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GESTURES
WOMEN IN ACTION
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GESTURES
WOMEN IN ACTION
a cura di Valerio Dehò
coordinamento di Sergio Fintoni
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INDICE
Women in action, Valerio Dehò (italiano)
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Women in action, Valerio Dehò (deutsch)
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Artiste:
5
Yoko Ono
23
Carolee Schneemann
30
Yayoi Kusama
32
Valie Export
34
Ana Mendieta
35
Gina Pane
36
Charlotte Moorman
38
Sophie Calle
41
Jeanne Dunning
42
Marina Abramović
44
Orlan
58
Shirin Neshat
62
Odinea Pamici
64
Silvia Camporesi
65
Regina José Galindo
66
Opere in mostra
69
Crediti fotografici
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Colophon
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WOMEN IN ACTION
Valerio Dehò
A partire dagli anni Cinquanta e soprattutto nel decennio seguente, il corpo assume una
centralità fondamentale nelle ricerche artistiche. Nella Body art si indaga il linguaggio del
corpo, un lessico fondato su un complesso di segni di cui il gesto è la materia e l’essenza.
L’uso del corpo è come una via per ritrovare una comunicazione diretta con il pubblico, un
rapporto sensoriale e tattile con l’Altro. L’artista diventa ostile a qualsiasi rappresentazione, a
qualsiasi artificio: vuole unire la vita con l’arte, provocare, essere se stesso, praticare un’arte
pericolosa anche a rischio di mettere in pericolo la propria vita.
Con i nomi di happening, performance e azioni, sono nate, in tutto il mondo e negli stessi
anni, manifestazioni, gruppi d’artisti e festival a segnare uno Zeitgeist difficilmente ripetibile.
In Giappone il gruppo Gutai si dedicava a un’arte legata alla “pittura-azione”. Nel 1955 Katsuo
Shiraga si getta su un cumulo di fango bagnato. Semisvestito si muove in contatto diretto
con la materia, mettendo in crisi dinnanzi al pubblico, i principi di bellezza e purezza che
informano la cultura orientale. Nel 1956 Saburo Murakami prepara una fila di sei schermi di
carta, ciascuno dei quali fissato su un telaio, quindi vi si getta contro, attraversandoli di corsa.
Nel 1959 Allan Kaprow negli Stati Uniti realizzò “18 Happenings in 6 Parts”, lo spazio degli
Happening, una forma di espressione corporale discontinua, a metà tra teatro e arte
contemporanea. Non vi è una scena né distinzione tra attore e spettatore, la sua narrazione
si presenta come sequenza e accumulo di gesti. Come i dripping, gli happening sono
tessiture, non di pittura, ma di oggetti e gesti “in certe misure di tempo e di spazio”, come
scrive l’artista nel 1966, che “devono rimanere il più possibile fluide e indistinte.” Nelle
“Antropometrie” degli anni 1960-1962, Yves Klein, artista francese, trasformò il corpo in
“pennello vivente”, con il colore che veniva steso sulla tela direttamente dal corpo umano.
Il movimento internazionale Fluxus, di cui hanno fatto parte artisti come Joseph Beuys e
Yoko Ono, nato a Wiesbaden (Germania) nel 1962, ha posto l’accento sull’essenzialità di
un’azione artistica destinata a vanificare i confini tra arte e non arte. Fluxus ha organizzato
concerti, happening, performance, attività editoriali e produzioni di oggetti. “L’artista non
deve fare della sua arte una professione”, aveva dichiarato George Maciunas. “Tutto è arte
e tutti possono farne”. Nelle opere e negli happening di Fluxus, il corpo dell’artista era usato
come prototipo di quello sociale; la ripetizione di gesti abitudinari invitava a soffermarsi
sulla metodologia del quotidiano, sui gesti snaturati della società consumistica e sulla
spettacolarizzazione degli stessi negli spot pubblicitari televisivi.
L’Azionismo Viennese (Wiener Aktionismus) si è sviluppato ed è cresciuto durante tutti
gli anni Sessanta, con una serie di performance di Body art, che hanno raccolto artisti di
diversa provenienza come Hermann Nitsch, Rudolf Schwarzkogler, Günther Brus, Otto
Mühl, Valie Export, Peter Weibel (poeta, poi curatore di mostre e direttore di musei), Heinz
Cibulka, prima modello delle performance e poi anche lui artista. Non vi fu un vero e proprio
manifesto teorico del gruppo, ma il 1° giugno del 1962, Adolf Frohner (che aderì per breve
tempo alla poetica azionista), Hermann Nitsch e Otto Mühl si fecero murare in una cantina
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della Perinetgasse a Vienna. Quando furono liberati lessero con lo psicanalista Josef Dvorak,
il manifesto teorico dell’azione, dal titolo “L’organo del sangue” (Die Blutorgel).
Le performance di Vito Acconci a New York definivano il corpo dell’artista come luogo di
avvenimenti misurabili con una moltitudine di sensazioni: dal dolore provocato da morsi o
bruciature di sigarette, alle variazioni dei ritmi biologici; dalla resistenza fisica e psichica fino
alla stessa modificazione del proprio corpo. Non a caso un sua performance pone il tema
della sessualità e del maschile vs femminile come tema dominante. “Conversions” (1971) è
un’azione realizzata in due versioni a un anno di distanza l´una dall´altra, in cui Acconci ha
sperimentato la possibilità di passare dal maschile al femminile: bruciandosi i peli del petto,
tirandosi i capezzoli, nascondendo il pene tra le cosce e allenando il corpo, a realizzare in
questa posizione una serie di movimenti come camminare, danzare, sedersi. Un uomo prova
a sentirsi donna, a vivere una modificazione fisica, sessuale.
Soprattutto negli anni Settanta il tema del femminismo è dominante nell’arte
contemporanea. Le donne portano nell’arte dei contenuti nuovi, rivoluzionari. Spesso usano
il corpo come strumento di lotta sociale, per una rivoluzione dei costumi, della vita e del
ruolo della donna nella società.
Il periodo era importante perché il lavoro delle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta
stava producendo i primi risultati significativi. Anche le istituzioni in quel momento erano
pronte ad accogliere e sostenere una mostra di sole donne, soprattutto se aveva un taglio
storico. Molte erano le donne che si esprimevano negli anni Settanta con la Body art, come
Valie Export, Marina Abramovic, Carolee Schneemann, Gina Pane, Rebecca Horn, Laurie
Anderson, Hannah Wilke, Orlan e Ana Mendieta con performances che hanno segnato la
storia dell’arte contemporanea, in cui il corpo femminile era esibito polemicamente nudo,
spogliato, ferito proprio come simbolo di sofferenza e di esclusione.
Tra il 1980 e il 1981 la critica d’arte italiana Lea Vergine realizzò una mostra dal titolo
“L’altra metà dell’avanguardia” che fu presentata a Milano, Roma e Stoccolma, esibendo
quattrocento lavori di oltre cento artiste europee, russe e americane, appartenenti alle
avanguardie storiche; proprio quando, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni
Ottanta, il femminismo si stava diffondendo in tutto il mondo.
Carolee Schneemann ha iniziato la produzione del suo celebre “Eye Body” (una complessa
installazione/performance) nel 1963. L’artista non ha mai partecipato attivamente a gruppi
e movimenti, anche se è spesso stata associata al movimento Fluxus di George Maciunas.
Schneemann negli anni Cinquanta aveva iniziato a dipingere e ad assemblare oggetti
secondo un’estetica New Dada. In “Eye body” l’artista ha creato un “loft environment” pieno di
specchi rotti, ombrelloni motorizzati e unità di colore che avevano la funzione di dare ritmo
alla scena. Lei stessa si ricoprì di vari materiali, tra cui grasso, gesso e plastica, per diventare
un’opera d’arte vivente. In questo spazio ha creato 36 “azioni trasformative”, fotografate
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dall’artista islandese Errò. L’azione con due serpenti che strisciano sul suo corpo nudo e la
messa in primo piano degli organi sessuali, suscitò un grande scandalo, ma faceva parte
della sua idea di “erotismo arcaico”. Schneemann ha sempre sostenuto che in quel momento
non conosceva il simbolismo del serpente nelle culture antiche, come la minoica Dea dei
serpenti. L’artista Valie Export ha notato che “Eye Body”, per il modo in cui Schneemann
ritrae “come i frammenti casuali della propria memoria e gli elementi personali disposti
nella sua installazione sono sovrapposti nella percezione”, è un’opera fondamentale per la
storia della Performance art. Nel 1964 l´artista realizza un altro lavoro fondamentale, “Meat
Joy”, una performance centrata attorno a otto figure parzialmente nude che danzavano e
giocavano con vari oggetti e sostanze tra cui vernice fresca, salsicce, pesci e polli crudi, pezzi
di carta. La prima rappresentazione fu a Parigi e fu poi girato, fotografato e interpretato
dal suo gruppo Kinetic Teatro al Judson Memorial Church di New York. La Schneemann
ha descritto “Meat Joy” come un rito erotico dionisiaco, una celebrazione della carne
come materia vivente, in effetti è un vero e proprio happening in cui conta maggiormente
l’ideazione, mentre in fase esecutiva gli attori improvvisano. La sua “Letter to Lou Andreas
Salomé” (1965), una sorta di assemblaggio alla Joseph Cornell, ha espresso gli interessi della
Schneemann verso la filosofia, combinando le scritture di Nietzsche e Tolstoj con una forma
New Dada alla Rauschenberg.
Nel 1964, ha iniziato la produzione del suo film “Fuses”, terminato solo nel 1967. “Fuses”
ritrae Carolee Schneemann e il suo fidanzato di allora James Tenney, fare sesso senza
inibizioni davanti ad una cinepresa Bolex a 16 mm. L’artista è poi intervenuta sulla pellicola
colorando, bruciando e disegnando direttamente sulla celluloide, mescolando i concetti di
pittura e collage. I frame sono stati modificati insieme a velocità variabile e si sovrappongono
alle immagini fotografiche della natura, giustapposte alle immagini del suo corpo nudo
e agli atti sessuali. “Fuses” è stata motivata dal desiderio di Schneemann di sapere se la
raffigurazione da parte di una donna dei propri atti sessuali, fosse qualcosa di diverso dalla
pornografia e dall’arte classica. In effetti è considerato un film proto-femminista, in cui la
visione della pornografia maschile viene sovvertita. Due anni dopo “Fuses” vinse il premio
Selezione Speciale della Giuria al Festival del cinema di Cannes.
VALIE EXPORT è un artista austriaca che nel 1967 cambiò il suo nome da Waltraud Höllinger
a VALIE EXPORT (scritto a lettere maiuscole), dal significato di: “esportatrice di valori e di
trasformazioni politiche e sociali”, negando il cognome paterno e del marito. In questo modo
voleva riferirsi al logo della famosa marca di sigarette austriache “ Smart Export “. L’artista
intendeva usare le sigarette come simbolo di un piacere che si consuma velocemente;
inoltre fumare per le donne in quegli anni voleva dire manifestare trasgressione al pari della
sessualità esplicita, esibita come puro piacere e senza alcun valore legato alla famiglia e alla
società. Uno degli elementi e simboli della trasgressione occidentale era il tatuaggio, per
questo VALIE EXPORT si tatuò nel 1971, quando questa pratica era solamente maschile
e legata ai carcerati, delinquenti o marinai. La sua idea iniziale era di tatuarsi un serpente
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che si snodava su per la schiena fino alle spalle e alla guancia, ma il tatuatore si oppose alla
realizzazione del disegno, considerato troppo eccessivo per una donna.
Nel 1968 realizzò la sua performance più celebre (ripresa da Marina Abramović in “Seven
Easy Pieces”) dal titolo “Genitalpanik” (Panico genitale). VALIE EXPORT entrò in un cinema
a luci rosse a Monaco di Baviera, con pantaloni tagliati nella zona inguinale mostrando al
pubblico la vulva. Le fotografie in ricordo dell’azione, vennero scattate nel 1969, un anno
dopo, a Vienna, dal fotografo Peter Hassmann.
La performance al cinema e le fotografie sono sempre state rivolte a un pubblico
principalmente maschile, affinché fosse stimolato a riflettere sul ruolo passivo delle donne
nel cinema. Nelle azioni della EXPORT il corpo femminile era una vera e propria arma che la
donna-artista adoperava in totale libertà e senza condizionamenti di altro tipo. La donna si
offriva spontaneamente e gratuitamente, usciva fuori dallo schema del corpo in vendita che
la relegava ad un ruolo subalterno e non da protagonista.
Gina Pane ha iniziato a lavorare con il linguaggio del corpo già nel 1968, la sua idea è stata
quella di donare il proprio corpo e il proprio sangue al pubblico come un gesto di amore. La
prima “Azione” in cui si è ferita è stata “Escalade” (1971): “I miei lavori erano basati su un certo
tipo di pericolo. Arrivai spesso ai limiti estremi, ma sempre davanti a un pubblico. Mostravo
il pericolo, i miei limiti, ma non davo risposte. Il risultato non era vero e proprio pericolo, ma
solo la struttura che avevo creato. E questa struttura dava all’osservatore un certo tipo di
shock. Non si sentiva più sicuro. Non gli davo nulla.[...] Nel mio lavoro il dolore era quasi il
messaggio stesso. Mi tagliavo, mi frustavo e il mio corpo non ce la faceva più.[...]”. Gina Pane
ha legato il suo lavoro a una visione laica e spirituale del sacrificio; i suoi omaggi ai santi
riprendono la figura del Cristo come colui che dona se stesso agli altri.
Marina Abramović è diventata un simbolo della Body art sia per la sua continuità e resistenza
fisica in un tipo di arte così impegnativo, sia per la sua capacità di diventare lei stessa Body
art. Ha cominciato la sua attività di artista nella sua terra d’origine, la Serbia, completando
gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Belgrado nel 1972. Ha iniziato a lavorare in Italia
nel 1974, presentando la performance “Rhythm 4” a Milano presso la Galleria Diagramma
e nel 1975 con “Rhythm 0” presso lo Studio Morra a Napoli. Fondamentale è stata la sua
partecipazione alla “Settimana internazionale della performance” di Bologna del 1977 e
1978, in cui furono realizzate storiche performance come “Imponderabilia” con il compagno
di vita del tempo, l’artista tedesco Ulay. Sicuramente Marina Abramović, che si definisce
“the grandmother of performance art”, è la figura di riferimento del movimento, l’artista più
conosciuta anche perché nel 1997 ha ricevuto il Leone d’Oro a Venezia per “Balkan Baroque”
e nel 2010 ha realizzato la celebre “The Artist is Present”, la personale al MoMA di New York
tenutasi dal 14 marzo al 31 maggio 2010, in occasione della quale l’artista è stata immobile,
in silenzio, seduta davanti a un tavolo per molte ore al giorno, a incontrare gli sguardi del
pubblico, che quasi come in un solenne rituale pagano, le si avvicinava lentamente sedendosi
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di fronte, per tutto il tempo che riteneva necessario.
La stessa rivolta verso il ruolo della donna nella società, è presente anche nel lavoro di Orlan,
artista francese nata nel 1947, diventata famosa per le operazioni di plastica facciale e di
chirurgia estetica, con cui ha modificato il proprio corpo. Orlan che da un lato appartiene alla
tradizione della Body art classica, ha iniziato nel 1964 le sue attività performative, dall’altro
ha sviluppato una personalità straordinaria adoperando il proprio corpo come linguaggio di
comunicazione. La sua linea di ricerca riguarda il corpo post-organico, l’ibridazione tra natura
e tecnologia. Dal maggio 1990 difatti, si è sottoposta a una serie di operazioni chirurgiche,
dal titolo complessivo “The Reincarnation of Saint Orlan”, con lo scopo di trasformarsi in un
nuovo essere simile ai modelli classici quali Venere, Diana, Europa, Psyche e la Gioconda.
Orlan rivendica in sostanza la possibilità di riprogettarsi, oltre le imposizioni restrittive del
controllo legale (uno dei problemi da affrontare è considerato da Orlan quello della propria
identità giudiziaria e del cambiamento di registrazione all’anagrafe per il quale nel 1997
ebbe problemi con la polizia danese) e di riflettere e far riflettere in modo problematico sugli
orizzonti di trasformazione nel mondo, alla luce dei cambiamenti indotti dalla tecnologia e
dalla nuove possibilità chirurgiche.
Di lei è stato detto che “combinando insieme l’iconografia barocca, la tecnologia medica e
informatica, il teatro e le reti di comunicazione di massa, il suo lavoro sfida la concezione
tradizionale di bellezza e il concetto occidentale di identità e alterità”. È del 21 novembre
1993 a New York la sua settima operazione chirurgica-performance nel corso della quale
si è fatta apporre due impianti di silicone al lato della fronte, creando così due visibili
protuberanze simili a piccole corna. Nel caso di Orlan le opere consistono spesso nelle
documentazioni delle sue operazioni, in certi casi l’artista ha conservato i propri reperti
organici post chirurgici come vere e proprie reliquie. Recentemente ha realizzato delle
fotografie “alla Cindy Sherman”, interpretando più ruoli e personaggi. Ma l’attività di Orlan
spazia anche dalla scultura alla pittura; da anni sta portando avanti il progetto di un film con
il regista cult americano David Cronenberg, che si annuncia epico.
Tutto il lavoro dell´artista francese Sophie Calle (nata nel 1953) è basato sull’indagine dei
sentimenti umani. Nel 1979 con “Les dormeurs” ritrae conoscenti e amici nel proprio letto,
mettendo in evidenza la similarità che c’è tra tutte le persone. Fotografa, scrive le sue
osservazioni, con un atteggiamento molto distaccato ma preciso, puntuale. La moglie di un
famoso gallerista è stata una dei protagonisti del lavoro, e da quel momento il suo ingresso
nel mondo dell’arte è diventato ufficiale. Artista tra le principali della Narrative art, la Calle
costruisce negli anni Ottanta un universo voyeuristico. A Venezia si fa assumere come donna
delle pulizie e realizza la serie intitolata “Hotel”, osservando gli ospiti dell’albergo, oppure
segue per le calli uno sconosciuto dopo una festa. L’artista osserva l’umanità attorno a
lei, invece ne “La filature” si fa pedinare da un detective realizzando alla fine un lavoro nel
quale le sue fotografie vengono poste accanto a quelle scattate dall’investigatore privato.
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Oppure ricostruisce l’identità di una persona dopo aver trovato un carnet d’adresses per
strada. Casualità e progettualità sono fondamentali nel suo lavoro, sempre teso a stabilire
un contatto con realtà quotidiane ma diverse dalla vita di tutti i giorni. Nel 2007 alla Biennale
di Venezia presenta “Prenditi cura di te”, in cui la mail di un uomo che la abbandona e
le dice “Prenditi cura di te” viene affidata per la riposta, a 107 donne dai differenti profili
professionali e intellettuali. In pratica delega il suo ruolo ad altre donne che hanno analizzato
la lettera e l’hanno commentata. È stato un modo per violare con consapevolezza la propria
privacy e condividere una scelta, dando una risposta collettiva. Sempre alla 52esima
Biennale, questa volta per il Padiglione Italia, ha realizzato “Pas pu saisir la mort” (Non ho
potuto scegliere la morte) in cui ha fotografato la morte della madre avvenuta proprio
quando stava per partire per Venezia. Sophie Calle, coerente con la sua poetica, ha scelto
proprio il momento finale della vita, in genere privato, per documentare la scomparsa della
madre. Prima di quel momento non l’aveva mai ritratta e la donna non l’aveva apprezzato.
Quando la madre vide che la figlia stava posizionando ai piedi del letto la macchina
fotografica, esclamò: “Finalmente”.
Con Cindy Sherman cambia la prospettiva della Performance art: l’artista diventa non solo
l’attrice diretta dei lavori, ma costruisce e realizza anche tutta l’impostazione dell’immagine.
Le azioni sono costruite secondo un preciso layout, non vi è un fotografo esterno che
documenta quello che accade, è tutto programmato e previsto. E questo non è soltanto
un motivo per accentuare la spontaneità della performance e il fatto che ci sia soltanto
il concetto di un’azione performativa, ma che invece ci troviamo all´interno di un codice
linguistico legato all’immagine e non all’evento. La straordinaria serie dei “Film Still” (1970)
riprende molte tematiche dell’universo femminile rispetto al senso del pericolo, dell’angoscia
urbana, della solitudine, ma le porta sul piano di una produzione di icone contemporanee
attraverso il medium fotografico. Certamente il suo esempio è stato un paradigma che, con
declinazioni personali, altre artiste hanno preso a modello. Tra le giovani sicuramente Silvia
Camporesi ha creato un proprio universo molto delicato e poetico, abitato da lei stessa
in una chiave più intimista e quasi teatrale. Più corporea e provocante la triestina Odinea
Pamici, che gioca con gli stereotipi femminili, con i simboli del matrimonio e della cucina
come spazio consacrato alla donna dalla tradizione.
L’ erede più importante delle grandi body artiste come Ana Mendieta (moglie di Carl Andre
artista minimalista americano) e della stessa Marina Abramovic, è Regina José Galindo, artista
guatemalteca nata nel 1974. Il suo lavoro riprende con energia proprio la denuncia della
violenza continua contro le donne, con una protesta a 360 gradi contro i retaggi culturali,
politici e sociali. Nelle sue performance, che definisce «atti di psicomagia», a sottolinearne
la carica emotiva e la sofferenza di cui si fanno portatrici, l’artista opera con gestualità
aggressiva sui propri limiti fisici e psicologici, trasformando così il proprio corpo nel teatro di
un conflitto permanente, esemplificando i drammi vissuti dal popolo guatemalteco e dalla
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società umana in generale. Partecipa alla Biennale di Venezia nel 2001 e 2003 mettendo
in scena “¿Quién puede borrar las huellas?” (Chi può cancellare le orme?), performance in
cui attraversa Città del Guatemala a piedi nudi, fermandosi di tanto in tanto per immergerli
in un bacile di sangue umano e lasciando orme insanguinate come atto di denuncia
contro la ricandidatura del generale ex dittatore Efraín Ríos Montt alla presidenza del
Guatemala. Nel 2005 vince il Leone d’oro come giovane artista alla Biennale di Venezia con
una performance straordinaria dal titolo “Himenoplastia” (Imenoplastica), che centra l’idea
ufficiale e istituzionale della verginità come requisito necessario per una donna a sposarsi ed
essere inserita nella società. Due anni dopo, presso la Fondazione Volume! a Roma, realizza
la performance “Cepo” (Ceppo), incatenandosi per un’intera notte al muro che costeggia
l’adiacente carcere di Regina Coeli, per creare un parallelismo con la condizione dei detenuti
al di là del muro. Non a caso un lavoro del 2014 s’intitola “Estoy viva” (Sono viva), come a dire
che nonostante tutte le violenze subite, l’artista continua ad essere presente con la sua forza
spirituale e il suo credo politico.
Il corpo e la performance come linguaggio corporale, sono i protagonisti di un evento
culturale che serve a saldare gli orizzonti dell’azione estetico-teatrale con la ricerca
artistica, non solo aprendo sul pubblico attuale una finestra di memoria storica, ma anche
avvicinandolo alla dimensione della corporeità come strumento di espressione e di dialogo.
Le donne hanno saputo cogliere l’occasione per una liberazione totale e finalmente
affermare, anche in campo artistico, una presenza femminile altrimenti negata.
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WOMEN IN ACTION
Valerio Dehò
Ab den 1950 Jahren, vor allem aber in den 1960er Jahren nahm der Körper in den
künstlerischen Erkundungen einen zentralen Stellenwert ein. Speziell in der Body Art
wurde die Sprache des Körpers erkundet, die auf einem Zeichenkomplex basiert, dessen
Substanz und Wesen der Gestus ausmacht. Der Einsatz des Körpers war ein Weg, um
zu einem direkten Dialog mit dem Publikum, zu einer sinnlichen, taktilen Beziehung
zum Anderen zurückzufinden. Die Künstler erteilten jedweder Repräsentation und dem
Artefakt eine Absage: Sie wollten Leben und Kunst vereinen, provozieren, sie selbst sein,
gefährliche Kunst praktizieren, auch auf die Gefahr hin, das eigene Leben dabei aufs Spiel
zu setzen. Die Schlagworte der Happenings, Performances und Aktionen standen Pate für
Veranstaltungen, Künstlergruppen und Festivals, die in jenen Jahren überall auf der Welt
entstanden und Ausdruck eines Zeitgeistes waren, der sich nur schwer wiederholen lässt.
In Japan widmete sich die Gutai-Gruppe einer Kunstform, die mit „Aktionsmalerei“ zu tun
hatte. 1955 sprang Katsuo Shiraga in einen nassen Schlammhaufen. Halb nackt wälzte
er sich darin und gab damit vor Publikum die Prinzipien der Schönheit und Reinheit der
fernöstlichen Kultur preis. 1956 stellte Saburo Murakami sieben mit Papier bespannte
Rahmen in eine Reihe, nahm Anlauf und sprang durch sie hindurch.
Drei Jahre später realisierte Allan Kaprow in den Vereinigten Staaten das HappeningEnvironment „18 Happenings in 6 Parts“, eine diskontinuierliche körperliche
Ausdrucksform, die sowohl dem Theater als auch der zeitgenössischen Kunst nahe steht.
Sie kommt ohne Szene aus und hebt den Unterschied zwischen Darsteller und Zuschauer
auf, die Handlung erscheint als Sequenz und als Sammelsurium von Gesten. Wie die
Drippaintings sind Happenings gleichsam Bilder, aber nicht mit Farbe gemacht, sondern
mit Gegenständen und Gesten „in gewissen Zeit- und Raumeinheiten“, ein Prozess, der „im
Fluss bleiben muss und so vage wie nur möglich“, so der Künstler im Jahr 1966.
Bei seinen „Anthropometrien“ der Jahre 1960 bis 1962 verwandelte der französische
Künstler Yves Klein den Körper in einen „lebendigen Pinsel“, indem mit Farbe getränkte
Aktmodelle die Leinwand mit ihrem Körper bemalten.
Die internationale Fluxus-Bewegung, die 1962 in Wiesbaden entstand und der Künstler wie
Joseph Beuys und Yoko Ono angehörten, legte den Akzent auf ein künstlerisches Handeln,
dessen Sinn und Zweck darin bestehen sollte, die Grenzen zwischen Kunst und
Nicht-Kunst überflüssig zu machen. Sie veranstaltete Konzerte, Happenings und
Performances, war verlegerisch aktiv und in der Objekt-Produktion tätig. „Der Künstler
sollte nicht seine Kunst zum Beruf machen“, lautete das Credo von George Maciunas,
und: „Alles kann Kunst sein und jeder kann Kunst machen“. In den Fluxus-Werken und
-Happenings wurde der Körper des Künstlers als Prototyp des sozialen Körpers eingesetzt;
durch die Wiederholung von Gewohnheitsgesten wurde man aufgefordert, sich mit der
Methodologie des Alltags auseinanderzusetzen, mit den abwegigen Handlungen der
Konsumgesellschaft und mit der Verwandlung eben dieser Handlungen in TV-Werbespots
in ein Spektakel.
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Der Wiener Aktionismus entstand und entfaltete sich im Laufe der 1960er Jahre mit einer
Reihe von Body-Art-Performances, an denen sich Künstler unterschiedlicher Herkunft
beteiligten, so Hermann Nitsch, Rudolf Schwarzkogler, Günther Brus, Otto Mühl, Valie
Export, Peter Weibel (Dichter, später Kurator und Museumsdirektor) und Heinz Cibulka,
das erste Modell bei den Performances und später ebenfalls Künstler. Ein theoretisches
Manifest im engeren Sinne formulierte die Gruppe zwar nicht, aber am 1. Juni 1962 ließen
sich Adolf Frohner (der sich den Wiener Aktionisten für kurze Zeit anschloss), Hermann
Nitsch und Otto Mühl in einem Keller in der Perinetgasse in Wien einmauern. Nach der
Ausmauerung lasen sie zusammen mit dem Psychoanalytiker Josef Dvorak das Manifest
mit dem Titel „Die Blutorgel“ vor.
Die Performances von Vito Acconci in New York machten den Körper des Künstlers
zum Schauplatz von messbaren Ereignissen und einer Vielzahl von Empfindungen:
Schmerz, ausgelöst durch Bisse oder glühende Zigaretten, bis hin zu Schwankungen
des Biorhythmus; physische und psychische Abwehrreaktionen bis hin zu Eingriffen
am eigenen Körper. Nicht von ungefähr stellte er in einer Performance das Thema der
männlichen und weiblichen Sexualität in den Mittelpunkt. In der zweiteiligen Aktion
„Conversions“ (1971) mit einem Jahr Abstand zwischen den beiden Teilen erkundete
Acconci die Möglichkeit, vom Mann zur Frau zu werden: Er versengte sich die Brusthaare,
zog die Brustwarzen lang, klemmte den Penis zwischen die Eier und trainierte so lange,
bis er eine Reihe von Bewegungen wie typisch weibliches Laufen, Tanzen oder Hinsetzen
beherrschte. Ein Mann versuchte, sich wie eine Frau zu fühlen, und durchlebte die
physischen und sexuellen Veränderungen.
Vor allem in den 1960er Jahren war der Feminismus das vorherrschende Thema der
zeitgenössischen Kunst. Die Frauen führten neue, revolutionäre Inhalte in die Kunst ein.
Oft setzten sie dabei ihren Körper als Werkzeug des gesellschaftlichen Kampfes und der
Revolution der Sitten, des Lebens und der Frauenrolle in der Gesellschaft ein.
Es war eine wichtige Zeit, denn die Arbeit der Avantgarden der Sechziger und Siebziger
zeigte erste Früchte. Auch seitens der Institutionen war die Bereitschaft vorhanden,
Ausstellungen ausschließlich mit Künstlerinnen zu machen und zu unterstützen,
zumal wenn sie eine historische Dimension hatten. Es waren viele Frauen, die sich in
den 1970er Jahren mit den Mitteln der Body Art zum Ausdruck brachten, man denke
nur an Valie Export, Marina Abramović, Carolee Schneemann, Gina Pane, Rebecca
Horn, Laurie Anderson, Hannah Wilke, Orlan oder Ana Mendieta: Performances, die
Meilensteine in der Geschichte der Gegenwartskunst darstellen, in denen der weibliche
Körper in polemisierender Weise nackt, bloßgestellt, geschunden vorgeführt wurde als
Versinnbildlichung von Schmerz und Ausschluss.
1980/81 realisierte die italienische Kunstkritikerin Lea Vergine eine Ausstellung mit dem
Titel „L’altra metà dell’avanguardia“ (Die andere Hälfte der Avantgarde), die 400 Werke
von über 100 europäischen, russischen und amerikanischen Künstlerinnen vergangener
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Avantgarden versammelte und in Mailand, Rom und Stockholm gezeigt wurde – genau zu
der Zeit also, als der Feminismus sich überall auf der Welt auszubreiten begann, nämlich
Ende der Siebziger-, Anfang der Achtzigerjahre.
Carolee Schneemann startete 1963 mit der Produktion ihrer komplexen Installation und
Performance „Eye Body“. Sie war niemals in einer Gruppierung oder Bewegung aktiv, auch
wenn sie oft mit der Fluxus-Bewegung von George Maciunas in Verbindung gebracht wird.
In den Fünfzigerjahren hatte sie damit angefangen, Gegenstände in Neo-Dada-Ästhetik
zu bemalen und zu Assemblagen zu verbinden. Mit „Eye Body“ erschuf die Künstlerin
ein „Loft Environment“ aus zerbrochenen Spiegeln, motorisierten Regenschirmen und
Farbeinheiten, die die Funktion hatten, die Szene zu rhythmisieren. Sie selbst hüllte sich
in Materialien wie Fett, Kreide und Plastik ein und wurde so zum lebenden Kunstwerk. In
diesem Environment fanden 36 „Transformative Actions“ statt, die der isländische Fotograf
Errò mit der Kamera festhielt. Die Aktion, in der zwei Schlangen über ihren nackten Körper
krochen und sie ihre Klitoris zeigte, löste einen Skandal aus, dabei war sie Teil ihrer Idee
einer „archaischen Erotik“. Carolee Schneemann hat immer wieder beteuert, sie habe zu
der Zeit nichts über die symbolische Bedeutung der Schlange in alten Kulturen, etwa die
der minoischen Schlangengöttin, gewusst. Für die Künstlerin Valie Export ist „Eye Body“ ein
fundamental wichtiges Werk in der Geschichte der Performance-Kunst, weil Schneemann
nachzeichnet, „wie zufällige Bruchstücke der eigenen Erinnerung und persönliche
Elemente in ihrer Installation sich in der Wahrnehmung überlagern“. 1964 realisierte die
Künstlerin mit „Meat Joy“ eine weitere fundamental wichtige Arbeit. Bei dieser Performance
tanzten und spielten acht leicht bekleidete Darsteller mit verschiedenen Objekten
und Substanzen wie flüssiger Farbe, Würsten, rohen Fischen, gerupften Hühnern und
Papiermüll. „Meat Joy“ wurde zuerst in Paris aufgeführt und später bei einem Auftritt
ihrer Gruppe Kinetic Theater im Kunstprogramm der Judson Memorial Church in New
York gefilmt und fotografiert. Schneemann selbst beschrieb das Stück als erotischen,
dionysischen Ritus, der den Leib als lebendes Material zelebriert. Tatsächlich war es
eher ein Happening, dessen Konzipierung eine zentrale Rolle spielte, obwohl bei der
Ausführung die Darsteller improvisierten. Ihr „Letter to Lou Andreas Salome“ (1965), eine
Art Assemblage à la Joseph Cornell, brachte Schneemanns philosophische Interessen zum
Ausdruck, indem Nietzsche- und Tolstoi-Zitate mit Rauschenberg-ähnlichen Neo-DadaFormen kombiniert wurden.
1964 fing Carolee Schneemann mit den Dreharbeiten ihres Films „Fuses“ an, der erst
1967 fertiggestellt wurde. Darin zeigt die Künstlerin sich und ihren damaligen Freund
James Tenney beim Sex, aufgenommen mit einer 16-mm-Bolex-Kamera. Den Film
veränderte sie durch eine Mischung aus Malerei und Collage, durch aufgetragene
Farben, Brandspuren und direktes Zeichnen auf das Zelluloid. Teile des Films, die für
verschiedene Vorführgeschwindigkeiten editiert waren, wurden neu zusammengesetzt;
ihren und Tenneys nackte Körper und ihre sexuellen Aktivitäten überlagerte sie teilweise
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mit abgefilmten Naturfotografien. „Fuses“ war motiviert von Schneemanns Wunsch,
herauszufinden, ob die Beschreibung des eigenen sexuellen Akts einer Frau sich von
Pornografie und klassischer Kunst unterscheidet. Er wurde als „proto-feministischer“ Film
angesehen, mit dem die männliche Vorstellung von Pornografie unterwandert wird. Zwei
Jahre nach Fertigstellung gewann „Fuses“ auf dem Cannes Film Festival den Special Jury
Selection-Preis.
Valie Export ist eine österreichische Künstlerin, die 1967 ihren bürgerlichen Namen
Waltraud Höllinger gegen den Künstlernamen VALIE EXPORT eintauschte (mit der Vorgabe,
ihn nur in Versalien zu schreiben), der so viel bedeutet wie „Exporteurin von Werten
sowie von politischen und gesellschaftlichen Veränderungen“. Damit wollte sie sich nicht
nur der Nachnamen des Vaters und des Ehemannes entledigen, sondern zugleich auch
auf das Logo der populären österreichischen Zigarettenmarke „Smart Export“ verweisen.
Dahinter steckte die Absicht, die Zigarette als Symbol für schnell konsumierbaren Genuss
zu nutzen; außerdem war das Rauchen für Frauen in jenen Jahren eine klar signalisierte
Grenzüberschreitung, genauso wie die explizit von den Werten Familie und Gesellschaft
abgekoppelte, als reines Vergnügen zur Schau gestellte Sexualität. In westlichen Ländern
galten Tätowierungen als Ausdruck und Symbol der Überschreitung geltender Normen,
und so ließ sich VALIE EXPORT 1971 tätowieren, zu einer Zeit, als dies nur bei Männern
üblich war, insbesondere bei Häftlingen, Kriminellen und Seeleuten. Ihre ursprüngliche
Idee war, sich eine Schlange über den Rücken bis zu den Schultern und zu einer Wange
hinauf tätowieren zu lassen, doch der Tätowierer weigerte sich, das Motiv auszuführen,
weil er es als zu exzessiv für eine Frau hielt.
1968 führte VALIE EXPORT ihre berühmteste (von Marina Abramović in „Seven Easy Pieces“
wieder aufgegriffene) Performance mit dem Titel „Genitalpanik“ durch. Die Künstlerin ging
in ein Rotlicht-Kino nach München, bekleidet mit einer Hose, die im Schritt ein Loch hatte
und dem Publikum den Blick auf ihre Vulva freigab. Ein Jahr später entstand in Wien eine
Fotoserie in Erinnerung an diese Aktion, die der Fotograf Peter Hassmann realisierte.
Die Performance im Kino und die Fotografien waren für ein hauptsächlich männliches
Publikum bestimmt, um es zu stimulieren und zum Nachdenken über die passive Rolle
der Frau im Film anzuregen. In den Aktionen von VALIE EXPORT war der weibliche Körper
eine richtiggehende Waffe, die die Künstlerin/Frau völlig frei, ohne jede anderweitige
Konditionierung einsetzte. Die sich spontan hingebende Frau, die nichts dafür verlangte,
setzte sich über das Schema des verkäuflichen Körpers hinweg, durch das die Frau
gezwungen wird, eine unterwürfige Rolle einzunehmen, statt Protagonistin zu sein.
Gina Pane begann schon 1968, mit Körpersprache zu arbeiten, wobei sie von der Idee
geleitet wurde, dem Publikum den eigenen Körper und das eigene Blut als Geste der Liebe
zu schenken. Das erste Mal, dass sie Selbstverletzungen in einer „Aktion“ einbezog, war
1971 mit „Escalade“: „Meine Arbeiten gründeten auf einer bestimmten Form von Gefahr.
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Ich kam oft an eine äußerste Grenze, allerdings immer vor Publikum. Ich zeigte auf die
Gefahr, auf meine Grenzen, aber Antworten gab ich nicht. Das Ergebnis war keine echte
Gefahr, sondern nur die Struktur, die ich geschaffen hatte. Und diese Struktur versetzte
dem Zuschauer einen gewissen Schock. Er konnte sich nicht mehr sicher fühlen. Ich
schenkte ihm nichts. […] In meiner Arbeit war der Schmerz gewissermaßen die Botschaft.
Ich schnitt mir in die Haut, ich peitschte mich aus, bis mein Körper nicht mehr konnte.“
Gina Pane verband ihre Arbeit mit einem laizistischen und spirituellen Begriff des Opfers;
in ihren Huldigungen an Heilige griff sie auf die Figur Christi als denjenigen zurück, der sich
selbst für die anderen hingegeben hat.
Marina Abramović ist zum Sinnbild der Body Art geworden. Das verdankt sich zum einen
ihrer Beständigkeit und körperlichen Ausdauer in einer so fordernden Kunstsparte, zum
anderen ihrer Fähigkeit, selbst Body Art zu sein. Sie begann schon in ihrer Heimat Serbien
als Künstlerin tätig zu sein, wo sie 1972 ihr Studium an der Akademie der Bildenden
Künste in Belgrad abschloss. Ab 1974 arbeitete sie in Italien, zeigte die Performance
„Rythm 4“ in der Mailänder Galerie Diagramma und 1975 die Performance „Rythm 0“ im
Studio Morra in Neapel. Wegweisend war ihre Teilnahme an der „Settimana internazionale
della performance“ in Bologna in den Jahren 1977 und 1978, wo denkwürdige
Performances wie „Imponderabilia“ zusammen mit dem deutschen Künstler und ihrem
damaligen Lebensgefährten Ulay stattfanden. Abramović, die sich selbst als „Großmutter
der Performance-Kunst“ bezeichnet, ist zweifellos die Referenz schlechthin und die
bekannteste Künstlerin dieses Genres, auch weil sie 1997 auf der Biennale von Venedig
den Goldenen Löwen für ihre Videoperformance-Installation „Balkan Baroque“ erhielt
und 2010 während einer Retrospektive ihrer Arbeiten im MoMA, die vom 14. März bis 31.
Mai 2010 zu sehen war, ihre berühmte Performance „The Artist is Present“ durchführte:
Während der Öffnungszeiten saß Abramović im Atrium des Museums schweigend an
einem Tisch und hielt den Blicken der Besucher stand, die sich wie in einem feierlichen
heidnischen Ritual ihr einzeln näherten, auf einem Stuhl ihr gegenüber Platz nahmen und
so lange sitzen blieben, wie sie es für nötig hielten.
Ein ähnliches Aufbegehren gegen die Rolle der Frau in der Gesellschaft findet sich
auch im Werk der 1947 geborenen französischen Künstlerin Orlan, die durch die
Veränderungen, die sie am eigenen Körper durch plastische bzw. ästhetische Chirurgie
vornehmen ließ, bekannt geworden ist. Orlan gehört einerseits der klassischen Tradition
der Body Art an – 1964 begann ihr Wirken als Performance-Künstlerin –, andererseits
entwickelte sie eine außergewöhnliche Persönlichkeit, indem sie den eigenen Körper als
Kommunikationsmedium einsetzte. Der post-organische Körper und die Hybridisierung
von Natur und Technologie bilden die Schwerpunkte ihrer künstlerischen Erkundung. Im
Mai 1990 begann Orlan sich einer Reihe von chirurgischen Eingriffen zu unterziehen, die
sie unter den komplexen Titel „The Reincarnation of Saint Orlan“ stellte; Ziel dabei ist, sich
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in ein neues Wesen zu verwandeln, das Vorbildern aus der Kunstgeschichte wie Venus,
Diana, Europa, Psyche oder Mona Lisa ähnelt. Damit fordert sie im Wesentlichen die
Möglichkeit ein, sich selbst neu zu entwerfen, und zwar über den restriktiven rechtlichen
Kontrollrahmen hinaus (eines der Probleme, die es anzugehen gilt, betrifft Orlan zufolge
die eigene rechtliche Identität und die Meldepflicht im Bürgeramt, weswegen sie 1997
Probleme mit der dänischen Polizei hatte), und auch, sich kritisch mit den Horizonten der
Transformation in der Welt vor dem Hintergrund der technologischen Veränderungen und
der neuen chirurgischen Möglichkeiten auseinanderzusetzen.
Orlan „kombiniert barocke Ikonografie, medizinische und digitale Technologie, Theater und
Massenkommunikationsnetzwerke. Auf diese Weise fordert ihre Arbeit die herkömmliche
Vorstellung von Schönheit und den westlichen Begriff der Identität und Andersheit
heraus“. Am 21. November 1993, es war ihre siebte plastische Operation-Performance,
ließ sich die Künstlerin in New York zwei Silikonimplantate in die Stirn einsetzen, zwei
Höcker, die wie kleine Hörner aussehen. Ihre Werke bestehen oft aus der Dokumentation
der chirurgischen Eingriffe an ihrem Körper, in einigen Fällen bewahrte die Künstlerin die
eigenen organischen Abfälle aus den Operationen auf, wie echte Reliquien. Vor kurzem
entstanden Fotografien nach dem Vorbild von Cindy Sherman, in denen sie mehrere Rollen
und Figuren darstellt. Ihr weites Arbeitsspektrum umfasst auch Skulpturen und Malerei,
außerdem arbeitet sie seit vielen Jahren zusammen mit dem amerikanischen Kultregisseur
David Cronenberg an einem Film, der episch zu werden verspricht.
Die Arbeit der französischen Künstlerin Sophie Calle (Jahrgang 1953) basiert ganz und
gar auf der Erkundung der menschlichen Gefühle. Für ihre erste Arbeit „Les dormeurs“
(Die Schläfer) aus dem Jahr 1979 fotografierte sie Freunde und Bekannte in ihrem
eigenen Bett und machte damit die Ähnlichkeit zwischen all diesen Menschen sichtbar.
Außerdem hielt sie ihre Beobachtungen in einer sehr distanzierten, aber präzisen und
eingehenden Weise schriftlich fest. Die Tatsache, dass die Ehefrau eines berühmten
Galeristen zu den Porträtierten gehörte, machte sie über Nacht in der Kunstwelt bekannt.
Als eine der Hauptvertreterinnen der Narrative Art konstruierte Sophie Calle in den
1980er Jahren einen voyeuristischen Kosmos. Für die Fotoserie „Hotel“ arbeitete sie als
Zimmermädchen in einem Hotel in Venedig, beobachtete die Hotelgäste oder verfolgte
Unbekannte nach einer Feier durch die Gassen. Aber nicht nur, dass die Künstlerin die
Menschen um sich herum beobachtete, für die Arbeit „The Shadow“ ließ sie sich von einem
Detektiv beschatten und stellte am Ende ihre eigenen Fotografien und die Aufnahmen
des Privatdetektivs zusammen. Oder sie rekonstruierte die Identität einer Person, deren
Adressbüchlein sie auf der Straße aufgesammelt hatte. Zufall und Konzept sind die
Grundpfeiler ihrer Arbeit, bei der sie immer den Kontakt zum Alltäglichen herzustellen
sucht, was jedoch etwas anderes ist als das alltägliche Leben. In ihrem Beitrag „Prenez soin
de vous“ 2007 auf der Biennale von Venedig stellte die Künstlerin die Trennungs-E-Mail
ihres Lebensgefährten, die mit dem Satz „Passen Sie auf sich auf“ endet, und die Antwort
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von 107 Frauen mit unterschiedlichem beruflichen und intellektuellen Hintergrund darauf
vor. Damit delegierte sie praktisch ihre eigene Aufgabe, nämlich selbst auf die Mail zu
antworten, an andere Frauen weiter, die sie interpretierten und kommentierten. Auf diese
Weise verletzte sie bewusst ihre Privatsphäre und teilte gleichzeitig ihre Entscheidung,
eine kollektive Antwort zu geben, mit anderen Menschen. Ebenfalls auf der 52. Biennale,
im italienischen Pavillon, zeigte sie ihre Fotoarbeit „Pas pu saisir la mort“ (Konnte den
Tod nicht fassen), in der sie den Tod der Mutter festhielt, die kurz vor ihrer Abreise nach
Venedig verstarb. Ihrem poetischen Ansatz folgend, wählte Sophie Calle die letzten
Augenblicke im Leben eines Menschen, die normalerweise etwas sehr Privates sind,
um das Dahinscheiden der Mutter zu dokumentieren. Die Künstlerin hatte ihre Mutter
nie zuvor porträtiert, was sie ihr übel genommen hatte. Als sie sah, wie ihre Tochter die
Kamera am Fußende des Bettes aufstellte, rief sie aus: „Endlich!“
Mit Cindy Sherman wechselte die Perspektive der Performance-Kunst: Die Künstlerin
war nicht nur die unmittelbar Ausführende, sondern konstruierte und realisierte auch
die gesamte Bildinszenierung. Die Aktionen folgen einer präzisen Choreografie, es gibt
keinen fremden Fotografen, der das Geschehen dokumentiert, alles ist vorprogrammiert,
nichts dem Zufall überlassen. Was die Spontaneität der Performance erhöht, ist dabei
nicht nur, dass das Konzept einer performativen Aktion vorhanden ist, sondern vor allem,
dass wir darin einen sprachlichen Code wiederfinden, der statt mit dem Geschehen mit
dem Bild verbunden ist. Die beeindruckende Serie „Film Still“ (1970) greift viele Themen
des weiblichen Kosmos auf – lauernde Gefahren, Angst in der Stadt, Furcht vor Einsamkeit
–, hebt sie aber durch das fotografische Medium auf die Ebene der Produktion von
zeitgenössischen Ikonen. Shermans Arbeit bedeutete einen Paradigmenwechsel, den
sich andere Künstler zum Vorbild nahmen, mit entsprechenden Variationen. Unter den
jüngeren Künstlerinnen gehört sicherlich Silvia Camporesi dazu, die sich ihren eigenen
filigranen, poetischen Kosmos erschuf, eine Art intimistisches und fast theatralisches
Interieur, das sie selbst bewohnt. Körperbetonter und provokativer ist dagegen die
Triestinerin Odinea Pamici, die mit stereotypischen Zuschreibungen spielt, mit den
Symbolen der Ehe und der Küche als dem traditionellen Ort weiblichen Wirkens.
Die wichtigste Nachfolgerin von großen Body-Art-Künstlerinnen wie Ana Mendieta
(Ehefrau des US-amerikanischen Bildhauers des Minimalismus Carl Andre) oder Marina
Abramović ist sicherlich die Guatemaltekin Regina José Galindo (Jahrgang 1974). In
ihrer Arbeit greift sie das Thema der Anprangerung der nicht enden wollenden Gewalt
gegen Frauen energisch mit einem Rundumschlag gegen die kulturellen, politischen und
sozialen Vermächtnisse auf. In ihren Performances, die sie selbst als „psychomagische
Akte“ bezeichnet, um auf die emotionale Belastung und das Leid zu verweisen, die dort
vermittelt werden, lotet die Künstlerin mit aggressivem Gestus die eigenen physischen
und psychischen Grenzen aus und verwandelt ihren Körper in den Schauplatz eines
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permanenten Konfliktes. Auf diese Weise exemplifiziert sie die Dramen, die das
guatemaltekische Volk, aber auch die Menschheit ganz allgemein durchmacht. 2001 und
2003 nahm die Künstlerin an der Biennale von Venedig teil wo die Performance entstand
„¿Quién puede borrar las huellas?“: Galindo lief barfuß durch Guatemala-Stadt bis zum
Präsidentenpalast und tauchte ihre Füße wiederholt in ein Becken voll mit menschlichem
Blut, um mit den blutigen Fußspuren gegen die neuerliche Präsidentschaftskandidatur des
ehemaligen Diktators José Efraín Ríos Montt zu protestieren. 2005 erhielt die Künstlerin
den Goldenen Löwen im Rahmen der Biennale di Venezia (Kategorie „Künstler unter 30“)
für ihre beeindruckende Performance „Himenoplastia“, die die offiziell und institutionell
verankerte Vorstellung der Jungfräulichkeit als notwendiges Requisit der Frau für die Ehe
und für die Aufnahme in die Gesellschaft zum Thema hat. Zwei Jahre später realisierte
Galindo in der Stiftung Fondazione Volume! in Rom die Performance „Cepo“ (svw. Fessel),
bei der sie eine ganze Nacht lang an der Mauer zum angrenzenden Gefängnis Regina Coeli
angekettet blieb, um eine Parallele zum Los der Insassen auf der anderen Seite der Mauer
zu ziehen. Eine Arbeit aus dem Jahr 2014 trägt nicht zufällig den Titel „Estoy viva“ – ich lebe,
als wollte die Künstlerin sagen: Ich bin immer noch hier, trotz aller Gewalt, die man mir
angetan hat, mit meiner ganzen Geisteskraft und meinem politischen Credo.
Der Körper und die Performance als Körpersprache stehen im Mittelpunkt eines
Kulturereignisses, das sich zum Ziel gesetzt hat, die Horizonte der ästhetischtheatralischen Aktion mit den Erkundungen einzelner Künstlerinnen zu vereinen. Dem
heutigen Publikum wird damit nicht nur ein Fenster in die Vergangenheit aufgestoßen,
sondern auch die Dimension des Körperlichen als Instrument künstlerischen Ausdrucks
und des Dialogs näher gebracht. Diese Frauen haben die Gelegenheit zu nutzen gewusst,
um absolute Freiheit zu erlangen und schließlich auch in der Kunst eine Präsenz zu
bekräftigen, die ihnen sonst verwehrt geblieben wäre.
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Yoko Ono
CUT PIECE
1965
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Yoko Ono
CUT PIECE
1965
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Yoko Ono, J.J. Lebel
ELECTION DE MISS FESTIVAL
1967
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Yoko Ono, John Lennon
BED-INS FOR PEACE
1969
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Carolee Schneemann
ICE NAKED SKATING
1972-1988
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Yayoi Kusama
Hippie having body painted
1967
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VALIE EXPORT
SMART EXPORT
1970
Ana Mendieta
UNTITLED, BLOOD SIGN #2, FROM BODY TRACKS (video, 01’01’’)
1972-1974
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Gina Pane
AZIONE SENTIMENTALE
1973
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Charlotte Moorman
PER ARCO
1984
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Charlotte Moorman
VIOLONCELLO
1989
Sophie Calle
MON AMI
1984
40
41
Jeanne Dunning
LONG HOLE
1994-1996
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Era Milivojević
WRAPPING OF MARINA ABRAMOVIĆ
Document from SKC archive
1971
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Marina Abramović
SOUND ENVIRONMENT – WHITE
Document from SKC archive
1972
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Marina Abramović
ART MUST BE BEAUTIFUL, ARTIST MUST BE BEAUTIFUL
Performance for the film notes by Lutz Becker, Produced by SKC Belgrade, Serbia
Document from SKC archive
1975
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Marina Abramović
FREEING THE VOICE
Fifth April Meetings, SKC Belgrade, Serbia
Document from SKC archive
1976
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Marina Abramović, UIay
BREATHING IN BREATHING OUT
Seventh April Meetings, SKC Belgrade, Serbia
Document from SKC archive
1977
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Marina Abramović, Ulay
IMPONDERABILIA
Museo Comunale d’Arte Moderna, Bologna
Photo: Mario Carbone
1977
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Marina Abramović
IMAGE OF HAPPINESS (FROM PERFORMANCE DELUSIONAL)
1994
Marina Abramović
BALKAN BAROQUE
1997
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Orlan
DOCUMENTARY STUDY N° 5, LE DRAPE-LE BAROQUE OR SAINT ORLAN WITH A CROWN
AND BOUQUET OF YELLOW FLOWERS
1983
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Orlan
SMILEY BLOOD TEST WITH A HARLEQUIN’S HAT, 5TH SURGERY-PERFORMANCE TITLED
OPERATION-OPERA
1991
Orlan
SECOND MOUTH, 7TH SURGERY-PERFORMANCE TITLED OMNIPRESENCE
1993
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Shirin Neshat
PULSE
2001
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Odinea Pamici
BALLO CON IVONNE
2005
Silvia Camporesi
IL SALE DEL PENSIERO (THE SKY WALKER)
2006
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Regina José Galindo
PERRA (video 5’25’’)
2005
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Regina José Galindo
XX (video XX (I) 8’43’’, XX (II) 7’32’’, XX (III) 2’57’’)
2007
Regina José Galindo
TIERRA (video 33’56’’)
2013
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Yoko Ono, Cut Piece, 1965
Cut Piece, una delle prime opere di arte femminista, fu inizialmente messo in scena nel
1964 in Giappone, una delle tante azioni performative che fece come DIAS (Distruzione
nel Simposio dell’Arte). Ono ripeté la performance al Carnegie Hall, a New York, nel 1965.
Yoko Ono si inginocchia sul pavimento e posa a terra un paio di forbici. Il pubblico è
invitato ad avvicinarsi e tagliare qualunque parte dei suoi vestiti. La performance cominciò
educatamente ma diventò via via minacciosa, nel momento in cui i suoi vestiti furono ridotti a
brandelli e lei stava inginocchiata in biancheria intima. Cut Piece comporta un denudamento
fra esibizionismo e voyerismo, fra vittima e oppressore, fra sadico e masochista: e, in
quanto eterosessuale, Ono rivelò la relazione di genere fra uomini e donne come oggetti
reciproci. Il lavoro di Ono collega la distruzione alle relazioni interpersonali, spesso intime.
Quest’elemento era particolarmente stimolante in Cut Piece.
Yoko Ono e J.J. Lebel, Election de Miss Festival, 1967
La performance interruppe una tavola rotonda al Festival del cinema a Knokke-le-Zoute in
Belgio nel 1967. Era concepita come un confronto all’americana per una identificazione della
polizia. I partecipanti erano nudi e avevano a disposizione un cartello per coprire una parte
del corpo a loro scelta. Alla performance seguì immediatamente una dimostrazione contro la
guerra in Vietnam.
Yoko Ono e John Lennon, Bed-Ins for Peace, 1969
Con lo scoppio della Guerra del Vietnam, Ono e Lennon organizzarono nel ’69 la
performance Bed-ins for Peace per due settimane, una all’Hilton Hotel ad Amsterdam e una
a Montreal. Era intesa come protesta non violenta contro la guerra, un test sperimentale di
nuovi metodi per promuovere la pace. La coppia sapeva che il loro matrimonio, che ebbe
luogo il 20 Marzo 1969, avrebbe ricevuto ampia copertura dalla stampa, dunque decisero di
sfruttarne la pubblicità per promuovere la pace nel mondo.
Carolee Schneemann, Ice Naked Skating, 1972 – 1988
Alla fine degli anni ’50 Carolee Schneemann dipingeva utilizzando uno stile espressionisticofigurativo. Influenzata dagli ‘happening’ di Allan Kaprow, sposta la sua ricerca dalla pittura al
corpo, la sua relazione con la società, la sessualità e il genere. Dal 1960 inizia ad utilizzare
il suo corpo nudo come parte delle opere d’arte sostenendo che esso sia un materiale a
completa disposizione dell’artista. Gradualmente inizia a lavorare con l’assemblaggio di parti
motorizzate in movimento, che l’artista chiama “teatro cinetico”. In Ice naked Skating l’artista
è raffigurata mentre pattina sul ghiaccio nuda. Il corpo nudo dell’artista diventa una parte
dell’opera, Schneeman si mostra al contempo come soggetto e oggetto, artista e opera.
“Volevo che il mio corpo fosse una cosa sola con l’opera d’arte, un materiale integrato –
una dimensione ulteriore della costruzione… Io sono sia la creatrice dell’immagine, che
l’immagine stessa. Il corpo deve essere erotico, sessuale e desiderabile; lussurioso, ma alla
stesso tempo sacrificato, è segnato, ricoperto da pennellate ed espressioni, un’invenzione
della mia volontà creativa femminile.”
Yayoi Kusama, Hippie Having Body Painted, 1967
Durante gli anni ’60 Kusama organizzò happening di forte impatto in luoghi molto frequentati
come Central Park e il Ponte di Brooklyn, che prevalentemente comprendevano soggetti nudi
ed erano create per protestare contro la Guerra del Vietnam. Fra il ’67 e il ’69 si concentra
su performance, sostenute da una grande azione pubblicitaria, che spesso consistevano
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in Kusama che dipingeva pois sul corpo nudo dei suoi performer. I primi due giorni del
Settembre 1967, Kusama portò il suo pubblico al Chrysler Museum a Provincetown,
Massachusetts, dove pubblicizzò lo slogan “Il corpo è Arte”. I giornali locali lo presentarono
come un modo per “far diventare Arte le persone” e la TV di Boston lo trasmise a Boston
e a New York. Grazie a queste performance, Kusama divenne un personaggio pubblico,
non semplicemente un’artista eccentrica nel circolo chiuso dell’avanguardia. Era vista come
rappresentante della cultura hippie e psichedelica del Greenwich Village.
VALIE EXPORT, Smart Export, 1975
L’artista, nel 1967, cambiò il suo vero nome in VALIE EXPORT (scritto in lettere maiuscole)
come un logo artistico, disfacendosi dei nomi paterni e maritali e appropriandosi di un
brand di sigarette per il suo nuovo cognome. “Non volevo più portare il nome di mio padre
(Lehner), né quello del mio ex marito Hollinger… Il pacchetto di sigarette era un design e
uno stile che potevo usare, ma non era l’ispirazione.” La femminista austriaca si rese conto
che negli anni ’70 c’era ancora una generazione di austriaci la cui attitudine verso le donne
si basava sull’ideologia nazista. Inoltre avevano da affrontare la colpa dei loro genitori,
condiscendenti con il regime. VALIE EXPORT, prima della sua rivoluzione politica e artistica,
era stata madre e moglie.
Ana Mendieta, Blood Sign #2, From Body Tracks, 1972-74
Il video ha inizio con Mendieta in piedi contro il muro in atteggiamento sacrificale, con le
braccia sollevate stese in una V. Poi, lentamente, scivola lungo il muro fino ad inginocchiarsi,
quindi si alza, guarda nell’obiettivo e cammina fuori dall’inquadratura, lasciando dietro di sé
i segni rossi delle mani insanguinate. In parte performance, in parte dipinto, l’azione di Blood
Sign #2 rivela un’immagine minimalista evocativa di un albero o di un’altra forma ascendente.
Nonostante le caratteristiche iniziali di pena, sofferenza e morte, l’azione della Mendieta si
trasforma in un simbolo di vita, speranza e crescita.
Gina Pane, Azione Sentimentale, 1973
La performance era composta di diverse parti, che illustravano, attraverso l’automutilazione, la dimensione cattolica del martirio. Gina Pane, con una compostezza distintiva
e un’attitudine razionale, usò la sofferenza come mezzo per rappresentare la spiritualità,
conferendo alla performance una profonda carica emotiva e simbolica. Vestita di bianco
e in mano un bouquet di rose rosse, Pane procedette a rimuovere le spine dalle rose,
premendole nelle proprie braccia ed infine estraendole per lasciar scorrere un rivolo di
sangue. Le rose rosse del bouquet diventano bianche. A quel punto l’artista si tagliava con
la lama di un rasoio. Queste ferite superficiali servivano ad esprimere la fragilità del corpo,
e il sangue, l’energia vitale, che contiene. “Mi ferivo ma non mi sono mai mutilata…la ferita?
È al centro di un processo d’identificazione, registrazione e localizzazione di un particolare
malessere.”
Charlotte Moorman, Per Arco, 1984
La performance ha avuto luogo ad Asolo nel 1984, ed è stata fotografata da Giuseppe Chiari.
Charlotte, come una musa, suona il violoncello nella natura. La performance non era
solo una ricerca sulle art media e il senso dell’arte, ma anche su quello che è lo spazio
più adeguato per l’arte. Per questo motivo la Moorman suona il violoncello in uno spazio
all’aperto.
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Charlotte Moorman, Violoncello, 1989
Dopo il 1967, Charlotte Moorman fu conosciuta dai media Newyorkesi come “la violoncellista
in topless”. Donna bella e musicista classica, si guadagnò la notorietà suonando una
composizione per violoncello a seno nudo per l’artista d’avanguardia Nam June Paik.
Alcune delle pièce più famose della Moorman, molte delle quali tacciate come scandalose
al momento della messa in scena, sono Sonata per violoncello N.1 solo per adulti nel 1965;
TV Bra for Living Sculpture (Reggiseno TV per scultura vivente) nel 1969, in cui indossava
un reggiseno costruito con due piccoli televisori; Global Groove (Ritmo Globale), una video
performance del 1973, e nel 1971 la pièce di Nam June Paik, generalmente nota come Il
Violoncello TV, in cui la Moorman suonava un violoncello composto da tre televisori, a cui
erano state attaccate le corde. Questo particolare violoncello è formato di una serie di
collage. Il cello era il mezzo di espressione sonora e visiva dell’artista. Il colore, così come il
suono, può descrivere l’atmosfera e trasmettere sentimenti.
Sophie Calle, Mon Ami, 1984
L’arte di Sophie Calle mescola immagine e testo, ricercando la relazione fra la nostra
vita pubblica e il nostro io privato, provocando profonde risposte emotive. Il suo lavoro
rappresenta la vulnerabilità sua e del genere umano in generale ed esamina l’identità
e l’intimità. L’anno 1984 fu contraddistinto da un viaggio di 3 mesi in Giappone. La sua
partenza fu segnata dall’inizio di un conto alla rovescia di 92 giorni per la fine di una relazione
sentimentale. Fotografie di questo viaggio furono pubblicate solo nel 2005 in Exquisite Pain
accompagnate dalle storie di come cercò di superare il suo dolore chiedendo sia ad amici
che a sconosciuti dei loro dolori e dei modi per superarli.
Jeanne Dunning, Long Hole, 1994–96
Negli anni ’80 e ’90 Jeanne Dunning creò immagini col corpo, stravolgendo completamente
l’idea di gender. Fu tra le prime a usare la macchina fotografica, senza un’istruzione
formale, e ad usare la fotografia come mezzo per l’arte concettuale. Era una risposta alla
supremazia dell’espressionismo astratto, e la Dunning combatté per differenziare la scena
dell’arte a Chicago tramite nuovi mezzi e temi. Quando uscirono questi lavori causarono
doppie interpretazioni: Si tratta di un orifizio umano, o di un tunnel di mani? È la nuca di
una donna, o un ritratto di pene? Sono baffi o una vagina? Fra il 1990 e il 1994 gran parte
del lavoro della Dunning comprendeva immagini del suo corpo fotografate e ritagliate in
modo da renderle irriconoscibili. Generalmente le persone le associavano con parti molto
più provocatorie di quelle realmente fotografate. Dunning s’interessava di come qualcosa
di totalmente innocuo e comune, come una mano, poteva diventare così facilmente
straniante, estraneo ed evocativo. Ciò che era collegato al corpo sembrava problematico e
carico di idee ed aspettative contraddittorie. Utilizzare mezzi così semplici per mostrare il
corpo in modo irriconoscibile e ambiguo sembra suggerire che il nostro rapporto con esso
è molto più complesso di quanto normalmente pensiamo. In Long Hole la mano crea un
buco che sembra quasi continuare nel polso ed condurre all’interno del corpo, e in questo
rappresenta la confusione fra interno ed esterno del corpo che l’artista aveva in mente.
Le Performance presso SKC, Belgrado, Serbia:
Le prime mostre e performance di Marina Abramović si tennero nel Centro Culturale
Studentesco (SKC) a Belgrado, dove negli anni ’70 faceva parte di un gruppo informale di
sei artisti, insieme a Raša Todosijević, Zoran Popović, Slobodan Milivojević, Gergej Ukrom e
l’allora marito (dal 1971 al 1976) Neša Paripović. Marina mise in scena al centro SKC anche
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alcune delle sue performance con Ulay.
- Era Milivojević, Wrapping Of Marina Abramović, Skc, Belgrade, 1971
Nella performance Era Milivojević, giovane artista Serbo, lega Abramović su una panchina con
un nastro adesivo. Si tratta della prima performance a cui lei abbia partecipato.
- Marina Abramović, Sound Environment – White, Skc Belgrade, Serbia, 1972
Uno spazio rotondo e dipinto di bianco è sonorizzato con il suono della corda tirata. Il lavoro
è stato realizzato come parte della mostra Ottobre’72.
- Marina Abramović, Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful, 1975
Abramović si posiziona di fronte alla telecamera, rivolgendosi direttamente allo spettatore.
L’immagine rivela solo il suo viso e le sue mani, concentrando la sua corporalità in questi due
elementi. La performance fu registrata due volte: la prima all’SKC, la seconda ad Amsterdam.
Abramović ripete continuamente un’azione vista come tipicamente femminile,
reinterpretandola nel contesto della storia dell’arte: l’artista si pettina i capelli con forza,
senza fermarsi, per più di 50 minuti, finché inizia a farsi male. In questo arco di tempo ripete
come un mantra la frase “l’arte deve essere bella, l’artista deve essere bella”. La ripetizione
costante delle parole e dell’azione dà all’opera una prolungata intensità.
- Marina Abramović, Freeing The Voice, Fifth April Meetings, Skc Belgrade, Serbia, 1976
La premessa della performance è urlare fino a perdere la voce. Abramović, sdraiata sulla
schiena, produce un ininterrotto grido. All’inizio sembra un grido d’aiuto, dopo diventa
più introverso, poi isterico. Abramović fa appello all’intuitivo desiderio del pubblico di
rispondere ad un urlo. Davanti al pubblico l’artista mette alla prova la propria forza, sia fisica
che mentale. Il corpo viene svuotato; la mente anche. Abramović ha detto: ‘Quando si sta
gridando in questo modo, senza interruzione, all’inizio si riconosce la propria voce, ma più
tardi, quando ci stiamo spingendo oltre i propri limiti, la voce si trasforma in un oggetto “il
suono”. La voce sembra liberarsi dal corpo e riempie lo spazio.’
- Marina Abramović e Ulay, Breathing In Breathing Out, Seventh April Meetings, Skc Belgrade, Serbia,
1977
Nella prima parte della performance le loro labbra vengono premute l’una contro l’altra e
i loro nasi sono chiusi con dei filtri di sigarette. La performance dura finché entrambi non
rimangono senza ossigeno. Ulay commenta la performance: “Io inspiro ossigeno ed espiro
anidride carbonica.” Abramović: “Io inspiro anidride carbonica es espiro anidride carbonica”,
e Ulay ripete la frase di Marina. Durante i 19 minuti della Performance a Studentski Kulturni
Centar, si sente il rumore dei loro respiri. Lo scambio diretto di respiro tra i due è un’altra
tappa sulla via di simbiosi verso una singola unità. Il respiro dona la vita e diventa un
simbolo di mantenere vivi l’un l’altro, di interdipendenza e di interscambio tra il maschile e il
femminile. La seconda parte della performance ha avuto luogo nel novembre dello stesso
anno allo Stedelijk Museum di Amsterdam.
Marina Abramovic e Ulay, Imponderabilia, 1977
Giugno 1977, Galleria d’Arte Moderna, Bologna. Marina e Ulay si posizionarono nudi ai due
lati dell’ingresso alla galleria, in modo che, per entrare, il pubblico doveva infilarsi, ad uno
ad uno, nello spazio fra i due, senza poter evitare il contatto fisico. Il fattore cruciale era la
decisione, che tutti dovevano prendere, che chiunque volesse passare ed entrare nel museo
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doveva scegliere a quale dei due rivolgersi frontalmente e a chi dare le spalle. Una volta
superata la coppia lo spettatore si sarebbe reso conto di essere stato filmato da telecamere
nascoste e avrebbe visto se stesso nei monitor posizionati sul muro affiancato dal testo:
Imponderable
such imponderable human factors
as one’s aesthetic sensitivity
the overriding importance
of imponderables in determining
human conduct.
La performance avrebbe dovuto durare 3 ore, ma dopo 90 minuti fu interrotta dalla polizia.
Marina Abramović, Image Of Happiness (From Performance Delusional), 1994
Messa in scena per la prima volta in un teatro a Francoforte, la performance è divisa in
cinque sezioni, intitolate La Madre, La Regina Ratto, Il Padre, La Disco del Ratto e La Conclusione.
Ogni sezione racconta una storia e ha una specifica mise-en-scène. In La Madre, lo spazio
scenico, avvolto in tela grigia, era ricoperto da 150 ratti di plastica che squittivano se
calpestati, inoltre trovano posto in scena anche un letto di ferro e ghiaccio, uno sgabello,
una sedia di ferro e un telaio di finestra sempre in ferro. Abramović entra danzando
freneticamente su canzoni tradizionali ungheresi, prima di collassare periodicamente sulla
sedia, sul letto o sullo sgabello. Sul muro sono proiettate immagini della madre di Marina che
narrava storie della sua vita; in altri momenti la Marina sul palco raccontava storie della sua
infanzia. In La Regina dei Ratti la tela è rimossa rivelando una dozzina di ratti veri sotto ciò che
si rivela essere un palco di vetro. Abramović, ricoperta e stretta nella plastica che impedisce
i suoi movimenti, diventa la regina che racconta al pubblico tutto sui ratti, compreso come
liberarsi di loro. In Il Padre Abramović interagisce con i ratti, mentre suo padre dallo schermo
al di sotto del palco racconta storie della guerra.
In La Disco dei Ratti i ratti sono soli sul palco con della musica che suona. Alla fine, Abramović
compare nuda per l’ultima parte, in cui si muove in avanti nello spazio fino a raggiungere
il limite del palco. Poi preme col piede per aprire il vetro frontale. Si spengono le luci e la
performance termina. C’è una sensazione di confessione nella performance, che affronta
storie personali di sofferenza, vergogna e perdita. L’uscita dallo spazio sottostante il palco
simboleggia la fuga dell’artista dalle difficoltà, dal dolore e dalle ingiustizie del passato, che in
ogni caso rimangono con lei.
Marina Abramović, Balkan Baroque, 1997
Nella performance i video sono organizzati spazialmente in un trittico, al centro si trova un
video ritratto a dimensione naturale della Abramović come un alter ego. Nella prima parte
del video la Abramović indossa un camice bianco da medico e impersona uno scienziato
zoologo che racconta la storia della creazione dei Lupi-Ratti nei Balcani, animali che, quando
si trovano in condizioni insostenibili (come gli essere umani in guerra) iniziano a distruggersi
l’un l’altro. Nella seconda parte si trasforma in una donna (una tipica cantante balcanica
da taverna) che intrattiene il suo pubblico (maschile) – ballando, come fosse posseduta, al
suono di una melodia folk. A destra e a sinistra i video ritraggono la madre e il padre, che
hanno rotto con la tradizione religiosa della famiglia cristiana ortodossa, sono diventati
partigiani, hanno fatto parte della guerra di Liberazione Nazionale (1941-1945), e si sono
iscritti al Partito Comunista. Questi sono posizionati in una stanza buia in cui a fatica si
notano tre vasche in rame piene d’acqua, a suggerire una purificazione spirituale. Abramović
compie l’atto di auto-purificazione per sei ore al giorno in quattro giorni consecutivi, lavando
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con una spazzola di metallo, sapone ed acqua, una pila di ossa bovine, ripulendole dagli
ultimi resti di carne. Questa purificazione “all’osso”, questo liberarsi della zavorra (il passato
bello o brutto, piacevole o spiacevole, personale o collettivo), diventa un lavoro individuale di
cordoglio senza il quale nessun rito di passaggio può avvenire.
Orlan, Documentary Study No 5, Le Drapé - Le Baroque Or Saint-Orlan With Crown And Bouquet Of Yellow
Flowers, 1983
La performer e icona femminista francese Orlan è nota principalmente per trasformarsi
in un’opera d’arte vivente attraverso la chirurgia plastica; ma prima di contestare gli ideali
della bellezza femminile negli anni ’90, all’inizio della sua carriera, si occupò del ruolo della
donna nella società occidentale. In queste opere offre la sua versione della Madonna, di
Venere e della Grande Odalisca. Mette in discussione l’identità femminile nell’arte, nella storia
e nel presente, focalizzandosi sull’ipocrisia del modo in cui la società ha diviso l’immagine
femminile fra Madonna e prostituta. La performance permette all’artista, mascherata da
Madonna, di costruire l’identità di Sant’Orlan. La performance, un vero e proprio test fisico
(dalle 3 alle 5 ore d’azione, in slow motion, diverse ore di trucco e per vestirsi), segue un rito
ben preciso. L’azione inizia con una processione: Orlan, avvolta da diversi metri di lenzuola
del corredo, entra su un palanchino portata da 4 o 5 uomini. Il bambino è spesso realizzato
con del pane dalla crosta blu e la mollica rossa, che Orlan mangia, a volte fino a vomitare.
Dopodiché scioglie i capelli, si strucca e scopre un seno, dando un’immagine di estasi. Infine
si mette a quattro zampe su un lungo tappeto rosso e vi si arrotola, scomparendo.
Orlan, Smiley Blood Test With A Harlequin’s Hat, 5th Surgery - Performance Titled Operation - Opera,
1991
Orlan esplora l’idea che la bellezza sia il prodotto dell’ideologia dominante, dunque quando
l’ideologia cambia, il corpo ideale si adegua. Lo dimostra utilizzando esempi dalla storia
dell’arte. I corpi di Cranach o Rubens o Hamilton non hanno le stesse forme. Questo si
ritrova anche negli standard di bellezza occidentali a cui lei si interessa e che mette in
discussione nel suo lavoro. Orlan si sottopose ad una serie di operazioni chirurgiche per
cambiare il suo aspetto fisico. In ognuna di queste, Orlan e il team medico erano vestiti da
famosi stilisti, fra cui Paco Rabanne. I costumi e gli accessori, inclusi crocifissi, frutta e fiori in
plastica e un teschio umano, erano sterilizzati. Condivise inoltre la sala operatoria con uno
spogliarellista di colore. Specialmente in questa performance, intitolata Operation-Opera,
la coreografia e i costumi ricordano quelli di una grande opera. Orlan rimane cosciente
– leggendo saltuariamente il teorico Lacan – per tutta la durata dell’operazione, usando
anestesie locali. La maggior parte degli interventi furono trasmessi live in gallerie e musei,
come il Centre George Pompidou a Parigi e la Galleria Sandra Gering a New York. Ha messo
in mostra anche le foto di sanguinosi lividi, gli occhi anneriti e le labbra gonfie, che erano la
conseguenza delle procedure.
Orlan, The Second Mouth, 7th Surgery- Performance Titled Omnipresence, New York, 1993
Omnipresence è la settima operazione chirurgica-performativa che realizza il 21 novembre
1993. Per diverse ragioni occupa un ruolo chiave nella realizzazione della reincarnazione
di Saint Orlan. Per la prima volta l’intervento non ha luogo in Francia ma a New York. È
trasmesso live a Parigi (al Centro G. Pompidou), a New York (galleria Sandra Gering), nel
centro multimediale di Banff (Canada) e nel centro Mac Luhan di Toronto. Il corpo è visibile
simultaneamente in quattro diversi posti, e Orlan può dialogare coi suoi spettatori, questo
chiarisce il titolo Onnipresenza. Un’altra novità è il chirurgo, una donna femminista, la
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Dottoressa Marjorie Kramer. Questa collaborazione libera l’artista dal simbolico parassita che
poteva essere associato alla presenza di un medico uomo, come figura di autorità maschile.
Dalla Kramer Orlan ottiene l’inserimento del maggior numero possibile di impianti. Due di
questi, normalmente utilizzati per perfezionare gli zigomi, sono posizionati sopra i sopraccigli,
a ciascun lato della fronte. Le due protesi permettono all’artista di affermare più chiaramente
il suo progetto, “usare la chirurgia estetica in modo completamente diverso, per creare
qualcosa che non è considerato bello.”
Shirin Neshat, Pulse, 2001
I video, i film e le fotografie di Shirin Neshat si confrontano con la cultura Islamica restrittiva
del suo paese natale, l’Iran, particolarmente nel modo in cui incide sulla vita delle donne.
Questo fermo-immagine dal cortometraggio Pulse offre uno squarcio nel mondo privato di
una donna iraniana. Pulse si apre con una lunga inquadratura di una donna in un momento
di solitudine, rannicchiata sul pavimento di fronte alla radio. Dalla radio si leva una voce
maschile che canta con sicura, e tuttavia contenuta, passione. Quando la macchina da presa
le è quasi sopra, lei comincia a cantare. Pulse gioca con l’idea di distanza e separazione: la
donna è separata dal soggetto autore della musica, ma allo stesso tempo tiene la voce stessa
nel suo abbraccio. Noi ci muoviamo dallo spazio esterno a quello interno.
Odinea Pamici, Ballo Con Ivonne, 2005
Il titolo dell’opera nasce da un piatto tiepido, insalata di polpo, intitolato Polpo alla Ivonne
– in un certo senso la suggestione culinaria ritorna per formare il linguaggio dell’artista.
In quest’azione artistica Pamici organizza una sorta di delirio fra materiali contrastanti: la
purezza dell’intimo nuziale con il polpo, decontestualizzato, nelle calze. Una commistione di
gioia e dolore, la dialettica degli estremi come attrazione e repulsione. Nella performance
l’artista si abbandona alla musica e la sua concentrazione nella danza diventa assoluta. Ballo
con Ivonne porta il dramma di una donna catturata e imprigionata da mille tentacoli. Pamici
vuole focalizzare l’attenzione sulla donna nell’ambiente domestico, dove a volte la vita è un
compromesso fra felicità ed infelicità, dove può prevalere il bene ma anche il male, e spesso,
il risultato è la perdita di libertà ed indipendenza…un sentirsi intrappolata.
Silvia Camporesi, Il Sale Del Pensiero (The Skywalker), 2005
Dal INDIZI TERRESTRI un racconto fotografico diviso in tre parti (Geografia / Il secondo viaggio
/ Esercizi per il ritorno) che appare agli occhi dello spettatore come un dramma in tre
atti, costruito sul bisogno di raggiungere verità e parole di senso, di riconoscimento e di
conoscenza. Geografia, a partire dal concetto di spaesamento, traccia il percorso di alcune
figure attraverso carte geografiche, reali o immaginarie, alla ricerca di punti di riferimento.
Il secondo viaggio è il riconoscimento del cammino da percorrere: la strada mostrata durante
il passaggio dal sogno alla veglia. Il sale del pensiero fa parte del finale della storia (Esercizi per
il ritorno) con quale il cerchio trova una chiusura: il viandante compie la sua ascesi, attraverso
misteri e conoscenze ermetiche arriva all’elevazione del pensiero come superamento dei
propri limiti.
Regina José Galindo, Perra, 2005
Utilizzando il proprio corpo in chiave politica e polemica l’artista esplora la dimensione
soppressa e rimossa della sofferenza, implicazioni etiche legate alle ingiustizie sociali e
culturali, le discriminazioni di razza e di sesso e più in generale tutti gli abusi derivanti dalle
relazioni di potere che affliggono la società contemporanea. In Perra la Galindo è seduta in
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una stanza vuota, incidendo con un coltello la parola ‘perra’ (cagna) sulla sua coscia. Con
questa performance, l’artista esprime la sua protesta contro la violenza continua contro le
donne nel suo paese. Galindo vede il suo lavoro come una catarsi personale strettamente
collegata alla violenza nel suo paese e come mezzo per evidenziare la lotta contro i crimini
politici, le gerarchie sociali, la segregazione e l’oppressione delle donne. L’empatia dello
spettatore per le sofferenze fisiche dell’artista si trasforma in consapevolezza del messaggio
implicito di protesta politica
Regina José Galindo, XX, 2007
L’artista ricorda i cittadini innocenti uccisi e sepolti in una fossa comune del cimitero La
Verbena a Città di Guatemala posizionando 52 lapidi con la scritta XX.
Regina José Galindo, Tierra, 2013
Nel 2012, José Efraìn Rìos Montt, ex-presidente del Guatemala, fu processato con l’accusa
di genocidio, terrorismo e tortura; questa performance di Regina José Galindo è una
reinterpretazione delle atrocità elencate nel corso del processo. Tierra ha inizio con l’artista
in piedi, nuda in un prato verdeggiante, la cui tranquillità è sconvolta da una macchina per
il movimento della terra. Qui Galindo allude a quando i cittadini innocenti furono uccisi e
seppelliti in una tomba comune scavata da un bulldozer. L’acuto contrasto fra la massa
enorme della macchina e il corpo vulnerabile dell’artista cattura l’ingiustizia del regime di
Montt, mentre l’abisso che cresce intorno a lei serve come simbolo della disperazione e
alienazione nata dalla violenza politica in generale.
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CREDITI FOTOGRAFICI:
p. 23, 24, 25, 28, 29 - © Yoko Ono
Courtesy Collezione Carlo Palli: p. 30, 31 - © Carolee Schneemann by SIAE, 2016; p. 26, 27
- © Yoko Ono ; p. 38, 39, 40 - © Charlotte Moorman
Courtesy Bettmann archive/CORBIS: p. 33 © Yayoi Kusama
Courtesy Collezione Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, comodato della
Fondazione Cassa di Risparmio di Prato: p. 34 - © VALIE EXPORT by SIAE, 2016
p. 35 - © The Estate of Ana Mendieta Collection:
Courtesy Valerio Dehò: p. 37 - © Gina Pane by SIAE, 2016
Courtesy Collezione privata, Treviso: p. 41 - Sophie Calle by SIAE, 2016; p. 42, 43 - © Jeanne
Dunning; p. 64 - © Odinea Pamici; p. 65 - © Silvia Camporesi
Courtesy SKC Archive, Belgrade: p. 44, 45, 46, 47, 48, 49 - © Marina Abramović by SIAE,
2016
Courtesy Archivio Fotografico Mario Carbone: p. 51, 52, 53 - © Marina Abramović by SIAE,
2016
Courtesy Gallery Die Maurer, Prato: p. 55 - © Marina Abramović by SIAE, 2016
Courtesy Galleria Claudio Poleschi, Lucca: p. 56, 57 - © Marina Abramović by SIAE, 2016
Courtesy Collezione Forin, Bassano del Grappa: p. 59, 60, 61 - © Orlan by SIAE, 2016; p. 62,
63 - © Shirin Neshat
Courtesy Regina José Galindo e Galleria Prometeo di Ida Pisani, Milano - Lucca: p. 66, 67 © Regina José Galindo
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COLOPHON
GESTURES
WOMEN IN ACTION
6.2.2016. - 10.4.2016.
Kunst Meran / Merano Arte
Edificio Cassa di Risparmio
Via Portici, 163, Merano
Curatore / Kurator
Valerio Dehò
123ART
Sergio Fintoni, Presidente / Präsident
Carlo Anzilotti, Vicepresidente / Vizepräsident
Simona Capecchi, Organizzazione / Organisation
Nevena Radović, Organizzazione / Organisation
KUNST MERAN / MERANO ARTE
Georg Klotzner, Presidente / Präsident
Marcello Fera, Vicepresidente / Vizepräsident
Herta Wolf Torggler, Organizzazione / Organisation
Ursula Schnitzer, Organizzazione / Organisation
Nadia Marconi, Organizzazione / Organisation
Caroline Gutberlet, Traduzioni / Übersetzungen
Paula Mair, Traduzioni / Übersetzungen
Camilla Martinelli, Lettorato / Lektorat
Ringraziamo / Dank an
Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Collezione Carlo Palli, Galleria Claudio
Poleschi, Galleria Die Maurer, Galleria Prometeo di Ida Pisani, Marcello Forin, Mario
Carbone, Stevan Vuković (SKC)
Catalogo e progetto grafico / Katalog und Grafik-Design
123ART
Stampa / Druck
Industria Grafica Valdarnese
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