Storie vere di amori in Vaticano (libro

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Storie vere di amori in Vaticano (libro
Premessa
Donne che amano, riamate, sacerdoti. Storie segrete tra le mura delle canoniche. Perpetue «in
adorazione» dei loro prevosti. Signorine timorate di Dio che si invaghiscono del confessore.
Vedove inconsolabili che finalmente si consolano, inebriate dall’incenso e illuminate dalla luce
delle candele. Mi hanno raccontato di una di queste una quarantenne, attratta dal prete della sua
parrocchia fin dall’adolescenza. Sposata con un figlio, dopo la morte del marito, avvenuta qualche
anno fa, ha realizzato il suo sogno proibito. Adesso, però, vive nella morsa della gelosia. Perché
«lui, il parroco», la trascura. Diviso com’è tra i doveri del ministero — messe, confessioni, funerali
e conferenze — e l’amante segreta. Ma talvolta l’amore terreno vince su tutto. Sulla Chiesa e sul
Padreterno. Molte donne, infatti, riescono a sposare il loro sacerdote. Che getta la tonaca (oggi è
solo un modo di dire perché la tonaca non la porta quasi più nessuno) e si avvia verso il tribolato
mondo dei laici. In Italia sono circa ottomila i sacerdoti che hanno compiuto il « grande passo » del
matrimonio O forse qualche migliaio in meno, stando alle fonti ufficiali vaticane della
Congregazione del clero. Comunque sia, la «trasgressione» è diffusa, e non certo da oggi.
La legge del celibato obbligatorio (sancita dalla Chiesa) è vissuta sempre di più come un peso. Di
cui, forse, ci si potrebbe liberare. Poiché — e sono in molti a sostenerlo (anche tra i teologi) — è
possibile essere contemporaneamente buoni sacerdoti e buoni mariti. E padri di famiglia.
Il dibattito è aperto. Si vedrà se avranno ragione coloro che profetizzano la caduta, tra dieci
vent’anni (magari col prossimo Papa), del vincolo celibatario; o coloro che ritengono che la Chiesa
Cattolica Romana non tornerà sui suoi passi. Ma non è questo l’argomento centrale del libro.
Qui non si disserta sul celibato obbligatorio (anche se il tema è ben presente e vi sono autorevoli
testimonianze e pareri al riguardo); qui si vuole documentare soprattutto una condizione umana.
Trascurata e spesso liquidata con superficialità. Forse perché è ancora poco conosciuta, forse perché
la,nostra società, pur evoluta e spregiudicata, non l’ha ancora elaborata culturalmente. Intendiamoci,
l’atteggiamento della gente è un po’ cambiato. Oggi la «moglie del prete» non è più vista col
sospetto di ieri, non è più condannata come un tempo all’emarginazione sociale, Il sacerdote che
abbandona il ministero non viene più chiamato con disprezzo «lo spretato». Eppure, a ben guardare,
nella cultura corrente le storie sentimental-sessuali che ruotano attorno al clero strappano ancora la
battuta, lo sberleffo. Suscitano ilarità. Stimolano rappresentazioni macchiettistiche, stereotipate.
Come le barzellette sui tradimenti e gli adultèri che correvano nel linguaggio provinciale dell’Italia
di trent’anni fa, quando nel nostro Paese non era stata ancora varata la legge sul divorzio. E i
conviventi venivano scandalosamente chiamati concubini. L’idea di approfondire e far conoscere
gli amori dei preti mi ha, colto quasi di sorpresa. Nel settembre del ‘94 fui mandata dal «Corriere
della Sera» a Riccione, dove si teneva un convegno di Vocatio, l’associazione più rappresentativa
dei sacerdoti sposati italiani. Si era sparsa la notizia che, nel corso del meeting, le donne dei preti —
mogli e amanti — avrebbero annunciato la nascita di un loro movimento. Sull’esempio di Claire
Voie, l’associazione fondata dalla francese Odette Desfonds. Che ha organizzato più di una
manifestazione in Vaticano, davanti a San Pietro. A Riccione, in verità, l’associazione femminile
non è nata. Ma durante quel convegno ho avuto occasione di intrattenermi a lungo con, alcune
mogli di sacerdoti. Ho ascoltato tante storie. Testimonianze personali e racconti indiretti. Donne che
sapevano di altre donne... Ho conversato con ex parroci, ora mariti più o meno «perfetti». E sono
rientrata a Milano, con l’idea che l’argomento avrebbe meritato ben più ,di un articolo sul
«Corriere».Così, per alcuni mesi, con la collaborazione dei sacerdoti di Vocatio e delle loro mogli,
sono andata cercando per l’Italia le coppie «fuorilegge». Volevo capire, meglio questa realtà e
raccontarla, dando voce soprattutto alle donne. Ho privilegiato, infatti, le testimonianze femminili.
Senza pregiudizi. Senza moralismi. Senza a spirito di crociata. Non è stato facile far parlare le
protagoniste di questo libro, Soprattutto. le amanti, coloro che vivono relazioni sentimentali con
preti ancora nell’esercizio del ministero ecclesiastico. Le clandestine mi hanno chiesto di cambiare i
loro nomi,cioè di non farle riconoscere. Pur avendo impresso nel magnetofono le voci, pur
conoscendo generalità e indirizzi, ho rispettato l’impegno preso. A Lina, Graziella, Paola... Ognuna
con una testimonianza diversa, ma con un dramma comune: l’essere diventate, per la Chiesa, 1e
rivali di DIO.
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Canone 277
«I chierici sono tenuti all’obbligo di osservare la continenza perfetta e perpetua per il
regno dei cieli, perciò sono vincolati al celibato, che è un dono particolare di Dio
mediante il quale i ministri sacri possono aderire più facilmente a Cristo con cuore
indiviso e sono messi in grado di dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli
uomini. «I chierici si comportino con la dovuta prudenza in rapporti con persone la
cui familiarità può mettere in pericolo l’obbligo della continenza oppure suscitare lo
scandalo dei fedeli. »
(Canone 277, paragrafi 1 e 2 del Codice di diritto canonico).
Il grido d’allarme contro le seduttrici di «tonache» degli anni Novanta — diavolesse consapevoli e
inconsapevoli che attentano alla castità dei preti italiani — lo ha lanciato pubblicamente ed
esplicitamente un sacerdote di provincia. In una lettera aperta, pubblicata da «L’amico del clero»
nel febbraio del 1995, don Fiorenzo Carbonari di Fossombrone scrive: «Il pansessualismo che
trasuda dai mass media e penetra nelle case e negli ambienti più discreti non risparmia nessuno. La
procacità della moda femminile è diffusa e dovunque tollerata, persino in chiesa; tanto che vediamo
sempre più spesso prosperose ,ragazze in minigonna proclamare, dall’ambone, la parola di Dio . E
che dire dei contatti del sacerdote col mondo femminile, che si moltiplicano in varie occasioni:
campeggi, gite, colonie marine?
Sono tutti fattori che rendono più labile la difesa del prete da certe tendenze e tentazioni». La
missiva conclude: «I Santi Padri e i maestri di spirito parlano della donna come fuoco che brucia, da
cui bisogna guardarsi. Se questo oggi non è materialmente possibile, né pastoralmente
consigliabile, come andrà a finire?»
La vita affettiva e trasgressiva del clero è antica quanto l’istituzione della Chiesa. Ma ora, a
inquinare il profumo d’incenso, ad alimentare la fuga dalla castità sacerdotale ci si mettono anche i
costumi spregiudicati dei nostri tempi. I mass media, la promiscuità diffusa, la minigonna, denuncia
don Fiorenzo. E perché non aggiungere: il disuso della tonaca, il fatto che baldi e prestanti parroci e
cappellani, in jeans, camiciola e pullover, con folte capigliature (la « tonsura» è in declino da un
pezzo), si confondano sempre di più tra i giovanotti che a Dio non sono consacrati?
Ma se il mondo va così, è sempre più difficile stabilire se è lei a sedurre lui o viceversa. Eppure il
mito di Circe resiste. «In una società in cui i divieti e i valori sono diminuiti, una donna ritiene (lei
tutto normale manifestare i sentimenti che prova, anche nei confronti di un prete. Io stesso», annota
Valerio Albisetti, psicoanalista cattolico, «ho raccolto gli sfoghi e.le sofferenze di tanti sacerdoti,
pressati dai corteggiamenti femminili. »
Un prete ora felicemente sposato che, a sentirlo parlare, sembra più un ex playboy in disarmo
piuttosto che un ex ministro di Dio, mi confida di aver intrattenuto varie relazioni occasionali
durante le sue trasferte di padre predicatore nei paesi della Penisola. L’approccio delle « pie donne
tentatrici» spiega — avveniva per lo più dietro la grata del confessionale. «Signore e signorine,
prima in modo velato, poi palese, dichiaravano di desiderarmi», ricorda l’ex sacerdote.
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«La mia reazione? Ero sconcertato, ma anche lusingato. E difficilmente, lo ammetto, riuscivo a
resistere alle loro avances. I rapporti erano brevi, non più di tre o quattro incontri con la stessa
donna. Poi, mi defilavo. Un po’ perché non intendevo correre rischi, e un po’ perché mi pesava
vivere in peccato mortale. E Dio ci liberi dalle smaliziate, quelle che vogliono avere rapporti
sessuali con un prete per verificare se è un buon amante.
Le pare strano? Succede, glielo garantisco.»
Donne seduttrici di «tonache»? Sacerdoti vittime delle tentazioni femminili? Non generalizziamo.
Descrivere un mondo di signore a caccia di parroci disponibili è fuorviante, eccessivo, falso.
Ad ogni modo, le cronache — spia parziale di un fenomeno certamente più diffuso — registrano
casi sempre più numerosi che riguardano le trasgressioni del clero.
Sui giornali finiscono soprattutto gli episodi più scandalosi. Dal sacerdote sorpreso dalla polizia in
una casa d’appuntamenti, al prelato settantenne stroncato da un infarto in albergo, mentre è in
compagnia di una prostituta.
Le relazioni sessuali e sentimentali dei ministri di Dio alimentano fantasie e morbosità, ispirano
romanzi, film, sceneggiati televisivi (chi non ricorda La moglie del prete o Uccelli di rovo?),
suscitano ironici apprezzamenti. Raramente, invece, ci si interroga sui drammi vissuti dai sacerdoti
innamorati e dalle loro compagne. Insomma, il fenomeno, nella sua complessa e sfaccettata
«normalità», è ancora poco conosciuto. Tuttavia, qualche cosa sta cambiando. I preti che si sposano
e che fanno figli, oggi, rispetto al passato sono più disponibili a rompere il muro del silenzio.
Spesso sostenuti dalle mogli. Per chi vive storie d’amore nella clandestinità, invece, tutto è più
complicato. Le coppie di amanti, tra le mura della canonica, sono destinate, se la situazione non
esplode, se non c’è una svolta, a portarsi tormenti e segreti fino alla tomba..
Il dramma del sacerdote che abbandona la Chiesa per seguire una donna viene erroneamente
paragonato al divorzio; ma è qualcosa di molto più profondo e personale.
«Perché qui non si tratta di cambiare partner, ma tutto: posizione sociale, ambiente e... mentalità»,
spiega monsignor Giovanni Pignata, già vicario episcopale per la formazione permanente del clero
di Torino. « Il prete che, ha fatto o medita di fare il “grande passo” vive una crisi molto più
lacerante di qualsiasi altra crisi familiare, economica o di prestigio; anzi, una crisi che coinvolge
tutti questi aspetti e in più quello molto importante ‘dei suoi rapporti coi Signore.»
« In alcuni casi», continua Pignata, « la decisione di lasciare il compito sacerdotale può diventare
l’inizio di una resurrezione spirituale.» E ricorda la confidenza fattagli da un sacerdote dopo la
dispensa e il matrimonio religioso con la sua compagna: « io non ero un buon prete. Adesso mi
sentirei di esserlo, ma non mi lasciano più >
E la donna del sacerdote? Soffre quanto e più di lui. Gli sta accanto, nell’ombra, talvolta per lungo
tempo, a volte per sempre. E non è raro che 1ui pur nella comprensibile lacerazione, la illuda, le
faccia promesse che poi non mantiene; in altre parole, la tratta come un’amante per il tempo libero,
usando e abusando di quell’ascendente e persino di quel carisma che gli derivano dal suo particolare
status di ministro di Dio.
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«Sono la compagna di un prete da quasi tre anni. Vivo un rapporto d’amore profondo, intenso,
provato da sofferenze e da tanta solitudine. Perché spesso il mio uomo e io dobbiamo rinunciare a
noi stessi, al desiderio di vederci, di stare assieme, di amarci», confida una lettrice al settimanale
femminile « Grazia » (dicembre ‘93).
E spiega: «Il solo pensiero che ci consola è che il nostro amore travagliato travalica la presenza
fisica... Abbiamo scelto di viverlo segretamente, non abbiamo voluto venire allo scoperto perché
questo comporterebbe una sofferenza immane per le persone che amiamo e che credono in noi.
Del resto, io non vorrei mai che lui rinunciasse alla sua vocazione... » E un’altra donna racconta:
«Al mio sacerdote è mancato il coraggio di fare una scelta, di rompere con la Chiesa. Ha preferito
tirarsi indietro, per paura di perdere la sua identità, la stima degli altri. Per paura delle sue emozioni.
Mi ha chiesto scusa, si è addossato ogni colpa, mi ha chiesto di sparire. Eppure io mi arrovello e mi
chiedo: è giusto rimanere preti per paura?»
A fronte di tante rinunce, sono però in aumento i sacerdoti che lasciano il ministero per seguire la
vita di coppia. Ormai non si sposano più «con discrezione», come avveniva un tempo.
Molti lo fanno pubblicamente, a testa alta, con una cerimonia festosa e talvolta fastosa. E, persino
tra i cittadini cattolici praticanti, cresce la tolleranza, se non addirittura la benevolenza nei confronti
dei preti che scelgono di sposarsi. Le società occidentali. sembrano ormai mature per accettare un
eventuale mutamento di rotta nelle leggi ecclesiastiche.
Anche i cattolici italiani si stanno avvicinando alle posizioni dei correligionari centroeuropei e
statunitensi. Un sondaggio contenuto nel volume La religiosità in Italia (Mondadori, 1995), che
raccoglie i risultati di una ricerca realizzata dall’Università Cattolica in collaborazione con la
Conferenza episcopale italiana indica con chiarezza la nuova tendenza: il 45 per cento del campione
intervistato, infatti, si dichiara contrario al celibato dei preti, il 20 per cento non sa esprimere
un’opinione al riguardo e solo un terzo si pronuncia per il suo mantenimento
I dati ufficiosi registrano nel nostro Paese circa 8000 sacerdoti sposati (quelli ufficiali qualche
migliaio in meno); ma, al momento, non sono certo le statistiche a far retrocedere la Chiesa dalle
sue leggi..
Giovanni Paolo II non perde occasione per riaffermare la regola del celibato.
Eppure, nonostante le ricorrenti esortazioni del Papa («Guardate alle donne come sorelle e come
madri. Lottate per mantenervi fedeli alla vostra vocazione....», scriveva in una mini-enciclica
diffusa il giovedì santo del 1994), il richiamo del sesso è fortissimo per molti dei 55 mila tra preti e
religiosi italiani. Negli uffici «affari riservati» delle 229 diocesi si moltiplicano le denunce (spesso
anonime) di relazioni clandestine e perfino di abusi sessuali.
Ma talvolta è lo stesso interessato a rivolgersi al vescovo, confidando il suo dramma di sacerdote
innamorato. La reazione?
Meno severa di quanto si possa immaginare. Un sacerdote di un paese della Lucchesia mi racconta
la sua esperienza: «Ho chiesto di essere ricevuto, con la mia donna, dal vicario generale del
vescovo. Gli abbiamo confidato la nostra tormentata vicenda sentimentale. No, non si è
scandalizzato. Ci ha ascoltato, ha capito il nostro dramma, alla fine ci ha consigliato: se proprio non
riuscite a lasciarvi andate in Brasile.
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O in Africa. In terra di missione tutto è più semplice per i sacerdoti che vogliono vivere una vita di
coppia. Lontananza e tolleranza?
Lorenzo Fioretti, ex parroco, ha affidato la storia del suo «strappo» alle pagine di un libro: Un prete
allo specchio (Perugia, 1992). A proposito delle tentazioni carnali, fra l’altro, annota: «Ho fatto
domande a sacerdoti di tutte le età. Nessuno mi ha detto di non sentire stimoli sessuali, nessuno ha
negato scappatelle saltuarie o legami affettivi di durata più o meno lunga, sia con donne nubili, sia,
e più frequentemente, con donne sposate. Ma ho trovato anche una regola comune a tutti: mai
ammettere pubblicamente i propri sentimenti e i propri rapporti
E’ stato un sacerdote più anziano di me a ricordarmelo: avventure si ma con cautela: retaggio di un
insegnamento che avevo dimenticato. Chi non rispetta questa regola è immediatamente soggetto a
provvedimenti disciplinari, come il trasferimento o la sospensione, se non la scomunica con la
conseguente riduzione allo stato laicale». Fioretti, tuttavia, spiega come la punizione sia l’extrema
ratio. Più spesso — se certe cose non sono state fatte con cautela — vige la prassi:
promoveatur ut amoveatur. Così il parroco birichino.... diventa monsignore...
« In de sexto non datur parvitas materiae» (I peccati che riguardano il sesto comandamento sono
tutti mortali). ‘Sorride Lorenzo Maestri, 63 anni, di Luino, autorevole esponente di Vocatio,
associazione italiana che riunisce i preti sposati, ricordando quel motto minaccioso dei suoi lontani
anni di seminario. «Oggi probabilmente la situazione è mutata, ma’ ai miei tempi il terrorismo
sessuale era la regola. Ai giovani aspiranti preti si paventava perfino che la masturbazione
costituisse un “omicidio in potenza”.
Tra i principi e la realtà», spiega, «corre un abisso. Ma l’importante è negare, occultare, fingere.
Turbamenti sessuali e amorosi non devono affiorare. Un seminarista o un sacerdote non racconterà
mai, neppure all’amico più caro, di essere innamorato di una donna, di sentire il richiamo della
carne. La sfera personale non deve aprirsi all’esterno. Intendiamoci, si tratta di un fenomeno
soprattutto italiano. Negli altri Paesi c’è più apertura. Il problema dell’affettività dei preti, delle loro
relazioni sentimentali, viene affrontato e discusso Tanto che negli Usa, per esempio, esistono
statistiche ufficiali sulle trasgressioni sessualsentimentali dei sacerdoti. Venti preti su cento», elenca
Maestri, «hanno un rapporto stabile con una donna, cinquanta su cento intrattengono rapporti
saltuari. In Italia non vi sono dati attendibili al riguardo, ma credo che le cifre degli Stati Uniti
possano fare testo.»
Nella cattolicissima Spagna (per certi versi più vicina al nostro Paese) le cifre sono ancora più
sorprendenti.. Pepe Rodriguez, giornalista, ha pubblicato di recente La vida sexual del clero
(Ediciones B., 1995), un saggio sociologico attorno alla sessualità dei preti. Che contiene, fra
l’altro, un interessante sondaggio. Due dati significativi: il 95 per cento dei preti spagnoli
intervistati dichiara di masturbarsi, il 60 di mantenere relazioni sessuali.
Fuga dalla castità, dunque. E dal celibato, legge, ecclesiastica, ma non divina.
Come spesso sottolineano i sacerdoti che hanno «gettato la tonaca». E che gridano apertamente la
loro condizione, battendosi affinché le cose cambino. Profetizzano: tempo dieci-vent’anni, e anche
la Chiesa cattolica concederà ai preti di sposarsi. Troppo ottimisti? Forse. Comunque, possono
contare sul sostegno di autorevoli teologi. Di Bernhard Haring per esempio. Che, nel libro Preti di
oggi preti per domani (ed. La Queriniana, 1995), disegnando una figura di sacerdote sempre più
vicino alla gente comune, si dice convinto che la Chiesa rivedrà l’attuale norma sul celibato.
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D’altronde, il celibato ecclesiastico quale condizione per l’ingresso nel ministero ordinato, e mezzo
per far osservare finalmente la lex continentiae (largamente e pubblicamente disattesa nelle epoche
passate; basti dire che ci sono stati sette papi sposati, di cui cinque con figli; tredici papi figli di papi
o di preti, come rileva una statistica pubblicata da «Sulla Strada.>> fu ufficialmente sancito nel
1139, sotto il pontificato di Innocenzo II, durante il Concilio Lateranense II.
«Nel Vangelo si parla solo di un dono del celibato come libera scelta», sostiene la teologa Adriana
Valerio, ricercatrice di Storia del cristianesimo all’Università di Napoli.
« Non certo come una legge obbligata >> .
Anzi. Nella Prima Lettera a Timoteo, Paolo, parlando dell ”episcopo” lo esorta ad avere una sola
moglie. Ed è un buon consiglio; poiché chi dirige bene la famiglia può dirigere bene una Chiesa
Dunque, nella Chiesa ci si sposava…. Soltanto nel IV secolo si comincia a porre il problema.
E lo si pone per un’esigenza di purezza rituale. Si tratta», spiega la teologa, «di una vecchia
concezione dell’Antico Testamento, secondo cui l’atto liturgico doveva richiedere una purezza da
parte del celebrante; e quindi si chiedeva al clero ammogliato di astenersi da rapporti sessuali.
Dal momento in cui la liturgia della messa diventa più frequente, è evidente che c’è necessità di
astenersi dai rapporti sessuali quotidianamente, e allora, pian piano si chiede al clero, prima di
dividere il letto, poi le case, poi di mandare via la moglie. Con conseguenze drammatiche...
Perché mandare via la moglie significava prima liberarla dal vincolo matrimoniale e quindi lasciarla
in una condizione di abbandono e di inferiorità grave. »
Gianni Baget Bozzo, al contrario, è un acceso sostenitore del celibato ecclesiastico. La sua, sia
chiaro, non è una tesi dottrinale. Ma spirituale. Egli, infatti, pone l’accento sulla spiritualità del
prete, quale raffigurazione di Cristo, « sposo della Chiesa». «Purtroppo, dagli anni SessantaSettanta in poi», spiega il teologo, « si è avviato un processo di secolarizzazione.
Con il Concilio Vaticano II, nella Chiesa il linguaggio mistico ha perduto quota in favore del
linguaggio sociale. E in quest’ottica anche il celibato perde valore. Ma se cade questa regola»,
avverte Baget Bozzo, «il sacerdote cattolico finisce col trasformarsi in operatore sociale, in una
sorta di funzionario di Stato: figura tipica di altre Chiese, come la protestante e l’ortodossa.
Credo, invece, che fino a quando il Papa sarà infallibile, fino a quando il prete resterà celibe,
resisterà anche il Cattolicesimo. Poi, non so. Anche se le vie del Signore sono infinite.»
Il dibattito, comunque, è più che mai aperto. Oggi le associazioni dei preti sposati che chiedono
l’abolizione dello stato celibatario (o almeno la non obbligatorietà) si incontrano, organizzano
convegni, prendono pubbliche posizioni. Sia dalle colonne della loro stampa militante sia, sempre
più spesso, attraverso i mass media.
Romeo Fabbri, a chiosa di una ricerca storica sull’introduzione del celibato nella Chiesa cattolica
(«Sulla strada », 1994, n. 31), così conclude: « Ciò che si può sperare, alle soglie del terzo
millennio, è che Giovanni Paolo Il, dopo aver riabilitato Galileo e Campanella a distanza di quattro
secoli, tolga definitivamente quel nefasto obbligatorio legame tra celibato e ministero ordinato che è
stato introdotto all’inizio del secondo millennio; legame che, dopo quella data, non è stato osservato
dalla maggior parte dei preti e che ha procurato troppi misfatti nella vita personale dei ministri e in
quella pubblica delle comunità cristiane... E’ ora di riconoscere un celibato-carisma credibile agli
occhi del mondo e delle comunità ecclesiali può essere solo quello liberamente scelto per amore del
regno dei cieli... »
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Ma il teologo Sergio Quinzio (scomparso nell’inverno del 1996), pur riconoscendo il realismo di
certe argomentazioni, smorza gli entusiasmi: «La Chiesa di Roma procede a piccoli passi, poi torna
indietro. Lascia cadere qualcosa, qualcos’altro no, dovendosi districare fra dottrina tradizionale e
problemi della vita attuale Insomma, non cambia mai radicalmente rotta E credo che in ciò stia la
sua forza e la sua tenuta millenaria
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Amori a rischio
Colloquio con Petr Zivn
È una donna in cerca di guai quella che decide di amare un. sacerdote » dice Petr Zivn
«Idealista, romantica, combattiva, di fronte alle difficoltà non si tira indietro. Anzi. E’ attratta dalle
sfide. In una società sempre più dura, cattiva, egoista, è il tipo che vuole trovare a ogni costo bontà,
onestà e fiducia.
Per lei è facile convincersi che,a differenza di altri uomini (da cui magari è fuggita per delusione)
il ministro di Dio sia l’uomo ideale. Ideale anche perché irraggiungibile. O quasi.».
Parola di esperto. In sette anni di attività svolta in Italia, ne ha conosciute da vicino almeno una
cinquantina: amanti e mogli di preti.
Sono passate nel suo studio di psicoterapeuta (da sole o talvolta col compagno) con pesanti fardelli
sulle spalle: storie da dimenticare, drammatici dilemmi da sciogliere, personalità da ricostruire. Gli
hanno aperto il cuore e l’anima.
Petr Zivn trentasettenne, di nazionalità ceca, laureato in Teologia e Psicologia presso l’Università
Carlo di Praga. Prima di trasferirsi nel nostro Paese, ha svolto la sua attività nella ex
Cecoslovacchia. Oggi Zivn dirige l’Istituto di Psicologia della Religiosità dell’Università
Internazionale di Milano. E’ ormai da un quindicennio si dedica, come consulente e psicoterapeuta
ai vescovi, ai sacerdoti cattolici e alle loro mogli. Studia inoltre il rapporto tra formazione religiosa
e salute mentale.
Professor Zivny, quali rischi corre una donna che si innamora e sposa un prete? Rispetto
ai matrimoni tra laici, quali difficoltà caratterizzano questo genere di rapporti?
« Si tratta di unioni ad altissimo rischio. Per una ragione precisa: la formazione del sacerdote. Che
comincia dal seminario dove, adolescente, viene educato nell’idea ossessiva di essere un prescelto
da Dio, un privilegiato. Un “diverso”, in virtù della altissima vocazione al sacerdozio. Senza contare
le pressioni psicologiche finalizzate a inculcare in lui l’esaltazione della purezza e la negazione del
sesso; Castità e celibato, promessi ancora prima dell’ordinazione, culminano in un solenne
giuramento o in un voto (ancora più vincolante) quando si tratta di un monaco. Con queste
premesse, la personalità del seminarista non può uscirne che deformata. La psiche viene segnata
profondamente. Di conseguenza, il prete che, poi, si trova coinvolto in una relazione amorosa, che
pensa al matrimonio, deve fare i conti, spesso molto pesanti, con la sua personalità complessata.
Tra l’altro, non ha esperienza con le donne, e del sesso di solito conosce solo la masturbazione. o
l’omosessualità.» Prosegue Zivn «Il prete è destinato a rimanere un eterno adolescente. Il suo
sviluppo praticamente si ferma ai quindici anni... Inoltre, l’educazione repressiva ricevuta smorza la
sua spontaneità, e, al contrario, enfatizza l’autocontrollo. A controllarlo, del resto, ci pensano i
fedeli. Che seguono, passo passo; le sue azioni e i suoi comportamenti. Conclusione?
Il marito-sacerdote nella coppia e nella famiglia rischia fortemente di caratterizzarsi come elemento
di squilibrio. Ciò detto, non bisogna generalizzare. In molti casi le eventuali difficoltà vengono
appianate e, dunque, anche questo tipo particolare di unione funziona».
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Dalle sue osservazioni, tuttavia, dovremmo provocatoriamente dedurre che è auspicabile e
conveniente che il sacerdote non abbandoni la «via maestra»?
« Affatto. Sono convinto del contrario. Personalmente mi batto contro il celibato obbligatorio, legge
imposta dalla Chiesa cattolica di Roma di cui i sacerdoti sono vittime. L’interdizione dal
matrimonio è un vincolo che, a mio avviso, non ha fondamento nella Sacre Scritture.
Cristo nel Vangelo, riferendosi agli “eunuchi che rinunciavano a sposarsi per il. regno dei cieli”, si
pronunciava infatti in un contesto storico-sociale che esaltava l’obbligatorietà del matrimonio.
Gesù, quindi, si prefisse di liberare la gente dall’obbligo di sposarsi... non di imporre la condizione
opposta. « Il celibato», incalza Zivn « è solo una sovrastruttura ecclesiastica che si inserisce in una
organizzazione paramilitare, -nella quale i soldati devono essere totalmente disponibili, anzi
asserviti. Ascolti bene: alla Gerarchia non importa se un prete non è molto intelligente conta
innanzitutto che sia celibe.
Per me, vale il contrario. E’ meglio un sacerdote equilibrato realizzato con moglie e figli (se lo
desidera), che dedica magari meno tempo alla catechesi, ma lo fa con preparazione e competenza,
piuttosto che un celibe poco preparato. Insomma, privilegio la qualità, non la quantità.
Oggi, per esempio,si fa un gran parlare di crisi delle vocazioni occidentali, contrapposta
all’incremento delle chiamate a Dio nei paesi del Terzo Mondo. Ebbene, non esito a dire che molte
vocazioni africane o sudamericane non sono di qualità. La Chiesa offre cibo,alloggio,
affrancamento dalla povertà, privilegi….. e non è difficile capire perché in certe regioni del mondo i
preti non mancano. Del resto molti di loro non si preoccupano del celibato e vivono in totale
promiscuità>>
Da più parti, tuttavia, oggi si sostiene che siamo vicini alla fine del celibato obbligatorio.
Che la Chiesa cattolica, magari col prossimo Papa, rivedrà questa legge. Che insomma, i
tempi sono maturi per la svolta. Del resto, anche gli ultimi sondaggi indicano che persino
molti cattolici praticanti sono favorevoli al matrimonio dei preti. Lei che ne pensa?
«Nella Chiesa tutto è possibile, ma io sono scettico. Certo, può venire un altro Giovanni
XXIII (egli dichiarò pressappoco così: “Potrei abolire il celibato con una firma, ma non lo
faccio, tengo conto di un’esperienza millenaria consolidata»); tuttavia, nel panorama dei
cardinali papabili vedo una linea — fortemente ostile all’abolizione del celibato. Gli
aperturisti sono una minoranza senza potere. »
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Come valuta questa linea oltranzista di conservazione?
« La Chiesa cattolica è una monarchia assoluta. Ed è per lo più circondata da forze che vogliono
distruggerla. Dunque, dal suo punto di vista, occorre serrare i ranghi; occorrono soldati fanatici che
difendono gli interessi della grande azienda vaticana. Permettere ai sacerdoti di sposarsi,
significherebbe rivedere tutta la loro formazione. Significherebbe non riuscire più a incidere sulla
loro psiche, sullo sviluppo emotivo e sessuale. I preti-mariti verrebbero influenzati, invece, dalle
mogli; distratti dagli interessi familiari ed economici; meno assorbiti dalla spiritualità. Immagini i
problemi! Per la Chiesa è molto più conveniente avere alle dipendenze dei robot che obbediscono
ciecamente e non creano ostacoli.
« Scendiamo nel concreto», osserva Zivn « Prendiamo la contraccezione. Come è noto, i
pronunciamenti della Chiesa cattolica sono contrari alla pillola e a tutti i metodi non naturali. La
Gerarchia come la metterebbe allora con i sacerdoti sposati?
Il loro dovere è di diffondere la parola di Cristo e le direttive del Papa; ma essi stessi si
troverebbero a vivere tutte le contraddizioni delle coppie cattoliche praticanti. Usare contraccettivi
o fare troppi figli?
Per non parlare della cultura laica della separazione e del divorzio, affermatasi nelle società
contemporanee. Paradossalmente, sarebbe stato più semplice per la Chiesa chiudere col celibato
obbligatorio cent’anni fa, quando l’istituzione del matrimonio era più forte. Oggi, rompere gli argini
significherebbe mettere in pericolo l’autorità dei ministri di Dio. E se crolla tutto, si entra nel
protestantesimo. La Chiesa, quindi, preferisce non correre rischi.
«D’altra parte», aggiunge Zivny «non mi convincono neppure le soluzioni di compromesso.
Penso, per esempio, alle regole della Chiesa cattolica di rito orientale.
Qui, anche gli uomini già sposati possono essere ordinati sacerdoti.
Ma sono perplesso perché essi, rispetto ai celibi, vengono considerati preti di serie B. Se la moglie
muore, infatti, al sacerdote è proibito prenderne un’altra. E inoltre nessun vescovo può essere
sposato.»
«La Chiesa di Roma», lamenta Zivny «è la Chiesa dei vergini. Si comincia dalla Sacra Famiglia di
Nazareth: vergine Maria, vergine Giuseppe, vergine Gesù. I santi? La maggioranza sono vergini. Da
psicoanalista, dico che così la Chiesa di Roma dimostra grande immaturità. E non vuole crescere! »
Veniamo al tema più specifico della nostra conversazione: le donne dei preti. Professor
Zivn, lei, attraverso, la sua attività di psicoterapeuta, ha avuto modo di avvicinarne
parecchie. C’è un filo che le unisce?
«Il sentimento d’amore per un prete attecchisce se il terreno è fertile. Voglio dire che, di solito,
colpisce solo un certo tipo di donne: le deluse, le idealiste, le romantiche. O, talvolta, coloro che
hanno un forte (e a volte perverso) gusto del proibito. Infine, le situazioni-limite: non di rado accade
che la relazione sessual-sentimentale sia imposta alla donna, attraverso una sorta di plagio, dal
prete-tiranno. »
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Può raccontarmi qualche caso?
« Sì. Cominciamo con una storia collettiva. Protagoniste,una quindicina di donne, tutte invaghite
del parroco del paese. Lui, convinto fino in fondo della regola del celibato, non si sognerebbe mai di
fidanzarsi con nessuna.
Ma accetta la corte delle parrocchiane. Loro gli scrivono, gli telefonano, gli mandano regali. E il
prete ne è lusingato. Concretamente, si lascia andare solo a qualche carezza, forse a qualche bacio.
Lui un tipo alto, prestante. Dolce, sensibile. Tra le donne in competizione c’è una forte rivalità si
odiano perché l’una ritiene che l’altra goda di maggiori attenzioni da parte del parroco, e così via.»
Ma questo che cos’è? Non certo amore...
«Be’ qui, oltre all’ evidente gusto del proibito scatta il desiderio di entrare nelle grazie di un uomo
carismatico una star, a modo suo. E l’essere prescelta da lui significa ottenere una sorta di
riconoscimento, sentirsi privilegiata. In un certo senso, migliore delle altre...
A questo proposito, puntualizza il professor Zivn « mettere un prete celibe in parrocchia, secondo
me, determina il rischio di situazioni patologiche. Molte donne, infatti, sono portate a riconoscere in
lui o il figlio o il padre. Se tenesse famiglia, invece, i vari elementi di tensione verrebbero
disinnescati.
« Ricordo il caso di una quarantenne», continua, « nubile, ma con alle spalle una movimentata e
insoddisfacente vita sessuale e sentimentale. S’innamora, ricambiata, di un sacerdote di
sessant’anni, vergine. Un uomo all’antica, di quelli che portano ancora la tonaca e il cappello nero.
Tra i due il rapporto clandestino va avanti un paio d’anni, poi lui muore. Pensi che, in pubblico, si
davano formalmente del lei, in privato erano due amanti appassionati. Si vedevano in automobile,
lui praticamente nudo sotto la tonaca. Poi andavano a fare l’amore nei boschi. “Ero
innamoratissima”, mi ha confidato la donna. «L’avrei anche sposato. “ Adesso si sente vedova, e
sola. Spesso va al cimitero a pregare sulla tomba del suo parroco.
«Conosco anche la storia di una diciassettenne, vergine. Sedotta dal sacerdote tra le mura della
canonica. Un giorno la ragazza era su una scala e stava sistemando la tenda di una finestra, quando
lui, all’improvviso, l’ha abbracciata e portata a letto. Poi, voleva obbligarla a vivere in parrocchia. Il
padre di lei è intervenuto e gliel’ha letteralmente portata via, strappandola dal destino di servaamante. Ma è finita molto peggio per un’altra giovane...»
Racconti.
— «Un prete di quarant’anni aveva al suo servizio una perpetua vedova, con una figlia trentenne. Il
terzetto viveva assieme in canonica. A farla breve,il parroco intrecciò una relazione con la giovane.
Non so quanto lei l’avesse desiderata o subita. Fatto sta che, morta la madre, fu costretta a restare
presso il sacerdote. Ma, dopo qualche tempo, non riusciva più a sostenere la situazione: di fronte
alla gente, lui e lei si trattavano con distacco formale; in privato erano amanti .La giovane avrebbe
voluto andarsene, rompere il legame. Ma aveva paura ed era soggiogata dalla personalità del
parroco. Sa com’è finita? Con un ricovero in ospedale psichiatrico. Lei è morta, lui vive ancora. »
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Senta Zivn finora, più che relazioni d’amore mi ha narrato drammi e tragedie: ma vi sono
anche storie positive. E comunque sia, molte donne sono riuscite a sposare il sacerdote
amato. Vogliamo parlare delle mogli?
«La situazione, qui, effettivamente è diversa. A parte gli ostacoli familiari e ambientali che
generalmente incontra una donna che decide di sposare un sacerdote, una volta fatta la scelta tende
a vivere un normale rapporto di coppia. Attenzione: tende, tuttavia non è così facile. La moglie,
infatti, si troverà sempre a fare i conti con i sensi di colpa di un uomo che non riesce mai a
cancellare quel giuramento: tu es sacerdos in aeternum. -. E spesso finisce che anche lei si sente
una traditrice. Conosco coppie che, ogniqualvolta hanno rapporti sessuali, chiedono perdono a Dio.
Che non usano la contraccezione, perché ancora fortemente influenzati dalle leggi della Chiesa.
Che, insomma, per tutta l’esistenza, non riescono a cancellare quel “peccato originale”... Chi
solitamente riesce a vivere con minore angoscia il rapporto matrimoniale è il prete che ha dato un
taglio netto con il passato. Fino, in qualche caso, a diventare ateo.
Di solito», osserva Zivn «la moglie segue il marito-sacerdote anche nelle idee , Comunque, c’è in
queste coppie un forte desiderio di normalità, una corsa a inserirsi nella società laica, seguendone
usi e costumi. E’ raro, per esempio, che confessino ai nuovi amici che “lui” era un sacerdote.
A volte non lo rivelano neppure ai figli. E la più grande offesa che la moglie può arrecare al marito
(non è insolito che ciò accada) è, durante le liti, l’apostrofarlo ironicamente con frasi del tipo: si
vede proprio che sei rimasto un prete!
«Un soggetto a parte», spiega Zivny «è la moglie del sacerdote che non solo non nasconde la realtà,
ma ne fa persino una ragione d’onore. Al punto da impegnarsi costantemente, assieme al marito, a
testimoniare nella società, con i comportamenti, un modello di coppia e di famiglia.
Dall’educazione dei figli, all’impegno nelle opere sociali, allo stile di vita nel suo complesso,
possiamo definire questa moglie “esemplare”. Lui è il tipo che, contrario al celibato obbligatorio,
anche dopo sposato continua serenamente a sentirsi prete, al punto da celebrare frequentemente la
messa, in privato o davanti a una piccola comunità. Consacra il pane e il vino, distribuisce
l’eucarestia. E lei lo assiste, acquisendo quasi il ruolo di chierichetta. Un esempio estremo?
Una coppia formata da un sacerdote cattolico e una sacerdotessa protestante. La conosco
personalmente. Lui, privato forzatamente del ministero ecclesiastico, si realizza collaborando con la
moglie.
« Ma il caso davvero singolare riguarda una donna che ha sposato un prete per ispirazione
soprannaturale. Così almeno lei sostiene. È la storia di una signora, sposata con figli, che a un certo
punto della vita sente una voce che le dice: tuo marito morirà e tu sposerai la tua guida spirituale.
Sconvolta, racconta tutto al confessore. Che riferisce i fatti al vescovo e anche al Papa. Qualche
tempo dopo, la previsione si avvera: il marito di lei muore, mentre continuano le ispirazioni,
attraverso la scrittura automatica. Che consiste, in pratica, nello scrivere parole e pensieri come se
fossero sotto dettatura. Ma, fisicamente, a dettare, non c’è nessuno.
«La donna e il direttore spirituale si uniscono in matrimonio. E la “voce” le indica la strada maestra:
dedicarsi alla battaglia in favore dei preti sposati. Così, ormai da molti anni, la signora, assieme al
marito, si batte con accesa convinzione contro il celibato. E lui, per la causa, ha anche fondato un
movimento, chiamando a raccolta altri sacerdoti ammogliati. »
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Il mio uomo è un prete
Angelina
Lo ama, da dodici anni, e lo accudisce. Gli lava e stira la biancheria, gliela consegna in ordine,
durante il weekend, quando il suo uomo « scappa» dall’istituto della Congregazione di don Orione
di una città della Riviera di Levante e arriva a Genova a trovarla. E’ un’amante-mamma, Angelina.
Cura la dieta di Carlo, che soffre di gastrite, compra per lui le maglie di lana e i pantaloni. «Di
colore diverso dal solito nero che porta in convento», spiega. «Quando usciamo o andiamo in
vacanza, nessuno deve capire che è un prete».
La incontro per la prima volta nell’estate del ‘95. Mi riceve nella sua casa, un decoroso
appartamento di un grande condominio. Don Carlo S., cinquantadue anni, i1 suo innamorato, non
c’è. «Fa il pendolare», dice Angelina. E sospira: « Se vivesse stabilmente con me sarebbe tutto
diverso. Ma sono costretta ad accontentarmi».
(Soltanto tre mesi dopo questo colloquio, il sogno si realizzerà, ma lei non lo sa ancora. E, pur
sperandolo, è molto prudente nelle previsioni. A tratti, pessimista.)
Ha voglia di raccontarsi, Angelina. Quarantasei anni, infermiera, la fidanzata di don Carlo, direttore
di un istituto per handicappati, è madre di un figlio di ventitré, avuto dall’uomo che l’ha
abbandonata tanti anni fa.
« Non è molto tempo che facciamo seri progetti di vita in comune», attacca. « In tutti questi anni ci
sono stati alti e bassi. Sostanzialmente, lui non è mai riuscito a prendere una decisione ferma:
abbandonare la comunità per stare con me. Ma chissà, forse, in futuro... Non è detto che non
vivremo assieme e magari ci sposeremo. Del resto, quando cominciò la relazione, Carlo mi avvertì
subito: guarda che non intendo abbandonare il sacerdozio.., se vuoi sposarti, non sono l’uomo che
fa per te.»
«Ci conosciamo da dodici anni, e la nostra storia dura da undici spiega. «Ricordo che lui mi piacque
subito, al primo incontro. Mi colpirono soprattutto il suo modo di fare e la dolcezza nell’esprimersi.
Don Carlo veniva regolarmente nell’ospedale dove lavoravo a trovare un’anziana zia.
Cominciammo così a chiacchierare e, incontro dopo incontro, diventammo amici. In quel periodo
ero sola, non avevo storie, non frequentavo nessuno.»
S’innamorò di quel sacerdote per solitudine?
«No. Però, non sarei sincera se non ammettessi che la compagnia di un uomo buono e sensibile fu
per me un toccasana». Un uomo legato indissolubilmente a Dio. E appartenendo a una
Congregazione religiosa, aveva fatto voto di castità, obbedienza e povertà.
«Sì, lo so. E, infatti, non appena ci accorgemmo che l’amicizia stava per prendere un’altra piega,
andammo entrambi in crisi. Tristezza, paura, sensi di colpa, uniti però da un forte desiderio di stare
assieme. Ricordo ancora il primo appuntamento fuori dall’ospedale: una bella giornata, il mare
azzurro davanti a noi, i fiori colorati che spuntavano sulle colline di Genova e ci mettevano la
primavera addosso. Parlammo, parlammo a lungo. Abbiamo passato un anno intero a farci
confidenze l’un l’altra».
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E l’amore, l’attrazione fisica?
«Oh, l’attrazione c’era, e forte. Ma per un po’ abbiamo voluto privilegiare il dialogo, i sentimenti.
Soltanto dopo un anno e mezzo di frequentazioni, ci lasciammo andare fisicamente. Prima di allora,
infatti, non avevamo avuto rapporti sessuali. Credo di essere stata per Carlo la prima donna. Anche
se non me l’ha mai detto apertamente, e io non gli ho mai fatto domande in proposito.»
Signora, che significa amare ed essere amata da un sacerdote? Lei in passato...
«Vuol dire rispetto al mio primo uomo? Be’, quella storia fu disastrosa. Col padre di mio figlio,
infatti, ci lasciammo malissimo. Credo, però, di essere incappata nella persona sbagliata.
Intendiamoci, anche con Carlo ci sono problemi. Tuttavia, credo di poter dire che, con un prete,
l’amore si sviluppa più lentamente ma mette radici profonde. Il sacerdote è una persona dotata di
sensibilità tutta particolare. »
Le pesa il ruolo di amante clandestina?
«Abbastanza. Mi pesa soprattutto il fatto di non poter stare con Carlo alla luce del sole. Di dover
nascondere ai parenti e agli amici la nostra relazione. Soltanto alle famiglie dei preti sposati che
frequentiamo riveliamo la nostra identità. Loro ci capiscono, hanno vissuto problemi analoghi. Mi
pesa la lontananza il fatto di vedere il mio uomo solo una volta alla settimana (e non sempre è
possibile) e di stare assieme a lungo soltanto durante le vacanze. Però, a lui non rinuncerei.
Ho anche provato, senza riuscirci. Spesso mi sono chiesta: che senso ha andare avanti così, senza
prospettive, senza futuro?
Alla fine, mi sono sempre piegata al destino. Vuoi perché tutti i momenti passati con Carlo mi
ripagano delle sofferenze, dei guai quotidiani. Quando sono giù, penso per esempio ai viaggi
bellissimi che abbiamo fatto assieme...»
(Angelina prende un album di fotografie e me lo mostra: ecco il mare, la montagna, le città
spagnole, lei, abbronzata e sorridente, ritratta con gli allegri abiti colorati, gli orecchini pendenti, il
costume delle donne andaluse...)
«Vuoi perché Carlo, nonostante tutto, è un appoggio per me», continua. « Vede, mio figlio ha avuto
gravi problemi di tossicodipendenza, lui gli è stato generosamente vicino, gli ha dato una mano a
tirarsi fuori. Con l’affetto e la dedizione di un padre.»
Angelina racconta del suo uomo con naturalezza. Nelle sue parole la figura del prete svanisce.
Eppure Carlo continua a celebrare messa, distribuisce l’Eucarestia, confessa e assolve i penitenti.
Dunque, la doppia vita, la rottura costante dei voti solenni sono per lui la normalità. Nella coppia il
ménage si è andato trasformando e stabilizzando col tempo, sia pure nella clandestinità.
Gli appuntamenti saltuari e discontinui sono diventati fissi. Carlo non aveva l’automobile; l’ha
acquistata appositamente per raggiungere Angelina a Genova.
Lontani da occhi indiscreti, Carlo e Angelina conducono una normale vita di coppia.
Lei ha cominciato ad accudirlo con regolarità, come farebbe una moglie con un marito in trasferta.
«Sì, per lui sono una moglie, un’amante, -una mamma», spiega. «Gli ho dato tanto. Eppure»,
ricorda, «quante volte mi ha ripetuto che non avrebbe mai lasciato la Chiesa per me. Ma io mi sono
detta: resisti, forse il tempo lavorerà in tuo favore. Da un paio d’anni, infatti, Carlo fa discorsi
possibilisti sul nostro futuro.
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Scusi. Angelina, come riesce il suo uomo a barcamenarsi tra il convento e lei? Come fa ad
assentarsi così spesso? I confratelli non si sono accorti di nulla?
«Non ho cértezze al riguardo, ma credo che nella comunità in cui vive qualche sospetto vi sia.
Credo che alcuni collaboratori ne siano addirittura al corrente e mantengano il segreto. Del resto, lui
si assenta a giorni fissi, è cambiato nell’aspetto e anche nel comportamento. Ma tutti tacciono:
purché - non scoppi lo scandalo...» - Carlo è «indipendente economicamente?
«Oh, non può contare, come i parroci, sull’assegno mensile della Curia. L’istituto lo mantiene, e
per le sue spese si - arrangia in vari modi. Sia con le offerte delle messe, che con i proventi di alcuni
lavoretti. Del resto, sa fare un po’ di tutto: carpentiere, elettricista, idraulico, agricoltore.»
C’è qualche aspetto del suo carattere o del comportamento che vorrebbe diverso?
«Complessivamente va bene così. Mi piacerebbe, però che avesse più spirito di iniziativa; lui,
infatti, si affida totalmente a me. E poi... devo dirlo? Vorrei che manifestasse più esplicitamente il
suo amore. Che fosse più coccolone. Anche - se qualche- passo avanti, col tempo, l’ha fatto. Adesso
mi chiama affettuosamente piccolina mia. Ma ce n’è voluto! Io gli ho sempre detto tesoro e... sei il
mio re...»
Non ha mai temuto che Carlo potesse lasciarla?
« Eccome. Sono sempre - vissuta nell’insicurezza, nella paura che dicesse basta, torno sui miei
passi. Una volta, in particolare: quando andò in Africa per tre mesi. Ero angosciata furono mesi di
purgatorio. Ma, poi, grazie a Dio è tornato da me.»
Angelina, voi due vi sentite ancora in colpa per il vostro amore fuorilegge?
--
«Affatto. Oggi, dopo tanti anni di clandestinità, di dubbi e timori, credo che formalizzeremo il
nostro rapporto. Mi pare proprio che anche Carlo si sia finalmente convinto. Abbiamo fede in Dio,
andiamo spesso in chiesa assieme a pregare, e chiediamo la grazia di risolvere positivamente la
nostra situazione. »
34
Veramente, per la Chiesa la soluzione ideale sarebbe che lui si pentisse e tornasse all’ovile
come la pecorella smarrita.
Non abbiamo fatto nulla di male, noi ci amiamo davvero. E’ la Chiesa che è incomprensibilmente
rigida. Il celibato dei preti è una regola assurda. Carlo prima di innamorarsi ci credeva. Adesso
pensa che si possa essere buoni sacerdoti e contemporaneamente buoni mariti. » - -
Ai primi di novembre del 95 telefona Angelina per annunciarmi che il suo uomo ha fatto il
grande passo « Si è trasferito a Genova e da un mese vive qui con me», dice, soddisfatta. La sua
«pazienza» ha vinto. Ma che cosa ha spinto il religioso a decidersi ad abbandonare la comunità
religiosa? E lui stesso a spiegarcelo.
«Se non me ne fossi andato ora», -racconta Carlo S., «avrei dovuto aspettare un altro anno. In
comunità, gli avvicendamenti dei religiosi avvengono in periodi fissati. E io non potevo certo
-“fuggire” dall’istituto, lasciando venticinque handicappati senza un punto di riferimento.
L’organizzazione degli ospiti e degli undici dipendenti infatti pesava tutta sulle mie spalle, dal
momento che l’anziano direttore-fondatore mantiene da tempo ormai solo una carica
rappresentativa. Ad essere sincero, già tre anni fa ero sul punto di lasciare, quando, all’improvviso,
è morto padre Gianni, che con me teneva in piedi la baracca. Così, non me la sono sentita di
piantare in asso tutto. Mi sono detto: rimango ancora il tempo necessario per sistemare le cose, poi
me ne vado. Modestamente, ho “rifatto” l’istituto. Che. oggi viene considerato un “gioiello” dai
dirigenti della Congregazione. Con trentadue ettari di terreno, coltivazioni e allevamenti, la
comunità è quasi autosufficiente. Inoltre, in questo periodo mi sono dato da fare perché i nostri
handicappati potessero ottenere tutti i sostegni finanziari previsti dalla legge. Credo, insomma, di
lasciare al nuovo direttore in arrivo una struttura a posto da tutti i punti di vista. »
Sembra che le sue preoccupazioni siano sostanzialmente di tipo pratico. Scusi, don Carlo,
non trovo nelle sue parole quel travaglio interiore che accompagna di solito chi come lei, si
appresta a sciogliere i vincoli che lo legano alla Chiesa.
«E’ vero; ma la considero una fase superata. Mi spiego meglio. Durante i primi anni della mia
relazione con Angelina non pensavo affatto di lasciare la Congregazione. Le dirò di più. La conobbi
in un periodo di crisi con i miei superiori. Conflitti che nulla avevano a che fare con la fede e il
Padreterno. Tuttavia, ero molto angustiato. Angelina mi fu di molto aiuto. Ma a un certo punto le
dissi: lasciami in pace, tiro avanti per la mia strada... Sei ancora giovane e bella, cercati un altro.
Sarò contento quando saprò che sarai sposata con un uomo che ti farà felice.
« Non ce l’ho fatta, è chiaro. La relazione è andata avanti. Eppure, per tanti anni mi sembra di aver
dimostrato una cosa importante: sono stato sia un ottimo prete che “un buon marito”... Certo, ho
tenuto il piede in due staffe, ho fatto il pendolare tra l’istituto e Genova. Non credo, però, di aver
trascurato i miei doveri in comunità. Per farla breve, attraverso la mia esperienza ho capito che il
celibato ecclesiastico è una regola assurda. Oggi ho fatto una scelta, certo. Ma se non ci fosse questa
regola, avrei potuto evitarla. Avrei potuto sposare Angelina e, contemporaneamente, prestare la mia
opera di sacerdote a chi ne ha ancora bisogno. E’ stata, mi creda, un’esperienza terribile lasciare
dopo tanti anni la mia Famiglia Religiosa.»
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Come hanno reagito i suoi superiori?
«Se l’aspettavano. Non era un mistero il fatto che da tempo avessi una relazione sentimentale.
Anche se si taceva, si fingeva di non sapere. A ogni modo, il padre provinciale, pur
consapevole che sarebbe stata un’impresa ardua, ha tentato di dissuadermi. Mi ha dichiarato tutta la
sua stima, mi ha offerto altre chances. Naturalmente, ho tenuto duro. E ho subito avviato le
procedure per ottenere la dispensa. »
Don Carlo S. mi consegna una copia della lettera inviata alla Direzione Generale e Provinciale della
Congregazione di don Orione, con la quale chiede di essere sciolto dai voti.
Porta la data del 12 agosto 1995. Vale la pena di leggerla.
«Sono il confratello C. S. Un disegno misterioso del Signore mi aveva preso dalla
mia famiglia naturale alla tenera età di dieci anni, ben quarantadue anni fa, e mi
aveva portato nella nuova grande famiglia di don Orione, dove si può dire sono stato
allevato, cresciuto, dove ho ricevuto tutto e ho anche dato tutto. Mai avrei pensato di
dover un giorno uscire; e invece ora, a conclusione di tredici lunghi anni di conflitto
interiore, chiedo la dispensa dai Voti Religiosi per poter uscire e iniziare una nuova
vita.
« Quando, tredici anni fa, ho avuto il sentore per la prima volta che prima o poi avrei
finito con l’abbandonare quella che ero convinto fosse la mia vera Vocazione.., ho
provato sgomento e panico, ma non sono stato capace di reagire. Punto di forza e
sostegno essenziale della mia vita religiosa era una profonda vita comunitaria. Io,
invece, a causa di qualche difficoltà che non ho saputo né voluto superare, mi sono
autoemarginato ed escluso, e mi sono ritrovato solo. Ho continuato sì a lavorare e
con sempre maggiore intensità per la Congregazione, per i più poveri e gli
emarginati, a “fare il prete” con maggior umiltà e convinzione; però, distaccato,
con la testa e il cuore altrove, orientati sempre di più verso una forma di vita in linea
con le esigenze più naturali e profonde della persona, così come è stata creata da Dio.
«La Provvidenza mi ha fatto incontrare molto presto la persona giusta che mi ha
ridonato la voglia di vivere. Ne è nata un’amicizia profonda orientata subito verso il
matrimonio. Nell’85, però, mi ero totalmente ripreso come sacerdote c religioso, e
stroncai energicamente ogni prospettiva diversa.
Le dissi le fatidiche parole “... lasciami andare per la mia strada” Ma non fu così.
«... Ora chiedo la dispensa dai Voti per vivere “felice e contento” assieme alla mia
Angelina, che da dodici anni mi aspetta e mi ama come nessuna persona al mondo.
« E ora vorrei esprimere alcuni sentimenti che sembrano di circostanza, ma che sento
vivi in me. Ringrazio tutti per il bene ricevuto. Chiedo scusa a tutti, dalla mamma ai
fratelli e parenti, dai confratelli e consorelle, collaboratori e amici, per la delusione
che questa mia decisione potrebbe loro procura re. Mi dispiace molto lasciare tutto
l’ambiente dove ho trascorso questi ultimi felicissimi sei anni. Mi mancherà
certamente tanto. I quarantadue anni trascorsi in Congregazione sono la mia vita, che
continuerò a portarmi strettamente dentro. Ma vado avanti con serenità, con
l’intenzione. di allontanare ogni ipocrisia, con rettitudine e trasparenza davanti a Dio
e ai fratelli.
«Sarei pronto a “partire” anche subito, o agli inizi del prossimo mese. Vorrei farlo il
più possibile in punta di piedi, con gratitudine. Sono disponibile a collaborare, specie
nei primi tempi, con chi mi rimpiazzerà, nei modi e nelle forme che riterrà più
opportuno; anche perché uscendo mi ritroverò da “sovroccupato” a totalmente
“disoccupato’, e con non pochi problemi di natura economica, alcuni dei quali del
tutto irrisolvibili, come una “pensione” per quando sarò anziano, se ci arriverò.
«In attesa di una risposta positiva, i miei più cordiali saluti.»
Don Carlo da un mese, vive stabilmente con Angelina.
Come sta andando la convivenza?
«Bene. Andiamo d’accordo. Ma, inutile negarlo, qualche problema c’è. Del resto, lo prevedevo.
Viviamo con lo stipendio di Angelina. Che cosa posso fare io, cinquantaduenne disoccupato? La
mia laurea in Filosofia ormai non serve a nulla. Sono troppo vecchio per inserirmi
nell’insegnamento. Ma non trovo neppure altri lavori. Per dirne una, ho bussato a qualche. istituto,
offrendomi come educatore; è andata male. Non mi arrendo, certo. Le difficoltà, però, sono grandi.
«Vede», si sfoga, «non è solo una questione di quattrini, di pagnotta da guadagnare. A prescindere
dal sacerdozio, fino - a ieri ero un uomo con una vita piena, con tanti impegni e responsabilità. Ero
un punto di riferimento per molte persone. Ora non sono più nessuno. Di fatto, mi sono autoemargi
nato. Angelina fatica a comprendere queste mie frustrazioni. Per lei conta solo il fatto di avermi
tutto per sé. Ma io gliel’ho detto più volte: tu rappresenti il 50 per cento della mia vita; devi capire
che ce n’è ancora una metà... »
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Graziella
Hanno fatto l’amore una sola volta. Nella casa di lei, arredata con vecchio mobilio restaurato con
cura. Gusto un po’ particolare : Angioletti dorati (come si vedono abitualmente nelle chiese) che
dalla parete, vigilano sul lettone ricoperto di lini e candidi pizzi; il soggiorno color noce, sobrio,
quasi francescano. E’ strano questo pianoterra nel centro storico di una cittadina padana, abitato da
una single, bionda, simpatica, di professione impiegata.
L’amore fisico una sola volta, dicevo: tra Graziella, trentacinque anni, e don Antonio, trentasette.
E’ accaduto dopo due anni di lontananza, di tiramolla, di vorrei ma non posso ‘al telefono (detti da
lui); è accaduto dopo un lungo stacco dalla prima trasgressione, un incontro intimo, avvenuto quasi
a sorpresa nello studio del prete. « Non fu un rapporto completo», spiega lei. «Baci, abbracci,
effusioni, poi ci siamo fermati. Troppo rischioso, qualcuno avrebbe ‘potuto sorprenderci »
Vogliamo annoverare Graziella fra le « tentatrici »?
Lei non lo ammetterebbe mai. Certo, è pur vero che don Antonio si è lasciato andare per primo,
confessandole spontaneamente sentimento e attrazione; ma poi è fuggito alle tentazioni, partendo
per Roma, proiettato verso la «carriera ecclesiastica»:
E Graziella ha cominciato ad assediarlo di telefonate, a invitarlo a uscire allo scoperto, a chiedergli
appuntamenti per « chiarire definitivamente la situazione».
Graziella, sia sincera: non crede di aver messo a dura prova la virtù di don Antonio?
«No, non credo. Ammetto solo di averlo un po’ incalzato perché trovasse il coraggio di assumersi le
sue responsabilità. Perché prendesse una decisione coerente, senza farsi influenzare dall’ambiente.
Avrei voluto che fosse lui e solo lui a scegliere se rinunciare o no alla nostra relazione. Non
accettavo i ragionamenti del tipo “non posso abbandonare tutto, i miei genitori ne morirebbero; e
poi le persone che mi conoscono perderebbero la fiducia in me eccetera eccetera”. Purtroppo, non
sono riuscita a stanarlo, credo che deciderò io di chiudere, anche se soffro come una bestia. »
Graziella rivela che sarebbe disposta ad amare il suo prete segretamente, per sempre. Pur di non
perderlo. «È soprattutto la testa di quell’uomo a coinvolgermi totalmente. Vede», spiega, «io ho
avuto altri amori, finiti male; e anche brevi avventure di sesso. Voglio dire che non sono una
ragazza sprovveduta e inesperta. Ma lui mi è entrato dentro. Non trovo le parole per spiegare con
quale intensità»
Come è incominciata la vostra storia?
«Ho conosciuto don Antonio nel ‘91, frequentando casualmente la sua chiesa, che non era la mia
parrocchia. Ci ero capitata con un gruppo di amici, in un momento particolare della vita. Uscivo,
infatti, da un’esperienza deludente fatta in una comunità neocatecumenale; ero in crisi, dopo una
botta sentimentale. Finita, per la verità, già da un po’ di tempo. Lo notai subito don Antonio: bello,
alto, moro. Ma, sia chiaro, senza malizia alcuna. »
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« Fatto sta», prosegue Graziella, « che un giorno vado in chiesa per confessarmi e trovo lui. Più che
una confessione, ricordo, è stato un mio monologo. Ho vuotato il sacco su tutto ciò che mi ribolliva
dentro. Uno sfogo, insomma. Credo che si sia persino dimenticato di darmi l’assoluzione. Poi, l’ho
rivisto altre volte, in gruppo; e, prima di partire per le vacanze, sono passata a salutarlo.
«Figurarsi, al mare mi prendo una cotta per un ragazzo di Roma! Don Antonio in quel momento
non è nei miei pensieri. Quando, a ottobre, rivedo il prete e gli parlo, giù con un altro sfogone del
tipo: non sono sposata e nemmeno fidanzata, ma col romano vado a letto. perché mi piace. Non mi
importa se la Chiesa è contraria ai rapporti prematrimoniali... »
E lui?
«Mi ascolta e un po’ mi rassicura: tranquilla Graziella, Gesù perdona le debolezze umane...
Passiamo ad argomenti più profondi e mi accorgo che starei a sentirlo per ore. Le settimane
seguenti, durante la messa, noto che don Antonio dall’altare mi guarda in continuazione, O sono io
che ho le traveggole? »
Graziella spiega per filo e per segno come, nei successivi colloqui, viene via via affascinata
dall’intelligenza di don Antonio.Che diventa il suo direttore spirituale.
Nel frattempo, la storia col giovane romano si chiude. Poi, un pomeriggio, il prete la chiama e le
comunica che sta per trasferirsi in Vaticano. Avrà altri incarichi, seguirà la carriera ecclesiastica. E,
a bruciapelo, le chiede se è innamorata di lui. Lei nega. Il sacerdote, da parte sua, ammette invece di
nutrire nei suoi confronti qualche cosa di più di una profonda amicizia.
« Quella notte non ho chiuso occhio», racconta Graziella.
«Mi sentivo ribollire il cervello e l’anima. » Don Antonio parte; un paio di settimane dopo lei
prende il coraggio a due mani, gli scrive e gli rivela di aver mentito.
«Anch’io ti voglio bene», confessa nella lettera.
Il sacerdote prende tempo. Telefona e le dice: ne parleremo a voce. Qualche mese dopo ritorna a
casa a trovare i parenti. Chiama Graziella, chiede di vederla, ma all’ultimo si nega. Riparte e torna
di nuovo, i due si incontrano, si parlano.
E don Antonio, prima di salutarla, a sorpresa, l’abbraccia e la bacia con passione.
« Da quel momento comincia l’inferno», confida Graziella. « Io non ho in testa che lui, sto persino
male fisicamente.
E Antonio, tra slanci e ripensamenti, un po’ mi respinge, un po’ mi illude. Telefono in Vaticano, mi
liquida col pretesto che ha da fare. Chiamo ancora, mi dice vieni a trovarmi, poi cambia idea. Però,
durante uno dei suoi rientri alla base, accetta di farmi visita a casa. Facciamo l’amore (me l’ha
chiesto lui) con grande trasporto. Discutiamo, scherziamo, siamo felici. Riparte, e le cose
continuano come prima: una specie di estenuante gioco a rimpiattino. »
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Da quando il sacerdote e l’impiegata si sono conosciuti sono trascorsi ormai quattro anni. «Se fosse
convinto di non volermi più, se me lo dicesse chiaramente», si strugge ora Graziella, « forse
riuscirei a mettermi il cuore in pace.
Ma penso che la sua sia soltanto una fuga dalla realtà. Un piegarsi al falso senso del dovere, una
ipocrita rassegnazione. Non è coerente, ha solo paura. Inoltre, anche se Antonio non ha mai. voluto
ammetterlo, è molto coinvolto nella brillante carriera che gli si prospetta in Vaticano. Chissà, forse
vuole diventare monsignore. Se, tuttavia, è convinto di far tacere i sentimenti, appagandosi del
potere ecclesiastico, credo che commetta un grosso sbaglio.
«Quanto a me, una storia così importante non l’avrò mai più. Pur di salvarla, avrei accettato lunghi
distacchi, briciole di vita in comune, incontri non ravvicinati. Non è tanto il sesso, l’amore fisico,
che conta tra me e Antonio. Di ciò potrei perfino fare a meno. E’ un’intesa profonda, una sintonia di
sentire e di intelletto che mi unisce a lui. Per il mio sacerdote, avrei fatto l’amante a vita.»
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Paola
È timida, dubbiosa, impaurita. Se glielo avessi chiesto, di sicuro Paola, trentotto anni, non avrebbe
accettato di incontrarmi. Neppure dietro la garanzia dell’anonimato mi avrebbe raccontato la sua
storia. Allora, al suo posto, lasciamo parlare lui, il prete innamorato. Un’eccezione tra queste storie
viste « dalla parte di lei». «E’ meglio che Paola non venga a sapere del nostro colloquio»,
esordisce Francesco, non appena ci sediamo al tavolino, in un angolo appartato del caffè
affacciato sulla
passeggiata a mare. Siamo in una cittadina della Versilia. Francesco è un quarantenne alto e
robusto; la sua esuberanza fisica contrasta con un’evidente timidezza. Sovente, mentre parla,
arrossisce. Tuttavia, durante la conversazione l’imbarazzo iniziale si scioglie a poco a poco.
«Mi costa fatica rivelare la nostra storia», dice, «ma, riflettendoci, credo che sia giusto e utile che
certe situazioni vengano allo scoperto. Che la gente sappia. Vede, è troppo facile giudicare, buttare
la croce addosso ai preti che vanno in crisi per una donna».
Toscano, nato e cresciuto in Versilia, Francesco a diciassette anni entra nel seminario di Lucca e ne
esce, dieci anni dopo, sacerdote. «Già prima che fossi ordinato», ricorda, «i compagni mi dicevano
“tu diventerai vescovo” »
Sorride e spiega: «La vocazione era salda, ero un seminarista modello». Ed è stato anche un parroco
modello, zelante ministro di Dio nel paesino di montagna dove venne inviato a svolgere il
ministero. Mette anni di impegno, di entusiasmo. Benvoluto e apprezzato dai parrocchiani. Tra
questi, Paola, ragazza pia e generosa.
Che si divideva tra la famiglia 1’impiego in un azienda e la catechesi in parrocchia. «Tra noi c’era
collaborazione», racconta Francesco. «E, conoscendoci meglio, si instaurò anche una bella amicizia
Tuttavia mai e poi mai avrei pensato di accostarmi a lei con occhi diversi. Non avevo dubbi sul
celibato e sulla castità da custodire. Ero consapevole fino in. fondo della mia missione e delle regole
da rispettare. In fondo ero un’integralista.
« Il campanello d’allarme», ricorda, «suonò quando a un certo punto mi resi conto che vedevo Paola
volentieri, troppo volentieri. E che provavo emozioni fino ad allora sconosciute.
Arrossivo a un suo sguardo e alla sera, prima di addormentarmi, mi sorprendevo a pensarla. Fu
l’inizio di un doloroso travaglio. Per entrambi.
Oltretutto mentre fra noi non era ancora accaduto nulla, neppure la confessione di reciproca
simpatia, in paese già cominciavano a circolare sul nostro conto voci, accuse, fantasie. Qualcuno
addirittura disse che eravamo stati sorpresi . in un bosco a far l’amore. Assurdo: figurarsi,
anche dopo esserci dichiarati, Paola e io siamo andati avanti per mesi e mesi senza né baciarci né
abbracciarci.
«Poi», continua Francesco, «siamo esplosi. Al primo bacio, ho pianto come un bambino. Mi è
caduto il mondo addosso, ho capito che stavo per imboccare una via senza ritorno.»
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E Paola?
<Paola è molto rigida. Più ancora di me. È innamorata, credo, soprattutto del mio essere prete, della
mia sensibilità. Che — dice lei — non ha mai trovato in altri uomini. Almeno a giudicare dalle
piccole esperienze sentimentali avute prima.
« Siamo andati avanti, perseguitati dai sensi di colpa», spiega Francesco. « E ancora non ce ne
siamo liberati. Ciò ci induce a tenere comportamenti assurdi. Per quanto mi riguarda,
l’autorepressione mi sta portando alla follia. Paola e io stiamo insieme da quattro anni e non
abbiamo mai fatto l’amore. All’inizio anch’io ero d’accordo, ma poi... Persino il vescovo, al quale
ci siamo rivolti per confidarci e chiedere consiglio, si è meravigliato del fatto che riusciamo a
mantenerci vergini. Paola non ne vuole sapere. E mi esorta: offriamo questo sacrificio al Signore,
vedrai che ci farà la grazia di trovare la giusta via d’uscita ».
Ma quale via?
«Francamente non lo so. Continuo a vivere fra i tormenti; non ho ancora deciso nulla del mio
futuro. Al momento, per coerenza, resto autosospeso dal ministero.»
Francesco chiarisce che da qualche anno ha lasciato spontaneamente la parrocchia ed è tornato a
stare con la sua famiglia, nella cittadina dove è nato. «Le regole della Chiesa concedono, in certe
situazioni delicate, questi periodi di meditazione », spiega. Ora i suoi giorni sono scanditi dal lavoro
in una libreria che ha preso in gestione; per il resto del tempo sta con la madre e le sorelle che
conoscono il suo travaglio, e pensa arrovellandosi, a Paola. Le telefona ogni giorno, si incontra di
nascosto con lei due o tre volte la settimana. Intanto la pausa di riflessione si allunga, e lui non sa
come venirne fuori.
«In questi anni ho tentato di tutto per fare chiarezza in me stesso», racconta. «Sono stato a
Medjugorie a invocare la Madonna perché mi aiutasse a troncare questo amore fuori legge, ho
passato un periodo nel convento Fraternità di Santa Margherita Ligure, dove accolgono i preti in
crisi. Qualcuno mi ha perfino consigliato di farmi seguire da uno piscologo. Non mi pare di averne,
bisogno. Anche se, lo ammetto, da un po’ di tempo mi sto comportando in maniera assurda. Mi
vergogno a dirlo, ma... »
Non si preoccupi racconti.
« Prima di innamorarmi di Paola capitava che mi masturbassi, ora neppure quello riesco a fare.
Infatti, mi sembra di offenderla, quasi di tradirla.»
Immagino che lei, così tormentato, si accosti alla Penitenza e abbia un direttore spirituale.
Quali suggerimenti le vengono dati?
«Mi sono confessato ovunque, in vari santuari, anche a Roma in San Pietro Quasi tutti i sacerdoti
mi dicono ti capisco, è capitato anche a me”. Tra l’altro, vengo assolto con facilità: del resto, Paola
e io non abitiamo sotto lo stesso tetto, e nel rapporto non c’è stata consumazione. Viviamo,
insomma, quella che la Chiesa oggi chiama integrazione affettiva. »
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Mi spieghi.
«L”integrazione affettiva” è un’espressione usata per la prima volta nel corso del dibattito aperto
con il Concilio Vaticano II. Da allora, infatti, si è andata affermando una linea che considera con
maggiore apertura i rapporti tra i sacerdoti e le donne, In altre parole, l’eventuale insorgere di un
sentimento d’amore tra i due non viene più “criminalizzato” senza appello. Certo, non è l’ideale per.
un prete. Tuttavia, fatti salvi i limiti a cui accennavo (non consumazione del rapporto e non
convivenza), la relazione affettiva viene in qualche misura ritenuta accettabile.»
Francesco, come finirà la Storia con Paola? Vi sposerete?
«Chissà. Pur tra mille dubbi, sento che vorrei sposarla e avere dei figli. Confesso, però, che rompere
con la Chiesa mi costa moltissimo. Per me sarebbe un vero trauma, Quanto a lei, soffre molto di
questa situazione. Non ha il coraggio di dirlo ai suoi genitori, religiosissimi e severi. Che, tra l’altro,
non sanno nulla di noi due. O forse sospettano. Ma non lo accetterebbero mai. «E pensare che
Paola», sospira Francesco, «aveva dodici anni quando rimase particolarmente colpita dallo
scandalo suscitato da un sacerdote che allora gettò la tonaca per sposarsi.
E disse: non mi innamorerò mai di un prete.
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Romana
«Ma che idea ti sei messa in testa? Il peccato del sesso non è, come pensi tu, il più grave... Quante
volte me l’ha ripetuto, quante volte me l’ha martellato nel cervello, don Agostino. E io come una
cretina, ci sono cascata. Ho creduto in lui... e non per un giorno! Per diciassette anni. Passati in balia
di un uomo che pensavo fosse innamorato di me; che pensavo non riuscisse a lasciare la Chiesa
perché roso dai tormenti, forse anche per mancanza di coraggio, per paura... Motivi umanamente
comprensibili. Poi ho scoperto che era un imbroglione, un donnaiolo. Un prete che mentre stava con
me, andava contemporaneamente con altre. Un essere spregevole. Si lo scriva pure : io disprezzo
quell’ uomo»
Romana non si sfoga. Romana denuncia senza reticenze e pudori il comportamento dell’ex amantesacerdote (oggi parroco in carica in un centro della Riviera Adriatica), affidandomi la storia del suo
lungo calvario, da qualche tempo lasciato alle spalle. A differenza delle altre clandestine incontrate,
lei è l’unica che mi ha autorizzato a riportare il suo vero nome, e anche il cognome: Romana
Cantoni, trentanove anni.
«Guardi», dice, « dopo quello che ho subìto, non temo certo lo scandalo. Anzi. Semmai trovo
vergognoso che quel prete continui a esercitare il suo ministero, come se nulla fosse successo. »
Romana è ‘una donna rotondetta, occhi e capelli scuri, viso grazioso, parlantina sciolta. Abita in
una casa sperduta tra le colline boscose che dominano Cesena, a Diolaguardia, provincia di Forlì.
Lavora come infermiera in una casa di riposo.
Mi ha accompagnato da lei Nadia, moglie di Chino Piraccini, ex sacerdote. E il fatto non è casuale.
«Se non si fosse messo di mezzo suo marito, chissà, forse non sarei ancora sposata», spiega
Romana, rivolgendosi a Nadia. «Don Agostino, infatti, ha mosso mari e monti pur di impedire le
mie nozze. Ha avuto anche l’ardire di rivolgersi a un suo amico che stava al Vicariato, rivelandogli
che Carlo, il mio fidanzato, aveva alle spalle problemi di tossicodipendenza, e che non era ancora
maturo per formare una famiglia. Fandonie, naturalmente.
In ogni caso, noi eravamo maggiorenni, e non erano affari di don Agostino. »
Continua Romana: « Ho chiesto aiuto a Chino Piraccini. Che ha parlato al vescovo e gli ha
raccontato i veri motivi, dell’opposizione. Soltanto dopo quell’intervento la situazione
si è sbloccata!»
Signora, cominciamo daccapo. Come entrò nella sua vita quel sacerdote?
«Avevo diciott’annj quando mi trasferii in Romagna, nella comunità di accoglienza diretta da don
Agostino. Avevo lasciato la casa di famiglia per fare questa esperienza. Cercavo un po’
confusamente la mia strada: mi sembrava di sentire la vocazione religiosa, qualche volta avevo
covato l’idea di farmi monaca. Insomma, ero una ragazza idealista che guardava al
futuro. «Nella comunità, che accoglieva giovani sbandati, svolgevo varie incombenze, dalle pulizie
ai lavori in cucina. Una sorta di volontariato a tempo pieno. Infatti, vivevo là dentro giorno e notte.
Sulle prime, non avevo deciso quanto restarci.
Poi, a trattenermi, subentrò l’amicizia con don Agostino. »
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Che tipo era, lui?
<Un trascinatore, un leader. A trentatré anni, aveva carisma da vendere. Non era un bell’uomo, ma
senza dubbio si imponeva col suo fascino. Premuroso, affettuoso, in comunità sapeva trattare con
tutti: ospiti e collaboratori. »
E con lei?
«Dimostrò subito particolari attenzioni. Non so se avesse già secondi fini. Francamente, nei suoi
riguardi io non provavo nulla che non fosse stima. E poi amicizia; Affetto, forse.
Tutto qui. Almeno, all’inizio. Tra l’altro, notavo che altre donne lo circondavano, sollecite,
disponibili. »
Romana fruga nella memoria, cercando di ordinare ricordi lontani. Ma indelebili. Affiora, in un
nitido flashback, il primo approccio intimo. Succede una sera, in chiesa, dopo la preghiera
comunitaria. «Mi si avvicina in modo diverso dal solito», rammenta. «Mi mette quasi paura. Io,
ragazza inesperta, che non ha mai avuto relazioni sentimentali, mi trovo il sacerdote addosso. Mi
bacia sulla bocca, lasciandomi interdetta. Mi ritiro in camera e piango. Un fiume di lacrime. Penso
che se fosse stato un ragazzo qualsiasi a trattarmi così, l’avrei schiaffeggiato. Ma come avrei potuto
reagire con don Agostino? Con lui era diverso.
«Il giorno dopo», racconta Romana, «mi affronta e cerca di giustificarsi spiegandomi la forte
simpatia che prova per me. Mi sembra sincero, in buona fede. Però, da allora, sia pure con
discrezione, comincia a tenermi d’occhio, diventa sempre più pressante, finché entriamo in
confidenza. E un pomeriggio, mentre chiacchieriamo, don Agostino mi fa: ho una curiosità.., è un
po’ imbarazzante ma a te posso dirlo, non ho mai visto una donna nuda.»
E lei?
«Sono rimasta interdetta e non ho risposto. Successivamente, però, un po’ per scherzo e un po’ sul
serio, lui continuava a ripetermi quella battuta. Intanto, tra noi si era creata una strana atmosfera.
«A farla breve, decido di accontentarlo. E’ successo una sera, in camera sua. Mi spoglio,
vergognandomi, dato che non l’avevo mai fatto prima. Cerco di rivestirmi subito, mi ferma e
comincia ad accarezzarmi. Non reagisco, ho la testa che mi scoppia, ma lo lascio andare avanti.
« Ora i ricordi sono confusi, credo che don Agostino volesse fare subito l’amore... Quella sera
abbiamo fatto solo un po’ di petting.»
Nessun imbarazzo da parte di lui?
«No. Era disinibito e molto affettuoso. Non abbiamo avuto rapporti completi, perché io non me la
sentivo. Del resto, per me quell’intimità non era un gioco. Le sue attenzioni, la sua corte serrata,
infatti, mi avevano fatto innamorare di lui. A ripensarci, l’avevo capito quando, tra me e me, avevo
cominciato ad accarezzare l’idea, sia pure lontana, di poterlo sposare. Chissà, forse un giorno... mi
dicevo. E, inoltre, per la gelosia che mi assaliva quando altre ragazze si recavano nel suo studio a
parlargli. Oltretutto, ciò succedeva spesso. »
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Insomma, temeva che don Agostino la tradisse?
« Forse. Anche se mi sembrava persino impossibile. Era pur sempre un prete!
« Giorno dopo giorno, mese dopo mese», riprende Romana, «mi ritrovavo sempre più invischiata.
Don Agostino insisteva perché mi dessi totalmente a lui, io mi sottraevo. Custodivo ostinatamente
la mia verginità, ultimo brandello inespugnato della mia persona, ormai completamente in sua balia.
Nella mia testa sconvolta, pensavo che potesse essere l’ultimo dono per quando si sarebbe deciso a
lasciare il sacerdozio e a sposarmi. Lui, a dir la verità, alla fine, non insisteva più di tanto. Sembrava
essersi rassegnato a bloccarsi, ad accettare quella intimità incompleta. Padrone incontrastato della
mia anima e del mio corpo, nonostante tutto... Per diciassette anni.
«Più volte gli ho ripetuto: che senso ha per te questa relazione? Dici che mi vuoi bene, ma non
rinunci alla tua vita di prete. Don Agostino rispondeva che dovevo comprenderlo; che teneva troppo
al sacerdozio per rinunziarvi. »
« La relazione andava avanti da tre anni », spiega Romana, « quando ho tentato di lasciarlo. Sono
praticamente scappata a Spello, presso Assisi, in un’altra comunità. Ebbene, lui è venuto a cercarmi
e mi ha riportato a Cesena. Così sono riprecipitata nella medesima situazione. Prigioniera, con
qualche sussulto di ribellione, che ogni volta si spegneva di fronte all’ascendente fortissimo che
quell’uomo esercitava su di me. Si figuri che mi ha persino proposto di prendere i voti, di farmi
monaca. Di seguire una vocazione da tempo accantonata. »
Non capisco. Perché voleva che andasse in convento?
« Un’assurdità, certo. Forse lui credeva che quello fosse l’unico modo sicuro per tenermi legata a
vita. Del resto, a un certo punto me lo ha fatto intendere chiaramente: preso il velo delle monache,
avremmo potuto continuare a vederci. Qualche volta, certo; facendo le cose con discrezione. Gli re
plicavo: io ti voglio bene, non sono una puttana! »
Una storia tremenda, la sua. Sembra perfino inverosimile.
«Già. Ma, mi creda, è andata davvero così. Un’esperienza allucinante. Alcuni ricordi li ho rimossi,
altri mi resteranno in testa per sempre. Ogni tanto mi dico: che cretina, a esserci cascata! Avrei
dovuto capire, avrei dovuto fuggire da lui molto prima .«Don Agostino si comportava come un
amante pieno di passione; in certi momenti, però, mi coinvolgeva, facendomi strani discorsi.
Del tipo: vedrai, via via che il tempo passa, noi due ci impegneremo a purificare il nostro rapporto,
trasformandolo in amicizia. E, a spiegazione delle sue idee, mi tratteneva nello studio, pescava dalla
biblioteca certi libri e ne leggeva, ad alta voce, alcuni passi. Ne ricordo vagamente uno, un saggio
che trattava dell’affettività e della sessualità del sacerdote. Don Agostino, servendosi di dotte
dissertazioni, giustificava i suoi comportamenti discutibili. Almeno così mi pareva.
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« Inoltre, mi trascinava a confessarmi da un suo amico. E si confessava pure lui. La prima volta, mi
fece un certo effetto. Poi mi sono abituata anche a quell’esperienza. Ero annientata, ormai.
«Gli anni passavano», riprende Romana, «e io affondavo nelle sabbie mobili... Ogni tanto cercavo,
invano, di alzare la testa. Dopo la prima fuga a Spello, infatti, altre volte ho tentato di andarmene, di
rompere quel legame. Don Agostino riusciva sempre a riacciuffarmi. Da una parte mi blandiva, dal
l’altra mi teneva prigioniera quasi a forza.»
In comunità, gli altri sapevano della vostra relazione?
«Forse c’erano dei sospetti, ma prove no. Del resto, io ero prudente e riservata. Quanto a lui, era
maestro nel sapersi mimetizzare e nel confondere le acque. Pensi che, mentre veniva con me, teneva
in piedi un’altra storia... Nella stessa comunità, quasi sotto i miei occhi, Se non me lo avesse
raccontato l’interessata, presa in giro al pari mio, forse non lo avrei mai saputo. Così come di altre
storielle... Dopo, solo dopo, ne sono venuta a conoscenza.»
Dunque, si è accorta di essersi innamorata di un prete dongiovanni.
«Sì. E mi è crollato il mondo addosso. In fondo, se avevo resistito tanti anni, era anche perché
ritenevo che don Agostino, pur con tutte le sue contraddizioni, fosse sinceramente innamorato di
me. E che, quindi, mi fosse fedele. Mi sbagliavo di grosso.»
Romana, com’è riuscita a liberarsi di lui?
«Due cose sono successe contemporaneamente: le confidenze sui tradimenti del prete e l’arrivo di
Carlo in comunità, a cui mi sono a poco a poco legata. All’inizio, più che altro per togliermi dalla
testa don Agostino. Poi, il sentimento si è reciprocamente rafforzato, tanto che poi quel ragazzo
sarebbe diventato mio marito. »
Il sacerdote come ha reagito?
«Può ben immaginarlo. Ha fatto di tutto perché troncassi quella relazione. Naturalmente sosteneva
che mi stava consigliando per il mio bene. Diceva che quel ragazzo, appena uscito dalla
tossicodipendenza, non era in grado di sostenere una vita di coppia e di famiglia. Che in futuro avrei
corso gravi rischi eccetera eccetera. »
E lei?
«Ah, non ci ho visto più... ero indignata. Finalmente ho trovato il coraggio di ribellarmi: proprio tu,
che non hai fatto altro che porcherie? Tu adesso vieni a insegnarmi che cosa devo fare? Basta, non
ti ascolto, me ne vado per la mia strada. Gliene ho dette di tutti i colori. Ma don Agostino si illudeva
ancora di avermi in pugno. Pensava che il mio fosse soltanto uno sfogo, e che alla fine avrebbe
vinto lui. La sua rabbia è esplosa quando gli ho annunciato che ero incinta e che stavo per sposare
Carlo. « Insomma, ha avuto il coraggio di mettermi i bastoni tra le ruote, tramite un suo amico del
Vicariato. A farla breve, dovevamo sposarci. a settembre, invece siamo stati in ballo tre mesi, per
colpa sua. »
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In concreto, com’è riuscito a ostacolarvi?
«Oh, non avrebbe certo potuto opporsi al matrimonio civile, se avessimo deciso di sposarci solo in
comune. Ma, poiché volevamo sposarci in chiesa, don Agostino tirava in ballo incontri e colloqui
con psicologi e assistenti sociali, dai quali dipendeva, secondo lui, il benestare alle nozze. Il tutto
con la complicità del suo amico sacerdote. Soltanto l’intervento di Chino Piraccini, che avevo
conosciuto tramite sua moglie Nadia, ha appianato le cose. Il vescovo di Cesena, a cui Chino ha
sottoposto il nostro caso spiattellandogli tutto, si è infatti reso conto della gravità della situazione.
Ed è intervenuto per sbloccarla. Del resto, ero disposta a far scoppiare uno scandalo... Non ce n’è
stato bisogno, ci siamo sposati a dicembre. Poi, è nata la bambina. Oggi ha tre anni. E’ bella, sana,
allegra. La nostra gioia. »
E don Agostino?
« Don Agostino ha lasciato la comunità e ora fa il parroco in un paese della Riviera. Non voglio più
sentir parlare di lui. Lo detesto.»
Romana, la drammatica esperienza che ha vissuto ha messo in crisi la sua religiosità? Ha
ancora fiducia nella Chiesa e nei sacerdoti?
«Resto credente, e vado in chiesa. Però, la figura del sacerdote è molto scaduta ai miei occhi. Da
ragazzina, ingenuamente, consideravo il prete quasi un santo. Mi sono ricreduta:
il prete è un uomo. Che sbaglia.»
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Eva
«È chiaro che non ti ricordi più di niente, che non mi ami più, è tanto che non mi scrivi; non so più
niente di te, è come se fossi morto. Ma forse sono io che sono morta per te. Ricordo che dicevi di
voler nasconderlo questo tuo amore, di volerlo custodire come un tesoro segreto, chiuso e nascosto
nel tuo cuore... Dicevi sempre che un amore fatto di slanci non può durare, che alla prima difficoltà,
al primo scontro con la realtà finisce, mentre una scelta fatta con il ragionamento e la riflessione ti
piace di più perché più duratura. Qual è la tua scelta duratura? La scelta di essere solo? La mia
scelta è l’amore e il mio amore è pieno di slanci come il tuo, ma dura. Ci siamo innamorati
pazzamente l’uno dell’altra; quali scontri con la realtà ha avuto il tuo amore per cui ha finito di
esistere? Io ti amo e ti amerò sempre... nonostante l’impegno che metti affinché io sia l’ultimo dei
tuoi pensieri, nonostante il tuo desiderio di coerenza con quella scelta di solitudine, fatta molto
prima di conoscermi, che conta più di me, più di te e del nostro dolore. Lo sai che ti amo e che ti
amerò sempre, lo sai che ti perdono...»
Aveva trent’anni, Eva, quando si innamorò di Fernando, un prete spagnolo, parroco a Roma nel
quartiere dove la donna abitava. Un amore ricambiato (sia pure con lunghi distacchi, lui per un certo
periodo è andato missionario in Argentina); un amore coltivato per ventitré anni, fino alla morte del
sacerdote. Avvenuta nel 1988. Eva, oggi sessantenne, sposata a un commesso viaggiatore, ha sei
figli.
Lui, lei e il parroco. Un ménage a tre. La storia con Fernando, infatti, è corsa parallela alla vita
matrimoniale di Eva.
« Mio marito? Cercava più una madre che una moglie», racconta. «Un tipo buono, anche se un po’
superficiale e, a differenza di Fernando, non abbastanza sensibile nei miei confronti. D’altronde,
nonostante tutto, non me la sono mai sentita di spezzare la mia famiglia. A un certo punto, sia il
marito che i figli sono venuti a conoscenza del mio legame con il sacerdote. Sembrerà strano,
eppure lo hanno accettato.
« Da quando lui è scomparso, » sospira, « tiro avanti, giorno per giorno. Dentro di me c’è un gran
vuoto. Ho amato troppo Fernando per dimenticarlo.»
L’amante del sacerdote spagnolo è una casalinga simpatica. Ha il diploma di maestra elementare,
ma non ha mai insegnato. Nel tempo libero si dedica con passione alla scrittura.
Vado a trovarla nel suo appartamento, in un quartiere periferico di Roma. Mi confessa che ha
intenzione di raccontare in un libro la passione d’amore per Fernando Non è sicura che il progetto
andrà in porto; tuttavia, preferisce non confidarmi i dettagli della sua storia.
Sono entrata comunque in possesso delle copie di alcune lettere del fitto carteggio intercorso tra
Eva e il prete spagnolo. Si tratta di alcune missive che lei ha inviato a Fernando.
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Eccone, qui di seguito, alcuni stralci. A testimonianza di un amore intenso e sofferto.
« Mi scrivi che sono meravigliosa, che quando ancora cercavi una donna, era una come me che
cercavi, che fin dall’adolescenza ti sei preparato per incontrare una come me, che hai sempre
cercato l’amore e volevi realizzarlo insieme alla tua donna nel modo più completo e profondo. Dici
che quando parlo d’amore t’incanto... Amore mio, la tua lontananza è la mia paura... quando mi
parli, però, i fantasmi del passato si dileguano, lo spazio tra noi si annulla, il tuo atteggiamento di
alcuni momenti perde importanza. Stammi vicino, amore! Scrivimi più spesso, ti prego sta qui con
me. »
« Vivo la vita, amo tanta gente. Coloro che amo ricevono quei doni, l’uomo che amo, il mio uomo,
non vive con me la vita; arriva di quando in quando, come per assolvere un obbligo. Eppure mi
ama, non mi sbaglio. Vorrei che si liberasse, che vincesse quei blocchi e quei condizionamenti che
gli impediscono di comprendermi. E gli dico: noi che non possiamo condividere un tetto, possiamo
però condividere l’amore, costruendo il nostro dialogo con le lettere...»
« C’è una pena nel mio cuore, amore mio, ho bisogno di parlartene... Vorrei parlare dei momenti
passati assieme e rivedere alcuni ricordi con te. Forse eri molto stanco, forse eri preso dal tuo
impegno spirituale, ma la tua gioia non era con noi. Qualche volta mi misuravi perfino gli sguardi!
Se mi abbracciavi, prima ancora che me ne rendessi conto, mi dicevi: basta così. Lo so perché:
avevi voglia di me e avevi paura di non riuscire a fermarti. Così hai soffocato i miei e i tuoi slanci,
la tua gioia, hai messo violentemente in riga te stesso e hai fatto male anche a me... Era così
importante non fare all’amore con me? Che cosa è più grave:, fare all’amore con me o farmi
soffrire? Forse infine ti avrei fermato io... ho cercato di aiutarti, ma non ti fidavi di me. Hai lottato
da solo, eri così solo.., e volevi battere quel record difficilissimo. E l’hai battuto da solo.»
« Questi ricordi mi fanno star male e io ne parlo con te per affrontarli e ridimensionarli. Fanno parte
della mia vita come della tua, sono il nostro dolore. Parlami del tuo dolore, di quanto è costato
battere quel record e perdonami, come io perdono te. Ti amo! C’è una differenza tra ti voglio bene e
ti amo.
«Ti voglio bene vuol dire voglio il tuo bene. Ti amo vuol dire: ho bisogno di te per essere me, non
esisto senza te. Ti voglio bene e ti amo! »
«Gli anni passano e ogni tanto ci incontriamo. L’ultima volta che abbiamo avuto la gioia di
incontrarci, ti ho sentito lontano, distante... l’ultima volta mi hai fatto sentire in colpa per come ti
amo. Questo mio amore è fatto così: sente il bisogno di dare ma anche di ricevere, dà e chiede la
tenerezza, la presenza, le attenzioni, la cura... non è una colpa, è fatto così.
Ma tu che vuoi cambiare questo amore, lo senti questo bisogno? Lo so, vuoi rinunciare all’amore
fisico. Tu sai che io non credo, come lo credi tu, che ciò sia giusto; però, ti amo e non
do peso alla mia opinione... penso che possiamo amarci con questo amore anche se rinunciamo alla
parte fisica, che possiamo sentirci uno solo anche parlando di noi due... Tu lo senti il bisogno di
essere uno con me? Tante volte, nelle tue lettere, durante le tue telefonate, ti ho sentito uguale a me,
ma sono momenti in cui sei tu, sei spontaneo, sei l’uomo innamorato e stai pensando a me. Ma sono
solo momenti. La tua vita non la vivi così. Quando nella tua mente si impone la tua “scelta di vita”,
diventi un altro, pensi solo a essere coerente con quella scelta di solitudine e non chiedi: sei duro
con te e con me. Mi fai sentire in colpa, mi fai soffrire. In realtà, che vuol dire essere prete?
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Vuol dire parlare agli uomini dell’amore di Dio, testimoniare questo suo grande amore. Credi che
amandomi non fai questo? Che il tuo amore per me ti impedisce di essere quello che hai scelto di
essere? Che altro vuol dire essere prete? Ebbene, sono innamorata di te e per merito di questo mio
amore hai ricevuto, anche se non chiedevi... t’ho arricchito, t’ho fatto come sei. E quello che sei è
diverso da quello che scelse la verginità, il celibato, la solitudine; sei più ricco perché hai ricevuto il
mio amore... Che cosa ti impedisce di essere te stesso amandomi, e chiedendo amore? »
« ...Tolto quel primo periodo in cui lo stupore, la gioia, la gratitudine per la scoperta del mio amore
ti avevano preso la mente, quel primo periodo in cui mi dicevi: non avrei mai creduto che una
donna potesse amarmi tanto! Quando mi chiamavi: testina dolce, testina matta... tolto quel primo
periodo, hai continuato a chiedere perdono al mondo intero di esserti innamorato di me... Ora ti
scrivo, ti chiedo delle cose, attendo con ansia le tue risposte. Ora è solo questo il mezzo e il modo
che abbiamo per dimostrarci amore, eppure tu, dopo mesi, mi fai sapere che per ora non hai tempo
di scrivermi... Non potrai mai capire come si fa a trovare il tempo per scrivermi, fino a che lo farai
per far contenta me e non per te, perché ne hai bisogno, fino a quando chiederai perdono al mondo
intero di esserti innamorato di me. »
«Poco fa, mentre mi parlavi al telefono, mentre mi dicevi ti amo, non avevo bisogno di fare atti di
fede spinta dall’amore; mi sentivo amata ed ero felice. Quando ti sento lontano, è perché sento che
c’è qualcosa che ci divide. Non è la tua scelta di essere uguale a Gesù, di fare tua la sua logica che
ci divide, è la scelta di essere celibe, vergine, solo... Chi sei tu? Sei uno che vuole essere uguale a
Gesù... Non sono mai stata contro di Lui e la sua Parola, anzi posso dire di conoscerlo attraverso la
sua Parola, e più Lo conosco e più Lo amo. Da quando ti amo questo amore per Lui si è fatto in me
più profondo e completo; da quando ti amo, Lo amo attraverso di te e mi pare di amarLo meglio, in
modo più vero. Ora il mio amore per Lui è una cosa concreta, non è più impalpabile come un’idea,
perché Lo amo attraverso te. Ti amo in Lui, perché l’amore mio per te non è contro di Lui... Ma tu
che mi rispondi? Che anche tu mi ami, ma vuoi essere celibe. Che cos’è che ci impedisce di essere
uno, perché sono stata cacciata dalla tua vita, dal tuo ministero?
«Ah, è così? Non devi e non vuoi dividere la vita con me, tanto che se lo facessi proveresti orrore di
te stesso... E poi vuoi superare il tuo “bisogno di donna”, dici che sarai veramente libero quando
l’avrai superato. Che cos’è questo bisogno di cui parli tanto? Detto e presentato così, può significare
solo bisogno di sesso. Ma tu mi ami! Ami me perché sono io. Me lo scrivesti, ricordo in una
lettera... Non chiamare il tuo bisogno di me, bisogno di donna. Mi offendi tremendamente e offendi
il tuo amore... C’era un vescovo a un raduno dove sono andata, che si è messo a parlare dell’amore
e della donna. Diceva che l’amore è vita, che chi dona l’amore dona la vita. Diceva: ci devono
essere donne innamorate di preti, è bello se una donna ama un prete, il prete ne viene arricchito; e
continuava illustrando la giustezza della sua teoria con varie argomentazioni. Sai perché non l’ho
apprezzato? Non parlava di amore benedetto da Dio in una chiesa, di fronte - a tutti, com’è naturale
che lo cerchino un uomo e una donna che si amano e credono in Dio. Parlava soltanto di donne che
amano preti e dell’uso che possono fare i preti del loro amore. - Non parlava delle donne; non credo
che pensasse al dolore di una donna innamorata di un uomo che deve restare celibe, di un uomo
costretto a scegliere tra due rinunce ugualmente tremende per lui; un uomo che ha come unica
alternativa il dolore, e lei ne sarà comunque coinvolta.
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Mentre parlava, ho pensato: evidentemente è troppo puro e casto per preoccuparsi della donna, per
prendere coscienza di questo tipo di dolore.
Può cogliere l’utilità di un amore, ma questa realtà, questi problemi non lo toccano, nella sua
mentalità. Molto probabilmente la donna sarà una proprietà, una cosa a cui il prete, che è un
espropriato, deve rinunciare, un bisogno da superare per sentirsi più vicini a Dio.
Allora, ascolta: tu che definisci il mio amore per te meraviglioso dono di Dio, cosa credi di fare
quando mi parli dell’orrore che proveresti di te se dividessimo la vita? Un’azione di usa e getta,
niente altro.»
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Beatrice
«Cari amici... vi chiedo scusa se scrivo a macchina e se mi firmo con un nome non mio. Il Santo
Padre, i vescovi tutti, e moltissimi sacerdoti mi obbligano a un mortificante anonimato, da cui spero
di uscire quanto prima per presentarmi a voi con le mie generalità...» Così attacca la lettera,
pubblicata nel marzo del 1989, da «Sulla Strada», la rivista di Vocatio. Si firma Beatrice, l’amante
segreta. E, con uno sfogo appassionato, racconta la sua testimonianza. Sono passati alcuni anni, che
ne è stato di lei? E uscita dalla clandestinità? Ha sposato il prete o vive ancora nella sua ombra? « Sono una donna di quarantaquattro anni e da ben ventidue amo un prete», scriveva.
«Sì, un ministro di Dio. Lui ha cinquantadue anni e una settimana fa mi ha fatto vedere il vostro
giornale... Così ho preso il coraggio a due mani e, senza dirgli nulla, vi ho scritto. Non so se riuscirò
a farvi capire, almeno in parte, ciò che viviamo intimamente...
Amo un sacerdote che ha la colpa di essere tale. Nel 1966 fu mandato come parroco nel mio paese;
io operavo in parrocchia, e un po’ alla volta la nostra intesa sul piano operativo-sociale ci ha
portato a un rapporto più intimo. Lentamente ma costantemente ci cercavamo perché moltissimi
motivi ci legavano. Col passare degli anni, io notavo in lui un’educazione eccessivamente
unilaterale che aveva ricevuto in seminario e di cui non aveva alcuna colpa; capivo che nascondeva
un animo d’oro che io lentamente e discretamente dovevo scoprire e valorizzare. Così è stato.
Ha ora una tale sicurezza psichica e insieme abbiamo raggiunto un tale equilibrio sociale e affettivo
che, se potessimo manifestarlo alla luce del sole, susciterebbe forse l’invidia di tante coppie
scombussolate e nevrotiche della società moderna.
«In questi anni», continua Beatrice, «se da una parte ci siamo scambievolmente arricchiti di nuove
dimensioni affettive, umane, sociali, dall’altra abbiamo amaramente rincorso un sogno, mai
realizzato: avere un figlio che entrambi abbiamo desiderato tanto. A volte lui, esasperato, era deciso
di chiamarlo alla vita, ma poi insieme abbiamo dovuto rifiutarlo... Quanta amarezza in ciò che
dico!»
«... I sacerdoti ai quali devo confessare questa “colpa”, che per me non è tale, sono mortificati e mi
dicono che lui è in un certo senso fortunato ad avere me all’ombra della sua vita. Il rimorso e lo
scrupolo mi prendono per molto tempo se non esercito a sufficienza la carità, se non uso la pazienza
con l’infanzia, e così via; mentre non mi sento intimamente in colpa per il fatto di amare lui.
Il nostro rapporto è talmente sincero e totale sotto tutti gli aspetti che ha fatto di noi due persone
equilibrate, discrete e capaci di amare gli altri fino in fondo. Circolano voci che il concubinato
ecclesiastico è vissuto visibilmente, e il nostro Papa continua a chiudere gli occhi.
Vi prego, rasserenate quelle tante persone che una legge umana e ingiusta costringe a vivere in
continui conflitti intimi e mortificanti...
«Grazie per avermi letta. Vi stringo fortemente la mano nella speranza di potervi, un giorno non
lontano, conoscere insieme con lui, il mio uomo.»
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Lo sposo rubato
«No, non ho avuto problemi a fidanzarmi e a sposarmi con un prete. Anzi. Ricordo la nostra storia
come una telenovela.
Strano? Non per me. Ai tempi in cui Paolo e io ci mettemmo assieme, in tv trasmettevano Uccelli di
rovo. Ebbene, allora mi immedesimavo protagonista dello sceneggiato. Certo, sono stata più
fortunata della donna di padre Ralph », racconta
Bianca M., ventisei anni, moglie da otto di Paolo B., quarantunenne. Bella, esile, bionda con gli
occhi azzurri, è la sposa più «particolare» che mi è capitato di incontrare. Tutte le donne dei preti —
le amanti, ma anche le mogli — solitamente hanno in comune storie travagliate, piccoli e grandi
problemi, rotture familiari, scandali. Tutte percorrono una strada difficile, accidentata.
E anche coloro che riescono a coronare il sogno di coppia col matrimonio, restano in qualche modo
«segnate».
Lei no. Bianca è serafica. Racconta la sua avventura con Paolo senza far trapelare alcun
turbamento. «Faceva il parroco in un paesino della Alpi Apuane dove fin da bambina andavo in
vacanza ogni estate. Era amico di famiglia, della nonna soprattutto. Paolo veniva spesso a casa
nostra, per me era quasi una figura domestica. Frequentavo la parrocchia, cantavo nel coro, quindi
lo incontravo quotidianamente. A dir la verità, allora non mi era neppure tanto simpatico.
Quella sua presenza assidua quasi mi infastidiva. La nostra storia cominciò quasi per caso. Accadde
un’estate, dopo che il parroco- amico ci aveva accompagnato in auto in un viaggio al Sud, dove la
mamma e io dovevamo recarci per motivi familiari. Una vacanza piacevole, serena.
Durante il ritorno, però, mi sentii molto male. Fummo costretti a fermarci in Umbria. Avevo la
febbre alta, lui stette al mio capezzale per due giorni. Sollecito, disponibile, affettuoso. Gliene ero
grata, ma niente di più. Voglio dire che in quel momento per me don Paolo era ancora... don Paolo.
«Ritornata a Genova, la città dove abitavo, lui prese a telefonarmi, all’inizio col pretesto di avere
notizie sulla mia salute. Poi le conversazioni si infittirono, ma più che altro ci scambiavamo
opinioni culturali, discutevamo di letteratura, di religione. Io avevo appena finito il liceo, leggevo
molto, mi davo arie da intellettuale. Tra noi si instaurò un bel rapporto. Senza passione, però. A me
interessavano i suoi discorsi, Paolo mi vedeva quasi come una donna-angelicata.
« Complice della nostra relazione fu senz’altro mia madre. Che lo invitava a casa spesso. Lui
arrivava in visita, portando meravigliose torte di frutta, lei lo trattava affettuosamente. Sembrava
proprio che volesse propormi quel parroco come marito. E infatti...»
Com’è andata?
«Paolo mi chiese di sposarlo, prima ancora di darmi un bacio. Insomma, chiese la mia mano, come
si usava in altri tempi. Lo dissi a mia madre, ne fu entusiasta. Ci fidanzammo il 21 aprile, il
matrimonio civile si celebrò due mesi dopo, il 20 giugno.
«Fino a quando si innamorò di me», puntualizza Bianca, «Paolo non aveva mai messo in
discussione la sua vocazione, anche se era un parroco molto aperto e non era d’accordo
sull’imposizione del celibato al clero. Tant’è vero che era un sostenitore di Vocatio, l’associazione
dei preti sposati, prima ancora di pensare lui stesso al matrimonio...»
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Bianca e Paolo vivono in un centro della Versilia dove nessuno sa che lui è un ex parroco; lo sanno
invece gli ex parrocchiani del paesino delle Apuane, che hanno accolto la strana coppia senza
troppe perplessità. Hanno una bimba di sette anni. Dicono di essere felici. Lei fa la cantante lirica (e
si occupa di una piccola casa editrice), lui è il suo agente, e lavora anche in pubblicità. Sono ancora
credenti, ma a messa ci vanno di tanto in tanto; Paolo non sente nostalgie per il ministero
sacerdotale. Banalmente, potrei dire che lui non sembra un ex prete e lei non ha nessun tratto né
fisico né psicologico della classica moglie del sacerdote. Davvero una rarità, nella galleria delle
coppie che ho avvicinato.
Nadia Piraccini,
cinquantatré anni, di Cesena, conserva nell’armadio i paramenti sacri del marito. Talvolta li prende,
li stira perché lui dice messa («tu es sacerdos in aeternum... ») per un gruppo di anziani. Prima di
incontrare Chino, stava per farsi monaca. Si conobbero in un momento di crisi per entrambi, si
sostennero a vicenda, ma poi scoprirono di essere fatti l’uno per l’altra. «E non fu facile far
accettare la nostra scelta alle famiglie», racconta Nadia, «ma tenemmo duro. Prima ci sposammo
civilmente, poi, quando Chino, con non poche difficoltà, ottenne la “dispensa”, ci unimmo anche
religiosamente. Abbiamo due figli, la nostra è una bella famiglia. Mio marito insegna, io lavoro
come infermiera in ospedale. »
Pinuccia Molteni
quarantanove anni, conobbe don Fedele in parrocchia. «La prima volta che lo vidi», ricorda, «era in
tuta, aggiustava la macchina nel cortile della canonica. Non sembrava un prete. Mi piacque perché
era un sacerdote alla mano, uno di quelli che non stanno chiusi in sacrestia... Io frequentavo la
scuola serale della parrocchia, lui era il mio professore. Diventammo amici, mi rassicurava sui
dubbi religiosi, mi ascoltava, mi consigliava. Poi... Ci siamo frequentati tra incertezze e tormenti
(un religioso ci consigliò di continuare la relazione in segreto), alla fine abbiamo deciso di uscire
allo scoperto. Siamo sposati civilmente, abitiamo in un paese della Brianza, abbiamo due bei
figlioli.»
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«La nostra storia d’amore», dice Lucia S., ventinove anni, « ha avuto momenti difficilissimi per
questo apprezziamo ogni istante di felicità. Non è nata da un attimo di passione o da un colpo di
testa. Siamo cresciuti assieme commentando la Bibbia e il Vangelo. Mentre Alberto era in
seminario, io studiavo teologia. Ci incontravamo per discutere. Era un ragazzo sensibile, avevamo
grande affinità spirituale... » Già.
L’intesa d’intelletto e di spirito è sovente alla base dei rapporti tra le donne e i preti. «Mi
affascinavano le sue parole, la sua testa. L’attrazione fisica è venuta dopo», confidano molte mogli
di sacerdoti. L’irresistibile fascino del parroco, o del confessore, spesso non scocca con la scintilla
della passione carnale.
O anche quando il richiamo del sesso è una componente non trascurabile del rapporto, è soprattutto
il carisma (paragonabile a quello dello psicanalista nei confronti del paziente) a « stregare» le
donne. E, al contrario, è proprio nell’ambito dei rapporti sessuali o anche psico-affettivi che talvolta
nascono difficoltà. D’altra parte, il prete è stato educato a « vivere solo» e,. trovatosi
improvvisamente a « vivere con», deve affrontare una sfida di non poco conto.
Un’indagine recente, condotta tra un campione di famiglie guidate da preti sposati, ha messo a
fuoco alcuni motivi di incomprensione emergenti in questo particolare tipo di ménage.
Tanto per cominciare, succede che la donna del prete, dopo aver idealizzato lui come marito, si
trovi a fare i conti con una realtà più complicata del previsto. «Per l’educazione formalista ricevuta
soprattutto in seminario, i sacerdoti sposati incontrano varie difficoltà, rilevate dalle spose e perfino
da loro stessi», scrive Luigi Guarisco su « Famiglia Oggi» (maggio 1994).
«Che cosa imputare agli ex ministri di Dio? Per esempio, la mancanza di attenzione, di delicatezza,
di percezione delle finezze femminili; la refrattarietà alla vita di società (feste, danze, eccetera);
l’incapacità o la riluttanza a manifestare affetto in pubblico o anche in privato; la difficoltà
nell’adattamento sessuale: infatti, pur sentendo amore e desiderio fisico, il marito-prete non
possiede l’apertura e la naturalezza per vivere il sesso nella sua pienezza. E ancora: la
razionalizzazione dei motivi ideali del proprio allontanamento dal ministero: si osserva cioè la
tendenza a ricorrere a motivi “più nobili” di quelli rappresentati dalla donna e dal matrimonio, nel
chiaro tentativo di camuffare le motivazioni reali... » Prosegue Guarisco, nell’elenco delle
défaillance marital-sacerdotali: « Gli ex preti tendono a far interferire anche nella vita intima le idee
acquisite in seminario e nella Chiesa; bloccano o arginano le emozioni e le loro manifestazioni più
semplici; mostrano una certa ingenuità o mancanza di malizia per vivere nel mondo attuale;
soffrono di individualismo e di autoritarismo. Fuggono dalla riflessione e dal dialogo con la sposa
sulla vita a due».
Troppi difetti? In compenso, sono state rilevate anche le caratteristiche positive della personalità del
prete sposato: amabilità, docilità con la moglie e coi figli, partecipazione ai servizi domestici,
capacità di aiutare la donna nei suoi compiti e anche nella cura dei bambini, una solida cultura e in
generale, mancanza di «vizi».
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Attenzione: anche per lei c’è una lista di rilievi. Idealizza il marito e mostra aspettative esagerate in
relazione ai compiti di lui; non si rende conto che molte difficoltà sono comuni alla maggioranza
degli uomini; si chiude nel proprio guscio, fino a rinunciare ad alcuni aspetti della vita sociale e
affettiva, a causa delle incertezze espresse da lui; e contemporaneamente si sente investita del
«dovere » di partecipare a lavori comunitari, pastorali, di frequentare la Chiesa;
Ma funzionano le famiglie dei preti? Reggono al tempo e alle crisi. Dati certi non ve ne sono. Si
può ragionevolmente ipotizzare che, anche quando sopraggiungono gravi difficoltà, alcuni di questi
matrimoni vengano «forzatamente» tenuti in piedi, perché per il sacerdote il fallimento dichiarato
significherebbe una seconda sconfitta, dopo essersi faticosamente ripreso dalla prima. E se la rottura
avviene, generalmente chi lascia è lei.
Tra le numerose lettere pubblicate da «Sulla Strada», la rivista dell’associazione dei preti sposati,
ne trovo una che affronta l’argomento. E’ di una donna che risponde a un ex sacerdote in crisi con
la moglie. Mi sembra una traccia interessante per comprendere la problematica che ruota attorno a
un certo tipo di rapporti.
«Caro G.P., sono una donna che ama un prete e ho letto l’articolo che hai scritto nel numero
Ottobre-Dicembre del ‘92 sulla rivista. Dico che amo un prete per intenderci, ma veramente io amo
l’uomo costruito dall’amore dei suoi genitori, dei suoi familiari, di tutti coloro che amandolo lo
hanno formato e, infine, amo l’uomo costruito dal mio amore. Nella formazione con la quale
l’Istituzione forgia i preti non c’è amore, ed è solo l’amore che costruisce la persona... Sono
molto triste leggendo la tua storia, nel vedere come è finita fra te e tua moglie. Sono triste per te, ma
ancor di più per tua moglie, perché sono una donna e posso intuire quanto deve aver sofferto,
quante e quali ferite le saranno state inferte, e può essere che quelle ferite abbiano cambiato il suo
amore per te in odio. L’odio è generato da un amore grande e profondo, mal corrisposto, deluso,
rinnegato, tradito...
«Dici che ora ti chiama “pretaccio maledetto...” A me par di capire che in te odi il prete soltanto.
Dici che ciò che soprattutto detesta in te è la tua insistenza a interessarti di teologia e a mantenere i
rapporti con altri confratelli. Magari ti aspettavi e desideravi che, proprio perché ti amava, avrebbe
compreso questo tuo bisogno... Tua moglie, credimi, odia il prete,- l’individuo fabbricato dalla
“formazione», non quello costruito dall’amore. Tu mi chiederai: che cosa c’entra la formazione che
ricevono i preti? Per me è così: vi parlano di verità, di amore, ma la vostra formazione è concepita
per mantenere ben salda una casta elitaria, farisaica, col privilegio dell’esclusiva, le cui mire sono
l’influenza, il prestigio... cose che danno potere. E per mantenere l’esclusiva? Fuori dai piedi prima
di tutto le donne, siano esse colleghe, mogli.... »
Da fonti ecclesiastiche si insiste nel sottolineare l’incremento dei «ritorni all’ovile delle pecorelle
smarrite». «Sono alcune centinaia gli spretati che si ravvedono», ha dichiarato (ottobre ‘95)
monsignor Crescenzio Sepe, segretario della Congregazione per il clero. «Il loro numero è in
aumento. Siamo passati da cinque, sei, rientri l’anno, ai trenta, quaranta. Le condizioni per essere
riammessi sono due. La prima è che il prete divorzi dalla moglie. La seconda è che i figli, se ne ha,
siano maggiorenni e autonomi. Naturalmente, il divorzio è possibile solo in caso di matrimonio
civile. Se il prete è sposato anche in chiesa, non c’è più niente da fare. Il suo matrimonio è
indissolubile. Quindi, il rientro è impossibile. »
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Quella di monsignor Sepe può, a prima vista, apparire una enunciazione discutibile. Si parla di
divorzio per la riammissione al ministero ecclesiastico. Come? La Chiesa non condanna il divorzio?
Certo. Ma poiché il solo matrimonio civile non ha alcun valore, il sacerdote divorziato è, detto in
parole povere, come se fosse ancora «celibe». Diversamente, se si è sposato in chiesa, ha contratto
un vincolo che non si può sciogliere.
Giovanni Paolo II interviene periodicamente a ribadire l’obbligatorietà del celibato; e non trascura
di auspicare il pentimento di chi ha smarrito la retta via. Nella Lettera ai preti del mondo (aprile
1995), per esempio, invocava la Madonna perché «i nostri fratelli che hanno abbandonato il
ministero sacerdotale a causa di una donna sperimentino la grazia del ritorno».
E le spose abbandonate? Non pare che la Gerarchia, così sollecita nel «recupero» dei sacerdoti
trasgressivi, si ponga questa preoccupazione. Non si è preoccupata — per citare un caso — di Sonia
Lopresti, maestra trentenne, moglie di Tonino Corcione, trentatré anni, ex arciprete di Raffadali
(Agrigento) che nel ‘94, dopo due anni di convivenza conclusa col matrimonio, fu abbandonata dal
marito, il quale, all’improvviso, sembrava essersi pentito. Raccontano le cronache che, mentre la
donna disperata si leccava le ferite tra gli insulti, le critiche e le condanne dei benpensanti, Tonino
si era rifugiato in una comunità per sacerdoti in crisi. Il Vicario di Agrigento intanto si premurava di
fargli sapere che la Chiesa era disposta a perdonarlo.
I due, in verità, poco tempo dopo ritornarono assieme, e Tonino Corcione dichiarò ai giornali:
«Quando in Curia sono venuti a sapere che mi trovavo in difficoltà, mi hanno allettato con una serie
di proposte di aiuti economici. Mi hanno persino pagato i debiti che avevo. Eppure io, pur avendo
parlato di separazione, di problemi di vita familiare, non mi sono mai pronunciato sul ritorno al
sacerdozio. Ho invece ribadito con le autorità ecclesiastiche l’amore che nutro per Sonia».
«Adesso siamo nuovamente assieme», aggiunse, «e stiamo cercando di pianificare meglio la nostra
vita. Mi sono reso conto che fare il sacerdote è sicuramente più semplice che non vivere una vita
familiare, scandita da impegni, sacrifici, umiliazioni. Ma non torno sui miei passi. »
E Sonia raccontò: « Da una vita agiata e senza troppe difficoltà economiche, ci siamo trovati senza
lavoro e in un ambiente nuovo (la coppia, dopo il matrimonio, si era trasferita in un paesino del
Pavese presso alcuni parenti, n.d.a.). Ai normali problemi di una giovane famiglia si sono poi
aggiunte pressioni psicologiche e morali da parte della Curia... Che sembrava volere renderci tutto
più difficile».
Quante donne si trovano nelle condizioni di Sonia? Quante vivono i suoi problemi?
Fra le tante storie di mogli di sacerdoti, ho scelto di riportare per esteso due testimonianze: quella di
Pina Lupo, toscana, quarantotto anni, sposata da un decennio con Mauro Delnevo,
sessantacinquenne. E quella di Lina, trentasei anni, fresca sposa di Luca, quarantenne (i nomi sono
stati cambiati, per espressa volontà della coppia).
Due vicende distanti, e non solo temporalmente. Due strade, due percorsi umani e sentimentali che
ben poco hanno in comune. Molto differente è anche la personalità dei mariti- sacerdoti. C’è un filo
che unisce, però, le due storie: Lina e Luca, nell’estate del ‘94, dopo la fuga dal paese dove lui era
viceparroco, hanno conosciuto e frequentato Pina e Mauro. Non solo: Mauro Delnevo, qualche
mese dopo, invitato con la moglie e la figlia alle loro nozze, terminato il rito civile ha « officiato »
per la coppia di amici la cerimonia religioso- comunitaria.
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Pina
Pina Lupo è una signora dai lineamenti dolci, graziosa, con un tratto naturalmente gentile. Si veste
con gusto, ma senza eccentricità. E’ impiegata alla Fiat, e accudisce Miriam, otto anni, la bimba
avuta da Mauro Delnevo, l’ex parroco che ha sposato nell’85 dopo cinque anni di fidanzamento.
Lui, un uomo alto dal fisico asciutto, dimostra meno dei suoi sessantacinque anni. Pacato, suadente,
ha conservato, se così possiamo dire, i connotati del prete. Abilitato in teologia, fa il commerciante
nell’indotto portuale e si occupa di volontariato sociale nell’ambito della devianza giovanile. Ed è
un leader di Vocatio.
La coppia abita al quartiere Coteto di Livorno, a due passi dall’omonima comunità, fondata nel
1968. Il Coteto fa parte delle oltre duecento comunità di base che operano in Italia. Ogni sabato, con
un rito privato, Mauro Delnevo, circondato dal suo gruppo (nel quale ci sono molti ex
parrocchiani), celebra la messa, consacra il pane e il vino. Fuorilegge? «Mi sento a posto con la
coscienza. La validità dell’Eucarestia», risponde lui, «non dipende dalla figura del prete, ma
dall’amore della comunità che insieme cerca il Cristo. »
Pina, ci racconti la sua storia. Come ha conosciuto Mauro?
«Avevo dodici anni, quando lui arrivò a Livorno, nel 1960, a fare il parroco del quartiere dove
abitavo. A quell’epoca, a parte la messa domenicale, non ero un’assidua frequentatrice della
parrocchia. Soltanto sui diciassette anni cominciai a impegnarmi nella catechesi. E,
contemporaneamente, assieme ad altri gruppi giovanili, facevo vita sociale. Si usciva, si
andava spesso in gita, accompagnati da don Mauro. Che era un tipo simpatico, anticonformista. Lo
vedevo, infatti, come una persona diversa dai parroci tradizionali. Sapeva stare con i giovani, era
aperto, cordiale. lncontrandoti per strada non esitava a fermarsi a parlare, ad abbracciarti, a darti un
bacio. Lo faceva con tutti, bambini, giovani, adulti. Certo, per questo carattere spontaneo si attirava
anche qualche critica. Ma non se ne curava.
«Con l’esperienza di gruppo crebbe la mia profonda stima verso di lui. Del resto Mauro, durante la
sua vita di parroco, ha maturato tantissime scelte personali, che hanno coinvolto anche i
parrocchiani. La scelta più clamorosa avvenne nel 1976, allorché decise di lavorare, pur
continuando a esercitare il ministero. Un prete-operaio, insomma. Fu tollerato per sei mesi, poi
monsignor Alberto Ablondi, vescovo di Livorno, gli pose l’aut aut: o il lavoro o la parrocchia.
Rifiutò. Così nel ‘77 fu sollevato dall’incarico. Molte persone che lavoravano con Mauro lo
seguirono. Si costituì un gruppo, che poi si sarebbe trasformato in comunità di base. Intanto, oltre
quattrocento persone firmarono un appello al vescovo perché ritornasse sui suoi passi, lasciando a
Mauro la parrocchia. Cadde nel vuoto. »
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Dunque lui non fu punito perché si era innamorato e stava con una donna.…
«Assolutamente. La nostra relazione non era ancora cominciata. Eravamo soltanto diventati molto
amici. Tra l’altro, io avevo avuto le mie esperienze sentimentali giovanili. Deludenti, per la verità.
Al punto che mi ero rinchiusa in me stessa. Fatto sta che a ventitré anni avevo ben chiaro in testa il
mio ideale di uomo. Quindi non volevo perdermi in rapporti superficiali e inconcludenti.»
Il suo ideale di uomo corrispondeva alla personalità di Mauro?
«Be’, non lo sapevo ancora. Pensavo a una persona intelligente, con cui dialogare e misurarmi
intellettualmente. Non mi interessava, certo, il giovanotto ricco (lavoravo, potevo mantenermi da
sola) o esteriormente affascinante.
«Mentre con tutto il gruppo si lottava per dare una sede alla comunità, l’amicizia con Mauro si
andava consolidando. Finché a un certo punto mi sono chiesta: ciò che provo verso di lui non sarà
forse amore? Ma neppure con me stessa avevo il coraggio di soffermarmi su questa parola. Seppi,
poi, che anche Mauro si poneva lo stesso interrogativo. Dopo un periodo di sentimenti inconfessati
reciprocamente, ci parlammo; e i nostri rapporti presero una piega diversa. Debbo ammettere che la
situazione in cui si trovava lui, già bandito dalla Gerarchia, rese in qualche modo più semplice la
nostra relazione. »
Provava attrazione fisica per Mauro?
« Sulle prime no. Venne dopo. Tenga conto che entrambi eravamo alla prima vera esperienza di
coppia. Lui, maggiore di me di diciassette anni, da un punto di vista sentimentale era più ingenuo di
un ragazzino. »
Interviene il marito: «Lo so che molti sacerdoti vivono faticosamente il celibato e la castità, so che
spesso trasgrediscono. Non li condanno. Tuttavia, la mia esperienza è stata diversa. Ho vissuto
benissimo il celibato e la prima donna che ho conosciuto in senso biblico è stata Pina. E’ vero, sono
arrivato ai primi scambi di affetto col candore di un adolescente...»
Pina, come ha affrontato l’argomento , un prete» in famiglia?
« Con difficoltà. La mia mamma, vedova da molti anni, allora era una donna fragile. Non trovavo il
coraggio di parlarle, eppure la storia con Mauro andava avanti da tempo. Quando mi decisi a
confessarglielo, la sua reazione fu quella che avevo previsto. Per sei mesi mi tenne il muso. Oh, non
ce l’aveva con il prete, temeva l’ambiente, le chiacchiere della gente. Poi, a poco a poco le cose si
appianarono.»
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Com’era la vita da fidanzati? Rispetto alle coppie «normali», intendo. Appuntamenti: vacanze,
regali...
« Niente di tutto ciò. Le cose esteriori non ci interessavano. Conducevamo una vita libera, ma
stavamo sempre in gruppo: gite, vacanze, tutto.»
Vuoi dire che lei e Mauro non siete mai usciti da soli?
«No, mai.»
E l’intimità? Ci perdoni l’indiscrezione: avete avuto rapporti sessuali prima del matrimonio?
«No, ci siamo sposati vergini. »
Secondo le regole della Chiesa Cattolica
« Nessuna regola imposta, è stata una scelta personale. Abbiamo deciso di comune accordo. »
Quando vi siete sposati?
« Nel dicembre del 1984 prendemmo la decisione, nel luglio dell’85 si celebrò il matrimonio. Ma
prima... »
Prima?
«Prima Mauro si preoccupò di avvertire il vescovo. A differenza di altri nelle sue condizioni, voleva
fare le cose alla luce del sole. Scrisse a monsignor Ablondi, spiegandogli che c’era una donna, nella
comunità, di cui si era innamorato; gli disse che si trattava di un sentimento serio e forte, e che
aveva maturato la decisione di sposarsi. La risposta arrivò qualche mese dopo: il vescovo
comprendeva la situazione personale e la rispettava, ma rammentava a Mauro i commi del diritto
canonico, e l’invitava a ripensarci, a considerare il dispiacere che avrebbe arrecato a tutta la Chiesa.
Mauro, nonostante gli ammonimenti, non tornò sui suoi passi. Ci sposammo. Alcuni mesi dopo il
vescovo comunicò a mio marito la sospensione a divinis, cioè la proibizione di esercitare le funzioni
del prete all’interno della comunità parrocchiale.»
Commenta Mauro Delnevo: «Avrei potuto chiedere dl essere esonerato da tutti gli obblighi che mi
legano allo stato ecclesiastico e quindi sposarmi in chiesa; ma non mi interessava affrontare un
processo canonico — duro, persino violento, penoso — per ottenere, con la dispensa, la riduzione
allo stato laicale. Tra l’altro, sarebbe in contraddizione con l’idea per cui mi batto: la non
obbligatorietà del celibato dei sacerdoti».
«Al ritorno dalla vacanza-viaggio di nozze », racconta Pina, «la prima nostra preoccupazione fu
quella di chiedere alle famiglie della comunità se intendevano accettare ancora Mauro come
coordinatore. Era importante il loro consenso, altrimenti saremmo stati disposti a cambiare quartiere
e vita. Fummo ben accolti, e anche mia madre acquietò le sue ansie.»
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Nel suo ambiente di lavoro come la presero? Sapevano, in ufficio che aveva sposato un
sacerdote?
«Sì. E i colleghi, al rientro dal congedo matrimoniale, mi trattarono con il massimo rispetto.
Andammo a vivere nella casa dove Mauro già viveva da parroco. Nessuno scandalo, nessuna
malignità. Tenga conto che Livorno non è una città bigotta. Anzi, la gente è generalmente aperta,
anticonformista. Tendenzialmente si fa i fatti suoi. C’è, inoltre, una radicata tradizione laica, di
sinistra, che ha senza dubbio giocato a nostro favore.
«Mauro», prosegue Pina, «voleva un figlio, io ero un po’ preoccupata per via dell’età non più
giovane. Ma poi me ne feci una ragione, e acconsentii. Miriam venne alla luce, in seguito a una
prima gravidanza andata male che mi segnò nel profondo. Avevo quarant’anni e la nascita di mia
figlia fu per me quasi una rinascita. Lui era alle stelle. »
Miriam ora ha otto anni, va a scuola. Immagino che sia noto che è la figlia di un ex parroco. Ha
avuto qualche difficoltà?
« No. Miriam quasi se ne fa un vanto. Del resto, appena è stata in grado di capire, l’abbiamo messa
al corrente di ‘tutto. Ha visto le foto del babbo con la tonaca, e qualche volta lui l’ha indossata per
mostrarle, dal vivo, com’era quando faceva il parroco. Nostra figlia frequenta la terza elementare,
noi abbiamo chiesto l’esonero dall’insegnamento della religione: E lei, fiera, dice ai maestri e ai
compagni: la religione me l’insegna meglio mio padre.»
Senta Pina, com’è Mauro come marito? Litigate mai?
« Abbiamo due caratteri ‘decisamente diversi. Io sono una donna coi piedi ben piantati per terra.
Lui è un sognatore, ha sempre centomila idee per la testa. Gli scontri avvengono su questo terreno.
Un po’ lo seguo, un po’ cerco di calarlo nella realtà quotidiana. Ma tra noi la stima è così profonda
che ogni screzio viene, superato. Per il resto, il nostro è un ménage tranquillo. Io lavoro a tempo
pieno in ufficio (in mia assenza, mia madre si occupa di Miriam), Mauro ha scelto il part time,
per potersi dedicare al volontariato sociale. Rispetto molto questa scelta anche se costa in termini di
sacrifici personali.
In casa cerchiamo di dividerci i compiti, ma è inevitabile che su di me ricada il peso più grande.
Talvolta mi innervosisco, richiamo Mauro a una maggiore collaborazione domestica... Ma succede
in ogni coppia, no? »
Una domanda frivola. suo marito tiene all’esteriorità? Osserva come lei si veste e si cura?
«Sì, ci tiene moltissmo. Se sono elegante, è contento. Del resto anche Mauro è un po’ vanitoso... »
Infatti vedo che si tinge i capelli.
« E’ vero, così sembra più giovane», sorride Pina, divertita, E lo guarda con tenerezza.
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Lina
« Guarda... mi piacerebbe sposarmi con un vestito come quello», mi disse Lina mostrandomi un
elegante abito bianco, nella vetrina a malapena illuminata. « T’invito al matrimonio. Verrai? »
«Puoi contarci. » Giugno 1995, mezzanotte circa, in una via del centro di Livorno. Stavo rientrando
in albergo, dopo la cena in trattoria, assieme alla fidanzata dell’ex vice- parroco, una tipetta tutta
chiacchiera, magra, biondina, occhi castani. C’era anche lui, Luca, lo sposo promesso. Un omone di
un quintale, occhi verdi e intensi, parlata sciolta e forbita. Tra un bicchiere e l’altro, la coppia aveva
appena finito di raccontarmi gli ultimi dettagli della storia d’amore, in un clima cordiale, rilassato.
Tanto che, conversando, eravamo passati al tu, mentre durante l’intervista «ufficiale», cominciata
nel pomeriggio sotto un albero di ciliegio nel giardinetto della sede della comunità coordinata da
Mauro Delnevo, ci davamo formalmente del lei. Anche se devo ammettere che sia Lina, sia Luca,
furono subito disinvolti nel porgermi la loro testimonianza. A un’unica condizione: omettere i
cognomi, cambiare i loro nomi di battesimo.
Dunque, uscendo dalla trattoria livornese, mi ero lasciata sfuggire con Luca una battuta: « Scusami,
ma tu non avresti mai dovuto fare il prete... » Scoppiò in una risata, Lina sorrise. Non avevo, infatti,
potuto fare a meno di « confrontare» l’esperienza di Pina e Mauro con quella di Lina e Luca. Mi
aveva colpito, infatti, la diversità dei caratteri delle due donne e soprattutto l’«antiteticità» delle
figure dei due ex sacerdoti.
Mauro Delnevo, nato in Emilia, parroco-operaio, si forma « culturalmente » nella linea della
contestazione post-Concilio (penso a don Milani della scuola di Barbiana, all’Isolotto e all’abate
Franzoni); il suo travaglio religioso, culminato con l’abbandono della parrocchia, non è causato
dall’incapacità di vivere la continenza, il celibato, o dalla pazzia per una donna. Per Mauro,
l’amore, il matrimonio vengono dopo la « ribellione» alle regole della Gerarchia. Si sposa, dunque,
ma continua a sentirsi prete.
Luca — è lui stesso a raccontarcelo — nasce in un paese del Sud, da padre carabiniere. Ragazzo
estroverso, con una vita affettiva e sessuale normale, simpatizza politicamente con la Destra dura ed
estrema. Tanto che a Bari, da studente, lo troviamo tra i fondatori del « Gruppo volontari
nazionale», d’ispirazione mussoliniana. Diventa, insomma, un picchiatore nero.
Le prime avvisaglie della crisi religiosa lo colgono nel 1974, durante un raid studentesco cui
partecipa con il suo gruppo. Luca, imbattendosi in un ragazzo sanguinante, che invoca aiuto, resta
molto turbato. Fatto sta che da quel momento il picchiatore abbandona la lotta e si dedica al
volontariato sociale. Nel ‘77, assiste all’ordinazione sacerdotale di un amico e in lui la tensione
ideale si acuisce. E qualche mese dopo, nel corso di un ritiro spirituale, sente la chiamata divina.
Luca abbandona tutti e parte per il noviziato presso i padri passionisti a Morovalle (Macerata).
L’ordinazione a sacerdote avviene nel 1985. Da passionista, si dedica soprattutto alla predicazione
«missionaria» in varie località d’Italia. E anche all’estero. Padre Luca fa alcune esperienze in
Brasile, in Kenia, in Mozambico. Sono anni importanti e travagliati («mi rendevo conto che in me il
richiamo dei sensi era forte», ammette).
Nel ‘92, la decisione di lasciare l’ordine dei passionisti per passare al clero secolare (dove è previsto
il rispetto della castità, ma senza che l’impegno sia vincolato da un voto, come recita invece la
regola delle congregazioni dei religiosi). Approda così, nel ‘93, come viceparroco, a L., un paese
del Mezzogiorno. Qui incontra Lina, tra i due nasce l’amore. Un anno dopo, nel luglio del ‘94, lui
getta la tonaca e fugge con la sua donna.
72
Ottobre 1995. Lina mi viene incontro, raggiante, nel prezioso abito da sposa:, bianco, lungo, in tulle
e pizzo macramé, con lo strascico. Le sorelle l’assistono per gli ultimi tocchi all’acconciatura
(capelli raccolti, roselline di penne appuntate nello chignon), la madre se la divora con gli occhi.
E arrivato il gran giorno, sta per andare in sposa a Luca. Ha mantenuto la promessa. «Il matrimonio
sarà celebrato a L., dove sono nata, non mi importa delle chiacchiere della gente. Dimostrerò anche
a qualche amica diffidente e maliziosa che il viceparroco non mi prendeva in giro... » mi aveva
confidato quella sera di giugno, davanti alla vetrina con gli abiti da sposa. « Come mi sta? Non l’ho
preso a Livorno. » Si liscia il vestito e ride, felice. Anch’io sono stata di parola.
Eccomi tra gli invitati alle nozze della moglie del prete. Qualche settimana prima avevo ricevuto la
partecipazione, in carta pergamena: sala consiliare di L., ore 11 e 30, ricevimento al ristorante...
E una bella giornata mite, la foschia mattutina si è appena diradata, la gente passeggia lungo il
corso: è domenica, e qui si usa ancora fare lo struscio. Qualche commento raccolto al volo dimostra
che il clamore, seguito alla «fuitina» di Lina e Luca, a distanza di un anno, si è ormai stemperato. I
giudizi sono per lo più tolleranti. E perfino benevoli.
Luca aspetta l’arrivo della sposa sulla soglia della palazzina in cemento armato dove verrà celebrato
il rito civile dal sindaco pidiessino. E’ un po’ teso, lo sposo. Dimagrito, indossa un abito grigioscuro, con una cravatta dai toni azzurrati. Tre amici di infanzia, venuti dal suo paese natale, gli
fanno compagnia nell’attesa. Non ci sono invece né il papà carabiniere, né la mamma, né il fratello
minore. Non gli hanno ancora perdonato di essere fuggito dalla Chiesa.
Il matrimonio avviene in una sala addobbata di cesti di fiori bianchi e gialli: Gli sposi sono
emozionati, ma disinvolti. Prima il sì un po’ burocratico del rito civile, poi la sorpresa preparata da
Mauro Delnevo, presente tra gli invitati con Pina e la piccola Miriam. Il sacerdote (dovrei dire ex,
ma del ministro di Dio sembra mancargli solo la tonaca...) celebra la funzione religiosa. «Non è un
gesto contro la Chiesa ufficiale, è un gesto di amore e di fede», sottolinea prima di cominciare.
Eppure quello a cui sto assistendo è lo stesso rito che si celebra davanti all’altare: le preghiere e i
salmi della, messa, l’offertorio, lo spezzare del pane con le parole « prendete e mangiatene tutti,
questo è il mio corpo». Infine, la pronuncia del secondo sì, davanti a Dio. «Prendo te Lina come
sposa... » recita Luca che conosce a memoria la formula del sacramento (« Ne ho celebrati quasi
duecento quando facevo il sacerdote», mi dirà); quando tocca a lei, non si ricorda le parole. Lui
s’improvvisa suggeritore, e il momento solenne finisce quasi nell’ilarità generale.
E’ l’ora del banchetto; l’atmosfera si scalda con le note dell’orchestra che sfodera il repertorio anni
Sessanta, dalle melodie agli scatenati twist. Il menu è ricco, una decina di portate, servite da
camerierine abbigliate con la divisa delle grandi occasioni. Lina e Luca, nelle pause, si concedono
agli ospiti, disseminati nei tavoli rotondi, regalando qualche confidenza: «Vogliamo subito un
bambino, anche due gemelli...»
È già buio quando gli sposi, tra gli applausi, tagliano la torta nuziale.
Lina, che cosa l’attrae di Luca?
«Fisicamente, gli occhi; e poi il carattere leale, e la sua passionalità. Sa, noi due abbiamo un’ottima
intesa anche nell’intimità... Lui è un tipo focoso.»
73
Davvero?
«Sì.»
Sorride. Guarda il suo uomo e dice, con affettuosa ironia:
«A voler essere proprio sincera, la prima notte in cui abbiamo fatto l’amore Luca era un po’
impacciato. L’ho dovuto incoraggiare io... »
Ho appena finito di ascoltare l’esperienza — scandita da ideali, candori, messe comunitarie — dei
coniugi Delnevo, che di botto entro in contatto con un’altra realtà. La conversazione con Lina
(rinforzata dagli interventi di Luca), mi riporta a un livello più «terreno» del rapporto a due. Va
bene così. La simpatica fidanzata dell’ex viceparroco racconta per filo e per segno la sua
avventurosa storia d’amore.
« Luca mi sembrò subito un prete autoritario, e un po’ arrogante. Troppo anticonformista per i miei
gusti», dice. «C’è un episodio, accaduto quando lui era da poco viceparroco di L., che ancora
ricordo. Segnò il nostro primo sgradevole approccio. »
Racconti.
«Era ottobre e in questo mese si fa la processione della madonna di Fatima. Con mio nipote
partecipai alla funzione lungo le strade del paese; al rientro in chiesa, tradizione vuole che la
statuina della Vergine entri di spalle, così che possa simbolicamente dare un ultimo sguardo ai
fedeli che la seguono. Ebbene, don Luca, che si trovava accanto a me, si mise a sbraitare: «E’ mai
possibile che la Madonna debba entrare dalla parte del... culo?”... Rimasi di stucco. Che diavolo di
sacerdote è mai questo?, pensai. E, per tutta la sera, con le amiche non si parlò che di lui. Tutte
criticammo il suo comportamento.
«Quel fatto, del resto, confermò l’impressione negativa che ebbi al suo arrivo in parrocchia. Era una
domenica e mentre passeggiavo sul corso, incrociai il nuovo cappellano... O, meglio, non l’avrei
riconosciuto se non me l’avessero detto. Che tipo, don Luca! Jeans, scarpe da tennis, giubbotto,
occhiali scuri, sigaretta in bocca.., sembrava tutto fuorché un prete. Lo dissi a voce alta, lui si girò di
scatto. Mi guardò, e se ne andò.»
Come inizio, un bel disastro. Quando quel sacerdote « monello » cominciò a piacerle, o quanto
meno a non starle antipatico?
«Be’, ci volle un po’ di tempo. A pensarci bene, il nostro interesse reciproco si è andato
manifestando tra vari battibecchi. Da parte mia, devo ammettere di essere linguacciuta e scherzosa.
Lo ero anche con don Luca, nelle varie occasioni in cui ci si trovava in parrocchia. Durante una
pesca di beneficenza, per esempio, ricordo che mi divertivo a fingere di portar via pentole e oggetti
vari. “Sono per il mio corredo...” giocavo. E, giocando, cadde a terra una bella spilla di Byblos che
indossavo. Si ruppe, don Luca si offerse di aggiustarla. Fu un atto gentile, e lo notai. Un’altra volta,
la notte di Natale, durante la processione del Bambin Gesù sul lago, cominciai a sfottere sia lui che
il parroco: “Senti come cantano, quanto sono stonati...» Faceva molto freddo e piovigginava. Luca
mi udì e allora prese a battermi la testa con i fogli dei canti, io mi difesi con l’ombrello... »
74
Interviene lui: « Quella ragazza cominciava a entrarmi dentro. Non capivo bene il perché, ma ogni
volta che incontravo il suo sguardo, lo sfuggivo. Provavo quasi imbarazzo. E sì che io non sono il
tipo da farsi mettere in difficoltà tanto facilmente! »
« I nostri incontri, in effetti, si caratterizzavano dallo sfuggire di sguardi», continua Lina. « Finché
cominciammo a parlarci in maniera pacata, normale. E a quel punto le occhiate diventarono,
inconsapevolmente, di intesa. Durante la messa mi mettevo nelle prime file. Don Luca, dall’altare,
mi guardava con insistenza. Ma ancora non capivo che cosa stesse accadendo. Lui era un tipo
particolare, e quell’atteggiamento poteva essere solo una sfida, O un mettermi alla prova, o anche
una perfida beffa. Ma intanto cresceva il mio interesse nei suoi confronti. Oltre ai difetti, ne
apprezzavo le qualità: per esempio, notavo che era un ottimo predicatore. E, a parte il tratto un po’
autoritario, il prete lo sapeva fare. Avevo capito, infatti, che non era giusto fermarsi all’aspetto
esteriore; bisognava valutarlo dall’esercizio del suo ministero. Don Luca, inoltre, sapeva
coinvolgere i giovani. A L. fondò il gruppo dei boy-scout. Era benvoluto, apprezzato dalla gente. »
Lina, quando i rapporti si fecero più stretti?
«La svolta fu segnata, ancora una volta, da una piccola polemica. Era il periodo di Quaresima e lui,
alla fine della messa, aveva l’abitudine di fermarsi sulla porta della chiesa a salutare, uno per uno, i
fedeli. Io, la prima volta, cercai di svincolare, senza fermarmi. Luca mi apostrofò: ehi, non mi
saluti? Ero furibonda. La sera gli telefonai e gli dissi: non permetterti mai più di bloccarmi in quel
modo. Da allora, con vari pretesti, di tanto in tanto ci chiamavamo. E le telefonate via via si
infittirono. »
Commenta Luca: « Ormai non avevo più dubbi: quella ragazza mi era entrata nella testa ».
Lina, ,non è mai andata a confessarsi da don Luca?
«Una volta sola, e mi è bastato. Per la verità, io avevo già il mio padre spirituale. Una sera, durante
una telefonata, Luca mi disse: perché non ti confessi con me? Figurarsi, una delle sue solite
provocazioni. Ma, quasi per sfida, il giorno dopo mi presentai davanti alla grata. Un’ora di
confessione, con la fila di gente, nei banchi, che aspettava, impaziente... Non fu una vera
confessione. Parlò il viceparroco, e mi raccontò di una ragazza di Roma con cui aveva avuto una
relazione... Ammetto che non mi meravigliai più di tanto. Avevo intuito che quel sacerdote era un
tipo speciale, in tutto. »
Ma con lei si dichiarò?
« No, non ancora. »
76
e quando allora?
«La prima tenerezza si manifestò con un grande mazzo di margherite. Lo ricevetti senza alcun
biglietto di accompagnamento. Pensai subito a Luca. E quando la sera lo incontrai sul corso, glielo
dissi. Fece il finto tonto e si limitò a rispondermi, sornione: margherita significa adorabile.
La dichiarazione d’amore arrivò, subito dopo, per telefono. Del resto, abbiamo fatto tutto per
telefono. A lungo, ci siamo desiderati a distanza.»
Ricorda l’ex sacerdote: « Più volte le chiesi di uscire sola con me, ma lei, ostinata, si rifiutava.
Credo che fosse condizionata dall’ambiente».
« La famiglia, l’ambiente, certo, mi condizionavano », dice Lina, «però, pur essendo turbata e
provando un forte interesse verso di lui, non ero ancora sicura dei sentimenti e delle scelte che
intendevo fare. Dopotutto, Luca era un prete! »
Qualcuno aveva notato che fra voi due c’era un ‘intesa particolare?
«Le prime voci a L. cominciarono a circolare al ritorno da un pellegrinaggio al santuario di Santa
Rita a Rocca Porena, in Umbria. Evidentemente qualcuno si era accorto che tra me e Luca c’era una
certa confidenza. Era l’inizio dell’estate e, mentre le chiacchiere di paese dilagavano, lui partì con i
giovani per un campo scout. Una pausa di riflessione? Neanche per sogno. Ricordo che ci
sentivamo tutti i giorni per telefono: il 28 giugno, giorno del mio compleanno, Luca mi inviò un
mazzo di trentacinque rose rosse.
« Al suo ritorno le cose precipitarono », continua Lina, « accettai per la prima volta l’invito a uscire
da soli. Ero tesa, emozionata. Facemmo una passeggiata in auto. Desideravo tanto abbracciarlo e
baciarlo, ma non ci riuscivo; Sono stata male, tanta era l’agitazione. Ci fu un secondo
appuntamento. Poi, il terzo — il 20 luglio 1994 — prendemmo la grande decisione: fuggire
assieme. Subito. Pazzi? Forse. Ma è stato meglio così. »
Interviene Luca: « Avevo meditato a lungo su come affrontare la situazione. Avevo pensato, in un
primo tempo, di lasciare il paese da solo, e poi farmi raggiungere da Lina in un secondo momento.
Forse era la soluzione più ragionevole. Ma così avrei dovuto affrontare la curia vescovile, e fare i
conti con i miei genitori. Che, tra l’altro, erano venuti ad abitare con me, nella canonica di L.
Mio padre, ex carabiniere, ha una mentalità molto rigida. Non avrebbe capito la mia scelta.
Insomma, mi convinsi che sarebbe stato meglio tagliar corto. Sì, fare un colpo di testa, mettere tutti
di fronte al fatto compiuto».
« Luca mi propose la fuga quella stessa sera», ricorda Lina. «Non avevo nulla di pronto: né valigie
né soldi. Ma lo seguii col vestito che avevo addosso. Senza soldi, senza bagagli. E soprattutto senza
ragionarci troppo su. Senza preoccuparmi di mia madre, che, non vedendomi rientrare, si sarebbe
allarmata. In quel momento avevo altro per la testa. Lui telefonò a un fratello che vive a Livorno
con la famiglia e gli disse: sto arrivando con la mia ragazza... »
La reazione?
«Può immaginarla. Restò basito. Tuttavia, non ci negò l’ospitalità. Arrivammo a Livorno il giorno
dopo, stremati, dopo una notte di viaggio in auto. Smaltito lo stupore, l’accoglienza fu cordiale. Il
fratello di Luca e la cognata ci cedettero perfino la loro camera matrimoniale. »
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E al paese che cosa pensarono della vostra sparizione? Chissà che scandalo.
«Sulle prime, mia madre — che era all’oscuro di tutto — pensò a una disgrazia. Poi, quando si
venne a sapere che anche il viceparroco era sparito, si fecero strada i sospetti sulla nostra fuga.
Avvalorati da un amico, un vigile urbano, che conosceva la situazione. Ma la famiglia di Luca, non
è chiaro il perché, presentò ugualmente denuncia per scomparsa. Nel frattempo io avevo telefonato
a casa. Non la presero bene, certo. Le cose, però, si appianarono poco dopo. I suoi genitori, invece,
non l’hanno ancora perdonato. »
Torniamo a Livorno. Come andò la convivenza?
«Bene. Anche se ci pesava il fatto di dover abitare in casa d’altri. Infatti, resistemmo per un mese.
Poi trovammo una sistemazione autonoma. »
E tra voi due?
«All’inizio ci fu qualche problema di adattamento, di sintonia. Ma il rapporto migliorò in fretta.
Vede, Luca, che sembrava tanto sicuro di sé, nei miei riguardi si bloccava. Ero convinta, per
esempio, della sua disinvoltura sessuale. Mi aveva raccontato, infatti, di aver avuto in passato
alcune avventure. Invece, la prima notte, dovetti incoraggiarlo. Era persino impacciato. »
Confessa lui: «E’ vero. Ero stato con altre donne, però con Lina era diverso. Ne ero innamorato,
volevo sposarla. Ciò evidentemente mi intimidiva e mi rendeva goffo. Se ci penso, mi viene da
sorridere. Ora è tutto superato. Sono un altro uomo. Ho più cura di me stesso; fisicamente, intendo.
Lina e io facciamo persino la doccia assieme. E, ogni sera, quando ci addormentiamo abbracciati
dopo aver recitato le preghiere, ringrazio il Signore che mi ha fatto incontrare questa donna».
Come ve la passate economicamente?
«Non molto bene. Ci ha aiutato mia madre, abbiamo dato fondo ai risparmi di Luca», dice Lina.
«Ora lui ha trovato lavoro come assicuratore; io, che ho il diploma di maestra d’asilo ma non ho
mai insegnato, vedrò di inserirmi nelle graduatorie... E’ dura. Ci arrabattiamo, in attesa di tempi
migliori. »
( Il problema economico è importante e delicato per un prete che ha gettato la tonaca. Luca tiene a
spiegare nei dettagli la sua esperienza, rivelando anche una delusione, subita dopo essersi rivolto a
certi politici amici. «Nel periodo in cui ero viceparroco, ricevevo un milione e centomila lire al
mese, l’assegno di sostentamento del clero. Quella che un tempo si chiamava congrua», racconta.
«Inoltre, c’erano le offerte dei fedeli. Abitavo in canonica con i miei genitori, non mi mancava
nulla. Avrei potuto anche accantonare un bel gruzzolo, ma non sono mai stato un risparmiatore.
Usavo i miei soldi sia per aiutare chi stava peggio di me, sia per acquistare automobili. Lo ammetto,
le auto sono state sempre la mia passione... Fatto sta che, quando sono scappato con Lina, il mio
conto in banca ammontava a due milioni e ottocentomila lire. Dunque, la situazione non era rosea.
Sono laureato in Giurisprudenza, ma a quarant’anni non è facile cominciare da capo. Prima di
buttarmi nelle assicurazioni, ho fatto anche il muratore. Lina era contraria. Be’, visto il mio passato
politico, allora pensai di rivolgermi a qualcuno che mi potesse aiutare.
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In quel momento il centrodestra era al governo con Berlusconi, così decisi di contattare il ministro
delle Poste, Pinuccio Tatarella, per chiedergli una mano a trovar lavoro. Lo conosco molto bene.
Tatarella è pugliese come me. E io, anche da sacerdote, attirandomi le critiche della Curia, ho
sempre fatto propaganda elettorale, come ho potuto, per la Destra. Pensavo, insomma, che mi si
dovesse una certa riconoscenza. Risultato? Nessuna risposta. L’onorevole mi ha snobbato. Ci sono
rimasto male. Forse dovevo rivolgermi direttamente al segretario, a Gianfranco Fini...
« Sa, invece, chi ci aiutò economicamente? Il mio vescovo», conclude Luca. « Ci inviò un assegno
di un milione. Era in un momento di grande difficoltà fu come la manna dal cielo. »)
Lina, quali sono i vostri progetti di coppia?
«Sposarci il più presto possibile, e avere subito un figlio. Ci stiamo già provando, ma non arriva... »
A quando le nozze?
«In autunno. Torneremo a L. e là ci sposeremo in municipio. Luca ha già chiesto la “dispensa” per
poter celebrare anche le nozze religiose, »
E’ una procedura complicata
«Sì, le pratiche vanno a rilento. E’ appena arrivata una lettera dal vescovo, che indica l’iter e le
condizioni per ottenere la riduzione allo stato laicale. E’ davvero tutto molto complicato.»
Ma ci tenete così tanto?
« Siamo cattolici, e questa situazione un po’ ci pesa. La Chiesa ci considera fuorilegge; il nostro
stato è simile a quello dei divorziati. Ascolti: ogni volta che vado a messa, mi sento a disagio. Vedo
gli altri fare la comunione, e soffro non potendo accostarmi all’Eucarestia. Ormai Luca e io non ci
confessiamo più.»
« Se lo facessimo», dice lui, « ci negherebbero l’assoluzione. Pensi l’assurdità: quando ero
sacerdote e andavo in confessionale a raccontare le scappatelle con le ragazze, il prete confratello
mi accordava il perdono di Dio. Ora che sto fedelmente con una donna che presto diventerà mia
moglie, verrei respinto senza appello. »
80
Figli della colpa
Millenovecentocinquantasei, quarant’anni fa. Un’Italia povera, conservatrice, bigotta. Il boom
economico è ancora un sogno, e qualche lustro la separa dalle leggi laiche e libertarie del divorzio e
dell’aborto. A Prato un vescovo tuona dal pulpito contro una coppia di giovani battezzati che hanno
osato sposarsi solo civilmente, bollandoli come scandalosi concubini. E nello stesso anno, in
un’altra città della Toscana, Cortona, si consuma una delle tragedie più fosche nella storia del
clero italiano del Dopoguerra. Portata alla ribalta da un processo-spettacolo. Protagonista: un
parroco quarantenne, condannato a Otto anni di carcere (diventati dodici in secondo
grado), per i reati di << falso aggravato in atto pubblico, di tentato procurato aborto su donna
consenziente, seguito da morte, di esercizio abusivo della professione sanitaria». Al di là del
burocratico linguaggio giudiziario, la vicenda in sintesi è questa: don Amilcare Caloni si invaghisce
di una giovane, Celeste Palustri. Tra i due si instaura una relazione segreta. E’ quando lei si accorge
di essere incinta, il parroco, per tirarla fuori dai guai, ma soprattutto per soffocare lo scandalo, pensa
di trovarle un marito, combinando un « finto matrimonio»:
Ce1este in tutta fretta, si sposa con un ex militare polacco.
Che, naturalmente, sparisce qualche mese dopo le nozze. Madre e bambino, allora, vanno a stare in
canonica. Così la coppia clandestina può vivere finalmente sotto lo stesso tetto. Alla seconda
gravidanza indesiderata, la tragedia. Don Amilcare, che s’intende di medicina, inietta alla sua
amante una dose di «apiolo verde», un potente abortivo. Tanto potente da far morire anche lei...
Ecco come un giornale dell’epoca (« Crimen », n. 16) racconta il seguito della storia: «Con il
cadavere fra le braccia, nella canonica di San Marco, mentre nell’altra stanza numerosi ospiti
giocavano a tombola, il prete scese la scaletta a chiocciola che menava al garage e all’ingresso
secondario; caricò il lugubre fardello nella sua Topolino e corse nel buio al ponte dell’Ossaia per
gettare la salma sul greto... Il fattaccio venne alla luce il 29 gennaio. La sera di quella domenica, il
colono Sante Pagnini se ne tornava verso casa percorrendo la strada che costeggia il torrente
Essolina. A un certo punto, in prossimità del ponte dell’Ossaia, scorse una strana macchia laggiù sul
greto. Approssimatosi alla spalletta del ponte, per prima cosa rinvenne un pacchetto contenente vari
indumenti femminili e, più in basso, alla base del ponte, scoprì con raccapriccio la salma di una
giovane donna in sottoveste, che giaceva insanguinata sulle pietre aguzze, bagnata solo in parte
dall’acqua del torrente ingrossato dalle piogge...
«Un suicidio, si pensò dapprima. Ma quando i carabinieri esaminarono il contenuto del sacchetto,
un’altra ipotesi cominciò a farsi strada. V’erano, infatti, le scarpe della donna perfettamente lucidate
e pulite: il che dimostrava che la poveretta non aveva percorso con i propri piedi il pendio verso il
torrente, tutto ingombro di neve e di fango... Poco più tardi si giungeva all’identificazione della
salma. Si trattava di Celeste Palustri, una trovatella che era stata raccolta da una buona famiglia di
Cortona e che nel 1953 aveva sposato a Perugia, con rito d’urgenza, un profugo polacco, un certo
Antonio Markic. Dopo pochi mesi il marito l’aveva abbandonata... Furono tristi giorni per la povera
Celestina, e solo da qualche tempo, da quando cioè aveva conosciuto il parroco di San Marco, don
Amilcare Caloni, che si era premurosamente offerto di far da tutore al piccino e d’impiegare in
canonica la poveretta in qualità di domestica, il sorriso era tornato a illuminare il suo volto. Ma il
sorriso non si addiceva a Celestina: troppe prove ce lo confermano...»
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Don Amilcare, ora ultraottantenne, vive in una città della Lombardia. Si può ben immaginare, oltre
all’espiazione della pena in carcere, in quali tormenti e rimorsi abbia trascorso la vita, il povero
sacerdote. Viene spontaneo un quesito: chissà come si sarebbe comportato, ai tempi d’oggi, se si
fosse invaghito di Celestina?
In quarant’anni i costumi, anche quelli dei preti, sono profondamente mutati. Chissà... Per la sua
donna e per i suoi figli, don Caloni forse avrebbe gettato la tonaca e lasciato la parrocchia di San
Marco...
Certo, il clima è cambiato. Eppure, oggi come ieri, il dramma di un parroco con un figlio
indesiderato in arrivo non è detto che si concluda con un «atto di coraggio». Gli epiloghi possono
essere diversi. Se la donna non interrompe la gravidanza, se lui e lei non decidono di andare a
vivere assieme, di sposarsi, resta, di solito, una « terza via»: quella del compromesso.
Che sembra essere incoraggiata dalla Chiesa, quando qualcuno dei suoi ministri si ficca in certi
guai: il bimbo del sacerdote non viene riconosciuto all’anagrafe dal papà, ma la ragazza-madre può
contare su un aiuto economico. Insomma, la Chiesa è disponibile a mantenere il «figlio della
colpa». Con discrezione, però; purché il fatto resti segreto, purché il prete non abbandoni il
ministero. Del destino della donna, invece, la Gerarchia non sembra preoccuparsi troppo.
Lo sa bene Ninni Corcione, ex arciprete di Raffadali (Agrigento), sposatosi nel ‘94 con Sonia Lo
Presti. Per amore ha lasciato la parrocchia e la tonaca, L’ha fatto proprio quando ha saputo che
stava per diventare padre (anche se poi, sfortunatamente, la moglie non ha portato a termine la
gravidanza); ma, a quanto pare, il suo senso di responsabilità non è stato particolarmente apprezzato
dalla Chiesa. E lui stesso a raccontarlo. «A febbraio, dalle analisi di laboratorio arrivò la conferma
dello stato di gravidanza di Sonia », ha spiegato Ninni Corcione in un’intervista al «Giorno» (31
agosto 1994).
« Questo episodio fece scattare in me la decisione di ufficializzare l’unione con la ragazza. Da
Roma, telefonai al vescovo Carmelo Ferraro per informarlo di tutto e comunicargli che intendevo
abbandonare definitivamente il sacerdozio.
«Il vescovo, che era stato già informato da altre persone della mia situazione», ha precisato l’ex
arciprete, «mi diede una serie di appuntamenti sia a Palermo che a Roma. In quelle occasioni, mi
venne proposto di continuare a rimanere sacerdote e di fare crescere mio figlio dai genitori di Sonia,
oppure di darlo in adozione. Quella proposta di smembrare una famiglia che stava per nascere ci
fece inorridire, soprattutto perché a quell’epoca io e Sonia, studiosi di teologia, frequentavamo corsi
universitari del Laterano proprio su matrimonio e famiglia...»
Il caso recente che ha suscitato grande scalpore (tralasciando la storia di don Gregorio Porcaro,
prete palermitano, di cui si narra nel prossimo capitolo) riguarda monsignor Hansjoerg Vògel,
vescovo di Basilea (Svizzera), che il 2 giugno del 1995 rivelò pubblicamente di aspettare un
bambino dalla sua donna segreta: una «bomba» per Vogel nuovo astro nascente della Chiesa
svizzera. Giovane e brillante, nominato vescovo a quarantatre anni, aveva infatti tutti i numeri per
diventare il capo dei «porporati» suoi connazionali, i quali l’avevano già nominato a pieni voti
vicepresidente.
84
«Dopo la mia elevazione a vescovo ho sperimentato una difficoltà affettiva sempre più pesante»,
scrisse Vogel nella sua lettera d’addio ai fedeli. « Ho cercato allora un appoggio presso una donna
che conoscevo da tempo. Da questa relazione è derivata una gravidanza. Non mi è più possibile
esercitare il mio ministero con chiarezza. Per questo ho presentato a Giovanni Paolo II le dimissioni
da vescovo di Basilea. Vi prego, non lasciatevi turbare dal mio passo. Sono sempre persuaso che,
nel celibato, è possibile una vita pienamente completa. Per me arriva il momento che dovrà
condurmi a vedere chiaramente in quale direzione andrà la mia strada. E per questo che mi ritiro nel
silenzio per fare il punto in me stesso. » Come hanno reagito i cattolici svizzeri?
Un giornale (il «Sonntags Blick ») si è affrettato a fare un sondaggio. I risultati?
Inequivocabilmente dalla parte del vescovo: il 69 per cento degli intervistati ha dichiarato di sperare
che il prelato rimanesse alla guida della diocesi, il 68 ha espresso parere contrario all’obbligo di
castità imposto dalla Chiesa, l’84 si è detto favorevole alla soppressione del celibato per i sacerdoti.
Ma tanto calore nei confronti del monsignore non ha sciolto i dubbi: Vògel ha deciso di prendere
tempo. Il Vaticano, comunque, ha accettato subito le sue dimissioni, apprezzando — non è difficile
immaginarlo — il fatto che il pastore di Dio abbia, in sostanza, chiesto scusa e
contemporaneamente ribadito il suo apprezzamento per la regola celibataria della Chiesa.
Dai sacerdoti sposati, impegnati nella battaglia contro l’obbligatorietà del celibato, sono invece
piovute numerose critiche. In una lettera aperta a monsignor Vogel Guido D Altri (del consiglio di
redazione di «Sulla Strada», periodico di Vocatio), scrive: «Quello che più mi lascia perplesso nel
tuo addio ai fedeli, è il silenzio sulla donna che ami e sul bambino frutto di questo vostro amore
Non una parola per rallegrarti della imminente nascita di tuo figlio, non una parola per manifestare
qualche forma di rispetto verso sua madre.
‘Una donna “ infatti chiami la persona che ami e che è ormai anche la madre di tuo figlio. A me,
invece, sarebbe piaciuto che tu l’avessi chiamata per nome e che la lettera inviata alla comunità
cristiana, l’aveste scritta e firmata assieme...» La compagna di monsignor Vogel e rimasta nell’ ombra. Si sa che e una quarantenne appartenente a
una famiglia numerosa di contadini svizzeri; che, per via dello scandalo, è stata costretta a
dimettersi dall’impiego che aveva nell’ambito di un progetto per donne disoccupate. Che ha
partorito una bella bambina, «Mi occuperò di mia figlia», ha detto l’ex vescovo di Basilea, «ma la
questione della convivenza con la madre resta aperta » .
E’ la « suocera» del prelato in un intervista a un settimanale di Zurigo, dopo aver auspicato che
Hansjeorg si decida a sposare la figlia, si è perfino arrabbiata, commentando la proposta avanzata
da monsignor Wolfgang Haas, vescovo di Coira: Vògel resti prete e non viva con la sua donna e la
bambina... « Questa proposta è un’insolenza», ha affermato là signora. «Questo non può essere il
volere della Chiesa »
La clamorosa vicenda del vescovo di Basilea evidenzia, comunque, pur nelle varie contraddizioni,
una svolta nel costume. Attenzione, però: se la casistica rivela che oggi, più frequentemente di ieri, i
sacerdoti-padri tendono a dichiararsi, i figli «segreti» dei preti sono ancora una realtà considerevole.
In Italia (a differenza di altri Paesi) non esistono statistiche al riguardo. Tuttavia, interrogando chi
vive o ha vissuto nell’ambiente ecclesiastico, ci si può fare un’idea, sia pure approssimativa, della
consistenza del fenomeno.
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Tutti (o quasi) i preti sposati che ho incontrato ricordavano storie di sacerdoti-papà. Cito, a
memoria, la vicenda di un parroco pugliese che ha avuto due bambini da due donne diverse. Il
primo con una ragazza del suo paese natale, il secondo con una parrocchiana. E lui, di nascosto,
manteneva i pargoletti, passando gli « alimenti » alle madri. E che dire di quel sacerdote che,
quando finalmente si decise ad andare a vivere con la donna che stava per dargli un figlio, la sera
del trasloco definitivo in casa di lei morì d’infarto?
« E’ intervenuto il vescovo, tacitando subito lo scandalo, e ordinando che la salma fosse tumulata
con la veste e i paramenti sacerdotali», mi racconta Dino Cecchi, prete sposato di Massa.
«Dopo la nascita del bimbo, la madre, convinta dai parenti, si è rivolta alla magistratura per ottenere
che fosse riconosciuto come figlio del sacerdote. »
La storia di don Carlo Zennaro, parrocco di Novi Velia (Salerno), deceduto a ottantacinque anni nel
giugno del ‘95, è finita sui giornali. L’anziano curato, originario di Chioggia, ai tre figli avuti in
gioventù da Luigia Cavallaro (morta nel ‘78), il cognome l’aveva dato; ma, poi, come se nulla fosse
accaduto, continuò la sua vita sacerdotale. A Novi Velia era stato parroco per ben quarant’anni.
E nessuno dei suoi fedeli mai sospettò della « doppia vita » dell’amatissimo pastore di anime. Ma
ecco che, a pochi giorni dalla morte di don Carlo, in paese si presenta una signora. «Sono Paola
Zennaro, figlia del vostro parroco, rivendico ciò che mi spetta dell’eredità», dice pressappoco la
donna ai parrocchiani. Scoppia la rivolta. Novi Velia, in una notte, viene tappezzata di manifesti
contro la « svergognata intrusa». Ma Paola Zennaro non si arrende: non esita a rivolgersi anche al
vescovo per far valere i suoi diritti.
E, nell’attesa di ottenere giustizia, la figlia del parroco annuncia che scriverà un libro.
Argomento: l’amore tra sua madre e don Carlo. Ma quanti sono i figli segreti dei preti?
In Italia non vi sono cifre. Né ufficiali, né ufficiose. Altrove l’argomento è stato studiato da vicino.
Prendiamo la Germania. Karin Jaeckel ha condotto un’indagine dalla quale risulta che in quel Paese
esistono seimila figli di sacerdoti « celibatari», i quali continuano ad esercitare il loro ministero
E nel suo libro Non dire a nessuno chi è tuo padre ha intervistato ottanta donne che hanno avuto
figli da preti (cinque, tra l’altro, hanno detto di aver ricevuto danaro dalla Chiesa per stare zitte e
tre hanno confessato di aver abortito) inoltre, ha raccolto quaranta lettere di questi figli.
Leggiamone alcuni passi.
Ester, tredici anni: «A volte mi chiedo se non era meglio essere morta».
Corina, sedici anni: «Mia madre mi ha parlato per non dirmi niente di questo argomento. Se lo
facesse, il demonio salirebbe dall’inferno per divorare mio padre».
Anita, dodici anni: «Mio padre ha la veste nera. E’ una pecora nera».
Miriam, diciassette anni: «Mia madre è donna nubile di sacerdote. Mio padre è sacerdote in attività.
Desidereremmo molto essere una famiglia».
Un ragazzo di undici anni: «Durante le ferie abbiamo paura a viaggiare in posti dove ci sono
tedeschi per paura di essere riconosciuti».
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Infine, una testimonianza d’oltreoceano. E’ una lettera scritta da Maria Teresa Villaranda, nata nelle
Filippine nel 1967. Figlia di un prete celibe, si è laureata in arte e ora lavora in un ufficio
governativo. Venuta a contatto con la rivista «The Married Priest», per la prima volta ha potuto
parlare con i preti sposati e i loro figli. Ecco un ampio stralcio dello scritto che nel settembre 1992
Maria Teresa ha inviato al direttore della pubblicazione.
« Caro signor Kelly, un mio collega del servizio governativo, ex seminarista domenicano, mi ha
dato una copia del vostro giornale. Sono stata molto contenta di conoscerlo. Io, infatti, sono il
“prodotto” di un “prete celibe”. Nostro padre non è riuscito a vivere con noi per il resto della sua
vita, come gli altri padri, perché è morto con l’abito. Lui e nostra madre non erano sposati, ma sono
vissuti come marito e moglie fino al 7 febbraio 1983, data della sua morte. Triste da dire, ma finora
ho ricevuto solo docce fredde dal fatto di essere figlia di un prete. Anche se ho avuto successo nella
professione, e mia sorella più giovane è una brava infermiera... L’essere considerata la figlia del
prete mi ha fatto versare molte lacrime durante la mia giovinezza. Soprattutto nel periodo
scolastico. Ero sempre etichettata come «bastarda”.
Se dicevo parolacce o litigavo con un compagno, mi sentivo apostrofate: “La figlia del prete non
deve dire parolacce! E’ disgustoso che la figlia del prete litighi!” E tutte le volte che esprimevo
un’opinione, mi sentivo dire: “Queste frasi da dove vengono? Dall’omelia di tuo padre? ».
Alle elementari mi ero scelta amici fidati, perché tutti mi trattavano come diversa. Non perché non
ero normale, ma perché ero figlia del prete... Lentamente sono diventata una donna razionale... Ma
oggi vorrei rivolgere un appello a tutti i preti che si trovano in certe situazioni affinché evitino ai
loro figli ciò che ho dovuto soffrire io ».
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Pippi e don Gregorio
« Ci tenevo che Gregorio riconoscesse il bambino. L’ha fatto e ne sono felice. Sposarci?
Non so, vedremo. Lui non ha ancora scelto la sua strada futura: se diventare mio marito o se restare
sacerdote. Io sono qui ad aspettarlo, se lo vorrà», aveva detto la «ragazza del parroco».
Dopo lo «scandalo» —clamoroso soprattutto per la notorietà di lui — Giuseppina (Pippi) Salerno
ha trascorso molti mesi rintanata nella sua casa di Mondello, al riparo da occhi indiscreti.
Matteo è nato il 12 dicembre del ‘95, e lei, aiutata dai genitori, ha preso ad accudirlo con amore.
«La mia prima preoccupazione è quella di crescere mio figlio. Gregorio è lontano, ma si fa sentire
spesso per avere notizie del bambino», aveva confidato agli intimi.
E’ stata ragazza madre solo per poco. Trascorso qualche mese, il papà-prete è tornato da lei. Pippi e
Gregorio, però, hanno preferito andarsene dalla Sicilia. Ed è comprensibile. Hanno preso Matteo, i
completini azzurri, il biberon e la carrozzina, e sono saliti al Nord
In Piemonte. Dove il piccolo ha ricevuto il battesimo, dove i genitori hanno cominciato la vita
assieme.
Pippi, ventiquattro anni, figlia di stimati commercianti, studentessa universitaria, è una biondina
con gli occhi chiari, appena velati dagli occhialetti tondi, il sorriso dolce dietro cui nasconde un
carattere determinato. Per questa ragazza, don Gregorio Porcaro, parroco dell’Acquasanta, erede,
nella lotta alla mafia, di padre Pino Puglisi (assassinato da Cosa Nostra nel 1993), è finito nella
bufera. Per lei, e per una creatura forse non desiderata, è fuggito precipitosamente dalla sua
parrocchia, dalla sua città. Seguito, nell’esilio volontario in un convento, dai commenti non certo
benevoli di Palermo e dell’Italia intera: il prete-coraggio, che la gente più volte aveva visto e
apprezzato in tv, è stato impietosamente bollato come « parrino fimminaru », parroco donnaiolo...
La notizia della gravidanza di Pippi (« aspetto un figlio da don Porcaro ») appare sulla prima pagina
di un quotidiano di Palermo i primi di settembre del 95 . Un fulmine a ciel sereno che brucia tutta
la stima e la simpatia che il sacerdote trentacinquenne — dinamico, sportivo, un faccione illuminato
da grandi occhi azzurri — si è guadagnato in poco tempo, durante il movimentato ministero
ecclesiastico prima nel quartiere Brancaccio accanto a padre Puglisi, poi all’Acquasanta.
E’ giusto che la trasgressione, è giusto che una storia sentimentale cancelli, in un sol colpo,
l’impegno, lo spirito di servizio, le importanti battaglie combattute da un prete in prima linea?
Intendiamoci, don Porcaro ha ricevuto anche molti attestati di solidarietà. Dagli amici, ma anche
dalla gente comune.
E da alcuni preti che, prendendo spunto dal clamore suscitato dal suo caso, hanno rilanciato la
questione spinosa del celibato ecclesiastico. «La Chiesa potrebbe accogliere tra i sacerdoti
uomini già sposati, capaci di reggere la comunità parrocchiale», auspicava padre Giacomo Ribaudo,
parroco palermitano.
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Qualcuno ha persino fantasticato che per don Gregorio si potesse fare un’eccezione alla regola... Ma
la Curia di Palermo ha smorzato subito gli entusiasmi Diffondendo un breve comunicato per
annunciare le accolte dimissioni di Porcaro dal servizio pastorale. Proprio come aveva fatto, pochi
mesi prima, il Vaticano nei riguardi del vescovo di Basilea, monsignor Vogel
Ma, a differenza dell’alto prelato svizzero, don Gregorio non ha avuto il coraggio di esporsi
pubblicamente. Di raccontare ai parrocchiani che aspettava un figlio e che aveva deciso
di lasciare l’Acquasanta. Anche per questo, molti si sono sentiti traditi. A cominciare da quei
giovani del quartiere marinaro con i quali il parroco si intratteneva spesso a discutere, a fare
progetti. Perché non ha parlato? Perché è fuggito come un delinquente, senza un cenno di congedo?
si sono chiesti con amarezza.
I misteri dell’animo umano, certo, sono insondabili. Tuttavia, molti non perdonano a un prete
coraggio di non aver trovato la forza di affrontare a viso aperto anche la sua questione personale.
Per non dire, poi, di coloro che hanno cercato addirittura di infangare l’impegno antimafia del
sacerdote. La fama del parroco dell’Acquasanta, infatti, era cresciuta quando, nel giugno del ‘95, fu
oggetto di un avvertimento sinistro.
La sua auto fu incendiata. Puntavano a far fuori anche il prete? E lui, per risposta, inviò un toccante
messaggio pubblico al suo «persecutore»: sei un vigliacco, ma ti amerò. Forse non ti ho amato
abbastanza...
«Altro che vandalismo dei mafiosi! Forse sotto c’era dell’altro», hanno insinuato, dopo la fuga, i
più maligni. Una botta durissima per don Gregorio, già profondamente ferito.
Ma torniamo alla storia d’amore con Pippi. Da quanto tempo la ragazza e il sacerdote si
frequentavano?
Non è difficile immaginare, alla luce delle notizie raccolte, che se Matteo non fosse nato, quella di
Pippi e don Gregorio, come altre relazioni clandestine, si sarebbe trascinata nell’ombra chissà per
quanto tempo. Del resto, don Porcaro, così impegnato nella sua missione di sacerdote, sapeva bene
che per sposare la ragazza avrebbe dovuto lasciare la Chiesa. Non c’era altra via d’uscita. Pippi e Gregorio, cresciuti entrambi a Mondello, si conoscevano da molto tempo. E la loro relazione
— riferiscono gli amici — andava avanti da almeno - sei, sette anni. Una storia cominciata quando
lui era già prete. Gregorio Porcaro, giovane cattolico praticante, prima dell’ordinazione sacerdotale,
avvenuta in seguito a una crisi mistica coincisa con l’incontro con padre Puglisi, lavorava come
assicuratore e fu anche sul punto di sposarsi. Non con Pippi, che allora era poco più che una
bambina. Con un’altra ragazza. Il matrimonio, tuttavia, andò a monte. Ma nessuno a quel tempo
avrebbe immaginato che il giovanotto, poi, avrebbe seguito la via del sacerdozio.
Dunque, a sorpresa, Gregorio si fa prete. E Pippi, cresciuta, è una ragazza simpatica e riflessiva. I
due, a Mondello, - hanno amici comuni. Si frequentano nel gruppo, ma tra la studentessa e il
giovane sacerdote sboccia una forte simpatia. Prima sotterranea, poi dichiarata. Continuano a
vedersi anche quando il sacerdote va ad affiancare come viceparroco don Puglisi, al quartiere
Brancaccio. La ragazza è affascinata dalla sua spiccata personalità. Lui è un gran trascinatore di
giovani, lei lo segue da vicino. Da innamorata, però.
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E don Gregorio?
Ricambia. «Non resiste alla tentazione», per dirla con la Chiesa. Anche perché, a quanto si sa,
Pippi mette a dura prova le prime incertezze del prete, scrivendogli lettere appassionate. Forse in
cuor suo spera di averlo un giorno tutto per sé.
O forse, pur di non perderlo, si rassegna a dividere il suo uomo con la Chiesa.
Fatto sta che la relazione va avanti diventando sempre più intima Difficile mantenere il segreto.
Persino le rispettive famiglie a un certo punto vengono a saperlo E ne sono al corrente anche un
pugno di fidatissimi amici. Ma all’Acquasanta, dove nel frattempo don Porcaro è diventato parroco,
nessuno sospetta della «doppia vita» del sacerdote. Per tutti, Gregorio è il prete antimafia, il
fondatore di « Quartiere Nuovo», giornale attorno a cui si raccolgono le forze giovani e impegnate
della città.
Pippi resta incinta.
E verso la fine di giugno del 95, a Mondello, dodici chilometri dalla chiesa di Santa Maria
Santissima della Lettera, la parrocchia di don Gregorio,cominciano a circolare le prime voci.
Un tamtam insistente che, un mese dopo, attraverso un misterioso informatore, arriva alle orecchie
di una giornalista: « In giro si dice che don Gregorio stia per diventare papà... ».
Sorpresa, sbalordimento. E, mentre il sacerdote tace, pur nella morsa dei tormenti ( si vedeva che
era provato, spesso andava via di testa, e lui che è sempre stato robusto dimagriva a vista d’occhio»,
ricorda una giovane della redazione del «Quartiere»), la clamorosa notizia viene confermata.
E non è neppure difficile scoprire il nome della futura mamma: Pippi Salerno. Don Porcaro, messo
alle strette, lascia furtivamente Palermo, mentre «Il Mediterraneo» dà a tutta pagina l’annuncio.
L’indomani, i quotidiani nazionali rilanciano la clamorosa notizia.
«Non sono scappato, il mio andare via non è stata una fuga, ma il bisogno di ritrovarmi», confiderà
il sacerdote all’amico Antonio Ortoleva del «Giornale di Sicilia», nell’intervista concessa
l’indomani della nascita di Matteo. « Dovevo rivedere la mia vita, era necessario farlo. Dovevo
presentarmi a questo bambino nella veste più vera. Sono stati mesi di tormento e di lacerazione, ma
anche di luce improvvisa, mesi che sono serviti. E non ho mai perso di vista ciò per cui ho lottato in
questi. anni. » .E ancora: «Riconoscerò il mio bambino, è chiaro. Il desiderio naturale è che possa
vivere accanto a me. Come, non so; per ora è un problema. Mi appello a chi ha speculato sulla mia
storia. Non vorrei che vi trovaste nella mia condizione, lasciate fuori mio figlio da ogni maldicenza,
il mio interesse principale è che nessuno gli faccia del male. E’ sangue del mio sangue».
E della madre di tuo figlio cosa dici? Ne sei innamorato, la sposerai?
Risponde Gregorio: «E’ stato amore, oggi non so. Non è chiaro per nessuno dei due. Io non sono di
quelli da “sedotta e abbandonata”, ma non basta un figlio per fare una coppia. Stiamo verificando,
stiamo compiendo due cammini diversi, se ci incontreremo in futuro, si vedrà».
Fin qui la sua «confessione». Mi piacerebbe porre un’altra domanda a don Gregorio, una domanda
che l’amico-intervistatore del « Giornale di Sicilia » non gli ha posto: come si sarebbe regolato il
sacerdote se Pippi non fosse rimasta incinta?
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O se quel figlio, da lui generato, fosse nato e cresciuto segretamente?
In altre parole, se non fosse scoppiato lo scandalo?
Nessun moralismo nei confronti di don Porcaro. E neppure la minima intenzione di scalfire la sua
opera di sacerdote generosamente svolta a Palermo. Tuttavia, c’è qualcosa che stride nella storia
privata. Qualcosa che non convince nel suo comportamento di uomo. Sei, sette anni di amore (sia
pure clandestino) con una ragazza non sono uno scherzo. E neppure una sbandata. Certo, una
paternità imprevista, anche se accettata, è inevitabile che rimetta in discussione un rapporto.
Tanto più se esso è già segnato da un «peccato d’origine». Le testimonianze femminili che ho
raccolto, però, la dicono lunga sul « contraddittorio » senso di responsabilità di molti sacerdoti
«innamorati». In una lettera aperta a Gregorio Porcaro (pubblicata da « Sette», settimanale del « Corriere della
Sera»), Mauro Delnevo, sacerdote sposato, ha scritto: « ... Dici che non sei scappato, “sei andato
via”. Ritorna, Gregorio! Dici che il “tuo impegno non finisce qui”... Ritorna, Gregorio! Anche se
non sai in quale veste, in quale città... Ritorna per parlare, chiarire, definire con Pippi... “è stato
amore, oggi non so”. Se ti accorgessi di amarla, liberato da una legge, dalla paura di perdere un
ruolo, sposala! Sappi che troppe donne vivono ingiustamente all’ombra dei preti.
Ritorna, Gregorio, il tuo bellissimo Matteo ti aspetta alla luce del sole!»
Don Gregorio Porcaro è tornato. Ma forse è soltanto una coincidenza.
94
Le ribelli d’Europa
«Santo Padre, noi non rappresentiamo, voi lo sapete, qualche caso isolato, disseminato per il
mondo. Ma costituiamo un vero problema di massa, un fatto sociale dentro la Chiesa...
Di conseguenza, facciamo appello alla vostra autorità per:
1- riconoscere la nostra esistenza;
2 - autorizzare i preti a vivere alla luce del sole l’amore che sono costretti a vivere segretamente
(sovente con l’assenso dei loro responsabili gerarchici);
3 - ammettere che questa disciplina del celibato è problematica, e che non deve essere discussa
solamente tra gli uomini, ma con le donne, poiché esse sono ugualmente coinvolte...
Comunque, nell’ipotesi che voi decidiate di non prendere in considerazione la nostra richiesta,
facciamo appello alla vostra responsabilità di Papa, affinché ce ne comunichiate i motivi...
Vi preghiamo di scusarci se vi interpelliamo pubblicamente, ma è l’unica alternativa che ci lascia la
persistente indifferenza dei responsabili della Chiesa cattolica, dopo tanti anni di richieste ripetute
di un dialogo più sommesso, serio e realista sulla nostra situazione. Nella speranza che questa lettera susciti la vostra attenzione, vi inviamo i nostri saluti più rispettosi.
Firmato Jeanne (settantacinque anni, ha passato tutta la sua vita all’ombra del suo compagno prete).
Claudine (quarantacinque anni, compagna di un prete, da cui ha avuto tre bambini, da quando aveva
trent’anni costretta ad allevare da sola).
Marie-Pierre (trent’anni, da dieci compagna di un vescovo di Francia).
Odette e Noelle (quarantaquattro e settantadue anni, sposate con preti dopo molti anni di
clandestinità, oggi si battono contro quelle situazioni anomale che esse hanno vissuto affinché non
si moltiplichino all’infinito).
Così le ribelli di Claire Voie — l’unica associazione «ufficiale» in Europa che rappresenti le donne
dei sacerdoti — si appellavano, con una lettera aperta, a Giovanni Paolo II° nell’ottobre del ‘93, in
occasione di una loro.manifestazione pubblica in Vaticano. Era la terza volta che venivano a Roma,
nel tentativo di essere ricevute dal Pontefice o almeno da un suo delegato. Invano.
Di nuovo furono respinte e perfino «maltrattate» dalla polizia, intervenuta a bloccarle e a
identificarle. Una ventina di donne — francesi, belghe, svizzere — decise a dar scandalo, a far
sentire la loro voce, a battersi in nome di chi ha vissuto o continua a vivere situazioni drammatiche.
«La Santa Sede si rifiuta di considerare i nostri problemi e ci ritiene indesiderate», spiegava ai
giornalisti Lyvia, che da vent’anni vive con il rettore di un seminario, «Ma noi continueremo a
insistere fino a quando le autorità vaticane non ci ascolteranno. »
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Claire Voie — fondata a Lione da Odette Desfonds — fin dalla nascita fu sommersa da lettere e
telefonate, via via sempre più numerose, di amanti clandestine dei preti di vari Paesi.
Donne che chiedevano aiuto all’associazione; o, più semplicemente, si sfogavano, liberandosi dal
peso di segreti tenuti per troppo tempo. Testimonianze di vite vissute, nei casi più gravi, in bilico tra
la disperazione e la voglia di finirla. Segnate dall’umiliazione e dall’ansia. Perché non è facile
convivere con ecclesiastici in preda al rimorso, nevrotizzati da una permanente doppiezza di vita.
«Sono dodici anni che conosco il mio compagno», racconta Brigitte. «Ci siamo incontrati in
un’associazione di quartiere a Parigi. E’ un prete semplice, ci siamo piaciuti subito. Avevamo molte
cose in comune. Ci piaceva il cinema, la pittura, la musica. In effetti, ci siamo conosciuti a poco a
poco. Abbiamo cominciato a uscire, poi siamo andati in vacanza:
Otto, quindici giorni. Una vita clandestina. Per visitare i musei assieme, siamo costretti ad andare
all’estero. Così nessuno ci riconosce. Ora vivo più o meno con lui. Dico più o meno perché lui
viene la sera a casa mia molto tardi e se ne va la mattina molto presto. Sua madre non mi vuole
vedere, i miei sanno. All’inizio è stata dura con loro, poi hanno capito. Ma io sono stanca di vivere
così. E lui ha paura che i suoi parrocchiani vengano a sapere della nostra relazione.
Se scoppiasse lo scandalo, il vescovo gli chiederebbe di lasciare o me o la Chiesa, Ma il mio uomo
non vuole lasciare la Chiesa.
« E’ una vecchia storia, la mia», confida Pauline, « Non ho più vent’anni e lui è morto. Ci
incontrammo per caso e simpatizzammo subito. In realtà, credo che ci siamo amati fin dai primi
giorni. Lui era un benedettino che aveva lasciato la sua abbazia perché non andava d’accordo coi
superiori. Per tredici anni la nostra relazione è stata segreta. Abitavamo in un piccolo paese della
Francia. Un giorno, sono partita per l’Africa, poiché volevo rompere con quell’ambiente ipocrita.
Yves, dopo qualche mese, mi ha raggiunto e là ci siamo sposati. Ha lasciato la Chiesa, ma se avesse
voluto restare, penso che io avrei fatto come fanno molte donne oggi: avrei continuato a vivere nella
sua ombra. »
Quante storie come queste ha ascoltato la fondatrice di Claire Voice?
Odette Desfonds, dopo aver creato l’associazione, ha scritto un libro-testimonianza.
Partendo dall’esperienza personale e facendo tesoro delle altrui confidenze, ha pubblicato Rivales
de Dieu (ed. Albin Michel, 1993), un rapporto in «presa diretta», una lucida analisi di una
condizione sommersa. Odette accusa.
E racconta le storie di signore e signorine francesi che, come lei, si sono lacerate nel loro amore.
Parole di donne ancora giovani, piene di speranza e di rabbia, o parole di donne al tramonto della
vita, ormai stanche...
99
Il libro si chiude con una lettera inviata all’autrice dall’ultraottantenne abbé Pierre: nome di
«battaglia » del sacerdote più popolare di Francia (e forse anche del mondo), al secolo Henry
Grouès, fondatore della Comunità di Emmaus. Eroe della Resistenza, fu anche deputato
democristiano. Una vita spesa per aiutare i bisognosi, l’abbé Pierre è un temerario, un
provocatore. Uomo di Chiesa che sa andare controcorrente, raccoglie il «grido di dolore» di Claire
Voie. Del resto, in un’intervista, egli stesso rivelò come la mancanza di tenerezza, cioè di amore, gli
fosse costata parecchio; e come dei tre voti religiosi — povertà, obbedienza, castità — l’ultimo
fosse stato per lui il più duro da rispettare.
Nella lettera a Odette Desfonds, tra l’altro, scrive:
«... Non ho trovato nulla che dia fondamento divino al costume (in vigore solamente in una parte
della Chiesa Cattolica) di considerare sacro, ordinato per una chiara volontà divina, il vincolo
sancito tra sacerdote e celibato... Ho conosciuto molti papi, ho scambiato qualche parola con Pio
XI; Pio XII mi ha ricevuto ogni anno durante i sette anni in cui ero deputato; con Giovanni XXIII
fui legato da amicizia quando egli era nunzio apostolico a Parigi; incontrai sovente Paolo VI,
allorché era sostituto alla Segreteria di Stato; infine il nostro papa attuale Giovanni Paolo II.
« Secondo la diversità delle loro personalità e della loro grazia particolare, ogni papa segna la
propria epoca. Giovanni Paolo II e Paolo VI non hanno mai, per quanto ne so, distolto il loro
orecchio davanti ad appelli come i vostri, attraverso i quali domandate equità, umanità e bontà.
Adesso la situazione è diversa.
« Nel mondo, e anche in Francia, molti vescovi mi hanno detto: «Se voi avete l’occasione,
affrontate l’argomento col nostro ammirato e amato papa, noi ci abbiamo rinunciato!”...»
Il momento «storico» — e l’abbé Pierre non è l’unico a pensarla così — è particolarmente
sfavorevole. Ma Claire Voie non si arrende.
« Cristo scelse uomini sposati per fondare la sua Chiesa», insiste Odette Desfonds. «Se poi si è
voluto introdurre un regolamento che sancisse il celibato, ciò non mi pare in linea col Fondatore.
E comunque, il celibato va contro i diritti umani. Il diritto di amare è scritto nell’articolo 16 della
Convenzione dei diritti umani. Noi quindi continueremo a batterci perché il celibato venga abolito.
E con noi anche molti preti di Francia. Nel mio Paese un sacerdote su quattro è sposato. In Olanda,
uno su due lascia la Chiesa per sposarsi. E il numero di preti che restano nell’ombra è ancora più
alto.
« Quando mi sono unita in matrimonio con un prete cattolico, dopo quattro anni di amore segreto,
l’ho fatto pubblicamente. E da allora ho ricevuto lettere di donne che mi dicevano “beata lei,
anch’io amo un sacerdote, ma lui non vuole lasciare la Chiesa. Mi aiuti. E la Chiesa che ci chiama
rivali di Dio.
E la Chiesa che dice o Dio o la donna. Mio marito ha lasciato il suo ministero e ha deciso di
sposarmi perché non sopportava più l’ipocrisia dei superiori che accettavano la nostra relazione
purché restasse segreta, purché non se ne parlasse. Noi di Claire Voie siamo andate davanti a San
Pietro perché riteniamo che la regola del celibato non riguardi solo i preti. La loro richiesta di
sentimenti e di affettività riguarda anche le donne. »
100
Dalla Francia alla Germania. Dove non esiste un movimento come Claire Voie.
Tuttavia, la presa di coscienza sul problema è diffusa. I fermenti sono vivaci. Già nel 1985 Ursula
Goldmam-Posch, giornalista tedesca di Monaco, raccolse in un volume varie testimonianze di
donne, sposate con ecclesiastici. Il libro s’intitola Matrimoni non santi, editore Kindier Verlag
Grubh. Più recentemente Karin Jaeckel ha scritto Non dire a nessuno chi è tuo padre: indaginetestimonianza sui figli dei sacerdoti «celibatari».
Nel 1994, un sondaggio dell’autorevole «Der Spiegel» ha rivelato che l’87 per cento dei tedeschi è
per l’abolizione del celibato ecclesiastico.
In Spagna, Pepe Rodriguez ha pubblicato nel 1994 La vida sexual del clero: saggio sociologico che
esplora tutti gli aspetti della sessualità del sacerdote. Un ampio capitolo è dedicato alle donne
segrete dei preti.
Anche in Gran Bretagna, dove la Chiesa cattolica è minoritaria, non mancano testimonianze di
mogli e amanti di sacerdoti. In qualche caso si tratta di vere e proprie denunce pubbliche. Come
quelle emerse da una recente inchiesta televisiva, tradotta in italiano e trasmessa dalla tv svizzera di
Lugano. E’ un documento interessante. Vale la pena di riportarne alcuni stralci. Ecco qui di seguito
il resoconto stenografico delle confessioni femminili.
Mary —
Lui apparteneva all’ordine francescano. Lo incontrai nel 1959, divenne un caro amico di famiglia.
Mio marito morì proprio il giorno di Natale. Un anno dopo, io fui sottoposta a mastectomia: quando
venne a trovarmi, mi sentivo estremamente debole. Si mostrò molto premuroso, si chinò a baciare la
fasciatura e io trovai quel gesto adorabile. Fu allora che facemmo l’amore per la prima volta. Ne
rimasi sconvolta, pensai che lui la domenica avrebbe dovuto celebrare la messa e che avremmo
dovuto confessarci. Per penitenza recitammo sei Avemarie. Poi lui ritornò in convento, e il nostro
amore divenne platonico. La sua vita era profondamente triste e io ne ero consapevole. La sua
infelicità era tale che l’impulso sessuale emerse un’altra volta. Poi però, per quindici anni, fino alla
sua morte nel 1981, il nostro rapporto fu esclusivamente platonico. Sentivo che il suo voto a Dio
aveva un grande valore e che qualunque cosa avessi fatto per sfidare quel voto sarebbe stato come
fargli commettere un adulterio. E’ un’esperienza che ricordo con rimpianto e che ha un grande
valore per me.
101
Linda
Lo avevo incontrato un anno prima dell’inizio della nostra relazione. Lui conosceva il mio ragazzo,
avevamo ottimi rapporti. Credo di essermi resa conto subito di essere innamorata, ma sapendo che
era un prete pensai che la cosa non sarebbe stata possibile. Poi ebbi un incidente stradale e da quel
giorno lui si mostrò sempre più premuroso nei miei confronti. Desideravo avere un rapporto
sessuale con quel sacerdote, e quando avvenne mi sentii turbata, ma contenta. Anche il mio prete
era tormentato. Tuttavia, lui non condivideva l’idea del celibato. Riteneva che fosse un errore, e
diceva sempre che esistevano tre tipi di sacerdoti: quelli in grado di vivere senza rapporti sessuali
perché sorretti da una vocazione autentica, quelli che si danno all’alcol perché soffrono di troppa
solitudine, e quelli che hanno rapporti sessuali.
Comunque, all’inizio tutto era molto eccitante; poi però la clandestinità e l’illiceità del nostro
rapporto cominciò a pesare. Situazioni del genere possono rovinare una vita; e la mia è stata
rovinata. Eravamo infelici. E la nostra relazione degenerò completamente; non riuscivamo ad avere
un rapporto vero, sensato, soddisfacente. Non facevamo altro che correre di qua e di là, alla ricerca
di un posto dove fare l’amore. E se quella divenne l’unica dimensione del nostro stare assieme,
dobbiamo ringraziare soprattutto la Chiesa. Se poi penso ai suoi sensi di colpa — aveva ricevuto
un’educazione rigida, era « prete da molti anni — mi tormento ancora adesso.
Oggi capisco che in un certo senso il nostro rapporto era un abuso nei miei confronti. Lui era più
anziano di me, aveva delle responsabilità, ma non si preoccupava troppo del mio turbamento.
Veniva a casa mia, facevamo l’amore e basta. Si alzava e se ne andava. Se ne doveva andare, e io
rimanevo li seduta come — so bene che si tratta di un luogo comune - la vergine e la puttana.
Mi sentivo proprio come una prostituta. Se glielo avessi detto si sarebbe scandalizzato, ma era
proprio così. Non ha mai ammesso di essere stato lui a cercarmi, sicuramente ha sempre pensato di
essere stato indotto in tentazione. Ecco qual è il contributo della Chiesa cattolica: noi siamo le
tentatrici. Siamo tutto fuorché degli esseri umani completi...
Quando gli dissi che lo amavo, fu preso dal panico e mi confessò che c’era un’altra donna. Ne
rimasi sconvolta anche perché mi chiedevo come potesse mantenere due relazioni illecite. Alla fine,
abbandonò il sacerdozio e si sposò. Per una volta aveva fatto una scelta ragionevole.
102
Elisabeth.
.. disse che avrebbe rinunciato al sacerdozio e che mi avrebbe sposato. Che voleva avere un figlio,
che lo desiderava da sempre. All’inizio ero molto riluttante, ma quando un uomo si mostra così
deciso, quando lo ami come lo amavo io, e credi di esserne ricambiata, non puoi andare contro la
sua volontà; e va a finire che la sua volontà diventa la tua. Così decisi di non interrompere la
gravidanza, in fondo ero felice di avere un figlio da lui. Tra il quinto e il settimo mese di gravidanza
me ne andai in vacanza da sola. Due mesi dopo, tornai. Lui venne a prendermi all’aeroporto di
Heathrow. Rimase letteralmente sconvolto dal mio stato avanzato di gravidanza. Disse: ma sei
orrenda, per me sei diventata solo un peso. Questa frase mi spezzò il cuore. Disse che aveva
cambiato idea. Che non poteva essere il padre di mio figlio, espressione che trovai altamente
offensiva. Replicai: perché dici mio figlio? E’ nostro figlio. Ma fu irremovibile.
Mi ammalai gravemente, nel giro di una settimana mi vennero le doglie, e il bambino nacque con
due mesi di anticipo. Quando andai a registrarlo, mi comunicarono che non era possibile mettere il
cognome del padre sul certificato, ma soltanto il mio. Lui stesso mi confermò che il suo nome non
poteva risultare. Fu un grosso trauma. Per cinque anni cercai di convincerlo, invano. Poi lo avvertii
che avrei trovato un avvocato disposto a difendere la mia causa in tribunale...
Ci fu il processo, e quando il sacerdote fu «accusato » di essere il padre del bambino, lo ammise.
Solo allora ottenni il riconoscimento della paternità.
Il coraggio di raccontarsi. Ma se le parole sono sconvolgenti, ancora di più lo sono i volti delle
donne inglesi che hanno accettato di mostrarsi in tv. Così come è forte la sfida di Odette e delle
amiche francesi di Claire Voie, che hanno osato rompere il muro del silenzio, manifestando davanti
a San Pietro.
E le italiane? Io so bene quanta fatica ho dovuto fare per convincere le donne dei preti (in
particolare le clandestine) ad affidarmi la loro testimonianza. Nel nostro Paese la nascita di un
movimento femminile anti-celibato è ancora una speranza. Eppure, qualche segnale di mutamento
già si intravvede.
Tanto per cominciare si va rafforzando il movimento dei preti sposati. Vocatio, l’associazione più
rappresentativa in Italia, non solo è uscita da anni dalla semiclandestinità, ma al suo interno la
presenza delle donne sta diventando via via più visibile. Ormai, ai congressi, la partecipazione delle
mogli dei preti è sempre più numerosa e attiva. E non si esclude che un giorno o l’altro, dentro
l’associazione, si formi un movimento autonomo femminile.
103
Vocatio. Sfida alla Chiesa
Scrive a getto continuo lettere ai giornali, promuove petizioni , partecipa ai cortei di piazza alzando
cartelli dove, oltre agli slogan, campeggia una foto romantica che ritrae lui, ex sacerdote,
teneramente abbracciato alla moglie Sonia. Che condivide le sue «provocazioni» e spesso lo segue
nei sit-in. Antonio De Angelis, barbuto e loquace sessantenne, ex parroco di Marmorito d’Asti, un
piccolo paese ai confini tra le diocesi di Torino e quella di Acqui, è di sicuro il tipo più
intraprendente del movimento dei preti sposati. Non ha peli sulla lingua, De Angelis.
Con crudo realismo ti racconta la sua esperienza personale di «seminarista» molestato, ti confida
storie di amori proibiti di parroci con perpetue o con madri badesse. Per dimostrare le nefandezze
del celibato obbligatorio non esita a colorire con tinte forti squarci di vita vissuta. Insomma, per
sostenere la «causa» e disposto a tutto.
La battaglia che l’inarrestabile Antonio conduce con sacro furore è la battaglia di Vocatio,
roccaforte italiana degli ex ministri di Dio. Un’associazione che, in sintesi, rivendica per i sacerdoti
sposati dignità religiosa, sociale ed economica. Lotta contro la loro emarginazione. Vocatio
raccoglie ufficialmente oltre un migliaio di persone (i sacerdoti, le loro donne e quanti sono a favore
del matrimonio dei preti) ed è la punta di diamante di un gruppo più vasto.
Del resto, il fenomeno dei sacerdoti che amano e che si sposano è in crescita in tutto il mondo.
Senza contare le numerose e difficilmente quantificabili coppie clandestine, le cifre indicano
approssimativamente oltre ottantamila famiglie di ex préti cattolici sparsi in tutti i Paesi, alcune
migliaia solo in Italia. Oggi le associazioni nazionali dei sacerdoti ammogliati sono venticinque,
presenti in Europa, America del Nord America Latina e Asia. L’Italia ha contato fino a quattro
gruppi attivi: Mosom, Unione sacerdoti cattolici sposati, Hoc Paci te, Vocatio.
Più d’uno, tuttavia, nel tempo si è sciolto. O si è ridimensionato. E’ Vocatio a contare il maggior
numero di aderenti e a svolgere l’attività più visibile e incisiva: di studio, discussione,
rivendicazione, comunicazione. La rivista trimestrale «Sulla Strada», diretta da Rosario Mocciaro
(subentrato a Nicola Palumbi), è l’organo ufficiale: una palestra in cui si esercita il dibattito che
ruota attorno al movimento.
La storia di Vocatio è relativamente giovane. E’ infatti alla fine degli anni Settanta, quando in altri
Paesi i movimenti dei preti sposati sono già in azione da un decennio, che l’associazione muove i
primi passi. Un periodico di quattro paginette — «Dimensioni sacerdotali» -. mette in collegamento
i « pionieri» dell’anti-celibato. Essi, però, non hanno vita facile. Si trovano a lottare contro la
mentalità diffusa, secondo cui il prete sposato è un Giuda, un infedele esposto al disprezzo delle
comunità cattoliche, cacciato dalla sua parrocchia, dalla diocesi, motivo di vergogna per genitori e
parenti.
Lo « spretato » che getta la tonaca, lo fa «al buio». Senza titoli riconosciuti e qualifiche per
affrontare una diversa occupazione. Senza un tetto, un mestiere, un’assicurazione sociale. (E la sua
donna ne paga le conseguenze: spesso anche la moglie è costretta ad abbandonare il lavoro,
condividendo col traditore della Chiesa la triste sorte di paria sociale.) E quand’anche l’ex parroco
riesca a trovare un posto in fabbrica, in ufficio, a scuola, deve nascondersi agli occhi dei nuovi
colleghi, e talvolta deve nascondersi anche agli occhi dei suoi figli. Le regole non scritte prevedono
che il prete sposato e la sua famiglia siano «invisibili» nella società.
104
Passano gli anni, Vocatio continua la lunga marcia e la sua crescita, raccogliendo via via nuove
adesioni. Esce finalmente dalla semiclandestinità e, rompendo gli indugi, porta all’esterno la
battaglia contro la ghettizzazione degli ex soldati di Dio.
Nell’83 si tiene a Chiusi il primo incontro internazionale delle varie associazioni, punto di partenza
per un movimento mondiale. Due anni dopo, il gruppo di Chiusi organizza ad Ariccia il sinodo dei
preti sposati sul tema « Compatibilità di sacerdozio e matrimonio». Si studiano i fondamenti storici
e teologici del celibato obbligatorio e del matrimonio dei preti. Nasce la Federazione internazionale
dei gruppi nazionali con alcune precise finalità: abolizione della legge del celibato obbligatorio;
accelerazione dell’iter per ottenere la «dispensa» (così che il prete possa sposarsi anche con rito
religioso); possibilità per i sacerdoti sposati di continuare il servizio ministeriale.
Obiettivi ambiziosi?
Molto ambiziosi. I sostenitori lo.sperimenteranno sulla loro pelle.
La seconda metà degli anni Ottanta è tormentatamente vissuta da Vocatio all’insegna del dibattito
interno che si fa sempre più complicato, man mano che gli affiliati al movimento diventano
numerosi. Tra contrasti e confronti, l’associazione va definendo la sua linea di intervento nella vita
della Chiesa; e coraggiosamente va oltre le proprie mete di interesse specifico. Compie, infatti,
scelte di ampio respiro anche di carattere storico-politico. Schierandosi, per esempio, contro le
degenerazioni del monopolio occidentale: dominio bianco, sistema maschilista, violenza del denaro,
della droga, dei media.
Nel processo di maturazione, Vocatio si trasforma da movimento dei preti sposati, dei preti critici e
alternativi, a «movimento complessivo di cristiani responsabili di fronte alle sfide della storia»: la
nuova definizione appare in un articolo pubblicato da « Sulla Strada», organo ufficiale
dell’associazione.
Durante l’ultimo congresso della Federazione internazionale, tenutosi a Madrid nel 1993, vengono
fissati alcuni obiettivi comuni da raggiungere:
1 - Il benessere sociale e spirituale del prete sposato.
2 - Un più facile ottenimento della dispensa per coloro che la desiderano.
3 - L’aiuto alle donne coinvolte in una relazione clandestina con un prete ancora nell’esercizio del
suo ministero.
4 - L’abrogazione del celibato obbligatorio.
5 - Il ministero nei gruppi di base dei preti sposati.
6 - L’elezione del prete fatta dalla comunità parrocchiale.
7 - L’ordinazione della donna e il suo accesso a tutti i livelli della responsabilità ministeriale.
105
Rodolfo Percelsi, che fa parte della delegazione italiana al congresso, racconta la sua esperienza
personale in un brillante resoconto pubblicato da « Sulla Strada ». Eccone alcuni stralci, che aiutano
a comprendere, al di là delle teorie e del dibattito, l’atmosfera che ha segnato l’assise spagnola.
«Nonostante la grossa spesa, il caldo insopportabile, assieme a pochi amici, sono andato a Madrid»,
annota Percelsi.
«E andrò in altri posti “militari” perché so di incontrare persone che hanno vissuto i miei grandi
ideali e che sono state sottoposte a un’infinità di meschinità religiose identiche alle mie...
Frequentando l’ambiente di “Sulla Strada”, in cui si lascia con tranquillità essere eterodossi, senza
espellere nessuno, forse riuscirò veramente a non essere più cristiano, ma a vivere e a morire
semplicemente affezionato al vero Gesù di Nazareth.
«Ultima sera. Tutti all’aperto sotto le rare piante... Una sangria, un pentolone di frutta in cui sono
stati fatti bruciare lentamente sette litri di grappa e zucchero. Nel semibuio, mentre il fuoco faceva
la sua parte, i frati domenicani simpaticamente e tragicamente burloni, leggevano maledizioni
contro le streghe da un antico manuale, a cui rispondevano con grida di civette e di allocchi
raffreddati... Abbiamo sentito arie montanare cantate da Ennio, i canti d’amore di Haiti,- le canzoni
messicane, il coro di Espana Cani da parte di numerosi latino- spagnoli.
Anche il sottoscritto, equilibratamente euforizzato dalle crescenti esplosioni di simpatia per
qualunque tipo di artista, ha eseguito un paso doble con Pinuccia, ballerina twistante con un abito da
zingara rosso fuoco... Ora stiamo imparando i passi di samba per il prossimo congresso in Brasile.»
Ma torniamo in Italia. E a Vocatio. Che tiene un importante congresso a Riccione nel settembre del
‘94. I giornalisti accorrono sull’onda di una notizia: anche in Italia, sull’esempio della francese
Claire Voie, sta per nascere l’associazione delle amanti dei preti. C’è — si dice — un gruppo di loro
pronto a far scoppiare lo scandalo per attirare l’attenzione su una realtà drammatica e diffusa, e
volutamente ignorata: riguarda quelle donne innamorate (ricambiate) di sacerdoti che continuano a
esercitare il ministero. Effettivamente, tra i numerosi preti con mogli al seguito presenti a Riccione;
ci sono anche un paio di « clandestine ». Ma non si fanno riconoscere. Non parlano, hanno paura...
Lo scandalo annunciato, dunque, non scoppia. Si « scandalizza» e s’indigna, invece, il vescovo di
Rimini. Che spende parole severe contro gli spretati che hanno osato tenere un pubblico convegno.
Il dibattito è serrato, molti gli interventi, molte le questioni da discutere.
Quella delle « donne segrete» aleggia soprattutto nei momenti ufficiosi del meeting. E anche se
dalla costola di Vocatio il nuovo gruppo non nasce ancora, complici le mogli dei sacerdoti (alcune
delle quali, prima del «grande passo», hanno conosciuto la condizione di amanti clandestine), la
sensibilizzazione al problema prende sempre più quota.
A ogni modo, la discussione pubblica si focalizza su una battaglia (difficile e finora infruttuosa)
che ha caratterizzato negli ultimi anni l’impegno dell’ associazione Riguarda le « rivendicazioni
economiche e previdenziali» del sacerdote che ha lasciato il ministero. Non è esagerato definirla
lotta per la sopravvivenza del prete che non fa più il prete. Dacci oggi il nostro pane quotidiano...
106
Un’appassionata lettera aperta a Giovanni Paolo II, datata ottobre 1988, dell’« irriducibile »
Antonio De Angelis, così esemplifica e riassume la questione:
« Sono un prete di cinquantatré anni, ordinato a Torino nel 1960. Mi sono sposato
civilmente nell’83, dopo ventitré anni di servizio fedele alla Chiesa. Ora vivo a
Genova. L’unico mio rammarico è che la Chiesa non riconosce i miei precedenti anni
di lavoro e da lei non ho ricevuto nemmeno un grazie. Anzi, è come se non esistessi
più. Pertanto, sapendo quanto ella è sensibile ai problemi rivendicativi dei lavoratori
polacchi sotto il regime comunista, e quanta parte abbia la Chiesa polacca nel
difendere i diritti dei lavoratori connazionali, chiedo con fiducia a Sua Santità un
adeguato riconoscimento del lavoro che ho prestato sia alla Chiesa italiana, sia allo
Stato italiano, essendo io stesso cittadino italiano, e la religione cattolica religione di
Stato.
Sulla via del concordato fra Stato e Chiesa invoco che siano difesi i miei diritti di
cittadino e di prete, per ottenere un inserimento di lavoro degno del servizio prestato
alla Chiesa in Italia, in ventitré anni. Non è giusto che io sia dimenticato dalla Chiesa
solo perché mi sono sposato, come non è giusto che lo Stato non riconosca una mia
posizione civile solo perché il servizio del prete non è stimato come un vero e
proprio lavoro.
«Non è un problema esclusivamente personale. In Italia i preti sposati sono migliaia.
Altre nazioni e altre Chiese cattoliche nel mondo sanno dare lezioni di civismo e di
cristianità all’Italia e alla Chiesa italiana, perché da anni hanno risolto in modo
dignitoso il problema dell’inserimento nella società e nel mondo del lavoro di coloro
che, sposandosi, sono stati obbligati a lasciare il sacerdozio».
La provocatoria supplica di De Angelis non resta voce isolata. Segue, infatti, una pubblica petizione
indirizzata al Parlamento europeo, al Parlamento italiano, allo Stato del Vaticano. Con il sostegno di
una raccolta di firme, l’obiettivo è quello di far varare una nuova legge favorevole agli ex sacerdoti.
Siamo negli ultimi mesi dell’89. I firmatari scrivono: «Rivolgiamo questa petizione affinché venga
emanata una legge a tutela dei cittadini addetti al culto... Privati in tronco del lavoro, hanno
gravissime difficoltà a trovare un’altra occupazione a causa sia della mancanza di professionalità
alternativa, sia dell’età avanzata per il mercato del lavoro. I contributi, già versati al Fondo Clero
presso l’Inps, non sono ricongiungibili con altri eventuali versamenti al fine di maturare una
pensione appena sufficiente... La Chiesa condanna moralmente i sacerdoti sposati e lo Stato non li
considera come tutti gli altri lavoratori. Eppure il matrimonio non è reato e l’Italia — Repubblica
fondata sul lavoro — garantisce a tutti i cittadini, indistintamente, gli stessi diritti e doveri...»
I preti sposati sono pronti anche a scendere in piazza. In quell’occasione Fedele Molteni, ex parroco
lombardo, dichiara: «Cerchiamo un rapporto con la Gerarchia ecclesiastica e l’istituzione di un
ufficio legale per affrontare i nostri problemi -sociali, economici, giuridici».
L’appello degli «spretati», per la verità, non cade nel vuoto. Anzi. Viene in soccorso una proposta
di legge ad hoc.
108
Si tratta di sollecitarne l’approvazione, in particolare di alcuni articoli. Il testo, presentato da cento
deputati, primo firmatario il democristiano Mino Martinazzoli, prevede infatti la possibilità di
ricongiungimento dei contributi previdenziali del Fondo Clero. Così da modificare la norma in
vigore, secondo cui l’ex prete che comincia un nuovo lavoro non può recuperare gli scatti di
anzianità maturati col ministero ecclesiastico:
in altre parole, gli anni dedicati all’amministrazione del culto e i relativi contributi versati, in base
alla legge, non hanno valore per lo Stato. Ma la proposta di Martinazzoli in favore dei preti sposati cade nel vuoto E l’iniziale ottimismo degli
interessati cede all’ennesima delusione.
Nell’ottobre del ‘94 molti ex sacerdoti, con le loro mogli, si accodano ai Cortei dei lavoratori
italiani in occasione di uno sciopero generale. Nel dicembre dello stesso anno, il gruppo genovese
di Vocatio (alla testa c’è sempre De Angelis) invia una lettera al presidente della Repubblica, Oscar
Luigi Scalfaro. Ecco i passi più significativi:
«... e le nostre richieste sono di carattere civile oltre che religioso. Il celibato
obbligatorio non è stato imposto da Gesù Cristo, ma dall’istituzione ecclesiastica... la
sua regola, dunque, è un fatto storico e umano e come tale può essere ridiscusso,
modificato, in modo da rendere meno drammatiche le condizioni di coloro che se ne
discostano. Ottenere la dispensa ha significato per molti sottostare a un processo
durante il quale si metteva in discussione la loro salute mentale... Sappiamo che
parecchi religiosi vivono in clandestinità il rapporto con una donna, demonizzato da
sempre dai propri superiori o padri spirituali. Conosciamo l’esistenza di molti figli
nascosti, aborti indotti, e il grave stato di miseria, solitudine e isolamento di molte di
queste persone. E’ avvenuto anche che alcuni sacerdoti si siano tolti la vita...
«Formare una famiglia può essere per il prete un arricchimento di sentimenti, di
conoscenza e di valori, e non necessariamente una sottrazione di tempo alla
realizzazione della missione pastorale. L’intero Paese ne trarrebbe vantaggio. Ciò
che subisce oggi un sacerdote quando si sposa è distruttivo: perde casa, lavoro,
contributi previdenziali, liquidazione, e gli si nega anche il diritto di continuare a
pregare nella comunità di appartenenza. Diventa un cittadino privo di tutele legali nel
suo stesso Paese...
«Ciò che chiediamo alla Chiesa non è un aiuto di tipo individuale e caritativo (che in
qualche caso è stato ottenuto), ma che essa accetti di formulare accordi con lo Stato
che comprendano anche categorie, come la nostra, automaticamente escluse dai
precedenti concordati (Mussolini-Gasparri 1924, Craxi-Casaroli 1984). Chiediamo
alla Chiesa di non ignorare le innumerevoli difficoltà materiali e morali di chi si
mette a cercare lavoro con titoli di studio totalmente inadeguati in un mondo
completamente diverso da quello di provenienza. Accontentarsi di risposte
individuali e preghiere individuali, significherebbe ancora una volta sottostare alla
logica della discriminazione piuttosto che scegliere quella della giustizia e
dell’eguaglianza. « Siamo certi che un suo giudizio su questi complessi e annosi
problemi potrebbe avere un grande valore di orientamento per tutti...»
La lettera, corredata da quasi mille firme, ha avuto dalla presidenza della Repubblica due generiche
righe di riscontro. « In pratica, una ricevuta di ritorno», dice polemicamente Antonio De Angelis.
« Credo che Scalfaro non l’abbia neppure letta. »
110
La battaglia per la « previdenza», nonostante le sconfitte, continua. I preti sposati cercano sostegno
politico tra i parlamentari disposti ad appoggiare la loro causa. Qualcuno profetizza, con ironia: se
gli spretati avranno anche la pensione, chissà quanti getteranno la tonaca!
Al di là della battuta, è vero però che numerosi sacerdoti innamorati vengono trattenuti nella vita
ecclesiastica anche per il timore di affrontare le non rosee prospettive future.
Tuttavia, se per molti ex sacerdoti i problemi legati al ménage quotidiano, alla sopravvivenza
economica, hanno la priorità assoluta, per altrettanti il cruccio più grande riguarda la sfera religiosa.
Anche se, ovviamente, l’una cosa non esclude l’altra. E il dramma della «dispensa » a tormentare
quegli «spretati» che tengono a sentirsi in pace con se stessi e con Dio.
Difficile da ottenere, ma condizione sine qua non per quanti desiderano sposarsi religiosamente, la
riduzione allo stato laicale è una meta difficile da raggiungere. Al punto che molti lasciano perdere,
si sposano solo in municipio. E amen. Per altri, invece, il matrimonio all’altare è un obiettivo
irrinunciabile. E, pur di perseguirlo, si sottopongono a una lunga e spesso umiliante trafila.
Come quella che Fausto Varesi, giunto al traguardo, così documenta in una lettera a « Sulla Strada».
« Nel marzo scorso», scrive l’ex sacerdote, «ho ricevuto la sospirata dispensa dal sacro celibato e ho
potuto così regolarizzare, dopo dodici anni, il mio matrimonio civile anche davanti alla Chiesa.
Invio la relativa documentazione e l’iter che ho dovuto fare per ottenere la grazia. Faccio presente
che nel 1981, quando decisi di sposarmi, mi recai personalmente all’ex Sant’Uffizio allora
competente per le dispense. Mi fu detto che il Santo Padre aveva dato ordine di non concedere più
dispense se non per motivi antecedenti l’ordinazione. In altri termini, solo per mancanza di
volontario consenso o per ignoranza degli obblighi relativi all’ordinazione sacerdotale.
Mi fu pure riferito che avevano in giacenza più di cinquemila domande e che la dispensa non era
stata concessa neppure a quelli che erano sposati civilmente da dieci anni e avevano figli grandi.
Era quindi inutile presentare domanda. Per questo mi sposai in municipio aspettando tempi migliori.
Qualche anno dopo incontrai il vescovo della mia diocesi, il quale mi invitò a consegnargli la
domanda promettendomi il suo interessamento. Passarono cinque anni durante i quali il vescovo
non solo non fece nulla, ma non presentò la mia istanza neppure ai competenti uffici della Curia
romana. Alle mie continue richieste, rispondeva che «sono cose lunghe e che ci vuole pazienza».
« Mi rivolsi allora ai Salesiani, dai quali ancora giuridicamente dipendevo. Consegnai la domanda e
feci tutto quello che mi chiesero. Perfino l’interrogatorio riguardante il mio curriculum vocazionale,
con le rituali domande su eventuali rapporti sessuali e se avevo avuto cotte per le donne. Credevo di
aver ottemperato a tutte le richieste e che quindi stesse arrivare la sospirata dispensa. Passarono
invece altri due lunghi anni prima di essere inaspettatamente invitato a rifare la domanda in quanto,
mi fu detto, dalla precedente risultava che la colpa dell’abbandono era dei superiori.
Mi fu ingiunto di assumermi tutta la responsabilità e la “colpa” della mia defezione e di eliminare
espressioni come “aspettando tempi migliori”, presenti nella precedente istanza. Deciso a vivere
fino in fondo questa squallida vicenda, mi “prostituii” facendo tutto quello che mi avevano chiesto.
Solo a queste condizioni mi è stato concesso, dopo dodici anni di matrimonio e un figlio di undici,
di sposarmi in chiesa.
112
«Il parroco della mia parrocchia, che precedentemente aveva rifiutato .qualsiasi mia collaborazione
con la motivazione che “non ero sposato in chiesa”, dopo la dispensa mi ha proposto di esercitare il
ministero diaconale e ne ha parlato al vescovo. Il quale, però, ha subito bocciato la richiesta,
motivandola con il fatto che “Varesi era un prete”.
« Noi sacerdoti sposati, anche se regolarmente dispensati da “santa madre Chiesa”, non siamo,
dunque, nemmeno cristiani come gli altri. Siamo cristiani di serie B. I ragazzi e le donnette possono
insegnare catechismo ai bambini. Noi preti sposati, no! Mi domando, allora: che senso ha la
dispensa?»
Già. Che senso ha?
112
La dispensa
«Per concedermi la dispensa il monsignore del Vicariato voleva istituire a Roma quel processo che
avevo sdegnosamente rifiutato col mio vescovo e, di fronte alle mie insistenze, allo scopo di sveltire
la “procedura”, mi propose di farmi rilasciare da uno psichiatra un certificato di pazzia.
E mi diede perfino i consigli su come comportarmi davanti al medico: “Parli arrabbiato, così come
fa adesso, e poi d’un tratto si metta a ridere o a piangere”... Per sua disgrazia e per mia fortuna
scrisse e firmò stupidamente su carta intestata del Vicariato i nomi dei medici ai quali avrei dovuto
presentarmi. Solo con la violenza e il ricatto di far pubblicare sui giornali quel documento
compromettente, ottenni la dispensa a tempo di record. »
Memorie di Antonio Corsello, prete sposato siciliano, che lasciò il ministero ecclesiastico molti
anni fa. Erano tempi in cui la figura dello «spretato » suscitava scandalo, veniva segnata a dito ed
emarginata. Ma Corsello è di testa dura. Non si è mai piegato alle convenzioni. E poi ha raccontato
la sua avventurosa storia di sacerdote, di ribelle, di marito e padre in un volumetto: E’ tempo di
parlare (1986). Il documento del Vicariato a cui si riferisce il passo sopra citato, relativo alla
«dispensa», è allegato al libro, e porta la data del 14 novembre 1964; in esso, a penna, sono vergati i
nomi, gli indirizzi e i numeri di telefono di due psichiatri romani: Bruno Callieri e Massimo
Bartoloni. Si tratta dei medici che avrebbero potuto, secondo i suggerimenti del vicario, stilare il
certificato di pazzia di Antonio Corsello...
Intendiamoci, da allora i costumi sono cambiati. Sono state riviste anche le norme, emanate dalla
Congregazione per la dottrina della fede, che regolano la procedura per chiedere la dispensa dal
celibato. «Ma la sostanza è la stessa. Nessuna illusione. Oggi come ieri l’iter è lungo e accidentato»,
osserva Lorenzo Maestri, di Luino, esponente di spicco di Vocatio. Maestri è considerato
l’«archivista » dell’associazione. Con pazienza certosina, raccoglie documenti, libri, riviste e tutto il
materiale che riguarda la questione del celibato.
«Come altri preti, anch’io sono sposato solo in municipio», racconta. «Mi sono infatti rifiutato di
sottopormi alla lunga trafila richiesta per avere la dispensa. Piuttosto che subire umiliazioni o
accettare compromessi, ho preferito rinunciare alle nozze religiose. » Maestri mi mostra una lettera,
datata 10 aprile 1985. Una delle tante che arrivano alla segreteria di Vocatio. Ma questa è in
argomento. Infatti, ritroviamo qui l’esperienza fatta da Antonio Corsello vent’anni prima.
«Sono un ex (prete) di cinquantadue anni, sposato, in attesa di dispensa. Sono sempre stato restio a
legarmi a movimenti o gruppi, ma gli ultimi eventi, di cui parlerò in sintesi, mi hanno spinto a
uscire alla luce del sole. Si dice che il peggio non è mai morto, e il peggio per me è accaduto
quando, un anno dopo la domanda di dispensa, è giunta dalla competente congregazione romana la
richiesta di una perizia psichiatrica, senza ulteriori precisazioni.
«Ho accettato con clausola scritta», prosegue la lettera, « che ciò non nuocesse alla mia attività
lavorativa (sono insegnante e psicologo): e così io, per il quale dare pareri e stendere profili è pane
quotidiano, mi sono visto sottoposto a due colloqui con un professionista scelto su una rosa di nomi
presentati dal vescovo. Per precauzione, mi sono fatto accompagnare in anticamera da un amico
giornalista. Il tutto nella speranza che l’attesa dispensa fosse ormai questione di giorni. Ora i giorni
hanno superato quelli di un anno e io mi sono accorto di essere stato beffato ancora una volta,
mentre ho avuto conferma caso mai ve ne fosse stato bisogno — che la scelta fatta di rinunciare a
questo tipo di struttura è stata la scelta giusta.
114
«Per questo», conclude l’ex sacerdote, «ho pensato che tacere sarebbe stata una vigliaccheria e ho
preso la seconda grande decisione, quella di condividere con altri la mia scelta, sperimentando il
valore psicologicamente liberante del sentimento di odio; vero, non farisaico, mascherato da parole
d’amore.»
Sul fronte opposto (quello del Vaticano), dall’archivio di Lorenzo Maestri spunta un’altra missiva.
È scritta su carta intestata della Congregazione per la dottrina della fede, datata Roma, 4 luglio
1988. Ed è indirizzata al vescovo della Diocesi di Pescara. « Eccellenza Reverendissima, sono qui
pervenuti, richiesti con lettera del 6-4-87, i documenti relativi alla domanda di dispensa dagli oneri
sacerdotali, in favore del reverendo..., di codesta Arcidiocesi.
In merito, questo Dicastero si premura di comunicarLe che, dopo attento esame della petizione
dell’oratore, non ha potuto raccomandarla al Santo Padre, in quanto non ha riscontrato nella
documentazione trasmessa elementi tali da consentire, secondo le vigenti norme, la dispensa dagli
impegni sacerdotali.
«Mancano, infatti, motivazioni sufficienti, le quali, a norma della Lettera del 14 ottobre 1980,
possano riferirsi al tempo antecedente l’ordinazione e che consentano di concludere che il
sacerdote, di cui in caso, non doveva essere ordinato. Le ragioni, poi, che si riferiscono al tempo
successivo all’ordinazione, di per sé non costituiscono prova valida, secondo la predetta Lettera, a
ottenergli la dispensa.
«Tuttavia», chiude l’alto prelato della Congregazione, «se emergessero altri gravi elementi,
soprattutto relativi al periodo di formazione, tali da indurre un possibile cambiamento del giudizio
già espresso, Vostra Eccellenza li trasmetta pure e non dubiti che saranno presi in esame con attenta
disponibilità. Profitto, volentieri, della circostanza, per confermarmi con sensi di distinto ossequio
dell’Eccellenza Vostra Reverendissima... Devotissimo... »
Il linguaggio è burocratico, però il senso è chiarissimo: la Congregazione respinge, tramite il
vescovo, una domanda di dispensa.
Ma è davvero così complicato per un prete chiedere e ottenere di andarsene dalla Chiesa?
Prima di entrare nei dettagli della procedura, è utile chiarire alcuni concetti, che ricorrono
frequentemente in questa materia.
116
La sospensione a divinis
È la formula con cui si indica la interdizione (che può essere temporanea) dalle funzioni proprie del
ministero ecclesiastico (celebrazione della messa, amministrazione dei sacramenti eccetera).
La Chiesa interviene infliggendo la sospensione, quando il sacerdote trasgredisce le regole con atti
pubblici. Non è detto che la trasgressione da censurare riguardi, in ogni caso, la sfera sessuale.
Gianni Baget Bozzo, per esempio, fu sospeso a divinis per un decennio perché si candidò nel partito
socialista e fu eletto europarlamentare. Comunque sia, il prete che convive con una donna si pone
nella condizione di venire sospeso. «In teoria, però», precisa Lorenzo Maestri. «Per quanto mi
riguarda, prima di sposarmi civilmente ho convissuto con mia moglie per quindici anni, ma il
vescovo non è intervenuto con alcun atto formale. C’è da dire, in verità, che avevo smesso di fare il
parroco. Rinunciando così spontaneamente alle funzioni ecclesiastiche.» -
La scomunica
Il sacerdote che, abbandonato il ministero per sua volontà, decide di sposarsi, se non ha ancora
ottenuto la dispensa dal celibato può farlo soltanto con rito civile. Ma in questo caso viene
automaticamente «scomunicato». Si tratta, tuttavia, di una scomunica tacita, senza alcuna sentenza
ufficiale della Chiesa. In questo stato, al pari dei laici divorziati, oltre a non poterli amministrare, il
prete non può ricevere i sacramenti, e non può far battezzare i figli. Come è noto, il solo matrimonio
civile non ha valore per la Chiesa cattolica. Ecco perché, a nozze avvenute, qualora il sacerdote si
pentisse e volesse tornare sui suoi passi dopo aver lasciato la moglie, può chiedere e anche
riottenere (ma soltanto a determinate condizioni) di essere riabilitato al ministero ecclesiastico.
È la clausola tassativa prevista per chi intenda contrarre nozze religiose. La dispensa dal celibato, e
quindi la riduzione allo stato laicale, è, certo, un traguardo per l’ex prete, ma anche un punto di non
ritorno. Infatti non è più possibile, a nessuna condizione, per il « dispensato», riprendere lo stato
sacerdotale.
Le norme più recenti che regolano questa materia risalgono al 1980. Furono emanate sotto il
pontificato di Giovanni Paolo II, dopo due anni che il Vaticano, in pratica, aveva bloccato la
concessione delle dispense. Nella primavera del ‘79 era stata addirittura inviata una lettera circolare
a tutti i vescovi e superiori maggiori, in cui li si pregava di non inoltrare neppure le domande a
Roma, se prima non fossero state adottate le nuove norme volute dal Papa.
In precedenza, sotto i pontificati di Giovanni XXIII e anche di Paolo VI, c’era stato un periodo di
liberalità. In sostanza, le numerose richieste di dispensa venivano soddisfatte senza creare molte
difficoltà. Nel 1971,la Congregazione per la dottrina della fede, che aveva sostituito il Sant’Uffizio,
stabilì che « in luogo del processo giudiziale costituito nel tribunale, ora si fa una semplice
indagine». Ma già l’anno seguente si intervenne per precisare che «le nuove norme non sono state
emanate per concedere indiscriminatamente la dispensa a chiunque la richieda, ma soltanto per
ridurre a forme più semplici le inchieste».
118
E veniamo al regime attuale.
«L’istruzione del 14 ottobre 1980 della Congregazione per la dottrina della fede, non porta
significative innovazioni normative rispetto al passato, ma è piuttosto un fermo richiamo al valore
del celibato sacerdotale e alla necessità di svolgere indagini nella maniera più seria e ampia
possibile, nel caso ne venga chiesta la dispensa» (da il Regno», n. 22 del 1980).
«A questo proposito, l’istruzione ricorda come il celibato sacerdotale nella Chiesa latina non è un
obbligo ma una scelta che ogni cristiano, nel ricevere il sacerdozio, fa con piena coscienza e libertà,
poiché Cristo gli ha concesso “questo dono per il bene della Chiesa e per il servizio degli altri”.
E ancora:
la vasta diffusione delle domande di dispensa “ha inferto una grave ferita alla Chiesa”.
Pertanto la dispensa dal celibato non può essere considerata un diritto che la Chiesa deve
riconoscere indistintamente a tutti i suoi preti, poiché vero diritto va considerato, al contrario, quello
che il sacerdote ha stabilito con l’oblazione di sé a Cristo e a tutto il popolo di Dio”.»
Dunque, l’importanza del celibato ecclesiastico viene ribadita e rafforzata. Pare di leggere, tra le
righe, anche l’intenzione di imprimere alle norme una funzione « deterrente ».
Che non si avvertiva nelle precedenti regole.
Nel vecchio testo del 1971, tra l’altro, si diceva: «Gli ordinari seguano con paterno e pastorale
amore i sacerdoti ridotti allo stato laicale e nei limiti del possibile li aiutino perché possano vivere
decorosamente». Questa espressione scompare dall’istruzione del 1980.
« Nell’ultimo documento », annota « Il Regno », « non v’è alcun accenno a un atteggiamento di
carità. Richiamo ritenuto superfluo, o paura che possa incrinare la stima che si deve avere nella
Chiesa latina per il celibato sacerdotale? »
Ma quali sono i criteri secondo i quali la Congregazione per la dottrina della fede concede la
dispensa?
Recita testualmente l’istruzione: « Fatta, eccezione dei casi che riguardano i sacerdoti che hanno
lasciato la vita presbiterale da lungo tempo e che desiderano rimediare a uno stato di fatto che essi
non possono abbandonare, la Santa Congregazione procederà all’esame delle domande inviate alla
sede apostolica, considerando il caso di coloro che non avrebbero dovuto ricevere l’ordinazione
sacerdotale perché è mancato il necessario aspetto di libertà o responsabilità, oppure perché i
superiori competenti non sono stati capaci, al momento opportuno, di giudicare in maniera prudente
e sufficientemente appropriata se i candidati potevano realmente sostenere per sempre una vita di
celibato consacrato a Dio». Il documento termina ricordando che «la causa di dispensa dovrà essere
dimostrata in base al numero e alla consistenza dei motivi addotti ».
Commenta Lorenzo Maestri: «Appare evidente che si vuole ricondurre tutta la questione a un vizio
d’origine, così come per le cause di nullità dei matrimoni. In altre parole, il prete che chiede di
essere dispensato dal celibato deve sostenere che, all’epoca dell’ordinazione sacerdotale, non era
pienamente responsabile della scelta fatta. Risultato?
Per avere chances di spuntarla, alcuni sacerdoti, al momento di rispondere all’interrogatorio del
vescovo — il primo scoglio da affrontare — mentono più o meno consapevolmente».
119
Andiamo con ordine. L’iter procedurale della dispensa prevede innanzitutto una domanda scritta
all’«ordinario»: il vescovo per il clero secolare), il padre superiore maggiore (per i religiosi).
In essa si devono spiegare sommariamente i fatti e le argomentazioni sul caso. A questo punto, se
l’ordinario decide di accogliere la domanda e di farla proseguire, egli stesso o un sacerdote da lui
scelto istruirà la causa. L’istruttore convoca il sacerdote richiedente e, sotto giuramento, lo interroga
seguendo la traccia di un apposito questionario (trentatré quesiti). L’interrogatorio deve estendersi a
tutto quanto riguarda il suo passato: in famiglia, in seminario; gli studi, la carriera svolta, e inoltre le
cause e le circostanze che l’ hanno indotto a lasciare la vita sacerdotale e le circostanze che possono
aver viziato l’impegno di rispettare gli obblighi clericali.
Inoltre, nel questionario si chiede se il prete ha avuto disturbi fisici o psichici, se si è sposato
civilmente, se convive con una donna, se ha avuto figli.
Chi istruisce la causa deve ascoltare, possibilmente, i superiori avuti dal sacerdote durante la sua
formazione, chiedendo loro deposizioni scritte. Deve sentire altri testimoni, raccogliere documenti e
prove, aggiungendo, se necessario, la perizia di esperti. Chiusa l’istruzione, gli atti vengono inviati
in triplice copia alla Congregazione, corredati da elementi utili per la valutazione. L’ordinario
aggiunge un suo «voto». A questo punto, la Congregazione discute la causa e stabilisce se va
sottoposta al parere del Pontefice, oppure se dev’essere integrata o rifiutata poiché destituita di
fondamento.
Come si vede, l’iter è complesso, e l’esito positivo nient’affatto scontato. Tra l’altro, rispetto alle
precedenti norme del 1971, quelle emanate nel 1980, pur simili nella sostanza, risultano sotto certi
aspetti più inflessibili. «La maggiore rigidità», spiega « il Regno», « riguarda i casi in cui vengono
accampati motivi di crisi o difficoltà personali sull’impegno celibatario. Su questo punto
l’istruzione ritorna spesso, ricordando che non è un motivo sufficiente per chiedere e ottenere la
dispensa. »
Ma è un altro aspetto della questione che merita di essere evidenziato. Esso attiene alle non poche
limitazioni cui, a dispensa ottenuta, è sottoposto l’ex ministro di Dio. Ed è anche questo uno dei
motivi che induce molti, pur con dispiacere, a gettare la spugna in partenza. Nel documento di dispensa dal celibato — trasmesso al sacerdote cui è stata concessa — si
specifica che essa « comporta inseparabilmente anche la perdita dello stato clericale e, se è
religioso, il decadimento dei voti (castità, obbedienza, povertà, n.d.a.) ».
E ancora: se l’ex sacerdote contrae matrimonio in chiesa, «la cosa deve avvenire cautamente, senza
pompa o esteriorità ». Inoltre, egli viene invitato a « partecipare alla vita del popolo di Dio»,
tuttavia « non può avere compiti direttivi nell’attività pastorale», né può avere compiti direttivi né
insegnare teologia o materie affini in seminari o in qualsiasi altro istituto dipendente dall’autorità
ecclesiastica. Gli è pure proibito di insegnare religione nelle scuole statali. Infine: deve andare ad
abitare lontano dai luoghi dove sia nota la sua precedente condizione.
«La Chiesa non si accontenta di umiliare i sacerdoti che chiedono la dispensa, sottoponendoli a
un’inchiesta praticamente ricattatoria», fa notare Lorenzo Maestri, «ma anche quando la causa è
andata a buon fine impone lacci e lacciuoli. Al limite dell’assurdo. E’ chiaro ora perché molti di noi
lasciano perdere?
121
«Ricordo ancora lo sfogo», prosegue, «fattomi qualche anno or sono da un prete di Novara che,
dopo aver deciso di non chiedere la riduzione allo stato laicale, ha voluto però scrivere al suo
vescovo per spiegargli, amareggiato, le motivazioni. Aveva infatti preso visione della prassi,
documentandosi anche sui vincoli che avrebbero segnato, poi, la vita del ‘sacerdote dispensato”.
E ne era rimasto letteralmente sconvolto. Mi disse: ho avuto la chiara impressione che, ottenuta la
dispensa, avrei sigillato in un registro la mia morte nella comunità cristiana. »
il prete novarese così scrisse al suo vescovo: «... Colui che chiede la dispensa viene considerato
colpevole. Colpevole di essere debole, cioè di aver ceduto a delle pressioni (economiche, sociali,
psichiche eccetera) che lo hanno spinto a diventare prete o ad abbandonare la vita sacerdotale. Non
c’è davanti al «tribunale della Chiesa” una persona responsabile che ha maturato nella libertà nuovi
sensi da dare alla propria esistenza, ma una persona che viene giudicata immatura nella prima
scelta, oppure che si ritiene che agisca da immatura nella nuova scelta. E’ costui il colpevole che
deve subire la pena, mentre l’istituzione ecclesiastica che potrebbe aver esercitato delle pressioni è
innocente». 122
Perché il celibato
Testimonianza del cardinale Ersilio Tonini
Dopo le parole degli «eretici», una voce «ortodossa».
Dopo le storie di amori e di nozze proibite dei
sacerdoti, dopo gli appelli degli ex ministri di Dio (e
delle loro donne) perché la Chiesa riveda la legge del
celibato obbligatorio, ecco la testimonianza di un
esponente della Gerarchia,, un cardinale conosciuto e
autorevole: Ersilio Tonini, ottantuno anni, arcivescovo
emerito di Ravenna.
Mi è stato chiesto di dare un contributo all’esame del problema, anzi dei problemi qui affrontati. Lo
faccio volentieri, non a mo’ di perito, ma con l’animo di chi, avendo da tempo un grosso debito da
pagare, se ne vede offerta l’occasione e subito la coglie con gratitudine. Parlo di « debiti», nel senso
tutto nuovo che il termine ha assunto nella prima comunità cristiana: « Non abbiate altri debiti se
non quello di amarvi a vicenda».
Ciò non solo perché si è della stessa famiglia: noi sacerdoti che, felicemente, esercitiamo il
ministero e coloro che l’ hanno abbandonato. Qui ci sono amarezze e sofferenze che toccano la
Chiesa nelle sue fibre più interne. Che poi i dati statistici parlino di un fenomeno decrescente —
quello degli abbandoni — questa è notizia che lascia intatta la gravità del problema. Non sono le
proporzioni quantitative che qui contano. Anche un caso solo meriterebbe l’attenzione dell’intera
Chiesa. Vale anche qui, soprattutto qui, l’annotazione del filosofo Ludwig Wittgenstein: « La
sofferenza di un solo uomo, vale la sofferenza di un’intera nazione». E’ una sintesi del messaggio
cristiano. E non si vede perché non dovrebbe valere all’interno della Chiesa. Ascoltarle, allora, le
voci che qui si esprimono, mi pare un mio grave dovere di vescovo.
Anche se gridate in pubblico, restano sempre voci familiari. E non è un particolare da poco. Non mi
impressionano, anche se possono dispiacere, le asprezze dei termini. So bene che, prima e oltre il
linguaggio, stanno sofferenze più aspre delle parole e rese più amare dal sospetto che a infliggerle,
quelle pene, sia l’insensibilità o addirittura la crudeltà dei Pastori della Chiesa, alla quale pure gli
«apostati» sentono di appartenere.
«Almeno ci ascoltassero e ci dessero una qualche spiegazione! » Ebbene eccoci qui, spieghiamoci,
anche a porte e finestre aperte. Del resto, i Pastori non possono ignorare che, se per una parte dei
fedeli il celibato racchiude forti e preziosissimi richiami per l’attuale momento storico, quali sono la
dignità della sessualità e dell’amore, resta vero che per una vasta area della pubblica opinione la
vita celibataria rappresenta un enigma insondabile, comunque in forte contrasto con la modernità.
125
Non ho la pretesa, con questo mio contributo, di dare una risposta esauriente e perfetta al problema.
Mi basterebbe che dei tanti motivi di amarezza denunciati dall’inchiesta contenuta in questo libro,
uno almeno venisse meno nell’animo dei sacerdoti e delle donne coinvolti in una difficilissima
condizione: il sospetto che la Chiesa, in questo caso i vescovi Pastori, non li senta più dei loro.
Certo, i vescovi non dimenticano che non solo di fratelli e sorelle nella Fede si tratta, ma di
sacerdoti, compartecipi degli stessi ideali e — cosa non da poco — della stessa dignità di ministri di
Cristo Signore. Ma, in vista di tale dignità, i vescovi si sono dati un solo limite:
quelli che gli stessi sacerdoti sanno bene non essere valicabile da alcuna autorità umana. Accade
anche ai padri nei rapporti coi figli. E ai fratelli di fronte ai fratelli.
Il celibato obbligatorio non è una legge divina, bensì una legge della Chiesa cattolica. Sono maturi i
tempi per una sua revisione?
Quel che urge, stante la complessità del problema, è fare chiarezza individuando un qualche punto o
valore di fondo su cui concordare. C’è un valore posto al centro del nostro problema. Si tratta di
uno dei principi primordiali della nostra civiltà: è l’esclusiva competenza di ogni uomo a decidere
liberamente la destinazione della propria esistenza. Qui sta l’atto più espressivo della dignità
umana. Il che vuol dire che matrimonio e celibato, proprio perché vi s’investono le energie e le
finalità di quel gran bene che è ogni vita umana, devono assolutamente ritenersi riservati alla libera
scelta del singolo.
Per quanto riguarda il matrimonio, la cosa è risaputa. « A costituire il matrimonio è il consenso dei
due sposi, che non può essere supplito da nessuna autorità umana»: così, il Codice di Diritto
Canonico. Meno nota, invece, l’importanza che ha la libertà di scelta nel caso del celibato.
Tant’è vero che si parla di «celibato obbligatorio»: un’espressione che fa pensare a un dovere
imposto dal di fuori, cui uno deve adeguarsi a ogni costo, come al pagamento delle tasse o il rispetto
dei limiti di velocità. Per fortuna, le cose non stanno così. E così non è, semplicemente per una
ragione: che cioè il decidere la destinazione della propria vita è riservato al diritto di scelta della
singola persona umana. Ciò significa che come nessuna legge, ecclesiastica o civile che sia, può
imporre ad alcuno il matrimonio, così neppure può obbligare al celibato. Se poi lo facesse, e l’uno
e l’altro sarebbero atti nulli. In conclusione:
matrimonio e celibato sono atti di libertà che solo a essere sfiorati da un’imposizione esterna si
disintegrano. O liberi o nulla.
Dunque, sono marito e moglie che si obbligano a riservarsi l’uno per l’altro con esclusione di terzi,
così com’è il singolo che nel celibato lega sé, a disposizione di Dio e del prossimo nella Chiesa.
Naturalmente, da quell’atto di libertà personale sgorga l’onere della fedeltà agli impegni assunti.
La legge arriva subito dopo, ossia a obblighi già nati, a cose già fatte. In altre parole, come per il
matrimonio così per il celibato, non è la legge a farne nascere gli obblighi rispettivi. In ambedue i
casi, lo Stato per il matrimonio, la Chiesa per il celibato si limitano a ricordare e sancire l’obbligo
della fedeltà ai legami che la persona s’è data da sé. 126
Un secondo punto resta da chiarire: i rapporti tra celibato e sacerdozio. Cominciamo col dire che
anche il sacerdozio,poiché impegna l’intera esistenza personale, esige libere scelte; qualsiasi
costrizione annulla tutto. Non ne nasce nulla: né diritti né doveri. Sono comunque — celibato e
sacerdozio — due scelte distinte, con finalità e impegni propri: da una parte, la santificazione
personale in un rapporto di appartenenza radicale a Cristo, avente la sua sede nelle profondità
affettive, dall’altra, nel sacerdozio, la partecipazione alla missione pastorale della Chiesa e alla
responsabilità storica d’essere dentro le vicende umane.
Stando così le cose, è logico che esigano ognuno attitudini particolari e perciò modalità di
preparazione e tempi distinti: e perfino, a volte, una vocazione diversa. Del resto, è nota a tutti
l’esistenza nella Chiesa di una moltitudine di persone che hanno scelto il celibato permanente come
forma di vita, senza pensare al sacerdozio. Basti ricordare san Francesco d’Assisi che volle restare
solo diacono, i molti religiosi professi, come i Fratelli delle Scuole Cristiane, senza parlare dei molti
laici, appartenenti ai vari Istituti secolari. Un nome per tutti, il professor Giuseppe Lazzati.
Non si tratta di un fenomeno superficiale. A proporre questa forma di vita fu lo stesso Gesù Cristo.
E la propose come «beatitudine», non come precetto per tutti, ma come « consiglio» per coloro che
si sentissero interiormente chiamati, perché attratti dalla «beatitudine» riservata a una radicale
dedizione a Dio e al servizio dei fratelli. Naturalmente non è per tutti e non può essere
improvvisata. Per questo lo stesso Gesù sceglie gli Apostoli fra uomini sposati e non, così come
faranno gli Apostoli, fino a quando, dilatandosi con fervore della fede il fenomeno monacale e con
esso il fascino della vita verginale contemplativa e l’efficacia della dedizione pastorale, si arrivò in
un primo tempo a preferire i candidati celibatari e, infine, a riservare l’Ordine Sacerdotale a chi
avesse già scelto quella radicale riserva di sé a Cristo, che nella vita monacale ha la sua origine e il
suo modello.
E quel che accade ancora oggi . L’impegno per il celibato non è uno scotto richiesto dalla Chiesa a
chi vuol diventare prete. Alla sua origine concreta c’è un’attrazione interiore che si forma quasi
sempre nel momento stesso in cui la vita chiede d’essere destinata a una causa grande; e la domanda
è «chi e che cosa amare». E’ li, nell’intimo, che tutto nasce. E nasce quale causa ideale, come un
bisogno di realizzazione più piena di sé nella donazione a Cristo in vista di una paternità più vasta:
tutto l’opposto di una imposizione.
Quali sono le motivazioni che, ancora oggi, fanno ritenere giusta la legge ecclesiastica sul celibato?
Vediamola, finalmente, questa legge. Essa è contenuta nel canone 274 del Codice di Diritto
Canonico. Dice: « Solo i chierici (e tali sono coloro che hanno fatto scelta di castità perfetta nel
celibato) possono ottenere l’affidamento dei compiti per il cui esercizio è richiesta la potestà di
Ordine o la responsabilità di governo
A chiarire meglio le cose provvede il Catechismo della Chiesa Universale: « Tutti i Ministri ordinati
dalla Chiesa latina, a eccezione dei diaconi permanenti, sono normalmente scelti tra uomini credenti
che vivono da celibi e che intendono conservare il celibato per il regno dei cieli. Chiamati a
consacrarsi con amore indiviso al Signore e alle “sue cose”, essi si donano interamente a Dio e agli
uomini: il celibato è un segno di questa vita al cui servizio il ministro della Chiesa viene consacrato;
abbracciato con cuore gioioso, esso annuncia in modo radioso il Regno di Dio» (Catechismo della
Chiesa Cattolica n. 1579).
127
Precisiamo: per capire quel «normalmente» s’ha da ricordare le notizie recenti dei vescovi e
sacerdoti anglicani che hanno potuto entrare nella Chiesa cattolica previa un’ordinazione valida,
continuando a vivere nello stato coniugale con moglie e figli. Un’evidente eccezione resa possibile
appunto perché il legame tra sacerdozio e celibato non deriva da un apposito ed espresso comando
divino, com’è invece l’indissolubilità del matrimonio. Questo, pertanto, il senso della norma:
l’esercizio della missione sacerdotale e della responsabilità nelle comunità religiose sarà riservato ai
chierici, ossia a coloro che liberamente hanno fatto la scelta della castità perfetta nel celibato.
Tale la norma, tali i significati e le finalità. Restano giustamente delle domande: se oggi il celibato
sia ancora possibile e se comunque i significati e le finalità iniziali siano ancora raggiungibili.
La prima domanda è determinante. S’è detto, infatti, che la decisione di riservare il sacerdozio agli
uomini celibi s’è avuta quando il fenomeno monacale ha assunto proporzioni tali da indurre la
Chiesa ad affidare solo agli uomini celibi il ministero sacerdotale Ebbene, quel fenomeno è tuttora
in atto. Ed è la novità di questa fine secolo, risultante dai dati statistici. Ed è particolarmente
significativa perché giunge dopo un vasto, impressionante, calo di vocazioni.
Quel che più importa è che lo stesso fenomeno è in atto - nell’affluire di giovani nei seminari
maggiori e nei noviziati.
Sta bene. Resta comunque da vedere se, a distanza di secoli, con tutti i profondi cambiamenti in
corso, quel riservare l’esercizio del sacerdozio ai soli celibi abbia ancora senso.
Rispondo: penso proprio di sì, è tuttora un gran bene. Non per obbedienza, io dico. In un libro che
raccoglie tante amarezze, provocate tutte, da un celibato vissuto come peso grave, certamente i
lettori si aspettano una risposta « mia», che non sia tratta da testi legislativi, ma la risposta di un
testimone che nel celibato ha investito anima- e corpo pur dentro la realtà di questo tempo. E ne è
felice.
Testimone di che? Anzitutto di questo: che il celibato autentico nasce da un avvenimento «mistico»,
verificatosi nelle profondità più intime della persona. Mistico vuol dire che non è un obiettivo
cercato e poi trovato al termine di una lunga ricerca. All’opposto, sei tu che ti senti invisibilmente
cercato da un invisibile TU che richiama la tua attenzione su di Lui, che si dà a intravvedere come
Verità prima, e Bene trascinante tutto l’essere personale.
S’accende allora un rapporto a due che si cercano come bene l’uno dell’altro. E accade che tutto il
resto — cose, persone, avvenimenti — è tutto dono, preziosissimo dono, ma sempre di Lui, col fine
evidente di legarti a Sé, in riserva radicale, non per disprezzo delle creature, ma per metterti a
disposizione delle creature. Il desiderio del Sacerdozio nasce dentro questa operazione mistica,
come bisogno di far sapere a tutti, ossia di testimoniare.
Chiedo: una simile testimonianza dell’Invisibile che si offre al visibile può valere anche oggi, in una
condizione di così vasto degrado umano? O non sarà il caso che la Chiesa, vista la inattualità di
questi e altri suoi valori, pensi piuttosto a potenziare al massimo la sua organizzazione?
128
Sarebbe un imperdonabile errore, grida Pier Paolo Pasolini, nella bozza per il film su San Paolo:
«La forza della Chiesa è nella sua santità ». E così il film è ancor oggi un grido di invocazione alla
Chiesa — di lui, laico, sapendo di scandalizzare i «pensanti razionali » — perché ritrovi il coraggio
di riannunciare le novità più sue, quelle originarie, particolarmente quelle che si vorrebbero fuori
del tempo. Fra queste, la santità del corpo umano, la dignità della sessualità, il significato misterioso
del matrimonio, e anche la scelta di coloro che rinunciano a sposarsi per conformarsi pienamente a
Cristo e riservarsi per la causa del Vangelo. Per quanto incredibile, è proprio su quest’ultima scelta
che il san Paolo di Pasolini ritorna con insistenza nell’arringa che tiene a Genova nella casa di
Aquila e Priscilla, di fronte a un bel gruppo di intellettuali.
« E’ bene che ognuno abbia la propria moglie e ognuna il proprio marito... Ognuno ha i suoi doni,
ma vorrei tanto che tutti gli uomini fossero come me stesso», ossia celibe. Poi, subito ancora: «Ai
non sposati dico: è bene per essi che rimangano come me... » (I Cor. 7, 1-8). Commentano i
genovesi: Il solito moralismo, ma s’è mai visto un razionalismo più radicale. Un vero terrore.
Sono, queste di Pasolini, intuizioni potenti. Sua è la considerazione che la Chiesa, come san Paolo,
sa essere attuale oggi per essere attuale domani. Il celibato è uno dei contenuti più preziosi della
«salvezza cristiana», cui la Chiesa non deve rinunciare perché ne indica la società religiosa,
nettamente distinta dalle altre società civili, proprio perché in essa può e deve essere incontrata la
santità di Dio.
Stando così le cose, se il celibato ancor oggi, e soprattutto oggi, ha per la Chiesa tanta
significazione, non c’è dubbio che, riservando ai celibi il Sacerdozio, la Chiesa ne arricchisce il
Ministero con il carisma della santità personale, mettendone in risalto non l’aspetto del funzionario,
ma la figura del testimone, che conferma con la vita quel che insegna con le parole.
Vi sono autorevoli teologi e altre voci « non eretiche » che s’interrogano sul celibato del sacerdote.
Perché non aprire un dibattito?
Tutti possono discutere e aprire dibattiti attorno alle cose della Chiesa. Tutti, credenti e non.
E destinata a tutti la Chiesa: lo è con interezza di sé. In questo senso essa appartiene ad ogni uomo;
le appartiene con tutti i suoi valori, il suo personale e le stesse sue strutture. Tale è non per
liberalità, ma per costituzione sua, nell’essenza sua: ogni uomo ha diritto di sentirsene imparentato.
Non per niente il suo nome delle origini è «cattolica». Conseguenza: tutti hanno il diritto di
interrogarsi e di interrogarla su ogni suo aspetto, specie su quelle realtà che nel corso del tempo
entrano in tensione.
E’ logico pertanto che i teologi e anche. gli osservatori laici dedichino al celibato una particolare
riflessione. E’ sempre un’operazione benefica se a suggerire l’operazione e a guidare
l’approfondimento è il desiderio di avere una Chiesa più «evangelica», più rispondente
all’immagine e alla missione assegnatale. Mi par di capire, tuttavia, che la questione che qui si pone
allude a qualche cosa d’altro. A un gesto ufficiale del Papa che dica pressappoco così: viste le
difficoltà che, nelle condizioni attuali, il celibato incontra, la Chiesa si pronunci sull’opportunità di
conservarlo oppure no.
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Ebbene, io osservo che un dibattito attorno a questo tema c’è già stato nella Chiesa, dagli anni
Sessanta in poi, in concomitanza - col fenomeno impressionante degli abbandoni.
Dibattito ampio, fatto all’aperto, con voce alta e toni a volte veementi, con vasta eco all’interno e
all’esterno della comunità cristiana. Nel nostro Paese, poi, è accaduto che a promuovere una vera e
propria consultazione ufficiale sul celibato è stata la stessa Conferenza episcopale italiana.
Si era nel 1970, il momento della crisi più acuta. I sacerdoti furono contattati, a uno a uno. I loro
pareri, esaminati nelle assemblee diocesane, sono stati oggetto di un’apposita Assemblea generale
dei vescovi, cui pure partecipò una notevole rappresentanza di sacerdoti delle singole diocesi.
Erano gli anni degli abbandoni più frequenti, gli anni del disorientamento. Ma sono pure gli anni in
cui si preannunciano le più gravi sfide per il destino umano. Di qui la domanda: come, con quale
volto, con quali valori e risorse la Chiesa .si presenterà all’appuntamento del futuro?
In questo quadro, è vero o no che la testimonianza del celibato - il meglio che la Chiesa può offrire
— può far fronte al degrado del presente e alle sfide del futuro?
Conserva ancora il celibato la sua attrazione sul mondo giovanile, così da risultare una scelta
personale in cui uno investe tutto l’intero essere suo?
La risposta fu un sì corale, in cui si esprimeva non solo la riconferma della linea tradizionale, ma la
riscoperta di un valore prezioso da rivalutare.
Se si considera la gravità della crisi, quella scelta fu premiata. Da quegli anni, infatti, non solo
iniziò il graduale arresto dell’emorragia, ma anche l’incremento crescente di nuovi ingressi nei
seminari e noviziati.
E’ nota l’intransigenza di Giovanni Paolo II. Alcuni sostengono: forse col prossimo papa i tempi
saranno maturi e il celibato obbligatorio probabilmente cadrà.
A lanciare quest’ipotesi ha pensato, tempo fa, il settimanale tedesco « Stern », credendo di aver
fatto uno scoop: « Papa Wojtyla è gravemente malato. Non gli resta che un anno di vita».
E giù a sciorinare i nomi dei cardinali papabili, aggiungendo di sapere che; fra le novità date per
certe nei soliti ambienti ben informati, la prima sarà l’abolizione della legge del celibato. Si trattava
di un’ipotesi fantastica che, però, rilanciata dalla stampa americana ed europea, finì con l’essere
presa su serio. In verità, la previsione non ha alcuna possibilità di avverarsi. Dopo quel che s’è detto
fin qui, non dovrebbero restare dubbi.
Vero è che la norma che « riserva il sacerdozio a chi spontaneamente ha scelto il celibato» non è
legge divina. Ma divina è la legge che impone alla Chiesa di scegliere per i fini della sua missione i
membri che risultino già adeguati, come del resto deve fare una madre in vista dell’educazione dei
figli e un insegnante per la formazione degli alunni. Altri pontefici sono stati meno intransigenti di
Giovanni Paolo Il?
Può esserci stato maggiore o minor rigore nella concessione delle dispense. Ma ciò può accadere
anche durante il corso di uno stesso pontificato, in relazione all’emergere, attraverso i dati
dell’esperienza concreta, di aspetti nuovi, meritevoli di una considerazione maggiore.
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Oggi è più difficile per un sacerdote mantenersi casto? Certo, il degrado dei costumi non aiuta né la
castità del sacerdote, né la crescita serena dei ragazzi, né la fedeltà degli sposi:
succede un po’ quel che il Manzoni dice dei soldati spagnoli, che «non insegnano la modestia alle
fanciulle». Sicché, a guardare la pressione ambientale, la « castità perfetta » richiede più attenzione
e rigore di un tempo, come la difesa dell’innocenza per i fanciulli e la mutua fiducia tra gli sposi.
Eppure io non mi abbandono al pianto della maledizione dei tempi. Dirò di più: resto ottimista.
Difficile custodire la castità del prete in questo clima?
Ma non era ancor più difficile, nello stesso clima, decidersi per una vita di castità perfetta?
Nei seminari, oggi, non si entra più a dodici anni, ma quasi sempre attorno ai vent’anni,
spessissimo dopo il diploma o la laurea, quando con il clima di degrado e i suoi rischi il giovane ha
già iniziato a fare i conti e a misurarsi. Così accade che proprio le difficoltà maggiori finiscono col
provocare i propri anticorpi. Voglio dire, insomma, che nel sacerdozio succede come nel
matrimonio: le difficoltà, per quanto gravi, non contano, quando si scelgono per amore. Il segreto di
tutto sta in lui, il giovane che decide di consacrarsi a Dio: nei convincimenti robusti che ne
guideranno la mente, nel possesso lucido e sereno della propria affettività, che gli consentirà una
capacità di amare, di essere di tutti, e, prima e soprattutto, nel suo rapporto radicale con Gesù
Cristo.
Tuttavia, sono ancora numerosi i sacerdoti che lasciano il ministero per sposarsi. Essi lamentano
che la Gerarchia ecclesiastica non è tenera con loro. Lamentano di non poter svolgere funzioni di
supporto al ministero e di non potere, diversamente dai laici, collaborare con i parroci. Di non poter
insegnare la religione.
Questo è l’aspetto più delicato del nostro tema. Qui non servono i grandi ragionamenti. Non siamo
teneri con loro? Possono aver ragione. Il venir meno alla fedeltà non li priva del diritto alle premure
del loro Pastore, acquisito con l’Ordinazione. Il fatto è che molte circostanze rendono complessa la
coltivazione del rapporto. Ciò avviene soprattutto quando le condizioni in cui il sacerdote si trova si
carica di tensioni e di contorcimenti d’animo che richiederebbero un assiduo scambio fraterno.
Sono moltissimi, inoltre, coloro che vorrebbero restare utili alla Chiesa. E’ la nostalgia del
ministero che quasi sempre resta intatta. Le situazioni sono diversissime. E dare qui una risposta
esauriente non è pensabile. Comunque, senza entrare nei vari casi particolari, una distinzione è
fondamentale: un conto è il caso dei sacerdoti la cui ordinazione è stata riconosciuta nulla perché
eseguita senza le condizioni richieste per la sua validità: in questa circostanza il sacerdote ritorna
allo stato laicale con tutte le possibilità offerte ai laici dalla Chiesa.
Diverso è il caso di sacerdoti che, ordinati validamente, hanno chiesto e ottenuto la dispensa dagli
obblighi dei chierici, compresa la fedeltà al celibato, sicché la loro condizione è di laici, senza gli
oneri e le facoltà del proprio ministero sacerdotale. E’ una condizione che consente di vivere
serenamente all’interno della Chiesa, con tutti i doveri e i diritti dei fedeli, comprese le funzioni di
supporto al ministero sacerdotale?
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La risposta non è scontata. Il giudizio, infatti, è affidato ai vescovi, cui tocca valutarne
l’opportunità. Sicché la decisione dipende, oltre che dal contesto oggettivo dei vari Paesi, dalla
sensibilità della comunità e dei pastori stessi: situazioni e sensibilità che possono mutare nel corso
del tempo. Per queste ragioni è possibile trovare in certi Paesi sacerdoti che, ottenuto lo stato
laicale, insegnano Teologia o Sacra Scrittura in università cattoliche.
Un altro punto dolente riguarda la cosiddetta « dispensa». Condizione indispensabile, per quei
«sacerdoti » che vogliono sposarsi religiosamente. Essi fanno presente le difficoltà, la lunga ed
estenuante trafila per ottenerla. Non è un atteggiamento «vessatorio» da parte della Gerarchia?
Questa domanda mi ha spinto a portarmi a Roma presso la commissione Pontificia della Santa
Congregazione dei Sacramenti, cui è affidato l’esame delle dispense. E sono lieto d’averlo fatto di
persona, perché quel che lì ho trovato è semplicemente l’opposto di quel che la domanda lascia
sospettare. Anzitutto le direttive del Santo Padre sono esplicite e precise quelli che vi ricorrono sono
sempre dei sacerdoti che la Chiesa riconosce sempre suoi; che, anzi, per il fatto di trovarsi in
difficoltà e sofferenza gli si deve un’attenzione ancora più delicata Ed è al fine di ridurre al minimo
la sofferenza dell’attesa che la Commissione tiene a dare una risposta entro tre mesi. E ci riesce
sempre, quando le domande giungono compilate per bene, in conformità alle indicazioni fornite
dalla stessa Commissione. In caso diverso, vengono chiesti ulteriori documenti o indicazioni di dati
mancanti, con conseguente rinvio del tutto.
Più frequenti i ritardi nei casi di sacerdoti che chiedono la dispensa perché nel momento in cui
assunsero l’impegno della castità perfetta le loro condizioni psichiche non erano adeguate alla
gravità dell’atto. Nel qual caso la Commissione invita a presentarsi per un colloquio con un perito
del settore, al fine di raccogliere gli elementi per un riscontro obiettivo. Senonché accade spesso
che l’interessato ci metta mesi a farsi vivo, a volte anni.
Un’ultima annotazione è necessaria ai fini della chiarezza. A un certo punto è accaduto che parecchi
sacerdoti, ottenuta la dispensa, presi da pentimento,. si rivolgevano alla Santa Sede per chiedere
l’annullamento del provvedimento e la riammissione allo stato sacerdotale. E in seguito a questo
fenomeno, al fine di evitare decisioni precipitose, che la Santa Sede da un po’ di tempo ha fissato
una specie di periodo di salvaguardia, rinviando l’accogliere delle richieste a dopo i quarant’anni
compiuti. Una misura dolorosa, resa necessaria, almeno per ora, fino a quando risulterà che la
facilità della dispensa, anche a pochi anni dall’ordinazione, sospinga il giovane prete a tramutare in
fallimento una crisi momentanea che, con pazienza, poteva essere superata. Diverso è il caso. di
ordinazione sacerdotale nulla perché ricevuta non liberamente o per altri motivi: lì la nullità può
essere dichiarata in qualsiasi tempo. Ciò per dovere di giustizia.
Molti sacerdoti « fuorilegge » fanno osservare: alla Chiesa interessa soprattutto che non si dia
scandalo. Interessa tenere «legati» i preti.
Del resto, sulle relazioni clandestine , di fatto, la Gerarchia è indulgente. In altre parole, si colpisce
e si discrimina soltanto chi, vuole vivere alla luce del sole il rapporto con la donna amata,, chi
decide di sposarsi...
134
Sono insinuazioni estremamente gravi. E calunniose. Le smentisco, con tutta l’anima.
Sono vescovo da ventisei anni, conosco molto bene la condizione delle diocesi italiane e posso
assicurare che in materia così grave non si gioca al compromesso. Sfuggisse pure la situazione al
vescovo, certamente non sfugge alla popolazione. La quale, in Italia almeno, su questo punto è
intransigente: anche se è in grado di comprendere la situazione personale, non tollera l’avere pastori
in contrasto con gli impegni sacerdotali così delicati. E, poiché i fedeli non accettano di avere per
guida tali pastori, sono quasi sempre loro a segnalare la situazione, chiedendo di intervenire.
Sicché, anche se si volesse prender tempo, è la popolazione a non permetterlo, magari ricorrendo
direttamente a Roma.
Detto ciò, è mai pensabile che la gente sia così rigorosa e la coscienza del vescovo no?
In ogni caso, capisco come si possa arrivare a insinuazioni così gravi: una sofferenza acuta protratta
per anni può indurre a strapensare e a straparlare. Personalmente, in ventisei anni di episcopato, non
ho mai conosciuto casi di compromesso così indegni.
Ma un sacerdote potrebbe anche essere un buon marito? La questione non è se un sacerdote possa
essere un buon marito, ma se lo possa, rimanendo un buon prete, senza venir meno all’impegno di
castità perfetta, impegno assunto in piena responsabilità, senza costrizione alcuna. Del resto, anche
un uomo sposato potrebbe riuscire un ottimo marito di un’altra donna. Ma lo potrebbe, senza tradire
l’impegno assunto il giorno delle nozze?
In questo, libro si è data voce soprattutto alle donne dei preti (mogli e anche amanti). Che hanno
raccontato ‘storie amare,’ sofferenze, disavventure. Se la Chiesa è severa con i sacerdoti,
praticamente ignora le loro compagne. In Francia, le donne dei preti hanno fondato un movimento,
Claire Voie. Le rappresentanti hanno chiesto più volte di essere ricevute in Vaticano, ma sono state
respinte. Perché non guardare in faccia questa realtà?
Ho avuto modo di conoscere anch’io tali storie, seguendole da vicino. Sono sempre storie dense di
sofferenze e umiliazioni.
Accade anche nelle separazioni delle coppie sposate: eccome.
Ogni rottura comporta amarezze e ferite non facilmente sanabili. Solo che qui al centro della
vicenda c’è il sacerdote, che non è semplicemente una persona privata. E’ un bene pubblico il prete,
appartiene alla comunità ecclesiale che lo considera un bene proprio: spesso si tratta del parroco che
ha condizionato la vita delle famiglie, il confessore a cui si confidavano i segreti più intimi delle
coscienze. Non si può pensare che i fedeli non ne risentano, specie i ragazzi e i giovani.
Ci sono poi i familiari, i sacerdoti della diocesi, i compagni di studio, il vescovo: il prete che
abbandona non è un impiegato che lascia. Per tutti, anche per la gente comune, c’è di mezzo un
vincolo sacro, nato da una promessa solenne a Dio, al servizio della Chiesa. E non è un particolare
da poco. Sicché, sono sofferenze e amarezze legittime anche queste. E sempre accade che a
risentirne di più sia la donna, anche quando in realtà — un dato, questo, particolarmente doloroso
per il vescovo — lei, la donna, è la vittima. Per farle superare le difficoltà iniziali, lui le aveva
parlato, dandolo per certo, di un sicuro cambiamento della legge o di una sicura nullità della sua
ordinazione sacerdotale.
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Anche il rovescio accade: che il prete divenga l’oggetto da conquistare a ogni costo. Resta poi il
fatto che la convivenza con un uomo che prete lo è stato e tale si sente ancora, si rivela non di rado
un’impresa ardua. Tutto questo accade, soprattutto quando alle origini c’era una vocazione autentica
e una scelta pienamente convinta, e anni di ministero felici, come quelli di un buon prete.
Quand’è così, il passaggio da una piena espressione di vita al chiuso di una casa, finisce con
l’essere sofferto come riduzione dell’essere, una specie di potatura. Insomma, è tale pienezza il
ministero sacerdotale che le nostalgie quasi sempre ti inseguono a distanza di anni. Sono, insomma,
disagi che pesano. E i Pastori? E la Santa Sede? I lamenti, anzi i rimproveri verso di loro, sono piuttosto pesanti.
Eppure, mi sento di dire che proprio loro sono quelli disponibili a comprendere e a cercare, anche
nei casi più gravi, le soluzioni possibili, ponendo al primo posto la salvaguardia dei diritti dei più
deboli, che sono sempre le donne e i figli. Due i casi più comuni. Accade non di rado che il
sacerdote sposato chieda di essere riammesso nel Clero e nel pieno esercizio del sacerdozio,
disposto a lasciare moglie e figli. La Santa Sede, anche accertato che di intenzioni rette si tratti,
pone come condizione assoluta le seguenti clausole:
1. Che ci sia l’assenso della sposa e dei figli, se maggiori; del tutore, se minori.
2. Che, comunque, ci siano le garanzie per il futuro equo mantenimento di tutti i familiari, sposa e
figli appunto.
E quando la futura sposa, trovandosi incinta, viene a sapere che i superiori ecclesiastici volevano
indurre il prete a lasciarla affidando a una delle nonne la cura del nascituro? Non è una crudeltà?
Mi si dice che accade anche questo. Ho chiesto lumi. E mi viene spiegato che il caso si crea solo
quando è il prete stesso che, pur in presenza della gravidanza, chiede insistentemente di rientrare nel
ministero sacerdotale. In una situazione del genere, accertate l’autenticità del sentimento e la
sincerità del desiderio, la Santa Sede chiede anzitutto, anche stavolta, il consenso della sposa e
l’eventuale disponibilità di un familiare stretto, quale potrebbe essere la madre di lei, ad aiutare la
figlia nel compito educativo; sempre e comunque a condizione che l’interessato dimostri di poter
provvedere al futuro economico della donna e del figlio. E se le risorse fossero inadeguate,
interviene la comunità diocesana a garantire il proprio contributo.
Non sono dunque il vescovo o la Santa Sede che, pur di avere il prete, - sono disposti a sacrificare la
donna e il figlio, come se il celibato valesse di più dei supremi diritti umani. Al suo sacerdote che
desidera il ritorno, la Chiesa non può negare la pietà, ma non fino a rinnegare i diritti prevalenti di
altre creature, e con essi tutti i suoi principi.
Un’ultima considerazione mi s’impone: la «maternità» della Chiesa non può comunque dimenticare
che all’origine di tutto ci sta un abbandono. Essa conosce bene l’importanza dei rischi e la misura
delle debolezze umane. Spessissimo ci stanno le responsabilità dei superiori dei seminari che non
hanno preparato a dovere i giovani, chiudendo gli occhi sui molti aspetti che sconsigliavano
l’ammissione al celibato e al sacerdozio. Proprio per questo, specie nei casi di maggior sofferenza,
tutto viene soppesato, in vista di una soluzione che restituisca serenità di coscienza.
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E per questo che si parla di « dispensa», data cioè a nome di Dio e non semplicemente in
concessione, come si trattasse di semplici obbligazioni o contrattazioni sociali.
In altre parole, tale dispensa ha. come oggetto l’obbligo del celibato, non la legge sul celibato.
Sicché, per l’esattezza del linguaggio, nel caso nostro, si dovrebbe parlare di «dispensa del
celibato» non della «legge del celibato», che è quel che è avvenuto con i vescovi e i sacerdoti
anglicani ammessi nella Chiesa con mogli e figli.
Giunti alla fine, il mio pensiero ritorna a loro, ai sacerdoti e alle donne comunque legate a loro. Li
penso come fratelli e sorelle. E sono lieto per l’occasione che mi si è offerta di incontrarli.
Invisibilmente, è vero; eppure è come se fossimo faccia a faccia, cuore a cuore.
Confido di non aver esacerbato le loro ferite. L’avessi fatto, ne chiedo scusa. La speranza mia era ed
è che dentro i segni della scrittura, essi sentano il timbro di una voce di famiglia, anzi di tutte le voci
della casa comune, la Chiesa, che tutti amiamo e che di tutti è madre.
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Un sacerdote per marito?
Sondaggio tra le donne italiane
Amare, sposare un sacerdote. Le donne italiane come la pensano? Come giudicano le mogli e le
amanti dei preti? Come si pongono di fronte alla questione del celibato ecclesiastico?
Lo abbiamo chiesto alle interessate. Attraverso un sondaggio, rivolto esclusivamente alla
popolazione femminile, in linea col «taglio» di questo libro. E una ricerca mirata, poiché si è tenuto
conto che esistono già dati generali recenti, tratti da ricerche che coinvolgono i cittadini italiani,
uomini e donne. Come quelli contenuti nel citato volume (vedi il primo capitolo) La religiosità in
Italia. Da cui, tra l’altro, emerge che il 45 per cento dei cattolici è contrario al celibato obbligatorio.
Questo sondaggio è stato condotto dal Media Research della McCann Erickson Italia, mediante
interviste in profondità a un campione di 744 donne, rappresentativo dell’intera popolazione
femminile italiana, in età adulta, compresa tra i diciotto e i sessanta anni. E di vario grado di
istruzione: dalla licenza elementare alla laurea. La ricerca si è svolta in tre settimane, nell’arco del
mese di gennaio del 1996.
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Conclusione
Soltanto una esigua minoranza di italiane «condanna» senza appello i rapporti sentimentali (e anche
sessuali) dei sacerdoti con le donne. E viceversa: poche, tra le intervistate (9 su 100) giudicano
peccaminosa una donna che si concede a un prete. E il primo dato che balza all’occhio, analizzando
i risultati del sondaggio. Chi, infatti, ha scelto la prima delle risposte indicate (cioè la linea che
definirei «rigorista») non supera mai il 13 per cento. Solo in un caso la percentuale si alza fino al
18, nell’ottavo e ultimo quesito proposto. E riguarda il no al matrimonio dei preti. Che cosa
dedurre? Sembrerebbe di capire che vi sia maggiore indulgenza verso la « trasgressione » dei
sacerdoti e più rigore, invece, quando si tratti di avallare un rapporto stabile e codificato come
quello matrimoniale. Tuttavia, quest’ultimo dato, pur minoritario, viene subito bilanciato: 11 donne
su 100 sostengono l’assurdità del vincolo celibatario, 25 si dichiarano possibiliste, 6 rispondono
«non saprei».
Complessivamente, noto una certa difficoltà a esprimere una valutazione netta. Il «non saprei»
raggiunge, in un caso, il 33 per cento (terzo quesito, relativo al giudizio sulle donne che hanno
rapporti con sacerdoti). Ma ciò che prevale, almeno così mi sembra, è la tendenza «aperturista ».
In altre parole, le donne sono disponibili a prendere atto di una realtà in evoluzione, a compiere dei
distinguo («se è vero amore...») di fronte a comportamenti considerati trasgressivi., e, in ultima
analisi, a considerare senza moralismi tutta la tematica che ruota attorno alla castità e al celibato dei
preti. Insomma, un cambiamento di rotta, nelle regole della Chiesa, non scandalizzerebbe le italiane.
Infine, il sondaggio conferma un dato preciso: i rapporti sentimentali (e sessuali) tra sacerdoti e
donne sono una realtà diffusa. L’11 per cento del campione intervistato, infatti, ammette di
conoscere direttamente situazioni del genere.
E più della metà (52 per cento) di esserne a conoscenza per fonte indiretta.
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