20150412alias2 - Il Manifesto
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angolo fuori da un qualsiasi consesso sociale. Scrivere è prendere quella stessa distorsione (quella verità alternativa) e consegnarla a qualcuno: farlo fratello nella complicità. Se ogni romanzo è un attentato al mondo e al suo racconto ufficiale, trovare qualcuno con cui condividerlo è formulare un’ipotesi: il mondo potrebbe essere diverso da come ve l’hanno sempre raccontato. La lette- di ANDREA BAJANI Tra i resti del passato che gorgogliano senza posa notte e giorno in quel sito archeologico permanente che è YouTube può capitare di imbattersi in una vecchia intervista a Primo Levi. Credo si tratti di una conversazione registrata nei locali della Siva, la Società Industriale Vernici e Affini di Settimo Torinese per la quale lo scrittore lavorò come chimico fino al 1977. In quell’intervista Levi indossa il camice bianco d’ordinanza, con sotto la cravatta, e se ne sta appoggiato a un armadietto metallico in laboratorio. Vestito da chimico, parla dell’esperienza del lager e del sedimento di parole rimaste sul fondo della storia del Novecento: Se questo è un uomo. C’è un momento, nel corso dell’intervista, in cui Levi, guardando in terra, dice, nel suo indimenticabile fraseggio elegantemente monocorde: «Mi accade di trovare il bisogno di andare a cercare qualcun altro, per rinfrescare queste cose, per verificarle». Viene in mente questa vecchia intervista a Levi leggendo l’ultimo libro di Etgar Keret, Sette anni di felicità (Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantovani, pp. 176, e14,00). E non tanto per il fatto che Keret è uno scrittore israeliano «i cui allarmi giornalieri di Google – scrive il narratore – sono confinati all’esiguo territorio tra ‘lo sviluppo nucleare iraniano’ e il genocidio ebraico’», ma per qualcosa di molto più profondo e intrinseco al raccontare: l’idea stessa di andare a cercare qualcuno per condividere una storia o la Storia. «Ho scritto il mio primo racconto (…) in una delle basi militari meglio difese di Israele – scrive Keret. Ritto al centro di quella stanza gelida, fissai quella pagina a lungo. Non sapevo spiegarmi perché l’avevo scritta e a quale scopo. Il fatto che avessi digitato tutte quelle frasi fatte era eccitante, ma anche molto allarmante. Era come se dovessi trovare subito qualcuno che leggesse il mio racconto, qualcuno che (…) potesse calmarmi e dirmi che scriverlo era stato giusto e non un altro passo sulla strada della pazzia». Il giovane Keret cerca disperatamente un lettore: prova con il sergente che deve dargli il cambio ma viene liquidato. Poi si rivolge al fratello. Si dirige a casa sua, lo tira giù dal letto, lo costringe a scendere in strada per accontentarlo. Qui gli impone la lettura del racconto. Andare a cercare un fratello perché custodisca un pezzo di mondo. O meglio: andare a cercare qualcuno e farlo diventare fratello al momento della lettura. Primo Levi, di ritorno dal Lager, cerca qualcuno che divida con lui il mondo e si faccia garante della sua stessa esistenza. Il lettore, l’ascoltatore, riceve il mondo in forma di parole e, nel momento in cui le accoglie, se ne assume anche la responsabilità. Lì finisce la strada della pazzia di cui scrive Keret. Lì finisce il pensiero che il mondo sia una distorsione solipsitica che dal mondo separa, che mette chi l’ha pensato in un ratura sta tutta qui: confeziona ordigni che ticchettano dentro il sonno del mondo ufficiale. Etgar Keret è un grande scrittore, uno dei più interessanti oggi in circolazione. Confeziona ordigni di poche pagine che per semplificazione potremmo chiamare racconti, e poi li dispone in ordigni più grandi a cui mette un titolo in copertina, e che diventano così matrioske esplosive. Il suo passo, la sua cifra stilistica – fin dall’inizio degli anni Duemila, quando e/o cominciò a pubblicarlo – è quella del paradosso, di un comico che mette al tappeto il mondo senza dimostrazioni di forza, mostrandogli piuttosto l’asino che vola. Il titolo dell’edizione italiana del suo ultimo libro, Sette anni di felicità, è per certi versi un travisamento del mondo di Keret. Il titolo originale è meno ideologico, molto meno american style: The seven good years, ovvero i sette anni buoni, col bilancio in attivo ma senza stappare lo champagne. Perché dentro questo libro c’è semplicemente il mondo, sette anni di mondo, che sono il trancio di un’esistenza e al tempo stesso la vita intera: dalla nascita del figlio Lev alla morte del padre, passando per gli attacchi terroristici, il recupero delle radici di una famiglia di ebrei polacchi, i festival letterari, lo spettro dell’Olocausto, la vita sempre in bilico nel Medio Oriente. Il suo passo però è quello di chi cammina ridendo tra le bombe della Storia, parlando d’altro per scelta, con una strategia distrattiva e con venature di irresistibile cinismo: «Quando sono iniziati i combattimenti a Gaza, il mese scorso, ho scoperto di avere un mucchio di tempo libero. L’università di Beersheba dove insegno era alla portata dei missili lanciati da Hamas, e hanno dovuto chiuderla». Poco più avanti: «Kobi disse che non abitava da quelle parti. Era venuto a dare un’occhiata. Ora che Beersheba è nel raggio d’azione dei razzi, il mercato immobiliare offre parecchie possibilità. I valori fondiari crolleranno; lo stato rilascerà altre licenze edilizie. In breve, l’imprenditore che gioca bene le sue carte può trovare delle grandi occasioni». Etgar Keret crea ordigni e cerca un fratello per passarglieli: non perché salti in aria ma perché senta che il mondo così come l’ha conosciuto è in gestazione, la Storia succede e si modifica ogni giorno e scalcia dentro il ventre teso del Presente. È minaccia all’equilibrio e garanzia di metamorfosi al tempo stesso. Il mondo da cui Keret arriva è il Medio Oriente ed è in quel mondo, con le sue regole, nella sua fisiologia che ha imparato a raccontare. «In questo paese capiamo solo il linguaggio della violenza – scriveva in All’improvviso bussano alla porta (Feltrinelli 2012, traduzione di Alessandra Shomroni) – e non importa che si parli di politica, di economia o di un parcheggio. Le cose le capiamo solo con la forza». Il narratore commentava così l’irruzione di uno svedese armato che puntandogli la pistola pretendeva da lui che gli raccontasse una storia. «È appena arrivato dalla Svezia e in Svezia è tutto diverso. Lì, se vuoi qualcosa, lo chiedi educatamente e la maggior parte delle volte lo ottieni. Ma non in questo soffocante, torrido Medio Oriente». Lo svedese non vuole soltanto che l’uomo gli racconti una storia: vuole che risponda alla sue aspettativa, che gliela racconti à la mediorientale. È qui che sta tutto la maestrìa, e per certi versi la rivoluzione letteraria di Keret: nel deludere l’aspettativa, che è la più funzionale, sclerotizzata e violenta delle versioni ufficiali del mondo. Keret non rifiuta l’eredità che gli grava sulle spalle: l’eredità del suo popolo e della sua storia, che è in parte anche l’eredità di Primo Levi e delle sue parole sedimentate sul fondo del Novecento. Non rifiuta soprattutto l’eredità di suo padre, di cui in Sette anni di felicità racconta la malattia e poi la scomparsa: guarito da un cancro alla base della lingua non sopravvive poi alla recidiva. L’eredità di uno scrittore israeliano di quarantotto anni sono un Passato e un Presente, consegnati da padri senza più lingua per parlare, a cui quello stesso Passato e quello stesso Presente hanno ammalato – sembra dire Keret – la lingua. Passato e Presente hanno ammalato il raccontare. La grandezza di Keret sta nel non rimandare al mittente quel mondo, ma al tempo stesso nel non rispondere all’aspettativa di uno svedese qualsiasi che vorrebbe un racconto à la israeliana. Lo fa con una capriola dello stile, che è un colpo di genio e uno sberleffo: «Per uno scrittore i cui allarmi giornalieri di Google sono confinati all’esiguo territorio tra ‘lo sviluppo nucleare iraniano’ e il genocidio ebraico’ non c’è nulla di più godibile di qualche ora tranquilla passata a discutere di poppatoi sterilizzati con sapone organico e delle chiazze rosse sul culetto di un bebè». IL PASSO DELLO SCRITTORE ISRAELIANO È QUELLO DI CHI CAMMINA RIDENDO TRA LE BOMBE DELLA STORIA, E INTANTO PARLA D’ALTRO CON IRRESISTIBILE CINISMO: «SETTE ANNI DI FELICITÀ», IL SUO ULTIMO ROMANZO, E’ UNA TRANCHE DE VIE IN BILICO NEL MEDIO ORIENTE ETGAR KERET, LEGGI FRATELLO BUNIN • CECHOV • PLATONOV • HORKHEIMER • ARISTOTELE • HABERMAS SPINOZA • ZAMBRA • REVUELTAS • ARLT • DAMIANI • MACKE E MARC (2) ALIAS DOMENICA 12 APRILE 2015 «A PROPOSITO DI CECHOV» IN NUOVA TRADUZIONE DA ADELPHI BUNIN In Francia, alla fine della vita, Ivan Bunin insegue l’ombra dell’amico scomparso: ma alla schiettezza della memoria (un po’ troppo narcisistica) si sovrappongono le furie della Guerra fredda di VALENTINA PARISI In un saggio del 2007 emblematicamente intitolato All’inseguimento della propria ombra, lo scrittore e critico Zinovij Zinik si soffermava su quell’inquietudine esistenziale che nel 1975 lo aveva catapultato al di là della cortina di ferro, per la precisione in Israele. Nella prospettiva di Zinik, l’opzione volontaria dell’esilio aveva troncato in due la sua vita, trasformando il passato moscovita in una sorta di romanzo non scritto, eppure pronto per essere narrato. Non a caso, l’autore aveva provato a ridefinire fin dagli anni ottanta l’evento lacerante dell’emigrazione nei termini di un espediente letterario che, al pari dello straniamento teorizzato da Viktor Sklovskij, instaura automaticamente quella distanza tra sé e il proprio io di un tempo necessaria per trasformare quest’ultimo in personaggio. È improbabile che gli scrittori russi approdati in occidente all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre avessero colto e analizzato le potenzialità finzionali dell’emigrazione con la stessa freddezza postmoderna di Zinik. Eppure, leggendo il libro su Anton Cechov che Ivan Bunin aveva tentato invano di completare prima di morire a Parigi nel 1953, è impossibile sottrarsi all’impressione che l’autore in fin di vita avesse voluto includere se stesso e il suo collega all’interno di una cornice narrativa certo sfocata, eppure consapevolmente imperniata sui temi del distacco e della nostalgia. Al di là delle lacune del non finito, la trama frammentaria di A proposito di Cechov, uscito postumo a New York nel 1955 e ora riproposto da Adelphi nella accurata traduzione di Claudia Zonghetti (pp. 223, e 14,00), permette di comprendere «quale Cechov» l’emigrato Bunin avesse voluto consegnare alla posterità, costruendosi riga dopo riga un alter ego nutrito, ancor più che di ricordi personali, di suggestioni letterarie altrettanto vivide. Ma come mai l’anziano scrittore si era volto negli ultimi anni della sua vita a inseguire l’ombra dell’amico scomparso? Claire Hauchard, traduttrice in francese sia di Bunin che di Cechov, nota giustamente nella prefazione che l’impulso decisivo gli venne nel 1952 dalla lettura dell’epistolario cechoviano, da poco pubblicato in Unione sovietica e, innanzitutto, dalla scoperta dell’affetto con cui l’autore del Giardino dei ciliegi lo ricordava nelle sue missive a conoscenti e familiari. Eppure, per l’emigrato filomonarchico, malato e ormai ridotto in miseria, altrettanto impellente doveva essere stato il bisogno di smentire quel fantomatico messaggio cripto-rivoluzionario dell’opera cechoviana che la critica sovietica andava enfatizzando tendenziosamente. «Cechov filobolscevico, che assurdità!» aveva sbottato Bunin già nel 1947 in una lettera indirizzata all’amico Mark Aldanov, dopo aver scorso gli articoli di Vladimir Ermilov, gratificato nel 1950 del premio Stalin proprio per una monografia su Cechov. A quelle argomentazioni lo scrittore ribatteva affermando che, se non fosse morto prematuramente di tubercolosi, Ce- Mstislav Dobuinskij, «La vetrina del barbiere», 1906, Mosca, Galleria Tret’jakov; nella foto Ivan Bunin chov sarebbe certamente emigrato e avrebbe «frequentato insieme a noi i ristoranti parigini, mentre a Mosca gli Ermilov di turno sulla base di altre citazioni gli avrebbero dato del bandito filozarista. O, forse, si sarebbero limitati a non leggerlo». Fu dunque la consapevolezza delle distorsioni e delle forzature elaborate in Unione sovietica dai critici di partito a far condensare, intorno al ricordo di tante passeggiate e con- versazioni nella luce accecante della Crimea, il progetto di un libro che restituisse Cechov alla verità storica. Un testo, quello di Bunin, adattato all’orizzonte ideologico e esistenziale dell’emigrazione «bianca» e curiosamente destinato a uscire grazie a Aldanov per la Chekhov Publishing House, quella stessa casa editrice émigré fondata nel 1951 a New York nel quadro della lotta propagandistica anticomunista e antisovietica fi- nanziata dal governo americano. Nell’introduzione Claire Hauchard tace questi risvolti legati alle logiche della guerra fredda, finendo così per far apparire come ideologicamente neutrali scelte che, all’epoca, non lo erano affatto. D’altro canto, se la duplice distanza spaziale e temporale aveva consentito a Bunin di inserire il collega in qualità di personaggio all’interno della propria narrazione sull’epoca precedente i giorni «male- L’emigrato bianco ritorna a Cechov fra ideologia e ricordi ANTON CECHOV «Umoresche», dallo scherzo a brevi carcasse narrative, con illustrazioni d’epoca di STEFANO GARZONIO Tra le varie fonti d’ispirazione e gli esperimenti narrativi della prosa cechoviana un ruolo indubbiamente centrale è stato svolto dai brevi testi che venivano pubblicati su giornali e riviste di orientamento satirico e popolare. In particolare, ebbero un impatto significativo le brevi prose, scenette al confine tra genere narrativo e genere drammatico, che offrivano uno spaccato della vita quotidiana con accenti ora ironici e scherzosi, ora grotteschi e addirittura tragicomici. E d’altra parte proprio su giornali satirici, quali «La sveglia» o «Schegge» cominciò a pubblicare il giovane scrittore con pseudonimi vari, da «Anton Cechontè» a «L’uomo senza milza». I primi scritti, che lo scrittore piazzava per pochi soldi, sono riconducibili al genere breve della umoresque, definizione che, mutuata dalla musica, indica un breve testo, una miniatura in versi o prosa di natura umoristica e scherzosa. Cechov coltivò a lungo questo genere ibrido e variegato e nella raccolta accademica delle opere troviamo umoresche a partire dagli esordi della sua carriera nel 1880 almeno fino al 1886. Proprio a questa produzione cechoviana minore, ma non punto nella Liberazione di Tolstoj. In modo analogo, la trama intertestuale si compone qui non solo della corrispondenza già menzionata, ma anche e soprattutto di quella polifonia dissonante «a proposito di Cechov» che comprendeva voci come quelle del filosofo Lev Sestov e della poetessa Zinaida Gippius, nonché quel semi-dimenticato critico émigré, M. Kardjumov, che nel suo studio datato 1934 Un cuore in subbuglio tentò caparbiamente di istituire un nesso tra Cechov e la cosiddetta «anima slava». Non mancano neppure le osservazioni della moglie di Bunin, Vera, a cui lo scrittore costretto a letto dettò molti frammenti del libro. Incaricata di ricostruire il testo rimasto incompiuto, Vera Bunina smette di tanto in tanto i panni della vedova redattrice per rivelare gli autentici travasi di bile che la lettura dei critici sovietici riservava al consorte malato e che si traducevano immediatamente in epiteti irripetibili e sequele di punti esclamativi sui margini. Un posto di riguardo Bunin lo assegna invece alle memorie di Lidija Avilova, madre di famiglia non sprovvista di ambizioni letterarie che verso il 1890 si innamorò perdutamente di Cechov, tanto da rievocare la storia del suo amore impossibile in un medetti» della Rivoluzione, va detto moir pubblicato nel 1953 (Cechov che l’ombra di Cechov evocata in nella mia vita) che raccoglie tutti i queste pagine finisce talvolta per dis- più triti e innocui cliché sull’argosolversi, sovrastata com’è dalla voce mento e che pure dovette suscitare dell’io scrivente. Superfluo è infatti indignazione nei morigerati ambienl’invito di Hauchard a «scoprire die- ti letterari sovietici, se il curatore Kotro il ritratto il ritrattista», a tal pun- tov tenne a precisare nell’introduzioto evidente è la tendenza di Bunin ne che lo scrittore ricercava la comad alzarsi in punta di piedi e a far ca- pagnia dell’Avilova per discutere polino da dietro le spalle di Cechov con lei «di argomenti spinosi come con commenti a volte ridondanti, se la disuguaglianza dei ruoli all’internon francamente sgradevoli – ad no della famiglia». esempio, là dove a una confidenza Testo inevitabilmente irrisolto, A epistolare di Cechov sulla facilità proposito di Cechov riserva le sue con cui aveva scritto il Cacciatore in pagine migliori là dove Bunin si affiuno stabilimento balneare in mezza da al suo estro narrativo, ritraendo giornata fa seguire una osservazio- Cechov assorto a contemplare il ne che non può non suonare invi- mare «così vuoto» di Jalta, oppure diosa: «A onor del vero, a me Il cac- persuaso di poter sfuggire alla prociatore non piace, lo trovo fiacco». pria «malinconia congenita» con Se il sopraggiungere della morte un semplice giro notturno in carimpedì forse a Bunin di smussare ta- rozza. Inquadrature sfocate che il luni giudizi eccessivamente polemi- regista Bunin punteggia di dialoghi ci o maldestri, d’altronde l’accosta- rarefatti, in ossequio a quella risermento di lunghi stralci di citazioni vatezza che lo aveva tanto colpito da altri autori a note a margine per- in Cechov e che gli piaceva pensare sonali era una tecnica ben collauda- «figlia di uno spirito aristocratico, e ta che lo scrittore cui era stato dato del desiderio indomito di usare il Nobel nel 1933 aveva già messo a sempre le parole giuste». per questo meno viva e pulsante della grande stagione dei racconti e poi dei capolavori teatrali, è dedicata la bella raccolta antologica Umoresche (a cura di Carla Muschio e con uno scritto di Andrea Camilleri, pp. 228, e 12,00) che l’editore Barta presenta in un’edizione assai curata e corredata di numerose illustrazioni prese dalle pubblicazioni originali su rivista dei testi. Dal semplice scherzo aneddotico si arriva fino a brevi carcasse narrative, tutte caratterizzate da una lingua frizzante e da situazioni comiche e financo paradossali, in una resa italiana vivace e azzeccata. Ecco un’inserzione con richiesta di matrimonio di un giovane il cui scopo è di sposarsi «per motivi noti solo a me e ai miei creditori», scenette commiste di volgarità e equivoci al Salon de Variété, che si chiudono con questa convinzione: «se fossi io il padrone del Salon de Variété, farei pagare non l’entrata, ma l’uscita…». Si prosegue con altre inserzioni scherzose, riflessioni filosofiche semiserie, scenette e sketch dialogati, aneddoti e nonsense, strampalate dichiarazioni presentate come opera di tutta una disparata serie di tipi sociali e maschere letterarie, personaggi goffi e pasticcioni, eroi da nomi e cognomi parlanti o improbabili, lunghe tiritere in un burocratese parodistico. Giustamente, nella sua bella introduzione, Carla Muschio fa riferimento alla poesia di Kuz’ma Prutkov, poeta inventato da tre letterati ottocenteschi dediti allo scherzo poetico e ancora alla poetica dell’ultima scuola dell’avanguardia russa, l’Oberiu di Charms e Vvedenskij, che certamente seppe rileggere il retaggio letterario del primo Cechov. L’effetto è a metà strada tra l’esilarante leggerezza dello scherzo e lo squallido grigiore della banalità e della routine. Come non riconoscervi per alcuni tratti la celebre volgarità autosoddisfatta, la pošlost’ cantata da Nikolaj Gogol’, o anche il mitico «riso attraverso le lacrime»? I testi offrono un’immagine distorta, inusuale della realtà, mai direttamente volta alla critica del sistema sociale del tempo, ma comunque mirata a sottolineare vizi e deviazioni di una società in veloce trasformazione, ancora sottoposta a un opprimente sistema fatto di violenza e ingiustizia. Le bellissime illustrazioni d’epoca (alcune ad opera del fratello dello scrittore, Nikolaj) ci portano a ritroso nel tempo fino al gusto e alle tradizioni della satira giornalistica di fine Ottocento che anche in Russia riprendeva tratti e schemi del gusto occidentale. ALIAS DOMENICA 12 APRILE 2015 SCRITTO DALL’AUTORE SOVIETICO TRA 1926 E 1929, «CEVENGUR», IN EDIZIONE INTEGRALE DA EINAUDI PLATONOV Villaggio dell’utopia Un esperimento letterario per dare volto a un fenomeno fantasticato lungo i secoli e «ora» realizzato: il comunismo di SERGIO GIVONE In un punto imprecisato dell’immensa steppa russa c’è un villaggio che nessuna carta geografica riporta ma che ha un nome: Cevengur. Era da poco scoppiata la rivoluzione e a Cevengur accadde un fatto memorabile, benché non ricordato dagli storici: di colpo sbocciò il comunismo. Proprio come un fiore. E come un fiore appassì e si disfece nello spazio di un mattino. Che cosa abbia portato a Cevengur il seme del comunismo non è dato di sapere. Forse il diffondersi del sistema delle comunicazioni. O forse uno dei prodigi tecnici dell’epoca come ad esempio la ferrovia, nello specifico la ferrovia transiberiana. Lo dimostrerebbe il fatto che Cevengur ha un suo profeta e questo profeta, Zachar Pavlovic, che è di origine contadina, però non ha occhi che per le macchine create dagli uomini e quando per la prima volta vede una locomotiva ha come una rivelazione. Ma si può fare anche un’altra ipotesi. La seguente: che a rendere possibile il comunismo di Cevengur e a innescare un processo politico tanto complesso sia stato il sistema dei soviet. Come tutti sanno i soviet o «consigli operai» sono degli organismi cellulari dotati di una loro autonomia e capaci di riprodursi nel corpo della società esattamente come gli organismi cellulari nel corpo della natura. Questo permetterebbe fra l’altro di spiegare l’origine al tempo stesso naturale e politica di quell’evento che ha nome comunismo e che a Cevengur si è manifestato in modo emblematico. Sia come sia, ci troviamo di fronte a uno strano racconto che non sappiamo come definire e come catalogare: fiaba? romanzo? epopea? Ma i generi letterari qui non aiutano granché. Questo ha semmai l’aria d’essere un esperimento. Sì, un esperimento per portare alla luce con gli strumenti della letteratura e anche della filosofia i tratti di un fenomeno – il comunismo, per l’appunto – per secoli fantasticato e ora realizzato. A immaginarlo comunque è stato Andrej Platonov – Cevengur, a cura di Orbella Discacciati, Einaudi «Letture», pp. 506, e 26,00. Platonov si era dichiarato comunista fin da subito. Nel 1920 aveva preso la tessera del Partito (salvo restituirla poco dopo), prestando tuttavia al Partito la sua opera come ingegnere addetto alla bonifica delle campagne. Non ne sarebbe stato ricompensato in alcun modo; ma, ignorato dalla critica, sottoposto a censura, imprigionato, deportato, avrebbe continuato a credere nel comunismo. E a sperare nella sua realizzazione a venire. Anche quando, dopo la pubblicazione su rivista del racconto A buon pro, Stalin scrisse di suo pugno in margine: «Punire in modo esemplare i redattori, e che ‘buon pro’ gli faccia». Natura o società? Natura o politica? Natura o tecnica? Platonov muove da domande di questo genere. Sa bene che si tratta di un’opposizione inclusiva e non esclusiva. Ma pur sempre di un’opposizione. Tant’è vero che solo tenendo ferma l’antitesi fra i poli è possibile cogliere nella natura qualcosa ancora da scoprire: latenti potenzialità vitali, preziose riserve di senso, incomparabili sorprese. Solo comprendendo che la natura ha ben poco a che fare con quella che è o è stata la società fino ad ora, così come non ha nulla da spartire con la politica e men che nulla con la tecnica, secondo Platonov vedremo venirci incontro dal cuore stesso della natura la sola novità nella storia dell’uomo che è destinata a cambiare non solo la storia ma anche l’uomo: il comunismo. Dopo la quale novità non ci sarà più storia. Ma solo l’uomo senza storia perché vittorioso sulla finitezza, sulla caducità e sulla morte. Lo sa bene il piccolo Saška, figlio del pescatore che si immerse nello stagno per vedere che cosa ci fosse al di là e che lo stagno restituì tre giorni dopo senza vita. Che cosa ci fosse al di là della morte non lo scoprì il pescatore, ma lo scoprì Saška, già a diciassette anni diventato il compagno Dvanov, a Cevengur. Al di là della morte c’è la vita senza la morte. C’è la in attesa messianica vita qual è al di qua della morte. La vita senza la morte. Senza il male, senza la sofferenza, senza l’ingiustizia. La vita, e basta. La vita dove nessuno si chiede quale sia il senso della vita. La vita paga di sé, che non ha bisogno di nient’altro. Soprattutto se questo «altro» è il profitto e quindi lo sfruttamento, non solo sfruttamento reciproco ma prima ancora sfruttamento della terra. A Cevengur il comunismo è «la forza della natura» che preme tanto negli uomini quanto nelle cose e trova voce nelle questioni che gli abitanti si pongono liberamente gli uni gli altri, questioni come: se il potere dei soviet avrebbe potuto estrinsecarsi «all’aperto» o avrebbe dovuto costringersi nel chiuso delle istituzioni. Risposta: all’aperto. Infatti la terra offre spontaneamente a chiunque il nutrimento necessario – a chiunque si affidi ad essa senza pretendere se non ciò che essa ha da dare, e cioè la vita così com’è, la vita senza alcun surplus di vita. Profitto, sopraffazione, asservimento degli uni agli altri: tutte queste cose sono ciò che il comunismo non è, perché il comunismo è fiducioso abbandono alla vita, è vita che genera vita da sé, senza l’intromissione di pratiche apparentemente umane ma fondamentalmente disumane, come per esempio il lavoro. Certo il lavoro resta un problema. Non lo si può liquidare affrettatamente. Infatti viene discusso in quell’assemblea permanente che è Cevengur. La soluzione adottata porta la firma del compagno Prokofij e del delegato Cepurnyj: non si vede perché lavorare, se è vero che «ogni lavoro e impegno erano stati inventati dagli sfruttatori affinché oltre ai prodotti del sole restasse loro un plusvalore abnorme» e se è indubbio che «il sistema solare avrebbe fornito per certo la VITE D’ARTISTA di LUCA SCARLINI Colori carichi contro la morte, a Berlino. Due libri su Charlotte Salomon Il percorso dell’artista Charlotte Salomon (1917-1943) ha suscitato negli anni un vasto interesse e un seguito sempre più ampio di aficionados. La pittrice «autobiografica», testimoniata nelle quasi ottocento tempere che costituiscono il suo straordinario lascito di memoria, con il titolo, quasi sarcastico, Leben? oder Theater? (Vita? o Teatro?), narra in primo luogo le vicende, complicate, spesso funeste, della famiglia materna, votata al suicidio. Questo è il destino della zia, di cui porta il nome, che a diciotto anni si getta nelle acque del fiume a Berlino, e della madre, che soccombe alla depressione. Vicende tenute accuratamente nascoste alla bambina Charlotte, ma che riemergono prepotenti quando anche la nonna decide di togliersi la vita. Quella rivelazione è il primo motivo dell’incessante lavoro a cui dedica i suoi tre ultimi anni di vita: il risultato della sua ricerca estetica venne messo al sicuro, poco prima dell’arresto e della deportazione a Auschwitz. Lo ricevette in America, per tramite di mani amiche, la dedicataria, Ottilie Moore, e lei a sua volta ne fece dono al padre dell’artista, un forza vitale al comunismo, purché fosse assente il capitalismo». Rincuorato dall’acquisizione di questa certezza e rafforzato nella sua fede, dopo aver provveduto personalmente a far fuori e a seppellire i resti della borghesia di Cevengur, Cepurnyj va nel verde deserto dei campi a cercare «il presentimento del comunismo». Non lo trova. E purtroppo non lo trova neanche nei poderosi volumi di Karl Marx, stranamente. Ma per fortuna ci sono gli «ultimi». Essi non hanno nulla. Non solo. Hanno perduto tutto, in quanto sono stati strappati a un mondo (non importa quale) di valori simbolici, di significati condivisi, di sogni e di speranze, e neppure saprebbero dire da quando. Forse da sempre. Ma è proprio questa ultimità, questa povertà totale e senza rimedio, questo essere bisognosi di ogni cosa a far sì che ogni cosa di cui hanno bisogno gli sia restituita. E da chi, se non dalla natura? Infatti nella natura c’è tutto ciò di cui gli uomini hanno bisogno. Né si può dire che la natura tenga per sé questo suo tesoro prezioso. Al contrario, la natura propone se stessa in libera offerta a tutti – a tutti coloro che, trovandosi in una condizione di perfetta indigenza, sono in grado di corrispondere alla generosità della natura. Eppure i conti non tornano. A Cevengur la vita non è né lieta né felice. Nella patria del comunismo realizzato vivere è patire. Manca l’essenziale. Si fa la fame. Ma c’è di più. C’è che un bambino ha cercato inutilmente di suggere il latte ai seni di sua madre esausta ed è morto. Un bambino non può morire nella patria del comunismo realizzato. Se muore, quella non è la patria del comunismo realizzato, evidentemente. E allora come la mettiamo? Dovremo dire ancora una volta che l’utopia è fallita? O, peggio, che l’utopia non è altro che utopia e quindi non ha luogo perché non può averlo? Platonov con la sua parabola stralunata sembra suggerire un’altra ipotesi, tutta interna alla tradizione messianica. E chiede: forse che il messia non è sempre di là da venire? La parusia, il secondo avvento, la pienezza dei tempi non sono forse qui e ora a misura che non sono mai? Gli abitanti di Cevengur vorrebbero trasformare queste domande in delibere da mettere ai voti. Ma non ce la fanno. Arriva una banda di cosacchi che li passa tutti a fil di spada. medico illustre, che rimase sconvolto esaminando le numerose tavole. Per sua decisione le opere sono state donate al Rijksmuseum di Amsterdam, e in seguito sono giunte al Museo Ebraico della città, dove molti visitatori si recano a vederle. Dagli anni ottanta si sono susseguite mostre importanti nelle maggiori città del mondo (inclusa una di clamoroso successo alla Royal Academy di Londra nel 1998), e sono giunti spettacoli teatrali e monografie a raccontare questa vicenda, umana e artistica, complicata e dolente, segnata anche da un amore complesso e aguzzo per Alfred Wolfsohn, illustre maestro di canto, destinato a lasciare un folto gruppo di seguaci in Inghilterra, legato alla matrigna di Charlotte, il contralto Paula Lindberg. Se ancora manca una traduzione dell’ampio e fortunato saggio di Mary Lowenthal Felstiner, To paint her life, uscito nel 1994 da Harper Collins, ora l’editoria italiana ripropone il personaggio all’attenzione con due libri molto diversi. Skira manda in libreria La morte e la fanciulla di Bruno Pedretti (pp. 153, e 15,00), già uscito in una precedente versione da Giuntina nel 1998. L’autore ripercorre l’esistenza dell’artista a partire dalla forte suggestione musicale delle (3) GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri a cura di Roberto Andreotti Francesca Borrelli Federico De Melis redazione: via A. Bargoni, 8 00153 - Roma Info: tel. 0668719549 0668719545 email: [email protected] web: http://www.ilmanifesto.info impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. Bargoni, 8 tel. 0668896911 fax 0658179764 e-mail: [email protected] sede Milano viale Gran Sasso 2 20131 Milano tel. 02 4953339.2.3.4 fax 02 49533395 tariffe in euro delle inserzioni pubblicitarie: Pagina 30.450,00 (320 x 455) Mezza pagina 16.800,00 (319 x 198) Colonna 11.085,00 (104 x 452) Piede di pagina 7.058,00 (320 x 85) Quadrotto 2.578,00 (104 x 85) posizioni speciali: Finestra prima pagina 4.100,00 (65 x 88) IV copertina 46.437,00 (320 x 455) stampa: LITOSUD Srl via Carlo Pesenti 130, Roma LITOSUD Srl via Aldo Moro 4 20060 Pessano con Bornago (Mi) diffusione e contabilità, rivendite e abbonamenti: REDS Rete Europea distribuzione e servizi: viale Bastioni Michelangelo 5/a 00192 Roma tel. 0639745482 Fax. 0639762130 In copertina di «Alias-D»: «Tefillin shel Yad» del fotografo israeliano Benyamin Reich; in questa pagina, una scena dall’«Andrej Rublëv», ’66, di Andrej Tarkovskij composizioni (Lied e quartetto) di Franz Schubert. Il testo indaga in modo asciutto, usando come riferimento immagini cariche di segni e parole, il destino paradossale di una personalità nata e cresciuta sotto il segno della morte, a cui ha opposto la sua pittura vitalissima, dai colori carichi. Da Mondadori arriva Charlotte (che usa lo stesso Autoritratto per la copertina), romanzo in versi di David Foenkinos (nella traduzione puntuale di Elena Cappellini, pp. 200, e 16,00), acclamato in Francia al momento dell’uscita, lo scorso anno, con vendite notevoli. La scelta dell’autore d’Oltralpe è quella di una scrittura in versi, che in primo luogo pone in contatto chi scrive con l’avventura della ragazza berlinese, in fuga dalla cronaca oscura della sua famiglia e inseguita dalla furia cieca della Storia. L’autore perlustra Berlino alla ricerca dei «segni» lasciati dall’artista, si reca nella sua scuola, dove vede un antico gabinetto scientifico, pieno di curiosità d’epoca. Cerca di entrare nel palazzo dove abitava, ma ci sono lavori di ristrutturazione ed è scomparsa la lapide che segnalava la dimora di Charlotte Salomon, la quale visse i suoi ultimi momenti di libertà nel Sud della Francia. (4) ALIAS DOMENICA 12 APRILE 2015 TORNANO DOPO QUARANT’ANNI PER MIMESIS I DUE VOLUMI DI «TEORIA CRITICA» HORKHEIMER Pulsioni e marxismo in circuito virtuoso di STEFANO PETRUCCIANI La vicenda editoriale dei saggi di Horkheimer titolati, in due volumi, Teoria critica è singolare: scritti tra il 1932 e il 1941 e pubblicati sulla rivista dell’Istituto francofortese per la Ricerca Sociale, contengono una delle pietre miliari del pensiero della Scuola di Francoforte. Vi si trova, tutto squadernato, il pensiero della prima fase della teoria critica, che si concluse con la guerra mondiale, quando la visione dei francofortesi subì una radicalizzazione e un approfondimento il cui prodotto venne raccolto nella Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, datata 1947. Intenzionalmente dimenticati nel ventennio postbellico, questi saggi si dovrebbe piuttosto dire che furono nascosti e occultati. Come ha raccontato Habermas molti anni dopo, nel periodo postbellico dell’Istituto francofortese (una fase caratterizzata, non va dimenticato, dalla guerra fredda e da un possente anticomunismo in Germania occidentale), le annate d’anteguerra della Rivista per la Ricerca sociale (Zeitschrift für Sozialforschung), contenenti i saggi horkheimeriani, erano relegate in una cassa custodita nelle cantine dell’Istituto, alla quale era sconsigliato avvicinarsi, quasi fosse materiale radioattivo. Horkheimer non gradiva che si leggessero i testi che contenevano il suo contributo al marxismo critico, sia per ragioni di opportunità (non voleva che la sua istituzione apparisse troppo politicizzata e «comunista») sia per motivi teorici: aveva infatti compiuto un percorso che (approdato a una sorta di «teologia negativa») lo aveva portato molto lontano dalle sue tesi degli anni trenta. Verso la fine dei sessanta, però, il movimento degli studenti – famelico di marxismi eterodossi – cominciò a riscoprire i tesori nascosti della teoria critica: la Dialettica dell’Illuminismo, anch’essa fino a quel momento dimenticata, e i saggi di Horkheimer. E così, dato che questi testi cominciavano anche a circolare in edizioni pirata, il filosofo tedesco si decise nel 1968 ad accontentare il suo editore Fischer e a far ristampare quei materiali, specificando nel sottotitolo che si trattava di «una documentazione». Ovvero di un documento d’epoca, ri- FILOSOFIA ANTICA Rimeditare la «Retorica» di Aristotele col nuovo, ampio commento di Silvia Gastaldi spetto al quale andava evitata ogni indebita attualizzazione. Ma la documentazione era anche un po’ parziale; mancavano infatti proprio i testi più politici, estremi e radicali degli anni 1939-1942 – Gli Ebrei e l’Europa, Lo Stato autoritario, Ragione e autoconservazione – rispetto ai quali le resistenze di Horkheimer alla riedizione erano ancora più forti. Comunque, i due volumi di Teoria critica uscirono in Germania e furono tradotti anche in italiano dalla Einaudi, nel 1974; oggi tornano disponibili grazie a una coraggiosa iniziativa editoriale presso Mimesis (nella collana «Teoria critica» diretta da Lucio Cortella, pp. LV-690, e 38,00) con una penetrante introduzione di Alessandro Bellan, validissimo studioso della teoria critica e del pensiero dialettico, il cui lavoro esce postumo: l’autore è infatti scomparso prematuramente nel settembre del 2014, a soli quarantotto anni. Quanto ha potuto scrivere testimonia assai bene la sua passione intellettuale per il pensiero critico, e soprattutto per i francofortesi della prima generazione, latori di un messaggio di radicalità che non si trova più, dice Bellan, negli sviluppi ulteriori di cui Habermas è l’esponente più significativo. A chi abbia la pazienza di seguirne l’itinerario, questi scritti di Horkheimer consentono di ripercorrere la formazione della originale prospettiva della Scuola di Francoforte, di cui Horkheimer è stato il leader indiscusso. Molto chiaro, l’intento che persegue non ha eguali nel panorama del marxismo tra le due guerre: l’obiettivo è quello di riattivare il potenziale conoscitivo racchiuso nel pensiero di Marx attuando una decisa svolta teorica. Si tratta, dunque, di rideclinare il marxismo come ricerca sociale interdisciplinare, capace di interloquire alla pari con i saperi più avanzati del Novecento. In questa prospettiva Horkheimer traccia il quadro nel quale si dovrà inserire il lavoro dei suoi molti collaboratori: Friedrich Pollock si occuperà delle trasformazioni degli assetti economici; Leo Lowenthal svilupperà una critica sociale della letteratura; Adorno, non ancora centrale nell’organigramma dell’Istituto, traccerà le linee di una sociologia della musica; Marcuse supporterà Horkheimer sul terreno più squisitamente filosofico. Un ruolo di primissimo piano è svolto da Erich Fromm (lo psicoanalista freudiano che poi si allontanerà progressivamente dalla Scuola) poiché tra le convinzioni più radicate di Horkheimer c’era quella che non si potessero comprendere le dinamiche e le pulsioni delle masse novecentesche senza dotarsi di una nuova psicologia sociale materialistica, sviluppata attraverso una appropriazione critica del pensiero di Freud. L’indagine psicologica, molto presente nei saggi horkheimeriani, costituisce un anello essenziale per rispondere alla domanda di fondo che anima tutta la ricerca della Scuola di Francoforte: come è stato possibile che grandi masse, Hans Hartung, «T. 1947-12», 1947 comprendenti ampi settori della popolazione lavoratrice, anziché sostenere le forze politiche che appoggiavano i loro interessi e la loro emancipazione, abbiano ceduto alle seduzioni della propaganda totalitaria, consentendo la vittoria del regime nazista e degli altri totalitarismi europei? Le pulsioni autoritarie, il culto del capo, la disponibilità a perseguitare i deboli e i diversi, insomma tutti quegli elementi su cui i fascismi hanno fatto leva, devono essere indagati e compresi con strumenti che non appartengono all’originaria cassetta degli attrezzi marxista. Bisogna mettere al lavoro la teoria freudiana delle pulsioni e le decisive intuizioni sulla psicologia delle masse elaborate dal fondatore della psicoanalisi. Ma anche l’orizzonte filosofico ereditato dal marxismo va ripensato e rimesso in movimento. Una delle mosse decisive, da questo punto di vista, è la geniale invenzione di una nuova etichetta. Mentre il nostro Gramsci, scrivendo in carcere negli stessi anni, e affrontando problemi simili, ridefinisce il marxismo come «filosofia della prassi», Horkheimer lo reinquadra sotto la parola d’ordine «teoria critica». Certamente, come nota Bellan nell’introduzione, questa scelta terminologica risponde anche a motivazioni «politiche» di prudenza tattica: l’approdo dei francofortesi, nella seconda metà degli anni trenta, sono gli Stati Uniti; e sarebbe stato certamente molto difficile che la Columbia University (dove l’Istituto si collocò) ospitasse un gruppo di ricerca esplicitamente qualificantesi come marxista. Nella geniale scelta di Horkheimer, però, c’è anche molto di più: ripensare il marxismo come «teoria critica» significa, per dirla in poche parole, rimetterlo sul binario giusto: rompere con i dogmatismi e le ortodossie che condizionavano in modo nefasto il marxismo tra le due guerre e mostrare che ciò che di esso era veramente irrinunciabile stava nella capacità di lettura critica del presente: questa è la fondamentale indicazione che proviene da Horkheimer, e questa è anche la ragione, credo, per la quale, a molti decenni di distanza, la parola d’ordine «teoria critica» (soprattutto nell’universo anglofono, come critical theory) funziona ancora quale catalizzatore di molte e vivaci energie intellettuali. Occultati nel ventennio postbellico per opportunismo politico e teorico, questi saggi miravano a introdurre nell’orizzonte filosofico del marxismo altre discipline, e soprattutto la lezione di Freud, per potenziare la capacità di lettura critica del presente di CARLO FRANCO Seicento pagine sulla retorica? Sembra arduo vincere la diffidenza verso un libro che si presenta con una mole così minacciosa, e con un contenuto impegnativo, fatto di un lungo testo greco di Aristotele, della sua traduzione italiana, e di un esteso commento: Aristotele, Retorica, a cura di Silvia Gastaldi (Carocci, pp. 637, e 34,00). Opportuno sarà forse un approccio indiretto. Lo fornisce ottimamente uno smilzo libretto di Roland Barthes, La retorica antica (Bompiani, 1972¹), che presenta con adeguati schemi strutturali «l’albero retorico», visualizzando i temi e i problemi affrontati da Aristotele con dettagliata discussione. Barthes lavorava entro la rinascita di interesse per la retorica seguita alla pubblicazione del Trattato dell’argomentazione di Perelman-Tyteca (1958, trad. it. Einaudi, 1976), ma le sue riflessioni restano molto attuali. Egli evidenzia infatti ciò che oggi pare rendere la lettura della Retorica specialmente utile: il fatto che questa téchne è essenziale a comprendere i meccanismi comunicativi odierni, «dove regna il ‘verisimile’ aristotelico, cioè ‘quel che il pubblico crede possibile’». Si comprende allora subito, contro vecchie svalutazioni, che in Aristotele la retorica è vista non come inganno, o come orpello vuoto, bensì come scienza della persuasione. Proprio in vista di questo scopo essa rinuncia a perseguire una astratta e difficile «verità», orientandosi secondo le disposizioni reali del pubblico. In un paese come l’Italia, la cui scena pubblica è, da un ventennio almeno, stabilmente dominata non certo da rigorosi «maestri di verità», ma da truffaldini affabulatori dotati di varia piacioneria, non si potrebbe pensare a strumento più utile: quasi un antidoto salutare. Sivlia Gastaldi immette il lettore nella grande trattazione aristotelica, distesa su tre libri, per mezzo di un’introduzione essenziale. Qui viene messa in evidenzia anche l’ambiguità insita nella ricerca del filosofo: per metà manuale teorico «funzionale alla trasmissione di un sapere sul discorso», e quindi aperto all’uso dell’insegnamento (di là provengono in fondo i materiali che compongono il trattato); per metà anche metodo «per offrire ai cittadini la possibilità di comporre discorsi» razionali e persuasivi. Proprio la compresenza di questi obiettivi conduce Aristotele (a differenza di quanto accade in Barthes, ad esempio) a indagare con molto dettaglio non solo gli aspetti tecnici del discorso, ma anche la «psicologia» dell’emittente e del destinatario, i «caratteri» (éthe) di chi parla, e le «passioni» (páthe) di chi ascolta, e gli strumenti logici ed espressivi adatti a conseguire la persuasione: numerosi sono perciò i punti di contatto fra le riflessioni svolte nella Retorica, nelle grandi opere etiche, ma anche nella Poetica (sui tipi di linguaggio). Anche per questo, la Retorica appare specialmente complessa. Da un lato vi è l’analisi degli «strumenti», sempre forniti di puntualissime definizioni preliminari e di ampia casistica; dall’altro vi è anche la riflessione filosofica e pragmatica sulla comunicazione. Lo si vede bene nella discussione a proposito dell’argomentazione: essa muove dalla constatazione, di immediata comprensione a qualunque italiano, che «di fronte alle masse, i parlanti incolti sono più persuasivi di quelli istruiti», e che in tale contesto «la precisione sembra essere superflua e peggiorativa» (non così in tribunale). «VERBALIZZARE IL SACRO», L’ULTIMO LAVORO DI JÜRGEN HABERMAS HABERMAS di LUCA ILLETTERATI In un recente episodio di House of Cards, Frank Underwood, il cinico politico americano interpretato da Kevin Spacey, divenuto nella terza serie presidente degli Stati Uniti, entra in una chiesa dove viene lasciato solo a riflettere e rivolgendosi alla statua di un Gesù in croce, sputa sull’immagine sacra. Subito dopo con un fazzoletto cerca di pulirla (non per pentimento, solo per evitare di lasciare tracce imbarazzanti), ma la statua gli cade addosso rovinosamente e va in pezzi. L’episodio ha fatto molto discutere. Alcune comunità cristiane americane hanno protestato e alcuni commentatori, anche in Italia, si sono chiesti cosa sarebbe accaduto se Underwood avesse fatto lo stesso gesto nei confronti di un simbolo islamico. In generale la cosa non ha prodotto però, da noi, reazioni particolarmente scandalizzate. Forse perché la serie va in onda su Sky ed è dunque appannaggio di una nicchia e un’élite socio-economica tutto sommato ancora marginale, forse perché il cattolicesimo, sviluppatosi dentro le diatribe dell’iconoclastia, è piuttosto vaccinato rispetto all’uso e all’abuso dei simboli sacri, forse perché all’interno di società tendenzialmente secolarizzate c’è una distinzione piuttosto netta tra il disagio e persino lo scandalo che può provare il fedele e l’indifferenza dell’ateo o dell’agnostico. Di certo, il gesto di Frank Underwood è un gesto evidentemente religioso, che assume senso solo all’interno di una cornice religiosa e non a caso trova la sua scena all’interno di quel miscuglio di religiosità e pratiche secolari che caratterizza gli Stai Uniti, la cui società è stata spesso descritta come una sorta di eccezione al processo di modernizzazione e secolarizzazione che ha coinvolto invece soprattutto le società europee, l’Australia e il Canada. Ma in qualche modo, al di là della specificità contestuale, quel gesto è una rappresentazione spettacolare e per molti versi perfino caricaturale del rapporto niente affatto risolto o dissolto fra religione e politica, fra agire pubblico e mentalità religiosa, fra potere politico, secolare e laico, e società solo in parte secolarizzate e attraversate da flussi di fedi, invece, sempre più plurali e diversificate. Olafur Eliasson, «The Weather Project», 2003, Londra, Tate Modern Più che con altezzoso distacco converrebbe secondo il filosofo tedesco guardare alle tradizioni religiose valutando il loro contributo allo sviluppo di una razionalità comunicativa Su questo complesso rapporto è centrata l’analisi dell’ultimo lavoro di Jürgen Habermas, Verbalizzare il sacro Sul lascito religioso della filosofia (traduzione di Leonardo Ceppa, Laterza, pp. 308, e 28,00). Al cuore delle considerazioni di Habermas, che al solito si muove con maestria incrociando il piano schiettamente filosofico con quello sociologico, storico, politologico e in questo caso anche antropologi- La funzione evolutiva del rito nella genesi di concetti per la vita Esiste poi un solido rapporto, che non è sovrapposizione, fra retorica e politica: da tutto il trattato trapela la centralità della parola pubblica nella vita della polis, che al tempo di Aristotele non era più l’Atene mitica (o mitizzata) della democrazia di Pericle, ma che continuava a essere luogo di dibattito nelle assemblee deliberative come nei tribunali, e che costruiva la propria identità anche attraverso i discorsi «d’apparato» (quelli celebrativi, ad esempio). Aristotele, pur criticando gli autori dei manuali retorici per l’eccessivo rilievo da loro dato alle «passioni», supera però l’aristocratico disprezzo platonico per le masse, e si mostra ben consapevole del fatto che il discorso, che ha come unico scopo la persuasione, deve necessariamente essere adeguato ai livelli di comprensione dei cittadini. Essi non costituiscono un pubblico «ideale», riflessivo e razionale, ma sono invece molto condizionati dalla «persistenza, nella città, dell’antagonismo e dei valori competitivi». Chi parla può e deve pertanto valutare l’effetto sull’uditorio della paura e della vergogna, dell’entusiasmo e dell’ira, deve insomma dominare la «mozione degli affetti»: ma, osserva la Gastaldi, «la differenza tra il metodo retorico e il puro e semplice ricorso all’elemento passionale dell’uditorio consiste nel fatto che è il discorso stesso a suscitare o a placare le passioni». Le osservazioni di Aristotele in tema di psicologia dell’uditorio (ad esempio sugli atteggiamenti dei giovani, degli anziani e degli uomini maturi: pp. 206-13) aprono verso orizzonti che parrebbero propri della sociologia, se non dell’antropologia. Sono idee talvolta generiche, attente al carattere «medio» e stereotipato, ma proprio per questo particolarmente adatte a strutturare un discorso «mediamente» indirizzato a tali co e biologico, sta ciò che lui stesso indica come la sorprendente contemporaneità della religione. Il fatto cioè che la religione, contrariamente a quanto pronosticato da alcune teorie classiche della modernizzazione e della secolarizzazione, non è affatto un fenomeno del passato, o un rimasuglio di primitivismo arcaico che sopravvive nel presente: è invece una delle figure del tempo presente, peraltro quanto mai vitale e determinante nelle nostre pratiche di vita. Anzi, secondo Habermas, uno dei rischi delle società contemporanee, e soprattutto delle società europee e occidentali, è quello di non comprendere la complessità che la religione incarna e con ciò di trascurare gli elementi di opportunità (in questo sta forse l’elemento di maggiore originalità gruppi. Vi si ritrovano notazioni atemporali, come quella sui giovani che «vivono per la maggior parte del tempo nella speranza: la speranza riguarda il futuro, mentre il ricordo riguarda il passato, e per i giovani il futuro è lungo, mentre il passato è breve»; e altre osservazioni, invece, che suonano molto familiari per un lettore italiano: i ricchi «sono inclini all’oltraggio e arroganti, essendo in qualche modo influenzati dall’acquisizione delle ricchezze, voluttuosi per la mollezza e per mostrare la loro prosperità, pretenziosi e grossolani perché ritengono che gli altri agognino ciò che loro stessi agognano», e per questo desiderosi del potere politico. Il commento si estende per quasi trecento pagine: una dimensione notevole, che si spiega con la scelta di corredare il testo di due percorsi differenti. Vi è, primario, l’impegno ad analizzare discorsivamente le dif- dell’indirizzo habermasiano di questi ultimi anni) che le tradizioni religiose rappresentano per lo sviluppo di una razionalità comunicativa, di carattere pubblico. Habermas cerca in questo modo di insinuarsi fra una filosofia scientisticamente orientata, che tende a ridurre la complessità della vita degli uomini dentro schemi di naturalismo estremo e una filosofia delle visioni del mondo di stampo postmodernistico che considera le diverse narrazioni religiose della realtà come non solo tutte legittime all’interno degli specifici giochi linguistici che ciascuna incarna, ma anche strutturalmente impermeabili l’una all’altra e dunque impossibilitate ad apprendere reciprocamente e a mettersi in discussione attraverso reciproci rapporti di influenza. Si badi, non si tratta di mettere in questione il carattere secolare del pensiero post-metafisico, ovvero di quella razionalità che accetta di essere fallibile e che si gioca fondamentalmente nell’agone della comunicazione discorsiva a cui Habermas ha dedicato tutta la sua produzione dopo La teoria dell’agire comunicativo (Il Mulino 1986) e dopo il grande confronto con le pretese dissoluzioni del discorso moderno ad opera delle filosofie di stampo post-modernistico derivate dall’heideggerismo e dal post-strutturalismo francese (Il discorso filosofico della modernità, Laterza 1997). Ciò che si tratta di comprendere è che questo carattere secolare non può tradursi in indifferenza e altezzoso distacco rispetto alle religioni e ai loro contenuti. Anzi, compito del pensiero post-metafisico – che in quanto tale non è più un pensiero concorrenziale con le grandi visioni del mondo di carattere religioso – è semmai quello di tradurre concettualmente quelli che Habermas chiama, con espressione piuttosto ostica, i potenziali semantici non ancora sfruttati delle tradizioni religiose, ovvero di inserire attraverso questa traduzione i coaguli di significato che l’esperienza religiosa elabora all’interno del gioco discorsivo delle ragioni pubbliche. La mossa di Habermas è una mossa (anche se non esplicitamente dichiarata) classicamente hegeliana. Per Hegel, infatti, compito della filosofia è quello di tradurre le rappresentazioni in concetti, ovvero di trasferire quelle nozioni non chiarite e giustificate che attraversano le nostre pratiche discorsive quotidiane all’interno della sfera del concetto, ovvero all’interno di un processo di giustificazione che tende a togliere a queste nozioni (che sono non di rado anche per Hegel derivanti dalla rappresentazione religiosa) il carattere di mero presupposto o di verità dogmatica e perciò indiscutibile. Non accollarsi questo complesso lavoro di traduzione, significa, per Habermas, privarsi dei contenuti razionali che nella storia e nella genealogia dello spirito sono sorti all’interno di quelle prime forme di socializzazione del discorso che sono le pratiche rituali e cultuali. A una genealogia della ragione comunicativa è dedicata la prima parte del volume, nella quale Habermas, confrontandosi con studi di carattere antropologico e biologico, cerca di mostrare come il mondo della vita, ovvero quel mondo fatto di significati, tradizioni, pratiche sociali e istituzioni dentro al quale noi già da sempre ci muoviamo, sia un mondo di ragioni incarnate simbolicamente, nel quale il rito e dunque la dimensione comunitaria del culto ha avuto un ruolo evolutivo fondamentale. CONTINUA A PAGINA 8 ferenti sezioni del trattato, dipanando la trattazione densa di Aristotele con ulteriori sviluppi e con riferimenti al dibattito più recente: le note che ne risultano sono ampie al punto che ne sarebbe possibile anche una lettura autonoma. D’altra parte vi è la specificazione dei dettagli, del tutto indispensabili al lettore odierno, in quanto molti sono i testi o gli eventi a cui Aristotele accenna di sfuggita, e ciò richiede di individuare le citazioni di altri autori, spesso minori, e di chiarire i riferimenti storici. La conciliazione di queste due linee non è sempre agevole, perché esse implicano un «passo» differente: ma il risultato è di indubbio interesse, soprattutto se si rimeditano le parole di Barthes: dato che Aristotele fornisce – nella Retorica e anche altrove – la griglia analitica completa funzionale a comprendere le «comunicazioni di massa», «in regime democratico, l’aristotelismo sarebbe la migliore delle sociologie culturali». Dunque la Retorica va proprio meditata con cura. ALIAS DOMENICA 12 APRILE 2015 (5) BARUCH SPINOZA Lucas e Kohler biografi del filosofo olandese di ALBERTO GAIANI Come fu la vita di Spinoza prima di diventare l’autore che non si può ignorare se si vuole fare filosofia? Sulla sua fortuna postuma non c’è molto da discutere, o da aggiungere a quello che è già stato detto. Nelle Lezioni di storia della filosofia Hegel scrisse che il ruolo di Spinoza nel pensiero moderno è cruciale: dopo di lui, la scelta va tra l’essere spinozisti e non filosofare affatto. Poi, in tempi a noi più vicini, un profluvio di studi ha assunto il protagonismo di Spinoza a vario titolo. Solo due esempi: la ripresa di temi spinoziani nella riflessione politica contemporanea di Toni Negri e la ripresa anche critica della prospettiva spinoziana nelle discussioni di Damasio sulla filosofia della mente. Le prime due biografie di questo filosofo, scritte da Jean-Maximilien Lucas e da Johannes Kohler – poi latinizzato in Colerus – negli anni immediatamente seguenti alla sua morte vengono ora riprese da Quodlibet in un volume titolato Le vite di Spinoza (pp. 155, e 15,00). I due testi sono corredati da interessanti introduzioni (di Giorgio Agamben, di Filippo Mignini e del curatore della traduzione, Roberto Bordoli), da un ricco apparato di note, e da un’appendice curata da Patrizia Pozzi e dedicata alla biblioteca di Spinoza. Spesso l’elemento intorno a cui viene ricostruita la vicenda biografica e intellettuale di un uomo calmo, cauto e moderato è il cherem, l’anatema scagliatogli contro dalla comunità ebraica: conseguentemente, il pensiero spinoziano è stato identificato come esplosivo, sovversivo. Meno conosciuti gli aspetti apparentemente marginali della vicenda biografica di Spinoza, su cui Lucas e Colerus fanno luce, non senza incongruenze, contraddizioni, differenze tra loro. Perché se letti sullo sfondo della sua riflessione filosofica, questi aspetti assumono diversa consistenza. Spinoza si cimentò negli studi ebraici sin da bambino e mostrò subito una particolare inclinazione per l’attività intellettuale. Era uno studente prodigioso, e in lui già si vedeva il futuro rabbino di primo rango. Presto però cominciò a sentire angusto il mondo dell’interpretazione del testo sacro e volle ampliare il proprio orizzonte. Due sono le vie della sua emancipazione intellettuale: la prima, lo studio delle lingue classiche, il greco e, soprattutto, il latino. Il latino di Spinoza, nota Agamben nell’introduzione all’Etica pubblicata da Neri Pozza, è un idioma povero, dimesso, di registro basso, zeppo di residui terenziani. Eppure, anche senza la pretesa di essere l’aulico mezzo di una riflessione da far conoscere al mondo scientifico del tempo, assume lo statuto di veicolo della libertà di pensiero. Secondo tramite di emancipazione, il confronto con il pensiero di Descartes, che Spinoza trattò sempre come un maestro. Il riferimento era essenziale, sì, ma non intoccabile, tanto che Spinoza fece sistematicamente a pezzi la filosofia cartesiana. E forse proprio questo si impara da questo libro sulla vita del filosofo, che ci aiuta a fare la tara sulla fama dello Spinoza morto: che il modo in cui si parla, il modo in cui si scelgono le parole, la lingua che usiamo, non è indifferente per quanto vogliamo dire, e il linguaggio che adoperiamo è già un modo di far essere le cose. Che un maestro è un dono inestimabile, ma solo se si sa anche camminare da soli. Che la vita umana è spesso dispersiva, complicata e disordinata, e molto spesso lo è inutilmente. Ma che c’è un hortus da coltivare: il pensiero ha bisogno di calma, silenzio, solitudine. (6) ALIAS DOMENICA 12 APRILE 2015 «LE SCIMMIE», SCRITTO NEL 1969 DA JOSÉ REVUELTAS REVUELTAS DAL CILE Alejandro Zambra, «I miei documenti» di LISA MASIER Tre raccolte di poesia, tre romanzi caratterizzati da quella brevità che è una delle cifre stilistiche di tanta letteratura ispanoamericana del passato e del presente (due di volumi, Bonsai e Modi di tornare a casa, sono apparsi in italiano rispettivamente da Neri Pozza e Mondadori), un bel saggio intitolato No leer e nato dall’ attività di critico e recensore: a questi titoli il quarantenne Alejandro Zambra, forse lo scrittore cileno più tradotto all’estero e più celebrato della sua generazione, ha appena aggiunto I miei documenti (ottima traduzione di Maria Nicola, Sellerio, pp. 216, e15,00), in cui sono raccolti undici racconti che, pur sconfinando a volte nella pura e semplice annotazione diaristica o in una sorta di cronaca fin troppo evanescente, confermano tanto l’eleganza e la sobrietà di una scrittura ingannevolmente «naturale», quanto la chiara impronta autobiografica della narrativa di un autore definito «di stupefacente talento» dalla New York Times Book Review. L’esperienza personale alla cui luce viene riletta quella collettiva, la costruzione della memoria, il rapporto perplesso e indagatore dei bambini con gli adulti che nel Cile degli anni ’80 devono far fronte alla dittatura, l’adolescenza turbata dall’ipocrisia della transición verso una democrazia ambigua e incompleta, la famiglia come luogo di menzogne, segreti e silenzi, la ricerca del padre, la complessità e la fragilità del rapporto di coppia, la vita quotidiana monotona e frustrata di una classe media schiacciata dal neoliberismo: sono queste le esili vicende narrate per sottrazione, con una magistrale economia di mezzi e mescolando la malinconia all’umorismo, le sfumature liriche a una tenue crudeltà, e infine la cura per i dettagli, l’inclinazione a narrare attraverso «fotogrammi» ricomposti e sommati. I temi, le caratteristiche, le costanti dei romanzi di Zambra, anche nei Miei documenti tornano a rendersi visibili, non senza lasciare spazio a elementi nuovi. Il primo è la presenza forte della tecnologia, della cultura virtuale, dei computer in cui vengono travasate, ma anche cancellate e riscritte di continuo, la memoria e l’esistenza di ciascuno: macchine imperturbabili che arrivano a scandire, in uno dei racconti, la vita sentimentale di una coppia, e che rimodellano la voce e l’immaginario di chi ha fatto in tempo a crescere con la carta stampata e a partecipare a una transizione ben più ampia e planetaria di quella dalla dittatura alla democrazia («Mio padre era un computer e mia madre una macchina da scrivere», si legge nel primo racconto, quello che dà il titolo all’antologia). Il secondo è una serie di considerazioni non banali sulla forma, sulla scrittura, sul linguaggio e sulla sua circolazione, sulle parole e il loro modo di andare per il mondo: una riflessione che si insinua in diversi racconti e si fonde con le storie narrate, o come nell’ultimo racconto del volume, diventa storia a propria volta. Il terzo e il più promettente, infine, è l’avvio di un superamento dell’intreccio tra autobiografia e finzione che rappresenta il marchio di fabbrica di Zambra (come del resto, quello di molti scrittori latinoamericani della sua età o di generazioni successive); il delicatissimo esercizio narrativo che l’autore cileno ha sempre saputo compiere con equilbrio e sicurezza, qui sembra sul punto di trasformarsi in qualcosa di meno intimo e autoreferenziale, con esiti tali da suggerire un’interessante evoluzione futura. di FRANCESCO FAVA Scritto nel 1969, durante la detenzione di José Revueltas nel carcere messicano di Lecumberri, il racconto titolato Le scimmie si può oggi leggere finalmente in italiano (a cura di Alessandra Riccio, Sur, pp. 59, e7,00) ) confermandosi per il capolavoro che è e motivando il posto di assoluto rilievo che l’autore messicano occupa tanto nella storia letteraria latinoamericana quanto in quella del movimento operaio. Nato nel 1914 nello stato di Durango, cresciuto in una famiglia di artisti (un compositore, un pittore e un’attrice, tra i suoi fratelli), Revueltas fu un militante comunista sin da giovanissimo e un letterato autodidatta. «Ribelle e luciferino» lo defini il filosofo messicano Leopoldo Zea, accostandolo allo scrittore che Revueltas più amava, Dostoevskij. La sua vita è in effetti un appassionato succedersi di ribellioni e polemiche, riflessioni teoriche e abiure. Revueltas, nomen omen, è prototipo di un homme révolté insofferente nei confronti di ogni acquiescenza, ogni luogo comune del pensiero, ogni ingiustizia. I suoi due romanzi più importanti, El luto humano (del 1943) e Los días terrenales (del 1949), cercano nella forma del realismo critico una via alternativa alle semplificazioni del realismo socialista e del cosiddetto romanzo della rivoluzione messicana. Ambientati negli anni trenta, tra rivolte agrarie e tensioni sociali che pervadono ogni aspetto della quotidianità, i due romanzi esplorano la Quaranta pagine per una novella allucinata sulla disumanità di reclusi e secondini: un capolavoro della letteratura messicana complessità psicologica dei protagonisti senza nascondere contraddizioni e lati oscuri. Il libro del 1943 gli valse il Premio Nacional de Literatura; quello del 1949, la condanna da parte del partito comunista messicano (e di molti colleghi, tra cui Pablo Neruda), che lo accusò di «esistenzialismo». Fu in un suo romanzo successivo, Los errores, che Revueltas avrebbe esplicitato, attraverso le parole di uno dei personaggi, il dilemma cruciale della sua traiettoria politica: «su di noi, i comunisti autentici – membri o meno del partito – peserà il terribile, il soverchiante compito di collocare la storia dinanzi al bivio di decidere se quest’epoca, questo secolo pieno di perplessità, sarà definito come il secolo dei processi di Mosca o il secolo della rivoluzione d’ottobre». Sebbene la storiografia sia ricorsa a formule assai diverse per definire il XX secolo, è la coscienza di questo bivio, sempre presente in José Revueltas, a fare da bussola nelle sue scelte intellettuali. Nella travagliata storia della sinistra messicana – passando attraverso il trotskismo, l’elaborazione dello spartachismo, i diversi movimenti e gruppi politici a cui si avvicinò e da cui più volte si ritrovò a essere espulso – Revueltas si fece notare per il suo coraggio e per la sua integrità, finendo per diventare un punto di riferimento morale e ideologico per il movimento studentesco del ’68. Un mese dopo il massacro di Tlatelolco, nel novembre del 1968 la furia repressiva della presidenza Díaz Ordaz lo condusse nel carcere di Lecumberri; in quella prigione concepì e ambientò la sua opera più visionaria: El apando (letteralmente, la cella di isolamento), in apparenza un testo meno politico dei precedenti, ma senza dubbio, come sottolinea Elena Poniatowska nel saggio incluso come postfazione del volume edito da Sur, il suo testo più «universale». Nonostante «scimmie» sia senz’altro la parola chiave del testo, lascia qualche dubbio la decisione di presentare l’opera affidandosi a questo che è l’appellativo con cui, sin dalla prima riga, i tre reclusi protagonisti del racconto si riferiscono alle guardie carcerarie. La disumanizzazione, però, coinvolge sia gli uni che gli altri, le figure tetre dei secondini come quelle brutali di Albino, Polonio e il Coglione, i tre compagni di cella intorno ai quali si im- pernia il racconto: serrato e claustrofobico, non lascia respiro distendendosi per quaranta pagine senza mai andare a capo. Un racconto allucinato: i tre protagonisti sono tossicodipendenti, e il disperato tentativo di farsi recapitare la Lacrime e rabbia, dal carcere di Lucumberri HERNÁN RONSINO Fantasmi letterari tra le strade di Chivilcoy: «Biografia di un albero» di STEFANO GALLERANI Appena tradotto in italiano con il titolo Biografia di un albero (traduzione di Stefania Marinoni, Gran-vía, pp. 280, e 16,00) e aperto in esergo da una citazione di Cesare Pavese («Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta») e da una di Carlos Mastronardi («Avevamo un grande albero», Lumbre è l’ultimo libro dello scrittore argentino Hernán Ronsino – il quarto dopo la raccolta di racconti Te vomitaré de mi boca (2003) e i romanzi La descomposición (2007) e Glaxo (2009; per meridiano zero nel 2013). Quasi fosse parte di un ciclo, con questi ultimi due testi Biografia condivide una serie di personaggi ricorrenti, atmosfere analoghe e un luogo, la cittadina di Chivilcoy (dove Ronsino è nato, nel 1975), nella quale il narratore, Federico Souza, sceneggiatore di cinquantatré anni con alle spalle un libretto giovanile di versi intitolato Paráiso, torna per appena tre giorni, dal 2 al 4 marzo del 2002. L’occasione che lo riporta tra le strade della sua infanzia è la morte dell’amico e mentore Fernando Lernú, droga anche in cella d’isolamento costituisce l’episodio centrale del testo, determinando un crescendo rabbioso che conduce all’inevitabile deflagrazione finale. Revueltas non espone una tesi, non si propone di stabilire chi siano le vittime e chi i carnefici, lasciando al lettore il compito di constatare la perdita di senso di ogni distinzione, tra prigionieri e sorveglianti, buoni e cattivi, liberi e reclusi. Nel carcere descritto da Revueltas, nei pensieri e nelle ossessive fantasie dei tre detenuti nessun sentimento, neppure il pianto, è in grado di nobilitare o riscattare le ferite di una condizione umana imprigionata. Anzi, le sottolinea, ne approfondisce le cicatrici: «Le lacrime grosse e lente scivolavano lungo la guancia in corrispondenza della vecchia rasoiata che andava dal sopracciglio al mento, invece di una linea detto Pajarito – uccellino – vero e proprio protagonista assente del romanzo. Seguendo il filo di una memoria puntuale e rizomatica, intorno a lui e alla sua enigmatica figura Federico ricostruisce la mitologia collettiva di Chivilcoy: un microcosmo che echeggia il passato prossimo di una intera nazione e che prende vita da una dinamica di sovrapposizioni e incroci in cui episodi apparentemente insignificanti si alternano ai piccoli momenti fondativi della storia locale. È in questo modo, ad esempio, che all’evocazione della figura del bidello Elvio Mangusi (la cui vita fu, in realtà, «l’imitazione, ininterrotta, di una vita») succede la ricostruzione della genesi della pellicola La sombra del pasado, girata da Ignacio Tankel a Chivilcoy, nel 1946, e imperniata sull’assassinio verticale seguivano il corso della cicatrice e gocciolavano dalla punta del mento, lontane dagli occhi, lontane da qualsiasi pianto umano». Autore assolutamente necessario anche, ma certo non soltanto, in virtù della sua scomodità, Revueltas raggiunge il culmine della propria espressione letteraria non solo grazie a una scrittura meticolosa e acuminata, ma anche, e soprattutto, per un gesto che è insieme letterario e politico: guardare negli occhi ciò da cui si è soliti distogliere lo sguardo, proprio parlando dal carcere, e provocandoci a una lettura che inevitabilmente chiama in causa anche il nostro qui e ora. José Clemente Orozco, «Mano», 1947, Guadalajara, Instituto Cultural Cabañas del poeta modernista Carlos Ortiz, sodale di Rubén Darío e Leopoldo Lugones. Coautore del film, insieme a Tankel, fu Julio Cortázar, che a Chivolcoy visse dal 1939 al 1944 e nelle parole di Souza/Ronsino diventa Julio Denis, uno dei numerosi fantasmi letterari che si nascondono tra le pieghe del romanzo e confondono la propria storia con quelle degli abitanti della piccola città bonaerense. Pure, oltre la felicità affabulatoria e i pregi di una scrittura mai sopra le righe, ciò che maggiormente colpisce nel romanzo di Hernán Ronsino (tra gli scrittori più interessanti, con Matías Nespolo, di una generazione che dimostra d’aver bene assimilato le lezioni di Rodolfo Walsh e Juan José Saer) è il modo in cui i ricordi e il tempo trascorso diventano tutt’uno con un paesaggio che è esso stesso memoria, perché «ricordare è costruire un sentiero che, a forza di insistere, rimane impresso nella terra»; un sentiero da battere continuamente con la scrittura per evitare che l’incuria – ovvero l’oblio – lasci spazio a una vegetazione fitta, che «tesse veli. E divora, senza tregua, il sentiero creato dall’insistenza». ALIAS DOMENICA 12 APRILE 2015 DA SUR «I LANCIAFIAMME», UN ROMANZO DEL 1931, SEGUITO DI «I SETTE PAZZI» ARLT di FRANCESCA LAZZARATO «Erdosain fissò un attimo gli occhi sul viso romboidale dell’altro; quindi, sorridendo con aria scherzosa, disse: – Lo sa che lei somiglia a Lenin? E, prima che l’Astrologo potesse rispondergli, se ne andò». «L’Astrologo restò a guardare Erdosain che si allontanava, attese che voltasse l’angolo ed entrò nel giardino della villa, mormorando: - Sì... ma Lenin sapeva verso cosa stava andando.» I due paragrafi, perfettamente consecutivi, sembrano far parte di un unico testo: il primo, invece, conclude I sette pazzi di Roberto Arlt, apparso nel 1929, e il secondo I lanciafiamme, che l’autore pubblicò due anni dopo, sottolineando nella prefazione – che è anche una sorta di manifesto sul suo modo di concepire la letteratura come «cross alla mandibola del lettore» – la continuità tra i due romanzi, così assoluta da poterli in realtà considerare uno solo. Vi vengono narrate le vicende di un gruppo di personaggi che, guidati da un leader improbabile come il misterioso Astrologo, si riuniscono in una ancor più improbabile società segreta decisa a finanziarsi tramite una rete di bordelli e a scatenare la rivoluzione in un’Argentina inquieta e delusa. Considerato il capolavoro di Arlt – che aveva già pubblicato nel 1926 Il giocattolo rabbioso e che avrebbe concluso la sua attività di romanziere nel 1932 con il meno riuscito L’amore stregone – questo singolarissimo unicum narrativo è già apparso nella nostra lingua in edizioni diverse che ne hanno però privilegiato la prima parte, mentre della seconda si conosceva fino a oggi solo la traduzione di Luigi Pellisari pubblicata da Bompiani quarant’anni fa. A ricomporre il dittico e a riportare in libreria, proprio in questi giorni, l’introvabile I lanciafiamme (traduzione di Luigi Pellisari, pp. 384, e 15, 00) sono le edizioni Sur, che vanno presentando da qualche anno un vasto panorama di testi capitali della letteratura latinoamericana, e che nel 2012 avevano già riproposto I sette pazzi: ma nel medesimo catalogo c’è anche l’antologia arltiana Scrittore fallito, ed è annunciata l’uscita autunnale di altri racconti, tra i quali il celebre El jorobadito. Se la scoperta di questo ormai osannatissimo scrittore da parte dei lettori italiani è stata tardiva – risale infatti ai primi anni ’70 – e limitata a pochi titoli, sembra dunque che si stia recuperando il tempo perduto, così come è avvenuto da tempo in Argentina, dove la fortuna dell’Arlt narratore è stata soprattutto postuma e l’attenzione dell’accademia, che ha prodotto MARCELO DAMIANI Dominato dall’apatia «Il mestiere di sopravvivere» alterna filosofia e mistero Alimentato da una prodigiosa operazione formale, l’universo narrativo dello scrittore argentino affianca alle sue ossessioni il ritratto espressionista di un popolo umiliato e spesso feroce Una rivoluzione tramata nei bordelli una enorme mole di studi, è cresciuta con lentezza, giungendo infine a ribaltare i feroci giudizi con cui fu a suo tempo accolta: perché l’autore era accusato di «scrivere male» e percepito come estraneo sia al canone di una letteratura intesa come belles lettres, sia al realismo sociale dell’Editorial Claridad di calle Boedo, attorno alla quale si riunivano gli scrittori apertamente di sinistra ai quali Arlt è stato spesso associato. Quanto sia improprio questo accostamento, e quanto vago e contraddittorio il rapporto che lo scrittore intratteneva con i socialisti e i comunisti del gruppo di Boedo, lo dimostrano proprio romanzi come I sette pazzi e I lanciafiamme, là dove confermano, concentrano ed esasperano i temi di un autore che giustamente Beatriz Sarlo definisce non solo eccentrico, ma anche «estremista», convinto com’era che fosse possibile sovvertire l’ordine esistente soltanto per mezzo della violenza. L’universo narrativo di Arlt include, ovviamente, le sue personali ossessioni (il denaro, la passione per la tecnica, il disprezzo per l’avida meschinità piccolo-borghese, il terribile rapporto col padre e quello difficile con le donne, il tentativo di affrancarsi da una vita misera e oscura attraverso assurde invenzioni scientifiche) e poi tutto ciò che gli scrittori suoi contemporanei non vedono, o vedono soltanto attraverso lenti puramente ideologiche, o fingono di non vedere: sottoproletari, piccoli delinquenti, prostitute, popolane sfinite, ragazzi di strada, insomma il popolo umiliato, marginale e spesso feroce che sopravvive nei bassifondi del «bosco di mattoni» di Buenos Aires, di RAUL SCHENARDI Il Museo del romanzo della Eterna dell’argentino Macedonio Fernández, che fece dire a Borges: «lo imitai, fino alla trascrizione, fino al devoto e appassionato plagio», perché non imitare il suo canone «sarebbe stata un’imperdonabile negligenza» – ha inizio con cinquantasette prologhi. Marcelo Damiani, che appartiene alla stessa stirpe letteraria, apre Il mestiere di sopravvivere (traduzione e cura di Marcella Solinas, Arcoiris, pp. 172, e 12, 00) e il suo precedente romanzo, El sentido de la vida, con prologhi apocrifi scritti da lui stesso. Non è l’unico punto di contatto con la grande tradizione rioplatense: «l’isola», il luogo immaginario, metafisico ma non per questo meno reale in cui ambienta le sue storie, rimanda inevitabilmente alla Santa María di Onetti e alla «zona» di Saer, ovvero al territorio dell’invenzione letteraria, allo scenario del «piccolo teatro del mondo». Damiani è un appassionato cinefilo e nel romanzo loda Brazil e L’esercito delle 12 metropoli in perpetua espansione, che lo scrittore conosceva a fondo per via dei lunghi vagabondaggi compiuti in cerca di materiale per le Aguafuertes porteñas (le cronache pubblicate da Arlt per alcuni anni sul quotidiano El Mundo) e da lui reinventata attraverso turbolente metafore e tenebrose immagini geometriche, da più parti messe in relazione con l’espressionismo tedesco, o con una sorta di cubismo apocalittico. È questa la società che i protagonisti dei Sette pazzi e I lanciafiamme vorrebbero radere al suolo per costruirne un’altra dai contorni ancora imprecisati, mescolando alla rinfusa nazionalismo, fascismo, comunismo e perfino brandelli di occultismo, fino a svuotare le ideologie di qualsiasi senso e significato per sostituirle con uno spazio di pura eversione, in cui confluisco- scimmie ma, come suggerisce la curatrice nell’acuta e esauriente postfazione, è impossibile non cogliervi anche un omaggio a Rashomon, poiché vengono presentate tre versioni diverse della stessa scena dal punto di vista di tre personaggi. Damiani è anche un ex scacchista di professione, e nel primo capitolo, «Paradiso perduto», ci presenta un gruppo di allievi di una curiosa università di (7) no la rabbia o la disperazione di personaggi connotati da soprannomi significativi come il Cercatore d’Oro, il Ruffiano Malinconico, l’Avvocato, e chiamati a rappresentare grottescamente sia le diverse voci del discorso pubblico in corso all’epoca, sia il sottofondo cospiratorio della vita politica argentina di allora, preludio al golpe militare del 1930 e alla deposizione del presidente Yrigoyen. Scritti subito prima del colpo di stato, i due romanzi acquistano dunque, come lo stesso Arlt mette in evidenza in una postilla alla terza edizione dei Sette pazzi, una dimensione quasi profetica, ma, poiché adottano il punto di vista di protagonisti persi in un delirio tanto personale quanto collettivo, rientrano a fatica nella dimensione crudamente realista di molti dei racconti di Arlt e anche del Giocattolo scacchi che si preparano a una gara con una squadra avversaria e discettano sulla filosofia e l’estetica del gioco, mentre la voce narrante dichiara l’intenzione di suicidarsi. Nel secondo capitolo, «L’inconveniente di essere nato», solo il nome di un professore, che medita di scrivere un saggio sulla relazione tra la felicità e la morte, stabilisce un sottile legame con quanto precede, e proseguendo nella lettura si ha l’impressione di leggere dei racconti relativamente autonomi. Ma poi ogni tassello va al suo posto per ricostruire le vite di alcuni personaggi quasi archetipici dell’ambiente letterario e giornalistico: uno scrittore alcolizzato che la moglie tradisce con un editore canaglia, la giovane ammiratrice e amante, un critico rancoroso. Tutti si dibattono in problemi esistenziali, ma solo a tratti scivolano nell’isteria o nel delirio: a prevalere è una sorta di sonnambolica apatia profonda, «quella sorta di indifferenza generalizzata che hanno tutti gli atti dell’uomo postmoderno». Lo scrittore soffre addirittura di amnesie, di rabbioso, pur essendo pienamente capaci di interpretare e restituire un preciso contesto storico e ideologico, la frustrazione delle classi medie e il furore dei bassifondi, l’ossessione del potere, la crescente sfiducia nella democrazia. E se I sette pazzi racconta, riflettendola in uno specchio deformante, l’Argentina pre-golpe, I lanciafiamme sembra piuttosto esprimere, attraverso la progressiva dissoluzione della società segreta capeggiata dall’Astrologo e una catena di delitti e di suicidi alimentati dalla disperazione, dalla colpa o da un’insensata crudeltà (e raccontati, a tratti, con un violento, sarcastico umorismo), la delusione successiva al golpe e un pessimismo senza rimedio, immancabilmente confermato dagli eventi. Ma, oltre a captare meglio di chiunque il clima dell’epoca, Arlt compie anche una prodigiosa operazione formale, attingendo a tutto ciò che la letteratura argentina ignorava con ostentazione, dal feuilleton alla cronaca nera, dalla divulgazione scientifica al cinema e al teatro popolare, e incrocia il tutto con le sue vaste letture di autodidatta, raccogliendo suggestioni e segnali dell’avanguardia europea e servendosi all’occorrenza di una lingua parlata e di strada che includeva il vocabolario e la sintassi del lunfardo e del cocoliche (le neolingue degli immigrati), manifestazione tangibile di una nuova identità in costruzione, di un colossale e ribollente melting pot. Altrettanto innovativo è stato il suo modo di mettere in relazione mercato e letteratura, di intuire per primo la natura di una nascente industria culturale, di rivolgersi a un pubblico che non fosse soltanto quello colto e borghese di sempre; è anche per questo che la narrativa di Arlt e la scrittura rude e sincopata dei suoi romanzi sono diventate un vero e proprio ariete da scagliare contro le convenzioni, per consentire l’irruzione della modernità nella letteratura argentina, proiettandola verso il futuro. A tutt’oggi, la sua opera mantiene un carattere di unicità che non permette al canone di inghiottirla e normalizzarla, come sempre avviene: pur senza «figli» né epigoni, Arlt ha lasciato dietro di sé tracce profonde e riconoscibili, e la precisa sensazione che la sua presenza sia ancora quella forte, intensa e in qualche modo rivoluzionaria che affiora dalla lettura dei Lanciafiamme. Roberto Arlt, foto Veronique Pestoni cui approfittano l’editore e la moglie per fargli firmare il contratto per un libro che non ha scritto (titolo: Vivere è un plagio). Il romanzo, denso di idee filosofiche – fanno capolino Cioran e, a più riprese, Nietzsche – e di gustosi riferimenti intertestuali, ha una chiara impostazione sperimentale, che l’autore riesce però con abilità – mediante la rivisitazione di vari generi, dalla spy story al dramma della gelosia – a trasformare in un romanzo d’azione, in cui abbondano trame e misteri, coinvolgendo il lettore nel compito di dipanare la matassa. Damiani non spreca frasi: ogni dettaglio, anche quando si tratta di digressioni metaletterarie, concorre alla costruzione del puzzle, né si risparmia giochi di parole, notazioni ironiche che, senza mai abbassare il tono della narrazione, creano un effetto di distanziamento rivelando una propensione per la dimensione ludica della letteratura. Un libro da ri-leggere, sia per coglierne le molteplici sfumature, sia per godersi la limpida prosa di uno degli autori più interessanti delle nuove leve argentine. (8) ALIAS DOMENICA 12 APRILE 2015 ALLA LENBACHHAUS UNA MOSTRA SU «UN’AMICIZIA ARTISTICA» DA MONACO August Macke bussa alla porta di Marc... di CLAUDIO GULLI MONACO DI BAVIERA In origine, la Lenbachhaus era la villa di quel pittore – Franz von Lenbach (1836-1904) – che professava, con spavalderia tenebrosa, alta fedeltà a Rubens e Tiziano. Una residenza in stile neorinascimentale che diviene poi pinacoteca civica (1929) e trova, in seguito alla donazione di Gabriele Münter (’57), la felice funzione di luogo d’approdo delle opere del ‘Cavaliere azzurro’. Da qualche anno, dopo l’intervento di Foster and Partners (2003-’13), alla Lenbachhaus non si accede più dal giardino all’italiana, ma da un cubo di ottone, e all’ingresso appeso al soffitto è un monumentale caleidoscopio di Olafur Eliasson (2012). Eleganza, luce diurna e forza del bianco sono garantite quando c’è di mezzo l’architetto-baronetto, ma meno del British, del Reichstag o delle Sackler Galleries alla Royal qui riesce il suo incantesimo di integrazione col passato. La villa era in asse con la Gliptoteca, si innesta- va entro la tessitura neoclassica di quel genio urbanistico che fu Leo von Klenze: rapporti ora meno leggibili. Meglio allora il modernismo del Kunstbau (1988-’94), un semi-interrato progettato per le esposizioni dal tedesco Uwe Kiessler: le sale sono visibili dalle scale mobili della metropolitana e la città può, ILLETTERATI DA PAGINA 5 La proposta di Habermas per «tradurre» la religione Ruolo che non si tratta semplicemente di riconoscere come una alterità da cui si proviene, ma come qualcosa di istitutivo e determinante le nostre stesse pratiche razionali. I potenziali semantici della religione, che la filosofia è chiamata a tradurre per porli all’attenzione delle ragioni pubbliche, sono appunto quei contenuti di pratiche sociali fondamentali nello sviluppo delle comunità umane che si sono depositati in forme simboliche e che una volta tradotti possono essere riconosciuti razionalmente anche al di fuori della specifica cornice religiosa o rituale che li ha connotati. L’idea di fondo di Habermas non è banalmente e semplicisticamente traducibile nella difesa di un concetto di razionalità tollerante e aperto. Alla ragione laicista e secolarista – termini che egli distingue in modo piuttosto rigoroso da secolare e laico, attributi che la razionalità deve necessaria- anche di sfuggita, gettare un’occhiata a un dipinto. Qui, in collaborazione con il Kunstmuseum di Bonn, il museo ospita una mostra su un’amicizia di artisti: August Macke und Franz Marc Eine Künstlerfreundschaft, a cura di Volker Adolphs e Annegret Hoberg (specialista di Marc e autrice di un lucido saggio nel catalogo, Hatje Cantz, in inglese e tedesco, pp. 359, e 39,80). A Monaco, il 6 gennaio 1910, tre giovani pittori bussano allo studio di Marc. Hanno visto in una galleria una sua litografia, di cavalli grigi e panna – e c’era la semplicità degli Egizi, di Giotto, ‘qualcosa di gotico-cortese’ (Macke a Marc, 26/12/’10). Vanno subito a trovarlo. Uno dei tre è Macke: ha ventitré anni, ha appena sposato Elisabeth Gerhardt, ricca, bella, in stato interessante, e per di più nipote di un collezionista decisivo, Bernhard Koehler (un altro dei tre è suo figlio). Questo enfant prodige che ha preferito le lezioni berlinesi di Lovis Corinth all’accademia di Düsseldorf, cresce studiando dal vero vol- mente possedere se vuole svolgere una qualche funzione di mediazione e traduzione – Habermas intende mostrare come un intero vocabolario che ha a che fare con la comprensione che noi abbiamo di noi stessi e del nostro ruolo nel mondo si sviluppi a partire da istanze religiose: libertà, eguaglianza, solidarietà sono concetti che entrano nella vita degli uomini attraverso la dimensione simbolica comunitaria del rito, che svolge così una funzione in qualche modo anche di resistenza rispetto a pratiche puramente egoistiche (e naturali) di sopravvivenza individuale. Lo stato secolare, secondo Habermas è certamente una delle grandi conquiste della modernità. Ma sarebbe un errore pensare che a stati secolari corrispondano società del tutto secolarizzate. Ciò con cui siamo chiamati oggi a fare i conti è invece la necessità di difendere la secolarità delle istituzioni riconoscendo a un tempo libertà di azione pubblica alle diverse immagini del mondo che sono attive all’interno delle società post-secolari. Una libertà di azione che deve però accogliere quella che Habermas chiama la clausola di traduzione: la possibilità di vedere riconosciuti contenuti specifici della semantica religiosa all’interno della ragione pubblica implica, infatti, che questi contenuti possano essere tradotti ti e strade, antichi maestri, caffè e teatri. Ha un bagaglio di cultura europea, forte di viaggi in Italia, Londra, Berlino e soprattutto Parigi: tre volte. A queste date (fine 1909), i ritratti di sé e di Elisabeth sono pagine felici di un fauvismo organizzato e delicato. I tre giocano a carte scoperte: ‘Cézanne è il loro dio’ (Marc a Maria, 6/1/’10). Il pittore che apre la porta attraversa invece una situazione, esistenziale e pittorica, tutta diversa. Ha quasi trent’anni, difficoltà economiche, un matrimonio fallito alle spalle. Verso il ’06 aveva incontrato la pittrice Maria Franck, che diverrà la compagna della vita e, nella chiarezza di un’estate, aveva dipinto le due donne, distruggendo poi la parte riservata all’ex-moglie. Una pittura di bagliori postimpressionisti, che matura nel ’07 con un soggiorno parigino: scopre Van Gogh, Gauguin, la scultura egizia e medievale, infine Rodin (Marc a Maria, 13/4/’07). In Marc, una sottotraccia di tensione è ora filtrata da soffuse atmosfere prealpine, da accordi chiari condotti secondo lumino- all’interno di una grammatica e di una sintassi tendenzialmente universali, dunque svincolate da ogni tradizione specifica. E qui forse sta il problema di fondo dell’impostazione pur rigorosa e mai banale di Habermas: siamo sicuri che le immagini del mondo religiose siano disposte ad accogliere sempre fino in fondo la clausola di traduzione? L’accettazione di questa clausola da parte delle comunità religiose non implica in qualche modo lo scioglimento della sostanza che tiene insieme e identifica quelle comunità? E più radicalmente ancora: siamo sicuri di poter tradurre contenuti determinanti e decisivi delle diverse tradizioni religiose all’interno di una lingua universale che trascende i confini delle singole tradizioni? Habermas risponderebbe, probabilmente, che questa traduzione è un compito e un processo e non certo un dato o comunque qualcosa di meccanico e immediato. Un compito e un processo che richiedono certamente lavoro, conflitto, mediazione. E insieme a ciò, oltre che una certa fede nella razionalità, anche una disponibilità post-illumistica (dove il post non indica affatto una rinuncia alle istanze razionali) a poter essere modificati e trasformati da pratiche sociali non ancora elaborate sul piano della razionalità discorsiva pubblica. sità di stagione. Gatti assonnati, monumentali bagnanti bianche, e poi cavalli marroni, immersi in paesaggi a orizzonte convesso. Marc non si lascia scappare l’occasione: ricambia subito la visita ai Macke sul Tegernsee (gennaio ’10), e alla sua prima personale (febbraio ’10) Koehler acquista diversi dipinti. Già in luglio il collezionista gli accorda una somma mensile di 200 marchi, in cambio di opere. Quando Macke ritrae l’amico che fuma la pipa, spuntano nuove accensioni cromatiche – e Marc ha visto Matisse a Berlino (Marc a Macke, 6/5/’10). Sotto gli effetti della seconda mostra della Secessione di Monaco (settembre ’10), i prati di Marc si accendono di gialli dilaganti, e il blu, che è criniera di un cavallo che guarda il paesaggio, può anche impadronirsi come una virgola del centro. Per Macke è tempo invece di rientrare a Bonn, e di coltivare con visioni più nitide, semplici e amabili, il suo autonomo idillio con corpi e città. Al vigore cromatico fauve concede accesso limitato, non vuole turbare un equilibrio solido e deliberato. Le associazioni di colori alle sensazioni incuriosiscono il giovane, che chiede se il blu possa esprimere tristezza, il giallo allegria e il rosso brutalità (Macke a Marc, 10/12/’10). L’amico risponde con una teoria: il blu è principio maschile, il giallo femminile e il rosso la materia, e l’armonia si trova mischiando un colore naturale al complementare opposto: per esempio, blu e arancione; giallo e viola; rosso e verde. Nel celebre Cavallo blu I (1911), Marc sperimenta come ciò possa praticarsi: come un bolide a riposo, il colosso equino è appena disturbato dai riscontri giallo-viola delle collinette, che intelaiano una placida esibizione. Macke procede già in altra direzione: la sua Testa di donna in arancione e marrone (’11) segue la teoria del colore del nabis Paul Sérusier, secondo cui da uno o più toni andavano sviluppate le diverse gradazioni. L’improvvisa folgorazione di Marc per Kandinsky irrompe come un macigno nell’amicizia fra i due. ‘Le ore passate a ascoltarlo sono un’esperienza memorabile’ (Marc a Maria, 10/2/’11). Macke aveva già avanzato riserve sui secessionisti di Monaco: ‘la loro ricerca è, credo, eccessivamente formale’ (Macke a Marc, 26/12/’10). Di contro, aumentava la sua fascinazione per Matisse, ma sul punto Marc esprime uno scetticismo vagamente nazionalistico (Marc a Macke 12/6/’14). Macke però si lascia coinvolgere dall’amico e le due coppie vanno a Murnau da Kandinsky e la Münter: così nasce il primo Almanacco del Cavaliere azzurro (ottobre ‘11). Tuttavia, nella rivista, poco spazio viene concesso all’opera di Macke, a discapito di quella delle ‘mogli’; e peggio va a finire in occasione della prima mostra: su una sua Suonatrice di liuto, Kandinsky pone il veto e scoppia il putiferio (dicembre ’11). ‘Vanità, dominio delle donne sugli uomini e cecità giocano un ruolo importante nel Cavaliere azzurro. Ancora mi suonano nelle orecchie i grandi discorsi sull’avvento del Grande Spirituale. Kandinsky può discutere di questo e di rivoluzione quanto gli pa- Franz Marc, «Pferd in Landschaft», 1910, Essen, Museum Folkwang; qui sopra August ed Elisabeth Macke, 1908, foto: Münster, LWL-Museum; in basso, August Macke, «Seiltänzer», 1914, Bonn, Kunstmuseum È il 1910: Macke, 23 anni, ha visto in una galleria i cavalli di Franz Marc, e va a cercarlo. Poi verranno Kandinsky, Matisse, i dissidi, le ricuciture re’ (Macke a Marc, 22/1/’12). La rabbia arriva al punto che Macke scrive anche allo zio, affinché non sopravvaluti Marc: gli ultimi dipinti proprio non sono riusciti (Macke a Koheler, 22/1/’12). Per precisare il pensiero, bastano le caricature di Macke del ‘Cavaliere azzurro’: in carrozza siede un impettito Kandinsky e a Marc tocca fare il vetturino. La crisi prosegue in vista dell’importante mostra del Sonderbund di Colonia, Macke, nel comitato, spalleggia Kandisnky e Marc, ma i due vogliono presentarsi come gruppo, non come singoli. Dopo le selezioni, poco generose per i monacensi, il ‘Cavaliere azzurro’ organizza a Berlino, in polemica, una mostra di dipinti rifiutati (estate del ’12). Ma il dissidio si ricuce. Nell’autunno, i Marc vanno a Bonn e poi con Macke a Parigi. I pittori riprendono un progetto risalente agli albori dell’amicizia, dipingere insieme un grande murale con il Paradiso terrestre nello studio di Macke a Bonn. Staccato, è ora al Landesmuseum di Münster, ma in cattive condizioni di conservazione. Da Parigi, Macke torna con la mente carica di orfismo, futurismo e cubismo: più di tutti gli è piaciuto Delaunay. Nelle sue promenades (’13-’14), uomini tubolari e senza volto si aggirano allo zoo, al circo o al parco, fra tinte cupe e lussureggianti. I due si ritrovano anche a organizzare e partecipare al Salone d’autunno di Berlino del ’13: altra mostra-chiave per il lancio delle avanguardie in Germania. Il canto del cigno per Macke è l’amicizia con Klee: fanno fede gli acquerelli del viaggio dei due in Tunisia, dove varietà di puro colore sono incastonate entro reticoli mirabolanti (aprile ’14). Neanche quattro mesi dopo, Macke muore sul fronte francese, a ventisette anni. Due anni dopo, è vittima della Grande Guerra anche Marc (trentasei anni). Aveva almeno avuto modo di dedicare all’amico un necrologio sconfortante. I suoi animali nel frattempo, contratti entro le scansioni del cubismo, avevano assunto le sembianze deformate della tragedia collettiva.