare alla creazione del Centre de Préparation aux
Affaires di Parigi, che costituì una vera e propria antenna harvardiana in Europa e
la cui configurazione organizzativa ci permette di evidenziare, comparativamente e
per contrasto, alcuni elementi caratterizzanti l’esperimento condotto parallelamente
in Italia da Mauro, con la creazione della “Scuola superiore di politica e
organizzazione delle imprese”, in seguito (nel 1955) denominata, e più
comunemente conosciuta, come Corso Francesco Mauro. La scuola fu istituita con
una convenzione siglata in data 20 aprile 1934 nella sede della Prefettura di Milano
tra il Direttore della Regia Scuola di Ingegneria, Fantoli, e il Presidente
dell’Associazione Nazionale Fascista dei Dirigenti di Aziende Industriali (AFDAI),
che finanziava il corso con 50.000 lire annue, Lo Cascio 44.
La “Scuola superiore di politica e organizzazione delle imprese” fu davvero
la prima business school italiana?
Contrariamente a quanto si e sovente (e un po’ sbrigativamente) sostenuto, il Corso
Mauro non fu affatto una business school sul modello statunitense. Un seppur rapido
confronto con un esperimento coevo, il Centre de Préparation aux Affaires di
Parigi, ci permetterà di chiarire questo punto. Creato nel 1930 su iniziativa del vice
dean di Harvard, Georges Frederick Doriot, rampollo di una famiglia francese
protestante e figlio di uno dei primi costruttori d’auto Peugeaut, e col supporto
della Camera di Commercio di Parigi, il CPA fu sin dall’origine caratterizzato dalla
produzione di casi inerenti il contesto imprenditoriale francese e questo non solo
nell’ambito della produzione ma anche in quello della distribuzione, soprattutto
negli anni successivi alla crisi quando, come ha rilevato M. Meleau
44
ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Corso Francesco Mauro.
61
la solution inventèe par un ensemble d’entreprises novatrices fut une nouvelle
conception de la fonction commerciale qui crea les bases de ce qui deviendra le
marketing aux annees cinquante 45.
Questo orientamento fu reso possibile da due fattori: la creazione del BRIC (Bureau
de Recherche Industrielle et Commerciale) e l’intensa collaborazione all’attività del
Centre da parte delle società di consulenza francesi (Paul Planus, in particolare),
che agirono da cinghie di trasmissione e da attori del processo di fertilizzazione dei
metodi americani nel contesto imprenditoriale francese, della grande impresa
innanzitutto, che cominciò ad impiegare consulenti americani, valendosi
dell’attività di traduttori di “esperti” che erano in grado di adattare i modelli al
contesto. Niente di tutto questo si verificò per la “Scuola Superiore di politica e
organizzazione delle imprese”, i cui insegnamenti riguardarono soprattutto gli
aspetti tecnici ed economici, suscettibili di apportare complementi di informazione
al curriculum classico degli ingegneri di produzione. Nonostante la rete di relazioni
del suo ispiratore e fondatore e il fatto che alcuni nomi prestigiosi dell’industria
italiana, in particolare Alberto Pirelli, figurassero tra i conferenzieri del Corso, non
si delineò alcuna permanente collaborazione col mondo dell’impresa, in termini di
consolidamento dei canali di formazione che attivassero flussi costanti dalle
imprese alla scuola, né tantomeno tale flusso si creò col settore della consulenza,
pressoché inesistente in Italia, se si eccettua la pionieristica attività dell’ORGA di
Milano fondata da Remo Malinverni, con cui Mauro fu in contatto, ma che non
entrò a far parte del gruppo di docenti della scuola. Gli allievi della Scuola furono
nei primi anni quantomai eterogenei per provenienza socioprofessionale, anche se
risultarono piuttosto omogenei sul piano della provenienza geografica,
prevalentemente lombarda e con una predominanza per la zona di Milano. Va detto
comunque che, nel quadro di un’attenzione costante rivolta al settore della
produzione e dell’impiantistica, vennero introdotti anche alcuni insegnamenti che
sviluppavano gli orientamenti della contabilità aziendale come quello di
“Organizzazione amministrativa e commerciale dell’impresa”, in seguito
denominato “Ragioneria industriale”, affidato a Teodoro d’Ippolito, professore a
Ca’ Foscari e studioso di ottimo livello della contabilità applicata all’impresa, in cui
si insegnavano le tecniche di bilancio e di rilevazione statistica e contabile delle
aziende, la contabilità del costo e le tecniche dei ricavi di gestione. L’insegnamento
di d’Ippolito era affiancato da quello di “Tecnica amministrativa” tenuto dal prof.
Giuseppe Garrani, che dava particolare risalto allo studio dei bilanci delle società
per azioni. Il curriculum non fu tuttavia completato da insegnamenti inerenti la
distribuzione che introducessero e applicassero, come nel caso del CPA di Parigi, le
moderne tecniche del marketing, con l’eccezione di un corso tenuto per un anno da
un giovane assistente della Bocconi, Mario Luporini, su “Sistemi e metodi di
vendita”, in cui veniva tuttavia dato risalto soprattutto al ruolo della corporazione
“come elemento riduttivo dei costi e dei prezzi”. Inoltre il corso di d’Ippolito e
quello di Garrani durarono solo un paio di anni, facendo parte delle materie
facoltative che, secondo l’art. 6 della convenzione che istituiva la Scuola, dovevano
45 M. MELEAU, De la distribution au marketing (1880-1939). Une reponse à l'évolution du marché,
«Entreprises et histoire», n. 3, mai 1993, pp. 61-74. Sul ruolo dei co nsulenti, v. O. HENRY, Le conseil, un
espace professionel autonome?, «Entreprises et histoire», n. 7, decembre 1994, pp. 37-58.
62
essere deliberate di anno in anno dal Consiglio della Facoltà di Ingegneria. Le
materie obbligatorie sancite dalla convenzione erano: Teorica della direzione;
Politica tecnica dell’impresa e Politica economica dell’impresa. Da questo punto di
vista si comprende come la partecipazione di innovatori, come Giovanni Enriques
(il quale nel secondo dopoguerra, avrà un ruolo di spicco nello sviluppo della
management education, come direttore dell’IPSOA di Torino) come Ugo Gobbato,
come Guglielmo Tagliacarne, ebbe un carattere transitorio. La collaborazione di
Enriques, ad esempio, durò infatti solo un paio di anni, prima come docente di un
Corso di tecnica delle esportazioni, poi con un insegnamento particolarmente
innovativo — “Caratteristiche delle industrie complesse di massa” — ma il cui
incarico non venne in seguito rinnovato. La guerra e le leggi razziali contribuirono
ovviamente a ridurre il potenziale innovativo della Scuola. Di essa va rilevata,
come connotato originario, la forte componente cattolica. Questo aspetto
comunque non riguardava solo i conferenzieri del Corso, ma anche i docenti del
Politecnico, soprattutto quelli a cui vennero stabilmente affidati gli insegnamenti di
discipline economico giuridiche. Nel corso degli anni trenta il Politecnico milanese
andò consolidando la propria rete di relazioni con l’Università cattolica, e in
particolare col suo fondatore, Padre Agostino Gemelli, a cui Mauro affidò
l’insegnamento di “Psi-cotecnica”. A partire dalla metà degli anni trenta, fino ai
primissimi anni cinquanta, le materie economiche furono insegnate al Politecnico
da Francesco Vito. Discepolo prediletto di Padre Agostino Gemelli, fervente
ammiratore di Toniolo, Vito fu ad un tempo presente nelle reti internazionali (sin
dagli anni giovanili fu borsista di prestigiose istituzioni in Europa e negli Stati Uniti,
dove nel 1933 fu uno di primi fellow italiani nel settore delle scienze economicosociali) e radicato nel contesto italiano della cultura economica corporativa degli
anni trenta, di cui fu uno dei teorici di spicco. La figura di Vito illumina quella
simbiosi tra modernità scientifica e conservatorismo politico-istituzionale, tra
apertura internazionale e radicamento culturale e ideologico, che caratterizza per
molti versi anche il percorso di Mauro e che è fortemente presente nell’orientamento del corso da lui creato, per tutti gli anni trenta e soprattutto nel corso del
periodo bellico; talora con accenti e prese di posizione da parte dei singoli docenti
che segnano il passaggio dalla cauta acquiescenza di Mauro a dichiarate adesioni
alla politica fascista. Si legga in particolare la prolusione di Alberto Pirelli, a cui
Mauro affidò l’insegnamento di Teoria della Direzione, all’inaugurazione ufficiale
del corso Mauro nel 1934.
Con questa serie di corsi — dichiarava Pirelli — [ci si preoccupa] della preparazione
alla vita come la vita la vuole il Fascismo cioè: valorizzazione della individualità,
esaltazione della forza e della volontà; ma subordinazione di ogni azione e di ogni
interesse individuale al superiore interesse nazionale (...) Il nostro compito
dell’imprenditore o del dirigente (...) è facilitato dalla pace sociale che il Fascismo
ha donato alla Nazione, dal principio di gerarchia e dalla instaurata maggiore
disciplina, ma esso è reso più grave di responsabilità per il carattere sociale e
nazionale della missione che il Regime gli affida 46.
46
ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Corso Mauro.
63
Le posizioni di Pirelli si andarono radicalizzando nel corso dei primi anni quaranta
quando divenne più chiaro il messaggio dell’Associazione che finanziava il corso e
che indicava chiaramente che la sua missione precipua era la formazione “dei
dirigenti d’azienda nella battaglia per l’autarchia”. Significativamente il tema
dell’autarchia, che fu per altri versi un vettore di forte espansione della scuola (i cui
indicatori numerici aumentarono in modo esponenziale da poche decine di allievi a
oltre 150), fu al centro della prolusione tenuta da Alberto Pirelli all’inaugurazione
del corso 1940-41, Attorno al problema dei grandi spazi economici, in cui l’industriale
milanese sottolineava la subordinazione dell’economia alla grande politica di
potenza:
La vittoria dell’Asse e la saggezza dei vincitori — scriveva Pirelli —determineranno
i nuovi confini ed aggruppamenti politici e l’economia, come è sempre accaduto,
pur influendo in una certa misura sulle determinazioni politiche, ne sarà a sua volta
ed in maggior misura influenzata e condizionata (...) Scartata l’utopia di un
internazionalismo economico su basi mondiali e scartata anche la soluzione minore,
ma pur sempre illusoria (...) di un’unione doganale e monetaria estesa a tutta quanta
l’Europa, sono apparsi i difetti della tendenza opposta (...)la creazione di altrettante
unità chiuse (...) e va affermandosi la tesi intermedia della creazione di
aggruppamenti economici abbastanza vasti e complementari da poter corrispondere
alle esigenze dell’economia moderna, ma pur sempre di proporzioni e caratteristiche
tali da poter essere efficacemente controllati da un centro direttivo comune (...) La
pianificazione delle produzione sia essa più o meno estesa nello spazio e nel tempo
e quella degli scambi, dovrebbero bensì ispirarsi (...) a concetti economici, ma
altresì a concetti politici e sociali, e questa anzi è forse la caratteristica più originale
del sistema 47.
La composizione degli iscritti corrisponde perfettamente al quadro sin qui descritto.
Accanto ai giovani laureati delle Facoltà di ingegneria, (la maggior parte dei quali
provengono dal corso di Ingegneria industriale del Politecnico), di Economia e
commercio e Giurisprudenza (prin-cipalmente lombarde e, in piccola percentuale,
di altre regioni del nord d’Italia) accanto ai dirigenti industriali, ai costruttori edili e
ai commercialisti, tra gli uditori e gli allievi figurano anche numerosi quadri
sindacali fascisti, provenienti da tutte le regioni d’Italia. Un dato rilevante, come si
è accennato sopra, è la rapida crescita degli iscritti tra il 1937 e la guerra. Si passa
infatti dai 38 iscritti e 16 uditori del 1934, con un calo evidente nei due anni
successivi, all’impennata del 1937-38 con 151 iscritti, seguita da un assestamento
nel 1938-39 e da un nuovo incremento negli anni dell’autarchia: 169 iscritti nel
1939-40 e 173 nel 1941-42. Sospeso nel 1945, il Corso riprese con vigore nel 194647, con 171 iscritti, stabilizzandosi negli anni successivi, fino alla seconda metà
degli anni sessanta, quando comincia il suo declino istituzionale per le ragioni che
analizzerò in seguito. La morte di Mauro avvenuta improvvisamente il 13 febbraio
del 1952, segna una fase di passaggio decisiva. È proprio nel corso dei primi anni
cinquanta infatti che la Scuola Superiore, ribattezzata dopo la scomparsa di Mauro,
“Corso di aggiornamento per dirigenti d’azienda Francesco Mauro”, rafforza la
47
Ivi.
64
propria stabilità e identità istituzionale, facendo convergere le problematiche
affrontate nei suoi insegnamenti con lo sviluppo delle reti organizzative e
istituzionali legate alla produttività. Intorno alla metà degli anni cinquanta si allarga
rapidamente la partecipazione di docenti che vengono dal settore della consulenza
(il giovane Pierluigi Malinverni, diplomato IPSOA), dal marketing (Guglielmo
Tagliacarne), dalla dirigenza soprattutto del personale delle grandi imprese
(Bozzola, Magnaghi) e di grandi intellettuali del management e delle relazioni
industriali (Gino Martinoli, Mario Romani, Mario Marconi). La configurazione del
corso si avvicina maggiormente a quella di altre analoghe istituzioni in Europa, con
una maggiore articolazione degli insegnamenti e una più larga partecipazione dei
discenti alle strategie formative (visite in azienda, stages, discussioni in aula). I
docenti che provengono dal Politecnico sono spesso essi stessi degli uomini
d’azione, fortemente impegnati nello sviluppo delle problematiche della
produttività. È il caso di Guido Corbellini, ex ministro, vice presidente del CNP e
professore ordinario di Tecnica dei trasporti al Politecnico e di Roberto Tremelloni,
ex ministro del Tesoro, presidente dell’azienda elettrica municipale di Milano e
docente di materie economico-giuridiche a partire dall’anno accademico 1953-54,
quando fu chiamato ad affiancare Francesco Vito, che in seguito assunse il
prestigiosissimo incarico di rettore della Cattolica. Sin dagli anni trenta entrambi
avevano fatto parte di un ristretto gruppo di intellettuali interessati ai problemi
della razionalizzazione, di cui facevano parte anche Libero Lenti, Di Fenizio, Pagni
dell’Assolombarda e il fondatore dell’ORGA, Remo Malinverni. Essi dettero vita a
una rete di sociabilità intellettuale o, se si vuole, a un circolo “invisibile” di
intellettuali dell’organizzazione che era solito riunirsi in modo del tutto informale,
ma i cui effetti di colportage delle idee e delle istituzioni hanno lasciato tracce anche
nella vita delle istituzioni. Nel 1957-58, il corso di Tremelloni cambiò
denominazione e divenne Economia e organizzazione aziendale. Esso era diviso in
due parti, la prima che forniva agli studenti nozioni di Economia industriale, la
seconda che sviluppava le problematiche dell’economia aziendale applicata
all’impresa, con un’attenzione particolare alla trattazione dei costi di produzione e
al calcolo del reddito d’esercizio. Accanto ai testi classici di Zappa, le letture
consigliate erano i saggi di Marshall su industria e commercio, gli studi di Saraceno
sulla banca e di Guatri sui costi d’azienda. L’insegnamento di Tremelloni è il
principale rivelatore di un rapido e cruciale mutamento nella configurazione del
Corso per dirigenti d’Azienda durante i primi anni cinquanta, in coincidenza con
l’apparire di nuovi attori istituzionali (l’Associazione degli industriali lombardi che
divenne il principale erogatore di finanziamenti del corso) e di nuove figure
istituzionali, a cavallo tra l’Università, l’impresa e lo Stato, legate allo sviluppo della
produttività e ai suoi effetti di potenziale networking istituzionale e socioculturale.
Gli anni della produttività
La prolusione all’inaugurazione dell’anno accademico 1953-54 venne tenuta da
Guido Corbellini, il quale, riprendendo in una nuova direzione il ruolo esercitato da
Mauro nella diffusione del taylorismo, fu l’ispiratore di una più forte intersezione tra
taylorismo e scienze sociali e umane, nel quadro delle problematiche delineate dal
movimento delle “relazioni umane”. Significativamente il suo discorso, poi
65
pubblicato in forma ridotta dalla rivista “Produttività” e in seguito riproposto da
“Mondo economico”, ebbe come tema “Tecnica e sociologia nella formazione
dell’inge-gnere”. Se Mauro fu il “traduttore” di un taylorismo adattato alle politiche
autarchiche, che segnarono in Italia un momento di punta nell’af-fermazione del
punto di vista dell’ingegnere, Tremelloni e Corbellini furono i vettori della filosofia
del piano Marshall nelle aule del Politecnico e in particolare proprio nel contesto
del corso Mauro. Nella sua prolusione Corbellini forniva una nutrita serie di
informazioni sulle strategie di formazione inerenti la business administration negli
USA e sulla loro ricezione negli altri paesi europei, spostando decisamente l’accento
dall’in-gegneria di produzione al management come scienza integrata delle funzioni
produttive.
Degno di rilievo — scrive Corbellini a proposito della Business School di Harvard
— è il corso di Filosofia e tecnica della produzione in cui balza in primo piano il
coordinamento e il controllo delle varie fasi della produzione attraverso la
progettazione, la lavorazione e la distribuzione dei singoli prodotti in rapporto con
le attitudini e la personalità dei singoli e del complesso organizzativo di cui fanno
parte 48.
Il punto focale della prolusione è in un’annotazione dai toni delicatamente polemici
che Corbellini rivolge ai tecnici, agli studiosi e agli industriali, i quali
dietro invito del Ministero della pubblica istruzione hanno espresso i loro pareri
sulla riforma della nostra scuola superiore. Difatti nelle conclusioni dell’inchiesta
nazionale per la riforma della Scuola, nella parte che riguarda l’insegnamento delle
Facoltà di ingegneria e dei politecnici, non vi è nessun accenno agli argomenti delle
relazioni umane nel senso (...) che si è imposto nei paesi industriali moderni e
sull’importanza formativa che essi hanno nella preparazione dei nuovi ingegneri.
Significativamente Corbellini individuava nel Corso Mauro il luogo di una più
stretta e proficua interazione tra industria e università, centrata sul potenziamento
di tale impulso formativo, valorizzato da una costellazione di esperimenti di
analoga natura come quelli avviati nell’ambito delle grandi imprese (Edison,
Montecatini, Pirelli) e, con particolare determinazione e cospicui investimenti di
risorse materiali e umane, nel quadro dell’IPSOA, appena creata a Torino, sotto
l’egida dell’Olivetti, della FIAT e dell’Unione Industriali. L’analisi dei programmi
dei corsi tenuti da Corbellini rivela l’apporto determinante delle analisi di ordine
economico e organizzativo, spesso affiancate da visite agli impianti nell’illustrare ai
giovani allievi la tecnica dei trasporti. Un ruolo centrale veniva dato alla
valutazione dei costi marginali, al sistema tariffario, agli schemi di organizzazione
delle imprese di trasporto e alla loro produttività aziendale.
Non è dunque sorprendente che la lezione conclusiva dell’attività didattica del
Corso Mauro nel 1952, tenuta dal Direttore del Politecnico, Gino de Cassinis, a
pochi mesi dalla morte di Mauro venisse dedicata proprio al “Politecnico e la
produttività”. La lezione costituì anche la prima occasione ufficiale per rievocare la
48
Ivi.
66
figura e il percorso di Mauro, in un momento in cui il corso da lui creato entrava in
una fase di espansione e di riorganizzazione, sotto l’egida dell’Associazione
Lombarda Dirigenti Aziende Industriali, presieduta da Virginio Bontadini, molto
legato alle reti della produttività e il cui figlio Pierluigi fu uno dei primi assistenti
dell’IPSOA di Adriano Olivetti.
In una lettera al rettore del Politecnico dell’11 dicembre 1954, Virginio Bontadini
chiedeva espressamente che il Corso di Cultura per dirigenti d’azienda venisse
intitolato a Francesco Mauro e che la direzione venisse affidata al professor Luigi
Manfredini che a quell’epoca era amministratore delegato della SNIA. Si delineava
così un più forte aggancio tra il Corso e il mondo dell’impresa, di cui occorrerebbe
analizzare più approfonditamente le coordinate “sistemiche” indagando
parallelamente, sul versante delle imprese, i criteri di selezione dei quadri tecnici e
della dirigenza, le modalità del “prendere decisioni”, le posizioni nell’organigramma
ecc. Due dati sono comunque evidenti. Innanzitutto, il ruolo svolto da Manfredini
come Direttore del Corso agì come vettore di ampliamento del dibattito sulla
formazione economica e aziendale degli ingegneri che si estese ad altre sedi
universitarie, in particolare all’Università di Bologna, da cui Manfredini proveniva e
con la quale aveva mantenuto una fitta rete di rapporti. Ed è proprio a Bologna che
sotto la presidenza del professor Dore, si tenne nel 1953 un convegno su “Industria
e Università”, immortalato dalla rivista Pirelli che vi dedicò ampio spazio. Questo
allargamento del dibattito ebbe delle ripercussioni anche sulla visibilità nazionale
del corso, che dalla morte di Mauro ai primi anni sessanta consolidò il suo assetto
istituzionale, con un numero di iscritti pressoché costante (da 120 a 140),
proveniente da molte regioni italiane e non solo dalla Lombardia. In questo arco di
tempo, il corso, attraverso i percorsi dei docenti che ne orientarono l’organizzazione
e le reti in cui questi risultavano inseriti, sviluppò una fisionomia fortemente
correlata alle problematiche della produttività che, non lo si dimentichi, agì, seppure
per un breve periodo, da vettore per lo sviluppo della consulenza aziendale.
Come nel 1860-63 è stato necessario dar vita ad un Istituto Tecnico Superiore,
occorre oggi, a somiglianza di quanto già fatto e di quanto si fa in altri paesi,
trasformare il Politecnico in una Università tecnica, comprendente tutti gli studi
superiori aventi attinenza con le scienze fisico-matematiche e con quelle
economiche oltre che con quelle tecniche propriamente dette 49.
Così si esprimeva il professor Cassinis nella sua prolusione all’apertura del Corso
del 1953, dando rilievo alla necessità di attuare in tempi rapidi una riforma
dell’ordine degli studi che attenuasse le rigidità del biennio propedeutico, sempre
considerato elemento vitale della vecchissima Facoltà di scienze fisicomatematiche. Cassinis metteva in luce la crucialità dell’insegnamento delle
discipline economiche e di organizzazione del lavoro, la cui “deficienza si
ripercuote dannosamente non solo su molti giovani, ma sull’intera categoria degli
ingegneri”, nel momento in cui la domanda di consulenza delle imprese si fa più
forte, al punto che la “collaborazione con gli Enti produttivi è divenuta talmente
stretta e intima da determinare in certi casi un apporto diretto del Politecnico alla
49
Ivi.
67
produttività degli enti con i quali esso opera”. Cassinis sottolineava inoltre il ruolo
propulsore dell’impiantistica nel quadro dell’attività dell’Istituto di elettrotecnica
industriale, “dovuto all’illuminato mecenatismo di Carlo Erba” e di quello di
Chimica industriale dotato di un laboratorio di analisi e prove industriali di livello
europeo.
Due anni dopo egli riprendeva in una conversazione radiofonica gli stessi temi
sottolineando la recente introduzione presso il Politecnico di Milano di un nuovo
insegnamento di “Economia ed organizzazione aziendale”, a complemento del
vecchio corso di Materie giuridiche ed economiche, che venne affidato come si è
detto a Roberto Tremelloni, e il progetto di avviare un corso di “Estimo
industriale”. La peculiarità del periodo intorno alla metà degli anni cinquanta, che
corrisponde peraltro al momento più dinamico nello sviluppo della management
education in Italia 50, rispetto al primo periodo del “Corso Mauro” fu quella di una
più stretta e articolata intersezione tra il corso di studi del Politecnico e il Corso di
perfezionamento per dirigenti d’azienda, stimolata da fattori di contesto, come si è
detto, ma anche da altri elementi che individuano linee di continuità strategica
rispetto al passato: innanzitutto la continuità della presenza, su entrambi i versanti
istituzionali, di attori multiposizionali di cui analizzeremo brevemente i percorsi; in
secondo luogo gli effetti “epsilon”, cioè gli effetti infinitesimali e in larga misura
non calcolati, prodotti dall’eredità di Francesco Mauro, che, come si vedrà,
rappresenta un fattore contingente ma certo non secondario della genealogia
dell’ingegneria gestionale al Politecnico di Milano.
Gli ingegneri “strategici”
Alla morte di Mauro il corso fu affidato a Luigi Manfredini che lo diresse fino alla
sua morte, avvenuta nel 1965. Questo arco di tempo corrisponde anche al periodo
di più intensa attività e di maggiore visibilità nelle reti legate allo sviluppo della
formazione dei dirigenti aziendali (produttività, business schools, scuole di
specializzazione universitarie) di un altro docente del Politecnico che ebbe un ruolo
determinante nel potenziamento dell’insegnamento di materie gestionali, Guido
Corbellini. Il percorso di questi intellettuali dell’organizzazione presenta alcuni
interessanti punti di intersezione e, soprattutto nel caso di Manfredini, alcune
interessanti analogie col percorso di Mauro.
Nati a un anno di distanza (Corbellini nel 1900 e Manfredini nel 1901), laureatisi
entrambi in ingegneria civile, il primo a Roma nel 1913 e il secondo a Bologna nel
1914, i due giovani ingegneri fecero le prime esperienze significative nel corso della
prima guerra mondiale, in settori strategici dell’economia di guerra. Assegnato alla
VII compagnia Pontieri in zona di guerra, Manfredini progetta e dirige la
costruzione di ponti fissi per gli itinerari della 4a armata. Nel 1919 collabora con
l’impresa di costruzioni Ingegner Puccini di Firenze per il progetto e tracciato della
Ferrovia Alto Pistoiese. Sviluppa poi una brillante carriera progettistica e
imprenditoriale nel settore idroelettrico, a livello nazionale, prima tra il 1920 e il
1926 come ingegnere dell’Ufficio costruzioni idroelettriche delle Ferrovie dello
Stato a Bagni della Porretta, poi come progettista firmatario delle dighe di Molino
Si v. al proposito la mia introduzione al volume Scuole di management. Origini e primi sviluppi delle
business schools in Italia, Bologna, il Mulino, 1997.
50
68
del Pallone a Suviana, infine per la Montecatini, come progettista dell’impianto
idroelettrico di Mori sull’Adige, punto di avvio di una brillante carriera di dirigente
nei settori dell’Alluminio e dell’Allumina e infine, dal 1947, alla SNIA Viscosa,
quale Amministratore delegato e direttore generale della consociata SAICI. A
partire dal 1946, opera anche in ambito internazionale (Brasile, Francia, Argentina)
dove acquista una notevole fama nel settore della ricerca applicata, coronata da una
rapidissima carriera accademica che nel 1941 lo porta a ricoprire la cattedra di
Impianti industriali presso la Facoltà di ingegneria di Bologna. Qui nei primi anni
cinquanta insieme ad altri docenti della Facoltà tra i quali il Preside, Paolo Dore,
Manfredini è tra gli animatori di un intenso dibattito sui problemi del rapporto
industria-università che lo porta ad organizzare, proprio grazie alle reti del Corso
Mauro, di cui come si è detto è appena divenuto direttore, una serie di incontri con
i quadri direttivi della Pirelli.
Negli stessi anni in cui Manfredini compie le prime significative esperienze di
organizzatore progettista, Guido Corbellini, che è già assistente di Geodesia
teoretica e topografia presso la Scuola di ingegneria di Roma, entra col ruolo di
Ingegnere allievo ispettore presso il Servizio materiale e trazione delle Ferrovie
dello stato dove compie un significativo percorso di carriera passando dal grado di
ispettore nel 1917 a quello di Ispettore principale nel 1921, anno in cui comincia a
dirigere l’Ufficio studi ed esperimenti per le locomotive. Questo passaggio che
occuperà la fase centrale della sua carriera di ingegnere “applicato” dal 1921 al
1938 segna un apporto decisivo nella formazione di Corbellini, il quale comincia a
tradurne le acquisizioni nel settore dell’insegnamento universitario a partire dal
1936, quando ottenuta la libera docenza in “Costruzioni stradali e ferrovie”, ottiene
l’incarico di insegnamento di Tecnica ed Economia dei trasporti presso la Facoltà di
ingegneria dell’Università di Bologna, incarico svolto dal 1936 al 1947. Nel 1947,
infatti, per circostanze fortuite, legate alle reti di socialità di un circolo ricreativo di
alto livello che Corbellini, vedovo da tempo, era solito frequentare a Firenze, venne
attratto nel mondo della politica, divenendo in rapida sequenza ministro Segretario
di Stato per i Trasporti, del quarto e quinto Gabinetto De Gasperi (dal l giugno
1947 al 31 gennaio 1950) e dal novembre 1949 al gennaio 1950 Ministro segretario
di Stato per la Marina mercantile nel quinto gabinetto De Gasperi. Un passaggio
indubbiamente centrale nella sua carriera, considerando che esso coincise con
l’ordinariato e il trasferimento al Politecnico di Milano. Sottolineando la funzione di
coronamento del suo intero percorso, segnata dal conferimento della cattedra di
Tecnica ed Economia dei Trasporti, Corbellini scriveva nel luglio del 1950:
L’esperienza che ho fatto in questi ultimi tre anni di vita ministeriale in materia di
trasporti mi ha convinto sempre più della necessità di dare al Corso universitario un
indirizzo diverso da quello fino ad oggi tenuto in tutte le facoltà di ingegneria, per
orientarlo gradualmente verso una trattazione che abbandoni la tradizionale materia
ferroviaria, per svolgere sempre meglio la parte veramente sostanziale dei principi di
economia e di tecnica che presiedono a tutti i tipi di trasporto 51.
ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNIICO DI MILANO, 950, p. 2, Fascicolo personale Guido
Corbellini.
51
69
Con Manfredini e Corbellini, il Corso per dirigenti d’azienda entrava in una fase di
“modernità” non solo tecnica ma organizzativa e sociale, attraverso la
capitalizzazione di reti istituzionali e sociali ad ampio raggio. Il ruolo strategico
degli organizzatori del corso fu decisivo. Ricordiamo rapidamente che Corbellini
oltre alle funzioni di Ministro e di Senatore delle Repubblica esercitò quella di
Presidente della Commissione di inchieste e studi sull’industria meccanica (CISIM)
e quella di vicepresidente del CNP. Tali funzioni gli permisero di entrare in contatto
coi settori più innovativi della cultura delle organizzazioni per l’impresa e in
particolare col “sistema olivettiano” che, come si è detto, nei primi anni cinquanta
si pose, con la creazione dell’IPSOA, all’avanguardia delle strategie di formazione
dei quadri aziendali. Corbellini esercitò questo suo ruolo di “imprenditore culturale”
non solo nel contesto nazionale ma anche in quello europeo grazie ai rapporti tra il
CNP e l’OECE, in particolare negli anni in cui l’Agenzia Europea di Produttività
sviluppò articolati programmi per la formazione manageriale. Ciò implicava anche
un più forte aggancio con le politiche scientifiche di organizzazione della ricerca
applicata, promosse in quegli anni dal CNR. In una lettera a Gino Cassinis (che, lo
si ricordi, fu anche sindaco di Milano) dell’8 agosto 1952, Corbellini scriveva:
La missione OECE 84 di ritorno a Roma si è intrattenuta con la Giunta esecutiva
del CNP e con me si è espressa in modo molto generale sulle possibilità della ricerca
applicata della nostra Università in genere e del Politecnico di Milano in specie. Era
presente alla riunione anche il professor Colonnetti che ha formalmente dichiarato
che affiancherà nel modo migliore (...) le iniziative e le proposte del CNP (...) Mr.
Hobson in quell’occasione ha detto che sarà prossimamente organizzata una
missione di industriali americani che probabilmente verranno in Italia per assegnare
commesse di particolari ricerche agli istituti universitari. Esse saranno remunerative
anche per il personale in modo da creare un ambiente tecnico di sperimentatori che
si dedichi non solo con passione ma anche con tranquillità a tale importante settore
(... ) Ho ricevuto la tua interessante e dotta lezione di chiusura al corso per dirigenti
d’azienda e ne ho passata copia agli uffici del CNP perché ne traggano il massimo
insegnamento possibile. Ti prego pertanto di ricordarti di inviare a suo tempo al
nostro CNP copia delle pubblicazioni che il Politecnico fa rà sulle possibilità di
ricerca dei nostri istituti, perché ciò potrà essere molto utile 52.
Significativamente in molte delle relazioni e dei discorsi ufficiali tenuti nel corso dei
primi anni cinquanta, Corbellini insistette sul ruolo della formazione dei dirigenti
come “fenomeno sociale e culturale ad ampio raggio” che implicava non solo lo
sviluppo della scienza applicata ma anche “la seconda rivoluzione e cioè la
rivoluzione del fattore umano”, da cui doveva scaturire
una nuova scienza applicata (...) la conoscenza delle leggi che definiscono la
capacità di dirigere e di stimolare il lavoro umano inteso nella sua espressione più
nobile e sintetica (...) la ergotecnica, la cronotecnica e tutte le attività che perfezionano e
completano con metodi razionali e scientifici l’efficienza dell’impiego della macchina debbono
perciò venire animate e completate dalla sociologia applicata del lavoro (...) Le scuole che
52
Ivi.
70
formano i nuovi ingegneri futuri dirigenti di altri uomini, possono ignorare tutto
questo poderoso complesso di nuovi indirizzi? Evidentemente no (...) La società
chiede ai futuri ingegneri il compito sempre più vasto di aumentare la ricchezza
collettiva con nuove creazioni e di operare in modo che essa possa venire
equamente distribuita tra il capitale che la rende possibile, il lavoro che la realizza e
la società che è avida di migliorare il tenore di vita di tutti gli esseri umani
Nella prolusione di apertura dell’anno accademico tenuta al Politecnico nel 1952,
Corbellini lamentava, come si è detto, che nel campo degli studi di ingegneria
l’attenzione si concentrasse prevalentemente sui progressi della fisica applicata e
delle nuove realizzazioni tecniche da essa realizza, ma che poco rilievo venisse dato
“al fattore umano che ha una sua dinamica e trova il suo particolare equilibrio nei
metodi che uniscono l’organizzazione scientifica del lavoro con la sociologia
applicata ai complessi umani”. Egli rilevava dunque la necessità per il Politecnico di
ampliare il suo raggio di contatti con le istituzioni che al di fuori dell’Università
promuovevano attivamente lo sviluppo un tale approccio, le scuole di formazione
dei grandi gruppi industriali (Falck e Pirelli), il CNP, il nuovo corso di Alti studi di
organizzazione aziendale di Torino.
Questo rapido e crescente effetto di inserimento del Corso Mauro nel dinamismo
istituzionale e nel fervore innovativo dei primi anni cinquanta, pilotato da un
ristretto numero di ingegneri in posizione “strategica” tra formazione, reti industriali
e alta amministrazione dello stato, si delineò, come si è detto, soprattutto nel
periodo che seguì la repentina e prematura scomparsa di Mauro, nel febbraio del
1952. Va detto tuttavia che la sua morte segnò più uno spostamento delle
problematiche dal taylorismo “classico” all’organizzazione aziendale in chiave di
gestione delle risorse umane, che una vera e propria cesura negli orientamenti
dell’ingegneria gestionale. Uno spostamento che significativamente si concretizzò in
un processo di ulteriore rafforzamento delle reti esterne al Politecnico rispetto alla
configurazione originaria del Corso Mauro, ma in sostanziale continuità col suo
assetto organizzativo, che faceva leva soprattutto sui docenti esterni.
Tale continuità sembrò sancita, alcuni anni più tardi, dal cospicuo la scito che la
vedova di Mauro, Maria Antonietta Fiorentini, deceduta nell’agosto del 1958, fece
al Politecnico, compiendo così la volontà del marito di dare all’insegnamento
dell’ergotecnica una stabilità istituzionale. E tuttavia furono proprio le vicende
dell’“eredità Mauro” nel loro porsi in rapporto, attraverso la gestione del “fondo”,
con l’evoluzione delle politiche scientifiche interne al Politecnico che rivelano, se
considerate in una prospettiva di lungo periodo, l’emergere di un cruciale punto di
passaggio dalle problematiche della produttività, ancora interne al campo
problematico del taylorismo, a quelle dell’ingegneria gestionale, centrata
sull’approccio dei sistemi complessi, che andò delineandosi a partire dai primi anni
settanta in un contesto di crescente detaylorizzazione dell’ingegneria di produzione.
L’“eredità Mauro”
Francesco Mauro aveva redatto il suo testamento al compimento del suo
sessantesimo anno di età, il 3 marzo del 1947, nominando erede universale la
moglie Antonietta Fiorentini con la clausola che
71
se Ella mi fosse premorta siano versate l.500.000 a ciascuna delle nipoti Federica,
Adriana e Nicoletta Fiorentini (...) la raccolta dei minerali vada al Museo Civico di
Storia naturale di Milano (...) vadano ai civici Musei d’arte di Milano tutti e soli
quegli oggetti gioielli, sculture, giade, dipinto oggetti di scavo, mobili che la
direzione riterrà adatti per l’esposizione al pubblico; tutto il resto vada al
Politecnico di Milano affinché col ricavo possa istituire una cattedra di ergotecnica
(organizzazione scientifica del lavoro e razionalizzazione) 53
Alla morte della signora Mauro, avvenuta 15 agosto 1958, il patrimonio risultò
ulteriormente accresciuto dai beni che Antonietta Fiorentini aveva ereditato dalla
madre Antonietta Bezenzanica, vedova del prof. Angelo Fiorentini e che
consistevano nella quarta parte di una casa di 83 vani in Milano, via Giannone 6, e
di un’altra di 62 vani allo stesso numero; una quarta parte di una casa di 77 vani in
Milano, via Giusti 5; una quarta parte di una casa di 75 vani in Milano, via Giusti 5;
una quarta parte di una casa di 32 vani in Roma, via Villa Ruffo5.
Il testamento olografo della vedova Mauro, redatto il 16 marzo 1952, un mese dopo
la morte del marito, “istituiva suo erede universale il Politecnico di Milano”.
L’opposizione fatta dalle nipoti della signora Mauro, che impugnarono il testamento
(che essi ritenevano, stando alle dichiarazioni della defunta “superato”) con atto di
citazione del 20 ottobre 1959, dichiarandosi legittime eredi, si risolse il 31 marzo
del 1962, in un’istanza di transazione. In cambio della rinuncia delle signore
Federica, Adriana e Nicoletta a “qualsiasi eccezione o diritto in ordine alla
destinazione che il Politecnico di Milano riterrà di dare ai cespiti ereditari” venivano
loro trasferiti in piena proprietà i seguenti beni: la quota indivisa delle proprietà
immobiliari sopra descritte, trecento azioni nominative ordinarie della Pirelli e C.,
5001 azioni ordinarie della Montecatini - Società Generale per l’Industria Mineraria
e Chimica - Società per azioni, 999 azioni nominative ordinarie della Vizzola SPA,
oggetti d’arte e di valore facenti parte degli arredi delle suddette abitazioni, la
somma in contanti di L. 50.000.000, per un valore complessivo di L. 224.341.258.
Nel documento notificato dal rettore del Politecnico al Ministro della pubblica
istruzione l’11 ottobre 1965, si faceva osservare che
le autorità accademiche del Politecnico avevano rilevato che, pur dopo il
trasferimento in proprietà alle signore Fiorentini del complesso di beni concordato
(...) la parte del patrimonio dell’eredità della Signora Fiorentini vedova Mauro (...)
di cui il Politecnico di Milano ha acquisito l’effettiva proprietà, è ingente54.
Si trattava di una somma complessiva di 637.526.997 lire che il Politecnico chiese
di destinare alla costituzione di un’istituzione senza personalità giuridica,
denominata Fondo Francesco e Antonietta Mauro.
Il fondo — si precisava nel documento firmato dal rettore Gino Bozza in data ll
ottobre 1965 — è destinato, in esecuzione del testamento o1ografo in data 16
marzo 1952 della signora Antonietta Fiorentini, a sostenere le spese necessarie per
lo svolgimento presso la Facoltà di ingegneria del Politecnico di Milano: a)
53
54
ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNIICO DI MILANO, Fondo Francesco e Antonietta Mauro.
Ivi.
72
dell’insegnamento di ergotecnica; b) di ricerche scientifiche e di ogni altra iniziativa
intesa allo sviluppo della disciplina medesima.
Va messo in rilievo che il Senato accademico cercò di mantenere l’assetto originario
dell’insegnamento di ergotecnica presso il Politecnico, che era quello di disciplina
complementare insegnata per incarico e dunque da un docente non di ruolo. Una
delibera del Consiglio di Stato che rilevava l’incompleta ottemperanza di tale
orientamento rispetto a quanto espresso nel testamento della defunta, che chiedeva
la creazione di una cattedra, obbligò il Politecnico a mettere in atto la
trasformazione dell’incarico in insegnamento di ruolo. Tuttavia dalle vicende che
caratterizzarono in seguito la politica di investimenti del Fondo, si evince che fu
soprattutto il secondo dei punti sopra elencati che costituì il catalizzatore
dell’attività promossa dal Politecnico, nell’ambito delle prime fasi di sviluppo
dell’ingegneria gestionale e nel suo processo di differenziazione dai principi
ispiratori dell’ergotecnica.
Tale orientamento fu reso possibile soprattutto dall’applicazione dell’articolo 7 del
regolamento del Fondo il quale sanciva il ruolo decisionale del Comitato Direttivo
(composto dal rettore del Politecnico, dal preside della Facoltà di ingegneria e da
due membri scelti rispettivamente dal Consiglio della Facoltà di Ingegneria e dal
Consiglio di Amministrazione del Politecnico) in materia di promozione delle
iniziative ritenute utili per il raggiungimento delle finalità del Fondo 55.
Un mutamento decisivo: l’organizzazione della ricerca negli anni settanta e la teoria
dei sistemi complessi
Il processo di allargamento delle reti esterne del Politecnico fu rafforzato
dall’iniziativa di Dante Pagani, che era stato allievo di Giulio Natta, ma che aveva
avuto una carriera accademica molto lenta. Incaricato dell’insegnamento di
Tecnologie delle pitture e delle vernici presso il Politecnico di Milano dal 1958, era
diventato professore ordinario presso lo stesso Politecnico solo nel 1967, quasi alle
soglie del pensionamento. Subito dopo il conferimento della cattedra, con l’intento
di dare ulteriore incremento alle tematiche e agli impulsi di collaborazione tra
l’università e il mondo dell’impresa, egli aveva avuto l’idea di creare un “Corso di
Cultura e Gestione delle Aziende” che aveva il compito di rafforzare le strategie del
“Corso Mauro”, in anni in cui il sostegno degli industriali alle politiche scientifiche
e di formazione si era notevolmente indebolito dopo la crisi economica del 196364. Nato con l’appoggio della Pirelli e della Associazione degli amici del
Politecnico, di cui Pagani era presidente, il corso si teneva tutti i mercoledì e tutti i
sabato, con la partecipazione di docenti che venivano dai diversi settori della
formazione gestionale: Loriga, per la direzione del personale, Massa e Brunetti per il
controllo di produzione, Talamona per il marketing, Bozza per l’analisi quantitativa.
L’innovazione propulsiva per lo sviluppo dell’ingegneria gestionale non venne
tuttavia dal rafforzamento di queste reti esterne. Il nucleo originario di un
mutamento di grande portata venne piuttosto dallo sviluppo, in seno al fondo
Mauro, di piccoli nuclei di ricerca applicata che andarono rafforzandosi soprattutto
nel corso della seconda metà degli anni settanta. Uno di essi faceva capo all’Istituto
di Elettrochimica, nell’ambito del quale un gruppo di studiosi — Mazza, Sinigaglia,
55
Estratto dal Verbale dell'Adunanza del Senato accademico in data 13 luglio 1962, ivi.
73
Dina, Nano — avviò, a partire dai primi anni settanta, un programma di ricerca sui
fattori ambientali e l’inquinamento, i fattori di rischio nell’industria siderurgica e
nell’acciaieria elettrica, sviluppando uno studio dei fattori di complessità sociale e
non meramente tecnica nell’articolazione tra impiantistica e organizzazione del
lavoro, elaborato sulla base di un approccio empirico, a partire dall’analisi
approfondita di casi aziendali significativi.
Lo sviluppo di tali ricerche si valse ampiamente delle risorse create dal fondo
Mauro, integrate con altre risorse che si resero disponibili nel corso degli anni
settanta con l’incremento delle strategie di formazione nell’ambito della gestione —
in particolare il programma denominato PFM promosso dalla Confindustria con la
collaborazione dell’EIASM di Bruxelles e con un finanziamento della Ford
Foundation — che offriva supporto all’organizzazione di workshop di ricerca e borse
di studio post-lauream 56.
Il punto focale che innescò il mutamento fu comunque rappresentato dagli
ingegneri che si raccolsero attorno ad un giovanissimo docente, Emanuele Biondi,
che nel 1963, poco più che trentenne, aveva ottenuto la cattedra di elettrotecnica,
succedendo al suo maestro Bottani, che era stato il primo presidente della
Metropolitana di Milano. Dopo molti anni di ricerche nel settore dell’automazione
industriale (a fianco di Quazza dell’Enel e di Costadoni della CGE di Bagnoli),
Biondi sviluppò, soprattutto attraverso i suoi allievi Rinaldi, Guardabassi e
Locatelli, intensi contatti coi docenti e i ricercatori dello IIASA (International
Institut of Applied System Analysis), con Raiffa e Zipkin in particolare, i quali
avevano elaborato un modello di teoria delle decisioni a carattere fortemente
matematico. Creato a Laxemburg, all’inizio degli anni settanta, col sostegno della
Fondazione Ford e delle alte autorità del governo sovietico (Gvishiani), l’IIASA si
proponeva di favorire la ricerca operativa in chiave di ottimizzazione dei sistemi
complessi attraverso lo sviluppo delle matematiche applicate e dare impulso alla
cooperazione tra gli scienziati occidentali e quelli di oltre cortina, in particolare i
polacchi che avevano fatto progressi importanti in questo settore di ricerca 57. Nel
suo lavoro di ricerca Biondi aveva seguito il tracciato pionieristico di Zadeh, il
quale, alla fine degli anni sessanta 58, era approdato a una definizione dei sistemi
sfumati, sottoposti a trattamento algebrico in diversi settori di applicazione, che
andavano dalla gestione alla meteorologia. In questo percorso Biondi e la sua
équipe cominciarono a riflettere sulla crucialità dell’im-postazione dei problemi
all’ingresso del tracciato che doveva portare al “progetto” e dunque operarono una
riformulazione delle mappe cognitive dell’ingegnere progettista classico per il quale
l’obiettivo è la realizzazione del “prodotto”, ridefinendo il punto focale: non più il
progetto ma la programmazione concettuale necessaria alla comprensione del
sistema (l’impresa, l’ambiente, e più recentemente, nel caso della bioingegneria, il
sistema nervoso, muscolare ecc.) e la sua traduzione in linguaggio matematico. In
56 Si v. il mio The enclosure effect. Innovation without standardisation in Italian Management Education
(1950's-1970's), in L. ENGWALL e V. ZAMAGNI (a cura di), Management Education in Historical Perspective,
Manchester Universtity Press, in corso di pubblicazione.
57 Sulle origini dello IIASA e le politiche della Fondazione Ford, si v. G. GEMELLI, From Imitation to
Competitive-Cooperation. The Ford Foundation and Management Education in Western Europe 1950s-1970s, EUI
working papers, RSC No 97/35.
58 L. A. ZADEH, Toward a Theory of fuzzy systems, Washington, National Aereonautics and Space
Administration, 1969.
74
questo percorso Biondi trovò resistenze e consensi in una rete di relazioni che è
molto difficile dirimere per l’osservatore esterno e per di più fondamentalmente
estraneo alle problematiche scientifiche qui sommariamente e superficialmente
tratteggiate.
Si può osservare che la policy che orientava questi programmi di ricerca, a differenza
delle tendenze “centrifughe” del “Corso Mauro” era ispirata principalmente
all’adattamento delle risorse alla configurazione istituzionale e strategica del
Politecnico 59. Una circolare del Presidente del Comitato direttivo del Fondo Mauro
del dicembre 1979 sanzionava una pratica che si era andata delineando
“spontaneamente” nel corso di un decennio, attraverso la quale la strategia della
politica scientifica alimentata dal fondo si era spostata dalla ergotecnica e da
un’ingegneria di produzione che considerava l’approccio organizzativo in termini di
interazione con variabili di tipo esterno alla problematica dei sistemi complessi che
tendeva invece come si è detto a internalizzarle in forma processuale. Come si
evince dal documento citato di seguito la configurazione delle strategie di ricerca fu
all’inizio piuttosto ibrida e probabilmente anche attraversata da lotte non sempre
palesemente dichiarate (tra meccanici e sistemistici ad esempio) ai quali il comitato
direttivo cercò di ovviare con politiche di concertazione fatte convergere nel
sempre più instabile e dinamico settore dell’“ingegneria di produzione”.
Allo scopo di dare impulso sia pure parziale a quella integrazione e a quello
sviluppo delle attività de Politecnico nel campo dell’ingegneria della produzione,
che più volte sono stati riconosciuti auspicabili, il comitato direttivo raccomanda a
tutti gli interessati a ricerche e attività afferenti le finalità istitutive del fondo
Mauro, di costituirsi in un gruppo di lavoro permanente con precise procedure e
regole di funzionamento da studiarsi (ad esempio sul tipo di quelle del CNR). In tal
modo la molteplicità delle iniziative potrà trovare un coordinamento operativo
stabile ed una integrazione culturale organica con effetti sinergici. Inoltre i docenti e
ricercatori interessati cominceranno così ad acquisire la consuetudine ad un lavoro
coordinato ed infine si avrà l’occasione di fornire alla Facoltà dimostrazione
concreta delle opportunità di dare alle attività di ricerca attinenti le finalità del
Fondo Mauro collocazione in una più vasta struttura riguardante l’area
dell’ingegneria della produzione 60.
Un settore decisivo nel potenziamento della ricerca e delle attività di
coordinamento fu costituito dalla cooperazione instauratasi tra l’Istituto di
ergotecnica, diretto da Renato Wegner, che faceva parte di diritto del Consiglio
direttivo del Fondo, e l’Istituto di elettrotecnica e di elettronica che sin dalla metà
degli anni settanta sotto l’impulso di Biondi e poi dei suoi allievi Adriano De Maio,
Francesco Brioschi e Umberto Bertelé e nel quadro di un articolato progetto sul
decentramento produttivo in diversi settori industriali (dalla lavorazione per
asportazione del truciolo nell’industria meccanica al settore tessile) sviluppò
Si v. al proposito E. Biondi, La bioingegneria: un passo verso una nuova cultura politecnica, Prolusione
per l'apertura dell'Anno Accademico, 1995-96.
60 Verbale dell'adunanza del Comitato direttivo del Fondo Francesco e Antonietta Mauro, del 5
Febbraio 1979, p. 2, ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Fondo Francesco e
Antonietta Mauro.
59
75
un’intensa collaborazione anche con altre università, in particolare la Bocconi e
l’Università di Padova.
La fase iniziale di questo processo di smantellamento del legame tra taylorismo e
ingegneria di produzione e la crescita del nuovo paradigma dei sistemi complessi
coincide con la crescita della strategie di sviluppo della “formazione continua” in
cui i corsi di specializzazione non fecero che moltiplicarsi. Un fenomeno che non fu
affatto limitato all’Italia ma che, come ha mostrato A. Grelon, si delineò anche in
Francia più o meno nello stesso periodo. Nei confronti di questo processo di
frammentazione specialistica emerse rapidamente una contro-tendenza
rappresentata significativamente dagli ingegneri “sistemistici”. Nel novembre del
1977, su iniziativa del Rettore del Politecnico, professor Dadda, nell’adunanza del
Comitato direttivo del Fondo Francesco Mauro venne espresso
unanimemente l’auspicio che al Politecnico si venga a determinare nel prossimo
futuro una concentrazione di tutte le attività di studio e ricerca sull’ambiente
(analisi, controllo, e bonifica di tutti i tipi di ambiente e non soli industriali) in un
“Centro” (...) unico e autosufficiente.
Nell’immediato possono essere
incoraggiate dal Fondo Mauro iniziative interdisciplinari che utilizzino competenze
specializzate disponibili attualmente solo in ambiti disciplinari e specialistici.
Tuttavia tali iniziative dovrebbero contribuire alla formazione di nuove competenze
che si possono successivamente concentrare come auspicato in un centro unico 61.
Nel 1976 venne ad esempio istituito il corso di perfezionamento in “Progettazione
e gestione dei sistemi di produzione”. Nella lettera inviata da Renato Wegner e De
Maio al Consiglio direttivo della Fondazione Mauro si faceva presente che
L’esecuzione del corso nel 1977 avrebbe dovuto dare utili indicazioni per la
progettazione di un corso analogo ma molto più esteso di durata annuale, che
dovrebbe proporsi come VI anno di perfezionamento per i laureati in ingegneria 62.
È interessante osservare che anche i criteri di attribuzione delle Borse di studio
individuali nel quadro dell’attività della Fondazione seguivano un disegno
istituzionale volto a promuovere non solo la logica interdisciplinare ma anche la
sinergia dei gruppi di lavoro. La ricerca di uno dei borsisti per l’anno 1976, Franco
Caron, sul tema “Organizzazione del lavoro e relativi riflessi impiantistici”
prevedeva, ad esempio, non solo l’acquisizione di conoscenze inerenti la realtà
aziendale, ma anche la collaborazione di esperti aziendali in sede di elaborazione
delle metodologie generali di approccio alla progettazione degli impianti industriali.
L’effetto sinergico prodotto dal coagularsi di gruppi di ricercatori nel corso degli
anni settanta attorno ai laboratori di ricerca sopra menzionati portò alla creazione
nel corso dei primi anni ottanta di un “Gruppo per gli studi sui sistemi di
produzione del lavoro”, che si sviluppò secondo modelli di comportamento basati
sulla cooperazione competitiva dei gruppi di ricerca. Le ricerche inerenti i settori
61 Verbale dell'adunanza del Comitato direttivo del Fondo Francesco ed Antonietta Mauro, in data
3 novembre 1977, in ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Fondo Francesco e
Antonietta Mauro.
62 ARCHIVIO GENERALE DEL POLITECNICO DI MILANO, Fondo Francesco e Antonietta Mauro.
76
dell’analisi operativa — strategia della produzione, logistica industriale,
programmazione della produzione — della simulazione tecnologica e
dell’organizzazione e gestione aziendale divennero progressivamente dominanti,
soprattutto attraverso il lavoro didattico e di ricerca svolto da Emanuele Biondi,
rispetto al nucleo ergotecnico e dei meccanici che sviluppava le problematiche più
tradizionali dell’ingegneria di produzione. Un impulso teorico di rilievo, che non
costituì tuttavia il nucleo del “mutamento di prospettiva”, ma servì, comunque, da
supporto alla trasformazione in atto venne dalla rapida disseminazione nell’ambito
del Politecnico dell’approccio denominato strategic management. Al Politecnico di
Milano tale approccio funzionò da supporto teorico e organizzativo allo sviluppo
della teoria dei sistemi complessi e si innestò nel solido sviluppo di un altro settore
di ricerca determinante per lo sviluppo dell’ingegneria gestionale: l’analisi operativa.
Si noti che questo passaggio, dall’analisi operativa all’approccio in chiave di sistemi
complessi, non era affatto inedito nel contesto europeo, dove era emerso con effetti
istituzionali differenziati. In Francia, in particolare, il nucleo dei giovani
polytechniciens formatosi attorno a Maurice Allais tra la fine degli anni quaranta e i
primi anni cinquanta fu portatore di un profondo mutamento nella configurazione
professionale e nell’habitus mentale del polytechnicien tradizionale, dal quale non solo
scaturì la figura dell’ingegnere-economista ma che, in alcuni casi, portò i giovani
ingegneri verso le problematiche del management di derivazione harvardiana, dunque
ad un allontanamento dalla professione di ingegnere che resta invece come un
elemento fortemente caratterizzante gli ingegneri gestionali italiani. Ricordiamo che
i fondatori della prima business school europea, l’INSEAD di Fontainebleau erano
tutti dei polytechniciens, allievi di Allais che avevano completato la loro formazione
alla Harvard Business School.
Tornando al Politecnico di Milano e al ruolo della problematica dello strategic
management, dobbiamo ricordare che nella nota introduttiva al programma di ricerche
proposto dal “Gruppo per gli studi sui sistemi di produzione del lavoro” per il 1980
si moltiplicano le citazioni di Igor Ansoff, il massimo teorico di questo
orientamento che si era rapidamente imposto nelle grandi scuole di management
americane ed europee, ma che al Politecnico di Milano ha avuto come si è detto più
una funzione di supporto allo sviluppo delle problematiche dei sistemi complessi
che di una teoria autonoma, dotata di un effettivo potere di aggregazione
accademica e scientifica. La nota sottolineava che l’automazione in produzione e
l’introduzione dell’innovazione tecnologica hanno evidenziato il legame tra sistema
sociale e sistema tecnico, nella rappresentazione della realtà dell’impresa, mettendo
l’accento sulle necessità di una metodologia di valutazione dell’impatto
dell’innovazione tecnologica sull’impresa e sull’“occupazione”. Lo sviluppo di
questo orientamento portò rapidamente i ricercatori del Politecnico a rilevare
l’inadeguatezza sia dell’ap-proccio di tipo funzionale che dell’approccio di tipo
organico, e a mettere in rilievo la valenza strategica dei fattori evolutivi in una
direzione di ricerca che faceva proprie le più recenti acquisizioni della teoria della
complessità e che era volta prevalentemente ad applicarle al settore operativamente
cruciale del decentramento delle strutture produttive.
Il rapido sviluppo e l’effetto moltiplicatore delle ricerche promosse dal “Gruppo per
gli studi sui sistemi di produzione del lavoro” alimentò un processo di accelerata
integrazione tra le politiche scientifiche del Politecnico e l’ambiente industriale e
77
amministrativo lombardo. Il Comune, la Provincia, la Regione affidarono infatti ai
docenti del Politecnico il ruolo di garanti della tutela ambientale e l’organizzazione
dei progetti di prevenzione e bonifica. Si legga a esempio la lettera inviata dal
sindaco del comune di Sesto San Giovanni al prof. Sergio Carrà dell’Istituto di
Chimica Fisica Elettronica e Metallurgia del Politecnico:
Questa Amministrazione comunale, ritenendo fondamentale per la realizzazione
della prevenzione primaria garantire attraverso i servizi che gestisce, non solo
l’individuazione degli agenti nocivi degli ambienti industriali, ma anche le
indispensabili indicazioni per l’attuazione delle bonifiche ambientali, data la
presenza nelle nostre città di grandi complessi industriali (Falk, E. Marelli, Breda)
chiede di poter realizzare un rapporto di collaborazione costate con il vostro istituto
63 .
Nel corso degli anni settanta il Fondo Mauro agì da contenitore e da vettore nella
creazione di un vincolo dinamico tra il Politecnico e l’ambiente industriale
lombardo, fondato però non sui principi dell’ergotecnica, come nel solco tracciato
da Mauro, ma sull’assunzione del principio della complessità come orientamento del
design della ricerca e poi di un progetto istituzionale dai connotati sempre più chiari.
Parallelamente, tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta anche il Corso
per dirigenti d’azienda che sino all’inizio degli anni settanta presentava un
“manifesto” di rilievo con la partecipazione di consulenti con un ottimo profilo
professionale (Pierluigi Malinverni, Ennio Baldini) e del marketing (Tagliacarne,
Bellavista) e con la collaborazione dei più noti e competenti “direttori del
personale” (da Bozzola a Di Colloredo), si svuotò delle funzioni propulsive che
aveva avuto nel periodo precedente. Al tempo stesso maturò un processo di
internalizzazione della formazione gestionale, che ebbe sempre meno bisogno di
“supplenze” esterne e che si valse di canali autonomi e ormai consolidati col mondo
industriale locale e regionale. Nel verbale del Consiglio della Facoltà di ingegneria
del 15 febbraio 1977 si sottolineò con vigore il nuovo ruolo del Politecnico nella
gestione del Corso Mauro, stabilendo in particolare che il coordinatore del corso
dovesse essere un Docente della Facoltà di ingegneria del Politecnico e dovesse
esercitare un controllo didattico e amministrativo.
Nel corso del periodo compreso tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta
l’innovazione del design formativo al Politecnico di Milano, derivò principalmente
dall’intreccio tra l’assunzione del punto di vista della complessità sociale nell’analisi
dei fenomeni di trasformazione industriale e tecnologica e da un processo di
negoziazione e di articolazione tra lo sviluppo di strategie diversificate, delineatesi
nel medio periodo (di cui come si è visto il Fondo Mauro fu un vettore a dinamismo
decrescente) e la definizione nel breve periodo di una struttura istituzionale atta a
fornire un assetto organizzativo alla logica del cambiamento epistemologico in atto.
Da tale assetto, l’organizzazione scientifica del lavoro, che era stata il centro
motore della problematica e dell’azione organizzativa di Mauro, veniva ormai
definitivamente espunta.
Lettera del sindaco di Sesto San Giovanni al professor Sergio Carrà del 27 gennaio 1978,
ARCHIVIO GENERALE DEI POLITECNICO DI MILANO, Fondo Francesco e Antonietta Mauro.
63
78
Strategia e struttura: verso il corso di Laurea in Ingegneria Gestionale
Ad una dimensione estrinsecamente interdisciplinare — coordinamento dei corsi
specialistici — andò sostituendosi una logica interscientifica che poneva al suo
centro la “formulazione dei problemi”. Alcune figure come quella del rettore Dadda
agirono da punto di intersezione tra queste logiche opposte e potenzialmente
confliggenti. In una relazione tenuta al “Corso Mauro” nei primi anni settanta il
rettore del Politecnico, Luigi Dadda, dichiarava:
Il tema dell’istruzione permanente — sosteneva Dadda — va ben oltre le
motivazioni derivanti dalle necessità dell’aggiornamento professionale, per
assumere il significato di una rivalutazione della cultura non più concepita come
patrimonio di una ristretta élite, ma come il necessario fondamento della vita
spirituale di tutti i cittadini (...) Se da una parte l’adeguamento dei programmi di
studi allo sviluppo della tecnologia va perseguito per non correre il rischio del
distacco fra la scuola e il mondo attivo, non si può d’altra parte non vedere il
pericolo di una frammentazione della conoscenza, mentre è compito della scuola
operare una sintesi della conoscenza stessa e di promuovere l’interdisciplinarietà.
Anche per tale motivi (...) è indispensabile un ripensamento globale dei compiti del
Politecnico.
Dadda insisteva soprattutto sulla necessità di integrare diverse prospettive e
approcci di analisi dei problemi ingegneristici, in conformità con lo spirito sintetico
della moderna tecnologia, sulla necessità di formare il “nuovo ingegnere” all’uso
simultaneo di più tecnologie e alla cooperazione con altri colleghi “per il
raggiungimento di scopi complessi”. Tale osservazione, continuava Dadda,
porta a segnalare la centralità della formazione sistemistica che non solo educa
l’allievo ad una mentalità per la quale l’oggetto della propria attività di progetto è
visto in relazione al più vasto sistema in cui esso è inserito, prevedendone tutte le
interazioni, ma fornisce anche importanti metodologie scientifiche.
Ricerca, progettazione, produzione o costruzione e gestione (non solo dei fattori
economico-organizzativi ma anche dei fattori umani, nel contesto privato e in
quello pubblico-servizi sociali e territorio) dovevano fare parte di un unico “design
formativo”, in cui l’apporto delle discipline sociologiche, oltre che di quelle
aziendali e economiche, ormai consolidate come fattori complementari della
formazione tecnica e specialistica dell’ingegnere, risultata decisivo.
Ritengo di grande importanza — concludeva il Rettore — che i tecnici si rivolgano
ai problemi sociali e politici (e con ciò non intendo dire “partitici”) con la coscienza
del rilevante ruolo che essi sono potenzialmente capaci di assolvere per il bene della
comunità, cioè della “polis”.
Ricordiamo che un paio di anni dopo il consiglio della Facoltà di ingegneria
decideva l’introduzione di un insegnamento di Istituzioni di scienze economiche e
sociali.
79
Il messaggio lanciato un quarantennio prima da Elton Mayo sulla necessità di
fondare la gestione sull’interscienza, cioè sull’articolazione di “fenomeni sociali
totali” e sul fatto che essa incorporasse, come connotato distintivo, rispetto alle
prime fasi del taylorismo, una filosofia dei valori connessi al “ruolo sociale
dell’ingegnere”, sembrava, dunque, farsi strada, attraverso il vettore teorico dello
strategic management e i modelli organizzativi ad esso connessi e soprattutto grazie alla
funzione, scientificamente e accademicamente aggregante, della teoria dei sistemi
complessi, nel circuito formativo del Politecnico. E questo non più attraverso
l’apporto esterno di un corso di perfezionamento in materia gestionale ma come
“cultura di un’impresa educativa”, il cui principale obiettivo era l’internalizzazione
dell’ambiente scientifico, tecnologico e industriale come sistema a complessità e
interdipendenza crescente. Questo processo di internalizzazione dell’ambiente —
che andò consolidandosi, come si è detto, a partire dalla seconda metà degli anni
settanta, con l’arrivo al Politecnico di una nuova generazione di docenti che
avevano anche solide radici nel mondo della consulenza milanese — costituì ad un
tempo il culmine dell’evoluzione storica e il punto critico di svuotamento della
funzione strategica del corso Mauro, nonché il punto di avvio della definizione di
una nuova “struttura organizzativa” il cui cardine non erano più i corsi di
perfezionamento ma la differenziazione dei corsi di laurea.
Occorre — scriveva il Rettore Dadda — che i laureati del Politecnico, che oggi si
differenziano a seconda della specializzazione assunta e tuttavia conservano una
comune, vasta preparazione di base, si differenzino ulteriormente non solo per le
nuove specializzazioni apprese, ma anche per quanto riguarda la preparazione di
base stessa, che potrà essere orientata in modo differenziato a seconda del tipo di
laurea.
Il fondo Mauro nel corso degli anni settanta e dei primi anni ottanta fornì senza
dubbio un impulso allo sviluppo di strategie di formazione rispondenti a quanto
enunciato dal Rettore nella relazione sopra citata, agendo come supporto all’attività
di ricerca inerente i sistemi di produzione e in particolare alimentando il lavoro
degli studiosi che facevano propria la logica dei sistemi complessi. Agì, però anche,
paradossalmente, da vettore del processo di svuotamento della funzione propulsiva
del Corso Mauro, attivando una sorta di “chiasmo” istituzionale, che si tradusse in
un effetto di scambio energetico incrociato, a valenza entropica se rapportato al
ruolo che il Corso Mauro e le problematiche del taylorismo e dell’ergonomia di
ispirazione meccanicistica avevano avuto nei decenni precedenti.
Nel 1979 il professor Adriano De Maio, al quale era stato affidato l’incarico di
coordinare il corso e di dare seguito alla collaborazione con l’IDI (che su
commissione dell’ALDAI, aveva dal 1971 il compito di seguire l’organizzazione e
lo svolgimento del Corso Mauro) inviava una lettera piuttosto allarmata al rettore
Dadda sottolineando la “situazione insostenibile” del Corso Mauro la cui edizione
autunnale era stata annullata per non avere raggiunto un numero sufficiente di
iscrizioni. La lettera faceva il punto sulla situazione di frizione che si era andata
creando tra i partner tradizionali del Corso, il Politecnico, l’ALDAI e l’IDI, i cui
obiettivi si andavano radicalmente differenziando, nel momento in cui il corso
subiva una nuova riorganizzazione, nell’ambito del Programma di istruzione
80
permanente, sotto la guida di De Maio, assumendo anche la nuova denominazione
di Corso Dirigenti di Aziende Francesco Mauro.
È chiaro — scrive De Maio — che la responsabilità “tecnica” del corso, contenuti e
modalità didattiche, deve essere di esclusiva pertinenza del Politecnico, con la
precisazione del fatto che il corso, proprio in quanto tenuto dal Politecnico, ha
senso soltanto se punta su un programma innovativo e non già se si pone l’obiettivo
di fare concorrenza a corsi tradizionali, peraltro egregiamente condotti da
organizzazioni “profit oriented” quali, ad esempio, l’ISEO, la CEGOS, e lo stesso
IDI (...) molto impegnata su altre iniziative, che (...) erano fonti di profitto per l’IDI
stesso e che per tale motivo non aveva alcun interesse a spendere tempo e risorse
per curare l’attività promozionale relativa al corso Mauro 64.
L’inserimento del corso nell’ambito del Programma di istruzione permanente a
partire dal 1977, comportava, come si è accennato, non solo un processo di più
forte internalizzazione delle sue strategie formative nella configurazione
istituzionale del Politecnico ma anche il consolidamento della docenza interna
rispetto alla tradizionale formula dei corsi, attribuiti a docenti esterni e provenienti
sia da altre Università che dall’IDI stessa. La situazione altalenante che si creò negli
anni successivi non portò affatto ad un “nuovo decollo”, anche se il corso continuò
formalmente fino al 1983 sotto la direzione del professor Brandolese. Nel 1983 una
breve nota nel verbale del consiglio della Facoltà di ingegneria (datata 3 novembre)
informava che il Corso “Francesco Mauro” di formazione manageriale “ non potrà
avere luogo per insufficienza di iscritti”.
La data è significativa perché corrisponde al periodo immediatamente successivo al
varo di due iniziative di ampia portata: il Corso di Laurea in Ingegneria delle
Tecnologie Industriali ad indirizzo economico organizzativo e il Master in
Ingegneria della Produzione.
Il nuovo corso di Laurea — scriveva il professor Dadda, in una circolare del 22
maggio 1984 — ha come obiettivo la creazione di figure professionali, molto
diffuse negli altri paesi industriali, che affianchino a solide conoscenze
metodologiche e tecnologiche (soprattutto nelle aree più innovative) una cultura
adeguata di carattere economico, organizzativo e gestionale (...) Il Master in
Ingegneria della Produzione costituisce un importante complemento del corso di
Laurea, per il suo carattere postlauream et post experientiam. Volto alla formazione di
giovani manager in grado di gestire “sistemi complessi”, esso è caratterizzato,
rispetto alle business schools tradizionali, dai problemi posti dalla introduzione e
dall’utilizzo delle nuove tecnologie.
Una tematica, non lo si dimentichi, che a partire dalla metà degli anni settanta era
stata al centro del dibattito internazionale sulla ridefinizione del curriculum delle
grandi business schools europee, e che aveva portato, in modo a dire il vero affrettato,
alla creazione, seguita da una altrettanto rapida involuzione, dell’International
Institut for Management of Technology, con sede proprio a Milano. Non si
Lettera di A. De Maio a L. Dadda deI 21 dicembre 1979, ARCHIVIO GENERALE DEL
POLITECNICO DI MILANO , Corso Mauro.
64
81
dimentichi inoltre che componenti significative dello stesso Politecnico avevano
cercato di portare avanti, anche in questo caso senza successo, il progetto di creare
un corso di laurea in Tecnologia della produzione. Considerando questi “scacchi”,
la creazione e il potenziamento del MIP avevano dunque un rilievo strategico.
Nella circolare Dadda dava risalto non solo alla strategie di coordinamento del MIP
col nuovo corso di Laurea ma anche alla costruzione di un “contatto strutturato”
con il mondo industriale, che “potrà poi essere esteso al complesso delle attività del
Politecnico in questa area”.
Il processo di creazione del corso di Laurea in Ingegneria gestionale iniziò nel
gennaio del ‘79 con la proposta di sdoppiamento, su richiesta del Consiglio
Delegato di Elettronica, del corso di Organizzazione aziendale che inizialmente
comportava
una sezione A, specificamente dedicata agli allievi che frequentano
successivamente il corso di Gestione aziendale, ossia prevalentemente quelli del
sottoindirizzo organizzativo, dell’indirizzo sistemi e quelli del sottoindirizzo sistemi
informativi dell’indirizzo calcolatori del corso di Laurea in Ingegneria elettronica, ed
una sezione B, differenziata nel contenuto, la quale si rivolge agli altri indirizzi del
Corso di Laurea in Ingegneria elettronica.
La proposta non venne accolta ma rivela, sul piano della programmazione didattica,
il processo di sedimentazione istituzionale di una differenziazione che inizialmente
e proprio nel quadro dell’attività e delle politiche scientifiche del “Fondo Mauro”
aveva riguardato i gruppi di ricerca che sin dalla seconda metà degli anni settanta
apparivano articolati tra un settore nettamente ergonomico, un nucleo di
Progettazione dei sistemi di produzione, un nucleo studio e progettazione della
tecnologia e un nucleo Organizzazione e gestione aziendale.
Il settore della Ricerca operativa venne accademicamente rafforzato nell’aprile del
1979 con conferimento dell’ordinariato a Francesco Brioschi, che nel 1977 aveva
fatto parte della Commissione incaricata dalla Presidenza del consiglio dei ministri
di redigere il piano agricolo alimentare e che aveva messo a punto un modello per
l’effetto della variazione dei prezzi agricoli sui prezzi degli alimenti destinati al
consumo finale e un modello ingresso-uscita (del tipo von Neumann) per l’analisi
dei flussi in quantità nell’intero compatto agro-alimentare. A proposito di Brioschi
va detto che nella genealogia del corso di Laurea in Ingegneria gestionale vi sono
aspetti antropologicamente interessanti. Alcuni degli attori di tale processo, in
particolare Antongiulio Dornig e soprattutto Francesco Brioschi, sono infatti, per
reti familiari, legati alle radici più profonde e illustri della storia del Politecnico.
Questo aspetto inerente le forme elementari della vita associata, la “familiarità delle
reti professionali e l’aristocrazia dei lignaggi accademici” si è integrato con forme
più complesse di sociabilità come la creazione di “gruppi di pressione”, a carattere
generazionale, piuttosto compatti, formatisi originariamente nel quadro della ricerca
sui “sistemi complessi” e rinsaldati poi da attività professionali legate alla
consulenza o alla comune appartenenza a frazioni politico-intellettuali dell’élite
cittadina, di cui occorrerebbe analizzare più approfonditamente la genealogia e la
configurazione in termini di relazioni e di evoluzione delle medesime tra gli anni
settanta e i tardi anni ottanta.
82
Da una prima, parziale ricognizione compiuta nei verbali del Consiglio di corso di
Laurea delle Facoltà di ingegneria si può ad esempio rilevare che il gruppo formato
da Bertelé, De Maio, Maffioli e Brioschi, sostenuto dalla maggior parte dei membri
del Consiglio delegato degli Elettronici, si è opposto concordemente all’attribuzione
dell’incarico di Organizzazione aziendale per l’anno accademico 1979-80 ad un
docente che aveva competenze di “aziendalista”, legate prevalentemente al settore
gestione e controllo di produzione. Questi docenti sembravano condividere l’idea
che la semplice introduzione nei Corsi di laurea esistenti di alcuni insegnamenti
organizzativo-economici, non poteva fornire un curriculum organico né permettere la
realizzazione di una figura professionale ben definita, in grado di rispondere alle
esigenze del mondo del lavoro. Un ulteriore punto di iniziale aggregazione fu la
resistenza alle pressioni, che provenivano dall’ergotecnica e dal settore
“tecnologico”, verso la creazione di un corso di Laurea in Tecnologia della
Produzione sostenuto in particolare da docenti, come Roversi e Bertolese, che
avevano potenziato questo settore anche nel quadro dell’attività di ricerca legata
alla cattedra di Ergotecnica e all’attività del Fondo Mauro.
Da questa configurazione scaturì, sostanzialmente (anche se lo studio di questo
processo andrebbe ulteriormente approfondito analizzando come si diceva la
dinamica dei gruppi e le sue variazioni, il che esula dal tema di questo contributo)
il design del nuovo corso di Laurea in Ingegneria delle Tecnologie Industriali ad
Indirizzo Economico-Organizzativo. Esso venne presentato, insieme al progetto di
creazione di un Corso di Laurea in Ingegneria civile per la difesa del suolo e la
pianificazione territoriale con una relazione al Consiglio della Facoltà di ingegneria
del 23 luglio 1979, sulla base di un’articolazione che riprendeva un’analoga
richiesta dell’Università di Udine per l’integrazione del DPR del 31 gennaio 1960, e
che prevedeva due indirizzi.
Nato da una forte spinta interscientifica il nuovo Corso di Laurea nasceva
all’insegna di una biforcazione tra l’indirizzo di Progettazione e gestione dei sistemi
di produzione ed Economia e gestione dei sistemi industriali, che il Verbale del
Consiglio di Facoltà così esplicitava:
nell’indirizzo A si dà una notevole importanza alle interrelazioni fra le scelte
tecnologiche, progettuali e gestionali relative ai sistemi di produzione ed i più ampi
problemi economico-organizzativi dell’impresa industriale, ossia, pur restando il
sistema della produzione al centro degli interessi dell’indirizzo, si tende ad
estendere il campo di interesse anche ai problemi di analisi, pianificazione e
controllo di gestione dell’impresa nella loro globalità (...) Nell’indirizzo B si dà
notevole importanza alle interrelazioni esistenti fra problemi tecnici e problemi
economico gestionali, pur lasciando l’azienda al centro degli interessi degli
insegnamenti di indirizzo, si dà spazio ai problemi concernenti l’analisi, la
pianificazione dei settori industriali e connessi interventi pubblici.
Il problema che resta aperto e che è tutto da indagare è se, a oltre quindici anni
dalla creazione del nuovo Corso di Laurea, sia effettivamente emersa una nuova
figura professionale e se l’approccio sintetico, più volte conclamato come elemento
di individuazione della figura del “nuovo ingegnere”, “concettuale e progettuale”
sia davvero un effetto consolidato. Questa serie di interrogativi comporterà
83
inevitabilmente lo sviluppo di analisi comparative che illuminino, non solo lo
sviluppo dell’ingegneria gestionale in altri contesti universitari in Italia, ma anche
l’esplorazione delle linee evolutive di questo settore “prismatico”, tra ricerca,
formazione ed applicazione, in altri contesti europei e negli Stati Uniti.
84
Gli ingegneri della Scuola Bolognese, 1878-1917. percorsi
biografici e carriere professionali
Maurizio Zani
Biblioteca Centrale della Facoltà di Ingegneria, Università di Bologna
La professione dell’ingegnere è ormai da tempo oggetto di ricerca per la storiografia
italiana. Gli storici della tecnica, dell’economia e del-l’istruzione hanno sottolineato
come l’affermazione di questa figura professionale sia andata di pari passo con lo
sviluppo dei processi di industrializzazione e modernizzazione del paese. Lo stesso
ruolo e lo status acquisito da questo professionista all’interno della società borghese
sono stati recentemente oggetti di attenzione, come del resto i processi di
istituzionalizzazione della professione a partire dalla fine del secolo scorso 65.
Le ricerche svolte hanno comunque accresciuto la consapevolezza di quanto sia
difficile affrontare in maniera unitaria le vicende di questa categoria professionale.
Negli ultimi due secoli, il rapido divenire della ricerca scientifica e tecnologica ha
prodotto sempre nuove specializzazioni professionali, e l’evoluzione dei rapporti tra
capitale e lavoro ha modificato sostanzialmente il ruolo dell’ingegnere all’interno
delle imprese industriali. Anche la figura dell’ingegnere libero professionista ha
conosciuto momenti di successo e di difficoltà, conseguenza del suo difficile
rapporto con il mercato e con le amministrazioni pubbliche.
Inoltre lo stesso sviluppo economico e industriale italiano, ritardato e difficoltoso,
ha contribuito a rendere mutevoli e alterne le fortune degli ingegneri, del loro ruolo
nella società e della loro legittimazione professionale. A ciò ha concorso il
differenziato sviluppo economico delle varie realtà geografiche di cui si compone
l’Italia, e queste fratture territoriali hanno finito per riflettersi sui risultati della
ricerca. Studi approfonditi sono stati prodotti per i casi di Milano e Torino,
capoluoghi delle aree economicamente più sviluppate della nazione e sedi delle
scuole politecniche; più recentemente sono stati studiati gli effetti dell’educazione
superiore tecnica nell’area veneta 66. L’analisi ha preso avvio dalle biografie di
alcune figure di ingegneri, eminenti per l’importanza scientifica e accademica e per
il ruolo svolto all’interno delle associazioni professionali e delle istituzioni.
Successivamente è stato posto sotto osservazione un sempre maggior numero di
carriere professionali.
Per quanto concerne la realtà emiliana, conosciamo le origini della Scuola di
applicazione per gli ingegneri di Bologna e il suo consolidamento, i docenti più
65 Per una sintesi delle vicende della professione dell’ingegnere negli ultimi due secoli, cfr. i saggi di
M. MINESSO, L’ingegnere dall’età napoleonica al fascismo, in Storia d’Italia, Annali 10, I professionisti, a cura di
M. MALATESTA, Torino, Einaudi, 1996, pp. 261-302; G. C. CALCAGNO, Il nuovo ingegnere (1923-1961),
ibid., pp. 305-336. Sempre nella stessa opera, cfr.: A. M. BANTI, Redditi, patrimoni, identità (1860-1922), ibid,
pp. 491-518 e le considerazioni dell’introduzione di M. Malatesta, Professioni e professionisti, ibid., p. XVXXXII. Cfr. inoltre C. G. LACAITA, Ingegneri e scuole politecniche nell'Italia liberale, in S. SOLDANI , G. TURI (a
cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, I, La nascita dello Stato nazionale, Bologna, Il
Mulino, 1993, pp. 213-253.
66 M. MINESSO, Tecnici e modernizzazione nel Veneto. La scuola dell’Università di Padova e la professione
dell’ingegnere (1806-1915), Trieste, Lint, 1992. Per la bibliografia complessiva, rimando alle sintesi di
Minesso, Calcagno e Lacaita citate nella nota precedente.
prestigiosi e i loro insegnamenti 67. Se le figure di maggiore rilievo sono già state
oggetto di studio, abbiamo minori informazioni sul complesso degli ingegneri
laureati nel capoluogo emiliano. Eppure sappiamo come anche in Emilia - Romagna
a partire dall’inizio del secolo, e soprattutto dopo la Prima guerra mondiale, si fosse
prodotto un sensibile distacco tra un’élite affermata e influente e la massa
serializzata degli ingegneri, fossero essi liberi professionisti, funzionari dello Stato,
dipendenti da imprese private, oppure ancora in cerca di una stabile sistemazione.
Le carriere di pochi prestigiosi studiosi e professionisti corrono dunque il rischio di
non essere rappresentative. Quella che si richiede è un’analisi di taglio
prosopografico delle biografie di tutti gli ingegneri laureati a Bologna. Ne dovrebbe
conseguire una conoscenza più approfondita non solo del percorso professionale e
del successo sociale di ciascun individuo, ma anche ulteriori riflessioni sul ruolo
svolto da questi tecnici nello sviluppo industriale del paese e degli specifici contesti
locali in cui operavano; tra questi, ovviamente, la provincia e la regione in cui
sorgeva la Scuola.
La ricerca di cui si presentano qui i primi risultati intende muoversi in questa
direzione, analizzando le carriere dei laureati presso la Scuola di applicazione
bolognese. La fonte principale di questo studio è stata l’«An-nuario
dell’associazione tra gli ex-allievi della Scuola di applicazione di Ingegneria di
Bologna», pubblicato a partire dal 1903 68. Oltre alle notizie sulla vita
dell’associazione, l’«Annuario» riporta sintetiche informazioni sul percorso
biografico-professionale di ciascun ingegnere, registrando la provenienza geografica
e la residenza nel corso della carriera. Anno dopo anno gli iscritti all’associazione
aggiornavano i loro dati, annotando i progressi di carriera, il grado raggiunto nella
pubblica amministrazione, gli incarichi di lavoro ricevuti, la residenza.
Tale fonte è già stata utilizzata per verificare l’esito professionale dei laureati,
individuando in maniera sintetica il settore di impiego o la specializzazione di
ciascun ingegnere. In questo modo è stato possibile fornire corrette indicazioni sulle
figure professionali dominanti e, grazie al paragone con dati simili relativi ad altre
Cfr. G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri: la «Scuola d’Applicazione» di
Bologna, in Innovazione e modernizzazione in Italia fra Otto e Novecento, a cura di E. DECLEVA, C.G. LACAITA
e A. VENTURA, Milano, Angeli, 1995, pp. 262-296 e dello stesso autore l’articolo pubblicato in questa
sede; cfr. inoltre, V. TELMON, Professionalità e accademia fra il declinare del XIX e gli inizi del XX secolo; gli
inizi dell’ingegneria a Bologna, «Inarcos. Ingegneri, Architetti, Costruttori», XLIII (1988), n. 1, pp. 15-28. Le
vicende della Scuola di Bologna sono state ricostruite anche da un originale punto di vista, quello del suo
patrimonio librario: cfr. Il patrimonio librario antico della Biblioteca d'Ingegneria, a cura di B. BRUNELLI, C.
BUCCHIONI, M. P. TORRICELLI, Bologna, Università degli Studi di Bologna-Biblioteca «Dore»-Facoltà di
Ingegneria, [1992].
68 Come risulta dallo Statuto sociale, l’associazione degli ex-allievi della Scuola di applicazione di
Ingegneria si costituì l’1 maggio del 1903, a partire dall’iniziativa di alcuni ingegneri, in larga parte
bolognesi, sollecitati al proposito dal prof. Silvio Canevazzi (cfr. «Annuario della Associazione fra gli exallievi laureati nella R. Scuola di Applicazione per gli ingegneri di Bologna», I (1903), pp. 3-7). La
costituzione del sodalizio è di pochi mesi successiva alla nascita dell’Associazione degli ex allievi del
Politecnico di Milano, e testimonia del sensibile rafforzamento della figura dell’ingegnere nella società
bolognese dell’e-poca (cfr. le indicazioni di A. ALAIMO, Società agraria e associazioni professionali a Bologna
nell’Ottocento: una proposta di ricerca, in Fra studio, politica ed economia: la Società agraria dalle origini all’età
giolittiana. Atti del 6° convegno, Bologna, 13-15 dicembre 1990, a cura di R. Finzi, Bologna, Comune di
Bologna e Istituto per la Storia di Bologna, 1992, pp. 307-328). Le pubblicazioni dell’associazione,
interrotte a quanto è dato sapere con la Prima guerra mondiale, riprendono negli anni ‘50 e proseguono
sino agli anni ‘80.
67
86
sedi italiane di formazione superiore tecnica, disegnare la particolare fisionomia
“regionale” dell’ingegnere bolognese 69.
In occasione di questa ricerca, grazie allo spoglio degli «Annuari» dal 1903 al 1918
si sono create delle schede biografiche, che seguono in maniera diacronica la
carriera di ciascun individuo, dal momento della laurea sino alla Prima guerra
mondiale. Le informazioni riportate sugli «Annuari» sono molto schematiche, ma ci
consentono comunque di porre le basi per un successivo approfondimento
dell’indagine, che dovrà vagliare fonti a stampa e d’archivio, con l’obiettivo di
ricostruire in maniera più complessiva la formazione, la carriera, i contesti di origine
e di lavoro di ogni individuo. I dati attualmente disponibili rendono comunque
possibile disegnare con maggiore precisione la figura dell’ingegnere bolognese e
ricostruire alcuni percorsi biografici e professionali modello 70.
I risultati di questa analisi confermano alcuni giudizi ormai acquisiti. La Scuola di
applicazione bolognese era finalizzata alla formazione di ingegneri civili e di
architetti, e non erano contemplati gli insegnamenti necessari alla preparazione
dell’ingegnere industriale. Lo stesso ambiente cittadino e regionale, d’altro lato, non
offriva ancora ai giovani tecnici reali possibilità di carriera e affermazione
professionale in settori economici moderni. Se dunque Torino e Milano già
preparavano gli ingegneri in maniera funzionale alle esigenze di un contesto
territoriale ormai avanzato, gli ingegneri istruiti a Bologna erano ancora
caratterizzati in maniera tradizionale. Ciò obbligava molti giovani bolognesi ed
emiliani che aspiravano a specializzarsi come ingegneri industriali a frequentare le
scuole politecniche. Non si deve comunque interpretare la cosa esclusivamente
come sintomo di arretratezza economica e sociale. Malgrado l’area emiliana non
conoscesse uno sviluppo industriale rilevante — e per questo bisognerà aspettare
almeno gli anni ‘20-’30 71 — notevole era la ricchezza economica derivante da
un’agricoltura evoluta e da un tessuto urbano di grandi tradizioni e aspirazioni. Ciò
consentiva a una figura pur tradizionale come quella dell’ingegnere libero
professionista di coltivare realistiche opportunità di affermazione economica e
sociale. La presenza della Scuola a Bologna apriva inoltre a molti giovani la
possibilità di inserirsi nelle reti “lunghe” della ricerca accademica e dello sviluppo
industriale, a livello nazionale e internazionale. Alcune delle carriere studiate
presentano a questo proposito novità degne di nota.
Ancora all’inizio di questo secolo, è comunque la libera professione lo sbocco
occupazionale più rilevante per gli ingegneri laureati a Bologna. Alla data del 1913,
69 Cfr. M . ROZZARIN, L’evoluzione degli studi di ingegneria tra riforma e conservazione, in G. C.
CALCAGNO (a cura di), Ingegneri e modernizzazioni. Università e professione nell’Ita-lia del Novecento, Bologna,
Esculapio, 1996, pp. 95-145; si veda in particolare la tabella a p. 101, in cui l’autore confronta la
destinazione professionale degli ingegneri diplomati a Bologna con quelli diplomati a Torino. Altri dati
relativi alle destinazioni professionali degli ingegneri laureati tra la fine del secolo scorso e l’inizio di
questo secolo sono reperibili in: C. G. LACAITA, Ingegneri e scuole politecniche nell'Italia liberale, cit., pp. 228231 e in A. FERRARESI, La formazione degli ingegneri nella seconda metà dell’Ottocento. Per una ricerca sulla Scuola
di applicazione e sul Museo industriale di Torino (1860-1906), «Nuova rivista storica», LXVII (1983), pp. 637656: in particolare, pp. 649-656.
70 I dati relativi al numero dei soci dell’Associazione degli ex-allievi della Scuola, distinti per anno di
laurea, per luogo di nascita e per destinazione professionale sono riportati nell’Appendice statistica, al
termine di questo lavoro.
71 Cfr. V. Z AMAGNI , Una vocazione industriale diffusa, in R. FINZI (a cura di), Storia d’Italia, Le regioni
dall’Unità a oggi, L’Emilia-Romagna, Torino, Einaudi, 1997, pp. 127-161.
87
la percentuale dei laureati a Bologna esercitanti la libera professione sfiora
addirittura il 40% (v. tab. 3.1 dell’Appendice statistica). La maggior parte dei liberi
professionisti che si presentano sul-l’Annuario non sente il bisogno di aggiungere
alcuna precisazione alla propria condizione libero-professionale e non la modificano
nel corso degli anni. Una così sintetica indicazione testimonia certo il ruolo
autonomo del professionista sul mercato del lavoro, ma non ci consente di
conoscere la sua effettiva specializzazione e le condizioni in cui si trovava a
operare. Di grande interesse risultano quindi le indicazioni offerte da alcune
carriere, che precisano incarichi e collaborazioni — in particolare con enti locali,
con consorzi di bonifica e/o con ditte private, come dipendenti e/o come
consulenti senza vincolo di subordinazione — partecipazioni a studi di liberi
professionisti associati o diretti da professionisti di spicco, modificazioni nella
carriera e nella residenza. Si riesce così a fare maggiore luce su una figura che negli
anni presi in esame conosce comunque diverse modificazioni.
È il caso dunque di esaminare alcuni casi su cui possediamo notizie biografiche più
dettagliate. Prendiamo per esempio Italo Bernini, di S. Secondo Parmense,
impiegatosi subito dopo la laurea, conseguita nel 1887, come ingegnere aiutante nel
catasto modenese, e che durante i la vori del nuovo catasto per la perequazione
fondiaria diventa ingegnere capo squadra. Bernini si dichiara comunque libero
professionista — esercita nel suo comune di nascita —, tecnico di diversi comuni e
consorzi idraulici, cassiere della Cassa di Risparmio di Parma.
Anche Antonio Quarena, di Garardo (Bs), laureato nel 1882 si dichiara
contemporaneamente libero professionista e ingegnere dei Comuni di Vobarno,
Preseglie, Manerba, Sabbio, Volciano, Sopraponte e Vallio (Bs). Invece Luigi
Crocco, di Rovigo, laureato nel 1896, libero professionista, lavora inizialmente
presso il Comitato di bonifica polesana e poi diventa ingegnere del Consorzio
idraulico a deflusso artificiale di Bresega. Nel 1899 è membro della Giunta
provinciale amministrativa di Rovigo, nel 1902-1903 consigliere comunale e
membro di giunta, nel 1904 consigliere e deputato provinciale. Nel 1914 si dichiara
ancora libero professionista e ingegnere del consorzio idraulico di Pontecchio e Due
Selve. Alfredo Ceriali, di Vescovato (Cr), a partire dal 1900, un anno dopo la
laurea, è ingegnere addetto ai lavori di bonifica dell’agro mantovano-reg-giano, nel
1908-09 è ingegnere dei comuni di Gonzaga, Monza e Gallarate e nel 1909 libero
professionista a Monza.
Per finire un bolognese, Guido Brunelli, laureatosi nel 1889. Libero professionista,
per qualche mese impiegato del nuovo catasto, poi per due anni tecnico
dell’impresa del cav. Luigi Bonora, torna quindi a esercitare la libera professione; si
dichiara inoltre ingegnere presso il 3° circondario idraulico della Bonifica bolognese
e rappresentante dell’assicurazione Reale-Grandine.
Scorrendo anche solo velocemente queste carriere ci rendiamo conto che la libera
professione copre in realtà situazioni differenziate, consente specializzazioni diverse
e permette all’ingegnere di svolgere contemporaneamente numerosi incarichi.
Questi cinque ingegneri, pur lavorando per enti locali e consorzi di bonifica —
dunque con competenze, si direbbe, di ingegneri civili e idraulici — continuano, o
comunque non interrompono mai definitivamente, l’esercizio della libera
professione, quasi sicuramente in forma singola.
88
Col trascorrere degli anni, però, al libero professionista tradizionale che esercita da
solo, si aggiunge l’ingegnere inserito in studi tecnici più moderni — presso cui
lavorano diversi ingegneri — e ditte che molto spesso si occupano di costruzioni
edilizie, ferroviarie e di impianti elettrici. Esaminiamo alcuni casi. Alfredo Luppi,
modenese, laureato nel 1895, fino al 1897 insegna fisica, matematica ed
elettrotecnica, poi è libero professionista e direttore della ditta “ingegnere P. Viani”
per industrie cementizie a Reggio Emilia; dal 1909 esercita la libera professione a
Modena ed è proprietario della ditta “ing. A. Luppi” per lavori in cemento.
Un’altra interessante carriera è quella di Cesare Tamburini, reggiano, laureato nel
1903 e diplomatosi nel 1905 in elettrotecnica a Milano, dopo avere
contemporaneamente frequentato l’officina di costruzioni elettriche Gadda Brioschi
Finzi e c. Successivamente Tamburini collabora a uno studio d’ampliamento
d’officina presso le officine della casa Ansaldo Armstrong in Cornigliano Ligure, poi
entra nello studio di ingegneria civile degli ingegneri Gattinori e Zanetti in Milano,
quindi nello studio di ingegneria civile dell’ingegnere e architetto Stacchini in
Milano. Nel 1908 -1909 è ingegnere e socio dell’impresa di costruzioni Lorini e C.
di Milano, ed è impegnato nella direzione lavori di costruzione dell’esposizione di
Faenza e di costruzioni antisismiche in Calabria. Trasferitosi nel 1910 a Roma
presso lo studio dell’architetto Pio Piacentini, si dichiara poi libero professionista,
assumendo pure l’incarico di ingegnere presso l’Istituto case popolari in Roma 72.
È a partire dall’inizio del secolo che si affermano in misura sempre maggiore gli
studi tecnici associati, e solo scorrendo indicatori, annuari e guide locali possiamo
farci un’idea meno vaga di queste realtà. Poco prima dell’inizio del conflitto
mondiale, a Bologna, sono pubblicizzati sull’«Indicatore emiliano» diversi studi
tecnici edili e industriali, che si occupano di costruzioni, in particolare di
costruzioni in cemento armato, di impianti di riscaldamento e di impianti elettrici e
sono contemporaneamente rappresentanti di materiali da costruzioni. L’impegno
dello studio ingegneristico copre in questo modo la progettazione e la direzione dei
lavori e la rappresentanza di macchinari e di materiali, integrando al proprio interno
specializzazioni differenziate, da quelle dell’ingegnere civile a quelle dell’ingegnere
elettrotecnico. Una sintetica testimonianza di queste trasformazioni — solo iniziata
nel primo decennio del secolo — si può cogliere, per esempio, anche in questo
necrologio, apparso alcuni decenni più tardi sul giornale bolognese «Ingegneri,
architetti e costruttori»:
Brevemente, altri due casi. Francesco Saladini de’ Moreschi, veronese, laureato nel 1888, incaricato
nel 1889 della parte meccanico-agricola in un’esposizione regionale e segretario di un comizio agrario, dal
1890 al 1901 è libero professionista in studio tecn ico, specializzato in costruzioni meccaniche, di
stabilimenti industriali e in partite agricole, sistemazione di acque, ecc. A partire dal 1902 si dichiara libero
professionista; nel contempo, oltre ad essere spesso chiamato come perito giudiziale in materia di
espropriazione ferroviaria, assume l’incarico di perito presso la Cassa civica di Risparmio di Verona e nello
stesso tempo diventa consigliere comunale di Bardolino. Nel 1906 è addetto al nuovo impianto idro e
termoelettrico del nuovo canale Milani in Verona.
Pasquale Penza, di Canosa di Puglia (Bari), laureatosi ingegnere civile nel 1898 e poi architetto due
anni dopo, prima insegna disegno e architettura, poi dal 1901 al 1905 è aiutante straordinario presso la
sez. speciale del Genio civile per la costruzione degli edifici universitari; dal 1907 lavora per il Comune di
Bologna, assumendo la direzione dei lavori del costruendo palazzo delle Poste, ma nel 1911 si dichiara
libero professionista con studio proprio, «L’Edile», a Bologna.
72
89
Il 30 agosto u.s. [1954] è deceduto in Roma il dr. ing. Dario Gasparini nell’83° anno
di età. Il compianto ingegnere Gasparini ha svolto in Bologna per oltre un
cinquantennio la sua attività professionale, largamente stimato per il suo valore
tecnico e per le sue elette qualità di animo e di carattere. (...) Laureato nel 1894
presso la Scuola di Applicazione degli ingegneri di Bologna, dopo un breve periodo
di attività presso alcuni comuni della provincia si affermò in Bologna nel campo più
puro e più classico della libera professione. Ed in tale campo rimase anche quando i
tempi, nell’evolversi, gradatamente andavano trasformando i vari «studi» dei liberi
professionisti in direzioni di imprese costruttrici 73.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, la situazione bolognese è comunque più
matura rispetto ad altri contesti locali in cui operano gli ingegneri laureati a Bologna
74 . Se ci spostiamo in provincia troviamo liberi professionisti con carriere più
tradizionali. Sono casi in cui molto spesso luogo di nascita e residenza dopo la
laurea si identificano o sono circoscritti in un ambito non più ampio della provincia
di origine. Segno di una connotazione estremamente “localistica” di questo
segmento della professione, che ne costituisce la forza e il limite nello stesso tempo.
Può trattarsi infatti di un sintomo di debolezza economica e professionale per
alcuni professionisti, particolarmente quelli residenti in aree rurali o in una fase
ancora iniziale della carriera; ma può anche essere segnale di solidità di posizione,
che consente di giocare su diversi piani e in diversi ambiti le proprie riconosciute
capacità professionali, fino a cumulare — come abbiamo visto, e come vedremo
ancora — diverse fonti di reddito. Gli esiti delle carriere libero-professionali
possono dunque essere totalmente dissimili, sia in termini di affermazione sociale
che di riuscita economica. È certamente ben diversa la condizione di un
professionista, a seconda che eserciti in campagna o in città, al nord o al sud del
paese.
Dichiararsi libero professionista costituisce comunque un importante elemento di
autoidentificazione per l’ingegnere. L’esercizio della professione in forma autonoma
rappresenta per il giovane neolaureato un modo per iniziare la propria attività,
magari all’interno di più ampi studi professionali, o un tentativo di affermazione
nell’ambiente di origine, prima di optare per carriere più remunerate o più sicure
nell’ambito della pubblica amministrazione. L’attività libero professionale
costituisce inoltre — malgrado divieti e ostacoli — una risorsa sempre disponibile
anche per funzionari pubblici o dipendenti di ditte private che dispongano o
abbiano accumulato un consistente patrimonio di esperienza e di relazioni.
L’inserimento nelle reti “corte” del contesto locale di origine consente inoltre ai
professionisti di attivare le proprie relazioni per integrarsi nelle amministrazioni
locali, in veste di sindaci, assessori e consiglieri comunali, membri del consiglio
provinciale o di organi come il consiglio sanitario provinciale o il consiglio
scolastico provinciale; senza tener conto di tutta una serie di partecipazioni ad
associazioni professionali, politiche, educative, assistenziali e cooperative, che
all’epoca connotano la figura sociale del notabile. È evidentemente difficile valutare
sulla base della fonte presa in esame fino a che punto ci troviamo di fronte a
Necrologio, «Ingegneri, Architetti, Costruttori», IX (1954), n. 9, p. 215.
Si noti nella tab. 2 dell’Appendice statistica come neanche il 44% dei laureati a Bologna provenga
dall’attuale regione emiliano-romagnola.
73
74
90
ingegneri che acquisiscono un ruolo preminente nella società locale in base al
prestigio conseguente alla loro specializzazione professionale o, al contra-rio, si
tratti di notabili che scelgono di svolgere la professione di ingegnere — una
profesione il cui prestigio è in costante crescita — per rafforzare la propria
posizione sociale e/o per gestire i propri patrimoni, in particolare quelli agrari.
I rappresentanti di questa seconda “categoria” risultano di più difficile
individuazione, almeno sulla base dei dati riportati sull’Annuario. È infatti
comprensibile che fossero proprio gli ingegneri in via di affermazione a sottolineare
i progressi della propria carriera sulla pubblicazione degli ex allievi della Scuola. Ciò
poteva interessare meno i notabili ingegneri, spesso liberi professionisti e possidenti
o provenienti da famiglie possidenti. Due casi illuminano bene quanto detto.
Il primo è quello di Attilio Evangelisti, nato a Ripe (An). Laureato nel 1894, dal
1896 e sino al 1908 ingegnere comunale di Molinella (Bologna), Evangelisti è in
quegli stessi anni anni direttore tecnico della società cooperativa operai del
Mandamento di Budrio (dal 1899), direttore tecnico della società cooperativa operai
Codifiume (Fe, dal 1901), direttore tecnico della società cooperativa operai
Portomaggiore-Argenta e incaricato di lavori da privati e da amministrazioni locali
quali il Comune di Budrio. A partire dal 1908, si dichiara libero professionista, e
incaricato di lavori per comuni e amministrazioni pubbliche in genere e direttore
tecnico di cooperative di lavoro e loro consorzi. Il legame con il mondo della
cooperazione porta Evangelisti nel 1901 a essere membro del consiglio generale
della Lega nazionale cooperative italiane e nel 1906 membro della commissione
nominata dalle cooperative di Bologna, Ferrara, Ravenna e Forlì per lo studio della
colonizzazione e delle bonifiche della Sardegna e della Basilicata. Nel 1904 è
consigliere provinciale di Bologna 75. Ingegnere comunale e libero professionista,
Evangelisti assume dunque una posizione di prestigio nel contesto locale.
Evangelisti è tra gli ingegneri sulla cui carriera l’«Annuario» si dilunga di più, mentre
la stessa fonte dice ben poco di altri professionisti, il cui rilievo sociale non è
dovuto solo alle capacità professionali, ma si fonda anche sull’estrazione sociale, sui
diretti interessi nella proprietà agraria, sul pieno inserimento all’interno dei circuiti
della sociabilità borghese o nobiliare. Un esempio interessante è quello di Raffaele
Stagni, bolognese. Se l’«Annuario» ricorda solo la sua posizione di libero
professionista, notizie più complete ci fornisce l’«Indicatore emiliano». Nel 1915
Stagni risulta infatti presidente dell’Associazione agraria di Bologna, presidente
della Federazione delle consociazioni agrarie bolognesi, membro del comitato
esecutivo della federazione interprovinciale agraria, ingegnere dell’ufficio del
Un altro percorso biografico interessante, che individua bene quale potesse essere lo spessore delle
reti di relazione di questi ingegneri in sede locale, è quello di Emilio Chierici, di Luzzara (Re), laureato nel
1883, dal 1885 al 1887 direttore dei lavori presso l’impresa Mantegazza per costruzioni ferroviarie sul
tronco Gozzano-Domodossola, dal 1887 al 1888 straordinario nel nuovo Catasto per il rilevamento del
Comune di Luzzara e dal 1888 libero professionista. Negli anni 1890-98 è membro del Consorzio di
bonifica dell’agro mantovano-reggiano, nel ‘97-98 è ingegnere di riparto per i rilievi e la co mpilazione del
progetto esecutivo di bonifica dell’agro suddetto, nel ‘91-93 è tecnico delle società cooperative di Luzzara
e di S. Vittoria e ispettore della società italiana di assicurazione. Contemporaneamente, nel 1890-92 è
consigliere comunale, membro della co ngregazione di carità di Luzzara, nel 1898 presidente di detta
congregazione; sempre nel ‘91-92 è delegato del consorzio per la ferrovia Parma-Suzzara, dal 1891 al 1898
membro della commissione di prima istanza per l’imposta sui fabbricati, nel 1905 comm. governativo
per la formazione delle tabelle dei valori immobiliari della provincia di Reggio Emilia, nel 1906 ingegnere
consulente dell’amministrazione del Liceo musicale Rossini di Pesaro.
75
91
Cavamento Palata, consigliere della Mutua scioperi. Si tratta di incarichi di prestigio
all’interno delle associazioni sorte a difesa degli interessi agrari, ma Stagni non
costituisce un caso isolato. Nel capoluogo emiliano sono diversi gli ingegneri che a
partire dall’inizio di questo secolo raggiungono ruoli direttivi nella locale Società
agraria, e presumibilmente una minuziosa ricerca in altri ambiti provinciali ci
fornirebbe ulteriori e più complete indicazioni 76.
Presentando alcuni liberi professionisti, abbiamo notato come molti di essi avessero
ricevuto incarichi di lavoro da parte delle amministrazioni degli enti locali. Se le
province già da alcuni decenni avevano sviluppato propri apparati tecnici, in
particolare per la cura della viabilità loro affidata, erano i comuni ad affermare
proprio in quegli anni politiche di crescita urbana e di creazione di nuovi servizi per
la popolazione che richiedevano l’impegno a tempo pieno di tecnici qualificati 77.
Gli ex allievi della Scuola di Bologna dipendenti da comuni e province sono
numerosi, spesso provengono dalla libera professione — o magari vi ritornano,
senza probabilmente mai averla abbandonata del tutto — e come i liberi
professionisti sono impiegati presso enti locali molto vicini alla loro città di nascita.
Solo il vertice degli ingegneri comunali e provinciali percorre carriere
geograficamente più ampie, per arrivare alla guida degli uffici tecnici di grandi città.
Si prenda per esempio il caso di Catullo Fulgenzio Setti, nato a Modena e laureatosi
nel 1890. Si tratta di una carriera prodiga di riconoscimenti ed onoreficenze,
sviluppata grazie a un’accentuata mobilità di sedi e di incarichi. Dopo due anni
come assistente alla cattedra di Fisica dell’Università di Modena, e dopo essersi
laureato anche come architetto nel 1892, entra come allievo presso l’ufficio tecnico
provinciale di Parma, diventa poi ingegnere capo del Municipio di Cagliari (dal
1897 al 1901), per poi passare a Vicenza (fino al 1910) e dunque a Venezia.
Setti non è un’eccezione 78, ma la gran parte di questi ingegneri sono più simili a
Ugo Fucini, nato a Empoli, laureato nel 1888, che si dichiara “ingegnere comunale
di Empoli, incaricato del servizio tecnico del comune di Cerreto Guidi, esercente la
libera professione” e risiede a Empoli. In casi come questi, la mobilità geografica
ridotta consente — o obbliga — alla diversificazione delle fonti di reddito: la libera
professione, il lavoro presso l’amministrazione locale, l’incarico per un altro ente.
Un modello di comportamento simile a quello già individuato in molti liberi
professionisti, e che si impone sia in piccole cittadine che in città di media
76 Su Raffaele Stagni, cfr. almeno E. Tornani, Commemorazione dell’ing. Raffaele Stagni, «Annali della
Società Agraria di Bologna», LXV (1937), p. 119. Per diverse indicazioni generali e specifiche sui rapporti
tra gli ingegneri e le rappresentanze degli interessi agrari, cfr. almeno P.P. D’ATTORRE, La Società agraria di
Bologna nel Novecento, in Fra studio, politica ed economia: la Società agraria dalle origini all’età giolittiana cit., pp.
235-271; nello stesso volume, cfr. A. ALAIMO, Società agraria e associazioni professionali cit.; cfr. inoltre
l’intervento di Silvio Fronzoni pubblicato in questa sede.
77 Una vasta bibliografia si è ormai accumulata sull’argomento; mi limito a segnalare A. ALAIMO ,
L’organizzazione della città. Amministrazione e politica urbana dopo l’unità (1859-1889), Bologna, Il Mulino,
1990, che focalizza particolarmente il ruolo dei professionisti, e in particolare degli ingegneri, nella politica
locale bolognese.
78 Si prendano i casi di Alfonso Modonesi e di Cesare Selvelli. Il primo, nato a Bologna e laureato
nel 1897, 1900 architetto nel 1900, fino al 1902 assistente alla cattedra di costruzioni civili della Scuola di
applicazione di Ingegneria di Bologna, dal 1902 al 1902 capo della sezione edilizia dell’ufficio tecnico
comunale di Modena, poi ingegnere capo al Municipio di Treviso e dal 1909 diventa ingegnere capo al
Municipio di Verona. Il secondo, nato a Fano, inizia la sua carriera nel 1899 come assessore ai lavori
pubblici del comune di nascita, ma nel 1900 è ingegnere comunale di Gubbio, nel 1902 ingegnere di
sezione a Padova, per poi diventare nel 1913 ingegnere capo del Municipio di Ferrara.
92
grandezza. Giuseppe Tosini, per esempio, nato a Grosseto, laureato nel 1890, si
qualifica inizialmente come libero professionista, poi svolge le funzione di
ingegnere capo del Comune di Grosseto dal 1891 al 1897, quando diventa
ingegnere capo della stessa Provincia. Tosini si dichiara progettista e direttore di
lavori diversi per conto di Comuni e istituzioni di beneficenza, perito visitatore di
caldaie a vapore, membro del consiglio sanitario provinciale, della commissione
edilizia del Comune di Grosseto e del comitato forestale provinciale.
Altri tecnici comunali riescono a godere di diversi vantaggi di carriera
allontanandosi per alcuni anni dall’ambiente di origine, ma finiscono per tornare in
ambito locale. È il caso di Enrico Camangi, faentino, laureato nel 1894, che si
dichiara prima “ingegnere comunale di Russi e insegnante di matematica e scienze
alla scuola tecnica comunale”, poi nel 1901-1902 è ingegnere comunale a Vittorio
in provincia di Treviso, per poi tornare a svolgere le funzioni di ingegnere del
consorzio idraulico Fosso Vecchio a Bagnacavallo (Ra), diventare nel 1906
ingegnere del 2° riparto provinciale di Ravenna con sede a Faenza, nel 1913
ispettore della provincia di Ravenna, capo del reparto di Faenza. Un altro ingegnere
comunale che non esita a cambiare spesso impiego e a percorrere gran parte
dell’Italia pur di ritornare nel suo ambiente di nascita è Ciro D’Agnone, originario di
Lucera (Fg), laureato nel 1907, dal 1909 al 1910 praticante in uffici tecnici privati
per costruzioni in cemento armato, nel 1910 ingegnere aiutante presso l’ufficio
tecnico provinciale di Foggia, l’anno successivo ingegnere di sezione nell’ufficio
tecnico provinciale di Siena, nel 1913 prima ingegnere di sezione a Pisa — sempre
presso l’ufficio tecnico dell’amministrazione provinciale — poi a L’Aquila come
ingegnere di I classe — ancora nell’ufficio tecnico provinciale; infine, nel 1914
ritorna con la stessa qualifica all’ufficio tecnico provinciale di Foggia e
immediatamente dopo ne diventa vicedirettore.
Un’altra carriera interessante tra i tecnici comunali è quella di Ernesto Festuccia,
reatino, laureato nel 1899. Nel 1900 è professore di matematica nel Ginnasio di
Rieti, nel 1901 aiutante dell’ufficio tecnico comunale, l’anno successivo si dichiara
libero professionista; ma nel 1903 è apprendista nella C. Auxiliaire d’Electricité di
Bruxelles, dal 1904 è ingegnere della Società industriale di elettricità di Rieti e libero
professionista, accumulando incarichi e perizie, torna a dichiararsi nel 1914 libero
professionista, per poi presentarsi nel 1917 come libero professionista, ingegnere
capo del Comune di Rieti e della Società industriale elettrica. La residenza,
ovviamente, la mantiene sempre a Rieti.
Il caso di Festuccia ci consente di focalizzare meglio le carriere di quegli ingegneri
che accrescono il proprio curriculum professionale grazie al contatto con ambiti locali
diversi da quelli di origine, in particolare con una o più esperienze al di fuori
dell’Italia. Il lavoro o la formazione all’estero — sia all’inizio della carriera che a
carriera già iniziata — obbligano a lunghi periodi lontani dalla realtà di origine, ma
sono estremamente utili anche per rafforzare la posizione dell’individuo nel
contesto relazionale di origine. Vedremo nel prosieguo l’importanza rivestita da tali
risorse per alcune carriere particolari.
Nel presentare precedentemente alcune biografie abbiamo visto come alcuni
ingegneri svolgessero la funzione di insegnanti. Tra i laureati a Bologna, il numero
di docenti in scuole di istruzione media e media superiore non è particolarmente
elevato, ma l’insegnamento rimane comunque un’opzione a disposizione per i
93
neolaureati, e talvolta anche nel corso della carriera. Per alcuni, infatti, si tratta di
un’opportunità in più che consente di arricchire il proprio bagaglio di esperienze,
mentre per altri si tratta di una scelta obbligata in un contesto locale periferico e
poco sviluppato, con un ridotto numero di occasioni di impiego.
Maurelio Mollini, ferrarese, rappresenta probabilmente il primo caso. Fino al 1886 è
ingegnere aiutante nel consorzio idraulico del II circondario scoli in Ferrara, nel
1886 tiene un corso libero di celerimensura nell’Istituto tecnico di Ferrara, poi è
assunto come insegnante di Estimo e costruzioni, divenendo successivamente
titolare dello stesso corso. Dal 1896 al 1890 insegna macchine agricole per conto
del Comizio agrario di Ferrara, in seguito tiene un corso libero annuale di macchine
a vapore ed a gas. Ciò non gli impedisce di essere dal 1891 anche perito della
prefettura di Ferrara per le verifiche e prove delle caldaie a vapore e di continuare a
dichiararsi libero professionista. Senza contare che dal 1889 al 1903 è consigliere
comunale della città estense, poi membro della giuria nominata dal Ministero di
agricoltura, industria e commercio per il concorso internazionale di macchine e
strumenti per la coltura e lavorazione della canapa, tenuto a Ferrara nel 1888; è
inoltre relatore della commissione per la fondazione dell’associazione degli utenti di
caldaie a vapore in Ferrara nel 1890 e membro di altre svariate commissioni 79.
Insegnanti per necessità sono invece, Quirino Valente, nato e residente a Bisenti
(Te), che si dichiara professore di matematica nelle scuole tecniche — ma Valente
si laurea nel 1911, e dunque il periodo della sua carriera oggetto di attenzione è
estremamente ristretto — e Romeo Maestri, riminese, nel 1894-95 supplente
d’Italiano nella scuola tecnica pareggiata di Rimini, poi per tre anni insegnante di
Matematica e scienze naturali nella Scuola tecnica comunale di S. Arcangelo di
Romagna, quindi, nel 1898-1900, insegnante di Fisica, macchine a vapore,
meteorologia e incaricato di Matematica nell’Istituto nautico di Rimini. A partire
dal 1900, e sicuramente sino al 1906, insegna topografia, costruzioni ed estimo
nell’Istituto tecnico pareggiato di Treviso.
Un caso a parte è costituito dagli ingegneri che svolgono la propria carriera
all’interno dell’Università, e in particolare della stessa Scuola di applicazione.
Considerata la giovane età della Scuola, all’inizio di questo secolo i docenti
provengono tutti o quasi da altre sedi universitarie e dunque si deve concentrare
l’attenzione sulle carriere degli assistenti e degli incaricati di insegnamento. La
figura dell’assistente è in quel momento quella di un’apprendista d’eccezione, che
d’altra parte non sempre trova modo di effettuare una completa carriera
universitaria. Spesso gli anni dell’assistentato consentono di costituire un
patrimonio sociale e professionale non indifferente, un importante tessuto di
relazioni per il prosegui-mento della carriera, in particolare nella condizione libero
professionale.
Particolarmente rilevanti sono comunque i casi di alcuni docenti di ingegneria
laureatisi a Bologna e della cui carriera è possibile ricostruire una parte grazie ai dati
forniti dall’«Annuario». Tra questi Domenico Gorrieri, Attilio Muggia, Francesco
79 Anche Alfredo Grassi ha la possibilità di contemperare l’insegnamento con altre attività.
Assistente nella Scuola di applicazioni fino al 1900, libero professionista e nel 1900-1901 professore di
topografia nel R. Istituto tecnico dell’Aquila, nel 1901-1902 professore di topografia nel R. Istituto
tecnico di Modena, insegna successivamente Costruzioni nel R. Istituto tecnico di Bologna. Dal 1903 al
1905 è consigliere di amministrazione dell’officina comunale del Gas di Bologna, in seguito membro di
varie commissioni.
94
Balatroni e Umberto Puppini, interpreti di una prestigiosa carriera accademica e
nello stesso tempo al vertice della società bolognese. In particolare, Attilio Muggia
— docente di architettura e alla guida di un affermato studio tecnico, capace di
mantenere contemporaneamente diversi incarichi, funzioni e lavori e di mantenere
reti relazionali di diversi ambiti e ampiezza — dimostra quale rilievo e autorità
potesse raggiungere un tecnico all’inizio del secolo 80.
I vertici della professione raggiungono successi economici e professionali
impensabili per una gran parte degli altri ingegneri, soprattutto quelli che per ragioni
diverse si distaccano in parte o del tutto dall’am-biente locale per entrare nei ranghi
dell’amministrazione dello Stato. Particolarmente numerosi sono gli ingegneri civili
impiegati nell’am-ministrazione del catasto, negli uffici tecnici di finanza e nel genio
civile. La loro carriera si svolge molto spesso — ma non sempre — lontano dal
luogo di nascita, spesso non è particolarmente brillante e comporta pure l’obbligo di
cambiare la sede di lavoro con una certa frequenza. È notorio che l’amministrazione
statale ha costituito per gli ingegneri una soluzione di ripiego, in particolare per
quegli individui provenienti da aree geografiche in ritardo economico e dunque
impossibilitati a giocare con concrete speranze di successo la carta della libera
professione o dell’impiego alle dipendenze di imprese industriali. Soprattutto a
partire dall’inizio di questo secolo, d’altra parte, l’attrattiva dell’impiego sicuro
nell’amministra-zione dello Stato perde gran parte del suo fascino. Lo sviluppo
economico consente, in particolare nel settore industriale, il moltiplicarsi di ben
remunerate occasioni di lavoro per gli ingegneri industriali e per quegli ingegneri
dalla formazione più tradizionale ma disposti a rimodellare le loro capacità
professionali secondo le richieste del mercato 81.
Nelle pubblicazioni dell’associazione degli ex-allievi gli ingegneri dipendenti dalle
amministrazioni dello Stato sono fortemente sottostimati. Una rapida verifica
effettuata su alcune annate campione del «Calendario generale del Regno d’Italia»
consente di individuare numerosi casi di ingegneri dipendenti del catasto, del genio
civile e degli uffici tecnici di finanza che non sono soci dell’Associazione bolognese
degli ex-allievi ingegneri. È probabilmente il segnale della distanza di questi
ingegneri dai reticoli di rapporti — professionali, ma non solo — che legano invece
gli iscritti all’associazione, tra i quali prevalgono i liberi professionisti. L’esclusività
del rapporto di dipendenza dall’amministrazione dello Stato impedisce
evidentemente di mantenere la libera professione e le relazioni che ne possono
conseguire.
80 Per quanto riguarda Attilio Muggia, cfr. l’intervento di Paolo Lipparini e Matteo Rozzarin
pubblicato in questa sede; per Umberto Puppini, invece, direttore della Scuola dal 1927 al 1932 e della
Facoltà dal 1937 al 1945, che ricoprì numerosi incarichi ministeriali e parastatali, cfr. almeno il necrologio
di R. Belletti sugli «Annali dell'Accademia nazionale di Agricoltura di Bologna», V (1943-1949), pp. 207211.
Le carriere di alcuni ingegneri divenuti docenti, del resto, non si svolgono esclusivamente all’interno
dell’Università. È il caso di Armando Landini, bolognese, laureatosi a Bologna e per quattro anni
assistente alla cattedra di meccanica applicata alle costruzioni e al laboratorio sperimentale per la resistenza
dei materiali, nel 1907 ing. straordinario presso l’ufficio di edilità ed arte del Comune di Bologna, nel
1908 perito prefettizio per la visita delle caldaie a vapore, nel 1909 ing. nel Comune di Firenze e poi nella
Provincia di Modena, prima di essere nominato aiuto presso la RSAI Bologna, poi libero docente ed
incaricato dell’insegnamento di costruzioni civili e rurali e fondazioni nella scuola.
81 Rimando ovviamente alle già citate sintesi di M. MINESSO, L’ingegnere dall’età napoleonica al
fascismo, cit. e di G.C. CALCAGNO, Il nuovo ingegnere (1923-1961), cit.
95
Con la nazionalizzazione nel 1905 delle linee ferroviarie, sino ad allora gestite da
diverse società private, appare nell’amministrazione dello Stato un altro tipo di
ingegnere, l’ingegnere ferroviario. Diverse decine sono gli ex allievi della Scuola alle
dipendenze delle Ferrovie dello Stato, senza contare i molti altri impiegati in ditte
che svolgono lavori di costruzione di ferrovie. Una rapida verifica sui «Calendari
generali del Regno» sembra evidenziare come sia ridotta la percentuale degli
ingegneri ferroviari laureati a Bologna non presenti nell’Annuario dell’associazione.
La carriera nelle Ferrovie era probabilmente ambita — e in effetti sono pochi coloro
che abbandonano quella carriera per la libera professione o altri impieghi — e
comunque consentiva, malgrado l’obbligata mobilità geografica, il mantenimento di
relazioni e contatti con gli altri segmenti della professione 82.
Non appaiono invece significativi segnali di specializzazione professionale e non
sembra necessaria una particolare formazione per diventare ingegnere ferroviario.
Rimane un’eccezione il caso di Umberto Maccaferri, bolognese, laureatosi nel 1900,
il quale, licenziato in elettrotecnica e costruzioni elettromeccaniche nel 1901, fino
al 1904 si dedica all’esecu-zione di progetti di ferrovie e di impianti elettrici nello
studio tecnico dell’ingegnere Lanino in Bologna e successivamente entra come
ispettore di riparto della XVIII sezione di manutenzione della Rete Adriatica a
Lecce. Nel 1906 Maccaferri è addetto al servizio movimento e traffico delle
Ferrovie dello Stato, prima ad Ancona, poi a Venezia, infine a Bologna. Si tratta di
una carriera specializzata sin dall’inizio nell’ambito delle strade ferrate, ma come
detto, non sembra essere che un’eccezione.
Il quadro delle carriere che abbiamo sin qui disegnato può apparire fortemente
statico, e a ciò contribuisce sia il tipo di formazione fornito ai giovani ingegneri
dalla Scuola di applicazione bolognese che la scarsa dinamicità dell’ambiente
bolognese e/o degli ambienti di origine. Malgrado le pressioni esercitate
dall’ambiente bolognese, una sezione di ingegneria industriale inizia i suoi corsi solo
nell’anno accademico 1934-’35. I giovani che sino a quell’epoca acquisiscono il
titolo di ingegnere a Bologna sono dunque costretti a giocare sul mercato del lavoro
le possibilità offerte da una formazione sostanzialmente tradizionale. In un ambito
locale può dunque risultare decisivo il capitale sociale acquisito grazie ai vincoli
familiari e alle altre relazioni sociali. Ma se i giovani ingegneri sono disponibili a
prolungare il proprio addestramento professionale, a ridisegnare la propria
preparazione professionale secondo le richieste del mercato o eventualmente a
82 Poteva forse influire in questo senso una personalità come quella di Pietro Lanino, costantemente
impegnata nel promuovere l’associazionismo professionale degli ingegneri e nel tentare di difenderne gli
interessi. Lanino, sin dal 1903 componente del Comitato esecutivo dell’Associazione degli ex-allievi della
Scuola d’ingegneria di Bologna, fu anche il fondatore della sezione di Bologna dell’Associazione
elettrotecnica bolognese e dal 1910 al 1922 rivestì l’incarico di presidente del Collegio nazionale degli
ingegneri ferroviari; sulla figura di Pietro Lanino, cfr. R. FERRETTI, Le organizzazioni professionali degli
ingegneri nel primo dopoguerra, in G.C. CALCAGNO (a cura di), Ingegneri e modernizzazioni.cit., pp. 13-93: in
particolare, pp. 33-34.
Un esempio di carriera prestigiosa è quella di Arrigo Gullini, di Bazzano (Bo), laureato nel 1888 e
subito ingegnere di manutenzione e lavori presso le ferrovie della Rete Adriatica, nel 1903 ispettore capo
principale della 7a sezione movimento di Foggia, poi ispettore capo principale della 3a sezione
movimento di Venezia. Nel 1908 sempre a Venezia diventa capo della divisione movimento e traffico
della direzione compartimentale e inoltre svolge l’at-tività di docente di economia ferroviaria presso la R.
Scuola superiore di commercio. Nel 1911 diventa dirigente del IX servizio, Navigazione, della Direzione
generale delle Ferrovie dello Stato e nel 1915 capo esercizio di navigazione di stato e incaricato della
costruzione e dirigenza delle ferrovie presso la stessa direzione generale delle Ferrovie.
96
accettare un più o meno breve allontanamento dal proprio ambiente di origine,
ebbene per loro possono aprirsi prospettive interessanti di carriera, fino alla
direzione di imprese industriali 83.
Prendiamo per esempio Arturo Paoloni, anconitano, laureatosi nel 1898. Dopo
avere seguito il corso di elettrotecnica alla Scuola Ferraris di Torino, diventa
direttore di fabbrica di carburo di calcio di Foligno (Soc. forni elettrici), poi
ingegnere addetto alla costruzione e all’esercizio della fabbrica di carboni elettrici di
Narni (Soc. italiana dell’elettrocarbonium), direttore della Fabbrica di barite a
Foligno e anche consulente di industrie elettriche, elettrochimiche ed
elettrotecniche.
Un altro anconitano percorre una brillante carriera, Giuseppe Camillo Borgnino.
Fino al 1900 ispettore della trazione presso la Rete ferroviaria della società
Adriatica, nel 1901 si laurea in Belgio ingegnere specialista per gli zuccherifici, dal
1901 al 1902 chimico e capofabbrica nello zuccherificio di Orp-le-Grand in Belgio
e poi capo del laboratorio chimico dello zuccherificio di Massalombarda. A partire
dal 1904 diventa direttore tecnico dello stesso stabilimento e nel 1914 direttore
generale. Nel contempo, riceve l’incarico di membro del giurì straniero per gli esami
di laurea al Politecnico di Glons (Liegi), assume la direzione della fabbrica di
prodotti alimentari Barli, Gulinelli e C. di Massalombarda, la carica di sindaco delle
compagnie di assicurazione Aurora di Ferrara e Concordia di Milano e la Presidenza
dell’associazione impiegati industrie zucchero alcool ed affini.
La frequentazione di corsi di elettrotecnica si rivela molto spesso decisiva per i
successivi sviluppi della carriera. Pasquale Raffi, nato a Imola, dopo essersi laureato
nel 1900 a Bologna, consegue l’anno successivo il diploma di elettrotecnica a
Torino. Nei due anni successivi svolge la libera professione a Bologna, poi passa
fino al 1901 alle dipendenze della ditta Conterio e Raffi di Sassuolo, per costruzioni
di chimica tecnica, macchine per cartiere, elettrochimica, ecc. ed esercizio di
cartiera. A partire dal 1913 lo ritroviamo direttore dell’Uff. materiali per
elettrotrazione Richard Ginori, Tecnomasio italiano Pacini a Roma.
Carriere direttive svolgono anche ingegneri civili come Carlo Rossi, che nel 1917 è
capo sezione della Società alti forni e fonderie e acciaierie di Terni, impianto
idroelettrico di Galleso; Giulio Barbieri, di S. Giovanni in Persiceto (Bologna), nel
1906 direttore dello stabilimento di altiforni dell’Elba a Portoferraio, nel 1913
direttore dello stabilimento siderurgico della Società Ilva a Bagnoli. Giuseppe
Domenico Cangia, già assistente alla Scuola di Applicazione, e poi dal 1895 al 1900
ingegnere capo del Comune di Perugia, passa poi all’ufficio tecnico delle acciaierie
di Terni e nel 1908 diventa direttore dei lavori dell’impianto metallurgico dell’Ilva.
83 Limitata appare invece la disponibilità verso l’imprenditoria; e d’altra parte il contesto economico
in cui si trovano a operare i tecnici laureati a Bologna — e in particolare la regione emiliano-romagnola —
non sembra ancora capace di stimolare o accogliere eventuali spinte in questa direzione. In pratica, gli
«Annuari» non registrano che pochissimi imprenditori al di fuori del settore delle costruzioni. Le uniche
eccezioni di rilievo nel settore dell’industria meccanica sembrano quelle di Pier Luigi Gozzini, fiorentino,
laureatosi nel 1885, che si dichiara direttore proprietario di uno stabilimento industriale per la lavorazione
del ferro a Scandicci; e di Romano Righi, di Modena, che dal 1900 è addetto all’officina meccanica
«l’Emilia» di Modena, poi comproprietario e direttore dell’officina meccanica ingegnere Romano Righi e
comp. di Reggio Emilia, e quindi, a partire dal 1904, consigliere delegato della società anonima Officine
meccaniche Reggiane, mantenendo sempre inalterata anche la qualifica di libero professionista. Sulle
Officine reggiane, cfr. S. SPREAFICO, Un’industria, una città. Cinquant’anni alle Officine «Reggiane», Bologna,
Il Mulino, 1968.
97
L’esperienza di lavoro all’estero risulta spesso decisiva e consente rapide
accelerazioni di carriera. Raffaello Gibelli, milanese, laureatosi nel 1881, si impiega
come operaio fuochista e macchinista in Germania, prima di diventare nel 1886
capo officina costruzioni a Savigliano, dal 1889 al 1903 direttore dello stabilimento
meccanico F.lli Koerting di Sestri Ponente per poi ritrovarsi nel 1906 a capo della
suddetta casa a Milano. Un altro caso interessante è quello di Giorgio Calzolari di
Cesena, invece, dal 1899 al 1900 assistente di meccanica razionale alla Scuola di
Applicazione, ispettore generale ferroviario presso il circolo di Roma fino al 1905, e
a partire da quell’anno capo del laboratorio elettrotecnico nell’Istituto sperimentale
delle Ferrovie dello Stato a Roma. Si tratta di una carriera già di alto livello, ma
evidentemente il lungo periodo di missione in Inghilterra per lo studio degli impianti
della trazione elettrica consente un ulteriore avanzamento, la direzione generale
della Società romana tramways omnibus Roma nel 1913.
Per altri ingegneri, invece, la lontananza dall’Italia è più lunga e finisce quasi per
diventare stabile, compensata peraltro da un indubbio successo professionale.
Giuseppe Mattioli, nativo di Savignano sul Rubicone (Fo) e laureatosi nel 1887, dal
1889 al 1891 è addetto alle costruzioni delle ferrovie ravennati, ma si dimette
volontariamente e fino al 1894 è vice direttore delle miniere di Boccheggino della
Società Montecatini, poi fino al 1897 svolge la libera professione a Roma, con
l’incarico di amministratore delle ferriere di Piombino e della Stearineria di Roma e
di sindaco delle acciaierie di Terni. A partire dal 1897, invece, diventa impresario di
lavori pubblici in Romania, dal 1904 al 1906 è architetto e costruttore in Egitto,
condirettore della «Industrial building and commercial company of Egypt» e
amministratore delegato della Società per azioni egiziana di costruzioni. Dal 1915 si
dichiara facente parte della società Mattioli e Fumaroli per impresa di lavori
pubblici. Giovanni Alberti, nativo di Castiglione Stiviere (Mn), dopo avere iniziato
la carriera svolgendo degli studi per costruzioni idrauliche nel Bresciano, ed essere
stato ingegnere aggiunto nell’ufficio tecnico comunale di Brescia, passa poi alla
compagnia delle Ferrovie del Congo e nel 1899 diventa vicedirettore e caposervizio
del Movimento e traffico nelle strade ferrate del Rio grande do Sud della
Compagnie auxiliaire des chemins de fer in Brasile 84.
Incarichi dirigenziali possono comunque essere offerti anche dalle nuove aziende
municipalizzate che gestiscono i servizi a rete delle grandi città italiane. Un esempio
è costituito dal caso di Carlo Cesari, modenese, che acquisisce il diploma di
elettrotecnica a Torino nel 1898 e nel 1900 il diploma di ufficiale sanitario
all’Università di Modena, e nel frattempo diviene membro della locale deputazione
di storia patria e della accademia di belle arti. Dopo avere prestato servizio presso
le Ferrovie piemontesi, società di Bruxelles, e alla Società Union des gas nelle
officine di Modena e di Milano, nel 1905 diventa direttore dei servizi municipali del
gas e dell’acqua di Forlì e direttore della compagnia meridionale e vesuviana per gas
ed elettricità e, a partire dal 1906, vice direttore delle officine del gas di Genova e
Sampierdarena. Un altro caso è quello di Angelo Silva, di Roncole di Busseto (Pr),
laureatosi nel 1884; nel 1903 è direttore della Società parmense di elettricità, e nel
1905 delle officine elettriche comunali di Parma.
Conclusioni
Sul significato della presenza all’estero degli ingegneri laureati a Torino, cfr. le annotazioni di A.
FERRARESI, La formazione degli ingegneri cit., pp. 655-6.
84
98
Le pubblicazioni dell’associazione degli ex allievi della Scuola di applicazione
cessano con il primo conflitto mondiale — per quanto è dato di sapere riprendono
solo negli anni ‘50 — e dunque si interrompe anche la possibilità di ricostruire le
carriere dei laureati. A questo punto, esaurito il compito che ci si era prefissi in
questa sede, si può solo progettare una ricerca più ampia che, utilizzando altre fonti
a stampa e d’archivio, possa completare l’analisi prosopografica coprendo il periodo
intercorrente tra le due guerre mondiali 85.
La nascita di nuove branche dell’ingegneria, in particolare l’elettro-tecnica, e la
crescita economica di età giolittiana avevano offerto agli ingegneri nuove possibilità
di affermazione nel mondo del lavoro, riducendo l’importanza e il prestigio
dell’impiego nel settore pubblico, trasformando la stessa figura del libero
professionista e moltiplicando le possibilità di entrare nel mondo dell’industria con
ruoli direttivi. Lo testimoniano le carriere degli ingegneri impiegati nell’industria
con ruoli dirigenti che abbiamo illustrato nella sintetica tassonomia delle pagine
precedenti.
Gli anni del dopoguerra costituiranno invece un periodo estremamente delicato per
la figura dell’ingegnere italiano, in difficoltà tra le speranze di affermazione coltivate
nel periodo di crescita economica e la dura realtà degli anni dell’immediato
dopoguerra 86. Lo sbocco dato alle tensioni e ai problemi di quel periodo è
sufficientemente conosciuto per illustrarlo qui di nuovo. Meno si sa degli effetti
sulle carriere degli ingegneri dell’epoca e in particolare su quelle dei sempre più
numerosi laureati.
Per quanto riguarda la realtà bolognese, gli anni ‘20 e ‘30 sono particolarmente
interessanti per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, si tratta dei decenni in cui si
assiste al primo, concreto decollo industriale della regione emiliano-romagnola 87.
Inoltre, è in questi anni che la Scuola di applicazione, diventata Facoltà di
Ingegneria dell’Università, si afferma compiutamente, con la definitiva costituzione
dell’indirizzo in ingegneria industriale, la crescita di un corpo docente formato in
loco e il trasloco dalla centrale Piazza dei Celestini all’ancora attuale sede
progettata dall’architetto Giuseppe Vaccaro fuori della Porta Saragozza. Il peso
stesso della Facoltà e dei suoi docenti all’interno dell’Ateneo, nella vita della città e
nella crescita economica locale diviene via via maggiore. Alcune biografie di
docenti esemplificano chiaramente questo processo — tra quelli sin qui ricordati, si
pensi almeno a Muggia e a Puppini — ma delle diverse centinaia di laureati in
quegli anni si sa ancora poco.
85 Per quanto riguarda le fonti a stampa, converrà utilizzare — come si è già fatto in alcuni casi — in
primo luogo i «Calendari generali del Regno d’Italia», gli «Annuari generali d’Italia», e gli «Indicatori»
cittadini, provinciali e regionali. Per quanto riguarda la provincia di Bologna, altre preziose indicazioni
sono fornite dai necrologi e dalle notizie in occasione del cinquantenario della laurea apparsi — a partire
dal secondo dopoguerra — sulla rivista Ingegneri, architetti e costruttori, rassegna mensile del Collegio
costruttori edili della Provincia di Bologna, degli ordini e associazioni ingegneri di Bologna e Ravenna,
dell’associazione architetti dell’Emilia e Romagna. L’ordine degli ingegneri della Provincia di Bologna ha
pubblicato in due occasioni, nel 1959 e nel 1968, un albo degli ingegneri addirittura completo di
informazioni relative all’occupazione. Grazie a queste fonti — e ad altre consimili, relative ad altre parti
della regione e del paese — è forse possibile cominciare a vagliare le carriere degli ingegneri laureati a
Bologna tra il primo e il secondo conflitto mondiale.
86 Si tratta di vicende ampiamente conosciute, per cui rimando ai già citati articoli di M. MINESSO,
L’ingegnere dall’età napoleonica al fascismo, cit., e di G. C. CALCAGNO, Il nuovo ingegnere (1923-1961), cit. e agli
interventi apparsi nel volume G. C. CALCAGNO (a cura di), Ingegneri e modernizzazioni, cit.
87 Cfr. V. Z AMAGNI , Una vocazione industriale diffusa,cit.
99
La tassonomia delle carriere illustrata nelle pagine precedenti ha indicato come i
percorsi professionali più brillanti, in particolare nel settore industriale, fossero
compiuti da coloro che avevano approfondito la tradizionale preparazione fornita
dalla Scuola bolognese — per esempio, diplomandosi in Elettrotecnica a Torino o
specializzandosi all’estero — oppure da coloro che si erano recati all’estero per
accrescere la propria esperienza di lavoro. La ragione di ciò andava in gran parte
individuata nello sviluppo economico ancora rallentato della regione emilianoromagnola e di gran parte del paese e nel non ancora completo sviluppo della
Scuola di applicazione. Tutto ciò costituiva una forte penalizzazione per le carriere
dei laureati bolognesi, almeno rispetto ai tecnici usciti dalle Scuole politecniche di
Milano e Torino. Sarà dunque interessante verificare se il consolidamento della
Facoltà d’Ingegneria e dei suoi corsi e il decollo economico dell’area bolognese ed
emiliana abbiano consentito agli ingegneri laureatisi nel capoluogo emiliano migliori
opportunità di carriera e successo professionale.
100
Appendice statistica
Lo scopo di questa appendice è di fornire alcuni termini di riferimento per valutare
sia la validità dei dati risultanti dall’«Annuario dell’associazione degli ex-laureati
della Scuola di applicazione d’Ingegneria», sia la particolare fisionomia regionale
dell’ingegnere laureato a Bologna,
La tabella 1. ripartisce gli ingegneri laureati a Bologna — sulla sinistra — e gli
ingegneri delle cui carriere gli «Annuari» ci forniscono notizie secondo l’anno di
laurea. Evidentemente il numero maggiore di carriere di cui abbiamo notizie si
riferisce a ingegneri laureati negli anni di pubblicazione dell’«Annuario», ma
complessivamente i dati di cui disponiamo costituiscono un ottimo campione.
Secondo la tabella 1.2., disponiamo infatti di notizie relative a circa il 30-40% degli
ingegneri laureati a Bologna.
La rappresentatività del campione è comunque sancita anche da un altro dato. La
tabella 2 classifica gli ingegneri — a sinistra i laureati, a destra i soci
dell’Associazione ex-allievi — secondo il luogo di nascita. Come si può notare,
sono fortemente sovrarappresentati gli ingegneri nati a Bologna — dato in sé del
tutto ovvio — e, in Emilia-Romagna, i ferraresi. Il campione degli ex allievi delle
restanti regioni, comunque, è sufficientemente simile ai laureati. L’unica eccezione
riguarda la Toscana, ma il dato è da attribuire al fatto che nel 1883 e 1884 la Scuola
di applicazione degli ingegneri di Bologna, rilasciò il diploma di ingegnere civile ad
alcuni allievi dell’Istituto tecnico di Firenze. Il dato di quegli anni — come si può
vedere in tabella 1 — è dunque eccezionale e non sorprende che poi molti di quegli
ingegneri non siano più reperibili all’interno dell’associazione degli ex-laureati.
La tabella 3.1, invece, classifica gli ingegneri presenti nell’Annuario secondo la
destinazione professionale. I dati riguardano per l’appunto il settore di impiego e/o
la qualificazione professionale degli ingegneri presenti nell’«Annuario» alla data del
1913, senza tenere conto di precedenti e/o successive modifiche di carriera. Ho
ricostruito tali tabelle seguendo l’impostazione di M. Rozzarin — cfr. la nota n. 6
— pur discostandomene per la maggiore analiticità dei dati e per alcune valutazioni
divergenti.
Nella tabella 3.2, i dati della tabella precedente sono stati integrati con una sintetica
rilevazione effettuata sul «Calendario generale del Regno d’Italia», alla data del
1914. La consultazione del «Calendario» è stata effettuata ricercando gli ingegneri
laureati a Bologna a partire dall’indice nominativo alfabetico. È difficile evitare il
rischio di casi di omonimia con ingegneri laureati in altre Scuole di applicazione o
nei Politecnici. I casi evidenti o dubbi non sono presi in considerazione. L’incrocio
tra i dati del «Calendario» e i dati dell’«Annuario» consente di ritenere minima
l’importanza dei casi di omonimia.
101
Tab. 1.1. Ingegneri laureati a Bologna e soci dell’Associazione ex allievi.
Anno di laurea laureati
1878-1882
117
1883-1887
264
1888-1892
234
1893-1897
218
1898-1902
162
1903
24
1904
22
1905
27
1906
46
1907
45
1908
31
1909
51
1910
55
1911
56
1912
55
1913
57
1914
57
1915
43
1916
30
1917
7
Totale
1601
soci
39
47
75
93
78
16
5
7
9
12
2
19
46
52
47
37
38
10
8
3
643
Tabella 1.2. Laureati a Bologna a partire dal 1878 e soci dell’Associazione ex
allievi.
Anno di laurea
laureati
1903
1904
1905
1906
1907
1908
1909
1910
1911
1912
1913
1914
1915
1916
1917
1019
1041
1068
1114
1159
1190
1241
1296
1352
1407
1464
1521
1564
1594
1601
soci ass. ex allievi
v. a.
%
348
34,15
353
33,91
360
33,71
369
33,12
381
32,87
383
32,18
402
32,39
448
34,57
500
36,98
547
38,88
584
39,89
622
40,89
632
40,41
640
40,15
643
40,16
102
Tabella 2. Laureati presso la Scuola d’ingegneria di Bologna (1) e laureati iscritti
all’Associazione ex allievi (2) distinti per luogo di nascita (1878-1917)
Luogo di nascita
Bologna e provincia
(1)
v.a.
299
%
18,6
8
Ferrara e provincia
78
4,87
Ravenna e provincia
64
4,00
Forlì e provincia
34
2,12
Parma e provincia
38
2,37
Reggio e provincia
56
3,50
Modena e provincia
107 6,68
Piacenza e provincia
23
1,44
Totale Emilia-Romagna
699 43,6
6
Lombardia
248 15,4
9
Toscana
207 12,9
3
Marche
98
6,12
Veneto
93
5,81
Piemonte
46
2,87
Liguria
41
2,56
Abruzzi e Molise e Puglia 68
4,25
Umbria e Lazio
30
1,87
Altre regioni merid.
33
2,06
Isole
23
1,44
Estero
15
0,94
Totale
1601 100
(2)
v.a. %
183 28,55
43
24
4
8
27
44
4
337
6,71
3,74
0,62
1,25
4,21
6,86
0,62
52,57
84 13,10
46 7,18
36
38
14
10
36
13
12
6
9
641
103
5,62
5,93
2,18
1,56
5,62
2,03
1,87
0,94
1,40
100
Tabella 3.1. Destinazione professionale degli ingegneri soci dell’Associazione fra gli
ex-allievi alla data del 1913 (Fonte: «Annuario dell’Associazione», v. XI, 1913).
Settori economici di attività
Industrie
Edilizia
Liberi professionisti
Ferrovie (dipendenti dalle Ferrovie dello Stato)
Agricoltura (consorzi di bonifica)
Uffici tecnici com.li e prov.li
Totale ing. dipendenti dall'amm.ne dello Stato,
Genio
civile
27;
Catasto
Uff. tecnici di finanza 9
Esercito
Insegnanti (scuole secondarie)
Docenti universitari
Ing. impiegati all'estero
Altro
Totale
9;
v.a.
41
18
193
55
13
78
45
v. %
8,18
3,59
38,52
10,98
2,59
15,57
8,98
8
13
15
7
15
501
1,60
2,59
2,99
1,40
2,99
100,00
Tabella 3.2. Destinazione professionale degli ingegneri laureati a Bologna alla data
del 1913 (Fonte: «Annuario dell’Associazione», v. XI, 1913; Calendario generale del
Regno d’Italia, v. LII, 1914).
Settori economici di attività
v.a.
Industrie
41
Edilizia
18
Liberi professionisti
193
Ferrovie (dipendenti dalle Ferrovie dello Stato)
67
Agricoltura (consorzi di bonifica)
13
Uffici tecnici com.li e prov.li
78
Ing. dipendenti dall'amm.ne dello Stato
138
Genio
civile
63;
Catasto
46;
Uff. tecnici di finanza 26; Dirigenti di ministeri 3.
Esercito
9
Insegnanti (scuole secondarie)
22
Docenti universitari
15
Poste e telegrafi
2
Impiegati all'estero
7
Altro
19
Totale
622
104
%
6,59
2,89
31,03
10,77
2,09
12,54
27,54
1,45
3,54
2,41
0,32
1,13
3,05
100
Anno di laurea laureati
1878
22
1879
13
1880
24
1881
30
1882
28
1883
104
1884
51
1885
37
1886
35
1887
37
1888
64
1889
24
1890
41
1891
55
1892
50
1893
48
1894
54
1895
53
1896
38
1897
25
1898
40
1899
35
1900
30
1901
29
1902
28
1903
24
1904
22
1905
27
1906
46
1907
45
1908
31
1909
51
1910
55
1911
56
1912
55
1913
57
1914
57
1915
43
1916
30
1917
7
Totale
1601
Anno di laurea laureati
1878-1882
117
1883-1887
264
1888-1892
234
soci
5
5
5
15
9
9
6
13
12
7
18
11
12
12
22
28
23
20
14
8
19
16
15
15
13
16
5
7
9
12
2
19
46
52
47
37
38
10
8
3
643
soci
39
47
75
105
1893-1897
1898-1902
1903
1904
1905
1906
1907
1908
1909
1910
1911
1912
1913
1914
1915
1916
1917
Totale
218
162
24
22
27
46
45
31
51
55
56
55
57
57
43
30
7
1601
93
78
16
5
7
9
12
2
19
46
52
47
37
38
10
8
3
643
106
Le fonti per la storia dell’ingegneria
tra Otto e Novecento:
l’Archivio Muggia e il suo fondo documentario
Paolo Lipparini
Dipartimento di Architettura e Pianificazione Territoriale,
Università di Bologna
Matteo Rozzarin
Università di Bologna
La recente donazione operata dalla famiglia a favore dell’Ordine degli Architetti di
Bologna riguardante il vasto fondo archivistico appartenuto ad Attilio Muggia,
ingegnere e architetto, attivo a Bologna tra la fine dell’‘800 e i primi decenni del
‘900, ha indubbiamente offerto l’occasione per un lavoro accurato di ricostruzione
del percorso professionale, scientifico e artistico di una figura preminente dell’élite
tecnica locale e nazionale. Uno sguardo per sommi capi alla vicenda biografica,
insieme accademica e professionale, di Attilio Muggia vale certamente a spiegare il
merito di quanto affermato e, conseguentemente, il valore intrinseco della
importante acquisizione archivistica.
Attilio Muggia inizia l’attività didattica ancora studente negli anni in cui frequenta il
2° e il 3° corso della Reale Scuola di Applicazione di Bologna, raccoglie infatti e
pubblica le dispense relative al corso di “Meccanica applicata alle costruzioni” e
“Ponti e Costruzioni idrauliche” tenute dal prof. Silvio Canevazzi. Due anni dopo
(1885) consegue la laurea in Ingegneria Civile con la votazione di 98/100 che gli
permette di classificarsi primo tra i laureati di quell’anno. Argomento della tesi è il
“Progetto di un teatro”, brillante conclusione degli studi universitari che gli
consente di essere nominato Assistente dal prof. Cesare Razzaboni suo relatore. I
corsi ai quali collabora sono molteplici: Statica grafica, Meccanica applicata alle
costruzioni, Ponti e costruzioni idrauliche, Geometria pratica e celerimensura, Stili
architettonici, Costruzioni stradali e ferroviarie e Architettura tecnica.
Questa intensa attività didattica lo porta in breve ad ampliare le proprie conoscenze
ed esperienze nelle discipline tecniche ed architettoniche e a compiere una rapida
carriera universitaria. Infatti, pochi anni dopo, consegue la libera docenza in
Architettura tecnica con decreto ministeriale del 6 luglio 1891. L’anno successivo è
incaricato dell’insegnamento della stessa materia nel primo corso della Scuola di
Bologna, compilando in seguito i testi necessari al corso. Partecipa quindi al
concorso per la cattedra di professore straordinario di Architettura nella Scuola di
Palermo conseguendone la eleggibilità (1893). Il passaggio dal titolo di professore
straordinario a ordinario avviene nel 1905 ed è trasferito nel 1912, sempre come
professore ordinario, alla Cattedra di Architettura tecnica.
Analizzando l’opera del Muggia sotto il profilo professionale notiamo come tutta la
sua attività sia caratterizzata dalla volontà di conciliare l’aspetto tecnico e quello
formale, l’architetto e l’ingegnere civile, lo strutturista e lo scenografo.
Difficilmente uno dei due aspetti che caratterizzano il progettista prende il
107
sopravvento sull’altro; le conoscenze tecniche gli permettono infatti un assoluto
controllo architettonico del progetto e le doti artistiche restituiscono all’opera
stessa, dal semplice manufatto in cemento armato al grande capannone industriale,
una “qualità architettonica” inconsueta.
Risulta arduo quindi cercare di ricondurre l’opera di Muggia entro ambiti predefiniti
proprio a causa della molteplicità e varietà dei progetti, rimanendo possibile però
attribuirgli le qualità tipiche sia degli ingegneri, sia degli architetti: il rigore
progettuale e strutturale applicato alla ricerca della “qualità” architettonica.
L’impegno nella ricerca che Muggia profuse durante la sua vita professionale nella
sua duplice veste di ingegnere accademico e di imprenditore edile costituì un
fondamentale supporto all’insieme delle attività tecnico-progettuali. Egli, infatti, fu
uno dei pionieri nel campo del cemento armato, un sistema costruttivo di cui
comprese l’importanza per un paese come l’Italia povero di materie prime e
arretrato dal punto di vista tecnologico. Peraltro, negli anni a cavallo dei due secoli
fu tra i pochissimi che seppero accelerare la rivoluzione dei sistemi costruttivi che
facevano dell’edilizia ancora un settore artigianale e che l’uso del cemento armato
trasformò celermente in “industria”. Primo in Italia a trattare (in una conferenza
pubblica alla Società Toscana degli Ingegneri nel 1899) del nuovo sistema anche dal
punto di vista teorico, ne introdusse per primo l’insegnamento.
Queste conoscenze tecniche gli permisero per molti anni di essere tra i pochi
ingegneri in grado di realizzare grandi manufatti in cemento armato con ardite
caratteristiche tecniche (il ponte sul Magra del 1905, lungo 300 metri ad archi
ribassati). Inoltre di queste tecniche fece largo uso per ponti a travate (stradali e
ferroviari), nelle fondazioni per agglomeramento pneumatico in posto (ponte sul
Magra) con macchinari di sua ideazione e brevetto, nei lavori marittimi (moli di
Porto Corsini a Ravenna nel 1900) e nei più diversi manufatti di cantiere, tutti con
brevetti propri. Tali opere furono progettate e realizzate in tutta Italia dalla Società
Costruzioni Cementizie (con sedi a Bologna e Firenze), una delle imprese edili
allora maggiori d’Italia e di cui Muggia fu direttore tecnico generale dal 1905 al
1925. L’aspetto d’interazione fra cultura tecnico-scientifica e applicazione
industriale e imprenditoriale è da considerarsi dunque quale tratto determinante per
la comprensione dell’operato del Muggia, un operato quello professionale che trae
forza e slancio dalla metodica applicazione dei principi economici e manageriali ad
una pratica progettuale che per questi motivi assume un rilievo del tutto originale e
innovativo. Non è raro ad esempio rinvenire nei progetti del professore veneziano
l’indicazione degli elementi economico-contabili per la misurazione e la corretta
valutazione dei costi di fabbricazione, nonché di quelli di tipo budgetario finalizzati
alla determinazione delle risorse finanziarie reperibili per il completamento
dell’opera progettata. Né per questi stessi motivi occorre sottovalutare come
l’elevato tasso di professionalizzazione dell’operato didattico e scientifico abbia
positivamente influenzato l’attività del Muggia organizzatore delle politiche
didattiche per gli ingegneri sul piano locale (con la promozione di una importante
iniziativa scolastica come la Scuola Superiore di Chimica Industriale di Bologna,
nonché la stessa direzione della Scuola d’Applicazione) e su quello nazionale (con
la proposizione di un organico progetto di riforma degli studi di ingegneria).
Particolarmente interessante rimane il caso della Scuola di chimica in quanto assai
paradigmatico dell’intreccio di alcune dinamiche culturali ed economico-
108
organizzative tipiche dell’Italia dell’immediato dopoguerra. Tali dinamiche possono
essere riassunte principalmente nell’affermazione dell’importanza sociale e culturale
dell’elemento tecnico, una posizione che possiamo ricondurre direttamente agli
intendimenti programmatici del movimento scientista, e, soprattutto, nella ricerca
di un maggiore collegamento fra scuola e industria attraverso la realizzazione di un
ordinamento scolastico e istituzionale dotato di autonomia funzionale e didattica.
Muggia si propone infatti sin dall’inizio (cioè sin dal 1916, anno in cui viene
lanciato il progetto scolastico, un progetto che, per iniziativa dello stesso Muggia,
fu accompagnato e integrato più tardi da una ardita ipotesi di intervento urbanistico
relativo ad una vasta area immobiliare cittadina) quale promotore del Comitato
Patrocinatore della Scuola, un organismo che sarà in grado di raccogliere un largo
consenso nell’ambiente industriale bolognese ed emiliano, un consenso che si
sarebbe infine tradotto nella rappresentanza diretta degli enti oblatori in seno alla
Commissione amministrativa del Consorzio sovvenzionatore così come all’interno
del Consiglio direttivo della Scuola inaugurata nel 1922.
Analogamente, le proposte di riforma degli studi di ingegneria elaborate dal Muggia
dapprima come presidente della Società degli Ingegneri di Bologna (1916) e
successivamente (1922) come responsabile della commissione ANIAI (la neonata
associazione professionale degli ingegneri e degli architetti italiani) alla quale era
stato affidato il compito di studiare il problema e di proporre alcune soluzioni,
rivelano indubbiamente il prevalere di alcuni tratti costitutivi di quella
impostazione professionalizzante degli studi che tante difficoltà andava incontrando
anche nell’ambito dell’establishment accademico delle scuole d’ingegneria. La
posizione di Muggia si può infatti riassumere nel tentativo di favorire il
raggiungimento di una soluzione della cogente “questione professionale”, così
vivacemente dibattuta all’indomani della cessazione del conflitto bellico, non
puramente in termini legalistici (riconoscimento del valore legale del titolo), né
soltanto in virtù del riordinamento in senso restrittivo del sistema d’accesso agli
studi di ingegneria, quanto grazie ad una maggiore cura degli aspetti relativi alla
preparazione culturale tecnico-scientifica degli allievi ingegneri mediante la
opportuna valorizzazione delle finalità applicative del quinquennio di studi e la
suddivisione degli indirizzi in industriale (meccanica, elettrotecnica, chimica e
agraria), civile (idraulica, trasporti) e architettonico, nonché attraverso la
sperimentazione di alcune metodologie didattiche innovative quale in particolare la
proposta dei periodi di esercitazione e perfezionamento in aziende allo scopo di
favorire un più stretto contatto dello studente con la pratica professionale. Né
possiamo stupirci di come queste posizioni non possano che esser sostenute da chi
maturi, nel concreto dell’agire professionale e nella consapevolezza delle reali
problematiche inerenti alla formazione tecnico-scientifica, la consapevolezza del
lento ed inesorabile mutare delle condizioni che sottendono alla evoluzione della
professione e in particolare di come gli elementi tecnologico, industriale ed
organizzativo tendano pertanto a proporsi quale importante metro di valutazione e
di indirizzo anche per i settori più tradizionali dell’ingegneria civile. È questa una
sensazione che si percepisce nettamente allorché si verifichi tra le carte
dell’archivio Muggia un più che appariscente moltiplicarsi tra il 1917 e il 1921 delle
ipotesi di progettazione di quegli elementi tecnici e architettonici maggiormente
riferibili ad una realtà produttiva di recente ed impetuosa formazione, quali ad
109
esempio solai e tettoie per fabbricati industriali, magazzini, silos, interi edifici di
cartiere, zuccherifici, officine del gas ecc. Un passaggio invero assai critico e che
pone in pieno risalto la progressiva deficienza degli ordinamenti scolastici nel
campo dell’ingegneria laddove il problema oramai più avvertito è dunque quello
dell’aggiornamento delle tecniche di progettazione e di edificazione, e, insieme,
quello della gestibilità tecnica e amministrativa dei nuovi tipi di infrastrutture
produttive. La qualità e i caratteri della progettazione didattica dei corsi per
ingegneri chimici e dottori in chimica industriale presso la neonata scuola bolognese
ci confermano ampiamente della netta e lucida percezione dei promotori
dell’iniziativa intorno alla necessità strategica dell’approdo ad una visione
complessiva del “ciclo progettuale”.
Siamo pertanto al cospetto di una figura di ingegnere di eccezionale statura
professionale per cifra tecnica, elaborazioni concettuali e assunzione di
responsabilità sociali e civili, ma che dell’evoluzione delle problematiche
dirompenti del professionalismo tecnico si pone indubbiamente quale cosciente e
attivo interprete. La vicenda di Attilio Muggia può anche sotto questo punto di
vista considerarsi paradigmatica dell’incipiente ed incisivo protagonismo
professionale e sociale del ceto medio e dirigente tecnico alla ricerca delle forme di
riconoscimento e di legittimazione culturale e politica oltre che economica in grado
di decretarne a pieno titolo una presenza stabile e influente nell’assise della nuova
classe dirigente urbana e nazionale. Un rapido sguardo all’elenco delle cariche
ricoperte dal Muggia in ambito tecnico e civile può meglio illustrare il significato di
quanto ora affermato in merito al processo di legittimazione sociale e civile dei
tecnici: Attilio Muggia fu infatti membro della commissione che stilò le prime
norme sulle costruzioni in cemento armato in Italia, presidente della commissione
per la riforma del regolamento delle costruzioni in c.a., membro della commissione
per le “invenzioni di guerra” durante il primo conflitto mondiale, membro della
commissione dell’ingegneria del Consiglio nazionale delle ricerche, presidente della
Società amatori e cultori d’architettura di Bologna, vice presidente delle
commissione per la facciata di S. Petronio in Bologna. Non meno intensa fu
l’attività di Muggia nel campo sociale, infatti nel 1887 promosse con altri la
costituzione di una “Casa di lavoro per operai disoccupati” e ne fu vicepresidente,
più tardi di una scuola per capimastri e per la qualificazione della mano d’opera
edile realizzata nel primo dopoguerra. Fu membro del consiglio direttivo
dell’istituto professionale Aldini-Valeriani e di quello dell’Accademia di Belle Arti,
presidente dell’associazione ingegneri di Bologna e vice presidente
dell’Associazione Nazionale Ingegneri. Per molti anni fu membro della
commissione consultiva edilizia del Comune di Bologna. Del tutto paradigmatico
altresì l’approdo politico del Muggia in un dopoguerra travagliato da profonde
tensioni sociali e intense spinte modernizzatrici che delle prime parevano subire agli
occhi del tecnico e dell’imprenditore l’effetto frustrante e distruttivo. Fondatore
della sezione bolognese della Confederazione dei lavoratori intellettuali la cui sede
venne posta proprio nella locale Scuola d’applicazione, nel 1921 si iscrisse al partito
fascista, anticipando un percorso presto seguito da molti intellettuali e tecnici di
questo paese. Né sarà irrilevante prendere in considerazione come il peso dei tecnici
e degli ingegneri in particolare nel nuovo assetto politico e amministrativo
municipale bolognese (il professor Umberto Puppini, docente di Idraulica presso la
110
Scuola d’Ingegneria, destinato ad una brillante carriera ministeriale e dirigenziale
negli anni ‘30, venne nominato Sindaco dalla nuova maggioranza politica)
costituisca per molti versi la naturale risultante di questo complesso processo
sociale.
Nella fase conclusiva della vicenda biografica del Muggia constatiamo un
sostanziale ripiegamento verso l’impegno didattico che, con l’assunzione della
direzione della Scuola d’Ingegneria nel 1923 succedendo in questo ruolo a Luigi
Donati, docente di Fisica tecnica e fondatore della sezione bolognese della AEI,
finirà per assorbire una grande parte del suo lavoro. I suoi primi interventi
riguardano la riorganizzazione della Segreteria e dell’Economato che risentivano
ancora delle vicissitudini derivanti dalla guerra da poco conclusa. Provvede poi ad
organizzare il riordinamento generale della biblioteca e dei relativi schedari.
Ripristina l’insegnamento dell’Ingegneria sanitaria e separa l’insegnamento di
Costruzioni idrauliche da quello di Ponti. Istituisce inoltre l’insegnamento di
Nozioni di Agronomia ed Attuaria annettendolo a quello di Estimo, promuovendo
altresì, verso la fine del mandato, l’istituzione di un corso libero di Organizzazione
scientifica del lavoro; istituisce inoltre corsi serali di inglese e tedesco necessari, a
suo parere, ad un ingegnere che doveva essere competitivo a livello internazionale.
Nel 1927 il suo mandato di direttore della Scuola termina, mantiene la Cattedra di
Architettura tecnica fino al 1935 quando viene collocato a riposo per raggiunti
limiti di età e nominato, nel 1936, professore Emerito. Non meno interessante e
ugualmente suggestivo sotto i profili culturale, architettonico e delle relazioni
internazionali, fu il ruolo di Muggia nella vicenda del concorso per il Palazzo della
Società delle Nazioni, sulla quale non ci si vuole soffermare in questa sede per la
molteplicità delle tematiche ad essa inerenti, ma la cui partecipazione in qualità di
membro della giuria del Concorso (1927) vale a dimostrare altresì l’eccezionale
credito di cui era oggetto la sua opera e il suo lavoro di docente.
Considerata pertanto la complessità degli elementi biografici sinora addotti ben si
comprende come la ricchezza degli elementi archivistici recentemente acquisiti
possa aprire la strada in futuro ad una ricerca di ampio respiro, incentrata su una
lettura che miri in primo luogo alla integrazione dei differenti aspetti interpretativi
sui quali fondare l’analisi storiografica dell’attività professionale e culturale
dell’ingegner Muggia. Ciò diviene tanto più significativo quanto maggiormente si
mediti sulle difficoltà di individuazione e di un eventuale recupero di fondi
archivistici e bibliotecari di qualche rilievo riferibili a singole figure di tecnici, sia
per le peculiarità di una pratica professionale generalmente meno incline alla
selettività conservativa dei materiali prodotti, sia perché l’intenso legame tra attività
professionale e responsabilità istituzionali porta in molti casi alla frammentazione
policentrica delle testimonianze archivistiche. Quando queste difficoltà tuttavia
vengono superate, e si ha la possibilità di rinvenire buona parte dei materiali
provenienti dalle attività di progettazione di uno studio tecnico, si è posti di fronte
ad una mole di documenti il cui trattamento in termini archivistici pone non pochi
problemi metodologici e procedurali.
Tali problemi si sono puntualmente riproposti in merito al recupero e al
riordinamento dell’archivio autografo che Attilio Muggia aveva conservato e
sistemato, operazione della quale si vogliono qui presentare, a conclusione di
questo intervento, le fasi e le caratteristiche salienti, e il cui merito va
111
innegabilmente ascritto all’impegno dal prof. Giuliano Gresleri, titolare della
cattedra di Storia dell’Architettura e dell’Urbani-stica della Facoltà di Ingegneria di
Bologna, impegnato da diversi anni, insieme ai suoi collaboratori, nel recupero e
nella valorizzazione, in primo luogo didattica, delle testimonianze archivistiche e
documentarie dell’ar-chitettura bolognese tra Otto e Novecento.
Si tratta di un archivio il cui materiale si presentava al momento del rinvenimento
in buono stato di conservazione e rappresentante la quasi totalità dell’opera del
Maestro. Questa ricchezza di documenti ha permesso altresì di ricostruire la genesi
e la realizzazione di circa 800 progetti, la maggior parte dei quali risultavano
sconosciuti fino a quel momento. Il passo successivo è stato quello di organizzare i
reperti secondo la metodologia archivistica più appropriata al fine di poterne
catalogare tutto il contenuto e renderlo fruibile per ulteriori analisi. Si è scelto allo
scopo di mantenere l’ordine adottato dall’autore, integrandolo tuttavia con una
catalogazione alfabetica per soggetti e un regesto cronologico. In questo modo
risulta possibile conoscere l’opera di Muggia attraverso i suoi elaborati grafici,
facilmente rintracciabili sia cronologicamente che fisicamente. Il presente metodo si
è reso obbligatorio in quanto il materiale catalogato risulta molto vasto e
disarticolato perché ubicato in due differenti depositi.
Accanto all’archivio vero e proprio è stato rinvenuto un fondo, il primo in realtà ad
essere trovato (gennaio 1995), e che si trova in una stanza ubicata al primo piano di
un edificio a Porta Mascarella, ossia la sede bolognese dell’impresa edilizia del
Muggia. Il materiale si trovava in buono stato di conservazione ma in grande
disordine, determinato probabilmente da un frettoloso accatastamento durante la
collocazione avvenuta probabilmente in seguito della morte del figlio di Muggia,
Guido. Quest’ultimo è stato infatti l’unico biografo del padre e, di conseguenza,
doveva disporre di questo materiale. Esso costituisce una sorta di “compendio”
dell’opera di Muggia, infatti si presenta come una raccolta dei suoi progetti più
significativi catalogata in ordine cronologico e raccolta in una ventina di cartelle
numerate. A queste si aggiungono dieci buste contenenti i carteggi relativi ad alcuni
progetti, una raccolta di tavole sciolte eseguite da Muggia durante i suoi studi
superiori ed universitari. Inoltre vi sono 6 quadri rappresentanti sempre alcune delle
sue opere. L’impressione che si ricava dal riordinamento delle cartelle è quella di un
lavoro interrotto: infatti le cartelle pur contenendo progetti realizzati in anni diversi
sono tutte dello stesso materiale e forma e le singole opere vengono visualizzate
mediante riduzioni fotografiche dei disegni originali e incollate su pannelli di
cartone. Questo metodo di raccolta rende la consultazione molto più agevole
rispetto agli originali. Appare evidente che Muggia stesse riordinando la sua opera e
al tempo stesso desiderasse renderne più facile la sua collocazione. Il metodo di
catalogazione proposto per il “fondo” è lo stesso usato da Muggia: quello
cronologico per le opere più importanti, quello per tipo di opera per le altre. Per le
buste ci si è limitati a numerarle nell’ordine in cui sono state trovate e lo stesso si è
fatto per le tavole sciolte e per i quadri. L’archivio Muggia è stato donato dagli eredi
del maestro all’Ordine degli Architetti di Bologna dove è attualmente depositato,
purtroppo l’attuale sistemazione lo rende difficile da consultare tranne per quella
piccola ma significativa parte custodita nel dipartimento di Architettura e
pianificazione territoriale della Facoltà di Ingegneria, costituita da un centinaio di
112
tavole architettoniche che riassumono in maniera esaustiva tutta l’opera e dalla
riproduzione fotostatica di parte del carteggio privato del maestro.
113
Jacopo Benetti, tra scuola e professione
Gian
Carlo
Dipartimento di Discipline Storiche, Università di Bologna
Calcagno
Essendo oggidì altamente accertata la benefica influenza dell'istruzione tecnica sul
progresso industriale [...] mi riuscì assai gradito [...] il Suo grande e sentitissimo
interessamento a favore dell'istruzione superiore [...] presso questa R[egia] Scuola 88.
Così scriveva Jacopo Benetti, il 6 novembre 1907, «all'Ill.mo Signor Sindaco della
Città di Bologna», in risposta ad una richiesta di preventivo per «l’istituenda sezione
industriale» nella Scuola d’applicazione per gli ingegneri, ubicata in San Giovanni
dei Celestini 89.
Il Benetti, Direttore della Scuola bolognese dal 1893, era di origini veneziane e si
era laureato presso l’Università di Padova nel 1863. Docente dal 1867 di Meccanica
industriale (poi Meccanica applicata) presso la locale Scuola di ingegneria, ed ivi
anche docente di Macchine agricole, idrauliche e termiche90, era poi passato alla
Scuola d’applicazione di Bologna, in coincidenza con l’attivazione piena e
«completa» 91 di tale istituto, in cui aveva insegnato, come ordinario — ed
J. BENETTI (a cura di), Commentari dell'organizzazione e di un trentennio di vita della Scuola ed Annuario per
l'anno scolastico 1908-09, Regia scuola d'applicazione per gli ingegneri in Bologna, Bologna, Stabilimento
poligrafico emiliano, 1909, Allegato XLV, «Preventivo per l’istituenda sezione industriale», p. 339.
89 Ibidem; sulla Scuola d'applicazione di Bologna, cfr. C. G. LACAITA, Istruzione e sviluppo industriale in Italia
1859-1914, Firenze, Giunti-Barbèra, 1973, pp. 134-135; C. BUCCHIONI, L'Ottocento e la Scuola
d'Applicazione per gli ingegneri in Bologna, in Il patrimonio librario antico della Biblioteca d'Ingegneria, a cura di B.
BRUNELLI, C. BUCCHIONI, M. P. TORRICELLI, Bologna, Università degli Studi di Bologna-Biblioteca
«Dore»-Facoltà di Ingegneria, [1992], p. XXVIII e Ibidem, nota 6; G. C. CALCAGNO, Un istituto per la
formazione degli ingegneri: la «Scuola d'Applicazione» di Bologna, in E. DECLEVA, C. G. LACAITA, A. VENTURA
(a cura di), Innovazione e modernizzazione in Italia fra Otto e Novecento, Milano, Angeli, 1995, pp. 262-296.
90 M. MINESSO, Tecnici e modernizzazione nel Veneto. La Scuola dell'Università di Padova e la professione
dell'ingegnere (1806-1915), Centro per la storia dell'Università di Padova, Padova, Lint, 1992, pp. 24, 80
nota 36, 88 tav. (Docenti della Scuola di Applicazione, a. a. 1875-76/1914-15); cfr. anche ARCHIVIO CENTRALE
DELLO STATO, ROMA (ACS), Ministero della pubblica istruzione, Direzione istruzione superiore,
Personale universitario, I vers., b. 155, Jacopo Benetti; sul Benetti si veda inoltre la voce Benetti, Jacopo in
Dizionario biografico degli italiani, VIII, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1966, p. 481-482; e G. C.
CALCAGNO, La Scuola per gli ingegneri dell'Università di Bologna tra Otto e Novecento, «Annali di storia delle
università italiane», 1, 1997, pp. 149-163 (Clueb, Bologna).
91 J. B ENETTI (a cura di), Commentari, cit., p. 13. Il Direttore indicava con il termine «completa» la Scuola
attivata in tutti e tre gli anni di corso del triennio; tale attivazione era avvenuta nell'anno scolastico
1877/78; in precedenza, per l'anno 1875/76, a Bologna era stata istituita una Scuola, caratterizzata solo da
un anno (il primo) di corso, cui si era aggiunto, nel 1876/77, un secondo anno, istituito sub condicione, su
iniziativa autonoma dell'Ateneo bolognese. Peraltro, va rico rdato che vi è un'altra accezione del termine
«completa» — cui più frequentemente gli storici fanno riferimento — ed è quella che si riferisce alle scuole
per ingegneri che oltre al triennio avevano anche un proprio biennio, più o meno autonomo, e
comunque distinto dal primo biennio della Facoltà di scienze matematiche, fisiche, chimiche e naturali. In
tale accezione, «completo» poté essere definito per primo — già pochi anni dopo la sua attivazione —
l'Istituto tecnico superiore di Milano (detto appunto per questo il Politecnico). Successivamente, dai
primi anni del Novecento, «complete» (più che altro formalmente, però, e non senza resistenze degli
Atenei, con interpretazioni riduttive delle leggi, che richiesero da parte degli istituti per la formazione degli
ingegneri ricorsi al Consiglio di Stato) poterono essere definite pure la Scuola d'applicazione di Napoli
divenuta Scuola superiore politecnica nel 1904 e la Scuola d'applicazione di Torino, unitasi con il Museo
industriale e divenuta — nel 1906 — Politecnico. Cfr. G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli
ingegneri, cit., pp. 272-273, nota 25; vedi anche C. G. LACAITA, Istruzione e sviluppo industriale, cit., pp. 121122.
88
114
insegnava ancora, al momento in cui presentava al sindaco il proprio progetto di
sezione industriale — Macchine termiche, idrauliche e agricole, e — come
incaricato — Strade ferrate (poi Ferrovie) 92.
Le indicazioni di Jacopo Benetti sull’istituenda sezione industriale della Scuola
d’Applicazione bolognese 93 e le sue articolate riflessioni sulla storia della sezione
civile, istituita con triennio completo dal 1877, costituiscono una tra le
testimonianze più interessanti del dibattito sulla figura (sul ruolo sociale e sulla
cultura) dell’ingegnere tra Otto e Novecento; dibattito che rifletteva domande di
rinnovamento nelle scuole e di adeguamento ai grandi cambiamenti a livello
professionale, dibattito che confermava peraltro come le esigenze della formazione
teorica e quelle del “mestiere” dell’ingegnere, non fossero sempre facilmente
componibili 94.
Il progetto relativo ad un ramo di ingegneria industriale, che avrebbe dovuto
integrare il ramo d’ingegneria civile e d’architettura attivato nella Scuola bolognese
da più di un trentennio, si collocava nel contesto di quello che Jacopo Benetti
definiva «il grandioso sviluppo dell’insegna-mento industriale all’estero ed anco fra
noi (per ora più a Milano ed a Torino)» , sviluppo che gli era «ben noto» grazie ad
«una esperienza di quarant’anni di vita scolastica e tecnica all’estero ed in paese»95.
Elaborato tra l’altro sotto la spinta di pressanti richieste provenienti
dall’associazione degli «ex allievi laureati, molti dei quali già [...] entrati in carriere
industriali» 96, il progetto veniva presentato dal Benetti come una sorta di
compromesso realistico tra esigenze che gli apparivano per molti aspetti
antagonistiche. Esigenze riconducibili — da un lato — all’impossibilità di un
adeguamento totale, per ragioni diverse, locali e non solo locali, al «grandioso
sviluppo accennato», e — dall’altro — al suo proprio [di Benetti] irrinunciabile
«decoro» di «insegnante e tecnico [...] al corrente [...] dei progressi industriali», che
impediva di «abboz-zare» un disegno troppo modesto e riduttivo 97.
Le difficoltà maggiori, come era già accaduto altre volte alla Scuola, anzi forse più
ancora d’altre volte, erano d’ordine economico 98. Benetti stimava comunque che
una convergenza tra forze cittadine e regionali, quali la «Municipalità, le
rappresentanze provinciali della Regione, le Aziende Aldini-Valeriani, i Collegi
Bertocchi, Comelli, le Camere di Commercio ed altri Enti della Regione Emiliana e
delle Marche, nonché Associazioni industriali e perfino benemeriti cittadini» in
concorso «col R. Governo» avrebbero garantito la copertura finanziaria
all’attivazione della «Sezione Industriale» 99.
J ACOPO BENETTI (a cura di), Commentari, cit., Allegato VIII a-g.
In realtà i tempi (ma anche i modi) dell'istituzione del ramo industriale furono molto diversi da quelli
auspicati dal Benetti, che sembrava dare la sezione industriale come fattibile a brevissimo termine. Cfr. G.
C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit., pp. 289-296.
94 Cfr. G. C. CALCAGNO, Il nuovo ingegnere, in Storia d'Italia. Annali 10. I professionisti, a cura di M.
MALATESTA, Torino, Einaudi, 1996, pp. 315-316; ID. (a cura di), Ingegneri e modernizzazioni. Università e
professione nell'Italia del Novecento, Bologna, Esculapio, 1996; M. MINESSO, L'ingegnere dall'età napoleonica al
fascismo, in I professionisti, cit., p. 259-302.
95 J. B ENETTI (a cura di), Commentari, cit., Allegato XLV, p. 339.
96 Ivi, p. 340; cfr. anche Ivi, pp. 48-49.
97 Ivi, pp. 339-340.
98 Cfr. G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit., pp. 292-293; J. B ENETTI (a cura di),
Commentari, cit., pp. 12, 53-54.
99 J. B ENETTI (a cura di), Commentari, cit., Allegato XLV, p. 340.
92
93
115
L’apporto del Governo appariva al Benetti opportuno, per non dire doveroso, per
due ordini di motivi.
In primo luogo, alla luce della centralità anche sociale che si doveva riconoscere ai
processi di industrializzazione e di modernizzazione del Paese — e quindi anche e
soprattutto alla formazione dei tecnici chiamati a gestire quei processi — la «nuova
istituzione» appariva indubbiamente di «utilità pubblica» 100.
In secondo luogo — ma non meno importante per il Benetti — «in favore di un
concorso largo del R. Governo» militava il fatto che «alcune grandi Amministrazioni
dello Stato» richiedevano nei concorsi «per l’ammissione dei loro funzionari tecnici,
il diploma d’ingegnere industriale od almeno d’ingegnere elettrotecnico». Ma, così
facendo, non ponevano «in eguali condizioni gli allievi di tutte le R. Scuole
d’applicazione per gli ingegneri del Regno». Gli «Istituti superiori per gli ingegneri»
che conferivano le «lauree d’ingegnere industriale ed elettrotecnico» osservava in
particolare il Benetti, erano quelli «(in ordine di anzianità) di Milano, Torino, Napoli
e Palermo; quanto alle scuole d’applicazione di Roma e di Padova, esse rilasciavano
«diplomi (più limitati) d’ingegneri elettricisti». Solo la Scuola di Bologna non poteva
rilasciare «che semplici certificati di frequentazione e di profitto nelle lezioni e nelle
esercitazioni sperimentali del corso complementare facoltativo impartito (a titolo
onorario) dal chiarissimo prof. dott. Luigi Donati» 101.
Per ovviare «a tale condizione di cose» — che appariva tra l’altro «tanto più da
lamentare in quanto che l’art. 2 della nuova Convenzione Universitaria» faceva
obbligo espresso al Governo di conservare la «R. Scuola d’applicazione per gli
ingegneri in Bologna in quel grado e con quelle prerogative» che avevano «gli altri
consimili principali istituti del Regno» 102 —, il Benetti proponeva quindi
l’attivazione della sezione con un ordine degli studi che teneva conto della
situazione specifica di Bologna e si presentava a suo giudizio come una sorta di
accettabile mediazione tra quelle esigenze contrastanti cui si è accennato.
In questo quadro il nuovo ordine degli studi, «da aggiungersi» all’ordine degli studi
esistente (quello per ingegneri civili ed architetti) «a fine d’introdurvi la Sezione
industriale», prevedeva — nel programma benettiano — due insegnamenti triennali,
da coprirsi con ordinari: Costruzione delle macchine e Tecnologie meccaniche ed
impianti relativi; due insegnamenti biennali: Elettrotecnica e misurazioni elettriche
(da coprirsi con un ordinario) e Costruzioni ed impianti elettrici (da coprirsi con uno
straordinario); quattro insegnamenti annuali: Metallurgia ed arte mineraria (da
coprirsi con un incaricato), Tecnologie chimico-fisiche ed elettrochimiche (da
coprirsi con un ordinario), Esercizio delle ferrovie - Economia e giurisprudenza
ferroviaria (da coprirsi con un incaricato), Economia e giurisprudenza industriale
(da coprirsi con un incaricato) 103.
Il senso del progetto è particolarmente evidenziato dal raffronto dell’istituendo
ramo industriale con l’ordine degli studi del ramo civile. Al momento in cui il
Benetti proponeva la sezione industriale, risultavano attivati nel ramo civile 104 gli
insegnamenti di Geodesia teoretica (tenuta da Federigo Guarducci, ordinario),
Ibidem.
Ivi, pp. 340-341.
102 Ivi, p. 341; vedi anche Ivi, p. 49.
103 Ivi, Allegato XLV, «Preventivo per le cattedre fondamentali da aggiungersi a quelle della Scuola a fine d'introdurvi
la sezione industriale», pp. 342-343.
104 Ivi, Allegato VIII g, p. 113.
100
101
116
Meccanica razionale (Giuseppe Picciati, straordinario), Chimica docimastica
(Alfredo Cavazzi, ordinario), Costruzioni civili e rurali - Fondazioni I (Attilio
Muggia, straordinario), Geologia applicata (Vittorio Simonelli, incaricato),
Applicazioni di geometria descrittiva (Giulio Stabilini, secondo insegnamento
tenuto per incarico), Statica grafica (Domenico Gorrieri, straordinario), Costruzioni
civili e rurali - Fondazioni II (Attilio Muggia, straordinario), Economia ed Estimo
rurale (Giuseppe Berti, straordinario), Fisica tecnica (Luigi Donati, ordinario),
Geometria pratica e Celerimensura (Francesco Cavani, ordinario), Meccanica
applicata alle costruzioni (Silvio Canevazzi, secondo insegnamento tenuto per
incarico), Meccanica applicata alle macchine (Francesco Masi, ordinario),
Architettura tecnica (Antonio Zannoni, ordinario), Costruzioni stradali e ferroviarie
(Giulio Stabilini, ordinario), Ferrovie (Jacopo Benetti, secondo insegnamento
tenuto per incarico), Idraulica (Giacomo Torricelli, straordinario), Macchine
termiche, idrauliche ed agrarie (Jacopo Benetti, ordinario), Materie giuridiche
(Francesco Cavani, secondo insegnamento tenuto per incarico), Ponti e costruzioni
idrauliche (Silvio Canevazzi, ordinario), Elettrotecnica (Luigi Donati, secondo
insegnamento tenuto per incarico), Igiene applicata (Guido Ruata, secondo
insegnamento tenuto per incarico) 105.
È significativo che l’ordine degli studi del ramo civile fosse ancora — come rilevava
lo stesso Benetti — abbastanza simile a quello previsto al momento dell’istituzione
della scuola «completa» (anno scolastico 1877-78). In quell’anno risultavano infatti
attivati gli insegnamenti di Geodesia teorica (insegnamento tenuto da Matteo
Fiorini, ordinario), Meccanica razionale (Ferdinando Ruffini, ordinario), Chimica
docimastica (Domenico Santagata, incaricato), Stili architettonici (Raffaele
Faccioli, incaricato 106), Geologia applicata (Giovanni Capellini, secondo
insegnamento tenuto per incarico), Applicazioni di geometria descrittiva (Pietro
Boschi, incaricato), Statica grafica (Antonio Fais, incaricato), Mineralogia applicata
(Luigi Bombicci, incaricato), Celerimensura (Francesco Cavani, supplente 107),
Economia ed Estimo rurale (Francesco Botter, ordinario), Fisica tecnica (Luigi
Donati, straordinario), Geometria pratica (Pietro Riccardi, ordinario), Meccanica
applicata alle costruzioni (Silvio Canevazzi, incaricato), Meccanica applicata alle
macchine (Antonio Silvani, supplente), Materie giuridiche (Oreste Regnoli,
incaricato), Architettura tecnica (Fortunato Lodi, incaricato), Strade ordinarie
(Giulio Stabilini, supplente), Strade ferrate (Jacopo Benetti, secondo insegnamento
tenuto per supplenza), Idraulica (Cesare Razzaboni, ordinario), Macchine termiche,
idrauliche ed agricole (Jacopo Benetti, ordinario), Materiali da costruzioni ed
elementi delle fabbriche (Luigi Venturi, straordinario), Ponti e costruzioni
idrauliche (Silvio Canevazzi, secondo insegnamento tenuto per supplenza).
Peraltro, per ciò che riguardava il nodo scuola-professione, o preparazione teoricamercato del lavoro (o, come amava dire Giuseppe Colombo, cultura dell’ingegnere«Su proposta del Consiglio dei Professori della scuola l'incarico dell'insegnamento di Igiene applicata è
stato affidato al prof. G. Ruata, docente presso la R. Università di Bologna e sostituto del chiar.mo prof.
Giuseppe Sanarelli», Ivi, cit., Allegato VIII g, nota.
106 Insegnamento attivato dal 1878/79 al 1890/91, Ivi, cit., Allegato VIII a, p. 112. Nell' Allegato VIII a è
riportato anche il quadro completo degli altri insegnamenti attivati dal 1877/78.
107 Insegnamento attivato dal 1879/80, unificato con Geometria pratica dal 1888/89, Ivi, cit., Allegato VIII
a e c.
105
117
mestiere dell’ingegnere) 108, quella continuità che caratterizzava in Italia — più di
ogni altro istituto per la formazione degli ingegneri — proprio la Scuola bolognese,
si presentava per Benetti con un segno ambivalente, negativo e ad un tempo
positivo.
Per comprendere tale atteggiamento, è necessario richiamare alcuni elementi delle
vicende della Scuola d’applicazione di Bologna, nonché della biografia dello stesso
Benetti almeno sommariamente — più in dettaglio se ne è già trattato in altre sedi
109 .
Succeduto al primo direttore della Scuola, Cesare Razzaboni — idraulico di grande
fama, «scienziato, insegnante, cittadino venerato in tutta Italia» 110 — Benetti tenne
la carica di direttore dal 1893 al 1910. Uomo di vari e vasti interessi tecnici e
scientifici, e di esperienze, contatti e collegamenti che andavano ben oltre i confini
nazionali, si era sempre mostrato nel corso della sua vita particolarmente sensibile
alla questione del contraddittorio adeguamento dell’Italia agli standard dei Paesi
europei più avanzati. Benetti era venuto individuando — analogamente ad altri
tecnici protagonisti delle vicende anche politiche dell’Italia liberale, tra i più famosi
il già ricordato Colombo — era venuto individuando, si diceva, nello sviluppo degli
studi di ingegneria uno dei capitoli più interessanti del faticoso avvio del processo
di modernizzazione italiano negli anni immediatamente successivi all’Unità. La
riforma delle Scuole di ingegneria aveva trovato, seguendo le indicazioni della
Legge Casati del 1859, pratica attuazione nell’attivazione di una Scuola
d’applicazione per ingegneri a Torino e di un Istituto tecnico superiore a Milano
(ben presto noto come Politecnico); a queste due «scuole politecniche» 111 — ma
potremmo anche dire tre, tenuto conto che nella formazione degli ingegneri era
attivo a Torino anche il Museo industriale 112 — se ne erano poi aggiunte altre,
situate a Padova, Bologna, Roma, Napoli e Palermo, peraltro non senza dibattiti
caratterizzati da contrasti e polemiche (anche sui casi di Genova — Istituto navale
superiore — e di Pisa — Scuola d’appli-cazione — che qui non è possibile trattare)
113 .
Gli elementi profondamente innovativi contenuti nei programmi di riforma degli
studi di ingegneria, dovettero misurarsi, già a partire dalla Legge Casati — come
Si veda G. COLOMBO, Industria e politica nella storia d'Italia. Scritti scelti: 1861-1916, Milano-Roma-Bari,
Cariplo-Laterza, 1985; e C. G. LACAITA, Giuseppe Colombo e le origini dell'Italia industriale, Ivi, pp. 5-86.
109 G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit.; ID., La Scuola per gli ingegneri
dell'Università di Bologna, cit.
110 J. B ENETTI (a cura di), Commentari, cit., Allegato VIII d, nota, p. 112; cfr. anche Allegato XV e XVI, pp.
153 ss.
111 Così il Lacaita definisce — con un unico termine — i diversi istituti per la formazione degli ingegneri
(erano prevalentemente scuole d'applicazione) attivati in Italia dall'Unità al primo Novecento. C. G.
LACAITA, Ingegneri e scuole politecniche nell'Italia liberale, in S. SOLDANI , G. TURI (a cura di), Fare gli italiani.
Scuola e cultura nell'Italia contemporanea, I, La nascita dello Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 213253.
112 Sul Museo Industriale di Torino, cfr. C. G. LACAITA, Istruzione e sviluppo industriale, cit., pp. 122, 125,
131, 140; A. FERRARESI, Nuove industrie, nuove discipline, nuovi laboratori: la Scuola superiore di elettrotecnica di
Torino (1886-1914), in E. DECLE-VA, C. G. LACAITA, A. VENTURA (a cura di), Innovazione e
modernizzazione in Italia, cit., pp. 381, 385 ss.
113 Cfr. M. MORETTI , La riorganizzazione degli studi di ingegneria nell'Italia liberale. Documenti sulla preparazione
del Regolamento del 1875, in AA. VV., Ricerche di storia moderna IV. In onore di Mario Mirri, Pisa, Pacini, 1995,
pp. 404-411 (Ap-pendice). Vedi anche R. MAIOCCHI, Il ruolo delle scienze nello sviluppo industriale italiano, in
Storia d'ltalia. Annali 3. Scienza e tecnica, Torino, Einaudi, 1980.
108
118
Benetti rilevò più volte —, con le tradizioni relative alla formazione teorica e
pratica degli ingegneri (e degli architetti), tradizioni che rimandavano a
differenziazioni consolidatesi nelle varie sedi prima dell’Unità, e che per vari aspetti
continuavano a permanere anche dopo.
Le vicende relative alla nascita e allo sviluppo della scuola d’appli-cazione di
Bologna confermavano al Benetti, come la storia delle varie scuole si fosse svolta
comunque in un quadro caratterizzato da uno stretto intreccio tra fattori
riconducibili allo “specifico” delle varie sedi e fattori riportabili al contesto
nazionale114. La scuola bolognese nacque tra il 1875 e il 1877, superando diverse
difficoltà locali, d’ordine finanziario e non solo finanziario, ma anche un’iniziale
opposizione di importanti e qualificati esponenti del mondo tecnico-scientifico
italiano, quali Prospero Richelmy, Luigi Cremona e Fortunato Padula,
rispettivamente direttori della Scuola d’applicazione di Torino (che fu la prima ad
essere attivata, nell’ambito della già più volte ricordata Legge Casati), di quella di
Roma e di quella di Napoli115.
Non mancavano peraltro anche tenaci assertori dell’utilità d’una rinnovata scuola
per ingegneri all’ombra delle due torri: tra questi va ricordato in particolare Quirico
Filopanti116, nativo della vicina Budrio, formatosi come ingegnere a Bologna e
docente nell’Università, uomo di vastissima cultura e di lunga militanza politica (era
stato uno dei protagonisti della Repubblica romana), non certo alieno da
atteggiamenti utopici — e talvolta campanilistici 117 quando affrontava questioni
felsinee (o emiliane o romagnole) —, ma capace comunque anche di valutazioni
non irrealistiche e di proposte credibili nel contesto della situazione italiana
postunitaria.
L’evoluzione della scuola — sotto la ferma direzione, quasi militare, di Cesare
Razzaboni prima, e quella non meno severa dello stesso Benetti poi 118 —
testimoniava come fosse stata condizionante per Bologna la collocazione (in senso
storico, si potrebbe dire, prima ancora che in senso geografico) in un’area esterna al
triangolo industriale propriamente detto119. Appariva così particolarmente
significativo al Benetti il fatto che la Scuola — nella sua vita istituzionale condotta
nel segno della massima continuità possibile — fosse rimasta, in un arco di tempo
più che trentennale, (dalla seconda metà degli anni Settanta dell’Ottocento al primo
decennio del Novecento) fondamentalmente incentrata attorno agli studi di
ingegneria civile ed architettura. Tuttavia quella collocazione “esterna” di cui si è
G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit.; ID, La Scuola per gli ingegneri
dell'Università di Bologna, cit.; ID., Scuole per la formazione degli ingegneri e modernizzazione in Italia tra Otto e
Novecento, in M. SALVATI (a cura di), Per una storia comparata del municipalismo e delle scienze sociali, «Quaderni
di Discipline Storiche», n° 4, 1993 (Bologna, Clueb).
115 Cfr. M. MORETTI , La riorganizzazione degli studi di ingegneria nell'Italia liberale, cit.
116 Cfr. L. LAMA, Comune, Provincia, Università. Le Convenzioni a Bologna fra Enti Locali e Ateneo (1877-1970),
Bologna 1987, pp. 14-15.
117 Nei suoi vagheggiati Stati uniti del Mondo, se a Gerusalemme spettava la funzione di capitale religiosa
e a Roma quella di capitale politica, era però a Bologna che toccava il ruolo di capitale culturale (Q.
FILOPANTI , Miranda! A book on wonders hitherto unheeded, London, James Morgan, 1858-1860, § 1324). Tra
i contributi su Filopanti, si vedano in particolare, A. PRETI ET AL., Quirico Filopanti. Studi e ricerche,
Budrio, Comune di Budrio, 1980; F. SERVETTI DONATI, Ricordando Filopanti 1894-1994, Budrio,
Comune di Budrio-Assessorato alla promozione culturale, 1994; A. PRETI (a cura di), Un democratico del
Risorgimento: Quirico Filopanti, Bologna, Il Mulino, 1997.
118 J. BENETTI (a cura di), Commentari, cit., pp. 8-58.
119 G. C. CALCAGNO, Un istituto per la formazione degli ingegneri, cit., p. 294.
114
119
appena detto, non aveva certo impedito che Bologna fosse pur essa investita da una
varietà di mutamenti connessi con il processo di industrializzazione; né al Benetti
sfuggiva il fatto che nel nuovo secolo da pochi anni iniziato il fenomeno si sarebbe
verosimilmente consolidato e radicalizzato.
Da tutto ciò scaturiva un giudizio ambivalente, come si è già accennato, sulla
Scuola e sulle sue caratteristiche più specifiche. Lo sviluppo della Scuola bolognese,
che appariva al Benetti — rispetto allo sviluppo degli altri istituti italiani per la
formazione degli ingegneri — maggiormente vincolato al modello originario di tutte
le scuole d’applicazione, aveva finito per accentuare lo scarto tra la preparazione
teorica e l’attivi-tà pratica dell’ingegnere, soprattutto nell’ambito industriale (ma
non esclusivamente in questo), a causa delle trasformazioni tecnologiche in vari
settori, da quello elettrico a quello chimico. In questo senso il Benetti — anche alla
luce delle normative per i concorsi pubblici — non poteva che condividere i rilievi
negativi che sempre più frequentemente venivano fatti all’insegnamento impartito
dalla Scuola. Le critiche venivano in particolare da ingegneri ex-allievi, che si erano
trovati spesso obbligati a frequentare — dopo il diploma — corsi integrativi presso
altre scuole italiane o straniere al fine di acquisire competenze, che colmassero le
loro lacune, e specializzazioni da “spendere” sul mercato del lavoro. Inoltre il
Benetti tendeva a collegare alle carenze della Scuola che venivano denunciate da
più parti anche il fatto che il numero di iscritti ai corsi era rimasto in un trentennio
complessivamente modesto, soprattutto se raffrontato con il numero di iscritti alla
Scuola d’applicazione di Torino (politecnico dal 1906) e al politecnico di Milano.
Tutto ciò serviva a Jacopo Benetti per ribadire la necessità ormai inderogabile di
attivazione del ramo industriale anche nella sede bolognese 120.
Peraltro, tale trasformazione della Scuola doveva avere per il Direttore il significato
di un arricchimento della tradizione dell’istituto bolognese, e non di una rottura di
quella tradizione, o comunque di un’inversione di tendenza. Infatti il Benetti dava
un giudizio decisamente positivo della qualità didattica proposta dalla Scuola. E ciò
valeva in assoluto; non solo quindi per il passato e per il presente (la formazione di
ingegneri civili e di architetti), ma anche per il futuro: la specializzazione in senso
industriale, o ulteriori specializzazioni, sarebbero state caratterizzate da quella
stessa qualità didattica affermatasi nel trentennio di vita della Scuola. Lo sviluppo
limitato della Scuola (solo diplomi in ingegneria civile ed architettura, numero di
allievi non elevato) non aveva quindi inciso sulla bontà degli studi, che sin dalle
origini si erano mantenuti su validi livelli, nel complesso analoghi, sottolineava il
Benetti, a quelli delle altre scuole di ingegneria italiane e straniere 121.
L’ambivalenza del giudizio sulla Scuola formulato dal Benetti, che sapeva ben
valutare i lati positivi non meno di quelli negativi, non è quindi un segno di
contraddizione, ma al contrario mostra come Benetti avesse degli studi di
ingegneria una visione matura e realistica. In questo senso è persino secondario che
poi l’attivazione della sezione non si sia realizzata nei modi e nei tempi immaginati
dal Benetti. Letta nella totalità del contesto dei Commentari, la proposta relativa alla
sezione industriale, conteneva un messaggio forte che scavalcava lo stesso progetto
di istituzione di una specializzazione adeguata alle richieste di nuove
professionalità.
120
121
J. BENETTI (a cura di), Commentari, cit.
Ivi.
120
Arricchire gli studi di ingegneria con nuovi rami, mantenendo nel contempo intatti i
caratteri (di serietà e di severità) della Scuola, significava per Benetti, non un mero
appiattimento sulle esigenze del mercato del lavoro, bensì un ulteriore contributo
alla dignità scientifica di quegli studi. Il disegno di fondo del Direttore era infatti
quello di far comprendere che le conoscenze tecniche degli ingegneri, avendo da
tempo smesso di rinviare a saperi empirici, erano scienze — a tutti gli effetti — in
versione applicativa. Le discipline degli ingegneri andavano così considerate,
nell’ambito universitario, sempre più come «sorelle» delle scienze pure, e sempre
meno come «ancelle» 122. La richiesta “professionale” di una sezione industriale si
collocava quindi per Benetti in un discorso più ampio. Chiedere l’allineamento della
Scuola bolognese con le altre scuole politecniche italiane implicava allora, almeno
in prospettiva, una richiesta — per tutti gli istituti di formazione degli ingegneri —
di parità “accademica” con le Facoltà universitarie, e di equipollenza completa del
diploma di ingegnere con le lauree da esse conferite 123.
Ivi.
Gli obiettivi di Jacopo Benetti, sia quelli a breve termine (la sezione industriale), sia quelli a medio o
lungo termine (la modifica dello status dell'ingegnere) — si sarebbero realizzati solo alcuni lustri dopo la
sua morte, negli anni compresi tra le due guerre. Sulle trasformazioni della figura dell'ingegnere negli anni
successivi alla prima guerra mondiale, cfr. G. TURI (a cura di), Libere professioni e fascismo, Milano, Angeli,
1994.
122
123
121
Una scuola di applicazione
per ingegneri agronomi?
Francesco Botter e la riorganizzazione degli studi di ingegneria
a Bologna (1868-1875)
Silvio Fronzoni
Settore Beni Culturali, Amministrazione Provinciale di Bologna
In molti paesi europei e americani, come segnalano da tempo i rapporti presentati a
congressi e seminari internazionali, gli istituti di istruzione agraria superiore
conferiscono ai propri laureati un titolo accademico — ingénieur agronome, diplom–
agraringenieur, ingeniero agrònomo, engenheiro agrònomo, agricultural engineer, a seconda dei
casi — che suona piuttosto diverso da quello dei laureati delle Facoltà di agraria
italiane — dottore in scienze agrarie o dottore agronomo — e che suggerisce,
all’impronta, l’idea di un profilo professionale differente e più vicino a quello di un
ingegnere 124.
In realtà, come i risultati di recenti ricognizioni mostrano chiaramente, la
formazione richiesta a “ingegneri agronomi” e “ingegneri agrari”, nei paesi nei quali
questi titoli hanno corso ufficiale, non si discosta radicalmente, nella maggior parte
dei casi, da quella dei dottori agronomi italiani e non appare caratterizzata, in
generale, da una intersezione con gli studi di ingegneria più profonda di quella che
si realizza da tempo anche nelle nostre facoltà di agraria 125. La qualifica di
“ingegnere” — il comune denominatore di questi titoli — si direbbe quindi
significativa, in prima istanza, soltanto di un più marcato indirizzo tecnicoprofessionale dell’insegnamento impartito, e il riflesso di ordinamenti universitari
che, a differenza di quello italiano, riservano sempre il titolo dottorale alla
conclusione di un corso di studi successivo alla laurea 126.
In alcuni casi, però, i titoli conferiti rivestono certamente un significato più
specifico. In vari paesi, infatti, alcune facoltà di agraria, ma anche di ingegneria,
vedono attivati corsi di laurea in ingegneria agraria, mentre in altri si registra la
124
Tra le relazioni, presentate a conferenze e convegni internazionali, che segnalano la diversità dei
titoli conferiti dagli istituti di istruzione agraria superiore, si vedano: G. DALLARI , Protection et
réglementation des titres et des professions agronomiques dans les divers pays du monde, Roma 1935; F. ANGELINI ,
Equivalence et reconnaissance des titres academiques agricoles et protection et réglementation des titres professionnels, in
CONFEDERATION I NTERNATIONALE DES I NGENIEURS ET TECHNICIENS DE L’AGRI-CULTURE, V°
Congresso internazionale dell’insegnamento agrario, Roma 1957, pp. 25-33; T. DORÉ, Towards
integration: problems to be solved, in Integration of agricultural science education in E. C. countries, Bologna,
Avenue media, 1994, pp. 13-30.
125 Il confronto, istituito recentemente da L. Cavazza, Higher education in the agricultural sciences in
Italy and paremeter analysis for comparison to other systems, in Integration of agricultural science education ... cit. pp.
31-71, tra il sistema di istruzione agraria superiore italiano e quelli francese e olandese, mostra come i tre
sistemi constino, sia pure in proporzioni diverse e con qualche significativo “vuoto” in quello italiano,
delle stesse componenti principali: le “discipline a fondamento biologico e chimico”, le “discipline a
fondamento economico” e le “discipline a fondamento matematico” nelle quali Arrigo Serpieri — cfr. A.
Serpieri, La politica agraria in Italia e i recenti provvedimenti legislativi, Piacenza 1925, p. 145 — individuava,
non a caso in quest’ordine, gli elementi costitutivi degli studi superiori di agraria italiani.
126 È questa la tesi sostenuta da R. GIULIANI , L’insegnamento agrario superiore in Italia, in V° Congresso
internazionale..., cit., pp. 243-50
122
presenza di vere e proprie facoltà con questo nome. In questi casi, che – importa
rimarcarlo — non trovano alcun riscontro nel nostro paese, la distanza che separa la
formazione degli “ingegneri agronomi” e degli “ingegneri agrari” francesi, tedeschi,
spagnoli, ecc., da quella dei dottori agronomi italiani, appare reale e trova conferma
in una incidenza nettamente diversa, all’interno del carico didattico, sia degli
insegnamenti di base di matematica e fisica, sia di quelli di altre discipline a
fondamento matematico 127. Non mancano le ragioni, quindi, per chiedersi perché
un corso di studi di questo tipo non trovi posto anche in Italia e quando abbia preso
forma, invece, nei sistemi di istruzione tecnica degli altri paesi. Tenendo presente,
in particolare, che risalgono al 1862 e a Carlo Cattaneo le prime proposte italiane
orientate precisamente in questa direzione 128.
Rispondere a queste domande va certamente al di là di un contributo dedicato
all’analisi e all’identificazione del protagonista di un episodio specifico: il progetto
di istituzione di una scuola di applicazione per ingegneri agronomi che, tra il 1868 e
il 1875, fu al centro del lungo negoziato condotto intorno alle sorti degli studi di
ingegneria a Bologna. Mi è sembrato opportuno formularle per segnalare il
significato che sembrano rivestire — se considerati nel loro insieme e in un
contesto più ampio di quello nazionale — i ripetuti tentativi di dare forma a un
corso di studi di ingegneria agraria che accompagnarono, almeno fino al 1940, lo
sviluppo delle istituzioni dell’insegnamento agrario superiore e, in alcuni momenti,
quello delle scuole di ingegneria italiane. Il significato, si direbbe, di una alternativa
o di una possibile integrazione, al progetto formativo sotteso all’istituzione delle
prime scuole superiori di agricoltura e alla lunga e difficile biforcazione dei destini
professionali di agronomi e ingegneri alla quale quest’ultima aprì la strada 129.
Nessuno di questi tentativi ebbe successo e viene da chiedersi per quali ragioni, ma
anche con quali conseguenze per lo sviluppo delle professioni agronomiche nel
nostro paese. Sono numerosi infatti, nelle discussioni intorno ai problemi e alle
prospettive dell’insegnamento agrario superiore svoltesi tra Ottocento e
Novecento, i riferimenti alle difficoltà di accesso alla libera professione da parte dei
laureati in agraria e, in particolare, al rapporto tra queste difficoltà e l’indirizzo
prevalentemente biologico ed economico della formazione da essi ricevuta 130. Così
come non mancano nelle stesse discussioni accenni al diverso grado di sviluppo
dell’attività libero-professionale dei tecnici agricoli nei differenti paesi, in relazione
anche al più o meno pronunciato “orientamento ingegneristico” della loro
127 Cfr. I NTERNATIONAL COMMISSION OF AGRICULTURAL E NGINEERING, The university structure
and curricula on agricultural engineering. An overview of 25 countries, a cura di G. Pellizzi e P. Febo, 1994.
128 C. CATTANEO, Sul riordinamento degli studi scientifici in Italia. Lettera al sen. Matteucci, in «Il
Politecnico. Repertorio mensile di studi applicati alla prosperità e coltura sociale», XII (1862), pp. 61-75.
129 Per la biforcazione, certamente più rapida e netta, tra le professioni di veterinario e agronomo, cfr.
C. FUMIAN, Scienza e agricoltura. Aspetti comparati dell’istruzione superiore agraria in Europa (1840-1875), in
Innovazione e modernizzazione in Italia fra Otto e Novecento, a cura di E. DECLEVA, C. G. LACAITA E A.
VENTURA, Milano, Angeli, 1995, pp. 49-50.
130 A questo proposito si vedano, ad esempio: la Relazione sul riordinamento degli studi della R. Scuola
superiore di agricoltura in Portici, in «Annali di agricoltura» n. 203, Roma 1894, pp. 581-89; e gli interventi di
vari partecipanti al Convegno intorno a “La Carta della scuola e l’istruzione agraria (Firenze 3-4 luglio
1939)”, in «I Georgofili. Atti della R. Accademia dei Georgofili», V (1939), pp. 391-422.
123
preparazione e al più o meno solido ancoraggio di quest’ultima a una “iniziale
preparazione matematica” 131.
Per verificare questa ipotesi — che articola ulteriormente il quadro di quelle
formulate per spiegare il difficile trend professionale degli agronomi italiani —
sarebbe necessario, come ha sottolineato qualche anno fa Carlo Fumian,
confrontare questo trend con quello degli “ingegneri agronomi” di altri paesi europei
132 . Ma sin d’ora si può osservare come il successo dei progetti di impianto di uno
specifico corso di studi universitari di ingegneria agraria avrebbe quanto meno
sgombrato il campo da una parte degli equivoci e delle periodiche controversie ai
quali le espressioni “ingegnere agronomo” e “ingegnere agrario” diedero adito a
partire dai primi decenni unitari: richiamando immediatamente l’interesse dei
diplomati delle sezioni di agronomia e agrimensura degli Istituti Tecnici e, più tardi,
almeno in alcuni momenti, quello di un numero più o meno largo di ingegneri civili;
e suscitando le reazioni ora degli uni, ora degli altri, e le preoccupazioni di agronomi
e periti agrari 133.
Ma, venendo al nocciolo della questione, se gli studi di sociologia delle professioni
fanno riferimento anche al ruolo e alle rivendicazioni di agrimensori e geometri,
quelli di storia dell’agricoltura e dell’istruzione tecnica non sembrano avere dubbi a
proposito degli ingegneri agronomi e fermano l’attenzione, innanzitutto, sulle
centinaia di ingegneri civili impegnati prevalentemente nel settore agricolo,
segnalati in Lombardia, ma anche in altre aree della Valle Padana, lungo tutto
l’Ottocento. Individuando qui le radici del problema dell’ingegneria agraria
nell’Italia unita; ma mettendo l’accento, in alcuni casi, sull’efficacia e le potenzialità
Cfr. M. BANDINI , L’insegnamento agricolo superiore, in V° Congresso internazionale..., cit., p. 10; F.
ANGELINI , Equivalence et reconnaissance des titres academiques agricoles..., cit., p. 43; R. GIULIANI ,
L’insegnamento agrario superiore..., cit., p. 244.
132 C. FUMIAN, Gli agronomi da ceto a mestiere, in Storia dell’ agricoltura italiana in età contemporanea, v. III,
Mercati e istituzioni, a cura di P. BEVILACQUA, Venezia, Marsilio, 1991, p. 388.
133 I primi a rivendicare apertamente il titolo professionale di ingegneri-agronomi furono i
diplomati delle sezioni di agronomia e agrimensura degli Istituti tecnici e, in particolare, quelli delle
regioni centro-meridionali del paese. Come ha ricordato vari anni fa E. LUCIANI , Storia degli agrimensori e
geometri dalle origini al 1900, Roma, T.E.R., 1966, pp. 193-201 e, più di recente, F. BUGARINI , Ingegneri,
architetti, geometri: la lunga marcia delle professioni tecniche, in Le libere professioni in Italia, a cura di W. TOUSIJN,
Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 305-335, risale al gennaio-febbraio del 1877 il I Congresso nazionale
tecnico-agronomico che riunì a Roma i rappresentanti delle associazioni di periti agrimensori, geometri o
ingegneri-agronomi costitute nei mesi precedenti in molte province, e che si concluse, tra l’altro, con
l’approvazione di una mozione che proponeva la trasformazione degli organismi esistenti in Collegi, ne
chiedeva il riconoscimento legale al Governo e optava per la denominazione di Collegi degli ingegneriagronomi. La «Rivista nazionale di ingegneria agraria», la cui fondazione era stata pure proposta e
approvata in occasione del Congresso, vide la luce nel 1889 sotto il titolo di «Atti del Collegio degli
ingegneri-agronomi di Roma e provincia» e, dopo avere vestito, tra il 1890 e il 1891, i panni di organo
dell’ Associazione nazionale degli ingegneri-agronomi in Italia e del Collegio centrale di Roma, continuò
a essere pubblicata sino al 1902 come «Bollettino del Collegio degli ingegneri-agro-nomi di Roma e
provincia». Nel frattempo, un secondo congresso nazionale, svoltosi a Torino nel 1898, aveva ripreso in
esame la questione del titolo e, allo scopo di non urtare “la suscettibilità dei laureati delle scuole superiori
di agricoltura di Milano e di Portici”, aveva approvato, contro il parere dei partecipanti piemontesi e
lombardi, preoccupati delle reazioni degli ingegneri, aveva approvato la proposta di sostituire il titolo di
ingegnere rurale a quello di ingegnere agronomo. Cfr. Atti del II congresso nazionale dei geometri italiani,
Torino, Derossi, 1899.
131
124
di questa specializzazione pratica; in altri, sui suoi limiti e la sua continuità con il
passato 134.
E così, mentre alcuni studi sembrano dare qualche credito alla proposta di Carlo
Cattaneo di innestare “un forte insegnamento di scienze agrarie” sul tronco degli
studi di ingegneria, per “compiere e perfezionare” la formazione di questa “classe di
ingegneri” 135, altri identificano la figura dell’ingegnere agronomo con quella
dell’ingegnere proprietario e vedono in essa il riflesso, non solo di una società e di
un’economia ancora dominate dai valori fondiari, ma anche di una ampia
“coincidenza tra possesso terriero e professione”, considerandola, in prospettiva,
come un ostacolo allo sviluppo delle specializzazioni dell’ingegneria contemporanea
e alla “emancipazione della professione dalle sue origini rurali”136.
Quale riscontro trovano queste interpretazioni nelle condizioni dell’agricoltura e
negli sviluppi dell’istruzione tecnica delle province orientali dell’Emilia? Anche qui
alcuni studi e varie fonti segnalano la presenza, dalla metà dell’Ottocento ai primi
decenni del Novecento, di un gruppo di ingegneri impegnati soprattutto nel settore
agricolo 137. Ma, al di là delle sue dimensioni, sempre inferiori a quelle raggiunte
intorno alla metà del secolo dal “corpo” degli ingegneri pavesi e milanesi, quel che
importa sottolineare, a proposito di questo gruppo di tecnici, è come la
specializzazione dei suoi componenti sembri in parte diversa da quella degli
ingegneri agronomi lombardi 138.
Malgrado la crescente importanza assunta nella pianura bolognese, tra Settecento e
Ottocento, dalla pratica delle irrigazioni e dal grande affitto — l’istituto che aveva
“reso possibile”, secondo Luigi Einaudi, “il fiorire della professione di (...)
ingegnere agronomo” in varie province lombarde 139 — questi elementi, se trovano
posto anche all’interno del sistema agrario dell’area sud-orientale della Valle
Padana, non giungono certamente a sostituirne i cardini. E, così, mentre la “misura
e la distribuzione delle acque per l’irrigazione giusta” e la regolazione dei rapporti
tra proprietari e affittuari, continuano a rappresentare il baricentro della
134 Alla “questione decisiva della professionalità degli ingegneri” agronomi, alla loro
“specializzazione pratica”, ma anche alla loro “netta specificità professionale”, ha dedicato pagine
interessanti G. FUMI, Gli sviluppi dell’agronomia nell’Italia settentrionale durante la prima metà dell’Ottocento, in
Le conoscenze agrarie e la loro diffusione in Italia nell’Ottocento, a cura di S. ZANINELLI, Torino, Giappichelli,
1990, pp. 221-26.
135 C. CATTANEO, Sul riordinamento degli studi scientifici in Italia..., cit., p. 62.
136 È questa, in estrema sintesi, la tesi sostenuta in più sedi da Maria Malatesta. Cfr. M. MALATESTA,
I signori della terra. L’organizzazione degli interessi agrari padani (1860-1914), Milano, Angeli, 1989, pp. 118123; E ADEM, Gli ingegneri milanesi e il loro Collegio professionale, in Milano fin de siècle e il caso Bagatti Valsecchi.
Memoria e progetto per la metropoli italiana, a cura di C. MOZZARELLI e R. PAVONI , Milano, Guerini, 1991,
pp.307-318; E ADEM, La Società agraria di Lombardia e le élites fondiarie milanesi, in Fra Studio, politica ed
economia: la Società agraria dalle origini all’età giolittiana, a cura di R. FINZI, Bologna, Istituto per la Storia di
Bologna, 1992, pp. 198-202.
137 Tra gli studi, cfr. C. PONI , Gli aratri e l’economia agraria nel bolognese dal XVII al XIX secolo,
Bologna, Zanichelli, 1963, pp. 177-79 e 257-63 e G. FUMI, Gli sviluppi dell’agronomia nell’Italia
settentrionale..., cit., pp. 224-25.
138 Dà un’idea del numero degli ingegneri attivi, tra il 1806 e il 1807, nei diversi Dipartimenti del
Regno d’Italia, un’interessante tabella costruita da G. BIGATTI , Il Corpo di acque e strade tra età napoleonica e
restaurazione (1806-1848). Reclutamento, selezione e carriere degli ingegneri, «Società e storia», n. 56, (1992),
pp.267-297.
139 Cfr. C. CATTANEO, Saggi di economia rurale, a cura di L. Einaudi, Torino, Einaudi, 19752, p.
XVIII.
125
specializzazione degli ingegneri lombardi 140, l’attività professionale dei loro colleghi
modenesi, bolognesi e ferraresi continua a confrontarsi in primo luogo con i
problemi della costruzione e della conservazione di un efficiente sistema di scolo
delle acque e della modernizzazione della mezzadria 141. Con un risultato per certi
aspetti paradossale: quello di consentire loro, stante la relativa novità e accessorietà
del contratto di affitto, di rendersi interpreti delle esigenze di sviluppo di questa
forma di conduzione con minori imbarazzi dei loro colleghi lombardi; e di apparire,
quindi, meno legati di questi ultimi alla tutela degli interessi della proprietà terriera
e più sensibili, invece, a quelli degli affittuari 142.
Testimonia certamente di questa propensione dei tecnici emiliani una memoria
dell’ingegnere bolognese Tommaso Biagi che, intervenendo nel 1854, in una seduta
della Società agraria di Bologna, sul tema Delle affittanze e del modo di renderle utili
all’economia campestre, tracciava un bilancio largamente positivo dell’esperienza quasi
secolare di questa forma di conduzione e prendeva chiaramente posizione a favore
di una sua ulteriore estensione 143. Su questo scritto, che evidenzia, anche, uno dei
caratteri differenziali del contratto di affitto diffuso della pianura bolognese tra
Ottocento e Novecento — la sua intersezione con quello di mezzadria — vale la
pena di fermare brevemente l’attenzione.
Negli ultimi decenni l’agricoltura bolognese aveva fatto, secondo Tommaso Biagi,
molti passi avanti; e là dove una volta trovavansi ampie possessioni (...) di
pochissimo profitto”, perché male lavorate e concimate, ora, “divise quelle
possessioni in due o più poderi, (...) ognuno sa — scriveva — di quanto abbiamo
aumentato le rendite. “Ma se si riguarda buona parte dei vasti tenimenti (...) che
appartengono a proprietari non di rado mal periti delle faccende agrarie e del modo
di condurle, e non sempre provvisti dei mezzi necessari”, ci si può rendere conto —
proseguiva — di quanto i progressi compiuti lascino ancora “a desiderare, sia in
rapporto al vantaggio del privato che del pubblico”.
Come risolvere questo problema? Avvalendosi “delle cognizioni e dell’opera di
agenti — i fattori di campagna — che, se non avversa[va]no le modificazioni”,
certamente non avevano “interesse (...) a contrastare e vincere le consuetudini dei
coloni che lavora[va]no materialmente i terreni”? L’ingegnere lo riteneva quanto
mai improbabile e, dopo avere sottoli-neato, con qualche cautela, i meriti di “non
pochi degli affittuari” che, “collo studio, coll’applicazione di migliorie e colla buona
conduzione” avevano contribuito ai progressi dell’agricoltura della provincia —
impiantando “vaste risaie”, alimentandole “con acque studiosamente derivate e
140 L’espressione è dell’ingegnere milanese Luigi Tatti ed è citata da M. MALATESTA, Gli ingegneri
milanesi e il loro Collegio professionale..., cit., p. 309.
141 Visite ai beni rurali affittati oppure affidati alle cure di un amministratore o di un fattore; progetti
di miglioramento fondiario; costruzione di case coloniche e stalle; riparti di spese consorziali; opere di
difesa idraulica e di viabilità interpoderale: queste alcune delle “tante attribuzioni” degli ingegneri civili e
idraulici bolognesi che Carlo Berti Pichat avrebbe voluto mettere in capo a “ingegneri puramente agrari”.
Cfr. C. BERTI PICHAT, Istituzioni scientifiche e tecniche di agricoltura, v. II, p. II, Torino, Unione TipograficoEditrice, 1858, pp. 397-402.
142 Cfr. M. Malatesta, I signori della terra..., cit., pp. 173-177.
143 Sullo sviluppo parallelo, nel territorio bolognese tra Settecento e Ottocento, di un nutrito
gruppo di affittuari rurali e di un solido nucleo di tecnici e professionisti cittadini, ha richiamato da
tempo l’attenzione Alfeo Giacomelli. Tra i suoi contributi più recenti si veda A. GIACOMELLI, Proprietari,
affittuari, agronomi a Bologna. Le origini settecentesche della Società agraria, in Fra Studio, politica ed economia...,
cit., pp. 43-116.
126
condotte” e realizzando “utili colmate e riduzione di terreni” — individuava
proprio nell’estensione del “sistema” dell’affitto all’area appoderata della pianura, la
chiave di volta di una nuova fase di sviluppo dell’a-gricoltura bolognese,
dichiarandosi testimone e rendendosi garante dei risultati dell’applicazione di
questo contratto in alcune aziende agrarie.
Qui — scriveva — “nell’esercizio della mia professione, non di rado vedo lavori e
cure che difficilmente si praticano nelle tenute non affittate, e i coloni, (...) più
solerti e attivi, (...) soggiacciono (...) più volentieri al carico di parte delle spese di
riduzione delle terre, alla maggior quota di concorrenza nella provvista dei concimi
grossi (...) e ad opere e lavori che in passato gravavano in buona parte il solo
possidente; e ciò (...) perché l’interesse degli affittuari ve li costrinse e il loro
esempio fu poscia imitato per li beni non affittati”. E, tuttavia – aggiungeva subito
– non sempre “i capitolati delle affittanze in corso sono così modellati” da garantire
questi risultati. La “gravezza dei patti” e della “corrisposta”, la loro mancanza di
gradualità e la breve durata del contratto – soltanto novennale – soffocavano sul
nascere, a volte, l’esperienza imprenditoriale dell’af-fittuario, impedendogli di
“migliorare la sua condizione” e di “aumentare — progressivamente — la
corrisposta di affitto a favore del locatore”. Per questo, concludeva, era necessario
giungere alla definizione di “patti convenienti e ben appropriati”, stabiliti “in
relazione ai bisogni dei singoli fondi” e tali da contemperare gli interessi di
proprietari e affittuari e promuovere “l’attività dei coloni lavoratori dei fondi (...)
tanto necessaria per ottenere la maggior copia di prodotti di cui questi sono
suscettibili”144.
Il ragionamento del perito bolognese, come si può vedere, disegna un quadro nel
quale trovano posto tutti i personaggi impegnati sulla scena dell’agricoltura della
provincia emiliana: i proprietari, gli affittuari, gli agenti di campagna, i mezzadri e,
indirettamente, gli ingegneri. Ma prende le mosse e si conclude, chiaramente,
facendo riferimento al ruolo decisivo dei mezzadri. E proprio nella capacità di
intensificare il loro sforzo produttivo individua il principale titolo di merito del
contratto di affitto e il più importante argomento a sostegno della proposta di
estendere ulteriormente questa forma di conduzione 145. Risultano evidenti, così, i
limiti del-l’opzione a favore dell’affitto espressa dagli ingegneri bolognesi e l’ambiguità del loro progressismo; e viene da chiedersi come interpretarli: se come un
riflesso del contesto nel quale essi si trovavano ad operare, oppure come un effetto,
anche in questa area, della loro estrazione sociale.
Che tutti gli ingegneri, bolognesi e ferraresi, impegnati nella libera professione,
provenissero — intorno alla metà del secolo scorso — da famiglie di possidenti, è
un dato senz’altro scontato. Per ottenere l’iscrizione nei ruoli professionali era
necessario, infatti, che essi producessero una “cauzione ipotecaria” del valore di
almeno 1000 scudi romani, a garanzia dei danni eventualmente arrecati nell’ambito
144 T. BIAGI , Delle affittanze e del modo di renderle utili all’economia campestre, «Memorie della Società
agraria della provincia di Bologna», VII (1854), pp. 340-351.
145 “L’affittamento dei beni a mezzadria, poco o (...) niente fu contemplato dagli scrittori di
economia rurale” osservava nel 1858 Carlo Berti Pichat, che dedicava un paragrafo del suo trattato alla
figura dell’“affittuario di mezzadria”, sottolineandone “l’esosa e severa dominazione” esercitata sui
contadini e mettendo in guardia i proprietari rispetto alla “maggiore avversione del lavoratore” che poteva
derivarne per lo-ro. Cfr. C. BERTI PICHAT, Istituzioni scientifiche..., cit., v. II, p. II, Torino, Unione
Tipografico-Editrice, 1858, pp. 354-55.
127
della loro attività; ed era necessario, più in particolare, che il nome del bene
ipotecato — il più delle volte un fondo agricolo — venisse registrato accanto al
loro nei ruoli provinciali 146.
Ingegneri proprietari, dunque? Sì e, tavolta, anche nobili. Ma a giudicare dalle
informazioni disponibili e dal patrimonio di alcuni di essi, soprattutto di piccole e
medie proprietà 147. Mentre certamente più numerosi dei casi di esponenti di
famiglie della grande proprietà terriera avviati agli studi di ingegneria, sembrano
quelli che, pur coinvolgendo a volte semplici laureati, rinviano a combinazioni
piuttosto diverse, come quelle di ingegnere affittuario, oppure di ingegnere direttore
agronomico 148. E, se da una considerazione sincronica della figura degli ingegneri
agronomi bolognesi e ferraresi, fosse possibile passare a una diacronica, si
ricaverebbe l’impressione, penso, di un sensibile aumento di questi casi proprio nei
decenni centrali del secolo.
Un indizio di questa tendenza, e delle forme in cui si manifestò, può essere
rinvenuto, mi pare, nella sequenza delle vicende della Scuola speciale di idraulica
dell’Università di Ferrara e della Scuola teorico-pratica territoriale di agraria della
stessa città; e, più in particolare, negli esiti di alcuni dei percorsi formativi iniziati
nell’una e proseguiti nell’altra. Fondata nel 1804 con il nome di Scuola di
idrostatica e riattivata, dopo lunghe insistenze, nel 1840, anche allo scopo di offrire
ai giovani laureati delle Legazioni la possibilità di seguire, senza trasferirsi a Roma,
un corso di studi in grado di dare accesso al Corpo degli ingegneri pontifici di acque
e strade, la Scuola ferrarese fallì l’obiettivo di una completa equiparazione con la
Scuola degli ingegneri di Roma. I suoi allievi restarono esclusi dalle carriere
direttive del Corpo e alcuni di essi colsero, così, l’occasione dell’apertura della
Scuola di agraria comunale (1843) per specializzare la loro formazione sul versante
agronomico e dedicarsi in seguito alla gestione tecnica ed economica di grandi
aziende agrarie in veste di affittuari o direttori 149.
146 Cfr. il Regolamento per l’abilitazione alle professioni di perito, architetto e ingegnere civile (25 giugno 1823),
in Regolamento della Scuola degl’ingegneri (23 ottobre 1817), Bologna, Gamberini e Parmeggiani, 1826, p. 1314. L’evoluzione, tra Settecento e Ottocento, della normativa in materia di studi e competenze
professionali degli ingegneri bolognesi è stata utilmente ricostruita da M. P. TORRICELLI, L’ingegneria a
Bologna tra XVIII e XIX secolo, in Il patrimonio librario antico della biblioteca d’in-gegneria, a cura di B.
BRUNELLI, C. BUCCHIONI, M. P. TORRICELLI, Bologna, Biblioteca «G. P. Dore», s.d., pp. XI-XXV.
147 Dei dieci ingegneri che, nell’anno accademico 1848-49, sedevano tra i quaranta soci ordinari della
Società agraria di Bologna, soltanto uno non possedeva terre nel bolognese. Cfr. ARCHIVIO DELLA
SOCIETÀ AGRARIA DI BOLOGNA, cart. 5 (1848-49), tit. 4°, Deputazioni sezionali (l’archivio è conservato
presso l’Accademia Nazionale di Agricoltura di Bologna). Ma i terreni di proprietà dell’ingegnere conte
Pietro Negri, membro della Conferenza agraria di Bologna e autore di due noti manuali di estimo civile e
rurale, non superavano i venti ettari. Cfr. S. FRONZONI , Pietro Negri: ingegnere bolognese della prima metà
dell’Ottocento, in San Lazzaro di Savena. La storia, l’ambiente, la cultura, a cura di W. ROMANI, Bologna, L.
Parma, 1993, pp. 516-522. Mentre Filippo Re aveva segnalato da tempo come, dei pochi allievi della sua
cattedra reclutati tra le fila dei possidenti, la maggior parte provenisse da famiglie di piccoli proprietari. Cfr.
F. RE, Elementi botanico-agrari del dottor Filippo Gallizioli, «Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia», VIII,
luglio-settembre 1810, pp. 265-283.
148 Esponenti della grande proprietà terriera, borghese e nobiliare, erano certamente Carlo Berti
Pichat e il conte Gaetano Isolani, che, dopo avere concluso, ripettivamente nel 1818 e nel 1823, il corso di
studi universitari di agrimensura e di ingegneria, non si abilitarono all’esercizio di queste professioni, ma
si dedicarono: l’uno, soprattutto alla gestione del proprio patrimonio fondiario e all’attività
amministrativa e politica; l’altro, all’ammistrazione, quale “assunto di campagna”, del patrimonio terriero
dell’Ospedale degli Esposti di Bologna.
149 Alle vicende della Scuola speciale di idraulica e della Scuola teorico-pratica territoriale di agraria di
Ferrara sono dedicati, rispettivamente, i contributi di A. FIOCCA e L. PEPE, L’Università e le le scuole per gli
128
E, mentre le forti aspettative suscitate e deluse dalla riapertura della Scuola di
applicazione ferrarese e dalla sua mancata equiparazione con quella romana
rinviano certamente a uno degli sbocchi professionali preferiti dagli ingegneri delle
province orientali dell’Emilia, le riflessioni svolte negli stessi anni da un esponente
della generazione di tecnici laureatasi a Bologna nel primi decenni del secolo,
segnalano le crescenti difficoltà alle quali andavano incontro nello stesso periodo
quanti cercavano reddito e prestigio nell’altro ruolo tradizionalmente rivestito e
ancora particolarmente ambito dagli ingegneri emiliani: quello di liberi
professionisti. Facendo luce, in questo modo, sia su alcuni degli obiettivi
dell’istituzione della Scuola di agraria ferrarese, sia sulle ragioni del coinvolgimento
di un numero crescente di ingegneri in inediti ruoli imprenditoriali e gestionali in
ambito agricolo.
Le “operazioni proprie di periti e ingegneri” — osservava nel 1839 l’ingegnere
Giacomo Maffei, riferendosi “a quanto, (...) proprio giornalmente, ci si presenta
sott’occhio” — “sono in proporzione assai minore del numero di coloro che da ogni
parte (...) si affacciano per eseguir[le] e sorvegliar[le]”. E se la situazione era difficile
per tutti i giovani laureati — per la forbice apertasi tra il forte sviluppo della
scolarità superiore avviato negli anni del Regno d’Italia e la drastica riduzione degli
impieghi pubblici realizzatasi in quelli della Restaurazione — lo era in particolare
per medici e ingegneri, fra i quali si contava “appunto (...) il maggior numero di
coloro” che, “a meno di allontanarsi dal proprio paese, maggiormente stenta[va]no a
trovare impiego”. E di qui la proposta, rivolta agli uni e agli altri, a superare “la
eccessiva concorrenza” creatasi anche nell’“esercizio delle professioni liberali”,
battendo vie diverse e, in particolare, applicando in modo più diretto il “capitale
scientifico acquistato” alle industrie e, innanzitutto, a quella agraria 150. Una
proposta che, secondo l’ingegnere Maffei, traduceva semplicemente una “tendenza”
in atto ormai “in molte parti” d’Italia e che egli stesso — è importante sottolinearlo
— non mancava di mettere in pratica, concludendo la sua carriera, negli anni ’50 e
’60, nelle vesti di “ispettore di grandi tenute” agricole della provincia di Reggio
Emilia 151.
Come si può vedere, è una specifica congiuntura del mercato del lavoro intellettuale
— oltre, naturalmente, alle condizioni più generali dell’economia della area
considerata — che, a partire dagli anni ’40, sembra orientare un numero crescente
di ingegneri bolognesi, ferraresi e modenesi, probabilmente quelli più intraprendenti
ingegneri a Ferrara, «Annali dell’Uni-ver-sità di Ferrara», Sez. VII, Scienze matematiche, XXXII, (1986), pp.
125-166, e di R. PAZZAGLI, La meccanizzazione agricola delle campagne padane nel dibattito agronomico
preunitario, «Padania. Storia, cultura, istituzioni», II (1988), pp. 14-20. Per quel che riguarda il gruppo di
ingegneri che seguirono i corsi dell’una e dell’altra, uno, Giuseppe Nigrisoli, si dedicò all’insegnamento
agrario, mentre altri due, Domenico Barbantini ed Eusebio Ardizzoni, divennero, rispettivamente,
direttore e affittuario della grande tenuta di Casaglia di proprietà del duca Scotti di Milano. Si veda, a
proposito di questi ultimi, F. BOTTER, Notizie intorno alla tenuta di Casaglia presso Ferrara, Ferrara, Taddei,
1849.
150 G. Maffei, Riflessioni sulla convenienza di impiegare maggior copia di capitali in alcuni rami d’industria
manifatturiera propri della città e provincia di Bologna, in Memorie di agricoltura, manifatture e commercio, Bologna,
Nobili, 1838-39, pp. 185-206.
151 Cfr. «L’incoraggiamento. Giornale di agricoltura, industria e commercio», IX (1857), n. 34.
Fermano l’attenzione sulla figura del Maffei, che aveva completato il corso di studi di ingegneria a
Bologna nel 1818 e che, in seguito, aveva insegnato algebra e geometria a Ferrara, anche A. FIOCCA E L.
PEPE, L’insegnamento della matematica nell’Università di Ferrara dal 1771 al 1942, in Università e cultura a Ferrara
e Bologna, Firenze, Olschki, 1989, pp. 1 e 30-32
129
e meno dotati di beni di fortuna, nella direzione di un impegno più diretto sul
terreno della gestione tecnica ed economica di grandi aziende agricole; e che
ravviva, al tempo stesso, il loro interesse per l’insegnamento delle scienze agrarie e
per lo sviluppo delle istituzioni deputate ad impartirlo 152. Qui affonda le radici,
probabilmente, quello che può essere considerato come uno dei primi tentativi di
istituzionalizzazione della figura dell’ingegnere agronomo compiuti nel nostro
paese: il progetto di istituzione di una Scuola di applicazione per ingegneri di questo
tipo che, tra il 1868 e il 1875, fu al centro del lungo negoziato condotto intorno alla
riorganizzazione degli studi di ingegneria a Bologna. E proprio nel sostanziale
cambiamento intervenuto nei primi decenni unitari negli equilibri del mercato del
lavoro degli ingegneri può essere rintracciata, forse, una delle principali ragioni del
fallimento di questa proposta.
Prima di analizzare i suoi contenuti è opportuno, tuttavia, sgombrare il campo da
un equivoco. Nel ricostruire le fasi del lungo contraddittorio relativo alle sorti degli
studi di ingegneria bolognesi che oppose i rappresentanti della comunità scientifica
e del ceto politico locale a quelli dell’amministrazione centrale della pubblica
istruzione, mettendo capo, da ultimo, alla istituzione di una scuola di applicazione
per ingegneri civili, alcuni studi, infatti, sembrano attribuire al ministro Ruggero
Bonghi la paternità del progetto della scuola per ingegneri agronomi e interpretarla
quasi come un piatto di lenticchie offerto in cambio della rinuncia da parte
dell’Università di Bologna al “diritto (...) di fare degli ingegneri”153.
Ora, se è certamente vero che, alla stretta finale, la proposta di una trasformazione
in questo senso del preesistente corso pratico di ingegneria suscitò critiche e
obiezioni anche nel campo bolognese, non esistono dubbi, tuttavia, né sulla sede in
cui essa maturò, la Facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali, né sul suo
autore, il professore Francesco Botter. E una semplice cronistoria della vicenda che
volgesse lo sguardo sino alla Proposta di un corso pratico di ingegnere civile-agronomo
152 Tra gli ingegneri emiliani impegnati, intorno alla metà del secolo scorso, nella direzione o nella
conduzione in affitto di grandi aziende agrarie, occorre ricordare almeno: il bolognese Annibale Certani,
che dopo avere fatto pratica per alcuni anni presso lo studio dell’ing. Tommaso Biagi, nel 1854 prese a
gestire in affitto, con alcuni soci, la grande tenuta di Mezzolara; un altro bolognese Pietro Pancaldi e il
reggiano Lazzaro Terrachini, direttori, uno dopo l’altro, della vasta tenuta del Duca di Galliera. Mentre
alla libera professione si dedicò, soprattutto, il modenese Eugenio Canevazzi, autore, come è noto, di un
importante trattato di estimo rurale e, assieme a Francesco Marconi, del primo vocabolario di agricoltura
dell’Italia unita. Cfr. G. ROVERSI, Annibale Certani, l’agricoltura diventa moderna, «Saecularia Nona», XIII,
(1996-97), pp. 109-113; S. RENTALI, Un esempio di conduzione di una azienda agraria nella pianura bolognese:
Galliera tra il 1837 e il 1851, in I Duchi di Galliera. Alta finanza, arte e filantropia tra Genova e l’Europa
nell’Ottocento, II, Genova, Marietti, 1991, pp. 537-549; G. CANEVAZZI, Un ingegnere agronomo: patriota e
scrittore, Bologna, Azzoguidi, 1930.
153 Tra i contributi che hanno fermato l’attenzione sulle vivaci discussioni che precedettero
l’istituzione della Scuola di applicazione di Bologna, occorre ricordare: M. P. CUCCOLI, Marco Minghetti e la
“questione universitaria” a Bologna, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di
Romagna», XXIX-XXX (1978-1979), pp. 209-223; V. TELMON, Professionalità e accademia fra il declinare del
XIX e gli inizi del XX secolo: gli inizi dell’ingegneria a Bologna, in Cento anni di università. L’istruzione superiore
in Italia dall’Unità ai giorni nostri, a cura di F. DE VIVO e G. GENOVESI, Napoli, E.S.I., 1986, pp. 65-97; L.
LAMA, Comune, Provincia, Università. Le convenzioni a Bologna fra Enti Locali e Ateneo (1877-1970), Bologna,
Istituto per la Storia di Bologna, 1987, pp. 13-25.
130
formulata dal Botter nel 1868 e fatta immediatamente propria dalla Facoltà, sarebbe
in grado di dimostrarlo 154.
Più importante di questo, però, è fermare brevemente l’attenzione, da un lato, sul
profilo e le tappe della carriera del professore veneto e, dall’altro, sulla dichiarata
ambivalenza degli obiettivi della sua Proposta. Figlio di agiati agricoltori di Moriago
in provincia di Treviso, laureato ingegnere architetto all’Università di Padova alla
fine degli anni ‘30, supplente della cattedra di matematica e, poi, di quella di agraria
e storia naturale della stessa Università, professore di agricoltura teorico-pratica
all’Accademia agraria di Pesaro, protagonista dell’esperienza della Scuola
territoriale e dell’Istituto agrario di Ferrara, professore di agronomia nella Facoltà di
scienze e nel corso pratico degli ingegneri di Bologna, Francesco Botter è forse
l’unico dei pionieri dell’insegnamento agrario italiano ad avere ricevuto una
formazione da ingegnere e ad essersi trovato a insegnare, a Ferrara come a Bologna,
soprattutto ad allievi dei corsi di ingegneria. Non stupisce quindi che proprio a lui si
debba la proposta della scuola bolognese per ingegneri agronomi 155.
Ma, come ha sottolineato qualche anno fa Carlo Poni, l’insegnamento fu soltanto il
punto di partenza dell’attività dell’agronomo o, piuttosto, dell’ingegnere agronomo
di Moriago; egli si impegnò, infatti, anche a Bologna, in una nutrita serie di
iniziative collaterali alla didattica quali: l’affitto e la sistemazione dell’orto agrario;
la costituzione di un deposito di macchine agricole; la progettazione e la
costruzione, in collaborazione con Alessandro Calzoni, di aratri di nuovo tipo;
l’impianto di una biblioteca e l’attivazione di una piccola casa editrice specializzata;
la redazione e la stampa di un giornale di agricoltura a diffusione nazionale; l’istituzione, infine, di un’agenzia, denominata “ufficio centrale di commissioni agrarie”,
volta ad agevolare gli scambi di piante e semi, a provvedere macchine, strumenti,
ecc. da stabilimenti italiani ed esteri, e a mettere in rapporto la domanda e l’offerta
di beni e servizi agricoli. Dimostrando chiaramente, anche nel confronto con Carlo
Berti Pichat, di avere molto dell’imprenditore e praticamente nulla del proprietario
terriero156.
Non tutte le iniziative da lui avviate ebbero, naturalmente, lo stesso successo. Ma il
terreno sul quale le sue speranze andarono quasi completamente deluse fu
certamente quello della costruzione, intorno al nucleo della cattedra di agraria, di
un vero e proprio istituto di istruzione agraria superiore. Un obiettivo che egli aveva
cominciato a perseguire sin dal suo arrivo a Bologna, informando i lettori dei suoi
giornali, «L’incoraggia-mento» e il «Giornale d’agricoltura, industria e commercio
del Regno d’Italia», degli sviluppi dell’insegnamento agrario nelle altre regioni
Il testo della Proposta di un corso pratico d’ingegnere civile-agronomo nella R. Università di Bologna in luogo
dell’attuale corso pratico di ingegneria, trascritto in appendice, è conservato nella BIBLIOTECA COMUNALE
DELL’ARCHIGINNASIO DI BOLOGNA, Manoscritti Santagata, XXII, 2.
155 Il più recente profilo biografico del Botter, corredato anche da un’ampia bibliografia, è quello di
G. FUMI, Francesco Luigi Botter, in Scritti teorici e tecnici di agricoltura, Milano, Il Polifilo, 1992, 93-103. In
questa sede merita, comunque, di essere ricordata anche la testimonianza di un collega e amico come D.
SANTAGATA, Cenno necrologico del professore cavaliere Francesco Luigi Botter, in Programma della R. Scuola di
applicazione per gli ingegneri in Bologna. Anno scolastico 1878-79, Bologna, Compositori, 1879. Confermano,
poi, l’originalità del percorso formativo e professionale del Botter le precise osservazioni di A. GALBANI ,
La modernizzazione in agricoltura: scienza e tecnica nella lotta alla pebrina. Il contributo di Emilio Cornalia e
Gaetano Cantoni, in Innovazione e modernizzazione in Italia..., pp. 58-59, a proposito del denominatore
comune di quasi tutti gli agronomi italiani del secolo scorso: la provenienza da studi di medicina.
156 Cfr. C. PONI , Francesco Botter, in Dizionario biografico degli italiani, XIII, Roma 1971, pp. 429-431.
154
131
italiane ed elaborando nel 1861, assieme a Domenico Santagata e sulla base,
soprattutto, dell’esempio dell’istituto agrario lombardo di Corte del Palasio, il
Programma di una associazione per (...) la fondazione di un istituto agrario teorico-pratico in
Bologna 157. Non se ne fece nulla e si può immaginare, quindi, con quanta
apprensione, ma anche con quale ipotesi di fondo, egli partecipasse, a partire dalla
metà degli anni ‘60, alla riflessione sulle prospettive del corso pratico di ingegneria
di Bologna, aperta nella comunità scientifica bolognese dalla proposta del Consiglio
superiore della Pubblica Istruzione di concentrare la formazione degli ingegneri
italiani in tre sole Scuole di applicazione con sede a Torino, Milano e Napoli 158.
Ammalatosi gravemente nel 1873 e costretto a limitare sempre più le sue attività, il
Botter, che morì nel 1878, rimase estraneo alle fasi conclusive del negoziato che si
svolsero tra i primi mesi del 1875 e quelli del 1877 e che portarono, come è noto,
prima, alla chiusura del corso pratico e, poi, grazie alla costituzione di un apposito
consorzio, all’apertura di una Scuola di applicazione abilitata alla formazione di
ingegneri civili 159. Non sorprende quindi che il suo nome non figuri quasi mai nei
documenti di questi mesi e che il testo finale del Progetto per una scuola di applicazione
per gli ingegneri agronomi, presentato al Ministro dalla Facoltà di scienze nell’aprile del
1875, non rechi la sua firma, ma quella del professor Giovanni Battista Ercolani,
direttore della Scuola di veterinaria di Bologna 160.
“Non si riuscì a nulla” affermò alcuni anni dopo il naturalista bolognese 161. Il
progetto, che — come la proposta formulata nel 1868 dal Botter — prevedeva di
innestare una nutrita serie di “insegnamenti applicati” sul tronco del corso triennale
per la licenza in matematiche pure — portando, tuttavia, la durata dell’intero ciclo
di studi da cinque a sei anni — non venne accolto dal Ministero che avanzò la
controproposta di un corso di laurea in agronomia di quattro anni, simile a quello
della Scuola agraria di Pisa e, come quello, finalizzato alla formazione non di
ingegneri agronomi, ma di “agrimensori, direttori di aziende industriali e rurali,
possidenti e — soprattutto — professori di scienze agrarie”. Chiedendo, al tempo
stesso, all’Università di Bologna di rinunciare ad alcuni degli insegnamenti necessari
per il conseguimento delle lauree in matematica e in lettere e filosofia 162.
Non è difficile, a questo punto, comprendere le ragioni dell’indi-gnazione — di cui
si rese interprete, non a caso, anche Giosuè Carducci — che le proposte di Ruggero
«L’incoraggiamento. Giornale di agricoltura, industria e commercio», XIII (1861), n. 27.
La Facoltà di scienze affidò a una commissione, composta da Luigi Bombicci, Francesco Botter e
Giulio Carini, il compito di dare forma, con una relazione, alle obiezioni e alle contro-proposte
dell’Università di Bologna. E, non a caso, il testo della relazione, redatto dal Bombicci e approvato dalla
Facoltà, venne pubblicato nel 1866 dalla tipografia del Botter. Cfr. Sulla convenienza ed opportunità di
conservare e completare presso la R. Università di Bologna la Scuola di applicazione degli ingegneri. Relazione letta ed
approvata dalla Facoltà matematica nell’adunanza del 7 febbraio 1866, Bologna, Tip. degli agrofili italiani, 1866.
159 Informa della lunga malattia del Botter un necrologio di G. RICCA ROSELLINI , Francesco Luigi
Botter, estratto da «Il calabro», Catanzaro, 1878.
160 Il Progetto per una scuola di applicazione per gli ingegneri agronomi, redatto dall’Ercolani, venne
trasmesso al Ministro della Pubblica Istruzione, Ruggero Bonghi, dal Rettore dell’Università di Bologna,
Giovanni Capellini, il 14 aprile 1875 e costituisce l’allegato n. 13 a R. BONGHI, Dell’Università di Bologna.
Lettera all’on. conte Capitelli, prefetto di Bologna, estratto dal «Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica
Istruzione», fasc. X, Roma 1875, pp. 59-63.
161 Verbale della adunanza ordinaria del 18 aprile 1880, «Annali della Società agraria provinciale di
Bologna», XX (1880), p. 177.
162 R. BONGHI, Dell’Università di Bologna..., cit., Allegato n. 18, Lettera del Ministro Bonghi al Rettore
Capellini del 20 maggio 1875, pp. 68-69.
157
158
132
Bonghi suscitarono in larga parte della comunità scientifica bolognese; e quelle della
mobilitazione dell’intero ceto politico locale contro il minacciato “dimezzamento
della Facoltà di lettere e filosofia”, nonché a difesa dell’“onore avito”
dell’Università e del suo ”diritto (...) di fare degli ingegneri” 163. Più interessante,
tuttavia, è chiedersi, a proposito di questi ultimi, se l’accoglimento del progetto di
scuola per ingegneri agronomi avrebbe potuto dare vita a Bologna a un’isti-tuzione
e a un’offerta formativa in grado di rispondere alle aspettative e di incontrare il
favore dei giovani interessati a dedicarsi a una professione tecnica e di reclutare,
quindi, un numero significativo di allievi.
Sì e no, a seconda dei casi, viene da rispondere e, comunque, con una netta
prevalenza di risposte negative. Certamente no, nel caso in cui la lunghezza del
corso fosse rimasta quella prevista dall’Ercolani.
Come è mai sperabile — obiettava il Ministro al naturalista bolognese — di trovare
studenti i quali vogliano con un corso di sei anni abilitarsi ingegneri agronomi,
quando con un corso di cinque sono in grado di abilitarsi ingegneri civili? Come
potrebbero questi ultimi essere esclusi dall’adoperarsi da ingegneri agronomi? 164
Decisamente no, ancora, nel caso, opposto a quest’ultimo, ma fatto balenare in
qualche modo dal Ministro, in cui agli ingegneri agronomi fosse stata preclusa la
possibilità di svolgere le funzioni degli ingegneri civili e di accedere ai relativi
concorsi pubblici. Forse sì, infine, nel caso di un corso quinquennale e
sostanzialmente equiparato a quelli di ingegneria civile, come prevedeva l’iniziale e
realistica proposta di Francesco Botter. Ma in questo caso, ammesso che fosse
possibile garantire al nuovo corso il necessario livello tecnico e scientifico, sarebbe
stato necessario, anche, assicurargli una sorta di esclusiva in un ampio ambito
territoriale. Lo dimostrano chiaramente, mi pare, i risultati dell’esperienza del corso
per ingegneri delle industrie agricole attivato nel 1866 nell’ambito della Scuola di
applicazione di Torino. Un corso che tra il 1867-68 e il 1876-77, a parità, si
direbbe, di ogni altra condizione istituzionale, non riuscì a formare un solo
ingegnere agronomo, a fronte di ben 782 ingegneri civili, 28 architetti, 11 ingegneri
meccanici e 5 ingegneri chimici, laureati dagli altri corsi della Scuola 165.
Troppe condizioni erano richieste, evidentemente, per il successo del nuovo
percorso formativo. E, se si rammentano i molti progetti di modernizzazione urbana
che interessarono anche il capoluogo emiliano nei primi decenni unitari e lo
spostamento in città del baricentro dell’attività professionale degli ingegneri
bolognesi che essi, probabilmente, recarono con sé — assieme, forse, a un
miglioramento delle condizioni di mercato dei loro servizi — non è difficile capire
come, di fronte all’indisponibilità del governo a finanziare la realizzazione del
progetto presentato dalla Facoltà di scienze, si rivelassero minoritarie, alla fine, nel
dibattito locale, le posizioni di coloro che, pur nell’ambito di un compromesso con
163 Per i riferimenti alla Facoltà di lettere e all’“onore avito” cfr. R. BONGHI, Dell’Università di
Bologna..., cit., Allegato n. 19, Lettera del Rettore Capellini al Ministro Bonghi del 26 maggio 1875, pp. 70-71; a
insistere sul “diritto (...) di fare degli ingegneri” fu, in particolare, Giuseppe Ceneri, come risulta dagli Atti
della sessione ordinaria del Consiglio Provinciale di Bologna. Adunanza del 20 agosto 1875, p. 34.
164 R. BONGHI, Dell’Università di Bologna..., cit., p. 7.
165 Cfr. G. CURIONI , Cenni storici e statistici sulla Scuola di applicazione per gli ingegneri fondata in Torino
nell’anno 1860, Torino, Candeletti, 1884, pp. 22-25.
133
gli studi di ingegneria civile, ritenevano prioritario un indirizzo di “ingegneria
agricola” e fondata la prospettiva di una istituzionalizzazione della figura
dell’ingegnere agronomo 166.
Come spiegare diversamente il fatto che, costituito il Consorzio tra gli Enti Locali e
reperiti, così, i mezzi necessari per attivare l’intero corso di studi di una Scuola di
applicazione, il progetto della formazione di “ingegneri veramente agronomi” non
venne in alcun modo riproposto? E, tuttavia, l’affermazione di Giovanni Battista
Ercolani — “non si riuscì a nulla” — non deve trarre in inganno. Il passaggio del
testimone dal corso pratico a quello di ingegneria civile della Scuola di
applicazione, che si realizzò tra il 1875 e il 1877, non portò a un superamento della
connotazione agronomica degli studi di ingegneria bolognesi e, tanto meno, mise
fine all’impegno nel settore agricolo di molti degli ingegneri formati nell’Università
di Bologna. Il nuovo corso, pur sostituendo, secondo le disposizioni del
regolamento nazionale entrato in vigore nel 1876, l’inse-gnamento di agrononomia
teorico-pratica con quella di economia ed estimo rurale, continuò a dare largo
spazio alla “parte agronomica” 167; e, pur non avendo l’obiettivo di preparare tecnici
agricoli, vide molti dei suoi diplomati impegnarsi, come liberi professionisti,
“specialmente nel campo tecnico-agrario”168.
Significativa del rapporto tra esercizio della libera professione e impegno nel settore
agricolo che coinvolse, a partire dalla sua istituzione, larga parte degli ingegneri
usciti dalla Scuola di applicazione di Bologna, è la testimonianza resa da uno di essi
molti anni dopo, nel contesto della commemorazione di un collega, letta alla
Società agraria di Bologna.
Nel tempo in cui ha vissuto l’ing. [Augusto] Peli — scriveva nel 1930 Raffaele
Stagni — non era possibile esercitare proficuamente la professione libera, senza
estendere le proprie attribuzioni all’agricoltura. Non esisteva casato di nobiltà o di
doviziosa borghesia dotato di un cospicuo patrimonio terriero, che non
annoverasse, fra le persone addette all’anda-mento della propria amministrazione,
un laureato ingegnere, al cui consiglio e discernimento era deferita, non solo la
soluzione di qualsiasi que-stione riguardante i beni rustici della proprietà, ma più
ancora l’approva-zione di qualsiasi iniziativa che si avesse in animo di attivare a
miglioramento dell’azienda agraria. Veniva in certo qual modo considerato l’inge166 Il rapporto tra i progetti di modernizzazione urbana che interessarono Bologna nei primi
decenni unitari e la “valorizzazione delle competenze professionali degli ingegneri” è evidenziato da A.
ALAIMO, L’organizzazione della città. Amministrazione e politica urbana dopo l’unità (1859-1889), Bologna, Il
Mulino, 1990, pp. 233-243.
167 È questa l’impressione che suggeriscono i rilievi fatti molti anni dopo da Jacopo Benetti a
proposito dei corsi di economia ed estimo rurale, e di macchine agricole. Cfr. R. SCUOLA
D’APPLICAZIONE PER GLI I NGEGNERI IN BOLOGNA, Commentari dell’organizzazione e di un trentennio di
vita della Scuola, Bologna, Stabilimento poligrafico emiliano, 1909, pp. 9-10.
168 Cfr. A. MASETTI Z ANNINI , Commemorazione dell’ing. Carlo Pilati, «Annali della Società agraria
provinciale di Bologna», LXII, 1934, pp. 19-25, e, più in generale, le commemorazioni degli ingegneri
Augusto Peli, Guido Lisi, Alfonso Sacenti, Pietro Fanelli e Raffaele Stagni lette negli anni ’30 alla Società
agraria di Bologna e pubblicate nei suoi «Annali». “Egli appartiene — scriveva nel 1933 Ulderico Somma
di Giuseppe Berti — a quella pleiade di ingegneri che usciti dalla nostra Scuola di applicazione dedicarono
attività e sapere all’industria agraria, bonificando terreni, promuovendo ed intensificando le colture e le
industrie agrarie, sì da fare dell’Emilia una delle regioni più progredite della nostra Italia”. Cfr. U. SOMMA,
Commemorazione del prof. ing. Giuseppe Berti, «Annali della Società agraria provinciale di Bologna», LXI,
1933, pp. 153-156.
134
gnere, svisandone alquanto il significato della parola, come il tecnico agrario
conoscitore della natura dei terreni, della coltivazione delle varie piante e delle
rispettive esigenze, delle norme e delle consuetudini che regolano i vari contratti di
conduzione agraria, e cioè di mezzadria, di terzeria, di boaria, ecc., e quindi il più
competente a giudicare non solo in materia di tecnica agricola, ma ancora
nell’impostazione dei vari conti di amministrazione attinenti alla gestione agraria; in
una parola l’ingegnere era il consigliere che veniva sempre sentito sopra ogni
argomento riguardante la conduzione e l’amministrazione dei beni rustici costituenti
il patrimonio fondiario del casato 169.
Nel richiamare l’attenzione su questa testimonianza, Agostino Bignardi l’ha
accostata, diversi anni fa, alla “magnifica pagina” di Carlo Cattaneo sul contributo
degli ingegneri rurali allo sviluppo dell’agri-coltura lombarda 170. Un accostamento
che appare certamente fondato, a patto di non passare sotto silenzio un particolare
importante: e cioè che la situazione alla quale l’ingegnere bolognese faceva
riferimento non era quella precedente, ma, indubbiamente, quella successiva, sia
all’istitu-zione della scuola di applicazione di Bologna, sia all’apertura delle prime
scuole superiori di agricoltura italiane.
Furono proprio i responsabili di queste Scuole, di fronte agli sviluppi
dell’insegnamento agrario superiore in alcuni paesi europei e di fronte, soprattutto,
alle difficoltà incontrate dai loro laureati nell’estendere l’ambito della loro attività
professionale dal settore pubblico dei servizi tecnici per l’agricoltura
(l’insegnamento delle scienze agrarie e la gestione degli interventi statali e
provinciali), a quello privato (la direzione aziendale e l’esercizio della libera
professione, ovunque monopolizzato dagli ingegneri), a prendere nuovamente in
considerazione la prospettiva di un percorso formativo simile a quello immaginato a
Bologna da Francesco Botter. Prima a Milano, con l’ipotesi, formulata nel 1887 da
una commissione presieduta da Francesco Brioschi, di fare della locale Scuola
superiore di agricoltura la sede della preparazione “non più di semplici laureati
agronomi, ma di veri ingegneri agronomi” 171. Poi a Portici, dove nel 1893 il
Consiglio dei professori della Scuola di agricoltura, nell’attribuire le difficoltà
professionali degli agronomi all’indirizzo prevalentemente biologico della loro
formazione, elaborava il progetto di affiancare, a quello in scienze agronomiche, un
corso di laurea in ingegneria agraria, connotato da una approfondita preparazione
matematica di base 172.
Anche queste proposte, come le altre che le seguirono, a intervalli regolari, sino al
1940 — provenienti quasi tutte dagli ambienti agronomici — non trovarono
attuazione. Secondo il più convinto dei loro fautori, Italo Giglioli, soprattutto per il
“preconcetto che gli studiosi dell’agri-coltura dovessero essere principalmente i
169 R. STAGNI , Commemorazione dell’ing. cav. Augusto Peli, «Annali della Società agraria provinciale di
Bologna», LVIII, 1930, p. 111.
170 A. BIGNARDI , Tre agronomi bolognesi: Pedevilla, Contri, Botter, in Settecento agrario bolognese e altri
saggi, Bologna 1969, p. 99.
171 Alcuni passi della relazione presentata dalla commissione al Ministro di agricoltura sono
riprodotti in I. GIGLIOLI, Insegnamento superiore di agricoltura, in «Giornale degli economisti», X (1895), p.
80-81.
172 Cfr. la Relazione sul riordinamento degli studi della R. Scuola superiore di agricoltura in Portici..., cit., pp.
581-89.
135
proprietari delle terre” e che “le scuole agrarie dovessero servire per ‘attrarre’ i
figliuoli dei proprietari” e non scoraggiarli con “l’estensione e la severità degli studi”
173 . Secondo il più autorevole dei loro oppositori, Arrigo Serpieri, per l’esigenza di
“guardare”, nell’ambito degli studi di agronomia, “soprattutto al proprietario e
all’affittuario che dirige la propria azienda” e di “mantenere ben fermo e
predominante nella sua preparazione l’indirizzo biologico ed economico-politico”
174 .
Quale di queste valutazioni e di questi orientamenti avesse basi più solide e
individuasse la rotta più sicura per lo sviluppo tecnico dell’agri-coltura italiana; se la
realizzazione delle proposte di Italo Giglioli avrebbe concorso efficacemente al
successo del “progetto professionale” degli agronomi italiani: sono questioni alle
quale è difficile rispondere. Ma sin d’ora appaiono chiare le conseguenze del loro
fallimento.
Le informazioni disponibili sul numero degli ingegneri e degli agronomi impegnati
rispettivamente, tra il 1930 e il 1936, nel settore agricolo e nella libera professione
— sono raccolte nella Tabella I — mostrano chiaramente, al di là di alcuni problemi
di interpretazione, come, a sessant’anni dall’istituzione delle Scuole superiori di
agricoltura e all’indo-mani del riconoscimento giuridico della professione di
agronomo, il settore privato dei servizi tecnici per l’agricoltura fosse ancora
saldamente nelle mani dei primi. Soprattutto in regioni come la Lombardia e
l’Emilia-Romagna dove il rapporto tra ingegneri agronomi e agronomi si scostava
significativamente dalla media nazionale di 5 a 1, per raggiungere proporzioni di 10
a 1 o 20 a 1175.
Tornando alle scuole degli ingegneri, ora, è interessante rilevare come, rimaste
estranee, dopo il progetto elaborato dal Botter, a qualsiasi tentativo di attivazione
di uno specifico corso di studi di ingegneria agraria, esse registrassero, proprio negli
anni del riconoscimento giuridico del-le professioni agronomiche, “una
impressionante fioritura di corsi di coltura agraria”: di specializzazione, di
perfezionamento e, in prospettiva, di laurea 176. Una coincidenza che è impossibile
ritenere fortuita e che appare ancor più significativa, se si tiene conto di un’altra
circostanza: la forte disoccupazione che colpiva negli stessi anni i laureati in
Si veda la relazione manoscritta del 1902 di I. GIGLIOLI, Osservazioni intorno alla nuova Scuola
Superiore di Agraria che si va formando in Bologna, conservata in ARCHIVIO STORICO DELL’UNIVERSITÀ DI
BOLOGNA, Fondazione della Scuola superiore di agraria, (1901-1910).
174 Convegno intorno a “La Carta della scuola e l’istruzione agraria”..., cit., p. 397 e 421.
175 Come ha osservato F. TACCHI, L’ingegnere, il tecnico della “nuova” società fascista, in Libere professioni
e fascismo, a cura di G. TURI, Milano, Angeli, 1994, pp. 208-209, “i Gruppi ingegneri agrari, nati in seno al
Sindacato nazionale fascista degli ingegneri fin dal 1927, non ebbero grande sviluppo”. E, tuttavia, anche
al di là di un confronto con il numero degli agronomi liberi professionisti, il concentrarsi dei loro iscritti
in province come quella di Milano (258), Pavia (101), Padova (109), Bologna (140), Modena (76) e Ferrara
(42), non può non apparire significativo. Cfr. Stato della costituzione dei gruppi ingegneri agrari al 20 gennaio
1930, «L’ingegnere», IV (1930), pp. 70-71.
176 Prende le mosse dalla constatazione di questa “fioritura” una serie di articoli di Aldo Pagani, un
economista agrario, pubblicati tra il febbraio e l’aprile del 1933 dal «Giornale di agricoltura della
domenica». Gli articoli vennero riprodotti e commentati, con una certa aria di sufficienza, nel «Bollettino
del Sindacato provinciale fascista degli ingegneri di Bologna», VII, n. 2, marzo-aprile 1933. Per i corsi di
specializzazione, di perfezionamento e di laurea in ingegneria agraria, attivati, oppure allo studio, a partire
dal 1927, presso le Scuole di applicazione di Milano, Padova e Roma, si veda L. GUSSONI , L’ingegneria
agraria come dottrina e come pratica, in «L’ingegnere», I (1927), pp. 137-139.
173
136
ingegneria 177. Come se gli ingegneri, al peggiorare delle condizioni generali del
mercato dei loro servizi professionali e di fronte ai progressi compiuti dagli
agronomi sul terreno del riconoscimento dell’esclusiva dei servizi tecnici per
l’agricoltura, si fossero, infine, resi conto dell’importanza di questo sbocco
professionale e convinti della necessità di difenderlo e giustificarlo, dandogli una
base più solida e aggiornata.
Un ripensamento tardivo, evidentemente, privo di conseguenze durature e, per quel
che riguarda le scuole degli ingegneri, certamente l’ultimo. Ma, se per i docenti e gli
allievi di queste scuole lo sviluppo industriale del secondo dopoguerra ha
definitivamente trasformato la questione dell’ingegneria agraria in un problema
storiografico, lo stesso non si può dire con la medesima sicurezza per le scuole di
agraria. L’attiva-zione, a partire dal 1993, del mercato unico europeo dei servizi
professionali ha richiamato ancora una volta l’attenzione sull’esistenza di
significative differenze nella struttura e nei contenuti degli studi superiori agrari e
ha segnalato l’opportunità di un’armonizzazione dei curricula universitari di agraria e
di ingegneria agraria. E di recente in un convegno internazionale uno dei relatori ha
evocato nuovamente, sia pure per contestarla, l’idea di un “politecnico agrario”178.
177 Cfr. M. BARBAGLI, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Bologna, Il Mulino, 1974,
pp. 254-60 e F. TACCHI, L’ingegnere..., cit., 196-200.
178 Cfr. I NTERNATIONAL COMMISSION OF AGRICULTURAL E NGINEERING, The university structure...,
cit., p. 9, e L. CAVAZZA, Higher education in the agricultural sciences in Italy..., cit., p. 37.
137
Ingegneri
liberi Agronomi liberi Aderenti
ai
Regioni
professionisti
al professionisti
al “Gruppi ingegneri
1936
1936
agrari”
al 1930
Piemonte
626
11
42
Lombardia
1597
34
622
Veneto
660
20
185
Venezia Trid.na 130
2
Venezia Giulia 115
2
30
Liguria
413
7
Emilia-Romagna 527
31
367
Toscana
352
43
74
Marche
110
13
44
Lazio-Umbria
1029
43
45
Abruzzi
145
7
25
Campania
957
27
67
Calabria
189
13
61
Basilicata
44
6
Puglie
379
25
73
Sicilia
615
24
47
Sardegna
87
3
22
Totale
7975
311
1704
Tab I. Ingegneri e agronomi impegnati nella libera professione e
“ingegneri agrari” per regione tra il 1930 e il 1936.
Fonte: VIII censimento generale della popolazione, v. IV. Le professioni, Roma
1939; Stato della costituzione dei gruppi ingegneri agrari al 20 gennaio 1930,
«L’ingegne-re», IV (1930), pp. 70-71.
138
Appendice
Proposta di un Corso pratico d’ingegnere civile-agronomo nella R. Università di
Bologna in luogo dell’attuale Corso pratico d’ingegneria, a S.E. il Sig. Ministro della
Pubblica Istruzione.
L’Università di Bologna, al ricevere il dispaccio ministeriale, dall’una parte ha
provato, ben a ragione, il massimo giubilo, appalesandosi in esso che l’E.V. ha in
animo di migliorarne le condizioni e lo stato, dall’altra parte la Facoltà matematica,
per ciò che in quel dispaccio medesimo è detto sul Corso pratico degli ingegneri,
sente il più vivo dispiacere pel timore di essere ferita gravemente, con danno della
stessa Università; perciocché tolto in essa il Corso pratico di ingegneria fin qui
avuto, ora sotto una forma, ora sotto un’altra, verrebbe la Facoltà di matematica
ristretta in modo da temere assai che i giovani non trovassero più cosa opportuna di
venire ad attendere in Bologna agli studi matematici, e quindi, in breve periodo di
anni, la Facoltà matematica sarebbe al nulla ridotta e da qui il danno all’Università
di Bologna. Prima, pertanto, che l’E.V. sia per appigliarsi a una determinazione su
questo proposito, la Facoltà matematica sente il dovere di presentare all’E.V. la
seguente proposta di Corso pratico di ingegneria.
La Facoltà di matematica ritiene che gli elementi che ora già possiede l’Università,
siano tali da metterla in grado, con lievi aggiunte che vi si facciano, di trasformare
l’attuale Corso pratico di ingegneria in un Corso pratico d’ingegnere civileagronomo e ciò per la necessità e l’utile di questo corso in Italia. E, di fatto, se
l’ingegneria è una professione assai complessa e se estesi sono i campi in cui si
applica, come la costruzione delle macchine, le miniere, le vie ferrate, i fiumi e i
corsi d’acqua, le vie ordinarie, le costruzioni civili, idrauliche e stradali, nessuno di
questi rami può paragonarsi, per vastità, per molteplicità, per importanza e per
utilità, a quello estesissimo dell’agronomia. Ora, dai nostri Istituti politecnici
escono ingegneri meccanici, idraulici, architetti, ma non ingegneri veramente
agronomi, per lo ché avviene che la professione dell’ingegnere civile-agronomo,
propriamente detta, manca assolutamente in Italia, mentre già esiste in altre nazioni
e ora si sta fondando appunto per la Francia in Parigi una Facoltà speciale per
ingegneri agricoli.
Nessuno vorrà porre in dubbio la somma utilità di questa classe di persone. In Italia,
con tante centinaia di migliaia di ettari di terreno incolto, con estesissimi tenimenti
pressoché privi di tecniche direzioni, coll’agricoltura in molte provincie affatto
negletta; in Italia, insomma, è reclamata dovunque l’opera di ingegneri agronomi;
vuoi per le più appropriate costruzioni rurali, vuoi per le irrigazioni, vuoi pel
prosciugamento di paludi, vuoi per vasti progetti di ammendamenti. Ché, anzi, la
Facoltà matematica, non può non richiamare l’attenzione dell’E.V. sulla necessità
che ai giorni nostri, in tanto sviluppo delle scienze e delle pratiche applicazioni di
esse, si formino ingegneri specialmente versati nel ramo agricolo, la cui mancanza fa
sì che i Comizi, le Società e le amministrazioni rurali sono paralizzate nella loro
attività e nei loro intendimenti; quando, invece, un numero strabocchevole di
ingegneri civili, architetti, idraulici e meccanici, esce ogni anno dalle Scuole
universitarie e dagli Istituti superiori. E chi non s’accorge che una gran parte di
questi, per la precarietà dei lavori di vie ferrate ed ordinarie, di ponti e strade, sono
139
già o saranno tra breve nel novero indefinito dei postulanti impieghi? Ma il campo
dell’agronomia, oltreché più vasto di tutti, presenta un insieme di applicazioni oltre
dir duraturo e sommamente proficuo a promuovere gli interessi più vitali della
Nazione.
Per queste ragioni tutte, la Facoltà matematica si crede in dovere di farsi iniziatrice
di questo ramo di ingegneria, persuasa inoltre che questa scuola e questo corso
pratico speciale dell’ingegnere civile-agronomo, più che altrove debba aver sede in
Bologna. Non v’ha chi non sappia che Bologna è il massimo centro italiano
geograficamente parlando; che anzi lo è soprattutto se la si consideri
economicamente e dal lato agronomico; prova ne sono gli incrementi che tutto
giorno subisce e che tutti conoscono. Inoltre in Bologna, più che altrove, può
meglio formarsi un ingegnere civile-agronomo. Qui l’Università con la completa
teorica di matematica e di scienze fisico-naturali; qui una Società agraria antica e
stimata; qui un Comizio agrario; qui l’agricoltura in ottimo sviluppo, se si confronti
con quella della maggior parte delle provincie italiane; qui già da molti anni aperto
un Ufficio centrale di commissioni agricole a cui fanno capo gli agronomi delle più
lontane parti della penisola; qui si sta aprendo (ben si noti) un grande deposito di
macchine agrarie e industriali, annunziato già dai giornali, con relativo atelier di
costruzioni al quale presiederà un costruttore teorico e pratico di molta vaglia; e
qui, finalmente, una scuola agraria che fa annuali escursioni; avvertendo poi,
soprattutto, che nella provincia bolognese si praticano le coltivazioni dell’alta
montagna, del piano, sia asciutto, sia umido di risaie e di valli; e dove pure si hanno
ancora fondi paludosi da redimere, e nelle province prossimane si trovano oggetti
molteplici di speciale istruzione agraria.
Bologna è dunque, fin d’ora, il maggiore centro agricolo d’Italia ed in Bologna
conviene per ogni titolo l’applicazione delle matematiche e delle scienze fisiconaturali all’agronomia. E la Facoltà matematica, avuto ancora riguardo alla minima
possibile spesa governativa e fatto calcolo degli elementi di studio e di pratica
posseduti dalla città e dalla provincia e che possono venire proficui, propone
all’E.V. il seguente prospetto degli insegnamenti applicati al Corso pratico speciale
d’ingegnere civile-agronomo:
1° Mineralogia
2° Geologia
3° Chimica agraria
4° Botanica
5° Agronomia teorico-pratica
6° Topografia
7° Costruzioni civili, idrauliche e stradali
8° Meccanica e idraulica applicata
9° Disegni topografici e architettura compositiva
10° Materie legali
11° Disegni e costruzione di macchine (per le quali potranno pure giovare il
Gabinetto meccanico Aldini, la Scuola speciale del Valeriani, l’atelier agricolo, la
fonderia Calzoni)
Se l’E.V. si compiacerà di analizzare il personale dell’Università di Bologna,
facilmente s’accorgerà che con l’aggiunta soltanto di due professori o personaggi
speciali, l’uno per la Meccanica e idraulica applicata, l’altro per le Costruzioni civili,
140
idrauliche e stradali, e con qualche incaricato tratto dallo stesso personale, l’E.V.
avrà la gloria di fondare nel centro d’Italia il primo corso pratico speciale
d’ingegnere civile-agronomo. E qui la Facoltà desidera far notare semplicemente
all’E.V. come, ammessi ancora i due professori suddetti, il personale già stabilito
nella pianta organica della R. Università di Bologna non verrebbe aumentato,
poiché la cattedra di astronomia, di meccanica applicata e di chimica docimastica
figurano sempre in essa; ma, comunque sia, la Facoltà matematica confida nel
favore dell’E.V. la quale, convinta che sia dell’utilità e della necessità di un corso
pratico speciale di ingegnere civile-agronomo a servizio di tutta l’Italia, accorderà
provvidente e benefica i mezzi a ciò necessari, che non possono essere gravi, tanto
più che ad un tempo si viene a sorreggere e favorire un’Università di prim’ordine
che altrimenti potrebbe gravemente soffrirne.
E a muovere e sostenere maggiormente l’animo dell’E.V. la Facoltà matematica
rammenta come sia già nel proposto del governo e dell’E.V. di fondare un Istituto
veterinario universitario in Bologna, per la qual cosa s’avverte sommamente
l’opportunità di regolare qui ancora lo studio e la pratica agraria, pei grandi rapporti
che hanno tra loro le due istituzioni di veterinaria e di agronomia, per darsi
vicendevolmente, a così dire, la mano. E con questo verrebbe creata una nuova
professione e dato impulso all’esercizio di un ramo che sorge tra i primi degli studi
applicativi di massima e generale utilità.
La commissione
Francesco Botter
Giulio Casini
Domenico Santagata
Antonio Saporetti
Letta ed approvata dalla Facoltà di scienze fisiche, matematiche e naturali nella
sessione del 22 agosto 1868
141

Similar documents