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GESTURES WOMEN IN ACTION 1 2 GESTURES WOMEN IN ACTION a cura di Valerio Dehò coordinamento di Sergio Fintoni 3 4 INDICE Women in action, Valerio Dehò (italiano) 7 Women in action, Valerio Dehò (deutsch) 14 Artiste: 5 Yoko Ono 23 Carolee Schneemann 30 Yayoi Kusama 32 Valie Export 34 Ana Mendieta 35 Gina Pane 36 Charlotte Moorman 38 Sophie Calle 41 Jeanne Dunning 42 Marina Abramović 44 Orlan 58 Shirin Neshat 62 Odinea Pamici 64 Silvia Camporesi 65 Regina José Galindo 66 Opere in mostra 69 Crediti fotografici 78 Colophon 79 6 WOMEN IN ACTION Valerio Dehò A partire dagli anni Cinquanta e soprattutto nel decennio seguente, il corpo assume una centralità fondamentale nelle ricerche artistiche. Nella Body art si indaga il linguaggio del corpo, un lessico fondato su un complesso di segni di cui il gesto è la materia e l’essenza. L’uso del corpo è come una via per ritrovare una comunicazione diretta con il pubblico, un rapporto sensoriale e tattile con l’Altro. L’artista diventa ostile a qualsiasi rappresentazione, a qualsiasi artificio: vuole unire la vita con l’arte, provocare, essere se stesso, praticare un’arte pericolosa anche a rischio di mettere in pericolo la propria vita. Con i nomi di happening, performance e azioni, sono nate, in tutto il mondo e negli stessi anni, manifestazioni, gruppi d’artisti e festival a segnare uno Zeitgeist difficilmente ripetibile. In Giappone il gruppo Gutai si dedicava a un’arte legata alla “pittura-azione”. Nel 1955 Katsuo Shiraga si getta su un cumulo di fango bagnato. Semisvestito si muove in contatto diretto con la materia, mettendo in crisi dinnanzi al pubblico, i principi di bellezza e purezza che informano la cultura orientale. Nel 1956 Saburo Murakami prepara una fila di sei schermi di carta, ciascuno dei quali fissato su un telaio, quindi vi si getta contro, attraversandoli di corsa. Nel 1959 Allan Kaprow negli Stati Uniti realizzò “18 Happenings in 6 Parts”, lo spazio degli Happening, una forma di espressione corporale discontinua, a metà tra teatro e arte contemporanea. Non vi è una scena né distinzione tra attore e spettatore, la sua narrazione si presenta come sequenza e accumulo di gesti. Come i dripping, gli happening sono tessiture, non di pittura, ma di oggetti e gesti “in certe misure di tempo e di spazio”, come scrive l’artista nel 1966, che “devono rimanere il più possibile fluide e indistinte.” Nelle “Antropometrie” degli anni 1960-1962, Yves Klein, artista francese, trasformò il corpo in “pennello vivente”, con il colore che veniva steso sulla tela direttamente dal corpo umano. Il movimento internazionale Fluxus, di cui hanno fatto parte artisti come Joseph Beuys e Yoko Ono, nato a Wiesbaden (Germania) nel 1962, ha posto l’accento sull’essenzialità di un’azione artistica destinata a vanificare i confini tra arte e non arte. Fluxus ha organizzato concerti, happening, performance, attività editoriali e produzioni di oggetti. “L’artista non deve fare della sua arte una professione”, aveva dichiarato George Maciunas. “Tutto è arte e tutti possono farne”. Nelle opere e negli happening di Fluxus, il corpo dell’artista era usato come prototipo di quello sociale; la ripetizione di gesti abitudinari invitava a soffermarsi sulla metodologia del quotidiano, sui gesti snaturati della società consumistica e sulla spettacolarizzazione degli stessi negli spot pubblicitari televisivi. L’Azionismo Viennese (Wiener Aktionismus) si è sviluppato ed è cresciuto durante tutti gli anni Sessanta, con una serie di performance di Body art, che hanno raccolto artisti di diversa provenienza come Hermann Nitsch, Rudolf Schwarzkogler, Günther Brus, Otto Mühl, Valie Export, Peter Weibel (poeta, poi curatore di mostre e direttore di musei), Heinz Cibulka, prima modello delle performance e poi anche lui artista. Non vi fu un vero e proprio manifesto teorico del gruppo, ma il 1° giugno del 1962, Adolf Frohner (che aderì per breve tempo alla poetica azionista), Hermann Nitsch e Otto Mühl si fecero murare in una cantina 7 della Perinetgasse a Vienna. Quando furono liberati lessero con lo psicanalista Josef Dvorak, il manifesto teorico dell’azione, dal titolo “L’organo del sangue” (Die Blutorgel). Le performance di Vito Acconci a New York definivano il corpo dell’artista come luogo di avvenimenti misurabili con una moltitudine di sensazioni: dal dolore provocato da morsi o bruciature di sigarette, alle variazioni dei ritmi biologici; dalla resistenza fisica e psichica fino alla stessa modificazione del proprio corpo. Non a caso un sua performance pone il tema della sessualità e del maschile vs femminile come tema dominante. “Conversions” (1971) è un’azione realizzata in due versioni a un anno di distanza l´una dall´altra, in cui Acconci ha sperimentato la possibilità di passare dal maschile al femminile: bruciandosi i peli del petto, tirandosi i capezzoli, nascondendo il pene tra le cosce e allenando il corpo, a realizzare in questa posizione una serie di movimenti come camminare, danzare, sedersi. Un uomo prova a sentirsi donna, a vivere una modificazione fisica, sessuale. Soprattutto negli anni Settanta il tema del femminismo è dominante nell’arte contemporanea. Le donne portano nell’arte dei contenuti nuovi, rivoluzionari. Spesso usano il corpo come strumento di lotta sociale, per una rivoluzione dei costumi, della vita e del ruolo della donna nella società. Il periodo era importante perché il lavoro delle avanguardie degli anni Sessanta e Settanta stava producendo i primi risultati significativi. Anche le istituzioni in quel momento erano pronte ad accogliere e sostenere una mostra di sole donne, soprattutto se aveva un taglio storico. Molte erano le donne che si esprimevano negli anni Settanta con la Body art, come Valie Export, Marina Abramovic, Carolee Schneemann, Gina Pane, Rebecca Horn, Laurie Anderson, Hannah Wilke, Orlan e Ana Mendieta con performances che hanno segnato la storia dell’arte contemporanea, in cui il corpo femminile era esibito polemicamente nudo, spogliato, ferito proprio come simbolo di sofferenza e di esclusione. Tra il 1980 e il 1981 la critica d’arte italiana Lea Vergine realizzò una mostra dal titolo “L’altra metà dell’avanguardia” che fu presentata a Milano, Roma e Stoccolma, esibendo quattrocento lavori di oltre cento artiste europee, russe e americane, appartenenti alle avanguardie storiche; proprio quando, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, il femminismo si stava diffondendo in tutto il mondo. Carolee Schneemann ha iniziato la produzione del suo celebre “Eye Body” (una complessa installazione/performance) nel 1963. L’artista non ha mai partecipato attivamente a gruppi e movimenti, anche se è spesso stata associata al movimento Fluxus di George Maciunas. Schneemann negli anni Cinquanta aveva iniziato a dipingere e ad assemblare oggetti secondo un’estetica New Dada. In “Eye body” l’artista ha creato un “loft environment” pieno di specchi rotti, ombrelloni motorizzati e unità di colore che avevano la funzione di dare ritmo alla scena. Lei stessa si ricoprì di vari materiali, tra cui grasso, gesso e plastica, per diventare un’opera d’arte vivente. In questo spazio ha creato 36 “azioni trasformative”, fotografate 8 dall’artista islandese Errò. L’azione con due serpenti che strisciano sul suo corpo nudo e la messa in primo piano degli organi sessuali, suscitò un grande scandalo, ma faceva parte della sua idea di “erotismo arcaico”. Schneemann ha sempre sostenuto che in quel momento non conosceva il simbolismo del serpente nelle culture antiche, come la minoica Dea dei serpenti. L’artista Valie Export ha notato che “Eye Body”, per il modo in cui Schneemann ritrae “come i frammenti casuali della propria memoria e gli elementi personali disposti nella sua installazione sono sovrapposti nella percezione”, è un’opera fondamentale per la storia della Performance art. Nel 1964 l´artista realizza un altro lavoro fondamentale, “Meat Joy”, una performance centrata attorno a otto figure parzialmente nude che danzavano e giocavano con vari oggetti e sostanze tra cui vernice fresca, salsicce, pesci e polli crudi, pezzi di carta. La prima rappresentazione fu a Parigi e fu poi girato, fotografato e interpretato dal suo gruppo Kinetic Teatro al Judson Memorial Church di New York. La Schneemann ha descritto “Meat Joy” come un rito erotico dionisiaco, una celebrazione della carne come materia vivente, in effetti è un vero e proprio happening in cui conta maggiormente l’ideazione, mentre in fase esecutiva gli attori improvvisano. La sua “Letter to Lou Andreas Salomé” (1965), una sorta di assemblaggio alla Joseph Cornell, ha espresso gli interessi della Schneemann verso la filosofia, combinando le scritture di Nietzsche e Tolstoj con una forma New Dada alla Rauschenberg. Nel 1964, ha iniziato la produzione del suo film “Fuses”, terminato solo nel 1967. “Fuses” ritrae Carolee Schneemann e il suo fidanzato di allora James Tenney, fare sesso senza inibizioni davanti ad una cinepresa Bolex a 16 mm. L’artista è poi intervenuta sulla pellicola colorando, bruciando e disegnando direttamente sulla celluloide, mescolando i concetti di pittura e collage. I frame sono stati modificati insieme a velocità variabile e si sovrappongono alle immagini fotografiche della natura, giustapposte alle immagini del suo corpo nudo e agli atti sessuali. “Fuses” è stata motivata dal desiderio di Schneemann di sapere se la raffigurazione da parte di una donna dei propri atti sessuali, fosse qualcosa di diverso dalla pornografia e dall’arte classica. In effetti è considerato un film proto-femminista, in cui la visione della pornografia maschile viene sovvertita. Due anni dopo “Fuses” vinse il premio Selezione Speciale della Giuria al Festival del cinema di Cannes. VALIE EXPORT è un artista austriaca che nel 1967 cambiò il suo nome da Waltraud Höllinger a VALIE EXPORT (scritto a lettere maiuscole), dal significato di: “esportatrice di valori e di trasformazioni politiche e sociali”, negando il cognome paterno e del marito. In questo modo voleva riferirsi al logo della famosa marca di sigarette austriache “ Smart Export “. L’artista intendeva usare le sigarette come simbolo di un piacere che si consuma velocemente; inoltre fumare per le donne in quegli anni voleva dire manifestare trasgressione al pari della sessualità esplicita, esibita come puro piacere e senza alcun valore legato alla famiglia e alla società. Uno degli elementi e simboli della trasgressione occidentale era il tatuaggio, per questo VALIE EXPORT si tatuò nel 1971, quando questa pratica era solamente maschile e legata ai carcerati, delinquenti o marinai. La sua idea iniziale era di tatuarsi un serpente 9 che si snodava su per la schiena fino alle spalle e alla guancia, ma il tatuatore si oppose alla realizzazione del disegno, considerato troppo eccessivo per una donna. Nel 1968 realizzò la sua performance più celebre (ripresa da Marina Abramović in “Seven Easy Pieces”) dal titolo “Genitalpanik” (Panico genitale). VALIE EXPORT entrò in un cinema a luci rosse a Monaco di Baviera, con pantaloni tagliati nella zona inguinale mostrando al pubblico la vulva. Le fotografie in ricordo dell’azione, vennero scattate nel 1969, un anno dopo, a Vienna, dal fotografo Peter Hassmann. La performance al cinema e le fotografie sono sempre state rivolte a un pubblico principalmente maschile, affinché fosse stimolato a riflettere sul ruolo passivo delle donne nel cinema. Nelle azioni della EXPORT il corpo femminile era una vera e propria arma che la donna-artista adoperava in totale libertà e senza condizionamenti di altro tipo. La donna si offriva spontaneamente e gratuitamente, usciva fuori dallo schema del corpo in vendita che la relegava ad un ruolo subalterno e non da protagonista. Gina Pane ha iniziato a lavorare con il linguaggio del corpo già nel 1968, la sua idea è stata quella di donare il proprio corpo e il proprio sangue al pubblico come un gesto di amore. La prima “Azione” in cui si è ferita è stata “Escalade” (1971): “I miei lavori erano basati su un certo tipo di pericolo. Arrivai spesso ai limiti estremi, ma sempre davanti a un pubblico. Mostravo il pericolo, i miei limiti, ma non davo risposte. Il risultato non era vero e proprio pericolo, ma solo la struttura che avevo creato. E questa struttura dava all’osservatore un certo tipo di shock. Non si sentiva più sicuro. Non gli davo nulla.[...] Nel mio lavoro il dolore era quasi il messaggio stesso. Mi tagliavo, mi frustavo e il mio corpo non ce la faceva più.[...]”. Gina Pane ha legato il suo lavoro a una visione laica e spirituale del sacrificio; i suoi omaggi ai santi riprendono la figura del Cristo come colui che dona se stesso agli altri. Marina Abramović è diventata un simbolo della Body art sia per la sua continuità e resistenza fisica in un tipo di arte così impegnativo, sia per la sua capacità di diventare lei stessa Body art. Ha cominciato la sua attività di artista nella sua terra d’origine, la Serbia, completando gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Belgrado nel 1972. Ha iniziato a lavorare in Italia nel 1974, presentando la performance “Rhythm 4” a Milano presso la Galleria Diagramma e nel 1975 con “Rhythm 0” presso lo Studio Morra a Napoli. Fondamentale è stata la sua partecipazione alla “Settimana internazionale della performance” di Bologna del 1977 e 1978, in cui furono realizzate storiche performance come “Imponderabilia” con il compagno di vita del tempo, l’artista tedesco Ulay. Sicuramente Marina Abramović, che si definisce “the grandmother of performance art”, è la figura di riferimento del movimento, l’artista più conosciuta anche perché nel 1997 ha ricevuto il Leone d’Oro a Venezia per “Balkan Baroque” e nel 2010 ha realizzato la celebre “The Artist is Present”, la personale al MoMA di New York tenutasi dal 14 marzo al 31 maggio 2010, in occasione della quale l’artista è stata immobile, in silenzio, seduta davanti a un tavolo per molte ore al giorno, a incontrare gli sguardi del pubblico, che quasi come in un solenne rituale pagano, le si avvicinava lentamente sedendosi 10 di fronte, per tutto il tempo che riteneva necessario. La stessa rivolta verso il ruolo della donna nella società, è presente anche nel lavoro di Orlan, artista francese nata nel 1947, diventata famosa per le operazioni di plastica facciale e di chirurgia estetica, con cui ha modificato il proprio corpo. Orlan che da un lato appartiene alla tradizione della Body art classica, ha iniziato nel 1964 le sue attività performative, dall’altro ha sviluppato una personalità straordinaria adoperando il proprio corpo come linguaggio di comunicazione. La sua linea di ricerca riguarda il corpo post-organico, l’ibridazione tra natura e tecnologia. Dal maggio 1990 difatti, si è sottoposta a una serie di operazioni chirurgiche, dal titolo complessivo “The Reincarnation of Saint Orlan”, con lo scopo di trasformarsi in un nuovo essere simile ai modelli classici quali Venere, Diana, Europa, Psyche e la Gioconda. Orlan rivendica in sostanza la possibilità di riprogettarsi, oltre le imposizioni restrittive del controllo legale (uno dei problemi da affrontare è considerato da Orlan quello della propria identità giudiziaria e del cambiamento di registrazione all’anagrafe per il quale nel 1997 ebbe problemi con la polizia danese) e di riflettere e far riflettere in modo problematico sugli orizzonti di trasformazione nel mondo, alla luce dei cambiamenti indotti dalla tecnologia e dalla nuove possibilità chirurgiche. Di lei è stato detto che “combinando insieme l’iconografia barocca, la tecnologia medica e informatica, il teatro e le reti di comunicazione di massa, il suo lavoro sfida la concezione tradizionale di bellezza e il concetto occidentale di identità e alterità”. È del 21 novembre 1993 a New York la sua settima operazione chirurgica-performance nel corso della quale si è fatta apporre due impianti di silicone al lato della fronte, creando così due visibili protuberanze simili a piccole corna. Nel caso di Orlan le opere consistono spesso nelle documentazioni delle sue operazioni, in certi casi l’artista ha conservato i propri reperti organici post chirurgici come vere e proprie reliquie. Recentemente ha realizzato delle fotografie “alla Cindy Sherman”, interpretando più ruoli e personaggi. Ma l’attività di Orlan spazia anche dalla scultura alla pittura; da anni sta portando avanti il progetto di un film con il regista cult americano David Cronenberg, che si annuncia epico. Tutto il lavoro dell´artista francese Sophie Calle (nata nel 1953) è basato sull’indagine dei sentimenti umani. Nel 1979 con “Les dormeurs” ritrae conoscenti e amici nel proprio letto, mettendo in evidenza la similarità che c’è tra tutte le persone. Fotografa, scrive le sue osservazioni, con un atteggiamento molto distaccato ma preciso, puntuale. La moglie di un famoso gallerista è stata una dei protagonisti del lavoro, e da quel momento il suo ingresso nel mondo dell’arte è diventato ufficiale. Artista tra le principali della Narrative art, la Calle costruisce negli anni Ottanta un universo voyeuristico. A Venezia si fa assumere come donna delle pulizie e realizza la serie intitolata “Hotel”, osservando gli ospiti dell’albergo, oppure segue per le calli uno sconosciuto dopo una festa. L’artista osserva l’umanità attorno a lei, invece ne “La filature” si fa pedinare da un detective realizzando alla fine un lavoro nel quale le sue fotografie vengono poste accanto a quelle scattate dall’investigatore privato. 11 Oppure ricostruisce l’identità di una persona dopo aver trovato un carnet d’adresses per strada. Casualità e progettualità sono fondamentali nel suo lavoro, sempre teso a stabilire un contatto con realtà quotidiane ma diverse dalla vita di tutti i giorni. Nel 2007 alla Biennale di Venezia presenta “Prenditi cura di te”, in cui la mail di un uomo che la abbandona e le dice “Prenditi cura di te” viene affidata per la riposta, a 107 donne dai differenti profili professionali e intellettuali. In pratica delega il suo ruolo ad altre donne che hanno analizzato la lettera e l’hanno commentata. È stato un modo per violare con consapevolezza la propria privacy e condividere una scelta, dando una risposta collettiva. Sempre alla 52esima Biennale, questa volta per il Padiglione Italia, ha realizzato “Pas pu saisir la mort” (Non ho potuto scegliere la morte) in cui ha fotografato la morte della madre avvenuta proprio quando stava per partire per Venezia. Sophie Calle, coerente con la sua poetica, ha scelto proprio il momento finale della vita, in genere privato, per documentare la scomparsa della madre. Prima di quel momento non l’aveva mai ritratta e la donna non l’aveva apprezzato. Quando la madre vide che la figlia stava posizionando ai piedi del letto la macchina fotografica, esclamò: “Finalmente”. Con Cindy Sherman cambia la prospettiva della Performance art: l’artista diventa non solo l’attrice diretta dei lavori, ma costruisce e realizza anche tutta l’impostazione dell’immagine. Le azioni sono costruite secondo un preciso layout, non vi è un fotografo esterno che documenta quello che accade, è tutto programmato e previsto. E questo non è soltanto un motivo per accentuare la spontaneità della performance e il fatto che ci sia soltanto il concetto di un’azione performativa, ma che invece ci troviamo all´interno di un codice linguistico legato all’immagine e non all’evento. La straordinaria serie dei “Film Still” (1970) riprende molte tematiche dell’universo femminile rispetto al senso del pericolo, dell’angoscia urbana, della solitudine, ma le porta sul piano di una produzione di icone contemporanee attraverso il medium fotografico. Certamente il suo esempio è stato un paradigma che, con declinazioni personali, altre artiste hanno preso a modello. Tra le giovani sicuramente Silvia Camporesi ha creato un proprio universo molto delicato e poetico, abitato da lei stessa in una chiave più intimista e quasi teatrale. Più corporea e provocante la triestina Odinea Pamici, che gioca con gli stereotipi femminili, con i simboli del matrimonio e della cucina come spazio consacrato alla donna dalla tradizione. L’ erede più importante delle grandi body artiste come Ana Mendieta (moglie di Carl Andre artista minimalista americano) e della stessa Marina Abramovic, è Regina José Galindo, artista guatemalteca nata nel 1974. Il suo lavoro riprende con energia proprio la denuncia della violenza continua contro le donne, con una protesta a 360 gradi contro i retaggi culturali, politici e sociali. Nelle sue performance, che definisce «atti di psicomagia», a sottolinearne la carica emotiva e la sofferenza di cui si fanno portatrici, l’artista opera con gestualità aggressiva sui propri limiti fisici e psicologici, trasformando così il proprio corpo nel teatro di un conflitto permanente, esemplificando i drammi vissuti dal popolo guatemalteco e dalla 12 società umana in generale. Partecipa alla Biennale di Venezia nel 2001 e 2003 mettendo in scena “¿Quién puede borrar las huellas?” (Chi può cancellare le orme?), performance in cui attraversa Città del Guatemala a piedi nudi, fermandosi di tanto in tanto per immergerli in un bacile di sangue umano e lasciando orme insanguinate come atto di denuncia contro la ricandidatura del generale ex dittatore Efraín Ríos Montt alla presidenza del Guatemala. Nel 2005 vince il Leone d’oro come giovane artista alla Biennale di Venezia con una performance straordinaria dal titolo “Himenoplastia” (Imenoplastica), che centra l’idea ufficiale e istituzionale della verginità come requisito necessario per una donna a sposarsi ed essere inserita nella società. Due anni dopo, presso la Fondazione Volume! a Roma, realizza la performance “Cepo” (Ceppo), incatenandosi per un’intera notte al muro che costeggia l’adiacente carcere di Regina Coeli, per creare un parallelismo con la condizione dei detenuti al di là del muro. Non a caso un lavoro del 2014 s’intitola “Estoy viva” (Sono viva), come a dire che nonostante tutte le violenze subite, l’artista continua ad essere presente con la sua forza spirituale e il suo credo politico. Il corpo e la performance come linguaggio corporale, sono i protagonisti di un evento culturale che serve a saldare gli orizzonti dell’azione estetico-teatrale con la ricerca artistica, non solo aprendo sul pubblico attuale una finestra di memoria storica, ma anche avvicinandolo alla dimensione della corporeità come strumento di espressione e di dialogo. Le donne hanno saputo cogliere l’occasione per una liberazione totale e finalmente affermare, anche in campo artistico, una presenza femminile altrimenti negata. 13 WOMEN IN ACTION Valerio Dehò Ab den 1950 Jahren, vor allem aber in den 1960er Jahren nahm der Körper in den künstlerischen Erkundungen einen zentralen Stellenwert ein. Speziell in der Body Art wurde die Sprache des Körpers erkundet, die auf einem Zeichenkomplex basiert, dessen Substanz und Wesen der Gestus ausmacht. Der Einsatz des Körpers war ein Weg, um zu einem direkten Dialog mit dem Publikum, zu einer sinnlichen, taktilen Beziehung zum Anderen zurückzufinden. Die Künstler erteilten jedweder Repräsentation und dem Artefakt eine Absage: Sie wollten Leben und Kunst vereinen, provozieren, sie selbst sein, gefährliche Kunst praktizieren, auch auf die Gefahr hin, das eigene Leben dabei aufs Spiel zu setzen. Die Schlagworte der Happenings, Performances und Aktionen standen Pate für Veranstaltungen, Künstlergruppen und Festivals, die in jenen Jahren überall auf der Welt entstanden und Ausdruck eines Zeitgeistes waren, der sich nur schwer wiederholen lässt. In Japan widmete sich die Gutai-Gruppe einer Kunstform, die mit „Aktionsmalerei“ zu tun hatte. 1955 sprang Katsuo Shiraga in einen nassen Schlammhaufen. Halb nackt wälzte er sich darin und gab damit vor Publikum die Prinzipien der Schönheit und Reinheit der fernöstlichen Kultur preis. 1956 stellte Saburo Murakami sieben mit Papier bespannte Rahmen in eine Reihe, nahm Anlauf und sprang durch sie hindurch. Drei Jahre später realisierte Allan Kaprow in den Vereinigten Staaten das HappeningEnvironment „18 Happenings in 6 Parts“, eine diskontinuierliche körperliche Ausdrucksform, die sowohl dem Theater als auch der zeitgenössischen Kunst nahe steht. Sie kommt ohne Szene aus und hebt den Unterschied zwischen Darsteller und Zuschauer auf, die Handlung erscheint als Sequenz und als Sammelsurium von Gesten. Wie die Drippaintings sind Happenings gleichsam Bilder, aber nicht mit Farbe gemacht, sondern mit Gegenständen und Gesten „in gewissen Zeit- und Raumeinheiten“, ein Prozess, der „im Fluss bleiben muss und so vage wie nur möglich“, so der Künstler im Jahr 1966. Bei seinen „Anthropometrien“ der Jahre 1960 bis 1962 verwandelte der französische Künstler Yves Klein den Körper in einen „lebendigen Pinsel“, indem mit Farbe getränkte Aktmodelle die Leinwand mit ihrem Körper bemalten. Die internationale Fluxus-Bewegung, die 1962 in Wiesbaden entstand und der Künstler wie Joseph Beuys und Yoko Ono angehörten, legte den Akzent auf ein künstlerisches Handeln, dessen Sinn und Zweck darin bestehen sollte, die Grenzen zwischen Kunst und Nicht-Kunst überflüssig zu machen. Sie veranstaltete Konzerte, Happenings und Performances, war verlegerisch aktiv und in der Objekt-Produktion tätig. „Der Künstler sollte nicht seine Kunst zum Beruf machen“, lautete das Credo von George Maciunas, und: „Alles kann Kunst sein und jeder kann Kunst machen“. In den Fluxus-Werken und -Happenings wurde der Körper des Künstlers als Prototyp des sozialen Körpers eingesetzt; durch die Wiederholung von Gewohnheitsgesten wurde man aufgefordert, sich mit der Methodologie des Alltags auseinanderzusetzen, mit den abwegigen Handlungen der Konsumgesellschaft und mit der Verwandlung eben dieser Handlungen in TV-Werbespots in ein Spektakel. 14 Der Wiener Aktionismus entstand und entfaltete sich im Laufe der 1960er Jahre mit einer Reihe von Body-Art-Performances, an denen sich Künstler unterschiedlicher Herkunft beteiligten, so Hermann Nitsch, Rudolf Schwarzkogler, Günther Brus, Otto Mühl, Valie Export, Peter Weibel (Dichter, später Kurator und Museumsdirektor) und Heinz Cibulka, das erste Modell bei den Performances und später ebenfalls Künstler. Ein theoretisches Manifest im engeren Sinne formulierte die Gruppe zwar nicht, aber am 1. Juni 1962 ließen sich Adolf Frohner (der sich den Wiener Aktionisten für kurze Zeit anschloss), Hermann Nitsch und Otto Mühl in einem Keller in der Perinetgasse in Wien einmauern. Nach der Ausmauerung lasen sie zusammen mit dem Psychoanalytiker Josef Dvorak das Manifest mit dem Titel „Die Blutorgel“ vor. Die Performances von Vito Acconci in New York machten den Körper des Künstlers zum Schauplatz von messbaren Ereignissen und einer Vielzahl von Empfindungen: Schmerz, ausgelöst durch Bisse oder glühende Zigaretten, bis hin zu Schwankungen des Biorhythmus; physische und psychische Abwehrreaktionen bis hin zu Eingriffen am eigenen Körper. Nicht von ungefähr stellte er in einer Performance das Thema der männlichen und weiblichen Sexualität in den Mittelpunkt. In der zweiteiligen Aktion „Conversions“ (1971) mit einem Jahr Abstand zwischen den beiden Teilen erkundete Acconci die Möglichkeit, vom Mann zur Frau zu werden: Er versengte sich die Brusthaare, zog die Brustwarzen lang, klemmte den Penis zwischen die Eier und trainierte so lange, bis er eine Reihe von Bewegungen wie typisch weibliches Laufen, Tanzen oder Hinsetzen beherrschte. Ein Mann versuchte, sich wie eine Frau zu fühlen, und durchlebte die physischen und sexuellen Veränderungen. Vor allem in den 1960er Jahren war der Feminismus das vorherrschende Thema der zeitgenössischen Kunst. Die Frauen führten neue, revolutionäre Inhalte in die Kunst ein. Oft setzten sie dabei ihren Körper als Werkzeug des gesellschaftlichen Kampfes und der Revolution der Sitten, des Lebens und der Frauenrolle in der Gesellschaft ein. Es war eine wichtige Zeit, denn die Arbeit der Avantgarden der Sechziger und Siebziger zeigte erste Früchte. Auch seitens der Institutionen war die Bereitschaft vorhanden, Ausstellungen ausschließlich mit Künstlerinnen zu machen und zu unterstützen, zumal wenn sie eine historische Dimension hatten. Es waren viele Frauen, die sich in den 1970er Jahren mit den Mitteln der Body Art zum Ausdruck brachten, man denke nur an Valie Export, Marina Abramović, Carolee Schneemann, Gina Pane, Rebecca Horn, Laurie Anderson, Hannah Wilke, Orlan oder Ana Mendieta: Performances, die Meilensteine in der Geschichte der Gegenwartskunst darstellen, in denen der weibliche Körper in polemisierender Weise nackt, bloßgestellt, geschunden vorgeführt wurde als Versinnbildlichung von Schmerz und Ausschluss. 1980/81 realisierte die italienische Kunstkritikerin Lea Vergine eine Ausstellung mit dem Titel „L’altra metà dell’avanguardia“ (Die andere Hälfte der Avantgarde), die 400 Werke von über 100 europäischen, russischen und amerikanischen Künstlerinnen vergangener 15 Avantgarden versammelte und in Mailand, Rom und Stockholm gezeigt wurde – genau zu der Zeit also, als der Feminismus sich überall auf der Welt auszubreiten begann, nämlich Ende der Siebziger-, Anfang der Achtzigerjahre. Carolee Schneemann startete 1963 mit der Produktion ihrer komplexen Installation und Performance „Eye Body“. Sie war niemals in einer Gruppierung oder Bewegung aktiv, auch wenn sie oft mit der Fluxus-Bewegung von George Maciunas in Verbindung gebracht wird. In den Fünfzigerjahren hatte sie damit angefangen, Gegenstände in Neo-Dada-Ästhetik zu bemalen und zu Assemblagen zu verbinden. Mit „Eye Body“ erschuf die Künstlerin ein „Loft Environment“ aus zerbrochenen Spiegeln, motorisierten Regenschirmen und Farbeinheiten, die die Funktion hatten, die Szene zu rhythmisieren. Sie selbst hüllte sich in Materialien wie Fett, Kreide und Plastik ein und wurde so zum lebenden Kunstwerk. In diesem Environment fanden 36 „Transformative Actions“ statt, die der isländische Fotograf Errò mit der Kamera festhielt. Die Aktion, in der zwei Schlangen über ihren nackten Körper krochen und sie ihre Klitoris zeigte, löste einen Skandal aus, dabei war sie Teil ihrer Idee einer „archaischen Erotik“. Carolee Schneemann hat immer wieder beteuert, sie habe zu der Zeit nichts über die symbolische Bedeutung der Schlange in alten Kulturen, etwa die der minoischen Schlangengöttin, gewusst. Für die Künstlerin Valie Export ist „Eye Body“ ein fundamental wichtiges Werk in der Geschichte der Performance-Kunst, weil Schneemann nachzeichnet, „wie zufällige Bruchstücke der eigenen Erinnerung und persönliche Elemente in ihrer Installation sich in der Wahrnehmung überlagern“. 1964 realisierte die Künstlerin mit „Meat Joy“ eine weitere fundamental wichtige Arbeit. Bei dieser Performance tanzten und spielten acht leicht bekleidete Darsteller mit verschiedenen Objekten und Substanzen wie flüssiger Farbe, Würsten, rohen Fischen, gerupften Hühnern und Papiermüll. „Meat Joy“ wurde zuerst in Paris aufgeführt und später bei einem Auftritt ihrer Gruppe Kinetic Theater im Kunstprogramm der Judson Memorial Church in New York gefilmt und fotografiert. Schneemann selbst beschrieb das Stück als erotischen, dionysischen Ritus, der den Leib als lebendes Material zelebriert. Tatsächlich war es eher ein Happening, dessen Konzipierung eine zentrale Rolle spielte, obwohl bei der Ausführung die Darsteller improvisierten. Ihr „Letter to Lou Andreas Salome“ (1965), eine Art Assemblage à la Joseph Cornell, brachte Schneemanns philosophische Interessen zum Ausdruck, indem Nietzsche- und Tolstoi-Zitate mit Rauschenberg-ähnlichen Neo-DadaFormen kombiniert wurden. 1964 fing Carolee Schneemann mit den Dreharbeiten ihres Films „Fuses“ an, der erst 1967 fertiggestellt wurde. Darin zeigt die Künstlerin sich und ihren damaligen Freund James Tenney beim Sex, aufgenommen mit einer 16-mm-Bolex-Kamera. Den Film veränderte sie durch eine Mischung aus Malerei und Collage, durch aufgetragene Farben, Brandspuren und direktes Zeichnen auf das Zelluloid. Teile des Films, die für verschiedene Vorführgeschwindigkeiten editiert waren, wurden neu zusammengesetzt; ihren und Tenneys nackte Körper und ihre sexuellen Aktivitäten überlagerte sie teilweise 16 mit abgefilmten Naturfotografien. „Fuses“ war motiviert von Schneemanns Wunsch, herauszufinden, ob die Beschreibung des eigenen sexuellen Akts einer Frau sich von Pornografie und klassischer Kunst unterscheidet. Er wurde als „proto-feministischer“ Film angesehen, mit dem die männliche Vorstellung von Pornografie unterwandert wird. Zwei Jahre nach Fertigstellung gewann „Fuses“ auf dem Cannes Film Festival den Special Jury Selection-Preis. Valie Export ist eine österreichische Künstlerin, die 1967 ihren bürgerlichen Namen Waltraud Höllinger gegen den Künstlernamen VALIE EXPORT eintauschte (mit der Vorgabe, ihn nur in Versalien zu schreiben), der so viel bedeutet wie „Exporteurin von Werten sowie von politischen und gesellschaftlichen Veränderungen“. Damit wollte sie sich nicht nur der Nachnamen des Vaters und des Ehemannes entledigen, sondern zugleich auch auf das Logo der populären österreichischen Zigarettenmarke „Smart Export“ verweisen. Dahinter steckte die Absicht, die Zigarette als Symbol für schnell konsumierbaren Genuss zu nutzen; außerdem war das Rauchen für Frauen in jenen Jahren eine klar signalisierte Grenzüberschreitung, genauso wie die explizit von den Werten Familie und Gesellschaft abgekoppelte, als reines Vergnügen zur Schau gestellte Sexualität. In westlichen Ländern galten Tätowierungen als Ausdruck und Symbol der Überschreitung geltender Normen, und so ließ sich VALIE EXPORT 1971 tätowieren, zu einer Zeit, als dies nur bei Männern üblich war, insbesondere bei Häftlingen, Kriminellen und Seeleuten. Ihre ursprüngliche Idee war, sich eine Schlange über den Rücken bis zu den Schultern und zu einer Wange hinauf tätowieren zu lassen, doch der Tätowierer weigerte sich, das Motiv auszuführen, weil er es als zu exzessiv für eine Frau hielt. 1968 führte VALIE EXPORT ihre berühmteste (von Marina Abramović in „Seven Easy Pieces“ wieder aufgegriffene) Performance mit dem Titel „Genitalpanik“ durch. Die Künstlerin ging in ein Rotlicht-Kino nach München, bekleidet mit einer Hose, die im Schritt ein Loch hatte und dem Publikum den Blick auf ihre Vulva freigab. Ein Jahr später entstand in Wien eine Fotoserie in Erinnerung an diese Aktion, die der Fotograf Peter Hassmann realisierte. Die Performance im Kino und die Fotografien waren für ein hauptsächlich männliches Publikum bestimmt, um es zu stimulieren und zum Nachdenken über die passive Rolle der Frau im Film anzuregen. In den Aktionen von VALIE EXPORT war der weibliche Körper eine richtiggehende Waffe, die die Künstlerin/Frau völlig frei, ohne jede anderweitige Konditionierung einsetzte. Die sich spontan hingebende Frau, die nichts dafür verlangte, setzte sich über das Schema des verkäuflichen Körpers hinweg, durch das die Frau gezwungen wird, eine unterwürfige Rolle einzunehmen, statt Protagonistin zu sein. Gina Pane begann schon 1968, mit Körpersprache zu arbeiten, wobei sie von der Idee geleitet wurde, dem Publikum den eigenen Körper und das eigene Blut als Geste der Liebe zu schenken. Das erste Mal, dass sie Selbstverletzungen in einer „Aktion“ einbezog, war 1971 mit „Escalade“: „Meine Arbeiten gründeten auf einer bestimmten Form von Gefahr. 17 Ich kam oft an eine äußerste Grenze, allerdings immer vor Publikum. Ich zeigte auf die Gefahr, auf meine Grenzen, aber Antworten gab ich nicht. Das Ergebnis war keine echte Gefahr, sondern nur die Struktur, die ich geschaffen hatte. Und diese Struktur versetzte dem Zuschauer einen gewissen Schock. Er konnte sich nicht mehr sicher fühlen. Ich schenkte ihm nichts. […] In meiner Arbeit war der Schmerz gewissermaßen die Botschaft. Ich schnitt mir in die Haut, ich peitschte mich aus, bis mein Körper nicht mehr konnte.“ Gina Pane verband ihre Arbeit mit einem laizistischen und spirituellen Begriff des Opfers; in ihren Huldigungen an Heilige griff sie auf die Figur Christi als denjenigen zurück, der sich selbst für die anderen hingegeben hat. Marina Abramović ist zum Sinnbild der Body Art geworden. Das verdankt sich zum einen ihrer Beständigkeit und körperlichen Ausdauer in einer so fordernden Kunstsparte, zum anderen ihrer Fähigkeit, selbst Body Art zu sein. Sie begann schon in ihrer Heimat Serbien als Künstlerin tätig zu sein, wo sie 1972 ihr Studium an der Akademie der Bildenden Künste in Belgrad abschloss. Ab 1974 arbeitete sie in Italien, zeigte die Performance „Rythm 4“ in der Mailänder Galerie Diagramma und 1975 die Performance „Rythm 0“ im Studio Morra in Neapel. Wegweisend war ihre Teilnahme an der „Settimana internazionale della performance“ in Bologna in den Jahren 1977 und 1978, wo denkwürdige Performances wie „Imponderabilia“ zusammen mit dem deutschen Künstler und ihrem damaligen Lebensgefährten Ulay stattfanden. Abramović, die sich selbst als „Großmutter der Performance-Kunst“ bezeichnet, ist zweifellos die Referenz schlechthin und die bekannteste Künstlerin dieses Genres, auch weil sie 1997 auf der Biennale von Venedig den Goldenen Löwen für ihre Videoperformance-Installation „Balkan Baroque“ erhielt und 2010 während einer Retrospektive ihrer Arbeiten im MoMA, die vom 14. März bis 31. Mai 2010 zu sehen war, ihre berühmte Performance „The Artist is Present“ durchführte: Während der Öffnungszeiten saß Abramović im Atrium des Museums schweigend an einem Tisch und hielt den Blicken der Besucher stand, die sich wie in einem feierlichen heidnischen Ritual ihr einzeln näherten, auf einem Stuhl ihr gegenüber Platz nahmen und so lange sitzen blieben, wie sie es für nötig hielten. Ein ähnliches Aufbegehren gegen die Rolle der Frau in der Gesellschaft findet sich auch im Werk der 1947 geborenen französischen Künstlerin Orlan, die durch die Veränderungen, die sie am eigenen Körper durch plastische bzw. ästhetische Chirurgie vornehmen ließ, bekannt geworden ist. Orlan gehört einerseits der klassischen Tradition der Body Art an – 1964 begann ihr Wirken als Performance-Künstlerin –, andererseits entwickelte sie eine außergewöhnliche Persönlichkeit, indem sie den eigenen Körper als Kommunikationsmedium einsetzte. Der post-organische Körper und die Hybridisierung von Natur und Technologie bilden die Schwerpunkte ihrer künstlerischen Erkundung. Im Mai 1990 begann Orlan sich einer Reihe von chirurgischen Eingriffen zu unterziehen, die sie unter den komplexen Titel „The Reincarnation of Saint Orlan“ stellte; Ziel dabei ist, sich 18 in ein neues Wesen zu verwandeln, das Vorbildern aus der Kunstgeschichte wie Venus, Diana, Europa, Psyche oder Mona Lisa ähnelt. Damit fordert sie im Wesentlichen die Möglichkeit ein, sich selbst neu zu entwerfen, und zwar über den restriktiven rechtlichen Kontrollrahmen hinaus (eines der Probleme, die es anzugehen gilt, betrifft Orlan zufolge die eigene rechtliche Identität und die Meldepflicht im Bürgeramt, weswegen sie 1997 Probleme mit der dänischen Polizei hatte), und auch, sich kritisch mit den Horizonten der Transformation in der Welt vor dem Hintergrund der technologischen Veränderungen und der neuen chirurgischen Möglichkeiten auseinanderzusetzen. Orlan „kombiniert barocke Ikonografie, medizinische und digitale Technologie, Theater und Massenkommunikationsnetzwerke. Auf diese Weise fordert ihre Arbeit die herkömmliche Vorstellung von Schönheit und den westlichen Begriff der Identität und Andersheit heraus“. Am 21. November 1993, es war ihre siebte plastische Operation-Performance, ließ sich die Künstlerin in New York zwei Silikonimplantate in die Stirn einsetzen, zwei Höcker, die wie kleine Hörner aussehen. Ihre Werke bestehen oft aus der Dokumentation der chirurgischen Eingriffe an ihrem Körper, in einigen Fällen bewahrte die Künstlerin die eigenen organischen Abfälle aus den Operationen auf, wie echte Reliquien. Vor kurzem entstanden Fotografien nach dem Vorbild von Cindy Sherman, in denen sie mehrere Rollen und Figuren darstellt. Ihr weites Arbeitsspektrum umfasst auch Skulpturen und Malerei, außerdem arbeitet sie seit vielen Jahren zusammen mit dem amerikanischen Kultregisseur David Cronenberg an einem Film, der episch zu werden verspricht. Die Arbeit der französischen Künstlerin Sophie Calle (Jahrgang 1953) basiert ganz und gar auf der Erkundung der menschlichen Gefühle. Für ihre erste Arbeit „Les dormeurs“ (Die Schläfer) aus dem Jahr 1979 fotografierte sie Freunde und Bekannte in ihrem eigenen Bett und machte damit die Ähnlichkeit zwischen all diesen Menschen sichtbar. Außerdem hielt sie ihre Beobachtungen in einer sehr distanzierten, aber präzisen und eingehenden Weise schriftlich fest. Die Tatsache, dass die Ehefrau eines berühmten Galeristen zu den Porträtierten gehörte, machte sie über Nacht in der Kunstwelt bekannt. Als eine der Hauptvertreterinnen der Narrative Art konstruierte Sophie Calle in den 1980er Jahren einen voyeuristischen Kosmos. Für die Fotoserie „Hotel“ arbeitete sie als Zimmermädchen in einem Hotel in Venedig, beobachtete die Hotelgäste oder verfolgte Unbekannte nach einer Feier durch die Gassen. Aber nicht nur, dass die Künstlerin die Menschen um sich herum beobachtete, für die Arbeit „The Shadow“ ließ sie sich von einem Detektiv beschatten und stellte am Ende ihre eigenen Fotografien und die Aufnahmen des Privatdetektivs zusammen. Oder sie rekonstruierte die Identität einer Person, deren Adressbüchlein sie auf der Straße aufgesammelt hatte. Zufall und Konzept sind die Grundpfeiler ihrer Arbeit, bei der sie immer den Kontakt zum Alltäglichen herzustellen sucht, was jedoch etwas anderes ist als das alltägliche Leben. In ihrem Beitrag „Prenez soin de vous“ 2007 auf der Biennale von Venedig stellte die Künstlerin die Trennungs-E-Mail ihres Lebensgefährten, die mit dem Satz „Passen Sie auf sich auf“ endet, und die Antwort 19 von 107 Frauen mit unterschiedlichem beruflichen und intellektuellen Hintergrund darauf vor. Damit delegierte sie praktisch ihre eigene Aufgabe, nämlich selbst auf die Mail zu antworten, an andere Frauen weiter, die sie interpretierten und kommentierten. Auf diese Weise verletzte sie bewusst ihre Privatsphäre und teilte gleichzeitig ihre Entscheidung, eine kollektive Antwort zu geben, mit anderen Menschen. Ebenfalls auf der 52. Biennale, im italienischen Pavillon, zeigte sie ihre Fotoarbeit „Pas pu saisir la mort“ (Konnte den Tod nicht fassen), in der sie den Tod der Mutter festhielt, die kurz vor ihrer Abreise nach Venedig verstarb. Ihrem poetischen Ansatz folgend, wählte Sophie Calle die letzten Augenblicke im Leben eines Menschen, die normalerweise etwas sehr Privates sind, um das Dahinscheiden der Mutter zu dokumentieren. Die Künstlerin hatte ihre Mutter nie zuvor porträtiert, was sie ihr übel genommen hatte. Als sie sah, wie ihre Tochter die Kamera am Fußende des Bettes aufstellte, rief sie aus: „Endlich!“ Mit Cindy Sherman wechselte die Perspektive der Performance-Kunst: Die Künstlerin war nicht nur die unmittelbar Ausführende, sondern konstruierte und realisierte auch die gesamte Bildinszenierung. Die Aktionen folgen einer präzisen Choreografie, es gibt keinen fremden Fotografen, der das Geschehen dokumentiert, alles ist vorprogrammiert, nichts dem Zufall überlassen. Was die Spontaneität der Performance erhöht, ist dabei nicht nur, dass das Konzept einer performativen Aktion vorhanden ist, sondern vor allem, dass wir darin einen sprachlichen Code wiederfinden, der statt mit dem Geschehen mit dem Bild verbunden ist. Die beeindruckende Serie „Film Still“ (1970) greift viele Themen des weiblichen Kosmos auf – lauernde Gefahren, Angst in der Stadt, Furcht vor Einsamkeit –, hebt sie aber durch das fotografische Medium auf die Ebene der Produktion von zeitgenössischen Ikonen. Shermans Arbeit bedeutete einen Paradigmenwechsel, den sich andere Künstler zum Vorbild nahmen, mit entsprechenden Variationen. Unter den jüngeren Künstlerinnen gehört sicherlich Silvia Camporesi dazu, die sich ihren eigenen filigranen, poetischen Kosmos erschuf, eine Art intimistisches und fast theatralisches Interieur, das sie selbst bewohnt. Körperbetonter und provokativer ist dagegen die Triestinerin Odinea Pamici, die mit stereotypischen Zuschreibungen spielt, mit den Symbolen der Ehe und der Küche als dem traditionellen Ort weiblichen Wirkens. Die wichtigste Nachfolgerin von großen Body-Art-Künstlerinnen wie Ana Mendieta (Ehefrau des US-amerikanischen Bildhauers des Minimalismus Carl Andre) oder Marina Abramović ist sicherlich die Guatemaltekin Regina José Galindo (Jahrgang 1974). In ihrer Arbeit greift sie das Thema der Anprangerung der nicht enden wollenden Gewalt gegen Frauen energisch mit einem Rundumschlag gegen die kulturellen, politischen und sozialen Vermächtnisse auf. In ihren Performances, die sie selbst als „psychomagische Akte“ bezeichnet, um auf die emotionale Belastung und das Leid zu verweisen, die dort vermittelt werden, lotet die Künstlerin mit aggressivem Gestus die eigenen physischen und psychischen Grenzen aus und verwandelt ihren Körper in den Schauplatz eines 20 permanenten Konfliktes. Auf diese Weise exemplifiziert sie die Dramen, die das guatemaltekische Volk, aber auch die Menschheit ganz allgemein durchmacht. 2001 und 2003 nahm die Künstlerin an der Biennale von Venedig teil wo die Performance entstand „¿Quién puede borrar las huellas?“: Galindo lief barfuß durch Guatemala-Stadt bis zum Präsidentenpalast und tauchte ihre Füße wiederholt in ein Becken voll mit menschlichem Blut, um mit den blutigen Fußspuren gegen die neuerliche Präsidentschaftskandidatur des ehemaligen Diktators José Efraín Ríos Montt zu protestieren. 2005 erhielt die Künstlerin den Goldenen Löwen im Rahmen der Biennale di Venezia (Kategorie „Künstler unter 30“) für ihre beeindruckende Performance „Himenoplastia“, die die offiziell und institutionell verankerte Vorstellung der Jungfräulichkeit als notwendiges Requisit der Frau für die Ehe und für die Aufnahme in die Gesellschaft zum Thema hat. Zwei Jahre später realisierte Galindo in der Stiftung Fondazione Volume! in Rom die Performance „Cepo“ (svw. Fessel), bei der sie eine ganze Nacht lang an der Mauer zum angrenzenden Gefängnis Regina Coeli angekettet blieb, um eine Parallele zum Los der Insassen auf der anderen Seite der Mauer zu ziehen. Eine Arbeit aus dem Jahr 2014 trägt nicht zufällig den Titel „Estoy viva“ – ich lebe, als wollte die Künstlerin sagen: Ich bin immer noch hier, trotz aller Gewalt, die man mir angetan hat, mit meiner ganzen Geisteskraft und meinem politischen Credo. Der Körper und die Performance als Körpersprache stehen im Mittelpunkt eines Kulturereignisses, das sich zum Ziel gesetzt hat, die Horizonte der ästhetischtheatralischen Aktion mit den Erkundungen einzelner Künstlerinnen zu vereinen. Dem heutigen Publikum wird damit nicht nur ein Fenster in die Vergangenheit aufgestoßen, sondern auch die Dimension des Körperlichen als Instrument künstlerischen Ausdrucks und des Dialogs näher gebracht. Diese Frauen haben die Gelegenheit zu nutzen gewusst, um absolute Freiheit zu erlangen und schließlich auch in der Kunst eine Präsenz zu bekräftigen, die ihnen sonst verwehrt geblieben wäre. 21 22 Yoko Ono CUT PIECE 1965 23 24 Yoko Ono CUT PIECE 1965 25 Yoko Ono, J.J. Lebel ELECTION DE MISS FESTIVAL 1967 26 27 Yoko Ono, John Lennon BED-INS FOR PEACE 1969 28 29 Carolee Schneemann ICE NAKED SKATING 1972-1988 30 31 Yayoi Kusama Hippie having body painted 1967 32 33 34 VALIE EXPORT SMART EXPORT 1970 Ana Mendieta UNTITLED, BLOOD SIGN #2, FROM BODY TRACKS (video, 01’01’’) 1972-1974 35 Gina Pane AZIONE SENTIMENTALE 1973 36 37 Charlotte Moorman PER ARCO 1984 38 39 Charlotte Moorman VIOLONCELLO 1989 Sophie Calle MON AMI 1984 40 41 Jeanne Dunning LONG HOLE 1994-1996 42 43 Era Milivojević WRAPPING OF MARINA ABRAMOVIĆ Document from SKC archive 1971 44 45 Marina Abramović SOUND ENVIRONMENT – WHITE Document from SKC archive 1972 46 Marina Abramović ART MUST BE BEAUTIFUL, ARTIST MUST BE BEAUTIFUL Performance for the film notes by Lutz Becker, Produced by SKC Belgrade, Serbia Document from SKC archive 1975 47 Marina Abramović FREEING THE VOICE Fifth April Meetings, SKC Belgrade, Serbia Document from SKC archive 1976 48 Marina Abramović, UIay BREATHING IN BREATHING OUT Seventh April Meetings, SKC Belgrade, Serbia Document from SKC archive 1977 49 Marina Abramović, Ulay IMPONDERABILIA Museo Comunale d’Arte Moderna, Bologna Photo: Mario Carbone 1977 50 51 52 53 Marina Abramović IMAGE OF HAPPINESS (FROM PERFORMANCE DELUSIONAL) 1994 Marina Abramović BALKAN BAROQUE 1997 54 55 56 57 Orlan DOCUMENTARY STUDY N° 5, LE DRAPE-LE BAROQUE OR SAINT ORLAN WITH A CROWN AND BOUQUET OF YELLOW FLOWERS 1983 58 59 60 Orlan SMILEY BLOOD TEST WITH A HARLEQUIN’S HAT, 5TH SURGERY-PERFORMANCE TITLED OPERATION-OPERA 1991 Orlan SECOND MOUTH, 7TH SURGERY-PERFORMANCE TITLED OMNIPRESENCE 1993 61 Shirin Neshat PULSE 2001 62 63 64 Odinea Pamici BALLO CON IVONNE 2005 Silvia Camporesi IL SALE DEL PENSIERO (THE SKY WALKER) 2006 65 Regina José Galindo PERRA (video 5’25’’) 2005 66 Regina José Galindo XX (video XX (I) 8’43’’, XX (II) 7’32’’, XX (III) 2’57’’) 2007 Regina José Galindo TIERRA (video 33’56’’) 2013 67 68 Yoko Ono, Cut Piece, 1965 Cut Piece, una delle prime opere di arte femminista, fu inizialmente messo in scena nel 1964 in Giappone, una delle tante azioni performative che fece come DIAS (Distruzione nel Simposio dell’Arte). Ono ripeté la performance al Carnegie Hall, a New York, nel 1965. Yoko Ono si inginocchia sul pavimento e posa a terra un paio di forbici. Il pubblico è invitato ad avvicinarsi e tagliare qualunque parte dei suoi vestiti. La performance cominciò educatamente ma diventò via via minacciosa, nel momento in cui i suoi vestiti furono ridotti a brandelli e lei stava inginocchiata in biancheria intima. Cut Piece comporta un denudamento fra esibizionismo e voyerismo, fra vittima e oppressore, fra sadico e masochista: e, in quanto eterosessuale, Ono rivelò la relazione di genere fra uomini e donne come oggetti reciproci. Il lavoro di Ono collega la distruzione alle relazioni interpersonali, spesso intime. Quest’elemento era particolarmente stimolante in Cut Piece. Yoko Ono e J.J. Lebel, Election de Miss Festival, 1967 La performance interruppe una tavola rotonda al Festival del cinema a Knokke-le-Zoute in Belgio nel 1967. Era concepita come un confronto all’americana per una identificazione della polizia. I partecipanti erano nudi e avevano a disposizione un cartello per coprire una parte del corpo a loro scelta. Alla performance seguì immediatamente una dimostrazione contro la guerra in Vietnam. Yoko Ono e John Lennon, Bed-Ins for Peace, 1969 Con lo scoppio della Guerra del Vietnam, Ono e Lennon organizzarono nel ’69 la performance Bed-ins for Peace per due settimane, una all’Hilton Hotel ad Amsterdam e una a Montreal. Era intesa come protesta non violenta contro la guerra, un test sperimentale di nuovi metodi per promuovere la pace. La coppia sapeva che il loro matrimonio, che ebbe luogo il 20 Marzo 1969, avrebbe ricevuto ampia copertura dalla stampa, dunque decisero di sfruttarne la pubblicità per promuovere la pace nel mondo. Carolee Schneemann, Ice Naked Skating, 1972 – 1988 Alla fine degli anni ’50 Carolee Schneemann dipingeva utilizzando uno stile espressionisticofigurativo. Influenzata dagli ‘happening’ di Allan Kaprow, sposta la sua ricerca dalla pittura al corpo, la sua relazione con la società, la sessualità e il genere. Dal 1960 inizia ad utilizzare il suo corpo nudo come parte delle opere d’arte sostenendo che esso sia un materiale a completa disposizione dell’artista. Gradualmente inizia a lavorare con l’assemblaggio di parti motorizzate in movimento, che l’artista chiama “teatro cinetico”. In Ice naked Skating l’artista è raffigurata mentre pattina sul ghiaccio nuda. Il corpo nudo dell’artista diventa una parte dell’opera, Schneeman si mostra al contempo come soggetto e oggetto, artista e opera. “Volevo che il mio corpo fosse una cosa sola con l’opera d’arte, un materiale integrato – una dimensione ulteriore della costruzione… Io sono sia la creatrice dell’immagine, che l’immagine stessa. Il corpo deve essere erotico, sessuale e desiderabile; lussurioso, ma alla stesso tempo sacrificato, è segnato, ricoperto da pennellate ed espressioni, un’invenzione della mia volontà creativa femminile.” Yayoi Kusama, Hippie Having Body Painted, 1967 Durante gli anni ’60 Kusama organizzò happening di forte impatto in luoghi molto frequentati come Central Park e il Ponte di Brooklyn, che prevalentemente comprendevano soggetti nudi ed erano create per protestare contro la Guerra del Vietnam. Fra il ’67 e il ’69 si concentra su performance, sostenute da una grande azione pubblicitaria, che spesso consistevano 69 in Kusama che dipingeva pois sul corpo nudo dei suoi performer. I primi due giorni del Settembre 1967, Kusama portò il suo pubblico al Chrysler Museum a Provincetown, Massachusetts, dove pubblicizzò lo slogan “Il corpo è Arte”. I giornali locali lo presentarono come un modo per “far diventare Arte le persone” e la TV di Boston lo trasmise a Boston e a New York. Grazie a queste performance, Kusama divenne un personaggio pubblico, non semplicemente un’artista eccentrica nel circolo chiuso dell’avanguardia. Era vista come rappresentante della cultura hippie e psichedelica del Greenwich Village. VALIE EXPORT, Smart Export, 1975 L’artista, nel 1967, cambiò il suo vero nome in VALIE EXPORT (scritto in lettere maiuscole) come un logo artistico, disfacendosi dei nomi paterni e maritali e appropriandosi di un brand di sigarette per il suo nuovo cognome. “Non volevo più portare il nome di mio padre (Lehner), né quello del mio ex marito Hollinger… Il pacchetto di sigarette era un design e uno stile che potevo usare, ma non era l’ispirazione.” La femminista austriaca si rese conto che negli anni ’70 c’era ancora una generazione di austriaci la cui attitudine verso le donne si basava sull’ideologia nazista. Inoltre avevano da affrontare la colpa dei loro genitori, condiscendenti con il regime. VALIE EXPORT, prima della sua rivoluzione politica e artistica, era stata madre e moglie. Ana Mendieta, Blood Sign #2, From Body Tracks, 1972-74 Il video ha inizio con Mendieta in piedi contro il muro in atteggiamento sacrificale, con le braccia sollevate stese in una V. Poi, lentamente, scivola lungo il muro fino ad inginocchiarsi, quindi si alza, guarda nell’obiettivo e cammina fuori dall’inquadratura, lasciando dietro di sé i segni rossi delle mani insanguinate. In parte performance, in parte dipinto, l’azione di Blood Sign #2 rivela un’immagine minimalista evocativa di un albero o di un’altra forma ascendente. Nonostante le caratteristiche iniziali di pena, sofferenza e morte, l’azione della Mendieta si trasforma in un simbolo di vita, speranza e crescita. Gina Pane, Azione Sentimentale, 1973 La performance era composta di diverse parti, che illustravano, attraverso l’automutilazione, la dimensione cattolica del martirio. Gina Pane, con una compostezza distintiva e un’attitudine razionale, usò la sofferenza come mezzo per rappresentare la spiritualità, conferendo alla performance una profonda carica emotiva e simbolica. Vestita di bianco e in mano un bouquet di rose rosse, Pane procedette a rimuovere le spine dalle rose, premendole nelle proprie braccia ed infine estraendole per lasciar scorrere un rivolo di sangue. Le rose rosse del bouquet diventano bianche. A quel punto l’artista si tagliava con la lama di un rasoio. Queste ferite superficiali servivano ad esprimere la fragilità del corpo, e il sangue, l’energia vitale, che contiene. “Mi ferivo ma non mi sono mai mutilata…la ferita? È al centro di un processo d’identificazione, registrazione e localizzazione di un particolare malessere.” Charlotte Moorman, Per Arco, 1984 La performance ha avuto luogo ad Asolo nel 1984, ed è stata fotografata da Giuseppe Chiari. Charlotte, come una musa, suona il violoncello nella natura. La performance non era solo una ricerca sulle art media e il senso dell’arte, ma anche su quello che è lo spazio più adeguato per l’arte. Per questo motivo la Moorman suona il violoncello in uno spazio all’aperto. 70 Charlotte Moorman, Violoncello, 1989 Dopo il 1967, Charlotte Moorman fu conosciuta dai media Newyorkesi come “la violoncellista in topless”. Donna bella e musicista classica, si guadagnò la notorietà suonando una composizione per violoncello a seno nudo per l’artista d’avanguardia Nam June Paik. Alcune delle pièce più famose della Moorman, molte delle quali tacciate come scandalose al momento della messa in scena, sono Sonata per violoncello N.1 solo per adulti nel 1965; TV Bra for Living Sculpture (Reggiseno TV per scultura vivente) nel 1969, in cui indossava un reggiseno costruito con due piccoli televisori; Global Groove (Ritmo Globale), una video performance del 1973, e nel 1971 la pièce di Nam June Paik, generalmente nota come Il Violoncello TV, in cui la Moorman suonava un violoncello composto da tre televisori, a cui erano state attaccate le corde. Questo particolare violoncello è formato di una serie di collage. Il cello era il mezzo di espressione sonora e visiva dell’artista. Il colore, così come il suono, può descrivere l’atmosfera e trasmettere sentimenti. Sophie Calle, Mon Ami, 1984 L’arte di Sophie Calle mescola immagine e testo, ricercando la relazione fra la nostra vita pubblica e il nostro io privato, provocando profonde risposte emotive. Il suo lavoro rappresenta la vulnerabilità sua e del genere umano in generale ed esamina l’identità e l’intimità. L’anno 1984 fu contraddistinto da un viaggio di 3 mesi in Giappone. La sua partenza fu segnata dall’inizio di un conto alla rovescia di 92 giorni per la fine di una relazione sentimentale. Fotografie di questo viaggio furono pubblicate solo nel 2005 in Exquisite Pain accompagnate dalle storie di come cercò di superare il suo dolore chiedendo sia ad amici che a sconosciuti dei loro dolori e dei modi per superarli. Jeanne Dunning, Long Hole, 1994–96 Negli anni ’80 e ’90 Jeanne Dunning creò immagini col corpo, stravolgendo completamente l’idea di gender. Fu tra le prime a usare la macchina fotografica, senza un’istruzione formale, e ad usare la fotografia come mezzo per l’arte concettuale. Era una risposta alla supremazia dell’espressionismo astratto, e la Dunning combatté per differenziare la scena dell’arte a Chicago tramite nuovi mezzi e temi. Quando uscirono questi lavori causarono doppie interpretazioni: Si tratta di un orifizio umano, o di un tunnel di mani? È la nuca di una donna, o un ritratto di pene? Sono baffi o una vagina? Fra il 1990 e il 1994 gran parte del lavoro della Dunning comprendeva immagini del suo corpo fotografate e ritagliate in modo da renderle irriconoscibili. Generalmente le persone le associavano con parti molto più provocatorie di quelle realmente fotografate. Dunning s’interessava di come qualcosa di totalmente innocuo e comune, come una mano, poteva diventare così facilmente straniante, estraneo ed evocativo. Ciò che era collegato al corpo sembrava problematico e carico di idee ed aspettative contraddittorie. Utilizzare mezzi così semplici per mostrare il corpo in modo irriconoscibile e ambiguo sembra suggerire che il nostro rapporto con esso è molto più complesso di quanto normalmente pensiamo. In Long Hole la mano crea un buco che sembra quasi continuare nel polso ed condurre all’interno del corpo, e in questo rappresenta la confusione fra interno ed esterno del corpo che l’artista aveva in mente. Le Performance presso SKC, Belgrado, Serbia: Le prime mostre e performance di Marina Abramović si tennero nel Centro Culturale Studentesco (SKC) a Belgrado, dove negli anni ’70 faceva parte di un gruppo informale di sei artisti, insieme a Raša Todosijević, Zoran Popović, Slobodan Milivojević, Gergej Ukrom e l’allora marito (dal 1971 al 1976) Neša Paripović. Marina mise in scena al centro SKC anche 71 alcune delle sue performance con Ulay. - Era Milivojević, Wrapping Of Marina Abramović, Skc, Belgrade, 1971 Nella performance Era Milivojević, giovane artista Serbo, lega Abramović su una panchina con un nastro adesivo. Si tratta della prima performance a cui lei abbia partecipato. - Marina Abramović, Sound Environment – White, Skc Belgrade, Serbia, 1972 Uno spazio rotondo e dipinto di bianco è sonorizzato con il suono della corda tirata. Il lavoro è stato realizzato come parte della mostra Ottobre’72. - Marina Abramović, Art Must Be Beautiful, Artist Must Be Beautiful, 1975 Abramović si posiziona di fronte alla telecamera, rivolgendosi direttamente allo spettatore. L’immagine rivela solo il suo viso e le sue mani, concentrando la sua corporalità in questi due elementi. La performance fu registrata due volte: la prima all’SKC, la seconda ad Amsterdam. Abramović ripete continuamente un’azione vista come tipicamente femminile, reinterpretandola nel contesto della storia dell’arte: l’artista si pettina i capelli con forza, senza fermarsi, per più di 50 minuti, finché inizia a farsi male. In questo arco di tempo ripete come un mantra la frase “l’arte deve essere bella, l’artista deve essere bella”. La ripetizione costante delle parole e dell’azione dà all’opera una prolungata intensità. - Marina Abramović, Freeing The Voice, Fifth April Meetings, Skc Belgrade, Serbia, 1976 La premessa della performance è urlare fino a perdere la voce. Abramović, sdraiata sulla schiena, produce un ininterrotto grido. All’inizio sembra un grido d’aiuto, dopo diventa più introverso, poi isterico. Abramović fa appello all’intuitivo desiderio del pubblico di rispondere ad un urlo. Davanti al pubblico l’artista mette alla prova la propria forza, sia fisica che mentale. Il corpo viene svuotato; la mente anche. Abramović ha detto: ‘Quando si sta gridando in questo modo, senza interruzione, all’inizio si riconosce la propria voce, ma più tardi, quando ci stiamo spingendo oltre i propri limiti, la voce si trasforma in un oggetto “il suono”. La voce sembra liberarsi dal corpo e riempie lo spazio.’ - Marina Abramović e Ulay, Breathing In Breathing Out, Seventh April Meetings, Skc Belgrade, Serbia, 1977 Nella prima parte della performance le loro labbra vengono premute l’una contro l’altra e i loro nasi sono chiusi con dei filtri di sigarette. La performance dura finché entrambi non rimangono senza ossigeno. Ulay commenta la performance: “Io inspiro ossigeno ed espiro anidride carbonica.” Abramović: “Io inspiro anidride carbonica es espiro anidride carbonica”, e Ulay ripete la frase di Marina. Durante i 19 minuti della Performance a Studentski Kulturni Centar, si sente il rumore dei loro respiri. Lo scambio diretto di respiro tra i due è un’altra tappa sulla via di simbiosi verso una singola unità. Il respiro dona la vita e diventa un simbolo di mantenere vivi l’un l’altro, di interdipendenza e di interscambio tra il maschile e il femminile. La seconda parte della performance ha avuto luogo nel novembre dello stesso anno allo Stedelijk Museum di Amsterdam. Marina Abramovic e Ulay, Imponderabilia, 1977 Giugno 1977, Galleria d’Arte Moderna, Bologna. Marina e Ulay si posizionarono nudi ai due lati dell’ingresso alla galleria, in modo che, per entrare, il pubblico doveva infilarsi, ad uno ad uno, nello spazio fra i due, senza poter evitare il contatto fisico. Il fattore cruciale era la decisione, che tutti dovevano prendere, che chiunque volesse passare ed entrare nel museo 72 doveva scegliere a quale dei due rivolgersi frontalmente e a chi dare le spalle. Una volta superata la coppia lo spettatore si sarebbe reso conto di essere stato filmato da telecamere nascoste e avrebbe visto se stesso nei monitor posizionati sul muro affiancato dal testo: Imponderable such imponderable human factors as one’s aesthetic sensitivity the overriding importance of imponderables in determining human conduct. La performance avrebbe dovuto durare 3 ore, ma dopo 90 minuti fu interrotta dalla polizia. Marina Abramović, Image Of Happiness (From Performance Delusional), 1994 Messa in scena per la prima volta in un teatro a Francoforte, la performance è divisa in cinque sezioni, intitolate La Madre, La Regina Ratto, Il Padre, La Disco del Ratto e La Conclusione. Ogni sezione racconta una storia e ha una specifica mise-en-scène. In La Madre, lo spazio scenico, avvolto in tela grigia, era ricoperto da 150 ratti di plastica che squittivano se calpestati, inoltre trovano posto in scena anche un letto di ferro e ghiaccio, uno sgabello, una sedia di ferro e un telaio di finestra sempre in ferro. Abramović entra danzando freneticamente su canzoni tradizionali ungheresi, prima di collassare periodicamente sulla sedia, sul letto o sullo sgabello. Sul muro sono proiettate immagini della madre di Marina che narrava storie della sua vita; in altri momenti la Marina sul palco raccontava storie della sua infanzia. In La Regina dei Ratti la tela è rimossa rivelando una dozzina di ratti veri sotto ciò che si rivela essere un palco di vetro. Abramović, ricoperta e stretta nella plastica che impedisce i suoi movimenti, diventa la regina che racconta al pubblico tutto sui ratti, compreso come liberarsi di loro. In Il Padre Abramović interagisce con i ratti, mentre suo padre dallo schermo al di sotto del palco racconta storie della guerra. In La Disco dei Ratti i ratti sono soli sul palco con della musica che suona. Alla fine, Abramović compare nuda per l’ultima parte, in cui si muove in avanti nello spazio fino a raggiungere il limite del palco. Poi preme col piede per aprire il vetro frontale. Si spengono le luci e la performance termina. C’è una sensazione di confessione nella performance, che affronta storie personali di sofferenza, vergogna e perdita. L’uscita dallo spazio sottostante il palco simboleggia la fuga dell’artista dalle difficoltà, dal dolore e dalle ingiustizie del passato, che in ogni caso rimangono con lei. Marina Abramović, Balkan Baroque, 1997 Nella performance i video sono organizzati spazialmente in un trittico, al centro si trova un video ritratto a dimensione naturale della Abramović come un alter ego. Nella prima parte del video la Abramović indossa un camice bianco da medico e impersona uno scienziato zoologo che racconta la storia della creazione dei Lupi-Ratti nei Balcani, animali che, quando si trovano in condizioni insostenibili (come gli essere umani in guerra) iniziano a distruggersi l’un l’altro. Nella seconda parte si trasforma in una donna (una tipica cantante balcanica da taverna) che intrattiene il suo pubblico (maschile) – ballando, come fosse posseduta, al suono di una melodia folk. A destra e a sinistra i video ritraggono la madre e il padre, che hanno rotto con la tradizione religiosa della famiglia cristiana ortodossa, sono diventati partigiani, hanno fatto parte della guerra di Liberazione Nazionale (1941-1945), e si sono iscritti al Partito Comunista. Questi sono posizionati in una stanza buia in cui a fatica si notano tre vasche in rame piene d’acqua, a suggerire una purificazione spirituale. Abramović compie l’atto di auto-purificazione per sei ore al giorno in quattro giorni consecutivi, lavando 73 con una spazzola di metallo, sapone ed acqua, una pila di ossa bovine, ripulendole dagli ultimi resti di carne. Questa purificazione “all’osso”, questo liberarsi della zavorra (il passato bello o brutto, piacevole o spiacevole, personale o collettivo), diventa un lavoro individuale di cordoglio senza il quale nessun rito di passaggio può avvenire. Orlan, Documentary Study No 5, Le Drapé - Le Baroque Or Saint-Orlan With Crown And Bouquet Of Yellow Flowers, 1983 La performer e icona femminista francese Orlan è nota principalmente per trasformarsi in un’opera d’arte vivente attraverso la chirurgia plastica; ma prima di contestare gli ideali della bellezza femminile negli anni ’90, all’inizio della sua carriera, si occupò del ruolo della donna nella società occidentale. In queste opere offre la sua versione della Madonna, di Venere e della Grande Odalisca. Mette in discussione l’identità femminile nell’arte, nella storia e nel presente, focalizzandosi sull’ipocrisia del modo in cui la società ha diviso l’immagine femminile fra Madonna e prostituta. La performance permette all’artista, mascherata da Madonna, di costruire l’identità di Sant’Orlan. La performance, un vero e proprio test fisico (dalle 3 alle 5 ore d’azione, in slow motion, diverse ore di trucco e per vestirsi), segue un rito ben preciso. L’azione inizia con una processione: Orlan, avvolta da diversi metri di lenzuola del corredo, entra su un palanchino portata da 4 o 5 uomini. Il bambino è spesso realizzato con del pane dalla crosta blu e la mollica rossa, che Orlan mangia, a volte fino a vomitare. Dopodiché scioglie i capelli, si strucca e scopre un seno, dando un’immagine di estasi. Infine si mette a quattro zampe su un lungo tappeto rosso e vi si arrotola, scomparendo. Orlan, Smiley Blood Test With A Harlequin’s Hat, 5th Surgery - Performance Titled Operation - Opera, 1991 Orlan esplora l’idea che la bellezza sia il prodotto dell’ideologia dominante, dunque quando l’ideologia cambia, il corpo ideale si adegua. Lo dimostra utilizzando esempi dalla storia dell’arte. I corpi di Cranach o Rubens o Hamilton non hanno le stesse forme. Questo si ritrova anche negli standard di bellezza occidentali a cui lei si interessa e che mette in discussione nel suo lavoro. Orlan si sottopose ad una serie di operazioni chirurgiche per cambiare il suo aspetto fisico. In ognuna di queste, Orlan e il team medico erano vestiti da famosi stilisti, fra cui Paco Rabanne. I costumi e gli accessori, inclusi crocifissi, frutta e fiori in plastica e un teschio umano, erano sterilizzati. Condivise inoltre la sala operatoria con uno spogliarellista di colore. Specialmente in questa performance, intitolata Operation-Opera, la coreografia e i costumi ricordano quelli di una grande opera. Orlan rimane cosciente – leggendo saltuariamente il teorico Lacan – per tutta la durata dell’operazione, usando anestesie locali. La maggior parte degli interventi furono trasmessi live in gallerie e musei, come il Centre George Pompidou a Parigi e la Galleria Sandra Gering a New York. Ha messo in mostra anche le foto di sanguinosi lividi, gli occhi anneriti e le labbra gonfie, che erano la conseguenza delle procedure. Orlan, The Second Mouth, 7th Surgery- Performance Titled Omnipresence, New York, 1993 Omnipresence è la settima operazione chirurgica-performativa che realizza il 21 novembre 1993. Per diverse ragioni occupa un ruolo chiave nella realizzazione della reincarnazione di Saint Orlan. Per la prima volta l’intervento non ha luogo in Francia ma a New York. È trasmesso live a Parigi (al Centro G. Pompidou), a New York (galleria Sandra Gering), nel centro multimediale di Banff (Canada) e nel centro Mac Luhan di Toronto. Il corpo è visibile simultaneamente in quattro diversi posti, e Orlan può dialogare coi suoi spettatori, questo chiarisce il titolo Onnipresenza. Un’altra novità è il chirurgo, una donna femminista, la 74 Dottoressa Marjorie Kramer. Questa collaborazione libera l’artista dal simbolico parassita che poteva essere associato alla presenza di un medico uomo, come figura di autorità maschile. Dalla Kramer Orlan ottiene l’inserimento del maggior numero possibile di impianti. Due di questi, normalmente utilizzati per perfezionare gli zigomi, sono posizionati sopra i sopraccigli, a ciascun lato della fronte. Le due protesi permettono all’artista di affermare più chiaramente il suo progetto, “usare la chirurgia estetica in modo completamente diverso, per creare qualcosa che non è considerato bello.” Shirin Neshat, Pulse, 2001 I video, i film e le fotografie di Shirin Neshat si confrontano con la cultura Islamica restrittiva del suo paese natale, l’Iran, particolarmente nel modo in cui incide sulla vita delle donne. Questo fermo-immagine dal cortometraggio Pulse offre uno squarcio nel mondo privato di una donna iraniana. Pulse si apre con una lunga inquadratura di una donna in un momento di solitudine, rannicchiata sul pavimento di fronte alla radio. Dalla radio si leva una voce maschile che canta con sicura, e tuttavia contenuta, passione. Quando la macchina da presa le è quasi sopra, lei comincia a cantare. Pulse gioca con l’idea di distanza e separazione: la donna è separata dal soggetto autore della musica, ma allo stesso tempo tiene la voce stessa nel suo abbraccio. Noi ci muoviamo dallo spazio esterno a quello interno. Odinea Pamici, Ballo Con Ivonne, 2005 Il titolo dell’opera nasce da un piatto tiepido, insalata di polpo, intitolato Polpo alla Ivonne – in un certo senso la suggestione culinaria ritorna per formare il linguaggio dell’artista. In quest’azione artistica Pamici organizza una sorta di delirio fra materiali contrastanti: la purezza dell’intimo nuziale con il polpo, decontestualizzato, nelle calze. Una commistione di gioia e dolore, la dialettica degli estremi come attrazione e repulsione. Nella performance l’artista si abbandona alla musica e la sua concentrazione nella danza diventa assoluta. Ballo con Ivonne porta il dramma di una donna catturata e imprigionata da mille tentacoli. Pamici vuole focalizzare l’attenzione sulla donna nell’ambiente domestico, dove a volte la vita è un compromesso fra felicità ed infelicità, dove può prevalere il bene ma anche il male, e spesso, il risultato è la perdita di libertà ed indipendenza…un sentirsi intrappolata. Silvia Camporesi, Il Sale Del Pensiero (The Skywalker), 2005 Dal INDIZI TERRESTRI un racconto fotografico diviso in tre parti (Geografia / Il secondo viaggio / Esercizi per il ritorno) che appare agli occhi dello spettatore come un dramma in tre atti, costruito sul bisogno di raggiungere verità e parole di senso, di riconoscimento e di conoscenza. Geografia, a partire dal concetto di spaesamento, traccia il percorso di alcune figure attraverso carte geografiche, reali o immaginarie, alla ricerca di punti di riferimento. Il secondo viaggio è il riconoscimento del cammino da percorrere: la strada mostrata durante il passaggio dal sogno alla veglia. Il sale del pensiero fa parte del finale della storia (Esercizi per il ritorno) con quale il cerchio trova una chiusura: il viandante compie la sua ascesi, attraverso misteri e conoscenze ermetiche arriva all’elevazione del pensiero come superamento dei propri limiti. Regina José Galindo, Perra, 2005 Utilizzando il proprio corpo in chiave politica e polemica l’artista esplora la dimensione soppressa e rimossa della sofferenza, implicazioni etiche legate alle ingiustizie sociali e culturali, le discriminazioni di razza e di sesso e più in generale tutti gli abusi derivanti dalle relazioni di potere che affliggono la società contemporanea. In Perra la Galindo è seduta in 75 una stanza vuota, incidendo con un coltello la parola ‘perra’ (cagna) sulla sua coscia. Con questa performance, l’artista esprime la sua protesta contro la violenza continua contro le donne nel suo paese. Galindo vede il suo lavoro come una catarsi personale strettamente collegata alla violenza nel suo paese e come mezzo per evidenziare la lotta contro i crimini politici, le gerarchie sociali, la segregazione e l’oppressione delle donne. L’empatia dello spettatore per le sofferenze fisiche dell’artista si trasforma in consapevolezza del messaggio implicito di protesta politica Regina José Galindo, XX, 2007 L’artista ricorda i cittadini innocenti uccisi e sepolti in una fossa comune del cimitero La Verbena a Città di Guatemala posizionando 52 lapidi con la scritta XX. Regina José Galindo, Tierra, 2013 Nel 2012, José Efraìn Rìos Montt, ex-presidente del Guatemala, fu processato con l’accusa di genocidio, terrorismo e tortura; questa performance di Regina José Galindo è una reinterpretazione delle atrocità elencate nel corso del processo. Tierra ha inizio con l’artista in piedi, nuda in un prato verdeggiante, la cui tranquillità è sconvolta da una macchina per il movimento della terra. Qui Galindo allude a quando i cittadini innocenti furono uccisi e seppelliti in una tomba comune scavata da un bulldozer. L’acuto contrasto fra la massa enorme della macchina e il corpo vulnerabile dell’artista cattura l’ingiustizia del regime di Montt, mentre l’abisso che cresce intorno a lei serve come simbolo della disperazione e alienazione nata dalla violenza politica in generale. 76 77 CREDITI FOTOGRAFICI: p. 23, 24, 25, 28, 29 - © Yoko Ono Courtesy Collezione Carlo Palli: p. 30, 31 - © Carolee Schneemann by SIAE, 2016; p. 26, 27 - © Yoko Ono ; p. 38, 39, 40 - © Charlotte Moorman Courtesy Bettmann archive/CORBIS: p. 33 © Yayoi Kusama Courtesy Collezione Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, comodato della Fondazione Cassa di Risparmio di Prato: p. 34 - © VALIE EXPORT by SIAE, 2016 p. 35 - © The Estate of Ana Mendieta Collection: Courtesy Valerio Dehò: p. 37 - © Gina Pane by SIAE, 2016 Courtesy Collezione privata, Treviso: p. 41 - Sophie Calle by SIAE, 2016; p. 42, 43 - © Jeanne Dunning; p. 64 - © Odinea Pamici; p. 65 - © Silvia Camporesi Courtesy SKC Archive, Belgrade: p. 44, 45, 46, 47, 48, 49 - © Marina Abramović by SIAE, 2016 Courtesy Archivio Fotografico Mario Carbone: p. 51, 52, 53 - © Marina Abramović by SIAE, 2016 Courtesy Gallery Die Maurer, Prato: p. 55 - © Marina Abramović by SIAE, 2016 Courtesy Galleria Claudio Poleschi, Lucca: p. 56, 57 - © Marina Abramović by SIAE, 2016 Courtesy Collezione Forin, Bassano del Grappa: p. 59, 60, 61 - © Orlan by SIAE, 2016; p. 62, 63 - © Shirin Neshat Courtesy Regina José Galindo e Galleria Prometeo di Ida Pisani, Milano - Lucca: p. 66, 67 © Regina José Galindo 78 COLOPHON GESTURES WOMEN IN ACTION 6.2.2016. - 10.4.2016. Kunst Meran / Merano Arte Edificio Cassa di Risparmio Via Portici, 163, Merano Curatore / Kurator Valerio Dehò 123ART Sergio Fintoni, Presidente / Präsident Carlo Anzilotti, Vicepresidente / Vizepräsident Simona Capecchi, Organizzazione / Organisation Nevena Radović, Organizzazione / Organisation KUNST MERAN / MERANO ARTE Georg Klotzner, Presidente / Präsident Marcello Fera, Vicepresidente / Vizepräsident Herta Wolf Torggler, Organizzazione / Organisation Ursula Schnitzer, Organizzazione / Organisation Nadia Marconi, Organizzazione / Organisation Caroline Gutberlet, Traduzioni / Übersetzungen Paula Mair, Traduzioni / Übersetzungen Camilla Martinelli, Lettorato / Lektorat Ringraziamo / Dank an Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Collezione Carlo Palli, Galleria Claudio Poleschi, Galleria Die Maurer, Galleria Prometeo di Ida Pisani, Marcello Forin, Mario Carbone, Stevan Vuković (SKC) Catalogo e progetto grafico / Katalog und Grafik-Design 123ART Stampa / Druck Industria Grafica Valdarnese 79 80