Dall`Utopia all`Eterotopia.
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Dall`Utopia all`Eterotopia.
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Dottorato di ricerca in “Scienze della Comunicazione” XXIV Ciclo Tesi Dall’Utopia all’Eterotopia. Viaggio nell’immaginario utopico tra Hippie e Virtual world Candidato D’Orazio Davide Tutor Prof. Antonio Cavicchia Scalamonti Indice Introduzione 3 1 L’Utopia 21 1.1 Storia di una parola ambigua 23 1.2 Caratteri generali dell’utopia 34 1.3 L’Utopia e il libro 1.4 Coordinate spazio-temporali dell’immaginario utopico 38 44 2 L’Utopia della Controcultura degli anni ’60 e ’70 53 2.1 La Controcultura degli anni ’60 e ’70 59 2.2 Tecnologie della controcultura 72 2.2.1 La Television generation 2.2.2 Liberazione attraverso la droga 2.3 Lo spazio eterotopico della comune 73 92 99 3 Dalla Controcultura alla Cybercultura 113 3.1 Dalla Controcultura alla Cybercultura 123 3.2 La Cybercultura 141 3.3 L’immaginario della Cybercultura 155 3.4 Il cyberspazio 162 3.5 I tecnopagani 177 3.6 I tecnognostici 188 3.7 TAZ e Rave Culture 206 4. Virtual Worlds: fine dell’Eterotopia? 223 4.1 Dalla Realtà Virtuale ai MMOs 232 4.2 Dai MUD ai Social Virtual World 237 4.3 Caratteristiche dei Mondi Sintetici 246 4.4 Sviluppo dei Mondi Sintetici 256 4.5 I mondi sintetici del futuro 268 4.6 Per una metaforologia dei mondi sintetici 276 4.7 Avatar e Identità nei mondi sintetici 290 4.8 Fine dell’Eterotopia? 310 Conclusioni 317 Bibliografia 329 Introduzione L’uomo cammina con i piedi in terra e la testa per aria e la storia, ciò che è accaduto sulla terra, è solo una metà della storia dell’uomo. LEWIS MUMFORD In questi anni stiamo assistendo a processi di de-modernizzazione che sembrano fluidificare tutto ciò che ci sta intorno senza che un senso chiaro possa esserne decifrato. Due movimenti si contrappongono: uno, quello dei saperi tradizionali, discende verso la sua dissoluzione senza avere il controllo della trasmutazione di valori che tuttavia ha prodotto; l’altro è l’insorgere di culture sempre più decise a superare l’identità passata senza però riuscire a crearne una che possa essere stabile. Quest’ultima tende ad assorbire l’eredità dello sviluppo tecnologico occidentale sfruttandone il suo carattere mercuriale, la sua capacità di essere tutto e il contrario di tutto, per dar vita a ciò che il mito del progresso aveva promesso. L’attesa liberazione totale annunciata da tale mito sembrava inarrestabile e ineluttabile, grazie al disincanto del mondo da parte della tecnica, non sembra essere avvenuto; anzi, il trauma che il soggetto oggi vive e percepisce nasce nella modernità stessa, dal suo compimento: i progressivi risultati della globalizzazione si destrutturano uno ad uno, mettendo a nudo quelle radici archetipe, mitiche e religiose che nel suo svolgersi la modernità tendeva a negare. Così il risorgere di neopagani e neomistici non dovrebbe stupire visto il fallimento del telos 3 Dall’Utopia all’Eterotopia industriale.1 La modernità e “l’impresa tecnologica” sembravano tendere a quel progresso che sarebbe sfociato nel mondo dell’utopia umanistica della cittadinanza globale, o quella della “pace perpetua” prospettata alle soglie del XVIII secolo dall'abbé de Saint-Pierre e ripresa da Kant, o quella degli “Stati Uniti del Mondo”, figlia della Società delle Nazioni. Questo non ha avuto luogo perché quell’allargamento delle frontiere che avrebbe potuto e dovuto tradursi in un estensione della mentalità si è risolta invece in un allargamento dello spirito di conquista e del cinismo imprenditoriale. L’utopia della Nuova Gerusalemme è svanita lasciandoci nella complessità di un mondo incomprensibile in cui le libertà degli individui si ampliano quanto più si approfondiscono i sistemi di controllo su di loro. L’utopia che proiettava nel futuro un mondo nuovo e migliore sembra venir meno con lo svanire del tempo stesso, attraverso la creazione del tempo reale della reti informatiche. Con la “fine del tempo” terminano anche tutte le possibili filosofie e ideologie della storia, in particolare ha termine l’utopia che ambiva al futuro come creatore di una società giusta, egalitaria, in cui tutte le necessità primarie sarebbero state soddisfatte e gli individui avrebbero liberamente perseguito i propri desideri esistenziali. Questa è in sintesi l’ideologia soggiacente alla società industriale. Tutto ciò non è accaduto, ma non vorrei soffermarmi sui motivi e le cause del fallimento di questa utopia, vorrei invece sottolineare quali sono state le conseguenze che tale insuccesso ha prodotto sull’utopia stessa. Al sorgere dell’ideologia del progresso, il futuro era il luogo dell’utopia come espressione ultima di realizzazione di una società ormai padrona del mondo, tutte le visioni utopiche erano rivolte al futuro e in questo si sarebbero realizzate. L’attuazione di un altro mondo libero dalle difficoltà e dalla penuria sarebbe stata attuata attraverso la tecnica. Questa era in definitiva la “Nuova Atlantide” auspicata Bacone: Cfr. la prefazione di A. Abruzzese in E. Davis, Techgnosis, Ipermedium Libri, Napoli, 2001. 1 4 Dall’Utopia all’Eterotopia l’utopia insita in questa visione era il raggiungimento di una società perfetta, libera, giusta, in cui non ci si sarebbe più dovuti preoccupare per le scarsità delle risorse o per la conflittualità sociale, e in cui l’unica preoccupazione per gli individui sarebbe stata semplicemente quella di perseguire la propria felicità personale, in qualsiasi forma essi avessero voluto. Ciò non è stato portato a compimento, tutto si è bloccato ed è sembrato svanire con l’istituirsi di quella che possiamo definire società industriale classica, periodizzata dagli anni ’40 fino alla fine degli anni ‘60. In questa società, tutte le spinte progressiste e liberatrici sembrano appiattirsi sulla semplice riproduzione del sistema industriale, con gli individui bloccati nei suoi ingranaggi senza aver un reale progetto esistenziale se non quello di seguire il Sistema. Con l’affermarsi di questa struttura sociale nascono, però, nuove spinte utopiche, che hanno l’aspirazione di giungere agli obiettivi che la società industriale sembra aver fallito, ma con altri, nuovi mezzi. Queste correnti videro la propria nascita negli Stati Uniti - forse perché lì l’industrializzazione aveva raggiunto il suo apice, quindi le contraddizioni sistemiche si resero visibili in anticipo – e questi sentimenti non tardarono a espandersi velocemente anche nel resto dell’Occidente industrializzato. La corrente utopica che si autodefiniva Controcultura era un movimento proteiforme e dal contenuto contraddittorio, che andava dagli Hippie, agli Yippie2, dalle Pantere Nere, fino ai più istituzionali SDS (Student for a Democratic Society) e al movimento americano per i diritti civili. Questi gruppi avevano alla base un sistema di pensiero che rifiutava i dettami della cultura dominante. Nel mio studio ho deciso di soffermarmi in particolar modo sul movimento Hippie, poiché è con l’emergere di questa magmatica Youth International Party: era l’ala estrema e politicizzata del movimento Hippie, di orientamento anarchico e comunista, che offriva un'alternativa più radicale, più giovanile e giovanilistica. Gli Yippie inscenarono delle trovate goliardiche, come ad esempio quella di candidare un maiale dal nome Pigasus the Immortal ("Pegaso l'Immortale") alla Presidenza degli Stati Uniti nel 1968, allo scopo di farsi beffa dell'establishment. 2 5 Dall’Utopia all’Eterotopia corrente culturale che il concetto di utopia inizia a traslare dalla categoria del tempo a quella dello spazio. Questo è l’aspetto che vorrei analizzare in maniera più approfondita: come si sia passati da un’utopia immersa nel tempo ad una immersa nello spazio, quella che Foucault chiama “eterotopia”3, vale a dire la creazione di un mondo-altro, all’interno del mondo che potremmo definire “comune”. L’obiettivo del movimento Hippie californiano degli anni ’60 e ‘70, infatti, non era porre le basi per un futuro diverso, ma creare un mondo parallelo, completamente antagonista a quello esistente, attraverso la realizzazione della “comune hippie”, come, ad esempio, quella di Haight-Ashbury, nei pressi di San Francisco. Nelle comuni sarebbe avvenuta quella conversione cosmica e simbolica che avrebbe portato il mondo dallo Yang allo Yin, dall’Età dei Pesci a quella dell’Acquario, con tutto ciò che questo comportava nella struttura assiologia della cultura. Le caratteristiche fondamentali di questo movimento erano la ricostruzione di un rapporto armonioso con la natura - e non un suo assoggettamento da parte della tecnica - e una reinaissance spiritualista e mistica contrapposta alla fredda razionalità. Tutto ciò era abbinato al consumo di droghe psicotropiche, con l’aiuto delle quali si sarebbe creato un nuovo rapporto con la propria coscienza e una nuova esperienza di pseudo-trascendenza, che avrebbero condotto ad un nuovo mondo di natura, pacifico e spirituale: una Nuova Arcadia. L’assunto di base degli hippie aveva un tono più interiore e contemplativo degli altri gruppi controculturali, era il cambiare se stessi che avrebbe cambiato il mondo, la nuova coscienza psichedelica, in sé per sé, era il tramite per la creazione di una società splendida, estatica e liberata. Il potere dell’establishment non era né preso sul serio né avversato: gli hippie, semplicemente, se ne facevano beffe. La mancanza di una reale strategia politica e la non curanza del futuro, quindi una visione eterotopica del movimento 3 Cfr. M. Foucault, Eterotopia, Mimesis, 1994. 6 Dall’Utopia all’Eterotopia psichedelico, sono ben descritte in queste parole di Todd Gitlin, all’epoca presidente dell’SDS: C’erano molte tensioni tra l’idea radicale di strategia politica […] e l’idea tipica della controcultura di vivere la vita fino in fondo, subito, per se stessi o per la parte dell’universo incorporata in ognuno o per la comunità degli illuminati capaci di amarsi reciprocamente…e che il resto del mondo andasse pure all’inferno (dove peraltro già si trovava.) La tradizione radicale […] ha un tema di fondo: cambiare il mondo! I gruppi più importanti della controcultura - Leary, i Prankster, l’Oracle [un giornale hippie] invece: cambiare la coscienza, cambiare la vita.4 L’obiettivo era una rivoluzione strisciante attraverso la quale si sarebbe giunti a una società senza un sistema di governo, poiché attraverso la nuova coscienza: Gli atteggiamenti che avrebbero consentito il funzionamento della società […] sarebbero emersi spontaneamente, la cooperazione volontaria di una rete di gruppi e individui autonomi avrebbe fatto in modo di soddisfare le esigenze umane fondamentali […] i percorsi psichedelici di crescita personale, la partecipazione delle masse popolari a comuni e collettivi, orge gratuite di rock’n’roll e festini celebrativi sarebbero stati così gratificanti che la gente non avrebbe desiderato molto altro, al di là della soddisfazione di esigenze materiali di base. Il consumo e il possesso di beni extra, di immagini mediate, di attività di svago commerciali sarebbero semplicemente svaniti.5 Come si può notare da questo estratto, la categoria del futuro non è scomparsa del tutto nella visione utopica degli hippie, quello che le manca è la dimensione progettuale, tipica di questa dimensione T. Gatlin, The Sixties: Years Of Hope, Days Of Rage, cit. in M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 39. 5 K. Goffman, D. Joy, Controculture. Da Abramo ai No Global, Fazi Editore, Roma, 2004, p. 368. 4 7 Dall’Utopia all’Eterotopia temporale. La Nuova Arcadia si sarebbe affermata in modo sotterraneo e virale, senza una pratica politica attiva, semplicemente attraverso la vita psichedelica delle comuni. Si può affermare, allora, che con le comuni hippie sia iniziato lo slittamento categoriale dell’utopia, che inizia a dissociarsi dal tempo e a insidiarsi nello spazio. Da questo momento in poi, tutti i movimenti che possiamo definire controculturali o antagonisti amplificheranno questo slittamento categoriale e la costruzione di spazi alternativi diverrà, per questi, una prerogativa imprescindibile. La ricerca, ripercorrendo questo slittamento categoriale della dimensione utopica, si soffermerà ed analizzerà i nuovi movimenti controculturali che presero spunto dalla contro-cultura psichedelica californiana, in particolare, sottolineando la stretta unione tra il movimento hippie e la cybercultura della fine degli anni ’90, perché, come dice il comico Philip Proctor, “Gli anni ‘90 sono solo i ‘60 capovolti”; nella cybercultura, infatti, sembra essere portata all’estremo la volontà di creare un mondo-altro, questa volta non reale e antagonista, ma virtuale e antagonista, poiché il mondo da realizzare passa attraverso la colonizzazione del cyberspazio, dove creare una nuova società libera dai vincoli, sia fisici che strutturali, del sistema sociale reale, come ci illustra efficacemente Mark Dery in Velocità di fuga: Chiaramente, la cybercultura si sta avvicinando alla velocità di fuga in senso sia filosofico sia tecnologico: è pieno di fantasie di trascendenza incentrate sulla liberazione da tutti i limiti, non solo fisici ma anche metafisici.6 Il mezzo per raggiungere questo utopico obiettivo, però, non è il ritorno alla natura, ma lo sviluppo tecnologico. Questo aspetto, che potrebbe sembrare una dissonanza inconciliabile con la cultura hippie degli anni ’60 e ’70 che vedeva nella tecnica solo un mezzo repressivo, svela, in realtà, una sorta di falsa coscienza di questo 6 M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 15. 8 Dall’Utopia all’Eterotopia movimento controculturale, elemento che Dery riesce bene a focalizzare attraverso una battuta di Bruce Sterling: “Non è stata Madre Terra, in un impeto controculturale, a darci l’acido lisergico: è stato un laboratorio della Sandoz”.7 La controcultura degli anni ’60 era già permeata dalla tecnologia più di quanto non sapesse o volesse credere, “lo spettacolo psichedelico di suoni e luci era un rito tanto dionisiaco quanto tecnologico, dalla colonna sonora elettrica […] fino all’LSD che metteva in movimento tutta l’esperienza”.8 Eliminato quello che sembrava uno iato incolmabile, la ricerca si soffermerà in maniera obbligata sugli autori che influenzarono maggiormente questo movimento, cioè gli scrittori di fantascienza Gibson e Sterling, veri filosofi e ideologi della cybercultura.9 Altro aspetto fondamentale da studiare nell’ambito della cybercultura è sicuramente quello della Realtà Virtuale, la vera costruzione e immersione in un mondo-altro, completamente tecnologico. Tra la rassegna di movimenti culturali che hanno l’ambizione di creare mondi-altri antagonisti, questa ricerca non può non citare il fenomeno dei Rave e quello delle T.A.Z. teorizzate da Hakim Bey. T.A.Z. è l’acronimo di Temporary Autonomous Zone, zone temporaneamente autonome descritte dall’autore come “un’operazione di guerriglia che libera un’area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo prima che lo Stato la possa schiacciare”.10 In questa definizione lo slittamento dall’utopia all’eterotopia appare evidente. Naturalmente nell’excursus sulle culture e contro-culture che hanno l’ambizione di creare mondi-altri non si possono non citare alcuni scrittori di fantascienza, grandi creatori di mondi, che non utilizzano altro che la maniera classica di plasmare altri mondi, cioè la letteratura. In particolare mi soffermerò sulla corrente fantascientifica del Cyberpunk, nelle cui opere sono presenti tutti gli Ibidem.. Ivi p. 32. 9 In realtà, di quella specifica corrente della cybercultura definita Cyberpunk. 10 H. Bey, T.A.Z., Zone Temporaneamente Autonome, Milano, Shake, 1997 p. 15. 7 8 9 Dall’Utopia all’Eterotopia elementi tipici delle controculture in precedenza illustrate: dalla psichedelica alla tecnologia miscelata, ad un senso di mistica gnostica. Quest’ultimo è un elemento che sembra sotteso sia agli hippie degli anni ‘60 e ‘70, sia alla cybercultura della fine degli anni ‘90. Questo ritorno del mistico è sicuramente uno degli aspetti più interessanti da esaminare nelle controculture, poiché evidenzia una strana congiunzione tra elementi pre-moderni ed elementi tecnologicamente avanzati, attraverso i quali queste correnti muovono critica al materialismo dominante. All’interno della ricerca metterò in evidenza anche le contraddizioni che tali correnti controculturali portano in grembo, in particolar modo il fatto che tali movimenti appaiono talmente invischiati e figli della cultura dalla quale nascono che il loro potere antagonista e sovversivo sembra anestetizzato e quindi vano - o almeno limitato - fin dall’inizio. È importante comprendere se il loro fallimento sia stato causato da queste contraddizioni interne o da una capacità innata della società capitalista di elaborare e inglobare in sé le correnti culturali che la avversano e renderle quindi innocue per la propria struttura. Secondo quest’ultimo assunto, allora, si dovrebbe studiare come la cybercultura si stia prosciugando nella sua carica utopista e antagonista a causa dell’invasione dell’economia nella rete; e verificare come, anche qui, il modello economico sia diventato il nuovo paradigma dominante. Un esempio per questo potrebbe essere la grande corsa del Nasdaq nell’inizio del secolo o il mondo virtuale di Second Life. Questo mondo-gioco, che sarà protagonista della parte conclusiva di questo lavoro insieme ad altri mondi virtuali11, non segue regole antagoniste, ma sembra rispecchiare pedissequamente le linee guida della società capitalista contemporanea. Analizzando SL e gli altri mondi virtuali si tenterà di comprende se rappresentino uno esempio della fine delle utopie 11 Gli altri mondi analizzati saranno World of Warcraft, League of Legend e Habbo Hotel. 10 Dall’Utopia all’Eterotopia antagoniste nella e della Rete12 o solo uno specchio della natura contraddittoria delle contro-culture stesse. Per riassumere questa ricerca ambisce ad intraprendere un viaggio nell’immaginario utopico delle correnti contro-culturali, partendo dal movimento Hippie degli anni ’60 e ’70, passando dalle T.A.Z., per giungere al Cyberpunk, tentando di sottolineare e dimostrare come si sia passati dall’Utopia figlia dell’ideologia del progresso, che ha la sua radice fondante nel futuro, all’eterotopia, cioè un’utopia che non ha base nel tempo, ma nello spazio, che ha il fine, quindi, di creare mondi-altri non nel futuro, ma nel presente, in spazi antagonisti alla realtà dominante. Ora è necessario soffermarsi brevemente su alcuni temi e spunti che mi hanno portato a scegliere i fenomeni e i campi di studio sopra citati, tentando di chiarire rapidamente le scelte effettuate, attraverso alcune riflessioni in merito, e la struttura che tale ricerca vuole darsi nell’analizzare i temi e i casi che si andranno poi a studiare. Questo viaggio per Utopia non può non partire che con un preliminare introduzione al concetto stesso di utopia. Un’analisi non facile vista la polisemia del termine e la varietà dei significati che via via le sono stati attribuiti nel corso della sua ormai pluri-centenaria esistenza. Questo breve excursus sulla storia del concetto, che sarà il tema del primo capitolo, è necessario per poter poi affrontare con presupposti e categorie più solide i capitoli successivi, in cui la natura stessa dell’utopia sembra mutare. La sua instabilità semantica deriva per Bronislaw Baczko dal fatto che l’utopia è strettamente legata all’immaginazione, in particolar modo a quella sociale, e all’immaginario collettivo. Per questo le forme, le Sicuramente non la fine delle utopie antagoniste tout-court, visti i numerosi movimenti controculturali presenti anche oggigiorno. Bisogna notare, però, come queste correnti siano prive in realtà di una vera e propria utopia, infatti, pur immaginando mondi alternativi, sono poche le issue su cui basano il proprio antagonismo, ad esempio, il movimento ecologista, o i No-global, e quindi manchino di un progetto sistemico e integrato di un mondo-altro. 12 11 Dall’Utopia all’Eterotopia grammatiche utopiche e il modo di considerarle mutano radicalmente secondo le dinamiche dell’immaginario stesso e dei cambiamenti nel contesto storico, sociale e culturale.13 Tenendo ben presente le difficoltà di definizione dell’utopia abbiamo allora optato con l’evidenziare quali siano stati i cambiamenti di significato della parola utopia, dalla sua invenzione da parte di Tommaso Moro, fino ai giorni nostri, mostrando come all’ampliarsi e al modificarsi dei suoi significati si siano accompagnati grandi cambiamenti all’interno delle società e delle mentalità. All’interno della breve storia del concetto di utopia ci soffermeremo in particolare, anche se brevemente, su quattro autori: Karl Mannheim, Martin Buber, Ernst Bloch e Arrigo Colombo, studiosi che con le proprie ricerche hanno cambiato e ampliato notevolmente il concetto di Utopia, poiché hanno voluto rintracciare o forse creare una concettualizzazione storica dell’utopia: l’Utopia per questi autori è determinabile come un fattore della storia o, ad esempio per Bloch e Colombo, come il processo della Storia tout-court.14 Ci soffermeremo in seguito sulla natura e le caratteristiche della letteratura utopica, considerata come l’esprimersi e il concretizzarsi in forma letteraria di quello spirito, pensiero, immaginazione sociale che sta alla base di tutte le opere di tale filone letterario. Per far ciò costruiremo una griglia interpretativa e categoriale in cui si analizzeranno le novità presenti nelle utopie e nel pensiero utopico e si collegheranno con gli eventi e i cambiamenti avvenuti sia a livello storico-sociale sia a livello del pensiero. Inoltre proveremo a rintracciare gli antecedenti storici della letteratura utopica, quali il mito dell’età dell’oro o dell’Eden, ed esamineremo i generi affini per aver un quadro più completo del campo in cui il genere utopico viene a collocarsi e svilupparsi. Cfr. B. Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino, 1978, e Utopia, in “Enciclopedia Einaudi”, Torino, vol. XIV. 14 Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, E. Bloch, Il principio di speranza, Garzanti, Milano, 1994, M. Buber, Sentieri in Utopia, Comunità, Milano, 1967, A. Colombo, L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Dedalo, Bari, 1997. 13 12 Dall’Utopia all’Eterotopia Per quanto riguarda i generi affini - o, potremmo azzardare, quasi di derivazione -, ci soffermeremo sulla Fantascienza. Questa scelta è motivata dal fatto che molti studiosi rintracciano numerosi e profondi elementi di assonanza tra i due generi. A questo proposito è utile guardare,in particolare, gli scritti di Fortunato Vita, Carlo Pagetti15 e il fondamentale testo di Darko Suvin sulla Science-Fiction in cui lo studioso si spinge fino ad affermare che: “l’utopia non è un genere bensì il sottogenere socio-politico della Fantascienza”16, rettificando una decina di anni dopo con una asserzione più ragionevole quale: La fantascienza che non sa di derivare da Moro e da Swift – pur con tutti gli altri affluenti che l’epoca industriale ha aggiunto – assomiglia a una persona estremamente miope, sulle cui lenti si è raggrumato l’inquinamento storico, accecandola all’utopia e alla satira, la metà migliore della miscela fantascientifica.17 Un'altra spiegazione per cui nel nostro excursus nell’immaginario utopico abbiamo deciso di occuparci di fantascienza, risiede nel fatto che, come successivamente vedremo in maniera più approfondita, ad un certo punto l’utopia sembra iniziare ad occultarsi nella concettualizzazione del materialismo storico e perdere quindi le sue proprie caratteristiche. Il potenziale utopico sembra così spostarsi su altri moduli e strutture narrative. Cos’altro è in effetti la fantascienza se non il racconto di anticipazione, ipotesi immaginativa che nella sfera politica antagonista viene inaridita dalla prassi marxista? Non è un caso che la fantascienza sembra nascere proprio nello stesso momento in cui scompare la facoltà di Cfr. V. Fortunato, Dall’utopia alla Fantascienza, in AA.VV., L’Utopia e le sue forme, Il Mulino, Bologna, 1982 e C. Pagetti, La Fantascienza, in AA.VV., Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici, Cuen, Napoli, 2003, pp. 795 - 812. 16 D. Suvin, Le Metamorfosi della Fantascienza, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 61. 17 D. Suvin, Afterword: with Sobered, Estranged Eyes, cit. in AA.VV., Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici, Cuen, Napoli, 2003, p. 809. 15 13 Dall’Utopia all’Eterotopia dare un contenuto all’utopia, a causa del successo incontestato dell’ideologia del progresso e del concetto di Storia.18 La fantascienza allora si fa carico di immaginare il futuro per interpretare il presente, e proprio per questo sembra essere molto simile alle opere utopiche classiche, ma in più, secondo la visione di Sergio Brancato, la fantascienza è l’interfaccia simbolica tra i saperi scientifici (moderni, razionali, oggettivanti) e i saperi sociali (metastorici, emozionali e mitizzanti). Grazie a questa sua natura, la fantascienza ha la capacità di riattualizzare il mito e reintrodurre nell’immaginario collettivo quei temi che la cultura positivista e capitalista, egemone dell’ideologia del progresso, sembra voler rimuovere o non esser in grado di trattare: elementi fondamentali quali le figurazioni della morte e dell’eros, la costellazione dei conflitti fra tradizione e innovazione, le domande ritualmente depositate nella sfera del sacro.19 Per questi motivi un’incursione nella sfera fantascientifica sembra necessaria e utile alla nostra ricerca, anche se gli spunti più interessanti si annidano in alcuni autori non appartenenti al filone mainstream del genere, mi riferisco a scrittori come Philip K. Dick, e in particolar modo al movimento Cyberpunk, con i suoi padri fondatori Gibson, Sterling e Ballard, poiché in essi si rintracciano interessanti indicatori di trasformazione e di cambiamento verificatesi all’interno dell’immaginario utopico. Il movimento Cyberpunk sembra il più funzionale alla mia ricerca, poiché si basa esattamente sulla creazione di eterotopie; infatti l’assioma di base del movimento si può semplicemente ridurre nella battuta “il mondo è ormai questo, bisogna accettarlo e viverlo al di fuori dell’inganno utopico del futuro”. L’immaginario utopico del Cyberpunk non si riduce ai classici viaggi siderali della fantascienza tradizionale, ma si sviluppa nella scoperta e colonizzazione di un nuovo spazio, uno spazio neuronale e virtuale, il cyberspazio, reale eterotopia post- 18 19 Cfr. M. Gauchet, R. Redeker, Utopia e modernità, Città aperta edizioni, Enna, 2005, p. 89. Cfr. S. Brancato, Sociologie dell’immaginario, Carocci, Roma, 2000. 14 Dall’Utopia all’Eterotopia moderna, il nuovo mondo antagonista in cui vivere. Per il Cyberpunk, il cyberspazio non è virtuale nel senso di immateriale, al massimo è ipermateriale, ed è in grado di svelare le possibilità inaudite della materia, compresa quella di cui è fatto l’uomo; inoltre il cyberspazio è completamente svincolato dalle esigenze del sistema produttivo, elemento che denota la sua natura antagonista, ed è un luogo al quale non si accede solo con la ragione, ma con l’intera sfera sensoriale e dove alla conoscenza viene restituito il suo valore originario di esperienza dell’ignoto. L’ulissismo cyberpunk è comunque assolutamente materialista e laico, accetta il mondo così come è e, nonostante questo, tenta di trascenderlo tecnologicamente (da cui il tecnopaganesimo).20 Le similitudini concettuali con la stagione psichedelica degli anni ’60 appaiono evidenti, come non collegare il cyberspazio alla galassia internet e alla Realtà virtuale, reale creazione tecnologica di un mondo altro, nuova eterotopia tecnologica. In questi esempi il passaggio categoriale dell’Utopia sembra consolidarsi, e passare ad una statuto puramente elettronico.21 Un altro elemento che vorrei sottolineare in questa breve introduzione è la scelta della comunità Hippie di Haight-Ashbury quale primo esempio di eterotopia. Storicamente questa non è la prima comune di stampo utopista che abbia tentato di “realizzarsi” compiutamente: la storia degli Stati Uniti è disseminata da tentativi del genere, soprattutto nell’Ottocento. Fra i tanti esempi si possono ricordare la comunità dei Separatisti di Zohar, in Ohio, fondata nel 1817, quella di New Harmony, fondata da Robert Owen in Indiana nel 1827; quella icariana fondata da Cabet a Nauvoo in Illinois, nel 1848, la comunità dei Perfezionisti di John H. Noyes a Oneida, fondata nello stato di New York nel 1848 e la colonia fourierista di Alcuni testi introduttivi per il movimento cyberpunk sono i seguenti: M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, E. Davis, Techgnosis, Ipermedium libri, Napoli, 2001, P. Pardo, Il Cyberpunk, Xenia, Milano, 2000, R. Rucker, Filosofo Cyberpunk, Di Renzo editore, Roma, 2000. 21 Non mancano comunque esempi di eterotopie antagoniste anche in ambito “reale”; si ricordano i rave-party e le T.A.Z. di cui sopra. 20 15 Dall’Utopia all’Eterotopia Ripley, la Brooke Farm, fondata in Massachusetts nel 1848 (famosa perché il noto scrittore Nathaniel Hawthorne vi trascorse un breve periodo di tempo).22 Questo sorgere di comunità utopiche, oltre a esprimere una certa nota essoterica dell’utopismo americano, dimostra alcuni tentativi di realizzare delle utopie di origine letteraria; proprio in questo possiamo rintracciare la sostanziale differenza tra queste comunità e quella hippie: queste comunità utopistiche nascono per mettere in atto delle utopie, al contrario quella hippie nasce spontaneamente e senza una previa costruzione letteraria. Questo sottolinea un cambiamento importante nella mentalità utopica, poiché d’ora in poi l’utopia non va ideata (e poi realizzata), ma vissuta, diviene pratica di vita quotidiana, nel hic et nunc. Questo comporta un cambiamento di coordinate simboliche nell’immaginario utopico che si esemplificano in alcune traslazioni concettuali, come il passaggio dal tema della Rivoluzione a quello della Sovversione, o dalla preminenza dell’idea di Desiderio a quella di Bisogno. L’ultimo tema da introdurre è la scelta dei MOOs (Massivy Multiplayer On-line) e dei MMORPG (Massivy Multiplayer On-line Role Play Game) come campo di analisi per un nuovo mondo utopico del tutto virtuale. In precedenza abbiamo introdotto Second Life, infatti tale mondo-gioco sembra azzerare definitivamente lo spirito utopico, visto che il denaro, anche se nella sua forma virtuale, ha la stessa importanza di cui è investito nel mondo reale; sembra inoltre mancare di quell’anima antagonista caratteristica dell’immaginario informatico, hacker in particolare. Anche agli altri mondi virtuali presi in considerazione, Habbo Hotel, War of Warcraft e League of Legend, mancano connotati utopici, Habbo Hotel è in definitiva una chat virtuale in 3d dove incontrare i propri amici, mentre i rimanenti sono due MMORPG fantasy che evidenziano una forte propensione per l’atteggiamento ludico, Cfr. R. Mamoli Zorzi, Utopia e letteratura nell’ottocento americano, Paideia, Brescia, 1979. 22 16 Dall’Utopia all’Eterotopia atteggiamento che in onestà si riscontra anche nelle utopie classiche, divertentissimi sono i giochi di parole nell’Utopia originaria, elemento ludico messo ben in evidenza da Baczko.23 Quello che sembra mancare a questi universi sintetici è la volontà di creare un mondo-altro, poiché sembrano replicare, talora compulsivamente, la vita reale, invece di cercare di differenziarsi: le discoteche, i casinò, i luoghi del sesso, ricalcano quelli reali. Un dato molto interessante e da analizzare è il fatto che in Second Life e Habbo Hotel la vita si replichi così com’è, come se quella reale non potesse esprimere o soddisfare tutti i desideri o gli stimoli che ci propone; sembriamo, così, costretti (o condannati?) a sperimentarli e soddisfarli anche nel virtuale, o forse solo lì. World of Warcraft e League of Legend sono invece veri e propri giochi on-line di stampo fantasy. Tale intuizione verrà messa in luce attraverso una sezione sperimentale incentrata su interviste in profondità agli utenti dei suddetti Mondi virtuali che dovranno fornire intersanti indicazioni sul senso dell’utopia nel web e del web, interviste che dovrebbero mettere in risalto le tematiche utopistiche, se gli utenti ne riscontrato, evitando le difficoltà di definizione che l’utopia trascina con sé, difficoltà che invece potrebbero inficiare una semplice websurvey. Un altro tema fondamentale che ci accompagnerà lungo tutto l’arco della ricerca è il fortissimo legame che lega l’Utopia ai mezzi di comunicazione, un rapporto privilegiato che, come vedremo, non è per nulla nuovo, anzi caratterizza l’utopia dalla sua comparsa, in fondo l’utopia nasce pur sempre come uno stravagante genere letterario. Un rapporto che si svilupperà e si rinnoverà alla comparsa di ogni nuova tecnologia mediale, inizieremo analizzando nel primo capitolo la natura e l’essenza tipografica dell’Utopia, in seguito studiando la fondamentale influenza del medium televisivo sulla natura e le istanze della Contro-cultura americana per giungere l’apoteosi dell’utopia mediale, il cyberspazio. Naturalmente 23 Cfr. B. Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino, 1978. 17 Dall’Utopia all’Eterotopia la ricerca si soffermerà a lungo sulle nuove tecnologie mediali, in particolar modo la Rete, poiché queste sembrano aver assunto per molti entusiasti analisti il ruolo di deus ex machina per il miglioramento della società, anzi si sono trasformane nelle fondamenta di una nuova: la società dell’informazione. Quello che interessa sottolineare è la trasformazione dei mezzi di comunicazione da mezzi di espressione dell’immaginazione utopica in una vera e propria nuova utopia. In fondo se per utopia intendiamo l’ideazione di una società ideale o perfetta e una nuova definizione antropologica dell’uomo24, allora non possiamo non constatare come tali istanze oggi si incarnino interamente nelle tecnologie mediali. L’importanza delle tecnologie mediali non è però nuova, in realtà la storia della comunicazione moderna25 fa risalire al secolo dei lumi e al ‘900 una sensibilità fortissima per la comunicazione, per cui lo sviluppo dei media e della libertà di comunicazione rappresentano condizioni essenziali per il progresso della società; di fatto la comunicazione diviene l’asse centrale della riorganizzazione della società. La centralità dei media nella società contemporanea può essere interpretata come una evoluzione del mito del progresso, come ci ricorda Erik Davis in un suo originale lavoro26: per un lunghissimo periodo l’immagine dominante della tecnologia era quella industriale – lo sfruttamento delle risorse naturali, la meccanizzazione del lavoro, i sistemi burocratici di controllo. Lewis Mumford definiva questa immagine industriale della tecnologia il “mito della macchina”; ora questo mito viene sostituito dal mito dell’informazione, reso possibile da due processi fondamentali, uno tecnologico l’altro concettuale. Il primo, sottolinea Davis, riguarda l’importanza dell’elettricità: ormai tutte le tecnologie hanno un’anima elettrica che sostituisce la macchina all’interno dell’immaginario tecnologico. L’elettricità è il Cfr. P. Breton, L'utopia della comunicazione. Il mito del villaggio planetario, Utet, Torino,1995, p. 44. 25 Cfr. G. Pecchinenda, La narrazione della Società, Ipermedium libri, Napoli, 2009. 26 Cfr. E. Davis, Op. Cit. 24 18 Dall’Utopia all’Eterotopia fondamento precursore di tutti i media contemporanei, cioè il telegrafo, prima tecnologia digitale di natura elettrica. Da questo momento in poi l’informazione elettrificata diviene la protagonista assoluta dell’immaginario del progresso. Il secondo processo che determina il costituirsi dell’utopia della comunicazione ce la propone Philippe Breton27, affermando che la comunicazione e l’informazione assurgono a elemento fondamentale di una nuova forma utopica grazie alla nascita della Cibernetica, disciplina teorizzata da Norbert Wiener nella metà degli anni ’40.28 L’utopia della comunicazione e il mito dell’informazione divengono quindi schemi interpretativi del reale: non c’è nulla che non possa essere analizzato attraverso la metafora comunicazionale; lo scambio di informazioni e lo schema reticolare divengono le basi costitutive dei fenomeni naturali e artificiali. Allora, non deve stupire se l’immaginazione utopica non solo sposa le nuove tecnologie mediali come aveva già fatto in passato, ma le trasforma in un nuovo dominio del reale in cui creare la città ideale. Questo non è altro che il cyberspazio delineato dalla fantascienza Cyberpunk o da illustri teorici, come ci dimostra il testo Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, a cura di Michael Benedikt.29 Il cyberspazio come vedremo diviene una immensa terra vergine da plasmare e in cui vivere, nuova frontiera elettronica da colonizzare, sogno che produrrà anche una Dichiarazione di indipedenza30, manifesto in cui si auspica una vera e propria secessione tra l’universo virtuale e il reale. Naturalmente queste erano visioni troppo ottimiste e radicali, svanite rapidamente quando la tecnologia della realtà virtuale ha dimostrato la propria inconsistenza e la Rete ha avuto un’evoluzione diversa dalle visioni di questi cyber-utopisti, una Cfr. P. Breton, Op. Cit. Non ci soffermiamo ora sulla Cibernetica poiché sarà oggetto di analisi approfondita nel III capitolo. 29 M. Benedikt, (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Muzzio, Padova, 1993. 30 Cfr. P. J. Barlow, A Declaration of the Indipendence of Cyberspace, 1996, on-line all’indirizzo https://projects.eff.org/~barlow/Declaration-Final.html. 27 28 19 Dall’Utopia all’Eterotopia normalizzazione che i mondi virtuali sembrano esemplificare al meglio, questo, però, lo vedremo più adeguatamente nel corso della ricerca, quello che preme sottolineare, invece, è l’influnza delle tecnologie mediali sull’immaginario utopico, influenza che, dal mio punto di vista, favoresce il sorgere di quella che definisco eterotopia. Lungi da un superficiale determinismo bisogna evidenziare come le tecnologie mediali apportando importanti trasformazioni all’interno della società non potevano non influenzare anche l’immaginario utopico, non si può, però, non analizzare e mettere in evidenza il rapporto privilegiato che unisce tecnologie mediali e Utopia, sottolineando l’importanza decisiva di questa relazione, che come vedremo sarà constante durante l’analisi del nostro percorso di ricerca. Dopo aver introdotto anche questo importante tema il nostro viaggio per Utopia può finalmente avere inizio. 20 Capitolo 1 L’utopia Una carta del mondo che non contiene il Paese dell'Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo, perché non contempla il solo Paese al quale l'Umanità approda di continuo. E quando vi getta l'àncora, la vedetta scorge un Paese migliore e l'Umanità di nuovo fa vela. Il progresso altro non è che il farsi storia delle utopie. L'Inghilterra non sarà mai civilizzata fino a quando non annetterà l'Utopia ai suoi domini. OSCAR WILDE Parlare di Utopia non è facile a causa delle sue molteplici ambiguità, allora è il caso di specificare e approfondire alcuni concetti e termini che saranno la base teorica della mia ricerca. In primis, per Utopia viene qui inteso un sistema filosofico nel quale viene delineato in ambito concettuale o letterario uno stato ideale. Tale definizione, che è la più generale possibile, permette di raggruppare in uno stesso insieme La Repubblica di Platone, le concezioni di Tommaso Moro, quelle di Tommaso Campanella, il comunismo di Marx, i Falansteri di Fourier e tutta la miriade di immagini di stati, paesi e organizzazione perfette, tendenti alla piena realizzazione non violenta della convivenza umana. Ma l’utopia si è sempre presentata a noi in un duplice aspetto: da un lato come “realtà” costituita da 21 Dall’Utopia all’Eterotopia tutti i suoi sistemi filosofici e politici perfetti, dall’altro come qualcosa che accomuna tutti questi modelli, pur così eterogenei tra loro, che abbiamo definito utopie; ed è questa la sua essenza latente, lo spirito che ingloba in sé sia la sua espressione che la sua funzione, quello che alcuni, come vedremo, definiscono “modalità utopica” o “utopismo.” Infatti, se, invece di seguire la definizione appena accennata, ci riferissimo a quella di Baczko per la quale “l’utopia è il luogo privilegiato nel quale si esercita l’immaginazione sociale, in cui vengono accolti i sogni sociali e collettivi e si organizzano in maniera coerente le idee-immagini di una società diversa rispetto alla società dominante”1, allora il quadro si complica, poiché l’Utopia viene non solo a collocarsi nella progettazione politica o filosofica, ma va ricercata ed analizzata in tutti i processi intellettuali, politici, sociali, artistici, creativi, in cui si cristallizzano i sogni sociali e si innerva l’immaginazione sociale. Per questo la sua analisi deve essere pluridimensionale, dallo studio della letteratura utopica, che comunque rimane un canale privilegiato, in cui rintracciare le trasformazioni di quello che potremmo definire “immaginario utopico”, alle espressioni più minute del vivere quotidiano, fino ad analizzare i rapporti che intercorrono tra l’utopia, il suo immaginario utopico e l’immaginario collettivo. Una delle caratteristiche più rilevanti dell’utopia non risiede nella sua progettualità politica, ma nella sua forza “irradiante”, come la definisce Redeker, la sua capacità di influenzare la realtà, una forza che non si situa nell’ordine della sua realizzazione programmatica, ma “una potenza che irradia la realtà a partire dall’idea”.2 In questa prospettiva l’accento non è basato sulla effettiva realizzabilità di un progetto, ma sulla capacità di influenza sul reale; non sul potere, ma sulla potenzialità. Una caratteristica che pone l’utopia senza dubbio nel campo d’azione dell’immaginario collettivo e che noi dobbiamo indagare. 1 2 B. Baczko, Op. cit., p. 445. M. Gauchet, R. Redeker, Utopia e modernità, Città aperta edizioni, Enna, 2005, p. 35. 22 Dall’Utopia all’Eterotopia 1.1 Storia di una parola ambigua Questo lavoro non può che iniziare, come ogni riflessione sull’utopia, con il problema preliminare e non aggirabile della sua definizione. Come spesso accade nelle scienze umane, la difficoltà non risiede tanto nella mancanza di definizioni: esse, anzi, sono sovrabbondanti. Come hanno giustamente notato Frank E. Manuel e Fritzie P. Manuel nella loro famosa opera del 1966, “definire l’utopia è utopistico”.3 Questo perché il termine ‘utopia’ è per sua natura polisemico e il fenomeno non è unicamente semantico: l’utopia è un fatto culturalmente proteiforme, in questa sua polisemia si esprimono i molteplici aspetti e le diverse funzioni. La parola ‘utopia’ ha avuto un destino imprevedibile, ha sempre cambiato senso seguendo le mode intellettuali, l’evolversi dei costumi o delle conoscenze e compare ormai anche - senza ragione - in tutti i campi, dalla scienza alla letteratura, dalla politica alla sociologia. Per quanto si tenti di darne una precisa definizione, ci si trova sempre davanti a un conglomerato di definizioni, di concetti eterogenei; per questo, riprendendo Reinhart Kosseleck, sarebbe il caso di addentrarci brevemente in una piccola storia del concetto, analisi che metterà in luce come il significato del termine sia cambiato con l’evolversi degli schemi culturali. Nella lingua corrente utopia o utopico sono il sinonimo di illusorio, di irrealizzabile, essendo l’utopista colui che ignora sia la realtà umana che le dinamiche sociali. Se invece vogliamo parlare del genere utopico le cose non migliorano molto: essendo un genere ibrido, nessuno se ne cura molto, i critici letterari considerano tali scritti troppo didascalici, gli esperti in scienze sociali troppo poetici e fantasiosi. Queste ambiguità sembrano connaturate alla nascita stessa della parola ‘utopia’, alla sua origine etimologica. Moro la crea Cfr. F. P. Manuel e F. E. Manuel, Utopian Thought in the Western World, Belkunp press, Cambrige, Mass., 1980. 3 23 Dall’Utopia all’Eterotopia nel 1516 dai vocaboli greci ou (“nessuno”) e topos (“luogo”) un neologismo – Nova Insula Utopia – che sostituisce il vocabolo ‘nusquam’ utilizzato nella corrispondenza con Erasmo. La parola corretta sarebbe dovuta essere Atopia, ma Moro gioca con la pronuncia inglese, per cui il suono delle parole ou-topia (“paese di nessun luogo”) ed eu-topia (“paese della felicità”, dall’avverbio greco em, “bene”), hanno una pronuncia identica. Coniugando le due radici etimologiche, allora, si giungerebbe a una definizione di utopia come costruzione di un mondo perfetto, ma non reale, in quanto non si attua in alcun luogo, che non può esistere o comunque che ancora non esiste. Così nascono i mondi creati dalla mente, paesi da sogno, perfetti, creazioni in concreto di società totalmente differenti da quelle a noi familiari, addirittura il loro esatto opposto, che solo nel mondo delle idee possono aver luogo. Partendo da questo elemento si comprende come Moro non abbia solo creato e descritto una società perfetta, del tutto fittizia, ma in realtà con la sua “Utopia” abbia segnato l’apparire di un nuovo genere letterario e filosofico e, attraverso di esso, il sorgere di una maniera di riflettere sulla società, di avere un nuovo sguardo verso di essa. Moro, conscio di ciò, affronta l’argomento in una quartina pseudo-ironica che introduce il testo vero e proprio. Tornando alla storia del termine, questo viene subito accolto dagli umanisti del suo tempo, ma quasi immediatamente cambia il suo significato; nel 1611 leggiamo infatti nel Dictionare of the French and English Tongues di Cotgrave: “Utopie: a imaginare place, or country.”4 Il termine come è già diventato una metafora pseudo-geografica, per designare non un libro, ma un paese immaginario. Questa, come vedremo, è solo una delle molteplici trasformazioni di senso che il termine subirà nel tempo; ora, per brevità e per non avventurarci in discorsi filologici ed etimologi troppo specifici, è utile presentare in maniera Cfr. R. Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo Editore, Ravenna, 1992, pp. 13-24 e H.G. Funke, Il termine utopia attraverso i secoli, in AA.VV., Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici. Cuen, Napoli, 2003, pp. 17-44. 4 24 Dall’Utopia all’Eterotopia schematica le conclusioni a cui è giunto Hans-Günter Funke con i suoi studi. Per lo studioso tedesco lo sviluppo semantico del termine e delle sue derivazioni si snoda nei seguenti quattro periodi: 1. Nel Cinquecento e nel Seicento il termine Utopia si trasforma da nome proprio a metafora pseudo-geografica indicante lo stato ideale fittizio. 2. Nel Settecento da metafora si trasforma in denominazione di genere letterario e a concetto politico ambivalente. 3. Nella prima metà dell’Ottocento da nozione politica ambivalente passa a nozione peggiorativa di polemica sociale e insulto nel dibattito tra il socialismo premarxista e la borghesia; la nozione di utopia viene “temporalizzata.” 4. Nella seconda metà dell’Ottocento e nel Novecento la nozione di utopia perde la sua accezione negativa di lotta politica e ne acquisisce una positiva nel linguaggio filosofico, in quello relativo alla sociologia o alle discipline letterarie. Dalla nozione di utopia scaturisce quella più ampia di pensiero utopico.5 Per sostenere tali conclusioni possiamo seguire l’evolversi dei significati rinvenuti nei dizionari dell’epoca per il termine ‘utopia’: per il primo punto abbiamo fatto riferimento a quello di Cotgrave, per il secondo punto si può citare la quarta edizione del Dictionnaire de l’Accadémie française, del 1762, in cui si legge: “viene usato qualche volta in senso per designare un progetto di governo immaginario”; il nome includeva anche l’accezione ad un genere letterario. Nella quinta edizione del 1798 il riferimento al genere letterario è mantenuto, ma avviene uno slittamento dal significato pseudo-geografico a quello del sistema istituzionale: “si usa, in 5 H.G. Funke, Op. cit., pp. 17,18. 25 Dall’Utopia all’Eterotopia generale, per indicare un progetto di governo immaginario in cui tutto è organizzato alla perfezione per la felicità comune”. La definizione reca con sé sul piano politico un’accezione negativa di irrealtà, di impossibilità, un elemento confermato nella seconda metà del secolo da pensatori quali Diderot, Grimm, Rousseau, Formey, e altri.6 L’accezione peggiorativa del termine si accentua nell’Ottocento, nella polemica tra borghesia e liberali da un lato e i diversi filoni socialisti pre-marxisti. Il significato dipende soprattutto dal punto di vista ideologico di chi ne fa uso. La parola entra in tutti i dizionari, ed è ancora definita come ideale, irreale, impossibile. Con l’avvento dei socialismi il termine viene applicato con un senso decisamente peggiorativo e utilizzato indistintamente nei riguardi di SaintSimon, Fourier, Owen, Proudhon, Cabet e altri. Con i movimenti operai e la nascita dei neologismi ‘socialismo’ e ‘socialista’, il termine utopia viene usato come loro sinonimo, sempre in accezione negativa, soprattutto nella critica di stampo borghese; si determina anche una sua estensione come definizione per ogni tipi di teoria sociale. Il discredito del termine si accentua poi con il contributo di Marx ed Engels e del loro socialismo scientifico. I due giudicano i propri predecessori dei sentimentalisti e li condannano dando alle loro teorie la definizione di “socialismo utopista”, poiché propongono il sogno di una società costruita come un’assonometria attraverso l’uso della ragione. Il loro sforzo, per i fondatori del partito comunista, è umanitario ma inefficace. Al contrario, il loro “socialismo scientifico” analizza gli elementi della società e prevede l’emancipazione della classe operai oppressa; il loro approccio scientifico si fonda sullo studio dei rapporti economici, dei fenomeni di produzione e di scambio. Nonostante la critica marxista, nella seconda parte dell’Ottocento è presente anche un tendenza opposta che porta ad un 6 Ivi , p. 24. 26 Dall’Utopia all’Eterotopia positivizzazione del termine. Il progresso storico-culturale conduce ad una realizzazione parziale degli elementi dei progetti utopici di stato ideale e indebolisce pertanto il rimprovero di inattuabilità sollevato contro l’utopia. Le utopie divengono una potenziale realtà del futuro. Inizia qui la temporalizzazione dell’utopia, che si distacca dai viaggi immaginari e dall’idealizzazione di stati perfetti e ideali, e si incarna nella storia. La società giusta e perfetta viene mostrata come inevitabile e garantita dall’evoluzione storica.7 Evidenza di questa nuova prospettiva sono le parole del socialista premarxista Louis Blanc: “Une utopie, c’est une idée militante, c’est bien souvent la vérité de demain, et per conséquent la vérité à l’état Révolutionnaire” e quelle di Lamartine: “Le utopie non sono che verità premature”8. Come si nota, la storia della definizione del termine utopia è molto complessa: si passa da una metafora pseudo-geografica, ad una descrizione di uno stato ideale e poi, tenendo quest’ultimo aspetto come fondamento, ma sullo sfondo, la parola diventa una sorta di giudizio politico, semplice aggettivo per definire altri fenomeni, quasi dimenticandosi del campo letterario da cui si era partiti con l’opera di Moro. Tutto ciò si amplifica quando le scienze sociali, in particolar modo la filosofia e la sociologia, cominciano a interessarsi alla complessità del fenomeno, interesse che ha inizio nei primi anni del secolo scorso che è ancora molto vivo. Gli studiosi iniziano a rivalutare il termine, storicizzandolo; la consistenza del fenomeno utopico viene interpretata come testimonianza dell’eterna aspirazione delle classi subalterne a valori immemorabili, quali l’uguaglianza, la libertà, la giustizia sociale, la comunanza di beni. In questa ottica appare evidente come la definizione del termine passi dal denotare un progetto letterario o politico, ad una sorta di “essenza” dell’utopia, da alcuni declinata sul piano storico e da altri sul piano filosofico-intellettuale, essenza che poi si esprime e si Di questo cambiamento strutturale dell’utopia parleremo più approfonditamente in seguito. 8 Cit. in H. G. Funke, Op. cit., p. 33. 7 27 Dall’Utopia all’Eterotopia concretizza in fenomeni diversi, con la letteratura sempre in primo piano, come se l’Utopia (essenza) avesse bisogno delle utopie (libri o altri media di espressione) per concretizzarsi. Questo processo è ben illustrato in un libro pubblicato nel 1950 da Raymond Ruyer, L’utopia e gli utopisti, in cui l’autore differenzia una nozione ristretta di utopia, intendendo l’utopia letteraria, e una nozione ampia di “pensiero utopico” che definisce “mode utopique” e che potremmo tradurre con “modalità utopica”, definito dall’autore come “esercizio mentale sui possibili laterali”.9 Esso consiste nella facoltà di immaginare, dunque di modificare la realtà attraverso le ipotesi, di creare una struttura distinta dal reale, parallela alla realtà dei fatti; con questa azione immaginaria si modificano le costanti assiologiche del reale. Per utopia invece intende in particolare un genere letterario: Un‘utopia è la descrizione di un mondo immaginario, al di fuori del nostro spazio o del nostro tempo, o comunque al di fuori del nostro spazio-tempo storico geografico. È la descrizione di un mondo costituito su principi differenti da quelli che agiscono il mondo reale.10 Questa è una divisione che ne ricalca, in maniera del tutto simile, un’altra, largamente accettata dagli studiosi, quella tra utopia e utopismo; utopia intesa come descrizione romanzata di una società diversa e migliore, utopismo invece, interpretato come atteggiamento mentale, speculazione sulle possibili organizzazioni politico-sociali, volontà di superare la datità del presente nel progettare mondi alternativi.11 Tali termini ampliano naturalmente la portata del fenomeno utopico in quanto “i possibili laterali” conducono ad una definizione troppo vaga dell’utopia, così alcuni R. Ruyer, L’utopie et les utopists, Press Universitaires de France, Paris, 1950. Ivi, p. 22, traduzione mia. 11Cfr. AA.VV., Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici. Cuen, Napoli, 2003 e V. Fortunato, Dall’utopia all’utopismo in AA.VV., L’Utopia e le sue forme, Il Mulino, Bologna, 1982. 9 10 28 Dall’Utopia all’Eterotopia studiosi hanno voluto restringere il campo delle proprie ricerche al solo genere letterario; tra questi sicuramente i più importanti sono Trousson e Cioranescu.12 Naturalmente tutto tende a complicare e ad estendere in maniera considerevole il campo semantico del termine utopia, ma uno studio che si voglia non superficiale di questo fenomeno deve addentrarsi e coinvolgere tutti questi aspetti e livelli, senza farsi limitare dalle possibili difficoltà di definizione e dai campi di analisi diversi. In fondo uno studio sociologico sull’utopia, come questa ricerca ha l’ambizione di definirsi e strutturarsi, deve contenere tutti i diversi piani di analisi: il piano letterario, i possibili laterali, sia, in particolar modo, i cambiamenti nella dimensione dell’immaginario collettivo che poi dà vita alle trasformazioni nel campo del pensiero utopico. Torniamo ora al tema lasciato in sospeso della storicizzazione del concetto di utopia, uno degli elementi che più ha influito sull’ampliamento semantico del termine utopia. La genesi dell’utopia “storica” intesa, in senso molto ampio, come la perenne aspirazione delle classi subalterne ad una società migliore e più giusta, è segnata dall’opera di tre autori ebraici, Karl Mannheim, Martin Buber ed Ernst Bloch.13 Mannheim è colui che per primo intende l’utopia come un fattore della storia, il fattore che di volta in volta rompe l’ordinamento esistente per instaurarne uno nuovo. Lo studioso introduce questa nuova visione dell’utopia attraverso la contrapposizione di questa con l’ideologia. Mannheim sostiene che: Cfr. A. Cioranescu, L’avenir du passè. Utopie e littérature, Gallimard, Paris, 1972 e R. Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo Editore, Ravenna, 1992. 13 Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, E. Bloch, Il principio di speranza, Garzanti, Milano, 1994, M. Buber, Sentieri in Utopia, Comunità, Milano, 1967. 12 29 Dall’Utopia all’Eterotopia Il concetto di ideologia riflette una scoperta che è venuta emergendo dalla lotta politica; vogliamo alludere alle convinzioni e alle idee dei gruppi dominanti, le quali sembrano congiungersi così strettamente agli interessi di una data situazione da escludere qualunque comprensione dei fatti che potrebbero minacciare il loro potere. Con il termine ideologia noi intendiamo così affermare che, in talune condizioni, i fattori inconsci di certi gruppi nascondono lo Stato reale della società a sé e agli altri e pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice.14 Riferendosi invece all’utopia lo studioso precisa: Il concetto di utopia pone in luce una seconda e del tutto opposta scoperta: esistono cioè dei gruppi subordinati, così fortemente impegnati nella distribuzione e nella trasformazione di una determinata condizione sociale, da non riuscire a scorgere nella realtà se non quegli elementi che essi tendono a negare […]. Tali gruppi non si occupano affatto di ciò che realmente esiste, bensì, cercano in ogni modo di mutarlo. Il loro pensiero non è mai un quadro obbiettivo della situazione, ma può essere usato soltanto come una direzione per l’azione. Nella mentalità utopica, l’inconscio collettivo, mosso essenzialmente dai progetti per il futuro.15 L’utopia sarebbe allora la rappresentazione della classe subordinata che vuol cogliere le possibilità di trasformazione storica della società e trascendere il potere costituito, mentre l’ideologia la posizione statica di una classe al potere incapace di comprendere l’elemento dinamico della storia e la volontà di conservare il proprio potere ad ogni costo. Mannheim rintraccia anche una dialettica storica tra ideologia e utopia: ogni classe subalterna che riesce a prendere il potere trasforma la propria utopia in ideologia, che verrà poi abbattuta da un’utopia successiva, dando vita a quella che 14 15 K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 41. Ibidem. 30 Dall’Utopia all’Eterotopia è in realtà la dinamica sociale, “così il cammino della storia conduce da una «topia» (o realtà esistente) a una utopia e quindi ad una successiva «topia», ecc.”16 Partendo da questi presupposti, Mannheim definisce come utopica una mentalità che è in contraddizione con la realtà presente e la vuole trascendere ad ogni costo. Lo studioso tedesco a questo punto rintraccia e analizza storicamente quattro utopie: l’utopia chialista, l’utopia liberale, l’utopia conservatrice e l’utopia socialista-comunista. Altro autore importante per la “storicizzazione” dell’utopia è Martin Buber con il suo libro Sentieri in utopia, che è in realtà una sintesi del pensiero socialista, indagando su autori quali Proudon, Kropotkin, Landauer e naturalmente Marx e Lenin. In Buber sono presenti solo accenni alla storicizzazione dell’utopia: in essa, secondo l’autore, è in gioco un “dover essere”, non un progetto qualunque, più o meno aleatorio, ma ciò che l’uomo deve realizzare se vuol essere uomo e non sub-uomo. Ed è il «giusto», la grande categoria del messianismo ebraico (cultura di cui è grande esperto) ad essere la base della nuova società, la storica speranza e il movimento verso cui tende l’uomo.17 Bloch sintetizza ed estremizza le conclusioni degli autori precedenti: per lui l’utopia è il “processo della storia”, anzi il processo della natura, della materia, materia pervasa da una forza evolutiva che la muove verso forme sempre migliori; quindi l’uomo e la società avanzano ed evolvono fino al superamento dell’alienazione e delle contraddizioni che li pervadono da sempre, fino a giungere al “regno della libertà”, alla “democrazia vera”; l’utopia è qui un processo della storia in cui si costruisce la società di giustizia.18 Per Bloch però l’utopia abbraccia un po’ ogni cosa, dai giochi alle specialità farmaceutiche, dai miti al divertimento di Ivi, p. 217. M. Buber, Sentieri in Utopia, Comunità, Milano, 1967, pp. 16, 17, 24, 168. 18 E. Bloch, Il principio di speranza, Garzanti, Milano, 1994, pp. 263-266. 16 17 31 Dall’Utopia all’Eterotopia massa, l’impulso utopico, infatti, per lo studioso tedesco governa tutto, ed è orientato verso il futuro nella vita e nella cultura. Un altro importantissimo autore che ha ripreso e approfondito le conclusioni dei tre autori appena menzionati è Arrigo Colombo, per il quale “l’utopia è il processo programma della storia per instaurare la società di giustizia”. L’autore analizza gli eventi storici tentando di dar loro una consequenzialità e un’appartenenza al processo di realizzazione della società giusta, partendo dal messianismo ebraico, passando per l’annuncio evangelico, alle eresie medioevali, fino alle grandi rivoluzioni, quella inglese, quella francese, la russa e la rivoluzione culturale degli anni ‘60 e ’70. Un processo che per Colombo è ancora in corso e che si concluderà soltanto con l’instaurazione della società di giustizia. 19 Nonostante la rivalutazione del termine avvenuta grazie all’interesse delle scienze sociali e alla teorizzazione dell’“utopia storica”, il termine spesso ha ancora accezioni negative: Lalande nel suo Vocabolario Filosofico la definisce “ un Ideale politico e sociale avvincente, ma irrealizzabile, nel quale i fatti reali, la natura dell’uomo e le condizioni della vita non sono tenuti in considerazione”, mentre per Popper l’utopia presuppone la fiducia in un modello di assoluta perfezione astratta, costruito dalla ragione, i cui tentativi di realizzazione storica conducono alla violenza e al totalitarismo.20 Dopo questo excursus torniamo brevemente alla concettualizzazione dell’utopia come denominazione di un genere letterario, poiché negli anni venti del Novecento nasce un nuovo genere della letteratura utopica, la distopia, della quale possiamo trovare due celebri esempi nei romanzi Noi di Evgenij I. Zamjatin e 1984 di George Orwell. Questo nuovo genere si presenta, in una Cfr. A. Colombo, L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Dedalo, Bari, 1997 e A. Colombo (a cura di), Utopia e Distopia, Dedalo, Bari, 1999. 20 R. Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo Editore, Ravenna, 1992, pp. 15,16. 19 32 Dall’Utopia all’Eterotopia prima fase, come immagine negativa del progresso tecnico e scientifico dell’umanità futura e in una seconda fase come immagine della società totalitaria suggerita dall’esperienza degli stati fascisti e stalinisti. Anche al termine della nostra analisi storico-speculativa il concetto di utopia rimane complesso e polivalente. A partire dal XVI secolo possiamo schematizzare dieci significati diversi: nel XVI e XVII secolo: 1. libro, isola e stato di Moro 2. metafora geografica di luogo fittizio o stato ideale; nel XVIII secolo: 3. denominazione di un genere letterario 4. concetto politico ambivalente di idea di riforma inattuabile 5. concetto di lotta politica, sinonimo o antonimo di socialismo e comunismo 6. socialismo premarxista svalutato dal socialismo scientifico; nel XIX secolo: 7. coscienza rivoluzionaria del ceto ascendente (Mannheim) 8. rivoluzione 9. totalitarismo (Popper) 10.processo della storia (Bloch, Buber e Colombo). In realtà il problema della polisemicità della parola Utopia risiede nel fatto che, nel momento in cui mette in atto uno dei significati qui menzionati, allo stesso tempo, suggerisce e attiva anche gli altri, in quanto significati connotati, con tutte le caratteristiche e le qualità di cui sono portatori. 33 Dall’Utopia all’Eterotopia 1.2 Caratteri generali dell’utopia Dopo aver inseguito lungo i secoli le trasformazioni semantiche del termine ‘utopia’, è il caso di ricercarne alcune caratteristiche peculiari, sia dell’Utopia intesa come pensiero utopico sia di come questo pensiero si incarna in un testo, quindi le caratteristiche del genere letterario utopico. Secondo gli studiosi il sorgere dell’utopia appare legato a momenti storici ben determinati, di solito in particolari periodi di crisi e grandi cambiamenti, in cui secondo Jean Servier è presente un sentimento diffuso, “il sentimento di scoramento e di perdita di senso di una civiltà, il sentimento profondo dell’essere di trovarsi gettato nell’esistenza senza una vera necessità, senza una ragione”. A questa situazione di crisi l’utopia prova a dare una risposta, “come un tentativo di sopprimere attraverso l’immaginazione, attraverso il sogno, una situazione conflittuale.”21, un sogno che si concretizza attraverso la letteratura, questo almeno nel primo periodo dell’utopia22, in cui si posso individuare delle grandi linee tematiche pressoché invariabili: la descrizione di una città perfetta e felice e la critica del vecchio ordinamento sociale. Possiamo inoltre analizzare le caratteristiche più evidenti del genere: 1. in primis, l’ingresso in utopia attraverso un viaggio o un sogno; 2. l’insularismo: l’utopia è isolata, in un tempo imprecisato; 3. il perfettismo: è ispirato dalla convinzione utopica di voler edificare lo Stato ideale; 4. la marginalizzazione della famiglia: il suo ruolo di elemento socializzante viene assunto di solito dallo Stato o dalla città/comunità ideale; 21 22 J. Servier, Storia dell’utopia, Ed. Mediterranee, Roma, 2002, p. 226. Vedremo in seguito l’importanza del legame tra utopia e libro. 34 Dall’Utopia all’Eterotopia 5. il totalitarismo: il regime di governo è completamente centralizzato, basato sulla condivisione totale di valori e comportamenti; 6. l’uniformità: in utopia vi è la completa spersonalizzazione. 7. la scomparsa della storia e della geografia: le società utopiche sono sospese nel tempo e nello spazio. Godono di clima stabile e temperato tutto l’anno. Sono senza passato, senza memoria e ovviamente senza futuro: non conoscono mutamenti o evoluzioni sociali; 8. l’onnipotenza della pedagogia: l’educazione pubblica deve plasmare i cittadini ed educarli perfettamente in modo da giungere ad una interiorizzazione completa dei valori sociali; 9. il comunismo e l’egualitarismo: scomparsa della proprietà privata, limitazione del commercio e abbandono dell’uso del denaro. Comunismo dei beni materiali e produttivi; 10. il congelamento e la trasparenza delle istituzioni: le strutture politico-sociali restano immutate nel corso del tempo e il funzionamento dei loro meccanismi sono ben chiari; 11. l’anestetizzazione della dimensione religiosa: tranne alcuni casi (la Città del sole, Cristianopoli) la società utopica è laica e secolarizzata; 12. il misconoscimento del ruolo dei conflitti sociali: non vi sono contrapposizioni di interessi diversi vista la completa uguaglianza; 13. le scelte basate su soluzioni semplicistiche: le utopie tendono a semplificare i problemi della realtà e la sua complessità; 14. la geometrizzazione degli spazi urbani: l’organizzazione simmetrica delle strutture urbanistiche (delle strade, degli 35 Dall’Utopia all’Eterotopia edifici, ecc.) mette in evidenza la ricerca di una perfezione basata su di un’ideale razionalità astratta.23 Queste sono più o meno le caratteristiche e le tematiche dei testi utopici, elementi quasi sempre presenti; l’importante, però, è tentare di astrarre maggiormente e trovare delle peculiarità che illuminino maggiormente le caratteristiche e anche le funzioni dell’utopia stessa. Allora potremmo affermare che l’utopia è la rappresentazione globale di una alterità sociale, completamente opposta alla realtà sociale esistente. L’utopia tende alla critica radicale della società esistente e al suo trascendimento in una polemica tra ideale e reale, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Inoltre, come abbiamo visto in precedenza accogliendo l’intuizione di Baczko, l’utopia è il luogo in cui si sperimenta l’immaginazione sociale, in cui si razionalizzano i sogni sociali; tutto ciò avviene con la descrizione di una nuova vita quotidiana: tutte le utopie descrivono minuziosamente l’organizzazione della nuova realtà quotidiana, attraverso la quale si esprime la nuova società ideale. La sua funzione è quella di dare vita ad un discorso che crei delle “immagini-idee”, come le chiama Baczko, che possano introdursi nell’immaginario collettivo e diventare delle immagini-guida, degli schemi direttivi che possano rinnovare il tempo e lo spazio collettivi. Dopo aver descritto le caratteristiche più generali dell’utopia, dobbiamo capire quando e da che background culturale nascono tali testi utopici, infatti è possibile rintracciare in essi alcuni elementi già presenti in altri discorsi e generi letterari in cui venivano messi in primo piano l’edificazione o la descrizione di paesi perfetti o comunque meravigliosi, poiché come afferma Mannheim: Cfr. R. Ruyer, L’utopie et les utopists, Press Universitaires de France, Paris, 1950, R. Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo Editore, Ravenna, 1992, J. Servier, Storia dell’utopia, Ed. Mediterranee, Roma, 2002, A.Cioranescu, L’avenir du passè. Utopie e littérature, Gallimard, Paris, 1972. 23 36 Dall’Utopia all’Eterotopia L’aspirazione ad una condizione migliore è antica quanto il mondo. Quando la fantasia non trova di che soddisfarsi nella realtà esistente, essa cerca rifugio in epoche o luoghi immaginari. I miti, le favole, le promesse oltremondane della religione, le fantasie degli umanisti, i romanzi di viaggi, sono state le diverse espressioni di ciò che la vita concreta non poteva offrire.24 In tutte queste espressioni si possono rintracciare le radici dell’utopia: si pensi, nella letteratura popolare, al Paese di Cuccagna e al Mondo alla rovescia, o al mito dell’Età dell’oro, in cui la società perfetta è posta all’origine della storia. Se questi possono essere sicuramente dei validi rinvii, bisogna considerare il fatto che l’utopia di Moro nasce nel 1516, in pieno Rinascimento, quando le coordinate culturali erano i classici del pensiero del periodo grecoromano e naturalmente i testi religiosi della tradizione giudaicocristiana. Questa derivazione è ben sintetizzata dagli studiosi Frank E. Manuel e Fritzie P. Manuel, che evidenziano come l’utopia sia “a hybrid plant, born of the crossing of the paradisiacal belief of JudeoChristian religion with the Hellenic myth o fan ideal city on earth.”25 Da questa affermazione si deduce che gli archetipi del genere utopico si possono rinvenire sia negli ideali greci descritti da Platone nella Repubblica e nelle Leggi, sia nella tradizione biblica e giudaico-cristiana, soprattutto nel Messianismo, nel Millenarismo e nei vari apocalittici. Le influenze di Platone sull’opera di Moro e su tutti i successivi testi utopici sono talmente esplicite che è superfluo sottolinearle, gli altri influssi invece è necessario analizzarli brevemente, poiché possiedono un interesse notevole. La cultura ebraica, come sottolinea Servier26, stava avendo nel Cinquecento una grande espansione, soprattutto nel centro-nord Europa, e sicuramente Moro e gli intellettuali del suo tempo ne erano grandi conoscitori. La base del pensiero messianico è l’attesa K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 224. Cit. in AA.VV., Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici. Cuen, Napoli, 2003, p.49. 26 Cfr. J. Servier, Op. cit. 24 25 37 Dall’Utopia all’Eterotopia di un Salvatore - un Messia appunto - che avrebbe liberato il popolo ebraico dalla condizione di ingiustizia, infelicità e schiavitù, per condurlo verso la “terra promessa” in cui avrebbe regnato giustizia e felicità. La giustizia è la struttura fondante del progetto messianico, giustizia che si identifica con la salvezza, liberazione dal male e dall’infelicità, ma ha anche un significato più ristretto, come Dio che rende giustizia al suo popolo, che punisce i suoi nemici e crea per esso una città giusta e prospera, in cui regna la pace, una pace che si farà universale, una sorta di ritorno dell’Eden. Il millenarismo invece si basa sul mito del “millennio”, l’attesa di un regno millenario, escatologico, posto alla fine della storia. Il nucleo è fondato sull’idea di rivalsa, il tema centrale è infatti il giudizio universale, che dividerà i giusti dagli empi. Dopo la battaglia finale il Bene vincerà sul Male, Satana sarà sconfitto e i giusti regneranno col Cristo sulla terra, per mille anni prima del Giudizio. Il regno del millennio è caratterizzato dalla giustizia, dall’uguaglianza e dalla possibilità di godere di tutti i beni terreni. Il mito millenarista ebbe grande successo, soprattutto fu la base, dopo la sua rielaborazione da parte di Giocchino da Fiore, di tutti i movimenti di rivolta contadina del Cinquecento, ispirazione per le popolazioni, ormai stanche di aspettare il regno del millennio e desiderose di crearselo da sole.Dopo aver analizzato le basi culturali della letteratura utopica, è giunto il momento di studiare quali sono le relazioni tra l’utopia e la sua rappresentazione in forma letteraria, studiare cioè il filo rosso che unisce l’utopia e il libro. 1.3 L’Utopia e il libro Il campo degli studi sull’utopia è ancora oggi dominato da una disputa tra gli studiosi che considerano necessario ampliare lo studio dell’utopia a tutte le sue forme di espressione e coloro che, 38 Dall’Utopia all’Eterotopia invece, la vedono univocamente legata alla sua forma letteraria: l’unica “vera” utopia. Gli studiosi più importanti, già citati, che avvallano quest’ultima visione sono Raymond Trousson e Alexandre Cioranescu. Trousson critica la visione dell’utopia come esercizio mentale sui possibili laterali perché la ritiene troppo vaga, inoltre, dal momento che l’utopista vuole organizzare un mondo nuovo e perfetto, ha bisogno di una modalità di rappresentazione, che a suo avviso non può che essere la letteratura: La volontà di rappresentare un universo costruito partendo dalla realtà e modificato dalla speculazione, dimostra che l’utopia richiede una forma letteraria, la sola in grado di realizzare la rappresentazione di un mondo in movimento, complesso come il mondo reale e con una vita verosimile. Questa utopia ha la caratteristica di essere opera di immaginazione e di cristallizzazione (fissa cioè un metodo della riflessione utopica)[…]. L’utopista è inevitabilmente legato a un progetto a dimensione estetica[…]. Consapevole della complessità della sua dimostrazione, sceglie in generale il romanzo come forma più consona alla realizzazione del suo progetto. Perciò l’utopia appare spesso come una metamorfosi del genere romanzesco.27 Trousson, è evidente, ritiene la forma letteraria dell’utopia è l’unica in grado di esprimerla, di darle corpo e realizzarla. Probabilmente sarebbe più opportuno limitare questa considerazione al primo periodo della produzione utopica, dalla sua invenzione nel 1516 fino agli inizi del Novecento, quando avviene una trasformazione nella rappresentazione dello “spirito” utopico che porta l’utopia ad esprimersi anche attraverso altri mezzi. La lacuna di questa tesi, non chiarita dall’autore, risiede nella considerazione della forma letteraria quale la sola in grado di rappresentare l’utopia, di R. Trousson, , Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo Editore, Ravenna, 1992, pp. 18,19. 27 39 Dall’Utopia all’Eterotopia “incarnarla”. Questo è il tema che deve essere affrontato, se pur brevemente. Per far ciò è importante prima di tutto contestualizzare il periodo storico in cui l’utopia nasce e si sviluppa; come sappiamo questo avviene nel XVI secolo e ha il suo apice nel XVII e XVIII. Questi sono secoli di grandi trasformazioni a livello culturale, è iniziato quel “disincanto del mondo” che porterà alla secolarizzazione del sociale. Il problema principale è l’interpretazione del mondo: la Natura per lunghissimo tempo era stata vista come l’opera, il libro di Dio, di cui i testi sacri davano l’interpretazione; il mondo era un testo portatore di un senso, che rinviava ad un Significato Supremo, i fenomeni visibili rinviavano all’invisibile, il microcosmo al macrocosmo, tutto rimandava ad una istanza ordinatrice, creatrice e leggittimatrice, che era naturalmente Dio. L’universo simbolico religioso legittimava il tutto organizzando il mondo intorno al suo Dio, per cui una e una sola poteva essere l’interpretazione del reale. Tutto ciò cambia nei secoli citati, e cambia proprio per una crisi all’interno del mondo religioso: cosa è la Riforma se non una nuova interpretazione della realtà religiosa? Il mondo non appare più chiuso in prototipi religiosi, ormai entrati in crisi e, grazie anche ai primi successi della scienza e della tecnica, il mondo sembra ora aperto a nuove interpretazioni che attraverso la razionalizzazione e la secolarizzazione permettono la “creazione di nuovi mondi” al di fuori dell’universo simbolico religioso. Come afferma Wunenburger: “La Razionalisation et la désacralisation du monde autorisent la costruction d’autres modèles, et permettent d’articuler la quête du lieu idéal avec une procédure mentale novatrice.”28 Le utopie non sono altro che la creazione di nuovi mondi, resa possibile da speranze nuove e obbligatorie dopo la rottura dell’universo simbolico religioso. L’utopia sceglie il libro perché ambedue soddisfano e sfruttano la pluralità dei paradigmi del mondo che ora sono possibili; l’utopia si inserisce in una nuova 28 J.J. Wunenburger, L’utopie ou la crise de l’imaginaire, Delarge, Parigi, 1979, p. 121. 40 Dall’Utopia all’Eterotopia visione dell’esistente che la stampa, e il libro in quanto sua espressione, sviluppa molto bene, quello cioè di sostituire “il libro del mondo con il mondo del libro”29 poiché sia il libro che l’utopia, hanno la spinta a chiudere le possibili interpretazioni del mondo all’interno di uno spazio chiuso e artificiale, la pagina per il libro, la città perfetta per l’utopia. In essa la razionalità limita il caos in cui è entrato il reale dopo la crisi della visione religiosa del mondo, dei cambiamenti sociali e anche, altro elemento da non dimenticare, dell’apertura del mondo geografico, con tutto ciò che questo comporta nell’assiologia del pensiero, avvenuta dopo la scoperta dell’America. La nascita del concetto di utopia è infatti contemporanea all’invenzione e alla diffusione della stampa, non solo come tecnologia, ma come supporto di una nuova relazione tra l’uomo e il pensiero. L’utopia letteraria sembra essere l’espressione migliore delle tesi di McLuhan su La galassia Gutemberg e le sue conclusioni sulla correlazione tra la logica tipografica e la proiezione lineare, astratta e razionale, che sembra incarnarsi perfettamente nell’utopia, con la sua voglia infinita di dare un ordine astratto al caos della vita sociale. Con il libro a stampa l’utopia prende la sua forma di mondo chiuso e artificiale tipico di una prospettiva razionale. Come la stampa limita l’iconosfera simbolica tradizionale e la sostituisce nel ruolo di mediatrice tra l’uomo e il mondo, tra l’uomo e il cosmo, così l’utopia nella sua razionalità limita il caos dell’immaginazione sociale, chiarendo così le seguenti parole di Baczko: “L’utopia ha la volontà di installare la razionalità nell’immaginario.”30 Come il pensiero è mediato dal libro per l’interpretazione del mondo31, sostituendosi all’esperienza, offrendocene una traduzione per procura, in una forma statica, uniforme, organizzata, così l’utopia ci offre la prefigurazione dello Cfr. J.J. Wunenburger, Op. cit., p. 121. B. Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino, 1978, p. 23. 31 Cfr. A. Cavicchia Scalamolti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri, Napoli,2007, p.54. 29 30 41 Dall’Utopia all’Eterotopia spazio delle città perfetta, razionale e astratta estrapolandola dalla realtà caotica. Il libro e l’utopia si sposano perfettamente perché hanno in sé una forma di pensiero lineare e razionale, entrambi cercano e offrono un quadrillage a due dimensioni come soluzione alla molteplicità naturale del mondo. Il discorso sulla città e il luogo ideale sono il trionfo della pagina sull’ambiguità del mondo: Le monde utopien sera enfermé dans la typographie d’un livre, qui elle-même conditionne sa composition figurative interne. La cité rêvée réduit la disparité et la coloration de la vie à un paysage social uniforme et abstrait, dans lequel la régularité des signes écrits fait écho à là géometrisation et la palnification des existences. L’intemporalité des cités possibile correspond donc à la spatialité normalisée du livre.32 L’utopia non è che la messa in scena di una città perfetta “drammatizzata” sulla pagina. Il libro ha limitato il pensiero, nella sua rêverie sull’interpretazione del mondo, ha distaccato il senso dal vissuto rendendolo connaturato ad una pagina su cui stampare l’astrazione del pensiero uniformato, di cui l’utopia porta le tracce più visibili, riduce la felicità e la perfezione alla logica di un testo, dispiegandola e omogeneizzandola ad una tecnica. Naturalmente la relazione causale tra forma dell’utopia e stampa non può essere così diretta, troppi elementi a livello culturale stavano cambiando per imputare o far derivare la genesi letteraria dell’utopia solo alla stampa, pensiamo ad esempio alla strutturazione concettuale della prospettiva.33 Cos’è la prospettiva se non una tecnica razionale di costruzione del mondo? Il mondo costruito attraverso la tecnica della prospettiva è, come nella fisica e nella matematica, chiuso in uno spazio razionale e regolare, la mediazione di questa tecnica è identica alla mediazione tipografica: 32 33 J.J. Wunenburger, Op cit, p. 122. Cfr. E.Panovsky, La prospettiva come forma culturale, Abscondita, Milano, 2007. 42 Dall’Utopia all’Eterotopia “le système remplace la vie, l’ordre clos encercle l’imprévisibilité et l’équivocité du vécu.”34 Tutto ciò è simile alla città perfetta dell’utopia, che astraendosi nel libro si sottrae alla problematicità storica, l’utopia si dota di un modo per organizzare la città e normalizzare i ruoli sociali affinché si sfugga al caos e all’imperfezione della storicità; la perfezione non è più nella natura, nel mondo, ma solo nella programmazione trasparente attraverso la ragione. L’utopia, come si nota, rispecchia e contribuisce a formare questo nuovo quadro mentale sul reale che, dopo la caduta dell’universo simbolico religioso, si aggrappa alla razionalità, alla tecnica, alla costruzione razionale del reale per limitare il caos e l’ambivalenza del vissuto. Il rapporto privilegiato tra utopia e stampa è, come vedremo, solo il primo passo di una relazione costante e profonda che l’utopia intesserà con le tecnologie mediali, rapporto che metteremo in evidenza in maniera approfondita nel corso della ricerca perché produrrà notevoli trasformazioni nell’immaginario utopico e soprattutto perché tutti i media di massa che seguiranno la stampa, verranno investiti di tratti utopici peculiari, in particolare di poter riportare in auge e promuovere nuovamente delle relazioni comunitarie; riferendoci ai media successivi, pensiamo all’importanza della radio per dar corpo al sentimento nazionale o alle comunità virtuali teorizzate da Rheingold. Nell’ambito politico il sogno è ed è sempre stato quello di poter costituire una nuova agorà comunicazionale che fosse in grado di riunire in una globalità tutta l’umanità.35 Pensiero che è di molto precedente alle teorizzazioni sulla Agorà virtuale o la cyberdemocrazia di voga in questo periodo con il successo della Rete, e risalgono esattamente al successo della stampa e, ormai non dovrebbe stupire, alle parole di uno dei più J.J. Wunenburger, Op cit, p. 123. A. Mattelart, Storia dell'utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale. Einaudi, Torino2003. 34 35 43 Dall’Utopia all’Eterotopia famosi utopisti del XVIII secolo, Mercier, che nel suo An 2440 descrive la capacità della stampa di rendere più trasparenti e democratici i processi politico-sociali, e facendo ciò è in grado di riunire i cittadini in una società globale pacifica.36 Queste istanze vengono ora completamente riversate nella Rete: pensiamo alle rivolte ora in atto in Africa, o al mito del villaggio globale di mcluhniana memoria. La relazione tra utopia, media e il concetto di villaggio globale non deve stupire,infatti, il prima utopista, Thomas More, era un noto ecumenista, e la sua Utopia, aveva anche come proposito quello di trovare una soluzione alle guerre di religione che nel XVII secolo insanguinavano l’Europa. Ciò che è qui importante evidenziare è la trasformazione dei media da forma espressiva dell’immaginario utopico, in una vera e propria utopia, un’ utopia che ha portato delle trasformazioni importanti nella sostanza dell’utopia stessa avvicinandola a quella di eterotopia, ma questo lo analizzeremo in seguito. 1.4 Coordinate spazio-temporali dell’immaginario utopico Dopo questi presupposti concettuali possiamo iniziare ad addentrarci negli aspetti che più ci interessano dell’utopia, o meglio di quel particolare “spirito” che soggiace e determina la costruzione di una utopia. “Spirito” che potremmo definire come Gauchet “coscienza utopica”37, ma che preferisco denominare “immaginario utopico”, la struttura assiologica che determina la formazione di una specifica utopia. In primo luogo dovremo analizzare come i diversi immaginari utopici interpretino le categorie di spazio e di tempo, poiché 36 37 L.S. Mercier, L'anno 2440, Dedalo, Bari, 1993. Cfr. M. Gauchet, R. Redeker, Utopia e modernità, Città aperta edizioni, Enna, 2005, p 74. 44 Dall’Utopia all’Eterotopia abbiamo teorizzato uno slittamento categoriale dell’utopia nella società contemporanea, da una dimensione temporale ad una spaziale, questa è in fondo la tesi centrale della ricerca, che proveremo a dimostrare attraverso i fenomeni citati nell’introduzione. L’Utopia ha sempre avuto uno strano e contraddittorio rapporto con le categorie dello spazio e del tempo, in primo luogo perché si colloca in luoghi non esistenti, in massima parte non reali: è il problema del topos - che l’Utopia racchiude già nel nome - ma in realtà l’ossimoro spaziale ne nasconde uno più profondo, quello del tempo, poiché ogni utopia è attraversata dal sogno di essere un anticronia. L’Utopia per sua natura determina una doppia chiusura: quella dello spazio, chiuso, circoscritto, come l’isola di Moro o il falanstiero di Fourier, e quella del tempo , bloccato, fermo che non si apre più al futuro, la storia ha trovato il suo fine, poiché si è giunti alla società perfetta. Come afferma Redeker: “Per la sua vocazione contro-entropica l’utopia è una delle macchine da guerra che la cultura umana ha forgiato contro il tempo”38. Naturalmente tutto ciò sarebbe vero se l’utopia si concretizzasse; la nascita della società perfetta segna l’incarnarsi dell’Armonia, (pensiamo all’armonia delle passioni di Fourier) e in questa realizzazione si compie l’annullamento del tempo e a sua volta la fine della Storia. Niente tempo, niente storia; il tempo dell’utopia è il regno della ripetizione armonica. Questo rapporto tra Utopia e categorie spazio-temporali lo si potrebbe generalizzare ed estendere a quasi tutte le manifestazioni utopiche, ma è strettamente rappresentante dell’Utopia al suo sorgere, all’inizio della società moderna; in seguito tale relazione si farà più complessa e sembrerà preferire ora la categoria spaziale, ora quella temporale. 38 Ivi, p. 39. 45 Dall’Utopia all’Eterotopia Per avere un quadro generale di come cambino i rapporti tra l’Utopia e le categorie spazio-temporali potrebbe essere utile una breve periodizzazione dell’immaginario utopico, dal suo nascere fino ad oggi, sottolineando gli elementi che più ci interesano. Seguendo una intuizione di Gauchet è possibile distinguere cinque tappe (per me diventeranno sei) nell’immaginario della società perfetta. Il primo stadio è quello che abbiamo delineato poco sopra: tutto nasce con il libro di Tommaso Moro nel 1516 (De optime Republicae statu deque nova insula Utopia libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus); da qui fino a L’An 2440 di Louis-Sebastien Mercer del 1770, l’Utopia si proietta nello spazio, un nuovo spazio dal quale osservare e osservarsi; ma per farlo era (ed è) necessario un altrove, un altrove dove poter risolvere i problemi e le contraddizioni che affliggono la società, e dove crearne una migliore. Per questo le utopie sono caratterizzate da uno scarto assoluto rispetto al qui e ora, un luogo talmente “altro” da appartenere a una geografia sconosciuta e a una storia ignorata, la ou-topos, appunto. Tale immaginario utopico è influenzato massimamente dall’ampliamento del mondo avvenuto con la scoperta del continente americano nel 1492. L’America era vista come una terra vergine, aveva offerto un nuovo punto di vista da cui osservarci e un terreno fertile su cui riversare le speranze e i sogni della vecchia Europa, una terra vergine in cui la razionalità scevra delle limitazioni istituzionali e religiose del vecchio continente poteva creare il mondo perfetto e incarnarsi in esso. Le utopie di questo periodo, fino a quella di Mercer, resteranno fedeli al canovaccio di Moro, pur nella varietà dei mondi inventati, tutte confronteranno l’ordine realmente esistente a un’alternativa che ne chiarisce i meccanismi e in cui progettare la perfezione. Solo verso la metà del diciottesimo secolo l’immaginario utopico inizia a trasformarsi per l’irruzione nella scena sociale, con conseguenze straordinarie nell’immaginario collettivo, di un nuovo elemento: il Progresso. Tale novità rivoluziona l’orientamento della 46 Dall’Utopia all’Eterotopia temporalità collettiva verso il futuro, elemento che insieme alla scoperta dello spiegamento sedimentario dell’esperienza umana nel divenire, investe con violenza, e non poteva essere altrimenti, anche l’immaginario utopico, aprendogli nuovi territori esplosi nel tempo, nuovi futuri possibili e immaginabili. Il progresso e il divenire diventano le chiavi di volta per edificare la società altra, la società giusta, abbattendo le resistenze del passato; non appena la progressività del tempo si impossessa dell’immaginario utopico non lo abbandona più: la società perfetta è per prima cosa quella che ci viene promessa dall’avvenire. La prima dimostrazione concreta di questa traslazione categoriale, che darà luogo ad una più ampia visione utopica - che altrove abbiamo chiamato ideologia del progresso - è l’opera di Louis-Sebastien Mercer L’An 2440, significativamente sottotitolata Rêve s’il en fut jamais (“Sogno, se mai ve ne fu uno”) del 1770, in cui l’alterità immaginaria si sposta nel futuro a sette secoli di distanza.39 Un’altra importante concetto trova le radici e si sviluppa dall’idea di progresso: quella di Storia. La Storia a differenza del progresso, che è qualitativamente neutro, essendo solamente il risultato dell’accumulazione degli sforzi fatti dalla ragione per trasformare le cose e le leggi, è qualitativamente pregna, introduce la prospettiva di uno scopo verso il quale tendere. Per questo è più ricca di conseguenze per l’immaginario utopico di quanto non sia il progresso, in quanto incoraggia l’attivismo, offre i mezzi per l’utopia che disegna, mediante la comprensione delle proprie spinte propulsive. Questo si propongono le utopie socialiste che si cristallizzano tra il 1815 e il 1848: non si vuole più solo immaginare la società futura, che è già in germe nel presente grazie alla storia, ma la si vuole edificare, si vuole farla passare dall’eventualità del pensiero al registro del praticabile. Le utopie di questo periodo come quelle del Falanstiero di Fourier o l’Icaria di Cabet hanno In questa opera l’autore immagina di addormentarsi e dormire fino al 2440, svegliandosi, ormai vecchio, in una futuristica Parigi, in una società perfetta. 39 47 Dall’Utopia all’Eterotopia questo intento, ma non colgono completamente le conseguenze disgreganti che il concetto di Storia ha apportato al sistema del pensiero occidentale. Fourier e Cabet creano un compromesso tra le possibilità aperte dalla storia e le antiche regole della rappresentazione dei mondi altri, le loro utopie si offrono come la soluzione all’enigma della storia, richiesta dalla lunga marcia dell’umanità attraverso il tempo, ma tali utopie vedono il loro compimento nell’ambito di una città esemplare, chiusa nella sua perfezione e nelle sue regole e mirano all’emancipazione dell’umanità solo per contagio. Su questi limiti si installano le utopie del socialismo reale (siamo alla quarta tappa), poiché, per loro, il socialismo utopico si preoccupa troppo di definire la fine del processo e per niente dei mezzi per raggiungerlo. Da questo momento in poi l’utopia sarà relegata nell’irrealtà, in segno dispregiativo, e l’immaginario utopico si innerverà e si occulterà nel materialismo storico marxista, l’utopia viene riassorbita nell’elemento del divenire e si trasferisce nell’idea di Rivoluzione, vero unico elemento che conserva caratteristiche utopiche, nonostante sia per i teorici della rivoluzione una naturale e infallibile induzione derivante dall’analisi materialista del presente. Anche le opere di finzione che invadono il futuro, come Guardando indietro di Bellamy, del 1888, e Notizie da nessun luogo di Morris, del 1891, si presentano come anticipazioni fondate, tendono ed intendono unirsi al flusso del reale. È il felice ed estremo istante in cui la previsione scientifica e la proiezione immaginaria, l’intelligenza del corso delle cose e la rappresentazione del loro compimento ideale hanno potuto coincidere. L’innervarsi dell’Utopia nella prassi storica segna l’occultamento dell’utopia stessa, la prassi storica domina, ma porta con sé conseguenze importanti nell’immaginario utopico: il concetto di storia, infatti, mal si adatta alla fissità cui l’immaginario utopico vuol giungere (si ricordi che fine di tutte le utopie è la fine del tempo), l’utopia nella sua forma classica è codificatrice, ingegneria sociale e tale ingegneria è il segno della alterità che veicola, ma la coscienza 48 Dall’Utopia all’Eterotopia storica non ammette fissità. L’alterità incorporata nella storia comincia ad avere accezioni non figurabili, questo perché per la coscienza storica l’avvenire deve esser portatore di una trasformazione radicale rispetto al presente, talmente radicale che è vano definirne i tratti. La trasformazione avverrà attraverso un salto, il salto della rivoluzione, e poi nulla sarà come prima, ed è per questo impossibile concepirne una configurazione. Qui nasce un occultamento dell’utopia (siamo alla quinta tappa) anzi, un non figurabile utopico ha preso luogo, come sentore di un non più figurabile avvenire in generale. L’utopia si nasconde nella storia e la sua alterità immaginifica perde efficacia e si disperde in altre sfere della cultura, poiché l’avvenire diviene oscuro e non definibile. Nonostante i teorici della rivoluzione affermino che il futuro metterà comunque fine all’alienazione del presente, ciò non è certo, ed è su queste basi che Krzysztof Pomian può parlare di crisi dell’avvenire, scorgendo in essa una sorta di assuefazione della nostra società al cambiamento, con la conseguenza che queste non riescono più a credere di andare verso un termine. Per Pomian questo non è altro che un ulteriore effetto del trionfo della coscienza storica, all’interno del nostro immaginario collettivo.40 Per Gauchet tale dominio della coscienza storica ha espulso la logica utopica dal futuro, ma questa comunque non è scomparsa, si è annidata, nascosta nel presente, in ogni movimento che denuncia l’insufficienza e la non perfezione delle nostre società.41 Partendo da questa periodizzazione di Gauchet prendiamo spunto per definire una ulteriore tappa dell’immaginario utopico, quella che in precedenza abbiamo definito Eterotopia. Poiché l’utopia sembra essere stata espulsa dalla categoria del futuro, questa Cfr. K. Pomian, La crisi dell’avvenire, R.Romano (a cura di), Le Frontiere del tempo, Il Saggiatore, Milano, 1981. 41 Per ulteriori approfondimenti sulla periodizzazione dell’immaginario utopico, cfr. M. Gauchet, R. Redeker, Utopia e modernità, Città aperta edizioni, Enna, 2005, pp. 73-93. 40 49 Dall’Utopia all’Eterotopia sembra essersi annidata nel presente, ma non solo, sembra essersi re-impossessata della categoria dello spazio; seguendo alcuni esempi citati in precedenza dimostrerò come l’immaginario utopico non voglia più creare la società perfetta in un fantomatico futuro, ma tenti di costruire “mondi alternativi” contemporanei alla società dominante, delimitati in uno spazio circoscritto. Abbiamo fatto riferimento alla comunità Hippie come primo esempio di tale nuova logica utopica e ne illustreremo degli altri. Prima però è necessario definire meglio il significato del termine ‘eterotopia’, coniato da Micheal Foucault in un testo chiamato appunto Eterotopia, in contrapposizione a quello di ‘utopia’: Le utopie sono spazi privi di un luogo reale. Sono luoghi che intrattengono con lo spazio reale della società un rapporto d’analogia diretta o rovesciata. Si tratta della società stessa perfezionata, oppure del contrario della società stessa, ma in ogni caso, queste utopie costituiscono degli spazi fondamentalmente ed essenzialmente irreali […]. Ci sono anche dei luoghi reali, dei ruoli effettivi […] che costituiscono una sorta di contro luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nei quali i ruoli reali […] vengono sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili […]. Questi luoghi li denominerò Eterotopie.42 Per Foucault ogni società ed ogni cultura ha e ha sempre avuto le proprie eterotopie, poiché un’altra caratteristica di questi controspazi è quella di esser delimitati e socialmente definiti: esempi tipici sono gli ospedali psichiatrici e i cimiteri. Prendendo spunto dalla definizione foucaultiana, possiamo traslarla leggermente e definire l’Eterotopia come la costruzione di un “mondo-altro”, conflittuale e antagonista ai valori della società dominante, delimitato in uno spazio definito, in cui realizzare e rendere effettivo il proprio immaginario utopico. La mia ipotesi è che la nascita delle eterotopie 42 M. Foucault, Eterotopia, Mimesis, Milano, 1994, pp. 13-14. 50 Dall’Utopia all’Eterotopia sia dovuta all’espulsione dell’utopia dalla categoria del tempo, in particolare da quella del futuro, e si sia impossessata di quella dello spazio, per costruire i propri mondi antagonisti. La nascita di questa nuova strutturazione dell’immaginario utopico sembra esser dovuta in massima parte all’affermarsi di una società industriale atta più alla propria riproduzione che a portare a compimento il sogno positivista della società perfetta attraverso la tecnica; così nuovi movimenti contro-culturali si sono attivati per costruire una nuova società alternativa, contemporanea alla società dominante. Intento di questa ricerca è rintracciare e descrivere tale trasferimento categoriale dell’utopia con le conseguenze che questo comporta per l’immaginario utopico che le sostiene e dà loro vita. Altro elemento chiave della ricerca è analizzare come e perché tali immaginari utopici abbiano visto inaridire il proprio spirito antagonista, e quindi scoprire - o almeno cercare di scoprire - dove oggi si annida lo spirito utopico e quali nuove composizione e caratteristiche stia assumendo, in un mondo che comunque non sembra aver smesso di credere alla potenza del sogno di una società perfetta. 51 Dall’Utopia all’Eterotopia Capitolo 2 L’Utopia della Controcultura degli anni ’60 e ’70 I like to think (it has to be!) Of a cybernetic ecology Where are free of our labors And joined back to nature, Returned to our mammal Brothers and sisters, And all watched over By machines of loving grace. RICHARD BRAUTIGAN Con questo capitolo inizia il nostro viaggio attraverso quella particolare dimensione dell’immaginario utopico che abbiamo definito “eterotopico”, un viaggio che ci porterà dallo studio della comune hippie fino ai Virtual world, passando per il cyberspazio e la Realtà Virtuale. La nascita di questa nuova strutturazione dell’immaginario utopico sembra esser dovuta in massima parte all’affermarsi di una società industriale atta più alla propria riproduzione che nel portare a compimento il sogno positivista della società perfetta attraverso la tecnica. Questo è ciò che afferma Pomian nel suo saggio sopra citato, ma più di qualche studioso contemporaneo ha concentrato la proprio attenzione su un cambiamento assiologico che si sta verificando nella nostra società che porterebbe la categoria spaziale in posizione di preminenza su quella temporale. Il primo a sostenere tale tesi fu Fredric Jamison che così asseriva: 53 Dall’Utopia all’Eterotopia Si è detto spesso che noi viviamo oggi in una dimensione sincronica piuttosto che diacronica, e io credo che almeno empiricamente sia possibile sostenere che la nostro vita quotidiana, la nostra esperienza psichica, i nostri linguaggi culturali sono dominati oggi da categorie di spazio piuttosto che da categorie di tempo.1 Traslazione categoriale causata per Giddens dalla disgregazione del tempo e dello spazio determinata dai nuovi mezzi di comunicazione globali e in tempo reale.2 Altri si sono spinti più in là arrivando ad annunciare la fine della Storia tout-court, come Francis Fukuyama, che nel suo più famoso e discusso testo, appunto La fine della storia e l'ultimo uomo, riproponendo alcuni temi e concetti significativi dello storicismo, delineava una nuova "storia universale", in polemica con una certa filosofia del Novecento ritenuta eccessivamente pessimista e incapace di rivalutare la possibilità di un percorso storico necessario e volto all'affermazione del migliore dei mondi possibili. Questa nuova storia universale avrebbe poi - e questo è sicuramente il punto più dibattuto della teoria - una vera e propria fine, rappresentata da un ben preciso sistema sociale, politico ed economico, ossia la liberaldemocrazia e, in particolare, la sua versione statunitense. Il sistema democratico liberale, soprattutto dopo la caduta e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, incarna per Fukuyama la “fine della storia”, la società perfetta ha già una forma e una realtà costituita. Questa è una teoria che tocca da vicino l’argomento di questa ricerca, perché sembra porre fine non solo alla Storia, ma anche alla ricerca di quella società perfetta che era la base del telos illuminista e positivista, determinando contemporaneamente la fine dell’Utopia. Elemento che l’autore sigla con una frase diretta e senza lasciare una qualsivoglia possibilità di fraintendimento: “non possiamo raffiguraci un mondo che sia F. Jameson, Il postmoderno ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2007, p. 34. 2 Cfr. A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna, 1994. 1 54 Dall’Utopia all’Eterotopia essenzialmente diverso dall’attuale e allo stesso tempo migliore.”3 Ma tutto ciò ha lasciato interdetto più di qualche studioso, poiché le utopie, nonostante tutti i limiti intrinseci e i numerosissimi fallimenti, rappresentano, anche per uno dei più appassionati critici di queste, come Milan Simecka, un’indispensabile componente della politica: A world without utopias would be a world without social hope, a world of resignation to the status quo and the devalued slogans of everyday political life…We would be left with hopeless submission to an order which is only too natural, because it can, as yet, modestly feed the people, give them employment and a secure daily round. It is unable to provide for […] the utopian ideas of its beginnings such as justice, freedom and tolerance, and to carry them further.4 Questo autore, nonostante abbia provato sulla propria pelle i limiti dell’utopia socialista nella sua Cecoslovacchia, sembra non voler cedere all’impossibilità di immaginare e creare un mondo migliore. Anche perché immaginare e creare mondi migliori e perfetti, alla ricerca di quel paradiso terrestre perduto secondo la millenaria tradizione giudaico-cristiana, sembra una necessità a cui la civiltà occidentale non riesce proprio a rinunciare, come Harry Levin ci spiega chiaramente nel suo saggio The myth of the golden age in the Renaissance: Essendo qui e desiderando di essere in un altro luogo abbiamo la possibilità di una scelta, anche se si tratta di una scelta effettuata mediante l’immaginazione. Possiamo optare per una qualche remota parte del mondo: un paradiso terrestre, oppure per un altro mondo: un paradiso celeste. Vivendo ora e preferendo vivere F. Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992, p. 46. M. Simecka, A world with utopias or without them, cit. in K. Kumar, The end of socialism? The end of utopia? The end of history? in AA.VV., Utopias and the millennium, Reaktion books, Londra, 1993, p. 75. 3 4 55 Dall’Utopia all’Eterotopia in un altro tempo non possiamo fare altro che immaginare. Ma anche in questo caso abbiamo la possibilità di una scelta rifiutando il presente possiamo scegliere fra il passato e il futuro: fra un ritorno all’Arcadia e un progetto per l’Utopia. 5 Ma come possiamo continuare a immaginare nuovi mondi perfetti se il tempo è già giunto a conclusione e la società perfetta per Fukuyama è quella in cui l’Occidente vive? Qual è la dimensione dell’immaginazione utopica in una realtà del genere? Esiste l’Utopia nel postmoderno nonostante l’annuncio de La fine della storia? Naturalmente è ciò che stiamo indagando e su cui vogliamo ragionare: l’Utopia si è fatta Eterotopia, trasla dalla categoria del tempo - una configurazione figlia dell’idea o meglio dell’ideologia del Progresso - a quella dello spazio, come ci fa notare Krishan Kumar: “un ritorno alle vecchie forme spaziali di utopia risalenti a prima del XVIII secolo, il tipo di utopia inaugurato da Moro.”6 Kumar non è il solo a vedere nella nuova dimensione spazio-temporale una nuova risorsa per l’immaginazione utopica, anche Fredric Jameson vede la spazializzazione temporale del postmoderno come una potente forza capace di rivitalizzare l’impulso utopico del nostro tempo. Nelle utopie spaziali la trasformazione delle relazioni sociali e delle istituzioni politiche è proiettata verso la visione di uno spazio e di un paesaggio, incluso il corpo umano. La spazializzazione quindi, qualsiasi elemento comprometta nella capacità di pensare il tempo e la Storia, apre anche un nuovo dominio per l’investimento della libido nella dimensione utopica e proto politica. H. Levin, The Myth of golden age in the Renaissance, cit. in G. Vitiello, Dal Lsd alla realtà virtuale. L’esperienza mistica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Lavieri, Caserta, 2007, p. 204. 6 K. Kumar, The end of socialism? The end of utopia? The end of history? in AA.VV., Utopias and the millennium, Reaktion books, Londra, 1993, p.76 [trad. mia]. 5 56 Dall’Utopia all’Eterotopia Jameson dichiara di trovare oggi, specialmente tra gli artisti e scrittori postmoderni “un misconosciuto partito dell’utopia.”7 La mia tesi sull’Eterotopia, riprendendo e sviluppando la definizione di Foucault, è però ancora più ardita perché non si limita al campo dell’immaginazione, come abbiamo visto in Levin o nell’ingegneria sociale, ma si incarna e si innerva nel reale, in questa realtà che ha smarrito la sua temporalità: “viviamo nel simultaneo, nell’epoca della giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del disperso.” E come non vedere e interpretare lo sviluppo dei media come una immensa proliferazione di spazi paralleli: dal teatro alla radio, dal cinema alla televisione, un filo conduttore che si rende ben visibile con i media digitali, dal cyberspazio, al web fino alla Realtà Virtuale, che alla fine del secolo scorso aveva portato al massimo grado la fascinazione per la capacità cosmogonica dei mezzi di comunicazione: la potenza creatrice di mondi.8 Una proliferazione di realtà e mondi alternativi che ci hanno educato nel creare nuovi mondi falsificando la realtà, moltiplicandola o segmentandola: Falsificare la realtà significa dunque costruirla. Fine del Settecento, Ottocento e primo Novecento segnano il rapido evolversi di un processo di falsificazione della realtà fondato sulla potenza di tecnologie della comunicazione rese necessarie dai processi di massificazione e di socializzazione della civiltà industriale e metropolitana: telegrafo, fotografia, telefono, cinema, radio, televisione. Non possiamo capire la svolta delle falsificazioni del presente, se non capiamo la qualità dell’intero ciclo delle falsificazioni della società di massa: dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri.9 F. Jameson, Il postmoderno ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma, 2007, p. 160, 180. 8 Cfr. A. Abruzzese, , Lo splendore della Tv, Costa e Nolan, Genova, 1994. 9 A. Abruzzese, I media non creano maschere né fantasmi. Ci raccontano la vita, su Telèma, n° 16, primavera 1999. 7 57 Dall’Utopia all’Eterotopia L’immaginazione della società perfetta o di un “contro-mondo”, si presenta oggi non già come sogno di una condizione ventura, ma come concepimento di un altrove paradossale, di uno spazio parallelo al nostro, di un contro-mondo che si può configurarsi sia nella pura realtà sia nella più completa immaginazione, lanciandosi poi verso l’estremo tentativo di unire i due opposti, provando a dar forma e sostanza all’immaginazione. Cosa sono se non questo le Disneyland e le T.A.Z, il cyberspazio e i virtual world. Le eterotopie viaggiano e si innervano in dimensioni spaziali, mentali e mediali di diverse qualità ed entità, inseguendo e realizzando (o tentando di farlo) quei possibili laterali di cui disquisiva Ruyer, rompendo e ricomponendo in modo quanto mai ambiguo quella dicotomia tra utopia e utopismo che così tanti problemi ci aveva dato in precedenza. Le eterotopie infatti non fanno altro che dar forma e sostanza (quindi sono utopie secondo la definizioni di Baczko dato che fissano delle immagini di società alternative) a dei contromondi, cioè a dei possibili laterali (puro utopismo alla Ruyer!) rendendo pressoché inutile la dicotomia sopracitata. Quello che sembra mancare alle eterotopie è una completa visione della società, spesso anzi, la totalità delle eterotopie è parziale, non punta alla rivoluzione globale della società, limitandosi a creare ambiti utopici al suo interno. Una mancanza di prospettiva globale che per Baczko è dovuta alla “mondializzazione”: Il contraccolpo della mondializzazione non è la rappresentazione di un’anti-mondializzazione globale, una sorta di riedizione dell’utopia conservatrice romantica, ma piuttosto la proliferazione di rivendicazioni e utopie parziali: aria pulita, agricoltura sana, eguaglianza per questa o quella categoria di esclusi o emarginati del grande cambiamento, ecc... Queste utopie parziali non si riuniscono in una rappresentazione generale, ma si 58 Dall’Utopia all’Eterotopia mettono in rete in modo più o meno provvisorio, in configurazione variabile, senza gerarchie né ordine evidente.10 Mancanza di prospettive globali che portano ad una sorta di “polverizzazione” del pensiero utopico, al suo costituirsi in eterotopie, a causa di quella mancanza prospettica che la dimensione temporale precedentemente forniva. Non essendoci più un “destino manifesto”, né credendo più all’ideologia del progresso, l’immaginazione utopica non può che incarnarsi nelle eterotopie. Tutto ciò ha inizio con la costituzione della comune hippie. 2.1 La Controcultura degli anni ’60 e ‘70 Il cammino che ci porterà all’analisi della comune hippie, intesa come primo prototipo di quella nuova dimensione dell’immaginazione utopica che abbiamo definito Eterotopia, non può non aver inizio con una preliminare descrizione di quella cultura, anzi di quella controcultura che sfociò poi nell’esperienza comunitaria di quel periodo. Ma non c’è nulla di più complicato che scrivere dell’America degli anni ’60 e della Controcultura: la descrizione di tale movimento culturale non può essere che parziale e abbozzata, poiché troppo complesso il fenomeno e troppe le sue diramazioni per poterne effettuare un’analisi sufficientemente approfondita, uno studio che sarebbe troppo ampio e che non è l’interesse principale di un lavoro come questo, che si pone altri obiettivi. Ne delineerò quindi approssimativamente le caratteristiche principali su cui la bibliografia a disposizione converge, per estrarre una definizione da utilizzare nella ricerca.11 B. Baczko, Finzioni storiche e congiunture utopiche, in AA.VV., Nell’anno 2000. Dall’Utopia all’Ucronia, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2001, p. 21. 11 Cfr. T. Roszak, Nascita di una controcultura, Feltrinelli, Milano, 1975, T. Gitlin, The Sixties: Years of hope, Days of rage, Bantam, New York, 1987, E. Beltramini, Hippie.com. La 10 59 Dall’Utopia all’Eterotopia Innumerevoli i gruppi e movimenti politici e non che ne fecero parte, nacquero e sfiorirono nel corso di poco tempo generando filiazioni e discendenze quanto mai ambigue e di complessa classificazione. Solo per fare qualche esempio, si dovrebbe parlare del Civil Rights Movement, del Free Speech Movement, dell’Anti-War Movement, di tutti quei gruppi che successivamente vennero fatti rientrare in quella che venne ribattezzata la New Left, comprendente i gruppi più politicizzati, quali il partito della S.D.S (Students for a Democratic Society), i Weatherman, gli Yippie (Youth International Party) e molti altri ancora meno politicizzati come gli Hippie e le White Panters, senza dimenticare la più famosa formazione per la rivendicazione dei diritti degli afro-americani, le Black Panthers, e questi solo per citare i più famosi. Nonostante questi gruppi abbiano avuto obiettivi, metodologie e approcci completamente diversi, l’immensa bibliografia inerente alla Controcultura degli ’60 e ’70 tende a includerli tutti in un unico movimento culturale, chiamato a seconda dei casi Controcultura, appunto, Underground, o Movement12, sottolineandone una coesione di fondo. Innanzitutto bisogna intendere la Controcultura come un movimento generazionale: per la prima volta i giovani si presentano sul palcoscenico della vita pubblica come una classe (se mi è concesso definirla così) o gruppo; c’era inoltre una sorta di comunione di intenti, cioè la critica e la volontà di cambiare la società nei propri valori strutturali; infine erano presenti un comune humus e una nuova sensibilità generati dal nuovo contesto storico, politico e sociale. Tralasciando le innumerevoli new economy e la controcultura californiana, Vita e pensiero, 2005, M. Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009, W. Hollstein, Underground. Sociologia della contestazione giovanile, Sansoni, Firenze, 1971, S. Proietti, Hippies! Le culture della controcultura, Cooper Castelvecchi, Roma, 2003, F. Pivano, Beat, Hippie, Yippie, Bompiani, Milano, 1990 e L' altra America negli anni Sessanta, Arcana, Milano, 1993. 12 Questo appellativo in realtà è riferito nella maggior parte dei casi ai movimenti di natura più prettamente politica. 60 Dall’Utopia all’Eterotopia contraddizioni che incorporava, possiamo affermare che la Controcultura degli anni ’60 e ’70 era incentrata soprattutto su due cardini fondamentali: la libertà e l’auto-espressione. La Controcultura, soprattutto quella americana, nata e sviluppatasi prima in California, e poi estesasi in tutto il territorio nazionale, inspirando anche una sorta di Controcultura internazionale, può essere definita come il rifiuto, o meglio, la contestazione dell’ambiente tradizionale, precostituito, istituzionale. Essa si diversificò secondo due direttrici: una era “impegnata” e politica, e diede poi vita al “movement”, con l’obiettivo dichiarato di cambiare le istituzioni politiche. L’altra era “disimpegnata”, l’ala che andava alla ricerca di nuove forme di aggregazione sociale e che trovò la sua espressione più compiuta negli Hippie e nella New Age; era la cultura del “dropping out”, dell’esilio dalla realtà sia fisico che mentale, tramite l’assunzione di droghe psicotropiche di cui sicuramente la più utilizzata era l’LSD. Questa seconda tendenza è quella che diede vita e accrebbe la speranza di sostituire il vecchio paradigma esistenziale con uno nuovo. Tutta la filosofia e la nuova visione del mondo della Controcultura può essere riassunta in queste parole di Fritjof Capra: In the sixties we questioned society. We lived according different values, we had different rituals and different lifestyles. But we could not really formulate our criticism on a single issues (…) but we did not develop any comprehensive alternative system of our views (…) in the sixties, we sensed the cultural transformation with great enthusiasm and wonder; in the ’70 we outlined theoretical framework.13 Tutta la ricerca storico culturale è concorde nel ritenere che il movimento controculturale ebbe come illustre predecessore la Beat F. Capra, Uncommon Wisdom, Bantam Book, New york, 1988, p. 13, cit. in E. Beltramini, Hippie.com. La new economy e la controcultura californiana, Vita e pensiero, 2005, p. 10. 13 61 Dall’Utopia all’Eterotopia Generation degli anni ’50, con la declamazione della famosissima poesia di Allen Ginsberg, The Howl, avvenuta a San Francisco nel novembre del ‘55 che diede vita alla San Francisco Renaissance e a quella che un decennio dopo si definì Controcultura. Quella sensazione di estraneità e disillusione tipica della Beat Generation non rimase circoscritta ad un’avanguardia letteraria; complice la guerra in Vietnam, l’omicidio di Kennedy e altri omicidi politici avvenuti in quel periodo (o proprio a causa di quelli) un’intera generazione negli anni ’60 iniziò a sentirsi estranea in casa propria. Partendo da questi presupposti la contestazione giunse a criticare tutti i diversi aspetti della vita pubblica e privata. Come ha scritto Fritjof Capra: I can best characterize the fifties by the title of the famous James Dean movie Rebel without a cause. There was friction between generations, but the James Dean generation and the older generation really shared the same world view: the same belief in technology, in progress, in educational system. None of that was questioned in the fifties. It was only in the sixties that rebels began to see a cause, which resulted in a fundamental challenge to the existing social order.14 La critica iniziò ad intaccare diverse dimensioni della vita sociale, dalla famiglia, e si allargò fino ad abbracciare quasi tutte le strutture portanti dell’american way of life: la tecnologia, vista come la principale causa della distruzione dell’ambiente e quindi del pianeta, l’educazione, la struttura socializzante dei valori tradizionali e istituzionali, il maschilismo, visto come una forma di dominazione sul genere femminile, l’economia, chiave delle diseguaglianze sociali e della povertà, l’identità, intesa come pura appartenenza di classe e non espressione della propria soggettività individuale, e così via. Inoltre per distinguersi dai bravi ragazzi degli 14 Ivi p. 82. 62 Dall’Utopia all’Eterotopia anni cinquanta - capelli corti, viso rasato, abiti sobri - la generazione dei Sixties iniziò a portare i capelli e barba lunghi e a indossare vestiti colorati e sgargianti, a evitare i prodotti chimici, a seguire una dieta vegetariana e a dedicarsi alle discipline orientali. Insoddisfatti del sistema educativo che cercava di integrarli nei meccanismi sociali molti decisero di abbandonare gli studi e dedicarsi ad altre culture. Avendo rifiutato la propria, questi giovano ne cercavano un’altra in cui identificarsi o da cui trarre ispirazione. La Controcultura aveva infatti i suoi rituali, la propria musica, poesia, letteratura, una notevole fascinazione per la spiritualità e l’occultismo e soprattutto la condivisa visione di una nuova società pacifica. La musica, quella rock in particolare, e le droghe psichedeliche erano il vettore catalizzante e mediatore di tutte le queste istanze, come se fossero il medium necessario perché questi ideali si potessero realizzare. La generazione della Controcultura voleva rinnovare la cultura americana, ma aveva bisogno di altre tradizioni culturali che la stimolassero per poter staccarsi completamente dalla propria. Trovò questa base teorica nella cultura orientale, che si diffuse molto durante quegli anni, un’ascendenza che gli Stati Uniti in realtà avevano accolto con favore già all’inizio del secolo, quando le lezioni e gli insegnamenti del famoso Krisnhamurti venivano seguite con entusiasmo. Le culture orientali in generale furono accolte con favore perché rappresentavano bene un nuovo sentimento che stava prendendo piede. In particolare ci sono alcuni concetti che l’oriente ha sviluppato e che si distanziano dalla concezione razionale occidentale: innanzitutto la concezione del sé. Da Cartesio in poi in occidente si concepisce l’idea di un soggetto agente su un mondo oggettivo; nelle filosofie orientali questo concetto può risultare del tutto estraneo. Nel Buddhismo, ad esempio, tutte le cose sono interconnesse, nessuna separata dalle altre e il desiderio della separazione è la fonte della sofferenza; concetto molto simile a quello del moksha della religione indù, che “prescrive” come fine 63 Dall’Utopia all’Eterotopia ultimo dell’esistenza la fusione con il Tutto (moksha sta per “estinzione”). Concezioni molto apprezzate dalla generazione della Controcultura, che voleva distaccarsi dalla visione razionalistica tipica del mondo occidentale. Tutte queste filosofie orientali erano perfette per una generazione che si definiva discendente delle tribù dei nativi americani e nella quale il sentimento di fusione con gli altri e con la natura era molto sviluppato e ricercato, come vedremo meglio in seguito. Per inquadrare e ordinare le caratteristiche generali della Controcultura, può risultare utile la tabella sottostante: Controcultura Cultura tradizionale Libertà di espressione Gratuità Immaterialità Punto di vista soggettivo Natura Primitivo Egualitarismo Interiorità Autonomia Identità personale Partecipazione (esperienza) Introspezione Cambiamento radicale Piacere Connessione Fiducia Dissonanza Creazione Intuitivo Tolleranza Socializzazione Utilitarismo Materialismo Istituzionalismo Industrializzazione Moderno Gerarchia Esteriorità Dipendenza Continuità culturale Spiegazione (analisi) Apprendimento Permanenza Dovere Causalità Scetticismo Conformismo Scoperta Razionale Aggressività Vulnerabilità Controllo 64 Dall’Utopia all’Eterotopia Le caratteristiche che abbiamo indicato e riassunto nello schema in realtà delineano alcuni temi chiave della Controcultura di stampo hippie. In effetti, nonostante la maggior parte di queste tematiche fossero diffuse e condivise e fungessero come una matrice culturale comune, in realtà la Controcultura degli anni sessanta, era contraddittoria e divergente, ma complementare, come se la propria natura fosse la sintesi di due anime diverse. Da una parte l’anima della contestazione al Sistema, che assunse una forma “impegnata” e “politicizzata”, che si era posta l’obiettivo di apportare un reale cambiamento, se non una vera e propria rivoluzione, nelle istituzioni politiche. Tale ala della Controcultura diede vita ad azioni di protesta radicale, come le marce contro la guerra in Vietnam e le manifestazioni per i diritti civili. Questa rifiutava il nazionalismo e le implicazioni della guerra fredda, la guerra in Vietnam, manifestava a favore degli afro-americani, del movimento femminista, delle rivendicazioni dei nativi americani e soprattutto per la Pace. Quest’anima trovò espressione nei gruppi della New Left, quali la S.d.S., gli Yippie, i Weatherman e le Black Panthers, solo per citarne alcuni. La seconda anima fu quella Hippie, o comunitaria, che preferì rinnegare e cercare di fuoriuscire (dropping out) completamente dal Sistema, rifiutandolo e ponendosi ai margini della società. Allontanandosi dalla tradizione della politica radicale e inspirandosi alle culture orientali15, si distaccò anche fisicamente dalla società dominante occupando le periferie delle grandi città (pensiamo a quello che poi divenne il quartiere simbolo del movimento Hippie, Haigh-Ashbury), o radicalizzando questa azione di rifiuto e allontanamento, organizzando delle comuni agricole nelle zone rurali del paese. Qui gli hippie tentarono di istituire una nuova In realtà questo punto è controverso e ne discuteremo in seguito, i primi ideatori del “dropping out” se così lo vogliamo definire, sono in realtà riscontrabili nella più autentica tradizione del Trascendentalismo americano, pensiamo a intellettuali e personaggi del calibro di Thoreu ed Emerson. 15 65 Dall’Utopia all’Eterotopia organizzazione sociale fondata sull’amore e sulla pace, condividendo le risorse materiali ed economiche, adottando la comunanza dei beni, una sessualità più disinvolta e utilizzando energie alternative, il tutto “condito” con una buona dose di sostanze stupefacenti, destinate ad ampliare le coscienze. Haight-Ashbury, un quartiere periferico di San Francisco, divenne presto espressione compiuta di tale visione della Controcultura: il teatro e la musica nelle strade, il clima sereno e gentile che avvolgeva questo quartiere è diventato mitico soprattutto grazie alla consacrazione avuta con la Summer of Love dell’estate del 1967, durante la quale 75 mila giovani arrivarono per un raduno a base di droga, musica e amore libero. Summer of Love che seguì a quello che poi fu l’evento che fece esplodere il movimento Hippie come un movimento di costume cioè il primo “Human Be-In” del gennaio dello stesso anno al Golden Gate park, sempre a San Francisco, quando Allen Ginsberg, anello di congiunzione tra la Beat generation e i “figli dei fiori”, insieme a Gary Snyder e Michael McClure guidarono la folla in un “OM” collettivo. Queste due anime della Controcultura avevano approcci alla politica completamente diversi e opposti, come confermano molti studiosi: Most Historians and commentators of the periods agree that the white, middle-class youth movement consisted of two distinct, but inexorably related components: a politicized, university-based, mobilization often called the New Left or “the movement”, of which SDS was a key element; and a more diffuse, less overtly “political” phenomenon of drug-oriented, alternative, antimaterialist, community living called the counterculture. Young people at the time tended to see the two phenomena as separate. Campus politicos despaired of the “do your own thing” hippies, who eschewed engagement and struggle with established power structures, whereas the hippies tended to criticize the 66 Dall’Utopia all’Eterotopia student activists for not dropping out to engage in the only fundamental change possible: psychic transformation. 16 Uno scarto politico che però a detta di uno dei pionieri dello studio della Controcultura quali Theodore Roszak, con il suo Nascita di una controcultura, non sembra importante, né determinante nella genesi di una contraddizione insanabile all’interno del movimento, anzi, per l’insigne professore i due differenti approcci erano solo due facce di una stessa medaglia: Riusciamo a cogliere la sottostante unità delle varietà di Controcultura se consideriamo la bohème beat ed hippie come un tentativo di mettere in atto quella struttura della personalità e quel totale stile di vita che conseguono alla critica sociale della New Left. In ciò che hanno di meglio, questi giovani bohèmien sono gli utopistici aspiranti pionieri di quel mondo che si trova al di là del rifiuto intellettuale della “grande società. 17 Oltre a ricomporre quella che sembrava una differenza inconciliabile tra le due anime del movimento questo passo introduce un’interessante apertura per la nostra tesi, infatti Roszak non fa altro che affermare che i due filoni della Controcultura avessero semplicemente due approcci al cambiamento, uno programmato, di stampo politico tradizionale, l’altro basato sull’immediato, sul presente, sul mettere subito in pratica i nuovi valori in “spazi alterativi”, noi diremmo eterotopici, ma questo aspetto è chiarito al meglio da un altro autore Todd Gitling, che mette ben in luce questo diverso approccio alla dimensione temporale: A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University Press, Durham, 2001, p. 9. 17 T. Roszak, Nascita di una controcultura, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 80. 16 67 Dall’Utopia all’Eterotopia C’erano molte tensioni tra l’idea radicale di strategia politica – che richiedeva disciplina, organizzazione e dedizione a risultati da ottenere in futuro, dopo un certo tempo – idea tipica della Controcultura di vivere la vita sino in fondo, subito, per se stessi o per la parte dell’universo incorporata in ognuno o per la comunità degli illuminati capaci di amarsi reciprocamente […] e che il resto del mondo andasse pure all’inferno (dove peraltro già si trovava). La tradizione radicale trovava una delle sue voci più potenti in Marx, che ha costruito la propria opera come una serie di glosse attorno ad un tema di fondo: cambiare il mondo! I gruppi più importanti della Controcultura – Leary, i Prankers, “l’Oracle” [un giornale hippie] – discendevano invece da Emerson, Thoreau, Rimbaud: cambiare la coscienza, cambiare la vita.18 In queste parole è ben esemplificata non solo la differenza delle due anime della Controcultura, ma in particolar modo la diversità nell’assiologia fondamentale della propria immaginazione utopica, una nel solco della tradizione radicale dell’Occidente, quella di discendenza marxista, per cui la rivoluzione deve essere preparata per un futuro radioso, quindi tipica di una visione utopistica moderna, in cui la categoria del tempo, in particolar modo il futuro è preminente, un futuro che inevitabilmente trascenderà la situazione attuale di ingiustizia sociale. L’altra ala della Controcultura, invece, porta in sé un rinnovamento radicale anche in questo aspetto, perché non è più il futuro ad essere carico di promesse utopiche, come l’ideologia del progresso insegnava, bensì è l’hic et nunc ad avere possibilità di alternativa utopica, l’utopia si può vivere, il mondo può essere cambiato seduta stante, semplicemente cambiando se stessi, Gitlin scrive, cambiare la vita, cioè cambiare l’approccio alla vita quotidiana, elemento tipico di ogni utopia, ma questa porta in sé quella volontà eterotopica che diventa immanente, contemporanea ad una società T. Gitlin, The Sixties: Years of hope, Days of rage, Bantam, New York, 1987, p. 213. [Trad. mia] 18 68 Dall’Utopia all’Eterotopia che deve semplicemente essere rifiutata ed abbandonata a se stessa. Qui si innerva la filosofia del dropping out , del ripudio della società e la creazione di eterotopie viventi, di cui il primo esempio, come più volte citato è il quartiere di Haight-Ashbury a San Francisco, ma in maniera ancor più decisiva per la nostra tesi, la creazione di quelle comuni agricole che si svilupparono tra la fine degli anni ’60 e tutti gli anni ’70, soprattutto nelle zone interne della California. L’importante è comprendere chi siano stati i protagonisti di questo nuovo movimento, chi diede realmente vita alla Controcultura. Quello che balza subito agli occhi è che si trattò di un movimento generazionale: furono i figli del “baby-boom”, un’ondata di nascite avvenuta negli Stati Uniti e nel resto del mondo successivamente alla fine della Seconda Guerra Mondiale,19 che entrarono nella tarda adolescenza proprio durante gli anni sessanta, a ritrovarsi protagonisti di questa stagione turbolenta. Alcuni studiosi20 arrivano a sostenere che la “rivoluzione” dei figli dei fiori non fu altro che il normale, fisiologico sconvolgimento e sentimento di sfida generazionale adolescenziale e tardo-adolescenziale acutizzato e amplificato dall’enorme numero di giovani. La generazione precedente non fu in grado, quindi, di assimilare, plasmare o addomesticare questa forza per integrarla nella “società adulta”: The young are cultural insurrectionaries, agents provocateurs with no allegiance to the past. The task of older generation is to control this “invasion of barbarians” and shape their energies so they become contributors to society. Only then, by recruiting the young, can the culture maintain its continuity. 21 Si consideri che in quel periodo la popolazione compresa tra i diciotto e i ventiquattro anni era cresciuta del 53%. 20 Cfr. anche Arthur Marwick e Norman Ryder per approfondire la tematica del baby boom americano. 21 L. Jones, Great Expectations: America and the babyboom generation, cit. in A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University Press, Durham, 2001, p. 6. 19 69 Dall’Utopia all’Eterotopia Naturalmente la semplice spiegazione demografica non può essere sufficiente, anche perché il movimento controculturale prese si il via negli Stati Uniti, patria del baby boom ma si internazionalizzò e si espanse in tutto il mondo anche in paesi in cui non si era verificato tale fenomeno demografico; pensiamo alla Francia, paese in cui la rivolta universitaria e i movimenti furono tra i più attivi e radicali, oppure all’Australia che non fu sconvolta dalla Controcultura nonostante l’aumento demografico fosse stato più consistente che negli Stati Uniti. Un elemento critico tralasciato da questa visione semplicistica è il fatto che non tutti i nati durante il baby boom presero parte alla “stagione della contestazione”: tutta la bibliografia è concorde nell’affermare che si trattò di una ribellione di classe, una “White middle-class rebellion”, e furono gli appartenenti a questa classe sociale che promossero e diedero vita alla Controcultura, una classe istruita. Non è un caso, infatti, che l’ala “impegnata” prese il proprio avvio all’interno delle università. I giovani appartenenti alla working-class invece di andare all’università venivano spediti in Vietnam, dove combattevano e nella maggior parte dei casi lì morivano. Tutti gli studi del filone dei Cultural Studies delineano delle differenze tra la cultura, anzi la sottocultura della working-class e la controcultura caratteristica della middle-class; nonostante i lavori siano inerenti al contesto britannico, si adattano bene anche a quello statunitense. Mettendo a confronto le due classi sociali si osserva come la sottocultura della working-class tese ad innervarsi e dare vita a delle “gang” (si pensi ai Mod o ai Teddy boy) con una tendenza all’identificazione di leader, mentre la controcultura della classe media si diffuse maggiormente in un ambiente più individualizzato: Working-class subcultures reproduce a clear dichotomy between those aspects of group life still fully under the con strain of dominant or ‘parent’ institutions (family, home, school, work), and those focused on non-work hours-leisure, peer-group associations 70 Dall’Utopia all’Eterotopia [...] During the high point of the Counter-Culture, in the 1960s, the middle-class counter-culture formed a whole embryo ‘alternative society’, providing the Counter-Culture with an underground, institutional base. Here the youth of each class reproduces the position of the ‘parent’ classes to which they belong. Middle-class culture affords the space and opportunity for section of it to ‘drop out’ of circulation. Working-class youth is persistently and constantly structured by the domination rhythm of Saturday night and Monday morning.22 Tra l’altro bisogna notare che coloro che diedero vita alla Controcultura rappresentavano comunque una minoranza, una avanguardia dei giovani della classe media, quindi non tutti gli appartenenti alla categoria della classe media presero parte alla Controcultura. Un ulteriore aspetto che bisogna approfondire consiste nell’aspetto “razziale” del fenomeno: prima abbiamo fatto riferimento alla white middle-class, ma avevamo sottolineato in precedenza come la componente dei Neri americani fosse molto importante all’interno del “Movement”. La dicotomia nasce dal fatto che la white middle-class era la categoria che più incarnò l’ala hippie e comunitaria della Controcultura, quella che voleva, e aveva anche i mezzi per fuoriuscire dalla società dominante, mentre i movimenti di colore rivendicavano il diritto di poter avere una reale integrazione all’interno di quella stessa società che gli hippie rifiutavano. Come giustamente fa notare Mario Maffi nel suo testo “La cultura underground”, i gruppi composti dai neri americani erano più politicizzati, non erano hippie, erano più vicini alle posizioni della New Left, anzi spesso ne dettavano l’agenda politica o addirittura l’organizzazione interna. Non è un caso che su ispirazione delle Black Panthers nacquero le White Panthers; tali Clarke, Stuart Hall, Jefferson, Roberts, Subcultures, Cultures, and Class: a theoretical overwiew, in Resistence through rituals: youth subcultures in post-war Britain, Londra, 1976, cit. in Bodroghkozy, A., Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University Press, Durham, 2001, p. 7. 22 71 Dall’Utopia all’Eterotopia gruppi volevano entrare a far parte della società, volevano spezzare il razzismo che la gerarchia sociale americana utilizzava per conservare lo status quo, volevano anch’essi prendere realmente parte all’american way of life, riuscendo finalmente a condividere quel percorso esistenziale fatto di parole guida come life, liberty and the pursuit of happiness, che era sempre loro stato negato.23 Dopo aver tentato di dare un’identificazione socioculturale dei soggetti che diedero vita alla Controcultura, dobbiamo analizzare un altro fondamentale elemento che tutta la bibliografia mette in relazione con questo controverso fenomeno culturale: la nascita della televisione. Elemento che per alcuni studiosi è decisivo e che tratteremo nel seguente paragrafo, anche perché sottolinea ancora una volta la stretta connessione tra utopia e mezzi di comunicazione, connessione che abbiamo iniziato ad indagare nel capitolo precedente, e nel corso della ricerca diventerà sempre più importante e decisiva. 2.2 Tecnologie della controcultura In questo paragrafo tenteremo di mettere in luce alcune contraddizioni di un movimento quale quello della Controcultura già caratterizzato da divisioni e diverse aree teoriche al proprio interno. Qui tenteremo di analizzare quale fosse il reale rapporto tra la Controcultura e la tecnologia. Come abbiamo visto il “Movement” soprattutto nella sua versione hippie era contraddistinto da una forte vena critica nei confronti della tecnologia, vista come un meccanismo utilizzato dalla società per dominare la Natura e più in generale per ordinare e controllare la società nel suo complesso, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, con la televisione in primo piano. Proprio la televisione sarà la protagonista della prima 23 Cfr. M. Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009. 72 Dall’Utopia all’Eterotopia parte del paragrafo, in seguito ci occuperemo della droga, in particolare dell’Lsd, intendendo quest’ultima come una sua variante tecnologica. 2.2.1 La Television generation Se il baby boom fu il fenomeno demografico del secondo dopoguerra negli Stati Uniti, l’avvento della televisione fu certamente quello tecnologico: entrambi apportarono profondi e importanti cambiamenti in ogni ambito, da quello politico a quello socioculturale. Avvennero nello stesso periodo e molti soprannominarono la generazione del baby boom come “la generazione della televisione”, molti collegarono l’avvento della televisione con la successiva nascita della Controcultura, diverse voci, sia alcuni membri della Controcultura, sia tra le fila degli accademici, ma anche politici e uomini dell’industria televisiva, erano concordi nel collegare la televisione con il senso di repulsione e ribellione della nuova generazione. Tutti erano consci del fatto che la televisione ne fosse un elemento, pochi erano, però, d’accordo sul ruolo e importanza rivestisse all’interno della Controcultura. Andiamo con ordine, la televisione ebbe subito una straordinaria diffusione e un successo incredibile, già all’inizio degli anni sessanta il 92% delle famiglie americane ne possedeva una, era uno di quei beni di consumo che possiamo definire di “cittadinanza”, uno status symbol immancabile, per entrare a far parte ufficialmente della nuova società dei consumi, allora agli albori. Questo dava luogo ad un profondo senso e voglia di conformismo, sentimento contro cui la Controcultura poco più di un decennio dopo si rivoltò. In questo scenario di consumismo iniziale, l’infanzia rivestiva un importante ruolo catalizzatore, poiché la grande industria aveva identificato i giovani come un proficuo target di riferimento, si pensi al boom dell’industria dei giocattoli o di tutti i prodotti per bambini, e sfruttava le paure dei genitori per spingerli a soddisfare i bisogni e i 73 Dall’Utopia all’Eterotopia desideri dei propri figli, desideri che non soddisfatti ponevano il rischio di non precisati problemi esistenziali, desideri che naturalmente l’industria era pronta a soddisfare con qualche prodotto. Così i baby boomer si trovaro inondati di prodotti creati appositamente per loro, di cui la televisione era sicuramente il più importante. L’introduzione della televisione nelle case creò un misto di speranze e di paure, soprattutto sugli effetti che il nuovo medium poteva avere sulla nuova generazione. Il nuovo medium infatti oltre a diffondere i valori conformistici della società sembrava diffondere, attraverso il marketing diretto ai giovani, una nuova cultura giovanile potenzialmente ostile alla società degli adulti: un gap generazionale stava prendendo piede. La televisione pubblicizzata come portatrice di un generale sentimento di unione e armonia familiare, tutta la famiglia riunita intorno al televisore, sembrava invece destabilizzarla, perché come ha ampiamente e intelligentemente mostrato Meyrowitz ne mutava la “geografia situazionale”, i giovani erano introdotti nel mondo adulto attraverso il nuovo medium e ne scoprivano le contraddizioni, le ingiustizie, elementi che ne minavano quindi l’autorità, minandone la legittimità. Per Meyrowitz questa fu una delle cause profonde che influenzarono la Controcultura degli anni sessanta.24 Infatti quando, intorno alla metà degli anni sessanta, la prima ondata di baby boomer raggiunse l’università si scontrò con una realtà completamente diversa da quella che la televisione gli aveva mostrato, fu una sorta di “tradimento delle promesse”, collegato ad un sentimento ed ad un rifiuto di voler essere integrati ad un sistema che secondo loro li aveva ingannati e li voleva inserire come semplici rotelle nel meccanismo industriale dopo averli sedotti e ammaliati con visioni mediali di un futuro radioso. Altro elemento chiave per definire il rapporto dei baby boomer con il nuovo medium è quello per cui la televisione sembrava creare una nuova Cfr. J.Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995. 24 74 Dall’Utopia all’Eterotopia comunità generazionale: “Television, as Gottlieb implied, forged baby boomers into a special community – one that recognized itself as such by way its members all shared a common television culture.”25 Una comunità televisiva, sostenuta, questo non bisogna mai dimenticarlo, anche da uno stesso stile di consumo, che condivideva una stessa visione del mondo, una visione ben diversa da quella della generazione precedente, e con la quale ben presto si sarebbe scontrata. Questo senso di appartenenza e di una coscienza condivisa mediata dalla televisione e collegata alla Controcultura è dimostrata in maniera inequivocabile da un discorso tenuto durante una manifestazione di protesta davanti al Pentagono nel marzo del 1967, un’attivista Yippie26, Stew Albert tentava di convincere i coetanei in divisa ad aderire alla rivolta con queste parole : We grew up in the same country, and we’re about the same age. We’re really brothers because we grew up listening to the same radio programs and TV programs, and we have the same ideals. It’s just this fucked-up system that keeps us apart. I didn’t get my ideas from Mao, Lenin or Ho Chi Minh. I got my ideals from Lone Ranger. You know the Lone Ranger always fought on side of good and against the forces of evil and injustice. He never shot to kill.27 Albert rivendicava una sorta di unione culturale, degli ideali condivisi. Poiché sia lui che i giovani soldati avevano condiviso lo stesso ambiente mediale, entrambi avrebbero dovuto avere gli stessi valori trasmessi dalla televisione, fa accenno a The Lone Ranger, una sorta di cavaliere non violento e senza macchia che combatteva contro ogni tipo di ingiustizia. Per Albert “ciò che la televisione ha unito il Sistema non può dividere”, il giovane yippie, A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University Press, Durham, 2001, p. 22. 26 Gli Yippie erano un piccolo gruppo di attivisti che mediava tra le istanze degli hippie e quelle della New Left. Sostenevano un uso radicale dei mezzi d’informazione. 27 J. Rubin, Fallo! Il più sovversivo resoconto della contestazione americana degli anni Sessanta, Mimesis, Milano, 2008, p. 78. 25 75 Dall’Utopia all’Eterotopia non sembra minimamente interessato alle differenze di classe, genere, razza: la televisione era la “grande mamma unificatrice” dei “fratelli mediali”. La rivolta non si basava sulle teorie della tradizione marxista, ma sulla buon vecchia cultura popolare americana. La televisione che doveva trasmettere omogeneamente i buoni e conformistici valori tradizionali come un fantomatico “ago ipodermico ideologico” sembra invece aver coltivato i germi della rivolta trasmettendo i valori della Controcultura: Because of what it showed us of the way our Elders really thought and spoke and acted when not conscious of the pieties with which children are to be soothed and comforted...From I love Lucy and My little Margie my generation learned that domestic life was dominated by dishonesty, fear, and pretence; from shows like The Price is right…learned about greed; from the quiz show scandals we learned about the commodity exchange of wisdom and the fraudulence of that wisdom.28 Da queste parole oltre ad esser confermate le intuizioni di Meyrowitz, si nota come la rivolta sia essenzialmente generazionale e quindi il “Sistema” a cui Albert fa riferimento è quello degli adulti, sono gli adulti che mentono e hanno sempre mentito sulla natura della società, e allora si comprende meglio una delle frasi storiche di Jerry Rubin leader degli Yippie: “Don’t trust anyone over thirty.” La televisione e la generazione che crebbe contemporaneamente al suo sviluppo sovvertirono l’ordine sociale che teoricamente erano incaricati di sostenere e trasmettere. Come ci fa notare in maniera perspicace Salvatore Proietti, nel suo Hippies! Le culture della Controcultura,29 i giovani ribelli erano si sospettosi e molto critici, per usare un eufemismo, verso il mondo J. Greenfield, No Peace, No place: excavation along the generational fault, Garden city, Doubleday, 1973 cit. in A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University Press, Durham, 2001, p. 33. 29 Cfr. S. Proietti, Hippies! Le culture della controcultura, Cooper Castelvecchi, Roma, 2003. 28 76 Dall’Utopia all’Eterotopia degli adulti, ma nonostante questo cercavano e avevano la tendenza ad acclamare e a seguire come guru e propri ispiratori proprio esponenti di quella generazione; non si possono dimenticare Timothy Leary e Ken Kesey, i profeti dell’acido lisergico, o Allen Ginsberg, vero padre fondatore e vate del “flower power” e del misticismo orientale. Tornando al discorso che stavamo affrontando, la Controcultura, investì del ruolo di guru del nuovo medium televisivo Marshall McLuhan30, il “metaphysician of media”, come ebbe a chiamarlo Playboy in una sua intervista.31 Le sue teorie espresse in libri divenuti ormai dei classici come La Galassia Gutenberg, La sposa meccanica o Gli strumenti del comunicare, riscossero un grande successo specialmente nell’area hippie del “movement” e anche nella New Left furono accolte con favore. Per capire perché McLuhan e le sue teorie si rivelarono così attraenti per buona parte della Controcultura è opportuno riguardarle velocemente, ma lo faremo in maniera rapida perché ormai sono divenute famosissime e quindi tenteremo di mettere in luce quelle o parti di quelle in cui alcuni settori del movimento giovanile si rispecchiavano e di cui si appropriarono per avvallare i propri fini e la propria nuova visione del mondo e della vita. McLuhan sosteneva che l’adozione di ogni nuova tecnologia altera gli equilibri del sensorio, determinando la supremazia di uno dei sensi sugli altri. L’alterazione di questi equilibri modifica sensibilmente la nostra percezione del mondo, elemento chiave per un radicale cambiamento in ogni aspetto della vita sociale. Sulla base di questa tesi generale McLuhan affermava che l’introduzione dei media elettronici, e della televisione in particolare, rompeva McLuhan guru della controcultura rappresenta l’ennesimo paradosso di questo poliedrico e controverso movimento, infatti l’insigne professore canadese era di prospettive tendenzialmente conservatrici, cattolico professante e sicuramente non lo si poteva definire un sostenitore della televisione. 31 Cfr. Playboy Interview: Marshal McLuhan. A candid conversation with the highest priest of pop cult and metaphysician of media, su Playboy, marzo 1969, on-line all’indirizzo www.mcluhanmedia.com/m_mcl_inter_pb_01.html. 30 77 Dall’Utopia all’Eterotopia l’egemonia della “cultura tipografica” che aveva dominato l’Occidente fin dall’invenzione della stampa, intaccando quindi l’equilibrio sensoriale, creandone uno nuovo, dando vita ad una nuova visione del mondo. L’egemonia di una “forma mediale” sulle altre modella completamente una cultura attraverso il suo “bias”32, infatti mentre la “cultura tipografica” attraverso il suo “messaggio” a stampa favoriva il dominio dell’occhio, e un modo di pensare astratto, lineare, analitico, sequenziale e discrezionale, la cultura delle nuovi media elettronici favorisce l’acustico, il tattile e in maniera consequenziale il simultaneo, l’olistico, il coinvolgimento, l’irrazionale. Per McLuhan questo comporta un ritorno ad una cultura prevalentemente orale, una nuova ri-oralizzazione, che favorisce una cultura di tipo tribale in cui la parola e il suono sono simultanei. Inoltre la visione di un “tribalismo elettronico” determinato dalla televisione e dagli altri media elettronici contrae la spazio e promuove l’interdipendenza al punto che McLuhan vede il sorgere di un nuovo villaggio globale.33 Quest’idea di un nuovo tribalismo non poté che essere accolta con entusiasmo da chi si identificava, come faceva la Controcultura hippie, come una tribù, ispirandosi (semplicisticamente a dire il vero) alla cultura dei Nativi americani, elemento ampiamente dimostrato dal poster che pubblicizzava il primo “Be-in”, il mega raduno del 1967 che riuniva insieme sia gli hippie che la New Left, in cui era raffigurato un pellerossa con a tracollo una chitarra elettrica. Ma per spiegare come le visioni di un tribalismo elettrico professate da McLuhan influenzassero la Controcultura bastano le parole di Robert Roberts in un articolo apparso sull’“East village other”, un magazine underground dell’East Village di New York: Con Bias H. A. Innis descrive lo spettro delle proprietà intrinseche di un medium. In italiano non esiste una parola equivalente per tradurre tutti i significati connotati che il termine originale racchiude. Cfr. H. A. Innis, Impero e comunicazioni, Melthemi, Roma, 2001. 33 Cfr. M.McLuhan, La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico. Armando ed., Milano, 1991 e Gli Strumenti del comunicare, Il saggiatore, Milano, 1999. 32 78 Dall’Utopia all’Eterotopia We, the eletric-age generation, have been the first to feel the impact of the retribalizing effect of the new multi-media environment. We grew up with television, which fed our brains with millions of black and white dots electronically arranged and rearranged into microsecond patterns and images…we are in the age of gestalt and shape. We are no longer die-cast parts of a national mechanism. We are a tribe. We are the new breed of American Indian who smoke grass and hash and smoke drop peyote as a tribal ritual…We are the reincarnation of oral, preliterate man...34 Come si nota, la Controcultura si appropria dell’opera di McLuhan per dare un senso e spiegare a se stessa prima che ad altri la propria disaffezione e repulsione nei riguardi dei valori dominanti, ma è lo stesso McLuhan che in The Medium is The Massage, una summa del suo pensiero teoretico, descrive la iato irrisolvibile tra le due generazioni: “Youth instinctively understands the present environment – the eletric drama. It lives mythically and in depth. This is the reason for the great alienation between generations.”35 La nuova generazione era elettronica, la vecchia era ancora “tipografica”, per questo non potevano comprendersi. Le nuove tecnologie, specialmente la televisione, insieme alla quale la generazione del baby boom era cresciuta, cambiarono il modo di vedere il mondo, con un radicale riposizionamento della assiologia culturale, un cambiamento che la vecchia generazione non poteva comprendere. Una nuova cultura di stampo olistico, che adorava il coinvolgimento, professava una comprensione spirituale e spiritista del mondo, in cui l’irrazionale non era visto con disprezzo, ma al contrario veniva esaltato come espressione dell’interiorità; una R. Roberts, New Size, East Village Other, Aug. 13, 1969, p. 4, disponibile on-line all’indirizzo www.celticguitarmusic.com/woodstockother.htm. 35 M. McLuhan & Q. Fiore, The medium is the massage: an inventory of effects, Bentham books, New York, 1967, p. 100. 34 79 Dall’Utopia all’Eterotopia cultura, però, che aveva bisogno anche di una legittimazione, legittimazione che una lettura parziale di McLuhan diede ai suoi creatori, ma che la Controcultura hippie cercò e trovò soprattutto nella cultura orientale, cultura appunto impregnata su visioni del mondo olistiche e spirituali. Uno spostamento verso l’Oriente che anche McLuhan aveva notato e pronosticato: “Eletric circuitry is Orientalizing the West. The contained, the distinct, the separate – our Western legacy – are being replaced by the flowing, the unified, the fused.”36 Abbracciare le filosofie orientali era per i giovani degli anni sessanta un metodo per rinnegare la cultura consumistica occidentale, inoltre, soprattutto per gli appartenenti alle comuni psichedeliche, rappresentava un modo di dare senso compiuto e una legittimazione alle proprie esperienze psichedeliche, così simili alle pratiche di meditazione trascendentale di origine orientale. L’importanza e il rilievo che la Controcultura diede alle droghe è un aspetto cruciale per comprendere il modo in cui questi giovani avevano deciso di rifiutare il mondo sociale e crearne uno sostanzialmente diverso. Poiché il tema va affrontato più approfonditamente ce ne occuperemo nel prossimo paragrafo, qui ci interessa mettere in luce solo come la Controcultura tentò una sintesi tra le teorie di McLuhan e le pratiche psichedeliche. Innanzitutto bisogna sottolineare che la droga era percepita come un elemento chiave di tutta la cultura giovanile, non solo dall’alla hippie: marijuana, hashish, funghi magici, peyote, mescalina, Lsd, ogni tipo di droga psicotropica era un elemento di definizione cruciale di ciò che la ribellione giovanile significava realmente, facilitava e aiutava nel rifiuto del razionalismo Occidentale, per trasportarli e immergerli, questo riguarda specialmente Lsd, all’interno di quel flusso indistinto e onnicomprensivo di irrazionalismo olistico, di cui disquisivano le teorie di McLuhan e le 36 Ivi, p. 145. 80 Dall’Utopia all’Eterotopia pratiche Orientali. Per capire quanto la psichedelia fosse collegata alle esperienze televisive basta tornare al solito McLuhan : The upsurge in drug taking is intimately related to the impact of the electric media. Look at the metaphor for getting high: turning on. One turns on his consciousness through drugs just as he opens up all his senses to a total depth involvement by turning on the TV dial. Drug taking is stimulated by today's pervasive environment of instant information, with its feedback mechanism of the inner trip. The inner trip is not the sole prerogative of the Lsd traveler; it's the universal experience of TV watchers. Lsd is a way of miming the invisible electronic world; it releases a person from acquired verbal and visual habits and reactions, and gives the potential of instant and total involvement, both all-at-onceness and all-at-oneness, which are the basic needs of people translated by electric extensions of their central nervous systems out of the old rational, sequential value system. The attraction to hallucinogenic drugs is a means of achieving empathy with our penetrating electric environment, an environment that in itself is a drugless inner trip.37 Le droghe non fanno altro che proseguire nel solco che l’ambiente televisivo ha tracciato, ma quello che più interessa è come la Controcultura percepiva tutto ciò, ebbene Lsd era il medium che li immergeva in un mondo in cui i sensi erano estremamente acuiti e intensificati, dove sperimentare quell’estensione dei sensi e del sistema nervoso di cui parlava il nostro saggio professore canadese, dove si era parte integrante di un Tutto pacifico e piacevole, in sostanza non si guardava la televisione vi si era immersi. Il rapporto tra la televisione e Controcultura che abbiamo tentato di delineare è stato abbastanza complesso. Come abbiamo visto molti esponenti di diverse frange della Controcultura indicano la Playboy Interview: Marshal McLuhan. A candid conversation with the highest priest of pop cult and metaphysician of media, su Playboy, marzo 1969, on-line all’indirizzo www.mcluhanmedia.com/m_mcl_inter_pb_02.html. 37 81 Dall’Utopia all’Eterotopia televisione come un elemento decisivo per la nascita della loro cultura ribelle, tutto legittimato da una lettura idiosincratica di McLuhan, aveva consentito loro di dare un senso al rifiuto della società dominante. Nasce qui però una contraddizione: come è possibile che un elemento così prettamente consumistico come la televisione, che esprimeva conformismo da ogni sua valvola, potesse essere uno dei cardini su cui si fonda la Controcultura? Ecco McLuhan era pronto a spiegarlo, più a loro stessi che ad altri, visto che alcuni studiosi come Hayakawa38 dubbi non ne avevano. Il professore di origine orientali arriva alle stesse conclusioni di McLuhan, ma attraverso un percorso teorico completamente diverso. McLuhan sosteneva che l’esperienza televisiva fosse attiva e costruttiva, mentre Hayakawa affermava che fosse al contrario passiva, destrutturante e poco costruttiva, uno vedeva la nascita di una nuova cultura attraverso il mutamento dell’equilibrio sensoriale dovuto ai nuovi media, l’altro la interpretava come una regressione. Hayakawa vedeva la rivolta giovanile come una ribellione causata dalla distanza colossale che esisteva tra la realtà televisiva e il mondo reale, un mondo in cui non vi era una gratificazione immediata come la società dei consumi proposta dalla televisione aveva insegnato: How much of terrible impatience of so many young people – evident in the virulence of their protest – can be traced to the disparity between the real world and that Epicurean world inside the television set where the proper combination of pills and cars S.I. Hayakawa, era un noto psicologo e professore all’università del Wisconsin, elaborò le sue tesi sulla televisione in due numeri di Tv Guide del 1970. Divenne poi senatore in forza al partito repubblicano. 38 82 Dall’Utopia all’Eterotopia and cigarettes and deodorants can bring relief from suffering and instant gratification of all their material wants and desires. 39 Questa era una tesi diffusa, per cui i giovani erano impazienti e rivoltosi a causa della lezione appresa dalla pubblicità televisiva; in definitiva un ribaltamento dell’etica protestante, composta da studio, fatica e duro lavoro prima di poter godere di qualsiasi tipo di piacere. La televisione invece promulgava una soluzione facile, indolore e immediata per qualsiasi tipo di problema, ma la realtà non era decisamente così, era molto più difficile, dura e ingiusta. Contro questa discrasia tra immaginario e realtà, secondo Hayakawa i giovani si rivoltavano e rinnegarono poi tutti i principi della società che li aveva cresciuti, andando alla ricerca di nuovi modelli di vita, per quanto riguarda gli Hippie, o tentando di cambiare le istituzioni come i movimenti politici radicali. Hayakawa utilizza la tesi dell’assuefazione alla logica del consumo anche per spiegare l’uso di sostanze stupefacenti, sostanze che vengono utilizzate per avere una soddisfazione immediata, senza sacrificio, e sopratutto per sfuggire ad un mondo che, secondo i membri della Controcultura, ha loro mentito. Come McLuhan, anche Hayakawa, traccia un collegamento diretto tra l’esperienza televisiva e Lsd, ma anche in questo caso le sue tesi sono completamente opposte a quelle di McLuhan: “The kinship of Lsd and the other drug experiences is glaringly obvious: both depend on turning on and passively waiting for something beautiful to happen.”40 Se per McLuhan l’esperienza psichedelica era un modo per introdursi nella dimensione sensoriale della nuova cultura elettronica, per Hayakawa era solo una prosecuzione e allo stesso tempo un rifiuto dell’ingannevole mondo del consumo. Qui però S.I. Hayakawa, “Another challenge to the television industry”, in Tv Guide, May 16, 1970, cit. in A.Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University Press, Durham, 2001, p. 45. 40 Ibidem. 39 83 Dall’Utopia all’Eterotopia dobbiamo dissipare una contraddizione, la televisione è allo stesso tempo agente di socializzazione della società del consumo e movente del nascente sentimento Controculturale e lo è per gli stessi motivi? La televisione che divulgava e trasmette i valori e i caratteri del nuovo ordine sociale, era lo stesso medium che al contempo ne svelava il conformismo, l’ipocrisia, l’ingiustizia, che trasmetteva l’orrore della guerra in Vietnam? Ebbene proprio per questo, e forse nonostante tutto questo la Controcultura decise di mettere fine all’idillio, idillio che non poteva durare ormai a lungo con un “movimento” che aveva deciso di rifiutare e fuoriuscire da quel tipo di società. Dalla tv era stato educato, ma ora non poteva che rifiutarla perché la vedeva solo come megafono del conformismo e di quell’ordine sociale che voleva cambiare e da cui voleva fuggire. Questo nuovo sentimento verso il medium televisivo è espresso chiaramente da queste parole di Harlan Ellison, famoso scrittore di fantascienza e all’epoca critico televisivo per il giornale underground L.A. Free press: Walking down the streets these days and nights are member of the Television Generation. Kids who were born with TV, were babysat by TV, were weaned on TV, dug TV and finally rejected TV…but their parents, the older folks, the ones who brought the world down whatever road it is that’s put us in this place at the time – they sit and watch situation comedies. Does this tell us something?... The mass is living in a fairyland where occasionally a gripe or discouraging word is heard…The mass sits and sucks its thumb and watches Lucy and Doris and Granny and the world burns around them.41 La Controcultura lasciò la televisione e i suoi contenuti alla generazione precedente, per i membri della rivolta studentesca o per gli hippie altri media erano divenuti preminenti nell’arena dei Harlan Ellison, The Glass Teat: Essay of opinion on the subject of television, Ace books, New York, 1983, p. 47, disponibile on-line: http://harlanellison.com/home.htm. 41 84 Dall’Utopia all’Eterotopia consumi culturali come il cinema indipendente e soprattutto la musica rock, che con i suoi mega-concerti rendeva effettiva la presenza di quel villaggio globale di cui parlava McLuhan. La Controcultura ripudiò la televisione poiché era vista ormai come un’industria commerciale, dominata dai grandi network e corrotta inequivocabilmente dai valori dell’establishment. Il depennamento dai palinsesti televisivi del The Smothers Brothers Comedy Hour,42 il solo programma che la Controcultura continuava ad apprezzare, era il segno evidente della corruzione del medium. In realtà ritengo che la Controcultura si distaccò dal medium televisivo non solo perché lo ritenne inevitabilmente compromesso con l’ordine sociale, ma sopratutto perché non riusciva più a rappresentarla, i giovani della Controcultura non si sentivano più rappresentati dal mezzo che li aveva cresciuti. Penso che questo fu il vero motivo della disaffezione dei giovani del baby boom nei riguardi della televisione, questa incapacità del mezzo di rappresentare la Controcultura in un modo in cui i suoi membri vi si potessero riconoscere. Ebbene di questa disaffezione si può rintracciare un evento chiarificatore ed esemplare: il The Death of Hippie. Una performance artisticoteatrale itinerante che andò in scena il 6 ottobre del 1967, quando per le strade di Hight-Ashbury a San Francisco i Digger43 assieme a un centinaio di figli dei fiori, inscenarono la morte degli hippie, con tanto di bara al cui interno venne depositato un fantoccio dalle sembianze hippie; spettacolo ad uso e consumo dei media, per protestare contro la rappresentazione che i mezzi di informazione davano del movimento. Un rappresentazione che secondo la Controcultura non era aderente alla realtà e che tentava di The Smothers Brothers Comedy Hour era un varietà dal forte sapore satirico, in cui venivano spesso invitati famosi artisti della scena rock e per questo molto apprezzato dalla Controcultura. Andò in onda sulla Cbs dal 1967 al 1969, la sua chiusura scatenò vivaci polemiche. 43 I Digger erano una compagnia teatrale di strada di orientamento anarchico. Nel quartiere di Haight-Asbhury gestivano anche un centro di accoglienza gratuito per gli hippie appena giunti in città. 42 85 Dall’Utopia all’Eterotopia delinearla come un semplice e un mero fenomeno di costume, un tentativo di pacificare e semplificare, spesso con disinvolta malafede e una buona dose di voyerismo, un fenomeno che la società non comprendeva, soprattutto nelle sue implicazioni politiche. The Death of Hippie segna il momento in cui la Controcultura si distacca completamente dal medium televisivo, visto ormai solo come un altro ganglio dell’establishment. Mentre la maggior parte dei gruppi della Controcultura rinnegò la televisione, un gruppo decise che per “fare la rivoluzione” ed esportarla non bisognava far altro che manipolare i media, questi erano gli Yippie (Youth International Party), un gruppo che intendeva la Controcultura come ribellione continua e quotidiana in stile teatrale in cui le azioni simboliche e goliardiche, quali entrare a Wall Street e lanciare dall’alto della galleria manciate di banconote mandando nel caos il tempio sacro del capitalismo, fossero la normalità, il tutto esacerbato dalla ricerca di una nuova coscienza attraverso le droghe psichedeliche. La reale attività degli Yippie era la contro-manipolazione dei media, attraverso una distorsione psichedelica delle teorie di Marshall McLuhan: I mezzi di comunicazione non riferiscono “notizie”, le creano. Una cosa succede quando va in televisione, e diviene mito. I media non sono neutrali. La presenza di una telecamera trasforma una dimostrazione, fa di noi degli eroi. Quando è presente la stampa, abbiamo maggiori probabilità di successo perché sappiamo che qualunque cosa accadrà verrà riferita al mondo nel giro di poche ore. La televisione ci spinge ad “escalare” le nostre tattiche; una tattica diviene inefficace quando cessa di generare interesse o pettegolezzi – “notizie”...Il modo esatto di per comprendere la tv è di spegnerne l’audio. Nessuno ricorda le parole che ode; la mente è un technicolor di immagini, non di parole...Le immagini costituiscono il réportage. La nostra forza risiede nella nostra abilità di spaventare il nemico: quindi più i media esagerano, meglio è. Quando cominciamo a dire cosine simpatiche su di noi, allora si che dovremmo cominciare a preoccuparci...Oggi non si può essere rivoluzionari senza un televisore – è importante 86 Dall’Utopia all’Eterotopia quanto un fucile! Ogni guerrigliero deve sapere come usare il terreno della cultura che sta cercando di distruggere! Il nostro fine è rimanere un mistero. Teatro puro...Informazione pura... 44 Queste visionarie parole di uno dei leader degli Yippie, Abbie Hoffman, apre una nuova strada e un nuovo approccio nei confronti dei media, della televisione in particolare, una dimensione tattica nel senso di Michel deCerteau45 contro la strategia che il sistema adottava contro la Controcultura. Per concludere questo lungo paragrafo sul controverso rapporto tra il medium televisivo e la Controcultura bisogna trattare velocemente almeno altri due argomenti, che mostrano come nonostante tutti i tentativi della Controcultura di rinnegare la televisione, questa fosse legata a doppio filo con la propria filogenesi e quindi un completo distacco non era possibile. Il primo tema da affrontare è l’avventura del “Channel One”, una sorta di piccolo cinema alternativo, per la precisione, un “video theater” creato da Ken Shapiro e Lane Sarasohn, nella comunità hippie dell’East Village di New York. “Il video theater” conteneva un buon numero di vecchi televisori e ognuno poteva gratuitamente guardarne i programmi. I contenuti erano girati in prima persona da i due creatori ed erano una sorta di programmi televisivi controculturali, si concentravano su temi che i network generalisti non trattavano e non potevano trattare, come la droga, il sesso, le esperienze psichedeliche, tutti i buoni e vecchi argomenti cari agli hippie. “The Channel one” in pratica era la televisione della Controcultura, una televisione che li rappresentava e in cui i giovani hippie si riconoscevano. “The Channel one” dimostra ancora una volta l’indissolubile legame tra la Controcultura e la televisione. L’esperimento dell’East village fu solo A. Hoffman, Revolution for the Hell of it, Dial Press, New York, 1968, p. 103, cit. in M. Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009, p. 117. 45 Cfr. M. deCerteau, L’invenzione del quotidiano, ed. Lavoro, Roma, 2001. 44 87 Dall’Utopia all’Eterotopia l’inizio di un movimento molto più ampio che iniziò a svilupparsi l’anno successivo quando sul mercato venne immessa la Sony portapack, una piccola telecamera poco costosa, che consentì al potenziale creativo dei video alternativi di esplodere. Dopo l’esperimento pioneristico della “The Channel one” in tutto il paese nacquero “video collettivi” controculturali, lo scopo dei quali non era solo creare una tv hippie, ma usare il video come strumento per trasformare l’ordine sociale, fornendo e auto-producendo contenuti alternativi. Si arrivò ad individuare la possibilità di un nuovo uso dei media. L’invito era a non rigettare la tecnologia in toto, ma ad umanizzarla, utilizzarla per riprendere il controllo delle proprie vite; la televisione ad esempio non doveva essere vista solo come lo strumento migliore di trasmettere la vecchia cultura, ma mezzo fondante di una nuova. I principali teorizzatori di questa visione alternativa furono i membri del collettivo dei Raidance, nato a New york nel 1969, e tutta la loro poetica fu riversata in quello che divenne subito un libro classico della Controcultura “Guerrilla Television”46, in cui, Michael Shamberg, non solo descrive la teoria della “video rebellion”, ma la integra con una sorta di manuale pratico. Guerrilla Television espone una pratica ed una filosofia sui media alternativi: era un testo di istruzioni con saggi, illustrazioni e consigli pratici scritti in un linguaggio appropriato per i giovani attivisti; il testo era diviso in due sezioni: ‘meta manual’, che consisteva in un distillato delle teorie di Shamberg, e ‘Manual’, che conteneva le informazioni pratiche. Molti presero l’esempio dai Raidence, e iniziarono a girare video alternativi, elemento chiave insieme alla stampa underground per creare un’identità condivisa ad un movimento che, a causa delle tante anime che lo attraversavano, era per sua natura mercuriale e contraddittorio. L’esperienza della “video guerrilla” conferma ancora una volta come la Controcultura fosse profondamente mediale e assolutamente Cfr. M. Shamberg & Raidance Corporation, Guerrilla Television, Rinehart and Winston, New York, 1971. 46 88 Dall’Utopia all’Eterotopia legata ai contenuti audiovisivi, anzi con la “video guerilla” si era riusciti a dare un ruolo controculturale, da intendersi come Culture Jammming alla Dery47, alla tv, un valore sovversivo al mezzo che ormai veniva percepito come il portavoce ufficiale dell’ordine sociale. Un nuova possibile culture jamming per cui la televisione poteva divenire medium adatto alla Controcultura fu quello proposto sempre dall’East Village Other, per cui, seguendo le teorie del nume tutelare McLuhan, la televisione, essendo il più grande alteratore di coscienze della storia, avvolgendo completamente lo spettatore e trasportandolo in un mondo in cui i sensi sono espansi e coinvolti, può trasformarsi da megafono dell’establishment ad un medium adatto alla meditazione, come e meglio del Lsd, naturalmente seguono istruzioni per l’uso: In a darkened room, turn on your Tv set. Find a full channel. Adjust the brightness control all the way to bright (to the right). Adjust the contrast control (to the left). Adjust the vertical hold and vertical linearity controls all the way to left or right. Tune the channel selector to an empty channel. Readjust for maximum brightness as necessary – maximum retinal color results from maximum bombardment of the retina. Concentrate on sending your meditations out from your ashram to mine. Thank you. “We now return control of your Tv set to you”. 48 Seguendo McLuhan era possibile nuovamente far rientrare la televisione nell’ambito dei media controculturali, naturalmente in una nuova dimensione, eliminando i contenuti e lasciandosi trasportare semplicemente dalla caratteristiche tecniche del mezzo, Cfr. M. Dery, Culture Jamming: Hacking, Slashing and Sniping in the Empire of Signs, 1993, disponibile on-line all’indirizzo http://www.markdery.com/archives/books/culture_jamming/#000005#more 48 Katzam & Bowart, “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Political Club And Band”, East Village Other, July 1, 1967, p.5. 47 89 Dall’Utopia all’Eterotopia verso un nuovo mondo, quello psichedelico. Così la televisione diventa un’estensione tecnologica dei sensi psichedelici degli hippie. In realtà era solo la volontà di riprodurre con altri mezzi l’esperienza allucinatoria del Lsd, entrare in un mondo diverso da quello che avevano scelto di rifiutare, un mondo migliore una “eterotopia psichedelica”, di cui tratteremo meglio e più approfonditamente nel prossimo paragrafo. Qui mi preme sottolineare come le parole di Abruzzese,49 citante nell’introduzione di questo capitolo, sulla capacità delle nuove tecnologie della comunicazione di aprire nuovi spazi, alternativi e paralleli alla realtà dominante, siano adatte a interpretare questo filo complesso che lega la televisione all’Lsd e alla Controcultura. La televisione è stata la tecnologia che ha educato una generazione ad una nuova sensibilità e sensorialità, la ha socializza e familiarizza alla medializzazione e pluralizzazione delle realtà. L’Lsd, e la droga nel suo complesso, fu la tecnologia che la Controcultura adottò per sfuggire ad una società conformista, che bloccava la volontà di esprimere quella nuova sensibilità e sensorialità, società conformista che ormai aveva invaso anche il mezzo televisivo. Questa naturalmente può essere solo una delle molteplici interpretazioni, una meno “espressionista” potrebbe essere quella di considerare come all’albore di ogni nuovo mezzo di comunicazione alcune elite intellettuali ne intravedono il potenziale utopico in grado di cambiare il mondo, e creare una nuova comunità umana globale, accade alla nascita del telegrafo, e come visto anche Mercier affermava che la stampa avrebbe potuto creare una grande famiglia umana. La storia insegna anche, però, che ad un inizio in cui il mezzo è a disposizione di apprendisti e sperimentatori, di solito solo loro che hanno le visioni utopiche, il cyberspace ne è l’espressione più compiuta, segue sempre un periodo in cui il medium si istituzionalizza, si socializza, si integra nel sistema Cfr. A. Abruzzese, I media non creano maschere né fantasmi. Ci raccontano la vita, su Telèma, n° 16, Primavera 1999 e Lo splendore della Tv, Costa e Nolan, Genova, 1994. 49 90 Dall’Utopia all’Eterotopia sociale adottandone i valori e le regole. Superato questa breve parentesi siamo qui di fronte ad una contraddizione, la Controcultura nonostante tutti i suoi tentativi di rinnegare e rifiutare i valori del capitalismo Occidentale ne era figlia, della televisione in particolare. Even as they turned the tube’s programming off in droves, they still recognized their inescapable link to the medium. Television [...] was at least partly responsible for turning them into freaks, for causing them to embrace the values of the East as they rejected the values of Western consumer capitalism, for pointing out that the adult social order was nothing to look up to or emulate...They would forever be the children of television. As such, many would also find it impossible to ignore how the medium constructed their movement, their social and political disaffection and subversions, their alternative lifestyles, their idealism, and their threat to the established order.50 Molti studiosi estremizzarono il concetto che la Controcultura fosse talmente figlia dei suoi tempi da non poter realmente cambiare l’ordine sociale, questi ritengono che la Controcultura fu il fenomeno chiave per portare su un nuovo livello le linee portanti del sistema consumistico, autori come Thomas Frank, Joseph Heath e Andrew Potter,51 sostengono che la Controcultura sia stata decisiva per creare la reale società del consumo e la nascita del “hip consumering”. Secondo questo approccio il movimento confondeva il rifiuto della società con la propria ossessione di “essere differenti”, A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University Press, Durham, 2001, p. 60. 51Per affrontare il tema della Controcultura come evoluzione verso una nuova dimensione del sistema consumistico si consiglia la lettura di questi agili volumi, Heath Joseph & Potter Andrew, The Rebel Sell: How counterculture became consumer culture, Capstone, Southern gate Chichester, 2006, e Nation of Rebels: Why Counterculture Became Consumer Culture, Harper Paperbacks, New York,2005, Frank Thomas, The Conquest of Cool, The university Chicago Press, Chicago, 1998. 50 91 Dall’Utopia all’Eterotopia un bisogno che il sistema capitalistico sembra aver ben recepito. Ma come direbbe qualcuno: “questa è un’altra storia.” Ora è giunto il momento di affrontare come è perché la Controcultura diede così importanza alla droga. 2.2.2 Liberazione attraverso la droga La libertà e l’auto-espressione erano i due cardini su cui si fondava la Controcultura come abbiamo visto, libertà intesa nel modo più ampio possibile, per la generazione dei figli dei fiori era principalmente intesa come liberazione dal conformismo asfissiante degli anni cinquanta, seguendo le teorie di Marcuse, Wilheim Reich e Norman Brown, era anche e sopratutto una liberazione sessuale, dal rapporto di coppia borghese, una liberazione che avrebbe dovuto portare ad una piena espressione del sé senza quei blocchi nevrotici che avrebbero inficiato una vita completa, piena e felice. In tutto ciò la droga assume un ruolo chiave insieme ad altri “mezzi” o “tecnologie” come la meditazione zen, la psichiatria esistenziale, tutte tecniche per raggiungere un più profondo contatto con se stessi e con gli altri. Ruolo ben definito dalle parole del redattorecapo del giornale underground “San Francisco Oracle”, Allen Cohen: “La droga ci deterge dagli influssi inibitori del mondo esterno.”52 Il suo era un compito di supporto nel processo di liberazione. Libertà dal conformismo abbiam detto, conformismo visto come potente determinismo culturale, che non permette una reale e sana costruzione dell’Io. E’ di una ricerca identitaria quello di cui stiamo parlando realmente, una volontà di esprimere la propria individualità contro una società conformista e uniforme, questo è la vera dimensione di ogni controcultura dalla Beat Generation in poi. Cit. in W. Hollstein, Underground. Sociologia della contestazione giovanile. Sansoni, Firenze, 1971, p.98. 52 92 Dall’Utopia all’Eterotopia Ricerca di identità, che non si può sviluppare in altro modo che andando alla ricerca di nuovi valori, per questo non deve stupire l’ampio successo delle filosofie orientali, viste come una legittimazione, una spiegazione, un organizzazione di quel nuovo sentimento che si stava sviluppando, che era così polimorfo, anarchico e contraddittorio da risultare di difficile interpretazione e comprensione. Questa volontà di evadere da una Società che Roszak definisce “Tecnocratica”53, basata sulla tecnica, sulla competizione, sul consumismo e riabbracciare i valori della comunità, della Natura presuppone un tentativo di costruire una nuova coscienza, senza cui è impossibile edificare una nuova società. Questa era in pratica l’essenza del movimento hippie. La droga era un catalizzatore di questo processo, era un mezzo per entrare più facilmente in contatto con se stessi e per espandere la propria coscienza, ma da semplice introspezione individuale, si affermerà poi, soprattutto dopo l’introduzione dell’Lsd, in una dimensione sociale, come una poetica e una politica sociale. Diviene una un’esperienza collettiva, comunitaria, che fonde misticismo, utopismo, idealismo, religione orientale, non-violenza, base per il droppin’out. Qui si gioca lo scontro con l’ala politica della Controcultura, infatti mentre questa vedeva nella droga solo un mezzo per facilitare il ripudio dei valori dell’ordine sociale, per gli hippie la questione era più essenziale ed esistenziale, essi avevano abbandonato la società, la droga era parte essenziale della nuova filosofia di vita basata su una semplice equazione, illuminazione interiore (attraverso varie tipi di tecnologie, di cui la droga era la principale) = liberazione dagli istinti aggressivi = amore libero = amore universale = pace nel mondo. Era la filosofia «Per tecnocrazia intendo quella forma sociale in cui una società industriale raggiunge il vertice della sua organizzazione integrativa. Si tratta di quell’ideale che gli uomini hanno solitamente in mente quando parlano di modernizzare, di aggiornare, di razionalizzare, di pianificare...Il grande segreto della Tecnocrazia è di farci accettare tre premesse, collegate una all’altra: a) i bisogni essenziali dell’uomo sono di carattere puramente tecnico, b) L’analisi formale è completa, c) Gli esperti sono tutti stipendiati dal Sistema.» T. Roszak, Nascita di una controcultura, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 17. 53 93 Dall’Utopia all’Eterotopia inaugurata dal guru del Lsd Timothy Leary e del suo “Turn on, Tune in, Drop out” (accenditi, sintonizzati, abbandonati / abbandona la società) per cui attraverso l’Lsd, ma comunque con qualsiasi altro tipo di droga psicotropica, si poteva costruire una nuova collettività, costruendo una nuova coscienza, di conseguenza la droga diviene rivoluzionaria di per sé, prende il via la “rivoluzione psichedelica”: “La ‘rivoluzione psichedelica’, dunque, si riduce a questo semplice sillogismo: trasformate il modo di essere della coscienza oggi predominante, e trasformerete il mondo; l’uso della droga ex opere operato trasforma il predominante modo di essere della coscienza; quindi rendete universale l’uso della droga e trasformerete il mondo.”54 Seguendo questo ragionamento Ken Kesey e i suoi Merry Prankers a bordo in un di coloratissimo furgone denominato “Further”, girarono gli Stati Uniti organizzando riti iniziatici a base di Lsd, i noti Acid test, per convertire la nazione alla nuova religione. Tutto accompagnato dall’onnipresente Timothy Leary e dalla musica di gruppi psichedelici come Grateful Dead e Jefferson Airplane. Lsd era il protagonista principale di tutta questa scena, era la droga liberatrice per eccellenza come si evince dalle parole di chi Lsd lo ha scoperto e sintetizzato Albert Hofman, chimico dell’industria farmaceutica Sandoz: “Lsd mi ha permesso di vedere. Mi ha permesso di capire che fuori di noi c’è una serie infinita di mondi e che più allarghi il tuo sguardo, più vedi [...] ci si accorge che il mondo che ci circonda è più ampio e misterioso, infinitamente più complesso di quello che appare[…] E’ direttamente responsabile (l’Lsd) della nostra liberazione. Un viaggio nell’Lsd ti lega intimamente all’anima, è uno strappo delle difese dell’Ego. Dopo un viaggio nell’Lsd ogni 54 Ivi, p. 187 94 Dall’Utopia all’Eterotopia inibizione sessuale si libera... Si arriva a vedere tutto […] si arriva a vedere la verità.”55 In più l’Lsd ha un effetto ancor più importante: provoca un allargamento della coscienza paragonabile a un’esperienza mistica, dando realtà a quel richiamo Orientale che gli Hippie sentivano così intensamente. L’Lsd racchiudeva per sua natura tutte le istanze della Controcultura, era in grado da solo di spezzare le catene dell’ordine sociale, sia dal punto epistemologico, rompendo la visione razionale del mondo e della realtà, sia dal punto di vista esistenziale, ampliando e formando una nuova coscienze e liberando in maniera pacifica quegli impulsi sessuali che la società “tecnocratica” reprimeva. Immergendo chi ne faceva uso in un mondo in cui i sensi erano acuiti, in uno stato di coscienza espansa, permetteva un’unione diretta con se stessi, con gli altri e con la natura; L’Lsd dava così vita a quel mondo che la Controcultura sognava, fatto di comunione totale e completo abbandono alla beatitudine dei sensi. “Eterotopia psichedelica” l’abbiamo chiamata in precedenza, un “contro-mondo” contemporaneo e antagonista a quello esistente, di certo allucinatorio, ma del tutto reale per chi lo esperiva. Un mondo di beatitudine completa sia dal punto di vista psicologico che sensoriale, che sovvertiva non solo l’ordine sociale, ma soprattutto quello del reale. La percezione della realtà attraverso l’esperienza psichedelica non è razionale, è immersiva, è un’esperienza, appunto, più vicina alla conoscenza olistica orientale che non al razionalismo occidentale. In più come abbiamo sottolineato nel paragrafo precedente l’Lsd, o comunque tutte le droghe del genere, amplificavo ed esaltano una forte sensazione di unione tra l’individuale e il Tutto, con gli altri e la Natura, in un’armonia mistica e spirituale, che non era altro che un nuovo A. Hoffman, Lsd, il mio bambino difficile, Apogeo, Milano, 1995 cit. in L. Pollini, Hippie. La rivoluzione mancata: ascesa e declino del movimento che ha sedotto il mondo, Bevivino editore, Milano, 2008, p. 33. 55 95 Dall’Utopia all’Eterotopia paradiso terrestre. In fondo fine di ogni utopia è la creazione del paradiso in terra, gli hippie ne avevano scoperto le chiavi d’accesso. Adesso è importante sottolineare come questa sensazione di unione universale tra il sé e il mondo gli hippie la riconducessero a quel tribalismo di ritorno di cui disquisiva McLuhan, anche se con presupposti completamenti diversi, un rinnovato senso di tribù a cui gli hippie erano particolarmente legati, perché ne esaltava il loro sentimento comunitario. Un altro elemento che l’Lsd esaltava era il sentimento di esser tutt’uno con la natura, un ritorno alla Natura contrapposto al dominio su di essa tipico della società “tecnocratica”. Questo ritorno alla natura però ha qualcosa di strano, infatti non era dovuto a qualche elemento naturale, ma dall’ Lsd e come fa notare una battuta di Sterling: “Non è stata Madre Terra, in un impeto controculturale, a darci l’acido lisergico: è stato un laboratorio della Sandoz.”56 In realtà la Controcultura degli anni sessanta era già permeata dalla tecnologia più di quanto non sapesse o volesse credere come ci dimostra Mark Dery: “Lo spettacolo psichedelico di suoni e luci era un rito Dionisiaco quanto tecnologico, dalla colonna sonora elettrica satura di feedback fino ai caratteristici effetti visivi (creati con pellicole, diapositive, luci stroboscopiche proiettori collocati sopra le teste del pubblico) e fino all’Lsd che metteva in movimento tutta l’esperienza.”57 Queste parole ci descrivono un sincretismo alquanto eccentrico, sincretismo che ancora una volta mette in luce come la Controcultura fosse ancora profondamente connessa con una cultura di tipo tecnologico. Non è un caso infatti che trattiamo la liberazione attraverso la droga in un paragrafo intitolato Le 56 57 Cit. in Dery, M., Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 15. Ivi p. 32. 96 Dall’Utopia all’Eterotopia tecnologie della Controcultura, infondo l’Lsd non era altro che una tecnologia per creare, entrare, in un mondo parallelo, niente più che un induttore, un medium, per questo la similitudine con la televisione non è per niente fuori luogo. L’ “Eterotopia psichedelica” la si potrebbe semplicemente intendere come un’eterotopia mediale, con caratteristiche immersive, in pratica quello che una trentina di anni dopo rappresenterà la Realtà Virtuale. Non è un caso che anche questa, infatti, verrà salutata e descritta, da un nuovo gruppo controculturale, con le stesse immaginifiche e utopistiche qualità sovversive e rivoluzionarie, sia dal punto di vista individuale che collettivo, dell’Lsd. Ma di tutto ciò parleremo in seguito, ora ci premeva solo sottolineare come questa nuova e sovversiva “eterotopia psichedelica” non foss’altro che di origine tecnologica e mostrare che il tanto agognato ritorno alla Natura di cui la Controcultura faceva gran sfoggio non era del tutto sincero. Analizzando meglio si dovrebbe semplicemente constatare che, nella prima generazione che sperimentò la tecnologia come bene di consumo, anche l’idea di Natura fosse cambiata: non era ormai più possibile immaginare un ambiente naturale completamente scevro di elemento tecnologici, come mostra bene questa poesia di Richard Brautigan del 1967: I like to think (and The sooner the better!) Of a cybernetic meadow Where mammals and computers Live together in mutually Programming harmony Like pure water Touching clear sky. I like to think (right now, please!) Of a cybernetic forest Field with pines and electronics 97 Dall’Utopia all’Eterotopia Where deer stroll peacefully Past computers As if they were flowers With spinning blossoms. I like to think (it has to be!) Of a cybernetic ecology Where are free of our labors And joined back to nature, Returned to our mammal Brothers and sisters, And all watched over By machines of loving grace.58 Brautigan immagina e auspica sì un ritorno alla natura, un nuovo paradiso terrestre, ma in un Eden panteista in cui la tecnologia sia parte integrante del paesaggio. La sensibilità poetica aveva già capito e dato voce ad un cambiamento interiore, ad un nuovo schema mentale, che invece i giovani hippie non avevano compreso. Anche la Natura da loro così tanto desiderata e ricercata, portava dentro di sé i germi di quella società tecnologica che tentavano di superare e rinnegare, mostrando l’ennesima contraddizione di un movimento che, come abbiamo visto, ne presentava più di qualcuna. Concludiamo riassumendo le conclusioni a cui siamo giunti seguendo l’analisi del complesso legame che collega la Controcultura con le tecnologie. Ebbene anche se nel pensiero comune la Controcultura è sempre stata vista come un movimento dall’approccio pseudo-luddista abbiamo mostrato come in realtà avesse un legame molto stretto con alcune realtà tecnologiche. In particolare abbiamo analizzato e tentato di descrivere quale fosse R. Brautigan, All Watched Over By Machines of Loving Grace, disponibile on-line all’indirizzo http://www.americanpoems.com/poets/Richard-Brautigan/72. 58 98 Dall’Utopia all’Eterotopia l’articolato e contradditorio legame che univa il “Movement” con il medium televisivo. Anche se la Controcultura nella sua versione ufficiale si era sempre schierata contro il mezzo, accusato di essere soltanto il megafono dell’establishment e lo sponsor della società del consumo e del conformismo, abbiamo notato come quella stessa generazione che accusava il medium, era la stessa che quel medium aveva “educato”, a cui aveva trasmesso dei valori, che poi la portarono a ribellarsi al sistema, mostrando quindi una notevole importanza dell’ambiente mediale sulla cultura della generazione controculturale. Elemento poi confermato con l’analisi del rapporto tra droga e Controcultura, in questo studio abbiamo notato come la droga fosse assunta come mezzo che facilitava il compito di rinnegare i valori dell’ordine sociale, l’Lsd, in particolare, era visto come l’agente liberatore della coscienza e quindi sostanza imprescindibile per qualsivoglia rivoluzione. 2.3 Lo spazio eterotopico della comune E’ giunto il momento di parlare della vera eterotopia a cui la Controcultura degli anni ’60 e ’70 diede vita: la Comune. La comune rappresentò il tentativo di creare una nuova società, un contromondo hippie dove liberarsi dei valori della società “tecnocratica” e riconfigurare un’organizzazione sociale cambiando tutti gli aspetti della vita, dalla concezione del tempo, alla sessualità, ai rapporti interpersonali, una nuova tipologia di famiglia, un nuovo mondo in fondo. Come tutta la Controcultura il movimento comunitario era intriso di contraddizioni e correnti dagli orientamenti divergenti e molteplici, ci furono comuni influenzate dal pensiero di Willem Reich, o da quello di Norman Brown, chi tornò alle teorie di Owen, insomma come tutta la Controcultura anche il movimento comunitario era proteiforme e variegato. Nonostante questo 99 Dall’Utopia all’Eterotopia possiamo classificare e dividere la natura delle comuni in due macro-gruppi. Una divisione che riprende in realtà la dicotomia che abbiamo già delineato parlando delle due diverse anime del movimento. Partendo dalle similitudini possiamo affermare che per entrambe era centrale la volontà di trasformare i nuovi ideali culturali in realtà socio-economica, entrambe volevano rompere con il modo di vivere “square” (maniera in cui il movimento definiva in maniera dispregiativa lo stile di vita proprio della classe media), con le convenzionali regole basate sulla rispettabilità e sulla rigidità dei costumi borghesi. Il movimento comunitario, nel suo complesso, rifiutava le grandi organizzazioni, le grandi corporazioni, le fabbriche, le università, i governi. Il loro intento era ristabilire i rapporti interpersonali diretti tra i soggetti, cioè tornare a quei legami comunitari antecedenti alla costituzione della società, con la tipica solidarietà meccanica, una istanza che Servier definisce essere il fine ultimo di ogni utopia59. Il “riimbozzolarsi” in una comunità, dove sviluppare attraverso nuovi rapporti pseudo-familiari la propria personalità era il punto cardine di questa nuova dimensione sociale: “trasformarsi in un individuo pluridimensionale, per il quale il divenir persona significa perfezionamento umano mediante l’esperimento, il cambiamento, la critica, la pratica sociale.”60 Bisognerebbe notare, però, come nella comunità storica, o idealtipica se ci è concesso chiamarla in questa maniera, per distinguerla dal tipo di comunità di cui stiamo parlando, era proprio la costituzione o meglio la costruzione di un’identità prettamente personale, unica ed individuale ad essere minata, mentre questi nuovi adepti del movimento comunitario, al contrario, vedono nella comunità stessa l’unico modo per poterne sviluppare una, che fosse realmente autentica e non strutturata dalla cultura “square”. La prima macro-area del movimento comunitario si considerava il risultato di un lavoro sociale pioneristico (product of social 59 60 Cfr. J. Servier, Storia dell’utopia, Ed. Mediterranee, Roma, 2002. W. Hollstein, , Underground, Sansoni, Firenze, 1971, p. 167. 100 Dall’Utopia all’Eterotopia engineering) la cui meta finale era rivoluzionare tutto il vivere sociale, cioè l’intera società: aveva intenti politici e pseudorivoluzionari. La secondo macro-area, che potremmo definire “bohémienne”, non aveva questa spinta rivoluzionaria, il loro modus vivendi non aveva una dimensione esplicitamente politica. L’ala bohémienne, o hippie, per capirci meglio, era caratterizzata più dalla necessità e dal desiderio di un rifiuto intellettuale della “grande società”; rifiuto che si esprimeva in una condotta di vita di stampo edonista, basata sul largo consumo di droghe e sul vivere alla giornata, quest’ultimo elemento più mitico e fantasioso che altro. L’origine dell’esperienza comunitaria degli anni ’60 è contemporanea al delinearsi della contro-cultura, non era che uno dei modi per vivere e rendere quindi effettivi i nuovi valori. I precursori si rintracciano nei gruppi decisi ad allontanarsi non solo intellettualmente ma anche fisicamente dalla società. I primi hippie iniziarono a concentrarsi in un quartiere periferico di San Francisco, Haight-Ashbury all’inizio degli anni sessanta. Prima dell’avvento degli hippie, Haight-Ashbury, era una zona popolare, decrepita, abitata in prevalenza da neri, immigrati orientali e russi, completamente tagliata fuori dalla vita politico-culturale di San Francisco. Nei primi anni sessanta nel quartiere erano presenti innumerevoli immobili fatiscenti, costruiti all’inizio del secolo in stile vittoriano, enormi edifici, con affitti bassissimi, il luogo ideale, insomma perché giovani con poche finanze si riunissero per sostenere l’affitto dello stabile. Così nacque la prima comune urbana della Controcultura. Per tutti gli anni ’60 moltissimi giovani, intenzionati ad abbandonare l’american way of life si rifugiarono ad Haight-Ashbury. Anche se gli Hippie consideravano Haight-ashbury come una reale contromondo da opporre al sistema ufficiale: “un avamposto dell’umanità in un paese dove i computer pianificano l’annientamento del popolo vietnamita, e la distruzione totale, qui in 101 Dall’Utopia all’Eterotopia America, degli impulsi effettevi dell’uomo”61 , in realtà non possiamo concepire Haight-Ashbury come una reale eterotopia, perché intesseva ancora fitti legami con il mondo esterno, ad esempio la maggior parte degli abitanti doveva lavorare nel mondo “square” per poter pagare l’affitto. Di certo nel quartiere californiano si posero le basi per quel distacco completo che avvenne solo in seguito all’organizzazione delle comuni agricole, comunità autosufficienti dal punto di vista economico, che si svilupparono solo negli anni successivi. I nuovi cardini per una reale nuova società iniziarono a svilupparsi ad Haight Ashbury intorno al 1965, quando alcuni gruppi concepirono ed organizzarono la Comunità come ente che promuoveva un servizio sociale alternativo e gratuito. I fautori di questa nuova concezione furono i Diggers, gruppo alternativo di orientamento anarchico, nati nel 1966 guidati da Emmet Grogan, si dedicavano all’aiuto, al servizio, e al sostentamento della comunità hippie di San Francisco con strutture organizzate per la distribuzione gratuita di cibo e vestiario e con un ostello di emergenza per i viaggiatori e gli sfrattati. I Diggers prendevano il nome dagli “zappatori” del XVII secolo, utopisti inglesi che fondevano un vago comunismo primitivo all’ideale cristiano, ed intendevano crearne un’intera contro-cultura cooperativa: Ogni comunità Bohémienne ha la sua immancabile congrega di visionari che affermano di sapere come stanno le cose. Ma i Diggers sono in un certo modo diversi. Rivolti alla creazione di un’intera subcultura cooperativa, finora non sono solo vittime di allucinazioni, lo stanno facendo davvero...[Grogan] vuole dare inizio a fattorie digger i cui membri coltivino i propri prodotti. Vuole distribuire gratuitamente l’acido, eliminare i rifiuti e l’immondizia, e porre fine allo sfruttamento e al profitto. Vuole New Left notes, 6 Novembre 1967, disponibile on-line all’indirizzo http://cid5c4f2a5596a22ddf.skydrive.live.com/browse.aspx/New%20Left%20Notes. 61 102 Dall’Utopia all’Eterotopia una vita cooperativa per prevenire il caro-affitti inevitabile quando Haight-Ashbury comincerà a divenire chic. 62 I Diggers furono il primo gruppo della scena controculturale a progettare un nuovo tipo di organizzazione cooperativa del tutto indipendente dalla società, sia dal punto di vista dei rapporti interpersonali, sia dal punto di vista economico. Ora è giunto il momento di comprendere come questa filosofia del rifiuto non era per nulla nuova nell’immaginario politico e utopistico americano, considerando che la stessa America è stata fondata su un immaginario sociale di questo genere; in fondo i Padri Pellegrini fuggirono dal caos e dal malcostume di un Inghilterra alle prese con la rivoluzione industriale per rigenerare e rigenerarsi nel nuovo mondo, poco più di un secolo dopo la stesura dell’Utopia di Moro. Quella dei Padri pellegrini fu solo uno tra i tanti tentativi di creare nuove società nel paese scoperto da Colombo, moltissimi furono i tentativi di istituire comunità utopiche negli States, Oweniani, Foureriani, Cabettiani, tutti animati dalla speranza di trovare una terra vergine dove poter mettere in pratica le proprie nuove filosofie di vita. Tutte in linea con quella mitologia della frontiera e della wilderness propria e costituente della cultura americana. Dobbiamo notare, anche, come le basi culturali della Controcultura quali l’auto-espressione, l’olismo, il ritorno alla natura, la libertà e la liberazione individuale, di derivazione Orientale, richiamavano in realtà una corrente filosofica e intellettuale prettamente americana: Il Trascendentalismo. Anche qui notiamo come la Controcultura, nonostante i suoi costanti richiami a tradizioni culturali extranazionali, fosse invece completamente nel solco della cultura del proprio paese. Il trascendentalismo era un movimento filosofico e poetico sviluppatosi nel Nord America nei primi decenni Warren Kinkle, Tripping and skipping they ran merrily after the wonderful music with shouting and laughter, in “Oz”, n° 3 cit. in M. Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009, p. 82. 62 103 Dall’Utopia all’Eterotopia dell'Ottocento, nel quale, partendo dall'affermazione di trascendentale kantiano come unica realtà, si esprimeva una reazione al razionalismo e un'esaltazione dell'individuo nei rapporti con la natura e la società. Il trascendentalismo aveva più di un punto di contatto con la filosofia Romantica, ma soprattutto a detta di uno dei suoi fondatori Ralph Waldo Emerson con l’idealismo tedesco: Ciò che chiamano trascendentalismo non è che l'idealismo: l'idealismo quale appare oggi, nel 1842....E' ben noto al mio pubblico che l'idealismo odierno ha tratto il nome di «trascendentale» dall'uso del termine fattone da Emanuele Kant di Koenigsberg, il quale replicava alla filosofia scettica di Locke, secondo la quale non c'era nulla nell'intelletto che non fosse prima nell'esperienza dei sensi, dimostrando che c'era una classe assai importante di idee o di forme imperative che non derivano in nessun modo dall'esperienza, ma attraverso le quali l'esperienza veniva acquisita; che queste erano intuizioni dello spirito; ed egli le chiamò forme trascendentali. 63 Uno dei cardini del Trascendentalismo americano era la volontà di creare una nuova coscienza in grado di costituire una nuova società. Una società che viva in simbiosi con la natura. Valori espressi in modo chiaro in alcuni fondamentali libri quali Natura64 di Emerson, Walden e La disobbedienza civile65 di Henry David Thoreau, l’altro leader indiscusso del movimento. I libri di Thoreau, soprattutto, hanno avuto un’influenza fondamentale per la tradizione culturale americana; nel primo descrive i due anni trascorsi a vivere in solitudine sulle sponde del lago Walden, solo a contatto con la natura. Nel secondo invece sostiene la legittimità di opporsi e R.W. Emerson, The transcendentalist, 1842, disponibile on-line all’indirizzo www.fullposter.com/snippets.php?snippet=169&start=200&ordertype=0&cat=26. 64 R. W. Emerson, Natura, 1836, disponibile on-line all’indirizzo http://www.readme.it/libri/Filosofia/Natura.shtml. 65 H.D. Thoreau, Walden ovvero vita nei boschi, Rizzoli, Milano, 1997 e La disobbedienza civile, La vita felice, Milano, 2008. 63 104 Dall’Utopia all’Eterotopia disobbedire ad un governo ingiusto che avvalla la schiavitù e l’ingiustizia sociale. Un altro concetto chiave del trascendentalismo è quello di Over-soul espresso da Emerson in un testo omonimo: un’unità suprema che trascende il molteplice della realtà umana, che il filosofo spiega così: That Unity, that OVER-SOUL, within every man's particular being is contained and made with all other; that common heart, of which all sincere conversation is the worship, to which all right action is submission; that over-powering Reality which confutes our tricks and talents, and constrains everyone to pass for what he is, and to speak from his character; and not from his tongue, and which evermore tends to pass into our thought and hand, and becomes wisdom, and virtue, and power and the whole; and wise silence, the universal beauty, to which every part and particle is equally related; the eternal One.66 Un “Super Anima” nella quale è possibile risolvere l’inconciliabile contraddizione tra la soggettività individuale e il Tutto; un concetto molto simile all’Uno neoplatonico, alla Noosfera di Teilhard deChardin67 e a quella che Pierre Levy definirà Intelligenza collettiva68, più di un secolo dopo. Come abbiamo visto i temi sono esattamente gli stessi della Controcultura, un’esaltazione dell’identità personale, un nuovo e più profondo contatto con la natura e un sentimento di ribellione contro la società, la voglia di immergersi in quella Oversoul collettiva, senza tuttavia perdere la propria soggettività, perfino il riferimento alle discipline orientali. In più il Trascendentalismo americano non era solo una filosofia teorica, ma aveva dato vita ad una comune la famosa Brooke Farm, in cui per un breve periodo soggiornò anche Nathaniel Hawthorne. R. W. Emerson Over-soul, disponibile on-line all’indirizzo http://www.rwe.org/works/Essays-1st_Series_09_The_Over-Soul.htm. 67 Cfr. P. Teilhard de Chardin , Il fenomeno umano, Queriniana, Brescia, 2001. 68 Cfr. P. Levy, L'intelligenza collettiva: per un'antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 2002. 66 105 Dall’Utopia all’Eterotopia Ancora una volta quindi la Controcultura è pervasa dalla cultura che voleva abbattere più di quanto non sapesse o volesse ammettere: questa nuova pastorale americana è diretta discendente della stagione trascendentalista. Dopo questa doverosa precisazione teoretica, che non potevamo omettere, torniamo a parlare dei Diggers perché furono proprio loro a delineare i principi della nuova Comune Hippie, che gli stessi creatori definirono fondata sull’amore, e che si rivelò in seguito d’ispirazione per tutte le comuni: Punti sull’Amore nella Comune fondata sull’Amore, in Piena fioritura. 1) C’è amore in tutti per tutti gli esseri senzienti. 2) In tutti c’è l’apertura e la nudità dell’amore e della libertà completa da ogni nevrosi di origine square. 3) Tutti sono arrivati a quello stato illuminato di coscienza espansa conosciuto dai cinesi come yung-huo. Uno stato che si può definire come libertà da ogni attaccamento possessivo o morboso alle cose. 4) in tutti c’è sensibile e appassionata comprensione per gli errori e le definizioni altrui. Punti sulla Libertà e la Partecipazione nella Comune fondata sull’Amore, in Piena fioritura. 1) La comune fondata sull’amore è un’organizzazione anarchica priva di complicazioni di tipo autoritario. Ciò vuol dire che non c’è posto per impostori megalomani come capi e padroni e ciarlatani che si fingono guru. 2) Nei limite possibile, ogni lavoro è distribuito fra tutti. Non c’è nessuna truffa come una permanete “divisione del lavoro”, che porta inevitabilmente alla divisione della gente in classi diverse. 3) Tutte le cognizioni e le illuminazioni sono patrimonio comune, disponibile e gratis per tutti. Ciò vuol dire che i Diggers possono trasformarsi (e si trasformeranno ) in ragazzi e ragazze versatili o addirittura universali con le loro splendide potenzialità realizzate al massimo, e diventeranno così i progenitori degli esseri completamente consapevoli e illuminati della prossima Età dell’Acquario. E ogni Digger contribuirà alla comune fondata sull’amore in base alle proprie possibilità. 4) Tutti i beni materiali della comune sono distribuiti ai Digger in base alle necessità di 106 Dall’Utopia all’Eterotopia ciascuno, o, quando i beni sono abbondanti, resi disponibili e gratis per chiunque. 5) ogni lavoro pesante verrà automatizzato in modo che tutti abbiano abbastanza tempo libero per dedicarsi alle proprie attività particolari. 6) Ognuno è libero di fare ciò che vuole a condizione che ciò non significhi la castrazione della libertà altrui. 7) Per assicurare un’effettiva libertà personale, nessuno è trattato o considerato come proprietà altrui – ciò si applica ai bambini quanto agli adulti. Nessuno ha “diritti” sugli altri e i genitori non hanno “diritti” sui figli. 8) La libertà, il benessere, l’educazione l’illuminazione dei bambini, sono responsabilità di tutta la comune. 9) Per assicurare un’effettiva libertà sessuale, il rapporto sessuale all’interno di una coppia è considerato come un accordo reciproco liberamente stretto, che potrà essere di breve o lunga durata a seconda delle esigenze delle parti. Può essere liberamente rotto in qualunque momento dall’una o dall’altra parte ed entrambi possono prendere accordi con nuove parti – un accordo corrente che automaticamente cancella il precedente. L’accordo sessuale è considerato una faccenda esclusivamente concernete la coppia in questione, e non va soggetto ad interferenze non richieste d’una terza parte. Tutte le questioni sessuali vengono discusse liberamente e apertamente illustrate. 10) Non ci sono né restrizioni come leggi, clausole e regolamenti, né presunzioni come rispettabilità e moralità farisaiche e atteggiamenti tipo “sono meglio di te”. Il modo di vita dei Diggers è sempre materia di amore e comprensione. Tutti i punti suddetti, se realizzati in modo completo, porteranno la pratica della libertà e della partecipazione ad un nuovo grado di elevazione nella società umana. 69 La comune dunque nasce dalla volontà di abbandonare la società tradizionale, rinnovandola nei suoi apparati costituenti, come la famiglia, l’economia e l’educazione dei bambini, elementi tipici di ogni buona utopia. Il desiderio era quello di creare una nuova società dove fosse possibile coniugare la liberazione individuale con A. Lowsiewkee, The Digger thing is your thing...if you are really…turn on !, cit. in M.Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009, pp. 83-84. 69 107 Dall’Utopia all’Eterotopia un nuovo e più forte sentimento comunitario. Fondamentale in questo senso era la funzione della comune nell’allevamento dei figli, era la comunità nella sua interezza ad avere la responsabilità dell’educazione dei bambini e non solo i genitori. L’ampliamento del mondo infantile attraverso il contatto con molti altri coetanei e adulti avrebbe, secondo i teorici della vita comunitaria, evitato ai bambini l’istaurarsi di quelle nevrosi tipiche della famiglia borghese. Naturalmente era diversa anche la tipologia della famiglia, in pratica si trattava di una famiglia allargata in cui la monogamia non era l’unica struttura delle relazioni sentimentali prevista, anzi l’amore libero e lo scambio dei partner non era solo una possibilità, ma la normalità, esemplare fu l’esperimento di Harrad West a Berkley, il famoso “matrimonio a sei.” L’idea di base era che tutti i membri della comune facessero parte di una relazione matrimoniale collettiva, cioè tutti i membri adulti erano considerati sposati a tutti i membri del sesso opposto.70 Questo ci mostra come la base di una nuova comunità avesse principalmente luogo attraverso l’instaurarsi di relazioni sentimentali di natura diversa da quella della società “square”: Non tutti sono naturalmente monogami. In effetti la “monogamia a puntate” propria della società americana, e la crescente approvazione e frequenza del divorzio in questo paese – per non dire dell’incidenza dell’adulterio, dell’indifferenza, dell’infelicità, e della rottura di rapporti all’interno di molti tra i matrimoni che ancora sopravvivono – mostrano in ultima analisi che il legame esclusivo e perenne è tutt’altro che soddisfacente. All’interno della comune, al contrario, non si dà il caso che due adulti si vengano a trovare isolati o ossessivamente preoccupati l’un dell’altro. La tendenza potrebbe dunque essere a ridurre la tensione emotiva di una compagnia costante, condividendo il proprio tempo e i propri affetti con numerose altre persone. E non necessario che queste varie altre “associazioni”siano di tipo sessuale; nello stesso tempo, 70 Il numero dei partecipanti era naturalmente di sei uomini e sei donne. 108 Dall’Utopia all’Eterotopia però, non lo siano... Inoltre, mentre in tali situazioni la famiglia finisce spesso per sfasciarsi, il rapporto comunitario potrebbe benissimo sopravvivere, poiché non è necessario abbandonare fisicamente il primo amore se nasce affetto per qualcun altro. A volte, è naturale, il rapporto si spezzerà. E’ una cosa che succede nella vita, all’interno o all’esterno del matrimonio formale, e dobbiamo guardare la realtà in faccia e organizzarci per ridurre al minimo gli effetti di tale caso...71 Il movimento comunitario s’impernia dunque su questo nuovo concetto di solidarietà e di amore, su questa nuova visione dei rapporti affettivi e sessuali, su questa nuova concezione dell’educazione e dei rapporti interpersonali, ma come visto è anche una nuova dimensione economica e politica: una democrazia diretta che si occupava di ogni aspetto della comune. Le decisioni riguardanti la tribù sono prese collettivamente, le risorse sono messe in comune, il denaro è guadagnato nel mondo square e usato per finanziare ogni attività. Tutto ciò che viene creato dalla tribù è gratis. Non ci sono altre strutture familiari o individuali al suo interno. Ogni membro appartiene a se stesso e in piena libertà ogni membro appartiene agli altri; la tribù stessa appartiene ai suoi membri e non viceversa. Tutti i problemi personali sono patrimonio comune e vengono risolti attraverso l’azione comune.72 Dal nostro punto di vista queste nuove organizzazioni sociali rappresentano il primo esempio di eterotopia, poiché nonostante la tradizione secolare di movimenti comunitari negli Stati Uniti, queste erano nate come rifiuto della società dominante, non avevano intenti rivoluzionari, erano la pura espressione della mentalità M. Hill, Patterns of Living & Loving, in Communes – Journal of the Commune Movement, giugno 1970, cit. in M. Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009, p. 87. 72 Directory of Communes, n°3, agosto, 1970, p. 47 cit. in W. Hollstein, Underground. Sociologia della contestazione giovanile. Sansoni, Firenze, 1971, p. 168. 71 109 Dall’Utopia all’Eterotopia hippie, riassumibile nel famoso aforisma: “Do your own thing.” Al contrario quasi ogni movimenti comunitario precedente, aveva sempre covato un sentimento rivoluzionario73, e si era ritenuto l’avanguardia di una nuova realtà sociale. Questa dimensione era presente anche nel movimento comunitario degli anni sessanta, anche se con una rilevanza minore, è doveroso una loro analisi, in primo luogo le comuni di questo tipo si prefiggevano tre scopi: a) rifiutare al sistema qualsiasi prestazione produttiva e di consumo, contribuendo così al suo fallimento. b) sperimentare altre forme di vita comunitaria. c) creare una nuova società decentralizzata. A differenza delle comunità hippie, le uniche vere eterotopie di questo periodo, questo tipo di organizzazioni avevano una natura maggiormente politicizzata, interpretavano la comunità non come spazio liberato e antagonista contemporaneo all’ordine sociale dominante, ordine di cui però non si preoccupano essendo riusciti ad uscirne, come le comuni hippie, bensì come “avamposti rivoluzionari” da cui progettare e organizzare “un attacco” al sistema, cioè luoghi sicuri dove progettare la “Rivoluzione” che in un futuro inevitabilmente sarebbe arrivata! Elemento che mostra ancora quella discendenza classica di una certa tradizione radicale: All’inizio vedevamo la comune solo come un luogo in cui essere felici e sereni gli uni con gli altri. ora ci stiamo accorgendo delle implicazioni politiche della comune. Nella nostra, vogliamo dunque trovare la sintesi tra tendenze introverse (felicità all’interno) ed estroverse (azione politica all’esterno) tra atteggiamenti autoritari ed antiautoritari, tra teoria e pratica, tra inibizione dell’impulso e soddisfazione dell’impulso, tra lavoro e ricreazione. Se vogliamo cambiare il mondo, dobbiamo lavorare su due piano: dobbiamo cambiare noi stessi e dobbiamo cambiare l’ambiente politico-economico. La comune è per noi l’ambiente 73 Cfr. R. Creagh, Laboratori d’Utopia, Eleuthera, Milano, 1987, spt. pp. 202-205. 110 Dall’Utopia all’Eterotopia ottimale in cui scoprire il nostro vero io e preparare azioni esterne.74 Qui è ancora presente una prospettiva temporale che è invece scomparsa nella concezione hippie della comune, questo non deve stupire, come abbiamo descritto nel corso di questo lungo capitolo la Controcultura era percorsa da due correnti distinte anche se complementari, una legata ancora alla tradizione radicale classica, una visione “politica”, se vogliamo definirla così, mentre l’altra, la corrente hippie, introduceva una concezione nuova dell’antagonismo, una concezione “presentista”, incentrata sull’hic et nunc, più esistenzialista se vogliamo, desiderosa di creare e “abitare” un nuovo mondo, un “contromondo”, senza preoccuparsi di cambiare o abbattere quello dominante. Per far questo adottava varie tecniche, dalla uso di droghe psichedeliche fino alla più “fisica”, cioè la creazione di una società hippie attraverso l’istituzione delle comuni. Come vedremo nel prossimo capitolo fu l’anima hippie ad avere maggior successo, influenzando l’immaginazione utopica delle culture antagoniste che la seguirono, come il Cyberpunk, e in generale tutta la Cyberculture. Questa sarà una vera e propria “prosecuzione con altri mezzi” della Controcultura Hippie, una “filiazione” che analizzeremo nei dettagli, e in cui ritroveremo dei nomi a noi già noti, come quello di Leary e di Ken Kesey, perchè portò il sogno di costruire una nuova società antagoniste e con-presenti alla società dominante letteralmente su un’altra dimensione, quella del cyberspazio e della realtà virtuale. Per quanto riguarda il filone della New Left, questo si esaurì senza portare a termine il suo sogno, i gruppi si sciolsero senza generare un nuovo movimento o un soggetto radicale riconosciuto e stabile. Siamo giunti alla fine di questo viaggio “psichedelico” nella Controcultura americana degli sessanta ora è giunto il momento di iniziarne un altro, quello nel Cyberspazio, elemento che sottolinea 74 Ivi p. 168. 111 Dall’Utopia all’Eterotopia ancora una volta come l’utopia sia non solo legata ai mezzi di comunicazione, ma da essi, sembra, completamente influenzata, abbiamo visto l’importanza del libro sulla struttura concettuale e formale delle prime utopie, in questo capitolo abbiamo invece evidenziato l’importanza della televisione e delle droghe psicotrope all’interno dell’immaginario utopico della controcultura, questo perché entrambe introducono il soggetto in un nuovo spazio, immersivo e del tutto polisensoriale, che favorisce l’emergere dell’eterotopia, poiché ne esaltano la sua natura spaziale e l’importanza del presente a discapito di un investimento emotivo sul futuro, l’elemento portante di tutta l’utopia del progresso, che aveva dominato l’immaginario collettivo fino a quel momento. 112 Dall’Utopia all’Eterotopia Capitolo 3 Dalla Controcultura alla Cybercultura Cyberspazio: un'allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali... Linee di luce allineate nel nonspazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come le luci di una città, che si allontanano. William Gibson Il nostro viaggio attraverso l’immaginario utopico della Controcultura si è concluso con l’analisi del contro-mondo hippie rappresentato dalla Comune, esperimento psico-sociale alternativo che si è esaurito per le troppe contraddizioni interne nell’arco di pochi anni. Molti, però, i semi che germogliarono da quella straordinaria e “confusa” esperienza; crebbero e si modificarono nei decenni successivi. L’area “psichedelica” ebbe il maggior successo e fu da esempio per tutte le successive ondate controculturali, mentre l’ala politicizzata della New Left si esaurì velocemente in un clima reazionario, che portò Reagan alla Casa Bianca e la Thatcher al numero 10 di Downing Street. L’elemento fondamentale che abbiamo tentato di sottolineare è stata l’influenza dei Mass Media sulla generazione dei “Figli dei fiori”, un’influenza decisiva per la crescita di una nuova sensibilità spinta alla ricerca comunitaria e per un nuovo immaginario volto all’espansione della propria coscienza. Questa nuova concezione del sé, come abbiamo visto, era anch’essa figlia di una nuova “tecnologia”, l’LSD, che permetteva l’ingresso a quella che abbiamo definito un’eterotopia psichedelica. La cultura psichedelica prosperò come cultura della trasformazione interiore, ma ancor più si affermò 113 Dall’Utopia all’Eterotopia come cultura del viaggio, del trip, dell’esplorazione di lontananze meravigliose che si dispiegavano all’interno del proprio inconscio. Una generazione di giovani hippie, attraverso gli insegnamenti dei guru dell’acido, quali Timothy Leary e Ken Kesey, erano giunti alla conclusione che era possibile cambiare la società alterando e trasformando la propria coscienza, proprio perché l’esplorazione mentale permetteva l’ingresso in quei “mondi possibili” o “possibili laterali” che l’utopia presuppone. Qui viene alla luce quella che dalla Controcultura hippie in poi sarà una delle caratteristiche peculiari di ogni movimento alternativo, l’unione tra l’aspirazioni ad una trasformazione della coscienza e l’utopia, intesa come visione e desiderio di nuovi mondi; illuminanti le parole di Aldous Huxley al proposito: L’uomo è composto di ciò che potrei chiamare un Vecchio Mondo di coscienza personale e, al di là di un mare di divisione, di una serie di Nuovi Mondi: le non troppo distanti Virginie e Caroline del subcosciente personale e dell’anima vegetativa; il Far West dell’inconscio collettivo, con la sua flora di simboli, le sue tribù di archetipi aborigeni; e al di là di un altro, più vasto oceano, agli antipodi della coscienza quotidiana, il mondo dell’Esperienza Visionaria.1 Esperienza visionaria che porta all’esplorazione dei “nuovi mondi possibili”, viaggio privilegiato e introdotto in quegli stessi anni dal trionfo planetario del medium televisivo, gli anni del turismo interiore psichedelico, che erano poi gli stessi anni del turismo televisivo, come ci chiarisce magnificamente una vecchissima pubblicità dei televisori Dumont in cui si mostrava l’Alice di Carroll accovacciata su un divano, con gli occhi fissi sulla nuova meraviglia, accompagnata da una illuminante iscrizione “Alice in the Wonderland” e poco sotto “Throught the looking glass”: “In a year she will see more of what goes on in the world than the most privileged and traveled members of an elder generation could have seen in a busy life”. I nuovi mondi lisergici e mediali, soprattutto televisivi - e 1 A. Huxley, Le porte della percezione, Mondadori, Milano, 1997, pp. 98-99. 114 Dall’Utopia all’Eterotopia vedremo come questi poi si moltiplicheranno - hanno portato ad un nuovo approccio alla realtà tipico di questa nuova generazione in cui la fantasia, l’immaginazione, la realtà, la mistica, la politica si mescolano senza che tra esse ci sia una gerarchia valoriale: una sostanziale equivalenza, la scambievolezza di tutte le realtà. La realtà reale è solo una tra le tante, e sulle altre non può rivendicare alcuna supremazia, si pensi allo slogan New Age che così intona: You create your own reality, che avrà un diffuso successo in una certa frangia della cultura postmoderna, anche accademica. Ora voi vi chiederete cosa c’entra tutto questo con lo studio che qui si dovrebbe affrontare sull’evoluzione dell’immaginario utopico verso la sua dimensione eterotopica; ebbene, questo processo di analisi non può progredire senza immergersi in storie e idee di varia provenienza; passando per la cultura New Age e l’evoluzione dei New media arriverà alla cybercultura e quelle espressioni eterotopiche di questa che per noi sono rappresentate dal cyberspazio e dalla realtà virtuale. Un processo che ci porta dal misticismo New Age alla fantascienza, al misticismo tecnologico fino alla sua variante utopica. Tutto questo nasce dalla cultura psichedelica della Controcultura, con tutto ciò che ne deriva, in termini di contraddizioni e confuse genealogie. Senza la rivoluzione psichedelica non ci sarebbe stata la rivoluzione informatica, questo è il parere di Timothy Leary: Si sa bene che buona parte dell’impulso creativo nell’industria del software, e, a dire il vero anche molto di quello nell’hardware, soprattutto la Apple, deriva direttamente dal movimento per la ‘coscienza’ degli anni sessanta. [Il cofondatore della Apple] Steve Jobs andò in India, si fece un bel po’ di acido, studiò il buddismo, tornò indietro e disse che Edison aveva avuto più influenza sulla razza umana di quanta ne avesse avuta Buddha. E [il fondatore della Microsoft] Bill Gates era famoso ad Harvard per le sue propensioni psichedeliche. Mi sembra perfettamente sensato che, 115 Dall’Utopia all’Eterotopia se si attiva il cervello con droghe psichedeliche, l’unico modo per descrivere questa esperienza sia quello elettronico. 2 Quello che in questo capitolo affronteremo è quella particolare sinergia che collega le droghe psichedeliche, le culture giovanili, le tecnologie elettroniche, allo scopo di comprendere al meglio la Cybercultura e soprattutto la nuova dimensione virtuale dell’eterotopia. Lo faremo studiando nel dettaglio la discendenza della Cybercultura dalla Controcultura, per analizzarne al meglio le ereditarietà culturali, per analizzare più approfonditamente come nell’immaginario utopico si sia fatta largo quella visione eterotopica del “mondo alternativo virtuale” di cui il cyberspazio è l’espressione più importante. Senza l’esplosione delle realtà lisergiche e mediali questo sconvolgimento nell’immaginario utopico non sarebbe potuto avvenire, ma per studiarlo dovremmo affrontare temi quali Cyberdelia, Cybergnosis, Cyberfaith, Virtual Gnosis, Techgnosis, Techopaganism, Digital Paganism, Technotrascendalism, Technotrance, Eletroshamanism, Technopaganism, Technomysticism, Infomysticism, Digital Utopianism, Techno-utopianism, tutte etichette che sottolineano la valenza escatologica, utopica e trascendentale che la prima ondata della cybercultura conferiva alle nuove tecnologie mediali, interpretate come tecnologie adatte alla creazione di mondi paralleli e alternativi. Per questo non bisogna stupirsi se i più entusiasti sostenitori delle tecnologie della realtà virtuale furono esattamente i guru della Controcultura. Il chitarrista del gruppo psichedelico Grateful Death, Jerry Garcia, subito dopo aver sperimentato il casco virtuale si affrettò a dichiarare: “Hanno reso illegale l’LSD. Mi chiedo cosa faranno con questa roba.”3 John Perry Barlow, che per i Grateful Death scriveva i testi, trasse dalla realtà virtuale un’impressione del tutto simile: “The closest analog to Virtual Reality in my experience is psichedelic, and, in fact, cyberspace T. Leary, cit. in Dery, M., Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 34. L’episodio è citato da J.P. Barlow, Being in Nothingness. Virtual Reality and the Pioneers of Cyberspace, on-line all’indirizzo www.eff.org/pub/Publications/John_Perry_Barlow/HTML/being_in_nothingness.html. 2 3 116 Dall’Utopia all’Eterotopia is already crawling with delighted acid heads”4. Timothy Leary confermò quell’impressione, e nel gennaio del 1990 il Wall Street Journal battezzò la nuova tecnologia “electronic LSD ”. La parentela tra cultura psichedelica e cybercultura è ormai stata delineata e sancita, nel corso di questo capitolo la approfondiremo parlando di quell’espressione prettamente lisergica di una frangia della cybercultura che Mark Dery, nel sua ormai classica opera sulla Cybercultura Velocità di fuga, definisce Cyberdelia.5 Non appena il cyberspazio fece la sua comparsa nell’arena culturale dei nuovi media, attraverso la visione utopico-distopica che ne diede la fantascienza cyberpunk soprattutto con William Gibson e il suo celebre romanzo Neuromancer, suscitò subito un grande interesse e un’immensa letteratura si sviluppò intorno a questo argomento, nonostante le tecnologie della realtà virtuale non fossero ancora (e non lo sono neanche oggi) in grado di dar vita all’immagine che il cyberpunk e la cybercultura avevano prospettato. Nonostante questo, il cyberspazio scosse l’immaginario della cybercultura, che immediatamente ne fece il proprio marchio identificativo, rivestito di una valenza di stampo religioso e trascendentalista, tipico della cultura psichedelica: era il nuovo Paradiso. Questa visione ne prospettò un’altra, di tipo utopistico, nella quale il cyberspazio diveniva il nuovo territorio vergine in cui e attraverso cui dar vita ad una società migliore e perfetta. Erik Davis associa l’immaginario del territorio vergine al mito nordamericano della frontiera: “Quando la frontiera geografica si chiuse sul finire del diciannovesimo secolo, l’America fu costretta a sublimare la sua ossessione per la wildrness”.6 Prima il territorio vergine trovò un sostituto nella colonizzazione dello spazio che ebbe il suo culmine nello sbarco sulla luna, dopo ci fu il cyberspazio. In realtà le due visioni in massima parte confluiranno e si ispireranno a vicenda. Non è un caso che John Perry Barlow, animatore, come visto, della stagione Ibidem. Cfr. M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, in particolar modo il primo capitolo: Turn on, Boot up, Jack in: La Cyberdelia, pp. 27-86. 6 E. Davis, Techgnosis. miti, magia e misticismo nell’era dell’informazione, Ipermedium libri, Napoli, 2001, pp. 109-110. 4 5 117 Dall’Utopia all’Eterotopia psichedelica, abbia abbinato l’impeto religioso alla liberazione del corpo e quello utopistico della nuova frontiera: suo è uno dei manifesti più noti dell’intero web, diffuso nel 1996, A Declaration of the Indipendence of Cyberspace.7 Questo intreccio di trascendentalismo e utopismo, legato al mito della frontiera sembra avvallare la nostra ipotesi sulla spazializzazione dell’immaginario utopico, una spazializzazione che, come vorremmo dimostrare e come abbiamo accennato attraverso una citazione di Alberto Abruzzese, è stata indotta e sicuramente rafforzata dalla proliferazione di spazi paralleli creati dalle nuove tecnologie mediali8, come sostiene il filosofo tedesco Bernhard Waldenfels, nel suo saggio Experimente mit der Wirklicheit: La via verso la virtualizzazione della realtà si schiude solo quando ci spingiamo più in là di un passo e non prendiamo in considerazione solo possibilità all’interno del nostro mondo, ma piuttosto mondi possibili e spazi possibili nei quali facciamo ingresso come in un altro mondo. […] Ci interessa qui il problema già menzionato di una realizzazione tecnica delle finzioni. 9 Le tecnologie della realtà virtuale e del cyberspazio rappresentano l’espressione massima di questa potenzialità, in cui la capacità di creare finzioni e di abitarvi, che non ha precedenti nella storia dell’umanità, ispirerà al suo sorgere fantasie millenariste e vagheggiamenti sulle Città ideali e Celesti come dimostrano molto bene due importanti studi (il primo più del secondo) su questa visione del Cyberspazio e sulla Realtà virtuale: Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, a cura di Michael Benedikt e Pearly gates of Cyberberspace di Margharet Wertheim. In quest’ultimo l’autrice fa riferimento, già a partire dal titolo, alle porte di perle della Nuova J.P. Barlow, A Declaration of the Indipendence of Cyberspace, disponibile on-line all’indirizzo http://projects.eff.org/~barlow/Declaration-Final.html. 8 Vedi cap. 2.2. 9 S. Krämer (a cura di), Medien, Computer, Realität. Wirklichkeitsvorstellungen und Neue Medien, Frankfurt, Sunrkamp, 1998, p. 238, cit. in G.Vitiello, Dal Lsd alla realtà virtuale. L’esperienza mistica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Lavieri, Caserta, 2007, p. 212. 7 118 Dall’Utopia all’Eterotopia Gerusalemme, nella descrizione che di questa ci fa Giovanni nella sua Apocalisse, e lungo il suo testo analizzerà le visioni e gli autori che delineano il cyberspazio come una variante e sua realizzazione come una di una sorta di surrogato di Paradiso: Cyberspace is not a religious construct per se, but as I argue in this book, one way of understanding this new digital domain is as an attempt to construct a technological substitute for the Christian space of Heaven. Where early Christians conceived of Heaven as a realm in which their souls would be freed from the failings of flash, so today’s champions of cyberspace promote their realm as a place where we will be liberated from what cybernetic pioneer Marvin Minsky has derisively called ‘the bloody mess of organic matter’. In short, like Heaven, cyberspace is being billed as a disembodied paradise for soul. 10 Queste parole introducono anche un altro argomento di cui ci occuperemo in questo capitolo, la visione pseudo-gnostica che alcuni hanno dei new media, in particolare del cyberspazio e della realtà virtuale, visti come mezzi per trascendere la condizione umana e donare nuova e infinita vita all’anima e alla mente dell’uomo. Questo, però, è un tema scottante su cui torneremo in seguito. Tornando all’argomento che stavamo trattando, dobbiamo sottolineare come l’interpretazione del cyberspazio di Margareth Wertheim sia molto simile a quella che Michael Benedikt abbozza nell’introduzione del testo da lui curato: “La spinta verso la città paradisiaca persiste. Dobbiamo assecondare questa spinta; in verità potrebbe fiorire… nel cyberspazio”. Il cyberspazio è il dominio naturale per la realizzazione della Nuova Gerusalemme, poiché questa “potrebbe esistere solo come realtà virtuale ovvero, in altre parole, solo ‘nell’immaginazione.’ The image of The Heavenly City, in fact, is… a religious vision of cyberspace.”11 Benedikt, oltre a M. Wertheim, Pearly gates of Cyberberspace: a history of space from Dante to the internet, Norton & Company, New York, 2000, pp. 18-19. 11 M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 16-18. L’ultima frase è in lingua originale poiché la versione italiana non la 10 119 Dall’Utopia all’Eterotopia sottolineare ancora una volta come il mito della Città Celeste sia ancora largamente diffuso nella cultura occidentale anche nei settori del Hi-Tech, mette in luce in modo impeccabile la caratteristica che rende il cyberspazio così adatto alle speculazioni religiose, mistiche e trascendentali: il suo potere poietico, quella capacità di rendere reale l’immaginazione. Quello che unisce trasversalmente e indissolubilmente il cyberspazio, le tecnologie mediali, la religione, la mistica e l’utopia non è altro che il Desiderio, come ci illustrano mirabilmente queste parole del filosofo Norbert Boltz: Dal panorama al cyberspace, i viaggi la scoperta e l’avventura si trasformano in una allucinazione tecnicamente implementata. […] Oetterman ha parlato in questo contesto di “spazializzazione (Verräumlich) della rappresentazione del paradiso”, si immagina la felicità non più nel futuro, ma al di là dell’orizzonte, che diviene così la linea di demarcazione del desiderio (Sehnsucht). 12 Anche Alberto Abruzzese facendo sua e convenendo con l’affermazione di David Noble per cui “l’impresa tecnologica è allo stesso tempo uno sforzo essenzialmente religioso” indica nel desiderio la chiave di volta per comprenderne questa inestricabile e misteriosa unione: Essa [la tecnologia] rivela l’esito mondano di una millenaria tradizione occidentale ispirata all’attesa religiosa – dunque ricompositiva e salvifica – di una redenzione dalla ‘pesantezza’ del mondo, dai ‘vincoli’ della carne, dal ‘dolore’ della morte. Il sovrannaturale si esprime qui come desiderio estremo di manipolare la natura sino al punto di poterla fare scomparire, riporta, comunque si riferisce all’edizione Cyberspace - First Steps, Massachusetts Institute of Technology, 1991, p.17. 12 N. Bolz, Am Ende de Gutenberg Galaxis: die neuen Kommunikationsverhältisse, München, Wilheim Fink Verlang, 1993 cit. in G. Vitiello, Dal Lsd alla realtà virtuale. L’esperienza mistica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Lavieri, Caserta, 2007, p. 213. 120 Dall’Utopia all’Eterotopia farla essere nulla al confronto di ciò che anima la sua negazione. È in questo risvolto manipolatorio, in questa artificializzazione che le pratiche simboliche della religione e quelle socioeconomiche della tecnica trovano il loro più profondo contatto e la loro comune radice: il desiderio.13 La Tecnologia e il religioso si intrecciano e si influenzano quando sembrava giunto il tempo del loro completo divorzio saranno la base della “visione eterotopica” del cyberspazio, una nuova concezione del Paradiso Terrestre che non è più un mondo perduto come per i miti dell’Età dell’Oro, e nemmeno un mondo che ci attende alla fine dei tempi: piuttosto un mondo parallelo, che c’è e che non c’è, che è permanently ephemeral. Come avrete notato, dovendo parlare del cyberspazio come di un’eterotopia virtuale, dovremmo studiare l’immaginario utopico ad esso sotteso, quindi tralasceremo in parte la sua natura tecnologica; quello che ci interesserà saranno le storie che ci raccontiamo a proposito di questa tecnologia, e delle ideologie nascoste in esse. Per questo risulterà essenziale far riferimento anche alla letteratura fantascientifica, in particolar modo al filone Cyberpunk, che del cyberspazio e della cybercultura fu il vero fondatore, soprattutto in termini di delineamento dell’immaginario e di identità. Prima di iniziare il nostro viaggio attraverso la cybercultura, dobbiamo illustrare altre espressioni che dal nostro punto di vista rientrano e confermano la trasformazione dell’utopia in eterotopia; stiamo parlando delle già citate T.A.Z. (Temporary Autonomous Zone), quegli spazi eterotopici temporanei che si dissolvono prima che l’ordine costituito possa intaccarli; dello stessa natura sono i Rave, le famigerate feste che possono durare un’intera notte e ancor di più, in cui si balla senza tregua per ore ed ore al ritmo della musica tecno, con l’ausilio di sostanze psicotrope, in particolar modo la famigerata Ecstasy o Mdma. Ebbene, queste le potremmo considerare la variante reale dell’eterotopia virtuale del cyberspazio. Con questo, infatti, intrattengono decisive e profonde similitudini: in A. Abruzzese, Introduzione a , E. Davis, Techgnosis. Miti, magia e misticismo nell’era dell’informazione, Ipermedium libri, Napoli, 2001, p. 7. 13 121 Dall’Utopia all’Eterotopia primis, a livello filogenetico o genealogico, la propria discendenza dalla Contracultura psichedelica degli anni sessanta, e, a livello ontologico, l’intrinseca propensione e il desiderio di creare mondi paralleli e utopisti, più prosaicamente di sicuro il loro essere completamente permanently ephemeral; infatti se il cyberspazio per sua natura è virtuale, le T.A.Z. e i rave-party lo sono in una dimensione diversa, in quella temporale. Sono mondi paralleli che durano il tempo di una notte, effimeri per natura e per indole programmatica. Queste tre espressioni dell’immaginario eterotopico sono inestricabilmente collegate con quella proliferazione del reale che è caratteristica del società postmoderna su cui credo che le ultime parole chiarificatrici sul cyberspazio e sugli altri paradisi temporanei sia questa frase di Benedikt che mirabilmente coniuga l’immaginazione religiosa e utopistica del paradiso, lo spazio mentale della matematica e i mondi possibili della finzione: Come Shangri-La, come la matematica,come ogni storia che sia mai stata scritta o cantata, nell’inconscio collettivo di ogni cultura è sempre esistita una geografia mentale di categorie, una memoria collettiva o allucinazione, un territorio di figure mitiche, simboli, regole e verità su cui tutti convengono, padroneggiato e percorribile da tutti coloro che ne conoscano i percorsi, ma tuttavia libero da vincoli fisici dello spazio e del tempo. Quello che oggi ci entusiasma tanto è il fatto che le culture tecnologicamente avanzate […] sono sul punto di rendere quell’antico spazio non solo visibile, ma oggetto di una democrazia interattiva. 14 M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 3. 14 122 Dall’Utopia all’Eterotopia 3.1 Dalla Controcultura alla Cybercultura In questo paragrafo tenteremo di delineare il processo che portò la cybercultura ad acquisire alcune caratteristiche intrinseche della Controcultura californiana degli anni ’60, soprattutto nella sua variante hippie, e proveremo a dimostrare come quello che era comunemente ritenuto un movimento antitecnologico influì invece notevolmente sulla formazione della cybercultura e del suo immaginario. La Controcultura aveva un approccio alla tecnologia molto variegato e contraddittorio, innanzitutto a differenza delle generazioni precedenti aveva una alfabetizzazione elettronica molto avanzata, essendo cresciuta insieme alla tv, non è un caso che una degli intellettuali preferiti dalla controcultura fosse il guru dei media Marshall McLuhan, nonostante questo osteggiava la tecnologia ritenendola lo strumento dello sfruttamento indiscriminato e criminale della natura. Per riassumere le contraddittorie visioni della Controcultura nei confronti della tecnologia prendiamo in prestito queste illuminanti parole del duo Richard Barbrook e Andy Cameron che nel 1995 scrissero un interessantissimo articolo intitolato The Californian Ideology, centrato appunto sull’influenza della controcultura sulla nuova cybercultura californiana: In sci-fi novels, they dreamt of 'ecotopia': a future California where cars had disappeared, industrial production was ecologically viable, sexual relationships were egalitarian and daily life was lived in community groups. For some hippies, this vision could only be realised by rejecting scientific progress as a false God and returning to nature. Others, in contrast, believed that technological progress would inevitably turn their libertarian principles into social fact. […] West Coast radicals became involved in developing new information technologies for the alternative press, community radio stations, home-brew computer clubs and video collectives. These community media activists believed that they were in the forefront of the fight to build a new America. The creation of the electronic agora was the first step towards the implementation of direct democracy within 123 Dall’Utopia all’Eterotopia all social institutions. The struggle might be hard, but 'ecotopia' was almost at hand. 15 Secondo Barbrook e Cameron il movimento hippie manifesta due tendenze rispetto alla tecnologia: da un lato il suo completo rifiuto, il “ritorno alla natura”, dall’altro invece, si nota come i radicali della West Coast, ma anche in Europa, in Italia, in Sud America (es. il film The Agronomist su Radio Haiti) si occupino attivamente delle nuove tecnologie, in particolar modo si sottolinea una fioritura del “community media activism”. Questi hanno un legame forte con la parte più ambientalista del movimento, dimostrata per esempio dalla figura di Buckminster Fuller, e della rivista The Whole Earth Catalog diretta da Stewart Brand, che si occupava appunto di usi ambientalisti delle nuove tecnologie (ancora oggi esprimono un fenomeno culturale molto interessante come la cosiddetta ‘permaculture’). Proprio Stewart Brand, secondo il professore di Stanford Fred Turned, è l’incarnazione di quel forte legame che unisce la controcultura alla cybercultura, una genealogia che lo studioso americano traccia in modo preciso nel suo From Counterculture to Cyberculture: Stewart Brand, the Whole Earth Network and the Rise of Digital Utopianism. Per Turner, Stewart Brand con il suo The Whole Earth Review, fu il collegamento tra “the information technology and cybernetics to a New Communalist social vision.”16 La visione che Turner definisce New Communalist non corrisponde ad altro se non all’ala hippie della Controcultura, comunque secondo questo docente tale collegamento ebbe un’evoluzione in tre stadi, nel primo, tra il 1968 e il 1972, Stewart Brand riuscì ad essere l’anello di congiunzione tra la comunità di ingegneri che orbitavano intorno allo Stanford Reserch Institute, impegnato nel portare avanti delle ricerche sull’integrazione del sistema uomo-macchiana, e la comunità controculturale che animava il Whole Earth Catalog. La seconda che si protrasse per il 15R.Barbrook e A. Cameron, The Californian Ideology , disponibile on-line all’indirizzo http://www.alamut.com/subj/ideologies/pessimism/califIdeo_I.html 16 F. Turner, From Counterculture to Cyberculture, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2008, p. 104. 124 Dall’Utopia all’Eterotopia resto degli anni settanta fu caratterizzata da una decisiva infatuazione di Brand per le teorie di Gregory Bateson. In realtà Brand e altri della sua comunità utilizzarono la concezione di Bateson secondo la quale il mondo è un’insieme di sistemi di informazione in interazione tra loro come motivazione e giustificazione intellettuale per il fallimento dell’esperienza comunitaria che stava declinando proprio in quel periodo. Riprendendo la concezione di Bateson per cui un sistema non può evolvere indipendentemente dagli altri, gli Hippie spiegavano a loro stessi il fallimento dell’esperienza comunitaria e vivevano come una nuova sfida il reinserimento nel “Sistema”. Questo periodo fu caratterizzato anche per l’emergere di un fugace e superficiale nuovo sogno comunitario di stampo tecnologico: le comunità spaziali, che in quel periodo venivano fantasticate da un professore di Princetown, Gerard O’Neil e che, forse per nostalgia, Brand e la sua rivista sponsorizzarono in maniera notevole. La terza fase si svolse negli anni ottanta quando Brand tornò ad occuparsi e a collegarsi con le industrie informatiche e con gli istituti di ricerca specializzati nello sviluppo di tecnologie informatiche. In queste Brand vide i veri eredi del progetto comunitario degli anni sessanta, soprattutto nel Personal computer, che interpretava come uno strumento di liberazione individuale e collettiva, dando una connotazione controculturale al mezzo, come dimostra chiaramente un suo articolo intitolato We Owe it All to the Hippies17, apparso sul Time nel 1995, con un interessantissimo occhiello, Forget antiwar protest, Woodstock, even long hair, the real legacy of the sixties generation is the computer generation. L’importanza data da Turner a Brand e al suo Whole Earth catalog18, è dovuta al fatto che per lo studioso americano il Whole Earth catalog incarnava una corrente particolare della Controcultura, quella più vicina alle tecnologie, non è un caso che il sottotitolo del S. Brand, We Owe it All to the Hippies, Time, New York, 1995, disponibile on-line all’indirizzo http://members.aye.net/~hippie/hippie/special_.htm 18 Nel 1968 Stewart Brand diede alle stampe The Whole Earth Catalog, un catalogo senza pubblicità e a basso costo, al cui interno erano raccolti ed elencati i migliori attrezzi e libri adatti alla controcultura. 17 125 Dall’Utopia all’Eterotopia primo numero recitasse access to tool, infatti uno degli obiettivi che la rivista si proponeva era quello di fornire un catalogo di strumenti, intesi sia dal punto di vista materiale, sia intellettuale, come quadri interpretivi espressi in articoli di commento, utili per portare avanti la rivoluzione controculturale. Quando parliamo di catalogo si intende una vera e propria rassegna di beni di consumo, commentati accompagnati dai riferimenti per l’acquisto, il fine ultimo era quello di rendere disponibili gli strumenti per dar vita al nuovo movimento comunitario che in quel periodo era all’apice del suo successo. Non dobbiamo mai dimenticare che il Whole Earth catalog può essere definito come una delle vette del movimeno Controculturale, ebbe infatti un ruolo determinante nel mantenere vivo un rapporto tra le varie comuni sparse nel paese, ancor più decisivo fu il ruolo di questa rivista nel delineare un’identità organica e coerente ad un movimento che, come abbiamo visto era al proprio interno molto frazionato e contraddittorio, questione identitaria che era centrale per la Controcultura per le difficoltà che questa aveva nell’autodefinirsi. L’elemento fondamentale, dal nostro punto di vista, risiede nell’approccio alla tecnologia, poiché fu questo ad influenzare ed ad essere influenzato dalla rivoluzione tecnologica che da lì a pochi anni sarebbe esplosa; infatti la comunità che si aggregò intorno al Whole Earth catalog interpretava le tecnologie come strumenti utili e indispensabili per un esito positivo della rivoluzione sociale, in particolar modo interpretava le tecnologie come strumenti di liberazione. Questa fu la visione che portò il Personal computer a diventare il dispositivo indispensabile per la liberazione personale, e di conseguenza di una rivoluzione globale, poiché come tipico approccio hippie: solo cambiando se stessi si sarebbe cambiato il “Sistema”. Questa nuova visione della tecnologia naturalmente si riferiva ad un determinato genere di tecnologia, quella che Brand e Turner definiscono “personal tool” o “small technology”, non sicuramente le tecnologie di scala. Anche il computer sarà incamerato nella galassia controculturale solo quando i calcolatori si trasformeranno da Mainframe in personal device, trasformazione non casualmente portata avanti da alcuni ingegneri che facevano parte integrante del movimento hippie, quali Steve Jobs e Steve Wozniak, i fondatori della Apple. In fondo la più 126 Dall’Utopia all’Eterotopia famosa e diffusa “personal technology” per la liberazione personale degli anni sessanta era stato l’LSD. Questa visione della tecnologia, che poi portò la Controcultura ad abbracciare senza remore la rivoluzione informatica, ha per Turner alcuni padri putativi, tra i quali di sicuro i più importanti, soprattutto nella sua fase embrionale, sono il padre della Cibernetica Norbert Wiener, l’ecologo e tecnofilo Richard Buckminster Fuller, Marshall McLuhan e Gregory Bateson. Mcluhan lo abbiamo già ampiamente trattato, una sottolineatura la necessitano invece gli altri studiosi poiché rappresentano le basi teoriche ed interpretative su cui questa visione della tecnologia si fonda, visione che in seguito segnò profondamente le qualità specifiche della Cybercultura. Norbert Wiener, con la sua teoria cibernetica, quale scienza del controllo e dell’informazione, sembrava essere la quintessenza del complesso militare-industriale, invece si ritrovò ad essere uno dei capisaldi, nella visione controculturale della tecnologia, questo perché sostenendo che sia i sistemi meccanici che quelli organici non siano altro che sistemi di informazione che si autoregolano autonomamente attraverso meccanismi omeostatici di retroazione (o feedback) apriva all’interpretazione della società come un sistema omeostatico di informazione tendente all’equilibrio. Questa interpretazione divenne una metafora molto forte, poiché rompeva la visione gerarchica della società di derivazione prettamente militare (ricordiamo che la teoria cibernetica fu definita nel 1947, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale) fu importante soprattutto per la generazione dei figli dei fiori che “came to appreciate cybernetics as an intellectual frame work and as a social practice; he associated both with alternative forms of communal organization.”19 Il movimento controculturale apprezzava soprattutto l’accento sulla comunicazione, infatti se la mente, come ritenevano, era il punto di partenza del cambiamento sociale, allora l’informazione era di sicuro l’elemento chiave delle politiche controculturali, inoltre: F. Turner, From Counterculture to Cyberculture, The University of Chicago Press, Chicago-London, 2008, p. 43. 19 127 Dall’Utopia all’Eterotopia For New Communalists, in contrast, and for much of the broader Counterculture, cybernetics and system theory offered an ideological alternative. Like Norbert Wiener two decades earlier, many in the counterculture saw in the cybernetics a vision of a world built nor around vertical hieratics and top-down flow of power, but around looping circuits of energy and information. These circuits presented the possibility of stable social order based not on the psychologically distressing chains of command that characterized military and corporate life, but on the ebb and flow of communication.20 La tecnologia interpretata anch’essa come sistema omeostatico di informazione perdeva quel connotato di sistema di potere impersonale incarnato dal complesso militar-industriale. Un altro pensatore che ebbe una influenza notevole sulla visione della tecnologia come parte integrante delle politiche dei new communalist fu sicuramente Richard Buckminster Fuller. Questo multidisciplinare studioso che nella sua vita fu architetto, matematico ed inventore, fu molto influenzato dal pensiero dei Trascendentalisti americani21 nella sua visione del mondo, non foss’altro per il fatto che la sua prozia Margaret fu una delle fondatrici ed esponenti di spicco del movimento. Seguendo gli insegnamenti di Emerson, per cui il mondo non è altro che una serie di forme corrispondenti tra loro, collegate ad un “Tutto”, Fuller sosteneva, a differenza dei trascendentalisti, che queste corrispondenze non si fermassero al solo mondo naturale, bensì abbracciassero anche quello tecnologico. Fuller affermava che era necessario un equilibrio tra i vari sistemi, perché dal suo punto di vista ogni problema deriva da un’allocazione sbagliata delle risorse, in questo ambito le tecnologie ricoprono un ruolo centrale poiché ne permettono una distribuzione ottimale; in questa visione le tecnologie mediali divenivano fondamentali in quanto responsabili dell’allocazione delle risorse, in particolare grazie alla figura, da lui Ivi p. 38. Per approfondimenti sul pensiero dei Trascendentalisti americani si veda il capitolo precedente. 20 21 128 Dall’Utopia all’Eterotopia delineata, del Comprehensive Designer, cioè un esperto che riesca a processare le informazione provenienti da tutti i diversi sistemi e interpretarle in modo “globale” per mantenere il miglior equilibrio possibile. Naturalmente attraverso lo sviluppo delle tecnologie informatiche non è difficile intravvedere nel Computer il Comprehensive Designer ideale. Questa visione globale e interconnessa del mondo, l’importanza accordata all’informazione, non potevano che essere elementi apprezzati dalla controcultura, ma Fuller aveva un ascendente ancora maggiore su questa corrente per le sue idee ecologiste, di sostenibilità e autosufficienza degli insediamenti umani, un esempio tipico è rappresentato dalla sua cupola geodetica22, questo impiego di “tecnologie intelligenti” per preservare l’equilibrio del pianeta era l’aspetto che più intrigava il movimento dei new communalist, che si autopercepivano come i pionieri di un nuovo modo di abitare e rispettare il pianeta. Fuller introdusse in questa visione anche una tecnofilia che portò poi la controcultura ad abbracciare la cybercultura. L’ultimo studioso che ebbe un notevole impatto su questa corrente fu l’antropologo cibernetico e sociologo Gregory Bateson, che con le sue teorie legittimò il rientro nel “Sistema” dei comunardi. Di “scuola cibernetica”, descriveva il mondo come un sistema e i suoi abitanti come potenziali elementi di cambiamento del sistema stesso. Negli anni settanta approfondì questa visione sostenendone una in cui il mondo naturale non era nient’altro che un insieme di sistemi di informazione collegati l’un l’altro. Della necessaria coevoluzione dei sistemi abbiamo già parlato, quindi non ci rimane da esaminare la concettualizzazione che Bateson propone della mente nel suo famosissimo libro Verso un’ecologia della mente. La cupola geodetica è estremamente resistente rispetto al proprio peso. Grazie alla sua struttura "omnitriangolare" è intrinsecamente stabile, racchiude il massimo volume possibile con la minima superficie. La cupola era una risposta alla crisi degli alloggi postbellica; infatti da un punto di vista ingegneristico le cupole geodetiche sono molto superiori alle tradizionali costruzioni parallelepipedali formate da pilastri, travi e solai: le costruzioni tradizionali usano i materiali in modo molto meno efficiente, sono molto più pesanti e molto meno stabili. 22 129 Dall’Utopia all’Eterotopia La mente individuale, ma non solo nel corpo: essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta Mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. Questa più vasta mente è paragonabile a Dio, ed è forse ciò che alcuni intendono per “Dio”, ma essa è ancora immanente nel sistema sociale totale interconnesso e nell’ecologia planetaria… Ora sappiamo con notevole certezza, che il vecchio problema se la mente sia immanente o trascendente può essere risolto in favore dell’immanenza, e che questa soluzione è più economica, in termini di entità esplicative, di ogni risposta trascendente: ha almeno il supporto negativo del rasoio di Ockam. Dal punto di vista positivo, si può affermare che qualunque insieme dinamico di eventi e oggetti che possegga circuiti causali opportunamente complessi e in cui vigano relazioni energetiche opportune, mostrerà sicuramente caratteristiche proprie della mente. 23 Questa visione di una mente in qualche modo separata e trascendente il corpo e interconnessa con il “tutto” influenzò enormemente la controcultura, ma Bateson in realtà rigettava qualsiasi tipo di trascendenza, non poteva esistere dal suo punto di vista alcun di tipo di Mente che trascendesse il mondo materiale. Con quest’ultima distorsione da parte della controcultura si conclude il nostro rapido excursus tra gli autori che permisero alla controcultura di abbracciare la tecnologia, soprattutto quella mediale, come strumento utile alla propria causa, un processo di avvicinamento che poi porterà la fusione delle visioni controculturali con la cybercultura. Altri elementi determinanti che favorirono questa convergenza, e che portarono poi ad una definitiva fusione, furono invece di natura tecnologica, o inerenti al mondo della ricerca universitaria. In primo luogo ciò che avvantaggiò fin dal principio questo avvicinamento fu l’organizzazione dei dipartimenti di ricerca. Per ironia della sorte quel senso comunitario e quella organizzazione orizzontale, non gerarchica, basata più sul gioco, che non sulla rigida separazione dei compiti e dei ruoli che i giovani hippie anelavano era una 23 G. Bateson, Verso un’ecologia della Mente, Adelphi, Milano, p.502 e p. 363. 130 Dall’Utopia all’Eterotopia caratteristica molto diffusa all’interno dei dipartimenti di ricerca che si occupavano di hi-tech. Visione del lavoro che questi ingegneri approfondirono attraverso l’incontro con i valori della Controcultura, come abbiamo visto in precedenza, ma che già possedevano in maniera elevata, soprattutto nelle università californiane, quali la Stanford. Altro scherzo del destino è il fatto che per la maggior parte di queste università erano finanziate dal Ministero della difesa24, l’emblema del complesso militar-industriale contro cui la controcultura combatteva. Gli altri due processi che favorirono la convergenza della controcultura e della cybercultura furono inerenti all’evoluzione tecnologica del computer: la miniaturizzazione e il networking. Questi due processi, che iniziarono nei primi anni settanta e si concretizzarono negli ottanta con l’invenzione del primo PC consentirono una personalizzazione e un’interpretazione di tipo controculturale, quale tecnologia che può trasformare la coscienza e il mondo, la stessa identica interpretazione che fu data all’LSD. La fusione finale si ebbe come detto con l’immissione sul mercato del primo Pc, da qui in poi ogni sogno controculturale si sposò con la nuova tecnologia mediale, ne incorporò ogni aspettato, oltre all’eredità sancita ufficialmente dall’articolo Fanatic Life and Symbolic Death among the Computers Bums del padre della Bibbia hippie, il Whole Earth Catalogue, Stewart Brand, che sulle pagine di Rolling Stone, dice: È tutto collegato, la ricerca psichedelica, fin dal soggiorno di Aldous Huxley a Los Angeles, è in gran parte un fenomeno californiano, come la rivoluzione dei personal computer. E questa cosa probabilmente riflette lo status di frontiera della costa occidentale americana. I primi hacker degli anni sessanta erano un sottoinsieme della tarda cultura beatnik e dei primi gruppi hippie; erano dei capelloni, avevano rinnegato l’università, sillabavano love come l-u-v e leggevano Il Signore degli anelli e avevano una [visione del mondo] che era in tutto simile a quella dei Merry Prankster e di tutti i nostri colleghi pronti a salvare il 24 Ricordiamo che la Internet è una tecnologia di origine strettamente militare. 131 Dall’Utopia all’Eterotopia mondo. Ma avevano una tecnologia migliore. Come si è visto in seguito, le droghe psichedeliche, le comuni e le cupole geodesiche erano dei vicoli ciechi, ma i computer rappresentavano la strada di accesso a mondi che andavano al di là dei nostri sogni. Hippie e rivoluzionari fallirono nel loro intento… tutti fallirono a parte loro, e a quei tempi noi non sapevamo nemmeno che esistessero! Non finivano in televisione come Abbie [Hoffman] e non strombazzavano in giro quello che facevano; si limitavano a inventare il futuro, e lo facevano con un sorprendente senso di responsabilità, che incorporarono nella loro tecnologia, proprio all’interno dei chip – una completa fusione di alta tecnologia e cultura pop molto terra terra.25 L’unione ormai è sancita e le aspirazioni di comunità, di libera espressione e liberazione personale avverranno d’ora in poi solo nello spettro della dimensione mediale del computer, soprattutto con l’avvento di internet e del web, un chiaro esempio può essere la sottocultura hacker, la prima controcultura dell’era cyber che si battè per la libertà d’informazione nella rete. L’eredità è ben illustrata, non è un caso che il Whole Earth Catalogue già nel 1985 si trasformò nel Whole Earth’Lectronic Link (o Well) un Bulletin Board Systems26 dove si ricreò il clima del Whole Earth originale. L’espansione del web e la sua esplosione iniziata negli anni novanta sancì il passaggio definitivo dei sogni comunitari nel cyberspazio, un nuovo territorio vergine in cui era possibile ricreare e rivivere gli ideali controculturali. Proprio sul Well iniziò a costituirsi un nuovo senso comunitario basato su due visioni complementari, una interpretava lo scambio di informazioni come “un’economia del dono” e la connessione sulla rete come quell’unione mentale che la controcultura aveva ricercato nell’esperienza comunitaria di trent’anni prima. Come ci spiega Howard Rheingold l’economia del dono del Well consisteva nel costante scambio di informazioni S. Brand, SpaceWar. Fanatic Life and Symbolic Death among the Computers Bums, Rolling Stone, 1972, disponibile on-line all’indirizzo http://wheels.org/spacewar/stone/rolling_stone.html 26 I Bulletin Board Systems non erano altro che computer connessi alla linea telefonica a cui bastava telefonare per connettersi e lasciare dei messaggi, software etc. 25 132 Dall’Utopia all’Eterotopia potenzialmente importanti senza l’attesa di ricompensa immediate: “Individuals contribuited information to such a system because those who contributed would ultimaly be rewarded with information themselves over time. This pattern of giving without expectation of immediate reward had deep roots in the San Francisco Bay area counterculture.”27 Naturalmente questa parte della nuova controcultura informatica interpretava questo libero scambio, non solo come un’organizzazione che soppiantava il normale scambio fondato sul denaro, ma soprattutto come una nuova struttura sociale, riprendendo gli scritti di Marcel Mauss28. Dal loro punto di vista sul Well, e su internet in generale, era possibile creare un’organizzazione sociale non gerarchica, basata sull’economia del dono e su una sorta di interconnessione delle coscienze, tale visione ne generò una ancora più importante quella di virtual community. Il primo che le teorizzò e descrisse fu Howard Rheingold, nel suo The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier29 nel quale descrive le nuove forme di interazioni che il computer consente: Gathered together online, yet restricted to text-only interfaces, individuals could connect to one another without encountering body-based forms of prejudice. They could come together not in random interactions that characterized life in the material world, but choice, around shared interests. And within the space, they could engage in new form of social interaction that was simultaneously intimate and instrumental.30 Internet e le comunità virtuali avevano quindi il merito di riportare in auge i valori della controcultura e anche di trasformare la società, attraverso un’organizzazione basata, come abbiamo accennato, sulla cooperazione e sulla democraticità. In poco tempo internet e il H. Rheingold, The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier, MIT Press, 2000, disponibile on-line all’indirizzo http://www.rheingold.com/vc/book/ 28 Cfr. Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino, 2002 29 H. Rheingol, Op. cit. 30 Ibidem. 27 133 Dall’Utopia all’Eterotopia cyberspazio divennero la nuova frontiera americana: la Electronic Frontier, in cui tutti potevano entrare e soprattutto esprimere se stessi e perseguire la propria felicità, seguendo il più tradizionale immaginario americano. Questa voglia di libertà era manifestata dal fastidio che investiva i digizen ogni volta che sentivano violata la propria libertà dalle restrizioni governative. Non è un caso che poco dopo nacque la Electronic Frontier Foundation, ancora oggi attiva, fondata tra gli altri anche da un membro del famosissimo gruppo psichedelico Grateful Dead, John P. Barlow, che si pone l’obiettivo di difendere chiunque senta esser stata violata la sua libertà sulla Rete: From the Internet to the iPod, technologies are transforming our society and empowering us as speakers, citizens, creators, and consumers. When our freedoms in the networked world come under attack, the Electronic Frontier Foundation (EFF) is the first line of defense. EFF broke new ground when it was founded in 1990 — well before the Internet was on most people's radar — and continues to confront cutting-edge issues defending free speech, privacy, innovation, and consumer rights today. From the beginning, EFF has championed the public interest in every critical battle affecting digital rights.31 Questa nuova frontiera, però, non offriva solo un nuovo campo per mettere alla prova gli ideali controculturali, fu anche una frontiera da esplorare per la nuova destra, che vedeva nel cyberspazio un nuovo e amplissimo mercato, adatto per tornare ad applicare un puro liberismo economico. Ad un certo punto degli anni novanta, secondo Barbrook e Cameron, queste due visioni completamente contraddittorie iniziarono a convergere: la cultura hippie e la cultura yuppie si incontrano, e il risultato è appunto la cybercultura californiana contemporanea, che Barbrook e Cameron definiscono The Californian Ideology, una nuova cultura completamente contraddittoria. L’idealismo hippie e il cinismo degli yuppies implicano una specie di corto-circuito tra la politica emancipatoria 31 Disponibile on-line all’indirizzo http://www.eff.org/about 134 Dall’Utopia all’Eterotopia degli anni sessanta/settanta e la politica economica neoliberale degli anni ottanta, tutta incentrata sul primato del libero mercato. Questa strana combinazione: is only made possible throught a nearly universal belief in technological determinism.32 Solo questo determinismo poteva essere la base di una tale unione, determinismo tipico della cultura americana, in fondo “c’è una cosa per tutto”, non è un caso che anche la bibbia ecologista, il Whole Earth Catalogue avesse come sottotitolo “access to the tools”, gli strumenti risolvono tutto, soprattutto grazie al potenziale emancipatorio delle nuove tecnologiche: In the digital utopia, everybody will be both hip and rich. La base di questa riconciliazione era una sorta di antistatalismo: the Californian Ideology provides a mystical resolusion of the contradictory attitudes held by members of the ‘virtual class’. Crucially, anti-statalism provides the means to reconcile radical and reactionary ideas about tecnological progress.33 Come sappiamo la Controcultura disprezzava il governo per gli investimenti nel complesso militar-industriale, mentre la destra per i limiti che imponeva alla libertà del mercato. I primi dimenticavano come il dipartimento della difesa fosse stato il finanziatore principale delle ricerche sulle nuove tecnologie, i secondi di quante volte il governo fosse intervenuto per aiutare le aziende in difficoltà. Entrambe si trovavano d’accordo però su una visione della nuova frontiera mediale come lo strumento per ricreare una democrazia di tipo “jeffersoniana”. Per esempio Howard Rheingold credeva che l’agora elettronica avrebbe permesso alle persone la più completa e profonda libertà d’espressione, mentre per la New Right, guidata dal senatore ultraliberista Gingrich, la rimozione di ogni vincolo alle imprese avrebbe creato lo stesso effetto nel mercato dei media. Come abbiamo notato Barbrook e Cameron fanno riferimento ad un concetto di ‘virtual class’, i rappresentanti di questa classe per i due autori sono coloro che possiamo far rientrare nella cosiddetta “Tecno-intelligentia”, quali ingegneri informatici, psicologi cognitivi, sviluppatori di videogioci, grafic designer e tutti gli specialisti delle R.Barbrook e A. Cameron, The Californian Ideology , disponibile on-line all’indirizzo http://www.alamut.com/subj/ideologies/pessimism/califIdeo_I.html 33 Ibidem. 32 135 Dall’Utopia all’Eterotopia nuove tecnologie mediali. Da una parte questi fanno parte di un’aristocrazia del lavoro, in quanto di solito sono lavoratori autonomi e hanno una visione del proprio lavoro come di un “tecnoartigianato”, dall’altra, però, aprono e favoriscono l’ingresso nel mondo del lavoro di forme contrattuali meno sicure, come i contratti a progetto e a termine, formule contrattuali da loro molto apprezzate poiché li lascia liberi dai gangli organizzativi delle grandi imprese, da loro disprezzate per la propria discendenza controculturale. Naturalmente queste formule contrattuali non potevano che essere apprezzate anche dalla nuova Destra che vedeva in esse una forma di flessibilizzazione del mercato del lavoro. Questo dimostra come la visione controculturale di una completa espressione del proprio Sé si sia poi trasformata, con il fallimento della rivoluzione culturale, in una sorta di estremo individualismo, forse sarebbe meglio definirlo egocentrismo, che interpretava ogni intromissione nella sfera personale come una limitazione della propria libertà. Questa nuova concettualizzazione dell’individualità non poteva essere che propedeutica e favorevole ad una concezione liberista, soprattutto per quanto riguarda la nuova frontiera del cyberspazio. La rivista Wired divenne negli anni novanta il megafono di questa Californian Ideology, una sorta di Bibbia per la “virtual Class”. Wired sosteneva la convinzione che il cambiamento tecnologico avrebbe rivoluzionato la società, e che la tecnologia digitale in particolare - di cui Internet non è che un modesto presagio – avrebbe aumentato la libertà personale, liberando l'individuo dal rigido abbraccio di un grande governo burocratico un "Self-empowered knowledge worker" avrebbe reso inutili le gerarchie tradizionali e le comunicazioni digitali avrebbero permesso loro di scappare dalle città moderne: "obsolete remnant of the industrial age”.34 Questo si sposava perfettamente con una visione in cui il governo avrebbe dovuto avviare grandi piani di decentralizzazione e delocalizzazione, proprio perché i nuovi mezzi di comunicazione, supportati da nuove politiche liberiste, come vedete le due visioni si equivalgono, avrebbero permesso una 34 Ibidem. 136 Dall’Utopia all’Eterotopia maggiore libertà personale e una maggiore prosperità economica. Quest’ultima sembrava esser confermata poi dalla folle corsa del Nasdaq a metà anni novanta, ma tutto sembrò svanire con l’esplosione della bolla speculativa. Il culmine di questa unione sembrò essere il testo redatto da alcuni editorialisti di Wired come Esther Dyson e i futurologi George Gilder e Alvin Toffler, quest’ultimo l’inventore del termine Terza ondata, per descrivere l’avvento dei nuovi media: Cyberspace and the American Dream: A Magna Carta for the Knowledge Age35 redatto durante un convegno sul cyberspace. In questo testo si analizzava l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e quale ruolo avrebbero ricoperto nel rivoluzionare la società americana, il suo governo e l’umanità intera: As humankind explores this new "electronic frontier" of knowledge, it must confront again the most profound questions of how to organize itself for the common good. The meaning of freedom, structures of self-government, definition of property, nature of competition, conditions for cooperation, sense of community and nature of progress will each be redefined for the Knowledge Age. L’importante per gli autori era convogliare questa rivoluzione nei canali della tradizione del sogno Americano di libertà: What our 20th-century countrymen came to think of as the "American dream," and what resonant thinkers referred to as "the promise of American life" or "the American Idea," emerged from the turmoil of 19th-century industrialization. Now it's our turn: The knowledge revolution, and the Third Wave of historical change it powers, summon us to renew the dream and enhance the promise. Esther Dyson, George Gilder, George Keyworth, Alvin Toffler, Cyberspace and the American Dream: A Magna Carta for the Knowledge Age, 1994 disponibile on-line all’indirizzo http://www.alamut.com/subj/ideologies/manifestos/magnaCarta.html tutte le citazioni seguenti provengono da questo indirizzo. 35 137 Dall’Utopia all’Eterotopia Naturalmente uno degli aspetti fondamentali era il ruolo che il cyberspazio avrebbe avuto in questa rivoluzione, soprattutto per quanto riguarda le potenzialità libertarie del mezzo: Cyberspace is the land of knowledge, and the exploration of that land can be a civilization's truest, highest calling. The opportunity is now before us to empower every person to pursue that calling in his or her own way…The challenge is as daunting as the opportunity is great. The Third Wave has profound implications for the nature and meaning of property, of the marketplace, of community and of individual freedom. As it emerges, it shapes new codes of behavior that move each organism and institution…Turning the economics of mass-production inside out, new information technologies are driving the financial costs of diversity -- both product and personal -- down toward zero, "demassifying" our institutions and our culture. Accelerating demassification creates the potential for vastly increased human freedom. Il cyberspazio avrebbe creato un diverso tipo di comunità basato sulla demassificazione e sulla libertà personale: No one knows what the Third Wave communities of the future will look like, or where "demassification" will ultimately lead. It is clear, however, that cyberspace will play an important role knitting together in the diverse communities of tomorrow, facilitating the creation of "electronic neighborhoods" bound together not by geography but by shared interests…Socially, putting advanced computing power in the hands of entire populations will alleviate pressure on highways, reduce air pollution, allow people to live further away from crowded or dangerous urban areas, and expand family time…"Cyberspaces" is a wonderful _pluralistic_ word to open more minds to the Third Wave's civilizing potential. Rather than being a centrifugal force helping to tear society apart, cyberspace can be one of the main forms of glue holding together an increasingly free and diverse society. 138 Dall’Utopia all’Eterotopia Per rendere tutto ciò possibile il governo avrebbe dovuto, e con l’aiuto dei nuovi mezzi di comunicazione sarebbe riuscito a promuovere una decentralizzazione maggiore per rendere la società più flessibile e libera: The reality is that a Third Wave government will be vastly smaller (perhaps by 50 percent or more) than the current one -- this is an inevitable implication of the transition from the centralized power structures of the industrial age to the dispersed, decentralized institutions of the Third. But smaller government does not imply weak government; nor does arguing for smaller government require being "against" government for narrowly ideological reasons…Indeed, the transition from the Second Wave to the Third Wave will require a level of government _activity_ not seen since the New Deal. I punti chiave su cui il governo avrebbe dovuto lavorare erano essenzialmente cinque: un accesso illimitato alla rete, la promozione della competizione economica, attraverso un diverso tipo di tassazione, diritti di proprietà adeguati all’era informatica e soprattutto la creazione di un nuovo tipo di politiche, “le politiche della terza ondata”: Third Wave policies encourage uniqueness… Third Wave policies work to spread power -- to empower those closest to the decision...Third Wave policies permit people to work at home, and to live wherever they choose. Third Wave policies will help transform diversity from a threat into an array of opportunities. A serious.. effort to apply these tests to every area of government activity -- from the defense and intelligence community to health care and education -- would ultimately produce a complete transformation of government as we know it. Since that is what's needed, let's start applying. Naturalmente tutto ciò era necessario per rinnovare e ricreare un nuovo “sogno Americano”: 139 Dall’Utopia all’Eterotopia It is time to embrace these challenges, to grasp the future and pull ourselves forward. If we do so, we will indeed renew the American Dream and enhance the promise of American life. Come visto la fusione tra la visione hippie della libertà personale, e il suo desiderio di comunità con il liberismo economico della nuova destra americana è al suo apice, il cyberspazio, come espressione massima delle tecnologie avanzate, diviene la pietra filosofale che è in grado di compiere una rivoluzione sociale senza precedenti pur rimanendo nel solco del sogno americano, anzi donandogli un nuovo impulso e sopratutto una nuova frontiera da colonizzare, rinnovando quel mito della frontiera da sempre riferimento indispensabile per la cultura americana. Dopo questo excursus storico per delineare quelle che furono le eredità concettuali che la Controcultura lascia alla cybercultura, excursus che ha dimostrato ancora una volta il contraddittorio rapporto tra la Controcultura stessa e le tecnologie, dobbiamo addentrarci completamente nell’analisi della Cybercultura e soprattutto del suo immaginario utopico, anzi eterotopico come abbiamo ipotizzato in questa tesi. Come la Controcultura anche la cybercultura sarà di difficile definizione e non sarà possibile analizzare i suoi caratteri senza sconfinare in aree semantiche diverse tra loro; importanti per questa analisi saranno di sicuro la decisiva influenza che la fantascienza Cyberpunk ebbe sulla definizione stessa della cybercultura e l’analisi di alcune sottoculture cyber, quali quella dei tecnopagani e dei tecnognostici, per quanto riguarda l’analisi dell’immaginario eterotopico. Naturalmente l’argomento principale del paragrafo sarà l’analisi del cyberspazio e della realtà virtuale, le vere eterotopie cyberculturali, di cui ci occuperemo approfonditamente e in maniera dettagliata, mettendone in luce tutte le potenzialità utopiche, ma anche le contraddizioni interne. 140 Dall’Utopia all’Eterotopia 3.2 La Cybercultura Definire la Cybercultura non è molto semplice poiché sconfina in diversi campi, sociali, culturali ed artistici che ne rende difficile una stabile concettualizzazione. Gli ambiti sui quali ci soffermeremo maggiormente saranno comunque quelli che riguarderanno il cyberspazio e la realtà virtuale, poiché in questi saranno tangibili quelle espressioni dell’immaginario utopico che abbiamo definito eterotopia. Il termine cybercultura è uno dei più usati e spesso abusati di tutto lo spettro semantico degli studi sulle ITC (Information and Communication Technology) di solito si riferisce (come indica il suo prefisso) a tutti gli argomenti che hanno a che fare con la meccanizzazione e la digitalizzazione, come la cibernetica, l’informatizzazione, la rivoluzione digitale, tutto ciò che si riferisce al processo di cyborgazzione del corpo umano, tutti campi in cui di solito viene anche incorporata una sorta di previsione sul futuro. Porre dei limiti alla concettualizzazione della cybereciltura è reso ancor più arduo dal fatto che anche gli autori che utilizzano il termine spesso lo fanno in maniera diversa e in campi disciplinari completamente differenti. Una nebulosa di fenomeni vengono fatti rientrare sotto il cappello onni-definitorio e onnicomprensivo della cybercultura, il termine può indicare anche la sottocultura hacker o il movimento connesso alla filone letterario del cyberpunk, o una sorta di descrizione della nuova realtà mediale, soprattutto nella nuova dimensione di Rete, spesso si utilizza anche come metafora per la società trasformata dalle nuove tecnologie mediali. In questa tesi comunque intenderemo per Cybercultura una ben determinata formazione socio-culturale che si sviluppò agli inizi degli anni novanta con l’esplosione delle nuove tecnologie mediali, formazione culturale che delineò l’interpretazione e l’immaginario di queste nuove tecnologie: le principali sono la Rete (internet) e la realtà virtuale. In esse la cybercultura degli anni novanta instillò un nuovo mito in cui convivevano due visioni contraddittorie: la prima era una visione ottimistica, per cui le nuove tecnologie avrebbero permesso la definitiva costituzione della Città Perfetta, un’Utopia realizzata, dove la libertà individuale si sarebbe accompagnata con 141 Dall’Utopia all’Eterotopia esempi Caratteristiche del concetto la giustizia sociale ed economica, per la seconda invece queste nuove tecnologie avrebbero esteso il controllo sociale da parte delle elite politico-economiche. Su un punto però queste due visioni coincidevano, sul fatto che il potenziale delle nuove tecnologie avrebbe cambiato in maniera radicale e rivoluzionaria il mondo umano e gli uomini stessi. L’immaginario che nacque da questa formazione culturale fu in seguito adottato e incorporato nel filone mainstream della cultura occidentale dei decenni successivi. Abbiamo scelto di limitarci all’analisi di questa formazione culturale perché fu questa a nostro avviso a delineare quella traslazione categoriale dell’utopia all’eterotopia, soprattutto nell’interpretazione del cyberspazio. CONCETTI UTOPICI CONCETTI INFORMAZIONALI - c. come forma di società utopica grazie alle ITC; - con anticipazioni (futurologia) Andy Hawk, Future Culture Manifesto Pierre Lévy, Cybercultur - c. in quanto codice culturale (e simbolico) della società dell’informazione - analitica, in parte con anticipazioni. Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media. CONCETTI ANTROPOLOGICI - c. come attività cultutali e stili di vita legati alle ITC; - analitica, orientata allo stato attuale e al passato. Arturo Escobar, Welcome to Cyberia: Notes on the Antropology of Cyberculture. CONCETTI EPISTEMOLOGICI c. intesa come termine per la riflessione sociale e antropologi ca sui nuovi media. Lev Manovich, New Media from Borges to HTML. Ora, prima di iniziare la nostra analisi della cybercultura degli anni novanta, penso sia utile intraprendere un piccolo excursus sulle diverse visioni e definizioni della cybercultura che possiamo riunire 142 Dall’Utopia all’Eterotopia in un’utile tipizzazione - che comunque non racchiude tutte le possibili teorizzazioni sulla cybercultura.36 Questa classificazione spazia tra quattro diversi approcci e dando vita quindi a quattro visioni della cybercultura stessa che si innervano su campi concettuali differenti, come si può vedere nella tabella. Il primo racchiude tutte le visioni utopistiche sulla cybercultura e sulle nuove ITC, per cui la Cybercultura diviene un progetto utopistico; il secondo si sofferma sui concetti inerenti all’informazione e alle scienze della comunicazione e definisce la cybercultura come una sorta di codice culturale e simbolico che significa la società dell’informazione; il terzo invece ha un approccio di tipo antropologico, sottolineando il carattere di costruzione sociale della cybercultura e quindi interpreta e definisce la stessa attraverso le sue pratiche culturali, l’ultimo, infine, sottolinea i concetti inerenti al campo epistemologico, interpretando la cybercultura come tutto ciò che racchiude le di teorie sui new media. Come vedremo queste distinzioni sono in realtà ipostatizzanti e da alcuni punti di vista anche forvianti perché anche i diversi autori che faremo rientrare all’interno di queste categorie in realtà coniugano i diversi campi e i diversi approcci nelle proprie analisi, questo dimostra ancora una volta come la cybercultura in realtà racchiuda e sia la summa dell’insieme di questi campi e approcci disciplinari. Per quanto riguarda il primo campo concettuale, questo formula di sicuro la più vecchia e la più circoscritta definizione della cybercultura, la cybercultura comprende il movimento cyberpunk, la sottocultura hacker o più in generale i primi utilizzatori delle nuove tecnologie mediali, come le prime formazioni di comunità virtuali. I primi assertori di questa visione sono autori come Douglas Rushkoff, autore del libro Cyberia, in cui include nella cybercultura non solo le sottoculture informatiche, ma anche gli utilizzatori di droghe sintetiche che trascinano i propri consumatori in una nuova dimensione del reale, Cyberia, appunto, crasi tra cyber e siberia, denotando così l’immensità di questa nuova dimensione mentale. Cfr. J. Maceck, Defining Cyberculture, on-line all’indirizzo http://macek.czechian.net/defining_cyberculture.htm 36 143 Dall’Utopia all’Eterotopia Uno dei più famosi sostenitori di questa visione della cybercultura e il pluricitato Mark Dery che così la definisce: a far-flag, loosely knit complex of sublegitimate, alternative, and oppositional subculture [ whose common project is the subversive use of technocommodities, often framed by radical body politics]…Cyberculture is divisible into several major territories : visionary technology, fringe science, avant-garde art, and pop culture.37 I membri di queste “computer-age subcultures” interpretavano la cybercultura come l’inizio di una rivoluzione e rigenerazione della società, come dimostra Andy Hawk, uno dei creatori del The Cyberpunk Project38, nel suo articolo Future Culture Manifesto39. secondo questo autore la cybercultura contemporanea è solo in una fase embrionale, tuttavia sta già gettando le basi per la creazione di un “nuovo futuro”. In realtà nel caso del manifesto di Hawk, la cybercultura hacker, che si sviluppò a partire dal cyberpunk, insieme ad una grande varietà di subculture precedenti erano l’asse portante della cultura della società dell’informazione. Tra queste subculture Hawk individua, appunto, quella degli Hacker, dei cyberpunk, la Psychedelic Culture e la Rave culture. Questo visione è orientata verso il futuro e il focus sul cambiamento sociale determinato e incarnato dalle nuove tecnologie è direttamente ereditato dall’immaginario della letteratura cyberpunk (come vedremo in seguito) ed indirizza ed influenza la visione emergente del mondo accademico in senso futurologico e utopistico. L’esempio più indicativo di questa influenza delle subculture cibernetiche sulla’accademia è di sicuro quello dell’originale studioso francese Pierre Levy , filosofo noto per la sue originali concettualizzazioni, si ricordi quella del virtuale, nel testo M. Dery, Flame Wars. The discours of cybercultura, S.A.Q, vol. 92, n. 4 , 1993 p. 566. The Cyberpunk Project è un sito attivo dal 1996 che fornisce informazioni dettagliate, link e materiali riguardanti la cybercultura (soprattutto nella sua versione cyberpunk). Disponibile on-line all’indirizzo http://project.cyberpunk.ru/ 39A. Hawk, Future Culture Manifesto, disponibile on-line all’indirizzo http://project.cyberpunk.ru/idb/future_culture_manifesto.html 37 38 144 Dall’Utopia all’Eterotopia omonimo40. Levy offre il suo quadro interpretativo sulla cybercultura nel libro Cybercultura41, il filosofo dei media francese utilizza il termine cybercultura in realtà per riferirsi al cyberspazio, a Internet, interpretato alla maniera del cyberspazio di Barlow42; Levy sostiene che con l’espansione di Internet emerge un nuovo tipo di conoscenza e di circolazione di questa, la cybercultura si coniuga ed è sinonimo di questo cambiamento, si riferisce a: “un insieme di tecniche (materiali ed intellettuali), costumi pratici, atteggiamenti, modi di pensare e valori che si articolano contemporaneamente al cyberspazio”43 e abbracciano “una nuova forma di universalità: universalità senza totalità”44. Levy per universale intende: “la presenza (virtuale) dell’umanità a se stessa. Quanto alla totalità, la si può definire come il concentrarsi stabile del senso di una pluralità (discorso, situazione, insieme di eventi, sistema, ecc.).”45 Come detto, La cybercultura dà forma ad una nuova forma di universalità, ma è ancora di universale che si tratta, accompagnato a tutti gli agganci possibili con la filosofia dei Lumi, perché intrattiene un rapporto profondo col l’umanità. In effetti, il cyberspazio non genera una cultura dell’universale perché è presente ovunque di fatto, ma perché la sua forma e la sua idea implicano di diritto l’insieme degli esseri umani. […] Intorno all’estensione del cyberspazio si organizza una nuova ecologia dei media. Posso ora enunciare il paradosso centrale: più è universale (esteso, interconnesso, interattivo) meno è totalizzante. Ogni connessione supplementare aggiunge nuova eterogeneità, nuove fonti di informazione, nuove linee di fuga, cosicché il senso globale è Cfr. P. Levy, Il virtuale, Cortina Raffaello ed., Milano, 1997. P. Levy, La Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano, 1999. 42 Sulla differenza tra Cyberspazio barlowiano e gibsoniano torneremo in seguito, qui basta sapere che J.P. Barlow intende con cyberspazio il Web. 43 P. Levy, La Cybercultura, Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano, 1999, p.15. 44 Ivi, p.115. 45 Ivi, p. 116. 40 41 145 Dall’Utopia all’Eterotopia sempre meno leggibile, sempre più difficile da circoscrivere, da chiudere, da dominare.46 Per Levy questa nuova universalità è l’evoluzione e il proseguimento del progetto emancipatorio dell’Illuminismo, in cui l’umanità potrà finalmente vivere libera, anche dai gangli del potere e condividere la propria specifica unicità ed identità con tutto il mondo, grazie alle nuove tecnologie mediali. Questo perché la Rete è in grado di costituire un nuovo tipo di Intelligenza, che Levy chiama Intelligenza collettiva e che ricalca la definizione di noosfera concettualizzata da Pierre Teillard de Chardin, cioè una sorta di cervello planetario, un’entità pensante cosmica che connette l’intera energia psichica collettiva. Per Levy, attraverso le reti, è possibile giungere quasi a questo momento nell’evoluzione dell’intelligenza umana, ma vediamo cosa il media-filosofo intende per intelligenza collettiva: un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta ad una mobilitazione effettiva delle competenze. […] il fondamento e il fine dell’intelligenza collettiva sono il riconoscimento e l’arricchimento reciproco delle persone, e non il culto di comunità feticizzante.47 Questa concettualizzazione dell’intelligenza avrà un gran successo, nonostante sia stata criticata da molti, soprattutto nelle sottoculture cyberculturali che analizzeremo nei prossimi paragrafi, che evocheranno molte volte il concetto, accostato spesso a quello di noosfera di Pierre Teillard de Chardin, ma questo lo vedremo in seguito. Per chiosare sul pensiero di Levy possiamo affermare che il filosofo francese non traccia un’analisi della cybercultura in sé, intesa come una serie di pratiche culturali condivise, in realtà avanza le sue visioni tecnoutopistiche sui nuovi media e le applica Ivi, p.117. P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 34. 46 47 146 Dall’Utopia all’Eterotopia all’evoluzione dei media stessi, per cui l’evoluzione di Internet rappresenta il paradigma cognitivo e culturale di tutto lo spettro della cultura futura, tutto questo è abbastanza tautologico, sembra infatti che Levy sia convinto (e chi non lo sarebbe) che le nuove tecnologie stiano modificando il mondo, sia sotto l’aspetto sociale che culturale, e il suo tentativo è quello di individuare e catturare i segni di questi cambiamenti, ma spesso le sue visioni sul futuro sembrano annebbiare un’oggettiva analisi dei cambiamenti stessi, come notano Kevin Robins e Frank Webster, nonostante i due autori sottolineino l’importanza del lavoro di Levy: What, in fact, is significant about Levy’s discourse, is the coexistence of a radical technoretoric with a social and communication political vision that is actually quite conventional and even conservative. And we would say, moreover, that it is this combination of radical and what we might call pragmatic aspirations that particularly marks Cyberculture as a representative text of late 1990s.48 L’approccio che definisce invece la cybercultura come una sorta di codice culturale che dà significato alla società dell’informazione proviene dalle analisi di Margaret Morse nel suo libro Virtualities: Television, Media Art and Cyberculture49, in cui definisce la cybercultura come un insieme di pratiche culturali che ci permettono di affrontare e interpretare le nuove forme dell’informazione, quindi la cybercultura è un nuovo quadro culturale e cognitivo che ci permette di comprendere la natura e le caratteristiche della società dell’informazione. Prendendo spunto da Williams e la sua tesi sulla privatizzazione mobile50, la Morse intuisce che le nuove tecnologie mediali non solo rafforzano la tendenza a separare e rendere mobili le sfere della vita privata, ma K. Robins, F. Webster, Times of Technoculture, Routledge, New York & London, 1999, p. 223. 49 Cfr. M. Morse, Virtualities: Television, Media Art and Cyberculture, Indiana university press, Indianapolis, 1998. 50 Cfr. R. Williams, Televisione, tecnologia e forma culturale, Editori Riuniti, Roma, 2000. 48 147 Dall’Utopia all’Eterotopia allo stesso tempo, poiché queste sfidano il modello centralizzato della distribuzione delle informazioni, di cui il televisore rappresenta l’espressione più avanzata, cambiano la natura stessa dell’informazione. Il televisore era un’utile tecnologia di integrazione sociale, mentre secondo la Morse l’informazione informatizzata è troppo impersonale e decontestualizzata per essere la base di una relazione sociale: The very impersonality and lack of context that are fundamental to information are far too sterile a basis on which to build the human relations that data is designed to disavow. Information is impersonal and imperceptible, knowledge, stripped of its context in order to be transformed into digital data.51 Per questo c’è bisogno di una cornice culturale che permetta la reintegrazione personale di questa decontestualizzazione e di questa spersonalizzazione, un codice culturale che faccia da interfaccia interpretativa e che riporti sul piano esistenziale questo nuovo tipo di informazione e quindi questo nuovo tipo di tecnologia: information that has been disengaged from context of the subjects, time, and place in which it is enunciated must be reengaged with personality and the imagination. That is, an information society inevitably calls forth a cybercultura that enjoys far different characteristics. […] Cyberculture is personal rather than impersonal, irrational rather than rational, perceptually elaborated rather than abstract and so on. 52 Questo quadro culturale è esattamente quello che Morse intende per Cybercultura, che può essere ben espressa secondo le parole di Manovich, anche se queste sono riferite alla definizione di information culture, secondo la Morse quindi la Cybercultura: M. Morse, Virtualities: Television, Media Art and Cyberculture, Indiana university press, Indianapolis, 1998, p. 5. 52 Ivi, p. 6. 51 148 Dall’Utopia all’Eterotopia include le modalità con cui vengono presentate le informazioni nei diversi oggetti culturali e nei diversi ambiti…Estendendo il parallelismo con la cultura visiva, la cultura dell’informazione comprende anche i metodi storici per organizzare e recuperare le informazioni (gli omologhi dell’iconografia), oltre alle modalità d’interazione dell’utente con gli oggetti informativi e i dispaly. 53 Analizzando invece la visione e i derivanti concetti di provenienza antropologica non possiamo non citare il saggio Welcome to Cyberia: Notes on the Antropology of Cyberculture54 di Arturo Escobar che concepisce la ricerca sulla cybercultura come un nuovo campo di applicazione delle pratiche antropologiche e una sfida all’antropologia: As a new domain of anthropological practice, the study of cyberculture is particularly concerned with the cultural constructions and reconstructions on which the new technologies are based and which they in turn help to shape. The point of departure of this inquiry is the belief that any technology represents a cultural invention, in the sense that it brings forth a world; it emerges out of particular cultural conditions and in turn helps to create new ones. Anthropologists might be particularly well prepared to understand these processes if they were to open up to the idea that science and technology are crucial arenas for the creation of culture in today's world.55 Escobar offre della cybercultura una definizione molto ampia, che spesso rimane contestuale, e mai del tutto esplicita, la cybercultura per lui è definita dalle relazioni tra il computer e le information technologies che “are bringing about a regime of tecnosociality”56 e dalle relazioni con le nuove biotecnologie che “are giving rise to L. Manovic, Il linguaggio dei nuovi media, Edizioni Olivares, Milano, 2002, p. 30-31. A. Escobar, Welcome to Cyberia: Notes on the Antropology of Cyberculture, in Z. Sandar e J. Ravetz (a cura di) Cyberfutures: Culture and Politics on the information Superhighway, Pluto Press, London, 1996. pp.111-137. 55 Ivi, p.111 56 Ivi, p. 112 53 54 149 Dall’Utopia all’Eterotopia biosociality”57 ma mai ci offre una definizione chiara e specifica, al massimo riesce ad affermare che la cybercultura è una pratica culturale che include: The realisation that we increasingly live and make ourselves in techno-biocultural environments structurated indebibly by novel form of science and technology. […]Despite this novelty, cyberculture originates in a well-known social and cultural matrix, that of modernity, even though it orients itself towards the constitution of a new order-which we cannot yet fully conceptualize but must try to understand.58 Come si nota il linguaggio di Escobar è simile a quello di Levy, ed è ovviamente influenzato dal cambiamento che è in atto, un cambiamento che necessità di una immediata analisi e di essere catturato in una forma testuale, come tentano di fare Escobar e Levy, ma che in realtà i due non riescono a portare avanti perché troppo coinvolti in quella sorta di atmosfera di eccitamento che circondava il mondo delle nuove tecnologie all’inizio degli anni novanta, come illustrano in maniera perspicace Sandar e Ravetz, nell’introduzione alla raccolta di saggi: Cyberfutures: Culture and Politics on the information Superhighway, il volume in cui è contenuto anche il saggio di Escobar: “we are now getting a first taste of ‘Cyberia’ – the new civilization emerging through our humancomputer interface and mediation.”59 Questo clima di rivoluzione tecnologica aveva influenzato notevolmente tutti gli analisti che interpretavano l’emergere delle nuove tecnologie mediali come una vera e propria rivoluzione sociale e culturale, naturalmente in senso positivo ed utopistico. Un sguardo più scettico ci è fornito invece da David Hakken, uno dei pionieri dell’etnografia del cyberspazio, nel suo Cyborgs at Ibidem. Ibidem. 59 Z. Sandar e J. Ravetz (a cura di) Cyberfutures: Culture and Politics on the information Superhighway, Pluto Press, London, 1996, p. 1 57 58 150 Dall’Utopia all’Eterotopia Cyberspace: An Ethnographer Looks at the Future60. Hakken in realtà non parla propriamente di cybercultura, ma di cyberspazio, tuttavia la sua concettualizzazione del cyberspazio ha della caratteristiche simili alla definizione di cybercultura di Escobar, infatti descrive il cyberspazio come una arena tecnologica in cui possono esser fatti rientrare tutti coloro che utilizzano le nuove tecnologie mediali (AIT, Advaced Information Technology, nella terminologia di Hakken) e alle interazioni sociali che queste definiscono, che delineano degli stili di vita potenzialmente diversi: Lifeways based on AIT are not only real and distinctly different; they are transformative. The transformative potential of AITs lies in the new ways they manipulate information. The new computerbased ways of processing information seem to come with a new social formation; or, in traditional anthropological parlance, cyberspace is a distinct type of culture. 61 A suo avviso è necessaria una verifica empirica di questi cambiamenti per poter effettivamente affermare che quella che sta emergendo, insieme alle nuove tecnologie mediali, sia veramente una nuova cultura, per questo egli si definisce come un “cyberspace agnostic”. In fine il termine cybercultura nei significati sopra menzionati è usato metonimicamente per etichettare il campo di studi sulla cybercultura o sui nuovi media. In questo tipo di approccio possiamo far rientrare le analisi di Manovich62 e Lister63. Manovich delinea una distinzione tra cybercultura e i new media come due distinti campi di ricerca, per new media theory intende una ricerca che esplori la cultura dell’informazione, mentre per lui la cybercultura raccoglie: D. Hakken, Cyborgs at Cyberspace: An Ethnographer Looks at the Future, Routledge, New York & London, 2001. 61 Ivi, p. 3. 62 Cfr. L. Manovic, Il linguaggio dei nuovi media, MCF edizioni, Milano, 2002. 63 Cfr. M. Lister; Dovey, Jon; Giddings, Seth; Grant, Iain; Kelly, Kieran. New Media: A Critical Introduction, Routledge, New York, London, 2003. 60 151 Dall’Utopia all’Eterotopia the study of various social phenomena associated with Internet and other new forms of network communication. Examples of what falls under cyberculture studies are online communities, online multi-player gaming, the issue of online identity, the sociology and the ethnography of email usage, cell phone usage in various communities; the issues of gender and ethnicity in Internet usage; and so on. [...] To summarize: cyberculture is focused on the social and on networking; new media is focused on the cultural and computing. 64 Lister, invece, insieme ad altri studiosi si riferiscono alla cybercultura in due distinti modi, che sono tra di essi comunque correlati, il primo, in contraddizione con la differenzazione che traccia Manovich tra new media e cybercultura, corrisponde pressappoco alla definizione di Escobar, quale insieme di pratiche culturali e sociali, codici e immaginari; il secondo che comunque si innerva poi senza troppi problemi nella prima definizione considera la cybercultura come il contesto culturale delle ITC, un contesto caratterizzato da temi quali i network, la programmazione, l’intelligenza artificiale, la vita artificiale e così via dicendo. Un aspetto da tenere in considerazione nell’analisi di Lister è il suo far entrare all’interno della sfera culturale della cybercultura anche importanti testi, spaziando dalla letteratura al cinema, che dal suo punto di vista hanno fornito alla cybercultura un linguaggio, dei significati e dei valori che hanno giocato un ruolo chiave nel delineare la cybercultura stessa, tra questi cita Neuromancer di Gibson, Synners di Cadigan e Blade Runner di Ridley Scott: Secondly, cyberculture is used to refer to the theoretical study of cyberculture as already defined; that is, it denotes a particular approach to the study of the “culture + technology” complex. This loose sense of cyberculture as a discursive category groups together a wide range of (on many levels contradictory) L. Manovich, New Media from Borges to HTML, in The New Media Reader, edited by Noah Wardrip-Fruin and Nick Montfort, The MIT Press, 2003, disponibile online www.manovich.net/DOCS/manovich_new_media.doc. 64 152 Dall’Utopia all’Eterotopia approaches, from theoretical analyses of the implications of digital culture to the popular discourses of science and technology journalism.65 La cybercultura così come abbiamo potuto notare in questo breve e superficiale excursus sulle sue interpretazioni può essere vista come un punto di incontro di campi culturali completamente diversi, dalla fantascienza alle scienze sociali, fino all’ingegneria e all’informatica, che mescolandosi si sono vicendevolmente modificate e modellate l’un l’altra, rendendo quasi impossibile una definizione univoca della cybercultura stessa. Questo è anche dovuto alla riflessività della cybercultura, che ha la tendenza ad includere nelle proprie tematiche e nel proprio immaginario le teorie che tentano di analizzarla, immaginario e tematiche che così modificate ispirano in seguito altre teorie e interpretazioni sulla cybercultura stessa. Come abbiamo visto le definizioni della Cybercultura sono una miscellanea, in cui rientrano sottoculture, pratiche culturali riferite alle ITC, visioni di un nuovo tipo di società trasformata dalle nuove tecnologie mediali e visioni teoriche su questi cambiamenti, tutti questi non son altro che pezzi di un mosaico: la Cybercultura. Non si può parlare di cybercultura senza includere questi diversi approcci, per semplificare, comunque, possiamo affermare che la cybercultura si riferisce senza dubbio a particolari tematiche che provengono dalla cibernetica, dalla robotica e dalle tecnologie dell’informazione e come queste tecnologie si intreccino con la cultura e la società. La cybercultura è in fondo la storia della colonizzazione culturale del mondo da parte delle ITC e il processo con cui la cultura assembla, significa questo mondo attraverso le sue pratiche, teorizzazioni e immaginari. In questa tesi comunque quando si farà riferimento alla Cybercultura intenderemo certamente il nuovo campo semantico, tecnologico e mediale determinato dalle nuove tecnologie quali, il web, internet e la realtà virtuale che possiamo così riassumere con le efficaci parole Lister, Martin; Dovey, Jon; Giddings, Seth; Grant, Iain; Kelly, Kieran. New Media: A Critical Introduction, Routledge, New York & London, 2003, p. 385 65 153 Dall’Utopia all’Eterotopia di David Silver, uno dei fondatori del Resource center for Cyberculture Studies66: Cyberculture is a collection of cultures and cultural products that exist on and/or are made possible by the Internet, along with the stories told about these cultures and cultural products. 67 Farò riferimento alla cybercultura anche in un modo più specifico, però, intendendo una corrente sottoculturale nata agli inizi degli anni novanta che interpretava le nuove tecnologie come strumenti utopici, in fondo faremo nostra la visione che qui viene descritta come l’approccio tecnoutopisto della cybercultura, che secondo Dery era tipico di una ristretta corrente della cybercultura che si sviluppò negli anni novanta. Abbiamo scelto questo spettro della cybercultura perché è in questa sottocultura che si sono sviluppati quei concetti e quelle visioni che interpretavano la cybersfera in termini di sovversione, di sfida alla società dominate. Per questa corrente il nuovo ambiente mediale avrebbe determinato una rivoluzione sociale completa, il cyberspazio, come espressione massima di questa nuova cybersfera si delineava come un vero e proprio mondo in cui costruire e vivere la Città Perfetta, l’Utopia realizzata. A noi interessa questa corrente, che da qui in poi chiameremo semplicemente Cybercultura degli anni ’90, perché è in questa corrente che l’immaginario utopico determina quella traslazione dalla dimensione temporale a quella spaziale, definendo le caratteristiche dell’eterotopia, che in questo caso si declinerà in eterotopia virtuale, attraverso il cyberspazio. La cybercultura degli anni novanta è un insieme di gruppi sottoculturali, tra i quali gli hacker, i cyberpunk (intesi come epigoni dei protagonisti della corrente letteraria) e tutta la galassia che Dery definisce La Resource center for Cyberculture Studies è una organizzazione no profit online che si pone l’obiettivo di condurre o supportare ricerche che abbiano come tema la Cybercultura e le sue espressioni. Online all’indirizzo http://rccs.usfca.edu/default.asp 67 D. Silver, Introducing Cyberculture, disponibile online all’indirizzo http://rccs.usfca.edu/intro.asp 66 154 Dall’Utopia all’Eterotopia Cyberdelia68, di cui ci occuperemo in seguito, che interpretavano le tecnologie, soprattutto quelle mediali come strumenti per la liberazione individuale e non solo. Per questi le ITC rappresentavano i mezzi per accedere ad un nuovo mondo più libero, libero dai gangli del potere politico ed economico, cioè il cyberspazio; in più, vasta parte di questa corrente interpretava le nuove tecnologie come strumenti per un’elevazione personale, sia cognitiva che spirituale, che avrebbe permesso la realizzazione di un mondo completamente diverso, addirittura sostenevano che le ITC erano solo il primo passo per una nuova evoluzione umana. Non erano rare le disquisizioni sulla trascendenza resa possibile dalle nuove tecnologie. Il punto di riferimento per questa cybercultura era di sicuro, oltre al the Well, la rivista di stampo cyberpunk Mondo 2000, edita dal 1990 al 1995, che era la vera e propria cassa di risonanza di questo immaginario cyberculturale. Per analizzare al meglio le tematiche della cybercultura degli anni novanta abbiamo deciso si descriverne due sotto-correnti, i Tecnopagani e i Tecnognostici, perché riteniamo che analizzando queste le caratteristiche della cybercultura emergeranno in maniera migliore. Prima di ciò però è necessario esaminare più in generale qual era l’immaginario di base di tutta la cybercultura e quali le sue tematiche principali. 3.3 L’immaginario della Cybercultura L’immaginario che i primi gruppi cyberculturali crearono e svilupparono fu quello che poi definì i confini e le qualità della cybercultura e dell’emergente mondo delle nuove tecnologie mediali. Quello che fecero non fu altro che definire l’identità culturale delle nuove tecnologie, articolando i suoi attributi e così delineando i campi semantici e di influenza su cui poi si svilupparono queste tecnologie; ne costruirono insomma i quadri Cfr. M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, in particolar modo il primo capitolo: Turn on, Boot up, Jack in: La Cyberdelia, pp. 27-86. 68 155 Dall’Utopia all’Eterotopia interpretativi e così facendo ne stabilirono le aspettative, i sogni e anche le utopie. L’immaginario cyberculturale, come abbiamo visto, fu influenzato e prese spunto da molteplici e diversificati campi, dai laboratori di ricerca scientifici alla letteratura cyberpunk; queste sfere di influenza si armonizzarono tra loro perché si giungesse ad un immaginario che avesse una coerenza e una logica interna. L’influenza più importante per la cybercultura derivò dall’ethos hacker degli anni sessanta, ciò i primi esperti di informatica e robotica che nei laboratori portavano avanti le ricerche per dar vita alle tecnologia che poi esplosero negli anni novanta. Quella voglia di capire e far funzionare le nuove macchine, e anche quella fantasia profetica per definirne l’utilizzo e i campi di influenza. Questo ethos si fuse in seguito, cristallizzandosi, attraverso l’incontro con la letteratura cyberpunk, e mutò nuovamente con l’incontro dei primi studiosi della cybercultura come Levy o Negroponte. Quello che in effetti avvenne fu la definizione di un universo simbolico di riferimento per interpretare il nuovo mondo delle ITC, anzi i primi gruppi cyberculturali “crearono il mondo delle nuove tecnologie”, ne delinearono i principi, gli assiomi e anche le chiavi interpretative, ne definirono insomma la “mitologia”, con annessa cosmogonia e universo morale. L’immaginario della cybercultura appare come un insieme correlato e confuso di tematiche di difficile sistematizzazione, comunque ad un’analisi più attenta si possono individuare alcune tematiche principali, che delineano il cuore dell’immaginario cyberculturale, su queste si innestano una serie di tematiche secondarie che aiutano a definire in maniera più articolata e complessa l’immaginario e l’universo simbolico cyberculturale. I new media, come protagonisti assoluti del “nuovo mondo”, rappresentano l’elemento principale su cui si basa tutta la cybercultura, in una semplice riedizione del determinismo tecnologico, quindi: La tecnologia come agente di cambiamento La tecnologia è uno strumento che amplia la libertà La tecnologia come nuova frontiera elettronica 156 Dall’Utopia all’Eterotopia Le nuove tecnologie mediali e la relativizzazione della realtà e del sentimento di autenticità. La cybercultura demanda ogni cambiamento sociale direttamente alle nuove tecnologie mediali, anzi seguendo una lettura molto stringente di McLuhan, sono le qualità intrinseche delle tecnologie che guidano il cambiamento, piegando il reale alle proprie caratteristiche. Per quanto riguarda il secondo punto, naturalmente come accadde per la diffusione dei mass media, quali la radio e la televisione, si vengono a delineare due fazioni opposte. I cosiddetti tecno-utopisti, o tecnofili, considerano ogni evoluzione delle tecnologie mediali come un progresso poiché ampliano gli spazi di libertà dell’individuo, aumentandone anche il suo potere politico, grazie al potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie che consentono la decentralizzazione, permettendo così al potere politico di essere più vicino al cittadino. Inoltre le tecnologie digitali possono essere di grande aiuto per sviluppare le potenzialità creative dell’individuo e le sue capacità cognitive. La visione negativa, che possiamo definire tecno-distopica o tecnofoba, sottolinea invece il progresso delle nuove tecnologie mediali come un ampliamento dei meccanismi di controllo del potere centrale. Queste contraddizioni all’interno dell’immaginario della cybercultura in realtà sono insite nella natura stessa delle ITC, che effettivamente hanno entrambe le potenzialità, hanno la capacità di estendere la libertà dei loro utilizzatori, come per esempio la possibilità di libertà di movimento consentita dai telefoni cellulari, ma anche il costante controllo che questo comporta. All’interno dell’immaginario cyberculturale queste due visioni intrecciano una relazione dialettica senza che una delle due possa prevalere. Questo è chiaramente dimostrato all’interno della narrativa cyberpunk in cui le due varianti coesistendo e scontrandosi rappresentano in realtà le linee guide simboliche di tutto il genere; non è un caso che ad esempio il protagonista di 157 Dall’Utopia all’Eterotopia Neuromancer69, Case attraverso le tecnologie di realtà virtuale e del cyberspazio affronti il potere di una megacorporation informatica, tipico esempio del complesso militar-industriale che controlla l’industria tecnologica. Come abbiamo accennato in precedenza, i primi due punti dell’immaginario cyberculturale derivano dall’ethos degli hacker universitari degli anni sessanta, ethos che rappresenta ancora oggi il codice di comportamento degli hacker contemporanei. Ora per completezza penso che sia il caso di citare per esteso i punti fondamentali che danno vita a questa morale così come sono stati formulati da Steven Levy, nel suo famosissimo Hacker: eroi della rivoluzione del computer70: L’accesso al computer e al sapere che serve a comprendere gli eventi del mondo deve essere illimitato e onnicomprensivo. Il principio della collaborazione deve essere valido ovunque. Le informazioni devono essere gratuite. Non credere mai alle autorità. Bisogna promuovere la decentralizzazione. Si giudichi un hacker secondo il suo agire e non secondo criteri superati quali l’età, diplomi, razze o posizione. Su può creare arte e bellezza con il computer. Il computer po’ cambiare in meglio la tua vita. Come abbiamo visto nel precedente capitolo questo ethos era nato alla fine degli anni cinquanta e all’inizio dei sessanta, in un periodo in cui la società era caratterizzata da una certa rigidità, mentre al contrario molti giovani ricercatori vivevano in una nuova sorta di comunità. Comunità che portavano avanti le importanti ricerche sulle tecnologie digitali e sui primi computer, e dove questi svilupparono un rapporto molto stretto con i calcolatori, rapporto che riuscirono a trasmettere alla generazione successiva di hacker e che poi si estese per l’esplosione della rivoluzione dei personal 69 70 Cfr. W. Gibson, Neuromancer, Mondadori, Milano, 1984. S. Levy, Hacker: eroi della rivoluzione del computer, Edizioni Shake, Milano, 1994. 158 Dall’Utopia all’Eterotopia computer. Negli anni ottanta attraverso la nuova formulazione attuata dalla letteratura cyberpunk l’etica hacker si arricchisce ma i temi e i valori che permeano la cybercultura rimangono pressoché invariati: l’accento sull’autonomia personale e sul suo sviluppo, e sopratutto il credo quasi messianico sulla capacità delle nuove tecnologie di essere agenti di resistenza contro il potere centrale. Come si può notare l’antagonismo contro il potere centrale è tipico della cultura americana e si riversa con tutta la sua forza anche sulla nuova cultura delle ITC. Due dei temi che divingono centrali all’interno dell’immaginario cyberculturale sono quelli della relativizzazione della realtà e dell’autenticità, che vengono alla ribalta con le nuove tecnologie, si pensi alla tecnologia della realtà virtuale che negli anni novanta ebbe così tanta pubblicità ed attenzione, tutto questo perché l’immaginario della cybercultura interpreta le nuove ITC come uno strumento in grado di dar vita ad un nuovo spazio culturale: un nuovo spazio simbolico, iperreale stava emergendo come conseguenza dell’implosione tecnologica del mondo umano, uno spazio che è libero dal potere gerarchico e formale delle organizzazioni, uno spazio che si estende al di là del mondo normale, uno spazio pioneristico, in una sola parola il cyberspazio. La cybercultura immaginava il cyberspazio come “la nuova frontiera”, una nuova frontiera che fa riemergere l’atavica tradizione americana della “conquista del West”. Il cyberspazio delinea una nuova frontiera culturale, uno spazio non ancora colonizzato, un caos creativo a cui si deve dar forma. La mitologia della frontiera assicura un cambiamento, una rivoluzione culturale, che insieme alle nuove tecnologie promettono al soggetto delle libertà ancora più ampie e in più sembra promettere anche la liberazione dai vincoli fisici della materia, per una libertà assoluta, forse anche quella dalla morte. Il quarto è un argomento che diverrà un classico della cybercultura, è l’introduzione della tematica della tecnologia come fonte di relativizzazione della realtà e quindi della conseguente relativizzazione delle autenticità della vita. Da una parte l’immaginario della cybercultura sviluppa le tesi di 159 Dall’Utopia all’Eterotopia Baudrillard sui Simulacri e sulla Simulazione71, sulla natura iperreale della realtà mediale e la conseguente dissoluzione della distinzione tra autenticità e inautenticità, dall’altra fa proprie le visioni di un autore di culto della fantascienza, Philip K. Dick,72 i cui romanzi descrivono a tinte forti la schizofrenia di un mondo dalle incerte realtà, memorie manipolate o indotte tecnologicamente, droghe psichedeliche e malattie mentali. Naturalmente questi due autori introducono nella cybercultura quella visione negativa di cui prima si parlava, in cui le tecnologie invece di essere strumenti di emancipazione umana divengono strumenti di alienazione dal reale, strumenti di controllo e manipolazione, non solo delle azioni, ma addirittura della stessa realtà. A questa visione se ne associa un’altra dai connotati del tutto diversi in cui l’alienazione e la trascendenza dal mondo reale rappresenta un’opportunità unica per sfuggire ai vincoli delle norme sociali e ai limiti imposti dalla natura umana. Dalle quattro tematiche chiave che formano il cuore della poetica della cybercultura sono emerse un vasto numero di argomenti che ne ampliano e ne danno maggior spessore all’immaginario, una delle più importanti è di sicuro quella che riguarda il concetto di ipertesto, una nuova forma testuale che è emersa con le tecnologie digitali, concetto che ha avuto un successo accademico enorme dopo l’esplosione del web e di internet. Altra tematica importante è quella che vede le nuove tecnologie come un nuovo strumento di creazione artistica, sottolineando come le nuove tecnologie stiano cambiando la cultura visuale e l’estetica. Hanno destato notevole interesse anche i cambiamenti sia simbolici che fisici che le nuove tecnologie possono apportare al corpo73, Cfr. J. Baudrillard, Simulacra and Simulation, University of Michigan Press, Chicago, 1995 alcune parti di questo testo sono disponibili in italiano all’interno di J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2001. 72 Cfr. P. K. Dick, Ubik, Fanucci, Roma, 2007, Un oscuro scrutare, Fanucci,2004, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Fanucci, Roma, 2003, Scorrete lacrime, disse il poliziotto, Fanucci, Roma, 2007. 73 Cfr. D. Haraway, Manifesto Cyborg, Feltrinelli, Milano 1995. 71 160 Dall’Utopia all’Eterotopia all’identità e al genere74, il cyborg e la robotizzazione del corpo sono due degli argomenti più famosi e sfruttati del panorama cyberculturale. Altrettanto sfruttata e famosa è la tematica del cyberspazio come uno spazio di sovversione politica, l’aspetto che poi è quello che ci interessa di più, o la possibilità che il cyberspazio ricostituisca la habermasiana sfera pubblica che sembrava sparita con il dominio dei mass media quali la televisione. Un altro tema fondamentale è quello della costruzione di nuove comunità virtuali che possano far rivivere quel sogno comunitario che si era rotto con il declino del sogno controculturale, ma di questo e della sua influenza sulla cybercultura abbiamo già ampliamente parlato. Tutto questo corpus concettuale costituisce l’universo simbolico della cybercultura, un aspetto da sottolineare riguarda come la cybercultura abbia creato una sorta di ideologia che abbraccia l’insieme delle nuove tecnologie mediali, modellandone la visione e le prospettive, e cosa ancor più importante l’interpretazione, dando vita a quelle che spesso sembrando delle profezie auto avveranti, in cui manca quella attenta analisi critica che sarebbe necessaria, un esempio per tutti potrebbe essere quello di Pierre Levy, così in questo caso le parole di Clifford Geertz sull’ideologia mi sembrano le più appropriate per descrivere l’universo simbolico della cybercultura: Tutte le altre possibili ideologie – proiezioni di paure non riconosciute, travestimenti per nuovi motivi, espressioni emotive di solidarietà di gruppo – sono sicuramente mappe di una realtà sociale problematica e matrici per la creazione di una coscienza collettiva.75 Dopo questo viaggio nell’immaginario cyberculturale penso sia necessario analizzare in maniera approfondita quello che abbiamo Cfr. Stone Allucquère Rosanne, Desiderio e tecnologia. Il problema dell'identità nell'era di Internet, Feltrinelli, Milano, 1997 e S. Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell'epoca di Internet, Apogeo, Milano, 1997. 75 C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 257. 74 161 Dall’Utopia all’Eterotopia definito il “Totem” della Cybercultura, il cyberspazio, soprattutto per quando riguarda l’immaginario eterotopico che lo riguarda. 3.4 Il cyberspazio Il cyberspazio può essere definito come il dominio caratterizzato dall'uso dell'elettronica e dello spettro elettromagnetico per immagazzinare, modificare e scambiare informazioni attraverso le reti informatiche e le loro infrastrutture fisiche. È visto come la dimensione immateriale che mette in comunicazione i computer di tutto il mondo in un'unica rete che permette agli utenti di interagire tra loro, ossia come lo «spazio concettuale dove le persone interagiscono usando tecnologie per la comunicazione mediata dal computer (computer mediated communication, CMC)»76 È oggi comunemente utilizzato per riferirsi al "mondo di Internet" in senso generale, ma questa definizione è troppo ristretta, infatti come la cybercultura anche il cyberspazio non è chiaramente definibile, emerge da un intersecarsi di storie diverse, in primo luogo nasce da una storia che possiamo definire simbolica, il primo che abbia mai parlato di cyberspazio fu lo scrittore di fantascienza William Gibson, ma di questo parleremo in seguito, quello che ci interessa è notare come il cyberspazio acquisti i suoi significati attraverso l’intreccio di un immaginario, che il romanzo di Gibson aveva fatto esplodere, e la reale capacità dei sistemi tecnologici di supportare quell’immaginario. La difficoltà di definire il cyberspazio ci è chiara sfogliando le prime pagine del già citato Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale di Benedikt: Cyberspazio: un nuovo universo, un universo parallelo creato e alimentato dalle reti globali di comunicazione via computer. Un mondo in cui prende forma uno scambio globale di conoscenze, segreti, misurazioni, indicatori , divertimenti e agenti non umani: 76 Roger Fidler, Mediamorfosi, Guerrini e Associati, Milano, 2000, pp.89-90. 162 Dall’Utopia all’Eterotopia luci suoni, presenze mai viste sulla faccia della terra che sbocciano in una vasta notte elettronica… Cyberspazio: una geografia mentale comune, costruita di volta in volta dal consenso e dalla rivoluzione, dal canone e dall’esperimento; un territorio gremito di dati reali e di bugie, con creazioni mentali e reminiscenze della natura, con un milione di voci e due milioni di occhi in un silenzioso invisibile concerto di domande, accordi, condivisione di sogni e semplice osservazione. Dopo dieci tentativi simili a questi Benedikt chiosa affermando che il cyberspazio come lo abbiamo appena descritto – e come è per lo più descritto in questo libro – non esiste. Ma questa affermazione pur essendo vera è semplicistica.77 Forse il cyberspazio come lui lo ha descritto non esiste, poiché nel libro se ne dà una definizione una visione gibsoniana, ma parimenti, intorno a quella visione sono nati degli immaginari che hanno determinato l’interpretazione di internet come di un cyberspazio. Oltre alla storia delle immaginazioni del cyberspazio ne esiste una reale, che non è altro che la storia dell’invenzione e dell’evoluzione di internet, questa però è una storia che ci interessa di meno, ormai è nota a tutti l’origine militare di Internet che all’epoca si chiamava Arpanet, e la sua progressiva laicizzazione e adozione nel mondo civile, prima quello accademico, poi a tutta la società, ma questo come detto è una storia dal nostro punto di vista secondaria, quello che ci interessa è la storia simbolica del cyberspazio, perché da questa prendono spunto quegli immaginari utopici che porteranno il cyberspazio ad essere visto come il luogo adatto per creare una nuova società o il mezzo per migliorare per perfezionare quella esistente. Il termine cyberspace fu coniato da William Gibson, scrittore canadese esponente di punta del filone cyberpunk, per il suo romanzo breve La notte che bruciammo Chrome78 pubblicato nel Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 1-2-3. 78 W. Gibson, La notte che bruciammo Chrome, Mondadori, Milano, 1999. 77 163 Dall’Utopia all’Eterotopia 1982 sulla rivista Omni e fu in seguito reso noto dal suo romanzo Neuromancer, nel quale è così descritto: Cyberspazio: un'allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione, da bambini a cui vengono insegnati i concetti matematici... Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come le luci di una città, che si allontanano 79 Gibson più tardi commentò l’origine del termine nel documentario del 1996 No Maps for These Territories: Tutto quello che so riguardo al termine "cyberspace" quando lo coniai, era che esso rassomigliava effettivamente ad un termine in voga. Sembrava evocativo e essenzialmente privo di significato. Era indicativo di qualcosa, ma non aveva nessun significato semantico vero, anche per me, poiché lo vidi emergere mentre lo stavo scrivendo nella pagina.80 Gibson coniò anche il termine meatspace (spazio della carne) per indicare il mondo fisico, contrapposto al cyberspazio. La visione del cyberspazio di Gibson come si può notare unisce in realtà due diverse tecnologie quella di Internet, che era disponibile anche nella realtà, e una sofisticata versione di realtà virtuale, che permetteva la connessione diretta alla rete attraverso una connessione corticale, cioè una connessione diretta ai centri nervosi del cervello. Naturalmente questa versione di realtà virtuale all’epoca non era disponibile e non lo è neanche adesso. Quello che bisogna sottolineare è il fatto che il cyberspazio gibsoniano in realtà non era la creazione di un mondo virtuale, bensì una semplice visualizzazione grafica tridimensionale di dati informatici o W. Gibson, Neuromancer, Mondadori, Milano, 1984, p. 54. Disponibile on-line all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=poQwVguZeBg (traduzione mia) 79 80 164 Dall’Utopia all’Eterotopia programmi in cui ci si poteva immergere virtualmente. Il primo e quindi forse il vero ideatore del cyberspazio come mondo alternativo virtuale è stato in realtà lo scrittore di fantascienza Neal Stephenson nel suo Snow Crash del 1992;81 dove in un futuro non troppo lontano esiste il Metaverso, realtà virtuale 3D condivisa sulla rete mondiale a fibre ottiche, alla quale è possibile accedere anche da terminali pubblici e dove si viene rappresentati in tre dimensioni dal proprio avatar , che consente di camminare liberamente tra bar, negozi e posti alla moda. Tutto questo crea una sorta di mondo parallelo dove è possibile vivere come in un mondo alternativo. Questo è in realtà il sogno che animava l’immaginario della controcultura degli anni novanta, un mondo alternativo in cui vivere, un mondo perfetto, un’eterotopia virtuale, di cui Second Life può rappresentare la realizzazione ai nostri giorni. Dopo poco, però, oltre ad aver influenzato ed ispirato una notevole quantità di film, romanzi e fumetti, il termine cyberspazio iniziò a divenire de facto sinonimo di Internet, e più tardi di World Wide Web, durante gli anni novanta, specialmente nei circoli accademici e nelle comunità di attivisti. Lo scrittore cyberpunk e giornalista Bruce Sterling, che rese popolare questo significato e che aveva una visione quasi trascendentale del cyberspazio quale: ‘luogo’ nel quale sembra accadere una conversazione telefonica. Non all’interno del vostro reale telefono, l’apparecchio in plastica o altro materiale che si trova nella vostra scrivania. Non all’interno del telefono dell’altra persona, che si trova in una qualche altra città. Lo spazio tra i telefoni. ...negli ultimi venti anni trascorsi, questo "spazio" elettrico, che era un tempo sottile e scuro e uni-dimensionale – poco più di uno stretto tubo parlante, che si allungava con un filo da telefono a telefono, si è praticamente espanso, schizzando fuori come un gigantesco joker dentro la scatola, la luce lo ha inglobato, sotto forma di luce tremolante dello schermo di un computer. Questo mondo scuro e nascosto rappresentato dal piccolo ricevitore telefonico connesso tramite un filo alla rete si è trasformato in un vasto e fiorente 81 Cfr. Neal Stephenson, Snow Crash, Rizzoli, Milano, 2007. 165 Dall’Utopia all’Eterotopia paesaggio elettronico. Dagli anni sessanta, il mondo del telefono è divenuto ibrido con i computer e la televisione, e sebbene non vi sia ancora alcuna sostanza di cyberspazio, nulla che si possa maneggiare, esso ora ha uno strano tipo di fisicità. È buonsenso oggi parlare di cyberspazio come un luogo a se stante. 82 accreditò John Perry Barlow per essere stato il primo ad usare il termine per riferirsi al "nesso attuale tra il computer e i network delle telecomunicazioni." Barlow lo descrive così per annunciare la formazione dell’EFF o Electronic Frontier Foundation (da notare la metafora spaziale) nel giugno del 1990: In this silent world, all conversation is typed. To enter it, one forsakes both body and place and becomes a thing of words alone. You can see what your neighbors are saying (or recently said), but not what either they or their physical surroundings look like. Town meetings are continuous and discussions rage on everything from sexual kinks to depreciation schedules. There are thousands of these nodes in the United States, ranging from PC clone hamlets of a few users to mainframe metros like CompuServe, with its 550,000 subscribers. They are used by corporations to transmit memoranda and spreadsheets, universities to disseminate research, and a multitude of factions, from apiarists to Zoroastrians, for purposes unique to each. Whether by one telephonic tendril or millions, they are all connected to one another. Collectively, they form what their inhabitants call the Net. It extends across that immense region of electron states, microwaves, magnetic fields, light pulses and thought which sci-fi writer William Gibson named Cyberspace.83 Questa versione del cyberspazio che in seguito verrà adottata dal mondo accademico come “Barlowian Cyberspace” per contrapporlo al “Gibsonian cyberspace” in realtà confonde il cyberspazio con internet, in questo modo normalizzandone la visione, ma non B. Sterling, Giro di vite contro gli Hacker, Shake edizioni, Milano, 1994, p. 5. J. P. Barlow, Crime and Puzzlement, 1990, disponibile on-line all’indirizzo /w2.eff.org/Misc/Publications/John_Perry_Barlow/HTML/crime_and_puzzlement_1.html 82 83 166 Dall’Utopia all’Eterotopia l’immaginario, Barlow attraverso la sua fondazione Electronic Frontier Foundation, intenderà sempre la Rete come una nuova frontiera e un nuovo mondo da colonizzare, libero dai vincoli della società “normale”. Comunque il cyberspazio non dovrebbe mai essere confuso con la rete Internet vera e propria, il termine, difatti, è spesso usato per riferirsi ad oggetti ed identità che esistono ampiamente all'interno della comunicazione dei network stessa, cosicché un sito web, per esempio, si potrebbe dire metaforicamente che "esiste nel cyberspazio". Secondo con questa interpretazione, gli eventi che hanno luogo su Internet non sono in atto nei paesi dove si trovano fisicamente i partecipanti o i server, ma nel cyberspazio, inteso come spazio virtuale, in cui il concetto di cyberspazio si riferisce non al contenuto presentato al navigatore, ma piuttosto alla possibilità di navigare tra differenti siti, tramite i feedback loops tra l’utente ed il resto del sistema, che crea così il potenziale di incontrare sempre qualcosa di inatteso e sconosciuto. Un’altra accezione per cui viene utilizzato il termine cyberspazio è all’interno dei videogiochi, soprattutto quelli in grafica 3D nella loro variante online, in cui è possibile adottare la metafora del cyberspazio impegnando molti giocatori nel gioco stesso, e poi rappresentandoli figurativamente sullo schermo come avatar. Di questi il più famoso è sicuramente Second Life, di cui ci occuperemo approfonditamente nel prossimo capitolo. Queste applicazioni in realtà non hanno niente a che fare con la visione del cyberspazio di Gibson e della cybercultura degli anni novanta, perché non prevedono la totale immersione nella realtà virtuale, o la costruzione di un mondo virtuale alternativo, sicuramente questo è dovuto, in massima parte, al fatto che la tecnologia della realtà virtuale non ha avuto l’evoluzione che la cybercultura si aspettava, anzi ormai tale tecnologia, dopo aver trascorso un periodo all’apice dei discorsi cyberculturali, ma anche accademici, sembrerebbe aver perso appeal, e la visione immersiva del cyberspazio sembrerebbe del tutto scomparsa, a scapito della sempre più importante e alla moda analisi e sviluppo del cosiddetto WEB 2.0 o del social networking, questo è un altro discorso che affronteremo nel prossimo capitolo quando ci immergeremo nell’analisi dei mondi virtuali. Quello che mi preme ora mettere in luce è come il 167 Dall’Utopia all’Eterotopia Cyberpunk non solo abbia fornito il concetto e il protagonista principale della cybercultura, cioè il cyberspazio, ma abbia innanzitutto creato un immaginario utile alla cybercultura per interpretare il nuovo universo tecnologico che stava emergendo tra la fine degli anni ottanta, decade in cui il movimento cyberpunk nacque e dove fece la sua prima comparsa il personal computer, e la metà degli anni novanta in cui ci fu l’esplosione di internet e del World Wide Web. Il cyberpunk fornì una “mappa concettuale” per interpretare e significare le trasformazioni che questa rivoluzione tecnologica stava compiendo all’interno della società, a tutti i livelli, culturali, cognitivi e semantici. Questo aspetto come vedremo a breve è molto importante per le conseguenze che avrà sulla cybercultura stessa, ma non ci dovrebbe stupire più di tanto in fondo gli scrittori cyberpunk non facevano altro che interpretare, e manipolare attraverso la propria immaginazione quei cambiamenti che stavano vivendo in prima persona, come mostrano queste illuminati parole di Bruce Sterling: “I cyberpunk sono forse la prima generazione di fantascienza a crescere non solo nella tradizione della science fiction ma in un verosimile mondo fantascientifico.”84 Interpretazione che corrisponde quasi completamente con l’analisi che dà del movimento Larry McCaffery, nell’introduzione della raccolta di saggi dedicata al cyberpunk da lui curata, Storming the Reality Studio: The cyberpunks were the first generation of artists for whom the technologies of satellite dishes, video and audio players and recorders, computers and video games (both of particular importance), digital watches, and MTV were not exoticisms, but part of a daily ‘reality matrix’. They were also the first generation of writers . . . who had grown up immersed in technology but also in pop culture, in the values and aesthetics of the counterculture B. Sterling, Mirrorshades. L'antologia della fantascienza Cyberpunk, Bompiani, Milano, 1994, p. IX. 84 168 Dall’Utopia all’Eterotopia associated with drug culture, punk rock, video games, . . . comic books, and . . . gore-and-splatter SF/horror films.85 Proprio questa contestualità con la rivoluzione tecnologica che stava avvenendo permetteva alla nascente cybercultura di introiettare le visioni del cyberpunk come quadro culturale per decodificare tale cambiamento, non è un caso infatti che molti critici lessero nelle pagine dei romanzi cyberpunk una sorta di critica sociale e una previsione del futuro, Featherstone e Burrows per esempio affermano che fosse: possibile decifrare nel…cyberpunk, una visione teoreticamente coerente di un futuro molto vicino che, come sostengono alcuni, è in procinto di collassare sul presente. […] Che Gibson lo voglia o no la sua narrativa può essere letta sistematicamente come teoria sociale e culturale.86 Queste parole mettono bene in luce quel meccanismo circolare, che dal cyberpunk prende inizio, in cui la critica sociale alle nuove tecnologie e la visione della fantascienza o di altre opere fiction si influenzano a vicenda, circolarità evidenziata dalle parole di Kevin Concannon che afferma come il confine tra la scienza è la fantascienza abbia ormai trovato il suo punto di contatto e di fusione nel cyberspazio che has taken on a life of its own, its science fictionalization overcome by its real world possibility…Science is creating an alternate space of possibility that at once diverges and reinforces its fictional representation… The border not only divides the two but also draws them together, making any distinction between the fiction L. McCaffery, Introduction: the desert of the real, in L. McCaffery, (a cura di) Storming the Reality Studio: a casebook of cyberpunk and postmodern fiction, Durham NJ: Duke University Press., p.12. 86 M. Featherstone, R. Burrows, Per una personificazione della tecnologia: introduzione, in M. Featherstone, R. Burrows (a cura di), Tecnologia e cultura virtuale. Cyberspace,cyberbodies, cyberpunk, FrancoAngeli, Milano, 1999, p. 24. 85 169 Dall’Utopia all’Eterotopia of cyberspace and its fact impossible to determine: all seems fact and fiction.87 Questa interpretazione del cyberpunk come visione sociologica annette anche la descrizione del futuro prossimo come una previsione a ciò che realmente avrebbe condotto la rivoluzione tecnologica, una visione che fu fatta propria da una larga parte della controcultura degli anni novanta e che prevedeva: a future dominated by libertarian capitalism, where global wealth and power are the preserve of multinationals and nation-states are weak or gone; where a dual economy flourishes and is enforced through corporate modes of governance and surveillance; where society is increasingly urbanized within fragmented, divided, simulacra cities; where the body is enhanced through the use of genetic engineering and technical implants.88 In cui gli unici difensori della libertà rimangono gli hacker indipendenti che si battono contro le grandi organizzazioni politicoeconomico. Il Cyberpunk, infatti, oltre ad essere interiorizzato dalla cybercultura come quadro interpretativo per la rivoluzione informatica, divenne un modello identitario per il movimento hacker, che si stava espandendo velocemente negli anni novanta, e che iniziò a considerare attendibili le previsioni del cyberpunk, riconoscendosi come i difensori della libertà all’interno del nuova organizzazione sociale, come piccoli Case in Neuromancer. Non è un caso che molti analisti interpretarono il cyberpunk non solo come movimento letterario, ma come vera e propria sottocultura89, K. Concannon, The contemporary space of the border: Gloria Anzaldua’s Borderlands and William Gibson’s Neuromancer, Textual Practice, 12: 429–42, cit. in D. Bell, Introduction to cybercultura, Routlege, New York & London, 2001, p. 25. 88 M. Dodge & R. Kitchin, Mapping Cyberspace, London: Routledge, 2001, cit. in D. Bell, Introduction to cybercultura, Routlege, New York & London, 2001, p. 23, 24. 89 Cfr. D. Bell, Introduction to cybercultura, Routlege, New York & London, 2001, spt. pp. 163-185. 87 170 Dall’Utopia all’Eterotopia intendendo questo termine nel senso di Dick Hebdige 90, infatti i giovani hacker oltre ad incorporare una certa etica derivante dal cyberpunk ne ripresero anche una certa estetica, come i famosi occhiali a specchio, che diedero anche il titolo ad una antologia curata da Bruce Sterling91. Questa natura di vera e propria sottocultura, caratterizzata da una forte avversione verso il potere centrale venne sottoscritta anche dallo stesso Sterling nella prefazione all’antologia di testi cyberpunk appena citata, in cui afferma che il cyberpunk ha a che fare con tutte le sottoculture metropolitane quali l’hip hop, i punk e gli hacker. Da notare nella stessa prefazione una sorta di discendenza che Sterling delinea tra il cyberpunk e la controcultura degli anni sessanta, ma questo non ci deve più stupire. Chi definitivamente sdoganò il cyberpunk dai suoi confini letterari fu il fondatore della rivista Mondo 2000, la Bibbia della cybercultura degli anni novanta che affermò: Cyberpunk escaped from being a literary genre into cultural reality. People started calling themselves cyberpunks, or the media started calling people cyberpunks. The first people to identify themselves as cyberpunks were adolescent computer hackers who related to the street-hardened characters and the worlds created in the books of William Gibson, Bruce Sterling, John Shirley, and others. Cyberpunk hit the front page of the New York Times when some young computer kids were arrested for cracking a government computer file. The Times called kids "cyberpunks". Finally, cyberpunk has come to be seen as a generic name for a much larger trend more or less describing anyone who relates to the cyberpunk vision. This, in turn, has created a purist reaction among the hard-core cyberpunks, who feel they got there first.92 Cfr. D.Hebdige, Sottocultura : il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova , 1983. 91 Cfr. B. Sterling, Mirrorshades. L'antologia della fantascienza Cyberpunk, Bompiani, Milano, 1994. 92 R.U.Sirius, Cyberpunks, in R. Rucker, R.U.Sirius, & Queen Mu (a cura di), Mondo 2000: A Users Guide to the New Edge, 1992, p. 64. 90 171 Dall’Utopia all’Eterotopia L’influenza del Cyberpunk comunque non si limitò alla sottocultura cyberculturale che ne derivò, ma in realtà influenzò l’intero spettro della cybercultura, insieme ai principi della controcultura; non è un caso che tutti i vari sottogruppi o correnti cyberculturali interpretassero il cyberspazio e la Rete come strumento o come luogo, a seconda delle visioni, con cui combattere la propria battaglia contro il potere centralizzato, o per costruire un mondo migliore, o addirittura il luogo in cui creare una vera e propria nuova società. Infatti il cyberspazio fu, sin dalla sua prima definizione di stampo gibsoniano, interpretato come un luogo utopico, dove l’unico limite sarebbe stato quello della fantasia, uno spazio che con l’utopia ha in comune il fatto di esser sì un luogo, ma in nessun posto. Nicole Stinger ci dice che il cyberspazio è come Oz; c’è, ci possiamo andare, ma non ha una collocazione; apre uno spazio per il ristoro collettivo, e per la pace.93 Barrie Sherman e Phil Judkins ricollegando il cyberspazio alla realtà virtuale in una visione del tutto gibsoniana del termine descrivono quest’ultima come: the technology of miracles and dreams…allows us[…] to play God: we can make water solid, and solid fluid; we can imbue inanimate objects ( chairs, lamps, engines) with an intelligent life their own. We can invent animals, singing texture, clever colours or fairies. 94 Questa era la visione più ottimistica e utopistica del cyberspazio, molto diffusa nella cybercultura, in cui il cyberspazio rappresentava un’alternativa perfetta, seppur virtuale per sfuggire alla pesantezza della realtà, dove tutti i limiti umani potevano essere superati, sia quelli fisici che quelli sociali. Per quanto riguarda i limiti fisici la nuova tecnologia prometteva di liberare il suo utente dai vincoli fisici e dai difetti della realtà fisica. Offriva la possibilità di un’infinità potenzialità e potere, questa tecnologia viene investita da fantasie di onnipotenza, poiché nel N. Stenger, La mente è un arcobaleno che trascolora, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 59. 94 B. Sherman e P. Judkins, Glimpses of Heaven, Visions of Hell. Virtual Reality and its Implications, Hodder & Stoughton, London, 1992, pp. 126-127. 93 172 Dall’Utopia all’Eterotopia cyberspazio si ritiene possibile ricevere tutte le gratificazioni a cui si ha diritto, nel cyberspazio si ha l’illusione di un magico potere creativo. Il liberarsi dai limiti del corpo, per sfruttare tutto il potenziale immaginativo e poietico della mente sarà uno dei temi cardine su cui si svilupperanno varie correnti della cybercultura, ma queste verranno analizzate nei paragrafi seguenti, qui preme il sottolineare come la mente, con le sue virtù sia la protagonista assoluta della cybercultura, una mente che deve essere potenziata per sfruttarne tutte le capacità, non è un caso che proprio in questo periodo si sia sviluppato il commercio di quelle che vengono definite smart drug, droghe sintetiche, quali le anfetamine note per essere potenti eccitanti. Un’altra qualità utopica che la cybercultura rintracciava nel cyberspazio era quella di poter ricostruire attraverso le virtual communities quel senso comunitario che nella realtà non esisteva più, questo come abbiamo visto è il lascito più importante che la controcultura abbia donato alla cybercultura ed è sicuramente quello su cui si basano le visioni sociali del cyberspazio, un nuovo villaggio globale, creato grazie alle reti informatiche, caratterizzato però da un legame comunitario basato su una forte solidarietà, elemento che nella società reale non era più presente, per questo alcuni leggono l’enfasi sulle comunità virtuali più come risposta all’ambiente reale invece che un vero e proprio sogno utopistico, come ci mostrano queste parole di Stone Allucquere, per cui le comunità virtuali rappresentano: adattamenti flessibili, vivaci e pratici alle circostanze reali che si presentano alle persone che sono in cerca di comunità… Sono parte di un raggio di risposte innovative all’esigenza di socialità, un’esigenza che può essere frequentemente ostacolata dalla realtà geografica e culturale delle città…in questo contesto, le comunità virtuali elettroniche sono complesse e ingegnose strategie di sopravvivenza.95 Stone Allucquère Rosanne, A proposito del corpo reale: storie di frontiera sulle culture virtuali, in Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 111. 95 173 Dall’Utopia all’Eterotopia Le comunità virtuali però sono solo una delle espressioni che la cybercultura adotta nella sua visione del cyberspazio, alcune correnti si spinsero ben oltre, sognando di colonizzare il nuovo spazio virtuale e lì rimanere dopo aver abbandonato il corpo, inteso come un vecchio ed inutile peso, e costruire un nuovo mondo adatto alle proprie menti. Naturalmente queste sono visioni estreme, ma condivise da tutta la cybercultura, il cyberspazio diveniva l’eterotopia virtuale per eccellenza, tutto ciò portò a quello che è uno dei documenti più famosi di tutto il web cioè La dichiarazione di indipendenza del cyberspazio, redatta da J.P. Barlow e sostetuta da tutta la sua fondazione la Electronic Frontier Foundation: Governi del Mondo, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo dal Cyberspazio, la nuova dimora della Mente. A nome del futuro, chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Non siete graditi fra di noi. Non avete alcuna sovranità sui luoghi dove ci incontriamo. Noi non abbiamo alcun governo eletto, è anche probabile che non ne avremo alcuno, così mi rivolgo a voi con una autorità non più grande di quella con cui la libertà stessa, di solito, parla. Io dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo costruendo è per sua natura indipendente dalla tirannia che voi volete imporci. Non avete alcun diritto morale di governarci e non siete in possesso di alcun metodo di costrizione che noi ragionevolmente possiamo temere. I Governi ottengono il loro potere dal consenso dei loro sudditi. Non ci avete chiesto né avete ricevuto il nostro. Noi non vi abbiamo invitati. Voi non ci conoscete e non conoscete neppure il nostro mondo. Il Cyberspazio non si trova all'interno dei vostri confini. Non pensate che esso si possa costruire come se fosse il progetto di un edifico pubblico. Non potete. È un atto di natura e si sviluppa per mezzo delle nostre azioni collettive. Non siete stati coinvolti nelle nostre grandi e partecipate discussioni e non avete creato il valore dei nostri mercati. Voi non conoscete la nostra cultura, la nostra etica, e nemmeno i codici non scritti che danno alla nostra società piu' ordine di quello che potrebbe essere ottenuto dalle vostre imposizioni. Voi affermate che ci sono problemi fra di noi che hanno necessità di essere risolti da voi. Voi usate questa affermazione come un pretesto per invadere le nostre aree. Molti 174 Dall’Utopia all’Eterotopia di questi problemi non esistono. Troveremo i conflitti reali e le cose che non vanno e li affronteremo con i nostri mezzi. Stiamo costruendo il nostro Contratto Sociale. Questo potere si svilupperà secondo le condizioni del nostro mondo, non del vostro. Il nostro mondo è differente. Il Cyberspazio è fatto di transazioni, di relazioni, e di pensiero puro disposti come un'onda permanente nella ragnatela delle nostre comunicazioni. Il nostro è un mondo che si trova contemporaneamente dappertutto e da nessuna parte, ma non è dove vivono i nostri corpi. Stiamo creando un mondo in cui tutti possano entrare senza privilegi o pregiudizi basati sulla razza, sul potere economico, sulla forza militare o per diritto acquisito. Stiamo creando un mondo in cui ognuno in ogni luogo possa esprimere le sue idee, senza pregiudizio riguardo al fatto che siano strane, senza paura di essere costretto al silenzio o al conformismo. I vostri concetti di proprietà, espressione, identità, movimento e contesto non si applicano a noi. Essi si basano sulla materia. Qui non c'è materia. Le nostre identità non hanno corpo, così, diversamente da voi, non possiamo arrivare all'ordine tramite la coercizione fisica. Noi crediamo che il nostro potere emergerà dall'etica, dal nostro interesse personale illuminato, dal mercato comune. Le nostre identità possono essere distribuite attraverso molte delle vostre giurisdizioni. L'unica legge che le nostre culture costituenti riconosceranno in modo diffuso sarà la Regola d'Oro. Sulla base di essa speriamo di essere capaci di adottare soluzioni specifiche. Non possiamo però accettare le soluzioni che state cercando di imporre. Negli USA abbiamo creato un legge, il Telecommunications Reform Act, che è in contrasto con la nostra Costituzione e reca insulto ai sogni di Jefferson, Washington, Mill, Madison, DeToqueville e Brandeis. Questi sogni adesso devono rinascere in noi. Siete terrorizzati dai vostri figli, poiché sono nati in un mondo che vi considererà sempre immigranti. Poiché li temete, affidate alle vostre burocrazie le responsabilità di genitori che siete troppo codardi per confrontare con voi stessi. Nel nostro mondo tutti i sentimenti e le espressioni di umanità, dalla più semplice a quella più angelica, sono parti di un tutto senza confini, il colloquio globale dei bits. Non possiamo separare l'aria che soffoca dall'aria spostata dalle ali. In Cina, Germania, Francia, Russia, Singapore, Italia e Stati Uniti, state cercando di tener lontano il virus della 175 Dall’Utopia all’Eterotopia libertà erigendo posti di guardia ai confini del Cyberspazio. Questi potranno controllare il contagio per un po' di tempo, ma poi non potrà funzionare in un mondo in cui i bits si insinueranno dappertutto. Le vostre industrie dell'informazione, diventando obsolete, cercano di perpetuarsi proponendo leggi, in America e altrove, che affermano di possedere facoltà di parola in ogni parte del mondo. Queste leggi dichiarano che le idee sono dei prodotti industriali, meno preziosi della ghisa. Nel nostro mondo, tutte le creazioni della mente umana possono essere riprodotte e distribuite infinitamente a costo zero. La convenienza globale del pensiero non ha più bisogno delle vostre industrie. Queste misure sempre più ostili e coloniali ci mettono nella stessa posizione di quegli antichi amanti della libertà e dell'autodeterminazione che furono costretti a rifiutare l'autorità di poteri distanti e poco informati. Noi dobbiamo dichiarare le nostre coscienze virtuali immuni dalla vostra sovranità, anche se continuiamo a permettervi di governare i nostri corpi. Noi ci espanderemo attraverso il Pianeta in modo tale che nessuno potrà fermare i nostri pensieri. Noi creeremo nel Cyberspazio una civiltà della Mente. Possa essa essere più umana e giusta di quel mondo che i vostri governi hanno costruito finora. 96 Abbiamo deciso di citare Barlow per esteso perché in esso c’è l’essenza della cybercultura, ma soprattutto è ben presente quell’immaginario eterotopico che in questa tesi stiamo esaminando; innanzi tutto la visione del cyberspazio come luogo utopico e antagonista alla società reale, un mondo straordinario e dalle potenzialità infinite in quanto regno della mente, la vera ed indiscussa protagonista della cybercultura. Come si possono notare le libertà alle quali si appella Barlow sono contemporaneamente quelle della controcultura e dei padri fondatori. Come si può ricordare questo richiamo ai padri fondatori non è nuovo, infatti lo abbiamo sottolineato in un altro documento che abbiamo citato per esteso, cioè il testo programmatico sui cambiamenti che la società J.P. Barlow, Dichiarazione d’Indipendenza del cyberspazio, 1996, disponibile on-line all’indirizzo https://projects.eff.org/~barlow/Declaration-Final.html. 96 176 Dall’Utopia all’Eterotopia avrebbe dovuto affrontare per adattarsi alle nuove tecnologie: Il Cyberspace and the American Dream: A Magna Carta for the Knowledge Age redatto da una serie di autori di Wired. La Dichiarazione d’indipendenza di Barlow ha però una differenza notevole, nonostante sia stata scritta solo due anni dopo, qui non c’è la minima volontà di cambiare la società “reale”, bensì semplicemente di trascenderla nell’eterotopia del cyberspazio. Gli unici riferimenti alla società sono accuse che le vengono rivolte per i suoi incessanti tentativi di regolamentare e far rientrare all’interno della propria giurisdizione il cyberspazio. La rottura tra società reale e società virtuale rappresentava il sogno della cybercultura, ma come sappiamo la storia andò diversamente e l’eterotopia del cyberspazio non si è mai concretizzata, anzi sembrerebbe che il mercato con la sua logica abbia invaso anche il mondo virtuale, ma questo sarà il tema del prossimo capitolo non corriamo, ora forse è il momento di analizzare due importanti correnti della cybercultura, analisi che renderà ancor più esplicito l’immaginario eterotopico che qui abbiamo annunciato, e metterà in luce ancor meglio alcune caratteristiche della cybercultura, della sua visione del cyberspazio e delle nuove tecnologie che qui abbiamo descritto, rendendole più vivide e reali. Ci occuperemo della sottocultura Tecnopagana e di quella Tecnognostica, due filoni che hanno portato all’estremo le tematiche cyberculturali dell’espansione delle libertà personale dei nuovi media e che hanno interpretato il cyberspazio come un nuovo mondo, o come la definiamo noi, una nuova eterotopia virtuale, nel quale superare i limiti della realtà materiale. 3.5 I tecnopagani All’interno della corrente della Cybercultura degli anni ‘90 una delle frange più importanti ed interessanti è senza dubbio rappresentata dalla sottocultura dei Tecnopagani. Il tecnopaganesimo può essere definito in modo facile, anche se superficiale, come il punto in cui il neopaganesimo (un termine onnicomprensivo che indica una varietà di religioni naturali politeistiche contemporanee) e la new 177 Dall’Utopia all’Eterotopia age confluiscono con la tecnologia digitale e la cultura digitale estrema. Erik Davis, che ne è un appassionato studioso, li definisce come una small but vital subculture of digital savants who keep one foot in the emerging techno-sphere and one foot in the wild and woolly world of Paganism. Several decades old, Paganism is an anarchic, earthy, celebratory spiritual movement that attempts to reboot the magic, myths, and gods of Europe's pre-Christian people. Pagans come in many flavours - goddess-worshippers, ceremonial magicians, witches, Radical Fairies. Though hard figures are difficult to find, estimates generally peg their numbers in the US at 100,000 to 300,000. They are almost exclusively white folks drawn from bohemian and middle-class enclaves.97 I tecnopagani discendono direttamente dal Neopaganesimo e dalla New age, entrambe hanno una reverenza particolare nei riguardi della terra e per le credenze spirituali dei popoli indigeni o delle civiltà antiche, i neopagani e i new age si ritengono, però, collocati su due poli opposti, il terrestre e l’aereo, lo ctonio e il celeste. Da queste correnti il tecnopaganesimo trae spunto per affrontare sul piano esistenziale i cambiamenti filosofici portati dalla scienza del XX secolo; dal neopaganesimo il Tecnopaganesimo eredita alcune concezioni che si adattano perfettamente al nuovo ambiente mediale, di cui il cyberspazio rappresenta l’espressione più avanzata, in primo luogo la non dogmaticità, caratteristica principale delle tre confessioni tradizionali, infatti non hanno un testo sacro, quali la Bibbia o il Corano, questo determina anche l’assenza di una dottrina ufficiale, permettendo una ampia libertà all’individuo nel seguire la propria spiritualità. Dove le religioni tradizionali stratificavano il mondo, il neopaganesimo lo interpreta come un network, una struttura non gerarchica, una visione perfetta per la nuova realtà del web. A differenza delle confessioni E. Davis, TechnoPagans. May the Astral Plane be Reborn in cyberspace, disponibile online all’indirizzo http://www.techgnosis.com/chunks.php?sec=articles originariamente apparso su Wired, luglio1995. 97 178 Dall’Utopia all’Eterotopia tradizionali, che possono essere definite come le religioni “del libro”, il neopaganesimo può essere definito come la religione “dei libri”, infatti i neopagani traggono ispirazione da varie materie, testi e generi letterari, dalla fantascienza, alla biologia, alla fisica, alla poesia per costruire il proprio quadro ontologico di riferimento, il risultato è un approccio al mondo di tipo tollerante, informale, curioso, spesso ironico e ancor più spesso contraddittorio. I tecnopagani vivono la religione come una scoperta, come un viaggio all’interno della propria spiritualità e della spiritualità del mondo, Mondo inteso come un essere vivente in sé. Della New Age, quel vasto movimento culturale che comprende numerose correnti psicologiche, sociali e spirituali alternative, che avevano alla base alcune credenze di derivazione controculturale, caratterizzate da un approccio eclettico e individuale all'esplorazione della spiritualità e della propria coscienza, i tecnopagani invece condividono il pragmatismo, seppur in una forma portata all’iperbole, inteso come continuo lavoro sulla propria coscienza attraverso l’uso di tecniche e sostanze chimiche per “l’espansione della coscienza”; lo psicologismo, già che il terreno su cui si esercita è quello della pure consciousness precategoriale, dell’esperienza religiosa slegata da qualunque oggetto e da qualunque speculazione teologica, mero «stato di coscienza» da sperimentare; soprattutto ne condivide l’idea secondo la quale you create your own reality, cioè quel costruttivismo radicale che, attraverso la mediazione delle nuove psicologie orientaleggianti, è stato recepito in quel golfo mistico rappresentato dalla Bay Area californiana come legittimazione scientifica di una posizione conosciuta dalla filosofia europea sotto il nome di idealismo magico: il mondo come proiezione dello spirito; ne condivide infine la cosmologia energetica, la visione di un mondo pervaso da trame di forze sottili che partecipano all’energia cosmica, che per questa corrente della Cybercultura viene però rivestita di metafore scientifiche, dall’anima mundi elettromagnetica alla rete informatica globale come noosfera, rete di Indra o mente di Gaia. Quello che in realtà queste correnti hanno in comune è una visione tecnofila della spiritualità, visione che come abbiamo visto era la base delle contraddizioni del movimento hippie. Cos’era infatti Lsd se non una 179 Dall’Utopia all’Eterotopia tecnologia per entrare in un nuovo stato di coscienza? Ma questo è un tema che abbiamo già trattato. Da questo bacino culturale il tecnopaganesimo attinse le proprie caratteristiche e credenze, in prima istanza i tecnpagani credono che il mondo contemporaneo sia un inestricabile intreccio di organico e sintetico, non ritenendoli elementi in contraddizione, anzi in realtà questi sono per loro complementari, tutto rientra in una visione tecnologia di Gaia. I tecnopagani rifiutano l’idea che la tecnologia sia innaturale, infatti: “As a tool created by humanity, technology is an extension of humanity and is inherently natural as humanity itself. The follies and dangers of technology are those of its creators, as are its triumphs.” 98 La natura di ogni strumento è visto dai tecnopagani come un’estensione delle capacità umane: “Technology as a whole acts as lens to magnify both the power and the capability of humanity allowing a wider range of options and an increase ability to accomplish work.”99 Inoltre lo sviluppo tecnologico viene interpretato come un normale e naturale processo evolutivo, che avrebbe permesso all’umanità di sviluppare e ampliare le proprie capacità, permettendole così di creare un mondo migliore. La loro è una visione prettamente evoluzionista, un evoluzionismo su cui si innervava però, un fortissimo determinismo tecnologico, per cui ogni miglioramento tecnologico diviene una evoluzione stessa della razza umana: “The technological acts as an extension of the evolutionary process by extending the capability of life itself. The possibilities of life have increased through the development of technology, allowing humanity to interact in more powerful ways with its environment and thrive and diversify. That is point of life.” 100 Nonostante questa visione il tecnopaganesimo respinge il concetto un po’ superficiale di una certa cultura razionalista, infatti i tecnopagani sostengono che la natura non sia qualcosa che debba essere sottomessa e neanche che la tecnologia possa in qualche Tecnopagan manifesto, disponibile on-line all’indirizzo http://www.backtable.org/~blade/indranet/aleph.html. 99 Ibidem. 100 Ibidem. 98 180 Dall’Utopia all’Eterotopia maniera soppiantarla, poiché ne è semplicemente un sotto-insieme, l’umanità lungi da essere la dominatrice riconosciuta della natura, non è altro che anch’essa parte di questa. Essendo la tecnologia parte integrante della natura, un uso o uno sviluppo irresponsabile di questa deve essere interpretata alla stessa stregua di un cancro, uno sviluppo erroneo della natura. Di questo però l’uomo è responsabile, perché secondo la visione dei tecnopagani le conseguenze negative della tecnologia sono dovute ad un errore nella sua concezione, l’uomo erra tentando di usare le tecnologie per trascendere la natura, ma questo è impossibile perché: “We cannot escape nature because we are nature. We are animals of the organic as much as we are animals of the synthetic.”101 Altro concetto cardine dei tecnopagani consiste nell’interpretare la natura e la tecnologia, a se intrinseca, come un processo perfetto e caratterizzato da una sostanziale essenza estetica, questa perfezione si evince dagli straordinari processi biologici, così come nella precisione degli algoritmi e dei processi tecnologici, intesa questa inestricabile unione si comprende come la tecnologia possa essere un’estensione di questa perfezione. La tecnologia quindi non fa altro che dare un ulteriore impulso all’evoluzione. Arriviamo così a quello che rappresenta il cardine del pensiero tecnopagano: i tecnopagani credono che la magia del passato e la tecnologia del futuro siano la stessa cosa. Questa concezione ha due padri putativi molto differenti: da una parte lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke che sosteneva che “qualsiasi tecnologia sufficientemente progredita è indistinguibile dalla magia” 102, dall’altra la concezione di magia del padre dei Neopagani americani Aleister Crowley, che definì la magia come “la Scienza e l'Arte di causare cambiamenti in conformità con la Volontà”. L’unione di tradizioni così diverse non deve stupire, visto che è una delle caratteristiche del neopaganesimo e quindi della sua versione tecnologica è quella di far proprie tradizioni culturali anche molto distanti tra loro. Davis chiama queste pratiche “interpretazioni non autorizzate”; i tecnopagani, secondo quest’eccentrico studioso del movimento, fanno caccia di frodo 101 102 Ibidem. Arthur C. Clarke, cit. in Dery, M., Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 57. 181 Dall’Utopia all’Eterotopia nell’industria culturale e si appropriano solo di ciò che sembra utile per la propria visione. Tornando al nostro argomento principale, per i Tecnopagani il chip è il simbolo ideale della concezione croweliana di magia, infatti: A standard processor chip can perform a hundred million operations in a single second - and yet none of it moves. Such a computer chip is an arcane device that creates change by the manipulation of subtle fundamental forces that are beyond our perception. The scientific application and rationale behind the use of these forces does not make the process any less magical - the fact that the processes are governed by seemingly arbitrary laws, can only be influenced sympathetically (that is, by affecting things that in turn affect the phenomena that we are attempting to modify), and we have to perform specific activities to create these effects with the tacit assumption that these rituals will work until the effect is observed are sufficient to qualify it as magic. 103 Le capacità del computer hanno quindi la qualità della magia e devono essere adoperate per estendere e portare a compimento la volontà umana. Preso atto che le tecnologie hanno raggiunto livelli di complessità tali da renderne incomprensibile il funzionamento, i tecnopagani hanno iniziato a concepire un programma di software come l'equivalente di un incantesimo, il computer diviene così l'altare dove si celebra la magia delle parole, un linguaggio capace di produrre effetti nel mondo materiale: I computer essenzialmente prendono stringhe di simboli e producono altre stringhe di simboli. Da questo punto di vista, non sono molto “magici” nel significato letterale del termine. Ma, quando sono collegati a qualcosa che cambia il mondo in modo significativo, attraverso l’azione robotica, i computer sono magici per definizione. Un computer può riconoscere un simbolo verbale “Ford Taurus”, e può in seguito accoppiarlo a un’etichetta inserite in un data-base in modo da mettere in funzione una fabbrica 103 Tecnopagan manifesto, on-line www.backtable.org/~blade/indranet/aleph.html. 182 Dall’Utopia all’Eterotopia automatica che a sua volta costruisce e monta un’automobile secondo le specifiche di una Ford Taurus. Così, una stringa di simboli viene accoppiata a una stringa di simboli di dimensioni significative che quando viene eseguita dall’hardware giusto modifica il mondo secondo la stringa originaria. Questo è esattamente ciò che la magia è sempre stata, un modo per influenzare il mondo attraverso atti simbolici che vengono interpretati da agenti terreni per ottenere gli effetti desiderati. Alla fine, avremo un fumo intelligente che ricava energia dalla luce del sole e consuma aria, acqua e terra: sarà presente ovunque e sarà sempre in attesa di sentire le parole che evocano il suo potere per produrre beni e servizi in risposta ai bisogni umani. A questo punto l’equazione tra tecnologia e magia sarà quasi perfetta, ma noi non la maneggeremo con timore, perché la magia non avrà bisogno di timore.104 La visione magica dei Tecnopagani non si ferma di certo qui, anzi avendo alle spalle una forte tradizione animistica, quindi ritenendo che la natura in sé sia abitata da spiriti e dei, non ci dobbiamo sorprendere se questa corrente della cybercultura ritenga ovvio che anche le macchine siano abitate da spiriti e piccoli dei, naturalmente queste visioni non sono uno strenuo tentativo di riposizionare il sacro nella tecnosfera, come al solito la legittimazione di questo cyberanimismo non può che arrivare da alcune fantasiose interpretazioni di romanzi, di cui il pricipale è di sicuro il classico della New age Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig secondo cui: Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore.105 Un altro punto di riferimento essenziale è sicuramente la cybercosmologia dei romanzi di William Gibson. Neuromancer, il suo libro di esordio ha come protagonista un hacker fuorilegge di nome Case W. Mook, area 30, Techgnosis: Computers as Magic, nella conferenza Fringeware di Well, 15 gennaio 1994, cit. in M. Dery, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 78. 105 R. Pirsing, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi, Milano, 1979, p. 28. 104 183 Dall’Utopia all’Eterotopia che si interfaccia neurologicamente con il cyberspazio, collegando il proprio sistema nervoso a una realtà virtuale globale in cui i dati sono immagazzinati sotto forma di palpabili illusioni. Il titolo del romanzo è un gioco di parole sui necromanti, i maghi che evocano i morti; Case si impegna nell’equivalente cyberpunk di queste sedute, abbandonando davvero il proprio corpo per vagare nel regno trascendente del cyberspazio, avendo come guida il fantasma (generato dal computer) di un hacker morto. Come nota acutamente Norman Spirad, Case è: un mago la cui stregoneria consiste nell’interfacciarsi direttamente […] con la sfera dei computer, manipolandola immagisticamente (e venendone manipolato) in modo molto simile a quello con cui gli sciamani tradizionali interagiscono fantasticamente con regni mitici più tradizionali attraverso droghe o stati di trance.106 Nel secondo e nel terzo romanzo di Gibson, rispettivamente Giù nel cyberspazio e Monna Lisa Cyberpunk, che con Neuromancer compongono la cosiddetta Trilogia dello Sprawl, il cyberspazio è abitato da programmi di intelligenza artificiale (AI) che si sono evoluti in qualcosa di strano e misterioso: un pantheon di divinità voodoo noto come il loa. In Giù nel cyberspazio, Finn, commerciante di tecnologie esotiche, spesso di contrabbando, elabora questa visione: negli ultimi sette o otto anni si è vista della roba strana girare tra i cowboy… Troni e dominazioni…Si, ci sono delle cose, là fuori. Fantasmi, voci. Perché no? Gli oceani avevano le sirene e tutta quella roba, e noi abbiamo un mare di silicio, no? Sicuro, è solo un’allucinazione su misura quella che diciamo tutti di avere, il Norman Spirad, Science Fiction in the real world, cit. in Dery, M., Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 62. 106 184 Dall’Utopia all’Eterotopia cyberspazio, ma chiunque si infili la spina lo sa, cazzo se lo sa, che è un intero universo.107 Naturalmente per i tecnopaganani non vi è luogo migliore dove collocare le nuove divinità dell’era tecnologica se non nel cyberspazio. Questa affinità del mezzo con i sogni tecnopagani è ben esplicitata dal tecnopagano autoproclamato Mark Pesce, che non a caso è l’inventore del linguaggio VRLM, un linguaggio per un programma di realtà virtuale: "Both cyberspace and magical space are purely manifest in the imagination…Both spaces are entirely constructed by your thoughts and beliefs." 108 Il cyberspazio inoltre dà la possibilità di creare quella rete di Indra che sta tanto a cuore alla cultura new age, da cui il tecnopaganismo discende. Un altro tipico impiego della tecnologia da parte dei tecnopagani è quello di utilizzarla durante i loro rituali magici, al posto degli elementi classici dei rituali neopagani, quali candele o altro, al loro posto dei pc, come possiamo notare da questa descrizione che ci propone Erik Davis: But tonight's Watchtowers are four 486 PCs networked through an Ethernet and linked to a SPARCstation with an Internet connection. Pesce is attempting to link old and new, and his setup points out the degree to which our society has replaced air, earth, fire, and water with silicon, plastic, wire, and glass. The four monitors face into the circle, glowing patiently in the subdued light. Each machine is running World View, and each screen shows a different angle on a virtual space that a crony of Pesce's concocted with 3D Studio. The ritual circle mirrors the one that Pesce will create in the room: an ornate altar stands on a silver pentagram splayed like a magic carpet over the digital abyss; four multicolored polyhedrons representing the elements hover around the circle; a fifth element, a spiked and metallic "chaos sphere," floats about like some ominous foe from Doom…Samhain's lesson W. Gibson, Giù nel cyberspazio, Mondadori, Milano, 1995, p.122. Mark Pesce, cit. in Erik Davis, TechnoPagans. May the Astral Plane be Reborn in cyberspace, disponibile on-line http://www.techgnosis.com/chunks.php?sec=articles originariamente apparso su Wired, luglio1995. 107 108 185 Dall’Utopia all’Eterotopia is the inevitability of death in a world of flux, and so Rowley leads the assembled crowd through the Scapegoat Dance, a Celtic version of "London Bridge." A roomful of geeks, technoyuppies, and multimedia converts circle around in the monitor glow, chanting and laughing and passing beneath a cloth that Rowley and Pesce dangle over their heads like the Reaper's scythe. 109 L’introduzione della tecnologia in rituali siffatti dimostra come il tecnopaganesimo interpreti l’interconnessione di tutte le cose, quella visione olistica dell’universo in cui tutto è collegato, naturale e sintetico. Per concludere la disamina sui tecnopagani riportiamo per intero quello che per i tecnopagani è il fine della loro opera, opera svolta sempre nel tentativo di far evolvere la condizione umana: Technology and magick are interwoven and the responsibility of the technopagan is to study and further both as well as their own place in the network of nature. It is the purview of the technopagan to communicate with both pastoral and urban spirits and to discover how the magick and technology of the past works with that of the future. Their duty is to uncover and explore the mythos of the technological world as well as discover the patterns of nature…A technopagan should actively support the intelligent and ethical development and application of technology. This not only means intelligent environmental causes such as recycling, reduction of toxic wastes and intelligent disposal thereof, but those technologies which can extend the ethical application of will and livelihood: life extension, space exploration, increased communication, medical technology and the like. The advancement of humanisms and aesthetics must be actively promoted as well. The full range of human expression must be given the opportunity to thrive to allow for the increasing sophistication of the spirit and the mind. This includes the advancement of comparative religion and ethics, an increased drive to provide education to any individuals who desire it, the 109 Ibidem. 186 Dall’Utopia all’Eterotopia encouragement of artistic ventures of all types and the opportunity to interact with a spectrum of cultures and peoples. The technologies of these human facets of life must be applied and developed with the same intelligence and ethical vigor as any scientific or magical endeavor.110 Dopo aver analizzato questa corrente della cybercultura dobbiamo esaminare, anche se velocemente, le domande che essa ci pone. I tecnopagani abbracciano le nuove tecnologie perché le ritengono indispensabili al rafforzamento della loro visione spirituale e spiritista dell’universo, considerano il cyberspazio un nuovo circolo magico, o uno spazio magico in cui la frattura tra i pensieri e le azioni viene ricomposta, i tecnopagani reinseriscono il sacro nella tecnica, ma forse tutte queste visioni possono venir ritenute una prova del trionfo di quella che Neil Postman chiama “Tecnopoli” e definisce come “uno stato culturale” che è anche uno “stato mentale” e si caratterizza per: la divinizzazione della tecnologia, il che significa che la cultura cerca la propria giustificazione nella tecnologia, trova le proprie soddisfazioni nella tecnologia e prende ordine dalla tecnologia. Questo richiede lo sviluppo di un nuovo genere di ordine sociale, e conduce necessariamente alla rapida dissoluzione di quasi tutto ciò che è associato alle credenze tradizionali.111 Questa è sicuramente un’ipotesi da valutare, ma a livello sociologico non possiamo non sottolineare come le nuove tecnologie, in particolar modo internet e il cyberspazio abbiamo dato una nuova vitalità a queste visioni spirituali della tecnologia. In primo luogo grazie alla capacità del web di tenere in contatto questi nuovi adepti, la carica utopica che le nuove tecnologie apportano, quali quella di poter creare un vero e proprio mondo alternativo dove poter dispiegare senza freni la potenza della propria Tecnopagan manifesto, on-line /www.backtable.org/~blade/indranet/aleph.html. N. Postman, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 71. 110 111 187 Dall’Utopia all’Eterotopia immaginazione. Quello che vorrei sottolineare è però anche l’importanza dell’immaginario fantascientifico per la nascita di queste correnti, senza il cyberpunk forse una corrente come il tecnopaganismo non sarebbe mai nata, una corrente che vuole cambiare completamente il quadro ontologico della cultura, non fa altro che prendere spunto dalla grande macchina dell’industria culturale che di quel sistema è un asse portante, questo è aspetto davvero molto interessante che richiederebbe uno studio più approfondito, che qui non è possibile affrontare perché il nostro viaggio all’interno dell’eterotopia cyberculturale deve andare avanti, verso nuovi e ancor più misteriosi approdi, ora si parlerà infatti di quella corrente che molti studiosi hanno definito Techgnosis. 3.6 I tecnognostici Come abbiamo visto analizzando la corrente dei tecnopagani il cyberspazio, fin dalla sua nascita, si è prestato ad ogni sorta di elucrubazioni e di analogie mozzafiato con le tradizioni mistiche e religiose più disparate. Un esempio lampante di tutto ciò può essere la raccolta di saggi edita da Michael Benedikt, che abbiamo già citato in precedenza, e che rappresenta una sorta di rassegna di queste visioni del cyberspazio. In questo testo ad esempio Michael Heim traccia una sorta di “ontologia erotica” del cyberspace, con riferimento al Convivio, giungendo a sostenere che il cyberspazio è Platonismo realizzato112; David Thomas ha paragonato l’ingresso nel cyberspazio ad “un rito di passaggio”, seppur nell’accezione più allargata di Turner113; Nicole Steinger ha associato questo spazio magico alla concezione arcaica dello spazio esposta da Mircea Eliade M. Heim, Ontologia erotica del cyberspazio, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 69. 113 D. Thomas, Vecchi rituali per un nuovo spazio: i rites de passage e il modello culturale del cyberspazio di William Gibson, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 31-49. 112 188 Dall’Utopia all’Eterotopia ne Il Sacro e il profano;114 come abbiamo visto nel paragrafo precedente il programmatore neopagano Mark Pesce ha salutato l’avvento del cyberspazio come la materializzazione dello spazio magico, tanto cara agli sciamani tradizionali; altri ancora hanno paragonato i viaggi nel cyberspazio alle out of body experiences, le esperienze fuori dal corpo tanto care alla spiritualità new age. Tra questa lunga, ma non integrale, carrellata di visioni sul cyberspazio è doveroso menzionare Pierre Levy e la sua Coreografia dei corpi angelici. Una (a)teologia dell’intelligenza collettiva per il buon uso dei mondi virtuali, dove questi vengono interpretati alla luce dell’aristotelismo neoplatonico ebraico e persiano di Avicenna e Maimonide, in un discorso che abbina la retorica dell’immateriale al sogno gnostico-cabbalistico della ricomposizione dell’Anthropos primordiale, le cui disjecta membra sono disperse nel cosmo tenebroso: quando una mente individuale scivola nel sonno cento altre vegliano e prendono il suo posto. Così che il mondo virtuale è senza posa illuminato, animato dalle fiamme viventi dell’intelligenza, si ottiene un’illuminazione collettiva che brilla sempre. […] L’intelligenza umana? Il suo spazio è la dispersione. Il suo tempo l’eclissi. Il suo sapere, il frammento. L’intellettuale collettivo realizza la composizione delle sue membra. 115 Dal mio punto di vista sono due gli elementi che tengono insieme tutte queste visioni, la prima rientra nell’arcipelago dell’immaginario del mezzo stesso, come visto il cyberspazio era considerato il medium che avrebbe reso possibile la materializzazione dell’immaginazione, la seconda invece si basa su interpretazione che ha ormai ha preso campo nell’ermeneutica della cybercultura, anche per le sue qualità eterogenee e di ampia N. Stenger, La mente è un arcobaleno che trascolora, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 51-61. 115 F. Berardi (Bifo), Cibernauti. Ciberfilosofia. Castelvecchi, Milano, 1995, pp. 22-23. La tesi verrà poi ripresa e approfondita da P. Levy, ne L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996. Abbiamo scelto la citazione del Berardi perché riassume in termini più chiari il concetto. 114 189 Dall’Utopia all’Eterotopia applicazione, cioè la gnosi, che dà poi vita a quel filone interpretativo che molti definiscono Cybergnos o Technognosis che poi rappresenta il cuore di questo paragrafo. Per gnosticismo si deve intendere una costellazione filosofica e religiosa situata storicamente nel II e III secolo dopo Cristo. Questa corrente religiosa prende il nome dalla parola greca gnósis (γνῶσις), «conoscenza». Una definizione piuttosto parziale del movimento basata sull'etimologia della parola può essere: "dottrina della salvezza tramite la conoscenza". Mentre il giudaismo sostiene che l'anima raggiunge la salvezza attraverso l'osservanza delle 613 mitzvòt e il Cristianesimo attraverso la fede, le opere e la Grazia, per lo gnosticismo invece la salvezza dell'anima può derivare soltanto dal possesso di una conoscenza quasi intuitiva dei misteri dell'universo e dal possesso di formule magiche indicative di quella conoscenza. Gli gnostici erano "persone che sapevano", e la loro conoscenza li costituiva in una classe di esseri superiori, il cui status presente e futuro era sostanzialmente diverso da quello di coloro che, per qualsiasi ragione, non sapevano. Come detto lo gnosticismo dei primi secoli dell'era cristiana era una sorta di “costellazione” e aveva al suo interno varie correnti, ma queste potrebbero essere classificate in tre grandi aree116: un'area più legata alla tradizione ebraico-cristiana, caratterizzata da una radicale esaltazione della trascendenza dello spirito e da una altrettanto radicale condanna della materia e del corpo; un'area più influenzata dalla tradizione pagana, che nel corpo individua piuttosto uno strumento di trasgressione e di sfida nei confronti dei valori morali e delle regole imposte dalle religioni tradizionali, infine un'area che subisce soprattutto influssi orientali ed aspira ad una trascendenza che superi la dicotomia mente/corpo. Fra i tecnognostici di fine millennio è possibile riconoscere modelli simili, anche se, come avveniva per gli omologhi antichi, le singole correnti presentano spesso un miscuglio di differenti tendenze. Tentiamo, sulla scorta Cfr. C. Formeti, Piccole apocalissi. Tracce della divinità nell’ateismo contemporaneo, Cortina, Milano 1991 e Immagini del vuoto. Conoscenza e valori nella gnosi e nelle scienze della complessità, Liguori, Napoli, 1989. 116 190 Dall’Utopia all’Eterotopia delle letture fatte sull’argomento117, di delineare uno “spettro di tolleranza” dello gnosticismo, un insieme in cui ricadono le idee e le credenze che sono in vario modo costitutive di questo fenomeno spirituale. Va da sé che ne offriremo un elenco parziale e deliberatamente “campionario”, selezionando quelle che attingono al nostro discorso. Eccole qui di seguito: il primato della conoscenza sulle altre facoltà umane, e in particolare sulla fede; l’anticosmismo, ovvero la credenza che il mondo come tale sia malvagio; l’antisomatismo, cioè il disprezzo del corpo e di tutte le sue funzioni; l’encratismo, cioè il rifiuto ascetico della procreazione; la divinazione del Sé, della scintilla pneumatica superiore al corpo, all’anima al mondo stesso e al suo creatore; l’antinomismo, ovvero il disprezzo della morale e dell’ordine comune, che porta sia all’indifferenza per i principi che al libertinismo e all’immoralismo attivo; l’esegesi inversa della Bibbia, che vede, nel caso più classico, l’identificazione con Jahvè con il Demiurgo malvagio e la rivalutazione dei suoi avversari come salvatori: il serpente, Caino, i sodomiti e così via; l’elitismo, vale a dire la contrapposizione di un piccolo numero di Illuminati Pneumatici a una massa amorfa di Ilici ignoranti; la ermeneutica sospettosa, cioè la lettura del libro del mondo e dei libri degli uomini come “velami” che gelosamente nascondono significati arcani che sfuggono ai più. Bisogna sottolineare che questi caratteri non si riscontrano mai tutti simultaneamente neanche nel cosiddetto gnosticismo storico, e ancor più raro trovarli associati nei presunti gnostici moderni. I primi che hanno portato alla luce certe analogie fra l'immaginario del nostro secolo e i miti gnostici sono stati Hans Jonas118 e Carl G. Jung119. Grazie alle loro ricerche abbiamo cominciato a riconoscere le affinità fra le inquietudini del soggetto moderno, coinvolto in un processo di "mondializzazione" che annienta le identità locali e ne ricombina i frammenti generando inedite sintesi culturali, e le Cfr. I.P. Couliano, I miti dei dualismi occidentali. Dai sistemi gnostici al mondo moderno. JacaBook, Milano, 1989 e H. Jonas, Lo gnosticismo, Società Editrice Internazionale, Torino 1973 e C.G. Jung, Psicologia e religione, Bollati Boringhieri, Torino 1979 118 Cfr. H. Jonas, Lo gnosticismo, Società Editrice Internazionale, Torino 1973. 119 C.G. Jung, Psicologia e religione, Bollati Boringhieri, Torino 1979. 117 191 Dall’Utopia all’Eterotopia visioni sincretiste suscitate da un processo simile ma ben più lontano nel tempo, che risale cioè a quella tarda antichità romano alessandrina che mise a contatto i miti della classicità pagana con l'ebraismo, con la tradizione indoiranica e con l'astro nascente della religione cristiana. Fu appunto l'imprevedibile corto circuito fra tradizioni tanto diverse da sembrare inconciliabili che, due millenni fa, diede vita all'arcipelago delle eresie gnostiche. Un insieme di culti estremamente variegato, e tuttavia caratterizzato da due credenze di fondo comuni. In primo luogo la convinzione che l'universo fosse il regno d'un dio minore e malvagio, un mondo nato per "errore" dopo la degradazione del Pleroma (lo stato di unità e perfezione in cui riposava originariamente la "vera" divinità, una Entità trascendente e inconoscibile che, per motivi imperscrutabili, aveva accettato di "uscire da sé" e si era lasciata imprigionare dalla materia). Soprattutto la convinzione che l'anima umana rappresentasse un frammento (o scintilla divina) del Pleroma, che la sua missione consistesse nell'assumere coscienza (gnosi) della propria natura e che, una volta raggiunta, tale consapevolezza avrebbe consentito di ricostituire l'unità originaria. In altre parole: l'uomo non deve attendere salvezza da Dio ma donarla a se stesso, e potrà farlo non appena scoprirà di essere un Dio imprigionato nelle tenebre della materia e inizierà a salire verso la luce dello spirito. Hans Jonas ha messo in luce quanto questo annuncio di salvezza somigli alle moderne escatologie progressiste.120 In entrambi i casi l'uomo occupa il centro della scena ed assume il ruolo di Salvatore. Ed in entrambi i casi il mondo materiale e il presente vengono rifiutati come malvagi. In realtà non tutte le correnti gnostiche adottano la stessa visione negativa sul mondo materiale. Erik Davis, ad esempio, che della Technognosis è il padre putativo e il grande divulgatore, nel suo saggio Techgnosis: Magic, Memory, and the Angels of Informations, illustra e fa sua la tesi di André-Jean Festugière, grande studioso dell’ermetismo (altra corrente collegata allo gnosticismo), sul Corpus Hermeticum attribuito a Ermete Trismegisto. Lo studioso francese individua, infatti, due approcci 120 Cfr. H. Jonas, Op. cit. 192 Dall’Utopia all’Eterotopia differenti nei riguardi del mondo, della materia e di Dio, uno “gnosticismo positivo o ottimista” e uno “gnosticismo negativo o pessimista”: So-called optimist gnosis saw the world as a manifest map of divine revelation and held that […] by inscribing a representation of the universe within his own mens (higher mind), man can ascend and unite with God. This positive Gnosticism drove the proto-scientific impulses of later magicians, for whom the universe was alive with sentient stellar forces in constant communication with the earth, forces which could be discovered and manipulated by the magus. […] “pessimist” was derived from elaborate allegorical cosmologies that saw the world as a trap ruled by an ignorant, often malevolent demiurge. The true God was distant Alien God, and to hear his liberating call, man had to awaken the “spark” or “seed” of light buried within. This moment of Gnostic revelation was not just an ineffable mystical oneness, but an influx of cosmic knowledge. 121 La frangia “positiva” si trasformò in seguito in “positivista”, come dimostra ampiamente l’interessantissimo libro di David Noble La religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito d'invenzione, in cui si attribuisce una notevole importanza all’ascendente gnostico ed ermetico sulla ricerca scientifica e tecnologica.122 Ma come conciliare, tuttavia, il materialismo delle moderne ideologie progressiste con l'odio gnostico nei confronti del mondo materiale? Qui viene in soccorso l'analisi di Jung sulla grande trasformazione innescata dall'alchimia e dall'ermetismo rinascimentali123, quando l'anima moderna muoveva i primi passi e, mentre si appropriava delle immagini salvifiche della mitologia gnostica, ne amplificava il significato cogliendo la costitutiva ambivalenza che si cela dietro la E. Davis, Techgnosis: Magic, Memory, and the Angels of Informations, in Flame Wars. The discours of cybercultura, S.A.Q, vol. 92, n. 4 , 1993 p. 588 disponibile on-line www.techgnosis.com/index_infoangels.html 122 D. Noble, La religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito d'invenzione, Edizioni di Comunità, Ivrea, 2000. 123 Cfr. C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino 1981. 121 193 Dall’Utopia all’Eterotopia demonizzazione della materia. Il Faust alchemico scende nelle tenebre della materia perché sa che proprio lì è imprigionata la luce dello spirito. Il dualismo radicale della gnosi (bene/male, luce/tenebre, spirito/materia) contiene un potenziale di inversione che l'alchimia ha intuito per prima e che la scienza moderna ha poi dispiegato, trasferendo sulla materia il valore supremo. Ma la gnosi moderna non si è emancipata dal dualismo. Il rovesciamento di valore cui abbiamo accennato, infatti, mentre trasferisce sulla materia gli attributi di trascendenza, perfezione, bontà che l'antica gnosi attribuiva allo spirito, proietta simmetricamente sullo spirito i fantasmi negativi che l'antica gnosi proiettava sulla materia (vedi la condanna marxista della religione in quanto "oppio dei popoli", o il fastidio con cui il riduzionismo scientifico reagisce alle chiacchiere sull'anima, liquidando le manifestazioni dello psichismo umano come epifenomeni). Dell'eredità dualista della gnosi, insomma, non sembra facile sbarazzarsi, al punto che dietro ogni ideologia "monista" (il fatto che si invochi l'unità dalla parte dello spirito oppure da quella della materia non cambia le cose) è lecito dubitare il tentativo di esorcizzare il dilemma, facendone sprofondare nell'ombra uno dei termini. Prima di classificare le moderne "sette" gnostiche in relazione ai diversi modi di interpretare questo gioco di esclusioni incrociate, e prima di verificare quanto la loro mappa somigli a quella di duemila anni fa, vale la pena di spendere ancora qualche parola sui canali attraverso i quali l'immaginario gnostico ha trovato modo di attecchire e proliferare nella cultura contemporanea, fino a trovare terreno fertile nella tecnoscienza e a celebrare la una sorta di apoteosi postmoderna grazie all'avvento della Rete. Una delle vie più importanti di diffusione del neognosticismo è stata l'eredità escatologica delle sette protestanti, particolarmente attiva nella tradizione anglosassone (vedi l'analisi di Harold Bloom124) nella quale continuano a prosperare versioni secolarizzate di quelle visioni, sia in campo letterario sia in campo scientifico-filosofico. Dalle grandiose visioni politico religiose di un William Blake, per esempio, è possibile risalire, attraverso gli incubi 124 H. Bloom, Visioni profetiche. Angeli, sogni e resurrezione, Il Saggiatore, Milano, 1999. 194 Dall’Utopia all’Eterotopia metafisici evocati da Edgar Allan Poe e Philip. H. Lovecraft, fino alla gnosi fantascientifica elaborata dall'ultimo Philip K. Dick. Ma è l'intera narrativa contemporanea di fantascienza ad essere permeata dall'idea che la salvezza stia nel futuro e che il compito dell'uomo su questo pianeta consista nel "creare" (cioè nel divenire egli stesso) Dio più che nell'adorarlo, come ha esplicitamente dichiarato un maestro del genere quale Arthur C. Clarke. Un'idea simile, pur se formulata in modo meno ingenuo, attraversa l'intera storia dell'evoluzionismo, da Darwin ai giorni nostri. La presenza di una vena gnostica nell'evoluzionismo è stata considerata come la deviazione di una minoranza di pensatori eretici finché a rivendicarla sono stati autori mistici e "vitalisti", come Bergson e Teilhard de Chardin. Non appena la "gnosi scientifica" (attraverso le opere di Gregory Bateson, Francisco Varela, Ilya Prigogine e molti altri) ha invaso territori meno sospetti (teoria dei sistemi, termodinamica, neuroscienze, ecc.) è diventato impossibile ignorarne l'esistenza. E una sua rimozione appare ancora più problematica da quando esiste la Rete. Non solo perché la Rete è un mezzo potente di "democratizzazione" del sapere scientifico, nel senso che offre ai non addetti ai lavori (in misura maggiore dei media tradizionali) la possibilità di appropriarsi del linguaggio e delle immagini della tecnoscienza, esaltandone il potenziale mitico. L'immagine stessa del Cyberspazio, in quanto macchina sincretista che mette a confronto parole, immagini e tradizioni di ogni tipo; supercervello che trascende le identità dei soggetti che contribuiscono ad alimentarne l'intelligenza prodigiosa, diffusa e impersonale, sembra in grado di superare le tradizionali opposizioni fra spirito e materia, questa sua qualità ha innescato il fiorire di visioni gnostiche del mezzo stesso. In realtà i tecnognostici sembrano essere più vicini alla visione “negativa” dello gnosticismo, infatti, come mettono in luce i soliti Erik Davis e Mark Dery, quasi tutti gli autori e i commentatori di cui stiamo trattando, fondano le proprie analogie con lo gnosticismo quasi esclusivamente su un aspetto: il disprezzo del corpo, del mondo e della materia e vedono 195 Dall’Utopia all’Eterotopia nel Cyberspazio, e nel computer più in generale, il regno immateriale dove le proprie menti e anime possano vivere libere dalla “zavorra della materia”125. A questa visione negativa della materia i Tecnognostici uniscono una versione estrema del dualismo cartesiano in chiave tecnologica, per cui la mente è “altro” rispetto al corpo, ed è di sicuro quella che conta, come dimostra chiaramente Rudy Rucker, scrittore cyberpunk e matematico, che collaborava con la rivista tecnopagana Mondo 2000: The soul IS the software , you know. The software is what counts, the habits and the memories. The brain and the body are just meat, seeds for the organtank126. Terence McKenna e Douglas Rushkoff si credono testimoni di un mutamento epocale “la liberazione della vita dalla crisalide della materia”127. L’antisomatismo più inferocito risuona nelle parole di Marvin Minsky, uno dei padri dell’intelligenza artificiale: il cervello umano è una meat machine, inadatta ad accogliere l’elemento nobile della mente; il corpo è un bloody mess of organic matter, o anche un teleoperator for the brain,128 e nulla più. Questo ripudio radicale si ritrova in un altro cultore dell’intelligenza artificiale, Haans Moravec, così come nei tecnologici proclami dell’artista Sterlac e nel Cyber Dada Manifesto: il tuo corpo è un fardello[…] è semplicemente carne […] tutti i sentimenti fisici ed emotivi possono essere simulati chimicamente129. Tutta questa acredine contro il corpo è per Dery alquanto comune tra i ricercatori informatici, hacker e altre avanguardie della cultura digitale130. Non è un caso che il sogno di questi tecnognostici sia quello di trascendere tutto ciò che riguarda la materia e il mondo materiale attraverso la “colonizzazione mentale” del cyberspazio. Il cyberspazio diviene per costoro, “l’eterotopia virtuale” in cui la M. Benedikt, Op. cit. Cit. in R. Barbrook, The Sacred Cyborg, disponibile on-line all’indirizzo http://www.imaginaryfutures.net/2007/04/03/the-sacred-cyborg-by-richardbarbrook/ 127 Cfr. M. Dery, Op. cit. 128 Cit. in D. Noble, La religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito d'invenzione, Edizioni di Comunità, Ivrea, 2000, p. 156. 129 Cyber Dada Manifesto, disponibile on-line project.cyberpunk.ru/idb/cyberdada.html 130 M. Dery, Veniamo dal cyberspazio:dalla setta suicida all’alienazione high-tech, in B. Parrella (a cura di), Gens electrica, Apogeo, Milano, 1998, p. 118. 125 126 196 Dall’Utopia all’Eterotopia propria mente, o anima in una visione più tecnopagana, possa vivere senza i limiti della materia. Questa volontà di trascendenza è ben espressa dal titolo del libro di Dery, Velocità di fuga, poiché si riferisce alla velocità in virtù della quale ci si libera dalla gravità, dall’attrazione che esercita il mondo ctonio con la propria tetraggine131 e con la propria caratteristica mortalità, perché quello dei tecnognostici è anche un desiderio di una immortalità elettronica, come dimostra mirabilmente Toshan Ivo Quartaroli: Il “download” della coscienza nella rete telematica come spinta verso l’immortalità (o anche verso la resurrezione, la reincarnazione) dell’anima; il computer eletto a “salvatore” in grado di poter risolvere tutti i nostri problemi; la sparizione del corpo nella realtà virtuale come desiderio di trascendenza dallo stesso […]; il tempo reale e la comunicazione istantanea online come la ricerca del “qui” e “ora” dell’illuminato; il progetto collettivo di una mente globale riunita nel cyberspazio come ricongiungimento di anime e dissolvimento dell’identificazione come un ego e una mente individuale; lo sviluppo di hyerlink coem desiderio di ricreare le interconnessioni tra il tutto, come una “stanza piena di gemme in cui ognuna riflette tutte le altre. 132 Naturalmente, come al solito è nelle pagine di Timothy Leary, quale megafono dello “spirito dei tempi” che troviamo le formule più chiare e illuminanti sulla visione tecnognostica del cyberspazio: Recitate tra voi questa novena composta da alcuni attributi tradizionali della parola “spirituale”: mitico, magico, etereo, incorporeo, intangibile, non materiale, disincorporato, ideale, platonico. Non è questa una definizione dell’elettronica digitale?133 Cfr. M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997. T.I. Quartiroli, Lo spirito del computer, in B. Parrella (a cura di), Gens electrica, Apogeo, Milano, 1998, p. 174. 133 T. Leary, Caos e Cibercultura, Apogeo, Milano, 1994, p. 5. 131 132 197 Dall’Utopia all’Eterotopia L’assoluta assimilazione dell’immateriale allo spirituale nelle parole di Leary mostra in maniera inequivocabile quella sorta di paralogismo che sta alla base di ognuna delle affermazioni che abbiamo citato in precedenza, che mai viene reso esplicito e suonerebbe più o meno così: «Tutto ciò che è spirituale è immateriale/ il cyberspazio è immateriale/ dunque il cyberspazio è spirituale», questo sistema di pensiero rende il cyberspazio il medium più adatto alle visioni dei tecnognostici, come può una tecnologia che possiede le capacità di materializzare l’immaginazione non essere spirituale e per giunta del tutto utopica? Questo punto lo riassume molto bene M. Bauwens: Spiritual schools of thoughts have traditionally dealt with the navigation of immaterial worlds (the astral and subtle planes of existence) and with magical techniques to mold such a world to human desires. Cyberspace does function as a magical realm where all is possible (especially in its VR a variant) and what better interface technique than the magical incantations, as Vernon Vinge so brilliantly described in "True Names". It is very likely that the scientists, engineers, artists and architects who are building our virtual worlds, will look for inspiration in the magical incantations of the past, as the new means of navigations.134 Ecco appunto ciò che viene definito per antonomasia come invisibile, incorporeo, non attingibile con le normali facoltà umane viene reso tangibile, concreto, sperimentabile, per giunta vivibile come ci annuncia entusiasticamente ancora il solito Leary: “questi regni spirituali immaginati da secoli sono oggi, forse, realizzabili!”135 Realizzato il regno spirituale attraverso il cyberspazio, il corpo sarebbe del tutto inutile. Ma questo ripudio del corpo materiale assume toni diversi a seconda che il calcolatore elettronico sia visto come elaboratore di operazioni logiche o piuttosto come un M. Bauwens, Deus Ex Machina vs. Electric Gaia, disponibile on-line all’indirizzo http://www.metanexus.net/Magazine/tabid/68/id/2920/Default.aspx 135 T. Leary, Op. cit., p. 15. 134 198 Dall’Utopia all’Eterotopia generatore di mondi di cui è possibile fare esperienza sensibile attraverso la realtà virtuale. La prima visione è quella propria ai fautori dell’Emmortality, dell’immortalità elettronica: l’esperienza dei sensi è estromessa senza appello, il software della mente è l’unica cosa che conta e lo si potrà trasferire su un supporto incorruttibile di silicio. La realtà virtuale sembra invece suggerire un’esperienza di altra natura. Leggiamo quello che scrive Nicole Stenger, nel suo saggio La mente è un arcobaleno che trascolora: Sull’altro lato dei nostri data glove noi diventiamo creature di luce colorata in movimento, che pulsano con particelle dorate […] Diventeremo tutti angeli e per l’eternità. […] in questa fortezza cubica di pixel che è il cyberspazio, noi saremo come nei sogni, qualsiasi cosa: il Drago, la Principessa, e la Spada. […] Nel cyberspazio perdiamo peso istantaneamente. 136 La realtà virtuale offre la libertà dall’impaccio del corpo, ma non in favore di una mente incorporea: il corpo non va abolito, va solo purificato dalla pesantezza della materia come suggerisce Michael Heim: Sospeso nello spazio computerizzato, il cibernauta lascia la prigione del corpo ed emerge in un mondo di sensazioni digitali. 137 Digital Sensation, ovvero l’esperienza dei sensi è preservata, ma trasfigurata in una nuova forma, liberata dai limiti terreni. Il corpo non è dismesso come una carcassa in decomposizione, ma trasmutato, in un simulacro di pura luce, infinitamente plasmabile, materia sottile docile all’imperio dell’intelligenza. Nei mondi virtuali si può assumere la forma che si desidera, ci si può ingrandire e rimpicciolire a piacimento come l’Alice di Carroll, si possono vedere gli odori, toccare i sapori, udire i più inauditi paesaggi. Sembra quasi di trovarsi a cospetto di quello che nella tradizione cristiana si è chiamato “il corpo glorioso”, il corpo che vestiremo una volta risorti. Lo si è immaginato come un corpo duttile, plasmabile a piacimento, N. Stenger, La mente è un arcobaleno che trascolora, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 54. 137 M. Heim, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p.69. 136 199 Dall’Utopia all’Eterotopia ora questo sembra essere possibile, non per grazia divina, ma per intercessione di un agente tecnologico: la realtà virtuale. “L’amore” per la macchina e il disprezzo per il corpo si dimostra anche in termini più "fisici", vale a dire come ibridazione diretta dei due termini: il cyborg come versione postmoderna di centauri e chimere. Nuovo supercorpo tecnologico che possa superare i limiti della materia e secondo molti primo esempio di quella nuova fase evolutiva che sempre Hans Morevac assicura essere di tipo “postbiologico”, in cui forme di vita robotica capaci di pensare e riprodursi in maniera indipendente “matureranno” fino a diventare entità complesse quanto noi, allora, come accennato in precedenza, dovremmo trasferire la nostra anima e la nostra mente in memorie di computer o corpi robotici e ci sbarazzeremo completamente della debole carne. Come si nota la rapidissima accelerazione tecnologica ha consentito la nascita di visioni tecnoescatologiche, tecnomillenariste e tecnoevoluzioniste, per cui le macchine tra non molto daranno vita alla cosiddetta “singolarità tecnologica”, termine proveniente dalla teoria del caos che indica il punto di transizione tra uno stato ed un altro all’interno di un sistema, ma utilizzato dallo scrittore di fantascienza Vernor Vinge per descrivere e profetizzare un’evoluzione cibernetica che produrrà un’intelligenza superiore a quella umana intorno al 2030, quando la vita meccanica intelligente assumerà il controllo sul proprio destino, producendo dei discendenti sempre più intelligenti a un ritmo sempre più rapido. L’inevitabile risultato sostiene Vinge, sarà l’ascesa di una postumanità superevoluta e tecnologicamente potenziata. Il concetto di “postumano” è quello che riunisce in qualche modo tutte le frange tecnognostiche che vedono nel corpo un limite alle proprie capacità e qualità intellettive, tra questi sicuramente i più famosi sono i Transumanisti e all’interno di essi gli Estropiani, convinti di non "essere" corpi, bensì menti che "hanno" un corpo (o meglio, di essere banche dati, memorie, programmi, software in grado di "girare" indifferentemente su qualsiasi tipo di hardware), gli extropiani perseguono l'ambizioso obiettivo di divenire immortali. Questi gruppi transumanisti predicano e invocano il progresso scientifico e tecnologico, soprattutto quello robotico, affinché esso entri a far parte fisicamente del corpo umano, chiamato “wetware”, 200 Dall’Utopia all’Eterotopia in una perfetta fusione con il software o con l’hardware, affinché le nuove scoperte scientifiche aiutino a migliorare la vita dell’uomo, ad aumentare le capacità fisiche e intellettuali e a sconfiggere la morte organica. Il movimento culturale globale transumanista dell’estropianesimo138 , come si legge sulla loro pagina web, si pone l’obiettivo di creare un dibattito creativo e critico sulle questioni sociali e sull’impatto delle tecnologie emergenti, ma soprattutto sul futuro dell’umanità, per sviluppare idee costruttive sull’iterazione e l’interconnessione con il software; in questa ottica l’evoluzione verso il “più che umano” è etico e desiderabile, perseguito assieme alla libertà individuale (e la scelta di avvalersi o meno della tecnologia), il pensiero razionale, la società aperta. L’estropia è definita come l'insieme dell'intelligenza, dell'ordine funzionale, della vitalità, dell'energia, vita, esperienza, capacità e spinta al miglioramento e alla crescita di un sistema vivente o organizzativo; questo termine non indica un’entità di qualche tipo, ma è utilizzato come una metafora che rappresenta tutto ciò che contribuisce alla prosperità e all’avanzamento dell’umanità. L’ingegneria genetica, la nanotecnologia (e il controllo della materia a livello molecolare o atomico), la crionica e le interfacce mentecomputer, superata la soglia della singolarità tecnologica, contribuiranno alla trasformazione del corpo e della mente per il superamento del “problema-morte”. E se un computer raggiungesse un livello intellettuale superiore a quello di un essere umano ed avesse anche la capacità di automodificarsi per potenziare ulteriormente il proprio intelletto? Assisteremmo ad una rapidissima (dal punto di vista di un essere umano non-potenziato) spirale di incrementi di intelligenza? Avremo la capacità di comprendere le attività, i pensieri e le motivazioni di simili esseri? O dovremo incorporare le nostre tecnologie in noi stessi, per poterlo fare e per non essere lasciati indietro? Alcuni temono che saremo noi ad essere assorbiti dalla nostra tecnologia... Espanderemo le nostre capacità mentali con interfaccia fra cervello e computer? Vivremo tutti in una 138 Il sito ufficiale è all’indirizzo http://www.extropy.org/. 201 Dall’Utopia all’Eterotopia simulazione tramite uploading, la trascrizione della coscienza umana su un substrato di silicio? 139 Come si nota questa è una sorta di giustificazione religiosa del loro materialismo scientifico: solo la speranza di un'immortalità cibernetica può sostituire quella di un'immortalità metafisica, assumendo la funzione di obiettivo e valore supremo per l'emergente civilizzazione globale. Tuttavia i "veri" tecnognostici sono autori di sofisticate mitologie tecnoescatologiche in grado di reggere il confronto con quelle elaborate dagli antichi seguaci del vescovo Valentino, e ancora una volta vanno cercati fra le culture cyberdeliche californiane. Nel crogiolo che le ha forgiate troviamo "L'ecologia della mente" di Gregory Bateson, il "Tao della fisica" di Fritjof Capra e il sincretismo New Age, fra misticismo orientale ed evoluzionismo alla Teilhard de Chardin. Il grande sogno è quello della "Teogenesi", del processo di un Dio immanente che coincide con l'universo, di una Mente che diviene autocosciente attraverso l'evoluzione della specie umana. Era il sogno dei Valentiniani, era il sogno dei mistici rinascimentali ebraici, come Lurja, era anche il sogno di Alchimisti ed Ermetici. Oggi è il sogno dei tecnognostici che credono di riconoscere nel cyberspazio la figura del Dio a venire. Come il filosofo francese Pierre Lévy, che in Internet vede il potenziale di una "intelligenza collettiva"140 che egli sembra concepire, al tempo stesso, come una versione postmoderna della “noosfera” di Teilhardiana memoria, e come una sorta di entità trascendente dotata di vita propria (versione cyber di Gaia, il DioPianeta adorato dagli ecologisti). Esempio lampante di questo tecnognosticismo escatologico è il fisico Frank J. Tipler che tenta una riconciliazione tra fisica e metafisica. In La fisica dell’immortalità, Tipler non offre niente di meno che “una teoria fisica verificabile per la nascita di un dio onnipresente, onnisciente e onnipotente che un giorno, nel remoto futuro, farà risorgere tutti noi per farci vivere per sempre in uno spazio che in tutti i suoi tratti www.estropico.org/index.php?option=com_content&view=article&id=75&Itemid=90 P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996. 139 140 202 Dall’Utopia all’Eterotopia essenziali è identico al paradiso giudaico-cristiano.”141 Tipler postula infatti un Punto Omega (un termine ripreso dalle opere del teologo francese Pierre Teillard de Chardin) avente temperatura e densità infinite, in cui l’universo si ritroverà a collassare con un Big Bang al controario il Big Crunch. L’energia generata da questa implosione potrebbe essere usata, sostiene Tipler, per alimentare un simulatore informatico cosmico con un infinito potere di elaborazione, e udite udite, di sicuro sufficiente a riportare in vita (virtuale) tutte le creature che siano mai esistite.142 Quindi la realtà virtuale e il cyberspazio rappresentano le nuove “eterotopie virtuali” in cui il genere umano vivrà alla fine dei tempi come una visione che coniuga Utopia e Paradiso ad un tempo. Queste visioni tecnognostiche di tecnoescatologia provengono sia dall’avanguardia della fisica e dell’intelligenza artificiale sia dalla tecnocultura di derivazione new age, Terence McKenna, il più accreditato erede di Timothy Leary, ha prodotto un software chiamato Timewave Zero, che illustra la sua visione della storia, in cui senza molta fantasia, il 12 Dicembre 2012, ci sarà l’arrivo di un ineffabile mysterium tremendum, che lui stesso definisce “l’oggetto trascendentale alla fine del tempo”. Incrocio tra l’enigmatico monolite di 2001: Odissea nello spazio e il Punto Omega di Pierre Teillard de Chardin, l’oggetto trascendentale di McKenna è, nelle parole del suo profeta, una “singolarità cosmica”, McKenna, immagina che con l’arrivo di questa si possa giungere ad una versione cibernetica del Giardino dei piaceri terreni in cui tutti gli accessori tecnologici del mondo attuale sono stati miniaturizzati fino a scomparire nella natura e sono sparsi come granelli di sabbia sulle spiagge di questo pianeta e tutti noi viviamo nudi in paradiso ma basta desiderarlo per disporre di 141 142 F.J. Tipler, La fisica dell’immortalità, Mondadori, Milano, 1994, p. 5. Cfr. F.J. Tipler, La fisica dell’immortalità, Mondadori, Milano, 1994. 203 Dall’Utopia all’Eterotopia tutti i collegamenti cibernetici e della capacità di fornire beni artificiali e dati di cui dispone questo mondo. 143 Questa descrizione non vi ricorda vagamente, anzi direi quasi completamente, la strana qualità di Pandora, il pianeta abitato dai protagonisti del kolossal fantascientifico Avatar? La visione di Cameron è se possibile ancora più ardita perché i “pandoriani” sono in grado attraverso delle connessioni biologiche di “collegarsi” con tutti gli abitanti del pianeta e con il pianeta stesso, che ha vita propria. Questo non deve stupire visto che il progetto è coevo alle farneticazioni di Terence McKenna e il regista sembra esserne stato ampiamente influenzato. Comunque tornando al nostro discorso dobbiamo chiarire alcuni elementi importanti, come avete notato più volte si è citato il nome e la teoria del Punto Omega di Pierre Teillard de Chardin, ebbene costui era un padre gesuita, geologo e paleontologo francese, il quale traccia un disegno evolutivo nel quale dopo il mondo inorganico (geosfera) e la biosfera, sarebbe avvenuto un passaggio alla Noosfera, mondo del pensiero. Questo passaggio alla Noosfera è per Pierre Teillard de Chardin determinato dalle qualità riflessive degli uomini, infatti le singole coscienze umane comunicando tra loro, in maniere sempre più esponenziale, si uniranno in una sorta di “SuperEssere”, nel quale non si potranno più distinguere le diverse individualità. Il punto di massima evoluzione, complessità e coscienza corrisponderebbe al Punto Omega (una sorta di epifania evolutiva che segna l’avvento di un’ “ultraumanità”, che costituirebbe il punto più alto di complessità (socializzazione), e quindi di coscienza, che l'umanità possa raggiungere. A questo punto la coscienza travalica lo spazio e il tempo e si colloca su un altro e più elevato piano d’esistenza dal quale non può più tornare indietro, quindi si giunge alla fine della storia.144 Dopo questo breve e superficiale excursus sul pensiero di Teillard de Chardin, sembra chiaro ed evidente perché da molti entusiasti cyber pensatori sia stato tenuto in così alta Questa e le altre citazioni sono al suo sito disponibili on-line all’indirizzo http://deoxy.org/mckenna.html 144 Cfr. P. Teillard de Chardin, Il fenomeno umano, Queriniana, Brescia, 2001. 143 204 Dall’Utopia all’Eterotopia considerazione; come abbiamo visto Pierre Levy ne riprende e si ispira ad alcuni suoi concetti, tra i quali naturalmente il più importante è la “noosfera”, interpretata da questi come l’espressione più calzante per la rete globale di connessione quali internet e il web, che hanno la capacità di unire le menti e le conoscenze di tutto il pianeta, favorendo la nascita e l’evoluzione di un nuovo tipo di intelligenza, l’intelligenza collettiva, appunto. Altro concetto ultra saccheggiato dai pensatori tecnognostici, non poteva che essere il “Punto Omega”, il luogo di incontro ideale per una concezione tecnoescatologica dell’universo e i sogni di tecnotrascendenza, soprannominati da Dery, la retorica della velocità di fuga, che li fa giungere ad una visione pentecostale di un’estasi apocalittica, in cui la storia termina e i fedeli vengono raccolti nei cieli… virtuali come ci ha insegnato F.J. Tipler. Naturalmente voi vi chiedere cosa hanno a che fare tutti questi sogni di trascendenza e questi racconti tecnoescatologici con l’evoluzione eterotopica dell’utopia, ebbene niente di tutto questo forse sarebbe avvenuto senza l’avvento delle nuove tecnologie mediali quali internet e la realtà virtuale, che hanno dato la possibilità all’immaginazione utopica e mistica di ricollegarsi sullo stesso piano, quello del cyberspazio, interpretato come luogo in cui la mente possa liberamente vagare, dar vita e abitare la propria immaginazione. Almeno questo era il sogno quando la tecnologia della realtà virtuale stava, forse solo nel sogno di alcuni, convergendo verso il web. Ora che questo processo pare essersi arenato, per la mancata e adeguata evoluzione di sistemi di realtà virtuale, questa visione trascendente sembra essersi esaurita e trasformata nell’esplosione del Web 2.0, in cui il sogno non è più di trascendere la propria esistenza materiale, ma la necessità di espandere la propria “presenza esistenziale” all’interno del regno mediale del web, in cui la categoria principale può essere rappresentata da binomio “visibilità-riconosciemnto” di hegeliana memoria.145 Una semplice spiegazione di questo processo è sicuramente il fatto che le correnti della cybercultura che abbiamo Cfr. G. Scurti, Visibilità e riconosciemento. Ipotesi per una teoria sociale dei media. Liguori Editore, Napoli, 2008. 145 205 Dall’Utopia all’Eterotopia trattato in questi due ultimi paragrafi sono correnti nate all’inizio dell’esplosione delle tecnologie mediali e della realtà virtuale, e come abbiamo spiegato già nel passato capitolo e come dimostra molto bene Armand Mattelart nella sua Storia dell'utopia planetaria146, ogni nuova tecnologia mediale, ricordiamo la stampa, ha sempre dato vita al sogno di riunire l’umanità in un’unica e grande famiglia, in fondo Thomas More era un noto ecumenista, in più il cyberspazio donava anche un nuovo spazio libero per il sogno di una società perfetta, ma le spinte utopiche si sono spente presto dopo l’invasione dei capitali all’interno di questo “regno dell’immaginazione realizzata”. Comunque la potenza dell’immaginario eterotopico non si è esaurita e come vedremo nel successivo paragrafo si è estesa anche all’interno del “mondo reale”, ora il nostro viaggio ci porterà all’esplorazione di altre due espressioni dell’immaginario eterotopico, la T.A.Z. teorizzata da Hakin Bey e la Rave Culture. 3.7 TAZ e Rave Culture Un’operazione di guerriglia che libera un’area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo prima che lo Stato la possa schiacciare147, così descrive il suo sogno eterotopico Hakim Bay, pseudonimo di un personaggio eterodosso, maestro sufi, artista d’avanguardia, esperto di misticismo e uno dei pensatori più influenti nelle correnti antagoniste degli anni ’90, soprattutto nell’area cyberculturale per le sue peculiari visioni di dichiarata discendenza cyberpunk. Intellettuale poliedrico, nei suoi testi riesce a coniugare Deleuze e Guattari con i Bucanieri del XVII secolo, Nietzsche con Sterling, Foucault con D’Annunzio, gli anarchici post-bolscevichi con i A. Mattelart, Storia dell'utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale. Einaudi, Torino, 2003. 147 H. Bey, T.A.Z., Zone Temporaneamente Autonome, Milano, Shake, 1997 p. 15. 146 206 Dall’Utopia all’Eterotopia Situazionisti, la teoria del caos con il Taoismo, concettualizza una visione eterotopica delle più complesse e allo stesso tempo chiare: un territorio realmente nuovo e utopico, anche se questo punto è controverso: La TAZ è utopica nel senso che prevede un’intensificazione della vita quotidiana, o come avrebbero potuto dire i Surrealisti, la penetrazione della Vita da parte del Meraviglioso. Ma non può essere utopica nel senso normale del termine, da nessuna parte, o PostoNessunPosto. La TAZ è da qualche parte.148 La TAZ condensa in sé tutte le eredità e le variegate influenze che la cybercultura racchiude, dando vita ad una utopia, non solo eterotopica, ma anche delimitata nel tempo, poiché quello di cui stiamo parlando sono epifanie utopiche che per produrre il loro effetto devono durare il tempo della proprio vissuto, periodi di libertà nelle pieghe del controllo statale. Questa visione utopica che mai Hakim Bay spiega con chiarezza, ma di cui rintraccia alcuni esempi nel passato, considerato che la TAZ è accaduta, accade e accadrà149, introduce alcuni elementi importanti che sottolineano delle trasformazioni all’interno dell’immaginario controculturale a cui avevamo fatto accenno nell’introduzione, il più importante è la sua dichiarata visione eterotopica, un ulteriore elemento nodale la predilezione per l’insurrezione150, al posto della rivoluzione, questa lungi dall’essere una semplice diatriba terminologica introduce una decisiva trasformazione dell’immaginario in chiave eterotopica, a discapito di una visione temporale; infatti Hakim Bay sottolinea come il destino di ogni rivoluzione sia il tradimento dei propri ideali per l’instaurazione di un nuovo Stato liberticida, una dialettica tra Rivoluzione e Stato che ricorda molto da vicino quella descritta da Ivi, p. 28 Ivi, p. 33 150 Cfr. l’Introduzione in cui la dicotomia era formata dai termini Rivoluzione e Sovversione, invece di Insurrezione. 148 149 207 Dall’Utopia all’Eterotopia Mannheim tra ideologia e utopia, per cui una volta che un’utopia riesce ad instaurarsi si trasforma inevitabilmente in ideologia creando le condizioni per il sorgere di nuove utopie, nel movimento fondamentale dell’evoluzione sociale secondo lo studioso tedesco.151 In quest’ottica Hakim Bay sottolinea l’importanza dell’insurrezione per la sua natura di rottura sia della dimensione temporale, in quanto epifania, sia della dimensione istituzionale, non avendo la volontà di creare una nuova organizzazione sociale: Se la Storia è Tempo come dice di essere, allora la sollevazione è un momento che salta su e fuori dal Tempo, viola la Legge della Storia. Se lo Stato è Storia, come dice di essere, allora l’insurrezione è il momento proibito, un’imperdonabile negazione della dialettica.152 In cui la dialettica in questione non è altro che quella tra Rivoluzione e Stato, Stato interpretato come totem liberticida contro cui combattere tentando di creare degli spazi alternativi ed antagonisti: le TAZ appunto, elemento che evidenzia in realtà una intrinseca debolezza dell’impianto utopico nel delineare una completa organizzazione sociale alternativa allo Stato, inteso come statonazione, o come lo definisce Hakim Bay lo Stato terminale, lo Stato megacorporato dell’informazione, l’Impero dello Spettacolo e della Simulazione153 che non permette possibilità di trasformazione, ma solo momenti e spazi ristretti di insurrezione. Occasionalità ed eterotipicità determinata secondo l’intellettuale americano dalla chiusura del mondo, dall’impossibilità di una nuova frontiera dove sperimentare differenti comunità umane. Di questo abbiamo già parlato e diffusamente continueremo a parlarne, ciò che preme sottolineare è la chiara e manifesta discendenza cyberculturale, cyberpunk in particolare, sia nell’interpretazione della figura dello Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 219. H. Bey, Op. cit., Shake, Milano, 1997 p. 13. 153 Ivi, p. 14 151 152 208 Dall’Utopia all’Eterotopia Stato, sia per la concettualizzazione delle TAZ. Influenza espressa nella prime pagine del testo, in cui è scritto che l’ideazione delle TAZ è direttamente ispirata ad un racconto di Bruce Sterling Isole nella Rete154 in cui la degenerazione dei sistemi statali aveva dato vita a innumerevoli enclavi autonome. Questo però non rappresenta l’unico ascendente cyberculturale sull’opera di Hakim Bay, molto più importante è l’attenzione che l’autore dedica allo sviluppo dell’informatica e del web in particolare, che divengono elementi fondamentali per lo sviluppo e il sorgere delle TAZ. Rete naturalmente intesa come ControRete, una comunità virtuale antagonista che fornisca supporto logistico alle TAZ, una libera circolazione di informazioni, insomma la classica visione cyberpunk del cyberspazio di cui abbiamo discusso nelle pagine precedenti. Ma avverte Hakim Bay le Taz non si possono limitare al cyberspazio, il computer è solo un mezzo perché le TAZ abbiano successo: La TAZ per sua stessa natura si impossessa di ogni mezzo ottenibile per realizzarsi – verrà alla luce sia in una caverna sia una città Spaziale – ma soprattutto vivrà…userà il computer, perché il computer esiste, ma userà anche poteri che sono così completamente dissociati dall’alienazione o dalla simulazione… la TAZ desidera soprattutto evitare mediazioni, per sperimentare la sua esistenza come immediata…La TAZ è un posto fisico o ci siamo dentro o no. Tutti i sensi devono essere coinvolti… La vera essenza dell’affare è il petto a petto, come dicono i sufi, o il faccia a faccia. La TAZ deve ora esistere dentro un mondo di puro spazio, il mondo dei sensi.155 Nonostante questi evidenti distinguo l’ascendente cyberculturale in Hakim Bay è fondamentale e decisivo, non solo vede nella natura non gerarchica della Rete un esempio positivo da imitare nella costituzione delle TAZ, ma soprattutto pensa alla Rete, in particolare 154 155 B. Sterling, Isole nella rete, Fanucci, Roma, 2003. Ivi pp. 29, 27, 33, 56. 209 Dall’Utopia all’Eterotopia nella sua visione cyber-utopica, che definisce Tela o ControRete, come il supporto logistico per dar vita alle TAZ, che essendo organizzazioni limitate nel tempo e nello spazio necessitano di una network di contatti e di informazioni che possa mantenere in vita le comunità che animano le TAZ, naturalmente in maniere clandestina, sfuggendo ai controlli del Potere e dello Stato, per questo l’etica e la cultura hacker divengono predominanti con le proprie capacità informatiche piegate agli interessi delle TAZ: dobbiamo considerare la Tela primariamente come un sistema di supporto, capace di portare informazioni da una TAZ all’altra, di difendere la TAZ rendendola invisibile… La Tela non solo provvede al supporto logistico per la TAZ, la aiuta a divenire… la Tela può procurare una specie di sostituto per parte di questa durata e località. 156 Naturalmente Hakim Bay per “sostituto di questa durata e località” intende uno spazio-tempo alternativo e di consistenza maggiore alla evanescenza costitutiva della TAZ, una dimensione che solo il cyberspazio può donare alle TAZ senza svuotarle del proprio contenuto e sogno antagonista. Ora, dopo aver individuato le influenze cyberculturali della TAZ è necessario definire quali siano le sue caratteristiche principali, è qui noteremo come ci si trovi di fronte ad una vera e propria utopia, non è un caso che il primo soggetto in questione diviene la famiglia. Per Hakim Bay la famiglia nucleare è l’unita di base di una società capitalistica/industriale, caratterizzata dalla gerarchia, dal predominio maschile, con le sue conseguenti “miserie edipiche”157 ed è tipica di una società basata sulla scarsità, mentre le TAZ sfruttano un’evoluzione della società post-moderna in cui si evidenza una nuova dinamica relazionale, quella tipica della Banda, caratterizzata dalla sua maggior 156 157 Ivi, pp. 25 e 26. Ivi, p. 18. 210 Dall’Utopia all’Eterotopia estensione, dalla sua orizzontalità non gerarchica, ideale per la dimensione anarcoide della TAZ: Se la Famiglia nucleare è prodotta dalla scarsità (e risulta in infelicità), la Banda è prodotta dall’abbondanza – e risulta in prodigalità. La famiglia è chiusa dalla genetica, dal possesso maschile delle donne e dei bambini, dalla totalità gerarchica della società agricola/industriale. La Banda non è parte di una gerarchia più ampia, ma invece parte di un modello orizzontale di costume, parentela estesa, contratto, alleanza, affinità spirituale… La Banda include amici, sposo/a e amanti, gente incontrata su diversi lavori e pow-wow, gruppi di affinità, reti di interessi speciali, resti postali ecc.158 Evidente ancora una volta l’influenza della cybercultura, come non riconoscere in questa descrizione la visione orizzontale delle comunità on-line con tutte le sue più rosee previsioni, il ritorno di una sorta di economia del dono al posto del sistema capitalistico, come non collegare l’immagine della Banda a quella dei cacciatori/raccoglitori di informazioni delineata da Joshua Meyrowitz159 nel suo famosissimo Oltre il senso del luogo? Hakim Bay in realtà sembra essere il megafono del nuovo immaginario cyberculturale, miscelato con un certo pensiero post-moderno come le già citate influenze di Deleuze, Foucault e i Situazionisti, che lo studioso tenta di fondere per costituire nel “mondo reale” ciò che la cybercultura ipotizzava di poter creare nel cyberspazio. La TAZ inoltre assume la forma del Festival o dello festa, questo perché per sua natura la festa è sospensione del tempo dominante, è un sovvertimento della struttura sociale, crea uno spazio/tempo alternativo, delle “zone liberate” appunto, pensiamo ai Saturnali, ai Baccanali, al Carnevale, questi sono i riferimenti di Hakim bay, e di certo non possono mancare i riferimenti alla controcultura con i suoi immensi festival come lo Human Be In o Woodstock, e non è un Ivi, p. 19. Cfr. J.Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995. 158 159 211 Dall’Utopia all’Eterotopia caso che come principio organizzatore venga suggerita la musica che in sé racchiude tutte i pregi di una festa: la convivialità, il senso di comunità, l’estasi liberatrice, il godimento estetico, per farla breve tutte i sogni di liberazione fisici e psicologici che la Controcultura aveva delineato Hakim Bay li ha ripresi. Questi aspetti li analizzeremo al meglio, comunque, quando analizzeremo i rave party, di sicuro la migliore, la più diffusa, in realtà forse l’unica forma di TAZ che abbia mai visto la luce. Altra elemento chiave che deve animare la realtà della TAZ è il concetto, ripreso direttamente da Deleuze e Guattari di Nomadologia e la Macchina bellica, di Nomadismo psichico che Hakim Bay interpreta come un cosmopolitismo senza radici, causato in massima parte dal processo di globalizzazione seguito alla caduta delle ideologie, evoluzione che conduce ad un nuovo approccio poliprospettico al reale che il nostro descrive in maniera quanto mai suggestiva: questa visione fu ottenuta a costo di abitare un’epoca in cui la velocità e il “feticismo della merce” hanno creato una tirannica falsa unità culturale che tende a levare tutta la diversità e individualità culturale, cosicché “un posto vale l’altro”. Questo paradosso crea “zingari”, viaggiatori psichici spinti dal desiderio o dalla curiosità, vagabondi con poche lealtà...non legati a nessun particolare tempo e luogo in cerca di diversità e di avventura.160 Questa particolare dimensione esistenziale appartiene praticamente a tutti noi, orfani ormai di qualsiasi punto di riferimento, sia esso la nazione o la religione, quindi un nomadismo psichico inteso quale tattica esistenziale da opporre ad una strategia di disgregazione e omogeneizzazione che nega una qualsivoglia visione di emancipazione individuale, emancipazione a cui la TAZ può invece dare vita, creando un’eterotopia di sicuro effimera, ma per questo ancor più efficace: 160 H. Bey, Op. cit., p. 22. 212 Dall’Utopia all’Eterotopia Questi nomadi praticano la razzia, sono corsari, sono virus; hanno bisogno e voglia di TAZ... Questi nomadi tracciano loro percorsi con strane stelle, che possono essere luminosi gruppi di dati nel cyberspazio, o forse allucinazioni. 161 La TAZ rappresenta quindi il condensarsi, il coagularsi di queste linee esistenziali, che comunque non sono nuove nella storia dell’umanità, anzi Hakim Bay nel suo testo passa in rassegna alcuni esempi di proto-TAZ, l’isola di Tortuga dei Bucanieri del XVII secolo, o la Comune di Parigi del 1848 fino a giungere alla Fiume liberata da D’Annunzio nel 1919, ma in realtà non delinea mai per esteso un esempio chiaro di TAZ contemporanea, ne cosa essa sia in realtà, al massimo arriva ad affermare che la TAZ è una sorta di opera d’arte anche se scrive: rifiuterei con forza la critica che la TAZ stessa “altro non è” che un’opera d’arte...Suggerisco che la TAZ è l’unico possibile “luogo” e “tempo” per l’accadere dell’arte, per il puro piacere del gioco creativo, e come tangibile contributo alle forze che permettono alla TAZ di aggregarsi e manifestarsi.162 La TAZ quindi come unica possibilità di poter condividere attimi, per quanto fugaci, di reale espressione umana, poiché questo in definitiva rappresenta la figura dell’arte, il sogno di poter esprimere completamente la propria umanità, soprattutto la propria carica libidica in una comunione empatica che lo Stato, inteso alla Hakim Bay, essendo un sistema spettacolare e di simulazione, impedisce. Per questo ha un tempo e uno spazio effimeri, la reale soddisfazione di esistenza va dissipata nell’attimo del suo vissuto, solo così può avere il suo effetto liberatorio, senza rischiare di avvolgersi su se stessa divenendo attaccabile da parte del sistema sociale. Questo sogno liberatorio, dionisiaco, è espresso al meglio da una citazione di Nietzsche, tratta dalle sue lettere alla sorella, che apre il testo e rappresenta la summa del pensiero di Hakim Bay: 161 162 Ivi, p.23. Ivi, p.55. 213 Dall’Utopia all’Eterotopia questa volta però vengo come il Dioniso vittorioso, che trasformerà il mondo in una vacanza…Non che abbia molto tempo… Questo sogno è la base spirituale di quella che abbiamo già definito come l’unica TAZ che sia mai esistita: il Rave party. Questo racchiude in sé tutte le caratteristiche delle TAZ, esaltandone alcune, portando alla parossismo la tradizione Hippie della controcultura, miscelata con una visione iper-tecnologica grazie alla passione per la musica techno. I rave non son altro che feste senza fine che possono durare un’intera notte e ancor di più, in cui si balla senza tregua per ore ed ore al ritmo della musica techno quasi sempre con l’ausilio di sostanze psicotrope, in particolare la celeberrima Ecstasy o MDMA. Il rave esalta ovviamente la natura transitoria della TAZ, insieme al suo carattere di festa e festival, e naturalmente la musica riveste il ruolo di protagonista. Nonostante queste caratteristiche generali non si riesce a delimitare il fenomeno dei rave, si tratta infatti di un movimento molto composito, in cui anche elementi comuni si declinano in varietà locali. Nella variante europea, in particolare francese e italiana, la scena rave ha una componente fortemente politicizzata. In Italia in particolare il mondo dei rave si divide fra il politicismo neosituazionista e antagonista dei centri sociali e lo sballo felicemente prepolitico dei rave commerciali, mentre la scena americana e quella di San Francisco in particolare ha una vena tecno-mistica ed estatica chiaramente di discendenza controculturale e hippie. Il rave, come detto, sviluppa alcuni concetti base dei paradisi temporanei di Hakim Bay, in primo luogo il suo carattere festivo, rave infondo significa delirio, estasi, ebbrezza: si chiama cioè col nome dell’esperienza che vorrebbe suscitare. L’etimologia del termine rave deriva dall’inglese to rave (farneticare, delirare) e anche dal francese antico raver, rever (vagabondare, 214 Dall’Utopia all’Eterotopia delirare, sognare). 163 Il rave in fondo festeggia l’esperienza festiva spogliata di ogni oggetto, l’esperienza pura, intransitiva, immotivata, si festeggia la festa, senza ulteriori contenuti sociali, si innalza a obiettivo in sé lo sfrenamento dionisiaco, la partecipazione comunitaria, l’abbattimento del principium individuationis, il suo carattere rituale, tutto ciò grazie alla musica techno e alle droghe psicotrope che aiutano l’esperienza a prendere corpo, in un senso letterale, i corpi attraverso la musica e la droga entrano in una sorta di trance, un’esperienza parallela che apre le porte ad un altro mondo. Un mondo strutturato dalla musica, come sognava Hakim Bay, nel rave la techno è l’apoteosi della potenza cosmogonica del linguaggio musicale, la potenza creatrice di mondi: Si è fatta strada l’idea che un brano musicale sia già in sé capace di creare, letteralmente, un ambiente, un mondo. E non stiamo parlando di molteplici alternative possibili di un mondo determinato, ma di una effettiva molteplicità di mondi determinati. Mondi, per così dire, creati dalla loro stessa descrizione: musiche possibili per mondi possibili... Ed eccoci qui: con il continuo rimanipolare, ritrasformare i materiali sonori, la techno fabbrica mondi.164 La musica Techno in realtà svela la sua natura di discendenza cyberculturale, quindi una natura ipertecnologica della rave culture, in fondo le tecnologie legate alla sintesi del suono sono del tutto assimilabili a quelle della sintesi di immagini, come riconosce Claude Cadoz: Il suono di sintesi e l’informatica musicale non sono dei rami da innestare alla realtà virtuale, ne sono piuttosto le radici.165 Questo non dovrebbe stupire, in fondo la cybercultura e la rave culture hanno le stesse radici, la controcultura americana e il suo M.T. Torti, Abitare la notte, Costa & Nolan, Genova, 1997, p. 38. M. De Dominicis, Sonni furiosi. I ravers tornano a casa. in G. Salvatore (a cura di) Techno-trance, Castelvecchi, Roma, 1998, p. 78. 165 C. Cadoz, Le realtà virtuali, Il Saggiatore, Milano, 1996, p.53. 163 164 215 Dall’Utopia all’Eterotopia evolversi nella correnti culturali degli anni ’90, come abbiamo tentato di delineare lungo tutto l’arco di questo capitolo, le accomuna una passione per le possibilità, soprattutto grazie alle nuove tecnologie, di edificare ed abitare spazi nuovi, mondi possibili, città ideali. Non manca di certo una certa visione psichedelica e mistica anche nella rave culture, le concezioni di questo tipo riguardo al cyberspazio sono state le protagoniste di questo capitolo, e per il rave il discorso è equivalente, l’esperienze psichedeliche degli anni ’60 vengono tradotte ora con l’utilizzo dell’Ecstasy e della musica techno, un intreccio tra cultura psichedelica e ipertecnologica che Nicholas Saunders, forse il più importate studioso della cultura rave, riassume in questi termini: the rave[…]involves entering an altered state of collective consciousness through the ingestion of drugs, physical activity and sensory bombardment by technological artifacts such as hypnotic, emotional, loud music, light shows and smoke machines.166 Intreccio tra cultura psichedelica e cybercultura che vede centrale il concetto di esperienza, esperienza liberata e liberatoria, così, seguendo gli insegnamenti del maestro Hakim Bay, il rave diventerebbe un’esperienza di riappropriazione, sia degli spazi, non è un caso che i rave si tengano in massima parte in fabbriche dismesse, riappropriazione e liberazione quindi della dimensione del lavoro industriale, sia liberazione e riappropriazione dell’esperienza in sé, rispetto all’alienazione spettacolare e dei suoi riti che consentono sempre e solo una partecipazione vicaria. L’esperienza del rave è però un’esperienza del tutto particolare, è del tutto senza contenuto, è l’esperienza di sé, del tutto sensuale, elemento che viene alimentato sia dalla musica techno e soprattutto dall’ecstasy, è ancora Reynolds a sostenerlo: L’MDMA procura un’esperienza 166 N. Saunders, The spiritual Aspect of Rave Culture, on-line all’indirizzo www.ecstasy.org 216 Dall’Utopia all’Eterotopia profonda ma, curiosamente ‘senza significato’167 , essa dispone alla pura convivialità, manda in frantumi la corazza caratteriale, immerge in un mondo di pure sensazioni senza senso né scopo. Reynolds interpreta il rave come una sorta di autismo collettivo, la chiusura in un mondo ovattato fatto di echi, risonanze e dolcezze tattili, sensazioni slegate da qualsiasi significato e vissute al loro stato grezzo, bruto, primogenio. Quel che sembra interessare maggiormente lo studioso americano è una sorta di infantilismo dei raver, sembra suggerire che nel rave si assista a una destrutturazione dei piani alti della personalità, via via sino alle fondamenta infantili, e ancor più indietro, infatti, secondo Reynolds, l’atmosfera sonora immersiva del rave riprodurrebbe il carezzevole ambiente uterino pervaso di echi e risonanze di cui ciascuno di noi porta una innata memoria: I’d argue that echo’s aura of eternity harks back even further: to our personal prehistory in the amniotic sea of the womb, where the fetus hears the mother’s voice refracted through the fleshly prism of her body. (It’s not for nothing that studio engineers talk of a recording being ‘dry’ when it’s devoid of reverb.) With its numinous reverberance and fetus-heartbeat tempo of 70 btm, dub reggae reinvokes the primordial intimacy of womb time, the lost paradise before individuation and anxiety. Even after birth, sound has primacy over vision for several months; the infant in cocooned in the mother’s preverbal vocal caresses, a soothing and cherishing sonorous milieu that some theorist believe is the root if all music.168 In questo passo si intravede quel ritorno all’utero, detto anche sentimento oceanico che ha caratterizzato molti intellettuali, pensiamo al Freud del Disagio della civiltà e di Al di là del principio del piacere, nostalgia del grembo materno che Otto Rank eleva a 167 168 N. Saunders, Generation Ecstasy, Little Brown & Company, London, 1998, p. 375. N. Saunders, The spiritual Aspect of Rave Culture, on-line all’indirizzo www.ecstasy.org 217 Dall’Utopia all’Eterotopia soluzione dell’enigma della storia, il ricordo di quel tempo felice all’interno del grembo sarebbe la base di tutta la cultura umana, a partire dai miti dell’Età dell’oro o del Paradiso terrestre, opere ispirate direttamente alle sensazioni nirvaniche del periodo prenatale. Questa tesi viene oggi ripresa in termini generali da Christopher Lasch nel suoi testi, in particolare ne L’io minimo. 169 Questa interpretazione del rave introduce un fenomeno che caratterizza le eterotopie in genere, fenomeno che analizzeremo meglio in seguito, ma che può essere riassunto con l’emergere del desiderio, e il sua appagamento, quale figura centrale all’interno dell’immaginario, utopico e non solo. Desiderio che diviene prevalente rispetto al bisogno, tematica che introduce una nuova e decisiva dicotomia (Bisogno/Desiderio), in cui si segue l’insegnamento de L’anti Edipo di Deleuze e Guattari, ‘il desiderio è nella sua essenza rivoluzionario’ 170, questo in fondo è stato il grande insegnamento della cultura Hippie, il soddisfare il desiderio diviene la base di qualsiasi trasformazione sociale, approccio che trova conferme in tutte le teorie moderne del desiderio, pensiamo all’influenza decisiva di autori come Marcuse e Norman O. Brown sui giovani della controcultura, ma più ampiamente all’interno di ogni movimento controculturale dagli anni ’60 in poi. Quello di cui stiamo parlando è di sicuro un desiderio nuovo, espanso un desiderio polimorfo, concetto che deriva direttamente dallo stadio dell’infanzia che Freud definisce perverso polimorfo, in cui il bambino vive in uno stato di beata promiscuità con ogni oggetto che catturi la sua attenzione, uno stadio che viene poi superato nella fase genitale, in cui il desiderio si specializza e diviene la base per la vita sessuale matura, trasformazione e specializzazione che i freudiani radicali, quali appunto Marcuse e N. O. Brown, recepivano Cfr. O. Rank, Il trauma della nascita. Sua importanza per la psicoanalisi, SugarCo, Milano, 1990 e C. Lasch, L’Io minimo, Feltrinelli, Milano, 1996. 170 Cfr. C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto. Einaudi, Torino, 2002, p. 266. 169 218 Dall’Utopia all’Eterotopia come un impoverimento del desiderio, impoverimento da imputare alla società borghese.171 Secondo questa visione, la sessualità genitale è orientata a uno scopo, è produttiva. La perversione polimorfa è onanista, si appaga di una jouissance sterile e intransitiva: il rave pare appartenere a questa secondo ordine di esperienze, volte alla soddisfazione sic et simpliciter del desiderio. Approccio al desiderio, come detto, che non si limita alla rave culture, ma che abbraccia tutti i movimenti controculturali quale nuova base esistenziale, proprio per la natura rivoluzionaria del desiderio polimorfo. Per chiudere e chiarire il tema che verrà affrontato più avanti non c’è niente di meglio delle parole di Jacques Lacan che ha sempre visto un’opposizione radicale tra la morale del potere e l’etica del desiderio: Una parte del mondo si è orientata decisamente verso il servizio dei beni, rigettando tutto ciò che concerne il rapporto dell’uomo con il desiderio – è quella che si chiama la prospettiva postrivoluzionaria. La sola cosa che si possa dire è che non si ha l’aria di rendersi conto che formulando così le cose, non si fa che perpetuare l’eterna tradizione del potere, ossia – Continuiamo a lavorare, e, per il desiderio, ripassate.172 Per concludere il discorso sulla rave culture, dobbiamo analizzare una delle interpretazioni migliori ed più interessanti, che ci viene fornita da Guido Vitiello nel suo pluricitato Dall’Lsd alla Realtà virtuale173, in cui il rave diviene un pharmakon per contrastare la dispersione e l’iperstimolazione della vita metropolitana attraverso l’esasperazione delle sue condizioni, per poter così dar vita ad uno Cfr. H. Marcuse, Eros e Civiltà, Einaudi, Torino, 2001 e N. O. Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia , Adelphi, Milano, 2001. 172 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, Einaudi, Torino, 1994, p.400. 173 G. Vitiello, Op. cit., pp. 125-156. 171 219 Dall’Utopia all’Eterotopia spazio protetto, un’eterotopia che salvi dal coas della vita contemporanea: il rave offre la quiete ebbrezza del tempo divenuto spazio, l’approdo prospettato da Gurnemanz nel Parsifal…danzare in un tempo quieto e immobile, che dello spazio condivide l’estensione infinita…Lo stesso antidoto il rave cerca di fornirlo esasperando il veleno, ingurgitandolo fino alla feccia; e non si ricorda mai troppo spesso che il greco pharmakon racchiude entrambi i significati, veleno e antidoto. Al bombardamento di stimoli che giunge da ogni strada e da ogni schermo il rave oppone un bombardamento di grado maggiore, che giunto al suo culmine si capovolge nel suo contrario, nel vuoto dell’attenzione...L’iperstimolazione della vita ordinaria crea una corazza, rende distratti e insensibili; il rave la manda in frantumi con una accumulazione di stimoli di grado maggiore, e l’anestesia si volge nel suo contrario, nell’iperestesia della sensibilità dispiegata. Il male della metropoli lo si sconfigge esasperandolo. È una via omeopatica, dove similia similibus curentur.174 Queste parole spiegano al meglio l’etica della rave culture, il suo sogno di creare un’eterotopia sonica che possa liberare uno spazio realmente svincolato dalla pervasività della società dello spettacolo, per goder appieno di quell’evanescente attimo di gioia che tenta di sfuggire ai gangli della società, al suo quotidiano e abitudinario controllo sulla realtà. Per riassumere possiamo affermare che le TAZ e la Rave Culture siano una sorta di costruzione nel “reale” dell’eterotopia del cyberspazio, questo non deve stupire visto che questi due fenomeni sono profondamente influenzati dalla cybercultura, dai suoi miti, dal suo immaginario, dalla sua etica, ciò che ne determina la comunanza è il loro profondissimo sogno di poter dar vita a degli spazi alternativi, autoprodotti, festivi, che possano in qualche modo 174 Ivi, pp. 146, 148, 151. 220 Dall’Utopia all’Eterotopia liberare se stessi e la società. Altro elemento che abbiamo visto emergere e dobbiamo sottolineare è lo strutturarsi di due dicotomie che fondano in parte l’immaginario delle eterotopie e più in generale di tutte le controculture dagli anni ’60 in poi, quelle di Rivoluzione/Sovversione e Bisogno/Desiderio con l’accento posto sul secondo termine, elemento che dimostra come ci si trovi di fronte a delle utopie particolari, che hanno l’ardire di costruire degli spazi alternativi, ma anche la coscienza di riconoscerne il rischio, spazi realmente liberi non possono avere nuove istituzioni, perché queste darebbero nuovamente vita a quella dialettica tra Rivoluzione e Stato, una costante all’interno degli universi controculturali. Del desiderio invece abbiamo solamente iniziato a discutere e lo faremo più approfonditamente più avanti, quello che vorrei sottolineare è la decisa volontà di liberazione totale, una liberazione che difficilmente riesce a costituire una qualsivoglia utopia, visto come queste hanno il sogno di organizzare quasi ogni aspetto del reale. Differente è invece il sogno cyberculturale che abbiamo affrontato lungo tutto il corso di questo capitolo, che ha coinvolto il cyberspazio, la realtà virtuale e le interpretazioni più affascinati di queste, interpretazioni che invece hanno di certo una volontà utopica molto forte, il sogno di una società perfetta si trasporta completamente all’interno dell’universo digitale, la più perfetta ed adeguata delle eterotopie si potrebbe pensare, invece questo sogno sembrerebbe spegnersi velocemente come vedremo nel prossimo capitolo in cui ci occuperemo dei Virtual world e dei MOOs la discendenza più diretta del sogno cyberspaziale, eredi che non presentano connotati utopici, anzi sembrerebbero solo delle riproduzioni ordinarie del mondo sociale o luoghi ludici dove svagarsi. L’analisi verrà portata avanti studiando diverse piattaforme virtuali, tra le quali Second Life, Habbo Hotel, League of Legend e World of Warcraft, cercando di comprenderne l’evoluzione normalizzatrice, il modo in cui l’universo virtuale abbia perso la sua vena utopica. Tutto questo sarà fatto cercando di mettere al centro 221 Dall’Utopia all’Eterotopia la figura dell’utente grazie a delle interviste in profondità così da poter cogliere i sogni, i bisogni e i miti che li guidano. Così ha inizio la parte finale del nostro viaggio all’interno dell’immaginario utopico: forse l’ultima. 222 Dall’Utopia all’Eterotopia Capitolo 4 Virtual Worlds: fine dell’Utopia? Non ci sono grosse differenze tra quello che è reale e quello che è irreale e tra quello che è vero e quello che è falso. Una cosa non è necessariamente o vera o falsa, può essere entrambe: vera e falsa. HAROLD PINTER Il nostro viaggio all’interno dell’immaginario utopico della Cybercultura si è concluso con l’analisi di quelle che abbiamo definito delle protesi reali dell’eterotopia cyberculturale, cioè la T.A.Z e il Rave party. Due fenomeni che tentarono alla fine degli anni ’90 di creare e liberare spazi alternativi all’interno della società civile. Manifestazioni per propria natura momentanee ed effimere, consce del fatto che ogni tentativo di realizzare appieno un’Utopia coincide inevitabilmente con il suo fallimento, come la precoce dissoluzione dell’esperienza delle comuni hippie aveva dimostrato inesorabilmente. Il nostro viaggio ha anche approcciato gli estremi risultati dell’utopia cyberculturale, quelli incentrati sul Cyberspazio, poi sfociati in una sorta di tecno-anarco capitalismo estremo come il manifesto Cyberspace and the American Dream: A Magna Carta for the Knowledge Age ha dimostrato chiaramente, completamente divergenti dalle idee controculturali da cui la cybercultura aveva avuto origine. Questo comunque non ha tolto forza e spinta ad una 223 Dall’Utopia all’Eterotopia visione della tecnologia, soprattutto di quella mediale, quale portatrice di progresso, benessere e giustizia sociale, visione che ha avvolto in particolar modo Internet di un’aurea utopica, strumento divino per la costruzione di una nuova e migliore società, una visione che Internet eredita direttamente dal filone controculturale della cybercultura, quali il cyberpunk e la comunità virtuale di Well, filone talmente frastagliato e multiforme da esser giunto a dar vita a sogni ad occhi aperti quali quelli della cybertrascendenza o alla visione tecnognostica del cyberspazio. Oltre a queste visioni salvifiche eterodosse ed estreme Internet, inteso nella sua dimensione cyberspaziale, ha sempre avuto profeti che lo hanno delineato come un nuovo spazio virtuale in cui sarebbe stato possibile una vita migliore. Questo visione laica del sogno cyberculturale non aveva, e non ha, niente da condividere con la visione escapista dell’immortalità tecnologica o dell’onniscienza dei tecnognostici, ma più prosaicamente interpretava il potenziale della Rete come strumento per migliorare la vita umana. In particolar modo la rete diveniva un ambiente in cui era possibile coltivare nuove relazioni sociali, nuove comunità che avrebbero reso più ricca e soddisfacente la nostra vita come animali sociali. Seguendo questa impostazione il cyberspazio diviene il luogo per stabilire comunità idealizzate che riescono a trascendere i limiti spaziotemporali e le discriminazioni basate sul sesso, la razza e il colore della pelle. In altre parole Internet stesso si ricopre di connotati utopici e diviene una Cyberutopia. Di certo questa non può essere considerata un’utopia a tutti gli effetti, non essendo strutturata in maniera organica come una completa e globale ristrutturazione della società, ma sicuramente la Rete è sempre stata interpretata come un mezzo per eliminare alcune derive negative della società contemporanea, in particolar modo quella persistente sensazione di non avere una comunità di appartenenza. Sentimento o condizione studiata fin dagli albori della sociologia, pensiamo a Tönnies o a Weber, e che attraverso Internet ha un rilancio, poiché questo strumento porta con sé, come dote innata, una capacità di inclusione e di socializzazione che sembra ormai essere deficitaria nella società contemporanea. Il più 224 Dall’Utopia all’Eterotopia noto profeta di questa visione del web è il pluri-citato Howard Rheingold con il suo The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier,1 in cui afferma che la Rete ci può restituire la dimensione comunitaria che la società occidentale sta perdendo, approccio espresso in maniera ancora più chiara da quell’ Ester Dyson già firmatario insieme ad Alvin Toffler del documento Cyberspace and the American Dream: A Magna Carta for the Knowledge Age: The net offer us a chance to take charge of our lives and redefine our role as citizens of local communities and of a global society. It also hands us the responsibility to govern ourselves, to think for ourselves, to educate our children, to do business honestly, and work with fellow citizens to design rules we want to live by. 2 Altro esempio paradigmatico della visione utopica della rete è sicuramente quello dell’allora direttore del Media Lab director al MIT Nicholas Negroponte, che concludeva il suo celebre libro, Being Digital, ormai divenuto un classico con queste parole: Today, when 20 percent of the world consumes 80 percent of its resources, when a quarter of us have an acceptable standard of living and three-quarters don’t, how can this divide possibly come together? While the politicians struggle with the baggage of history, a new generation is emerging from the digital landscape free of many of the old prejudices. These kids are released from limitation of geographic proximity at the sole basis of friendship, collaboration, play, and neighborhood. Digital technology can be a natural force drawing people into greater world harmony. 3 Cfr H. Rheingold, The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier, MIT Press, 2000, disponibile on-line all’indirizzo http://www.rheingold.com/vc/book/ 2 E. Dyson, Release 2.0: A Design for living in the Digital Age, Broadway Books, New York, 1997, p. 2. 3 N. Negroponte, Being Digital, Vintage Book, , New York, 1996, p. 230, disponibile on-line all’indirizzo http://archives.obs-us.com/obs/english/books/nn/bdcont.htm 1 225 Dall’Utopia all’Eterotopia Queste erano le previsioni dei futurologi quando la Rete era ancora ai suoi albori, naturalmente molto è cambiato, nonostante molti di questi sogni non si siano realizzati un certo tecno-utopismo ancora riesce ad evocare ed ispirare le letture e le interpretazioni del web. Interpretare le nuove tecnologie come strumenti necessari ed indispensabili per la costruzione di un mondo e di una società migliore non è di certo una novità come ci ricorda David Noble nel suo La religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito d'invenzione 4, in cui per esempio ci ricorda della Cristianopoli di Johann Andreae in cui tutti gli abitanti erano di fatto degli scienziati, come la Città del Sole di Campanella o nella nuova Atlantide di Bacone, Noble ci mostra come dal seicento in poi la tecnologia fosse lo strumento per dar vita alla Nuova Gerusalemme, ma di questo abbiam già discorso. Un’altra aspetto utopico di cui internet sembra esser dotato è quello di essere uno strumento innatamente democratico, in quanto sarebbe in grado di ricostruire sul piano virtuale l’Agora dell’antica Atene, uno spazio libero, non gerarchico, in cui tutti alla pari e liberamente possano discutere della gestione politica della società. Una nuova sorta di opinione pubblica di Habermassiana memoria, in cui l’uguaglianza e la libertà di espressione siano i cardini per una vita sociale e politica realmente democratica, che possa riportare in auge una gestione comune della società in un periodo in cui il distacco dal mondo politico sembra irreversibile. Ultimo aspetto della visione utopica della Rete è sicuramente l’aspetto economico. La rete è stata considerata come l’apertura di un nuovo e infinito mercato, sia dal punto di vista dei produttori, che da quello del consumo. Ricordiamo l’immensa bolla speculativa della metà degli anni ’90 in cui miliardi di dollari furono investiti su qualsiasi azienda che avesse la parvenza di operare nel campo del web, o forse ancor più importante è sottolineare come il web abbia Cfr. D. Noble, La religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito d'invenzione, Edizioni di Comunità, Ivrea, 2000. 4 226 Dall’Utopia all’Eterotopia sviluppato un nuovo immenso territorio da esplorare per l’economia mondiale, l’e-commerce. Come sappiamo la bolla è scoppiata, centinaia di aziende hanno chiuso i battenti e miliardi di dollari sono andati in fumo e con essi il sogno di aver trovato la soluzione all’enigma dell’economia. Questa breve e superficiale sintesi sui connotati utopici posseduti dalla Rete è necessaria per intraprendere l’ultima parte del nostro viaggio all’interno dell’immaginario utopico, quella che ci porterà ad analizzare la nascita e lo sviluppo dei mondi virtuali on-line, dei quali i più famosi sono sicuramente Second Life e World of Warcraft. Ebbene questi all’interno della nostra tesi potrebbero essere interpretati facilmente quali delle eterotopie vere e proprie, anche se virtuali, quello che sembra invece mancare loro sono però esattamente i connotati utopici. Prendiamo ad esempio Second Life, questo mondo virtuale infatti, sembra mancare dello spirito antagonista, caratteristico dell’immaginario informatico, hacker, in particolare. Facendo più attenzione, però, nella sua struttura grafica, Second Life sembra possedere quelli che sono i principali caratteri dell’utopia sistematizzati dalla ricerca sull’utopia filosofica e letteraria fin qui prodotta, che abbiamo analizzato nel primo capitolo, principalmente l’insularismo: Second Life possiede, una propria geografia virtuale (sulla quale tra l’altro sarebbe interessante indagare più a fondo, vista, per esempio, la curiosa forma di uno dei “continenti” rassomigliante a quello americano): l’unità fondamentale del territorio è, appunto, l’isola (la Sim) che, anche quando confinante con altre unità, è assolutamente “indipendente”. Quindi la “struttura geometrica”, facilmente replicabile mediante le basilari forme geometriche che fanno assomigliare il mondo di Second Life alla Laputa visitata da Gulliver. Inoltre, l’eguaglianza sociale di base, che può divenire uniformità, anche in SL, come mostrano alcune esperienze anarchiche di Sim nelle quali non è previsto l’uso del denaro ma soltanto dello scambio di beni. Poi, la pressoché totale illimitatezza delle risorse, svincolate dalla materia. O ancora la scarsa presenza di una legislazione, la 227 Dall’Utopia all’Eterotopia quale è limitata a poche regole di comportamento che ricalcano la “netiquette” del web, improntata, com’è noto, a richiami alla naturale ragionevolezza. Infine, ma non ultimo in un’elencazione soltanto esemplificativa come la presente, la trasparenza, nella sua dimensione architettonica e sociale, considerata l’estrema libertà di movimento e di visione degli spazi virtuali. Altre motivazioni farebbero supporre una maggiore facilità di presenza della tensione utopica; l’elemento politico in quanto tale è largamente diffuso in Second Life: dalla politica pragmatica come i luoghi della propaganda (ad esempio i siti di supporto o di opposizione alle varie amministrazioni governative) o come quelli in cui si dibattono temi particolari della politica, o come i luoghi costruiti da gruppi socialisti, comunisti, finanche anarchici infatti sono abbastanza numerosi. Anche se visite più approfondite rivelano, anche in questi, una certa superficialità e la prevalenza di elementi commerciali e di svago. Insomma caratteristiche formali che potrebbero far pensare a Second life come ad un canale ideale per veicolare valori utopici, mentre al contrario sembra essere il prodotto di punta della società post-capitalista, come uno dei tanti strumenti di consumo, che poco spazio riservano alla progettualità politica, soprattutto alternativa. Quello che sembra mancare a Second life è la volontà di creare un mondo-altro, in effetti SL sembra replicare talora compulsivamente la vita reale, invece di cercare di differenziarsi (le discoteche, i casino, i luoghi del sesso, sono gli stessi, virtuali), in Second Life la vita si replica così com’è, come se la vita reale non potesse esprimere o soddisfare tutti i desideri o gli stimoli che ci propone, discorso leggermente diverso per World of Warcraft, rappresentante completamente diverso all’interno dell’universo dei virtual worlds, infatti questo rappresenta la punta di diamante dei MMORPG (Massive Multiplayer Role Playing), giochi di ruolo on-line derivanti dai giochi di ruolo classici o dal mondo dei video games, mentre Second life e simili come Project Entropia, possono essere denominati secondo la definizione di Gerosa e Pfeffer, social virtual 228 Dall’Utopia all’Eterotopia world, 5 avendo come fine unico le relazioni sociali tra gli utenti, di queste divisioni per genere ce ne occuperemo approfonditamente più avanti ora è sufficiente dare una definizione articolata del fenomeno di cui stiamo parlando, così attraverso le parole di Edward Castronova possiamo definire questi mondi virtuali come “Universi Sintetici” : un ambiente esteso, comunitario, simile ad un mondo, creato da esseri umani per esseri umani, e gestito, registrato e riprodotto da un computer.6 Una sorta di versione ridotta della realtà virtuale di cui discutevamo nel capitolo precedente, da cui sicuramente discende, ma da cui si è velocemente separata poiché i mondi sintetici nascono nel contesto dell’industria dei videogiochi, mentre la realtà virtuale è di pura fonte dei laboratori di ricerca delle università, nonostante questa discendenza meno nobile, gli sviluppatori di videogiochi, divenuti inseguito MMOPRG, sono stati influenzati dal medesimo immaginario relativo alla realtà virtuale, da Neuromante di William Gibson a SnowCrash di Neal Stephenson. Nonostante le comuni influenze l’approccio alla realtà virtuale è stato completamente opposto, mentre la ricerca scientifica si è focalizzata sull’hardware di input sensoriale, il mondo dei videogames, anche per la minor disposizione di fondi, ha preferito prestare attenzione al software, cioè tentare di immergere l’utente attraverso il coinvolgimento intellettuale ed emotivo, cioè rappresentare dei mondi sintetici che potessero coinvolgere l’utente, attraverso una sorta di processo proiettivo, e non tentando di ricreare degli input sensoriali che convincessero in qualche maniera che il mondo costruito fosse reale. Nell’approccio software lo schermo diventa una finestra attraverso la quale osservare un universo alternativo, fantascientifico o altro, ciò che più interessa è il fatto che: 5 6 Cfr. M. Gerosa & H. Pfeffer, Mondi Virtuali, Castelvecchi, Roma, 2006. E. Castronova, Universi sintetici, Mondadori, Milano, 2007, p.14. 229 Dall’Utopia all’Eterotopia nel momento in cui esordisce online e inizia ad accogliere visitatori, un mondo sintetico comincia ad ospitare normali rapporti umani. Per quanto fantastico questo mondo possa essere, e per quanto i suoi abitanti possano essere rappresentati come gangster, draghi o torte alla panna, è e sarà sempre un luogo popolato da normali esseri umani, con le loro normali abitudini di interazione. L’ambiente fisico è modellato artificialmente e può assumere la forma che vogliamo, ma l’ambiente sociale che affiora al suo interno non è diverso da qualsiasi altro ambiente sociale umano.7 Una realtà sociale alquanto originale, ma di sicuro interesse sociologico, pensiamo all’attenzione riservata dagli utenti alla creazione e modellamento del proprio Avatar, l’interfaccia elettronica che ci permette di interagire con il mondo programmato dal computer, e di cui ci occuperemo approfonditamente in questo capitolo, ma soprattutto pensiamo allo strutturarsi delle relazioni sociali e al mantenimento di quella realtà sintetica, che più che essere alternativa al mondo reale, sembra un nuovo livello di questa, una continuazione della realtà con altri mezzi, elemento che può anche spiegare come mai in questo livello di virtualità sembra mancare quella connotazione utopica, che invece era centrale nell’approccio hardware della Realtà virtuale. Il mondo reale sembra colonizzare quello sintetico, pensiamo alle istituzioni quali aziende, atenei, riviste, ospedali che cercano di sfruttare le potenzialità offerte da questo strumento, così come altrettanto importante è il sottolineare una sorta di controesodo, gli avatar che finiscono per rappresentare noi stessi nella realtà tradizionalmente intesa. Ciò non ci dovrebbe stupire in fondo da un punto di vista fenomenologico il mondo è frutto di una continua costruzione da parte degli attori, o meglio è la conseguenza di una interazione dialettica tra individuo e società ma andando oltre, non si può parlare di realtà intesa in senso oggettivo, è più opportuno 7 Ivi, p.10 230 Dall’Utopia all’Eterotopia considerare una serie di realtà multiple.8 In più, secondo il pensiero di Schutz9 poiché i significati attribuiti alla vita quotidiana si vengono a modificare da un contesto socio-culturale all’altro, non soltanto è possibile riconoscere la pluralità dei mondi sociali, ma anche osservare come le diverse interpretazioni della realtà rappresentino un principio attivo in tutti i momenti delle nostre vite individuali. Ognuno di noi può quindi osservare la realtà da vari punti di vista, definiti anche in base agli specifici interessi di un momento e a tal proposito Schutz, rielaborando la definizione di sottouniversi proposta da James, conia l’espressione province di significato. Ecco quindi che in base a tale prospettiva, i mondi sintetici potrebbero essere considerati una nuova provincia di significato, dove tra noi e gli oggetti presenti in questo mondo si viene a creare una relazione stabile e difficilmente contraddetta, almeno da chi condivide la visione e la percezione di quell’universo persistente.10 Le province di significato di cui ci parla Schutz sono anche finite, e la finitezza comporta che tra le varie province non vi siano contatti e scambi. Per comprende pienamente i fenomeni più innovativi introdotti da un mondo sintetico è stato quindi necessario superare questa problematica spostando l’attenzione dall’idea di provincia finita di significato a quella di frame così come vien elaborata da Erving Goffman, ovvero i principi organizzativi o anche materiali cognitivi, attraverso cui gli individui riescono a dare significato all’azione sociale, agli eventi e al mondo reale, dove però il termine “reale”viene dallo studioso inteso come ciò che l’individuo considera tale.11 Le cornici di significato utili per inquadrare l’esperienza, sono mutevoli e si legano alla definizione che in un dato momento Cfr. P.Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1997. Cfr. A. Schutz, La fenomenologia del mondo sociale, Il Mulino, Bologna, 1974. e Saggi Sociologici, (a cura di) A. Izzo, UTET, Torino, 1979. 10 Cfr. S. Caldieri, Spazi sintetici. Verso una sociologia dei mondi digitali, Liguori ed., Napoli, 2011. 11 Cfr. E. Goffman, Frame analysis, Armando, Roma, 2001. 8 9 231 Dall’Utopia all’Eterotopia l’individuo ha di realtà, diventa quindi interessante per lo studioso comprendere in che modo le esperienze vengono organizzate cognitivamente, e soprattutto il modo attraverso cui si passa da un frame all’altro e in cui le varie realtà si sovrappongono. È proprio la possibilità di questa oscillazione tra i frame, che permette di spiegare e comprendere l’esperienza dei mondi sintetici, ciò che si struttura è una nuova cornice che inquadra e definisce una realtà virtuale che per molti aspetti si sovrappone, se pur parzialmente, con la realtà off-line. Inquadrato sociologicamente il campo di indagine resta da esplicitare il tentativo di evidenziare attraverso interviste in profondità e una sorta di esperienza sul campo all’interno di diversi di questi mondi virtuali quali siano le connotazioni utopiche, eterotopiche in questo caso, se è reale quella che a me sembra una perdita di immaginario utopico all’interno di questi universi e un mero appiattirsi di questi sull’ideologia della società dominante, basata sul mercato, o comunque una incapacità di elaborazione di quei possibili laterali che sono la base dell’utopia, ma anche dell’immaginazione sociale nel suo complesso. Quest’analisi verrà portata avanti studiando l’evoluzione e lo sviluppo dei social virtual world e di altri mondi sintetici, l’analisi dell’importanza dell’Avatar all’interno di essi e tentando di dare una spiegazione su quella perdita di immaginario utopico a cui prima si accennava. 4.1 Dalla Realtà Virtuale ai MMOs Il nostro viaggio all’interno dei mondi sintetici per analizzarne i possibili connotati utopici e in caso di riscontro positivo tentare di delinearne i contorni e le caratteristiche non può non partire da una sorta di genealogia di questo tipo di universo sintetico. In maniera superficiale abbiamo tentato di farlo nell’introduzione a questo 232 Dall’Utopia all’Eterotopia capitolo, quando abbiamo tracciano una parentela, ma non una diretta discendenza tra la realtà virtuale e i MMOs12, ora questa genealogia è necessaria poiché determina in maniera decisiva la scomparsa di immaginario utopico all’interno dei mondi sintetici. Scomparso dovuta in massima parte alla natura commerciale di questi universi, natura commerciale estranea alle ricerche sulla realtà virtuale portata avanti in esclusiva dai laboratori di ricerca delle università. Per comprendere al meglio tale fondamentale differenza è il caso di sviscerarla, innanzi tutto possiamo affermare con una certa sicurezza che sussistono tre motivi principali di differenziazione13: 1. La versione ludica della RV si focalizza sulle comunità, non sugli individui. 2. Come accennato in precedenza la versione ludica della RV si focalizza sul software, non sull’hardware. 3. La versione ludica della RV è alimentata dal mercato commerciale, non promossa dai laboratori di ricerca. Per comprendere al meglio queste differenze torniamo a delineare velocemente le caratteristiche della versione che possiamo definire classica della realtà virtuale. A partire dagli anni ’50 e ’60 alcuni visionari scienziati iniziarono ad immaginare che i computer potessero essere in grado di trasmettere sensazioni che ai destinatari sarebbero apparse reali. Essendo generate da computer queste sensazioni non sarebbero state “realmente reali”, ma solo “virtualmente reali”. Con l’evoluzione della tecnologia informatica questi scienziati iniziarono a studiare come creare un ambiente MMOs acronimo di Massive Multiplayer Online è la definizione più ampia possibile per descrivere i mondi sintetici. 13 Cfr. E. Castronova, Universi sintetici, Mondadori, Milano, 2007, p. 343. 12 233 Dall’Utopia all’Eterotopia artificiale che ingannasse l’utente della sua reale essenza, portandolo a credere che il mondo generato dal computer fosse in qualche modo reale. Servirono decenni di ricerca e notevoli investimenti per definire dei dispositivi in grado di dare l’impressione di essere immersi in un mondo sintetico, alla fine emerse una visione standardizzata della RV: una singola persona all’interno di una sala speciale, con indosso un grande elmetto, braccia e gambe collegate a un dispositivo mobile. Nonostante la scomodità del device e di tutti quei cavi che circondavano l’utente tale paradigma di realtà virtuale ebbe successo in quanto rese possibile sostituire quasi completamente gli input sensoriali esterni del soggetto con quelli generati da un computer. Certo forse per le cifre spese i risultati furono al quanto modesti, ma durante gli anni ’90, mentre il fenomeno della dot.com stava per iniziare, tecnologi, scrittori, esperti e visionari sembravano essere convinti che la RV fosse la più straordinaria delle tecnologie, visione che può essere riassunta nelle parole di Howard Rheingold, forse lo studioso che ha reso così celebre la RV attraverso il suo classico La realtà virtuale 14 : All’università del North Carolina, ebbi un’esperienza di conversione simile a quella che aveva accumunato molti pionieri del personal computer negli anni ’60 e ’70, una visione irresistibile del futuro. Ma stavolta l’impulso creativo aveva una punta di sgomento. 15 Lo sgomento dovuto alla possibilità di entrare all’interno del computer non è l’elemento principale, bisogna sottolineare il sogno per cui la RV avrebbe completamente cambiato la realtà e la società in connessione con l’altra tecnologia che stava emergendo, la rete. Tutto questo palesemente non è avvenuto e tale paradigma di RV è sfumato rapidamente alla fine del millennio, sicuramente per i costi 14 15 H. Rheingold, La realtà virtuale, Baskerville, Bologna, 1993. Ivi, p. 12. 234 Dall’Utopia all’Eterotopia eccessivi delle attrezzature necessarie, quali casco 3d e data glove, e soprattutto per l’impossibilità di rendere questi device disponibili ad una grande quantità di persone. In realtà la ricerca aveva delle falle piuttosto evidenti sin dalla sua elaborazione, considerando il fatto che l’obiettivo consisteva nell’ingannare qualcuno inducendolo a credere di essere “immerso” in un mondo generato dal computer e che quel mondo fosse reale, sembra piuttosto fantasioso il poter ritenere possibile che una persona potesse sentirsi realmente immerso in qualcosa con quel pesante elmetto sulla testa e quei cavi che lo legavano in maniera ineludibile alla spazio del laboratorio di ricerca. Non penso che ci sia stato nessuno che abbia mai potuto veramente credere che le immagini proiettate fossero di una natura diversa da quella di immagine di sintesi. La sospensione dell’incredulità di Coleridgiana memoria è di sicuro un’abitudine, pensiamo al cinema o alla letteratura, spesso una scelta cosciente, ma difficilmente questo può avvenire quando un ricercatore tenta di sostituire gli stimoli naturali con input del computer. Questo era il limite ontologico della versione classica della RV, limiti che vennero capiti e reinterpretati invece dall’industria dei videogiochi. Il nodo principale non era avere dei computer sempre più potenti per ingannare sempre meglio gli utenti, ma avere degli utenti che desiderassero essere ingannati sulla natura dei mondi sintetici, la RV non ha fare con l’occhio, ma con l’emozione, ha insomma una dimensione sociale che i ricercatori non avevano compreso, elemento che comprese invece l’industria del videogioco, il punto fondamentale era infatti la dimensione ludica: il gioco in se. Una prospettiva ludica infatti concentra ogni risorsa e ricerca sulla soggettività e il benessere dell’utente, insiste sull’utilizzabilità immediata, si giova dell’accesso allargato e dell’utenza multipla per essere in grado di generare una più forte e spontanea sospensione dell’incredulità, senza la quale un autentico coinvolgimento non può avvenire. Tutto questo non avvenne nei laboratori di ricerca, ma in piccole aziende di videogiochi come quella che in Texas a Austin diede vita a Ultima Online nel 1997, il primo vero mondo sintetico in 235 Dall’Utopia all’Eterotopia 3d, mondo di diretta derivazione dai MUD (Multi-User Dangeon), cioè un mondo virtuale completamente testuale non grafico di diretta discendenza dai giochi di ruolo off-line come Dungeons and Dragons. L’evoluzione dai Mud fino ai più recenti MMOs o MMORPG16 la delineeremo nel prossimo paragrafo, ora quello che ci interessa è sottolineare come furono i giocatori di questo tipo di giochi e non i ricercatori a fare le prime scoperte critiche che condussero all’immersione di massa negli spazi di RV alla quale assistiamo in questo periodo. Le scoperte che permisero l’implementazione della realtà virtuale nei videogiochi non riguardarono il miglioramento dei dispositivi sensoriali o dell’interfaccia utente, ma piccoli perfezionamenti nell’esperienza del gioco: grafica più fluida, reti più veloci, storie più interessanti, AI più raffinate (per AI si intendono quei personaggi diretti dal programma del gioco e non dall’utente) e un migliore stile artistico, dove migliore non significa un realismo maggiore. I videogiochi sono ora la frontiera della realtà virtuale e la sua espansione dipende dalla richiesta del mercato, per ora la RV ha preso la forma, a tutti gli effetti, di un puro “mondo di gioco” nel quale le persone partecipano e si divertono insieme. Il fattore gioco è l’elemento che differenzia questo nuovo paradigma di realtà virtuale da quello del paradigma classico della RV del campo dei laboratori di ricerca, i videogiochi infatti, contano su un numero elevato di giocatori, alcuni mondi sintetici vantano decine di milioni di utenti, questa condivisione, questo senso di comunità è determinate per creare il senso di realtà che la RV insegue: la comunità non genera l’illusione di realtà, essa conferma che una realtà è concretamente in essere. In fondo come Berger e Luckmann ci insegnano la realtà è una costruzione sociale e quindi è molto più semplice percepire come reale una fenomeno che è convissuto in maniera reale da moltissime persone invece che sospendere la 16 MMORPG acronimo di Massive Multiplayer Online Role-Playing Game 236 Dall’Utopia all’Eterotopia propria incredulità all’interno di sistemi quali un caschetto 3D e un data glove, in più l’essenza di una RV non è ciò che si vede, ma ciò che si fa, quindi deriva dalle interazioni con gli altri giocatori e con la storia che si può creare all’interno di questi mondi sintetici. Questo, riprendendo i tre punti che avevamo elencato in precedenza, spiega perché la RV ludica è basata sulla comunità e non sul singolo individuo, perché sia più importante occuparsi del software piuttosto che dell’hardware come il mercato del videogioco ha capito e saputo sfruttare, un approccio sempre più apprezzato e desiderato visto l’espansione enorme del mercato dei videogiochi e dei mondi virtuali. 4.2 Dai MUD ai Social Virtual World Dopo aver esplicitato la discendenza dei MMOs dalla RV e aver spiegato la biforcazione tra il paradigma della RV dei laboratori di ricerca e quello invece specifico del settore dei videogame è utile specificare anche la discendenza dei social virtual world e dei MMORPG da alcuni fenomeni dei primi anni in cui si sviluppò la Rete. Ebbene possiamo far discendere i primi dalle bacheche elettroniche e dai Bulletins Board e dalle comunità elettroniche come il The Well in quanto fondate sulla socialità, sono fenomeni basati sulle relazioni interpersonali, e il loro successo è legato nel creare e renderle più piacevole, interessanti, coinvolgenti e appassionanti possibili. I social virtual world potrebbero essere addirittura definiti come la rappresentazione in grafica 3D delle comunità on-line della metà degli anni novanta. I MMORPG, dal canto loro, possono, invece, essere fatti risalire ai primi giochi da tavolo e alle loro prime rappresentazioni informatiche, all’inizio naturalmente solo in via testuale; stiamo parlando dei MUD (MultiUser Dangeon), il primo dei quali venne sviluppato verso la fine degli anni Settanta esattamente in concomitanza con l’apparire delle 237 Dall’Utopia all’Eterotopia prime bacheche elettroniche, Rheingold definiva questo tipo di giochi l’altra faccia della cultura del ciberspazio, dove la magia è reale e l’identità è fluida.17 I MUD rappresentano dei mondi digitali in cui, attraverso un’interfaccia testuale, ci si può spostare, interagire con altri utenti, creare oggetti, sono la discendenza diretta dei giochi di ruolo da tavola di cui il più famoso è sicuramente Dungeons & Dragons, di cui tra l’altro il Mud deve la sua terza parola, dungeon; sono tra l’altro costruiti per la maggior parte sul mondo fantasy generato dalla mente di J.R.R. Tolkien. I MUD non sono altro che una informatizzazione dei giochi di ruolo o se vogliamo essere più poetici, di tutti quei mondi immaginari che da sempre l’uomo crea e in cui si immerge, pensiamo ai mondi creati dalla letteratura, mondi fantastici in cui era facile perdersi, sospendendo la propria incredulità.18 I Mud e poi i suoi discendenti cioè i MMORPG e simili non sono altro che rimediazioni e virtualizzazioni di quei mondi immaginari da cui l’uomo è sempre stato così affascinato. Tramite le moderne tecnologie si determina un passo avanti rispetto a quella Credenza Secondaria che ci viene descritta da J.R.R. Tolkien, grande ideatore di Mondi secondari, spazi dotati di una propria coerenza interna e dove veniva rispettato con estrema attenzione il sistema di corrispondenze interno, ovvero il rapporto tra realtà secondaria e sua rappresentazione; basti pensare a quanta accuratezza l’autore riservò alla realizzazione di mappe per rendere visibile il suo mondo immaginario: Tolkien non si limita a scrivere L'Hobbit (1934) o Il Signore degli Anelli (1954-55) ma costruisce un modello e un sistema di credenze cui il lettore viene invitato ad aderire. C'è qualcosa di più della "volontaria sospensione di incredulità" che consente al H. Rheingold, Op. cit., p. 170. Cfr. S. T. Coleridge, Biographia Literaria, www.english.upenn.edu/~mgamer/Etexts/biographia.html 17 18 238 Dall’Utopia all’Eterotopia lettore di interpretare un testo e di stare al gioco facendosi guidare convenzionalmente dall'autore. Con Tolkien, l'autore diventa un "secondo creatore" che costruisce un linguaggio esattamente come quello della fisica e della matematica; attraverso questo linguaggio disegna dei modelli che sono veri fino a quando possiamo credere nel linguaggio che ci ha permesso di costruirli [...] Tolkien non racconta soltanto una storia ma costruisce il mondo, i personaggi, i linguaggi, le storie che l'hanno generata. In questo modo egli compie un'operazione di "virtualizzazione della narrazione" che permette al lettore di entrare nella storia, di fornire le proprie risposte e, sebbene solo potenzialmente, di compiere le proprie scelte. La sua non è una operazione di sospensione di incredulità ma una operazione di costruzione di una "credenza secondaria".19 Grazie ai computer e alla rete, i costruttori di mondi hanno potuto non solo inventare ma condividere le proprio immagini con un crescente numero di persone, soprattutto hanno avuto la possibilità di esplorare liberamente questi ambienti. Abitando questi mondi immaginari gli utenti possono agire su questi influenzandoli e modellandoli attraverso le proprie azioni e le relazioni stabilite con altri personaggi. Questi nuovi ambienti non costituiscono semplicemente degli spazi dove giocare, ma ambiti all’interno dei quali si costruisce una propria cultura, società reali che evolvono secondo le regole vigenti. La voglia di simulare situazioni vicine alla realtà in ambito ludico è un’attività piuttosto antica, basti pensare che il primo gioco da tavolo in cui si rappresentava un giocatore attraverso una pedina – un rudimentale avatar – fu il Gioco Reale di Ur, datato come antecedente il 2600 a.c. Con i più moderni giochi da tavolo si inizia ad attribuire al giocatore ed alla sua rappresentazione: L. Giuliano, I padroni della menzogna. Il gioco delle identità e dei mondi virtuali, Meltemi, Roma, 1997, pp. 114-117. 19 239 Dall’Utopia all’Eterotopia il gioco da tavolo rappresenta la prima tappa della metafora della realizzazione personale, non solo perché si assiste alla personificazione del giocatore, ma anche e soprattutto perché il personaggio progredisce e acquisisce esperienza a contatto con l’ambiente in cui evolve.20 Si assiste quindi ad un processo di identificazione tra giocatore e avatar, dando vita a ciò che Caillois definì mimicry, fenomeno tramite il quale un giocatore assume per il tempo del gioco un’altra identità21, reso ancora più forte dalla necessità che l’avatar aderisca ad un sistema di valori definito nello spazio ludico. Questo meccanismo di proiezione rappresenta la base di ogni gioco di ruolo, come ben dimostra Dangeons & Dragons (D&D) creato da Gary Gygax e Dave Arneson nel 1973, e dei tantissimi giochi da tavolo e di videogiochi che a lui si sono ispirati. D&D, infatti, rappresenta una tappa fondamentale nel nostro discorso, poiché non solo ebbe una grande influenza sulla nascente cultura informatica, ma aveva una caratteristica che lo trasformò nel format dei giochi di ruolo: piuttosto che controllare eserciti dall’alto, i partecipanti scelgono di “manovrare” personaggi individuali creati in base ad una lista di razze e classi [...]. Riunendosi con gli altri compagni di gioco si può esplorare un mondo neomedievale pieno di labirinti sotterranei e catacombe, e senza nessun ulteriore obiettivo, cercare il tesoro o le pergamene magiche.22 Nonostante fosse totalmente immaginario, il gioco ispirato alle storie di Tolkien, rappresentava quindi un mondo dotato di un dettagliato sistema di regole, concreto, sperimentabile e manipolabile dal giocatore attraverso il proprio avatar, ecco perché M. Gerosa, A. Pfeffer, Mondi virtuali, Castelvecchi, Roma, 2006, p. 52. R. Callois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 2000. 22 E. Davis, Techgnosis, Ipermedium libri, Napoli, 2001, pp. 218-219. 20 21Cfr. 240 Dall’Utopia all’Eterotopia si può sostenere che Gygax e Arneson non soltanto plasmarono uno spazio sul modello della Terra di Mezzo, ma avevano costruito gli strumenti per altri “sottocreatori”, strumenti in grado di costruire regni ultraterreni che trasformavano i giocatori in partecipanti.23 Nello stesso periodo in cui si diffondevano i giochi di ruolo l’informatica faceva registrare interessanti progressi; nel 1973 Arpanet contava ben 35 macchine tra loro collegate che permettevano ai ricercatori americani di comunicare tra loro e questo condusse anche la creazione dei primissimi giochi on-line. In quegli stessi anni un ricercatore che lavorava allo Stanford Artificial Intelligenece Lab, Don Woods, per puro caso trovò un rudimentale gioco d’avventura realizzato da Will Crowther in uno dei primi linguaggi di programmazione, il Fortran, per il computer PDP-10; espandendo quel programma, Woods, ispirandosi all’ambientazione di D&D, realizzò la prima avventura testuale della storia dei giochi di ruolo on-line, Adventure (chiamato anche Colossal Cave), all’interno della quale i giocatori vagavano per gallerie sotterranee descritte da testi su uno schermo scuro e, digitando dei comandi, ottenevano delle risposte dal programma per poi proseguire con la propria avventura, passando da una “stanza” all’altra del mondo immaginario.24 Adventure rappresentò la vera e propria matrice su cui sarebbero stati costruiti i successivi giochi on-line e, allo stesso tempo, Woods dimostrò come il computer unito alla rete potesse essere considerato come uno strumento in grado di permettere ai costruttori di mondi di vedere le proprie creazioni animarsi, trasformandosi in spazi abitabili. Questa linea di pensiero, combinandosi ai progressi tecnologici che l’informatica faceva registrare, portò nel 1978 due studenti dell’Università dell’Essex, Roy Trubshaw e Richard Burtle, ad elaborare un sistema di gioco in Ibidem. Per approfondimenti cfr. A history of ′Adventure′, The Crowther and Woods 'Colossal CaveAdventure' game. Here's where it all began..., http://www.rickadams.org/adventure/a_history.html 23 24 241 Dall’Utopia all’Eterotopia rete che dava la possibilità a persone tra loro lontane di poter occupare, con l’ausilio del proprio computer, lo stesso database nello stesso momento: nasce in questo modo il Multi-User Dungeon, il MUD.25 Come per l’antenato Adventure, anche in questo caso il giocatore si ritrovava di fronte ad uno schermo che diventava la porta su un mondo fantastico descritto attraverso le parole, in questo caso però i giocatori potevano incontrarsi tramite i proprio personaggi e rapportarsi l’un l’altro nel modo ritenuto più coerente rispetto alla situazione: Trubshaw e Bartle portarono on line i giochi di ruolo, dando vita al doppelgänger del cyberspazio denominato alla fine avatar: doppio digitale che incarna il punto di vista dell’utente e che lo rappresenta anche di fronte agli altri abitatori degli ambienti digitali.26 Questa nuova tipologia di gioco on-line ebbe un notevole successo, tanto che numerosi altri MUD vennero realizzati negli anni successivi, alcuni dei quali riprendevano l’ambientazione di D&D, altri invece si proiettarono verso altre tipologie di mondi, ecco perché l’acronimo MUD da Multi-User Dangeon passò ad indicare un più generico Multi-User Domain, in modo da includere anche giochi dallo scenario differente. Ben presto le possibilità offerte ai giocatori aumentarono, fino al punto di fornir loro la possibilità di partecipare direttamente alla costruzione degli spazi del MUD, elaborando oggetti, immagini, descrizioni delle “stanze”, che sarebbero restate a disposizione di tutti gli abitanti. L’elemento che rivoluzionò il mondo dei MUD fu il loro diventare persistenti, esistevano a prescindere dalla presenza del giocatore ed Per approfondimenti Cfr. H. Rheingold, La realtà virtuale, Baskerville, Bologna, 1993, E. Davis, Techgnosis, Ipermedium libri, Napoli,2001, M. Gerosa, A. Pfeffer, Mondi Virtuali, Castelvecchi, Roma, 2006. 26 E. Davis, Op. cit., p. 229. 25 242 Dall’Utopia all’Eterotopia erano accessibili in qualsiasi momento. Inoltre i giocatori non erano più sottomessi ad una narrazione precostituita, ma ognuno poteva lasciare che la propria storia evolvesse, in pratica il giocatore costruiva una propria biografia nel mondo persistente on-line, ecco perché l’avatar, da questo momento in poi, non andrà confuso con un semplice personaggio, in quanto libero da una storia già esistente. Secondo Rheingold, i MUD rappresentavano dei laboratori attraverso cui poter studiare l’impatto delle comunità ma, allo stesso tempo, costituivano dei luoghi dove ricreare la propria identità, in cui poter comunicare in un modo più vicino alla conversazione reale, ma di questo parleremo in seguito. Ben presto i MUD attirarono l’attenzione di studiosi interessati non soltanto a comprendere la vita all’interno di questi spazi, ma anche ad individuare possibili utilizzi sperimentali. Iniziarono a nascere i più democratici MUD sociali, come appunto i MOO: spazi meno strutturati in cui non predomina il senso dell’avventura quanto invece la collaborazione tra utenti, che insieme partecipano al processo di costruzione della realtà. Uno dei più famosi MOOs sperimentali fu LambdaMOO, realizzato da Pavel Curtis agli inizi degli anni Novanta. Questo spazio prevedeva in origine un maniero, ma con il passare degli anni vennero aggiunte non soltanto migliaia di stanze, ma anche un considerevole numero di oggetti inventati dagli utenti stessi. Questo progetto ebbe talmente successo che intorno ad esso si venne a formare una comunità virtuale in cui ognuno poteva proporre dibattiti, conferenze accademiche e momenti di evasione, altro elemento interessante da sottolineare è la presenza all’interno di questo mondo di un sistema legislativo, una vera e propria costituzione democratica in cui i diritti dei cittadini venivano salvaguardati dalla Lambda Law, votata dagli stessi residenti. Se, come dice Monti, la «realtà virtuale è (semplificando) il nome che diamo ad ambienti artificiali costruiti col calcolatore, cioè ambienti che non hanno la consistenza materiale (come quelli fisici in cui viviamo normalmente) tuttavia vengono vissuti come reali. Infatti ci 243 Dall’Utopia all’Eterotopia possiamo entrare, li percorriamo, agiamo su di essi trasformandoli e dentro essi incontriamo persone con cui parliamo, lavoriamo, ci divertiamo. Insomma, pur essendo virtuali gli ambienti vengono percepiti come reali da chi vi entra»27, diventa chiaro come già a partire dai MUD, che al giorno d’oggi possono apparire rudimentali, si imponesse la loro percezione da parte dei residenti, come di spazi non meno concreti di quelli tradizionali, un’immagine che diventerà sempre più forte con l’introduzione della grafica, prima a due dimensioni poi a tre, che determinerà il passaggio dai MUD ai MMORPG. Per ricostruire le tappe principali di quest’ultima generazione di mondi sintetici dobbiamo partire dal 1985, anno in cui la grafica fece appunto la sua comparsa grazie al Progetto Habitat. In quell’anno infatti Randall Farmer e Chip Morningstar, incaricati dalla Lucasfilm Games di progettare una comunità virtuale, sostituirono alla modalità testuale un’interfaccia grafica 2D in stile fumettistico, in Habitat si inserisce quindi la metafora spaziale. Un grande numero di utenti poteva collegarsi tramite il proprio computer e interagire con altri tramite il proprio avatar, che per la prima volta recupera una propria fisicità. Oltre ad interagire con altri utenti, l’avatar poteva manipolare oggetti, e la disposizione di ogni cosa in Habitat veniva gestita da potenti computer secondo quello che Rheingold definì: il modello di mondo. In questo modo veniva garantita la persistenza ad un livello più elevato rispetto ai MUD, in quanto visiva: se ad esempio un avatar spostava un oggetto, il computer centrale avrebbe determinato la nuova posizione nel modello di mondo di tutti i computer degli utenti. Si garantiva in questo modo un’elevata coerenza interna del mondo, sia in termini spaziali che in termini temporali. L’altra idea innovativa alla base di Habitat era rappresentata dal fatto che questo mondo dovesse essere in grado di adeguarsi alle esigenze degli utenti, da qui la continua pianificazione degli L. Monti, Virtuale è Meglio. Cronache dal prossimo mondo, Muzzio Editore, Padova 1993, p. 12. 27 244 Dall’Utopia all’Eterotopia ambienti, ma ciò allo stesso tempo fu causa del fallimento di questo universo, vista l’enorme difficoltà di realizzazione. Le difficoltà tecniche nel corso degli anni vennero superate da altri programmatori, tanto che i MMORPG si affermano e si diffondono tra un numero di utenti sempre in crescita. Oggi i mondi da visitare, come vedremo, superano i quattrocento, ciascuno dei quali presenta proprie caratteristiche: si va dai mondi puramente fantasy ai social virtual world. Un interessante esempio di quest’ultimo tipo di mondi è There, che può essere considerato l’antenato di Second Life, realizzato da una omonima società californiana che tra i propri fondatori conta ex membri di eBay, Electronic Arts, Cisco, Tickets.com e CBS Internet. In questo mondo sintetico gli utenti possono conversare, fare sport, ballare, guadagnare e soprattutto fare acquisti spendendo o la moneta locale (il Theredollaro), guadagnata in vari modi, per comprare accessori o vestiti o pagare anche con la carta di credito facendo quindi acquisti con moneta “reale”. La consistenza di questo tipo di mondo può risultare ancora più chiara se consideriamo un episodio in particolare, ovvero la protesta contro alcune decisioni prese dai programmatori portata avanti dagli abitanti di There che ispirandosi ad una vicenda storica28, decisero di accumulare delle casse di tè da loro create ai piedi dei più importanti monumenti degli Stati Uniti. Eventi questi che se un tempo potevano essere considerati sensazionali, oggi sono piuttosto comuni anche nella più moderna Second Life, e rappresentano un primo segnale evidente di quanto si stia realizzando l’affievolimento di un confine, quello tra reale e virtuale, che mostra sempre più la sua porosità, soprattutto in quelli che abbiamo definito social virtual world, che come abbiamo visto con Castronova sono ben lungi da esser virtuali. 28 Ci si riferisce al Boston Tea Party del 1773. 245 Dall’Utopia all’Eterotopia 4.3 Caratteristiche dei Mondi Sintetici. Dopo questi due excursus storici, uno sull’eredità e sulle diversità che intercorrono tra il vecchio paradigma della realtà virtuale ed il nuovo paradigma, l’altro sulla nascita dei mondi virtuali, dobbiamo cimentarci nell’analizzare le caratteristiche generali e condivise di questi mondi sintetici, nell’introduzione abbiamo utilizzato la definizione che ne dà Edward Castronova, ma credo che sia necessario ampliarla e sottolineare le caratteristiche peculiari di questi nuovi mondi sintetici. In primo luogo bisogna fare una distinzione preliminare tra MMORPG o Fantasy game e social virtual world, anche se ormai dovrebbe esser chiara, i MMORPG sono quei mondi virtuali di diretta derivazione dai giochi di ruolo quali Dungeons and Dragons, di cui sicuramente il più famoso è World of Warcraft, è sono dei veri e propri giochi virtuali on-line con tutte le caratteristiche dei videogiochi classici a cui si aggiungono però la dimensione on-line e la possibilità di condividere il gioco con altri utenti in linea. I social virtual world di cui sicuramente il più famoso è Second Life, sono invece di natura alquanto diversa infatti in questo non ci sono elementi classici dei videogame come le missioni, qui gli obiettivi, e le storie non sono già definite, non esistono finché gli utenti non si mobilitano per costruirle, è un vero e proprio mondo, anzi il mondo deve essere pressoché costruito dagli utenti che hanno la capacità di crea case, oggetti e quant’altro. Il fine ultimo dei mondi sintetici come Second Life è in fondo la socialità e la socializzazione, il chattare e il comunicare con gli altri utenti senza avere degli obiettivi specifici. Dopo aver tracciato questa fondamentale linea di demarcazione tra i mondi sintetici bisogna anche sottolineare che si tratta di un confine labile, infatti è possibile riscontrare caratteristiche di un social virtual wolrd all’interno di un MMORPG o viceversa, riguardo ciò pensiamo al fatto che in alcune SIMS di Second Life si svolgono effettivamente dei giochi di ruolo e all’interno di MMORPG sono presenti caratteristiche o tipi di 246 Dall’Utopia all’Eterotopia relazione utenti peculiari dei social virtual world alla Second Life. Nonostante queste distinzioni che potremmo definire di genere alcune caratteristiche sono comuni a tutti i mondi sintetici e per comodità le abbiamo riassunte nella tabella seguente: • Spazio condiviso: il mondo permette ad una pluralità di utenti di partecipare contemporaneamente • Interfaccia grafica: il mondo è presentato graficamente mediante una ricostruzione più o meno tridimensionale • Immediatezza: l’interazione avviene in tempo reale • Interattività: il mondo permette agli utenti di alterare, sviluppare, costruire o inviare contenuto customizzabile • Persistenza: il mondo continua ad esistere indipendentemente dalla presenza di utenti connessi • Socializzazione/comunità: il mondo permette e incoraggia la formazione di gruppi sociali in-world • Avatarizzazione: l’interazione è mediata da una versione digitale di sé Queste sono le caratteristiche immancabili di qualsiasi mondo sintetico o virtuale andando ad analizzare nel dettaglio per comprendere meglio, innanzi tutto c’è la necessità di aver un interfaccia grafica che rappresenti il mondo, in tre dimensioni o meno, nel quale gli utenti possano giocare, vivere ed avere relazioni sociali e questo è abbastanza chiaro; c’è il bisogno che il programma crei un vero e proprio mondo sintetico dal punto di vista della prospettiva spaziale, o almeno della sua percezione; altro elemento chiave per questa definizione del mondo che permette un’illusione di maggiore realtà consiste nel fatto che questo mondo sia condiviso 247 Dall’Utopia all’Eterotopia con altri utenti giocatori contemporaneamente, su questa condivisione si innestano altre caratteristiche come quella dell’immediatezza e della persistenza. Infatti non avrebbe alcun senso che il mondo si basi su un mondo condiviso contemporaneamente senza che le interazioni tra gli utenti e soprattutto quelle tra utente e mondo virtuale non abbiano luogo nell’immediatezza, questo significa che ogni azione ha una conseguenza immediata nel mondo sintetico, così come le relazioni tra utenti, come ad esempio le chat che sono pressoché presenti in ogni mondo virtuale. La persistenza è un’altra caratteristica fondamentale, è la capacità del mondo di rimanere esistente, quindi fuori dal controllo dell’utente, anche se l’utente è off-line, è un elemento che rende il mondo sintetico più solido, pensiamo alla dimensione temporale, se in un primo periodo i mondi sintetici non presentavano un tempo analogo a quello tradizionale quanto piuttosto un tempo immaginario, più adatto alla fuga dalla realtà, un tempo che rimandava al sogno di immortalità, i più recenti mondi on-line hanno integrato una dimensione temporale che scorre in parallelo a quella off-line. Il tempo sintetico vede l’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte ma, soprattutto, procede a prescindere dalla presenza del singolo avatar: qualsiasi cosa avvenga, continua ad evolvere, il tempo prosegue il suo cammino inesorabile.29 Un altro fattore chiave è quello dell’interattività, un’interattività che viene a definirsi su tre dimensioni diverse, delineate dalle relazioni tra utente e computer, utente e ambiente digitale e tra i vari utenti, in queste tre dimensioni l’interattività è d’obbligo per l’esistenza stessa di un mondo sintetico, poiché è ciò che crea la vita sociale di qualsiasi tipo di mondo sintetico, certo in alcuni casi questa interattività è definita dal mondo stesso, che ne detta le condizioni, ad esempio nei giochi di ruolo, ma soprattutto nei social virtual world questa interattività è la base necessaria per 29 M. Gerosa, A. Pfeffer, Op. cit., p. 95. 248 Dall’Utopia all’Eterotopia una qualsiasi tipo narrazione, se così la possiamo definire, narrazione che invece è dettata dall’esterno nei giochi di ruolo. Su questa base si innestano poi i processi di socializzazione e di costruzione di comunità all’interno dei mondi virtuali che rappresentano un’altra delle caratteristiche chiave dei mondi sintetici. Per quanto riguarda la socializzazione è in pratica il fine sociale dei social virtual world e rappresenta la sua condizione di vita, senza la quale quel tipo di mondo non ha senso di esistere, mentre nei giochi di ruolo di solito la socializzazione e la creazione di un senso di comunità è dovuta più alla natura e alla struttura del gioco, come obiettivi da raggiungere in gruppo, o alla strutturazione in gilde di World of Warcraft. Nei social virtual world invece la costruzione di comunità ha luogo non all’interno di una dimensione ludica ma attraverso le relazioni sociali che all’interno del mondo vengono a crearsi, in Second Life le comunità più famose sono quelle dei Fur e quella dei Gor, i primi caratterizzati da una fisionomia ibrida tra uomo e animale, i secondi per un abbigliamento simile a quello del medioevo e con determinate relazioni sociali stabilite ad esempio quelle tra padrone e schiavo. Naturalmente ultima, ma forse più importante caratteristica l’interazione all’interno dei mondi sintetici è possibile solo attraverso un’interfaccia grafica che rappresenta il nostro utente: l’Avatar, rappresentazione di noi stessi, di cui, per la notevole importanza parleremo in un paragrafo specifico tentando di mettere in evidenza le peculiari relazioni che intercorrono tra l’avatar e il suo utente e l’identità di quest’ultimo. Le più importanti caratteristiche naturalmente sono quelle che aumentano il realismo di questi ambienti, non è un caso che questi spazi vengano costruiti integrando al loro interno molte dimensioni tipiche della realtà tradizionalmente intesa, un espediente usato affinché, per quanto fantastici possano essere questi spazi, sia in qualche maniera sancita la loro esistenza. Per essere considerati dei luoghi, essi devono in un certo senso essere vicini alla percezione che si ha nella vita off-line, ecco perché, come abbiamo visto lo spazio è innanzitutto persistente. Quello che in questi mondi viene 249 Dall’Utopia all’Eterotopia completamente messa in discussione è l’opposizione tra reale e virtuale, infatti per molto tempo si sono considerati gli eventi dei mondi virtuali come irreali, partendo dal presupposto che la realtà dovesse coincidere con le “cose” tangibili e materiali, questa idea è penetrata anche in molti ambiti intellettuali che, colti dalla difficoltà di inserire questi fenomeni nella categoria della realtà o dell’irrealtà, hanno optato per la via più immediata da intraprendere: una semplificazione che ha determinato l’associazione di quanto accade nei mondi virtuali con il falso e l’illusorio. Una tale visione, oltre ad essere riduttiva, risulta anche poco utile come quadro interpretativo di tutti i fenomeni che, questi mondi, stanno facendo registrare. Se solo ci limitiamo ad un’analisi etimologica del termine virtuale, possiamo vedere come di effimero ed illusorio abbia ben poco, in quanto da una parte abbiamo la radice virtus, forza, e dall’altra abbiamo vir, ovvero uomo, da qui l’idea di virtuale come potenziale, possibile. Il virtuale dunque, come sottolineato anche dallo studioso Pierre Levy, lungi dall’opporsi al reale, rappresenta una diversa modalità dell’essere30, ecco il perché della sostituzione effettuata da molti studiosi, che accolgo anche nel mio lavoro, del termine virtuale con il termine sintetico. In realtà il fenomeno in sé è molto più complesso, per questo abbiamo fatto ricorso ai concetti di Schuzt di provincie finite di significato e di Berger e Luckmann di sfere diverse di realtà e quella di frame di Goffman. Tutto questo per mostrare come questi universi sintetici si collochino a metà strada tra ciò che possiamo definire reale e quello che definiamo comunemente virtuale e spesso siano presenti degli interscambi tra le due dimensioni. Questo come è possibile? Ebbene una spiegazione di come le relazioni all’interno di questi mondi siano del tutto reali e quindi facilitino poi la solidificazione e la percezione di realtà di questi mondi, è data dalla capacità immersive di questi universi 30 Cfr. P. Levy, 1996, P. Levy 1997. 250 Dall’Utopia all’Eterotopia sintetici, il processo basilare è infatti rappresentato dall’immersività. L’immersività è la sensazione di “esserci”, è il senso di appartenenza al mondo virtuale, maggiore è il senso di immersione maggiore risulterà la motivazione e il coinvolgimento degli utenti nell’ambiente digitale. Naturalmente questo concetto è mutuato da quello di Coleridge di “sospensione dell’incredulità”, ma mentre per quest’ultimo l’immedesimazione nel personaggio di un libro o in un attore del cinema o del teatro era dovuta al rispetto di alcune regole, accettate anche se ritenute fittizie, nei mondi sintetici accade qualcosa di alquanto diverso, essendo immersi in relazioni sociali reali, l’immedesimazione si sviluppa rispettando alcune regole accettate dagli utenti in quanto percepite come reali, questo perché all’interno del mondo sintetico il rispetto o meno di quelle regole ha conseguenze reali, da un certo punto di vista. Questo è in fondo la base dell’immersione e quindi della concretezza dei mondi sintetici, ci sono delle regole e queste regole sono vissute come reali, elemento che determina, insieme alla permanenza, la coerenza interna del mondo e quindi la sua solidità. In realtà alcune regole sono reali e completamente indipendenti dagli utenti come ad esempio un corretto utilizzo delle periferiche di gioco o il sistema di valutazione della performance dell’avatar, altre riguardano la gestione degli elementi dinamici nello spazio sintetico, la risposta dell’ambiente alle azioni dell’avatar, tutto quello che quindi non coinvolge la relazione tra abitanti, ma tra utente e mondo, ma queste vengono il più delle volte scoperte semplicemente agendo, così come nella vita off-line. Altre ancora invece sono regole che si sviluppano all’interno delle relazioni tra gli utenti, infatti poiché questi spazi non sono dei semplici videogiochi, e l’avatar non diventa una semplice protesi visiva delle nostre fantasie ma è vivo, come tale ha determinato l’insorgere, all’interno di queste realtà sintetiche, di una serie di modelli comportamentali ricorrenti, tendenti non solo a far evolvere le leggi ma a modificare quelle in uso. Nel momento in cui un programmatore inserisce una regola, essa genera una reazione da parte degli abitanti, e la loro volontà 251 Dall’Utopia all’Eterotopia collettiva può arrivare a determinare non solo il rifiuto o l’accettazione di una legge, ma anche una sua particolare attuazione, ad esempio la collettività può far in modo che dei vantaggi attribuiti ad alcuni residenti non vengano da questi goduti, come? Semplicemente con i meccanismi dell’esclusione o dell’etichettamento, ecco quindi che accanto alle regole ufficiali ne emergono di tacite, condivise dai membri di una collettività, che stabiliscono anche un meccanismo sanzionatorio per chi non si adegua. Un esempio molto calzante di questo fenomeno ci proviene da una descrizione di Castronova inerente ad un particolare ruolo all’interno dei MMORPG, il “guaritore”, le cui funzioni sono limitate dalla volontà collettiva degli altri avatar: Dato il ruolo a essi assegnato, questi personaggi possono accedere ad abilità che permettono di guarire gli altri utenti da diversi tipi di danno, avvelenamento e ferite. Ma è anche normale per la coditing authority assegnare a questi personaggi molte altre abilità per infliggere danno e ingaggiare un combattimento, per esempio. Tuttavia la volontà collettiva degli utenti può imporre a questi personaggi un numero più ridotto di abilità. Per quanto ho potuto osservare, non è inusuale per i guaritori essere letteralmente costretti a utilizzare solo le loro abilità di guarigione quando si trovano in gruppo con altri [...] Sebbene possano disporre di armi da fuoco o incantesimo con palle di fuoco non possono utilizzarli, a causa dell’infamia che questo provocherebbe. Nulla di ciò è presente nelle regole ufficiali del gioco. Si tratta di una convenzione sociale, un’istituzione.31 Lo studioso aggiunge poi un riferimento importante, che ancora una volta evidenzia lo stretto legame tra il virtuale e il reale, l’avatar è solo un altro ruolo nella vita di un individuo e in qualsiasi luogo, gli esseri umani, tendono ad aggiungere alle leggi formali un complesso sistema di leggi informali di eguale, se non maggiore, importanza. 31 E. Castronova, Universi sintetici, Mondadori, Milano, 2007, p. 121. 252 Dall’Utopia all’Eterotopia Tale elemento, ai fini della mia riflessione, è di estrema importanza proprio perché tali istituzioni nascendo spontaneamente non sono così lontane da quelle in cui ci imbattiamo nella nostra quotidianità. Pensiamo semplicemente agli studi di Harold Garfinkel sui metodi che le persone utilizzano per dare significato alle azioni quotidiane, affinché esse risultino scontate e prive di qualsivoglia problematicità che possa mettere in crisi la realtà stessa. Ogni rottura dello schema condiviso di comunicazione nelle nostre interazioni induce un complesso di reazioni che vanno dallo stupore alla rabbia, fino ad arrivare all’esclusione, da parte di un’intera collettività, del soggetto che viene percepito come un’anomalia.32 Il mondo sintetico acquisisce valore proprio tramite questa costruzione sociale della realtà virtuale, attraverso questo processo, che è un processo che implica sia l’immersione che l’interattività, la virtualità si trasforma in realtà e non è un caso che questo tipo di significazione abbia poi dei riscontri nel mondo reale, influenzando le persone reali. E’ naturale che in un ambiente così definito, realizzato attraverso l’interattività e i processi immersivi ci siano diversi tipi di influenza tra il reale e il sintetico, infatti spesso i gruppi all’interno dei mondi virtuali si tengono in contatto anche nel mondo off-line per parlare certo del gioco, ma anche di altri argomenti fuori dal quel contesto, spesso si organizzano raduni per incontrarsi, e spesso vengono eseguiti sorte di rituali, sia on-line che off-line, per definire le appartenenza di gruppo, insomma c’è una sorta si simbiosi e di dialettica tra queste due sfere di significato o per dirla alla Goffman di questi due frame33 che è interessante analizzare e che Matteo Bittanti ha definito terza vita: la terza vita non è la semplice somma delle precedenti: è la risultante dell’interazione tra le due. Un soggetto che sperimenta pratiche di terza vita interseca simultaneamente due piani di 32 33 Cfr. H. Garfinkel, La fiducia, Armando, Roma 2004. Cfr. E. Goffman, Frame Analysis, Armando, Roma, 2001. 253 Dall’Utopia all’Eterotopia realtà: quello analogico (prima vita) e quello digitale (seconda vita) [...] Non vi è nulla di irreale nelle prassi che si realizzano sullo schermo – come nella realtà, il soggetto fa ricorso a sistemi simbolici per interagire con gli altri. In entrambi i casi, questi sistemi sono arbitrari, convenzionali, relativi. Il senso non è intrinseco alla materia – atomica o digitale – ma è sempre un costrutto sociale.34 Per spiegare meglio il concetto di terza vita il concetto di frame35 di Goffman diviene fondamentale, poiché esplicita in che modo sia possibile immergersi e dare consistenza reale ai mondi sintetici. I frame per Erving Goffman sono i principi organizzativi attraverso cui gli individui riescono a dare significato all’azione sociale, agli eventi e al mondo reale, dove il termine “reale” viene dallo studioso inteso come ciò che l’individuo considera tale. I frame, infatti, permettono di inquadrare l’esperienza, prive però di rigidità, caratterizzandosi anzi per il fatto di essere mutevoli e di legarsi alla definizione che in un dato momento l’individuo ha di realtà; diventa quindi interessante per lo studioso comprendere in che modo le esperienze vengano organizzate cognitivamente, come si passa da un frame all’altro e inoltre il modo in cui le varie realtà si sovrappongono. Goffman sostiene che ogni individuo per riconoscere un particolare evento, ricorre a delle strutture interpretative primarie, tali strutture consentono anche di avere una chiave di lettura adeguata alle circostanze: il key è quell’insieme di convenzioni sulla base delle quali una data attività, già significativa in termini di una qualche struttura primaria, viene trasformata in qualcosa modellato su questa attività, ma visto dai partecipanti come qualcos’altro.36 È proprio la possibilità di questa oscillazione e sovrapposizione dei frame, che permette di spiegare l’esperienza dei mondi sintetici. Attraverso l’uso delle nuove tecnologie e tramite M. Bittanti, , nell’Introduzione a M. Gerosa, Second Life, Op. cit., pp. 14-15. Cfr. E. Goffman, Op. cit. 36 E. Goffman, Op. cit., p. 84. 34 35 254 Dall’Utopia all’Eterotopia lo schermo si definisce una nuova cornice che inquadra e permette la comprensione di una realtà sintetica che per molti aspetti si sovrappone, se pur parzialmente, con la realtà off-line. Il passaggio tra un frame all’altro avviene costantemente, vista la possibilità di essere presenti contemporaneamente su un piano e l’altro, di vivere in modo simultaneo qui e lì, per questo i mondi virtuali danno esperienza di realtà, poiché sono basati su strutture primarie sociali condivise, che permettono l’emergere di frame in base ai quali comprendere gli eventi e sospendere il dubbio, procedendo sicuri in una nuova quotidianità. I rapporti con la vita sono altresì importantissimi, in quanto per legittimare l’esistenza di un mondo sintetico è stato necessario costruire un contesto ben radicato nel reale, solo in questo modo si possono accettare anche gli elementi normalmente ritenuti assurdi, affinché l’intero mondo possa essere ritenuto coerente non dove essere completamente lontano dalla realtà ordinaria. Proprio per questo la definizione di terza vita di Bittanti non sembra per nulla fuori luogo. Se poi qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla porosità esistente tra i confini dei mondi sintetici e del mondo reale ebbene questi dovrebbero scomparire analizzando i dati dell’economia dei beni virtuali (esiste forse entità virtuale più reale dell’economia?), ebbene come mostreremo più dettagliatamente nel prossimo paragrafo, ci sono milioni di persone che spendono milioni di dollari ed euro reali per acquistare oggetti virtuali o soldi virtuali da utilizzare nei mondi sintetici, e ci sono milioni di persone che lavorano nei mondi sintetici per guadagnare dei soldi reali. Se neanche questo vi ha convinto della dialettica tra questi due universi ho paura che difficilmente riuscirete a coglierla finché non deciderete di entrare nell’universo dei mondi sintetici. 255 Dall’Utopia all’Eterotopia 4.4 Sviluppo dei Mondi Sintetici Per rendere meno virtuale l’analisi dell’universo di cui stiamo parlando forse è il caso di tornare alla buona e vecchia statistica. Da quando sono stati creati i primi videogame della storia Spacewar e Pong, all’inizio degli anni sessanta, l’industria dei videogame non ha praticamente mai smesso di crescere, sviluppo incredibile che si è acuito all’inizio degli anni novanta quando le prime console hanno fatto la comparsa nell’universo video ludico, da quel momento in poi la porzione di popolazione che passa il proprio tempo libero davanti una console o un video game ha avuto una ascesa vertiginosa consideriamo che secondo i dati della ESA (Entertainment Software Association) nel 72%37 delle case americane è presente una console o un device di intrattenimento videoludico, dato che in Italia si attesta al 45,5%38 secondo la AESVI (Associazone Editori Software Videoludica Italiana), un dato significativo, in media quasi nella metà delle case è presente un hardware con cui è possibile trascorrere del tempo con i videogame. Questo non ci dovrebbe ormai più stupire, poiché il settore dei videogame è diventato un complesso enorme e strutturato che coinvolge migliaia di operatori e lavoratori, secondo il miglior testo di analisi di quest’industria39, il lavoro del mediologo Dimitri Williams, sono tre le attività principali: lo sviluppo, la pubblicazione e la vendita. I programmatori creano il gioco, di solito in team, pensiamo che per i titoli più importanti sono coinvolti centinaia di lavoratori, suddivisi in molteplici aree che riguardano lo sviluppo del software, ci sono programmatori, grafici, tecnici dei suono, manager, e game designer. Quest’ultima una professionalità nuova che abbraccia il progetto nella sua interezza, dalla scrittura della sceneggiatura fino alla delineazione grafica del Dati disponibili on-line all’indirizzo http://www.theesa.com/facts/gameplayer.asp Dati disponibili on-line www.aesvi.it/cms/attach/editor/Rapporto_Annuale_2011.pdf 39 Cfr. D. Williams, “A structural analysis of market competition in the U.S. home video game industry” in International journal on Media Management 4(1), 2002, p.41-54. 37 38 256 Dall’Utopia all’Eterotopia mondo. Dopo di che l’editore pubblica il gioco e prova a venderlo. Agli albori dell’avventura dei videogame erano molti i Games development studios indipendenti, ora invece dominano le grandi aziende quali Electronic Art e Ubisoft, giusto per citare le più famose. La pubblicazione di un gioco prevede la sua diffusione sul più ampio numero di piattaforme possibili tra console, pc, smartphone, in pratica ovunque, fenomeno che gli operatori definiscono: “ubiquitous gaming”: cioè la possibilità di giocare sempre e ovunque. La vendita rimane prevalentemente al dettaglio, ma sta invadendo gli spazi, dai supermercati ai negozi super specializzati. Detto questo, il mercato dei videogame fattura 15 miliardi di dollari all’anno (quello americano)40, mentre in Europa intorno ai 12 miliardi di euro, in Italia si attesta nel 2011 a quasi un miliardo di euro, in flessione a causa della crisi economica, ma che comunque fa dell’Italia il quarto mercato europeo dietro Gran Bretagna (2.587 milioni), Germania (2.198) e Francia (2.009). Un mercato in flessione generale ma che negli Stati Uniti riesce ancora a superare il box-office di Hollywood, senza però pareggiare il mercato complessivo di Hollywood. Certo non sarà ancora Hollywood, ma riesce a raggiungere un’immensa varietà di persone, secondo i dati della ESA l’età media dei giocatori è di 37 anni, in Italia 28, il 29% è sopra i 50 anni, in più all’interno della categoria degli adulti giocatori la media di anni giocati con i videogame è di 13, ciò dimostra che una volta iniziato a giocare praticamente non si smette più, elemento confermato anche dal fatto che il 45% dei genitori americani gioca insieme ai figli. Altro dato interessante è la trasversalità di genere del fenomeno, infatti la percentuale di donne adulte giocatrici è sensibilmente più elevata, 37% del totale, rispetto ai ragazzi sotto i 18 anni che raggiungono solo il 13%. Questo dimostra che il fenomeno è di una portata tale che il suo studio non può che essere di elevatissimo interesse per gli studi di 40 Dati della ESA disponibili on-line all’indirizzo http://www.theesa.com 257 Dall’Utopia all’Eterotopia comunicazione, soprattutto pensando che i giocatori in Europa sono soliti passare una media di 6 ore a settimana davanti ai loro device, raggiungendo quindi centinaia di migliaia di ore di gioco. Ora però addentriamoci più approfonditamente nel settore che ci interessa maggiormente cioè quello relativo ai mondi virtuali al loro sviluppo e andamento. Per questa analisi ci serviremo dei dati e dei grafici della Kzero Worldswide41, una consulting company che dispone di dati aggiornati utili alla comprensione dell’universo dei mondi virtuali o sintetici, sia dei social virtual world, sia dei MMORPG. Dal lancio di Ultima Online, nel 1997, uno dei primi mondi sintetici insieme a WorldsAway e The Palace.com, la moltiplicazione dei mondi sintetici è pressoché esponenziale, come il grafico seguente mette in luce. Number of virtual worlds In più, anche se nati come un fenomeno di nicchia, oggi sembrano più o meno nascere al ritmo della legge di Moore, cioè raddoppiano quasi ogni due anni. Per farsi un’idea della quantità enorme e della 41 http://www.kzero.co.uk/index.php 258 Dall’Utopia all’Eterotopia varietà di categorie dei vari mondi virtuali disponibili in rete è interessante osservare il Radar creato dalla Kzero che divide le diverse categorie di mondi secondo il range di età degli utenti, un grafico che purtroppo non unisce anche il numero di account per ogni diverso mondo sintetico, ma sicuramente spiega come mediamente gli utenti più giovani preferiscano interfacciarsi con mondi più simili ai videogame, quindi ai MMORPG, mentre gli utenti più grandi preferiscano i mondi sintetici basati sulla socialità, quelli che abbiamo definito social virtual worlds. 259 Dall’Utopia all’Eterotopia L’analisi degli account riveste un ruolo importantissimo in quanto determina la fortuna, soprattutto commerciale, o meno dei mondi virtuali in questione. Qui però il discorso diviene molto complesso poiché la maggior parte degli account non sono realmente attivi; quasi la totalità dei registrati non rimane attiva nel mondo virtuale se non per un brevissimo lasso di tempo, in altri termini è presente una sorta di vacanza virtuale in cui gli utenti si registrano fanno una visitina all’interno del mondo prescelto e poi lo abbandonano in maniera definitiva, spesso senza aver avuto nessun tipo di contatto con altri utenti all’interno del mondo. Questo accade soprattutto per i programmi che hanno un accesso gratuito al servizio, questo spinge le persone a registrarsi tranquillamente, senza aver reali intenzioni di continuare quell’avventura. Un altro fenomeno che influenza notevolmente il dato del numero complessivo di account è costituito dal fatto che molti di questi programmi consentono un multi-account, quindi un unico utente può avere più avatar, 260 Dall’Utopia all’Eterotopia minando la veridicità dei dati stessi. Ora nei grafici seguenti vedremo la distribuzione per età e per numero di account, dati relativi alla fine del 2011. Come avevamo anticipato i più giovani preferiscono i mondi sintetici più vicini ai videogiochi classici, mentre quelli più grandi i mondi sociali. In questo grafico spicca il numero di account di Habbo Hotel, con i suoi 255 milioni di account, di cui ci occuperemo più approfonditamente in seguito, che è di gran lunga il mondo virtuale con il maggior numero di account seguito da IMVU e WeeWorld con 60 milioni. Habbo Hotel e Imvu sono dei mondi virtuali alquanto particolari, sembrano più delle chat 3d che veri e propri mondi sintetici, mentre WeeWorld è una piattaforma on-line in cui si possono creare degli avatar trasportabili su altre piattaforme, quali Facebook o Skype, o utilizzabili per esplorare la comunità virtuale messa a disposizione dalla piattaforma stessa. Per quanto riguarda gli utenti oltre i 25 anni, i mondi più popolati sono il più famoso Second Life e Erepubblik, ma con dati nettamente 261 Dall’Utopia all’Eterotopia inferiori, che si attestano intorno ai 30 milioni di account. Nemmeno lontanamente paragonabili ai dati di Habbo Hotel e Imvu. Tornando al discorso precedente secondo le interpretazioni economiche riguardo i numero di account, queste ci dicono che solo il 20 o 30 per cento degli account sono realmente attivi.42 Così Second Life, per esempio, che offre una registrazione gratuita, ha secondo i dati di Kzero 30 millioni di account, in realtà possiede solo 200.000 attivi contemporaneamente, quindi in realtà gli account realmente da prendere in considerazione sono solo tra un 1.000.000 e i 660.000 (200.000 diviso 0.3 e 0.2). I rimanenti 29 milioni e oltre in realtà sono solo account di visitatori che si sono iscritti e hanno abbandonato il programma nell’arco di pochi giorni e non ci hanno Cfr. E. Castronova, Exodus to the Virtual World. How on-line fun is changing reality, Palgrave MacMillan, New York, 2007, p. 33. 42 262 Dall’Utopia all’Eterotopia più messo piede. Castronova 43 applica una nuova limitazione al conteggio degli account, in primis constata che per i mondi che hanno una registrazione gratuita, il 90% degli account è un “non residente”, poi comparando la registrazione tra questi mondi gratuiti e quelli che invece richiedono una fee o una sottoscrizione a pagamento calcola che esiste praticamente un rapporto di 1 a 10 tra virtual world gratuiti e virtual world a pagamento, come può essere World of Warcraft. Facciamo un altro esempio, Habbo Hotel afferma sul suo sito www.habbo.com di avere 255.000.000 account, ma sono in linea, nel momento in cui vi sto scrivendo solo 52.000 persone, quindi seguendo le regole che il nostro amico economista ci ha insegnato 52.000 persone in linea dovrebbero essere equivalenti più o meno a 175.000 260.000 account realmente attivi, quindi 260.000 diviso 255.000.000 dà un risultato veramente poco lusinghiero per i programmatori confrontato con il valore di un account di World of Warcraft, più o meno 0,0010, cioè si ha bisogno di 1,700 registrazioni su Habbo a 1 di World of Warcraft per avere lo stesso rapporto tra numero di utenti contemporaneamente in linee e quelli registrati. Tutti questi calcoli sono abbastanza difficili da comprendere, ma ci fanno capire come lo sviluppo dei virtual world sia sicuramente in ascesa, ma necessita di un occhio critico, per valutare oggettivamente questa crescita, non è un caso infatti che non tutti i mondi sintetici rilascino delle statistiche e anche quelli che lo facevano adesso sono più restii a renderle manifeste, anche Second Life che da questo punto di vista era un leader dall’ottobre del 2010 non rilascia più alcuni tipi di statistiche, che forse farebbero più chiarezza su quello che veramente accade nell’universo dei mondi sintetici. Nonostante questo il numero di account è sempre in vertiginosa ascesa come ci dimostrano i dati di Kzero, sfondando addirittura la quota di un miliardo e mezzo di accounts, e anche tenendo conto che delle correzioni statistiche che 43 Ibidem. 263 Dall’Utopia all’Eterotopia ci suggerisce Castronova le cifre sarebbero comunque notevoli e degne di uno studio approfondito, perché si parlerebbe comunque di centinaia di milioni di utenti presenti e attivi sulle diverse piattaforme disponibili. Total cumulative registered accounts Milioni di persone che oltre a costituire nuove relazioni sociali creano soprattutto un nuovo mercato economico, sempre più in espansione e sempre più importante per le aziende, non è un caso che moltissime industrie siano ben rappresentate all’interno di questo universo sintetico, ma quello che forse è ancora più importante è il mercato di beni virtuali che ormai è una grande realtà, sia per la quantità di denaro impiegato, ma soprattutto per l’ampiezza del mercato che sta emergendo. Qui di seguito riportiamo due importanti grafici sempre provenienti dalle ricerche della Kzero worldswide che ci illustrano con maggior chiarezza il fenomeno di cui stiamo parlando. Il primo delinea la crescita dirompente del mercato dei mondi virtuali dal 2007 in poi, mercato che nella sua complessità oggi si aggira intorno ai quattro miliardi di dollari, ma che secondo la legge di Moore, porterà il mercato nel 2013 a un giro di affari superiore agli otto miliardi di dollari. In questo grafico sono presenti sia le registrazioni premium per le piattaforme virtuali che le prevedono, quali le quote di abbonamento mensili e simili, sia la vendita di prodotti o il marketing di questi all’interno delle piattaforme, sia le micro transazioni tra gli utenti. 264 Dall’Utopia all’Eterotopia Virtual world revenues (USD) Ben più importante forse è il secondo grafico nel quale vengono riportati i dati inerenti al mercato di tutti i beni virtuali dai virtual world ai social network. Quindi dai servizi allo scambio inter-utente di beni virtuali. Ebbene secondo la Kzero anche qui il mercato è già di proporzioni enormi, si parla di 9 miliardi di dollari, e per il prossimo anno già si prevede una crescita pari quasi al 30%, che porterebbe il giro di affari intorno ai 15 miliardi di dollari. Virtual goods revenues (USD) 265 Dall’Utopia all’Eterotopia Quello che ha dato vita e potrebbe essere la molla per quest’ulteriore crescita è da ricercarsi nella possibilità di fare acquisti all’interno dei mondi sintetici stessi, questo perché questi sono dotati di una moneta propria, ad esempio la moneta di Second Life è il lindendollar, che quotidianamente viene valutato nei confronti del dollaro reale. In più come spiegheremo più avanti è possibile convertire la moneta virtuale in moneta reale, elemento che spinge alcuni a trovare e svolgere dei veri e propri lavori all’interno dei mondi virtuali per avere poi una rendita in quello reale. Questo è dal mio punto di vista l’elemento che più allontana questo tipo di realtà virtuale dalla concezione eterotopica di cui avevamo discusso nel capitolo precedente. Qui non si crea o utilizza un nuovo mondo per creare una società migliore, anche se sul piano virtuale, ma si riproduce il meccanismo economico sociale pedissequamente, dimostrando ancora una volta come il capitalismo sia in grado di cooptare ai propri meccanismi quei fenomeni che erano nati con intenzioni e prospettive completamente diverse. Ricordiamo le interpretazioni alternative della RETE e della Realtà virtuale alla fine dello scorso millennio e come queste si fossero velocemente trasformate fino a divenire praticamente dei thing tank del nuovo capitalismo. Ricordiamo ancora una volta il documento Cyberspace and the American Dream: A Magna Carta for the Knowledge Age, che esprime ai massimi livelli questo capovolgimento assiologico. Detto questo, tornando all’argomento di cui ci stavamo occupando, quello che bisognerebbe analizzare e sottolineare sono i cambiamenti che lo sviluppo del mercato virtuale può apportare all’interno del mercato reale. Sempre secondo Edward Castronova,44 uno dei più grandi esperti di economia dei mondi virtuali, quello a cui stiamo assistendo è un vero è proprio esodo verso i nuovi mondi, esodo, che soprattutto nell’ambito economico, può portare 44 Cfr. E. Castronova, Op. cit., soprattutto pp. 137-187. 266 Dall’Utopia all’Eterotopia ad una vera e propria rivoluzione del mercato, rivoluzione che riguarderebbe tutti gli assi portanti della sua strutturazione: dal mercato del lavoro alla politica monetaria, fin alla crescita economica. L’analisi di questi cambiamenti porterebbero alla fine delle politiche economiche basate sulla teoria della scarsità verso una rivoluzione: la Fun Revolution, con cui tutte le istituzioni politiche ed economiche dovranno fare i conti. In breve questa rivoluzione si baserebbe sui connotati specifici dei mondi virtuali, quindi il divertimento prima di tutto, anche il lavoro deve e può essere divertimento, soprattutto remunerativo, nelle possibilità di impiego ci dovrebbe essere una vera parità di opportunità, perché in fondo nei mondi virtuali questo accade, tutti possono trovare il lavoro che è più consono alle proprie capacità. Così come c’è una vera democrazia in cui tutti possano realmente partecipare. Tutto questo delirante progetto non sembrerebbe assurdo se fosse figlio di menti degeneri e degenerate come quelle di Timothy Leary o Terence Mckenna, ma divulgate da un economista suonano abbastanza strane. In più dal mio punto di vista Castronova sembra dimenticare elementi alquanto basilari, ad esempio lo scarseggiare delle materie prime, in particolare quelle definite terre rare, che per le loro innate qualità di superconduttori sono indispensabili per la costruzione dei nuovi device tecnologici, dai pc ai server, ecco chiedo io come è in grado il nostro buon economista di conciliare questo dato con la sua Ending the politics of misery45 Questo non lo ha spiegato, ma dal suo punto di vista ha risolto l’enigma della storia: some of the policies I’ve reviewed here must seem like a leftist’s dream, others the fantasy of the most radical right-winger. Yet this real-world application of fun policy have an advantage that the fancies of political radicals never do: they have been successfully applied, by virtual-world designers, in genuine human 45 Ivi, p.187 267 Dall’Utopia all’Eterotopia societies. They are being tinkered with and perfected, even now, in an industry experiencing exponential growth and a vast expansion in available resources. True, the environment in which this new policies have been applied is its-self fantasy. Yet the people are real, and so is the social order they generate. With in that social order, millions of people are having fun. We could take some distinct lessons from all this fun. In fact, we will probably not have a choice; these policies will either became unavoidable or second nature, as more and more people spend their formative years visiting virtual worlds. We should not be surprised when future generations of voters star to demand full employment, rapid wages, equal opportunity and an end to general economic growth.46 Questa effettivamente potrebbe essere una splendida utopia, ma sostengo di difficilissima realizzazione, quale utopia non lo è. Dopo questo piccolo excursus statistico sull’universo dei mondi sintetici ora è il caso di tentare di prevedere quali potrebbero essere gli sviluppi e le trasformazioni che questi potranno avere, verificare cioè quali potrebbero essere le linee di evoluzione di questo universo virtuale. 4.5 I mondi sintetici del futuro Dopo aver narrato la storia, anche dal punto di vista statistico, e la discendenza dei mondi virtuali dalla realtà virtuale dalle comunità on-line, è aver delineato le loro caratteristiche principali, ora penso sia utile tentare di immaginare quali potranno essere i cambiamenti all’interno dei mondi sintetici, cambiamenti sia di tipo tecnologico, in fondo la ricerca nel campo dei videogame e non solo è sempre al lavoro, ma anche cambiamenti degli stimoli e delle necessità degli utenti che comporteranno delle trasformazioni all’interno dei mondi 46 E. Castronova, Op. cit., p. 157. 268 Dall’Utopia all’Eterotopia sintetici. Alcune linee guida di tali cambiamenti sono già ampiamente tracciate e implementate, altre nasceranno e quindi i mondi sintetici, ma l’universo dei videogiochi in generale dovrà adattarsi. Poiché predire il futuro si dimostra sempre un’impresa difficile per il rischio di venir smentiti in maniera categorica partiamo dalle basi che sicuramente non potranno cambiare poi molto, i mondi sintetici saranno sempre rappresentazioni 3D che immergeranno l’avatar dell’utente in un mondo con regole coerenti al proprio interno, tutto il resto sicuramente cambierà, innanzitutto i mondi sintetici si moltiplicheranno, questo soprattutto per un semplice motivo, visto che il gioco multiplayer on-line sta riscuotendo un successo incredibile ogni videogame si doterà di una piattaforma on-line permanente, ciò non significa si costituiranno dei veri e propri mondi virtuali, ma di sicuro, almeno inizialmente, copieranno i modelli dei mondi sintetici esistenti, con le loro caratteristiche e le loro finzioni, tipo chat, messaggistica istantanea e simili. Questa invasione è ormai iniziata ed è iniziata quando le più famose console game come la Playstation, la Xbox 360 e la Nintendo Wii hanno dotato i propri device di schede che consentano la connessione ad internet. Questo non significa che ogni singolo giocatore giocherà sempre in tale modalità, ma le ricerca di settore47 hanno evidenziato come spesso anche su piattaforma multiplayer il giocatore procede in modalità “SOLO”, cioè non connesso con altri, per essere più libero di seguire i suoi stimoli, giocando, però, in modalità solo, come se la componente sociale gli donasse un piacere superiore, come se i suoi atti fossero accreditati in maniera maggiore dagli altri utenti e questo desse più soddisfazione al giocatore. Questo avvalora ancor di più l’ipotesi di una moltiplicazione di piattaforme on-line per la maggior parte dei Cfr. N. Ducheneaut, N. Yee, E. Nickell, R. Moore, “Alone together? Exploring the social dynamics of massively multiplayer on-line games” in Xerox Palo Alto Research Center Working Paper. Disponibile on-line all’indirizzo http://www.parc.com/content/attachments/alone_together_exploring_5599_parc.pdf 47 269 Dall’Utopia all’Eterotopia videogame. Altro elemento di sviluppo quasi certo sarà la capacità di accedere alla piattaforma on-line da qualsiasi device; infatti attraverso gli smart-phone l’accesso ad internet è possibile ovunque, le reti wireless di ultima generazione come la wi-max si stanno sviluppando e tra breve saranno a disposizione di tutti, ormai vediamo sempre più persone con addosso auricolari e microfono bluetooth e non è una eventualità remota il fatto che sfruttando questa tecnologia sarà possibile creare dei piccoli schermi per gli occhi e mini-comandi da inserire sulle dita per consentire alle persone di giocare online. La console portatile Nintendo Ds già permette a diversi giocatori di giocare insieme grazie ad un collegamento wireless: è un punto di non ritorno, si può tranquillamente prefigurarsi un vicinissimo futuro in cui tutti i personal communication device saranno in grado di connettersi a giochi on-line e quindi anche ai nostri cari mondi sintetici. I giochi saranno sempre più alla portata di tutti, è quello che il settore dei videogame definisce “ubiquitos gaming” e se facciamo attenzione a quello che accade nelle nostre strade e nei locali tutto questo è già in atto. Un aspetto che sicuramente si svilupperà in maniera ancor più esponenziale sarà quello dell’avatarizzazione, infatti poiché, come abbiamo affermato, è facile pensare che tutti i giochi avranno le proprie piattaforme on-line per il gioco in multiplayer allora sicuramente queste faranno in modo di poter creare il proprio doppio digitale. L’avatar come abbiamo già accennato e come vedremo più in dettaglio nei prossimi paragrafi è di sicuro il vero protagonista dei mondi virtuali e non c’è nessun dubbio che con l’ampliarsi delle piattaforme on-line la sua importanza crescerà di conseguenza, gli utenti vanno letteralmente pazzi per i propri doppi virtuali, soprattutto per la possibilità di customizzazione, ed è sicuramente questo aspetto che verrà ancor più sviluppato nei nuovi mondi sintetici, la possibilità di poter cambiare nelle maniere più svariate e imprevedibili il proprio avatar. I diversi mondi virtuali si daranno sicuramente battaglia per creare le migliori e più originali modalità di customizzazione dei propri avatar. Questo 270 Dall’Utopia all’Eterotopia genererà un conseguente sviluppo del mercato ad essi collegato, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo che si occuperà nel dettaglio dell’economia dei mondi virtuali ci sono milioni di persone che spendono cifre ingenti per modificare e migliorare i propri avatar, con ogni sorta di accessorio virtuale. Per sfruttare questo mercato emergente e in continua espansione i nuovi mondi virtuali e le nuove piattaforme on-line dovranno sicuramente implementare e sviluppare meccanismi per il commercio di beni virtuali, spingendosi a sviluppare come già alcuni mondi virtuali, tra i quali Second Life, delle vere e proprie valute virtuali che dovranno essere scambiabili con le valute reali. Se questo non verrà portato a compimento sicuramente gli utenti, come già fanno di fatto, troveranno altri canali di scambio, come le aste di beni virtuali su eBay o una sorta di baratto virtuale tra beni immateriali. Non è un caso che anche un social network come Facebook si stia adoperando per poter rendere la propria moneta virtuale, non solo acquistabile da parte dei propri utenti, ma soprattutto convertibile in denaro reale. Un altro aspetto che sicuramente il settore dei videogiochi e soprattutto quello dei mondi sintetici tenterà di sviluppare sarà quello di creare un device che possa trasmettere la sensazione del tatto, in fondo questo è uno dei pochi sensi che mancano all’interno di questi universi. Questa necessità è sentita sempre più impellente all’interno dei mondi sintetici, poiché è l’unico senso ancora non replicabile su base virtuale. Un altro aspetto da non sottovalutare è sicuramente quello del sesso, non giriamo intorno all’argomento, la maggior parte dei siti in internet ha contenuti pornografici, in Second Life il sesso, in maniera più o meno esplicita, è pressoché onnipresente, gli utenti acquistano o creano script, cioè stringhe di codice, che consenta ai propri avatar di mostrarsi nudi e di, con alcuni comandi, avere rapporti virtuali con degli altri avatar. La tecnologia si sta avvicinando a dei controller che rispondano a degli impulsi del gioco, pensiamo ai pad delle console come la Xbox che in determinate situazione vibra, ebbene sicuramente si tenterà di sviluppare tale tecnologia per giungere ad un device che non solo 271 Dall’Utopia all’Eterotopia permetta di ricreare sensazioni tattili, ma anche programmi che permettano che tali sensazioni siano inviate non solo dal programma ma da altri utenti attraverso dei comandi speciali.48 Su questo sicuramente si lavorerà, un altro aspetto su cui già oggi ci sono passi avanti è quello di poter proiettare l’utente direttamente dentro il gioco e in seguito anche all’interno dei mondi sintetici senza bisogno di controller o pad. Questa è la scommessa che hanno fatto sia la Sony che la Xbox, con i propri sistemi Eyetoy e Kinetic, dispositivi costituiti fondamentalmente da telecamere che riprendono i movimenti dell’utente e li riproducono all’interno del gioco, ma possiamo immaginare che questa tecnologia possa essere tranquillamente applicata anche per i mondi sintetici. Questo rappresenterebbe realmente la prosecuzione del sogno della RV: riuscire finalmente ad entrare all’interno del computer, o dei mondi virtuali, un sogno che sembrava terminato con il collasso dei dispositivi classici di RV come l’elmetto 3D e il data glove, e che oggi rinnova la volontà di colonizzare il mondo dell’immaginazione, desiderio che non sembra arrestarsi davanti a nulla, solo in futuro vedremo dove questa aspirazione ci condurrà, consci del fatto che difficilmente sparirà. L’immaginario eterotopico sembra invece l’elemento non in agenda per quanto riguarda l’universo virtuale, fermo nel suo complesso ludico e commerciale, anche qui solo il tempo ci dirà se queste impressioni verranno confermate o smentite. Continuiamo con le previsioni fantastiche sulle evoluzioni dei mondi virtuali e delle tecnologie video ludiche in generale, di sicuro un altro ambito di ricerca sarà quello di rendere i NPC (non Sulla sessualità, la teledildonica e argomenti simili cfr. J. Pinckard, “Sex in game: rex + vibrator” e “Rez Trance Vibrator: redux” in Game Girl Advance on-line at www.gamegirladvance.com/archive/2002/10/26/sex_in_gamerezvibrator.html#000141 , www.gamegirladvance.com/archive/2005/02/24/rez_trance_vibrator_redux.html, e R. Lynn, “Ins and Outs of Teledildonics”, Wired News, on-line at www.wire.com/news/culture/0,65064-0.html 48 272 Dall’Utopia all’Eterotopia player character)49 cioè i personaggi controllati non dagli utenti, ma dal programma stesso, più simili agli utenti reali, quindi con una sorta di propria personalità e addirittura emotività, pensiamo al creatore di mondi virtuali Mark Sellers, l’inventore del primo virtual world Meridian59, che ha progettato un “people engine” per creare NPC credibili per gli ambienti sintetici, o pensiamo alla ricerca che si sta svolgendo alla University of Southern California’s Institute for Creative Technology, dove un gruppo di ricercatori sta lavorando su un sistema di emozioni interattive attraverso modelli computazionali, un settore definito virtual humans project che ha l’obiettivo di creare degli agenti di intelligenza artificiale più realistici per i software interattivi. Altri progetti come quello del MIT invece si pongono il fine di catturare gli stati emotivi personali e usarli nei programmi; è facile comprendere come tutto questo possa essere estremamente utile all’interno dei videogame, soprattutto nei mondi sintetici. Altro elemento chiave che verrà sicuramente implementato sarà la convergenza multimediale. Già oggi in molti mondi sintetici gli utenti possono scambiarsi instant message o chattare, su Second life è possibile vedere dei film o la tv e navigare su internet, ora alcuni mondi stanno sviluppando il modo di far comunicare i propri utenti tramite microfono o sistemi di Voice-on-Internet, per rendere ancor più realistiche le relazioni sociali. L’elemento che indubbiamente si svilupperà in maniera ancor più evidente di quanto non lo sia oggi sarà di certo l’espansione dell’user generate content, cioè dei contenuti, siano essi oggetti virtuali o script per le azioni degli avatar o dell’ambiente sintetico, creati direttamente dagli utenti. Questo è un elemento fondamentale sia perché rende più coinvolgente i mondi sintetici, che hanno la libertà di creare tutto ciò che desiderano, sia per i mondi sintetici stessi che potranno evolvere senza che le società creatrici spendano milioni per lo Cfr. E. Castronova, Exodus to the Virtual World. How on-line fun is changing reality, Palgrave MacMillan, New York, 2007, p. 55. 49 273 Dall’Utopia all’Eterotopia sviluppo, mondi che invece evolveranno naturalmente per l’apporto creativo dei propri utenti. Second Life si basa fondamentalmente su questo aspetto, infatti in questo mondo virtuale gli utenti hanno la capacità di utilizzare gli script forniti dai programmatori per generare qualsiasi tipo di contenuto essi desiderino, gli elementi fondamentali sono definiti prims o primitives, cioè gli elementi base per la costruzione degli oggetti virtuali, ma Second Life, rendendo libero il codice sorgente, permette anche di modificare i movimenti degli avatar, cosicché gli utenti possono customizzare a proprio piacimento i movimenti del proprio avatar. Questa capacità di generare contenuti propri è un fenomeno importante poiché permette agli utenti una sorta di democratizzazione e un controllo sull’evoluzione del proprio mondo sintetico, e in fondo apre un nuovo mercato, infatti gli oggetti creati sono di proprietà riservata dei loro creatori e questi possono rivenderli utilizzando la valuta corrente del mondo. L’user generate content è un guadagno per tutti, per i creatori che li vendono, per il mondo che può evolvere senza una spesa eccessiva e perché può mettere una tassa su altri elementi, ad esempio in Second life la registrazione è gratuita, ma per avere una casa devi avere un terreno virtuale e per far ciò devi avere un account premium, cioè a pagamento, ed è anche un vantaggio per gli altri utenti che hanno una sorta di controllo sull’evoluzione del proprio mondo. Di sicuro l’user generate content si svilupperà sempre più e prenderà piede anche in mondi sintetici più rigidi, come i MMORPG. L’ultima evoluzione, dal mio punto di vista la più importante, che potrà prendere piede è la possibilità di consentire agli utenti di spostarsi con i propri avatar da un mondo virtuale all’altro senza dover cambiare avatar, anzi mantenendo le caratteristiche del proprio doppio virtuale. Questo che potremmo definire Connecting worlds o Crossworld è dal mio punto di vista fondamentale poiché consentirebbe la creazione di un vero e proprio universo sintetico, in cui gli utenti si possano spostare come all’interno di un mondo vero, quindi generando di fatto una vera e propria seconda vita. Questo fenomeno potrebbe essere un 274 Dall’Utopia all’Eterotopia fondamentale valore aggiunto poiché potrebbe sfruttare le qualità intrinseche del sistema a rete per generare un mega-network di mondi sintetici. Questo processo è già in atto, infatti Second Life lasciando libero il codice sorgente permette l’interconnessione con un altro mondo virtuale WeeWorld, in cui gli utenti possono utilizzare l’avatar di Second life e viceversa. Questo, per adesso, rappresenta l’unico esempio di crossworld, ma questa necessità si sta espandendo, esistono già social network per avatar di diversi mondi, che si possono mettere in contatto tra loro, e più sono attivi sia nel proprio mondo che nel social network e più vantaggi hanno per il proprio avatar. Il primo social network di questo genere si chiama Myrl,50 ed è attivo da un paio d’anni, con il fine di interconnettere i vari mondi sintetici e tentare di creare effettivamente un universo virtuale. Il fattore decisivo per questa interconnessione è rappresentato dalla struttura stessa della connessione tra i vari mondi, infatti si possono aver almeno due varianti, una in cui si renderebbe possibile la connessione tra tutti i diversi mondi sintetici, un’altra invece che preveda una piattaforma esterna ai mondi che metta in contatto questi mondi. Queste due varianti sono ben rappresentate dall’immagine sottostante. 50 http://www.myrl.com/myrl/virtual-world 275 Dall’Utopia all’Eterotopia La differenza consisterebbe fondamentalmente tra una interoperabilità tra i vari mondi sintetici, quindi una sorta di indipendenza da terzi, e una etero-operabilità, che faciliterebbe invece una mantenimento dei propri codici sorgenti, visto che questi sarebbero in dote ad un elemento terzo e non ad un diretto concorrente. Questi sono discorsi che poco ci interessano, l’elemento principale risulterebbe di sicuro quello di poter creare un universo sintetico interconnesso, elemento che non solo renderebbe maggiormente immersiva l’esperienza degli utenti, ma aprirebbe un infinito mercato, questo perché in fondo si genererebbe un altro tipo di medium a cui il marketing aziendale potrebbe ambire, che sarebbe tra l’altro di più facile accesso. Infatti le diverse aziende non dovrebbero fare piani di marketing per ogni particolare e singolare mondo sintetico, ma potrebbero costruire un media planning su ampio raggi, utile su tutti i diversi mondi virtuali. La creazione di questo tipo di universo sintetico sarebbe veramente l’ideale per la costruzione di un nuovo immaginario eterotopico, si potrebbero generare diverse e completamente nuove relazioni sociali tra i vari mondi sintetici e tra gli utenti di questi, ma l’esperienza sembra smentire questo approccio, infatti come all’interno dei singoli mondi sintetici l’elemento dominante sembra essere la relazione commerciale e un tipo di gerarchia sociale fondata sulla notorietà e la visibilità, l’utopia come creazione di una nuova e migliore società sembra essere svanita in questo tipo di mondi virtuali, ma di questo ci occuperemo meglio in seguito. 4.6 Per una metaforologia dei mondi sintetici L’ obiettivo di questo paragrafo è quello di passare in rassegna le più famose e influenti metafore con cui si è tentato di dare una spiegazione complessiva del fenomeno dei mondi sintetici, le metafore di solito si sono estese alla Rete, o sono nate 276 Dall’Utopia all’Eterotopia dall’interpretazione di questa e poi hanno inglobato i mondi sintetici per analogia, si sono articolate di solito intorno ai dei paradigmi binari che per la maggior parte non hanno colto le ambivalenze, le contraddizioni, i confini porosi e instabili del fenomeno che stiamo analizzando. Le metafore che prenderemo in analisi in questo paragrafo sono in particolare quella della frontiera, quella del cerchio magico, una visione escapista dei virtual world e dei videogame e naturalmente la mia visione dell’eterotopia. L’insieme di queste metafore parte da un’interpretazione simile del fenomeno del cyberspazio e dei mondi sintetici, quella per cui questi fenomeni siano collocati in uno spazio ontologicamente diverso e separato da quello che viene comunemente definito e vissuto come the Real World. Questa visione condivisa come accennato in precedenza si basa essenzialmente su un’interpretazione di questi fenomeni basata su una struttura binaria quella che oppone la realtà del mondo alla virtualità dei fenomeni presi qui in esame, divisione imprescindibile che colloca i mondi virtuali su un piano ontologicamente diverso e quindi su un piano completamente altro e diverso da quello della realtà quotidiana. Per i mondi virtuali questa dicotomia binaria si raddoppia poiché oltre alla virtualità si aggiunge quella della dimensione ludica o per utilizzare una parola inglese più efficace della gameness opposta sempre alla solidità del mondo reale e alla sua dimensione di lavoro e di produzione. All’interno di questa struttura binaria si inserisce il concetto di derivazione Huizinghiano di cerchio magico51 assunto anche questo come linea di demarcazione tra due piani completamente diversi, quello del gioco e quello della vita reale, intendendo il gioco come spazio circoscritto, con regole interne, completamente separato dalla realtà quotidiana, spesso inteso in senso dispregiativo, come spazio in cui si evitano le fatiche e le sofferenze della vita 51 Cfr. J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino, 2000. 277 Dall’Utopia all’Eterotopia quotidiana, una dimensione in cui non è presente il lavoro, elemento che genera una nuova dicotomia tra gioco e lavoro. La retorica della frontiera è una delle metafore più utilizzate e più influenti all’interno dell’intrepretazioni dei mondi virtuali e del cyberspazio in generale, i primi due studiosi che la utilizzarono furono sicuramente Barlow e Kapor che in questa maniera descrivevano Internet: Over the last 50 years, the people of the developed world have begun to cross into a landscape unlike any which humanity has experienced before. It is a region without physical shape or form. It exists, like a standing wave, in the vast web of our electronic communication system. It consists of electronic states, microwaves, magnetic fields, light pulse and thought itself…In its present condition, Cyberspace is a frontier region, populated by few hardly technologist who can tolerate the austerity of its savage computer interface, incompatible communication protocols, proprietary barricades, cultural and legal ambiguities, and general lack of useful maps or metaphors. 52 La metafora della frontiera riferendosi al cyberspazio, come sappiamo, ebbe ed ha ancora un enorme successo, e fu subito utilizzata e divulgata ampiamente dalla letteratura cyberpunk per cui il mondo virtuale è quello che si trova superando i confini rappresentati dallo schermo. L’immagine degli hardly technologist che si avventurano all’interno di un territorio sconosciuto e selvaggio è stata l’eredità che ci ha lasciato l’immaginario cyberpunk, con i suoi Hacker, nuovi cowboy informatici alla conquista del nuovo spazio informatico. La retorica della frontiera è, tra l’altro, divenuto un tropo comune nella letteratura di coloro che descrivevano il mondo delle nuove tecnologie come Rushkoff53, J.P. Barlow, & M. Kapor, Across the electronic frontier, disponibile on-line all’indirizzo w2.eff.org/Misc/Pubblications/John_Perry_Barlow/?f=across_the-ef.article.txt 53 D. Rushkoff, Cyberia. La vita tra le pieghe dell'iperspazio, Apogeo, Milano, 1994. 52 278 Dall’Utopia all’Eterotopia Rheingold54, Mitchell55 e molti altri durante gli anni novanta. Il parallelo con la frontiera affascinava per la sua spinta colonizzatrice, una rievocazione straordinaria della conquista del West: The early days of cyberspace were like those of western frontier. Parallel, breakneck development of the internet and of consumer computing devices and software quickly created an astonishing new condition; a vast. Hitherto-unimagined territory began to open up for exploration.56 L’esempio comunque più eclatante, meglio strutturato e pertinente della metafora della frontiera è stato scritto da Jeffrey R. Cooper e porta il titolo di The Cyberfrontier and America at the turn of the 21st century: Reopening Frederick Jackson Turner’s Frontier.57 In questo articolo il concetto di frontiera viene analizzato in rapporto alla fondamentale opera di Turner The Significance of the Frontier in American History, e riattualizzato in funzione dell’emergere delle nuove tecnologie. Per questo testo in realtà non si dovrebbe parlare di metafora, poiché qui il concetto di frontiera non è utilizzato come una analogia per interpretare i nuovi fenomeni informatici, manca di quella dicotomia tra virtuale e reale caratteristica degli esempi che abbiamo addotto in precedenza, le nuove tecnologie per Cooper sono del tutto reali e soprattutto hanno conseguenze reali molto importanti. In primo luogo smentiscono l’affermazione di Turner per cui la frontiera fosse completamente chiusa, con le conseguenze simboliche che questo comportava, poiché le tecnologie mediali erano riuscite a riaprirla, avevano creato un nuovo territorio da colonizzare e sviluppare: Cfr H. Rheingold, The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier, MIT Press, 2000, disponibile on-line all’indirizzo http://www.rheingold.com/vc/book/ 55 W.J. Mitchell, City of bits: space, place and the infobath, MIT press, Cambridge, 1995. 56 Ivi, p. 109. 57 J.R. Cooper, The Cyberfrontier and America at the turn of the 21st century: Reopening Frederick Jackson Turner’s Frontier, disponibile on-line http://firstmonday.org/htbin/cgiwrap/bin/ojs/index.php/fm/article/viewArticle/768 54 279 Dall’Utopia all’Eterotopia these new information technologies, in giving rise to the explosive growth of the Internet, opening the cyber domain, and fostering a worldwide infosphere, have really created a vast new territory. In doing so, they have reopened "the frontier."58 Cooper analizza poi che conseguenze apporterà questa nuova apertura della frontiera dal punto di vista politico, sociale, economico e culturale, in particolar modo analizza quale dovrebbe essere il ruolo del governo nel gestire questo nuovo territorio e come questo influenzi la società nel suo complesso. La sua interpretazione non è per nulla metaforica, Cooper pensa e attribuisce le medesime caratteristiche del West al cyberspazio, che l’autore preferisce chiamare cyberfrontier: Clearly any conceptual relationship between the American West and the Information Revolution is not based on superficial similarities of time or technology. The historical appreciation of the transcontinental expansion in the nineteenth century is not likely to be a helpful guide with respect to technical details or specific choices among information technologies. Rather, relevance flows from the observation that what happens on frontiers are fundamentally economic and cultural adaptations of society to the twin pressures of environment and technology. On the economic level, both frontiers demanded new models both for allocation of finance capital, including better appreciation of the value of the vast new resource stocks, and for organizational arrangements, having overturned established hierarchies . Both frontiers also generated tremendous spurts of emotion, ethos and mythos - they sparked enormous outpourings of excitement and imagination - that amplified and transcended their physical impacts. The roles that the frontier played in American life, which 58 Ibidem. 280 Dall’Utopia all’Eterotopia are reflected in many of our cultural icons, had a strongly emotional (indeed, heroic and romantic) theme and content. 59 Quello che Cooper mette in evidenza è il fatto che l’importanza della frontiera non è da ricercarsi semplicemente sul piano economico, ma soprattutto su quello culturale, sul mito che questa riesce a generare, innescare e interpellare. La capacità che questo mito ha di infondere nuovamente fiducia nel progresso, nel futuro, nello sviluppare un nuovo senso di individualismo propositivo, aperto alle novità, alle possibilità che il nuovo territorio mette a disposizioni di coloro che hanno il coraggio e l’iniziativa di sfruttarle, esattamente come era avvenuto per la corsa al west, circa trecento anni prima. Penso che questo sia l’elemento principale dell’analisi di Cooper poiché mette in risalto la valenza morale con cui Cooper riveste il cyberspazio rappresenta, forse, l’elemento principale della sua analisi, poiché ne esplicita la sua natura utopica, il sogno di poter migliorare la società nel suo complesso, infatti il cyberspazio concede nuovamente l’iniziativa alle singolarità che avendo un nuovo territorio dove esprimersi si liberano dalla morsa del governo centrale e si riorganizzano creando dei nuovi rapporti sociali, trasformando in maniera radicale la società. Questo aspetto è importante poiché sottolinea la forza socio poietica che deriva dalla colonizzazione della frontiera. In this sense too, our present situation on the cyberfrontier resembles that western frontier experience: it is less about reallocating existing customers and sharing existing markets than about creating entirely new products, services, and industries and opportunities as well. The "West" was a place to get away from failure and from too much control, by social conventions or by government, and it is crucial to recognize the sense of freedom that the frontier represented, not only to Americans but to those drawn from afar to settle the America frontier. Great struggles 59 Ibidem. 281 Dall’Utopia all’Eterotopia would be fought over governments' ability to extend control, in fact as opposed to in law, and these arguments also mirror many present-day issues of contention over legal regimes and regulation of this new space60. Bisogna altresì notare come comunque nell’analisi del nuovo mercato in effetti Cooper utilizzi le figure stereotipate del mito della frontiera come metafora delle nuove figure emergenti all’interno del nuovo territorio, come quella del cowboy, o del self-made man, per specificare il compito che spetta a coloro che vogliono intraprendere l’avventura di colonizzare il nuovo universo informatico: the successive waves of new information technology generations mirror the episodic stages of our earlier westward expansion; the "high-tech start-ups" that populate each of them represent our new frontier settlements. "Whatever.com," or any Web address, is the modern equivalent of the miner's claim or the homesteader's land patent - a mere $70 to stake out a two-year claim to a name on which fortune can be founded. After all, how different is the $5 million in first-round venture capital financing for a cyber startup from the silver prospector's grubstake? One perceptive governor recently commented, "Our goal is to create new pioneers. The pioneers of the last century followed the railroads. The new ones follow the Internet”61 Un altro importante elemento da sottolineare in questo passo consiste nel fatto che la tecnologia lungi da essere interpretata come vera creatrice di questa nuova frontiera sia in realtà il mezzo per sfruttarne a pieno le potenzialità. Il mio interesse per questo articolo ha una duplice motivazione, la prima naturalmente riguarda l’assenza della dicotomia tra reale e virtuale: la nuova cyberfrontiera è reale e viene interpretata come tale, lungi da essere un territorio 60 61 Ibidem. Ibidem. 282 Dall’Utopia all’Eterotopia completamente diverso e per questo ontologicamente separato e migliore dalla dalla real life. Approccio, quindi, completamente diverso dagli studiosi fin qui analizzati, in cui la frontiera era una metafora senza reali contenuti e per lo più del tutto sensazionalistici, per Cooper la frontiera non è un altro mondo, ma un modo per migliorare quello esistente. A questo riguardo però sorge spontanea in me una riflessione al riguardo del concetto di frontiera in sé che è comunque completamente utilizzabile anche per la cyberfrontiera e per i mondi sintetici in generale. La riflessione nasce dal constatare come la frontiera, soprattutto nella sua versione informatica, venga interpretata, da Cooper in particolare, come se possedesse delle capacità taumaturgiche per la società grazie alla sua capacità di moltiplicare le risorse, le opportunità e in qualche maniera di aumentare la libertà stessa. La frontiera, quindi, in quest’ottica, si pone come una soluzione per l’incapacità delle società umane di costruire delle comunità realmente paritarie, libere e con una equa distribuzione e redistribuzione delle risorse; ma questa in realtà sarebbe solo un surrogato di soluzione, un’illusione, una procrastinazione della reale risoluzione dei problemi sociali ed economici, l’opposto dell’Utopia, un tentativo di non mettere realmente all’ordine del giorno una ridefinizione delle strutture portanti delle società, e un rinnovamento reale delle relazioni sociali che questa compongono. Da questo punto di vista i mondi sintetici non sembrerebbero che un altro tentativo di distrarre, rimandare ulteriormente, i problemi sociali che dovrebbero essere realmente affrontati, con tutte le difficoltà socio-economiche e culturali che tali trasformazioni comporterebbero. I mondi sintetici divengono, dunque, una sorta di sublimazione, qui si realmente virtuale, delle necessità che la società non riesce a soddisfare, o perlomeno non riesce a soddisfare nell’interezza del corpo sociale. Questo spiegherebbe anche il motivo per il quale i mondi virtuali e le nuove tecnologie nel complesso non siano riuscite a dar vita a organizzazioni sociali completamente diverse e migliori o comunque a trasformare nelle 283 Dall’Utopia all’Eterotopia sue basi strutturali le ingiustizie sociali, nonostante le indiscutibili trasformazioni sostanziali apportate alla società. In quest’ottica sarebbe anche facile spiegare perché anche nei mondi sintetici i desideri e i bisogni che vengono soddisfatti siano la fotocopia di quelli del mondo reale, appagati nella propria forma sintetica; se così fosse, e io penso che lo sia, sarebbe più che lecito parlare di sublimazione o escapismo, ed eleggerli quali termini chiave e strutturali nell’interpretazione dei mondi sintetici. A conferma di questo vengono le interviste da me realizzate ad alcuni utenti di mondi virtuali, che nella quasi totalità dei casi confermano e sottolineano l’elemento di sublimazione come soluzione delle proprie frustrazioni quotidiane, soprattutto nell’ambito lavorativo. Questo discorso sarà ripreso in seguito, ora è il caso di procedere nell’analisi delle altre metafore interpretative dei mondi sintetici, ci occuperemo della metafora dei virtual world come cerchio magico, retorica che mette in campo l’altra dicotomia che abbiamo evocato cioè quella tra gameness e realtà. Il concetto di cerchio magico è stato coniato dal sociologo Huizinga nel lontano 1955 nel suo celebre Homo Ludens62 ed è stato ripreso immediatamente dagli studiosi dei videogame e dei mondi sintetici63 per definire i confini spaziali, temporali e psicologici che dividono e circoscrivono lo spazio del gioco da quello della realtà. Purtroppo questa definizione e la sua interpretazione si sviluppano a causa di un’estrapolazione del termine dal suo contesto: Ogni gioco si muove entro il suo ambito, il quale, sia materialmente, sia nel pensiero, di proposito o spontaneamente, è delimitato in anticipo. Come formalmente non vi è distinzione tra un gioco e un rito, e cioè il rito si compi e con le forme stesse d' un gioco, così formalmente non si distingue il luogo destina o al rito da quel lo destinato al gioco. L' arena, il tavolino da gioco, il J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino, 2002. Cfr. K. Salen & E. Zimmerman, Rules of play: Game design fundamentals. MIT press, Cambrige, 2003. 62 63 284 Dall’Utopia all’Eterotopia cerchio magico, il tempio, la scena, lo schermo cinematografico, il tribunale, tutti sono per forma e funzione dei luoghi di gioco, cioè spazio delimitato, luoghi segregati, cinti, consacrati sui quali valgono proprie e speciali regole. Sono dei mondi provvisori entro il mondo ordinario, destinati a compiere e un 'azione con chiusa in sé.64 Come si capisce per Huizinga il cerchio magico non si riferisce solo al gioco, ma anche ad altri contesti sociali in cui le regole sociali definiscono e differenziano i diversi spazi sociali uno dall’altro, gli analisti dei mondi sintetici, invece, estrapolando il concetto dal contesto, lo utilizzano per sottolineare ed enfatizzare la totale distinzione del gioco dalla realtà, interpretazione completamente contraria a quella dello studioso olandese, che considerava il gioco una componente fondamentale della cultura umana, soprattutto un elemento cruciale per la sua costituzione. Questo utilizzo fazioso del concetto di cerchio magico è reso bene da queste parole degli studiosi Salen e Zimmerman: Although the magic circle is merely one of the example in Huizinga’s list of “play grounds”, the terms is used here as shorthand for the idea of a special place in the time and space created by game. The fact that the magic circle is just that a circle is an important feature of this concept. As a closed circle, the space it circumscribes is enclosed and separate from the real world…within the magic circle, special meaning accrue and cluster around object and behaviors. In effect, a new reality is created, defined by rules of the game and inhabited by its players.65 J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino, 2002, p. 10. K. Salen & E. Zimmerman, Rules of play: Game design fundamentals. MIT press, Cambrige, 2003, p. 95-96, cit. in G. Calleja, Digital games and Escapism in Games and Culture October 2010 vol. 5 no. 4 pp. 335-353. 64 65 285 Dall’Utopia all’Eterotopia Il concetto di cerchio magico viene utilizzato per definire il campo da gioco e per separare nettamente questo dalla realtà, ma come abbiamo visto precedentemente parlando dei frame e della terza vita, non si possono delimitare i mondi sintetici solo nel virtuale, poiché le due dimensioni sono comunicanti ed hanno un rapporto dialettico, si influenzano vicendevolmente e limitare i virtual world nella dimensione del virtuale significa non comprendere appieno la natura di questi mondi e le porosità che intercorrono tra le diverse sfere di realtà che il nostro mondo ci propone. In più limitare i mondi sintetici nella dimensione del gioco, inteso in senso dispregiativo, come una dimensione inferiore a quella del lavoro o della vita reale, limita considerevolmente la loro comprensione come nuova dimensione delle relazioni sociali, che invece andrebbero analizzate e interpretate nel contesto più ampio delle relazione umane. Utilizzando questo tipo di approccio a doppia struttura binaria virtuale/reale e gioco/non gioco è facile capire perché un’altra metafora utilizzata per interpretare i mondi sintetici sia quella della fuga, dell’escapismo. Attraverso tale approccio i mondo sintetici vengono intesi come luoghi completamente avulsi dalla società reale, in cui difendersi dalle difficoltà e dai problemi delle vita reale, pensando solo a distrarsi tramite il gioco on-line, come queste parole di due analisti dell’universo dei videogame dimostrano ampiamente: Play becomes a method to escape reality by entering a new and computer generated reality…Games are about immersing the players with different forms of entertainment that creates escape from reality.66 M. Dymek & S. Bergvall, Playing with covers in The Pink Machine Papers disponibile online all’indirizzo http://www.pinkmachine.com/PMP/nr19.pdf 66 286 Dall’Utopia all’Eterotopia Questo interpretazione è molto diffusa tra gli analisti, sopratutto in quelli dei mondi sintetici, sopratutto per la capacità di questi di creare un grande coinvolgimento emotivo nell’utente, come abbiamo visto, la capacità di coinvolgimento è interpretata come una fonte di escapismo in sé: Escapism is the primary appeal. Moreover, as the graphics get better and the game play more sophisticated, playing becomes even more engrossing. It is easy to understand why anyone would want to escape our difficult and complicated world and fall into a vivid, compelling game environment. One can live there with little or no interaction with the ordinary world. 67 I mondi sintetici e i videogame sono definiti escapisti perché hanno la capacità intrinseca di ammaliare, affascinare, incantare e soprattutto rubano tempo al resto, non importa quanto impegno, quante capacità cognitive e intellettuali una persona impieghi per svolgere al meglio il compito del gioco o lo sviluppo del proprio personaggio all’interno di un mondo virtuale, il punto fondamentale rimane che tutto ciò toglie tempo alle cose serie, in una tipica visione in cui vi è una netta separazione tra il tempo del lavoro e il tempo libero o loisir, ma questo non è il gioco, il gioco non viene sussunto dal tempo libero, come abbiamo visto è molto di più, per Huizinga68 e Piaget rappresenta una parte sostanziale della vita sociale e della cultura umana tout court. Piaget lo reputava una parte fondamentale del nostro sviluppo, un momento decisivo per imparare a capire il mondo e dare forma alla personalità individuale.69 Per Huizinga, come visto, fa parte imprescindibile della cultura umana, pur avendo una sfera specifica, è una parte J. Messerly, How computer games affect us (and other) student’s school performance in Communications of ACM, 3, 2004, pp. 29-31. 68 Cfr. J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino, 2002. 69 Cfr. J. Piaget, La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno, immagine e rappresentazione, La Nuova Italia, Firenze, 1979. 67 287 Dall’Utopia all’Eterotopia integrante della vita quotidiana alla pari del rito, richiamando alla memoria la citazione precedente. Anzi proprio Huizinga temeva il distaccarsi del gioco dalla vita quotidiana, processo che per lui stava prendendo piede nella società moderna: In più si impone la triste conclusione che dal Settecento, in cui potemmo segnalarlo ancora in pieno vigore, l’elemento ludico della cultura ha perduto il suo significato in quasi tutti i campi in cui una volta soleva manifestarsi. La cultura moderna ormai non viene quasi più “giocata”, e la dove sembra giocare, il gioco è falso.70 In questo caso bisogna constatare come il problema non sia il gioco in sé, ma la finzione del gioco, un gioco che viene sradicato dalla nostra routine quotidiana perde il suo valore, come spiega ancor meglio Roger Caillois, per il quale le attività come hobby e giochi, così popolari nel mondo contemporaneo, siano emerse in parte come distrazione da “un lavoro faticoso, monotono e inviso”.71 La metafora escapista commette l’errore di inglobare il gioco nel loisir, i mondi virtuali sono lungi dall’essere semplice occupazione del tempo libero, o nella versione escapista mondi in cui rifugiarsi dopo aver abbandonato il mondo reale, anzi secondo le interviste che ho fatto con alcuni giocatori abituali, questi rappresentato un modo di rispondere agli eccessivi stimoli del mondo stesso, come se a questi si rispondesse espandendo lo scontro su un ulteriore livello, quello virtuale.72 Di certo non si può negare che da un certo punto di vista il rischio di escapismo e di un certo tipo di alienazione sia possibile, non è una coincidenza se i casi di dipendenza dai videogame siano in crescita, quello che non si deve accettare è una J. Huizinga, Op. cit., p. 243. R. Callois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 2000, p. 171. 72 L’elemento da sottolineare in questo caso è che le risposte di questo tipo sono arrivate da lavoratori nel campo dell’informatica. 70 71 288 Dall’Utopia all’Eterotopia versione dell’escapismo negativa tout court, poiché come evidenzia Gordon Calleja la capacità e la volontà di fuggire o di allontanarsi momentaneamente dalla realtà, attraverso anche la semplice immaginazione, è un elemento basilare della cultura umana, anzi la cultura umana si basa su questo e i mondi sintetici non fanno altro che riprodurre tutto ciò in una nuova dimensione: If the relative nature of this conception of escapism seems overly broad, it is exactly because escapism is an important and unavoidable aspect of our culture. Escapism is the homeostatic force that defines our culture and being, and if digital game enable such process, it is because they are able to simulate experience beyond the ludic and agonistic.73 L’ultima metafora per interpretare questi mondi naturalmente è quella del sottoscritto, cioè quella di eterotopia, in effetti questi mondi sono degli spazi specifici all’interno della nostra società, non perché siano virtuali o sintetici, ma poiché spesso sono organizzati in maniera differente, manca come spesso sottolineato all’interno di questo capitolo però quell’immaginario utopico che alimenta la volontà di costruire realmente uno spazio alternativo alla realtà dominante, come la realtà avesse invaso anche questi spazi che erano nati con un immaginario completamente diverso, sovversivo, alternativo, mentre ora sembrano riprodurre soltanto gli schemi della società dominante, sarà veramente questa la fine dell’utopia? Non so comunque le mie ipotesi di risposta a questa domanda la troverete nelle conclusioni. G. Calleja, Digital games and Escapism in Games and Culture October 2010 vol. 5 no. 4 pp. 335-353. 73 289 Dall’Utopia all’Eterotopia 4.7 Avatar e Identità nei mondi sintetici Attraverso il nostro viaggio all’interno dei mondi sintetici siamo finalmente giunti all’analisi di quello che ne rappresenta il vero protagonista, cioè l’avatar. Di per sé l’avatar non è altro che la rappresentazione grafica dell’utente all’interno del mondo virtuale, ma proprio per questa connessione biunivoca con l’utente, lo studio di questa interfaccia si è rivelata essere fonte inesauribile di studi, per i suoi collegamenti con il concetto di individualità personale, per l’importanza data agli avatar dai propri proprietari, studi sull’economia e sul mercato che riguarda gli accessori e le caratteristiche degli avatar stessi. L’avatar è stato il campo di indagine di numerosi settori di ricerca, dalla sociologia, alla psicologia, dai videogames studies all’economia, un’infinità di saggi è stata scritta e in questo paragrafo tenteremo di delineare al meglio quale siano le caratteristiche fondamentali dell’avatar e quali le interpretazioni più importanti, soprattutto le indagini che riguardano i collegamenti tra avatar e identità. Per iniziare possiamo dire che il termine avatar deriva dal sanscrito avatāra, che nell’induismo e nel brahmanesimo indica ciascuna delle dieci reincarnazioni del dio Visnu: l’avatar è associato a termini quali reincarnazione, ritorno, trasformazione. Nell’informatica, come detto è il rappresentante grafico dell’utente. Ma questa definizione è già troppo parziale, in quanto in realtà l’avatar è molto di più, non solo è l’incarnazione virtuale dell’utente, ma ne rappresenta l’indole, le caratteristiche, riproduce l’essenza o parte di essa dell’utente, questo perché come scrive Edward Castronova nel suo Theory of the avatar74 “il mondo virtuale e così la realtà virtuale danno la possibilità, a chi partecipa, di potersi trovare in un nuovo corpo, diverso da quello che si ha sulla terra…non sono giocatori, ma cittadini di un nuovo mondo.”75 Detto questo, l’utente si 74 75 E.Castronova, Theory of avatar, 2003 disponibile on-line ssrn.com/abstract=385103 Ivi, p.2. 290 Dall’Utopia all’Eterotopia trova alle prese con un mondo virtuale, si trova in un nuovo essere che fa le sue veci in un nuovo mondo, dove tutto deve essere scoperto. L’avatar sembrerebbe allora semplicemente essere un personaggio di finzione, su cui avviene un processo di identificazione e proiezione da parte del giocatore. Nel momento in cui si decide di dar vita ad un nuovo sé l’utente/giocatore ha la possibilità di scegliere come essere, cioè può decidere le proprie caratteristiche fisiche, le quali andranno a delineare l’avatar. Detto questo, poiché il termine avatar mette di fronte ad alcune discussioni e problemi di identificazione, quali ad esempio la differenza tra agent e avatar; per fare un esempio la navicella di un videogioco è sì una rappresentazione grafica dell’utente, ma non è un avatar poiché questo deve rappresentare l’essenza dell’utente, deve essere il suo doppio virtuale: An avatar is a virtual, surrogate self that acts as a stand in for our real-space selves, that rappresents the user. The cyberspace avatar functions as a locus that is multifarious, displaced from the facticity of our real-space selves…Avatar space indisputably involve choice in the creation of one’s avatar; there is substantial scope in which to execise choice and create meaning within the videogame.76 Il concetto di avatar come si nota è qui più complesso, attraverso la nozione di creative choice non solo si delineano le caratteristiche peculiari dell’avatar all’interno dell’universo sintetico, ma si specifica anche la relazione tra l’avatar e il proprio utente e tra questo e il mondo sintetico. Usando il concetto di creative choice è semplice distinguere tra un agent e un avatar, ad esempio Pac-man è un agent poiché non può essere modificato o alterato nelle sue L. Wilson, Interactivity or Interpassivity: A questiono of agency in Digital Play in Fine art forum, 17.3, 2003 on-line www.fineartforum.org/backissue/vol_17/index.html 76 291 Dall’Utopia all’Eterotopia qualità fisiche o nella propria apparenza dall’utente, così come Lara Croft o SuperMario. Quello che viene anche messo in campo è lo strano rapporto che intercorre tra l’avatar e il suo utente, un rapporto che è stato studiato da molti ricercatori, ma ancora oggi non ha portato a delle conclusioni che non siano controverse e non definitive, in fondo come scrive Katherine Hayles: “The avatar both is and is not present, just as the user both is and is not inside the screen”.77 Allo stesso modo la pensa Rehak: The avatar’s behavior is tied to the player’s through an interface: its literal motion, as well as its figurative triumphs and defeats, result from the player’s actions. At the same time, avatars are unequivocally other. Both limited free by difference from the player, they can accomplish more than the player alone; they are supernatural ambassadors of agency.78 Come si nota entrambi gli autori suggeriscono che la relazione tra gli utenti e i propri avatar sia una relazione che si sviluppa attraverso una determinante tensione: da una parte l’avatar è parte dell’utente, ma allo stesso tempo rimane separato da lui, e nonostante sia l’utente a creare e a determinare la natura e le azioni dell’avatar anche questo esiste indipendentemente dall’utente. Anche Marie Ryan riconosce questa tensione, ma sostiene che sia l’utente ad avere il controllo assoluto sul suo avatar e soprattutto sulla relazione che instaura con esso: will she be like an actor playing role, innerly distanced from her character and simulating emotions she does not really have, or will she experience her character in first-person mode, actually K. Hayles, How became Posthuman: virtual bodies in cybernetics, literature, and informatics. University of Chicago Press, Chicago, 1999, p. 38. 78 B. Rehak, Playing at Being: Psychoanalisys and the Avatar, disponibile on-line all’indirizzo http://gscfall09.pbworks.com/f/Playing_at_Being.pdf 77 292 Dall’Utopia all’Eterotopia feeling the emotions that motivate the character’s behavior or that may result from her action? 79 La definizione di avatar di Wilson (creative choice ) privilegia la scelta dell’utente, la Ryan descrive come sia l’utente ad avere il completo controllo dell’avatar e sulla relazione che intercorre con esso, ma la realtà sembra abbastanza diversa, spesso gli utenti appaiono così legati ai propri avatar che il rapporto ha portate che travalicano i limiti dei mondi sintetici. Questo per due motivi fondamentali, il primo ci è suggerito da un vecchio game designer della Lucas Arts, Tim Schafer, in un’intervista concessa a Celia Pearce, in cui sostiene che nonostante l’utente abbia il completo controllo sul proprio avatar all’inizio del gioco la loro relazione ha la tendenza a modificarsi con l’evolversi dello stesso, all’inizio, afferma, i giochi have to provide the character with motivation and you have to provide the player with motivation. Because the character will care about things that the player will not necessarily care about. Inseguito, con il progresso del gioco Schafer ipotizza che l’utente inizi a ego-invest, they share the motivations of the character.80 La nozione di ego-investing è complessa e complica notevolmente il rapporto tra utente ed avatar, rendendolo reciproco, introducendo un coinvolgimento, che rappresenta la seconda spiegazione a cui facevamo riferimento in precedenza, derivante dal fatto che psicologicamente l’utente è l’avatar. Questo punto controverso viene esplicitato da Byron Reeves e Clifford Nass, due professori della Stanford università, nel loro libro The media Equation, equazione che esprime la asimmetricità tra le esperienze mediali con quelle della vita reale; dal loro punto di vista noi comprendiamo i media come la realtà, quindi interagiamo, dal punto di vista M. Ryan, Beyond Myth and Metaphore: the case of narrative in digital media in Game studies 1.1, disponibile on-line all’indirizzo www.gamestudies.org 80 C. Pearce, Game noir: A conversation with Tim Shafer, in Game studies 3.3, disponibile on-line all’indirizzo www.gamestudies.org 79 293 Dall’Utopia all’Eterotopia emotivo, con gli altri avatar come faremmo con le persone reali. Hanno notato come nei mondi sintetici le persone durante le conversazioni siano più o meno alla stessa distanza che avrebbero nella vita quotidiana in più: “People respond to interactive technology on social and emozional levels much more than we ever thought…people fell bad when something bad happens to their avatar, and they fell quite good happens.”81 Per dare un esempio di questo profonda relazione tra l’avatar e il proprio utente possiamo raccontare un episodio veramente al limite, la vicenda risale all’ ottobre 2008 quando due giapponesi, un ragazzo e una ragazza, si conoscono e si frequentano all’interno di Maplestory, mondo online sviluppato dalla Wizet (ROK), Lei (43) pur abitando a Sapporo, aveva avuto una relazione con Lui (33) di Tokio, con tanto di incontri amorosi e matrimonio virtuale, lui, però, ad un certo punto decide improvvisamente di divorziare, un’opzione prevista dal gioco, e lei sconvolta dalla decisione, si impadronisce della password del personaggio di lui e lo cancella definitivamente. Lui reagisce accusando l’ex amante e moglie virtuale prima agli amministratori del gioco e poi alla polizia. La polizia rubrica la vicenda alla stregua di un attacco hacker e la arresta. La donna viene condannata a cinque anni di carcere, con una multa di 4.000 euro. Questo pur essendo un caso limite mostra quale sia il grado di coinvolgimento dell’utente nella vita del suo avatar, tale coinvolgimento nasce innanzitutto per la condivisione sociale che avviene all’interno di questi mondi sintetici, come abbiamo descritto in precedenza la realtà di questi mondi è una realtà generata dal fatto che tutti i partecipanti considerano il mondo in sé reale, ancor più importante sono le relazioni sociali che si sviluppano all’interno dei mondi sintetici, poiché queste sono del tutto reali, sono relazioni tra persone comuni mediate dal mondo virtuale. La migliore spiegazione ce la fornisce però la neurobiologia con la scoperta dei B. Reeves e C. Nass, The media Equation, cit. in M.S. Meadows, I, Avatar. The culture and consequences of having a Second life, New Raiders, Berkley, 2008, p.50. 81 294 Dall’Utopia all’Eterotopia neuroni specchio, chiarimento che mette in campo una connessione non solo psicologica, ma fondamentalmente fisica. I neuroni specchio sono un piccolo gruppo di cellule nervose posizionate nella zona inferiore della corteccia parietale, queste hanno delle funzioni veramente importanti permettono l’identificazione con le azioni degli altri, specialmente se sono azioni orientate ad uno scopo. Per farla breve, quando guardiamo qualcuno che compie un’azione si attivano, attraverso i neuroni specchio, le stesse zone celebrali che si attiverebbero se quella azione la stessimo compiendo. Tecnicamente i neuroni specchio sono neuroni che si attivano sia quando compiamo un’azione sia quando guardiamo qualcun altro compierla: La principale caratteristica funzionale dei neuroni specchio consiste nel fatto che questi si attivano sia quando la scimmia compie una particolare azione (per esempio quando lancia un oggetto o lo raccoglie) sia quando osserva un altro soggetto compiere un’azione simile. 82 Quindi sono i neuroni specchio a consentirci l’immedesimazione con il nostro avatar. Questo punto risulta però essere controverso, poiché alcuni studiosi ritengono che si raggiunga un’identificazione maggiore con il proprio avatar attraverso la visuale in prima visione. Infatti quasi tutti i mondi sintetici permettono di scegliere la visuale con cui si preferisce giocare: in prima persona si vede il mondo come se fossimo all’interno della testa del nostro avatar, come se guardassimo dai suoi occhi, o la visione in terza persona, in cui abbiamo una visione posizionata dietro le spalle del nostro avatar, e lo vediamo quasi nella sua interezza. Quale sia la prospettiva che favorisca l’identificazione maggiore e quindi l’immersione maggiore nel mondo sintetico è ancora dibattuta, 82 L. Craighero, I neuroni specchio, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 34. 295 Dall’Utopia all’Eterotopia alcuni come Taylor propendono per la prospettiva in prima persona, nonostante neanche lui sembri troppo convinto: Players have more direct agency in first-person shooters, due in large part because FPS games are identified by their predication on action and control, and that this sense of agency creates a sense of primary identification with the player as being within the game. Yet, FPS games also disrupt the gaze by removing the player from the field of the gaze… Playing first-person I play as me so I never pass through the medium of screen; acting on the screen rather than within the screen because I have identified with and taken in only my own actions instead of a character’s. Essentially, from a position alone the player cannot enter into the game space as part of that game space because of the lack of context which embodiment, in third-person point of view games, provides. 83 Taylor come detto protende per ritenere che il massimo grado di identificazione risieda nella prospettiva in prima persona, ma non tutti sono convinti, poiché molti utenti con tale visione non riescono ad orientarsi, si sentono frastornati, questo risulta anche dalle mie interviste, in particolar modo nei MMORPG, in cui si è verificata una spaccatura esattamente a metà tra coloro che preferiscono il gioco in prima persona, ritenedolo più immersivo, mentre altri vedono esattamente in questa visuale un limite all’immersione nel mondo, anzi si sentono frastornati e non riescono a orientarsi nel campo di gioco. Una mia semplice osservazione a questo riguardo, osservazione che non ha pretese di prova visto il piccolo campione a mia disposizione, consiste nel fatto che la maggior parte di coloro che affermavano di preferire la visuale in prima persona sono giocatori di lunghissimo corso, più che quindicennale, mentre coloro che preferiscono quella in terza persona, erano si giocatori abituali, ma non di così ampia esperienza, quindi si potrebbe concludere che L. Taylor, When Seams fall apart: videogame space and player in Game studies 3.2, disponibile on-line all’indirizzo www.gamestudies.org 83 296 Dall’Utopia all’Eterotopia coloro che hanno maggior esperienza ed hanno in qualche modo interiorizzato l’orientamento necessario all’interno dei mondi sintetici preferiscono la visuale in prima persona perché non hanno bisogno di orientarsi, lo fanno in maniera naturale, e qualsiasi elemento che si frapponga tra loro e lo spazio sintetico risulta una limitazione alla propria identificazione con l’avatar, mentre coloro che non hanno una capacità di orientamento così naturale hanno bisogno di una visuale che li ancori allo spazio del gioco, altrimenti si sentono spaesati. Sempre su questo argomento, facendo un parallelo con un altro medium, nello specifico il cinema, un film annunciato come del tutto innovativo poiché girato completamente nella soggettiva del protagonista, La donna del lago, risultò un completo fiasco, proprio perché, secondo la spiegazione e l’interpretazione di Andrea Minuz,84 il pubblico non riuscì ad immedesimarsi nel protagonista, anzi anche in quel caso si sentì disorientato esattamente come i giocatori meno esperti di MMORPG. All’interno della relazione tra avatar e utente il concetto che più affascina i ricercatori è sicuramente quello di identità. Naturalmente questo è un tema di analisi che da sempre interessa vari campi di studi, in particolare la sociologia e la psicologia, ma che trova nei mondi sintetici una nuova dimensione di analisi che allarga lo spettro delle speculazioni e moltiplica le teorie sull’identità stessa, sulla sua dimensione, sulle dinamiche della sua formazione, e soprattutto sull’influenza che hanno i mondi sintetici e in particolar modo gli avatar su questa. In primo luogo dobbiamo affermare che l’utente nel momento in cui entra a far parte di un mondo sintetico si trova in una posizione identitaria abbastanza stravagante in quanto multipla, infatti come fanno notare Mario Gerosa e Aurelien Pfeffer l’utente si troverà diviso in almeno tre identità diverse, ma convergenti e sovrapposte, da un lato avrà “un’identità sociale”, cioè l’individuo con le sue proprie 84 Cfr. A. Minuz, Dell’incantamento, Ipermediumlibri, Napoli, 2009, p. 41. 297 Dall’Utopia all’Eterotopia caratteristiche socioculturali e psicologiche, un’identità di giocatore, poiché in quel momento ha le conoscenze tecnico cognitive per intraprendere il gioco, poi all’interno del mondo sintetico avrà l’identità specifica del suo avatar, il ruolo che questo riveste all’interno del mondo sintetico, attraverso il quale l’utente si immedesimerà nel suo avatar o doppio virtuale.85 Questo dimostra chiaramente quale intreccio complicato si venga a creare tra l’avatar e l’identità dell’utente. Prima di spingersi nell’analisi delle teorie che studiano tale complesso legame forse è il caso di procedere con una certa cautela prendendo in esame quelle che sembrano le poche e uniche certezze in questo campo di analisi. Ciò che sembra rientrare nell’ambito delle certezze o comunque ciò che sembra essere accolto con favore dalla maggior parte degli studiosi è una classificazione che Richard A. Bartle, coautore del primo mondo testuale nel 1979, il Mud1, ha stilato per descrivere le classi di utenti, divise in base alle motivazioni e ai loro ruoli all’interno dei mondi sintetici. Bartle ne individua quattro: 85 Gli Esploratori: individui che visitano i mondi virtuali per scoprire cosa riservano e per mapparli. Apprezzano in particolare le sfide che implichino il progressivo disvelamento del mondo. Vogliono che il mondo sia molto vasto e contenga meraviglie nascoste a cui sia possibile accedere soltanto grazie alla tenacia e alla creatività. I Socializzatori: individui che visitano i mondi virtuali per stare insieme ad altre persone. Apprezzano in particolare le sfide che implichino la creazione di gruppi con altri giocatori al fine di portare a termine obiettivi condivisi. Vogliono che il mondo offra estese infrastrutture sociali e attività condivise: città, associazioni, arene, matrimoni, gruppi di caccia. Cfr. Cfr. M. Gerosa & H. Pfeffer, Mondi Virtuali, Castelvecchi, Roma, 2006, p.101. 298 Dall’Utopia all’Eterotopia Gli Achiver: individui che visitano i mondi virtuali per raggiungere obiettivi. Apprezzano in particolare le sfide che implichino il progressivo accumulo dei beni che promuovono il rispetto sociale. Vogliono che il mondo permetta l’accumulo di capitale e la creazione di una reputazione. Vogliono la possibilità di incrementare il potere del proprio avatar, di costruire nuove strutture, di accumulare ricchezze e di modificare il mondo stesso. I Dominatori: individui che visitano i mondi virtuali per imporsi su altre persone. Apprezzano in particolar modo le sfide che implichino la competizione e la possibilità di sconfiggere altri giocatori. Definiti anche Griefer, vogliono che il mondo permetta agli utenti di intervenire nelle attività degli altri, così che sia possibile stabilire una situazione di controllo e di dominio. Dal loro punto di vista, tutto può essere ricondotto ad un’attività agonistica.86 Come si nota la classificazione è qui fatta in maniera semplicistica, comunque trova un riscontro nella realtà oggettiva. Ora però è giunto il momento di affrontare quella che sembra essere la relazione tra l’avatar, l’utente e l’identità: sembra che gli avatar siano riusciti a concludere quel processo di frammentazione identitaria che aveva messo in crisi la concezione unitaria del sé. Infatti mentre una concettualizzazione che potremmo definire moderna dell’identità prevedeva un’identità singola solida non contraddittoria, quella che la seguì, che potremmo definire postmoderna concepiva l’identità come un’entità non univoca, molteplice, plurale, superficiale, in cui non era possibile definire un centro e un cuore ben preciso. Non è un caso che per descrivere questo fenomeno viene normalmente utilizzata una metafora un po’ buffa che assimila l’uomo ad una cipolla, con una moltitudine di strati che non rappresenterebbero altro che la molteplicità delle Cfr. R. Bartle, HEARTS, CLUBS, DIAMONDS, SPADES: PLAYERS WHO SUIT MUDS, disponibile on-line all’indirizzo http://www.mud.co.uk/richard/hcds.htm 86 299 Dall’Utopia all’Eterotopia identità contemporanee, senza un nucleo solido al proprio interno. In fondo come afferma Jameson il postmoderno è l’età del superficiale87, non della profondità, e l’avatar in quest’ottica non farebbe che rappresentare semplicemente una nuova superficie, questa volta sintetica, che si va semplicemente ad aggiungere alle altre, anzi forse per la propria natura, disvela agli altri piani identitari la loro intrinseca superficialità e intercambiabilità.88 Quella che potremmo definire la profetessa di questa visione dell’identità è sicuramente Sherry Turkle, con il suo lavoro, ormai diventato un classico, La vita sullo schermo. Per questa assertrice della visione postmoderna la frammentazione identitaria viene resa con una metafora tecnologica: le finestre [del computer] sono diventate potenti metafore per pensare il proprio sé come un sistema multiplo distribuito[…] La pratica di vita delle finestre è quella di un sé decentrato che esiste in molti mondi e impersona ruoli diversi nello stesso istante […]I MUD… offrono la possibilità di assumere identità e vite parallele. L’esperire tale parallelismo fa in modo che sia la vita sullo schermo sia quella fuori vengano considerate con un sorprendente livello di uguaglianza…sono clamorosi esempi di come la comunicazione mediata dal computer possa servire come luogo per la costruzione e la ricostruzione dell’identità. 89 Questo passo enuncia le basi concettuali sulla visione dell’identità di Sherry Turkle, riprese più o meno da tutti sono diventate le basi teoriche per l’analisi dei rapporti tra l’identità e i mondi sintetici; questi infatti non sono diventati delle semplici finestre, la Turkle si Cfr. F. Jameson, Il postmodermo ovvero la logica del tardo capitalismo. Fazi, Roma, 2007. Per approfondimento sull’identità cfr. A. Cavicchia Scalamonti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri, Napoli, 2008 e G. Pecchinenda, Dell’identità, Ipermedium libri, Napoli, 1999 , Videogiochi e cultura della simulazione. La nascita dell’ ‘homo game’, Laterza, Roma-Bari, 2003 e Homunculus. Sociologia dell’identità e autonarrazione, Liguori Editore, Napoli, 2008. 89 S. Turkle, La vita sullo schermo, Apogeo, Milano, 2005, p. 7. 87 88 300 Dall’Utopia all’Eterotopia riferisce alle finestre di windows, non alternative, ma contemporanea alla vita quotidiana, fenomeno che moltiplica semplicemente i piani di esistenza e le sfere di realtà, tutte di pari grado di significazione. Questo non può che moltiplicare e frammentare ancor di più la dimensione identitaria degli individui. Un altro aspetto fondamentale da sottolineare nel nuovo rapporto tra identità e mondi sintetici é la dimensione performativa dell’identità stessa, l’identità virtuale del nostro avatar, quindi la nostra identità virtuale può essere una dimensione dove mettere alla prova diversi aspetti del nostro sé, o provando a performare le nostre innumerevoli personae, che in latino appunto significava maschere. I mondi sintetici ci permettono di costruire e ricostruire le nostre identità provandone sempre di nuove, come se interpretassimo dei personaggi in un film o a teatro, ci permette di creare personas, simili a noi, ma anche completamente diverse, casomai cambiando sesso, elemento molto frequente nei mondo virtuali, questo è possibili perché come nella vita reale quello che va in scena nei mondi sintetici sono dei rituali in cui ogni utente mette in scena il suo doppio virtuale. Esattamente come descrive Goffman90, nella vita quotidiano per quanto riguarda scena e retroscena, cosi accade all’interno dei mondi sintetici, in cui è sempre in atto una rappresentazione, una messa in scena delle identità virtuali. E come nella vita reale anche nei mondi sintetici sono molti i rituali dell’interazione91 che non hannoaltro scopo che quello di confermare le regole della vita quotidiana sintetica, dandole così una solidità ulteriore, e di rafforzare le narrazioni identitarie dei nostri doppi virtuali. Non è un caso che in questi mondi siano ben presenti gruppi comunitari con definizioni e caratteristiche ben stabilite, gruppi come i Gor e i Furry di cui abbiamo parlato in precedenza, gruppi, gli appena citati, spesso in contrasto tra di loro, nel più classico conflitto di demarcazione 90 91 Cfr. E. Goffman, La vita come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 2001. Cfr. R. Collins, Teorie sociologiche, Il Mulino, Bologna, 2007. 301 Dall’Utopia all’Eterotopia identitaria, quello tra outgroup e ingroup92, che ha il compito di confermare ulteriormente le due identità di gruppo. Tornando all’argomento che stavamo trattando un’altra autrice che abbraccia la visione della Turkle e quindi una visione di frammentazione del sé evidenziata dalla relazione con le tecnologie informatiche è sicuramente Allucquere Roseanne Stonne per cui: Le identità che emergono da queste interazioni [macchine/uomo], identità frammentate, complesse, diffratte dalle lenti della tecnologia… Riesco a vedere la lotta sopraumana di queste identità con l’alta tecnologia impegnate in una lotta meravigliosa e terribile, sforzarsi di dare un senso e un significato alla loro stessa idea di cultura.93 La relazione con le tecnologie informatiche sembrano esaltare il carattere di frammentazione dell’identità postmoderna, di cui è possibile aver addirittura una rappresentazione grafica attraverso gli avatar e i mondi virtuali, una relazione che sembra farsi sempre più stretta e per questo motivo sempre più studiata. In questo campo di ricerca una delle concettualizzazioni più interessanti e seguite, soprattutto nel filone americano dei videogame studies, è sicuramente l’approccio di James Paul Gee, che nel suo testo What Video Games Have to Teach Us About Learning and Literacy, delinea un approccio tripartito dell’identità nei rapporti tra l’utente e il suo avatar.94 Gee descrive la relazione tra l’identità e i mondi sintetici prendendo ad esempio un MMORPG, Arcanum, in cui il suo avatar è un mezzo elfo, chiamato “Bead Bead”, ebbene secondo il suo punto di vista la prima forma di identità sarà sicuramente la real-world identity, che Cfr. Z. Bauman, T. May, Pensare sociologicamente, Ipermedium Libri, Napoli, 2000. Stone Allucquère Rosanne, Desiderio e tecnologia. Il problema dell'identità nell'era di Internet, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 50. 94 J.P. Gee, What Video Games Have to Teach Us About Learning and Literacy, Palgrave MacMillan, New York, 2004. 92 93 302 Dall’Utopia all’Eterotopia anche lui comunque interpreta in maniera plurale e molteplice, nel solco della tradizione postmoderna: “Of course, in the real world I have a good many different non-virtual identities. I am a professor, a linguist, an Anglo American, a middle-age male, baby boomer, a parent, an avid reader, a middle-class person initially raised outside the middle class, a former devout Catholic, a lover of movies, and so on.”95 Aspetti della sua identità che vengono attivati, nel suo ragionamento dagli stimoli esterni. La sua seconda identità è la virtual identity, cioè l’avatar che lo rappresenta nel mondo virtuale, in questo caso un mezzo elfo nella terra di Arcanum. Quali sono i rapporti tra questi due tipi di identità? Gee li descrive come a delicious blend of my doing and not my doing96 che introduce al terzo distinto elemento identitario, cioè la projective identity: A third identity that is at stake in playing a game like Arcanum is what I will call a projective identity, playing on two senses of the word “project,” meaning both “to project one’s values and desires onto the virtual character” (Bead Bead, in this case) and “seeing the virtual character as one’s own project in the making, a creature whom I imbue with a certain trajectory through time defined by my aspirations for what I want that character to be and become (within the limitations of her capacities, of course)… In this Identity the stress is on the interface between—the interactions between—the real-world person and the virtual character… The kind of person I want Bead Bead to be, the kind of history I want her to have, the kind of person and history I am trying to build in and through her is what I mean by a projective identity. Since these aspirations are my desires for Bead Bead, the projective identity is both mine and hers, and it is a space in which I can transcend both her limitations and my own. 97 Ivi, p. 55. Ibidem. 97 Ivi, p. 56. 95 96 303 Dall’Utopia all’Eterotopia Come si può notare la projective identity di Gee è uno stato intermedio tra l’identità del mondo reale, sempre e comunque molteplice e frammentata, e quella virtuale dell’avatar. Anche se Gee non la spiega mai in questi termini la projective identity rappresenta una sorta di spazio liminare, uno spazio che si trova tra il mondo reale e quello virtuale. Il Limine, nello studio antropologico dei riti di passaggio, così come viene descritto da Van Gennep ripreso poi da Victor Turner98, è lo stadio di mezzo di un rito di passaggio, in cui contemporaneamente si appartiene e non si appartiene alla fase precedente e a quella successiva, cioè rispettivamente, la separazione e la re-incorporazione. Inteso in questo senso forse è più chiaro perché la descrizione del rapporto tra utente e avatar sia così difficoltosa. L’idea di questa relazione tra projective identity e il limen, mi è venuta in mente leggendo l’articolo, già citato in precedenza di Bob Rehak, Playing at Being: Psychoanalisys and the Avatar99 in cui così espone il rapporto tra l’avatar e la liminalità: Movement back and forth across the border separating self from other might therefore be considered a kind of liminal play: an attempt to isolate and capture (fleetingly) the oscillatory motion of consciousness by which we are sutured into this reality… We create avatars to leave our bodies behind, yet take the body with us in the form of codes and assumptions about what does and does not constitute a legitimate interface with reality-virtual or otherwise… The worlds we create-and the avatarial bodies through which we experience them- seem destined to mirror not only our wholeness, but our lack of it.100 Come possiamo notare Rehak non solo parla di liminalità, ma anche di come gli avatar in realtà siano la rappresentazione più evidente Cfr. A. Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1981 e V. Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986. 99 B. Rehak, Playing at Being: Psychoanalisys and the Avatar, disponibile on-line all’indirizzo http://gscfall09.pbworks.com/f/Playing_at_Being.pdf 100 Ivi. 98 304 Dall’Utopia all’Eterotopia della frantumazione identitaria. In alcuni passi molto interessanti lo studioso paragona i mondi sintetici e i videogame in generale al famoso e studiatissimo gioco del fort/da 101 analizzato da Freud, i videogame sarebbero così un modo per ricostituire o rimodellare una realtà caotica e poco comprensibile: As argued above, video games seem to enact the fort/ da game. If our unity is itself a misrecognition, then the video game, for all its chaotic cartoonishness, may constitute a small square of contemplative space: a laboratory, quiet and orderly by comparison with the complexity of the real world, in which we toy with subjectivity, play with being. As small-scale implementations of VR and other interactive technologies of the imaginary, video games seem to offer the potential for profound redefinitions of body, mind, and spirit. 102 I mondi sintetici divengono allora dei laboratori identitari dove poter esplorare le proprie identità e dove giocare ad essere, poiché spesso la complessità della realtà non ci permette una reale esplorazione e sperimentazione di noi stessi. Il collegamento con il fort/da, quindi con la ripetitività e la comprensione del reale, la sperimentazione identitaria all’interno dei videogame è dimostrata da un semplice fatto, gli avatar o i personaggi non possono morire, c’è qualcosa di simile, si perdono i punti forza o cose del genere, ma la morte non è contemplata, anzi, quella che può essere definita una morte temporanea non è altro che il meccanismo attraverso il quale viene reintrodotta la ciclicità, quindi un’ulteriore possibilità di fare sperimentazioni. Come abbiamo visto quasi tutti gli studiosi concordano sulla stretta e importante relazione che intercorre tra il proprio avatar e l’identità dell’utente che lo ha generato, ma è realmente così? Cfr. A. Cavicchia Scalamonti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri, Napoli, 2008, p. 128-130. 102 B. Rehak, Op. cit. 101 305 Dall’Utopia all’Eterotopia Possibile che una visualizzazione grafica possa determinare o almeno in parte influenzare un processo così importante come quello della costruzione della propria identità? Ebbene un tentativo di risposta ce lo fornisce Zach Waggoner, nel suo My Avatar, My Self103 , in cui analizzando da vicino alcuni giocatori di MMORPG, tenta di delineare il vero rapporto che intercorre tra l’avatar e l’identità del proprio creatore. La ricerca si basa su delle interviste in profondità con due hard-player e due non giocatori, che vengono invitati a partecipare alla ricerca e quindi per la prima volta approcciano il mondo dei mondi sintetici. Ebbene secondo questa ricerca tutte le ipotesi che avevamo fatto fin ora sembrano trovare conferma. In primo luogo tutti i partecipanti sembrano essere molto coinvolti a livello emotivo alle vicende del proprio avatar, i due hard-gamer naturalmente in misura maggiore, ma anche più consapevole, mentre i novellini che all’apparenza sembrano avere un maggior distacco nei confronti del proprio avatar in realtà hanno comportamenti che negano di fatto tali asserzioni, tra le più evidenti utilizzano sia la prima persona singolare o la prima persona plurale per riferirsi al proprio avatar. Un altro dato importante che Waggoner sottolinea risiede nel fatto che gli utenti, anche in questo caso in maniera più chiara quelli abituali, riconoscono che il proprio avatar ha degli aspetti in comune con le loro personalità, in maniera velata o anche esplicita. Un altro elemento che lo studioso americano mette in luce consiste nell’influenza della’avatar sulla personalità e sull’identità del proprio utente, ebbene anche questa sembra accertata secondo la ricerca svolta, infatti alcuni giocatori riferiscono di riportare nella vita reale un comportamento più sicuro di sé quando hanno delle buone relazioni all’interno dei mondi sintetici.104 103 104 Z. Waggoner, My Avatar, My Self, McFarland, North Carolina, 2009. Cfr. Z. Waggoner, Op. cit. 306 Dall’Utopia all’Eterotopia Per il resto sembra confermare ciò di cui stavamo discutendo in precedenza, quindi che i mondi sintetici non siano altro che altri frame all’interno della vita quotidiana, dove sussistono per la maggior parte le stesse regole relazionali, dove si possono sperimentare nuove identità, nuove narrazioni del proprio sé, che vengono introiettate nella propria identità, esattamente come i diversi ruoli e le identità che attiviamo nella nostra vita quotidiana. Un altro aspetto importante che lo studioso mette in campo riguarda l’annosa questione terminologica di cui abbiamo già discusso, cioè quella della dicotomia tra reale e virtuale. Ebbene poiché nell’interpretazione di Waggoner non essendoci nulla di virtuale nella relazione tra avatar e identità individuale, di sostituire il termine virtuale con quello di verisimulacratude: I offer the term “verisimulacratude” as a way to describe the general phenomenon and process of becoming immersed in a vRPG and avatarial identification within those virtual settings. I believe verisimulacratude when paired with verisimilitude, creates the terminological range of a continuum that would enable videogames scholars to more accurately, articulate, categorize, and investigate the phenomenon of identity construction in videogames. 105 La verisimulacratude non è altro che la crasi terminologia e concettuale dei termini verosimiglianza e simulacro. Questi sono due processi fondamentali poiché senza di loro l’immersione e l’identificazione nei mondi sintetici non sarebbe possibile, infatti la verosimiglianza assicura la presenza nel mondo sintetico di alcuni framework di orientamento che devono essere rispettati affinché l’utente possa “sospendere la propria credulità” e percepire l’ambiente sintetico come reale, il più importante è la rappresentazione prospettiva del mondo, ma questo è un fenomeno 105 Ivi, p. 167. 307 Dall’Utopia all’Eterotopia già noto per i nostri lettori.106 Perché ci sia questa immedesimazione però la verosimilitudine non basta, è necessario che il mondo sintetico si presenti anche come un simulacro, cioè abbia una aderenza ed una coerenza ai mondi finzionali o narrativi a cui quello specifico mondo sintetico si ispira. Ad esempio se ci troviamo in un MMORPG di genere fantasy le convenzioni e le coerenze del genere devono essere rispettate, pena la mancata identificazione del giocatore, infatti: Identificatory immersion depends on a “delicious blend” of non-virtual, virtual, and projective aspects.107 L’ultimo tema che gli avatar sollevano è quello del Doppio, tema ampiamente trattato nella cultura occidentale. Il doppio come figura emblematica che coniuga in maniera problematica ed contraddittoria il Sé al suo contrario, ovvero la vis creativa e libidica all’annichilimento dell’individuo. Il doppio nella quasi totalità delle sue apparizioni rappresenta un elemento di minaccia, in primo luogo perché distrugge e mette in crisi l’unicità e l’unita dell’identità umana, mettendo in discussione la riconoscibilità personale del soggetto. La messa in discussione dell’identità da parte del doppio viene messa in scena nella cultura occidentale in diverse forme, innanzitutto come corpo riprodotto o sostituito, che mantiene la morfologia/identità esterna ma che in realtà è un simulacro. Il doppio si può anche presentare con le sembianze di un corpo invaso o posseduto, che mette in crisi per il conflitto tra l’individuo e le sue nuove pulsioni, pensiamo all’ibridazione con un corpo alieno. Una delle più riuscite figure di doppio è sicuramente quella del replicante, presente nella sua massima espressione in Blade runner,108 costrutto biologico del tutto simile all’uomo, ma mancante Vedi paragrafo 4.3 Caratteristiche dei Mondi Sintetici. Z. Waggoner, Op. cit., p.167. 108 Per un’interpretazione dei replicanti in Blade Runner, cfr. A. Cavicchia Scalamonti, Le proiezioni della memoria, Ipermedium Libri, Napoli, 2009. 106 107 308 Dall’Utopia all’Eterotopia di empatia. Queste sono le più frequenti rappresentazioni del doppio, che è così pericoloso perché: rappresenta la negazione stessa di quel processo di ontogenesi identitaria che caratterizza la tradizione occidentale fin dalle sue origini: la perdita di riconoscibilità, il timore di essere sostituiti, il terrore dell’ambiguità, come dell’informe e del disordine, sono tratti centrali nel pensiero filosofico fin dalle sue prime espressioni nella cultura greca.109 Questa visione umbratile e negativa del doppio la possiamo adattare anche alle prime rappresentazione dei robot e degli automi, ormai sembra essersi affievolita, pensiamo alla normalizzazione, spesso critica e generatrice di crisi, questo senza dubbio, attuata dalla figura del cyborg, quindi del processo di ibridazione uomo macchina. Queste crisi si sciolgono con l’emergere della società informatica e il doppio informatico, nella figura dell’avatar, diviene rappresentazione coerente e riepilogativa del processo di frammentazione dell’identità umana. Non è più un doppio negativo, diviene un potenziale mezzo di espressione del sé, o almeno di una parte di questo, ed è soprattutto parte integrante della nostra umanità come evidenzia in maniera eccelsa Mark Stephen Meadows: The avatar is the usher of a post-human era. This is not science fiction, but “progress”. This is simply the face of humanity as we strap on more and more tools, embedding them into our bodies, growing into them, improving limbs and replace organs, allowing them to change into us as we change into them. It’s how we grow into our imaginations, and how our dreams became real. 110 R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 308. 110 M.S. Meadows, I, Avatar. The culture and consequences of having a Second life, New Raiders, Berkley, 2008, p. 95. 109 309 Dall’Utopia all’Eterotopia 4.8 Fine dell’Eterotopia? In questo capitolo ci siamo addentrati nell’analisi dei mondi virtuali, li abbiamo studiati in profondità, per verificare se anche in questi, come nel primo paradigma della realtà virtuale fosse presente quel particolare immaginario utopico che avevamo definito eterotopia; ebbene di questo desiderio utopico non vi è traccia, troppo implicati nei fondamenti culturali della società dominate da non essere in grado di elaborare e mettere in pratica delle relazioni sociali innovative. Questo è particolarmente visibile nei social virtual world, in cui la maggior preoccupazione degli utenti è quella della visibilità che poi si fonda con un senso estremo della notorietà. Infatti il meccanismo della notorietà in mondi come Second Life sembra essere dominante, la tua identità virtuale ha valore solo se la comunità la riconosce, questo in fondo vale anche nella vita di tutti i giorni, ma nei mondi sintetici questo concetto è portato all’estremo, soprattutto si basa sulle doti estetiche del proprio avatar, un avatar che non ha nulla di originale mina seriamente le possibilità e le risorse relazionali del proprio utente. Questo è importante sottolinearlo poiché entra in relazione con un aspetto molto concreto, la disponibilità di denaro. Infatti solo chi dispone di denaro ha la possibilità ci acquistare applicazioni o accessori che possano rendere il proprio avatar attraente per la comunità. Così bisogna constatare come anche nei social virtual world esista una precisa stratificazione sociale, che per di più è identica a quella della vita quotidiana. Per essere onesti non è del tutto vero, poiché al vertice di questa scala sociale virtuale accanto ai facoltosi troviamo gli assi dell’informatica, fenomeno abbastanza normale visto che ci troviamo all’interno di un mondo informatico, questi sono in grado di programmarsi da soli gli elementi di distinzione sociale. Questo però è loro possibile solo in quei mondi sintetici che permettono lo user generate content, altrimenti l’elemento base rimane lo stesso della realtà quotidiana, il denaro. Altro elemento che classifica come non utopici questi ambienti è il fatto che la maggior parte delle 310 Dall’Utopia all’Eterotopia relazioni siano vincolate da rapporti commerciali e di mercato, infatti il passatempo preferito degli utenti di Second Life risulta essere l’e-shopping o la compravendita di beni virtuali. Questo mostra ancora una volta la mancata propensione ad un approccio di tipo diverso alle relazioni sociali. In realtà, all’interno dei social virtual world, non parlo dei MMORPG, poiché a livello sociale sono troppo determinati dal tipo di gioco di ruolo che è stato sviluppato, in particolar modo all’interno di Second Life , esistono delle sim che sono state generate esattamente come adattamento virtuale delle utopie classiche, o comunque sim in cui è vietato l’uso del denaro. Per assurdo ci troviamo di fronte a fenomeni eterotopici di secondo livello, cioè un’eterotopia all’interno di un’eterotopia, o meglio a quella che in principio era stata deputata ad esserlo. Se la vita all’interno dei mondi sintetici rispecchia quasi per intero quello della vita quotidiana allora qual è il motivo della loro così ampia espansione. Ebbene una delle risposte si annida dal mio punto di vista nella metafora della frontiera che abbiamo analizzato in un paragrafo precedente, infatti la frontiera virtuale rappresenta solo un modo per moltiplicare senza molti sforzi la possibilità dei soggetti di soddisfare i propri desideri e bisogni, senza mettere realmente in discussione le basi socioeconomiche che rendono impossibile una più equa distribuzione della ricchezza economica e culturale all’interno della realtà quotidiana. Questa visione può avere anche una variante escapista, poiché nel real-world non si è in grado, non si hanno le capacità o le risorse necessarie, siano esse economiche, sociali, culturali o cognitive, di soddisfare i propri desideri o bisogni, allora ci si rifugia nei mondi sintetici, una volontà di uscire dal mondo reale ed avere una nuova possibilità in quello virtuale. Anche se non dobbiamo pensare che tutti gli utenti utilizzino i virtual world sotto quest’ottica, dobbiamo riconoscere che quest’approccio ha qualcosa di reale, per il semplice motivo che il primo dei mondi sintetici, Habitat, sviluppato da Chip Mornigstar e Randall Farmer della LucasFilm, fu creato appositamente per i bambini ammalati e ricoverati in ospedale, per dar loro 311 Dall’Utopia all’Eterotopia un’alternativa alla dolorosa noia della vita ospedaliera. Il mondo sintetico di Habitat, era infatti un mezzo che permetteva ai bimbi, che non potevano muoversi dai propri letti, di giocare insieme e dimenticare per un attimo le proprie sofferenze. Prendendo spunto da questo evento e ricordando che Habitat è stato inventato in California, Mark Stephen Meadows sostiene che i mondi sintetici non sono altro che la prosecuzione dell’American dream con altri mezzi, un tentativo di recuperare il senso di comunità, concetto anche per lui chiave all’interno delle nuove tecnologie come per molti studiosi, che è stato spazzato via dalla strutturazione metropolitana e anonima della società civile: American dream tell us that we can become what we want, and we profit by doing so. It is a dream of independence and success and that core ability to make yourself into who and what you want…these people had assembled their own synthetic communities because they had none on hand in the real world…also give these same people an opportunity to explore a place that is safer than what modern world seems to afford…offer an alternative to the “American dream” of decentralized cities full of anonymous faces, depersonalized living, mass media and fear…it only makes sense that another life offering greater engagement might start to compete with one that, for many people, is not what they’d hoped. They have another option. Virtual worlds are American Dream second edition, a response to the American dream first edition. 111 Come si nota quello che si viene a creare è una sorta di ritorno alla vera forma di American dream, una forma che nella vita quotidiana sembra ormai esser svanita nella strutturazione delle nuove megalopoli che non permettono il costituirsi di quella forma elementare di struttura relazionale rappresentata dalla comunità. Qui, in realtà sembra di assistere alla solita dicotomia che angustia 111 Ivi, pp. 86, 87. 312 Dall’Utopia all’Eterotopia la sociologia dai tempi di Tönnies cioè quella tra società e comunità, ebbene per questo studioso, come molti altri nel campo della ricerca sulle nuove tecnologie, di cui di sicuro il più celebre è Rheingold queste riescono a ricostruire quel senso comunitario che la società contemporanea sembra aver completamente annientato. Questa visione dal mio punto di vista sembra, però, molto semplicistica, anche se non si può nascondere che questo tipo di interpretazione ha qualche appiglio nel reale, quello che non riesce a spiegare però è il motivo per cui le società sintetiche sembrano strutturarsi esattamente allo stesso modo di quello reale, quindi senza volontà o capacità di migliorare la struttura sociale, anzi in più sembra che l’essere migliore dei mondi sintetici risulti semplicemente dalla loro natura virtuale, per dirla in altri termini i mondi sintetici sembrano innatamente migliori semplicemente per il fatto di esser virtuali, questo al nostro ragionamento non può apportare alcunché di interessante, anzi forse da alcuni punti di vista sembra semplicemente una prosecuzione dell’ideologia del progresso, in cui ogni nuova tecnologia è interpretata in maniera positiva semplicemente perché rappresenta il nuovo, ma anche questo sembra una concettualizzazione che non riesce a spiegare del tutto il fenomeno che stiamo affrontando. Forse l’approccio che può risultarci più utile è interpretare la nascita dei mondi sintetici come la risposta ad una realtà troppo complessa, troppo piena di stimoli, la maggior parte dei quali non potranno mai essere soddisfatti, se non da una minima parte della popolazione, non solo per la scarsità delle risorse, ma semplicemente per la mancanza di tempo o per la complessità che la loro soddisfazione richiederebbe. Quest’approccio collegato con la mia interpretazione della metafora della frontiera, quale espansione del territorio di possibilità esistenziali, espansione necessaria per diminuire la conflittualità sociale causata dalla stratificazione della società stessa, porterebbe alla conclusione che i mondi sintetici non siano altro che un nuovo frame esistenziale che moltiplica ed amplia il territorio di possibilità esistenziali, necessario per soddisfare la 313 Dall’Utopia all’Eterotopia proliferazione esponenziale degli stimoli, che forse a questo punto potremmo e dovremmo definire desideri e bisogni. Tra questi entrano di prepotenza quelli di visibilità e riconoscimento che ho citato nel capitolo precedente, che hanno una valenza fondamentale all’interno di una sfera mediale sempre più importante e soprattutto decisiva nel processo di formazione identitaria, elemento esposto al meglio dal successo incredibile dei social network come Facebook e simili, utili per un autoriconoscimento così difficoltoso nell’attuale società, che dà forma a quell’individualismo di rete come evidenziano sia Barry Wellman, che Manuel Castells nei propri lavori e che rappresenta per loro la base identitaria contemporanea.112 Ebbene se i mondi virtuali rappresentano soltanto una sfera di realtà che sembra far in modo che sia il reale ad invadere il virtuale e non il contrario, si può ben capire come in un ambiente così strutturato ci sia poco spazio per un reale immaginario utopico. L’universo virtuale sembra aver perso quella capacità di poter creare realtà, nel caso dell’immaginario utopico di creare realtà sociali alternative, forse in verità non lo ha mai avuto tale potere, e il paradigma della prima realtà virtuale e del cyberspazio erano semplici concettualizzazioni di stampo utopistico per la propria natura di pura potenzialità, non essendo all’epoca ancor implementate come reali tecnologie sociali, come sono oggi, e questo permetteva un’immaginazione forte sulle reali caratteristiche e potenzialità del mezzo. Un altro aspetto che vorrei sottolineare nell’analisi dei mondi sintetici è una riflessione che si è sviluppata dopo le interviste sostenute con gli utenti di questi universi, che si fonda su una semplice intuizione sembrerebbe che oggi poiché la quasi totalità degli stimoli ci provengono da canali Cfr. B. Wellman, Physical place and cyber-place: The Rise of Personalized Networking. International Journal for Urban and Regional Research, 25, 227-52. M. Castells, Galassia Internet, Feltrinelli, Milano, 2002 e La nascita della società in rete, Vol. 1: L'età dell'informazione: economia, società, cultura, Bocconi, Milano, 2002. 112 314 Dall’Utopia all’Eterotopia mediali, la loro soddisfazione non può che essere di quella stessa natura, una sorta di contrappasso dantesco, in realtà qui si dovrebbe parlare di parossismo, infatti gli stimoli mediali son diventati così numerosi che una loro soddisfazione implica di fatto una natura mediale. Questo è una suggestione che mi ha colto parlando con i miei intervistati, la maggior parte dei quali programmatori informatici, ebbene dopo le canoniche ore di lavoro trascorse davanti ad uno schermo, per loro non c’è nulla di più naturale di immergersi in un universo informatico come quello dei virtual world, allora l’unico pensiero che mi ha colto è il pensare che il mondo sia ormai un mondo informatico nella sua essenza, i virtual world e la realtà non sono altro che dei frame all’interno dell’universo mediale-informatico. 315 Dall’Utopia all’Eterotopia Conclusioni Il nostro viaggio per Utopia è giunto così alla sua conclusione, abbiamo attraversato mari tempestosi e spesso nebbie concettuali, ma abbiamo descritto, o almeno ci abbiamo provato, quella che abbiamo definito la nuova dimensione dell’immaginario utopico: l’eterotopia. Quella mercuriale forma utopica che predente di abitare e riformare il reale contestualmente alla società dominante, in un ambito che seppur parziale, virtuale o temporaneo possa essere rivoluzionario. Una trasformazione che strappa al futuro e all’ideologia del progresso il dominio sull’immaginario utopico e lo muta radicalmente compiendo una metaformosi completa. Nonostante gli esempi di tale immaginario siano complessi e vari possiamo sostenere che le sue origini e le sue basi concettuali siano da rintracciare nella Controcultura degli anni ’60 e ’70, nel suo rifiuto dell’american way of life, ma soprattutto nelle modalità di questo rifiuto, nella volontà di creare uno spazio alternativo compresente, senza affidare al futuro il momento della realizzazione di una società migliore e perfetta, ambizione che la comune Hippie incarnava, e che diventerà il modello dei successivi movimenti controculturali. Abbiamo descritto come la Cybercultura degli anni ’90 abbia una discendenza diretta dalle istanze controculturali e abbiamo mostrato i tentativi di realizzare tali istanze in un nuovo territorio, la nuova dimensione del virtuale, nelle sue declinazione di cyberspazio e realtà virtuale. Abbiamo intrapreso quindi un viaggio all’interno della normalizzazione di questa nuova cultura informatica analizzando la perdita di connotati utopici avvenuta nei mondi virtuali e nella cultura dei videogame, in questo lungo viaggio abbiamo studiato l’immaginazione sociale dei vari movimenti antagonisti mettendone in luce i sogni, le ambizioni, le mitologie e molto spesso le contraddizioni. Abbiamo tracciato delle linee intrerpretative che ci hanno condotto a definire alcune metafore e dicotomie assiologiche, come la metafora della frontiera per il 317 Dall’Utopia all’Eterotopia cyberspazio e la dicotomia tra Rivoluzione e Sovversione per le TAZ e la Rave culture, per mostrare come l’interpretazione delle forme eterotopiche possa essere sfuggente e mutevole. Giunti a questo punto non ci resta che affrontare l’ultimo argomento, che segna in maniera decisiva tutto l’arco della ricerca e le conferisce forse una visione unitaria e d’insieme: il legame tra eterotopia, desiderio e mondi virtuali. Abbiamo sfiorato questo tema lungo tutto il nostro viaggio ed è giusto affrontarlo ora perché sintetizza e porta alla luce alcuni elementi fondamentali dell’immaginario eterotopico. In fondo viviamo oggi in una società del desiderio come afferma Ugo Volli1, in cui questo è la materia prima di tutto l’apparato economico e sociale, un elemento che è il punto di partenza di ogni relazione sociale. Il problema nasce dal fatto che il desiderio risulta definibile con difficoltà ancor maggiori dell’utopia: ciò che rimane impensato al cuore stesso del pensiero,2 l’elemento impensabile per definizione necessita infatti di essere esaminato perché in esso è presente la mancanza, l’insufficienza dell’essere, ma insieme vi è il progetto, la capacità di far essere quel che non c’è, di realizzarlo sulla base di un’immagine che spesso è solamente mentale. Una possibilità creativa, uno scarto rispetto al reale che non possiamo trovare negli altri esseri viventi e che talvolta è stata nominata come il divino nell’umano o l’essenza dell’uomo.3 Essenza creatrice e produttrice che non può non essere assimilata e accostata all’utopia, in fondo come abbiamo già notato il desiderio è rivoluzionario nella sua essenza,4 e dunque chiaro che ogni filosofia politica implica una filosofia del desiderio, non è infatti un caso che questo sia in fondo l’obiettivo di molte utopie, dalla Repubblica di Platone alla Teoria dei quattro movimenti di Fourier, l’utopia non può non pensare il desiderio poiché: U. Volli, Figure del desiderio. Forme, testo, mancanza. Meltemi, Roma, 2002, p.7. M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 2007, p. 386. 3 Cfr. B. Spinoza, Etica, Libro III, Utet, Torino, 1977. 4 Cfr. Cap. 3.7 1 2 318 Dall’Utopia all’Eterotopia la realtà del desiderio è immediatamente politica. Il desiderio anima i flussi economici e attraversa i poteri; si cristallizza e consolida la sua potenza in sistemi di potere; alimenta le forze stesse che lo opprimono; degenera nel totalitarismo e nel fascismo. Ciò nonostante, non manca mai di affermare la propria essenza rivoluzionaria.5 Qui nasce in realtà una prima difficoltà poiché in fondo l’utopia tenta ciò che è impossibile, gestire, ordinare, sedare ciò che è impossibile da placare, il desiderio appunto, un impulso, anzi un moto dell’anima, indefinito e indefinibile che ha in realtà desiderio solo di se stesso, forza extra-individuale difficilmente limitabile. L’emergere del desiderio come entità utopica e rivoluzionaria nasce naturalmente, e questo ormai non dovrebbe più stupire, durante gli anni ’60 e ’70 attraverso un’interpretazione particolare delle tesi di Freud portate avanti da intellettuali quali Marcuse e Norman Brown, di cui abbiamo già parlato, soprattutto il primo con il suo Eros e Civiltà, ha dato vita ad una vera e propria utopia del desiderio, in cui difende l’idea di una cultura non repressiva della libido, e quindi la trasformazione di questa in Eros, che liberato porterebbe alla creazione di una società migliore, non repressiva ne violenta: Dobbiamo chiederci se gli istinti sessuali, eliminata ogni repressione addizionale, siano in grado di creare una≪ razionalità libidica≪ non soltanto compatibile col progresso, ma anche atta a promuovere forme superiori di libertà civile.6 L’Eros liberato sarebbe anche in grado di sconfiggere l’istinto di morte, che Marcuse riconduce al principio del Nirvana, che definisce non come tendenza del vivente a raggiungere uno stato zero di intensità, e dunque a morire, ma come stato di costante 5 6 C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto. Einaudi, Torino, 2002, p. 267. H. Marcuse, Eros e Civiltà, Einaudi, Torino, 2001, p. 216. 319 Dall’Utopia all’Eterotopia soddisfazione e di assenza di dolore, il principio del Nirvana diventerebbe pulsione distruttiva solo sotto l’effetto della repressione sociale : Se l’obiettivo fondamentale dell’istinto non è la fine della vita ma la fine del dolore – la mancanza di tensione – paradossalmente, in termini di istinto, il conflitto tra vita e morte si riduce tanto più quanto più la vita si avvicina allo stato di soddisfazione. In questo caso, principio del piacere e principio del Nirvana convergono. Allo stesso tempo l’Eros, liberato dalla repressione addizionale, verrebbe rafforzato, e quest’Eros rafforzato assorbirebbe per così dire l’obiettivo dell’istinto di morte.7 Come notiamo il desiderio liberato non è solo in grado di creare una società migliore, ma anche una sorta di paradiso. Negli anni ’60 e ’70 interpretazioni di questo del desiderio erano piuttosto diffuse, pensiamo alle opere di Wilhelm Reich8, ma in realtà semplificano la figura del desiderio, che è per natura non limitabile, è votato all’eccesso come ci insegna Baitalle9, vuole consumare e consumarsi, quindi una razionalità libidica sembra del tutto irrealizzabile, ma non dobbiamo stupirci, come detto l’utopia tenta di mettere un freno al desiderio, ma ciò non è possibile, poiché il desiderio è un moto complesso che possiamo descrivere al meglio solo con le parole del filosofo del desiderio per eccellenza, Gilles Deleuze, che ne ha fatto del una delle chiavi interpretativa del reale e così lo definisce nella voce “Desiderio” del suo Abecedario, il film-intervista realizzato nel 1988: Finora si è parlato di desiderio astrattamente perché si è isolato un oggetto che si suppone essere l’oggetto del desiderio, e allora si Ivi, p. 247. Cfr. W. Reich, La funzione dell'orgasmo. Dalla cura delle nevrosi alla rivoluzione sessuale e politica. Il Saggiatore, Milano, 2010. 9 Cfr. G. Baitalle, L' erotismo, ES, Milano, 2009. 7 8 320 Dall’Utopia all’Eterotopia può dire ‘desidero una donna, desidero partire per un viaggio…’ E noi dicevamo (Deleuze e Guattari) una cosa semplice: non si desidera mai veramente qualcuno o qualcosa. Si desidera sempre un ‘insieme’. Qual è la natura dei rapporti tra gli elementi perché ci sia desiderio, perché diventino desiderabili? Dice Proust, non desidero una donna, ma desidero anche un ‘paesaggio’ che è contenuto in quella donna, un paesaggio che forse neanche conosco, ma che intuisco e finché non ho sviluppato questo paesaggio non sarò contento, cioè il mio desiderio non sarà compiuto, resterà insoddisfatto. Quando una donna dice ‘desidero un vestito’ è evidente che non lo desidera in astratto. Li desidera nel suo contesto, nella sua organizzazione di vita. Il desiderio non solo in relazione a un paesaggio, ma a delle persone, i suoi amici o no, la sua professione. Non si desidera mai qualcosa di isolato. Ma ancora, non desidero neanche un insieme, desidero in un insieme. In altri termini non c’è desiderio che non scorra in un concatenamento. Di modo che il desiderio per me è sempre stato…. Se cerco il termine astratto corrispondente, è ‘costruttivismo’. Desiderare è costruire un concatenamento, costruire un insieme. L’insieme di una gonna, di un raggio di sole…di una strada, il concatenamento di un paesaggio, di un colore. Ecco cos’è il desiderio. E costruire un concatenamento significa costruire una regione. Concatenare. Il concatenamento è un fenomeno fisico, è come una differenza. Perché accada qualsiasi evento c’è bisogno di una differenza di potenziale e ci vogliono due livelli, bisogna essere in due, allora accade qualcosa. Un lampo o un ruscelletto e siamo nel dominio del desiderio. Un desiderio è costruire. Tutti passiamo il nostro tempo a costruire. Per me quando qualcuno dice ‘desidero la tal cosa’ significa che sta costruendo un concatenamento. Il desiderio non è nient’altro.10 Gilles Deleuze isola due elementi fondamentali del desiderio, in assoluto non fa derivare il desiderio dalla mancanza, elemento comune della riflessione filosofica e psicologica, da Freud in poi, 10 G. Deleuze, L’abecedario di Gilles Deleuze, interviste televisive con C. Parnet dirette da P. A. Boutang, Derive Approdi, Roma, 2005. 321 Dall’Utopia all’Eterotopia sull’origine del desiderio, inoltre sottolinea la sua natura sovraindividuale: non siamo soli a desiderare, siamo sempre nel campo di un desiderio (anzi, di desideri molteplici), all’interno di una macchina di desiderio che è collettiva. Da queste parole si comprende la difficoltà del campo di analisi, la sua versatilità e mutevolezza, ma oltrepassando il pensiero deleuziano, possiamo indicare alcuni concetti chiave che poi ci torneranno utili, in primo luogo il concetto di mancanza all’interno del discorso sul desiderio è fondamentale, in quanto Freud11 vede il sorgere del desiderio da una mancanza originale, una mancanza che mai più può essere colmata, il grembo materno, in cui tutti i bisogni venivano esauditi immediatamente, condizione a cui l’uomo tenterebbe di tornare grazie a quella che definisce sentimento oceanico di cui abbiamo gia parlato nel terzo capitolo, non potendo più esaudire quel desiderio allora lo si sublima, gli si cambia obiettivo, lo si feticizza, per questo il desiderio non può mai essere appagato, per questo la società tenta di limitarlo il più possibile. Altro approccio fondamentale al desiderio, per noi forse il principale è quello di Lacan: il desiderio dell’uomo trova il suo senso esattamente nel desiderio dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto desiderato, quanto perché il suo primo oggetto è di essere riconosciuto dall’altro.12 Il desiderio non è tanto una relazione con un oggetto, quanto una relazione intersoggettiva, è sempre “il desiderio è di fare riconoscere il proprio desiderio…il desiderio è desiderio di desiderio, desiderio dell’Altro”.13 Questa interpretazione deriva direttamente dall’analisi Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, Totem e tabù, Mondadori, Milano, 1994. 12 J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 2002, p. 261. 13 Ivi, p. 337. 11 322 Dall’Utopia all’Eterotopia della dialettica hegeliana Servo-Padrone di Kojève di cui Lacan fu studende, gli elementi fondamentali sono due, in assoluto il desiderio innato di essere riconosciuto, riconosciuto come essere umano, nella propria unicità, è in fondo il desiderio di essere amato: Il Desiderio umano deve dirigersi verso un altro Desiderio…Così, per esempio, nel rapporto fra un uomo e una donna, il Desiderio è umano unicamente se uno non desidera il corpo, bensì il desiderio dell’altro, se vuole “possedere” o “assimilare” il Desiderio assunto come tale, se cioè vuole essere “desiderato”, “amato” o meglio, “riconosciuto” nel suo valore umano, nella sua realtà di individuo umano.14 Il riconoscimento quindi come base esistenziale, riconoscimento non solo della propria umanità, ma soprattutto della propria individualità, della propria identità. Identità che riconosciuta diviene in fondo la base della società stessa, come hanno mostrato in maniera decisiva le opere di Elias, Durkheim, Goffman e Collins15, questo perché la dissoluzione della società premoderna disintegra le istanze classiche di legittimazione e di identificazione, il Sé viene affrancato da ogni vincolo esterno, per questo il riconoscimento assume una nuova e cruciale importanza, poiché diviene lo strumento imprescindibile per la costruzione di un’identità che non è più data a priori, e che si configura come l’obiettivo permanentemente incerto di una difficile ricerca. Non solo, secondo questi autori, il Sé diviene il centro della solidarietà sociale, il ricevere riconosciemento, il rispetto assoluto che il Sé deve ricevere è il fondamento dei rituali dell’interazione sociale su cui si basa la solidarietà sociale. Il Sé libero dalle catene di qualsiasi A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano, 1996, pp. 19, 20. Cfr. N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna, 1998, E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Meltemi, 2005, E. Goffman, Il rituale dell’interazione, Il Mulino, Bologna, 1988 e La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1997, R. Collins, L'intelligenza sociologica, Ipermedium Libri, Napoli, 2008. 14 15 323 Dall’Utopia all’Eterotopia gerarchizzazione si trova all’interno di una fluidità sociale a cui deve dare una risposta, risposta di cui si fa carico l’Altro, attraverso il processo mimetico in cui Girard16 ha individuato il fondamento stesso dell’identità individuale e delle relazioni sociali: il Sé costruisce la propria immagine guardandosi con gli occhi degli altro, sia esso reale o immaginario, verso il quale si pone in un rapporto essenzialemente imitativo. Il processo mimetico investe in pieno, dunque, il desiderio, il nostro desiderio è dell’altro nella misura in cui siamo portati a desiderare ciò che gli altri desiderano – mode, stili di vita, futuri: nella misura insomma in cui diviene desiderio mimetico. Per cui, la domanda originaria del desiderio non è direttamente: “Cosa voglio?”, ma: “Cosa vogliono gli altri da me? Cosa vedono in me? Cosa sono io per quegli altri?” I desideri dell’individuo sono quindi dipendenti dal desiderio dell’altro e l’oggetto desiderato ha in sé meno importanza della relazione mimetica con l’altro. Quindi l’Altro è determinante non solo perché riconosca la mia identità, ma anche perché si pone davanti al Sé come un modello. Naturalmente al riconoscimento si deve affiancare una naturale visibilità sociale, visibilità che con l’affermarsi della vita metropolitana ha fatto in modo di riversarsi prima sui grandi mass media, come la radio e il cinema, unici mezzi disponibili per l’auto-rappresentazione. Il più grande capitolo del rapporto tra media, identità e riconoscimento è stato scritto con l’avvento della broadcasting televisivo, in grado di trascinare e uniformare tutto al proprio modello di cultura e di identità collettiva. Ha messo in gioco nuove forme di azione e interazione, nuovi tipi di relazione e nuovi modi di rapportarsi a se stessi e agli altri, così le forme del riconoscimento reciproco e i tradizionali legami sociali sono stati reinterpretati in nuovi spazi mediali che hanno articolato l’intero patrimonio dei significati socialmente condivisi, il riconoscimento è stato medializzato, ma con l’emergere 16 Cfr. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano, 2002. 324 Dall’Utopia all’Eterotopia dei nuovi media il rapporto di visibilità che prima era unidirezionale si rompe, vi è stata una fluidificazione della visibilità sociale17, il soggetto si immerge in nuovi spazi mediali dove è più importante la sua auto-rappresentazione: il nostro presente è appunto caratterizzato dall’analogia, anzi dall’omologia tra la crisi delle grandi filosofie della storia e la crisi dell’immaginario collettivo costruito dai grandi media storici quali il cinema, la radiotelevisione e la stampa di massa. Il loro ciclo sembra ormai prossimo a chiudersi a vantaggio di forme di comunicazione, di tecnologie, che favoriscono modelli autopoietici, cioè mezzi espressivi, di elaborati del linguaggio, che fuoriescono dalla dimensione totalitaria e unidirezionale dello schermo, dalla sua vita propria, dalla sua indipendente potenza generativa, investendo più intimamente l’artificialità del soggetto, del suo corpo-mente, attrezzandolo più efficacemente come organizzatore delle comunicazione piuttosto che semplice ricettore.18 È esattamente su questo piano di visibilità e di desiderio di riconoscimento che entrano in gioco i media elettronici, e i mondi virtuali non fanno eccezione, anzi, per questo hanno perso la loro carica utopica, la centralità è data alla visibilità, al riconoscimento, Facebook e Twitter, penso ne siano l’esempio più lampante, come anche il declino del social virtual world, che avendo lo stesso obiettivo sono stati superati in efficacia dai suddetti, il web e i media elettronici in fondo offrono possibilità inedite di definizione del sé, nuove possibilità di visibilità e di riconosciemento, la crescente disponibilità di materiali mediati ha consentito al sé di affrancarsi progressivamente dai suoi legami con i contesti pratici della vita quotidiana19, ma la reale carica liberatoria dell’esperienza mediata Cfr. V. Scurto, Op. Cit. A. Abruzzese, D. Borrelli, L’industria culturale, Carocci, Roma, 2000, p. 48. 19 Cfr. il concetto di disembedding di J. B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media. Il Mulino, Bologna, 1998. 17 18 325 Dall’Utopia all’Eterotopia si esprime non tanto nella riduzione dei condizionamenti – di tipo materiale, culturale e ideologico – quanto in una inedita libertà di accesso alle risorse simboliche e mediali in una accresciuta attenzione alla costruzione autonoma del sé come principio di organizzazione dell’esperienza e delle pratiche sociali, Il Sé si viene, quindi, a costituire come progetto riflessivo20 che impegna attivamente gli individui in un ininterrotto processo creativo di acquisizione ed editing di materiali simbolici e nella rappresentazione discorsivizzata del proprio percorso, della propria storia individuale, della propria coscienza, e sicuramente dei propri desideri. Si crea quello che Wellman definisce un networket individualism in cui il soggetto deve gestire tutte le sue relazioni, sia online che offline, costantemente impegnato ad aprire e chiudere collegamenti, a gestire relazioni sociali multiple sulle diverse finestre aperte sullo schermo, a costruire e interpretare proiezioni identitarie differenziate a seconda dello specifico contesto comunicativo, creando delle Personalized communities embodied in me-centered networks21, in cui il soggetto riceve visibilità e riconoscimento, grazie in particolare al web e ai nuovi media che divengono dispositivi di visibilità personale, pensiano ai blog, ai già citati Facebook e Twitter, alla diffusa socializzazione ed editing di immagini e suoni in formato digitale, l’uso del telefono mobile come nodo delle connessioni di comunicazione interpersonale in voce, in forma scritta o per immagini, la diffusione dei sistemi di messaggistica, forum e posta elettronica, tutti strumenti che determinano la nostra visibilità sociale, la nostra identità, il desiderio più importante che in questa società si deve soddisfare. Ora dovrebbe essere facile comprendere come e perché la carica utopistica dei mondi virtuali si sia inaridita, l’utente in essi cerca una propria rappresentazione, una propria visibilità, elemento che Cfr. A. Giddens, Identità e società moderna, Ipermedium Libri, Napoli, 2001. Cfr. B. Wellman, Physical place and cyber-place: The Rise of Personalized Networking. International Journal for Urban and Regional Research, 25, 227-52. 20 21 326 Dall’Utopia all’Eterotopia era in effetti al centro dei social virtual world come abbiamo visto, ma che sono stati surclassati in questo dai social network, i MMORGP, in realtà seguono una logica del tutto diversa, in questi riveste un’importanza decisiva la narrazione, la volontà di immergersi in un mondo immaginario, di costruire una storia, un ruolo, sogno di vivere un’avventura, insomma siamo nel campo di ciò che Callois definiva mimicry22, il piacere elementare e complesso della negazione della realtà, in nome di un mondo immaginario. In realtà questo aspetto è ben presente anche nei social virtual world in cui ciò che si sperimenta è una nuova identità, si gioca con le potenzialità dell’identità virtuale, se ne assumono costantemente di nuove per puro divertimento. Detto questo penso ormai sia chiaro il motivo della perdita di spinta utopica da parte dei mondi virtuali, ma questo non deve destare preoccupazione, immaginando un mondo completamente omogeneo in cui non sia possibile alcun tipo di utopia, in realtà già esistono molte pulsioni utopiche, bisogna notare, però, come i nuovi movimenti antagonisti, siano privi di quella che possiamo definire una vera e propria utopia, infatti, pur immaginando mondi alternativi, sono poche le issue su cui basano il proprio antagonismo, mancano quindi di un progetto sistemico e integrato di mondo-altro, una caratteristica che possiamo definire polverizzazione utopica, forse un nuovo tipo di utopia. Quello che non deve invece stupire è la sempre più accentuata centralità del concetto di Identità, campo sul quale si scontrano in realtà le nuove istanze sociali e politiche, in fondo il desiderio di riconoscimento è l’istanza primogenia non solo dell’identità, ma soprattutto della lotta politica, si ricordi la dialettica hegeliana del servo/padrone, ma se questo non vi convincesse lasciatevi condurre da queste parole di Wayne Hudson sull’opera di Bloch, in cui l’autore ricorda come l’Utopia per Bloch è molto di più della somma dei suoi testi, è un’impulso che governa ogni cosa: 22 Cfr. R. Callois, Op. cit. 327 Dall’Utopia all’Eterotopia Ne Il principio di speranza Bloch fornisce una rassegna senza precedenza delle immagini del desiderio nell’uomo e dei sogni di una vita migliore. Il saggio inizia con i piccoli sogni a occhi aperti (prima parte), a cui fa seguito l’esposizione della teoria di Bloch della coscienza anticipatrice (seconda parte). Nella terza parte Bloch applica la sua ermeneutica alle immagini del desiderio riscontrabili nello specchio della vita di tutti i giorni: l’aura utopica che circonda un abito nuovo, la pubblicità…nel cinema e nel teatro…Per finire, nella quinta parte Bloch passa alle immagini del desiderio dell’istante dell’appagamento, le quali dimostrano che è “l’identità” il presupposto fondamentale della coscienza anticipatrice.23 W. Hudson, The Marxist Philosophy of Ernst Bloch, New York, 1982, cit. in F. Jameson, Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 18, 19. 23 328 Bibliografia AA.VV., L’Utopia e le sue forme, Il Mulino, Bologna, 1982. AA.VV., Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003. AA.VV.,Nell’anno 2000. Dall’Utopia all’Ucronia, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2001 AA.VV., Utopias and the millennium, Reaktion books, Londra, 1993. Abruzzese A. , Lo splendore della Tv, Costa e Nolan, Genova, 1994. Abruzzese A., I media non creano maschere né fantasmi. 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