Dall`Utopia all`Eterotopia.

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Dall`Utopia all`Eterotopia.
Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale
Dottorato di ricerca in “Scienze della Comunicazione”
XXIV Ciclo
Tesi
Dall’Utopia all’Eterotopia.
Viaggio nell’immaginario utopico tra Hippie e Virtual world
Candidato
D’Orazio Davide
Tutor
Prof. Antonio Cavicchia Scalamonti
Indice
Introduzione
3
1 L’Utopia
21
1.1 Storia di una parola ambigua
23
1.2 Caratteri generali dell’utopia
34
1.3 L’Utopia e il libro
1.4 Coordinate spazio-temporali dell’immaginario
utopico
38
44
2 L’Utopia della Controcultura degli anni ’60 e ’70
53
2.1 La Controcultura degli anni ’60 e ’70
59
2.2 Tecnologie della controcultura
72
2.2.1 La Television generation
2.2.2 Liberazione attraverso la droga
2.3 Lo spazio eterotopico della comune
73
92
99
3 Dalla Controcultura alla Cybercultura
113
3.1 Dalla Controcultura alla Cybercultura
123
3.2 La Cybercultura
141
3.3 L’immaginario della Cybercultura
155
3.4 Il cyberspazio
162
3.5 I tecnopagani
177
3.6 I tecnognostici
188
3.7 TAZ e Rave Culture
206
4. Virtual Worlds: fine dell’Eterotopia?
223
4.1 Dalla Realtà Virtuale ai MMOs
232
4.2 Dai MUD ai Social Virtual World
237
4.3 Caratteristiche dei Mondi Sintetici
246
4.4 Sviluppo dei Mondi Sintetici
256
4.5 I mondi sintetici del futuro
268
4.6 Per una metaforologia dei mondi sintetici
276
4.7 Avatar e Identità nei mondi sintetici
290
4.8 Fine dell’Eterotopia?
310
Conclusioni
317
Bibliografia
329
Introduzione
L’uomo cammina con i piedi in terra e la testa per
aria e la storia, ciò che è accaduto sulla terra, è solo
una metà della storia dell’uomo.
LEWIS MUMFORD
In questi anni stiamo assistendo a processi di de-modernizzazione
che sembrano fluidificare tutto ciò che ci sta intorno senza che un
senso chiaro possa esserne decifrato. Due movimenti si
contrappongono: uno, quello dei saperi tradizionali, discende verso
la sua dissoluzione senza avere il controllo della trasmutazione di
valori che tuttavia ha prodotto; l’altro è l’insorgere di culture
sempre più decise a superare l’identità passata senza però riuscire a
crearne una che possa essere stabile. Quest’ultima tende ad
assorbire l’eredità dello sviluppo tecnologico occidentale
sfruttandone il suo carattere mercuriale, la sua capacità di essere
tutto e il contrario di tutto, per dar vita a ciò che il mito del
progresso aveva promesso. L’attesa liberazione totale annunciata da
tale mito sembrava inarrestabile e ineluttabile, grazie al disincanto
del mondo da parte della tecnica, non sembra essere avvenuto; anzi,
il trauma che il soggetto oggi vive e percepisce nasce nella
modernità stessa, dal suo compimento: i progressivi risultati della
globalizzazione si destrutturano uno ad uno, mettendo a nudo
quelle radici archetipe, mitiche e religiose che nel suo svolgersi la
modernità tendeva a negare. Così il risorgere di neopagani e
neomistici non dovrebbe stupire visto il fallimento del telos
3
Dall’Utopia all’Eterotopia
industriale.1 La modernità e “l’impresa tecnologica” sembravano
tendere a quel progresso che sarebbe sfociato nel mondo dell’utopia
umanistica della cittadinanza globale, o quella della “pace perpetua”
prospettata alle soglie del XVIII secolo dall'abbé de Saint-Pierre e
ripresa da Kant, o quella degli “Stati Uniti del Mondo”, figlia della
Società delle Nazioni. Questo non ha avuto luogo perché
quell’allargamento delle frontiere che avrebbe potuto e dovuto
tradursi in un estensione della mentalità si è risolta invece in un
allargamento dello spirito di conquista e del cinismo
imprenditoriale. L’utopia della Nuova Gerusalemme è svanita
lasciandoci nella complessità di un mondo incomprensibile in cui le
libertà degli individui si ampliano quanto più si approfondiscono i
sistemi di controllo su di loro. L’utopia che proiettava nel futuro un
mondo nuovo e migliore sembra venir meno con lo svanire del
tempo stesso, attraverso la creazione del tempo reale della reti
informatiche. Con la “fine del tempo” terminano anche tutte le
possibili filosofie e ideologie della storia, in particolare ha termine
l’utopia che ambiva al futuro come creatore di una società giusta,
egalitaria, in cui tutte le necessità primarie sarebbero state
soddisfatte e gli individui avrebbero liberamente perseguito i propri
desideri esistenziali. Questa è in sintesi l’ideologia soggiacente alla
società industriale. Tutto ciò non è accaduto, ma non vorrei
soffermarmi sui motivi e le cause del fallimento di questa utopia,
vorrei invece sottolineare quali sono state le conseguenze che tale
insuccesso ha prodotto sull’utopia stessa. Al sorgere dell’ideologia
del progresso, il futuro era il luogo dell’utopia come espressione
ultima di realizzazione di una società ormai padrona del mondo,
tutte le visioni utopiche erano rivolte al futuro e in questo si
sarebbero realizzate. L’attuazione di un altro mondo libero dalle
difficoltà e dalla penuria sarebbe stata attuata attraverso la tecnica.
Questa era in definitiva la “Nuova Atlantide” auspicata Bacone:
Cfr. la prefazione di A. Abruzzese in E. Davis, Techgnosis, Ipermedium Libri, Napoli,
2001.
1
4
Dall’Utopia all’Eterotopia
l’utopia insita in questa visione era il raggiungimento di una società
perfetta, libera, giusta, in cui non ci si sarebbe più dovuti
preoccupare per le scarsità delle risorse o per la conflittualità
sociale, e in cui l’unica preoccupazione per gli individui sarebbe
stata semplicemente quella di perseguire la propria felicità
personale, in qualsiasi forma essi avessero voluto. Ciò non è stato
portato a compimento, tutto si è bloccato ed è sembrato svanire con
l’istituirsi di quella che possiamo definire società industriale classica,
periodizzata dagli anni ’40 fino alla fine degli anni ‘60. In questa
società, tutte le spinte progressiste e liberatrici sembrano
appiattirsi sulla semplice riproduzione del sistema industriale, con
gli individui bloccati nei suoi ingranaggi senza aver un reale
progetto esistenziale se non quello di seguire il Sistema. Con
l’affermarsi di questa struttura sociale nascono, però, nuove spinte
utopiche, che hanno l’aspirazione di giungere agli obiettivi che la
società industriale sembra aver fallito, ma con altri, nuovi mezzi.
Queste correnti videro la propria nascita negli Stati Uniti - forse
perché lì l’industrializzazione aveva raggiunto il suo apice, quindi le
contraddizioni sistemiche si resero visibili in anticipo – e questi
sentimenti non tardarono a espandersi velocemente anche nel resto
dell’Occidente industrializzato.
La corrente utopica che si autodefiniva Controcultura era un
movimento proteiforme e dal contenuto contraddittorio, che andava
dagli Hippie, agli Yippie2, dalle Pantere Nere, fino ai più istituzionali
SDS (Student for a Democratic Society) e al movimento americano
per i diritti civili. Questi gruppi avevano alla base un sistema di
pensiero che rifiutava i dettami della cultura dominante.
Nel mio studio ho deciso di soffermarmi in particolar modo sul
movimento Hippie, poiché è con l’emergere di questa magmatica
Youth International Party: era l’ala estrema e politicizzata del movimento Hippie, di
orientamento anarchico e comunista, che offriva un'alternativa più radicale, più giovanile
e giovanilistica. Gli Yippie inscenarono delle trovate goliardiche, come ad esempio quella
di candidare un maiale dal nome Pigasus the Immortal ("Pegaso l'Immortale") alla
Presidenza degli Stati Uniti nel 1968, allo scopo di farsi beffa dell'establishment.
2
5
Dall’Utopia all’Eterotopia
corrente culturale che il concetto di utopia inizia a traslare dalla
categoria del tempo a quella dello spazio. Questo è l’aspetto che
vorrei analizzare in maniera più approfondita: come si sia passati da
un’utopia immersa nel tempo ad una immersa nello spazio, quella
che Foucault chiama “eterotopia”3, vale a dire la creazione di un
mondo-altro, all’interno del mondo che potremmo definire
“comune”. L’obiettivo del movimento Hippie californiano degli anni
’60 e ‘70, infatti, non era porre le basi per un futuro diverso, ma
creare un mondo parallelo, completamente antagonista a quello
esistente, attraverso la realizzazione della “comune hippie”, come,
ad esempio, quella di Haight-Ashbury, nei pressi di San Francisco.
Nelle comuni sarebbe avvenuta quella conversione cosmica e
simbolica che avrebbe portato il mondo dallo Yang allo Yin, dall’Età
dei Pesci a quella dell’Acquario, con tutto ciò che questo comportava
nella struttura assiologia della cultura. Le caratteristiche
fondamentali di questo movimento erano la ricostruzione di un
rapporto armonioso con la natura - e non un suo assoggettamento
da parte della tecnica - e una reinaissance spiritualista e mistica
contrapposta alla fredda razionalità. Tutto ciò era abbinato al
consumo di droghe psicotropiche, con l’aiuto delle quali si sarebbe
creato un nuovo rapporto con la propria coscienza e una nuova
esperienza di pseudo-trascendenza, che avrebbero condotto ad un
nuovo mondo di natura, pacifico e spirituale: una Nuova Arcadia.
L’assunto di base degli hippie aveva un tono più interiore e
contemplativo degli altri gruppi controculturali, era il cambiare se
stessi che avrebbe cambiato il mondo, la nuova coscienza
psichedelica, in sé per sé, era il tramite per la creazione di una
società splendida, estatica e liberata. Il potere dell’establishment non
era né preso sul serio né avversato: gli hippie, semplicemente, se ne
facevano beffe. La mancanza di una reale strategia politica e la non
curanza del futuro, quindi una visione eterotopica del movimento
3
Cfr. M. Foucault, Eterotopia, Mimesis, 1994.
6
Dall’Utopia all’Eterotopia
psichedelico, sono ben descritte in queste parole di Todd Gitlin,
all’epoca presidente dell’SDS:
C’erano molte tensioni tra l’idea radicale di strategia politica […]
e l’idea tipica della controcultura di vivere la vita fino in fondo,
subito, per se stessi o per la parte dell’universo incorporata in
ognuno o per la comunità degli illuminati capaci di amarsi
reciprocamente…e che il resto del mondo andasse pure all’inferno
(dove peraltro già si trovava.) La tradizione radicale […] ha un
tema di fondo: cambiare il mondo! I gruppi più importanti della
controcultura - Leary, i Prankster, l’Oracle [un giornale hippie] invece: cambiare la coscienza, cambiare la vita.4
L’obiettivo era una rivoluzione strisciante attraverso la quale si
sarebbe giunti a una società senza un sistema di governo, poiché
attraverso la nuova coscienza:
Gli atteggiamenti che avrebbero consentito il funzionamento della
società […] sarebbero emersi spontaneamente, la cooperazione
volontaria di una rete di gruppi e individui autonomi avrebbe
fatto in modo di soddisfare le esigenze umane fondamentali […] i
percorsi psichedelici di crescita personale, la partecipazione delle
masse popolari a comuni e collettivi, orge gratuite di rock’n’roll e
festini celebrativi sarebbero stati così gratificanti che la gente non
avrebbe desiderato molto altro, al di là della soddisfazione di
esigenze materiali di base. Il consumo e il possesso di beni extra, di
immagini mediate, di attività di svago commerciali sarebbero
semplicemente svaniti.5
Come si può notare da questo estratto, la categoria del futuro non è
scomparsa del tutto nella visione utopica degli hippie, quello che le
manca è la dimensione progettuale, tipica di questa dimensione
T. Gatlin, The Sixties: Years Of Hope, Days Of Rage, cit. in M. Dery, Velocità di fuga,
Feltrinelli, Milano, 1997, p. 39.
5 K. Goffman, D. Joy, Controculture. Da Abramo ai No Global, Fazi Editore, Roma, 2004, p.
368.
4
7
Dall’Utopia all’Eterotopia
temporale. La Nuova Arcadia si sarebbe affermata in modo
sotterraneo e virale, senza una pratica politica attiva,
semplicemente attraverso la vita psichedelica delle comuni. Si può
affermare, allora, che con le comuni hippie sia iniziato lo slittamento
categoriale dell’utopia, che inizia a dissociarsi dal tempo e a
insidiarsi nello spazio. Da questo momento in poi, tutti i movimenti
che possiamo definire controculturali o antagonisti amplificheranno
questo slittamento categoriale e la costruzione di spazi alternativi
diverrà, per questi, una prerogativa imprescindibile.
La ricerca, ripercorrendo questo slittamento categoriale della
dimensione utopica, si soffermerà ed analizzerà i nuovi movimenti
controculturali che presero spunto dalla contro-cultura psichedelica
californiana, in particolare, sottolineando la stretta unione tra il
movimento hippie e la cybercultura della fine degli anni ’90, perché,
come dice il comico Philip Proctor, “Gli anni ‘90 sono solo i ‘60
capovolti”; nella cybercultura, infatti, sembra essere portata
all’estremo la volontà di creare un mondo-altro, questa volta non
reale e antagonista, ma virtuale e antagonista, poiché il mondo da
realizzare passa attraverso la colonizzazione del cyberspazio, dove
creare una nuova società libera dai vincoli, sia fisici che strutturali,
del sistema sociale reale, come ci illustra efficacemente Mark Dery
in Velocità di fuga:
Chiaramente, la cybercultura si sta avvicinando alla velocità di
fuga in senso sia filosofico sia tecnologico: è pieno di fantasie di
trascendenza incentrate sulla liberazione da tutti i limiti, non solo
fisici ma anche metafisici.6
Il mezzo per raggiungere questo utopico obiettivo, però, non è il
ritorno alla natura, ma lo sviluppo tecnologico. Questo aspetto, che
potrebbe sembrare una dissonanza inconciliabile con la cultura
hippie degli anni ’60 e ’70 che vedeva nella tecnica solo un mezzo
repressivo, svela, in realtà, una sorta di falsa coscienza di questo
6
M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 15.
8
Dall’Utopia all’Eterotopia
movimento controculturale, elemento che Dery riesce bene a
focalizzare attraverso una battuta di Bruce Sterling: “Non è stata
Madre Terra, in un impeto controculturale, a darci l’acido lisergico: è
stato un laboratorio della Sandoz”.7 La controcultura degli anni ’60
era già permeata dalla tecnologia più di quanto non sapesse o
volesse credere, “lo spettacolo psichedelico di suoni e luci era un rito
tanto dionisiaco quanto tecnologico, dalla colonna sonora elettrica
[…] fino all’LSD che metteva in movimento tutta l’esperienza”.8
Eliminato quello che sembrava uno iato incolmabile, la ricerca si
soffermerà in maniera obbligata sugli autori che influenzarono
maggiormente questo movimento, cioè gli scrittori di fantascienza
Gibson e Sterling, veri filosofi e ideologi della cybercultura.9 Altro
aspetto fondamentale da studiare nell’ambito della cybercultura è
sicuramente quello della Realtà Virtuale, la vera costruzione e
immersione in un mondo-altro, completamente tecnologico.
Tra la rassegna di movimenti culturali che hanno l’ambizione di
creare mondi-altri antagonisti, questa ricerca non può non citare il
fenomeno dei Rave e quello delle T.A.Z. teorizzate da Hakim Bey.
T.A.Z. è l’acronimo di Temporary Autonomous Zone, zone
temporaneamente
autonome
descritte
dall’autore
come
“un’operazione di guerriglia che libera un’area (di tempo, di terra, di
immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un
altro tempo prima che lo Stato la possa schiacciare”.10 In questa
definizione lo slittamento dall’utopia all’eterotopia appare evidente.
Naturalmente nell’excursus sulle culture e contro-culture che hanno
l’ambizione di creare mondi-altri non si possono non citare alcuni
scrittori di fantascienza, grandi creatori di mondi, che non utilizzano
altro che la maniera classica di plasmare altri mondi, cioè la
letteratura. In particolare mi soffermerò sulla corrente
fantascientifica del Cyberpunk, nelle cui opere sono presenti tutti gli
Ibidem..
Ivi p. 32.
9 In realtà, di quella specifica corrente della cybercultura definita Cyberpunk.
10 H. Bey, T.A.Z., Zone Temporaneamente Autonome, Milano, Shake, 1997 p. 15.
7
8
9
Dall’Utopia all’Eterotopia
elementi tipici delle controculture in precedenza illustrate: dalla
psichedelica alla tecnologia miscelata, ad un senso di mistica
gnostica. Quest’ultimo è un elemento che sembra sotteso sia agli
hippie degli anni ‘60 e ‘70, sia alla cybercultura della fine degli anni
‘90. Questo ritorno del mistico è sicuramente uno degli aspetti più
interessanti da esaminare nelle controculture, poiché evidenzia una
strana congiunzione tra elementi pre-moderni ed elementi
tecnologicamente avanzati, attraverso i quali queste correnti
muovono critica al materialismo dominante. All’interno della ricerca
metterò in evidenza anche le contraddizioni che tali correnti controculturali portano in grembo, in particolar modo il fatto che tali
movimenti appaiono talmente invischiati e figli della cultura dalla
quale nascono che il loro potere antagonista e sovversivo sembra
anestetizzato e quindi vano - o almeno limitato - fin dall’inizio. È
importante comprendere se il loro fallimento sia stato causato da
queste contraddizioni interne o da una capacità innata della società
capitalista di elaborare e inglobare in sé le correnti culturali che la
avversano e renderle quindi innocue per la propria struttura.
Secondo quest’ultimo assunto, allora, si dovrebbe studiare come la
cybercultura si stia prosciugando nella sua carica utopista e
antagonista a causa dell’invasione dell’economia nella rete; e
verificare come, anche qui, il modello economico sia diventato il
nuovo paradigma dominante. Un esempio per questo potrebbe
essere la grande corsa del Nasdaq nell’inizio del secolo o il mondo
virtuale di Second Life. Questo mondo-gioco, che sarà protagonista
della parte conclusiva di questo lavoro insieme ad altri mondi
virtuali11, non segue regole antagoniste, ma sembra rispecchiare
pedissequamente le linee guida della società capitalista
contemporanea. Analizzando SL e gli altri mondi virtuali si tenterà
di comprende se rappresentino uno esempio della fine delle utopie
11
Gli altri mondi analizzati saranno World of Warcraft, League of Legend e Habbo Hotel.
10
Dall’Utopia all’Eterotopia
antagoniste nella e della Rete12 o solo uno specchio della natura
contraddittoria delle contro-culture stesse.
Per riassumere questa ricerca ambisce ad intraprendere un viaggio
nell’immaginario utopico delle correnti contro-culturali, partendo
dal movimento Hippie degli anni ’60 e ’70, passando dalle T.A.Z., per
giungere al Cyberpunk, tentando di sottolineare e dimostrare come
si sia passati dall’Utopia figlia dell’ideologia del progresso, che ha la
sua radice fondante nel futuro, all’eterotopia, cioè un’utopia che non
ha base nel tempo, ma nello spazio, che ha il fine, quindi, di creare
mondi-altri non nel futuro, ma nel presente, in spazi antagonisti alla
realtà dominante.
Ora è necessario soffermarsi brevemente su alcuni temi e spunti che
mi hanno portato a scegliere i fenomeni e i campi di studio sopra
citati, tentando di chiarire rapidamente le scelte effettuate,
attraverso alcune riflessioni in merito, e la struttura che tale ricerca
vuole darsi nell’analizzare i temi e i casi che si andranno poi a
studiare.
Questo viaggio per Utopia non può non partire che con un
preliminare introduzione al concetto stesso di utopia. Un’analisi non
facile vista la polisemia del termine e la varietà dei significati che via
via le sono stati attribuiti nel corso della sua ormai pluri-centenaria
esistenza. Questo breve excursus sulla storia del concetto, che sarà il
tema del primo capitolo, è necessario per poter poi affrontare con
presupposti e categorie più solide i capitoli successivi, in cui la
natura stessa dell’utopia sembra mutare. La sua instabilità
semantica deriva per Bronislaw Baczko dal fatto che l’utopia è
strettamente legata all’immaginazione, in particolar modo a quella
sociale, e all’immaginario collettivo. Per questo le forme, le
Sicuramente non la fine delle utopie antagoniste tout-court, visti i numerosi movimenti
controculturali presenti anche oggigiorno. Bisogna notare, però, come queste correnti
siano prive in realtà di una vera e propria utopia, infatti, pur immaginando mondi
alternativi, sono poche le issue su cui basano il proprio antagonismo, ad esempio, il
movimento ecologista, o i No-global, e quindi manchino di un progetto sistemico e
integrato di un mondo-altro.
12
11
Dall’Utopia all’Eterotopia
grammatiche utopiche e il modo di considerarle mutano
radicalmente secondo le dinamiche dell’immaginario stesso e dei
cambiamenti nel contesto storico, sociale e culturale.13 Tenendo ben
presente le difficoltà di definizione dell’utopia abbiamo allora
optato con l’evidenziare quali siano stati i cambiamenti di
significato della parola utopia, dalla sua invenzione da parte di
Tommaso Moro, fino ai giorni nostri, mostrando come all’ampliarsi
e al modificarsi dei suoi significati si siano accompagnati grandi
cambiamenti all’interno delle società e delle mentalità. All’interno
della breve storia del concetto di utopia ci soffermeremo in
particolare, anche se brevemente, su quattro autori: Karl Mannheim,
Martin Buber, Ernst Bloch e Arrigo Colombo, studiosi che con le
proprie ricerche hanno cambiato e ampliato notevolmente il
concetto di Utopia, poiché hanno voluto rintracciare o forse creare
una concettualizzazione storica dell’utopia: l’Utopia per questi autori
è determinabile come un fattore della storia o, ad esempio per Bloch
e Colombo, come il processo della Storia tout-court.14
Ci soffermeremo in seguito sulla natura e le caratteristiche della
letteratura utopica, considerata come l’esprimersi e il concretizzarsi
in forma letteraria di quello spirito, pensiero, immaginazione sociale
che sta alla base di tutte le opere di tale filone letterario. Per far ciò
costruiremo una griglia interpretativa e categoriale in cui si
analizzeranno le novità presenti nelle utopie e nel pensiero utopico
e si collegheranno con gli eventi e i cambiamenti avvenuti sia a
livello storico-sociale sia a livello del pensiero. Inoltre proveremo a
rintracciare gli antecedenti storici della letteratura utopica, quali il
mito dell’età dell’oro o dell’Eden, ed esamineremo i generi affini per
aver un quadro più completo del campo in cui il genere utopico
viene a collocarsi e svilupparsi.
Cfr. B. Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino, 1978, e Utopia, in “Enciclopedia Einaudi”,
Torino, vol. XIV.
14 Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, E. Bloch, Il principio di
speranza, Garzanti, Milano, 1994, M. Buber, Sentieri in Utopia, Comunità, Milano, 1967, A.
Colombo, L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Dedalo, Bari, 1997.
13
12
Dall’Utopia all’Eterotopia
Per quanto riguarda i generi affini - o, potremmo azzardare, quasi di
derivazione -, ci soffermeremo sulla Fantascienza. Questa scelta è
motivata dal fatto che molti studiosi rintracciano numerosi e
profondi elementi di assonanza tra i due generi. A questo proposito
è utile guardare,in particolare, gli scritti di Fortunato Vita, Carlo
Pagetti15 e il fondamentale testo di Darko Suvin sulla Science-Fiction
in cui lo studioso si spinge fino ad affermare che: “l’utopia non è un
genere bensì il sottogenere socio-politico della Fantascienza”16,
rettificando una decina di anni dopo con una asserzione più
ragionevole quale:
La fantascienza che non sa di derivare da Moro e da Swift – pur
con tutti gli altri affluenti che l’epoca industriale ha aggiunto –
assomiglia a una persona estremamente miope, sulle cui lenti si è
raggrumato l’inquinamento storico, accecandola all’utopia e alla
satira, la metà migliore della miscela fantascientifica.17
Un'altra spiegazione per cui nel nostro excursus nell’immaginario
utopico abbiamo deciso di occuparci di fantascienza, risiede nel
fatto che, come successivamente vedremo in maniera più
approfondita, ad un certo punto l’utopia sembra iniziare ad
occultarsi nella concettualizzazione del materialismo storico e
perdere quindi le sue proprie caratteristiche. Il potenziale utopico
sembra così spostarsi su altri moduli e strutture narrative. Cos’altro
è in effetti la fantascienza se non il racconto di anticipazione, ipotesi
immaginativa che nella sfera politica antagonista viene inaridita
dalla prassi marxista? Non è un caso che la fantascienza sembra
nascere proprio nello stesso momento in cui scompare la facoltà di
Cfr. V. Fortunato, Dall’utopia alla Fantascienza, in AA.VV., L’Utopia e le sue forme, Il
Mulino, Bologna, 1982 e C. Pagetti, La Fantascienza, in AA.VV., Dall’utopia all’utopismo.
Percorsi tematici, Cuen, Napoli, 2003, pp. 795 - 812.
16 D. Suvin, Le Metamorfosi della Fantascienza, Il Mulino, Bologna, 1985, p. 61.
17 D. Suvin, Afterword: with Sobered, Estranged Eyes, cit. in AA.VV., Dall’utopia
all’utopismo. Percorsi tematici, Cuen, Napoli, 2003, p. 809.
15
13
Dall’Utopia all’Eterotopia
dare un contenuto all’utopia, a causa del successo incontestato
dell’ideologia del progresso e del concetto di Storia.18
La fantascienza allora si fa carico di immaginare il futuro per
interpretare il presente, e proprio per questo sembra essere molto
simile alle opere utopiche classiche, ma in più, secondo la visione di
Sergio Brancato, la fantascienza è l’interfaccia simbolica tra i saperi
scientifici (moderni, razionali, oggettivanti) e i saperi sociali
(metastorici, emozionali e mitizzanti). Grazie a questa sua natura, la
fantascienza ha la capacità di riattualizzare il mito e reintrodurre
nell’immaginario collettivo quei temi che la cultura positivista e
capitalista, egemone dell’ideologia del progresso, sembra voler
rimuovere o non esser in grado di trattare: elementi fondamentali
quali le figurazioni della morte e dell’eros, la costellazione dei
conflitti fra tradizione e innovazione, le domande ritualmente
depositate nella sfera del sacro.19
Per questi motivi un’incursione nella sfera fantascientifica sembra
necessaria e utile alla nostra ricerca, anche se gli spunti più
interessanti si annidano in alcuni autori non appartenenti al filone
mainstream del genere, mi riferisco a scrittori come Philip K. Dick, e
in particolar modo al movimento Cyberpunk, con i suoi padri
fondatori Gibson, Sterling e Ballard, poiché in essi si rintracciano
interessanti indicatori di trasformazione e di cambiamento
verificatesi all’interno dell’immaginario utopico. Il movimento
Cyberpunk sembra il più funzionale alla mia ricerca, poiché si basa
esattamente sulla creazione di eterotopie; infatti l’assioma di base
del movimento si può semplicemente ridurre nella battuta “il mondo
è ormai questo, bisogna accettarlo e viverlo al di fuori dell’inganno
utopico del futuro”. L’immaginario utopico del Cyberpunk non si
riduce ai classici viaggi siderali della fantascienza tradizionale, ma si
sviluppa nella scoperta e colonizzazione di un nuovo spazio, uno
spazio neuronale e virtuale, il cyberspazio, reale eterotopia post-
18
19
Cfr. M. Gauchet, R. Redeker, Utopia e modernità, Città aperta edizioni, Enna, 2005, p. 89.
Cfr. S. Brancato, Sociologie dell’immaginario, Carocci, Roma, 2000.
14
Dall’Utopia all’Eterotopia
moderna, il nuovo mondo antagonista in cui vivere. Per il
Cyberpunk, il cyberspazio non è virtuale nel senso di immateriale, al
massimo è ipermateriale, ed è in grado di svelare le possibilità
inaudite della materia, compresa quella di cui è fatto l’uomo; inoltre
il cyberspazio è completamente svincolato dalle esigenze del
sistema produttivo, elemento che denota la sua natura antagonista,
ed è un luogo al quale non si accede solo con la ragione, ma con
l’intera sfera sensoriale e dove alla conoscenza viene restituito il suo
valore originario di esperienza dell’ignoto. L’ulissismo cyberpunk è
comunque assolutamente materialista e laico, accetta il mondo così
come è e, nonostante questo, tenta di trascenderlo
tecnologicamente (da cui il tecnopaganesimo).20 Le similitudini
concettuali con la stagione psichedelica degli anni ’60 appaiono
evidenti, come non collegare il cyberspazio alla galassia internet e
alla Realtà virtuale, reale creazione tecnologica di un mondo altro,
nuova eterotopia tecnologica. In questi esempi il passaggio
categoriale dell’Utopia sembra consolidarsi, e passare ad una
statuto puramente elettronico.21
Un altro elemento che vorrei sottolineare in questa breve
introduzione è la scelta della comunità Hippie di Haight-Ashbury
quale primo esempio di eterotopia. Storicamente questa non è la
prima comune di stampo utopista che abbia tentato di “realizzarsi”
compiutamente: la storia degli Stati Uniti è disseminata da tentativi
del genere, soprattutto nell’Ottocento. Fra i tanti esempi si possono
ricordare la comunità dei Separatisti di Zohar, in Ohio, fondata nel
1817, quella di New Harmony, fondata da Robert Owen in Indiana
nel 1827; quella icariana fondata da Cabet a Nauvoo in Illinois, nel
1848, la comunità dei Perfezionisti di John H. Noyes a Oneida,
fondata nello stato di New York nel 1848 e la colonia fourierista di
Alcuni testi introduttivi per il movimento cyberpunk sono i seguenti: M. Dery, Velocità
di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, E. Davis, Techgnosis, Ipermedium libri, Napoli, 2001, P.
Pardo, Il Cyberpunk, Xenia, Milano, 2000, R. Rucker, Filosofo Cyberpunk, Di Renzo editore,
Roma, 2000.
21 Non mancano comunque esempi di eterotopie antagoniste anche in ambito “reale”; si
ricordano i rave-party e le T.A.Z. di cui sopra.
20
15
Dall’Utopia all’Eterotopia
Ripley, la Brooke Farm, fondata in Massachusetts nel 1848 (famosa
perché il noto scrittore Nathaniel Hawthorne vi trascorse un breve
periodo di tempo).22 Questo sorgere di comunità utopiche, oltre a
esprimere una certa nota essoterica dell’utopismo americano,
dimostra alcuni tentativi di realizzare delle utopie di origine
letteraria; proprio in questo possiamo rintracciare la sostanziale
differenza tra queste comunità e quella hippie: queste comunità
utopistiche nascono per mettere in atto delle utopie, al contrario
quella hippie nasce spontaneamente e senza una previa costruzione
letteraria. Questo sottolinea un cambiamento importante nella
mentalità utopica, poiché d’ora in poi l’utopia non va ideata (e poi
realizzata), ma vissuta, diviene pratica di vita quotidiana, nel hic et
nunc. Questo comporta un cambiamento di coordinate simboliche
nell’immaginario utopico che si esemplificano in alcune traslazioni
concettuali, come il passaggio dal tema della Rivoluzione a quello
della Sovversione, o dalla preminenza dell’idea di Desiderio a quella
di Bisogno.
L’ultimo tema da introdurre è la scelta dei MOOs (Massivy
Multiplayer On-line) e dei MMORPG (Massivy Multiplayer On-line
Role Play Game) come campo di analisi per un nuovo mondo
utopico del tutto virtuale. In precedenza abbiamo introdotto Second
Life, infatti tale mondo-gioco sembra azzerare definitivamente lo
spirito utopico, visto che il denaro, anche se nella sua forma virtuale,
ha la stessa importanza di cui è investito nel mondo reale; sembra
inoltre mancare di quell’anima antagonista caratteristica
dell’immaginario informatico, hacker in particolare. Anche agli altri
mondi virtuali presi in considerazione, Habbo Hotel, War of
Warcraft e League of Legend, mancano connotati utopici, Habbo
Hotel è in definitiva una chat virtuale in 3d dove incontrare i propri
amici, mentre i rimanenti sono due MMORPG fantasy che
evidenziano una forte propensione per l’atteggiamento ludico,
Cfr. R. Mamoli Zorzi, Utopia e letteratura nell’ottocento americano, Paideia, Brescia,
1979.
22
16
Dall’Utopia all’Eterotopia
atteggiamento che in onestà si riscontra anche nelle utopie
classiche, divertentissimi sono i giochi di parole nell’Utopia
originaria, elemento ludico messo ben in evidenza da Baczko.23
Quello che sembra mancare a questi universi sintetici è la volontà di
creare un mondo-altro, poiché sembrano replicare, talora
compulsivamente, la vita reale, invece di cercare di differenziarsi: le
discoteche, i casinò, i luoghi del sesso, ricalcano quelli reali. Un dato
molto interessante e da analizzare è il fatto che in Second Life e
Habbo Hotel la vita si replichi così com’è, come se quella reale non
potesse esprimere o soddisfare tutti i desideri o gli stimoli che ci
propone; sembriamo, così, costretti (o condannati?) a sperimentarli
e soddisfarli anche nel virtuale, o forse solo lì. World of Warcraft e
League of Legend sono invece veri e propri giochi on-line di stampo
fantasy. Tale intuizione verrà messa in luce attraverso una sezione
sperimentale incentrata su interviste in profondità agli utenti dei
suddetti Mondi virtuali che dovranno fornire intersanti indicazioni
sul senso dell’utopia nel web e del web, interviste che dovrebbero
mettere in risalto le tematiche utopistiche, se gli utenti ne
riscontrato, evitando le difficoltà di definizione che l’utopia trascina
con sé, difficoltà che invece potrebbero inficiare una semplice websurvey.
Un altro tema fondamentale che ci accompagnerà lungo tutto l’arco
della ricerca è il fortissimo legame che lega l’Utopia ai mezzi di
comunicazione, un rapporto privilegiato che, come vedremo, non è
per nulla nuovo, anzi caratterizza l’utopia dalla sua comparsa, in
fondo l’utopia nasce pur sempre come uno stravagante genere
letterario. Un rapporto che si svilupperà e si rinnoverà alla
comparsa di ogni nuova tecnologia mediale, inizieremo analizzando
nel primo capitolo la natura e l’essenza tipografica dell’Utopia, in
seguito studiando la fondamentale influenza del medium televisivo
sulla natura e le istanze della Contro-cultura americana per
giungere l’apoteosi dell’utopia mediale, il cyberspazio. Naturalmente
23
Cfr. B. Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino, 1978.
17
Dall’Utopia all’Eterotopia
la ricerca si soffermerà a lungo sulle nuove tecnologie mediali, in
particolar modo la Rete, poiché queste sembrano aver assunto per
molti entusiasti analisti il ruolo di deus ex machina per il
miglioramento della società, anzi si sono trasformane nelle
fondamenta di una nuova: la società dell’informazione. Quello che
interessa sottolineare è la trasformazione dei mezzi di
comunicazione da mezzi di espressione dell’immaginazione utopica
in una vera e propria nuova utopia. In fondo se per utopia
intendiamo l’ideazione di una società ideale o perfetta e una nuova
definizione antropologica dell’uomo24, allora non possiamo non
constatare come tali istanze oggi si incarnino interamente nelle
tecnologie mediali. L’importanza delle tecnologie mediali non è però
nuova, in realtà la storia della comunicazione moderna25 fa risalire
al secolo dei lumi e al ‘900 una sensibilità fortissima per la
comunicazione, per cui lo sviluppo dei media e della libertà di
comunicazione rappresentano condizioni essenziali per il progresso
della società; di fatto la comunicazione diviene l’asse centrale della
riorganizzazione della società. La centralità dei media nella società
contemporanea può essere interpretata come una evoluzione del
mito del progresso, come ci ricorda Erik Davis in un suo originale
lavoro26: per un lunghissimo periodo l’immagine dominante della
tecnologia era quella industriale – lo sfruttamento delle risorse
naturali, la meccanizzazione del lavoro, i sistemi burocratici di
controllo. Lewis Mumford definiva questa immagine industriale
della tecnologia il “mito della macchina”; ora questo mito viene
sostituito dal mito dell’informazione, reso possibile da due processi
fondamentali, uno tecnologico
l’altro concettuale. Il primo,
sottolinea Davis, riguarda l’importanza dell’elettricità: ormai tutte le
tecnologie hanno un’anima elettrica che sostituisce la macchina
all’interno dell’immaginario tecnologico. L’elettricità è il
Cfr. P. Breton, L'utopia della comunicazione. Il mito del villaggio planetario, Utet,
Torino,1995, p. 44.
25 Cfr. G. Pecchinenda, La narrazione della Società, Ipermedium libri, Napoli, 2009.
26 Cfr. E. Davis, Op. Cit.
24
18
Dall’Utopia all’Eterotopia
fondamento precursore di tutti i media contemporanei, cioè il
telegrafo, prima tecnologia digitale di natura elettrica. Da questo
momento in poi l’informazione elettrificata diviene la protagonista
assoluta dell’immaginario del progresso. Il secondo processo che
determina il costituirsi dell’utopia della comunicazione ce la
propone Philippe Breton27, affermando che la comunicazione e
l’informazione assurgono a elemento fondamentale di una nuova
forma utopica grazie alla nascita della Cibernetica, disciplina
teorizzata da Norbert Wiener nella metà degli anni ’40.28 L’utopia
della comunicazione e il mito dell’informazione divengono quindi
schemi interpretativi del reale: non c’è nulla che non possa essere
analizzato attraverso la metafora comunicazionale; lo scambio di
informazioni e lo schema reticolare divengono le basi costitutive dei
fenomeni naturali e artificiali. Allora, non deve stupire se
l’immaginazione utopica non solo sposa le nuove tecnologie mediali
come aveva già fatto in passato, ma le trasforma in un nuovo
dominio del reale in cui creare la città ideale. Questo non è altro che
il cyberspazio delineato dalla fantascienza Cyberpunk o da illustri
teorici, come ci dimostra il testo Cyberspace. Primi passi nella realtà
virtuale, a cura di Michael Benedikt.29 Il cyberspazio come vedremo
diviene una immensa terra vergine da plasmare e in cui vivere,
nuova frontiera elettronica da colonizzare, sogno che produrrà
anche una Dichiarazione di indipedenza30, manifesto in cui si auspica
una vera e propria secessione tra l’universo virtuale e il reale.
Naturalmente queste erano visioni troppo ottimiste e radicali,
svanite rapidamente quando la tecnologia della realtà virtuale ha
dimostrato la propria inconsistenza e la Rete ha avuto
un’evoluzione diversa dalle visioni di questi cyber-utopisti, una
Cfr. P. Breton, Op. Cit.
Non ci soffermiamo ora sulla Cibernetica poiché sarà oggetto di analisi approfondita nel
III capitolo.
29 M. Benedikt, (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Muzzio, Padova,
1993.
30 Cfr. P. J. Barlow, A Declaration of the Indipendence of Cyberspace, 1996, on-line
all’indirizzo https://projects.eff.org/~barlow/Declaration-Final.html.
27
28
19
Dall’Utopia all’Eterotopia
normalizzazione che i mondi virtuali sembrano esemplificare al
meglio, questo, però, lo vedremo più adeguatamente nel corso della
ricerca, quello che preme sottolineare, invece, è l’influnza delle
tecnologie mediali sull’immaginario utopico, influenza che, dal mio
punto di vista, favoresce il sorgere di quella che definisco
eterotopia. Lungi da un superficiale determinismo bisogna
evidenziare come le tecnologie mediali apportando importanti
trasformazioni all’interno della società non potevano non
influenzare anche l’immaginario utopico, non si può, però, non
analizzare e mettere in evidenza il rapporto privilegiato che unisce
tecnologie mediali e Utopia, sottolineando l’importanza decisiva di
questa relazione, che come vedremo sarà constante durante l’analisi
del nostro percorso di ricerca.
Dopo aver introdotto anche questo importante tema il nostro
viaggio per Utopia può finalmente avere inizio.
20
Capitolo 1
L’utopia
Una carta del mondo che non contiene il Paese
dell'Utopia non è degna nemmeno di uno sguardo,
perché non contempla il solo Paese al quale
l'Umanità approda di continuo. E quando vi getta
l'àncora, la vedetta scorge un Paese migliore e
l'Umanità di nuovo fa vela. Il progresso altro non è
che il farsi storia delle utopie. L'Inghilterra non sarà
mai civilizzata fino a quando non annetterà l'Utopia
ai suoi domini.
OSCAR WILDE
Parlare di Utopia non è facile a causa delle sue molteplici ambiguità,
allora è il caso di specificare e approfondire alcuni concetti e termini
che saranno la base teorica della mia ricerca. In primis, per Utopia
viene qui inteso un sistema filosofico nel quale viene delineato in
ambito concettuale o letterario uno stato ideale. Tale definizione,
che è la più generale possibile, permette di raggruppare in uno
stesso insieme La Repubblica di Platone, le concezioni di Tommaso
Moro, quelle di Tommaso Campanella, il comunismo di Marx, i
Falansteri di Fourier e tutta la miriade di immagini di stati, paesi e
organizzazione perfette, tendenti alla piena realizzazione non
violenta della convivenza umana. Ma l’utopia si è sempre presentata
a noi in un duplice aspetto: da un lato come “realtà” costituita da
21
Dall’Utopia all’Eterotopia
tutti i suoi sistemi filosofici e politici perfetti, dall’altro come
qualcosa che accomuna tutti questi modelli, pur così eterogenei tra
loro, che abbiamo definito utopie; ed è questa la sua essenza latente,
lo spirito che ingloba in sé sia la sua espressione che la sua funzione,
quello che alcuni, come vedremo, definiscono “modalità utopica” o
“utopismo.” Infatti, se, invece di seguire la definizione appena
accennata, ci riferissimo a quella di Baczko per la quale “l’utopia è il
luogo privilegiato nel quale si esercita l’immaginazione sociale, in cui
vengono accolti i sogni sociali e collettivi e si organizzano in maniera
coerente le idee-immagini di una società diversa rispetto alla società
dominante”1, allora il quadro si complica, poiché l’Utopia viene non
solo a collocarsi nella progettazione politica o filosofica, ma va
ricercata ed analizzata in tutti i processi intellettuali, politici, sociali,
artistici, creativi, in cui si cristallizzano i sogni sociali e si innerva
l’immaginazione sociale. Per questo la sua analisi deve essere
pluridimensionale, dallo studio della letteratura utopica, che
comunque rimane un canale privilegiato, in cui rintracciare le
trasformazioni di quello che potremmo definire “immaginario
utopico”, alle espressioni più minute del vivere quotidiano, fino ad
analizzare i rapporti che intercorrono tra l’utopia, il suo
immaginario utopico e l’immaginario collettivo. Una delle
caratteristiche più rilevanti dell’utopia non risiede nella sua
progettualità politica, ma nella sua forza “irradiante”, come la
definisce Redeker, la sua capacità di influenzare la realtà, una forza
che non si situa nell’ordine della sua realizzazione programmatica,
ma “una potenza che irradia la realtà a partire dall’idea”.2 In questa
prospettiva l’accento non è basato sulla effettiva realizzabilità di un
progetto, ma sulla capacità di influenza sul reale; non sul potere, ma
sulla potenzialità. Una caratteristica che pone l’utopia senza dubbio
nel campo d’azione dell’immaginario collettivo e che noi dobbiamo
indagare.
1
2
B. Baczko, Op. cit., p. 445.
M. Gauchet, R. Redeker, Utopia e modernità, Città aperta edizioni, Enna, 2005, p. 35.
22
Dall’Utopia all’Eterotopia
1.1 Storia di una parola ambigua
Questo lavoro non può che iniziare, come ogni riflessione
sull’utopia, con il problema preliminare e non aggirabile della sua
definizione. Come spesso accade nelle scienze umane, la difficoltà
non risiede tanto nella mancanza di definizioni: esse, anzi, sono
sovrabbondanti. Come hanno giustamente notato Frank E. Manuel e
Fritzie P. Manuel nella loro famosa opera del 1966, “definire l’utopia
è utopistico”.3 Questo perché il termine ‘utopia’ è per sua natura
polisemico e il fenomeno non è unicamente semantico: l’utopia è un
fatto culturalmente proteiforme, in questa sua polisemia si
esprimono i molteplici aspetti e le diverse funzioni. La parola
‘utopia’ ha avuto un destino imprevedibile, ha sempre cambiato
senso seguendo le mode intellettuali, l’evolversi dei costumi o delle
conoscenze e compare ormai anche - senza ragione - in tutti i campi,
dalla scienza alla letteratura, dalla politica alla sociologia. Per
quanto si tenti di darne una precisa definizione, ci si trova sempre
davanti a un conglomerato di definizioni, di concetti eterogenei; per
questo, riprendendo Reinhart Kosseleck, sarebbe il caso di
addentrarci brevemente in una piccola storia del concetto, analisi
che metterà in luce come il significato del termine sia cambiato con
l’evolversi degli schemi culturali.
Nella lingua corrente utopia o utopico sono il sinonimo di illusorio,
di irrealizzabile, essendo l’utopista colui che ignora sia la realtà
umana che le dinamiche sociali. Se invece vogliamo parlare del
genere utopico le cose non migliorano molto: essendo un genere
ibrido, nessuno se ne cura molto, i critici letterari considerano tali
scritti troppo didascalici, gli esperti in scienze sociali troppo poetici
e fantasiosi. Queste ambiguità sembrano connaturate alla nascita
stessa della parola ‘utopia’, alla sua origine etimologica. Moro la crea
Cfr. F. P. Manuel e F. E. Manuel, Utopian Thought in the Western World, Belkunp press,
Cambrige, Mass., 1980.
3
23
Dall’Utopia all’Eterotopia
nel 1516 dai vocaboli greci ou (“nessuno”) e topos (“luogo”) un
neologismo – Nova Insula Utopia – che sostituisce il vocabolo
‘nusquam’ utilizzato nella corrispondenza con Erasmo. La parola
corretta sarebbe dovuta essere Atopia, ma Moro gioca con la
pronuncia inglese, per cui il suono delle parole ou-topia (“paese di
nessun luogo”) ed eu-topia (“paese della felicità”, dall’avverbio greco
em, “bene”), hanno una pronuncia identica. Coniugando le due radici
etimologiche, allora, si giungerebbe a una definizione di utopia come
costruzione di un mondo perfetto, ma non reale, in quanto non si
attua in alcun luogo, che non può esistere o comunque che ancora
non esiste. Così nascono i mondi creati dalla mente, paesi da sogno,
perfetti, creazioni in concreto di società totalmente differenti da
quelle a noi familiari, addirittura il loro esatto opposto, che solo nel
mondo delle idee possono aver luogo. Partendo da questo elemento
si comprende come Moro non abbia solo creato e descritto una
società perfetta, del tutto fittizia, ma in realtà con la sua “Utopia”
abbia segnato l’apparire di un nuovo genere letterario e filosofico e,
attraverso di esso, il sorgere di una maniera di riflettere sulla
società, di avere un nuovo sguardo verso di essa. Moro, conscio di
ciò, affronta l’argomento in una quartina pseudo-ironica che
introduce il testo vero e proprio. Tornando alla storia del termine,
questo viene subito accolto dagli umanisti del suo tempo, ma quasi
immediatamente cambia il suo significato; nel 1611 leggiamo infatti
nel Dictionare of the French and English Tongues di Cotgrave:
“Utopie: a imaginare place, or country.”4 Il termine come è già
diventato una metafora pseudo-geografica, per designare non un
libro, ma un paese immaginario. Questa, come vedremo, è solo una
delle molteplici trasformazioni di senso che il termine subirà nel
tempo; ora, per brevità e per non avventurarci in discorsi filologici
ed etimologi troppo specifici, è utile presentare in maniera
Cfr. R. Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo
Editore, Ravenna, 1992, pp. 13-24 e H.G. Funke, Il termine utopia attraverso i secoli, in
AA.VV., Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici. Cuen, Napoli, 2003, pp. 17-44.
4
24
Dall’Utopia all’Eterotopia
schematica le conclusioni a cui è giunto Hans-Günter Funke con i
suoi studi. Per lo studioso tedesco lo sviluppo semantico del termine
e delle sue derivazioni si snoda nei seguenti quattro periodi:
1. Nel Cinquecento e nel Seicento il termine Utopia si
trasforma da nome proprio a metafora pseudo-geografica
indicante lo stato ideale fittizio.
2. Nel Settecento da metafora si trasforma in denominazione
di genere letterario e a concetto politico ambivalente.
3. Nella prima metà dell’Ottocento da nozione politica
ambivalente passa a nozione peggiorativa di polemica sociale e
insulto nel dibattito tra il socialismo premarxista e la
borghesia; la nozione di utopia viene “temporalizzata.”
4. Nella seconda metà dell’Ottocento e nel Novecento la
nozione di utopia perde la sua accezione negativa di lotta
politica e ne acquisisce una positiva nel linguaggio filosofico, in
quello relativo alla sociologia o alle discipline letterarie. Dalla
nozione di utopia scaturisce quella più ampia di pensiero
utopico.5
Per sostenere tali conclusioni possiamo seguire l’evolversi dei
significati rinvenuti nei dizionari dell’epoca per il termine ‘utopia’:
per il primo punto abbiamo fatto riferimento a quello di Cotgrave,
per il secondo punto si può citare la quarta edizione del Dictionnaire
de l’Accadémie française, del 1762, in cui si legge: “viene usato
qualche volta in senso per designare un progetto di governo
immaginario”; il nome includeva anche l’accezione ad un genere
letterario. Nella quinta edizione del 1798 il riferimento al genere
letterario è mantenuto, ma avviene uno slittamento dal significato
pseudo-geografico a quello del sistema istituzionale: “si usa, in
5
H.G. Funke, Op. cit., pp. 17,18.
25
Dall’Utopia all’Eterotopia
generale, per indicare un progetto di governo immaginario in cui
tutto è organizzato alla perfezione per la felicità comune”.
La definizione reca con sé sul piano politico un’accezione negativa di
irrealtà, di impossibilità, un elemento confermato nella seconda
metà del secolo da pensatori quali Diderot, Grimm, Rousseau,
Formey, e altri.6
L’accezione peggiorativa del termine si accentua nell’Ottocento,
nella polemica tra borghesia e liberali da un lato e i diversi filoni
socialisti pre-marxisti. Il significato dipende soprattutto dal punto di
vista ideologico di chi ne fa uso. La parola entra in tutti i dizionari,
ed è ancora definita come ideale, irreale, impossibile. Con l’avvento
dei socialismi il termine viene applicato con un senso decisamente
peggiorativo e utilizzato indistintamente nei riguardi di SaintSimon, Fourier, Owen, Proudhon, Cabet e altri. Con i movimenti
operai e la nascita dei neologismi ‘socialismo’ e ‘socialista’, il
termine utopia viene usato come loro sinonimo, sempre in
accezione negativa, soprattutto nella critica di stampo borghese; si
determina anche una sua estensione come definizione per ogni tipi
di teoria sociale. Il discredito del termine si accentua poi con il
contributo di Marx ed Engels e del loro socialismo scientifico. I due
giudicano i propri predecessori dei sentimentalisti e li condannano
dando alle loro teorie la definizione di “socialismo utopista”, poiché
propongono il sogno di una società costruita come un’assonometria
attraverso l’uso della ragione. Il loro sforzo, per i fondatori del
partito comunista, è umanitario ma inefficace. Al contrario, il loro
“socialismo scientifico” analizza gli elementi della società e prevede
l’emancipazione della classe operai oppressa; il loro approccio
scientifico si fonda sullo studio dei rapporti economici, dei fenomeni
di produzione e di scambio.
Nonostante la critica marxista, nella seconda parte dell’Ottocento è
presente anche un tendenza opposta che porta ad un
6
Ivi , p. 24.
26
Dall’Utopia all’Eterotopia
positivizzazione del termine. Il progresso storico-culturale conduce
ad una realizzazione parziale degli elementi dei progetti utopici di
stato ideale e indebolisce pertanto il rimprovero di inattuabilità
sollevato contro l’utopia. Le utopie divengono una potenziale realtà
del futuro. Inizia qui la temporalizzazione dell’utopia, che si distacca
dai viaggi immaginari e dall’idealizzazione di stati perfetti e ideali, e
si incarna nella storia. La società giusta e perfetta viene mostrata
come inevitabile e garantita dall’evoluzione storica.7 Evidenza di
questa nuova prospettiva sono le parole del socialista premarxista
Louis Blanc: “Une utopie, c’est une idée militante, c’est bien souvent la
vérité de demain, et per conséquent la vérité à l’état Révolutionnaire”
e quelle di Lamartine: “Le utopie non sono che verità premature”8.
Come si nota, la storia della definizione del termine utopia è molto
complessa: si passa da una metafora pseudo-geografica, ad una
descrizione di uno stato ideale e poi, tenendo quest’ultimo aspetto
come fondamento, ma sullo sfondo, la parola diventa una sorta di
giudizio politico, semplice aggettivo per definire altri fenomeni,
quasi dimenticandosi del campo letterario da cui si era partiti con
l’opera di Moro. Tutto ciò si amplifica quando le scienze sociali, in
particolar modo la filosofia e la sociologia, cominciano a interessarsi
alla complessità del fenomeno, interesse che ha inizio nei primi anni
del secolo scorso che è ancora molto vivo. Gli studiosi iniziano a
rivalutare il termine, storicizzandolo; la consistenza del fenomeno
utopico viene interpretata come testimonianza dell’eterna
aspirazione delle classi subalterne a valori immemorabili, quali
l’uguaglianza, la libertà, la giustizia sociale, la comunanza di beni. In
questa ottica appare evidente come la definizione del termine passi
dal denotare un progetto letterario o politico, ad una sorta di
“essenza” dell’utopia, da alcuni declinata sul piano storico e da altri
sul piano filosofico-intellettuale, essenza che poi si esprime e si
Di questo cambiamento strutturale dell’utopia parleremo più approfonditamente in
seguito.
8 Cit. in H. G. Funke, Op. cit., p. 33.
7
27
Dall’Utopia all’Eterotopia
concretizza in fenomeni diversi, con la letteratura sempre in primo
piano, come se l’Utopia (essenza) avesse bisogno delle utopie (libri
o altri media di espressione) per concretizzarsi. Questo processo è
ben illustrato in un libro pubblicato nel 1950 da Raymond Ruyer,
L’utopia e gli utopisti, in cui l’autore differenzia una nozione ristretta
di utopia, intendendo l’utopia letteraria, e una nozione ampia di
“pensiero utopico” che definisce “mode utopique” e che potremmo
tradurre con “modalità utopica”, definito dall’autore come “esercizio
mentale sui possibili laterali”.9 Esso consiste nella facoltà di
immaginare, dunque di modificare la realtà attraverso le ipotesi, di
creare una struttura distinta dal reale, parallela alla realtà dei fatti;
con questa azione immaginaria si modificano le costanti
assiologiche del reale. Per utopia invece intende in particolare un
genere letterario:
Un‘utopia è la descrizione di un mondo immaginario, al di fuori
del nostro spazio o del nostro tempo, o comunque al di fuori del
nostro spazio-tempo storico geografico. È la descrizione di un
mondo costituito su principi differenti da quelli che agiscono il
mondo reale.10
Questa è una divisione che ne ricalca, in maniera del tutto simile,
un’altra, largamente accettata dagli studiosi, quella tra utopia e
utopismo; utopia intesa come descrizione romanzata di una società
diversa e migliore, utopismo invece, interpretato come
atteggiamento mentale, speculazione sulle possibili organizzazioni
politico-sociali, volontà di superare la datità del presente nel
progettare mondi alternativi.11 Tali termini ampliano naturalmente
la portata del fenomeno utopico in quanto “i possibili laterali”
conducono ad una definizione troppo vaga dell’utopia, così alcuni
R. Ruyer, L’utopie et les utopists, Press Universitaires de France, Paris, 1950.
Ivi, p. 22, traduzione mia.
11Cfr. AA.VV., Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici. Cuen, Napoli, 2003 e V. Fortunato,
Dall’utopia all’utopismo in AA.VV., L’Utopia e le sue forme, Il Mulino, Bologna, 1982.
9
10
28
Dall’Utopia all’Eterotopia
studiosi hanno voluto restringere il campo delle proprie ricerche al
solo genere letterario; tra questi sicuramente i più importanti sono
Trousson e Cioranescu.12
Naturalmente tutto tende a complicare e ad estendere in maniera
considerevole il campo semantico del termine utopia, ma uno studio
che si voglia non superficiale di questo fenomeno deve addentrarsi e
coinvolgere tutti questi aspetti e livelli, senza farsi limitare dalle
possibili difficoltà di definizione e dai campi di analisi diversi. In
fondo uno studio sociologico sull’utopia, come questa ricerca ha
l’ambizione di definirsi e strutturarsi, deve contenere tutti i diversi
piani di analisi: il piano letterario, i possibili laterali, sia, in
particolar modo, i cambiamenti nella dimensione dell’immaginario
collettivo che poi dà vita alle trasformazioni nel campo del pensiero
utopico.
Torniamo ora al tema lasciato in sospeso della storicizzazione del
concetto di utopia, uno degli elementi che più ha influito
sull’ampliamento semantico del termine utopia. La genesi
dell’utopia “storica” intesa, in senso molto ampio, come la perenne
aspirazione delle classi subalterne ad una società migliore e più
giusta, è segnata dall’opera di tre autori ebraici, Karl Mannheim,
Martin Buber ed Ernst Bloch.13
Mannheim è colui che per primo intende l’utopia come un fattore
della storia, il fattore che di volta in volta rompe l’ordinamento
esistente per instaurarne uno nuovo. Lo studioso introduce questa
nuova visione dell’utopia attraverso la contrapposizione di questa
con l’ideologia. Mannheim sostiene che:
Cfr. A. Cioranescu, L’avenir du passè. Utopie e littérature, Gallimard, Paris, 1972 e R.
Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo Editore,
Ravenna, 1992.
13 Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, E. Bloch, Il principio di
speranza, Garzanti, Milano, 1994, M. Buber, Sentieri in Utopia, Comunità, Milano, 1967.
12
29
Dall’Utopia all’Eterotopia
Il concetto di ideologia riflette una scoperta che è venuta
emergendo dalla lotta politica; vogliamo alludere alle convinzioni
e alle idee dei gruppi dominanti, le quali sembrano congiungersi
così strettamente agli interessi di una data situazione da
escludere qualunque comprensione dei fatti che potrebbero
minacciare il loro potere. Con il termine ideologia noi intendiamo
così affermare che, in talune condizioni, i fattori inconsci di certi
gruppi nascondono lo Stato reale della società a sé e agli altri e
pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice.14
Riferendosi invece all’utopia lo studioso precisa:
Il concetto di utopia pone in luce una seconda e del tutto opposta
scoperta: esistono cioè dei gruppi subordinati, così fortemente
impegnati nella distribuzione e nella trasformazione di una
determinata condizione sociale, da non riuscire a scorgere nella
realtà se non quegli elementi che essi tendono a negare […]. Tali
gruppi non si occupano affatto di ciò che realmente esiste, bensì,
cercano in ogni modo di mutarlo. Il loro pensiero non è mai un
quadro obbiettivo della situazione, ma può essere usato soltanto
come una direzione per l’azione. Nella mentalità utopica,
l’inconscio collettivo, mosso essenzialmente dai progetti per il
futuro.15
L’utopia sarebbe allora la rappresentazione della classe subordinata
che vuol cogliere le possibilità di trasformazione storica della
società e trascendere il potere costituito, mentre l’ideologia la
posizione statica di una classe al potere incapace di comprendere
l’elemento dinamico della storia e la volontà di conservare il proprio
potere ad ogni costo. Mannheim rintraccia anche una dialettica
storica tra ideologia e utopia: ogni classe subalterna che riesce a
prendere il potere trasforma la propria utopia in ideologia, che
verrà poi abbattuta da un’utopia successiva, dando vita a quella che
14
15
K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 41.
Ibidem.
30
Dall’Utopia all’Eterotopia
è in realtà la dinamica sociale, “così il cammino della storia conduce
da una «topia» (o realtà esistente) a una utopia e quindi ad una
successiva «topia», ecc.”16 Partendo da questi presupposti,
Mannheim definisce come utopica una mentalità che è in
contraddizione con la realtà presente e la vuole trascendere ad ogni
costo. Lo studioso tedesco a questo punto rintraccia e analizza
storicamente quattro utopie: l’utopia chialista, l’utopia liberale,
l’utopia conservatrice e l’utopia socialista-comunista.
Altro autore importante per la “storicizzazione” dell’utopia è Martin
Buber con il suo libro Sentieri in utopia, che è in realtà una sintesi
del pensiero socialista, indagando su autori quali Proudon,
Kropotkin, Landauer e naturalmente Marx e Lenin. In Buber sono
presenti solo accenni alla storicizzazione dell’utopia: in essa,
secondo l’autore, è in gioco un “dover essere”, non un progetto
qualunque, più o meno aleatorio, ma ciò che l’uomo deve realizzare
se vuol essere uomo e non sub-uomo. Ed è il «giusto», la grande
categoria del messianismo ebraico (cultura di cui è grande esperto)
ad essere la base della nuova società, la storica speranza e il
movimento verso cui tende l’uomo.17
Bloch sintetizza ed estremizza le conclusioni degli autori
precedenti: per lui l’utopia è il “processo della storia”, anzi il
processo della natura, della materia, materia pervasa da una forza
evolutiva che la muove verso forme sempre migliori; quindi l’uomo
e la società avanzano ed evolvono fino al superamento
dell’alienazione e delle contraddizioni che li pervadono da sempre,
fino a giungere al “regno della libertà”, alla “democrazia vera”;
l’utopia è qui un processo della storia in cui si costruisce la società
di giustizia.18 Per Bloch però l’utopia abbraccia un po’ ogni cosa, dai
giochi alle specialità farmaceutiche, dai miti al divertimento di
Ivi, p. 217.
M. Buber, Sentieri in Utopia, Comunità, Milano, 1967, pp. 16, 17, 24, 168.
18 E. Bloch, Il principio di speranza, Garzanti, Milano, 1994, pp. 263-266.
16
17
31
Dall’Utopia all’Eterotopia
massa, l’impulso utopico, infatti, per lo studioso tedesco governa
tutto, ed è orientato verso il futuro nella vita e nella cultura.
Un altro importantissimo autore che ha ripreso e approfondito le
conclusioni dei tre autori appena menzionati è Arrigo Colombo, per
il quale “l’utopia è il processo programma della storia per instaurare
la società di giustizia”. L’autore analizza gli eventi storici tentando di
dar loro una consequenzialità e un’appartenenza al processo di
realizzazione della società giusta, partendo dal messianismo
ebraico, passando per l’annuncio evangelico, alle eresie medioevali,
fino alle grandi rivoluzioni, quella inglese, quella francese, la russa e
la rivoluzione culturale degli anni ‘60 e ’70. Un processo che per
Colombo è ancora in corso e che si concluderà soltanto con
l’instaurazione della società di giustizia. 19
Nonostante la rivalutazione del termine avvenuta grazie
all’interesse delle scienze sociali e alla teorizzazione dell’“utopia
storica”, il termine spesso ha ancora accezioni negative: Lalande nel
suo Vocabolario Filosofico la definisce “ un Ideale politico e sociale
avvincente, ma irrealizzabile, nel quale i fatti reali, la natura
dell’uomo e le condizioni della vita non sono tenuti in considerazione”,
mentre per Popper l’utopia presuppone la fiducia in un modello di
assoluta perfezione astratta, costruito dalla ragione, i cui tentativi di
realizzazione storica conducono alla violenza e al totalitarismo.20
Dopo
questo
excursus
torniamo
brevemente
alla
concettualizzazione dell’utopia come denominazione di un genere
letterario, poiché negli anni venti del Novecento nasce un nuovo
genere della letteratura utopica, la distopia, della quale possiamo
trovare due celebri esempi nei romanzi Noi di Evgenij I. Zamjatin e
1984 di George Orwell. Questo nuovo genere si presenta, in una
Cfr. A. Colombo, L’utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia, Dedalo, Bari, 1997 e A.
Colombo (a cura di), Utopia e Distopia, Dedalo, Bari, 1999.
20 R. Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo Editore,
Ravenna, 1992, pp. 15,16.
19
32
Dall’Utopia all’Eterotopia
prima fase, come immagine negativa del progresso tecnico e
scientifico dell’umanità futura e in una seconda fase come immagine
della società totalitaria suggerita dall’esperienza degli stati fascisti e
stalinisti.
Anche al termine della nostra analisi storico-speculativa il concetto
di utopia rimane complesso e polivalente. A partire dal XVI secolo
possiamo schematizzare dieci significati diversi:
nel XVI e XVII secolo:
1. libro, isola e stato di Moro
2. metafora geografica di luogo fittizio o stato ideale;
nel XVIII secolo:
3. denominazione di un genere letterario
4. concetto politico ambivalente di idea di riforma inattuabile
5. concetto di lotta politica, sinonimo o antonimo di socialismo
e comunismo
6. socialismo premarxista svalutato dal socialismo scientifico;
nel XIX secolo:
7. coscienza rivoluzionaria del ceto ascendente (Mannheim)
8. rivoluzione
9. totalitarismo (Popper)
10.processo della storia (Bloch, Buber e Colombo).
In realtà il problema della polisemicità della parola Utopia risiede
nel fatto che, nel momento in cui mette in atto uno dei significati qui
menzionati, allo stesso tempo, suggerisce e attiva anche gli altri, in
quanto significati connotati, con tutte le caratteristiche e le qualità
di cui sono portatori.
33
Dall’Utopia all’Eterotopia
1.2 Caratteri generali dell’utopia
Dopo aver inseguito lungo i secoli le trasformazioni semantiche del
termine ‘utopia’, è il caso di ricercarne alcune caratteristiche
peculiari, sia dell’Utopia intesa come pensiero utopico sia di come
questo pensiero si incarna in un testo, quindi le caratteristiche del
genere letterario utopico. Secondo gli studiosi il sorgere dell’utopia
appare legato a momenti storici ben determinati, di solito in
particolari periodi di crisi e grandi cambiamenti, in cui secondo Jean
Servier è presente un sentimento diffuso, “il sentimento di
scoramento e di perdita di senso di una civiltà, il sentimento profondo
dell’essere di trovarsi gettato nell’esistenza senza una vera necessità,
senza una ragione”. A questa situazione di crisi l’utopia prova a dare
una risposta, “come un tentativo di sopprimere attraverso
l’immaginazione, attraverso il sogno, una situazione conflittuale.”21,
un sogno che si concretizza attraverso la letteratura, questo almeno
nel primo periodo dell’utopia22, in cui si posso individuare delle
grandi linee tematiche pressoché invariabili: la descrizione di una
città perfetta e felice e la critica del vecchio ordinamento sociale.
Possiamo inoltre analizzare le caratteristiche più evidenti del
genere:
1. in primis, l’ingresso in utopia attraverso un viaggio o un
sogno;
2. l’insularismo: l’utopia è isolata, in un tempo imprecisato;
3. il perfettismo: è ispirato dalla convinzione utopica di voler
edificare lo Stato ideale;
4. la marginalizzazione della famiglia: il suo ruolo di elemento
socializzante viene assunto di solito dallo Stato o dalla
città/comunità ideale;
21
22
J. Servier, Storia dell’utopia, Ed. Mediterranee, Roma, 2002, p. 226.
Vedremo in seguito l’importanza del legame tra utopia e libro.
34
Dall’Utopia all’Eterotopia
5. il totalitarismo: il regime di governo è completamente
centralizzato, basato sulla condivisione totale di valori e
comportamenti;
6. l’uniformità: in utopia vi è la completa spersonalizzazione.
7. la scomparsa della storia e della geografia: le società
utopiche sono sospese nel tempo e nello spazio. Godono di
clima stabile e temperato tutto l’anno. Sono senza passato,
senza memoria e ovviamente senza futuro: non conoscono
mutamenti o evoluzioni sociali;
8. l’onnipotenza della pedagogia: l’educazione pubblica deve
plasmare i cittadini ed educarli perfettamente in modo da
giungere ad una interiorizzazione completa dei valori sociali;
9. il comunismo e l’egualitarismo: scomparsa della proprietà
privata, limitazione del commercio e abbandono dell’uso del
denaro. Comunismo dei beni materiali e produttivi;
10. il congelamento e la trasparenza delle istituzioni: le
strutture politico-sociali restano immutate nel corso del tempo
e il funzionamento dei loro meccanismi sono ben chiari;
11. l’anestetizzazione della dimensione religiosa: tranne alcuni
casi (la Città del sole, Cristianopoli) la società utopica è laica e
secolarizzata;
12. il misconoscimento del ruolo dei conflitti sociali: non vi
sono contrapposizioni di interessi diversi vista la completa
uguaglianza;
13. le scelte basate su soluzioni semplicistiche: le utopie
tendono a semplificare i problemi della realtà e la sua
complessità;
14. la geometrizzazione degli spazi urbani: l’organizzazione
simmetrica delle strutture urbanistiche (delle strade, degli
35
Dall’Utopia all’Eterotopia
edifici, ecc.) mette in evidenza la ricerca di una perfezione
basata su di un’ideale razionalità astratta.23
Queste sono più o meno le caratteristiche e le tematiche dei testi
utopici, elementi quasi sempre presenti; l’importante, però, è
tentare di astrarre maggiormente e trovare delle peculiarità che
illuminino maggiormente le caratteristiche e anche le funzioni
dell’utopia stessa. Allora potremmo affermare che l’utopia è la
rappresentazione globale di una alterità sociale, completamente
opposta alla realtà sociale esistente. L’utopia tende alla critica
radicale della società esistente e al suo trascendimento in una
polemica tra ideale e reale, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.
Inoltre, come abbiamo visto in precedenza accogliendo l’intuizione
di Baczko, l’utopia è il luogo in cui si sperimenta l’immaginazione
sociale, in cui si razionalizzano i sogni sociali; tutto ciò avviene con
la descrizione di una nuova vita quotidiana: tutte le utopie
descrivono minuziosamente l’organizzazione della nuova realtà
quotidiana, attraverso la quale si esprime la nuova società ideale. La
sua funzione è quella di dare vita ad un discorso che crei delle
“immagini-idee”, come le chiama Baczko, che possano introdursi
nell’immaginario collettivo e diventare delle immagini-guida, degli
schemi direttivi che possano rinnovare il tempo e lo spazio
collettivi.
Dopo aver descritto le caratteristiche più generali dell’utopia,
dobbiamo capire quando e da che background culturale nascono tali
testi utopici, infatti è possibile rintracciare in essi alcuni elementi
già presenti in altri discorsi e generi letterari in cui venivano messi
in primo piano l’edificazione o la descrizione di paesi perfetti o
comunque meravigliosi, poiché come afferma Mannheim:
Cfr. R. Ruyer, L’utopie et les utopists, Press Universitaires de France, Paris, 1950, R.
Trousson, Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo Editore,
Ravenna, 1992, J. Servier, Storia dell’utopia, Ed. Mediterranee, Roma, 2002, A.Cioranescu,
L’avenir du passè. Utopie e littérature, Gallimard, Paris, 1972.
23
36
Dall’Utopia all’Eterotopia
L’aspirazione ad una condizione migliore è antica quanto il
mondo. Quando la fantasia non trova di che soddisfarsi nella
realtà esistente, essa cerca rifugio in epoche o luoghi immaginari.
I miti, le favole, le promesse oltremondane della religione, le
fantasie degli umanisti, i romanzi di viaggi, sono state le diverse
espressioni di ciò che la vita concreta non poteva offrire.24
In tutte queste espressioni si possono rintracciare le radici
dell’utopia: si pensi, nella letteratura popolare, al Paese di Cuccagna
e al Mondo alla rovescia, o al mito dell’Età dell’oro, in cui la società
perfetta è posta all’origine della storia. Se questi possono essere
sicuramente dei validi rinvii, bisogna considerare il fatto che
l’utopia di Moro nasce nel 1516, in pieno Rinascimento, quando le
coordinate culturali erano i classici del pensiero del periodo grecoromano e naturalmente i testi religiosi della tradizione giudaicocristiana. Questa derivazione è ben sintetizzata dagli studiosi Frank
E. Manuel e Fritzie P. Manuel, che evidenziano come l’utopia sia “a
hybrid plant, born of the crossing of the paradisiacal belief of JudeoChristian religion with the Hellenic myth o fan ideal city on earth.”25
Da questa affermazione si deduce che gli archetipi del genere
utopico si possono rinvenire sia negli ideali greci descritti da
Platone nella Repubblica e nelle Leggi, sia nella tradizione biblica e
giudaico-cristiana, soprattutto nel Messianismo, nel Millenarismo e
nei vari apocalittici. Le influenze di Platone sull’opera di Moro e su
tutti i successivi testi utopici sono talmente esplicite che è superfluo
sottolinearle, gli altri influssi invece è necessario analizzarli
brevemente, poiché possiedono un interesse notevole.
La cultura ebraica, come sottolinea Servier26, stava avendo nel
Cinquecento una grande espansione, soprattutto nel centro-nord
Europa, e sicuramente Moro e gli intellettuali del suo tempo ne
erano grandi conoscitori. La base del pensiero messianico è l’attesa
K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 224.
Cit. in AA.VV., Dall’utopia all’utopismo. Percorsi tematici. Cuen, Napoli, 2003, p.49.
26 Cfr. J. Servier, Op. cit.
24
25
37
Dall’Utopia all’Eterotopia
di un Salvatore - un Messia appunto - che avrebbe liberato il popolo
ebraico dalla condizione di ingiustizia, infelicità e schiavitù, per
condurlo verso la “terra promessa” in cui avrebbe regnato giustizia
e felicità. La giustizia è la struttura fondante del progetto
messianico, giustizia che si identifica con la salvezza, liberazione dal
male e dall’infelicità, ma ha anche un significato più ristretto, come
Dio che rende giustizia al suo popolo, che punisce i suoi nemici e
crea per esso una città giusta e prospera, in cui regna la pace, una
pace che si farà universale, una sorta di ritorno dell’Eden. Il
millenarismo invece si basa sul mito del “millennio”, l’attesa di un
regno millenario, escatologico, posto alla fine della storia. Il nucleo è
fondato sull’idea di rivalsa, il tema centrale è infatti il giudizio
universale, che dividerà i giusti dagli empi. Dopo la battaglia finale il
Bene vincerà sul Male, Satana sarà sconfitto e i giusti regneranno col
Cristo sulla terra, per mille anni prima del Giudizio. Il regno del
millennio è caratterizzato dalla giustizia, dall’uguaglianza e dalla
possibilità di godere di tutti i beni terreni. Il mito millenarista ebbe
grande successo, soprattutto fu la base, dopo la sua rielaborazione
da parte di Giocchino da Fiore, di tutti i movimenti di rivolta
contadina del Cinquecento, ispirazione per le popolazioni, ormai
stanche di aspettare il regno del millennio e desiderose di crearselo
da sole.Dopo aver analizzato le basi culturali della letteratura
utopica, è giunto il momento di studiare quali sono le relazioni tra
l’utopia e la sua rappresentazione in forma letteraria, studiare cioè il
filo rosso che unisce l’utopia e il libro.
1.3 L’Utopia e il libro
Il campo degli studi sull’utopia è ancora oggi dominato da una
disputa tra gli studiosi che considerano necessario ampliare lo
studio dell’utopia a tutte le sue forme di espressione e coloro che,
38
Dall’Utopia all’Eterotopia
invece, la vedono univocamente legata alla sua forma letteraria:
l’unica “vera” utopia. Gli studiosi più importanti, già citati, che
avvallano quest’ultima visione sono Raymond Trousson e Alexandre
Cioranescu.
Trousson critica la visione dell’utopia come esercizio mentale sui
possibili laterali perché la ritiene troppo vaga, inoltre, dal momento
che l’utopista vuole organizzare un mondo nuovo e perfetto, ha
bisogno di una modalità di rappresentazione, che a suo avviso non
può che essere la letteratura:
La volontà di rappresentare un universo costruito partendo dalla
realtà e modificato dalla speculazione, dimostra che l’utopia
richiede una forma letteraria, la sola in grado di realizzare la
rappresentazione di un mondo in movimento, complesso come il
mondo reale e con una vita verosimile. Questa utopia ha la
caratteristica di essere opera di immaginazione e di
cristallizzazione (fissa cioè un metodo della riflessione
utopica)[…]. L’utopista è inevitabilmente legato a un progetto a
dimensione estetica[…]. Consapevole della complessità della sua
dimostrazione, sceglie in generale il romanzo come forma più
consona alla realizzazione del suo progetto. Perciò l’utopia
appare spesso come una metamorfosi del genere romanzesco.27
Trousson, è evidente, ritiene la forma letteraria dell’utopia è l’unica
in grado di esprimerla, di darle corpo e realizzarla. Probabilmente
sarebbe più opportuno limitare questa considerazione al primo
periodo della produzione utopica, dalla sua invenzione nel 1516 fino
agli inizi del Novecento, quando avviene una trasformazione nella
rappresentazione dello “spirito” utopico che porta l’utopia ad
esprimersi anche attraverso altri mezzi. La lacuna di questa tesi, non
chiarita dall’autore, risiede nella considerazione della forma
letteraria quale la sola in grado di rappresentare l’utopia, di
R. Trousson, , Viaggi in nessun luogo. Storia letteraria del pensiero utopico, Longo
Editore, Ravenna, 1992, pp. 18,19.
27
39
Dall’Utopia all’Eterotopia
“incarnarla”. Questo è il tema che deve essere affrontato, se pur
brevemente. Per far ciò è importante prima di tutto contestualizzare
il periodo storico in cui l’utopia nasce e si sviluppa; come sappiamo
questo avviene nel XVI secolo e ha il suo apice nel XVII e XVIII.
Questi sono secoli di grandi trasformazioni a livello culturale, è
iniziato quel “disincanto del mondo” che porterà alla
secolarizzazione del sociale. Il problema principale è
l’interpretazione del mondo: la Natura per lunghissimo tempo era
stata vista come l’opera, il libro di Dio, di cui i testi sacri davano
l’interpretazione; il mondo era un testo portatore di un senso, che
rinviava ad un Significato Supremo, i fenomeni visibili rinviavano
all’invisibile, il microcosmo al macrocosmo, tutto rimandava ad una
istanza ordinatrice, creatrice e leggittimatrice, che era naturalmente
Dio. L’universo simbolico religioso legittimava il tutto organizzando
il mondo intorno al suo Dio, per cui una e una sola poteva essere
l’interpretazione del reale. Tutto ciò cambia nei secoli citati, e
cambia proprio per una crisi all’interno del mondo religioso: cosa è
la Riforma se non una nuova interpretazione della realtà religiosa? Il
mondo non appare più chiuso in prototipi religiosi, ormai entrati in
crisi e, grazie anche ai primi successi della scienza e della tecnica, il
mondo sembra ora aperto a nuove interpretazioni che attraverso la
razionalizzazione e la secolarizzazione permettono la “creazione di
nuovi mondi” al di fuori dell’universo simbolico religioso. Come
afferma Wunenburger: “La Razionalisation et la désacralisation du
monde autorisent la costruction d’autres modèles, et permettent
d’articuler la quête du lieu idéal avec une procédure mentale
novatrice.”28 Le utopie non sono altro che la creazione di nuovi
mondi, resa possibile da speranze nuove e obbligatorie dopo la
rottura dell’universo simbolico religioso. L’utopia sceglie il libro
perché ambedue soddisfano e sfruttano la pluralità dei paradigmi
del mondo che ora sono possibili; l’utopia si inserisce in una nuova
28
J.J. Wunenburger, L’utopie ou la crise de l’imaginaire, Delarge, Parigi, 1979, p. 121.
40
Dall’Utopia all’Eterotopia
visione dell’esistente che la stampa, e il libro in quanto sua
espressione, sviluppa molto bene, quello cioè di sostituire “il libro
del mondo con il mondo del libro”29 poiché sia il libro che l’utopia,
hanno la spinta a chiudere le possibili interpretazioni del mondo
all’interno di uno spazio chiuso e artificiale, la pagina per il libro, la
città perfetta per l’utopia. In essa la razionalità limita il caos in cui è
entrato il reale dopo la crisi della visione religiosa del mondo, dei
cambiamenti sociali e anche, altro elemento da non dimenticare,
dell’apertura del mondo geografico, con tutto ciò che questo
comporta nell’assiologia del pensiero, avvenuta dopo la scoperta
dell’America. La nascita del concetto di utopia è infatti
contemporanea all’invenzione e alla diffusione della stampa, non
solo come tecnologia, ma come supporto di una nuova relazione tra
l’uomo e il pensiero. L’utopia letteraria sembra essere l’espressione
migliore delle tesi di McLuhan su La galassia Gutemberg e le sue
conclusioni sulla correlazione tra la logica tipografica e la proiezione
lineare, astratta e razionale, che sembra incarnarsi perfettamente
nell’utopia, con la sua voglia infinita di dare un ordine astratto al
caos della vita sociale. Con il libro a stampa l’utopia prende la sua
forma di mondo chiuso e artificiale tipico di una prospettiva
razionale. Come la stampa limita l’iconosfera simbolica tradizionale
e la sostituisce nel ruolo di mediatrice tra l’uomo e il mondo, tra
l’uomo e il cosmo, così l’utopia nella sua razionalità limita il caos
dell’immaginazione sociale, chiarendo così le seguenti parole di
Baczko: “L’utopia ha la volontà di installare la razionalità
nell’immaginario.”30 Come il pensiero è mediato dal libro per
l’interpretazione del mondo31, sostituendosi all’esperienza,
offrendocene una traduzione per procura, in una forma statica,
uniforme, organizzata, così l’utopia ci offre la prefigurazione dello
Cfr. J.J. Wunenburger, Op. cit., p. 121.
B. Baczko, L’utopia, Einaudi, Torino, 1978, p. 23.
31 Cfr. A. Cavicchia Scalamolti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri,
Napoli,2007, p.54.
29
30
41
Dall’Utopia all’Eterotopia
spazio delle città perfetta, razionale e astratta estrapolandola dalla
realtà caotica. Il libro e l’utopia si sposano perfettamente perché
hanno in sé una forma di pensiero lineare e razionale, entrambi
cercano e offrono un quadrillage a due dimensioni come soluzione
alla molteplicità naturale del mondo. Il discorso sulla città e il luogo
ideale sono il trionfo della pagina sull’ambiguità del mondo:
Le monde utopien sera enfermé dans la typographie d’un livre, qui
elle-même conditionne sa composition figurative interne. La cité
rêvée réduit la disparité et la coloration de la vie à un paysage
social uniforme et abstrait, dans lequel la régularité des signes
écrits fait écho à là géometrisation et la palnification des
existences. L’intemporalité des cités possibile correspond donc à la
spatialité normalisée du livre.32
L’utopia non è che la messa in scena di una città perfetta
“drammatizzata” sulla pagina. Il libro ha limitato il pensiero, nella
sua rêverie sull’interpretazione del mondo, ha distaccato il senso dal
vissuto rendendolo connaturato ad una pagina su cui stampare
l’astrazione del pensiero uniformato, di cui l’utopia porta le tracce
più visibili, riduce la felicità e la perfezione alla logica di un testo,
dispiegandola e omogeneizzandola ad una tecnica.
Naturalmente la relazione causale tra forma dell’utopia e stampa
non può essere così diretta, troppi elementi a livello culturale
stavano cambiando per imputare o far derivare la genesi letteraria
dell’utopia solo alla stampa, pensiamo ad esempio alla
strutturazione concettuale della prospettiva.33 Cos’è la prospettiva
se non una tecnica razionale di costruzione del mondo? Il mondo
costruito attraverso la tecnica della prospettiva è, come nella fisica e
nella matematica, chiuso in uno spazio razionale e regolare, la
mediazione di questa tecnica è identica alla mediazione tipografica:
32
33
J.J. Wunenburger, Op cit, p. 122.
Cfr. E.Panovsky, La prospettiva come forma culturale, Abscondita, Milano, 2007.
42
Dall’Utopia all’Eterotopia
“le système remplace la vie, l’ordre clos encercle l’imprévisibilité et
l’équivocité du vécu.”34 Tutto ciò è simile alla città perfetta
dell’utopia, che astraendosi nel libro si sottrae alla problematicità
storica, l’utopia si dota di un modo per organizzare la città e
normalizzare i ruoli sociali affinché si sfugga al caos e
all’imperfezione della storicità; la perfezione non è più nella natura,
nel mondo, ma solo nella programmazione trasparente attraverso la
ragione. L’utopia, come si nota, rispecchia e contribuisce a formare
questo nuovo quadro mentale sul reale che, dopo la caduta
dell’universo simbolico religioso, si aggrappa alla razionalità, alla
tecnica, alla costruzione razionale del reale per limitare il caos e
l’ambivalenza del vissuto.
Il rapporto privilegiato tra utopia e stampa è, come vedremo, solo il
primo passo di una relazione costante e profonda che l’utopia
intesserà con le tecnologie mediali, rapporto che metteremo in
evidenza in maniera approfondita nel corso della ricerca perché
produrrà notevoli trasformazioni nell’immaginario utopico e
soprattutto perché tutti i media di massa che seguiranno la stampa,
verranno investiti di tratti utopici peculiari, in particolare di poter
riportare in auge e promuovere nuovamente delle relazioni
comunitarie; riferendoci ai media successivi, pensiamo
all’importanza della radio per dar corpo al sentimento nazionale o
alle comunità virtuali teorizzate da Rheingold. Nell’ambito politico il
sogno è ed è sempre stato quello di poter costituire una nuova agorà
comunicazionale che fosse in grado di riunire in una globalità tutta
l’umanità.35 Pensiero che è di molto precedente alle teorizzazioni
sulla Agorà virtuale o la cyberdemocrazia di voga in questo periodo
con il successo della Rete, e risalgono esattamente al successo della
stampa e, ormai non dovrebbe stupire, alle parole di uno dei più
J.J. Wunenburger, Op cit, p. 123.
A. Mattelart, Storia dell'utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale.
Einaudi, Torino2003.
34
35
43
Dall’Utopia all’Eterotopia
famosi utopisti del XVIII secolo, Mercier, che nel suo An 2440
descrive la capacità della stampa di rendere più trasparenti e
democratici i processi politico-sociali, e facendo ciò è in grado di
riunire i cittadini in una società globale pacifica.36 Queste istanze
vengono ora completamente riversate nella Rete: pensiamo alle
rivolte ora in atto in Africa, o al mito del villaggio globale di
mcluhniana memoria. La relazione tra utopia, media e il concetto di
villaggio globale non deve stupire,infatti, il prima utopista, Thomas
More, era un noto ecumenista, e la sua Utopia, aveva anche come
proposito quello di trovare una soluzione alle guerre di religione
che nel XVII secolo insanguinavano l’Europa.
Ciò che è qui importante evidenziare è la trasformazione dei media
da forma espressiva dell’immaginario utopico, in una vera e propria
utopia, un’ utopia che ha portato delle trasformazioni importanti
nella sostanza dell’utopia stessa avvicinandola a quella di
eterotopia, ma questo lo analizzeremo in seguito.
1.4 Coordinate spazio-temporali dell’immaginario
utopico
Dopo questi presupposti concettuali possiamo iniziare ad
addentrarci negli aspetti che più ci interessano dell’utopia, o meglio
di quel particolare “spirito” che soggiace e determina la costruzione
di una utopia. “Spirito” che potremmo definire come Gauchet
“coscienza utopica”37, ma che preferisco denominare “immaginario
utopico”, la struttura assiologica che determina la formazione di una
specifica utopia.
In primo luogo dovremo analizzare come i diversi immaginari
utopici interpretino le categorie di spazio e di tempo, poiché
36
37
L.S. Mercier, L'anno 2440, Dedalo, Bari, 1993.
Cfr. M. Gauchet, R. Redeker, Utopia e modernità, Città aperta edizioni, Enna, 2005, p 74.
44
Dall’Utopia all’Eterotopia
abbiamo teorizzato uno slittamento categoriale dell’utopia nella
società contemporanea, da una dimensione temporale ad una
spaziale, questa è in fondo la tesi centrale della ricerca, che
proveremo a dimostrare attraverso i fenomeni citati
nell’introduzione.
L’Utopia ha sempre avuto uno strano e contraddittorio rapporto con
le categorie dello spazio e del tempo, in primo luogo perché si
colloca in luoghi non esistenti, in massima parte non reali: è il
problema del topos - che l’Utopia racchiude già nel nome - ma in
realtà l’ossimoro spaziale ne nasconde uno più profondo, quello del
tempo, poiché ogni utopia è attraversata dal sogno di essere un anticronia. L’Utopia per sua natura determina una doppia chiusura:
quella dello spazio, chiuso, circoscritto, come l’isola di Moro o il
falanstiero di Fourier, e quella del tempo , bloccato, fermo che non si
apre più al futuro, la storia ha trovato il suo fine, poiché si è giunti
alla società perfetta. Come afferma Redeker: “Per la sua vocazione
contro-entropica l’utopia è una delle macchine da guerra che la
cultura umana ha forgiato contro il tempo”38. Naturalmente tutto ciò
sarebbe vero se l’utopia si concretizzasse; la nascita della società
perfetta segna l’incarnarsi dell’Armonia, (pensiamo all’armonia
delle passioni di Fourier) e in questa realizzazione si compie
l’annullamento del tempo e a sua volta la fine della Storia. Niente
tempo, niente storia; il tempo dell’utopia è il regno della ripetizione
armonica.
Questo rapporto tra Utopia e categorie spazio-temporali lo si
potrebbe generalizzare ed estendere a quasi tutte le manifestazioni
utopiche, ma è strettamente rappresentante dell’Utopia al suo
sorgere, all’inizio della società moderna; in seguito tale relazione si
farà più complessa e sembrerà preferire ora la categoria spaziale,
ora quella temporale.
38
Ivi, p. 39.
45
Dall’Utopia all’Eterotopia
Per avere un quadro generale di come cambino i rapporti tra
l’Utopia e le categorie spazio-temporali potrebbe essere utile una
breve periodizzazione dell’immaginario utopico, dal suo nascere
fino ad oggi, sottolineando gli elementi che più ci interesano.
Seguendo una intuizione di Gauchet è possibile distinguere cinque
tappe (per me diventeranno sei) nell’immaginario della società
perfetta.
Il primo stadio è quello che abbiamo delineato poco sopra: tutto
nasce con il libro di Tommaso Moro nel 1516 (De optime Republicae
statu deque nova insula Utopia libellus vere aureus, nec minus
salutaris quam festivus); da qui fino a L’An 2440 di Louis-Sebastien
Mercer del 1770, l’Utopia si proietta nello spazio, un nuovo spazio
dal quale osservare e osservarsi; ma per farlo era (ed è) necessario
un altrove, un altrove dove poter risolvere i problemi e le
contraddizioni che affliggono la società, e dove crearne una
migliore. Per questo le utopie sono caratterizzate da uno scarto
assoluto rispetto al qui e ora, un luogo talmente “altro” da
appartenere a una geografia sconosciuta e a una storia ignorata, la
ou-topos, appunto. Tale immaginario utopico è influenzato
massimamente dall’ampliamento del mondo avvenuto con la
scoperta del continente americano nel 1492. L’America era vista
come una terra vergine, aveva offerto un nuovo punto di vista da cui
osservarci e un terreno fertile su cui riversare le speranze e i sogni
della vecchia Europa, una terra vergine in cui la razionalità scevra
delle limitazioni istituzionali e religiose del vecchio continente
poteva creare il mondo perfetto e incarnarsi in esso. Le utopie di
questo periodo, fino a quella di Mercer, resteranno fedeli al
canovaccio di Moro, pur nella varietà dei mondi inventati, tutte
confronteranno l’ordine realmente esistente a un’alternativa che ne
chiarisce i meccanismi e in cui progettare la perfezione.
Solo verso la metà del diciottesimo secolo l’immaginario utopico
inizia a trasformarsi per l’irruzione nella scena sociale, con
conseguenze straordinarie nell’immaginario collettivo, di un nuovo
elemento: il Progresso. Tale novità rivoluziona l’orientamento della
46
Dall’Utopia all’Eterotopia
temporalità collettiva verso il futuro, elemento che insieme alla
scoperta dello spiegamento sedimentario dell’esperienza umana nel
divenire, investe con violenza, e non poteva essere altrimenti, anche
l’immaginario utopico, aprendogli nuovi territori esplosi nel tempo,
nuovi futuri possibili e immaginabili.
Il progresso e il divenire diventano le chiavi di volta per edificare la
società altra, la società giusta, abbattendo le resistenze del passato;
non appena la progressività del tempo si impossessa
dell’immaginario utopico non lo abbandona più: la società perfetta è
per prima cosa quella che ci viene promessa dall’avvenire. La prima
dimostrazione concreta di questa traslazione categoriale, che darà
luogo ad una più ampia visione utopica - che altrove abbiamo
chiamato ideologia del progresso - è l’opera di Louis-Sebastien
Mercer L’An 2440, significativamente sottotitolata Rêve s’il en fut
jamais (“Sogno, se mai ve ne fu uno”) del 1770, in cui l’alterità
immaginaria si sposta nel futuro a sette secoli di distanza.39
Un’altra importante concetto trova le radici e si sviluppa dall’idea di
progresso: quella di Storia. La Storia a differenza del progresso, che
è qualitativamente neutro, essendo solamente il risultato
dell’accumulazione degli sforzi fatti dalla ragione per trasformare le
cose e le leggi, è qualitativamente pregna, introduce la prospettiva
di uno scopo verso il quale tendere. Per questo è più ricca di
conseguenze per l’immaginario utopico di quanto non sia il
progresso, in quanto incoraggia l’attivismo, offre i mezzi per l’utopia
che disegna, mediante la comprensione delle proprie spinte
propulsive. Questo si propongono le utopie socialiste che si
cristallizzano tra il 1815 e il 1848: non si vuole più solo immaginare
la società futura, che è già in germe nel presente grazie alla storia,
ma la si vuole edificare, si vuole farla passare dall’eventualità del
pensiero al registro del praticabile. Le utopie di questo periodo
come quelle del Falanstiero di Fourier o l’Icaria di Cabet hanno
In questa opera l’autore immagina di addormentarsi e dormire fino al 2440,
svegliandosi, ormai vecchio, in una futuristica Parigi, in una società perfetta.
39
47
Dall’Utopia all’Eterotopia
questo intento, ma non colgono completamente le conseguenze
disgreganti che il concetto di Storia ha apportato al sistema del
pensiero occidentale. Fourier e Cabet creano un compromesso tra le
possibilità aperte dalla storia e le antiche regole della
rappresentazione dei mondi altri, le loro utopie si offrono come la
soluzione all’enigma della storia, richiesta dalla lunga marcia
dell’umanità attraverso il tempo, ma tali utopie vedono il loro
compimento nell’ambito di una città esemplare, chiusa nella sua
perfezione e nelle sue regole e mirano all’emancipazione
dell’umanità solo per contagio. Su questi limiti si installano le utopie
del socialismo reale (siamo alla quarta tappa), poiché, per loro, il
socialismo utopico si preoccupa troppo di definire la fine del
processo e per niente dei mezzi per raggiungerlo. Da questo
momento in poi l’utopia sarà relegata nell’irrealtà, in segno
dispregiativo, e l’immaginario utopico si innerverà e si occulterà nel
materialismo storico marxista, l’utopia viene riassorbita
nell’elemento del divenire e si trasferisce nell’idea di Rivoluzione,
vero unico elemento che conserva caratteristiche utopiche,
nonostante sia per i teorici della rivoluzione una naturale e
infallibile induzione derivante dall’analisi materialista del presente.
Anche le opere di finzione che invadono il futuro, come Guardando
indietro di Bellamy, del 1888, e Notizie da nessun luogo di Morris, del
1891, si presentano come anticipazioni fondate, tendono ed
intendono unirsi al flusso del reale. È il felice ed estremo istante in
cui la previsione scientifica e la proiezione immaginaria,
l’intelligenza del corso delle cose e la rappresentazione del loro
compimento ideale hanno potuto coincidere.
L’innervarsi dell’Utopia nella prassi storica segna l’occultamento
dell’utopia stessa, la prassi storica domina, ma porta con sé
conseguenze importanti nell’immaginario utopico: il concetto di
storia, infatti, mal si adatta alla fissità cui l’immaginario utopico vuol
giungere (si ricordi che fine di tutte le utopie è la fine del tempo),
l’utopia nella sua forma classica è codificatrice, ingegneria sociale e
tale ingegneria è il segno della alterità che veicola, ma la coscienza
48
Dall’Utopia all’Eterotopia
storica non ammette fissità. L’alterità incorporata nella storia
comincia ad avere accezioni non figurabili, questo perché per la
coscienza storica l’avvenire deve esser portatore di una
trasformazione radicale rispetto al presente, talmente radicale che è
vano definirne i tratti. La trasformazione avverrà attraverso un
salto, il salto della rivoluzione, e poi nulla sarà come prima, ed è per
questo impossibile concepirne una configurazione.
Qui nasce un occultamento dell’utopia (siamo alla quinta tappa)
anzi, un non figurabile utopico ha preso luogo, come sentore di un
non più figurabile avvenire in generale. L’utopia si nasconde nella
storia e la sua alterità immaginifica perde efficacia e si disperde in
altre sfere della cultura, poiché l’avvenire diviene oscuro e non
definibile. Nonostante i teorici della rivoluzione affermino che il
futuro metterà comunque fine all’alienazione del presente, ciò non è
certo, ed è su queste basi che Krzysztof Pomian può parlare di crisi
dell’avvenire, scorgendo in essa una sorta di assuefazione della
nostra società al cambiamento, con la conseguenza che queste non
riescono più a credere di andare verso un termine. Per Pomian
questo non è altro che un ulteriore effetto del trionfo della coscienza
storica, all’interno del nostro immaginario collettivo.40 Per Gauchet
tale dominio della coscienza storica ha espulso la logica utopica dal
futuro, ma questa comunque non è scomparsa, si è annidata,
nascosta nel presente, in ogni movimento che denuncia
l’insufficienza e la non perfezione delle nostre società.41
Partendo da questa periodizzazione di Gauchet prendiamo spunto
per definire una ulteriore tappa dell’immaginario utopico, quella
che in precedenza abbiamo definito Eterotopia. Poiché l’utopia
sembra essere stata espulsa dalla categoria del futuro, questa
Cfr. K. Pomian, La crisi dell’avvenire, R.Romano (a cura di), Le Frontiere del tempo, Il
Saggiatore, Milano, 1981.
41 Per ulteriori approfondimenti sulla periodizzazione dell’immaginario utopico, cfr. M.
Gauchet, R. Redeker, Utopia e modernità, Città aperta edizioni, Enna, 2005, pp. 73-93.
40
49
Dall’Utopia all’Eterotopia
sembra essersi annidata nel presente, ma non solo, sembra essersi
re-impossessata della categoria dello spazio; seguendo alcuni
esempi citati in precedenza dimostrerò come l’immaginario utopico
non voglia più creare la società perfetta in un fantomatico futuro,
ma tenti di costruire “mondi alternativi” contemporanei alla società
dominante, delimitati in uno spazio circoscritto.
Abbiamo fatto riferimento alla comunità Hippie come primo
esempio di tale nuova logica utopica e ne illustreremo degli altri.
Prima però è necessario definire meglio il significato del termine
‘eterotopia’, coniato da Micheal Foucault in un testo chiamato
appunto Eterotopia, in contrapposizione a quello di ‘utopia’:
Le utopie sono spazi privi di un luogo reale. Sono luoghi che
intrattengono con lo spazio reale della società un rapporto
d’analogia diretta o rovesciata. Si tratta della società stessa
perfezionata, oppure del contrario della società stessa, ma in ogni
caso, queste utopie costituiscono degli spazi fondamentalmente ed
essenzialmente irreali […]. Ci sono anche dei luoghi reali, dei ruoli
effettivi […] che costituiscono una sorta di contro luoghi, specie di
utopie effettivamente realizzate nei quali i ruoli reali […] vengono
sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni
luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili […].
Questi luoghi li denominerò Eterotopie.42
Per Foucault ogni società ed ogni cultura ha e ha sempre avuto le
proprie eterotopie, poiché un’altra caratteristica di questi controspazi è quella di esser delimitati e socialmente definiti: esempi tipici
sono gli ospedali psichiatrici e i cimiteri. Prendendo spunto dalla
definizione foucaultiana, possiamo traslarla leggermente e definire
l’Eterotopia come la costruzione di un “mondo-altro”, conflittuale e
antagonista ai valori della società dominante, delimitato in uno
spazio definito, in cui realizzare e rendere effettivo il proprio
immaginario utopico. La mia ipotesi è che la nascita delle eterotopie
42
M. Foucault, Eterotopia, Mimesis, Milano, 1994, pp. 13-14.
50
Dall’Utopia all’Eterotopia
sia dovuta all’espulsione dell’utopia dalla categoria del tempo, in
particolare da quella del futuro, e si sia impossessata di quella dello
spazio, per costruire i propri mondi antagonisti. La nascita di questa
nuova strutturazione dell’immaginario utopico sembra esser dovuta
in massima parte all’affermarsi di una società industriale atta più
alla propria riproduzione che a portare a compimento il sogno
positivista della società perfetta attraverso la tecnica; così nuovi
movimenti contro-culturali si sono attivati per costruire una nuova
società alternativa, contemporanea alla società dominante. Intento
di questa ricerca è rintracciare e descrivere tale trasferimento
categoriale dell’utopia con le conseguenze che questo comporta per
l’immaginario utopico che le sostiene e dà loro vita. Altro elemento
chiave della ricerca è analizzare come e perché tali immaginari
utopici abbiano visto inaridire il proprio spirito antagonista, e
quindi scoprire - o almeno cercare di scoprire - dove oggi si annida
lo spirito utopico e quali nuove composizione e caratteristiche stia
assumendo, in un mondo che comunque non sembra aver smesso di
credere alla potenza del sogno di una società perfetta.
51
Dall’Utopia all’Eterotopia
Capitolo 2
L’Utopia della Controcultura degli anni
’60 e ’70
I like to think
(it has to be!)
Of a cybernetic ecology
Where are free of our labors
And joined back to nature,
Returned to our mammal
Brothers and sisters,
And all watched over
By machines of loving grace.
RICHARD BRAUTIGAN
Con questo capitolo inizia il nostro viaggio attraverso quella
particolare dimensione dell’immaginario utopico che abbiamo
definito “eterotopico”, un viaggio che ci porterà dallo studio della
comune hippie fino ai Virtual world, passando per il cyberspazio e la
Realtà Virtuale. La nascita di questa nuova strutturazione
dell’immaginario utopico sembra esser dovuta in massima parte
all’affermarsi di una società industriale atta più alla propria
riproduzione che nel portare a compimento il sogno positivista della
società perfetta attraverso la tecnica. Questo è ciò che afferma
Pomian nel suo saggio sopra citato, ma più di qualche studioso
contemporaneo ha concentrato la proprio attenzione su un
cambiamento assiologico che si sta verificando nella nostra società
che porterebbe la categoria spaziale in posizione di preminenza su
quella temporale. Il primo a sostenere tale tesi fu Fredric Jamison
che così asseriva:
53
Dall’Utopia all’Eterotopia
Si è detto spesso che noi viviamo oggi in una dimensione
sincronica piuttosto che diacronica, e io credo che almeno
empiricamente sia possibile sostenere che la nostro vita
quotidiana, la nostra esperienza psichica, i nostri linguaggi
culturali sono dominati oggi da categorie di spazio piuttosto che
da categorie di tempo.1
Traslazione categoriale causata per Giddens dalla disgregazione del
tempo e dello spazio determinata dai nuovi mezzi di comunicazione
globali e in tempo reale.2 Altri si sono spinti più in là arrivando ad
annunciare la fine della Storia tout-court, come Francis Fukuyama,
che nel suo più famoso e discusso testo, appunto La fine della storia
e l'ultimo uomo, riproponendo alcuni temi e concetti significativi
dello storicismo, delineava una nuova "storia universale", in
polemica con una certa filosofia del Novecento ritenuta
eccessivamente pessimista e incapace di rivalutare la possibilità di
un percorso storico necessario e volto all'affermazione del migliore
dei mondi possibili. Questa nuova storia universale avrebbe poi - e
questo è sicuramente il punto più dibattuto della teoria - una vera e
propria fine, rappresentata da un ben preciso sistema sociale,
politico ed economico, ossia la liberaldemocrazia e, in particolare, la
sua versione statunitense. Il sistema democratico liberale,
soprattutto dopo la caduta e la dissoluzione dell’Unione Sovietica,
incarna per Fukuyama la “fine della storia”, la società perfetta ha già
una forma e una realtà costituita. Questa è una teoria che tocca da
vicino l’argomento di questa ricerca, perché sembra porre fine non
solo alla Storia, ma anche alla ricerca di quella società perfetta che
era la base del telos illuminista e positivista, determinando
contemporaneamente la fine dell’Utopia. Elemento che l’autore sigla
con una frase diretta e senza lasciare una qualsivoglia possibilità di
fraintendimento: “non possiamo raffiguraci un mondo che sia
F. Jameson, Il postmoderno ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma,
2007, p. 34.
2 Cfr. A. Giddens, Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna, 1994.
1
54
Dall’Utopia all’Eterotopia
essenzialmente diverso dall’attuale e allo stesso tempo migliore.”3 Ma
tutto ciò ha lasciato interdetto più di qualche studioso, poiché le
utopie, nonostante tutti i limiti intrinseci e i numerosissimi
fallimenti, rappresentano, anche per uno dei più appassionati critici
di queste, come Milan Simecka, un’indispensabile componente della
politica:
A world without utopias would be a world without social hope, a
world of resignation to the status quo and the devalued slogans of
everyday political life…We would be left with hopeless submission
to an order which is only too natural, because it can, as yet,
modestly feed the people, give them employment and a secure
daily round. It is unable to provide for […] the utopian ideas of its
beginnings such as justice, freedom and tolerance, and to carry
them further.4
Questo autore, nonostante abbia provato sulla propria pelle i limiti
dell’utopia socialista nella sua Cecoslovacchia, sembra non voler
cedere all’impossibilità di immaginare e creare un mondo migliore.
Anche perché immaginare e creare mondi migliori e perfetti, alla
ricerca di quel paradiso terrestre perduto secondo la millenaria
tradizione giudaico-cristiana, sembra una necessità a cui la civiltà
occidentale non riesce proprio a rinunciare, come Harry Levin ci
spiega chiaramente nel suo saggio The myth of the golden age in the
Renaissance:
Essendo qui e desiderando di essere in un altro luogo abbiamo la
possibilità di una scelta, anche se si tratta di una scelta effettuata
mediante l’immaginazione. Possiamo optare per una qualche
remota parte del mondo: un paradiso terrestre, oppure per un
altro mondo: un paradiso celeste. Vivendo ora e preferendo vivere
F. Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992, p. 46.
M. Simecka, A world with utopias or without them, cit. in K. Kumar, The end of socialism?
The end of utopia? The end of history? in AA.VV., Utopias and the millennium, Reaktion
books, Londra, 1993, p. 75.
3
4
55
Dall’Utopia all’Eterotopia
in un altro tempo non possiamo fare altro che immaginare. Ma
anche in questo caso abbiamo la possibilità di una scelta
rifiutando il presente possiamo scegliere fra il passato e il futuro:
fra un ritorno all’Arcadia e un progetto per l’Utopia. 5
Ma come possiamo continuare a immaginare nuovi mondi perfetti
se il tempo è già giunto a conclusione e la società perfetta per
Fukuyama è quella in cui l’Occidente vive? Qual è la dimensione
dell’immaginazione utopica in una realtà del genere? Esiste l’Utopia
nel postmoderno nonostante l’annuncio de La fine della storia?
Naturalmente è ciò che stiamo indagando e su cui vogliamo
ragionare: l’Utopia si è fatta Eterotopia, trasla dalla categoria del
tempo - una configurazione figlia dell’idea o meglio dell’ideologia
del Progresso - a quella dello spazio, come ci fa notare Krishan
Kumar: “un ritorno alle vecchie forme spaziali di utopia risalenti a
prima del XVIII secolo, il tipo di utopia inaugurato da Moro.”6 Kumar
non è il solo a vedere nella nuova dimensione spazio-temporale una
nuova risorsa per l’immaginazione utopica, anche Fredric Jameson
vede la spazializzazione temporale del postmoderno come una
potente forza capace di rivitalizzare l’impulso utopico del nostro
tempo. Nelle utopie spaziali
la trasformazione delle relazioni sociali e delle istituzioni
politiche è proiettata verso la visione di uno spazio e di un
paesaggio, incluso il corpo umano. La spazializzazione quindi,
qualsiasi elemento comprometta nella capacità di pensare il
tempo e la Storia, apre anche un nuovo dominio per l’investimento
della libido nella dimensione utopica e proto politica.
H. Levin, The Myth of golden age in the Renaissance, cit. in G. Vitiello, Dal Lsd alla realtà
virtuale. L’esperienza mistica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Lavieri, Caserta,
2007, p. 204.
6 K. Kumar, The end of socialism? The end of utopia? The end of history? in AA.VV., Utopias
and the millennium, Reaktion books, Londra, 1993, p.76 [trad. mia].
5
56
Dall’Utopia all’Eterotopia
Jameson dichiara di trovare oggi, specialmente tra gli artisti e
scrittori postmoderni “un misconosciuto partito dell’utopia.”7
La mia tesi sull’Eterotopia, riprendendo e sviluppando la definizione
di Foucault, è però ancora più ardita perché non si limita al campo
dell’immaginazione, come abbiamo visto in Levin o nell’ingegneria
sociale, ma si incarna e si innerva nel reale, in questa realtà che ha
smarrito la sua temporalità: “viviamo nel simultaneo, nell’epoca della
giustapposizione, nell’epoca del vicino e del lontano, del disperso.” E
come non vedere e interpretare lo sviluppo dei media come una
immensa proliferazione di spazi paralleli: dal teatro alla radio, dal
cinema alla televisione, un filo conduttore che si rende ben visibile
con i media digitali, dal cyberspazio, al web fino alla Realtà Virtuale,
che alla fine del secolo scorso aveva portato al massimo grado la
fascinazione per la capacità cosmogonica dei mezzi di
comunicazione: la potenza creatrice di mondi.8 Una proliferazione di
realtà e mondi alternativi che ci hanno educato nel creare nuovi
mondi falsificando la realtà, moltiplicandola o segmentandola:
Falsificare la realtà significa dunque costruirla. Fine del
Settecento, Ottocento e primo Novecento segnano il rapido
evolversi di un processo di falsificazione della realtà fondato sulla
potenza di tecnologie della comunicazione rese necessarie dai
processi di massificazione e di socializzazione della civiltà
industriale e metropolitana: telegrafo, fotografia, telefono,
cinema, radio, televisione. Non possiamo capire la svolta delle
falsificazioni del presente, se non capiamo la qualità dell’intero
ciclo delle falsificazioni della società di massa: dalla metà
dell’Ottocento ai giorni nostri.9
F. Jameson, Il postmoderno ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma,
2007, p. 160, 180.
8 Cfr. A. Abruzzese, , Lo splendore della Tv, Costa e Nolan, Genova, 1994.
9 A. Abruzzese, I media non creano maschere né fantasmi. Ci raccontano la vita, su Telèma,
n° 16, primavera 1999.
7
57
Dall’Utopia all’Eterotopia
L’immaginazione della società perfetta o di un “contro-mondo”, si
presenta oggi non già come sogno di una condizione ventura, ma
come concepimento di un altrove paradossale, di uno spazio
parallelo al nostro, di un contro-mondo che si può configurarsi sia
nella pura realtà sia nella più completa immaginazione, lanciandosi
poi verso l’estremo tentativo di unire i due opposti, provando a dar
forma e sostanza all’immaginazione. Cosa sono se non questo le
Disneyland e le T.A.Z, il cyberspazio e i virtual world. Le eterotopie
viaggiano e si innervano in dimensioni spaziali, mentali e mediali di
diverse qualità ed entità, inseguendo e realizzando (o tentando di
farlo) quei possibili laterali di cui disquisiva Ruyer, rompendo e
ricomponendo in modo quanto mai ambiguo quella dicotomia tra
utopia e utopismo che così tanti problemi ci aveva dato in
precedenza. Le eterotopie infatti non fanno altro che dar forma e
sostanza (quindi sono utopie secondo la definizioni di Baczko dato
che fissano delle immagini di società alternative) a dei contromondi, cioè a dei possibili laterali (puro utopismo alla Ruyer!)
rendendo pressoché inutile la dicotomia sopracitata. Quello che
sembra mancare alle eterotopie è una completa visione della
società, spesso anzi, la totalità delle eterotopie è parziale, non punta
alla rivoluzione globale della società, limitandosi a creare ambiti
utopici al suo interno. Una mancanza di prospettiva globale che per
Baczko è dovuta alla “mondializzazione”:
Il contraccolpo della mondializzazione non è la rappresentazione
di un’anti-mondializzazione globale, una sorta di riedizione
dell’utopia conservatrice romantica, ma piuttosto la
proliferazione di rivendicazioni e utopie parziali: aria pulita,
agricoltura sana, eguaglianza per questa o quella categoria di
esclusi o emarginati del grande cambiamento, ecc... Queste utopie
parziali non si riuniscono in una rappresentazione generale, ma si
58
Dall’Utopia all’Eterotopia
mettono in rete in modo più o meno provvisorio, in configurazione
variabile, senza gerarchie né ordine evidente.10
Mancanza di prospettive globali che portano ad una sorta di
“polverizzazione” del pensiero utopico, al suo costituirsi in
eterotopie, a causa di quella mancanza prospettica che la
dimensione temporale precedentemente forniva. Non essendoci più
un “destino manifesto”, né credendo più all’ideologia del progresso,
l’immaginazione utopica non può che incarnarsi nelle eterotopie.
Tutto ciò ha inizio con la costituzione della comune hippie.
2.1 La Controcultura degli anni ’60 e ‘70
Il cammino che ci porterà all’analisi della comune hippie, intesa
come primo prototipo
di
quella
nuova dimensione
dell’immaginazione utopica che abbiamo definito Eterotopia, non
può non aver inizio con una preliminare descrizione di quella
cultura, anzi di quella controcultura che sfociò poi nell’esperienza
comunitaria di quel periodo. Ma non c’è nulla di più complicato che
scrivere dell’America degli anni ’60 e della Controcultura: la
descrizione di tale movimento culturale non può essere che parziale
e abbozzata, poiché troppo complesso il fenomeno e troppe le sue
diramazioni per poterne effettuare un’analisi sufficientemente
approfondita, uno studio che sarebbe troppo ampio e che non è
l’interesse principale di un lavoro come questo, che si pone altri
obiettivi. Ne delineerò quindi approssimativamente le
caratteristiche principali su cui la bibliografia a disposizione
converge, per estrarre una definizione da utilizzare nella ricerca.11
B. Baczko, Finzioni storiche e congiunture utopiche, in AA.VV., Nell’anno 2000.
Dall’Utopia all’Ucronia, Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2001, p. 21.
11 Cfr. T. Roszak, Nascita di una controcultura, Feltrinelli, Milano, 1975, T. Gitlin, The
Sixties: Years of hope, Days of rage, Bantam, New York, 1987, E. Beltramini, Hippie.com. La
10
59
Dall’Utopia all’Eterotopia
Innumerevoli i gruppi e movimenti politici e non che ne fecero
parte, nacquero e sfiorirono nel corso di poco tempo generando
filiazioni e discendenze quanto mai ambigue e di complessa
classificazione. Solo per fare qualche esempio, si dovrebbe parlare
del Civil Rights Movement, del Free Speech Movement, dell’Anti-War
Movement, di tutti quei gruppi che successivamente vennero fatti
rientrare in quella che venne ribattezzata la New Left,
comprendente i gruppi più politicizzati, quali il partito della S.D.S
(Students for a Democratic Society), i Weatherman, gli Yippie (Youth
International Party) e molti altri ancora meno politicizzati come gli
Hippie e le White Panters, senza dimenticare la più famosa
formazione per la rivendicazione dei diritti degli afro-americani, le
Black Panthers, e questi solo per citare i più famosi. Nonostante
questi gruppi abbiano avuto obiettivi, metodologie e approcci
completamente diversi, l’immensa bibliografia inerente alla
Controcultura degli ’60 e ’70 tende a includerli tutti in un unico
movimento culturale, chiamato a seconda dei casi Controcultura,
appunto, Underground, o Movement12, sottolineandone una coesione
di fondo. Innanzitutto bisogna intendere la Controcultura come un
movimento generazionale: per la prima volta i giovani si presentano
sul palcoscenico della vita pubblica come una classe (se mi è
concesso definirla così) o gruppo; c’era inoltre una sorta di
comunione di intenti, cioè la critica e la volontà di cambiare la
società nei propri valori strutturali; infine erano presenti un
comune humus e una nuova sensibilità generati dal nuovo contesto
storico, politico e sociale. Tralasciando le innumerevoli
new economy e la controcultura californiana, Vita e pensiero, 2005, M. Maffi, La Cultura
Underground, Odoya srl, Bologna, 2009, W. Hollstein, Underground. Sociologia della
contestazione giovanile, Sansoni, Firenze, 1971, S. Proietti, Hippies! Le culture della
controcultura, Cooper Castelvecchi, Roma, 2003, F. Pivano, Beat, Hippie, Yippie, Bompiani,
Milano, 1990 e L' altra America negli anni Sessanta, Arcana, Milano, 1993.
12 Questo appellativo in realtà è riferito nella maggior parte dei casi ai movimenti di
natura più prettamente politica.
60
Dall’Utopia all’Eterotopia
contraddizioni che incorporava, possiamo affermare che la
Controcultura degli anni ’60 e ’70 era incentrata soprattutto su due
cardini fondamentali: la libertà e l’auto-espressione.
La Controcultura, soprattutto quella americana, nata e sviluppatasi
prima in California, e poi estesasi in tutto il territorio nazionale,
inspirando anche una sorta di Controcultura internazionale, può
essere definita come il rifiuto, o meglio, la contestazione
dell’ambiente tradizionale, precostituito, istituzionale. Essa si
diversificò secondo due direttrici: una era “impegnata” e politica, e
diede poi vita al “movement”, con l’obiettivo dichiarato di cambiare
le istituzioni politiche. L’altra era “disimpegnata”, l’ala che andava
alla ricerca di nuove forme di aggregazione sociale e che trovò la sua
espressione più compiuta negli Hippie e nella New Age; era la
cultura del “dropping out”, dell’esilio dalla realtà sia fisico che
mentale, tramite l’assunzione di droghe psicotropiche di cui
sicuramente la più utilizzata era l’LSD. Questa seconda tendenza è
quella che diede vita e accrebbe la speranza di sostituire il vecchio
paradigma esistenziale con uno nuovo. Tutta la filosofia e la nuova
visione del mondo della Controcultura può essere riassunta in
queste parole di Fritjof Capra:
In the sixties we questioned society. We lived according different
values, we had different rituals and different lifestyles. But we
could not really formulate our criticism on a single issues (…) but
we did not develop any comprehensive alternative system of our
views (…) in the sixties, we sensed the cultural transformation
with great enthusiasm and wonder; in the ’70 we outlined
theoretical framework.13
Tutta la ricerca storico culturale è concorde nel ritenere che il
movimento controculturale ebbe come illustre predecessore la Beat
F. Capra, Uncommon Wisdom, Bantam Book, New york, 1988, p. 13, cit. in E. Beltramini,
Hippie.com. La new economy e la controcultura californiana, Vita e pensiero, 2005, p. 10.
13
61
Dall’Utopia all’Eterotopia
Generation degli anni ’50, con la declamazione della famosissima
poesia di Allen Ginsberg, The Howl, avvenuta a San Francisco nel
novembre del ‘55 che diede vita alla San Francisco Renaissance e a
quella che un decennio dopo si definì Controcultura. Quella
sensazione di estraneità e disillusione tipica della Beat Generation
non rimase circoscritta ad un’avanguardia letteraria; complice la
guerra in Vietnam, l’omicidio di Kennedy e altri omicidi politici
avvenuti in quel periodo (o proprio a causa di quelli) un’intera
generazione negli anni ’60 iniziò a sentirsi estranea in casa propria.
Partendo da questi presupposti la contestazione giunse a criticare
tutti i diversi aspetti della vita pubblica e privata.
Come ha scritto Fritjof Capra:
I can best characterize the fifties by the title of the famous James
Dean movie Rebel without a cause. There was friction between
generations, but the James Dean generation and the older
generation really shared the same world view: the same belief in
technology, in progress, in educational system. None of that was
questioned in the fifties. It was only in the sixties that rebels began
to see a cause, which resulted in a fundamental challenge to the
existing social order.14
La critica iniziò ad intaccare diverse dimensioni della vita sociale,
dalla famiglia, e si allargò fino ad abbracciare quasi tutte le strutture
portanti dell’american way of life: la tecnologia, vista come la
principale causa della distruzione dell’ambiente e quindi del
pianeta, l’educazione, la struttura socializzante dei valori
tradizionali e istituzionali, il maschilismo, visto come una forma di
dominazione sul genere femminile, l’economia, chiave delle
diseguaglianze sociali e della povertà, l’identità, intesa come pura
appartenenza di classe e non espressione della propria soggettività
individuale, e così via. Inoltre per distinguersi dai bravi ragazzi degli
14
Ivi p. 82.
62
Dall’Utopia all’Eterotopia
anni cinquanta - capelli corti, viso rasato, abiti sobri - la generazione
dei Sixties iniziò a portare i capelli e barba lunghi e a indossare
vestiti colorati e sgargianti, a evitare i prodotti chimici, a seguire
una dieta vegetariana e a dedicarsi alle discipline orientali.
Insoddisfatti del sistema educativo che cercava di integrarli nei
meccanismi sociali molti decisero di abbandonare gli studi e
dedicarsi ad altre culture. Avendo rifiutato la propria, questi
giovano ne cercavano un’altra in cui identificarsi o da cui trarre
ispirazione. La Controcultura aveva infatti i suoi rituali, la propria
musica, poesia, letteratura, una notevole fascinazione per la
spiritualità e l’occultismo e soprattutto la condivisa visione di una
nuova società pacifica. La musica, quella rock in particolare, e le
droghe psichedeliche erano il vettore catalizzante e mediatore di
tutte le queste istanze, come se fossero il medium necessario perché
questi ideali si potessero realizzare. La generazione della
Controcultura voleva rinnovare la cultura americana, ma aveva
bisogno di altre tradizioni culturali che la stimolassero per poter
staccarsi completamente dalla propria. Trovò questa base teorica
nella cultura orientale, che si diffuse molto durante quegli anni,
un’ascendenza che gli Stati Uniti in realtà avevano accolto con
favore già all’inizio del secolo, quando le lezioni e gli insegnamenti
del famoso Krisnhamurti venivano seguite con entusiasmo. Le
culture orientali in generale furono accolte con favore perché
rappresentavano bene un nuovo sentimento che stava prendendo
piede. In particolare ci sono alcuni concetti che l’oriente ha
sviluppato e che si distanziano dalla concezione razionale
occidentale: innanzitutto la concezione del sé. Da Cartesio in poi in
occidente si concepisce l’idea di un soggetto agente su un mondo
oggettivo; nelle filosofie orientali questo concetto può risultare del
tutto estraneo. Nel Buddhismo, ad esempio, tutte le cose sono
interconnesse, nessuna separata dalle altre e il desiderio della
separazione è la fonte della sofferenza; concetto molto simile a
quello del moksha della religione indù, che “prescrive” come fine
63
Dall’Utopia all’Eterotopia
ultimo dell’esistenza la fusione con il Tutto (moksha sta per
“estinzione”).
Concezioni molto apprezzate dalla generazione della Controcultura,
che voleva distaccarsi dalla visione razionalistica tipica del mondo
occidentale. Tutte queste filosofie orientali erano perfette per una
generazione che si definiva discendente delle tribù dei nativi
americani e nella quale il sentimento di fusione con gli altri e con la
natura era molto sviluppato e ricercato, come vedremo meglio in
seguito. Per inquadrare e ordinare le caratteristiche generali della
Controcultura, può risultare utile la tabella sottostante:
Controcultura
Cultura tradizionale
Libertà di espressione
Gratuità
Immaterialità
Punto di vista soggettivo
Natura
Primitivo
Egualitarismo
Interiorità
Autonomia
Identità personale
Partecipazione (esperienza)
Introspezione
Cambiamento radicale
Piacere
Connessione
Fiducia
Dissonanza
Creazione
Intuitivo
Tolleranza
Socializzazione
Utilitarismo
Materialismo
Istituzionalismo
Industrializzazione
Moderno
Gerarchia
Esteriorità
Dipendenza
Continuità culturale
Spiegazione (analisi)
Apprendimento
Permanenza
Dovere
Causalità
Scetticismo
Conformismo
Scoperta
Razionale
Aggressività
Vulnerabilità
Controllo
64
Dall’Utopia all’Eterotopia
Le caratteristiche che abbiamo indicato e riassunto nello schema in
realtà delineano alcuni temi chiave della Controcultura di stampo
hippie. In effetti, nonostante la maggior parte di queste tematiche
fossero diffuse e condivise e fungessero come una matrice culturale
comune, in realtà la Controcultura degli anni sessanta, era
contraddittoria e divergente, ma complementare, come se la propria
natura fosse la sintesi di due anime diverse.
Da una parte l’anima della contestazione al Sistema, che assunse una
forma “impegnata” e “politicizzata”, che si era posta l’obiettivo di
apportare un reale cambiamento, se non una vera e propria
rivoluzione, nelle istituzioni politiche. Tale ala della Controcultura
diede vita ad azioni di protesta radicale, come le marce contro la
guerra in Vietnam e le manifestazioni per i diritti civili. Questa
rifiutava il nazionalismo e le implicazioni della guerra fredda, la
guerra in Vietnam, manifestava a favore degli afro-americani, del
movimento femminista, delle rivendicazioni dei nativi americani e
soprattutto per la Pace. Quest’anima trovò espressione nei gruppi
della New Left, quali la S.d.S., gli Yippie, i Weatherman e le Black
Panthers, solo per citarne alcuni.
La seconda anima fu quella Hippie, o comunitaria, che preferì
rinnegare e cercare di fuoriuscire (dropping out) completamente dal
Sistema, rifiutandolo e ponendosi ai margini della società.
Allontanandosi dalla tradizione della politica radicale e inspirandosi
alle culture orientali15, si distaccò anche fisicamente dalla società
dominante occupando le periferie delle grandi città (pensiamo a
quello che poi divenne il quartiere simbolo del movimento Hippie,
Haigh-Ashbury), o radicalizzando questa azione di rifiuto e
allontanamento, organizzando delle comuni agricole nelle zone
rurali del paese. Qui gli hippie tentarono di istituire una nuova
In realtà questo punto è controverso e ne discuteremo in seguito, i primi ideatori del
“dropping out” se così lo vogliamo definire, sono in realtà riscontrabili nella più autentica
tradizione del Trascendentalismo americano, pensiamo a intellettuali e personaggi del
calibro di Thoreu ed Emerson.
15
65
Dall’Utopia all’Eterotopia
organizzazione sociale fondata sull’amore e sulla pace,
condividendo le risorse materiali ed economiche, adottando la
comunanza dei beni, una sessualità più disinvolta e utilizzando
energie alternative, il tutto “condito” con una buona dose di
sostanze stupefacenti, destinate ad ampliare le coscienze.
Haight-Ashbury, un quartiere periferico di San Francisco, divenne
presto espressione compiuta di tale visione della Controcultura: il
teatro e la musica nelle strade, il clima sereno e gentile che
avvolgeva questo quartiere è diventato mitico soprattutto grazie
alla consacrazione avuta con la Summer of Love dell’estate del 1967,
durante la quale 75 mila giovani arrivarono per un raduno a base di
droga, musica e amore libero. Summer of Love che seguì a quello
che poi fu l’evento che fece esplodere il movimento Hippie come un
movimento di costume cioè il primo “Human Be-In” del gennaio
dello stesso anno al Golden Gate park, sempre a San Francisco,
quando Allen Ginsberg, anello di congiunzione tra la Beat
generation e i “figli dei fiori”, insieme a Gary Snyder e Michael
McClure guidarono la folla in un “OM” collettivo.
Queste due anime della Controcultura avevano approcci alla politica
completamente diversi e opposti, come confermano molti studiosi:
Most Historians and commentators of the periods agree that the
white, middle-class youth movement consisted of two distinct, but
inexorably related components: a politicized, university-based,
mobilization often called the New Left or “the movement”, of
which SDS was a key element; and a more diffuse, less overtly
“political”
phenomenon
of
drug-oriented,
alternative,
antimaterialist, community living called the counterculture.
Young people at the time tended to see the two phenomena as
separate. Campus politicos despaired of the “do your own thing”
hippies, who eschewed engagement and struggle with established
power structures, whereas the hippies tended to criticize the
66
Dall’Utopia all’Eterotopia
student activists for not dropping out to engage in the only
fundamental change possible: psychic transformation. 16
Uno scarto politico che però a detta di uno dei pionieri dello studio
della Controcultura quali Theodore Roszak, con il suo Nascita di una
controcultura, non sembra importante, né determinante nella genesi
di una contraddizione insanabile all’interno del movimento, anzi,
per l’insigne professore i due differenti approcci erano solo due
facce di una stessa medaglia:
Riusciamo a cogliere la sottostante unità delle varietà di
Controcultura se consideriamo la bohème beat ed hippie come un
tentativo di mettere in atto quella struttura della personalità e
quel totale stile di vita che conseguono alla critica sociale della
New Left. In ciò che hanno di meglio, questi giovani bohèmien
sono gli utopistici aspiranti pionieri di quel mondo che si trova al
di là del rifiuto intellettuale della “grande società. 17
Oltre a ricomporre quella che sembrava una differenza
inconciliabile tra le due anime del movimento questo passo
introduce un’interessante apertura per la nostra tesi, infatti Roszak
non fa altro che affermare che i due filoni della Controcultura
avessero semplicemente due approcci al cambiamento, uno
programmato, di stampo politico tradizionale, l’altro basato
sull’immediato, sul presente, sul mettere subito in pratica i nuovi
valori in “spazi alterativi”, noi diremmo eterotopici, ma questo
aspetto è chiarito al meglio da un altro autore Todd Gitling, che
mette ben in luce questo diverso approccio alla dimensione
temporale:
A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University
Press, Durham, 2001, p. 9.
17 T. Roszak, Nascita di una controcultura, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 80.
16
67
Dall’Utopia all’Eterotopia
C’erano molte tensioni tra l’idea radicale di strategia politica –
che richiedeva disciplina, organizzazione e dedizione a risultati
da ottenere in futuro, dopo un certo tempo – idea tipica della
Controcultura di vivere la vita sino in fondo, subito, per se stessi o
per la parte dell’universo incorporata in ognuno o per la
comunità degli illuminati capaci di amarsi reciprocamente […] e
che il resto del mondo andasse pure all’inferno (dove peraltro già
si trovava). La tradizione radicale trovava una delle sue voci più
potenti in Marx, che ha costruito la propria opera come una serie
di glosse attorno ad un tema di fondo: cambiare il mondo! I
gruppi più importanti della Controcultura – Leary, i Prankers,
“l’Oracle” [un giornale hippie] – discendevano invece da Emerson,
Thoreau, Rimbaud: cambiare la coscienza, cambiare la vita.18
In queste parole è ben esemplificata non solo la differenza delle due
anime della Controcultura, ma in particolar modo la diversità
nell’assiologia fondamentale della propria immaginazione utopica,
una nel solco della tradizione radicale dell’Occidente, quella di
discendenza marxista, per cui la rivoluzione deve essere preparata
per un futuro radioso, quindi tipica di una visione utopistica
moderna, in cui la categoria del tempo, in particolar modo il futuro è
preminente, un futuro che inevitabilmente trascenderà la situazione
attuale di ingiustizia sociale.
L’altra ala della Controcultura, invece, porta in sé un rinnovamento
radicale anche in questo aspetto, perché non è più il futuro ad
essere carico di promesse utopiche, come l’ideologia del progresso
insegnava, bensì è l’hic et nunc ad avere possibilità di alternativa
utopica, l’utopia si può vivere, il mondo può essere cambiato seduta
stante, semplicemente cambiando se stessi, Gitlin scrive, cambiare
la vita, cioè cambiare l’approccio alla vita quotidiana, elemento
tipico di ogni utopia, ma questa porta in sé quella volontà
eterotopica che diventa immanente, contemporanea ad una società
T. Gitlin, The Sixties: Years of hope, Days of rage, Bantam, New York, 1987, p. 213. [Trad.
mia]
18
68
Dall’Utopia all’Eterotopia
che deve semplicemente essere rifiutata ed abbandonata a se stessa.
Qui si innerva la filosofia del dropping out , del ripudio della società
e la creazione di eterotopie viventi, di cui il primo esempio, come più
volte citato è il quartiere di Haight-Ashbury a San Francisco, ma in
maniera ancor più decisiva per la nostra tesi, la creazione di quelle
comuni agricole che si svilupparono tra la fine degli anni ’60 e tutti
gli anni ’70, soprattutto nelle zone interne della California.
L’importante è comprendere chi siano stati i protagonisti di questo
nuovo movimento, chi diede realmente vita alla Controcultura.
Quello che balza subito agli occhi è che si trattò di un movimento
generazionale: furono i figli del “baby-boom”, un’ondata di nascite
avvenuta negli Stati Uniti e nel resto del mondo successivamente
alla fine della Seconda Guerra Mondiale,19 che entrarono nella tarda
adolescenza proprio durante gli anni sessanta, a ritrovarsi
protagonisti di questa stagione turbolenta. Alcuni studiosi20
arrivano a sostenere che la “rivoluzione” dei figli dei fiori non fu
altro che il normale, fisiologico sconvolgimento e sentimento di
sfida generazionale adolescenziale e tardo-adolescenziale acutizzato
e amplificato dall’enorme numero di giovani. La generazione
precedente non fu in grado, quindi, di assimilare, plasmare o
addomesticare questa forza per integrarla nella “società adulta”:
The young are cultural insurrectionaries, agents provocateurs
with no allegiance to the past. The task of older generation is to
control this “invasion of barbarians” and shape their energies so
they become contributors to society. Only then, by recruiting the
young, can the culture maintain its continuity. 21
Si consideri che in quel periodo la popolazione compresa tra i diciotto e i ventiquattro
anni era cresciuta del 53%.
20 Cfr. anche Arthur Marwick e Norman Ryder per approfondire la tematica del baby
boom americano.
21 L. Jones, Great Expectations: America and the babyboom generation, cit. in
A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University
Press, Durham, 2001, p. 6.
19
69
Dall’Utopia all’Eterotopia
Naturalmente la semplice spiegazione demografica non può essere
sufficiente, anche perché il movimento controculturale prese si il via
negli Stati Uniti, patria del baby boom ma si internazionalizzò e si
espanse in tutto il mondo anche in paesi in cui non si era verificato
tale fenomeno demografico; pensiamo alla Francia, paese in cui la
rivolta universitaria e i movimenti furono tra i più attivi e radicali,
oppure all’Australia che non fu sconvolta dalla Controcultura
nonostante l’aumento demografico fosse stato più consistente che
negli Stati Uniti. Un elemento critico tralasciato da questa visione
semplicistica è il fatto che non tutti i nati durante il baby boom
presero parte alla “stagione della contestazione”: tutta la
bibliografia è concorde nell’affermare che si trattò di una ribellione
di classe, una “White middle-class rebellion”, e furono gli
appartenenti a questa classe sociale che promossero e diedero vita
alla Controcultura, una classe istruita. Non è un caso, infatti, che l’ala
“impegnata” prese il proprio avvio all’interno delle università. I
giovani appartenenti alla working-class invece di andare
all’università venivano spediti in Vietnam, dove combattevano e
nella maggior parte dei casi lì morivano.
Tutti gli studi del filone dei Cultural Studies delineano delle
differenze tra la cultura, anzi la sottocultura della working-class e la
controcultura caratteristica della middle-class; nonostante i lavori
siano inerenti al contesto britannico, si adattano bene anche a
quello statunitense. Mettendo a confronto le due classi sociali si
osserva come la sottocultura della working-class tese ad innervarsi
e dare vita a delle “gang” (si pensi ai Mod o ai Teddy boy) con una
tendenza all’identificazione di leader, mentre la controcultura della
classe media si diffuse maggiormente in un ambiente più
individualizzato:
Working-class subcultures reproduce a clear dichotomy between
those aspects of group life still fully under the con strain of
dominant or ‘parent’ institutions (family, home, school, work), and
those focused on non-work hours-leisure, peer-group associations
70
Dall’Utopia all’Eterotopia
[...] During the high point of the Counter-Culture, in the 1960s, the
middle-class counter-culture formed a whole embryo ‘alternative
society’, providing the Counter-Culture with an underground,
institutional base. Here the youth of each class reproduces the
position of the ‘parent’ classes to which they belong. Middle-class
culture affords the space and opportunity for section of it to ‘drop
out’ of circulation. Working-class youth is persistently and
constantly structured by the domination rhythm of Saturday night
and Monday morning.22
Tra l’altro bisogna notare che coloro che diedero vita alla
Controcultura rappresentavano comunque una minoranza, una
avanguardia dei giovani della classe media, quindi non tutti gli
appartenenti alla categoria della classe media presero parte alla
Controcultura. Un ulteriore aspetto che bisogna approfondire
consiste nell’aspetto “razziale” del fenomeno: prima abbiamo fatto
riferimento alla white middle-class, ma avevamo sottolineato in
precedenza come la componente dei Neri americani fosse molto
importante all’interno del “Movement”. La dicotomia nasce dal fatto
che la white middle-class era la categoria che più incarnò l’ala hippie
e comunitaria della Controcultura, quella che voleva, e aveva anche i
mezzi per fuoriuscire dalla società dominante, mentre i movimenti
di colore rivendicavano il diritto di poter avere una reale
integrazione all’interno di quella stessa società che gli hippie
rifiutavano. Come giustamente fa notare Mario Maffi nel suo testo
“La cultura underground”, i gruppi composti dai neri americani
erano più politicizzati, non erano hippie, erano più vicini alle
posizioni della New Left, anzi spesso ne dettavano l’agenda politica
o addirittura l’organizzazione interna. Non è un caso che su
ispirazione delle Black Panthers nacquero le White Panthers; tali
Clarke, Stuart Hall, Jefferson, Roberts, Subcultures, Cultures, and Class: a theoretical
overwiew, in Resistence through rituals: youth subcultures in post-war Britain, Londra,
1976, cit. in Bodroghkozy, A., Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke
University Press, Durham, 2001, p. 7.
22
71
Dall’Utopia all’Eterotopia
gruppi volevano entrare a far parte della società, volevano spezzare
il razzismo che la gerarchia sociale americana utilizzava per
conservare lo status quo, volevano anch’essi prendere realmente
parte all’american way of life, riuscendo finalmente a condividere
quel percorso esistenziale fatto di parole guida come life, liberty and
the pursuit of happiness, che era sempre loro stato negato.23
Dopo aver tentato di dare un’identificazione socioculturale dei
soggetti che diedero vita alla Controcultura, dobbiamo analizzare un
altro fondamentale elemento che tutta la bibliografia mette in
relazione con questo controverso fenomeno culturale: la nascita
della televisione. Elemento che per alcuni studiosi è decisivo e che
tratteremo nel seguente paragrafo, anche perché sottolinea ancora
una volta la stretta connessione tra utopia e mezzi di
comunicazione, connessione che abbiamo iniziato ad indagare nel
capitolo precedente, e nel corso della ricerca diventerà sempre più
importante e decisiva.
2.2 Tecnologie della controcultura
In questo paragrafo tenteremo di mettere in luce alcune
contraddizioni di un movimento quale quello della Controcultura
già caratterizzato da divisioni e diverse aree teoriche al proprio
interno. Qui tenteremo di analizzare quale fosse il reale rapporto tra
la Controcultura e la tecnologia. Come abbiamo visto il “Movement”
soprattutto nella sua versione hippie era contraddistinto da una
forte vena critica nei confronti della tecnologia, vista come un
meccanismo utilizzato dalla società per dominare la Natura e più in
generale per ordinare e controllare la società nel suo complesso,
attraverso i mezzi di comunicazione di massa, con la televisione in
primo piano. Proprio la televisione sarà la protagonista della prima
23
Cfr. M. Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009.
72
Dall’Utopia all’Eterotopia
parte del paragrafo, in seguito ci occuperemo della droga, in
particolare dell’Lsd, intendendo quest’ultima come una sua variante
tecnologica.
2.2.1 La Television generation
Se il baby boom fu il fenomeno demografico del secondo dopoguerra
negli Stati Uniti, l’avvento della televisione fu certamente quello
tecnologico: entrambi apportarono profondi e importanti
cambiamenti in ogni ambito, da quello politico a quello socioculturale.
Avvennero
nello
stesso
periodo
e
molti
soprannominarono la generazione del baby boom come “la
generazione della televisione”, molti collegarono l’avvento della
televisione con la successiva nascita della Controcultura, diverse
voci, sia alcuni membri della Controcultura, sia tra le fila degli
accademici, ma anche politici e uomini dell’industria televisiva,
erano concordi nel collegare la televisione con il senso di repulsione
e ribellione della nuova generazione. Tutti erano consci del fatto che
la televisione ne fosse un elemento, pochi erano, però, d’accordo sul
ruolo e importanza rivestisse all’interno della Controcultura.
Andiamo con ordine, la televisione ebbe subito una straordinaria
diffusione e un successo incredibile, già all’inizio degli anni sessanta
il 92% delle famiglie americane ne possedeva una, era uno di quei
beni di consumo che possiamo definire di “cittadinanza”, uno status
symbol immancabile, per entrare a far parte ufficialmente della
nuova società dei consumi, allora agli albori. Questo dava luogo ad
un profondo senso e voglia di conformismo, sentimento contro cui
la Controcultura poco più di un decennio dopo si rivoltò. In questo
scenario di consumismo iniziale, l’infanzia rivestiva un importante
ruolo catalizzatore, poiché la grande industria aveva identificato i
giovani come un proficuo target di riferimento, si pensi al boom
dell’industria dei giocattoli o di tutti i prodotti per bambini, e
sfruttava le paure dei genitori per spingerli a soddisfare i bisogni e i
73
Dall’Utopia all’Eterotopia
desideri dei propri figli, desideri che non soddisfatti ponevano il
rischio di non precisati problemi esistenziali, desideri che
naturalmente l’industria era pronta a soddisfare con qualche
prodotto. Così i baby boomer si trovaro inondati di prodotti creati
appositamente per loro, di cui la televisione era sicuramente il più
importante. L’introduzione della televisione nelle case creò un misto
di speranze e di paure, soprattutto sugli effetti che il nuovo medium
poteva avere sulla nuova generazione. Il nuovo medium infatti oltre
a diffondere i valori conformistici della società sembrava diffondere,
attraverso il marketing diretto ai giovani, una nuova cultura
giovanile potenzialmente ostile alla società degli adulti: un gap
generazionale stava prendendo piede. La televisione pubblicizzata
come portatrice di un generale sentimento di unione e armonia
familiare, tutta la famiglia riunita intorno al televisore, sembrava
invece destabilizzarla, perché come ha ampiamente e
intelligentemente mostrato Meyrowitz ne mutava la “geografia
situazionale”, i giovani erano introdotti nel mondo adulto attraverso
il nuovo medium e ne scoprivano le contraddizioni, le ingiustizie,
elementi che ne minavano quindi l’autorità, minandone la
legittimità. Per Meyrowitz questa fu una delle cause profonde che
influenzarono la Controcultura degli anni sessanta.24 Infatti quando,
intorno alla metà degli anni sessanta, la prima ondata di baby
boomer raggiunse l’università si scontrò con una realtà
completamente diversa da quella che la televisione gli aveva
mostrato, fu una sorta di “tradimento delle promesse”, collegato ad
un sentimento ed ad un rifiuto di voler essere integrati ad un
sistema che secondo loro li aveva ingannati e li voleva inserire come
semplici rotelle nel meccanismo industriale dopo averli sedotti e
ammaliati con visioni mediali di un futuro radioso. Altro elemento
chiave per definire il rapporto dei baby boomer con il nuovo
medium è quello per cui la televisione sembrava creare una nuova
Cfr. J.Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul
comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995.
24
74
Dall’Utopia all’Eterotopia
comunità generazionale: “Television, as Gottlieb implied, forged baby
boomers into a special community – one that recognized itself as such
by way its members all shared a common television culture.”25 Una
comunità televisiva, sostenuta, questo non bisogna mai
dimenticarlo, anche da uno stesso stile di consumo, che condivideva
una stessa visione del mondo, una visione ben diversa da quella
della generazione precedente, e con la quale ben presto si sarebbe
scontrata. Questo senso di appartenenza e di una coscienza
condivisa mediata dalla televisione e collegata alla Controcultura è
dimostrata in maniera inequivocabile da un discorso tenuto durante
una manifestazione di protesta davanti al Pentagono nel marzo del
1967, un’attivista Yippie26, Stew Albert tentava di convincere i
coetanei in divisa ad aderire alla rivolta con queste parole :
We grew up in the same country, and we’re about the same age.
We’re really brothers because we grew up listening to the same
radio programs and TV programs, and we have the same ideals.
It’s just this fucked-up system that keeps us apart. I didn’t get my
ideas from Mao, Lenin or Ho Chi Minh. I got my ideals from Lone
Ranger. You know the Lone Ranger always fought on side of good
and against the forces of evil and injustice. He never shot to kill.27
Albert rivendicava una sorta di unione culturale, degli ideali
condivisi. Poiché sia lui che i giovani soldati avevano condiviso lo
stesso ambiente mediale, entrambi avrebbero dovuto avere gli
stessi valori trasmessi dalla televisione, fa accenno a The Lone
Ranger, una sorta di cavaliere non violento e senza macchia che
combatteva contro ogni tipo di ingiustizia. Per Albert “ciò che la
televisione ha unito il Sistema non può dividere”, il giovane yippie,
A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University
Press, Durham, 2001, p. 22.
26 Gli Yippie erano un piccolo gruppo di attivisti che mediava tra le istanze degli hippie e
quelle della New Left. Sostenevano un uso radicale dei mezzi d’informazione.
27 J. Rubin, Fallo! Il più sovversivo resoconto della contestazione americana degli anni
Sessanta, Mimesis, Milano, 2008, p. 78.
25
75
Dall’Utopia all’Eterotopia
non sembra minimamente interessato alle differenze di classe,
genere, razza: la televisione era la “grande mamma unificatrice” dei
“fratelli mediali”. La rivolta non si basava sulle teorie della
tradizione marxista, ma sulla buon vecchia cultura popolare
americana. La televisione che doveva trasmettere omogeneamente i
buoni e conformistici valori tradizionali come un fantomatico “ago
ipodermico ideologico” sembra invece aver coltivato i germi della
rivolta trasmettendo i valori della Controcultura:
Because of what it showed us of the way our Elders really thought
and spoke and acted when not conscious of the pieties with which
children are to be soothed and comforted...From I love Lucy and
My little Margie my generation learned that domestic life was
dominated by dishonesty, fear, and pretence; from shows like The
Price is right…learned about greed; from the quiz show scandals
we learned about the commodity exchange of wisdom and the
fraudulence of that wisdom.28
Da queste parole oltre ad esser confermate le intuizioni di
Meyrowitz, si nota come la rivolta sia essenzialmente generazionale
e quindi il “Sistema” a cui Albert fa riferimento è quello degli adulti,
sono gli adulti che mentono e hanno sempre mentito sulla natura
della società, e allora si comprende meglio una delle frasi storiche di
Jerry Rubin leader degli Yippie: “Don’t trust anyone over thirty.” La
televisione e la generazione che crebbe contemporaneamente al suo
sviluppo sovvertirono l’ordine sociale che teoricamente erano
incaricati di sostenere e trasmettere.
Come ci fa notare in maniera perspicace Salvatore Proietti, nel suo
Hippies! Le culture della Controcultura,29 i giovani ribelli erano si
sospettosi e molto critici, per usare un eufemismo, verso il mondo
J. Greenfield, No Peace, No place: excavation along the generational fault, Garden city,
Doubleday, 1973 cit. in A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth
rebellion, Duke University Press, Durham, 2001, p. 33.
29 Cfr. S. Proietti, Hippies! Le culture della controcultura, Cooper Castelvecchi, Roma, 2003.
28
76
Dall’Utopia all’Eterotopia
degli adulti, ma nonostante questo cercavano e avevano la tendenza
ad acclamare e a seguire come guru e propri ispiratori proprio
esponenti di quella generazione; non si possono dimenticare
Timothy Leary e Ken Kesey, i profeti dell’acido lisergico, o Allen
Ginsberg, vero padre fondatore e vate del “flower power” e del
misticismo orientale. Tornando al discorso che stavamo
affrontando, la Controcultura, investì del ruolo di guru del nuovo
medium televisivo Marshall McLuhan30, il “metaphysician of media”,
come ebbe a chiamarlo Playboy in una sua intervista.31
Le sue teorie espresse in libri divenuti ormai dei classici come La
Galassia Gutenberg, La sposa meccanica o Gli strumenti del
comunicare, riscossero un grande successo specialmente nell’area
hippie del “movement” e anche nella New Left furono accolte con
favore. Per capire perché McLuhan e le sue teorie si rivelarono così
attraenti per buona parte della Controcultura è opportuno
riguardarle velocemente, ma lo faremo in maniera rapida perché
ormai sono divenute famosissime e quindi tenteremo di mettere in
luce quelle o parti di quelle in cui alcuni settori del movimento
giovanile si rispecchiavano e di cui si appropriarono per avvallare i
propri fini e la propria nuova visione del mondo e della vita.
McLuhan sosteneva che l’adozione di ogni nuova tecnologia altera
gli equilibri del sensorio, determinando la supremazia di uno dei
sensi sugli altri. L’alterazione di questi equilibri modifica
sensibilmente la nostra percezione del mondo, elemento chiave per
un radicale cambiamento in ogni aspetto della vita sociale. Sulla
base di questa tesi generale McLuhan affermava che l’introduzione
dei media elettronici, e della televisione in particolare, rompeva
McLuhan guru della controcultura rappresenta l’ennesimo paradosso di questo
poliedrico e controverso movimento, infatti l’insigne professore canadese era di
prospettive tendenzialmente conservatrici, cattolico professante e sicuramente non lo si
poteva definire un sostenitore della televisione.
31 Cfr. Playboy Interview: Marshal McLuhan. A candid conversation with the highest priest
of pop cult and metaphysician of media, su Playboy, marzo 1969, on-line all’indirizzo
www.mcluhanmedia.com/m_mcl_inter_pb_01.html.
30
77
Dall’Utopia all’Eterotopia
l’egemonia della “cultura tipografica” che aveva dominato
l’Occidente fin dall’invenzione della stampa, intaccando quindi
l’equilibrio sensoriale, creandone uno nuovo, dando vita ad una
nuova visione del mondo. L’egemonia di una “forma mediale” sulle
altre modella completamente una cultura attraverso il suo “bias”32,
infatti mentre la “cultura tipografica” attraverso il suo “messaggio” a
stampa favoriva il dominio dell’occhio, e un modo di pensare
astratto, lineare, analitico, sequenziale e discrezionale, la cultura
delle nuovi media elettronici favorisce l’acustico, il tattile e in
maniera consequenziale il simultaneo, l’olistico, il coinvolgimento,
l’irrazionale. Per McLuhan questo comporta un ritorno ad una
cultura prevalentemente orale, una nuova ri-oralizzazione, che
favorisce una cultura di tipo tribale in cui la parola e il suono sono
simultanei. Inoltre la visione di un “tribalismo elettronico”
determinato dalla televisione e dagli altri media elettronici contrae
la spazio e promuove l’interdipendenza al punto che McLuhan vede
il sorgere di un nuovo villaggio globale.33
Quest’idea di un nuovo tribalismo non poté che essere accolta con
entusiasmo da chi si identificava, come faceva la Controcultura
hippie, come una tribù, ispirandosi (semplicisticamente a dire il
vero) alla cultura dei Nativi americani, elemento ampiamente
dimostrato dal poster che pubblicizzava il primo “Be-in”, il mega
raduno del 1967 che riuniva insieme sia gli hippie che la New Left,
in cui era raffigurato un pellerossa con a tracollo una chitarra
elettrica. Ma per spiegare come le visioni di un tribalismo elettrico
professate da McLuhan influenzassero la Controcultura bastano le
parole di Robert Roberts in un articolo apparso sull’“East village
other”, un magazine underground dell’East Village di New York:
Con Bias H. A. Innis descrive lo spettro delle proprietà intrinseche di un medium. In
italiano non esiste una parola equivalente per tradurre tutti i significati connotati che il
termine originale racchiude. Cfr. H. A. Innis, Impero e comunicazioni, Melthemi, Roma,
2001.
33 Cfr. M.McLuhan, La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico. Armando ed.,
Milano, 1991 e Gli Strumenti del comunicare, Il saggiatore, Milano, 1999.
32
78
Dall’Utopia all’Eterotopia
We, the eletric-age generation, have been the first to feel the
impact of the retribalizing effect of the new multi-media
environment. We grew up with television, which fed our brains
with millions of black and white dots electronically arranged
and rearranged into microsecond patterns and images…we are
in the age of gestalt and shape. We are no longer die-cast parts
of a national mechanism. We are a tribe. We are the new breed
of American Indian who smoke grass and hash and smoke drop
peyote as a tribal ritual…We are the reincarnation of oral,
preliterate man...34
Come si nota, la Controcultura si appropria dell’opera di McLuhan
per dare un senso e spiegare a se stessa prima che ad altri la propria
disaffezione e repulsione nei riguardi dei valori dominanti, ma è lo
stesso McLuhan che in The Medium is The Massage, una summa del
suo pensiero teoretico, descrive la iato irrisolvibile tra le due
generazioni: “Youth instinctively understands the present
environment – the eletric drama. It lives mythically and in depth. This
is the reason for the great alienation between generations.”35
La nuova generazione era elettronica, la vecchia era ancora
“tipografica”, per questo non potevano comprendersi. Le nuove
tecnologie, specialmente la televisione, insieme alla quale la
generazione del baby boom era cresciuta, cambiarono il modo di
vedere il mondo, con un radicale riposizionamento della assiologia
culturale, un cambiamento che la vecchia generazione non poteva
comprendere. Una nuova cultura di stampo olistico, che adorava il
coinvolgimento, professava una comprensione spirituale e spiritista
del mondo, in cui l’irrazionale non era visto con disprezzo, ma al
contrario veniva esaltato come espressione dell’interiorità; una
R. Roberts, New Size, East Village Other, Aug. 13, 1969, p. 4, disponibile on-line
all’indirizzo www.celticguitarmusic.com/woodstockother.htm.
35 M. McLuhan & Q. Fiore, The medium is the massage: an inventory of effects, Bentham
books, New York, 1967, p. 100.
34
79
Dall’Utopia all’Eterotopia
cultura, però, che aveva bisogno anche di una legittimazione,
legittimazione che una lettura parziale di McLuhan diede ai suoi
creatori, ma che la Controcultura hippie cercò e trovò soprattutto
nella cultura orientale, cultura appunto impregnata su visioni del
mondo olistiche e spirituali. Uno spostamento verso l’Oriente che
anche McLuhan aveva notato e pronosticato: “Eletric circuitry is
Orientalizing the West. The contained, the distinct, the separate – our
Western legacy – are being replaced by the flowing, the unified, the
fused.”36
Abbracciare le filosofie orientali era per i giovani degli anni sessanta
un metodo per rinnegare la cultura consumistica occidentale,
inoltre, soprattutto per gli appartenenti alle comuni psichedeliche,
rappresentava un modo di dare senso compiuto e una
legittimazione alle proprie esperienze psichedeliche, così simili alle
pratiche di meditazione trascendentale di origine orientale.
L’importanza e il rilievo che la Controcultura diede alle droghe è un
aspetto cruciale per comprendere il modo in cui questi giovani
avevano deciso di rifiutare il mondo sociale e crearne uno
sostanzialmente diverso. Poiché il tema va affrontato più
approfonditamente ce ne occuperemo nel prossimo paragrafo, qui ci
interessa mettere in luce solo come la Controcultura tentò una
sintesi tra le teorie di McLuhan e le pratiche psichedeliche.
Innanzitutto bisogna sottolineare che la droga era percepita come
un elemento chiave di tutta la cultura giovanile, non solo dall’alla
hippie: marijuana, hashish, funghi magici, peyote, mescalina, Lsd,
ogni tipo di droga psicotropica era un elemento di definizione
cruciale di ciò che la ribellione giovanile significava realmente,
facilitava e aiutava nel rifiuto del razionalismo Occidentale, per
trasportarli e immergerli, questo riguarda specialmente Lsd,
all’interno di quel flusso indistinto e onnicomprensivo di
irrazionalismo olistico, di cui disquisivano le teorie di McLuhan e le
36
Ivi, p. 145.
80
Dall’Utopia all’Eterotopia
pratiche Orientali. Per capire quanto la psichedelia fosse collegata
alle esperienze televisive basta tornare al solito McLuhan :
The upsurge in drug taking is intimately related to the impact of
the electric media. Look at the metaphor for getting high: turning
on. One turns on his consciousness through drugs just as he opens
up all his senses to a total depth involvement by turning on the TV
dial. Drug taking is stimulated by today's pervasive environment
of instant information, with its feedback mechanism of the inner
trip. The inner trip is not the sole prerogative of the Lsd traveler;
it's the universal experience of TV watchers. Lsd is a way of
miming the invisible electronic world; it releases a person from
acquired verbal and visual habits and reactions, and gives the
potential of instant and total involvement, both all-at-onceness
and all-at-oneness, which are the basic needs of people translated
by electric extensions of their central nervous systems out of the
old rational, sequential value system. The attraction to
hallucinogenic drugs is a means of achieving empathy with our
penetrating electric environment, an environment that in itself is
a drugless inner trip.37
Le droghe non fanno altro che proseguire nel solco che l’ambiente
televisivo ha tracciato, ma quello che più interessa è come la
Controcultura percepiva tutto ciò, ebbene Lsd era il medium che li
immergeva in un mondo in cui i sensi erano estremamente acuiti e
intensificati, dove sperimentare quell’estensione dei sensi e del
sistema nervoso di cui parlava il nostro saggio professore canadese,
dove si era parte integrante di un Tutto pacifico e piacevole, in
sostanza non si guardava la televisione vi si era immersi.
Il rapporto tra la televisione e Controcultura che abbiamo tentato di
delineare è stato abbastanza complesso. Come abbiamo visto molti
esponenti di diverse frange della Controcultura indicano la
Playboy Interview: Marshal McLuhan. A candid conversation with the highest priest of
pop cult and metaphysician of media, su Playboy, marzo 1969, on-line all’indirizzo
www.mcluhanmedia.com/m_mcl_inter_pb_02.html.
37
81
Dall’Utopia all’Eterotopia
televisione come un elemento decisivo per la nascita della loro
cultura ribelle, tutto legittimato da una lettura idiosincratica di
McLuhan, aveva consentito loro di dare un senso al rifiuto della
società dominante. Nasce qui però una contraddizione: come è
possibile che un elemento così prettamente consumistico come la
televisione, che esprimeva conformismo da ogni sua valvola, potesse
essere uno dei cardini su cui si fonda la Controcultura? Ecco
McLuhan era pronto a spiegarlo, più a loro stessi che ad altri, visto
che alcuni studiosi come Hayakawa38 dubbi non ne avevano. Il
professore di origine orientali arriva alle stesse conclusioni di
McLuhan, ma attraverso un percorso teorico completamente
diverso. McLuhan sosteneva che l’esperienza televisiva fosse attiva e
costruttiva, mentre Hayakawa affermava che fosse al contrario
passiva, destrutturante e poco costruttiva, uno vedeva la nascita di
una nuova cultura attraverso il mutamento dell’equilibrio sensoriale
dovuto ai nuovi media, l’altro la interpretava come una regressione.
Hayakawa vedeva la rivolta giovanile come una ribellione causata
dalla distanza colossale che esisteva tra la realtà televisiva e il
mondo reale, un mondo in cui non vi era una gratificazione
immediata come la società dei consumi proposta dalla televisione
aveva insegnato:
How much of terrible impatience of so many young people –
evident in the virulence of their protest – can be traced to the
disparity between the real world and that Epicurean world inside
the television set where the proper combination of pills and cars
S.I. Hayakawa, era un noto psicologo e professore all’università del Wisconsin, elaborò
le sue tesi sulla televisione in due numeri di Tv Guide del 1970. Divenne poi senatore in
forza al partito repubblicano.
38
82
Dall’Utopia all’Eterotopia
and cigarettes and deodorants can bring relief from suffering and
instant gratification of all their material wants and desires. 39
Questa era una tesi diffusa, per cui i giovani erano impazienti e
rivoltosi a causa della lezione appresa dalla pubblicità televisiva; in
definitiva un ribaltamento dell’etica protestante, composta da
studio, fatica e duro lavoro prima di poter godere di qualsiasi tipo di
piacere. La televisione invece promulgava una soluzione facile,
indolore e immediata per qualsiasi tipo di problema, ma la realtà
non era decisamente così, era molto più difficile, dura e ingiusta.
Contro questa discrasia tra immaginario e realtà, secondo
Hayakawa i giovani si rivoltavano e rinnegarono poi tutti i principi
della società che li aveva cresciuti, andando alla ricerca di nuovi
modelli di vita, per quanto riguarda gli Hippie, o tentando di
cambiare le istituzioni come i movimenti politici radicali.
Hayakawa utilizza la tesi dell’assuefazione alla logica del consumo
anche per spiegare l’uso di sostanze stupefacenti, sostanze che
vengono utilizzate per avere una soddisfazione immediata, senza
sacrificio, e sopratutto per sfuggire ad un mondo che, secondo i
membri della Controcultura, ha loro mentito. Come McLuhan, anche
Hayakawa, traccia un collegamento diretto tra l’esperienza
televisiva e Lsd, ma anche in questo caso le sue tesi sono
completamente opposte a quelle di McLuhan: “The kinship of Lsd
and the other drug experiences is glaringly obvious: both depend on
turning on and passively waiting for something beautiful to
happen.”40 Se per McLuhan l’esperienza psichedelica era un modo
per introdursi nella dimensione sensoriale della nuova cultura
elettronica, per Hayakawa era solo una prosecuzione e allo stesso
tempo un rifiuto dell’ingannevole mondo del consumo. Qui però
S.I. Hayakawa, “Another challenge to the television industry”, in Tv Guide, May 16, 1970,
cit. in A.Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke
University Press, Durham, 2001, p. 45.
40 Ibidem.
39
83
Dall’Utopia all’Eterotopia
dobbiamo dissipare una contraddizione, la televisione è allo stesso
tempo agente di socializzazione della società del consumo e
movente del nascente sentimento Controculturale e lo è per gli
stessi motivi? La televisione che divulgava e trasmette i valori e i
caratteri del nuovo ordine sociale, era lo stesso medium che al
contempo ne svelava il conformismo, l’ipocrisia, l’ingiustizia, che
trasmetteva l’orrore della guerra in Vietnam? Ebbene proprio per
questo, e forse nonostante tutto questo la Controcultura decise di
mettere fine all’idillio, idillio che non poteva durare ormai a lungo
con un “movimento” che aveva deciso di rifiutare e fuoriuscire da
quel tipo di società. Dalla tv era stato educato, ma ora non poteva
che rifiutarla perché la vedeva solo come megafono del
conformismo e di quell’ordine sociale che voleva cambiare e da cui
voleva fuggire. Questo nuovo sentimento verso il medium televisivo
è espresso chiaramente da queste parole di Harlan Ellison, famoso
scrittore di fantascienza e all’epoca critico televisivo per il giornale
underground L.A. Free press:
Walking down the streets these days and nights are member of
the Television Generation. Kids who were born with TV, were
babysat by TV, were weaned on TV, dug TV and finally rejected
TV…but their parents, the older folks, the ones who brought the
world down whatever road it is that’s put us in this place at the
time – they sit and watch situation comedies. Does this tell us
something?... The mass is living in a fairyland where occasionally
a gripe or discouraging word is heard…The mass sits and sucks its
thumb and watches Lucy and Doris and Granny and the world
burns around them.41
La Controcultura lasciò la televisione e i suoi contenuti alla
generazione precedente, per i membri della rivolta studentesca o
per gli hippie altri media erano divenuti preminenti nell’arena dei
Harlan Ellison, The Glass Teat: Essay of opinion on the subject of television, Ace books,
New York, 1983, p. 47, disponibile on-line: http://harlanellison.com/home.htm.
41
84
Dall’Utopia all’Eterotopia
consumi culturali come il cinema indipendente e soprattutto la
musica rock, che con i suoi mega-concerti rendeva effettiva la
presenza di quel villaggio globale di cui parlava McLuhan. La
Controcultura ripudiò la televisione poiché era vista ormai come
un’industria commerciale, dominata dai grandi network e corrotta
inequivocabilmente dai valori dell’establishment. Il depennamento
dai palinsesti televisivi del The Smothers Brothers Comedy Hour,42 il
solo programma che la Controcultura continuava ad apprezzare, era
il segno evidente della corruzione del medium. In realtà ritengo che
la Controcultura si distaccò dal medium televisivo non solo perché
lo ritenne inevitabilmente compromesso con l’ordine sociale, ma
sopratutto perché non riusciva più a rappresentarla, i giovani della
Controcultura non si sentivano più rappresentati dal mezzo che li
aveva cresciuti. Penso che questo fu il vero motivo della disaffezione
dei giovani del baby boom nei riguardi della televisione, questa
incapacità del mezzo di rappresentare la Controcultura in un modo
in cui i suoi membri vi si potessero riconoscere. Ebbene di questa
disaffezione si può rintracciare un evento chiarificatore ed
esemplare: il The Death of Hippie. Una performance artisticoteatrale itinerante che andò in scena il 6 ottobre del 1967, quando
per le strade di Hight-Ashbury a San Francisco i Digger43 assieme a
un centinaio di figli dei fiori, inscenarono la morte degli hippie, con
tanto di bara al cui interno venne depositato un fantoccio dalle
sembianze hippie; spettacolo ad uso e consumo dei media, per
protestare contro la rappresentazione che i mezzi di informazione
davano del movimento. Un rappresentazione che secondo la
Controcultura non era aderente alla realtà e che tentava di
The Smothers Brothers Comedy Hour era un varietà dal forte sapore satirico, in cui
venivano spesso invitati famosi artisti della scena rock e per questo molto apprezzato
dalla Controcultura. Andò in onda sulla Cbs dal 1967 al 1969, la sua chiusura scatenò
vivaci polemiche.
43 I Digger erano una compagnia teatrale di strada di orientamento anarchico. Nel
quartiere di Haight-Asbhury gestivano anche un centro di accoglienza gratuito per gli
hippie appena giunti in città.
42
85
Dall’Utopia all’Eterotopia
delinearla come un semplice e un mero fenomeno di costume, un
tentativo di pacificare e semplificare, spesso con disinvolta malafede
e una buona dose di voyerismo, un fenomeno che la società non
comprendeva, soprattutto nelle sue implicazioni politiche. The
Death of Hippie segna il momento in cui la Controcultura si distacca
completamente dal medium televisivo, visto ormai solo come un
altro ganglio dell’establishment. Mentre la maggior parte dei gruppi
della Controcultura rinnegò la televisione, un gruppo decise che per
“fare la rivoluzione” ed esportarla non bisognava far altro che
manipolare i media, questi erano gli Yippie (Youth International
Party), un gruppo che intendeva la Controcultura come ribellione
continua e quotidiana in stile teatrale in cui le azioni simboliche e
goliardiche, quali entrare a Wall Street e lanciare dall’alto della
galleria manciate di banconote mandando nel caos il tempio sacro
del capitalismo, fossero la normalità, il tutto esacerbato dalla ricerca
di una nuova coscienza attraverso le droghe psichedeliche. La reale
attività degli Yippie era la contro-manipolazione dei media,
attraverso una distorsione psichedelica delle teorie di Marshall
McLuhan:
I mezzi di comunicazione non riferiscono “notizie”, le creano. Una
cosa succede quando va in televisione, e diviene mito. I media non
sono neutrali. La presenza di una telecamera trasforma una
dimostrazione, fa di noi degli eroi. Quando è presente la stampa,
abbiamo maggiori probabilità di successo perché sappiamo che
qualunque cosa accadrà verrà riferita al mondo nel giro di poche
ore. La televisione ci spinge ad “escalare” le nostre tattiche; una
tattica diviene inefficace quando cessa di generare interesse o
pettegolezzi – “notizie”...Il modo esatto di per comprendere la tv è
di spegnerne l’audio. Nessuno ricorda le parole che ode; la mente
è un technicolor di immagini, non di parole...Le immagini
costituiscono il réportage. La nostra forza risiede nella nostra
abilità di spaventare il nemico: quindi più i media esagerano,
meglio è. Quando cominciamo a dire cosine simpatiche su di noi,
allora si che dovremmo cominciare a preoccuparci...Oggi non si
può essere rivoluzionari senza un televisore – è importante
86
Dall’Utopia all’Eterotopia
quanto un fucile! Ogni guerrigliero deve sapere come usare il
terreno della cultura che sta cercando di distruggere! Il nostro
fine è rimanere un mistero. Teatro puro...Informazione pura... 44
Queste visionarie parole di uno dei leader degli Yippie, Abbie
Hoffman, apre una nuova strada e un nuovo approccio nei confronti
dei media, della televisione in particolare, una dimensione tattica
nel senso di Michel deCerteau45 contro la strategia che il sistema
adottava contro la Controcultura.
Per concludere questo lungo paragrafo sul controverso rapporto tra
il medium televisivo e la Controcultura bisogna trattare
velocemente almeno altri due argomenti, che mostrano come
nonostante tutti i tentativi della Controcultura di rinnegare la
televisione, questa fosse legata a doppio filo con la propria
filogenesi e quindi un completo distacco non era possibile. Il primo
tema da affrontare è l’avventura del “Channel One”, una sorta di
piccolo cinema alternativo, per la precisione, un “video theater”
creato da Ken Shapiro e Lane Sarasohn, nella comunità hippie
dell’East Village di New York. “Il video theater” conteneva un buon
numero di vecchi televisori e ognuno poteva gratuitamente
guardarne i programmi.
I contenuti erano girati in prima persona da i due creatori ed erano
una sorta di programmi televisivi controculturali, si concentravano
su temi che i network generalisti non trattavano e non potevano
trattare, come la droga, il sesso, le esperienze psichedeliche, tutti i
buoni e vecchi argomenti cari agli hippie. “The Channel one” in
pratica era la televisione della Controcultura, una televisione che li
rappresentava e in cui i giovani hippie si riconoscevano. “The
Channel one” dimostra ancora una volta l’indissolubile legame tra la
Controcultura e la televisione. L’esperimento dell’East village fu solo
A. Hoffman, Revolution for the Hell of it, Dial Press, New York, 1968, p. 103, cit. in M.
Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009, p. 117.
45 Cfr. M. deCerteau, L’invenzione del quotidiano, ed. Lavoro, Roma, 2001.
44
87
Dall’Utopia all’Eterotopia
l’inizio di un movimento molto più ampio che iniziò a svilupparsi
l’anno successivo quando sul mercato venne immessa la Sony
portapack, una piccola telecamera poco costosa, che consentì al
potenziale creativo dei video alternativi di esplodere. Dopo
l’esperimento pioneristico della “The Channel one” in tutto il paese
nacquero “video collettivi” controculturali, lo scopo dei quali non
era solo creare una tv hippie, ma usare il video come strumento per
trasformare l’ordine sociale, fornendo e auto-producendo contenuti
alternativi. Si arrivò ad individuare la possibilità di un nuovo uso dei
media. L’invito era a non rigettare la tecnologia in toto, ma ad
umanizzarla, utilizzarla per riprendere il controllo delle proprie
vite; la televisione ad esempio non doveva essere vista solo come lo
strumento migliore di trasmettere la vecchia cultura, ma mezzo
fondante di una nuova. I principali teorizzatori di questa visione
alternativa furono i membri del collettivo dei Raidance, nato a New
york nel 1969, e tutta la loro poetica fu riversata in quello che
divenne subito un libro classico della Controcultura “Guerrilla
Television”46, in cui, Michael Shamberg, non solo descrive la teoria
della “video rebellion”, ma la integra con una sorta di manuale
pratico. Guerrilla Television espone una pratica ed una filosofia sui
media alternativi: era un testo di istruzioni con saggi, illustrazioni e
consigli pratici scritti in un linguaggio appropriato per i giovani
attivisti; il testo era diviso in due sezioni: ‘meta manual’, che
consisteva in un distillato delle teorie di Shamberg, e ‘Manual’, che
conteneva le informazioni pratiche. Molti presero l’esempio dai
Raidence, e iniziarono a girare video alternativi, elemento chiave
insieme alla stampa underground per creare un’identità condivisa
ad un movimento che, a causa delle tante anime che lo
attraversavano, era per sua natura mercuriale e contraddittorio.
L’esperienza della “video guerrilla” conferma ancora una volta come
la Controcultura fosse profondamente mediale e assolutamente
Cfr. M. Shamberg & Raidance Corporation, Guerrilla Television, Rinehart and Winston,
New York, 1971.
46
88
Dall’Utopia all’Eterotopia
legata ai contenuti audiovisivi, anzi con la “video guerilla” si era
riusciti a dare un ruolo controculturale, da intendersi come Culture
Jammming alla Dery47, alla tv, un valore sovversivo al mezzo che
ormai veniva percepito come il portavoce ufficiale dell’ordine
sociale. Un nuova possibile culture jamming per cui la televisione
poteva divenire medium adatto alla Controcultura fu quello
proposto sempre dall’East Village Other, per cui, seguendo le teorie
del nume tutelare McLuhan, la televisione, essendo il più grande
alteratore di coscienze della storia, avvolgendo completamente lo
spettatore e trasportandolo in un mondo in cui i sensi sono espansi
e coinvolti, può trasformarsi da megafono dell’establishment ad un
medium adatto alla meditazione, come e meglio del Lsd,
naturalmente seguono istruzioni per l’uso:
In a darkened room, turn on your Tv set. Find a full channel.
Adjust the brightness control all the way to bright (to the right).
Adjust the contrast control (to the left). Adjust the vertical hold
and vertical linearity controls all the way to left or right. Tune the
channel selector to an empty channel. Readjust for maximum
brightness as necessary – maximum retinal color results from
maximum bombardment of the retina. Concentrate on sending
your meditations out from your ashram to mine. Thank you. “We
now return control of your Tv set to you”. 48
Seguendo McLuhan era possibile nuovamente far rientrare la
televisione nell’ambito dei media controculturali, naturalmente in
una nuova dimensione, eliminando i contenuti e lasciandosi
trasportare semplicemente dalla caratteristiche tecniche del mezzo,
Cfr. M. Dery, Culture Jamming: Hacking, Slashing and Sniping in the Empire of Signs,
1993, disponibile on-line all’indirizzo
http://www.markdery.com/archives/books/culture_jamming/#000005#more
48 Katzam & Bowart, “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Political Club And Band”, East Village
Other, July 1, 1967, p.5.
47
89
Dall’Utopia all’Eterotopia
verso un nuovo mondo, quello psichedelico. Così la televisione
diventa un’estensione tecnologica dei sensi psichedelici degli hippie.
In realtà era solo la volontà di riprodurre con altri mezzi
l’esperienza allucinatoria del Lsd, entrare in un mondo diverso da
quello che avevano scelto di rifiutare, un mondo migliore una
“eterotopia psichedelica”, di cui tratteremo meglio e più
approfonditamente nel prossimo paragrafo. Qui mi preme
sottolineare come le parole di Abruzzese,49 citante nell’introduzione
di questo capitolo, sulla capacità delle nuove tecnologie della
comunicazione di aprire nuovi spazi, alternativi e paralleli alla
realtà dominante, siano adatte a interpretare questo filo complesso
che lega la televisione all’Lsd e alla Controcultura. La televisione è
stata la tecnologia che ha educato una generazione ad una nuova
sensibilità e sensorialità, la ha socializza e familiarizza alla
medializzazione e pluralizzazione delle realtà. L’Lsd, e la droga nel
suo complesso, fu la tecnologia che la Controcultura adottò per
sfuggire ad una società conformista, che bloccava la volontà di
esprimere quella nuova sensibilità e sensorialità, società
conformista che ormai aveva invaso anche il mezzo televisivo.
Questa naturalmente può essere solo una delle molteplici
interpretazioni, una meno “espressionista” potrebbe essere quella
di considerare come all’albore di ogni nuovo mezzo di
comunicazione alcune elite intellettuali ne intravedono il potenziale
utopico in grado di cambiare il mondo, e creare una nuova comunità
umana globale, accade alla nascita del telegrafo, e come visto anche
Mercier affermava che la stampa avrebbe potuto creare una grande
famiglia umana. La storia insegna anche, però, che ad un inizio in
cui il mezzo è a disposizione di apprendisti e sperimentatori, di
solito solo loro che hanno le visioni utopiche, il cyberspace ne è
l’espressione più compiuta, segue sempre un periodo in cui il
medium si istituzionalizza, si socializza, si integra nel sistema
Cfr. A. Abruzzese, I media non creano maschere né fantasmi. Ci raccontano la vita, su
Telèma, n° 16, Primavera 1999 e Lo splendore della Tv, Costa e Nolan, Genova, 1994.
49
90
Dall’Utopia all’Eterotopia
sociale adottandone i valori e le regole. Superato questa breve
parentesi siamo qui di fronte ad una contraddizione, la
Controcultura nonostante tutti i suoi tentativi di rinnegare e
rifiutare i valori del capitalismo Occidentale ne era figlia, della
televisione in particolare.
Even as they turned the tube’s programming off in droves, they
still recognized their inescapable link to the medium. Television
[...] was at least partly responsible for turning them into freaks,
for causing them to embrace the values of the East as they
rejected the values of Western consumer capitalism, for pointing
out that the adult social order was nothing to look up to or
emulate...They would forever be the children of television. As such,
many would also find it impossible to ignore how the medium
constructed their movement, their social and political disaffection
and subversions, their alternative lifestyles, their idealism, and
their threat to the established order.50
Molti studiosi estremizzarono il concetto che la Controcultura fosse
talmente figlia dei suoi tempi da non poter realmente cambiare
l’ordine sociale, questi ritengono che la Controcultura fu il
fenomeno chiave per portare su un nuovo livello le linee portanti
del sistema consumistico, autori come Thomas Frank, Joseph Heath
e Andrew Potter,51 sostengono che la Controcultura sia stata
decisiva per creare la reale società del consumo e la nascita del “hip
consumering”. Secondo questo approccio il movimento confondeva
il rifiuto della società con la propria ossessione di “essere differenti”,
A. Bodroghkozy, Groove Tube. Sixties television and the youth rebellion, Duke University
Press, Durham, 2001, p. 60.
51Per affrontare il tema della Controcultura come evoluzione verso una nuova dimensione
del sistema consumistico si consiglia la lettura di questi agili volumi, Heath Joseph &
Potter Andrew, The Rebel Sell: How counterculture became consumer culture, Capstone,
Southern gate Chichester, 2006, e Nation of Rebels: Why Counterculture Became Consumer
Culture, Harper Paperbacks, New York,2005, Frank Thomas, The Conquest of Cool, The
university Chicago Press, Chicago, 1998.
50
91
Dall’Utopia all’Eterotopia
un bisogno che il sistema capitalistico sembra aver ben recepito. Ma
come direbbe qualcuno: “questa è un’altra storia.” Ora è giunto il
momento di affrontare come è perché la Controcultura diede così
importanza alla droga.
2.2.2 Liberazione attraverso la droga
La libertà e l’auto-espressione erano i due cardini su cui si fondava
la Controcultura come abbiamo visto, libertà intesa nel modo più
ampio possibile, per la generazione dei figli dei fiori era
principalmente intesa come liberazione dal conformismo asfissiante
degli anni cinquanta, seguendo le teorie di Marcuse, Wilheim Reich
e Norman Brown, era anche e sopratutto una liberazione sessuale,
dal rapporto di coppia borghese, una liberazione che avrebbe
dovuto portare ad una piena espressione del sé senza quei blocchi
nevrotici che avrebbero inficiato una vita completa, piena e felice. In
tutto ciò la droga assume un ruolo chiave insieme ad altri “mezzi” o
“tecnologie” come la meditazione zen, la psichiatria esistenziale,
tutte tecniche per raggiungere un più profondo contatto con se
stessi e con gli altri. Ruolo ben definito dalle parole del redattorecapo del giornale underground “San Francisco Oracle”, Allen Cohen:
“La droga ci deterge dagli influssi inibitori del mondo esterno.”52 Il
suo era un compito di supporto nel processo di liberazione. Libertà
dal conformismo abbiam detto, conformismo visto come potente
determinismo culturale, che non permette una reale e sana
costruzione dell’Io. E’ di una ricerca identitaria quello di cui stiamo
parlando realmente, una volontà di esprimere la propria
individualità contro una società conformista e uniforme, questo è la
vera dimensione di ogni controcultura dalla Beat Generation in poi.
Cit. in W. Hollstein, Underground. Sociologia della contestazione giovanile. Sansoni,
Firenze, 1971, p.98.
52
92
Dall’Utopia all’Eterotopia
Ricerca di identità, che non si può sviluppare in altro modo che
andando alla ricerca di nuovi valori, per questo non deve stupire
l’ampio successo delle filosofie orientali, viste come una
legittimazione, una spiegazione, un organizzazione di quel nuovo
sentimento che si stava sviluppando, che era così polimorfo,
anarchico e contraddittorio da risultare di difficile interpretazione e
comprensione. Questa volontà di evadere da una Società che Roszak
definisce “Tecnocratica”53, basata sulla tecnica, sulla competizione,
sul consumismo e riabbracciare i valori della comunità, della Natura
presuppone un tentativo di costruire una nuova coscienza, senza cui
è impossibile edificare una nuova società. Questa era in pratica
l’essenza del movimento hippie. La droga era un catalizzatore di
questo processo, era un mezzo per entrare più facilmente in
contatto con se stessi e per espandere la propria coscienza, ma da
semplice introspezione individuale, si affermerà poi, soprattutto
dopo l’introduzione dell’Lsd, in una dimensione sociale, come una
poetica e una politica sociale. Diviene una un’esperienza collettiva,
comunitaria, che fonde misticismo, utopismo, idealismo, religione
orientale, non-violenza, base per il droppin’out. Qui si gioca lo
scontro con l’ala politica della Controcultura, infatti mentre questa
vedeva nella droga solo un mezzo per facilitare il ripudio dei valori
dell’ordine sociale, per gli hippie la questione era più essenziale ed
esistenziale, essi avevano abbandonato la società, la droga era parte
essenziale della nuova filosofia di vita basata su una semplice
equazione, illuminazione interiore (attraverso varie tipi di tecnologie,
di cui la droga era la principale) = liberazione dagli istinti aggressivi
= amore libero = amore universale = pace nel mondo. Era la filosofia
«Per tecnocrazia intendo quella forma sociale in cui una società industriale raggiunge il
vertice della sua organizzazione integrativa. Si tratta di quell’ideale che gli uomini hanno
solitamente in mente quando parlano di modernizzare, di aggiornare, di razionalizzare, di
pianificare...Il grande segreto della Tecnocrazia è di farci accettare tre premesse, collegate
una all’altra: a) i bisogni essenziali dell’uomo sono di carattere puramente tecnico, b)
L’analisi formale è completa, c) Gli esperti sono tutti stipendiati dal Sistema.» T. Roszak,
Nascita di una controcultura, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 17.
53
93
Dall’Utopia all’Eterotopia
inaugurata dal guru del Lsd Timothy Leary e del suo “Turn on, Tune
in, Drop out” (accenditi, sintonizzati, abbandonati / abbandona la
società) per cui attraverso l’Lsd, ma comunque con qualsiasi altro
tipo di droga psicotropica, si poteva costruire una nuova collettività,
costruendo una nuova coscienza, di conseguenza la droga diviene
rivoluzionaria di per sé, prende il via la “rivoluzione psichedelica”:
“La ‘rivoluzione psichedelica’, dunque, si riduce a questo semplice
sillogismo: trasformate il modo di essere della coscienza oggi
predominante, e trasformerete il mondo; l’uso della droga ex
opere operato trasforma il predominante modo di essere della
coscienza; quindi rendete universale l’uso della droga e
trasformerete il mondo.”54
Seguendo questo ragionamento Ken Kesey e i suoi Merry Prankers a
bordo in un di coloratissimo furgone denominato “Further”,
girarono gli Stati Uniti organizzando riti iniziatici a base di Lsd, i
noti Acid test, per convertire la nazione alla nuova religione. Tutto
accompagnato dall’onnipresente Timothy Leary e dalla musica di
gruppi psichedelici come Grateful Dead e Jefferson Airplane.
Lsd era il protagonista principale di tutta questa scena, era la droga
liberatrice per eccellenza come si evince dalle parole di chi Lsd lo ha
scoperto e sintetizzato Albert Hofman, chimico dell’industria
farmaceutica Sandoz:
“Lsd mi ha permesso di vedere. Mi ha permesso di capire che fuori
di noi c’è una serie infinita di mondi e che più allarghi il tuo
sguardo, più vedi [...] ci si accorge che il mondo che ci circonda è
più ampio e misterioso, infinitamente più complesso di quello che
appare[…] E’ direttamente responsabile (l’Lsd) della nostra
liberazione. Un viaggio nell’Lsd ti lega intimamente all’anima, è
uno strappo delle difese dell’Ego. Dopo un viaggio nell’Lsd ogni
54
Ivi, p. 187
94
Dall’Utopia all’Eterotopia
inibizione sessuale si libera... Si arriva a vedere tutto […] si arriva
a vedere la verità.”55
In più l’Lsd ha un effetto ancor più importante: provoca un
allargamento della coscienza paragonabile a un’esperienza mistica,
dando realtà a quel richiamo Orientale che gli Hippie sentivano così
intensamente. L’Lsd racchiudeva per sua natura tutte le istanze
della Controcultura, era in grado da solo di spezzare le catene
dell’ordine sociale, sia dal punto epistemologico, rompendo la
visione razionale del mondo e della realtà, sia dal punto di vista
esistenziale, ampliando e formando una nuova coscienze e
liberando in maniera pacifica quegli impulsi sessuali che la società
“tecnocratica” reprimeva. Immergendo chi ne faceva uso in un
mondo in cui i sensi erano acuiti, in uno stato di coscienza espansa,
permetteva un’unione diretta con se stessi, con gli altri e con la
natura; L’Lsd dava così vita a quel mondo che la Controcultura
sognava, fatto di comunione totale e completo abbandono alla
beatitudine dei sensi. “Eterotopia psichedelica” l’abbiamo chiamata
in precedenza, un “contro-mondo” contemporaneo e antagonista a
quello esistente, di certo allucinatorio, ma del tutto reale per chi lo
esperiva. Un mondo di beatitudine completa sia dal punto di vista
psicologico che sensoriale, che sovvertiva non solo l’ordine sociale,
ma soprattutto quello del reale. La percezione della realtà
attraverso l’esperienza psichedelica non è razionale, è immersiva, è
un’esperienza, appunto, più vicina alla conoscenza olistica orientale
che non al razionalismo occidentale. In più come abbiamo
sottolineato nel paragrafo precedente l’Lsd, o comunque tutte le
droghe del genere, amplificavo ed esaltano una forte sensazione di
unione tra l’individuale e il Tutto, con gli altri e la Natura, in
un’armonia mistica e spirituale, che non era altro che un nuovo
A. Hoffman, Lsd, il mio bambino difficile, Apogeo, Milano, 1995 cit. in L. Pollini, Hippie. La
rivoluzione mancata: ascesa e declino del movimento che ha sedotto il mondo, Bevivino
editore, Milano, 2008, p. 33.
55
95
Dall’Utopia all’Eterotopia
paradiso terrestre. In fondo fine di ogni utopia è la creazione del
paradiso in terra, gli hippie ne avevano scoperto le chiavi d’accesso.
Adesso è importante sottolineare come questa sensazione di unione
universale tra il sé e il mondo gli hippie la riconducessero a quel
tribalismo di ritorno di cui disquisiva McLuhan, anche se con
presupposti completamenti diversi, un rinnovato senso di tribù a
cui gli hippie erano particolarmente legati, perché ne esaltava il loro
sentimento comunitario. Un altro elemento che l’Lsd esaltava era il
sentimento di esser tutt’uno con la natura, un ritorno alla Natura
contrapposto al dominio su di essa tipico della società
“tecnocratica”. Questo ritorno alla natura però ha qualcosa di
strano, infatti non era dovuto a qualche elemento naturale, ma dall’
Lsd e come fa notare una battuta di Sterling: “Non è stata Madre
Terra, in un impeto controculturale, a darci l’acido lisergico: è stato
un laboratorio della Sandoz.”56
In realtà la Controcultura degli anni sessanta era già permeata dalla
tecnologia più di quanto non sapesse o volesse credere come ci
dimostra Mark Dery:
“Lo spettacolo psichedelico di suoni e luci era un rito Dionisiaco
quanto tecnologico, dalla colonna sonora elettrica satura di
feedback fino ai caratteristici effetti visivi (creati con pellicole,
diapositive, luci stroboscopiche proiettori collocati sopra le teste
del pubblico) e fino all’Lsd che metteva in movimento tutta
l’esperienza.”57
Queste parole ci descrivono un sincretismo alquanto eccentrico,
sincretismo che ancora una volta mette in luce come la
Controcultura fosse ancora profondamente connessa con una
cultura di tipo tecnologico. Non è un caso infatti che trattiamo la
liberazione attraverso la droga in un paragrafo intitolato Le
56
57
Cit. in Dery, M., Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 15.
Ivi p. 32.
96
Dall’Utopia all’Eterotopia
tecnologie della Controcultura, infondo l’Lsd non era altro che una
tecnologia per creare, entrare, in un mondo parallelo, niente più che
un induttore, un medium, per questo la similitudine con la
televisione non è per niente fuori luogo.
L’ “Eterotopia psichedelica” la si potrebbe semplicemente intendere
come un’eterotopia mediale, con caratteristiche immersive, in
pratica quello che una trentina di anni dopo rappresenterà la Realtà
Virtuale. Non è un caso che anche questa, infatti, verrà salutata e
descritta, da un nuovo gruppo controculturale, con le stesse
immaginifiche e utopistiche qualità sovversive e rivoluzionarie, sia
dal punto di vista individuale che collettivo, dell’Lsd. Ma di tutto ciò
parleremo in seguito, ora ci premeva solo sottolineare come questa
nuova e sovversiva “eterotopia psichedelica” non foss’altro che di
origine tecnologica e mostrare che il tanto agognato ritorno alla
Natura di cui la Controcultura faceva gran sfoggio non era del tutto
sincero. Analizzando meglio si dovrebbe semplicemente constatare
che, nella prima generazione che sperimentò la tecnologia come
bene di consumo, anche l’idea di Natura fosse cambiata: non era
ormai più possibile immaginare un ambiente naturale
completamente scevro di elemento tecnologici, come mostra bene
questa poesia di Richard Brautigan del 1967:
I like to think (and
The sooner the better!)
Of a cybernetic meadow
Where mammals and computers
Live together in mutually
Programming harmony
Like pure water
Touching clear sky.
I like to think
(right now, please!)
Of a cybernetic forest
Field with pines and electronics
97
Dall’Utopia all’Eterotopia
Where deer stroll peacefully
Past computers
As if they were flowers
With spinning blossoms.
I like to think
(it has to be!)
Of a cybernetic ecology
Where are free of our labors
And joined back to nature,
Returned to our mammal
Brothers and sisters,
And all watched over
By machines of loving grace.58
Brautigan immagina e auspica sì un ritorno alla natura, un nuovo
paradiso terrestre, ma in un Eden panteista in cui la tecnologia sia
parte integrante del paesaggio. La sensibilità poetica aveva già
capito e dato voce ad un cambiamento interiore, ad un nuovo
schema mentale, che invece i giovani hippie non avevano compreso.
Anche la Natura da loro così tanto desiderata e ricercata, portava
dentro di sé i germi di quella società tecnologica che tentavano di
superare e rinnegare, mostrando l’ennesima contraddizione di un
movimento che, come abbiamo visto, ne presentava più di qualcuna.
Concludiamo riassumendo le conclusioni a cui siamo giunti
seguendo l’analisi del complesso legame che collega la
Controcultura con le tecnologie. Ebbene anche se nel pensiero
comune la Controcultura è sempre stata vista come un movimento
dall’approccio pseudo-luddista abbiamo mostrato come in realtà
avesse un legame molto stretto con alcune realtà tecnologiche. In
particolare abbiamo analizzato e tentato di descrivere quale fosse
R. Brautigan, All Watched Over By Machines of Loving Grace, disponibile on-line
all’indirizzo http://www.americanpoems.com/poets/Richard-Brautigan/72.
58
98
Dall’Utopia all’Eterotopia
l’articolato e contradditorio legame che univa il “Movement” con il
medium televisivo. Anche se la Controcultura nella sua versione
ufficiale si era sempre schierata contro il mezzo, accusato di essere
soltanto il megafono dell’establishment e lo sponsor della società
del consumo e del conformismo, abbiamo notato come quella stessa
generazione che accusava il medium, era la stessa che quel medium
aveva “educato”, a cui aveva trasmesso dei valori, che poi la
portarono a ribellarsi al sistema, mostrando quindi una notevole
importanza dell’ambiente mediale sulla cultura della generazione
controculturale. Elemento poi confermato con l’analisi del rapporto
tra droga e Controcultura, in questo studio abbiamo notato come la
droga fosse assunta come mezzo che facilitava il compito di
rinnegare i valori dell’ordine sociale, l’Lsd, in particolare, era visto
come l’agente liberatore della coscienza e quindi sostanza
imprescindibile per qualsivoglia rivoluzione.
2.3 Lo spazio eterotopico della comune
E’ giunto il momento di parlare della vera eterotopia a cui la
Controcultura degli anni ’60 e ’70 diede vita: la Comune. La comune
rappresentò il tentativo di creare una nuova società, un contromondo hippie dove liberarsi dei valori della società “tecnocratica” e
riconfigurare un’organizzazione sociale cambiando tutti gli aspetti
della vita, dalla concezione del tempo, alla sessualità, ai rapporti
interpersonali, una nuova tipologia di famiglia, un nuovo mondo in
fondo. Come tutta la Controcultura il movimento comunitario era
intriso di contraddizioni e correnti dagli orientamenti divergenti e
molteplici, ci furono comuni influenzate dal pensiero di Willem
Reich, o da quello di Norman Brown, chi tornò alle teorie di Owen,
insomma come tutta la Controcultura anche il movimento
comunitario era proteiforme e variegato. Nonostante questo
99
Dall’Utopia all’Eterotopia
possiamo classificare e dividere la natura delle comuni in due
macro-gruppi. Una divisione che riprende in realtà la dicotomia che
abbiamo già delineato parlando delle due diverse anime del
movimento. Partendo dalle similitudini possiamo affermare che per
entrambe era centrale la volontà di trasformare i nuovi ideali
culturali in realtà socio-economica, entrambe volevano rompere con
il modo di vivere “square” (maniera in cui il movimento definiva in
maniera dispregiativa lo stile di vita proprio della classe media), con
le convenzionali regole basate sulla rispettabilità e sulla rigidità dei
costumi borghesi. Il movimento comunitario, nel suo complesso,
rifiutava le grandi organizzazioni, le grandi corporazioni, le
fabbriche, le università, i governi. Il loro intento era ristabilire i
rapporti interpersonali diretti tra i soggetti, cioè tornare a quei
legami comunitari antecedenti alla costituzione della società, con la
tipica solidarietà meccanica, una istanza che Servier definisce essere
il fine ultimo di ogni utopia59. Il “riimbozzolarsi” in una comunità,
dove sviluppare attraverso nuovi rapporti pseudo-familiari la
propria personalità era il punto cardine di questa nuova dimensione
sociale: “trasformarsi in un individuo pluridimensionale, per il quale il
divenir persona significa perfezionamento umano mediante
l’esperimento, il cambiamento, la critica, la pratica sociale.”60
Bisognerebbe notare, però, come nella comunità storica, o
idealtipica se ci è concesso chiamarla in questa maniera, per
distinguerla dal tipo di comunità di cui stiamo parlando, era proprio
la costituzione o meglio la costruzione di un’identità prettamente
personale, unica ed individuale ad essere minata, mentre questi
nuovi adepti del movimento comunitario, al contrario, vedono nella
comunità stessa l’unico modo per poterne sviluppare una, che fosse
realmente autentica e non strutturata dalla cultura “square”. La
prima macro-area del movimento comunitario si considerava il
risultato di un lavoro sociale pioneristico (product of social
59
60
Cfr. J. Servier, Storia dell’utopia, Ed. Mediterranee, Roma, 2002.
W. Hollstein, , Underground, Sansoni, Firenze, 1971, p. 167.
100
Dall’Utopia all’Eterotopia
engineering) la cui meta finale era rivoluzionare tutto il vivere
sociale, cioè l’intera società: aveva intenti politici e pseudorivoluzionari. La secondo macro-area, che potremmo definire
“bohémienne”, non aveva questa spinta rivoluzionaria, il loro modus
vivendi non aveva una dimensione esplicitamente politica. L’ala
bohémienne, o hippie, per capirci meglio, era caratterizzata più
dalla necessità e dal desiderio di un rifiuto intellettuale della
“grande società”; rifiuto che si esprimeva in una condotta di vita di
stampo edonista, basata sul largo consumo di droghe e sul vivere
alla giornata, quest’ultimo elemento più mitico e fantasioso che
altro. L’origine dell’esperienza comunitaria degli anni ’60 è
contemporanea al delinearsi della contro-cultura, non era che uno
dei modi per vivere e rendere quindi effettivi i nuovi valori. I
precursori si rintracciano nei gruppi decisi ad allontanarsi non solo
intellettualmente ma anche fisicamente dalla società. I primi hippie
iniziarono a concentrarsi in un quartiere periferico di San Francisco,
Haight-Ashbury all’inizio degli anni sessanta. Prima dell’avvento
degli hippie, Haight-Ashbury, era una zona popolare, decrepita,
abitata in prevalenza da neri, immigrati orientali e russi,
completamente tagliata fuori dalla vita politico-culturale di San
Francisco. Nei primi anni sessanta nel quartiere erano presenti
innumerevoli immobili fatiscenti, costruiti all’inizio del secolo in
stile vittoriano, enormi edifici, con affitti bassissimi, il luogo ideale,
insomma perché giovani con poche finanze si riunissero per
sostenere l’affitto dello stabile. Così nacque la prima comune urbana
della Controcultura. Per tutti gli anni ’60 moltissimi giovani,
intenzionati ad abbandonare l’american way of life si rifugiarono ad
Haight-Ashbury. Anche se gli Hippie consideravano Haight-ashbury
come una reale contromondo da opporre al sistema ufficiale: “un
avamposto dell’umanità in un paese dove i computer pianificano
l’annientamento del popolo vietnamita, e la distruzione totale, qui in
101
Dall’Utopia all’Eterotopia
America, degli impulsi effettevi dell’uomo”61 , in realtà non possiamo
concepire Haight-Ashbury come una reale eterotopia, perché
intesseva ancora fitti legami con il mondo esterno, ad esempio la
maggior parte degli abitanti doveva lavorare nel mondo “square”
per poter pagare l’affitto. Di certo nel quartiere californiano si
posero le basi per quel distacco completo che avvenne solo in
seguito all’organizzazione delle comuni agricole, comunità
autosufficienti dal punto di vista economico, che si svilupparono
solo negli anni successivi. I nuovi cardini per una reale nuova
società iniziarono a svilupparsi ad Haight Ashbury intorno al 1965,
quando alcuni gruppi concepirono ed organizzarono la Comunità
come ente che promuoveva un servizio sociale alternativo e
gratuito. I fautori di questa nuova concezione furono i Diggers,
gruppo alternativo di orientamento anarchico, nati nel 1966 guidati
da Emmet Grogan, si dedicavano all’aiuto, al servizio, e al
sostentamento della comunità hippie di San Francisco con strutture
organizzate per la distribuzione gratuita di cibo e vestiario e con un
ostello di emergenza per i viaggiatori e gli sfrattati. I Diggers
prendevano il nome dagli “zappatori” del XVII secolo, utopisti
inglesi che fondevano un vago comunismo primitivo all’ideale
cristiano, ed intendevano crearne un’intera contro-cultura
cooperativa:
Ogni comunità Bohémienne ha la sua immancabile congrega di
visionari che affermano di sapere come stanno le cose. Ma i
Diggers sono in un certo modo diversi. Rivolti alla creazione di
un’intera subcultura cooperativa, finora non sono solo vittime di
allucinazioni, lo stanno facendo davvero...[Grogan] vuole dare
inizio a fattorie digger i cui membri coltivino i propri prodotti.
Vuole distribuire gratuitamente l’acido, eliminare i rifiuti e
l’immondizia, e porre fine allo sfruttamento e al profitto. Vuole
New Left notes, 6 Novembre 1967, disponibile on-line all’indirizzo http://cid5c4f2a5596a22ddf.skydrive.live.com/browse.aspx/New%20Left%20Notes.
61
102
Dall’Utopia all’Eterotopia
una vita cooperativa per prevenire il caro-affitti inevitabile
quando Haight-Ashbury comincerà a divenire chic. 62
I Diggers furono il primo gruppo della scena controculturale a
progettare un nuovo tipo di organizzazione cooperativa del tutto
indipendente dalla società, sia dal punto di vista dei rapporti
interpersonali, sia dal punto di vista economico. Ora è giunto il
momento di comprendere come questa filosofia del rifiuto non era
per nulla nuova nell’immaginario politico e utopistico americano,
considerando che la stessa America è stata fondata su un
immaginario sociale di questo genere; in fondo i Padri Pellegrini
fuggirono dal caos e dal malcostume di un Inghilterra alle prese con
la rivoluzione industriale per rigenerare e rigenerarsi nel nuovo
mondo, poco più di un secolo dopo la stesura dell’Utopia di Moro.
Quella dei Padri pellegrini fu solo uno tra i tanti tentativi di creare
nuove società nel paese scoperto da Colombo, moltissimi furono i
tentativi di istituire comunità utopiche negli States, Oweniani,
Foureriani, Cabettiani, tutti animati dalla speranza di trovare una
terra vergine dove poter mettere in pratica le proprie nuove
filosofie di vita. Tutte in linea con quella mitologia della frontiera e
della wilderness propria e costituente della cultura americana.
Dobbiamo notare, anche, come le basi culturali della Controcultura
quali l’auto-espressione, l’olismo, il ritorno alla natura, la libertà e la
liberazione individuale, di derivazione Orientale, richiamavano in
realtà una corrente filosofica e intellettuale prettamente americana:
Il Trascendentalismo. Anche qui notiamo come la Controcultura,
nonostante i suoi costanti richiami a tradizioni culturali extranazionali, fosse invece completamente nel solco della cultura del
proprio paese. Il trascendentalismo era un movimento filosofico e
poetico sviluppatosi nel Nord America nei primi decenni
Warren Kinkle, Tripping and skipping they ran merrily after the wonderful music with
shouting and laughter, in “Oz”, n° 3 cit. in M. Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl,
Bologna, 2009, p. 82.
62
103
Dall’Utopia all’Eterotopia
dell'Ottocento, nel quale, partendo dall'affermazione di
trascendentale kantiano come unica realtà, si esprimeva una
reazione al razionalismo e un'esaltazione dell'individuo nei rapporti
con la natura e la società. Il trascendentalismo aveva più di un punto
di contatto con la filosofia Romantica, ma soprattutto a detta di uno
dei suoi fondatori Ralph Waldo Emerson con l’idealismo tedesco:
Ciò che chiamano trascendentalismo non è che l'idealismo:
l'idealismo quale appare oggi, nel 1842....E' ben noto al mio
pubblico che l'idealismo odierno ha tratto il nome di
«trascendentale» dall'uso del termine fattone da Emanuele Kant
di Koenigsberg, il quale replicava alla filosofia scettica di Locke,
secondo la quale non c'era nulla nell'intelletto che non fosse
prima nell'esperienza dei sensi, dimostrando che c'era una classe
assai importante di idee o di forme imperative che non derivano
in nessun modo dall'esperienza, ma attraverso le quali
l'esperienza veniva acquisita; che queste erano intuizioni dello
spirito; ed egli le chiamò forme trascendentali. 63
Uno dei cardini del Trascendentalismo americano era la volontà di
creare una nuova coscienza in grado di costituire una nuova società.
Una società che viva in simbiosi con la natura. Valori espressi in
modo chiaro in alcuni fondamentali libri quali Natura64 di Emerson,
Walden e La disobbedienza civile65 di Henry David Thoreau, l’altro
leader indiscusso del movimento. I libri di Thoreau, soprattutto,
hanno avuto un’influenza fondamentale per la tradizione culturale
americana; nel primo descrive i due anni trascorsi a vivere in
solitudine sulle sponde del lago Walden, solo a contatto con la
natura. Nel secondo invece sostiene la legittimità di opporsi e
R.W. Emerson, The transcendentalist, 1842, disponibile on-line all’indirizzo
www.fullposter.com/snippets.php?snippet=169&start=200&ordertype=0&cat=26.
64 R. W. Emerson, Natura, 1836, disponibile on-line all’indirizzo
http://www.readme.it/libri/Filosofia/Natura.shtml.
65 H.D. Thoreau, Walden ovvero vita nei boschi, Rizzoli, Milano, 1997 e La disobbedienza
civile, La vita felice, Milano, 2008.
63
104
Dall’Utopia all’Eterotopia
disobbedire ad un governo ingiusto che avvalla la schiavitù e
l’ingiustizia sociale. Un altro concetto chiave del trascendentalismo
è quello di Over-soul espresso da Emerson in un testo omonimo:
un’unità suprema che trascende il molteplice della realtà umana,
che il filosofo spiega così:
That Unity, that OVER-SOUL, within every man's particular being
is contained and made with all other; that common heart, of
which all sincere conversation is the worship, to which all right
action is submission; that over-powering Reality which confutes
our tricks and talents, and constrains everyone to pass for what he
is, and to speak from his character; and not from his tongue, and
which evermore tends to pass into our thought and hand, and
becomes wisdom, and virtue, and power and the whole; and wise
silence, the universal beauty, to which every part and particle is
equally related; the eternal One.66
Un “Super Anima” nella quale è possibile risolvere l’inconciliabile
contraddizione tra la soggettività individuale e il Tutto; un concetto
molto simile all’Uno neoplatonico, alla Noosfera di Teilhard
deChardin67 e a quella che Pierre Levy definirà Intelligenza
collettiva68, più di un secolo dopo. Come abbiamo visto i temi sono
esattamente gli stessi della Controcultura, un’esaltazione
dell’identità personale, un nuovo e più profondo contatto con la
natura e un sentimento di ribellione contro la società, la voglia di
immergersi in quella Oversoul collettiva, senza tuttavia perdere la
propria soggettività, perfino il riferimento alle discipline orientali.
In più il Trascendentalismo americano non era solo una filosofia
teorica, ma aveva dato vita ad una comune la famosa Brooke Farm,
in cui per un breve periodo soggiornò anche Nathaniel Hawthorne.
R. W. Emerson Over-soul, disponibile on-line all’indirizzo
http://www.rwe.org/works/Essays-1st_Series_09_The_Over-Soul.htm.
67 Cfr. P. Teilhard de Chardin , Il fenomeno umano, Queriniana, Brescia, 2001.
68 Cfr. P. Levy, L'intelligenza collettiva: per un'antropologia del cyberspazio, Feltrinelli,
Milano, 2002.
66
105
Dall’Utopia all’Eterotopia
Ancora una volta quindi la Controcultura è pervasa dalla cultura che
voleva abbattere più di quanto non sapesse o volesse ammettere:
questa nuova pastorale americana è diretta discendente della
stagione trascendentalista. Dopo questa doverosa precisazione
teoretica, che non potevamo omettere, torniamo a parlare dei
Diggers perché furono proprio loro a delineare i principi della
nuova Comune Hippie, che gli stessi creatori definirono fondata
sull’amore, e che si rivelò in seguito d’ispirazione per tutte le
comuni:
Punti sull’Amore nella Comune fondata sull’Amore, in Piena
fioritura. 1) C’è amore in tutti per tutti gli esseri senzienti. 2) In
tutti c’è l’apertura e la nudità dell’amore e della libertà completa
da ogni nevrosi di origine square. 3) Tutti sono arrivati a quello
stato illuminato di coscienza espansa conosciuto dai cinesi come
yung-huo. Uno stato che si può definire come libertà da ogni
attaccamento possessivo o morboso alle cose. 4) in tutti c’è
sensibile e appassionata comprensione per gli errori e le
definizioni altrui.
Punti sulla Libertà e la Partecipazione nella Comune fondata
sull’Amore, in Piena fioritura. 1) La comune fondata sull’amore è
un’organizzazione anarchica priva di complicazioni di tipo
autoritario. Ciò vuol dire che non c’è posto per impostori
megalomani come capi e padroni e ciarlatani che si fingono guru.
2) Nei limite possibile, ogni lavoro è distribuito fra tutti. Non c’è
nessuna truffa come una permanete “divisione del lavoro”, che
porta inevitabilmente alla divisione della gente in classi diverse.
3) Tutte le cognizioni e le illuminazioni sono patrimonio comune,
disponibile e gratis per tutti. Ciò vuol dire che i Diggers possono
trasformarsi (e si trasformeranno ) in ragazzi e ragazze versatili
o addirittura universali con le loro splendide potenzialità
realizzate al massimo, e diventeranno così i progenitori degli
esseri completamente consapevoli e illuminati della prossima Età
dell’Acquario. E ogni Digger contribuirà alla comune fondata
sull’amore in base alle proprie possibilità. 4) Tutti i beni materiali
della comune sono distribuiti ai Digger in base alle necessità di
106
Dall’Utopia all’Eterotopia
ciascuno, o, quando i beni sono abbondanti, resi disponibili e
gratis per chiunque. 5) ogni lavoro pesante verrà automatizzato
in modo che tutti abbiano abbastanza tempo libero per dedicarsi
alle proprie attività particolari. 6) Ognuno è libero di fare ciò che
vuole a condizione che ciò non significhi la castrazione della
libertà altrui. 7) Per assicurare un’effettiva libertà personale,
nessuno è trattato o considerato come proprietà altrui – ciò si
applica ai bambini quanto agli adulti. Nessuno ha “diritti” sugli
altri e i genitori non hanno “diritti” sui figli. 8) La libertà, il
benessere, l’educazione l’illuminazione dei bambini, sono
responsabilità di tutta la comune. 9) Per assicurare un’effettiva
libertà sessuale, il rapporto sessuale all’interno di una coppia è
considerato come un accordo reciproco liberamente stretto, che
potrà essere di breve o lunga durata a seconda delle esigenze delle
parti. Può essere liberamente rotto in qualunque momento
dall’una o dall’altra parte ed entrambi possono prendere accordi
con nuove parti – un accordo corrente che automaticamente
cancella il precedente. L’accordo sessuale è considerato una
faccenda esclusivamente concernete la coppia in questione, e non
va soggetto ad interferenze non richieste d’una terza parte. Tutte
le questioni sessuali vengono discusse liberamente e apertamente
illustrate. 10) Non ci sono né restrizioni come leggi, clausole e
regolamenti, né presunzioni come rispettabilità e moralità
farisaiche e atteggiamenti tipo “sono meglio di te”. Il modo di vita
dei Diggers è sempre materia di amore e comprensione. Tutti i
punti suddetti, se realizzati in modo completo, porteranno la
pratica della libertà e della partecipazione ad un nuovo grado di
elevazione nella società umana. 69
La comune dunque nasce dalla volontà di abbandonare la società
tradizionale, rinnovandola nei suoi apparati costituenti, come la
famiglia, l’economia e l’educazione dei bambini, elementi tipici di
ogni buona utopia. Il desiderio era quello di creare una nuova
società dove fosse possibile coniugare la liberazione individuale con
A. Lowsiewkee, The Digger thing is your thing...if you are really…turn on !, cit. in M.Maffi,
La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009, pp. 83-84.
69
107
Dall’Utopia all’Eterotopia
un nuovo e più forte sentimento comunitario. Fondamentale in
questo senso era la funzione della comune nell’allevamento dei figli,
era la comunità nella sua interezza ad avere la responsabilità
dell’educazione dei bambini e non solo i genitori. L’ampliamento del
mondo infantile attraverso il contatto con molti altri coetanei e
adulti avrebbe, secondo i teorici della vita comunitaria, evitato ai
bambini l’istaurarsi di quelle nevrosi tipiche della famiglia borghese.
Naturalmente era diversa anche la tipologia della famiglia, in pratica
si trattava di una famiglia allargata in cui la monogamia non era
l’unica struttura delle relazioni sentimentali prevista, anzi l’amore
libero e lo scambio dei partner non era solo una possibilità, ma la
normalità, esemplare fu l’esperimento di Harrad West a Berkley, il
famoso “matrimonio a sei.” L’idea di base era che tutti i membri
della comune facessero parte di una relazione matrimoniale
collettiva, cioè tutti i membri adulti erano considerati sposati a tutti
i membri del sesso opposto.70 Questo ci mostra come la base di una
nuova comunità avesse principalmente luogo attraverso
l’instaurarsi di relazioni sentimentali di natura diversa da quella
della società “square”:
Non tutti sono naturalmente monogami. In effetti la “monogamia
a puntate” propria della società americana, e la crescente
approvazione e frequenza del divorzio in questo paese – per non
dire dell’incidenza dell’adulterio, dell’indifferenza, dell’infelicità, e
della rottura di rapporti all’interno di molti tra i matrimoni che
ancora sopravvivono – mostrano in ultima analisi che il legame
esclusivo e perenne è tutt’altro che soddisfacente. All’interno della
comune, al contrario, non si dà il caso che due adulti si vengano a
trovare isolati o ossessivamente preoccupati l’un dell’altro. La
tendenza potrebbe dunque essere a ridurre la tensione emotiva di
una compagnia costante, condividendo il proprio tempo e i propri
affetti con numerose altre persone. E non necessario che queste
varie altre “associazioni”siano di tipo sessuale; nello stesso tempo,
70
Il numero dei partecipanti era naturalmente di sei uomini e sei donne.
108
Dall’Utopia all’Eterotopia
però, non lo siano... Inoltre, mentre in tali situazioni la famiglia
finisce spesso per sfasciarsi, il rapporto comunitario potrebbe
benissimo sopravvivere, poiché non è necessario abbandonare
fisicamente il primo amore se nasce affetto per qualcun altro. A
volte, è naturale, il rapporto si spezzerà. E’ una cosa che succede
nella vita, all’interno o all’esterno del matrimonio formale, e
dobbiamo guardare la realtà in faccia e organizzarci per ridurre
al minimo gli effetti di tale caso...71
Il movimento comunitario s’impernia dunque su questo nuovo
concetto di solidarietà e di amore, su questa nuova visione dei
rapporti affettivi e sessuali, su questa nuova concezione
dell’educazione e dei rapporti interpersonali, ma come visto è anche
una nuova dimensione economica e politica: una democrazia diretta
che si occupava di ogni aspetto della comune.
Le decisioni riguardanti la tribù sono prese collettivamente, le
risorse sono messe in comune, il denaro è guadagnato nel mondo
square e usato per finanziare ogni attività. Tutto ciò che viene
creato dalla tribù è gratis. Non ci sono altre strutture familiari o
individuali al suo interno. Ogni membro appartiene a se stesso e in
piena libertà ogni membro appartiene agli altri; la tribù stessa
appartiene ai suoi membri e non viceversa. Tutti i problemi
personali sono patrimonio comune e vengono risolti attraverso
l’azione comune.72
Dal nostro punto di vista queste nuove organizzazioni sociali
rappresentano il primo esempio di eterotopia, poiché nonostante la
tradizione secolare di movimenti comunitari negli Stati Uniti, queste
erano nate come rifiuto della società dominante, non avevano
intenti rivoluzionari, erano la pura espressione della mentalità
M. Hill, Patterns of Living & Loving, in Communes – Journal of the Commune Movement,
giugno 1970, cit. in M. Maffi, La Cultura Underground, Odoya srl, Bologna, 2009, p. 87.
72 Directory of Communes, n°3, agosto, 1970, p. 47 cit. in W. Hollstein, Underground.
Sociologia della contestazione giovanile. Sansoni, Firenze, 1971, p. 168.
71
109
Dall’Utopia all’Eterotopia
hippie, riassumibile nel famoso aforisma: “Do your own thing.” Al
contrario quasi ogni movimenti comunitario precedente, aveva
sempre covato un sentimento rivoluzionario73, e si era ritenuto
l’avanguardia di una nuova realtà sociale. Questa dimensione era
presente anche nel movimento comunitario degli anni sessanta,
anche se con una rilevanza minore, è doveroso una loro analisi, in
primo luogo le comuni di questo tipo si prefiggevano tre scopi: a)
rifiutare al sistema qualsiasi prestazione produttiva e di consumo,
contribuendo così al suo fallimento. b) sperimentare altre forme di
vita comunitaria. c) creare una nuova società decentralizzata. A
differenza delle comunità hippie, le uniche vere eterotopie di questo
periodo, questo tipo di organizzazioni avevano una natura
maggiormente politicizzata, interpretavano la comunità non come
spazio liberato e antagonista contemporaneo all’ordine sociale
dominante, ordine di cui però non si preoccupano essendo riusciti
ad uscirne, come le comuni hippie, bensì come “avamposti
rivoluzionari” da cui progettare e organizzare “un attacco” al
sistema, cioè luoghi sicuri dove progettare la “Rivoluzione” che in un
futuro inevitabilmente sarebbe arrivata! Elemento che mostra
ancora quella discendenza classica di una certa tradizione radicale:
All’inizio vedevamo la comune solo come un luogo in cui essere
felici e sereni gli uni con gli altri. ora ci stiamo accorgendo delle
implicazioni politiche della comune. Nella nostra, vogliamo
dunque trovare la sintesi tra tendenze introverse (felicità
all’interno) ed estroverse (azione politica all’esterno) tra
atteggiamenti autoritari ed antiautoritari, tra teoria e pratica,
tra inibizione dell’impulso e soddisfazione dell’impulso, tra lavoro
e ricreazione. Se vogliamo cambiare il mondo, dobbiamo lavorare
su due piano: dobbiamo cambiare noi stessi e dobbiamo cambiare
l’ambiente politico-economico. La comune è per noi l’ambiente
73
Cfr. R. Creagh, Laboratori d’Utopia, Eleuthera, Milano, 1987, spt. pp. 202-205.
110
Dall’Utopia all’Eterotopia
ottimale in cui scoprire il nostro vero io e preparare azioni
esterne.74
Qui è ancora presente una prospettiva temporale che è invece
scomparsa nella concezione hippie della comune, questo non deve
stupire, come abbiamo descritto nel corso di questo lungo capitolo
la Controcultura era percorsa da due correnti distinte anche se
complementari, una legata ancora alla tradizione radicale classica,
una visione “politica”, se vogliamo definirla così, mentre l’altra, la
corrente
hippie,
introduceva
una
concezione
nuova
dell’antagonismo, una concezione “presentista”, incentrata sull’hic
et nunc, più esistenzialista se vogliamo, desiderosa di creare e
“abitare” un nuovo mondo, un “contromondo”, senza preoccuparsi
di cambiare o abbattere quello dominante. Per far questo adottava
varie tecniche, dalla uso di droghe psichedeliche fino alla più
“fisica”, cioè la creazione di una società hippie attraverso
l’istituzione delle comuni. Come vedremo nel prossimo capitolo fu
l’anima hippie ad avere maggior successo, influenzando
l’immaginazione utopica delle culture antagoniste che la seguirono,
come il Cyberpunk, e in generale tutta la Cyberculture. Questa sarà
una vera e propria “prosecuzione con altri mezzi” della
Controcultura Hippie, una “filiazione” che analizzeremo nei dettagli,
e in cui ritroveremo dei nomi a noi già noti, come quello di Leary e
di Ken Kesey, perchè portò il sogno di costruire una nuova società
antagoniste e con-presenti alla società dominante letteralmente su
un’altra dimensione, quella del cyberspazio e della realtà virtuale.
Per quanto riguarda il filone della New Left, questo si esaurì senza
portare a termine il suo sogno, i gruppi si sciolsero senza generare
un nuovo movimento o un soggetto radicale riconosciuto e stabile.
Siamo giunti alla fine di questo viaggio “psichedelico” nella
Controcultura americana degli sessanta ora è giunto il momento di
iniziarne un altro, quello nel Cyberspazio, elemento che sottolinea
74
Ivi p. 168.
111
Dall’Utopia all’Eterotopia
ancora una volta come l’utopia sia non solo legata ai mezzi di
comunicazione, ma da essi, sembra, completamente influenzata,
abbiamo visto l’importanza del libro sulla struttura concettuale e
formale delle prime utopie, in questo capitolo abbiamo invece
evidenziato l’importanza della televisione e delle droghe psicotrope
all’interno dell’immaginario utopico della controcultura, questo
perché entrambe introducono il soggetto in un nuovo spazio,
immersivo e del tutto polisensoriale, che favorisce l’emergere
dell’eterotopia, poiché ne esaltano la sua natura spaziale e
l’importanza del presente a discapito di un investimento emotivo
sul futuro, l’elemento portante di tutta l’utopia del progresso, che
aveva dominato l’immaginario collettivo fino a quel momento.
112
Dall’Utopia all’Eterotopia
Capitolo 3
Dalla Controcultura alla Cybercultura
Cyberspazio:
un'allucinazione
vissuta
consensualmente ogni giorno da miliardi di
operatori legali... Linee di luce allineate nel nonspazio della mente, ammassi e costellazioni di
dati. Come le luci di una città, che si
allontanano.
William Gibson
Il nostro viaggio attraverso l’immaginario utopico della
Controcultura si è concluso con l’analisi del contro-mondo hippie
rappresentato dalla Comune, esperimento psico-sociale alternativo
che si è esaurito per le troppe contraddizioni interne nell’arco di
pochi anni. Molti, però, i semi che germogliarono da quella
straordinaria e “confusa” esperienza; crebbero e si modificarono nei
decenni successivi. L’area “psichedelica” ebbe il maggior successo e
fu da esempio per tutte le successive ondate controculturali, mentre
l’ala politicizzata della New Left si esaurì velocemente in un clima
reazionario, che portò Reagan alla Casa Bianca e la Thatcher al
numero 10 di Downing Street.
L’elemento fondamentale che abbiamo tentato di sottolineare è
stata l’influenza dei Mass Media sulla generazione dei “Figli dei
fiori”, un’influenza decisiva per la crescita di una nuova sensibilità
spinta alla ricerca comunitaria e per un nuovo immaginario volto
all’espansione della propria coscienza. Questa nuova concezione del
sé, come abbiamo visto, era anch’essa figlia di una nuova
“tecnologia”, l’LSD, che permetteva l’ingresso a quella che abbiamo
definito un’eterotopia psichedelica. La cultura psichedelica prosperò
come cultura della trasformazione interiore, ma ancor più si affermò
113
Dall’Utopia all’Eterotopia
come cultura del viaggio, del trip, dell’esplorazione di lontananze
meravigliose che si dispiegavano all’interno del proprio inconscio.
Una generazione di giovani hippie, attraverso gli insegnamenti dei
guru dell’acido, quali Timothy Leary e Ken Kesey, erano giunti alla
conclusione che era possibile cambiare la società alterando e
trasformando la propria coscienza, proprio perché l’esplorazione
mentale permetteva l’ingresso in quei “mondi possibili” o “possibili
laterali” che l’utopia presuppone. Qui viene alla luce quella che dalla
Controcultura hippie in poi sarà una delle caratteristiche peculiari
di ogni movimento alternativo, l’unione tra l’aspirazioni ad una
trasformazione della coscienza e l’utopia, intesa come visione e
desiderio di nuovi mondi; illuminanti le parole di Aldous Huxley al
proposito:
L’uomo è composto di ciò che potrei chiamare un Vecchio Mondo
di coscienza personale e, al di là di un mare di divisione, di una
serie di Nuovi Mondi: le non troppo distanti Virginie e Caroline del
subcosciente personale e dell’anima vegetativa; il Far West
dell’inconscio collettivo, con la sua flora di simboli, le sue tribù di
archetipi aborigeni; e al di là di un altro, più vasto oceano, agli
antipodi della coscienza quotidiana, il mondo dell’Esperienza
Visionaria.1
Esperienza visionaria che porta all’esplorazione dei “nuovi mondi
possibili”, viaggio privilegiato e introdotto in quegli stessi anni dal
trionfo planetario del medium televisivo, gli anni del turismo
interiore psichedelico, che erano poi gli stessi anni del turismo
televisivo, come ci chiarisce magnificamente una vecchissima
pubblicità dei televisori Dumont in cui si mostrava l’Alice di Carroll
accovacciata su un divano, con gli occhi fissi sulla nuova meraviglia,
accompagnata da una illuminante iscrizione “Alice in the
Wonderland” e poco sotto “Throught the looking glass”: “In a year she
will see more of what goes on in the world than the most privileged
and traveled members of an elder generation could have seen in a
busy life”. I nuovi mondi lisergici e mediali, soprattutto televisivi - e
1
A. Huxley, Le porte della percezione, Mondadori, Milano, 1997, pp. 98-99.
114
Dall’Utopia all’Eterotopia
vedremo come questi poi si moltiplicheranno - hanno portato ad un
nuovo approccio alla realtà tipico di questa nuova generazione in
cui la fantasia, l’immaginazione, la realtà, la mistica, la politica si
mescolano senza che tra esse ci sia una gerarchia valoriale: una
sostanziale equivalenza, la scambievolezza di tutte le realtà. La
realtà reale è solo una tra le tante, e sulle altre non può rivendicare
alcuna supremazia, si pensi allo slogan New Age che così intona: You
create your own reality, che avrà un diffuso successo in una certa
frangia della cultura postmoderna, anche accademica.
Ora voi vi chiederete cosa c’entra tutto questo con lo studio che qui
si dovrebbe affrontare sull’evoluzione dell’immaginario utopico
verso la sua dimensione eterotopica; ebbene, questo processo di
analisi non può progredire senza immergersi in storie e idee di
varia provenienza; passando per la cultura New Age e l’evoluzione
dei New media arriverà alla cybercultura e quelle espressioni
eterotopiche di questa che per noi sono rappresentate dal
cyberspazio e dalla realtà virtuale. Un processo che ci porta dal
misticismo New Age alla fantascienza, al misticismo tecnologico fino
alla sua variante utopica. Tutto questo nasce dalla cultura
psichedelica della Controcultura, con tutto ciò che ne deriva, in
termini di contraddizioni e confuse genealogie. Senza la rivoluzione
psichedelica non ci sarebbe stata la rivoluzione informatica, questo
è il parere di Timothy Leary:
Si sa bene che buona parte dell’impulso creativo nell’industria del
software, e, a dire il vero anche molto di quello nell’hardware,
soprattutto la Apple, deriva direttamente dal movimento per la
‘coscienza’ degli anni sessanta. [Il cofondatore della Apple] Steve
Jobs andò in India, si fece un bel po’ di acido, studiò il buddismo,
tornò indietro e disse che Edison aveva avuto più influenza sulla
razza umana di quanta ne avesse avuta Buddha. E [il fondatore
della Microsoft] Bill Gates era famoso ad Harvard per le sue
propensioni psichedeliche. Mi sembra perfettamente sensato che,
115
Dall’Utopia all’Eterotopia
se si attiva il cervello con droghe psichedeliche, l’unico modo per
descrivere questa esperienza sia quello elettronico. 2
Quello che in questo capitolo affronteremo è quella particolare
sinergia che collega le droghe psichedeliche, le culture giovanili, le
tecnologie elettroniche, allo scopo di comprendere al meglio la
Cybercultura e soprattutto la nuova dimensione virtuale
dell’eterotopia. Lo faremo studiando nel dettaglio la discendenza
della Cybercultura dalla Controcultura, per analizzarne al meglio le
ereditarietà culturali, per analizzare più approfonditamente come
nell’immaginario utopico si sia fatta largo quella visione eterotopica
del “mondo alternativo virtuale” di cui il cyberspazio è l’espressione
più importante. Senza l’esplosione delle realtà lisergiche e mediali
questo sconvolgimento nell’immaginario utopico non sarebbe
potuto avvenire, ma per studiarlo dovremmo affrontare temi quali
Cyberdelia, Cybergnosis, Cyberfaith, Virtual Gnosis, Techgnosis,
Techopaganism,
Digital
Paganism,
Technotrascendalism,
Technotrance, Eletroshamanism, Technopaganism, Technomysticism,
Infomysticism, Digital Utopianism, Techno-utopianism, tutte etichette
che sottolineano la valenza escatologica, utopica e trascendentale
che la prima ondata della cybercultura conferiva alle nuove
tecnologie mediali, interpretate come tecnologie adatte alla
creazione di mondi paralleli e alternativi. Per questo non bisogna
stupirsi se i più entusiasti sostenitori delle tecnologie della realtà
virtuale furono esattamente i guru della Controcultura. Il chitarrista
del gruppo psichedelico Grateful Death, Jerry Garcia, subito dopo
aver sperimentato il casco virtuale si affrettò a dichiarare: “Hanno
reso illegale l’LSD. Mi chiedo cosa faranno con questa roba.”3 John
Perry Barlow, che per i Grateful Death scriveva i testi, trasse dalla
realtà virtuale un’impressione del tutto simile: “The closest analog to
Virtual Reality in my experience is psichedelic, and, in fact, cyberspace
T. Leary, cit. in Dery, M., Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 34.
L’episodio è citato da J.P. Barlow, Being in Nothingness. Virtual Reality and the Pioneers of
Cyberspace, on-line all’indirizzo
www.eff.org/pub/Publications/John_Perry_Barlow/HTML/being_in_nothingness.html.
2
3
116
Dall’Utopia all’Eterotopia
is already crawling with delighted acid heads”4. Timothy Leary
confermò quell’impressione, e nel gennaio del 1990 il Wall Street
Journal battezzò la nuova tecnologia “electronic LSD ”. La parentela
tra cultura psichedelica e cybercultura è ormai stata delineata e
sancita, nel corso di questo capitolo la approfondiremo parlando di
quell’espressione prettamente lisergica di una frangia della
cybercultura che Mark Dery, nel sua ormai classica opera sulla
Cybercultura Velocità di fuga, definisce Cyberdelia.5 Non appena il
cyberspazio fece la sua comparsa nell’arena culturale dei nuovi
media, attraverso la visione utopico-distopica che ne diede la
fantascienza cyberpunk soprattutto con William Gibson e il suo
celebre romanzo Neuromancer, suscitò subito un grande interesse e
un’immensa letteratura si sviluppò intorno a questo argomento,
nonostante le tecnologie della realtà virtuale non fossero ancora (e
non lo sono neanche oggi) in grado di dar vita all’immagine che il
cyberpunk e la cybercultura avevano prospettato. Nonostante
questo, il cyberspazio scosse l’immaginario della cybercultura, che
immediatamente ne fece il proprio marchio identificativo, rivestito
di una valenza di stampo religioso e trascendentalista, tipico della
cultura psichedelica: era il nuovo Paradiso. Questa visione ne
prospettò un’altra, di tipo utopistico, nella quale il cyberspazio
diveniva il nuovo territorio vergine in cui e attraverso cui dar vita ad
una società migliore e perfetta. Erik Davis associa l’immaginario del
territorio vergine al mito nordamericano della frontiera: “Quando la
frontiera geografica si chiuse sul finire del diciannovesimo secolo,
l’America fu costretta a sublimare la sua ossessione per la
wildrness”.6 Prima il territorio vergine trovò un sostituto nella
colonizzazione dello spazio che ebbe il suo culmine nello sbarco
sulla luna, dopo ci fu il cyberspazio. In realtà le due visioni in
massima parte confluiranno e si ispireranno a vicenda. Non è un
caso che John Perry Barlow, animatore, come visto, della stagione
Ibidem.
Cfr. M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, in particolar modo il primo
capitolo: Turn on, Boot up, Jack in: La Cyberdelia, pp. 27-86.
6 E. Davis, Techgnosis. miti, magia e misticismo nell’era dell’informazione, Ipermedium
libri, Napoli, 2001, pp. 109-110.
4
5
117
Dall’Utopia all’Eterotopia
psichedelica, abbia abbinato l’impeto religioso alla liberazione del
corpo e quello utopistico della nuova frontiera: suo è uno dei
manifesti più noti dell’intero web, diffuso nel 1996, A Declaration of
the Indipendence of Cyberspace.7 Questo intreccio di
trascendentalismo e utopismo, legato al mito della frontiera sembra
avvallare la nostra ipotesi sulla spazializzazione dell’immaginario
utopico, una spazializzazione che, come vorremmo dimostrare e
come abbiamo accennato attraverso una citazione di Alberto
Abruzzese, è stata indotta e sicuramente rafforzata dalla
proliferazione di spazi paralleli creati dalle nuove tecnologie
mediali8, come sostiene il filosofo tedesco Bernhard Waldenfels, nel
suo saggio Experimente mit der Wirklicheit:
La via verso la virtualizzazione della realtà si schiude solo quando
ci spingiamo più in là di un passo e non prendiamo in
considerazione solo possibilità all’interno del nostro mondo, ma
piuttosto mondi possibili e spazi possibili nei quali facciamo
ingresso come in un altro mondo. […] Ci interessa qui il problema
già menzionato di una realizzazione tecnica delle finzioni. 9
Le tecnologie della realtà virtuale e del cyberspazio rappresentano
l’espressione massima di questa potenzialità, in cui la capacità di
creare finzioni e di abitarvi, che non ha precedenti nella storia
dell’umanità, ispirerà al suo sorgere fantasie millenariste e
vagheggiamenti sulle Città ideali e Celesti come dimostrano molto
bene due importanti studi (il primo più del secondo) su questa
visione del Cyberspazio e sulla Realtà virtuale: Cyberspace. Primi
passi nella realtà virtuale, a cura di Michael Benedikt e Pearly gates
of Cyberberspace di Margharet Wertheim. In quest’ultimo l’autrice fa
riferimento, già a partire dal titolo, alle porte di perle della Nuova
J.P. Barlow, A Declaration of the Indipendence of Cyberspace, disponibile on-line
all’indirizzo http://projects.eff.org/~barlow/Declaration-Final.html.
8 Vedi cap. 2.2.
9 S. Krämer (a cura di), Medien, Computer, Realität. Wirklichkeitsvorstellungen und Neue
Medien, Frankfurt, Sunrkamp, 1998, p. 238, cit. in G.Vitiello, Dal Lsd alla realtà virtuale.
L’esperienza mistica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Lavieri, Caserta, 2007, p.
212.
7
118
Dall’Utopia all’Eterotopia
Gerusalemme, nella descrizione che di questa ci fa Giovanni nella sua
Apocalisse, e lungo il suo testo analizzerà le visioni e gli autori che
delineano il cyberspazio come una variante e sua realizzazione
come una di una sorta di surrogato di Paradiso:
Cyberspace is not a religious construct per se, but as I argue in
this book, one way of understanding this new digital domain is as
an attempt to construct a technological substitute for the
Christian space of Heaven. Where early Christians conceived of
Heaven as a realm in which their souls would be freed from the
failings of flash, so today’s champions of cyberspace promote their
realm as a place where we will be liberated from what cybernetic
pioneer Marvin Minsky has derisively called ‘the bloody mess of
organic matter’. In short, like Heaven, cyberspace is being billed as
a disembodied paradise for soul. 10
Queste parole introducono anche un altro argomento di cui ci
occuperemo in questo capitolo, la visione pseudo-gnostica che
alcuni hanno dei new media, in particolare del cyberspazio e della
realtà virtuale, visti come mezzi per trascendere la condizione
umana e donare nuova e infinita vita all’anima e alla mente
dell’uomo. Questo, però, è un tema scottante su cui torneremo in
seguito. Tornando all’argomento che stavamo trattando, dobbiamo
sottolineare come l’interpretazione del cyberspazio di Margareth
Wertheim sia molto simile a quella che Michael Benedikt abbozza
nell’introduzione del testo da lui curato: “La spinta verso la città
paradisiaca persiste. Dobbiamo assecondare questa spinta; in verità
potrebbe fiorire… nel cyberspazio”. Il cyberspazio è il dominio
naturale per la realizzazione della Nuova Gerusalemme, poiché
questa “potrebbe esistere solo come realtà virtuale ovvero, in altre
parole, solo ‘nell’immaginazione.’ The image of The Heavenly City, in
fact, is… a religious vision of cyberspace.”11 Benedikt, oltre a
M. Wertheim, Pearly gates of Cyberberspace: a history of space from Dante to the
internet, Norton & Company, New York, 2000, pp. 18-19.
11 M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio,
1993, p. 16-18. L’ultima frase è in lingua originale poiché la versione italiana non la
10
119
Dall’Utopia all’Eterotopia
sottolineare ancora una volta come il mito della Città Celeste sia
ancora largamente diffuso nella cultura occidentale anche nei
settori del Hi-Tech, mette in luce in modo impeccabile la
caratteristica che rende il cyberspazio così adatto alle speculazioni
religiose, mistiche e trascendentali: il suo potere poietico, quella
capacità di rendere reale l’immaginazione. Quello che unisce
trasversalmente e indissolubilmente il cyberspazio, le tecnologie
mediali, la religione, la mistica e l’utopia non è altro che il Desiderio,
come ci illustrano mirabilmente queste parole del filosofo Norbert
Boltz:
Dal panorama al cyberspace, i viaggi la scoperta e l’avventura si
trasformano in una allucinazione tecnicamente implementata.
[…] Oetterman ha parlato in questo contesto di “spazializzazione
(Verräumlich) della rappresentazione del paradiso”, si immagina
la felicità non più nel futuro, ma al di là dell’orizzonte, che diviene
così la linea di demarcazione del desiderio (Sehnsucht). 12
Anche Alberto Abruzzese facendo sua e convenendo con
l’affermazione di David Noble per cui “l’impresa tecnologica è allo
stesso tempo uno sforzo essenzialmente religioso” indica nel
desiderio la chiave di volta per comprenderne questa inestricabile e
misteriosa unione:
Essa [la tecnologia] rivela l’esito mondano di una millenaria
tradizione occidentale ispirata all’attesa religiosa – dunque
ricompositiva e salvifica – di una redenzione dalla ‘pesantezza’
del mondo, dai ‘vincoli’ della carne, dal ‘dolore’ della morte. Il
sovrannaturale si esprime qui come desiderio estremo di
manipolare la natura sino al punto di poterla fare scomparire,
riporta, comunque si riferisce all’edizione Cyberspace - First Steps, Massachusetts
Institute of Technology, 1991, p.17.
12 N. Bolz, Am Ende de Gutenberg Galaxis: die neuen Kommunikationsverhältisse, München,
Wilheim Fink Verlang, 1993 cit. in G. Vitiello, Dal Lsd alla realtà virtuale. L’esperienza
mistica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Lavieri, Caserta, 2007, p. 213.
120
Dall’Utopia all’Eterotopia
farla essere nulla al confronto di ciò che anima la sua negazione.
È in questo risvolto manipolatorio, in questa artificializzazione
che
le pratiche simboliche della religione e quelle
socioeconomiche della tecnica trovano il loro più profondo
contatto e la loro comune radice: il desiderio.13
La Tecnologia e il religioso si intrecciano e si influenzano quando
sembrava giunto il tempo del loro completo divorzio saranno la
base della “visione eterotopica” del cyberspazio, una nuova
concezione del Paradiso Terrestre che non è più un mondo perduto
come per i miti dell’Età dell’Oro, e nemmeno un mondo che ci
attende alla fine dei tempi: piuttosto un mondo parallelo, che c’è e
che non c’è, che è permanently ephemeral. Come avrete notato,
dovendo parlare del cyberspazio come di un’eterotopia virtuale,
dovremmo studiare l’immaginario utopico ad esso sotteso, quindi
tralasceremo in parte la sua natura tecnologica; quello che ci
interesserà saranno le storie che ci raccontiamo a proposito di
questa tecnologia, e delle ideologie nascoste in esse. Per questo
risulterà essenziale far riferimento anche alla letteratura
fantascientifica, in particolar modo al filone Cyberpunk, che del
cyberspazio e della cybercultura fu il vero fondatore, soprattutto in
termini di delineamento dell’immaginario e di identità.
Prima di iniziare il nostro viaggio attraverso la cybercultura,
dobbiamo illustrare altre espressioni che dal nostro punto di vista
rientrano e confermano la trasformazione dell’utopia in eterotopia;
stiamo parlando delle già citate T.A.Z. (Temporary Autonomous
Zone), quegli spazi eterotopici temporanei che si dissolvono prima
che l’ordine costituito possa intaccarli; dello stessa natura sono i
Rave, le famigerate feste che possono durare un’intera notte e ancor
di più, in cui si balla senza tregua per ore ed ore al ritmo della
musica tecno, con l’ausilio di sostanze psicotrope, in particolar
modo la famigerata Ecstasy o Mdma. Ebbene, queste le potremmo
considerare la variante reale dell’eterotopia virtuale del cyberspazio.
Con questo, infatti, intrattengono decisive e profonde similitudini: in
A. Abruzzese, Introduzione a , E. Davis, Techgnosis. Miti, magia e misticismo nell’era
dell’informazione, Ipermedium libri, Napoli, 2001, p. 7.
13
121
Dall’Utopia all’Eterotopia
primis, a livello filogenetico o genealogico, la propria discendenza
dalla Contracultura psichedelica degli anni sessanta, e, a livello
ontologico, l’intrinseca propensione e il desiderio di creare mondi
paralleli e utopisti, più prosaicamente di sicuro il loro essere
completamente permanently ephemeral; infatti se il cyberspazio per
sua natura è virtuale, le T.A.Z. e i rave-party lo sono in una
dimensione diversa, in quella temporale. Sono mondi paralleli che
durano il tempo di una notte, effimeri per natura e per indole
programmatica. Queste tre espressioni dell’immaginario
eterotopico sono inestricabilmente collegate con quella
proliferazione del reale che è caratteristica del società postmoderna
su cui credo che le ultime parole chiarificatrici sul cyberspazio e
sugli altri paradisi temporanei sia questa frase di Benedikt che
mirabilmente coniuga l’immaginazione religiosa e utopistica del
paradiso, lo spazio mentale della matematica e i mondi possibili
della finzione:
Come Shangri-La, come la matematica,come ogni storia che sia
mai stata scritta o cantata, nell’inconscio collettivo di ogni
cultura è sempre esistita una geografia mentale di categorie, una
memoria collettiva o allucinazione, un territorio di figure mitiche,
simboli, regole e verità su cui tutti convengono, padroneggiato e
percorribile da tutti coloro che ne conoscano i percorsi, ma
tuttavia libero da vincoli fisici dello spazio e del tempo. Quello che
oggi ci entusiasma tanto è il fatto che le culture tecnologicamente
avanzate […] sono sul punto di rendere quell’antico spazio non
solo visibile, ma oggetto di una democrazia interattiva. 14
M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio,
1993, p. 3.
14
122
Dall’Utopia all’Eterotopia
3.1 Dalla Controcultura alla Cybercultura
In questo paragrafo tenteremo di delineare il processo che portò la
cybercultura ad acquisire alcune caratteristiche intrinseche della
Controcultura californiana degli anni ’60, soprattutto nella sua
variante hippie, e proveremo a dimostrare come quello che era
comunemente ritenuto un movimento antitecnologico influì invece
notevolmente sulla formazione della cybercultura e del suo
immaginario. La Controcultura aveva un approccio alla tecnologia
molto variegato e contraddittorio, innanzitutto a differenza delle
generazioni precedenti aveva una alfabetizzazione elettronica molto
avanzata, essendo cresciuta insieme alla tv, non è un caso che una
degli intellettuali preferiti dalla controcultura fosse il guru dei
media Marshall McLuhan, nonostante questo osteggiava la
tecnologia ritenendola lo strumento dello sfruttamento
indiscriminato e criminale della natura. Per riassumere le
contraddittorie visioni della Controcultura nei confronti della
tecnologia prendiamo in prestito queste illuminanti parole del duo
Richard Barbrook e Andy Cameron che nel 1995 scrissero un
interessantissimo articolo intitolato The Californian Ideology,
centrato appunto sull’influenza della controcultura sulla nuova
cybercultura californiana:
In sci-fi novels, they dreamt of 'ecotopia': a future California
where cars had disappeared, industrial production was
ecologically viable, sexual relationships were egalitarian and
daily life was lived in community groups. For some hippies, this
vision could only be realised by rejecting scientific progress as a
false God and returning to nature. Others, in contrast, believed
that technological progress would inevitably turn their
libertarian principles into social fact. […] West Coast radicals
became involved in developing new information technologies for
the alternative press, community radio stations, home-brew
computer clubs and video collectives. These community media
activists believed that they were in the forefront of the fight to
build a new America. The creation of the electronic agora was the
first step towards the implementation of direct democracy within
123
Dall’Utopia all’Eterotopia
all social institutions. The struggle might be hard, but 'ecotopia'
was almost at hand. 15
Secondo Barbrook e Cameron il movimento hippie manifesta due
tendenze rispetto alla tecnologia: da un lato il suo completo rifiuto,
il “ritorno alla natura”, dall’altro invece, si nota come i radicali della
West Coast, ma anche in Europa, in Italia, in Sud America (es. il film
The Agronomist su Radio Haiti) si occupino attivamente delle nuove
tecnologie, in particolar modo si sottolinea una fioritura del
“community media activism”. Questi hanno un legame forte con la
parte più ambientalista del movimento, dimostrata per esempio
dalla figura di Buckminster Fuller, e della rivista The Whole Earth
Catalog diretta da Stewart Brand, che si occupava appunto di usi
ambientalisti delle nuove tecnologie (ancora oggi esprimono un
fenomeno culturale molto interessante come la cosiddetta
‘permaculture’). Proprio Stewart Brand, secondo il professore di
Stanford Fred Turned, è l’incarnazione di quel forte legame che
unisce la controcultura alla cybercultura, una genealogia che lo
studioso americano traccia in modo preciso nel suo From
Counterculture to Cyberculture: Stewart Brand, the Whole Earth
Network and the Rise of Digital Utopianism. Per Turner, Stewart
Brand con il suo The Whole Earth Review, fu il collegamento tra “the
information technology and cybernetics to a New Communalist social
vision.”16 La visione che Turner definisce New Communalist non
corrisponde ad altro se non all’ala hippie della Controcultura,
comunque secondo questo docente tale collegamento ebbe
un’evoluzione in tre stadi, nel primo, tra il 1968 e il 1972, Stewart
Brand riuscì ad essere l’anello di congiunzione tra la comunità di
ingegneri che orbitavano intorno allo Stanford Reserch Institute,
impegnato nel portare avanti delle ricerche sull’integrazione del
sistema uomo-macchiana, e la comunità controculturale che
animava il Whole Earth Catalog. La seconda che si protrasse per il
15R.Barbrook
e A. Cameron, The Californian Ideology , disponibile on-line all’indirizzo
http://www.alamut.com/subj/ideologies/pessimism/califIdeo_I.html
16 F. Turner, From Counterculture to Cyberculture, The University of Chicago Press,
Chicago-London, 2008, p. 104.
124
Dall’Utopia all’Eterotopia
resto degli anni settanta fu caratterizzata da una decisiva
infatuazione di Brand per le teorie di Gregory Bateson. In realtà
Brand e altri della sua comunità utilizzarono la concezione di
Bateson secondo la quale il mondo è un’insieme di sistemi di
informazione in interazione tra loro come motivazione e
giustificazione intellettuale per il fallimento dell’esperienza
comunitaria che stava declinando proprio in quel periodo.
Riprendendo la concezione di Bateson per cui un sistema non può
evolvere indipendentemente dagli altri, gli Hippie spiegavano a loro
stessi il fallimento dell’esperienza comunitaria e vivevano come una
nuova sfida il reinserimento nel “Sistema”. Questo periodo fu
caratterizzato anche per l’emergere di un fugace e superficiale
nuovo sogno comunitario di stampo tecnologico: le comunità
spaziali, che in quel periodo venivano fantasticate da un professore
di Princetown, Gerard O’Neil e che, forse per nostalgia, Brand e la
sua rivista sponsorizzarono in maniera notevole.
La terza fase si svolse negli anni ottanta quando Brand tornò ad
occuparsi e a collegarsi con le industrie informatiche e con gli
istituti di ricerca specializzati nello sviluppo di tecnologie
informatiche. In queste Brand vide i veri eredi del progetto
comunitario degli anni sessanta, soprattutto nel Personal computer,
che interpretava come uno strumento di liberazione individuale e
collettiva, dando una connotazione controculturale al mezzo, come
dimostra chiaramente un suo articolo intitolato We Owe it All to the
Hippies17, apparso sul Time nel 1995, con un interessantissimo
occhiello, Forget antiwar protest, Woodstock, even long hair, the real
legacy of the sixties generation is the computer generation.
L’importanza data da Turner a Brand e al suo Whole Earth catalog18,
è dovuta al fatto che per lo studioso americano il Whole Earth
catalog incarnava una corrente particolare della Controcultura,
quella più vicina alle tecnologie, non è un caso che il sottotitolo del
S. Brand, We Owe it All to the Hippies, Time, New York, 1995, disponibile on-line
all’indirizzo http://members.aye.net/~hippie/hippie/special_.htm
18 Nel 1968 Stewart Brand diede alle stampe The Whole Earth Catalog, un catalogo senza
pubblicità e a basso costo, al cui interno erano raccolti ed elencati i migliori attrezzi e libri
adatti alla controcultura.
17
125
Dall’Utopia all’Eterotopia
primo numero recitasse access to tool, infatti uno degli obiettivi che
la rivista si proponeva era quello di fornire un catalogo di strumenti,
intesi sia dal punto di vista materiale, sia intellettuale, come quadri
interpretivi espressi in articoli di commento, utili per portare avanti
la rivoluzione controculturale. Quando parliamo di catalogo si
intende una vera e propria rassegna di beni di consumo,
commentati accompagnati dai riferimenti per l’acquisto, il fine
ultimo era quello di rendere disponibili gli strumenti per dar vita al
nuovo movimento comunitario che in quel periodo era all’apice del
suo successo. Non dobbiamo mai dimenticare che il Whole Earth
catalog può essere definito come una delle vette del movimeno
Controculturale, ebbe infatti un ruolo determinante nel mantenere
vivo un rapporto tra le varie comuni sparse nel paese, ancor più
decisivo fu il ruolo di questa rivista nel delineare un’identità
organica e coerente ad un movimento che, come abbiamo visto era
al proprio interno molto frazionato e contraddittorio, questione
identitaria che era centrale per la Controcultura per le difficoltà che
questa aveva nell’autodefinirsi. L’elemento fondamentale, dal nostro
punto di vista, risiede nell’approccio alla tecnologia, poiché fu
questo ad influenzare ed ad essere influenzato dalla rivoluzione
tecnologica che da lì a pochi anni sarebbe esplosa; infatti la
comunità che si aggregò intorno al Whole Earth catalog interpretava
le tecnologie come strumenti utili e indispensabili per un esito
positivo della rivoluzione sociale, in particolar modo interpretava le
tecnologie come strumenti di liberazione. Questa fu la visione che
portò il Personal computer a diventare il dispositivo indispensabile
per la liberazione personale, e di conseguenza di una rivoluzione
globale, poiché come tipico approccio hippie: solo cambiando se
stessi si sarebbe cambiato il “Sistema”. Questa nuova visione della
tecnologia naturalmente si riferiva ad un determinato genere di
tecnologia, quella che Brand e Turner definiscono “personal tool” o
“small technology”, non sicuramente le tecnologie di scala. Anche il
computer sarà incamerato nella galassia controculturale solo
quando i calcolatori si trasformeranno da Mainframe in personal
device, trasformazione non casualmente portata avanti da alcuni
ingegneri che facevano parte integrante del movimento hippie, quali
Steve Jobs e Steve Wozniak, i fondatori della Apple. In fondo la più
126
Dall’Utopia all’Eterotopia
famosa e diffusa “personal technology” per la liberazione personale
degli anni sessanta era stato l’LSD. Questa visione della tecnologia,
che poi portò la Controcultura ad abbracciare senza remore la
rivoluzione informatica, ha per Turner alcuni padri putativi, tra i
quali di sicuro i più importanti, soprattutto nella sua fase
embrionale, sono il padre della Cibernetica Norbert Wiener,
l’ecologo e tecnofilo Richard Buckminster Fuller, Marshall McLuhan
e Gregory Bateson. Mcluhan lo abbiamo già ampiamente trattato,
una sottolineatura la necessitano invece gli altri studiosi poiché
rappresentano le basi teoriche ed interpretative su cui questa
visione della tecnologia si fonda, visione che in seguito segnò
profondamente le qualità specifiche della Cybercultura.
Norbert Wiener, con la sua teoria cibernetica, quale scienza del
controllo e dell’informazione, sembrava essere la quintessenza del
complesso militare-industriale, invece si ritrovò ad essere uno dei
capisaldi, nella visione controculturale della tecnologia, questo
perché sostenendo che sia i sistemi meccanici che quelli organici
non siano altro che sistemi di informazione che si autoregolano
autonomamente attraverso meccanismi omeostatici di retroazione
(o feedback) apriva all’interpretazione della società come un
sistema omeostatico di informazione tendente all’equilibrio. Questa
interpretazione divenne una metafora molto forte, poiché rompeva
la visione gerarchica della società di derivazione prettamente
militare (ricordiamo che la teoria cibernetica fu definita nel 1947,
subito dopo la fine della seconda guerra mondiale) fu importante
soprattutto per la generazione dei figli dei fiori che “came to
appreciate cybernetics as an intellectual frame work and as a social
practice; he associated both with alternative forms of communal
organization.”19 Il movimento controculturale apprezzava
soprattutto l’accento sulla comunicazione, infatti se la mente, come
ritenevano, era il punto di partenza del cambiamento sociale, allora
l’informazione era di sicuro l’elemento chiave delle politiche
controculturali, inoltre:
F. Turner, From Counterculture to Cyberculture, The University of Chicago Press,
Chicago-London, 2008, p. 43.
19
127
Dall’Utopia all’Eterotopia
For New Communalists, in contrast, and for much of the broader
Counterculture, cybernetics and system theory offered an
ideological alternative. Like Norbert Wiener two decades earlier,
many in the counterculture saw in the cybernetics a vision of a
world built nor around vertical hieratics and top-down flow of
power, but around looping circuits of energy and information.
These circuits presented the possibility of stable social order
based not on the psychologically distressing chains of command
that characterized military and corporate life, but on the ebb and
flow of communication.20
La tecnologia interpretata anch’essa come sistema omeostatico di
informazione perdeva quel connotato di sistema di potere
impersonale incarnato dal complesso militar-industriale.
Un altro pensatore che ebbe una influenza notevole sulla visione
della tecnologia come parte integrante delle politiche dei new
communalist fu sicuramente Richard Buckminster Fuller. Questo
multidisciplinare studioso che nella sua vita fu architetto,
matematico ed inventore, fu molto influenzato dal pensiero dei
Trascendentalisti americani21 nella sua visione del mondo, non
foss’altro per il fatto che la sua prozia Margaret fu una delle
fondatrici ed esponenti di spicco del movimento. Seguendo gli
insegnamenti di Emerson, per cui il mondo non è altro che una serie
di forme corrispondenti tra loro, collegate ad un “Tutto”, Fuller
sosteneva, a differenza dei trascendentalisti, che queste
corrispondenze non si fermassero al solo mondo naturale, bensì
abbracciassero anche quello tecnologico. Fuller affermava che era
necessario un equilibrio tra i vari sistemi, perché dal suo punto di
vista ogni problema deriva da un’allocazione sbagliata delle risorse,
in questo ambito le tecnologie ricoprono un ruolo centrale poiché ne
permettono una distribuzione ottimale; in questa visione le
tecnologie mediali divenivano fondamentali in quanto responsabili
dell’allocazione delle risorse, in particolare grazie alla figura, da lui
Ivi p. 38.
Per approfondimenti sul pensiero dei Trascendentalisti americani si veda il capitolo
precedente.
20
21
128
Dall’Utopia all’Eterotopia
delineata, del Comprehensive Designer, cioè un esperto che riesca a
processare le informazione provenienti da tutti i diversi sistemi e
interpretarle in modo “globale” per mantenere il miglior equilibrio
possibile. Naturalmente attraverso lo sviluppo delle tecnologie
informatiche non è difficile intravvedere nel Computer il
Comprehensive Designer ideale. Questa visione globale e
interconnessa del mondo, l’importanza accordata all’informazione,
non potevano che essere elementi apprezzati dalla controcultura,
ma Fuller aveva un ascendente ancora maggiore su questa corrente
per le sue idee ecologiste, di sostenibilità e autosufficienza degli
insediamenti umani, un esempio tipico è rappresentato dalla sua
cupola geodetica22, questo impiego di “tecnologie intelligenti” per
preservare l’equilibrio del pianeta era l’aspetto che più intrigava il
movimento dei new communalist, che si autopercepivano come i
pionieri di un nuovo modo di abitare e rispettare il pianeta. Fuller
introdusse in questa visione anche una tecnofilia che portò poi la
controcultura ad abbracciare la cybercultura.
L’ultimo studioso che ebbe un notevole impatto su questa corrente
fu l’antropologo cibernetico e sociologo Gregory Bateson, che con le
sue teorie legittimò il rientro nel “Sistema” dei comunardi. Di
“scuola cibernetica”, descriveva il mondo come un sistema e i suoi
abitanti come potenziali elementi di cambiamento del sistema
stesso. Negli anni settanta approfondì questa visione sostenendone
una in cui il mondo naturale non era nient’altro che un insieme di
sistemi di informazione collegati l’un l’altro. Della necessaria
coevoluzione dei sistemi abbiamo già parlato, quindi non ci rimane
da esaminare la concettualizzazione che Bateson propone della
mente nel suo famosissimo libro Verso un’ecologia della mente.
La cupola geodetica è estremamente resistente rispetto al proprio peso. Grazie alla sua
struttura "omnitriangolare" è intrinsecamente stabile, racchiude il massimo volume
possibile con la minima superficie. La cupola era una risposta alla crisi degli alloggi
postbellica; infatti da un punto di vista ingegneristico le cupole geodetiche sono molto
superiori alle tradizionali costruzioni parallelepipedali formate da pilastri, travi e solai:
le costruzioni tradizionali usano i materiali in modo molto meno efficiente, sono molto
più pesanti e molto meno stabili.
22
129
Dall’Utopia all’Eterotopia
La mente individuale, ma non solo nel corpo: essa è immanente
anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta
Mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. Questa
più vasta mente è paragonabile a Dio, ed è forse ciò che alcuni
intendono per “Dio”, ma essa è ancora immanente nel sistema
sociale totale interconnesso e nell’ecologia planetaria… Ora
sappiamo con notevole certezza, che il vecchio problema se la
mente sia immanente o trascendente può essere risolto in favore
dell’immanenza, e che questa soluzione è più economica, in
termini di entità esplicative, di ogni risposta trascendente: ha
almeno il supporto negativo del rasoio di Ockam. Dal punto di
vista positivo, si può affermare che qualunque insieme dinamico
di eventi e oggetti che possegga circuiti causali opportunamente
complessi e in cui vigano relazioni energetiche opportune,
mostrerà sicuramente caratteristiche proprie della mente. 23
Questa visione di una mente in qualche modo separata e
trascendente il corpo e interconnessa con il “tutto” influenzò
enormemente la controcultura, ma Bateson in realtà rigettava
qualsiasi tipo di trascendenza, non poteva esistere dal suo punto di
vista alcun di tipo di Mente che trascendesse il mondo materiale.
Con quest’ultima distorsione da parte della controcultura si
conclude il nostro rapido excursus tra gli autori che permisero alla
controcultura di abbracciare la tecnologia, soprattutto quella
mediale, come strumento utile alla propria causa, un processo di
avvicinamento che poi porterà la fusione delle visioni
controculturali con la cybercultura. Altri elementi determinanti che
favorirono questa convergenza, e che portarono poi ad una
definitiva fusione, furono invece di natura tecnologica, o inerenti al
mondo della ricerca universitaria. In primo luogo ciò che
avvantaggiò fin dal principio questo avvicinamento fu
l’organizzazione dei dipartimenti di ricerca. Per ironia della sorte
quel senso comunitario e quella organizzazione orizzontale, non
gerarchica, basata più sul gioco, che non sulla rigida separazione dei
compiti e dei ruoli che i giovani hippie anelavano era una
23
G. Bateson, Verso un’ecologia della Mente, Adelphi, Milano, p.502 e p. 363.
130
Dall’Utopia all’Eterotopia
caratteristica molto diffusa all’interno dei dipartimenti di ricerca
che si occupavano di hi-tech. Visione del lavoro che questi ingegneri
approfondirono attraverso l’incontro con i valori della
Controcultura, come abbiamo visto in precedenza, ma che già
possedevano in maniera elevata, soprattutto nelle università
californiane, quali la Stanford. Altro scherzo del destino è il fatto che
per la maggior parte di queste università erano finanziate dal
Ministero della difesa24, l’emblema del complesso militar-industriale
contro cui la controcultura combatteva. Gli altri due processi che
favorirono la convergenza della controcultura e della cybercultura
furono inerenti all’evoluzione tecnologica del computer: la
miniaturizzazione e il networking. Questi due processi, che
iniziarono nei primi anni settanta e si concretizzarono negli ottanta
con l’invenzione del primo PC consentirono una personalizzazione e
un’interpretazione di tipo controculturale, quale tecnologia che può
trasformare la coscienza e il mondo, la stessa identica
interpretazione che fu data all’LSD. La fusione finale si ebbe come
detto con l’immissione sul mercato del primo Pc, da qui in poi ogni
sogno controculturale si sposò con la nuova tecnologia mediale, ne
incorporò ogni aspettato, oltre all’eredità sancita ufficialmente
dall’articolo Fanatic Life and Symbolic Death among the Computers
Bums del padre della Bibbia hippie, il Whole Earth Catalogue,
Stewart Brand, che sulle pagine di Rolling Stone, dice:
È tutto collegato, la ricerca psichedelica, fin dal soggiorno di
Aldous Huxley a Los Angeles, è in gran parte un fenomeno
californiano, come la rivoluzione dei personal computer. E questa
cosa probabilmente riflette lo status di frontiera della costa
occidentale americana. I primi hacker degli anni sessanta erano
un sottoinsieme della tarda cultura beatnik e dei primi gruppi
hippie; erano dei capelloni, avevano rinnegato l’università,
sillabavano love come l-u-v e leggevano Il Signore degli anelli e
avevano una [visione del mondo] che era in tutto simile a quella
dei Merry Prankster e di tutti i nostri colleghi pronti a salvare il
24
Ricordiamo che la Internet è una tecnologia di origine strettamente militare.
131
Dall’Utopia all’Eterotopia
mondo. Ma avevano una tecnologia migliore. Come si è visto in
seguito, le droghe psichedeliche, le comuni e le cupole geodesiche
erano dei vicoli ciechi, ma i computer rappresentavano la strada
di accesso a mondi che andavano al di là dei nostri sogni. Hippie e
rivoluzionari fallirono nel loro intento… tutti fallirono a parte
loro, e a quei tempi noi non sapevamo nemmeno che esistessero!
Non finivano in televisione come Abbie [Hoffman] e non
strombazzavano in giro quello che facevano; si limitavano a
inventare il futuro, e lo facevano con un sorprendente senso di
responsabilità, che incorporarono nella loro tecnologia, proprio
all’interno dei chip – una completa fusione di alta tecnologia e
cultura pop molto terra terra.25
L’unione ormai è sancita e le aspirazioni di comunità, di libera
espressione e liberazione personale avverranno d’ora in poi solo
nello spettro della dimensione mediale del computer, soprattutto
con l’avvento di internet e del web, un chiaro esempio può essere la
sottocultura hacker, la prima controcultura dell’era cyber che si
battè per la libertà d’informazione nella rete. L’eredità è ben
illustrata, non è un caso che il Whole Earth Catalogue già nel 1985 si
trasformò nel Whole Earth’Lectronic Link (o Well) un Bulletin Board
Systems26 dove si ricreò il clima del Whole Earth originale.
L’espansione del web e la sua esplosione iniziata negli anni novanta
sancì il passaggio definitivo dei sogni comunitari nel cyberspazio, un
nuovo territorio vergine in cui era possibile ricreare e rivivere gli
ideali controculturali. Proprio sul Well iniziò a costituirsi un nuovo
senso comunitario basato su due visioni complementari, una
interpretava lo scambio di informazioni come “un’economia del
dono” e la connessione sulla rete come quell’unione mentale che la
controcultura aveva ricercato nell’esperienza comunitaria di
trent’anni prima. Come ci spiega Howard Rheingold l’economia del
dono del Well consisteva nel costante scambio di informazioni
S. Brand, SpaceWar. Fanatic Life and Symbolic Death among the Computers Bums,
Rolling Stone, 1972, disponibile on-line all’indirizzo
http://wheels.org/spacewar/stone/rolling_stone.html
26 I Bulletin Board Systems non erano altro che computer connessi alla linea telefonica a
cui bastava telefonare per connettersi e lasciare dei messaggi, software etc.
25
132
Dall’Utopia all’Eterotopia
potenzialmente importanti senza l’attesa di ricompensa immediate:
“Individuals contribuited information to such a system because those
who contributed would ultimaly be rewarded with information
themselves over time. This pattern of giving without expectation of
immediate reward had deep roots in the San Francisco Bay area
counterculture.”27 Naturalmente questa parte della nuova
controcultura informatica interpretava questo libero scambio, non
solo come un’organizzazione che soppiantava il normale scambio
fondato sul denaro, ma soprattutto come una nuova struttura
sociale, riprendendo gli scritti di Marcel Mauss28. Dal loro punto di
vista sul Well, e su internet in generale, era possibile creare
un’organizzazione sociale non gerarchica, basata sull’economia del
dono e su una sorta di interconnessione delle coscienze, tale visione
ne generò una ancora più importante quella di virtual community. Il
primo che le teorizzò e descrisse fu Howard Rheingold, nel suo The
Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier29 nel
quale descrive le nuove forme di interazioni che il computer
consente:
Gathered together online, yet restricted to text-only interfaces,
individuals could connect to one another without encountering
body-based forms of prejudice. They could come together not in
random interactions that characterized life in the material world,
but choice, around shared interests. And within the space, they
could engage in new form of social interaction that was
simultaneously intimate and instrumental.30
Internet e le comunità virtuali avevano quindi il merito di riportare
in auge i valori della controcultura e anche di trasformare la società,
attraverso un’organizzazione basata, come abbiamo accennato, sulla
cooperazione e sulla democraticità. In poco tempo internet e il
H. Rheingold, The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier, MIT
Press, 2000, disponibile on-line all’indirizzo http://www.rheingold.com/vc/book/
28 Cfr. Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche,
Einaudi, Torino, 2002
29 H. Rheingol, Op. cit.
30 Ibidem.
27
133
Dall’Utopia all’Eterotopia
cyberspazio divennero la nuova frontiera americana: la Electronic
Frontier, in cui tutti potevano entrare e soprattutto esprimere se
stessi e perseguire la propria felicità, seguendo il più tradizionale
immaginario americano. Questa voglia di libertà era manifestata dal
fastidio che investiva i digizen ogni volta che sentivano violata la
propria libertà dalle restrizioni governative. Non è un caso che poco
dopo nacque la Electronic Frontier Foundation, ancora oggi attiva,
fondata tra gli altri anche da un membro del famosissimo gruppo
psichedelico Grateful Dead, John P. Barlow, che si pone l’obiettivo di
difendere chiunque senta esser stata violata la sua libertà sulla Rete:
From the Internet to the iPod, technologies are transforming our
society and empowering us as speakers, citizens, creators, and
consumers. When our freedoms in the networked world come
under attack, the Electronic Frontier Foundation (EFF) is the first
line of defense. EFF broke new ground when it was founded in
1990 — well before the Internet was on most people's radar —
and continues to confront cutting-edge issues defending free
speech, privacy, innovation, and consumer rights today. From the
beginning, EFF has championed the public interest in every
critical battle affecting digital rights.31
Questa nuova frontiera, però, non offriva solo un nuovo campo per
mettere alla prova gli ideali controculturali, fu anche una frontiera
da esplorare per la nuova destra, che vedeva nel cyberspazio un
nuovo e amplissimo mercato, adatto per tornare ad applicare un
puro liberismo economico. Ad un certo punto degli anni novanta,
secondo Barbrook e Cameron, queste due visioni completamente
contraddittorie iniziarono a convergere: la cultura hippie e la cultura
yuppie si incontrano, e il risultato è appunto la cybercultura
californiana contemporanea, che Barbrook e Cameron definiscono
The Californian Ideology, una nuova cultura completamente
contraddittoria. L’idealismo hippie e il cinismo degli yuppies
implicano una specie di corto-circuito tra la politica emancipatoria
31
Disponibile on-line all’indirizzo http://www.eff.org/about
134
Dall’Utopia all’Eterotopia
degli anni sessanta/settanta e la politica economica neoliberale
degli anni ottanta, tutta incentrata sul primato del libero mercato.
Questa strana combinazione: is only made possible throught a nearly
universal belief in technological determinism.32 Solo questo
determinismo poteva essere la base di una tale unione,
determinismo tipico della cultura americana, in fondo “c’è una cosa
per tutto”, non è un caso che anche la bibbia ecologista, il Whole
Earth Catalogue avesse come sottotitolo “access to the tools”, gli
strumenti risolvono tutto, soprattutto grazie al potenziale
emancipatorio delle nuove tecnologiche: In the digital utopia,
everybody will be both hip and rich. La base di questa riconciliazione
era una sorta di antistatalismo: the Californian Ideology provides a
mystical resolusion of the contradictory attitudes held by members of
the ‘virtual class’. Crucially, anti-statalism provides the means to
reconcile radical and reactionary ideas about tecnological progress.33
Come sappiamo la Controcultura disprezzava il governo per gli
investimenti nel complesso militar-industriale, mentre la destra per
i limiti che imponeva alla libertà del mercato. I primi dimenticavano
come il dipartimento della difesa fosse stato il finanziatore
principale delle ricerche sulle nuove tecnologie, i secondi di quante
volte il governo fosse intervenuto per aiutare le aziende in difficoltà.
Entrambe si trovavano d’accordo però su una visione della nuova
frontiera mediale come lo strumento per ricreare una democrazia di
tipo “jeffersoniana”. Per esempio Howard Rheingold credeva che
l’agora elettronica avrebbe permesso alle persone la più completa e
profonda libertà d’espressione, mentre per la New Right, guidata dal
senatore ultraliberista Gingrich, la rimozione di ogni vincolo alle
imprese avrebbe creato lo stesso effetto nel mercato dei media.
Come abbiamo notato Barbrook e Cameron fanno riferimento ad un
concetto di ‘virtual class’, i rappresentanti di questa classe per i due
autori sono coloro che possiamo far rientrare nella cosiddetta
“Tecno-intelligentia”, quali ingegneri informatici, psicologi cognitivi,
sviluppatori di videogioci, grafic designer e tutti gli specialisti delle
R.Barbrook e A. Cameron, The Californian Ideology , disponibile on-line all’indirizzo
http://www.alamut.com/subj/ideologies/pessimism/califIdeo_I.html
33 Ibidem.
32
135
Dall’Utopia all’Eterotopia
nuove tecnologie mediali. Da una parte questi fanno parte di
un’aristocrazia del lavoro, in quanto di solito sono lavoratori
autonomi e hanno una visione del proprio lavoro come di un “tecnoartigianato”, dall’altra, però, aprono e favoriscono l’ingresso nel
mondo del lavoro di forme contrattuali meno sicure, come i
contratti a progetto e a termine, formule contrattuali da loro molto
apprezzate poiché li lascia liberi dai gangli organizzativi delle grandi
imprese, da loro disprezzate per la propria discendenza
controculturale. Naturalmente queste formule contrattuali non
potevano che essere apprezzate anche dalla nuova Destra che
vedeva in esse una forma di flessibilizzazione del mercato del
lavoro. Questo dimostra come la visione controculturale di una
completa espressione del proprio Sé si sia poi trasformata, con il
fallimento della rivoluzione culturale, in una sorta di estremo
individualismo, forse sarebbe meglio definirlo egocentrismo, che
interpretava ogni intromissione nella sfera personale come una
limitazione della propria libertà. Questa nuova concettualizzazione
dell’individualità non poteva essere che propedeutica e favorevole
ad una concezione liberista, soprattutto per quanto riguarda la
nuova frontiera del cyberspazio. La rivista Wired divenne negli anni
novanta il megafono di questa Californian Ideology, una sorta di
Bibbia per la “virtual Class”. Wired sosteneva la convinzione che il
cambiamento tecnologico avrebbe rivoluzionato la società, e che la
tecnologia digitale in particolare - di cui Internet non è che un
modesto presagio – avrebbe aumentato la libertà personale,
liberando l'individuo dal rigido abbraccio di un grande governo
burocratico un "Self-empowered knowledge worker" avrebbe reso
inutili le gerarchie tradizionali e le comunicazioni digitali avrebbero
permesso loro di scappare dalle città moderne: "obsolete remnant of
the industrial age”.34 Questo si sposava perfettamente con una
visione in cui il governo avrebbe dovuto avviare grandi piani di
decentralizzazione e delocalizzazione, proprio perché i nuovi mezzi
di comunicazione, supportati da nuove politiche liberiste, come
vedete le due visioni si equivalgono, avrebbero permesso una
34
Ibidem.
136
Dall’Utopia all’Eterotopia
maggiore libertà personale e una maggiore prosperità economica.
Quest’ultima sembrava esser confermata poi dalla folle corsa del
Nasdaq a metà anni novanta, ma tutto sembrò svanire con
l’esplosione della bolla speculativa. Il culmine di questa unione
sembrò essere il testo redatto da alcuni editorialisti di Wired come
Esther Dyson e i futurologi George Gilder e Alvin Toffler,
quest’ultimo l’inventore del termine Terza ondata, per descrivere
l’avvento dei nuovi media: Cyberspace and the American Dream: A
Magna Carta for the Knowledge Age35 redatto durante un convegno
sul cyberspace. In questo testo si analizzava l’avvento dei nuovi
mezzi di comunicazione e quale ruolo avrebbero ricoperto nel
rivoluzionare la società americana, il suo governo e l’umanità intera:
As humankind explores this new "electronic frontier" of
knowledge, it must confront again the most profound questions of
how to organize itself for the common good. The meaning of
freedom, structures of self-government, definition of property,
nature of competition, conditions for cooperation, sense of
community and nature of progress will each be redefined for the
Knowledge Age.
L’importante per gli autori era convogliare questa rivoluzione nei
canali della tradizione del sogno Americano di libertà:
What our 20th-century countrymen came to think of as the
"American dream," and what resonant thinkers referred to as "the
promise of American life" or "the American Idea," emerged from
the turmoil of 19th-century industrialization. Now it's our turn:
The knowledge revolution, and the Third Wave of historical
change it powers, summon us to renew the dream and enhance
the promise.
Esther Dyson, George Gilder, George Keyworth, Alvin Toffler, Cyberspace and the
American Dream: A Magna Carta for the Knowledge Age, 1994 disponibile on-line
all’indirizzo http://www.alamut.com/subj/ideologies/manifestos/magnaCarta.html tutte
le citazioni seguenti provengono da questo indirizzo.
35
137
Dall’Utopia all’Eterotopia
Naturalmente uno degli aspetti fondamentali era il ruolo che il
cyberspazio avrebbe avuto in questa rivoluzione, soprattutto per
quanto riguarda le potenzialità libertarie del mezzo:
Cyberspace is the land of knowledge, and the exploration of that
land can be a civilization's truest, highest calling. The opportunity
is now before us to empower every person to pursue that calling in
his or her own way…The challenge is as daunting as the
opportunity is great. The Third Wave has profound implications
for the nature and meaning of property, of the marketplace, of
community and of individual freedom. As it emerges, it shapes
new codes of behavior that move each organism and
institution…Turning the economics of mass-production inside out,
new information technologies are driving the financial costs of
diversity -- both product and personal -- down toward zero,
"demassifying" our institutions and our culture. Accelerating
demassification creates the potential for vastly increased human
freedom.
Il cyberspazio avrebbe creato un diverso tipo di comunità basato
sulla demassificazione e sulla libertà personale:
No one knows what the Third Wave communities of the future will
look like, or where "demassification" will ultimately lead. It is
clear, however, that cyberspace will play an important role
knitting together in the diverse communities of tomorrow,
facilitating the creation of "electronic neighborhoods" bound
together not by geography but by shared interests…Socially,
putting advanced computing power in the hands of entire
populations will alleviate pressure on highways, reduce air
pollution, allow people to live further away from crowded or
dangerous urban areas, and expand family time…"Cyberspaces" is
a wonderful _pluralistic_ word to open more minds to the Third
Wave's civilizing potential. Rather than being a centrifugal force
helping to tear society apart, cyberspace can be one of the main
forms of glue holding together an increasingly free and diverse
society.
138
Dall’Utopia all’Eterotopia
Per rendere tutto ciò possibile il governo avrebbe dovuto, e con
l’aiuto dei nuovi mezzi di comunicazione sarebbe riuscito a
promuovere una decentralizzazione maggiore per rendere la società
più flessibile e libera:
The reality is that a Third Wave government will be vastly smaller
(perhaps by 50 percent or more) than the current one -- this is an
inevitable implication of the transition from the centralized
power structures of the industrial age to the dispersed,
decentralized institutions of the Third. But smaller government
does not imply weak government; nor does arguing for smaller
government require being "against" government for narrowly
ideological reasons…Indeed, the transition from the Second Wave
to the Third Wave will require a level of government _activity_ not
seen since the New Deal.
I punti chiave su cui il governo avrebbe dovuto lavorare erano
essenzialmente cinque: un accesso illimitato alla rete, la promozione
della competizione economica, attraverso un diverso tipo di
tassazione, diritti di proprietà adeguati all’era informatica e
soprattutto la creazione di un nuovo tipo di politiche, “le politiche
della terza ondata”:
Third Wave policies encourage uniqueness… Third Wave policies
work to spread power -- to empower those closest to the
decision...Third Wave policies permit people to work at home, and
to live wherever they choose. Third Wave policies will help
transform diversity from a threat into an array of opportunities. A
serious.. effort to apply these tests to every area of government
activity -- from the defense and intelligence community to health
care and education -- would ultimately produce a complete
transformation of government as we know it. Since that is what's
needed, let's start applying.
Naturalmente tutto ciò era necessario per rinnovare e ricreare un
nuovo “sogno Americano”:
139
Dall’Utopia all’Eterotopia
It is time to embrace these challenges, to grasp the future and pull
ourselves forward. If we do so, we will indeed renew the American
Dream and enhance the promise of American life.
Come visto la fusione tra la visione hippie della libertà personale, e
il suo desiderio di comunità con il liberismo economico della nuova
destra americana è al suo apice, il cyberspazio, come espressione
massima delle tecnologie avanzate, diviene la pietra filosofale che è
in grado di compiere una rivoluzione sociale senza precedenti pur
rimanendo nel solco del sogno americano, anzi donandogli un
nuovo impulso e sopratutto una nuova frontiera da colonizzare,
rinnovando quel mito della frontiera da sempre riferimento
indispensabile per la cultura americana.
Dopo questo excursus storico per delineare quelle che furono le
eredità concettuali che la Controcultura lascia alla cybercultura,
excursus che ha dimostrato ancora una volta il contraddittorio
rapporto tra la Controcultura stessa e le tecnologie, dobbiamo
addentrarci completamente nell’analisi della Cybercultura e
soprattutto del suo immaginario utopico, anzi eterotopico come
abbiamo ipotizzato in questa tesi. Come la Controcultura anche la
cybercultura sarà di difficile definizione e non sarà possibile
analizzare i suoi caratteri senza sconfinare in aree semantiche
diverse tra loro; importanti per questa analisi saranno di sicuro la
decisiva influenza che la fantascienza Cyberpunk ebbe sulla
definizione stessa della cybercultura e l’analisi di alcune
sottoculture cyber, quali quella dei tecnopagani e dei tecnognostici,
per quanto riguarda l’analisi dell’immaginario eterotopico.
Naturalmente l’argomento principale del paragrafo sarà l’analisi del
cyberspazio e della realtà virtuale, le vere eterotopie cyberculturali,
di cui ci occuperemo approfonditamente e in maniera dettagliata,
mettendone in luce tutte le potenzialità utopiche, ma anche le
contraddizioni interne.
140
Dall’Utopia all’Eterotopia
3.2 La Cybercultura
Definire la Cybercultura non è molto semplice poiché sconfina in
diversi campi, sociali, culturali ed artistici che ne rende difficile una
stabile concettualizzazione. Gli ambiti sui quali ci soffermeremo
maggiormente saranno comunque quelli che riguarderanno il
cyberspazio e la realtà virtuale, poiché in questi saranno tangibili
quelle espressioni dell’immaginario utopico che abbiamo definito
eterotopia.
Il termine cybercultura è uno dei più usati e spesso abusati di tutto
lo spettro semantico degli studi sulle ITC (Information and
Communication Technology) di solito si riferisce (come indica il suo
prefisso) a tutti gli argomenti che hanno a che fare con la
meccanizzazione e la digitalizzazione, come la cibernetica,
l’informatizzazione, la rivoluzione digitale, tutto ciò che si riferisce
al processo di cyborgazzione del corpo umano, tutti campi in cui di
solito viene anche incorporata una sorta di previsione sul futuro.
Porre dei limiti alla concettualizzazione della cybereciltura è reso
ancor più arduo dal fatto che anche gli autori che utilizzano il
termine spesso lo fanno in maniera diversa e in campi disciplinari
completamente differenti. Una nebulosa di fenomeni vengono fatti
rientrare sotto il cappello onni-definitorio e onnicomprensivo della
cybercultura, il termine può indicare anche la sottocultura hacker o
il movimento connesso alla filone letterario del cyberpunk, o una
sorta di descrizione della nuova realtà mediale, soprattutto nella
nuova dimensione di Rete, spesso si utilizza anche come metafora
per la società trasformata dalle nuove tecnologie mediali.
In questa tesi comunque intenderemo per Cybercultura una ben
determinata formazione socio-culturale che si sviluppò agli inizi
degli anni novanta con l’esplosione delle nuove tecnologie mediali,
formazione culturale che delineò l’interpretazione e l’immaginario
di queste nuove tecnologie: le principali sono la Rete (internet) e la
realtà virtuale. In esse la cybercultura degli anni novanta instillò un
nuovo mito in cui convivevano due visioni contraddittorie: la prima
era una visione ottimistica, per cui le nuove tecnologie avrebbero
permesso la definitiva costituzione della Città Perfetta, un’Utopia
realizzata, dove la libertà individuale si sarebbe accompagnata con
141
Dall’Utopia all’Eterotopia
esempi
Caratteristiche del
concetto
la giustizia sociale ed economica, per la seconda invece queste
nuove tecnologie avrebbero esteso il controllo sociale da parte delle
elite politico-economiche. Su un punto però queste due visioni
coincidevano, sul fatto che il potenziale delle nuove tecnologie
avrebbe cambiato in maniera radicale e rivoluzionaria il mondo
umano e gli uomini stessi.
L’immaginario che nacque da questa formazione culturale fu in
seguito adottato e incorporato nel filone mainstream della cultura
occidentale dei decenni successivi. Abbiamo scelto di limitarci
all’analisi di questa formazione culturale perché fu questa a nostro
avviso a delineare quella traslazione categoriale dell’utopia
all’eterotopia, soprattutto nell’interpretazione del cyberspazio.
CONCETTI
UTOPICI
CONCETTI
INFORMAZIONALI
- c. come
forma di
società
utopica
grazie alle
ITC;
- con
anticipazioni
(futurologia)
Andy Hawk,
Future
Culture
Manifesto
Pierre Lévy,
Cybercultur
- c. in quanto
codice
culturale
(e simbolico) della
società
dell’informazione
- analitica, in parte
con anticipazioni.
Lev Manovich, Il
linguaggio dei nuovi
media.
CONCETTI
ANTROPOLOGICI
- c. come
attività
cultutali e
stili di vita
legati alle
ITC;
- analitica,
orientata
allo stato
attuale e al
passato.
Arturo
Escobar,
Welcome to
Cyberia:
Notes on the
Antropology of
Cyberculture.
CONCETTI
EPISTEMOLOGICI
c. intesa
come
termine
per la
riflessione
sociale e
antropologi
ca sui nuovi
media.
Lev
Manovich,
New Media
from
Borges to
HTML.
Ora, prima di iniziare la nostra analisi della cybercultura degli anni
novanta, penso sia utile intraprendere un piccolo excursus sulle
diverse visioni e definizioni della cybercultura che possiamo riunire
142
Dall’Utopia all’Eterotopia
in un’utile tipizzazione - che comunque non racchiude tutte le
possibili teorizzazioni sulla cybercultura.36 Questa classificazione
spazia tra quattro diversi approcci e dando vita quindi a quattro
visioni della cybercultura stessa che si innervano su campi
concettuali differenti, come si può vedere nella tabella. Il primo
racchiude tutte le visioni utopistiche sulla cybercultura e sulle
nuove ITC, per cui la Cybercultura diviene un progetto utopistico; il
secondo si sofferma sui concetti inerenti all’informazione e alle
scienze della comunicazione e definisce la cybercultura come una
sorta di codice culturale e simbolico che significa la società
dell’informazione; il terzo invece ha un approccio di tipo
antropologico, sottolineando il carattere di costruzione sociale della
cybercultura e quindi interpreta e definisce la stessa attraverso le
sue pratiche culturali, l’ultimo, infine, sottolinea i concetti inerenti al
campo epistemologico, interpretando la cybercultura come tutto ciò
che racchiude le di teorie sui new media. Come vedremo queste
distinzioni sono in realtà ipostatizzanti e da alcuni punti di vista
anche forvianti perché anche i diversi autori che faremo rientrare
all’interno di queste categorie in realtà coniugano i diversi campi e i
diversi approcci nelle proprie analisi, questo dimostra ancora una
volta come la cybercultura in realtà racchiuda e sia la summa
dell’insieme di questi campi e approcci disciplinari.
Per quanto riguarda il primo campo concettuale, questo formula di
sicuro la più vecchia e la più circoscritta definizione della
cybercultura, la cybercultura comprende il movimento cyberpunk,
la sottocultura hacker o più in generale i primi utilizzatori delle
nuove tecnologie mediali, come le prime formazioni di comunità
virtuali. I primi assertori di questa visione sono autori come Douglas
Rushkoff, autore del libro Cyberia, in cui include nella cybercultura
non solo le sottoculture informatiche, ma anche gli utilizzatori di
droghe sintetiche che trascinano i propri consumatori in una nuova
dimensione del reale, Cyberia, appunto, crasi tra cyber e siberia,
denotando così l’immensità di questa nuova dimensione mentale.
Cfr. J. Maceck, Defining Cyberculture, on-line all’indirizzo
http://macek.czechian.net/defining_cyberculture.htm
36
143
Dall’Utopia all’Eterotopia
Uno dei più famosi sostenitori di questa visione della cybercultura e
il pluricitato Mark Dery che così la definisce:
a far-flag, loosely knit complex of sublegitimate, alternative, and
oppositional subculture [ whose common project is the subversive
use of technocommodities, often framed by radical body
politics]…Cyberculture is divisible into several major territories :
visionary technology, fringe science, avant-garde art, and pop
culture.37
I membri di queste “computer-age subcultures” interpretavano la
cybercultura come l’inizio di una rivoluzione e rigenerazione della
società, come dimostra Andy Hawk, uno dei creatori del The
Cyberpunk Project38, nel suo articolo Future Culture Manifesto39.
secondo questo autore la cybercultura contemporanea è solo in una
fase embrionale, tuttavia sta già gettando le basi per la creazione di
un “nuovo futuro”. In realtà nel caso del manifesto di Hawk, la
cybercultura hacker, che si sviluppò a partire dal cyberpunk,
insieme ad una grande varietà di subculture precedenti erano l’asse
portante della cultura della società dell’informazione. Tra queste
subculture Hawk individua, appunto, quella degli Hacker, dei
cyberpunk, la Psychedelic Culture e la Rave culture. Questo visione è
orientata verso il futuro e il focus sul cambiamento sociale
determinato e incarnato dalle nuove tecnologie è direttamente
ereditato dall’immaginario della letteratura cyberpunk (come
vedremo in seguito) ed indirizza ed influenza la visione emergente
del mondo accademico in senso futurologico e utopistico.
L’esempio più indicativo di questa influenza delle subculture
cibernetiche sulla’accademia è di sicuro quello dell’originale
studioso francese Pierre Levy , filosofo noto per la sue originali
concettualizzazioni, si ricordi quella del virtuale, nel testo
M. Dery, Flame Wars. The discours of cybercultura, S.A.Q, vol. 92, n. 4 , 1993 p. 566.
The Cyberpunk Project è un sito attivo dal 1996 che fornisce informazioni dettagliate,
link e materiali riguardanti la cybercultura (soprattutto nella sua versione cyberpunk).
Disponibile on-line all’indirizzo http://project.cyberpunk.ru/
39A. Hawk, Future Culture Manifesto, disponibile on-line all’indirizzo
http://project.cyberpunk.ru/idb/future_culture_manifesto.html
37
38
144
Dall’Utopia all’Eterotopia
omonimo40. Levy offre il suo quadro interpretativo sulla
cybercultura nel libro Cybercultura41, il filosofo dei media francese
utilizza il termine cybercultura in realtà per riferirsi al cyberspazio,
a Internet, interpretato alla maniera del cyberspazio di Barlow42;
Levy sostiene che con l’espansione di Internet emerge un nuovo tipo
di conoscenza e di circolazione di questa, la cybercultura si coniuga
ed è sinonimo di questo cambiamento, si riferisce a: “un insieme di
tecniche (materiali ed intellettuali), costumi pratici, atteggiamenti,
modi di pensare e valori che si articolano contemporaneamente al
cyberspazio”43 e abbracciano “una nuova forma di universalità:
universalità senza totalità”44. Levy per universale intende: “la
presenza (virtuale) dell’umanità a se stessa. Quanto alla totalità, la si
può definire come il concentrarsi stabile del senso di una pluralità
(discorso, situazione, insieme di eventi, sistema, ecc.).”45
Come detto,
La cybercultura dà forma ad una nuova forma di universalità, ma
è ancora di universale che si tratta, accompagnato a tutti gli
agganci possibili con la filosofia dei Lumi, perché intrattiene un
rapporto profondo col l’umanità. In effetti, il cyberspazio non
genera una cultura dell’universale perché è presente ovunque di
fatto, ma perché la sua forma e la sua idea implicano di diritto
l’insieme degli esseri umani. […] Intorno all’estensione del
cyberspazio si organizza una nuova ecologia dei media. Posso ora
enunciare il paradosso centrale: più è universale (esteso,
interconnesso, interattivo) meno è totalizzante. Ogni connessione
supplementare aggiunge nuova eterogeneità, nuove fonti di
informazione, nuove linee di fuga, cosicché il senso globale è
Cfr. P. Levy, Il virtuale, Cortina Raffaello ed., Milano, 1997.
P. Levy, La Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano, 1999.
42 Sulla differenza tra Cyberspazio barlowiano e gibsoniano torneremo in seguito, qui
basta sapere che J.P. Barlow intende con cyberspazio il Web.
43 P. Levy, La Cybercultura, Gli usi sociali delle nuove tecnologie, Feltrinelli, Milano, 1999,
p.15.
44 Ivi, p.115.
45 Ivi, p. 116.
40
41
145
Dall’Utopia all’Eterotopia
sempre meno leggibile, sempre più difficile da circoscrivere, da
chiudere, da dominare.46
Per Levy questa nuova universalità è l’evoluzione e il
proseguimento del progetto emancipatorio dell’Illuminismo, in cui
l’umanità potrà finalmente vivere libera, anche dai gangli del potere
e condividere la propria specifica unicità ed identità con tutto il
mondo, grazie alle nuove tecnologie mediali. Questo perché la Rete è
in grado di costituire un nuovo tipo di Intelligenza, che Levy chiama
Intelligenza collettiva e che ricalca la definizione di noosfera
concettualizzata da Pierre Teillard de Chardin, cioè una sorta di
cervello planetario, un’entità pensante cosmica che connette l’intera
energia psichica collettiva. Per Levy, attraverso le reti, è possibile
giungere quasi a questo momento nell’evoluzione dell’intelligenza
umana, ma vediamo cosa il media-filosofo intende per intelligenza
collettiva:
un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata,
coordinata in tempo reale, che porta ad una mobilitazione
effettiva delle competenze. […] il fondamento e il fine
dell’intelligenza
collettiva
sono
il
riconoscimento
e
l’arricchimento reciproco delle persone, e non il culto di comunità
feticizzante.47
Questa concettualizzazione dell’intelligenza avrà un gran successo,
nonostante sia stata criticata da molti, soprattutto nelle sottoculture
cyberculturali che analizzeremo nei prossimi paragrafi, che
evocheranno molte volte il concetto, accostato spesso a quello di
noosfera di Pierre Teillard de Chardin, ma questo lo vedremo in
seguito. Per chiosare sul pensiero di Levy possiamo affermare che il
filosofo francese non traccia un’analisi della cybercultura in sé,
intesa come una serie di pratiche culturali condivise, in realtà
avanza le sue visioni tecnoutopistiche sui nuovi media e le applica
Ivi, p.117.
P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano,
1996, p. 34.
46
47
146
Dall’Utopia all’Eterotopia
all’evoluzione dei media stessi, per cui l’evoluzione di Internet
rappresenta il paradigma cognitivo e culturale di tutto lo spettro
della cultura futura, tutto questo è abbastanza tautologico, sembra
infatti che Levy sia convinto (e chi non lo sarebbe) che le nuove
tecnologie stiano modificando il mondo, sia sotto l’aspetto sociale
che culturale, e il suo tentativo è quello di individuare e catturare i
segni di questi cambiamenti, ma spesso le sue visioni sul futuro
sembrano annebbiare un’oggettiva analisi dei cambiamenti stessi,
come notano Kevin Robins e Frank Webster, nonostante i due autori
sottolineino l’importanza del lavoro di Levy:
What, in fact, is significant about Levy’s discourse, is the coexistence of a radical technoretoric with a social and
communication political vision that is actually quite conventional
and even conservative. And we would say, moreover, that it is this
combination of radical and what we might call pragmatic
aspirations that particularly marks Cyberculture as a
representative text of late 1990s.48
L’approccio che definisce invece la cybercultura come una sorta di
codice culturale che dà significato alla società dell’informazione
proviene dalle analisi di Margaret Morse nel suo libro Virtualities:
Television, Media Art and Cyberculture49, in cui definisce la
cybercultura come un insieme di pratiche culturali che ci
permettono di affrontare e interpretare le nuove forme
dell’informazione, quindi la cybercultura è un nuovo quadro
culturale e cognitivo che ci permette di comprendere la natura e le
caratteristiche della società dell’informazione. Prendendo spunto da
Williams e la sua tesi sulla privatizzazione mobile50, la Morse
intuisce che le nuove tecnologie mediali non solo rafforzano la
tendenza a separare e rendere mobili le sfere della vita privata, ma
K. Robins, F. Webster, Times of Technoculture, Routledge, New York & London, 1999, p.
223.
49 Cfr. M. Morse, Virtualities: Television, Media Art and Cyberculture, Indiana university
press, Indianapolis, 1998.
50 Cfr. R. Williams, Televisione, tecnologia e forma culturale, Editori Riuniti, Roma, 2000.
48
147
Dall’Utopia all’Eterotopia
allo stesso tempo, poiché queste sfidano il modello centralizzato
della distribuzione delle informazioni, di cui il televisore
rappresenta l’espressione più avanzata, cambiano la natura stessa
dell’informazione. Il televisore era un’utile tecnologia di
integrazione sociale, mentre secondo la Morse l’informazione
informatizzata è troppo impersonale e decontestualizzata per
essere la base di una relazione sociale:
The very impersonality and lack of context that are fundamental
to information are far too sterile a basis on which to build the
human relations that data is designed to disavow. Information is
impersonal and imperceptible, knowledge, stripped of its context
in order to be transformed into digital data.51
Per questo c’è bisogno di una cornice culturale che permetta la
reintegrazione personale di questa decontestualizzazione e di
questa spersonalizzazione, un codice culturale che faccia da
interfaccia interpretativa e che riporti sul piano esistenziale questo
nuovo tipo di informazione e quindi questo nuovo tipo di
tecnologia:
information that has been disengaged from context of the
subjects, time, and place in which it is enunciated must be
reengaged with personality and the imagination. That is, an
information society inevitably calls forth a cybercultura that
enjoys far different characteristics. […] Cyberculture is personal
rather than impersonal, irrational rather than rational,
perceptually elaborated rather than abstract and so on. 52
Questo quadro culturale è esattamente quello che Morse intende
per Cybercultura, che può essere ben espressa secondo le parole di
Manovich, anche se queste sono riferite alla definizione di
information culture, secondo la Morse quindi la Cybercultura:
M. Morse, Virtualities: Television, Media Art and Cyberculture, Indiana university press,
Indianapolis, 1998, p. 5.
52 Ivi, p. 6.
51
148
Dall’Utopia all’Eterotopia
include le modalità con cui vengono presentate le informazioni
nei diversi oggetti culturali e nei diversi ambiti…Estendendo il
parallelismo con la cultura visiva, la cultura dell’informazione
comprende anche i metodi storici per organizzare e recuperare le
informazioni (gli omologhi dell’iconografia), oltre alle modalità
d’interazione dell’utente con gli oggetti informativi e i dispaly. 53
Analizzando invece la visione e i derivanti concetti di provenienza
antropologica non possiamo non citare il saggio Welcome to Cyberia:
Notes on the Antropology of Cyberculture54 di Arturo Escobar che
concepisce la ricerca sulla cybercultura come un nuovo campo di
applicazione delle pratiche antropologiche e una sfida
all’antropologia:
As a new domain of anthropological practice, the study of
cyberculture is particularly concerned with the cultural
constructions and reconstructions on which the new technologies
are based and which they in turn help to shape. The point of
departure of this inquiry is the belief that any technology
represents a cultural invention, in the sense that it brings forth a
world; it emerges out of particular cultural conditions and in turn
helps to create new ones. Anthropologists might be particularly
well prepared to understand these processes if they were to open
up to the idea that science and technology are crucial arenas for
the creation of culture in today's world.55
Escobar offre della cybercultura una definizione molto ampia, che
spesso rimane contestuale, e mai del tutto esplicita, la cybercultura
per lui è definita dalle relazioni tra il computer e le information
technologies che “are bringing about a regime of tecnosociality”56 e
dalle relazioni con le nuove biotecnologie che “are giving rise to
L. Manovic, Il linguaggio dei nuovi media, Edizioni Olivares, Milano, 2002, p. 30-31.
A. Escobar, Welcome to Cyberia: Notes on the Antropology of Cyberculture, in Z. Sandar e
J. Ravetz (a cura di) Cyberfutures: Culture and Politics on the information Superhighway,
Pluto Press, London, 1996. pp.111-137.
55 Ivi, p.111
56 Ivi, p. 112
53
54
149
Dall’Utopia all’Eterotopia
biosociality”57 ma mai ci offre una definizione chiara e specifica, al
massimo riesce ad affermare che la cybercultura è una pratica
culturale che include:
The realisation that we increasingly live and make ourselves in
techno-biocultural environments structurated indebibly by novel
form of science and technology. […]Despite this novelty,
cyberculture originates in a well-known social and cultural
matrix, that of modernity, even though it orients itself towards the
constitution of a new order-which we cannot yet fully
conceptualize but must try to understand.58
Come si nota il linguaggio di Escobar è simile a quello di Levy, ed è
ovviamente influenzato dal cambiamento che è in atto, un
cambiamento che necessità di una immediata analisi e di essere
catturato in una forma testuale, come tentano di fare Escobar e
Levy, ma che in realtà i due non riescono a portare avanti perché
troppo coinvolti in quella sorta di atmosfera di eccitamento che
circondava il mondo delle nuove tecnologie all’inizio degli anni
novanta, come illustrano in maniera perspicace Sandar e Ravetz,
nell’introduzione alla raccolta di saggi: Cyberfutures: Culture and
Politics on the information Superhighway, il volume in cui è
contenuto anche il saggio di Escobar: “we are now getting a first
taste of ‘Cyberia’ – the new civilization emerging through our humancomputer interface and mediation.”59
Questo clima di rivoluzione tecnologica aveva influenzato
notevolmente tutti gli analisti che interpretavano l’emergere delle
nuove tecnologie mediali come una vera e propria rivoluzione
sociale e culturale, naturalmente in senso positivo ed utopistico. Un
sguardo più scettico ci è fornito invece da David Hakken, uno dei
pionieri dell’etnografia del cyberspazio, nel suo Cyborgs at
Ibidem.
Ibidem.
59 Z. Sandar e J. Ravetz (a cura di) Cyberfutures: Culture and Politics on the information
Superhighway, Pluto Press, London, 1996, p. 1
57
58
150
Dall’Utopia all’Eterotopia
Cyberspace: An Ethnographer Looks at the Future60. Hakken in realtà
non parla propriamente di cybercultura, ma di cyberspazio, tuttavia
la sua concettualizzazione del cyberspazio ha della caratteristiche
simili alla definizione di cybercultura di Escobar, infatti descrive il
cyberspazio come una arena tecnologica in cui possono esser fatti
rientrare tutti coloro che utilizzano le nuove tecnologie mediali
(AIT, Advaced Information Technology, nella terminologia di
Hakken) e alle interazioni sociali che queste definiscono, che
delineano degli stili di vita potenzialmente diversi:
Lifeways based on AIT are not only real and distinctly different;
they are transformative. The transformative potential of AITs lies
in the new ways they manipulate information. The new computerbased ways of processing information seem to come with a new
social formation; or, in traditional anthropological parlance,
cyberspace is a distinct type of culture. 61
A suo avviso è necessaria una verifica empirica di questi
cambiamenti per poter effettivamente affermare che quella che sta
emergendo, insieme alle nuove tecnologie mediali, sia veramente
una nuova cultura, per questo egli si definisce come un “cyberspace
agnostic”.
In fine il termine cybercultura nei significati sopra menzionati è
usato metonimicamente per etichettare il campo di studi sulla
cybercultura o sui nuovi media. In questo tipo di approccio
possiamo far rientrare le analisi di Manovich62 e Lister63. Manovich
delinea una distinzione tra cybercultura e i new media come due
distinti campi di ricerca, per new media theory intende una ricerca
che esplori la cultura dell’informazione, mentre per lui la
cybercultura raccoglie:
D. Hakken, Cyborgs at Cyberspace: An Ethnographer Looks at the Future, Routledge, New
York & London, 2001.
61 Ivi, p. 3.
62 Cfr. L. Manovic, Il linguaggio dei nuovi media, MCF edizioni, Milano, 2002.
63 Cfr. M. Lister; Dovey, Jon; Giddings, Seth; Grant, Iain; Kelly, Kieran. New Media: A Critical
Introduction, Routledge, New York, London, 2003.
60
151
Dall’Utopia all’Eterotopia
the study of various social phenomena associated with Internet
and other new forms of network communication. Examples of
what falls under cyberculture studies are online communities,
online multi-player gaming, the issue of online identity, the
sociology and the ethnography of email usage, cell phone usage in
various communities; the issues of gender and ethnicity in
Internet usage; and so on. [...] To summarize: cyberculture is
focused on the social and on networking; new media is focused on
the cultural and computing. 64
Lister, invece, insieme ad altri studiosi si riferiscono alla
cybercultura in due distinti modi, che sono tra di essi comunque
correlati, il primo, in contraddizione con la differenzazione che
traccia Manovich tra new media e cybercultura, corrisponde
pressappoco alla definizione di Escobar, quale insieme di pratiche
culturali e sociali, codici e immaginari; il secondo che comunque si
innerva poi senza troppi problemi nella prima definizione considera
la cybercultura come il contesto culturale delle ITC, un contesto
caratterizzato da temi quali i network, la programmazione,
l’intelligenza artificiale, la vita artificiale e così via dicendo. Un
aspetto da tenere in considerazione nell’analisi di Lister è il suo far
entrare all’interno della sfera culturale della cybercultura anche
importanti testi, spaziando dalla letteratura al cinema, che dal suo
punto di vista hanno fornito alla cybercultura un linguaggio, dei
significati e dei valori che hanno giocato un ruolo chiave nel
delineare la cybercultura stessa, tra questi cita Neuromancer di
Gibson, Synners di Cadigan e Blade Runner di Ridley Scott:
Secondly, cyberculture is used to refer to the theoretical study of
cyberculture as already defined; that is, it denotes a particular
approach to the study of the “culture + technology” complex. This
loose sense of cyberculture as a discursive category groups
together a wide range of (on many levels contradictory)
L. Manovich, New Media from Borges to HTML, in The New Media Reader, edited by Noah
Wardrip-Fruin and Nick Montfort, The MIT Press, 2003, disponibile online
www.manovich.net/DOCS/manovich_new_media.doc.
64
152
Dall’Utopia all’Eterotopia
approaches, from theoretical analyses of the implications of
digital culture to the popular discourses of science and technology
journalism.65
La cybercultura così come abbiamo potuto notare in questo breve e
superficiale excursus sulle sue interpretazioni può essere vista
come un punto di incontro di campi culturali completamente
diversi, dalla fantascienza alle scienze sociali, fino all’ingegneria e
all’informatica, che mescolandosi si sono vicendevolmente
modificate e modellate l’un l’altra, rendendo quasi impossibile una
definizione univoca della cybercultura stessa. Questo è anche
dovuto alla riflessività della cybercultura, che ha la tendenza ad
includere nelle proprie tematiche e nel proprio immaginario le
teorie che tentano di analizzarla, immaginario e tematiche che così
modificate ispirano in seguito altre teorie e interpretazioni sulla
cybercultura stessa. Come abbiamo visto le definizioni della
Cybercultura sono una miscellanea, in cui rientrano sottoculture,
pratiche culturali riferite alle ITC, visioni di un nuovo tipo di società
trasformata dalle nuove tecnologie mediali e visioni teoriche su
questi cambiamenti, tutti questi non son altro che pezzi di un
mosaico: la Cybercultura. Non si può parlare di cybercultura senza
includere questi diversi approcci, per semplificare, comunque,
possiamo affermare che la cybercultura si riferisce senza dubbio a
particolari tematiche che provengono dalla cibernetica, dalla
robotica e dalle tecnologie dell’informazione e come queste
tecnologie si intreccino con la cultura e la società. La cybercultura è
in fondo la storia della colonizzazione culturale del mondo da parte
delle ITC e il processo con cui la cultura assembla, significa questo
mondo attraverso le sue pratiche, teorizzazioni e immaginari. In
questa tesi comunque quando si farà riferimento alla Cybercultura
intenderemo certamente il nuovo campo semantico, tecnologico e
mediale determinato dalle nuove tecnologie quali, il web, internet e
la realtà virtuale che possiamo così riassumere con le efficaci parole
Lister, Martin; Dovey, Jon; Giddings, Seth; Grant, Iain; Kelly, Kieran. New Media: A
Critical Introduction, Routledge, New York & London, 2003, p. 385
65
153
Dall’Utopia all’Eterotopia
di David Silver, uno dei fondatori del Resource center for
Cyberculture Studies66:
Cyberculture is a collection of cultures and cultural products that
exist on and/or are made possible by the Internet, along with the
stories told about these cultures and cultural products. 67
Farò riferimento alla cybercultura anche in un modo più specifico,
però, intendendo una corrente sottoculturale nata agli inizi degli
anni novanta che interpretava le nuove tecnologie come strumenti
utopici, in fondo faremo nostra la visione che qui viene descritta
come l’approccio tecnoutopisto della cybercultura, che secondo
Dery era tipico di una ristretta corrente della cybercultura che si
sviluppò negli anni novanta. Abbiamo scelto questo spettro della
cybercultura perché è in questa sottocultura che si sono sviluppati
quei concetti e quelle visioni che interpretavano la cybersfera in
termini di sovversione, di sfida alla società dominate. Per questa
corrente il nuovo ambiente mediale avrebbe determinato una
rivoluzione sociale completa, il cyberspazio, come espressione
massima di questa nuova cybersfera si delineava come un vero e
proprio mondo in cui costruire e vivere la Città Perfetta, l’Utopia
realizzata. A noi interessa questa corrente, che da qui in poi
chiameremo semplicemente Cybercultura degli anni ’90, perché è in
questa corrente che l’immaginario utopico determina quella
traslazione dalla dimensione temporale a quella spaziale, definendo
le caratteristiche dell’eterotopia, che in questo caso si declinerà in
eterotopia virtuale, attraverso il cyberspazio. La cybercultura degli
anni novanta è un insieme di gruppi sottoculturali, tra i quali gli
hacker, i cyberpunk (intesi come epigoni dei protagonisti della
corrente letteraria) e tutta la galassia che Dery definisce
La Resource center for Cyberculture Studies è una organizzazione no profit online che si
pone l’obiettivo di condurre o supportare ricerche che abbiano come tema la
Cybercultura e le sue espressioni. Online all’indirizzo http://rccs.usfca.edu/default.asp
67 D. Silver, Introducing Cyberculture, disponibile online all’indirizzo
http://rccs.usfca.edu/intro.asp
66
154
Dall’Utopia all’Eterotopia
Cyberdelia68, di cui ci occuperemo in seguito, che interpretavano le
tecnologie, soprattutto quelle mediali come strumenti per la
liberazione individuale e non solo. Per questi le ITC
rappresentavano i mezzi per accedere ad un nuovo mondo più
libero, libero dai gangli del potere politico ed economico, cioè il
cyberspazio; in più, vasta parte di questa corrente interpretava le
nuove tecnologie come strumenti per un’elevazione personale, sia
cognitiva che spirituale, che avrebbe permesso la realizzazione di un
mondo completamente diverso, addirittura sostenevano che le ITC
erano solo il primo passo per una nuova evoluzione umana. Non
erano rare le disquisizioni sulla trascendenza resa possibile dalle
nuove tecnologie. Il punto di riferimento per questa cybercultura
era di sicuro, oltre al the Well, la rivista di stampo cyberpunk Mondo
2000, edita dal 1990 al 1995, che era la vera e propria cassa di
risonanza di questo immaginario cyberculturale. Per analizzare al
meglio le tematiche della cybercultura degli anni novanta abbiamo
deciso si descriverne due sotto-correnti, i Tecnopagani e i
Tecnognostici, perché riteniamo che analizzando queste le
caratteristiche della cybercultura emergeranno in maniera migliore.
Prima di ciò però è necessario esaminare più in generale qual era
l’immaginario di base di tutta la cybercultura e quali le sue
tematiche principali.
3.3 L’immaginario della Cybercultura
L’immaginario che i primi gruppi cyberculturali crearono e
svilupparono fu quello che poi definì i confini e le qualità della
cybercultura e dell’emergente mondo delle nuove tecnologie
mediali. Quello che fecero non fu altro che definire l’identità
culturale delle nuove tecnologie, articolando i suoi attributi e così
delineando i campi semantici e di influenza su cui poi si
svilupparono queste tecnologie; ne costruirono insomma i quadri
Cfr. M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, in particolar modo il primo
capitolo: Turn on, Boot up, Jack in: La Cyberdelia, pp. 27-86.
68
155
Dall’Utopia all’Eterotopia
interpretativi e così facendo ne stabilirono le aspettative, i sogni e
anche le utopie. L’immaginario cyberculturale, come abbiamo visto,
fu influenzato e prese spunto da molteplici e diversificati campi, dai
laboratori di ricerca scientifici alla letteratura cyberpunk; queste
sfere di influenza si armonizzarono tra loro perché si giungesse ad
un immaginario che avesse una coerenza e una logica interna.
L’influenza più importante per la cybercultura derivò dall’ethos
hacker degli anni sessanta, ciò i primi esperti di informatica e
robotica che nei laboratori portavano avanti le ricerche per dar vita
alle tecnologia che poi esplosero negli anni novanta. Quella voglia di
capire e far funzionare le nuove macchine, e anche quella fantasia
profetica per definirne l’utilizzo e i campi di influenza. Questo ethos
si fuse in seguito, cristallizzandosi, attraverso l’incontro con la
letteratura cyberpunk, e mutò nuovamente con l’incontro dei primi
studiosi della cybercultura come Levy o Negroponte. Quello che in
effetti avvenne fu la definizione di un universo simbolico di
riferimento per interpretare il nuovo mondo delle ITC, anzi i primi
gruppi cyberculturali “crearono il mondo delle nuove tecnologie”,
ne delinearono i principi, gli assiomi e anche le chiavi interpretative,
ne definirono insomma la “mitologia”, con annessa cosmogonia e
universo morale.
L’immaginario della cybercultura appare come un insieme correlato
e confuso di tematiche di difficile sistematizzazione, comunque ad
un’analisi più attenta si possono individuare alcune tematiche
principali, che delineano il cuore dell’immaginario cyberculturale,
su queste si innestano una serie di tematiche secondarie che aiutano
a definire in maniera più articolata e complessa l’immaginario e
l’universo simbolico cyberculturale.
I new media, come protagonisti assoluti del “nuovo mondo”,
rappresentano l’elemento principale su cui si basa tutta la
cybercultura, in una semplice riedizione del determinismo
tecnologico, quindi:



La tecnologia come agente di cambiamento
La tecnologia è uno strumento che amplia la libertà
La tecnologia come nuova frontiera elettronica
156
Dall’Utopia all’Eterotopia

Le nuove tecnologie mediali e la relativizzazione della realtà
e del sentimento di autenticità.
La cybercultura demanda ogni cambiamento sociale direttamente
alle nuove tecnologie mediali, anzi seguendo una lettura molto
stringente di McLuhan, sono le qualità intrinseche delle tecnologie
che guidano il cambiamento, piegando il reale alle proprie
caratteristiche.
Per quanto riguarda il secondo punto, naturalmente come accadde
per la diffusione dei mass media, quali la radio e la televisione, si
vengono a delineare due fazioni opposte. I cosiddetti tecno-utopisti,
o tecnofili, considerano ogni evoluzione delle tecnologie mediali
come un progresso poiché ampliano gli spazi di libertà
dell’individuo, aumentandone anche il suo potere politico, grazie al
potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie che consentono la
decentralizzazione, permettendo così al potere politico di essere più
vicino al cittadino. Inoltre le tecnologie digitali possono essere di
grande aiuto per sviluppare le potenzialità creative dell’individuo e
le sue capacità cognitive.
La visione negativa, che possiamo definire tecno-distopica o
tecnofoba, sottolinea invece il progresso delle nuove tecnologie
mediali come un ampliamento dei meccanismi di controllo del
potere centrale. Queste contraddizioni all’interno dell’immaginario
della cybercultura in realtà sono insite nella natura stessa delle ITC,
che effettivamente hanno entrambe le potenzialità, hanno la
capacità di estendere la libertà dei loro utilizzatori, come per
esempio la possibilità di libertà di movimento consentita dai
telefoni cellulari, ma anche il costante controllo che questo
comporta. All’interno dell’immaginario cyberculturale queste due
visioni intrecciano una relazione dialettica senza che una delle due
possa prevalere. Questo è chiaramente dimostrato all’interno della
narrativa cyberpunk in cui le due varianti coesistendo e
scontrandosi rappresentano in realtà le linee guide simboliche di
tutto il genere; non è un caso che ad esempio il protagonista di
157
Dall’Utopia all’Eterotopia
Neuromancer69, Case attraverso le tecnologie di realtà virtuale e del
cyberspazio affronti il potere di una megacorporation informatica,
tipico esempio del complesso militar-industriale che controlla
l’industria tecnologica.
Come abbiamo accennato in precedenza, i primi due punti
dell’immaginario cyberculturale derivano dall’ethos degli hacker
universitari degli anni sessanta, ethos che rappresenta ancora oggi il
codice di comportamento degli hacker contemporanei. Ora per
completezza penso che sia il caso di citare per esteso i punti
fondamentali che danno vita a questa morale così come sono stati
formulati da Steven Levy, nel suo famosissimo Hacker: eroi della
rivoluzione del computer70:
 L’accesso al computer e al sapere che serve a comprendere gli
eventi del mondo deve essere illimitato e onnicomprensivo. Il
principio della collaborazione deve essere valido ovunque.
 Le informazioni devono essere gratuite.
 Non credere mai alle autorità. Bisogna promuovere la
decentralizzazione.
 Si giudichi un hacker secondo il suo agire e non secondo
criteri superati quali l’età, diplomi, razze o posizione.
 Su può creare arte e bellezza con il computer.
 Il computer po’ cambiare in meglio la tua vita.
Come abbiamo visto nel precedente capitolo questo ethos era nato
alla fine degli anni cinquanta e all’inizio dei sessanta, in un periodo
in cui la società era caratterizzata da una certa rigidità, mentre al
contrario molti giovani ricercatori vivevano in una nuova sorta di
comunità. Comunità che portavano avanti le importanti ricerche
sulle tecnologie digitali e sui primi computer, e dove questi
svilupparono un rapporto molto stretto con i calcolatori, rapporto
che riuscirono a trasmettere alla generazione successiva di hacker e
che poi si estese per l’esplosione della rivoluzione dei personal
69
70
Cfr. W. Gibson, Neuromancer, Mondadori, Milano, 1984.
S. Levy, Hacker: eroi della rivoluzione del computer, Edizioni Shake, Milano, 1994.
158
Dall’Utopia all’Eterotopia
computer. Negli anni ottanta attraverso la nuova formulazione
attuata dalla letteratura cyberpunk l’etica hacker si arricchisce ma i
temi e i valori che permeano la cybercultura rimangono pressoché
invariati: l’accento sull’autonomia personale e sul suo sviluppo, e
sopratutto il credo quasi messianico sulla capacità delle nuove
tecnologie di essere agenti di resistenza contro il potere centrale.
Come si può notare l’antagonismo contro il potere centrale è tipico
della cultura americana e si riversa con tutta la sua forza anche sulla
nuova cultura delle ITC. Due dei temi che divingono centrali
all’interno dell’immaginario cyberculturale sono quelli della
relativizzazione della realtà e dell’autenticità, che vengono alla
ribalta con le nuove tecnologie, si pensi alla tecnologia della realtà
virtuale che negli anni novanta ebbe così tanta pubblicità ed
attenzione, tutto questo perché l’immaginario della cybercultura
interpreta le nuove ITC come uno strumento in grado di dar vita ad
un nuovo spazio culturale: un nuovo spazio simbolico, iperreale
stava emergendo come conseguenza dell’implosione tecnologica del
mondo umano, uno spazio che è libero dal potere gerarchico e
formale delle organizzazioni, uno spazio che si estende al di là del
mondo normale, uno spazio pioneristico, in una sola parola il
cyberspazio.
La cybercultura immaginava il cyberspazio come “la nuova
frontiera”, una nuova frontiera che fa riemergere l’atavica tradizione
americana della “conquista del West”. Il cyberspazio delinea una
nuova frontiera culturale, uno spazio non ancora colonizzato, un
caos creativo a cui si deve dar forma. La mitologia della frontiera
assicura un cambiamento, una rivoluzione culturale, che insieme
alle nuove tecnologie promettono al soggetto delle libertà ancora
più ampie e in più sembra promettere anche la liberazione dai
vincoli fisici della materia, per una libertà assoluta, forse anche
quella dalla morte. Il quarto è un argomento che diverrà un classico
della cybercultura, è l’introduzione della tematica della tecnologia
come fonte di relativizzazione della realtà e quindi della
conseguente relativizzazione delle autenticità della vita. Da una
parte l’immaginario della cybercultura sviluppa le tesi di
159
Dall’Utopia all’Eterotopia
Baudrillard sui Simulacri e sulla Simulazione71, sulla natura iperreale
della realtà mediale e la conseguente dissoluzione della distinzione
tra autenticità e inautenticità, dall’altra fa proprie le visioni di un
autore di culto della fantascienza, Philip K. Dick,72 i cui romanzi
descrivono a tinte forti la schizofrenia di un mondo dalle incerte
realtà, memorie manipolate o indotte tecnologicamente, droghe
psichedeliche e malattie mentali. Naturalmente questi due autori
introducono nella cybercultura quella visione negativa di cui prima
si parlava, in cui le tecnologie invece di essere strumenti di
emancipazione umana divengono strumenti di alienazione dal reale,
strumenti di controllo e manipolazione, non solo delle azioni, ma
addirittura della stessa realtà. A questa visione se ne associa
un’altra dai connotati del tutto diversi in cui l’alienazione e la
trascendenza dal mondo reale rappresenta un’opportunità unica
per sfuggire ai vincoli delle norme sociali e ai limiti imposti dalla
natura umana.
Dalle quattro tematiche chiave che formano il cuore della poetica
della cybercultura sono emerse un vasto numero di argomenti che
ne ampliano e ne danno maggior spessore all’immaginario, una delle
più importanti è di sicuro quella che riguarda il concetto di
ipertesto, una nuova forma testuale che è emersa con le tecnologie
digitali, concetto che ha avuto un successo accademico enorme dopo
l’esplosione del web e di internet.
Altra tematica importante è quella che vede le nuove tecnologie
come un nuovo strumento di creazione artistica, sottolineando
come le nuove tecnologie stiano cambiando la cultura visuale e
l’estetica.
Hanno destato notevole interesse anche i cambiamenti sia simbolici
che fisici che le nuove tecnologie possono apportare al corpo73,
Cfr. J. Baudrillard, Simulacra and Simulation, University of Michigan Press, Chicago,
1995 alcune parti di questo testo sono disponibili in italiano all’interno di J. Baudrillard,
Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2001.
72 Cfr. P. K. Dick, Ubik, Fanucci, Roma, 2007, Un oscuro scrutare, Fanucci,2004, Le tre
stimmate di Palmer Eldritch, Fanucci, Roma, 2003, Scorrete lacrime, disse il poliziotto,
Fanucci, Roma, 2007.
73 Cfr. D. Haraway, Manifesto Cyborg, Feltrinelli, Milano 1995.
71
160
Dall’Utopia all’Eterotopia
all’identità e al genere74, il cyborg e la robotizzazione del corpo sono
due degli argomenti più famosi e sfruttati del panorama
cyberculturale. Altrettanto sfruttata e famosa è la tematica del
cyberspazio come uno spazio di sovversione politica, l’aspetto che
poi è quello che ci interessa di più, o la possibilità che il cyberspazio
ricostituisca la habermasiana sfera pubblica che sembrava sparita
con il dominio dei mass media quali la televisione. Un altro tema
fondamentale è quello della costruzione di nuove comunità virtuali
che possano far rivivere quel sogno comunitario che si era rotto con
il declino del sogno controculturale, ma di questo e della sua
influenza sulla cybercultura abbiamo già ampliamente parlato.
Tutto questo corpus concettuale costituisce l’universo simbolico
della cybercultura, un aspetto da sottolineare riguarda come la
cybercultura abbia creato una sorta di ideologia che abbraccia
l’insieme delle nuove tecnologie mediali, modellandone la visione e
le prospettive, e cosa ancor più importante l’interpretazione, dando
vita a quelle che spesso sembrando delle profezie auto avveranti, in
cui manca quella attenta analisi critica che sarebbe necessaria, un
esempio per tutti potrebbe essere quello di Pierre Levy, così in
questo caso le parole di Clifford Geertz sull’ideologia mi sembrano le
più appropriate per descrivere l’universo simbolico della
cybercultura:
Tutte le altre possibili ideologie – proiezioni di paure non
riconosciute, travestimenti per nuovi motivi, espressioni emotive
di solidarietà di gruppo – sono sicuramente mappe di una realtà
sociale problematica e matrici per la creazione di una coscienza
collettiva.75
Dopo questo viaggio nell’immaginario cyberculturale penso sia
necessario analizzare in maniera approfondita quello che abbiamo
Cfr. Stone Allucquère Rosanne, Desiderio e tecnologia. Il problema dell'identità nell'era
di Internet, Feltrinelli, Milano, 1997 e S. Turkle, La vita sullo schermo. Nuove identità e
relazioni sociali nell'epoca di Internet, Apogeo, Milano, 1997.
75 C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 257.
74
161
Dall’Utopia all’Eterotopia
definito il “Totem” della Cybercultura, il cyberspazio, soprattutto
per quando riguarda l’immaginario eterotopico che lo riguarda.
3.4 Il cyberspazio
Il cyberspazio può essere definito come il dominio caratterizzato
dall'uso dell'elettronica e dello spettro elettromagnetico per
immagazzinare, modificare e scambiare informazioni attraverso le
reti informatiche e le loro infrastrutture fisiche. È visto come la
dimensione immateriale che mette in comunicazione i computer di
tutto il mondo in un'unica rete che permette agli utenti di interagire
tra loro, ossia come lo «spazio concettuale dove le persone
interagiscono usando tecnologie per la comunicazione mediata dal
computer (computer mediated communication, CMC)»76 È oggi
comunemente utilizzato per riferirsi al "mondo di Internet" in senso
generale, ma questa definizione è troppo ristretta, infatti come la
cybercultura anche il cyberspazio non è chiaramente definibile,
emerge da un intersecarsi di storie diverse, in primo luogo nasce da
una storia che possiamo definire simbolica, il primo che abbia mai
parlato di cyberspazio fu lo scrittore di fantascienza William Gibson,
ma di questo parleremo in seguito, quello che ci interessa è notare
come il cyberspazio acquisti i suoi significati attraverso l’intreccio di
un immaginario, che il romanzo di Gibson aveva fatto esplodere, e la
reale capacità dei sistemi tecnologici di supportare
quell’immaginario. La difficoltà di definire il cyberspazio ci è chiara
sfogliando le prime pagine del già citato Cyberspace. Primi passi
nella realtà virtuale di Benedikt:
Cyberspazio: un nuovo universo, un universo parallelo creato e
alimentato dalle reti globali di comunicazione via computer. Un
mondo in cui prende forma uno scambio globale di conoscenze,
segreti, misurazioni, indicatori , divertimenti e agenti non umani:
76
Roger Fidler, Mediamorfosi, Guerrini e Associati, Milano, 2000, pp.89-90.
162
Dall’Utopia all’Eterotopia
luci suoni, presenze mai viste sulla faccia della terra che
sbocciano in una vasta notte elettronica…
Cyberspazio: una geografia mentale comune, costruita di volta in
volta dal consenso e dalla rivoluzione, dal canone e
dall’esperimento; un territorio gremito di dati reali e di bugie, con
creazioni mentali e reminiscenze della natura, con un milione di
voci e due milioni di occhi in un silenzioso invisibile concerto di
domande, accordi, condivisione di sogni e semplice osservazione.
Dopo dieci tentativi simili a questi Benedikt chiosa affermando che
il cyberspazio come lo abbiamo appena descritto – e come è per lo più
descritto in questo libro – non esiste. Ma questa affermazione pur
essendo vera è semplicistica.77 Forse il cyberspazio come lui lo ha
descritto non esiste, poiché nel libro se ne dà una definizione una
visione gibsoniana, ma parimenti, intorno a quella visione sono nati
degli immaginari che hanno determinato l’interpretazione di
internet come di un cyberspazio. Oltre alla storia delle
immaginazioni del cyberspazio ne esiste una reale, che non è altro
che la storia dell’invenzione e dell’evoluzione di internet, questa
però è una storia che ci interessa di meno, ormai è nota a tutti
l’origine militare di Internet che all’epoca si chiamava Arpanet, e la
sua progressiva laicizzazione e adozione nel mondo civile, prima
quello accademico, poi a tutta la società, ma questo come detto è
una storia dal nostro punto di vista secondaria, quello che ci
interessa è la storia simbolica del cyberspazio, perché da questa
prendono spunto quegli immaginari utopici che porteranno il
cyberspazio ad essere visto come il luogo adatto per creare una
nuova società o il mezzo per migliorare per perfezionare quella
esistente. Il termine cyberspace fu coniato da William Gibson,
scrittore canadese esponente di punta del filone cyberpunk, per il
suo romanzo breve La notte che bruciammo Chrome78 pubblicato nel
Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993,
p. 1-2-3.
78 W. Gibson, La notte che bruciammo Chrome, Mondadori, Milano, 1999.
77
163
Dall’Utopia all’Eterotopia
1982 sulla rivista Omni e fu in seguito reso noto dal suo romanzo
Neuromancer, nel quale è così descritto:
Cyberspazio: un'allucinazione vissuta consensualmente ogni
giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione, da bambini
a cui vengono insegnati i concetti matematici... Una
rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni
computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di
luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni
di dati. Come le luci di una città, che si allontanano 79
Gibson più tardi commentò l’origine del termine nel documentario
del 1996 No Maps for These Territories:
Tutto quello che so riguardo al termine "cyberspace" quando lo
coniai, era che esso rassomigliava effettivamente ad un termine in
voga. Sembrava evocativo e essenzialmente privo di significato.
Era indicativo di qualcosa, ma non aveva nessun significato
semantico vero, anche per me, poiché lo vidi emergere mentre lo
stavo scrivendo nella pagina.80
Gibson coniò anche il termine meatspace (spazio della carne) per
indicare il mondo fisico, contrapposto al cyberspazio. La visione del
cyberspazio di Gibson come si può notare unisce in realtà due
diverse tecnologie quella di Internet, che era disponibile anche nella
realtà, e una sofisticata versione di realtà virtuale, che permetteva la
connessione diretta alla rete attraverso una connessione corticale,
cioè una connessione diretta ai centri nervosi del cervello.
Naturalmente questa versione di realtà virtuale all’epoca non era
disponibile e non lo è neanche adesso. Quello che bisogna
sottolineare è il fatto che il cyberspazio gibsoniano in realtà non era
la creazione di un mondo virtuale, bensì una semplice
visualizzazione grafica tridimensionale di dati informatici o
W. Gibson, Neuromancer, Mondadori, Milano, 1984, p. 54.
Disponibile on-line all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=poQwVguZeBg
(traduzione mia)
79
80
164
Dall’Utopia all’Eterotopia
programmi in cui ci si poteva immergere virtualmente. Il primo e
quindi forse il vero ideatore del cyberspazio come mondo
alternativo virtuale è stato in realtà lo scrittore di fantascienza Neal
Stephenson nel suo Snow Crash del 1992;81 dove in un futuro non
troppo lontano esiste il Metaverso, realtà virtuale 3D condivisa sulla
rete mondiale a fibre ottiche, alla quale è possibile accedere anche
da terminali pubblici e dove si viene rappresentati in tre dimensioni
dal proprio avatar , che consente di camminare liberamente tra bar,
negozi e posti alla moda. Tutto questo crea una sorta di mondo
parallelo dove è possibile vivere come in un mondo alternativo.
Questo è in realtà il sogno che animava l’immaginario della
controcultura degli anni novanta, un mondo alternativo in cui
vivere, un mondo perfetto, un’eterotopia virtuale, di cui Second Life
può rappresentare la realizzazione ai nostri giorni.
Dopo poco, però, oltre ad aver influenzato ed ispirato una notevole
quantità di film, romanzi e fumetti, il termine cyberspazio iniziò a
divenire de facto sinonimo di Internet, e più tardi di World Wide
Web, durante gli anni novanta, specialmente nei circoli accademici e
nelle comunità di attivisti. Lo scrittore cyberpunk e giornalista
Bruce Sterling, che rese popolare questo significato e che aveva una
visione quasi trascendentale del cyberspazio quale:
‘luogo’ nel quale sembra accadere una conversazione telefonica.
Non all’interno del vostro reale telefono, l’apparecchio in plastica
o altro materiale che si trova nella vostra scrivania. Non
all’interno del telefono dell’altra persona, che si trova in una
qualche altra città. Lo spazio tra i telefoni. ...negli ultimi venti
anni trascorsi, questo "spazio" elettrico, che era un tempo sottile e
scuro e uni-dimensionale – poco più di uno stretto tubo parlante,
che si allungava con un filo da telefono a telefono, si è
praticamente espanso, schizzando fuori come un gigantesco joker
dentro la scatola, la luce lo ha inglobato, sotto forma di luce
tremolante dello schermo di un computer. Questo mondo scuro e
nascosto rappresentato dal piccolo ricevitore telefonico connesso
tramite un filo alla rete si è trasformato in un vasto e fiorente
81
Cfr. Neal Stephenson, Snow Crash, Rizzoli, Milano, 2007.
165
Dall’Utopia all’Eterotopia
paesaggio elettronico. Dagli anni sessanta, il mondo del telefono è
divenuto ibrido con i computer e la televisione, e sebbene non vi
sia ancora alcuna sostanza di cyberspazio, nulla che si possa
maneggiare, esso ora ha uno strano tipo di fisicità. È buonsenso
oggi parlare di cyberspazio come un luogo a se stante. 82
accreditò John Perry Barlow per essere stato il primo ad usare il
termine per riferirsi al "nesso attuale tra il computer e i network
delle telecomunicazioni." Barlow lo descrive così per annunciare la
formazione dell’EFF o Electronic Frontier Foundation (da notare la
metafora spaziale) nel giugno del 1990:
In this silent world, all conversation is typed. To enter it, one
forsakes both body and place and becomes a thing of words alone.
You can see what your neighbors are saying (or recently said), but
not what either they or their physical surroundings look like.
Town meetings are continuous and discussions rage on everything
from sexual kinks to depreciation schedules. There are thousands
of these nodes in the United States, ranging from PC clone hamlets
of a few users to mainframe metros like CompuServe, with its
550,000 subscribers. They are used by corporations to transmit
memoranda and spreadsheets, universities to disseminate
research, and a multitude of factions, from apiarists to
Zoroastrians, for purposes unique to each. Whether by one
telephonic tendril or millions, they are all connected to one
another. Collectively, they form what their inhabitants call the
Net. It extends across that immense region of electron states,
microwaves, magnetic fields, light pulses and thought which sci-fi
writer William Gibson named Cyberspace.83
Questa versione del cyberspazio che in seguito verrà adottata dal
mondo accademico come “Barlowian Cyberspace” per contrapporlo
al “Gibsonian cyberspace” in realtà confonde il cyberspazio con
internet, in questo modo normalizzandone la visione, ma non
B. Sterling, Giro di vite contro gli Hacker, Shake edizioni, Milano, 1994, p. 5.
J. P. Barlow, Crime and Puzzlement, 1990, disponibile on-line all’indirizzo
/w2.eff.org/Misc/Publications/John_Perry_Barlow/HTML/crime_and_puzzlement_1.html
82
83
166
Dall’Utopia all’Eterotopia
l’immaginario, Barlow attraverso la sua fondazione Electronic
Frontier Foundation, intenderà sempre la Rete come una nuova
frontiera e un nuovo mondo da colonizzare, libero dai vincoli della
società “normale”. Comunque il cyberspazio non dovrebbe mai
essere confuso con la rete Internet vera e propria, il termine, difatti,
è spesso usato per riferirsi ad oggetti ed identità che esistono
ampiamente all'interno della comunicazione dei network stessa,
cosicché un sito web, per esempio, si potrebbe dire
metaforicamente che "esiste nel cyberspazio". Secondo con questa
interpretazione, gli eventi che hanno luogo su Internet non sono in
atto nei paesi dove si trovano fisicamente i partecipanti o i server,
ma nel cyberspazio, inteso come spazio virtuale, in cui il concetto di
cyberspazio si riferisce non al contenuto presentato al navigatore,
ma piuttosto alla possibilità di navigare tra differenti siti, tramite i
feedback loops tra l’utente ed il resto del sistema, che crea così il
potenziale di incontrare sempre qualcosa di inatteso e sconosciuto.
Un’altra accezione per cui viene utilizzato il termine cyberspazio è
all’interno dei videogiochi, soprattutto quelli in grafica 3D nella loro
variante online, in cui è possibile adottare la metafora del
cyberspazio impegnando molti giocatori nel gioco stesso, e poi
rappresentandoli figurativamente sullo schermo come avatar. Di
questi il più famoso è sicuramente Second Life, di cui ci occuperemo
approfonditamente nel prossimo capitolo. Queste applicazioni in
realtà non hanno niente a che fare con la visione del cyberspazio di
Gibson e della cybercultura degli anni novanta, perché non
prevedono la totale immersione nella realtà virtuale, o la
costruzione di un mondo virtuale alternativo, sicuramente questo è
dovuto, in massima parte, al fatto che la tecnologia della realtà
virtuale non ha avuto l’evoluzione che la cybercultura si aspettava,
anzi ormai tale tecnologia, dopo aver trascorso un periodo all’apice
dei discorsi cyberculturali, ma anche accademici, sembrerebbe aver
perso appeal, e la visione immersiva del cyberspazio sembrerebbe
del tutto scomparsa, a scapito della sempre più importante e alla
moda analisi e sviluppo del cosiddetto WEB 2.0 o del social
networking, questo è un altro discorso che affronteremo nel
prossimo capitolo quando ci immergeremo nell’analisi dei mondi
virtuali. Quello che mi preme ora mettere in luce è come il
167
Dall’Utopia all’Eterotopia
Cyberpunk non solo abbia fornito il concetto e il protagonista
principale della cybercultura, cioè il cyberspazio, ma abbia
innanzitutto creato un immaginario utile alla cybercultura per
interpretare il nuovo universo tecnologico che stava emergendo tra
la fine degli anni ottanta, decade in cui il movimento cyberpunk
nacque e dove fece la sua prima comparsa il personal computer, e la
metà degli anni novanta in cui ci fu l’esplosione di internet e del
World Wide Web. Il cyberpunk fornì una “mappa concettuale” per
interpretare e significare le trasformazioni che questa rivoluzione
tecnologica stava compiendo all’interno della società, a tutti i livelli,
culturali, cognitivi e semantici. Questo aspetto come vedremo a
breve è molto importante per le conseguenze che avrà sulla
cybercultura stessa, ma non ci dovrebbe stupire più di tanto in
fondo gli scrittori cyberpunk non facevano altro che interpretare, e
manipolare attraverso la propria immaginazione quei cambiamenti
che stavano vivendo in prima persona, come mostrano queste
illuminati parole di Bruce Sterling: “I cyberpunk sono forse la prima
generazione di fantascienza a crescere non solo nella tradizione della
science fiction ma in un verosimile mondo fantascientifico.”84
Interpretazione che corrisponde quasi completamente con l’analisi
che dà del movimento Larry McCaffery, nell’introduzione della
raccolta di saggi dedicata al cyberpunk da lui curata, Storming the
Reality Studio:
The cyberpunks were the first generation of artists for whom the
technologies of satellite dishes, video and audio players and
recorders, computers and video games (both of particular
importance), digital watches, and MTV were not exoticisms, but
part of a daily ‘reality matrix’. They were also the first generation
of writers . . . who had grown up immersed in technology but also
in pop culture, in the values and aesthetics of the counterculture
B. Sterling, Mirrorshades. L'antologia della fantascienza Cyberpunk, Bompiani, Milano,
1994, p. IX.
84
168
Dall’Utopia all’Eterotopia
associated with drug culture, punk rock, video games, . . . comic
books, and . . . gore-and-splatter SF/horror films.85
Proprio questa contestualità con la rivoluzione tecnologica che
stava avvenendo permetteva alla nascente cybercultura di
introiettare le visioni del cyberpunk come quadro culturale per
decodificare tale cambiamento, non è un caso infatti che molti critici
lessero nelle pagine dei romanzi cyberpunk una sorta di critica
sociale e una previsione del futuro, Featherstone e Burrows per
esempio affermano che fosse:
possibile decifrare nel…cyberpunk, una visione teoreticamente
coerente di un futuro molto vicino che, come sostengono alcuni, è
in procinto di collassare sul presente. […] Che Gibson lo voglia o no
la sua narrativa può essere letta sistematicamente come teoria
sociale e culturale.86
Queste parole mettono bene in luce quel meccanismo circolare, che
dal cyberpunk prende inizio, in cui la critica sociale alle nuove
tecnologie e la visione della fantascienza o di altre opere fiction si
influenzano a vicenda, circolarità evidenziata dalle parole di Kevin
Concannon che afferma come il confine tra la scienza è la
fantascienza abbia ormai trovato il suo punto di contatto e di
fusione nel cyberspazio che
has taken on a life of its own, its science fictionalization overcome
by its real world possibility…Science is creating an alternate space
of possibility that at once diverges and reinforces its fictional
representation… The border not only divides the two but also
draws them together, making any distinction between the fiction
L. McCaffery, Introduction: the desert of the real, in L. McCaffery, (a cura di) Storming the
Reality Studio: a casebook of cyberpunk and postmodern fiction, Durham NJ: Duke
University Press., p.12.
86 M. Featherstone, R. Burrows, Per una personificazione della tecnologia: introduzione, in
M. Featherstone, R. Burrows (a cura di), Tecnologia e cultura virtuale.
Cyberspace,cyberbodies, cyberpunk, FrancoAngeli, Milano, 1999, p. 24.
85
169
Dall’Utopia all’Eterotopia
of cyberspace and its fact impossible to determine: all seems fact
and fiction.87
Questa interpretazione del cyberpunk come visione sociologica
annette anche la descrizione del futuro prossimo come una
previsione a ciò che realmente avrebbe condotto la rivoluzione
tecnologica, una visione che fu fatta propria da una larga parte della
controcultura degli anni novanta e che prevedeva:
a future dominated by libertarian capitalism, where global wealth
and power are the preserve of multinationals and nation-states
are weak or gone; where a dual economy flourishes and is
enforced through corporate modes of governance and
surveillance; where society is increasingly urbanized within
fragmented, divided, simulacra cities; where the body is enhanced
through the use of genetic engineering and technical implants.88
In cui gli unici difensori della libertà rimangono gli hacker
indipendenti che si battono contro le grandi organizzazioni politicoeconomico. Il Cyberpunk, infatti, oltre ad essere interiorizzato dalla
cybercultura come quadro interpretativo per la rivoluzione
informatica, divenne un modello identitario per il movimento
hacker, che si stava espandendo velocemente negli anni novanta, e
che iniziò a considerare attendibili le previsioni del cyberpunk,
riconoscendosi come i difensori della libertà all’interno del nuova
organizzazione sociale, come piccoli Case in Neuromancer. Non è un
caso che molti analisti interpretarono il cyberpunk non solo come
movimento letterario, ma come vera e propria sottocultura89,
K. Concannon, The contemporary space of the border: Gloria Anzaldua’s Borderlands and
William Gibson’s Neuromancer, Textual Practice, 12: 429–42, cit. in D. Bell, Introduction to
cybercultura, Routlege, New York & London, 2001, p. 25.
88 M. Dodge & R. Kitchin, Mapping Cyberspace, London: Routledge, 2001, cit. in D. Bell,
Introduction to cybercultura, Routlege, New York & London, 2001, p. 23, 24.
89 Cfr. D. Bell, Introduction to cybercultura, Routlege, New York & London, 2001, spt. pp.
163-185.
87
170
Dall’Utopia all’Eterotopia
intendendo questo termine nel senso di Dick Hebdige 90, infatti i
giovani hacker oltre ad incorporare una certa etica derivante dal
cyberpunk ne ripresero anche una certa estetica, come i famosi
occhiali a specchio, che diedero anche il titolo ad una antologia
curata da Bruce Sterling91. Questa natura di vera e propria
sottocultura, caratterizzata da una forte avversione verso il potere
centrale venne sottoscritta anche dallo stesso Sterling nella
prefazione all’antologia di testi cyberpunk appena citata, in cui
afferma che il cyberpunk ha a che fare con tutte le sottoculture
metropolitane quali l’hip hop, i punk e gli hacker. Da notare nella
stessa prefazione una sorta di discendenza che Sterling delinea tra il
cyberpunk e la controcultura degli anni sessanta, ma questo non ci
deve più stupire. Chi definitivamente sdoganò il cyberpunk dai suoi
confini letterari fu il fondatore della rivista Mondo 2000, la Bibbia
della cybercultura degli anni novanta che affermò:
Cyberpunk escaped from being a literary genre into cultural
reality. People started calling themselves cyberpunks, or the
media started calling people cyberpunks. The first people to
identify themselves as cyberpunks were adolescent computer
hackers who related to the street-hardened characters and the
worlds created in the books of William Gibson, Bruce Sterling,
John Shirley, and others. Cyberpunk hit the front page of the New
York Times when some young computer kids were arrested for
cracking a government computer file. The Times called kids
"cyberpunks". Finally, cyberpunk has come to be seen as a generic
name for a much larger trend more or less describing anyone who
relates to the cyberpunk vision. This, in turn, has created a purist
reaction among the hard-core cyberpunks, who feel they got there
first.92
Cfr. D.Hebdige, Sottocultura : il fascino di uno stile innaturale, Costa & Nolan, Genova ,
1983.
91 Cfr. B. Sterling, Mirrorshades. L'antologia della fantascienza Cyberpunk, Bompiani,
Milano, 1994.
92 R.U.Sirius, Cyberpunks, in R. Rucker, R.U.Sirius, & Queen Mu (a cura di), Mondo 2000: A
Users Guide to the New Edge, 1992, p. 64.
90
171
Dall’Utopia all’Eterotopia
L’influenza del Cyberpunk comunque non si limitò alla sottocultura
cyberculturale che ne derivò, ma in realtà influenzò l’intero spettro
della cybercultura, insieme ai principi della controcultura; non è un
caso che tutti i vari sottogruppi o correnti cyberculturali
interpretassero il cyberspazio e la Rete come strumento o come
luogo, a seconda delle visioni, con cui combattere la propria
battaglia contro il potere centralizzato, o per costruire un mondo
migliore, o addirittura il luogo in cui creare una vera e propria
nuova società. Infatti il cyberspazio fu, sin dalla sua prima
definizione di stampo gibsoniano, interpretato come un luogo
utopico, dove l’unico limite sarebbe stato quello della fantasia, uno
spazio che con l’utopia ha in comune il fatto di esser sì un luogo, ma
in nessun posto. Nicole Stinger ci dice che il cyberspazio è come Oz;
c’è, ci possiamo andare, ma non ha una collocazione; apre uno spazio
per il ristoro collettivo, e per la pace.93 Barrie Sherman e Phil Judkins
ricollegando il cyberspazio alla realtà virtuale in una visione del
tutto gibsoniana del termine descrivono quest’ultima come:
the technology of miracles and dreams…allows us[…] to play God:
we can make water solid, and solid fluid; we can imbue inanimate
objects ( chairs, lamps, engines) with an intelligent life their own.
We can invent animals, singing texture, clever colours or fairies. 94
Questa era la visione più ottimistica e utopistica del cyberspazio,
molto diffusa nella cybercultura, in cui il cyberspazio rappresentava
un’alternativa perfetta, seppur virtuale per sfuggire alla pesantezza
della realtà, dove tutti i limiti umani potevano essere superati, sia
quelli fisici che quelli sociali.
Per quanto riguarda i limiti fisici la nuova tecnologia prometteva di
liberare il suo utente dai vincoli fisici e dai difetti della realtà fisica.
Offriva la possibilità di un’infinità potenzialità e potere, questa
tecnologia viene investita da fantasie di onnipotenza, poiché nel
N. Stenger, La mente è un arcobaleno che trascolora, in M. Benedikt (a cura di),
Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 59.
94 B. Sherman e P. Judkins, Glimpses of Heaven, Visions of Hell. Virtual Reality and its
Implications, Hodder & Stoughton, London, 1992, pp. 126-127.
93
172
Dall’Utopia all’Eterotopia
cyberspazio si ritiene possibile ricevere tutte le gratificazioni a cui si
ha diritto, nel cyberspazio si ha l’illusione di un magico potere
creativo. Il liberarsi dai limiti del corpo, per sfruttare tutto il
potenziale immaginativo e poietico della mente sarà uno dei temi
cardine su cui si svilupperanno varie correnti della cybercultura, ma
queste verranno analizzate nei paragrafi seguenti, qui preme il
sottolineare come la mente, con le sue virtù sia la protagonista
assoluta della cybercultura, una mente che deve essere potenziata
per sfruttarne tutte le capacità, non è un caso che proprio in questo
periodo si sia sviluppato il commercio di quelle che vengono
definite smart drug, droghe sintetiche, quali le anfetamine note per
essere potenti eccitanti. Un’altra qualità utopica che la cybercultura
rintracciava nel cyberspazio era quella di poter ricostruire
attraverso le virtual communities quel senso comunitario che nella
realtà non esisteva più, questo come abbiamo visto è il lascito più
importante che la controcultura abbia donato alla cybercultura ed è
sicuramente quello su cui si basano le visioni sociali del cyberspazio,
un nuovo villaggio globale, creato grazie alle reti informatiche,
caratterizzato però da un legame comunitario basato su una forte
solidarietà, elemento che nella società reale non era più presente,
per questo alcuni leggono l’enfasi sulle comunità virtuali più come
risposta all’ambiente reale invece che un vero e proprio sogno
utopistico, come ci mostrano queste parole di Stone Allucquere, per
cui le comunità virtuali rappresentano:
adattamenti flessibili, vivaci e pratici alle circostanze reali che si
presentano alle persone che sono in cerca di comunità… Sono
parte di un raggio di risposte innovative all’esigenza di socialità,
un’esigenza che può essere frequentemente ostacolata dalla
realtà geografica e culturale delle città…in questo contesto, le
comunità virtuali elettroniche sono complesse e ingegnose
strategie di sopravvivenza.95
Stone Allucquère Rosanne, A proposito del corpo reale: storie di frontiera sulle culture
virtuali, in Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova,
Muzzio, 1993, p. 111.
95
173
Dall’Utopia all’Eterotopia
Le comunità virtuali però sono solo una delle espressioni che la
cybercultura adotta nella sua visione del cyberspazio, alcune
correnti si spinsero ben oltre, sognando di colonizzare il nuovo
spazio virtuale e lì rimanere dopo aver abbandonato il corpo, inteso
come un vecchio ed inutile peso, e costruire un nuovo mondo adatto
alle proprie menti. Naturalmente queste sono visioni estreme, ma
condivise da tutta la cybercultura, il cyberspazio diveniva
l’eterotopia virtuale per eccellenza, tutto ciò portò a quello che è
uno dei documenti più famosi di tutto il web cioè La dichiarazione di
indipendenza del cyberspazio, redatta da J.P. Barlow e sostetuta da
tutta la sua fondazione la Electronic Frontier Foundation:
Governi del Mondo, stanchi giganti di carne e di acciaio, io vengo
dal Cyberspazio, la nuova dimora della Mente. A nome del futuro,
chiedo a voi, esseri del passato, di lasciarci soli. Non siete graditi
fra di noi. Non avete alcuna sovranità sui luoghi dove ci
incontriamo. Noi non abbiamo alcun governo eletto, è anche
probabile che non ne avremo alcuno, così mi rivolgo a voi con una
autorità non più grande di quella con cui la libertà stessa, di
solito, parla. Io dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo
costruendo è per sua natura indipendente dalla tirannia che voi
volete imporci. Non avete alcun diritto morale di governarci e non
siete in possesso di alcun metodo di costrizione che noi
ragionevolmente possiamo temere. I Governi ottengono il loro
potere dal consenso dei loro sudditi. Non ci avete chiesto né avete
ricevuto il nostro. Noi non vi abbiamo invitati. Voi non ci
conoscete e non conoscete neppure il nostro mondo. Il
Cyberspazio non si trova all'interno dei vostri confini. Non pensate
che esso si possa costruire come se fosse il progetto di un edifico
pubblico. Non potete. È un atto di natura e si sviluppa per mezzo
delle nostre azioni collettive. Non siete stati coinvolti nelle nostre
grandi e partecipate discussioni e non avete creato il valore dei
nostri mercati. Voi non conoscete la nostra cultura, la nostra
etica, e nemmeno i codici non scritti che danno alla nostra società
piu' ordine di quello che potrebbe essere ottenuto dalle vostre
imposizioni. Voi affermate che ci sono problemi fra di noi che
hanno necessità di essere risolti da voi. Voi usate questa
affermazione come un pretesto per invadere le nostre aree. Molti
174
Dall’Utopia all’Eterotopia
di questi problemi non esistono. Troveremo i conflitti reali e le
cose che non vanno e li affronteremo con i nostri mezzi. Stiamo
costruendo il nostro Contratto Sociale. Questo potere si svilupperà
secondo le condizioni del nostro mondo, non del vostro. Il nostro
mondo è differente. Il Cyberspazio è fatto di transazioni, di
relazioni, e di pensiero puro disposti come un'onda permanente
nella ragnatela delle nostre comunicazioni. Il nostro è un mondo
che si trova contemporaneamente dappertutto e da nessuna
parte, ma non è dove vivono i nostri corpi. Stiamo creando un
mondo in cui tutti possano entrare senza privilegi o pregiudizi
basati sulla razza, sul potere economico, sulla forza militare o per
diritto acquisito. Stiamo creando un mondo in cui ognuno in ogni
luogo possa esprimere le sue idee, senza pregiudizio riguardo al
fatto che siano strane, senza paura di essere costretto al silenzio o
al conformismo. I vostri concetti di proprietà, espressione,
identità, movimento e contesto non si applicano a noi. Essi si
basano sulla materia. Qui non c'è materia. Le nostre identità non
hanno corpo, così, diversamente da voi, non possiamo arrivare
all'ordine tramite la coercizione fisica. Noi crediamo che il nostro
potere emergerà dall'etica, dal nostro interesse personale
illuminato, dal mercato comune. Le nostre identità possono essere
distribuite attraverso molte delle vostre giurisdizioni. L'unica
legge che le nostre culture costituenti riconosceranno in modo
diffuso sarà la Regola d'Oro. Sulla base di essa speriamo di essere
capaci di adottare soluzioni specifiche. Non possiamo però
accettare le soluzioni che state cercando di imporre. Negli USA
abbiamo creato un legge, il Telecommunications Reform Act, che è
in contrasto con la nostra Costituzione e reca insulto ai sogni di
Jefferson, Washington, Mill, Madison, DeToqueville e Brandeis.
Questi sogni adesso devono rinascere in noi. Siete terrorizzati dai
vostri figli, poiché sono nati in un mondo che vi considererà
sempre immigranti. Poiché li temete, affidate alle vostre
burocrazie le responsabilità di genitori che siete troppo codardi
per confrontare con voi stessi. Nel nostro mondo tutti i sentimenti
e le espressioni di umanità, dalla più semplice a quella più
angelica, sono parti di un tutto senza confini, il colloquio globale
dei bits. Non possiamo separare l'aria che soffoca dall'aria
spostata dalle ali. In Cina, Germania, Francia, Russia, Singapore,
Italia e Stati Uniti, state cercando di tener lontano il virus della
175
Dall’Utopia all’Eterotopia
libertà erigendo posti di guardia ai confini del Cyberspazio. Questi
potranno controllare il contagio per un po' di tempo, ma poi non
potrà funzionare in un mondo in cui i bits si insinueranno
dappertutto. Le vostre industrie dell'informazione, diventando
obsolete, cercano di perpetuarsi proponendo leggi, in America e
altrove, che affermano di possedere facoltà di parola in ogni parte
del mondo. Queste leggi dichiarano che le idee sono dei prodotti
industriali, meno preziosi della ghisa. Nel nostro mondo, tutte le
creazioni della mente umana possono essere riprodotte e
distribuite infinitamente a costo zero. La convenienza globale del
pensiero non ha più bisogno delle vostre industrie. Queste misure
sempre più ostili e coloniali ci mettono nella stessa posizione di
quegli antichi amanti della libertà e dell'autodeterminazione che
furono costretti a rifiutare l'autorità di poteri distanti e poco
informati. Noi dobbiamo dichiarare le nostre coscienze virtuali
immuni dalla vostra sovranità, anche se continuiamo a
permettervi di governare i nostri corpi. Noi ci espanderemo
attraverso il Pianeta in modo tale che nessuno potrà fermare i
nostri pensieri. Noi creeremo nel Cyberspazio una civiltà della
Mente. Possa essa essere più umana e giusta di quel mondo che i
vostri governi hanno costruito finora. 96
Abbiamo deciso di citare Barlow per esteso perché in esso c’è
l’essenza della cybercultura, ma soprattutto è ben presente
quell’immaginario eterotopico che in questa tesi stiamo
esaminando; innanzi tutto la visione del cyberspazio come luogo
utopico e antagonista alla società reale, un mondo straordinario e
dalle potenzialità infinite in quanto regno della mente, la vera ed
indiscussa protagonista della cybercultura. Come si possono notare
le libertà alle quali si appella Barlow sono contemporaneamente
quelle della controcultura e dei padri fondatori. Come si può
ricordare questo richiamo ai padri fondatori non è nuovo, infatti lo
abbiamo sottolineato in un altro documento che abbiamo citato per
esteso, cioè il testo programmatico sui cambiamenti che la società
J.P. Barlow, Dichiarazione d’Indipendenza del cyberspazio, 1996, disponibile on-line
all’indirizzo https://projects.eff.org/~barlow/Declaration-Final.html.
96
176
Dall’Utopia all’Eterotopia
avrebbe dovuto affrontare per adattarsi alle nuove tecnologie: Il
Cyberspace and the American Dream: A Magna Carta for the
Knowledge Age redatto da una serie di autori di Wired. La
Dichiarazione d’indipendenza di Barlow ha però una differenza
notevole, nonostante sia stata scritta solo due anni dopo, qui non c’è
la minima volontà di cambiare la società “reale”, bensì
semplicemente di trascenderla nell’eterotopia del cyberspazio. Gli
unici riferimenti alla società sono accuse che le vengono rivolte per i
suoi incessanti tentativi di regolamentare e far rientrare all’interno
della propria giurisdizione il cyberspazio. La rottura tra società
reale e società virtuale rappresentava il sogno della cybercultura,
ma come sappiamo la storia andò diversamente e l’eterotopia del
cyberspazio non si è mai concretizzata, anzi sembrerebbe che il
mercato con la sua logica abbia invaso anche il mondo virtuale, ma
questo sarà il tema del prossimo capitolo non corriamo, ora forse è
il momento di analizzare due importanti correnti della cybercultura,
analisi che renderà ancor più esplicito l’immaginario eterotopico
che qui abbiamo annunciato, e metterà in luce ancor meglio alcune
caratteristiche della cybercultura, della sua visione del cyberspazio
e delle nuove tecnologie che qui abbiamo descritto, rendendole più
vivide e reali. Ci occuperemo della sottocultura Tecnopagana e di
quella Tecnognostica, due filoni che hanno portato all’estremo le
tematiche cyberculturali dell’espansione delle libertà personale dei
nuovi media e che hanno interpretato il cyberspazio come un nuovo
mondo, o come la definiamo noi, una nuova eterotopia virtuale, nel
quale superare i limiti della realtà materiale.
3.5 I tecnopagani
All’interno della corrente della Cybercultura degli anni ‘90 una delle
frange più importanti ed interessanti è senza dubbio rappresentata
dalla sottocultura dei Tecnopagani. Il tecnopaganesimo può essere
definito in modo facile, anche se superficiale, come il punto in cui il
neopaganesimo (un termine onnicomprensivo che indica una
varietà di religioni naturali politeistiche contemporanee) e la new
177
Dall’Utopia all’Eterotopia
age confluiscono con la tecnologia digitale e la cultura digitale
estrema. Erik Davis, che ne è un appassionato studioso, li definisce
come una
small but vital subculture of digital savants who keep one foot in
the emerging techno-sphere and one foot in the wild and woolly
world of Paganism. Several decades old, Paganism is an anarchic,
earthy, celebratory spiritual movement that attempts to reboot
the magic, myths, and gods of Europe's pre-Christian people.
Pagans come in many flavours - goddess-worshippers, ceremonial
magicians, witches, Radical Fairies. Though hard figures are
difficult to find, estimates generally peg their numbers in the US at
100,000 to 300,000. They are almost exclusively white folks drawn
from bohemian and middle-class enclaves.97
I tecnopagani discendono direttamente dal Neopaganesimo e dalla
New age, entrambe hanno una reverenza particolare nei riguardi
della terra e per le credenze spirituali dei popoli indigeni o delle
civiltà antiche, i neopagani e i new age si ritengono, però, collocati
su due poli opposti, il terrestre e l’aereo, lo ctonio e il celeste. Da
queste correnti il tecnopaganesimo trae spunto per affrontare sul
piano esistenziale i cambiamenti filosofici portati dalla scienza del
XX secolo; dal neopaganesimo il Tecnopaganesimo eredita alcune
concezioni che si adattano perfettamente al nuovo ambiente
mediale, di cui il cyberspazio rappresenta l’espressione più
avanzata, in primo luogo la non dogmaticità, caratteristica
principale delle tre confessioni tradizionali, infatti non hanno un
testo sacro, quali la Bibbia o il Corano, questo determina anche
l’assenza di una dottrina ufficiale, permettendo una ampia libertà
all’individuo nel seguire la propria spiritualità. Dove le religioni
tradizionali stratificavano il mondo, il neopaganesimo lo interpreta
come un network, una struttura non gerarchica, una visione perfetta
per la nuova realtà del web. A differenza delle confessioni
E. Davis, TechnoPagans. May the Astral Plane be Reborn in cyberspace, disponibile online all’indirizzo http://www.techgnosis.com/chunks.php?sec=articles originariamente
apparso su Wired, luglio1995.
97
178
Dall’Utopia all’Eterotopia
tradizionali, che possono essere definite come le religioni “del libro”,
il neopaganesimo può essere definito come la religione “dei libri”,
infatti i neopagani traggono ispirazione da varie materie, testi e
generi letterari, dalla fantascienza, alla biologia, alla fisica, alla
poesia per costruire il proprio quadro ontologico di riferimento, il
risultato è un approccio al mondo di tipo tollerante, informale,
curioso, spesso ironico e ancor più spesso contraddittorio.
I tecnopagani vivono la religione come una scoperta, come un
viaggio all’interno della propria spiritualità e della spiritualità del
mondo, Mondo inteso come un essere vivente in sé.
Della New Age, quel vasto movimento culturale che comprende
numerose correnti psicologiche, sociali e spirituali alternative, che
avevano alla base alcune credenze di derivazione controculturale,
caratterizzate da un approccio eclettico e individuale
all'esplorazione della spiritualità e della propria coscienza, i
tecnopagani invece condividono il pragmatismo, seppur in una
forma portata all’iperbole, inteso come continuo lavoro sulla
propria coscienza attraverso l’uso di tecniche e sostanze chimiche
per “l’espansione della coscienza”; lo psicologismo, già che il terreno
su cui si esercita è quello della pure consciousness precategoriale,
dell’esperienza religiosa slegata da qualunque oggetto e da
qualunque speculazione teologica, mero «stato di coscienza» da
sperimentare; soprattutto ne condivide l’idea secondo la quale you
create your own reality, cioè quel costruttivismo radicale che,
attraverso la mediazione delle nuove psicologie orientaleggianti, è
stato recepito in quel golfo mistico rappresentato dalla Bay Area
californiana come legittimazione scientifica di una posizione
conosciuta dalla filosofia europea sotto il nome di idealismo magico:
il mondo come proiezione dello spirito; ne condivide infine la
cosmologia energetica, la visione di un mondo pervaso da trame di
forze sottili che partecipano all’energia cosmica, che per questa
corrente della Cybercultura viene però rivestita di metafore
scientifiche, dall’anima mundi elettromagnetica alla rete informatica
globale come noosfera, rete di Indra o mente di Gaia. Quello che in
realtà queste correnti hanno in comune è una visione tecnofila della
spiritualità, visione che come abbiamo visto era la base delle
contraddizioni del movimento hippie. Cos’era infatti Lsd se non una
179
Dall’Utopia all’Eterotopia
tecnologia per entrare in un nuovo stato di coscienza? Ma questo è
un tema che abbiamo già trattato.
Da questo bacino culturale il tecnopaganesimo attinse le proprie
caratteristiche e credenze, in prima istanza i tecnpagani credono
che il mondo contemporaneo sia un inestricabile intreccio di
organico e sintetico, non ritenendoli elementi in contraddizione,
anzi in realtà questi sono per loro complementari, tutto rientra in
una visione tecnologia di Gaia. I tecnopagani rifiutano l’idea che la
tecnologia sia innaturale, infatti: “As a tool created by humanity,
technology is an extension of humanity and is inherently natural as
humanity itself. The follies and dangers of technology are those of its
creators, as are its triumphs.” 98 La natura di ogni strumento è visto
dai tecnopagani come un’estensione delle capacità umane:
“Technology as a whole acts as lens to magnify both the power and
the capability of humanity allowing a wider range of options and an
increase ability to accomplish work.”99
Inoltre lo sviluppo tecnologico viene interpretato come un normale
e naturale processo evolutivo, che avrebbe permesso all’umanità di
sviluppare e ampliare le proprie capacità, permettendole così di
creare un mondo migliore. La loro è una visione prettamente
evoluzionista, un evoluzionismo su cui si innervava però, un
fortissimo determinismo tecnologico, per cui ogni miglioramento
tecnologico diviene una evoluzione stessa della razza umana: “The
technological acts as an extension of the evolutionary process by
extending the capability of life itself. The possibilities of life have
increased through the development of technology, allowing humanity
to interact in more powerful ways with its environment and thrive
and diversify. That is point of life.” 100
Nonostante questa visione il tecnopaganesimo respinge il concetto
un po’ superficiale di una certa cultura razionalista, infatti i
tecnopagani sostengono che la natura non sia qualcosa che debba
essere sottomessa e neanche che la tecnologia possa in qualche
Tecnopagan manifesto, disponibile on-line all’indirizzo
http://www.backtable.org/~blade/indranet/aleph.html.
99 Ibidem.
100 Ibidem.
98
180
Dall’Utopia all’Eterotopia
maniera soppiantarla, poiché ne è semplicemente un sotto-insieme,
l’umanità lungi da essere la dominatrice riconosciuta della natura,
non è altro che anch’essa parte di questa. Essendo la tecnologia
parte integrante della natura, un uso o uno sviluppo irresponsabile
di questa deve essere interpretata alla stessa stregua di un cancro,
uno sviluppo erroneo della natura. Di questo però l’uomo è
responsabile, perché secondo la visione dei tecnopagani le
conseguenze negative della tecnologia sono dovute ad un errore
nella sua concezione, l’uomo erra tentando di usare le tecnologie
per trascendere la natura, ma questo è impossibile perché: “We
cannot escape nature because we are nature. We are animals of the
organic as much as we are animals of the synthetic.”101
Altro concetto cardine dei tecnopagani consiste nell’interpretare la
natura e la tecnologia, a se intrinseca, come un processo perfetto e
caratterizzato da una sostanziale essenza estetica, questa perfezione
si evince dagli straordinari processi biologici, così come nella
precisione degli algoritmi e dei processi tecnologici, intesa questa
inestricabile unione si comprende come la tecnologia possa essere
un’estensione di questa perfezione. La tecnologia quindi non fa altro
che dare un ulteriore impulso all’evoluzione. Arriviamo così a quello
che rappresenta il cardine del pensiero tecnopagano: i tecnopagani
credono che la magia del passato e la tecnologia del futuro siano la
stessa cosa. Questa concezione ha due padri putativi molto
differenti: da una parte lo scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke
che sosteneva che “qualsiasi tecnologia sufficientemente progredita è
indistinguibile dalla magia” 102, dall’altra la concezione di magia del
padre dei Neopagani americani Aleister Crowley, che definì la magia
come “la Scienza e l'Arte di causare cambiamenti in conformità con la
Volontà”. L’unione di tradizioni così diverse non deve stupire, visto
che è una delle caratteristiche del neopaganesimo e quindi della sua
versione tecnologica è quella di far proprie tradizioni culturali
anche molto distanti tra loro. Davis chiama queste pratiche
“interpretazioni non autorizzate”; i tecnopagani, secondo
quest’eccentrico studioso del movimento, fanno caccia di frodo
101
102
Ibidem.
Arthur C. Clarke, cit. in Dery, M., Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 57.
181
Dall’Utopia all’Eterotopia
nell’industria culturale e si appropriano solo di ciò che sembra utile
per la propria visione.
Tornando al nostro argomento principale, per i Tecnopagani il chip
è il simbolo ideale della concezione croweliana di magia, infatti:
A standard processor chip can perform a hundred million
operations in a single second - and yet none of it moves. Such a
computer chip is an arcane device that creates change by the
manipulation of subtle fundamental forces that are beyond our
perception. The scientific application and rationale behind the use
of these forces does not make the process any less magical - the
fact that the processes are governed by seemingly arbitrary laws,
can only be influenced sympathetically (that is, by affecting things
that in turn affect the phenomena that we are attempting to
modify), and we have to perform specific activities to create these
effects with the tacit assumption that these rituals will work until
the effect is observed are sufficient to qualify it as magic. 103
Le capacità del computer hanno quindi la qualità della magia e
devono essere adoperate per estendere e portare a compimento la
volontà umana. Preso atto che le tecnologie hanno raggiunto livelli
di complessità tali da renderne incomprensibile il funzionamento, i
tecnopagani hanno iniziato a concepire un programma di software
come l'equivalente di un incantesimo, il computer diviene così
l'altare dove si celebra la magia delle parole, un linguaggio capace di
produrre effetti nel mondo materiale:
I computer essenzialmente prendono stringhe di simboli e
producono altre stringhe di simboli. Da questo punto di vista, non
sono molto “magici” nel significato letterale del termine. Ma,
quando sono collegati a qualcosa che cambia il mondo in modo
significativo, attraverso l’azione robotica, i computer sono magici
per definizione. Un computer può riconoscere un simbolo verbale
“Ford Taurus”, e può in seguito accoppiarlo a un’etichetta inserite
in un data-base in modo da mettere in funzione una fabbrica
103
Tecnopagan manifesto, on-line www.backtable.org/~blade/indranet/aleph.html.
182
Dall’Utopia all’Eterotopia
automatica che a sua volta costruisce e monta un’automobile
secondo le specifiche di una Ford Taurus. Così, una stringa di
simboli viene accoppiata a una stringa di simboli di dimensioni
significative che quando viene eseguita dall’hardware giusto
modifica il mondo secondo la stringa originaria. Questo è
esattamente ciò che la magia è sempre stata, un modo per
influenzare il mondo attraverso atti simbolici che vengono
interpretati da agenti terreni per ottenere gli effetti desiderati.
Alla fine, avremo un fumo intelligente che ricava energia dalla
luce del sole e consuma aria, acqua e terra: sarà presente ovunque
e sarà sempre in attesa di sentire le parole che evocano il suo
potere per produrre beni e servizi in risposta ai bisogni umani. A
questo punto l’equazione tra tecnologia e magia sarà quasi
perfetta, ma noi non la maneggeremo con timore, perché la magia
non avrà bisogno di timore.104
La visione magica dei Tecnopagani non si ferma di certo qui, anzi
avendo alle spalle una forte tradizione animistica, quindi ritenendo
che la natura in sé sia abitata da spiriti e dei, non ci dobbiamo
sorprendere se questa corrente della cybercultura ritenga ovvio che
anche le macchine siano abitate da spiriti e piccoli dei, naturalmente
queste visioni non sono uno strenuo tentativo di riposizionare il
sacro nella tecnosfera, come al solito la legittimazione di questo
cyberanimismo non può che arrivare da alcune fantasiose
interpretazioni di romanzi, di cui il pricipale è di sicuro il classico
della New age Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta
di Robert Pirsig secondo cui: Il Buddha, il Divino, dimora nel circuito
di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo
stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore.105 Un
altro punto di riferimento essenziale è sicuramente la cybercosmologia dei romanzi di William Gibson. Neuromancer, il suo libro
di esordio ha come protagonista un hacker fuorilegge di nome Case
W. Mook, area 30, Techgnosis: Computers as Magic, nella conferenza Fringeware di
Well, 15 gennaio 1994, cit. in M. Dery, Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio,
Feltrinelli, Milano, 1997, p. 78.
105 R. Pirsing, Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, Adelphi, Milano, 1979,
p. 28.
104
183
Dall’Utopia all’Eterotopia
che si interfaccia neurologicamente con il cyberspazio, collegando il
proprio sistema nervoso a una realtà virtuale globale in cui i dati
sono immagazzinati sotto forma di palpabili illusioni. Il titolo del
romanzo è un gioco di parole sui necromanti, i maghi che evocano i
morti; Case si impegna nell’equivalente cyberpunk di queste sedute,
abbandonando davvero il proprio corpo per vagare nel regno
trascendente del cyberspazio, avendo come guida il fantasma
(generato dal computer) di un hacker morto. Come nota acutamente
Norman Spirad, Case è:
un mago la cui stregoneria consiste nell’interfacciarsi
direttamente […] con la sfera dei computer, manipolandola
immagisticamente (e venendone manipolato) in modo molto
simile a quello con cui gli sciamani tradizionali interagiscono
fantasticamente con regni mitici più tradizionali attraverso
droghe o stati di trance.106
Nel secondo e nel terzo romanzo di Gibson, rispettivamente Giù nel
cyberspazio e Monna Lisa Cyberpunk, che con Neuromancer
compongono la cosiddetta Trilogia dello Sprawl, il cyberspazio è
abitato da programmi di intelligenza artificiale (AI) che si sono
evoluti in qualcosa di strano e misterioso: un pantheon di divinità
voodoo noto come il loa. In Giù nel cyberspazio, Finn, commerciante
di tecnologie esotiche, spesso di contrabbando, elabora questa
visione:
negli ultimi sette o otto anni si è vista della roba strana girare tra
i cowboy… Troni e dominazioni…Si, ci sono delle cose, là fuori.
Fantasmi, voci. Perché no? Gli oceani avevano le sirene e tutta
quella roba, e noi abbiamo un mare di silicio, no? Sicuro, è solo
un’allucinazione su misura quella che diciamo tutti di avere, il
Norman Spirad, Science Fiction in the real world, cit. in Dery, M., Velocità di fuga,
Feltrinelli, Milano, 1997, p. 62.
106
184
Dall’Utopia all’Eterotopia
cyberspazio, ma chiunque si infili la spina lo sa, cazzo se lo sa, che
è un intero universo.107
Naturalmente per i tecnopaganani non vi è luogo migliore dove
collocare le nuove divinità dell’era tecnologica se non nel
cyberspazio. Questa affinità del mezzo con i sogni tecnopagani è ben
esplicitata dal tecnopagano autoproclamato Mark Pesce, che non a
caso è l’inventore del linguaggio VRLM, un linguaggio per un
programma di realtà virtuale: "Both cyberspace and magical space
are purely manifest in the imagination…Both spaces are entirely
constructed by your thoughts and beliefs." 108 Il cyberspazio inoltre
dà la possibilità di creare quella rete di Indra che sta tanto a cuore
alla cultura new age, da cui il tecnopaganismo discende.
Un altro tipico impiego della tecnologia da parte dei tecnopagani è
quello di utilizzarla durante i loro rituali magici, al posto degli
elementi classici dei rituali neopagani, quali candele o altro, al loro
posto dei pc, come possiamo notare da questa descrizione che ci
propone Erik Davis:
But tonight's Watchtowers are four 486 PCs networked through
an Ethernet and linked to a SPARCstation with an Internet
connection. Pesce is attempting to link old and new, and his setup
points out the degree to which our society has replaced air, earth,
fire, and water with silicon, plastic, wire, and glass. The four
monitors face into the circle, glowing patiently in the subdued
light. Each machine is running World View, and each screen
shows a different angle on a virtual space that a crony of Pesce's
concocted with 3D Studio. The ritual circle mirrors the one that
Pesce will create in the room: an ornate altar stands on a silver
pentagram splayed like a magic carpet over the digital abyss; four
multicolored polyhedrons representing the elements hover around
the circle; a fifth element, a spiked and metallic "chaos sphere,"
floats about like some ominous foe from Doom…Samhain's lesson
W. Gibson, Giù nel cyberspazio, Mondadori, Milano, 1995, p.122.
Mark Pesce, cit. in Erik Davis, TechnoPagans. May the Astral Plane be Reborn in
cyberspace, disponibile on-line http://www.techgnosis.com/chunks.php?sec=articles
originariamente apparso su Wired, luglio1995.
107
108
185
Dall’Utopia all’Eterotopia
is the inevitability of death in a world of flux, and so Rowley leads
the assembled crowd through the Scapegoat Dance, a Celtic
version of "London Bridge." A roomful of geeks, technoyuppies,
and multimedia converts circle around in the monitor glow,
chanting and laughing and passing beneath a cloth that Rowley
and Pesce dangle over their heads like the Reaper's scythe. 109
L’introduzione della tecnologia in rituali siffatti dimostra come il
tecnopaganesimo interpreti l’interconnessione di tutte le cose,
quella visione olistica dell’universo in cui tutto è collegato, naturale
e sintetico. Per concludere la disamina sui tecnopagani riportiamo
per intero quello che per i tecnopagani è il fine della loro opera,
opera svolta sempre nel tentativo di far evolvere la condizione
umana:
Technology and magick are interwoven and the responsibility of
the technopagan is to study and further both as well as their own
place in the network of nature. It is the purview of the
technopagan to communicate with both pastoral and urban
spirits and to discover how the magick and technology of the past
works with that of the future. Their duty is to uncover and explore
the mythos of the technological world as well as discover the
patterns of nature…A technopagan should actively support the
intelligent and ethical development and application of technology.
This not only means intelligent environmental causes such as
recycling, reduction of toxic wastes and intelligent disposal
thereof, but those technologies which can extend the ethical
application of will and livelihood: life extension, space exploration,
increased communication, medical technology and the like. The
advancement of humanisms and aesthetics must be actively
promoted as well. The full range of human expression must be
given the opportunity to thrive to allow for the increasing
sophistication of the spirit and the mind. This includes the
advancement of comparative religion and ethics, an increased
drive to provide education to any individuals who desire it, the
109
Ibidem.
186
Dall’Utopia all’Eterotopia
encouragement of artistic ventures of all types and the
opportunity to interact with a spectrum of cultures and peoples.
The technologies of these human facets of life must be applied and
developed with the same intelligence and ethical vigor as any
scientific or magical endeavor.110
Dopo aver analizzato questa corrente della cybercultura dobbiamo
esaminare, anche se velocemente, le domande che essa ci pone. I
tecnopagani abbracciano le nuove tecnologie perché le ritengono
indispensabili al rafforzamento della loro visione spirituale e
spiritista dell’universo, considerano il cyberspazio un nuovo circolo
magico, o uno spazio magico in cui la frattura tra i pensieri e le
azioni viene ricomposta, i tecnopagani reinseriscono il sacro nella
tecnica, ma forse tutte queste visioni possono venir ritenute una
prova del trionfo di quella che Neil Postman chiama “Tecnopoli” e
definisce come “uno stato culturale” che è anche uno “stato mentale”
e si caratterizza per:
la divinizzazione della tecnologia, il che significa che la cultura
cerca la propria giustificazione nella tecnologia, trova le proprie
soddisfazioni nella tecnologia e prende ordine dalla tecnologia.
Questo richiede lo sviluppo di un nuovo genere di ordine sociale, e
conduce necessariamente alla rapida dissoluzione di quasi tutto
ciò che è associato alle credenze tradizionali.111
Questa è sicuramente un’ipotesi da valutare, ma a livello sociologico
non possiamo non sottolineare come le nuove tecnologie, in
particolar modo internet e il cyberspazio abbiamo dato una nuova
vitalità a queste visioni spirituali della tecnologia. In primo luogo
grazie alla capacità del web di tenere in contatto questi nuovi
adepti, la carica utopica che le nuove tecnologie apportano, quali
quella di poter creare un vero e proprio mondo alternativo dove
poter dispiegare senza freni la potenza della propria
Tecnopagan manifesto, on-line /www.backtable.org/~blade/indranet/aleph.html.
N. Postman, Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, Bollati Boringhieri,
Torino, 1993, p. 71.
110
111
187
Dall’Utopia all’Eterotopia
immaginazione. Quello che vorrei sottolineare è però anche
l’importanza dell’immaginario fantascientifico per la nascita di
queste correnti, senza il cyberpunk forse una corrente come il
tecnopaganismo non sarebbe mai nata, una corrente che vuole
cambiare completamente il quadro ontologico della cultura, non fa
altro che prendere spunto dalla grande macchina dell’industria
culturale che di quel sistema è un asse portante, questo è aspetto
davvero molto interessante che richiederebbe uno studio più
approfondito, che qui non è possibile affrontare perché il nostro
viaggio all’interno dell’eterotopia cyberculturale deve andare avanti,
verso nuovi e ancor più misteriosi approdi, ora si parlerà infatti di
quella corrente che molti studiosi hanno definito Techgnosis.
3.6 I tecnognostici
Come abbiamo visto analizzando la corrente dei tecnopagani il
cyberspazio, fin dalla sua nascita, si è prestato ad ogni sorta di
elucrubazioni e di analogie mozzafiato con le tradizioni mistiche e
religiose più disparate. Un esempio lampante di tutto ciò può essere
la raccolta di saggi edita da Michael Benedikt, che abbiamo già citato
in precedenza, e che rappresenta una sorta di rassegna di queste
visioni del cyberspazio. In questo testo ad esempio Michael Heim
traccia una sorta di “ontologia erotica” del cyberspace, con
riferimento al Convivio, giungendo a sostenere che il cyberspazio è
Platonismo realizzato112; David Thomas ha paragonato l’ingresso nel
cyberspazio ad “un rito di passaggio”, seppur nell’accezione più
allargata di Turner113; Nicole Steinger ha associato questo spazio
magico alla concezione arcaica dello spazio esposta da Mircea Eliade
M. Heim, Ontologia erotica del cyberspazio, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi
passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 69.
113 D. Thomas, Vecchi rituali per un nuovo spazio: i rites de passage e il modello culturale
del cyberspazio di William Gibson, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella
realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 31-49.
112
188
Dall’Utopia all’Eterotopia
ne Il Sacro e il profano;114 come abbiamo visto nel paragrafo
precedente il programmatore neopagano Mark Pesce ha salutato
l’avvento del cyberspazio come la materializzazione dello spazio
magico, tanto cara agli sciamani tradizionali; altri ancora hanno
paragonato i viaggi nel cyberspazio alle out of body experiences, le
esperienze fuori dal corpo tanto care alla spiritualità new age. Tra
questa lunga, ma non integrale, carrellata di visioni sul cyberspazio
è doveroso menzionare Pierre Levy e la sua Coreografia dei corpi
angelici. Una (a)teologia dell’intelligenza collettiva per il buon uso dei
mondi virtuali, dove questi vengono interpretati alla luce
dell’aristotelismo neoplatonico ebraico e persiano di Avicenna e
Maimonide, in un discorso che abbina la retorica dell’immateriale al
sogno gnostico-cabbalistico della ricomposizione dell’Anthropos
primordiale, le cui disjecta membra sono disperse nel cosmo
tenebroso:
quando una mente individuale scivola nel sonno cento altre
vegliano e prendono il suo posto. Così che il mondo virtuale è
senza posa illuminato, animato dalle fiamme viventi
dell’intelligenza, si ottiene un’illuminazione collettiva che brilla
sempre. […] L’intelligenza umana? Il suo spazio è la dispersione. Il
suo tempo l’eclissi. Il suo sapere, il frammento. L’intellettuale
collettivo realizza la composizione delle sue membra. 115
Dal mio punto di vista sono due gli elementi che tengono insieme
tutte queste visioni, la prima rientra nell’arcipelago
dell’immaginario del mezzo stesso, come visto il cyberspazio era
considerato il medium che avrebbe reso possibile la
materializzazione dell’immaginazione, la seconda invece si basa su
interpretazione che ha ormai ha preso campo nell’ermeneutica della
cybercultura, anche per le sue qualità eterogenee e di ampia
N. Stenger, La mente è un arcobaleno che trascolora, in M. Benedikt (a cura di),
Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 51-61.
115 F. Berardi (Bifo), Cibernauti. Ciberfilosofia. Castelvecchi, Milano, 1995, pp. 22-23. La
tesi verrà poi ripresa e approfondita da P. Levy, ne L’intelligenza collettiva. Per
un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996. Abbiamo scelto la citazione del
Berardi perché riassume in termini più chiari il concetto.
114
189
Dall’Utopia all’Eterotopia
applicazione, cioè
la gnosi, che dà poi vita a quel filone
interpretativo che molti definiscono Cybergnos o Technognosis che
poi rappresenta il cuore di questo paragrafo.
Per gnosticismo si deve intendere una costellazione filosofica e
religiosa situata storicamente nel II e III secolo dopo Cristo. Questa
corrente religiosa prende il nome dalla parola greca gnósis
(γνῶσις), «conoscenza». Una definizione piuttosto parziale del
movimento basata sull'etimologia della parola può essere: "dottrina
della salvezza tramite la conoscenza". Mentre il giudaismo sostiene
che l'anima raggiunge la salvezza attraverso l'osservanza delle 613
mitzvòt e il Cristianesimo attraverso la fede, le opere e la Grazia, per
lo gnosticismo invece la salvezza dell'anima può derivare soltanto
dal possesso di una conoscenza quasi intuitiva dei misteri
dell'universo e dal possesso di formule magiche indicative di quella
conoscenza. Gli gnostici erano "persone che sapevano", e la loro
conoscenza li costituiva in una classe di esseri superiori, il cui status
presente e futuro era sostanzialmente diverso da quello di coloro
che, per qualsiasi ragione, non sapevano. Come detto lo gnosticismo
dei primi secoli dell'era cristiana era una sorta di “costellazione” e
aveva al suo interno varie correnti, ma queste potrebbero essere
classificate in tre grandi aree116: un'area più legata alla tradizione
ebraico-cristiana, caratterizzata da una radicale esaltazione della
trascendenza dello spirito e da una altrettanto radicale condanna
della materia e del corpo; un'area più influenzata dalla tradizione
pagana, che nel corpo individua piuttosto uno strumento di
trasgressione e di sfida nei confronti dei valori morali e delle regole
imposte dalle religioni tradizionali, infine un'area che subisce
soprattutto influssi orientali ed aspira ad una trascendenza che
superi la dicotomia mente/corpo. Fra i tecnognostici di fine
millennio è possibile riconoscere modelli simili, anche se, come
avveniva per gli omologhi antichi, le singole correnti presentano
spesso un miscuglio di differenti tendenze. Tentiamo, sulla scorta
Cfr. C. Formeti, Piccole apocalissi. Tracce della divinità nell’ateismo contemporaneo,
Cortina, Milano 1991 e Immagini del vuoto. Conoscenza e valori nella gnosi e nelle scienze
della complessità, Liguori, Napoli, 1989.
116
190
Dall’Utopia all’Eterotopia
delle letture fatte sull’argomento117, di delineare uno “spettro di
tolleranza” dello gnosticismo, un insieme in cui ricadono le idee e le
credenze che sono in vario modo costitutive di questo fenomeno
spirituale. Va da sé che ne offriremo un elenco parziale e
deliberatamente “campionario”, selezionando quelle che attingono
al nostro discorso. Eccole qui di seguito: il primato della conoscenza
sulle altre facoltà umane, e in particolare sulla fede; l’anticosmismo,
ovvero la credenza che il mondo come tale sia malvagio;
l’antisomatismo, cioè il disprezzo del corpo e di tutte le sue funzioni;
l’encratismo, cioè il rifiuto ascetico della procreazione; la divinazione
del Sé, della scintilla pneumatica superiore al corpo, all’anima al
mondo stesso e al suo creatore; l’antinomismo, ovvero il disprezzo
della morale e dell’ordine comune, che porta sia all’indifferenza per
i principi che al libertinismo e all’immoralismo attivo; l’esegesi
inversa della Bibbia, che vede, nel caso più classico, l’identificazione
con Jahvè con il Demiurgo malvagio e la rivalutazione dei suoi
avversari come salvatori: il serpente, Caino, i sodomiti e così via;
l’elitismo, vale a dire la contrapposizione di un piccolo numero di
Illuminati Pneumatici a una massa amorfa di Ilici ignoranti; la
ermeneutica sospettosa, cioè la lettura del libro del mondo e dei libri
degli uomini come “velami” che gelosamente nascondono significati
arcani che sfuggono ai più.
Bisogna sottolineare che questi caratteri non si riscontrano mai tutti
simultaneamente neanche nel cosiddetto gnosticismo storico, e
ancor più raro trovarli associati nei presunti gnostici moderni.
I primi che hanno portato alla luce certe analogie fra l'immaginario
del nostro secolo e i miti gnostici sono stati Hans Jonas118 e Carl G.
Jung119. Grazie alle loro ricerche abbiamo cominciato a riconoscere
le affinità fra le inquietudini del soggetto moderno, coinvolto in un
processo di "mondializzazione" che annienta le identità locali e ne
ricombina i frammenti generando inedite sintesi culturali, e le
Cfr. I.P. Couliano, I miti dei dualismi occidentali. Dai sistemi gnostici al mondo moderno.
JacaBook, Milano, 1989 e H. Jonas, Lo gnosticismo, Società Editrice Internazionale, Torino
1973 e C.G. Jung, Psicologia e religione, Bollati Boringhieri, Torino 1979
118 Cfr. H. Jonas, Lo gnosticismo, Società Editrice Internazionale, Torino 1973.
119 C.G. Jung, Psicologia e religione, Bollati Boringhieri, Torino 1979.
117
191
Dall’Utopia all’Eterotopia
visioni sincretiste suscitate da un processo simile ma ben più
lontano nel tempo, che risale cioè a quella tarda antichità romano
alessandrina che mise a contatto i miti della classicità pagana con
l'ebraismo, con la tradizione indoiranica e con l'astro nascente della
religione cristiana. Fu appunto l'imprevedibile corto circuito fra
tradizioni tanto diverse da sembrare inconciliabili che, due millenni
fa, diede vita all'arcipelago delle eresie gnostiche. Un insieme di culti
estremamente variegato, e tuttavia caratterizzato da due credenze
di fondo comuni. In primo luogo la convinzione che l'universo fosse
il regno d'un dio minore e malvagio, un mondo nato per "errore"
dopo la degradazione del Pleroma (lo stato di unità e perfezione in
cui riposava originariamente la "vera" divinità, una Entità
trascendente e inconoscibile che, per motivi imperscrutabili, aveva
accettato di "uscire da sé" e si era lasciata imprigionare dalla
materia). Soprattutto la convinzione che l'anima umana
rappresentasse un frammento (o scintilla divina) del Pleroma, che la
sua missione consistesse nell'assumere coscienza (gnosi) della
propria natura e che, una volta raggiunta, tale consapevolezza
avrebbe consentito di ricostituire l'unità originaria. In altre parole:
l'uomo non deve attendere salvezza da Dio ma donarla a se stesso, e
potrà farlo non appena scoprirà di essere un Dio imprigionato nelle
tenebre della materia e inizierà a salire verso la luce dello spirito.
Hans Jonas ha messo in luce quanto questo annuncio di salvezza
somigli alle moderne escatologie progressiste.120 In entrambi i casi
l'uomo occupa il centro della scena ed assume il ruolo di Salvatore.
Ed in entrambi i casi il mondo materiale e il presente vengono
rifiutati come malvagi. In realtà non tutte le correnti gnostiche
adottano la stessa visione negativa sul mondo materiale. Erik Davis,
ad esempio, che della Technognosis è il padre putativo e il grande
divulgatore, nel suo saggio Techgnosis: Magic, Memory, and the
Angels of Informations, illustra e fa sua la tesi di André-Jean
Festugière, grande studioso dell’ermetismo (altra corrente collegata
allo gnosticismo), sul Corpus Hermeticum attribuito a Ermete
Trismegisto. Lo studioso francese individua, infatti, due approcci
120
Cfr. H. Jonas, Op. cit.
192
Dall’Utopia all’Eterotopia
differenti nei riguardi del mondo, della materia e di Dio, uno
“gnosticismo positivo o ottimista” e uno “gnosticismo negativo o
pessimista”:
So-called optimist gnosis saw the world as a manifest map of
divine revelation and held that […] by inscribing a representation
of the universe within his own mens (higher mind), man can
ascend and unite with God. This positive Gnosticism drove the
proto-scientific impulses of later magicians, for whom the
universe was alive with sentient stellar forces in constant
communication with the earth, forces which could be discovered
and manipulated by the magus. […] “pessimist” was derived from
elaborate allegorical cosmologies that saw the world as a trap
ruled by an ignorant, often malevolent demiurge. The true God
was distant Alien God, and to hear his liberating call, man had to
awaken the “spark” or “seed” of light buried within. This moment
of Gnostic revelation was not just an ineffable mystical oneness,
but an influx of cosmic knowledge. 121
La frangia “positiva” si trasformò in seguito in “positivista”, come
dimostra ampiamente l’interessantissimo libro di David Noble La
religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito d'invenzione, in
cui si attribuisce una notevole importanza all’ascendente gnostico
ed ermetico sulla ricerca scientifica e tecnologica.122 Ma come
conciliare, tuttavia, il materialismo delle moderne ideologie
progressiste con l'odio gnostico nei confronti del mondo materiale?
Qui viene in soccorso l'analisi di Jung sulla grande trasformazione
innescata dall'alchimia e dall'ermetismo rinascimentali123, quando
l'anima moderna muoveva i primi passi e, mentre si appropriava
delle immagini salvifiche della mitologia gnostica, ne amplificava il
significato cogliendo la costitutiva ambivalenza che si cela dietro la
E. Davis, Techgnosis: Magic, Memory, and the Angels of Informations, in Flame Wars. The
discours of cybercultura, S.A.Q, vol. 92, n. 4 , 1993 p. 588 disponibile on-line
www.techgnosis.com/index_infoangels.html
122 D. Noble, La religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito d'invenzione, Edizioni
di Comunità, Ivrea, 2000.
123 Cfr. C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Bollati Boringhieri, Torino 1981.
121
193
Dall’Utopia all’Eterotopia
demonizzazione della materia. Il Faust alchemico scende nelle
tenebre della materia perché sa che proprio lì è imprigionata la luce
dello spirito. Il dualismo radicale della gnosi (bene/male,
luce/tenebre, spirito/materia) contiene un potenziale di inversione
che l'alchimia ha intuito per prima e che la scienza moderna ha poi
dispiegato, trasferendo sulla materia il valore supremo. Ma la gnosi
moderna non si è emancipata dal dualismo. Il rovesciamento di
valore cui abbiamo accennato, infatti, mentre trasferisce sulla
materia gli attributi di trascendenza, perfezione, bontà che l'antica
gnosi attribuiva allo spirito, proietta simmetricamente sullo spirito i
fantasmi negativi che l'antica gnosi proiettava sulla materia (vedi la
condanna marxista della religione in quanto "oppio dei popoli", o il
fastidio con cui il riduzionismo scientifico reagisce alle chiacchiere
sull'anima, liquidando le manifestazioni dello psichismo umano
come epifenomeni). Dell'eredità dualista della gnosi, insomma, non
sembra facile sbarazzarsi, al punto che dietro ogni ideologia
"monista" (il fatto che si invochi l'unità dalla parte dello spirito
oppure da quella della materia non cambia le cose) è lecito dubitare
il tentativo di esorcizzare il dilemma, facendone sprofondare
nell'ombra uno dei termini. Prima di classificare le moderne "sette"
gnostiche in relazione ai diversi modi di interpretare questo gioco di
esclusioni incrociate, e prima di verificare quanto la loro mappa
somigli a quella di duemila anni fa, vale la pena di spendere ancora
qualche parola sui canali attraverso i quali l'immaginario gnostico
ha trovato modo di attecchire e proliferare nella cultura
contemporanea, fino a trovare terreno fertile nella tecnoscienza e a
celebrare la una sorta di apoteosi postmoderna grazie all'avvento
della Rete. Una delle vie più importanti di diffusione del
neognosticismo è stata l'eredità escatologica delle sette protestanti,
particolarmente attiva nella tradizione anglosassone (vedi l'analisi
di Harold Bloom124) nella quale continuano a prosperare versioni
secolarizzate di quelle visioni, sia in campo letterario sia in campo
scientifico-filosofico. Dalle grandiose visioni politico religiose di un
William Blake, per esempio, è possibile risalire, attraverso gli incubi
124
H. Bloom, Visioni profetiche. Angeli, sogni e resurrezione, Il Saggiatore, Milano, 1999.
194
Dall’Utopia all’Eterotopia
metafisici evocati da Edgar Allan Poe e Philip. H. Lovecraft, fino alla
gnosi fantascientifica elaborata dall'ultimo Philip K. Dick. Ma è
l'intera narrativa contemporanea di fantascienza ad essere
permeata dall'idea che la salvezza stia nel futuro e che il compito
dell'uomo su questo pianeta consista nel "creare" (cioè nel divenire
egli stesso) Dio più che nell'adorarlo, come ha esplicitamente
dichiarato un maestro del genere quale Arthur C. Clarke. Un'idea
simile, pur se formulata in modo meno ingenuo, attraversa l'intera
storia dell'evoluzionismo, da Darwin ai giorni nostri. La presenza di
una vena gnostica nell'evoluzionismo è stata considerata come la
deviazione di una minoranza di pensatori eretici finché a
rivendicarla sono stati autori mistici e "vitalisti", come Bergson e
Teilhard de Chardin. Non appena la "gnosi scientifica" (attraverso le
opere di Gregory Bateson, Francisco Varela, Ilya Prigogine e molti
altri) ha invaso territori meno sospetti (teoria dei sistemi,
termodinamica, neuroscienze, ecc.) è diventato impossibile
ignorarne l'esistenza. E una sua rimozione appare ancora più
problematica da quando esiste la Rete. Non solo perché la Rete è un
mezzo potente di "democratizzazione" del sapere scientifico, nel
senso che offre ai non addetti ai lavori (in misura maggiore dei
media tradizionali) la possibilità di appropriarsi del linguaggio e
delle immagini della tecnoscienza, esaltandone il potenziale mitico.
L'immagine stessa del Cyberspazio, in quanto macchina sincretista
che mette a confronto parole, immagini e tradizioni di ogni tipo;
supercervello che trascende le identità dei soggetti che
contribuiscono ad alimentarne l'intelligenza prodigiosa, diffusa e
impersonale, sembra in grado di superare le tradizionali opposizioni
fra spirito e materia, questa sua qualità ha innescato il fiorire di
visioni gnostiche del mezzo stesso. In realtà i tecnognostici
sembrano essere più vicini alla visione “negativa” dello gnosticismo,
infatti, come mettono in luce i soliti Erik Davis e Mark Dery, quasi
tutti gli autori e i commentatori di cui stiamo trattando, fondano le
proprie analogie con lo gnosticismo quasi esclusivamente su un
aspetto: il disprezzo del corpo, del mondo e della materia e vedono
195
Dall’Utopia all’Eterotopia
nel Cyberspazio, e nel computer più in generale, il regno
immateriale dove le proprie menti e anime possano vivere libere
dalla “zavorra della materia”125. A questa visione negativa della
materia i Tecnognostici uniscono una versione estrema del
dualismo cartesiano in chiave tecnologica, per cui la mente è “altro”
rispetto al corpo, ed è di sicuro quella che conta, come dimostra
chiaramente Rudy Rucker, scrittore cyberpunk e matematico, che
collaborava con la rivista tecnopagana Mondo 2000: The soul IS the
software , you know. The software is what counts, the habits and the
memories. The brain and the body are just meat, seeds for the organtank126. Terence McKenna e Douglas Rushkoff si credono testimoni
di un mutamento epocale “la liberazione della vita dalla crisalide
della materia”127. L’antisomatismo più inferocito risuona nelle
parole di Marvin Minsky, uno dei padri dell’intelligenza artificiale: il
cervello umano è una meat machine, inadatta ad accogliere
l’elemento nobile della mente; il corpo è un bloody mess of organic
matter, o anche un teleoperator for the brain,128 e nulla più. Questo
ripudio radicale si ritrova in un altro cultore dell’intelligenza
artificiale, Haans Moravec, così come nei tecnologici proclami
dell’artista Sterlac e nel Cyber Dada Manifesto: il tuo corpo è un
fardello[…] è semplicemente carne […] tutti i sentimenti fisici ed
emotivi possono essere simulati chimicamente129. Tutta questa
acredine contro il corpo è per Dery alquanto comune tra i ricercatori
informatici, hacker e altre avanguardie della cultura digitale130. Non
è un caso che il sogno di questi tecnognostici sia quello di
trascendere tutto ciò che riguarda la materia e il mondo materiale
attraverso la “colonizzazione mentale” del cyberspazio. Il
cyberspazio diviene per costoro, “l’eterotopia virtuale” in cui la
M. Benedikt, Op. cit.
Cit. in R. Barbrook, The Sacred Cyborg, disponibile on-line all’indirizzo
http://www.imaginaryfutures.net/2007/04/03/the-sacred-cyborg-by-richardbarbrook/
127 Cfr. M. Dery, Op. cit.
128 Cit. in D. Noble, La religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito d'invenzione,
Edizioni di Comunità, Ivrea, 2000, p. 156.
129 Cyber Dada Manifesto, disponibile on-line project.cyberpunk.ru/idb/cyberdada.html
130 M. Dery, Veniamo dal cyberspazio:dalla setta suicida all’alienazione high-tech, in B.
Parrella (a cura di), Gens electrica, Apogeo, Milano, 1998, p. 118.
125
126
196
Dall’Utopia all’Eterotopia
propria mente, o anima in una visione più tecnopagana, possa vivere
senza i limiti della materia. Questa volontà di trascendenza è ben
espressa dal titolo del libro di Dery, Velocità di fuga, poiché si
riferisce alla velocità in virtù della quale ci si libera dalla gravità,
dall’attrazione che esercita il mondo ctonio con la propria
tetraggine131 e con la propria caratteristica mortalità, perché quello
dei tecnognostici è anche un desiderio di una immortalità
elettronica, come dimostra mirabilmente Toshan Ivo Quartaroli:
Il “download” della coscienza nella rete telematica come spinta
verso l’immortalità (o anche verso la resurrezione, la
reincarnazione) dell’anima; il computer eletto a “salvatore” in
grado di poter risolvere tutti i nostri problemi; la sparizione del
corpo nella realtà virtuale come desiderio di trascendenza dallo
stesso […]; il tempo reale e la comunicazione istantanea online
come la ricerca del “qui” e “ora” dell’illuminato; il progetto
collettivo di una mente globale riunita nel cyberspazio come
ricongiungimento di anime e dissolvimento dell’identificazione
come un ego e una mente individuale; lo sviluppo di hyerlink coem
desiderio di ricreare le interconnessioni tra il tutto, come una
“stanza piena di gemme in cui ognuna riflette tutte le altre. 132
Naturalmente, come al solito è nelle pagine di Timothy Leary, quale
megafono dello “spirito dei tempi” che troviamo le formule più
chiare e illuminanti sulla visione tecnognostica del cyberspazio:
Recitate tra voi questa novena composta da alcuni attributi
tradizionali della parola “spirituale”: mitico, magico, etereo,
incorporeo, intangibile, non materiale, disincorporato, ideale,
platonico. Non è questa una definizione dell’elettronica
digitale?133
Cfr. M. Dery, Velocità di fuga, Feltrinelli, Milano, 1997.
T.I. Quartiroli, Lo spirito del computer, in B. Parrella (a cura di), Gens electrica, Apogeo,
Milano, 1998, p. 174.
133 T. Leary, Caos e Cibercultura, Apogeo, Milano, 1994, p. 5.
131
132
197
Dall’Utopia all’Eterotopia
L’assoluta assimilazione dell’immateriale allo spirituale nelle parole
di Leary mostra in maniera inequivocabile quella sorta di
paralogismo che sta alla base di ognuna delle affermazioni che
abbiamo citato in precedenza, che mai viene reso esplicito e
suonerebbe più o meno così: «Tutto ciò che è spirituale è
immateriale/ il cyberspazio è immateriale/ dunque il cyberspazio è
spirituale», questo sistema di pensiero rende il cyberspazio il
medium più adatto alle visioni dei tecnognostici, come può una
tecnologia che possiede le capacità di materializzare
l’immaginazione non essere spirituale e per giunta del tutto
utopica? Questo punto lo riassume molto bene M. Bauwens:
Spiritual schools of thoughts have traditionally dealt with the
navigation of immaterial worlds (the astral and subtle planes of
existence) and with magical techniques to mold such a world to
human desires. Cyberspace does function as a magical realm
where all is possible (especially in its VR a variant) and what
better interface technique than the magical incantations, as
Vernon Vinge so brilliantly described in "True Names". It is very
likely that the scientists, engineers, artists and architects who are
building our virtual worlds, will look for inspiration in the
magical incantations of the past, as the new means of
navigations.134
Ecco appunto ciò che viene definito per antonomasia come invisibile,
incorporeo, non attingibile con le normali facoltà umane viene reso
tangibile, concreto, sperimentabile, per giunta vivibile come ci
annuncia entusiasticamente ancora il solito Leary: “questi regni
spirituali immaginati da secoli sono oggi, forse, realizzabili!”135
Realizzato il regno spirituale attraverso il cyberspazio, il corpo
sarebbe del tutto inutile. Ma questo ripudio del corpo materiale
assume toni diversi a seconda che il calcolatore elettronico sia visto
come elaboratore di operazioni logiche o piuttosto come un
M. Bauwens, Deus Ex Machina vs. Electric Gaia, disponibile on-line all’indirizzo
http://www.metanexus.net/Magazine/tabid/68/id/2920/Default.aspx
135 T. Leary, Op. cit., p. 15.
134
198
Dall’Utopia all’Eterotopia
generatore di mondi di cui è possibile fare esperienza sensibile
attraverso la realtà virtuale. La prima visione è quella propria ai
fautori dell’Emmortality, dell’immortalità elettronica: l’esperienza
dei sensi è estromessa senza appello, il software della mente è
l’unica cosa che conta e lo si potrà trasferire su un supporto
incorruttibile di silicio. La realtà virtuale sembra invece suggerire
un’esperienza di altra natura. Leggiamo quello che scrive Nicole
Stenger, nel suo saggio La mente è un arcobaleno che trascolora:
Sull’altro lato dei nostri data glove noi diventiamo creature di
luce colorata in movimento, che pulsano con particelle dorate […]
Diventeremo tutti angeli e per l’eternità. […] in questa fortezza
cubica di pixel che è il cyberspazio, noi saremo come nei sogni,
qualsiasi cosa: il Drago, la Principessa, e la Spada. […] Nel
cyberspazio perdiamo peso istantaneamente. 136
La realtà virtuale offre la libertà dall’impaccio del corpo, ma non in
favore di una mente incorporea: il corpo non va abolito, va solo
purificato dalla pesantezza della materia come suggerisce Michael
Heim: Sospeso nello spazio computerizzato, il cibernauta lascia la
prigione del corpo ed emerge in un mondo di sensazioni digitali. 137
Digital Sensation, ovvero l’esperienza dei sensi è preservata, ma
trasfigurata in una nuova forma, liberata dai limiti terreni. Il corpo
non è dismesso come una carcassa in decomposizione, ma
trasmutato, in un simulacro di pura luce, infinitamente plasmabile,
materia sottile docile all’imperio dell’intelligenza. Nei mondi virtuali
si può assumere la forma che si desidera, ci si può ingrandire e
rimpicciolire a piacimento come l’Alice di Carroll, si possono vedere
gli odori, toccare i sapori, udire i più inauditi paesaggi. Sembra quasi
di trovarsi a cospetto di quello che nella tradizione cristiana si è
chiamato “il corpo glorioso”, il corpo che vestiremo una volta risorti.
Lo si è immaginato come un corpo duttile, plasmabile a piacimento,
N. Stenger, La mente è un arcobaleno che trascolora, in M. Benedikt (a cura di),
Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale, Padova, Muzzio, 1993, p. 54.
137 M. Heim, in M. Benedikt (a cura di), Cyberspace. Primi passi nella realtà virtuale,
Padova, Muzzio, 1993, p.69.
136
199
Dall’Utopia all’Eterotopia
ora questo sembra essere possibile, non per grazia divina, ma per
intercessione di un agente tecnologico: la realtà virtuale. “L’amore”
per la macchina e il disprezzo per il corpo si dimostra anche in
termini più "fisici", vale a dire come ibridazione diretta dei due
termini: il cyborg come versione postmoderna di centauri e
chimere. Nuovo supercorpo tecnologico che possa superare i limiti
della materia e secondo molti primo esempio di quella nuova fase
evolutiva che sempre Hans Morevac assicura essere di tipo
“postbiologico”, in cui forme di vita robotica capaci di pensare e
riprodursi in maniera indipendente “matureranno” fino a diventare
entità complesse quanto noi, allora, come accennato in precedenza,
dovremmo trasferire la nostra anima e la nostra mente in memorie
di computer o corpi robotici e ci sbarazzeremo completamente della
debole carne. Come si nota la rapidissima accelerazione tecnologica
ha consentito la nascita di visioni tecnoescatologiche,
tecnomillenariste e tecnoevoluzioniste, per cui le macchine tra non
molto daranno vita alla cosiddetta “singolarità tecnologica”, termine
proveniente dalla teoria del caos che indica il punto di transizione
tra uno stato ed un altro all’interno di un sistema, ma utilizzato dallo
scrittore di fantascienza Vernor Vinge per descrivere e profetizzare
un’evoluzione cibernetica che produrrà un’intelligenza superiore a
quella umana intorno al 2030, quando la vita meccanica intelligente
assumerà il controllo sul proprio destino, producendo dei
discendenti sempre più intelligenti a un ritmo sempre più rapido.
L’inevitabile risultato sostiene Vinge, sarà l’ascesa di una
postumanità superevoluta e tecnologicamente potenziata. Il
concetto di “postumano” è quello che riunisce in qualche modo tutte
le frange tecnognostiche che vedono nel corpo un limite alle proprie
capacità e qualità intellettive, tra questi sicuramente i più famosi
sono i Transumanisti e all’interno di essi gli Estropiani, convinti di
non "essere" corpi, bensì menti che "hanno" un corpo (o meglio, di
essere banche dati, memorie, programmi, software in grado di
"girare" indifferentemente su qualsiasi tipo di hardware), gli
extropiani perseguono l'ambizioso obiettivo di divenire immortali.
Questi gruppi transumanisti predicano e invocano il progresso
scientifico e tecnologico, soprattutto quello robotico, affinché esso
entri a far parte fisicamente del corpo umano, chiamato “wetware”,
200
Dall’Utopia all’Eterotopia
in una perfetta fusione con il software o con l’hardware, affinché le
nuove scoperte scientifiche aiutino a migliorare la vita dell’uomo, ad
aumentare le capacità fisiche e intellettuali e a sconfiggere la morte
organica. Il movimento culturale globale transumanista
dell’estropianesimo138 , come si legge sulla loro pagina web, si pone
l’obiettivo di creare un dibattito creativo e critico sulle questioni
sociali e sull’impatto delle tecnologie emergenti, ma soprattutto sul
futuro dell’umanità, per sviluppare idee costruttive sull’iterazione e
l’interconnessione con il software; in questa ottica l’evoluzione
verso il “più che umano” è etico e desiderabile, perseguito assieme
alla libertà individuale (e la scelta di avvalersi o meno della
tecnologia), il pensiero razionale, la società aperta.
L’estropia è definita come l'insieme dell'intelligenza, dell'ordine
funzionale, della vitalità, dell'energia, vita, esperienza, capacità e
spinta al miglioramento e alla crescita di un sistema vivente o
organizzativo; questo termine non indica un’entità di qualche tipo,
ma è utilizzato come una metafora che rappresenta tutto ciò che
contribuisce alla prosperità e all’avanzamento dell’umanità.
L’ingegneria genetica, la nanotecnologia (e il controllo della materia
a livello molecolare o atomico), la crionica e le interfacce mentecomputer, superata la soglia della singolarità tecnologica,
contribuiranno alla trasformazione del corpo e della mente per il
superamento del “problema-morte”.
E se un computer raggiungesse un livello intellettuale superiore a
quello di un essere umano ed avesse anche la capacità di
automodificarsi per potenziare ulteriormente il proprio intelletto?
Assisteremmo ad una rapidissima (dal punto di vista di un essere
umano non-potenziato) spirale di incrementi di intelligenza?
Avremo la capacità di comprendere le attività, i pensieri e le
motivazioni di simili esseri? O dovremo incorporare le nostre
tecnologie in noi stessi, per poterlo fare e per non essere lasciati
indietro? Alcuni temono che saremo noi ad essere assorbiti dalla
nostra tecnologia... Espanderemo le nostre capacità mentali con
interfaccia fra cervello e computer? Vivremo tutti in una
138
Il sito ufficiale è all’indirizzo http://www.extropy.org/.
201
Dall’Utopia all’Eterotopia
simulazione tramite uploading, la trascrizione della coscienza
umana su un substrato di silicio? 139
Come si nota questa è una sorta di giustificazione religiosa del loro
materialismo scientifico: solo la speranza di un'immortalità
cibernetica può sostituire quella di un'immortalità metafisica,
assumendo la funzione di obiettivo e valore supremo per
l'emergente civilizzazione globale. Tuttavia i "veri" tecnognostici
sono autori di sofisticate mitologie tecnoescatologiche in grado di
reggere il confronto con quelle elaborate dagli antichi seguaci del
vescovo Valentino, e ancora una volta vanno cercati fra le culture
cyberdeliche californiane. Nel crogiolo che le ha forgiate troviamo
"L'ecologia della mente" di Gregory Bateson, il "Tao della fisica" di
Fritjof Capra e il sincretismo New Age, fra misticismo orientale ed
evoluzionismo alla Teilhard de Chardin. Il grande sogno è quello
della "Teogenesi", del processo di un Dio immanente che coincide
con l'universo, di una Mente che diviene autocosciente attraverso
l'evoluzione della specie umana. Era il sogno dei Valentiniani, era il
sogno dei mistici rinascimentali ebraici, come Lurja, era anche il
sogno di Alchimisti ed Ermetici. Oggi è il sogno dei tecnognostici che
credono di riconoscere nel cyberspazio la figura del Dio a venire.
Come il filosofo francese Pierre Lévy, che in Internet vede il
potenziale di una "intelligenza collettiva"140 che egli sembra
concepire, al tempo stesso, come una versione postmoderna della
“noosfera” di Teilhardiana memoria, e come una sorta di entità
trascendente dotata di vita propria (versione cyber di Gaia, il DioPianeta adorato dagli ecologisti). Esempio lampante di questo
tecnognosticismo escatologico è il fisico Frank J. Tipler che tenta
una riconciliazione tra fisica e metafisica. In La fisica
dell’immortalità, Tipler non offre niente di meno che “una teoria
fisica verificabile per la nascita di un dio onnipresente, onnisciente e
onnipotente che un giorno, nel remoto futuro, farà risorgere tutti noi
per farci vivere per sempre in uno spazio che in tutti i suoi tratti
www.estropico.org/index.php?option=com_content&view=article&id=75&Itemid=90
P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano,
1996.
139
140
202
Dall’Utopia all’Eterotopia
essenziali è identico al paradiso giudaico-cristiano.”141 Tipler postula
infatti un Punto Omega (un termine ripreso dalle opere del teologo
francese Pierre Teillard de Chardin) avente temperatura e densità
infinite, in cui l’universo si ritroverà a collassare con un Big Bang al
controario il Big Crunch. L’energia generata da questa implosione
potrebbe essere usata, sostiene Tipler, per alimentare un simulatore
informatico cosmico con un infinito potere di elaborazione, e udite
udite, di sicuro sufficiente a riportare in vita (virtuale) tutte le
creature che siano mai esistite.142 Quindi la realtà virtuale e il
cyberspazio rappresentano le nuove “eterotopie virtuali” in cui il
genere umano vivrà alla fine dei tempi come una visione che
coniuga Utopia e Paradiso ad un tempo.
Queste visioni tecnognostiche di tecnoescatologia provengono sia
dall’avanguardia della fisica e dell’intelligenza artificiale sia dalla
tecnocultura di derivazione new age, Terence McKenna, il più
accreditato erede di Timothy Leary, ha prodotto un software
chiamato Timewave Zero, che illustra la sua visione della storia, in
cui senza molta fantasia, il 12 Dicembre 2012, ci sarà l’arrivo di un
ineffabile mysterium tremendum, che lui stesso definisce “l’oggetto
trascendentale alla fine del tempo”. Incrocio tra l’enigmatico
monolite di 2001: Odissea nello spazio e il Punto Omega di Pierre
Teillard de Chardin, l’oggetto trascendentale di McKenna è, nelle
parole del suo profeta, una “singolarità cosmica”, McKenna,
immagina che con l’arrivo di questa si possa giungere ad una
versione cibernetica del Giardino dei piaceri terreni in cui
tutti gli accessori tecnologici del mondo attuale sono stati
miniaturizzati fino a scomparire nella natura e sono sparsi come
granelli di sabbia sulle spiagge di questo pianeta e tutti noi
viviamo nudi in paradiso ma basta desiderarlo per disporre di
141
142
F.J. Tipler, La fisica dell’immortalità, Mondadori, Milano, 1994, p. 5.
Cfr. F.J. Tipler, La fisica dell’immortalità, Mondadori, Milano, 1994.
203
Dall’Utopia all’Eterotopia
tutti i collegamenti cibernetici e della capacità di fornire beni
artificiali e dati di cui dispone questo mondo. 143
Questa descrizione non vi ricorda vagamente, anzi direi quasi
completamente, la strana qualità di Pandora, il pianeta abitato dai
protagonisti del kolossal fantascientifico Avatar? La visione di
Cameron è se possibile ancora più ardita perché i “pandoriani” sono
in grado attraverso delle connessioni biologiche di “collegarsi” con
tutti gli abitanti del pianeta e con il pianeta stesso, che ha vita
propria. Questo non deve stupire visto che il progetto è coevo alle
farneticazioni di Terence McKenna e il regista sembra esserne stato
ampiamente influenzato. Comunque tornando al nostro discorso
dobbiamo chiarire alcuni elementi importanti, come avete notato
più volte si è citato il nome e la teoria del Punto Omega di Pierre
Teillard de Chardin, ebbene costui era un padre gesuita, geologo e
paleontologo francese, il quale traccia un disegno evolutivo nel
quale dopo il mondo inorganico (geosfera) e la biosfera, sarebbe
avvenuto un passaggio alla Noosfera, mondo del pensiero. Questo
passaggio alla Noosfera è per Pierre Teillard de Chardin
determinato dalle qualità riflessive degli uomini, infatti le singole
coscienze umane comunicando tra loro, in maniere sempre più
esponenziale, si uniranno in una sorta di “SuperEssere”, nel quale
non si potranno più distinguere le diverse individualità. Il punto di
massima evoluzione, complessità e coscienza corrisponderebbe al
Punto Omega (una sorta di epifania evolutiva che segna l’avvento di
un’ “ultraumanità”, che costituirebbe il punto più alto di complessità
(socializzazione), e quindi di coscienza, che l'umanità possa
raggiungere. A questo punto la coscienza travalica lo spazio e il
tempo e si colloca su un altro e più elevato piano d’esistenza dal
quale non può più tornare indietro, quindi si giunge alla fine della
storia.144 Dopo questo breve e superficiale excursus sul pensiero di
Teillard de Chardin, sembra chiaro ed evidente perché da molti
entusiasti cyber pensatori sia stato tenuto in così alta
Questa e le altre citazioni sono al suo sito disponibili on-line all’indirizzo
http://deoxy.org/mckenna.html
144 Cfr. P. Teillard de Chardin, Il fenomeno umano, Queriniana, Brescia, 2001.
143
204
Dall’Utopia all’Eterotopia
considerazione; come abbiamo visto Pierre Levy ne riprende e si
ispira ad alcuni suoi concetti, tra i quali naturalmente il più
importante è la “noosfera”, interpretata da questi come l’espressione
più calzante per la rete globale di connessione quali internet e il
web, che hanno la capacità di unire le menti e le conoscenze di tutto
il pianeta, favorendo la nascita e l’evoluzione di un nuovo tipo di
intelligenza, l’intelligenza collettiva, appunto. Altro concetto ultra
saccheggiato dai pensatori tecnognostici, non poteva che essere il
“Punto Omega”, il luogo di incontro ideale per una concezione
tecnoescatologica dell’universo e i sogni di tecnotrascendenza,
soprannominati da Dery, la retorica della velocità di fuga, che li fa
giungere ad una visione pentecostale di un’estasi apocalittica, in cui
la storia termina e i fedeli vengono raccolti nei cieli… virtuali come
ci ha insegnato F.J. Tipler.
Naturalmente voi vi chiedere cosa hanno a che fare tutti questi
sogni di trascendenza e questi racconti tecnoescatologici con
l’evoluzione eterotopica dell’utopia, ebbene niente di tutto questo
forse sarebbe avvenuto senza l’avvento delle nuove tecnologie
mediali quali internet e la realtà virtuale, che hanno dato la
possibilità all’immaginazione utopica e mistica di ricollegarsi sullo
stesso piano, quello del cyberspazio, interpretato come luogo in cui
la mente possa liberamente vagare, dar vita e abitare la propria
immaginazione. Almeno questo era il sogno quando la tecnologia
della realtà virtuale stava, forse solo nel sogno di alcuni,
convergendo verso il web. Ora che questo processo pare essersi
arenato, per la mancata e adeguata evoluzione di sistemi di realtà
virtuale, questa visione trascendente sembra essersi esaurita e
trasformata nell’esplosione del Web 2.0, in cui il sogno non è più di
trascendere la propria esistenza materiale, ma la necessità di
espandere la propria “presenza esistenziale” all’interno del regno
mediale del web, in cui la categoria principale può essere
rappresentata da binomio “visibilità-riconosciemnto” di hegeliana
memoria.145 Una semplice spiegazione di questo processo è
sicuramente il fatto che le correnti della cybercultura che abbiamo
Cfr. G. Scurti, Visibilità e riconosciemento. Ipotesi per una teoria sociale dei media.
Liguori Editore, Napoli, 2008.
145
205
Dall’Utopia all’Eterotopia
trattato in questi due ultimi paragrafi sono correnti nate all’inizio
dell’esplosione delle tecnologie mediali e della realtà virtuale, e
come abbiamo spiegato già nel passato capitolo e come dimostra
molto bene Armand Mattelart nella sua Storia dell'utopia
planetaria146, ogni nuova tecnologia mediale, ricordiamo la stampa,
ha sempre dato vita al sogno di riunire l’umanità in un’unica e
grande famiglia, in fondo Thomas More era un noto ecumenista, in
più il cyberspazio donava anche un nuovo spazio libero per il sogno
di una società perfetta, ma le spinte utopiche si sono spente presto
dopo l’invasione dei capitali all’interno di questo “regno
dell’immaginazione
realizzata”.
Comunque
la
potenza
dell’immaginario eterotopico non si è esaurita e come vedremo nel
successivo paragrafo si è estesa anche all’interno del “mondo reale”,
ora il nostro viaggio ci porterà all’esplorazione di altre due
espressioni dell’immaginario eterotopico, la T.A.Z. teorizzata da
Hakin Bey e la Rave Culture.
3.7 TAZ e Rave Culture
Un’operazione di guerriglia che libera un’area (di tempo, di terra, di
immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un
altro tempo prima che lo Stato la possa schiacciare147, così descrive il
suo sogno eterotopico Hakim Bay, pseudonimo di un personaggio
eterodosso, maestro sufi, artista d’avanguardia, esperto di
misticismo e uno dei pensatori più influenti nelle correnti
antagoniste degli anni ’90, soprattutto nell’area cyberculturale per
le sue peculiari visioni di dichiarata discendenza cyberpunk.
Intellettuale poliedrico, nei suoi testi riesce a coniugare Deleuze e
Guattari con i Bucanieri del XVII secolo, Nietzsche con Sterling,
Foucault con D’Annunzio, gli anarchici post-bolscevichi con i
A. Mattelart, Storia dell'utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale.
Einaudi, Torino, 2003.
147 H. Bey, T.A.Z., Zone Temporaneamente Autonome, Milano, Shake, 1997 p. 15.
146
206
Dall’Utopia all’Eterotopia
Situazionisti, la teoria del caos con il Taoismo, concettualizza una
visione eterotopica delle più complesse e allo stesso tempo chiare:
un territorio realmente nuovo e utopico, anche se questo punto è
controverso:
La TAZ è utopica nel senso che prevede un’intensificazione della
vita quotidiana, o come avrebbero potuto dire i Surrealisti, la
penetrazione della Vita da parte del Meraviglioso. Ma non può
essere utopica nel senso normale del termine, da nessuna parte, o
PostoNessunPosto. La TAZ è da qualche parte.148
La TAZ condensa in sé tutte le eredità e le variegate influenze che la
cybercultura racchiude, dando vita ad una utopia, non solo
eterotopica, ma anche delimitata nel tempo, poiché quello di cui
stiamo parlando sono epifanie utopiche che per produrre il loro
effetto devono durare il tempo della proprio vissuto, periodi di
libertà nelle pieghe del controllo statale. Questa visione utopica che
mai Hakim Bay spiega con chiarezza, ma di cui rintraccia alcuni
esempi nel passato, considerato che la TAZ è accaduta, accade e
accadrà149, introduce alcuni elementi importanti che sottolineano
delle trasformazioni all’interno dell’immaginario controculturale a
cui avevamo fatto accenno nell’introduzione, il più importante è la
sua dichiarata visione eterotopica, un ulteriore elemento nodale la
predilezione per l’insurrezione150, al posto della rivoluzione, questa
lungi dall’essere una semplice diatriba terminologica introduce una
decisiva trasformazione dell’immaginario in chiave eterotopica, a
discapito di una visione temporale; infatti Hakim Bay sottolinea
come il destino di ogni rivoluzione sia il tradimento dei propri ideali
per l’instaurazione di un nuovo Stato liberticida, una dialettica tra
Rivoluzione e Stato che ricorda molto da vicino quella descritta da
Ivi, p. 28
Ivi, p. 33
150 Cfr. l’Introduzione in cui la dicotomia era formata dai termini Rivoluzione e
Sovversione, invece di Insurrezione.
148
149
207
Dall’Utopia all’Eterotopia
Mannheim tra ideologia e utopia, per cui una volta che un’utopia
riesce ad instaurarsi si trasforma inevitabilmente in ideologia
creando le condizioni per il sorgere di nuove utopie, nel movimento
fondamentale dell’evoluzione sociale secondo lo studioso
tedesco.151 In quest’ottica Hakim Bay sottolinea l’importanza
dell’insurrezione per la sua natura di rottura sia della dimensione
temporale, in quanto epifania, sia della dimensione istituzionale,
non avendo la volontà di creare una nuova organizzazione sociale:
Se la Storia è Tempo come dice di essere, allora la sollevazione è
un momento che salta su e fuori dal Tempo, viola la Legge della
Storia. Se lo Stato è Storia, come dice di essere, allora
l’insurrezione è il momento proibito, un’imperdonabile negazione
della dialettica.152
In cui la dialettica in questione non è altro che quella tra Rivoluzione
e Stato, Stato interpretato come totem liberticida contro cui
combattere tentando di creare degli spazi alternativi ed antagonisti:
le TAZ appunto, elemento che evidenzia in realtà una intrinseca
debolezza dell’impianto utopico nel delineare una completa
organizzazione sociale alternativa allo Stato, inteso come statonazione, o come lo definisce Hakim Bay lo Stato terminale, lo Stato
megacorporato dell’informazione, l’Impero dello Spettacolo e della
Simulazione153 che non permette possibilità di trasformazione, ma
solo momenti e spazi ristretti di insurrezione. Occasionalità ed
eterotipicità determinata secondo l’intellettuale americano dalla
chiusura del mondo, dall’impossibilità di una nuova frontiera dove
sperimentare differenti comunità umane. Di questo abbiamo già
parlato e diffusamente continueremo a parlarne, ciò che preme
sottolineare è la chiara e manifesta discendenza cyberculturale,
cyberpunk in particolare, sia nell’interpretazione della figura dello
Cfr. K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1970, p. 219.
H. Bey, Op. cit., Shake, Milano, 1997 p. 13.
153 Ivi, p. 14
151
152
208
Dall’Utopia all’Eterotopia
Stato, sia per la concettualizzazione delle TAZ. Influenza espressa
nella prime pagine del testo, in cui è scritto che l’ideazione delle TAZ
è direttamente ispirata ad un racconto di Bruce Sterling Isole nella
Rete154 in cui la degenerazione dei sistemi statali aveva dato vita a
innumerevoli enclavi autonome. Questo però non rappresenta
l’unico ascendente cyberculturale sull’opera di Hakim Bay, molto
più importante è l’attenzione che l’autore dedica allo sviluppo
dell’informatica e del web in particolare, che divengono elementi
fondamentali per lo sviluppo e il sorgere delle TAZ. Rete
naturalmente intesa come ControRete, una comunità virtuale
antagonista che fornisca supporto logistico alle TAZ, una libera
circolazione di informazioni, insomma la classica visione cyberpunk
del cyberspazio di cui abbiamo discusso nelle pagine precedenti. Ma
avverte Hakim Bay le Taz non si possono limitare al cyberspazio, il
computer è solo un mezzo perché le TAZ abbiano successo:
La TAZ per sua stessa natura si impossessa di ogni mezzo
ottenibile per realizzarsi – verrà alla luce sia in una caverna sia
una città Spaziale – ma soprattutto vivrà…userà il computer,
perché il computer esiste, ma userà anche poteri che sono così
completamente dissociati dall’alienazione o dalla simulazione… la
TAZ desidera soprattutto evitare mediazioni, per sperimentare la
sua esistenza come immediata…La TAZ è un posto fisico o ci siamo
dentro o no. Tutti i sensi devono essere coinvolti… La vera essenza
dell’affare è il petto a petto, come dicono i sufi, o il faccia a faccia.
La TAZ deve ora esistere dentro un mondo di puro spazio, il
mondo dei sensi.155
Nonostante questi evidenti distinguo l’ascendente cyberculturale in
Hakim Bay è fondamentale e decisivo, non solo vede nella natura
non gerarchica della Rete un esempio positivo da imitare nella
costituzione delle TAZ, ma soprattutto pensa alla Rete, in particolare
154
155
B. Sterling, Isole nella rete, Fanucci, Roma, 2003.
Ivi pp. 29, 27, 33, 56.
209
Dall’Utopia all’Eterotopia
nella sua visione cyber-utopica, che definisce Tela o ControRete,
come il supporto logistico per dar vita alle TAZ, che essendo
organizzazioni limitate nel tempo e nello spazio necessitano di una
network di contatti e di informazioni che possa mantenere in vita le
comunità che animano le TAZ, naturalmente in maniere clandestina,
sfuggendo ai controlli del Potere e dello Stato, per questo l’etica e la
cultura hacker divengono predominanti con le proprie capacità
informatiche piegate agli interessi delle TAZ:
dobbiamo considerare la Tela primariamente come un sistema di
supporto, capace di portare informazioni da una TAZ all’altra, di
difendere la TAZ rendendola invisibile… La Tela non solo provvede
al supporto logistico per la TAZ, la aiuta a divenire… la Tela può
procurare una specie di sostituto per parte di questa durata e
località. 156
Naturalmente Hakim Bay per “sostituto di questa durata e località”
intende uno spazio-tempo alternativo e di consistenza maggiore alla
evanescenza costitutiva della TAZ, una dimensione che solo il
cyberspazio può donare alle TAZ senza svuotarle del proprio
contenuto e sogno antagonista. Ora, dopo aver individuato le
influenze cyberculturali della TAZ è necessario definire quali siano
le sue caratteristiche principali, è qui noteremo come ci si trovi di
fronte ad una vera e propria utopia, non è un caso che il primo
soggetto in questione diviene la famiglia. Per Hakim Bay la famiglia
nucleare è l’unita di base di una società capitalistica/industriale,
caratterizzata dalla gerarchia, dal predominio maschile, con le sue
conseguenti “miserie edipiche”157 ed è tipica di una società basata
sulla scarsità, mentre le TAZ sfruttano un’evoluzione della società
post-moderna in cui si evidenza una nuova dinamica relazionale,
quella tipica della Banda, caratterizzata dalla sua maggior
156
157
Ivi, pp. 25 e 26.
Ivi, p. 18.
210
Dall’Utopia all’Eterotopia
estensione, dalla sua orizzontalità non gerarchica, ideale per la
dimensione anarcoide della TAZ:
Se la Famiglia nucleare è prodotta dalla scarsità (e risulta in
infelicità), la Banda è prodotta dall’abbondanza – e risulta in
prodigalità. La famiglia è chiusa dalla genetica, dal possesso
maschile delle donne e dei bambini, dalla totalità gerarchica della
società agricola/industriale. La Banda non è parte di una
gerarchia più ampia, ma invece parte di un modello orizzontale di
costume, parentela estesa, contratto, alleanza, affinità spirituale…
La Banda include amici, sposo/a e amanti, gente incontrata su
diversi lavori e pow-wow, gruppi di affinità, reti di interessi
speciali, resti postali ecc.158
Evidente ancora una volta l’influenza della cybercultura, come non
riconoscere in questa descrizione la visione orizzontale delle
comunità on-line con tutte le sue più rosee previsioni, il ritorno di
una sorta di economia del dono al posto del sistema capitalistico,
come non collegare l’immagine della Banda a quella dei
cacciatori/raccoglitori di informazioni delineata da Joshua
Meyrowitz159 nel suo famosissimo Oltre il senso del luogo? Hakim
Bay in realtà sembra essere il megafono del nuovo immaginario
cyberculturale, miscelato con un certo pensiero post-moderno come
le già citate influenze di Deleuze, Foucault e i Situazionisti, che lo
studioso tenta di fondere per costituire nel “mondo reale” ciò che la
cybercultura ipotizzava di poter creare nel cyberspazio.
La TAZ inoltre assume la forma del Festival o dello festa, questo
perché per sua natura la festa è sospensione del tempo dominante, è
un sovvertimento della struttura sociale, crea uno spazio/tempo
alternativo, delle “zone liberate” appunto, pensiamo ai Saturnali, ai
Baccanali, al Carnevale, questi sono i riferimenti di Hakim bay, e di
certo non possono mancare i riferimenti alla controcultura con i
suoi immensi festival come lo Human Be In o Woodstock, e non è un
Ivi, p. 19.
Cfr. J.Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elettronici sul
comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995.
158
159
211
Dall’Utopia all’Eterotopia
caso che come principio organizzatore venga suggerita la musica
che in sé racchiude tutte i pregi di una festa: la convivialità, il senso
di comunità, l’estasi liberatrice, il godimento estetico, per farla
breve tutte i sogni di liberazione fisici e psicologici che la
Controcultura aveva delineato Hakim Bay li ha ripresi. Questi
aspetti li analizzeremo al meglio, comunque, quando analizzeremo i
rave party, di sicuro la migliore, la più diffusa, in realtà forse l’unica
forma di TAZ che abbia mai visto la luce.
Altra elemento chiave che deve animare la realtà della TAZ è il
concetto, ripreso direttamente da Deleuze e Guattari di
Nomadologia e la Macchina bellica, di Nomadismo psichico che
Hakim Bay interpreta come un cosmopolitismo senza radici, causato
in massima parte dal processo di globalizzazione seguito alla caduta
delle ideologie, evoluzione che conduce ad un nuovo approccio poliprospettico al reale che il nostro descrive in maniera quanto mai
suggestiva:
questa visione fu ottenuta a costo di abitare un’epoca in cui la
velocità e il “feticismo della merce” hanno creato una tirannica
falsa unità culturale che tende a levare tutta la diversità e
individualità culturale, cosicché “un posto vale l’altro”. Questo
paradosso crea “zingari”, viaggiatori psichici spinti dal desiderio o
dalla curiosità, vagabondi con poche lealtà...non legati a nessun
particolare tempo e luogo in cerca di diversità e di avventura.160
Questa particolare dimensione esistenziale appartiene praticamente
a tutti noi, orfani ormai di qualsiasi punto di riferimento, sia esso la
nazione o la religione, quindi un nomadismo psichico inteso quale
tattica esistenziale da opporre ad una strategia di disgregazione e
omogeneizzazione che nega una qualsivoglia visione di
emancipazione individuale, emancipazione a cui la TAZ può invece
dare vita, creando un’eterotopia di sicuro effimera, ma per questo
ancor più efficace:
160
H. Bey, Op. cit., p. 22.
212
Dall’Utopia all’Eterotopia
Questi nomadi praticano la razzia, sono corsari, sono virus; hanno
bisogno e voglia di TAZ... Questi nomadi tracciano loro percorsi
con strane stelle, che possono essere luminosi gruppi di dati nel
cyberspazio, o forse allucinazioni. 161
La TAZ rappresenta quindi il condensarsi, il coagularsi di queste
linee esistenziali, che comunque non sono nuove nella storia
dell’umanità, anzi Hakim Bay nel suo testo passa in rassegna alcuni
esempi di proto-TAZ, l’isola di Tortuga dei Bucanieri del XVII secolo,
o la Comune di Parigi del 1848 fino a giungere alla Fiume liberata da
D’Annunzio nel 1919, ma in realtà non delinea mai per esteso un
esempio chiaro di TAZ contemporanea, ne cosa essa sia in realtà, al
massimo arriva ad affermare che la TAZ è una sorta di opera d’arte
anche se scrive: rifiuterei con forza la critica che la TAZ stessa “altro
non è” che un’opera d’arte...Suggerisco che la TAZ è l’unico possibile
“luogo” e “tempo” per l’accadere dell’arte, per il puro piacere del gioco
creativo, e come tangibile contributo alle forze che permettono alla
TAZ di aggregarsi e manifestarsi.162
La TAZ quindi come unica possibilità di poter condividere attimi,
per quanto fugaci, di reale espressione umana, poiché questo in
definitiva rappresenta la figura dell’arte, il sogno di poter esprimere
completamente la propria umanità, soprattutto la propria carica
libidica in una comunione empatica che lo Stato, inteso alla Hakim
Bay, essendo un sistema spettacolare e di simulazione, impedisce.
Per questo ha un tempo e uno spazio effimeri, la reale soddisfazione
di esistenza va dissipata nell’attimo del suo vissuto, solo così può
avere il suo effetto liberatorio, senza rischiare di avvolgersi su se
stessa divenendo attaccabile da parte del sistema sociale. Questo
sogno liberatorio, dionisiaco, è espresso al meglio da una citazione
di Nietzsche, tratta dalle sue lettere alla sorella, che apre il testo e
rappresenta la summa del pensiero di Hakim Bay:
161
162
Ivi, p.23.
Ivi, p.55.
213
Dall’Utopia all’Eterotopia
questa volta però vengo come il Dioniso vittorioso, che
trasformerà il mondo in una vacanza…Non che abbia molto
tempo…
Questo sogno è la base spirituale di quella che abbiamo già definito
come l’unica TAZ che sia mai esistita: il Rave party. Questo
racchiude in sé tutte le caratteristiche delle TAZ, esaltandone
alcune, portando alla parossismo la tradizione Hippie della
controcultura, miscelata con una visione iper-tecnologica grazie alla
passione per la musica techno. I rave non son altro che feste senza
fine che possono durare un’intera notte e ancor di più, in cui si balla
senza tregua per ore ed ore al ritmo della musica techno quasi
sempre con l’ausilio di sostanze psicotrope, in particolare la
celeberrima Ecstasy o MDMA. Il rave esalta ovviamente la natura
transitoria della TAZ, insieme al suo carattere di festa e festival, e
naturalmente la musica riveste il ruolo di protagonista. Nonostante
queste caratteristiche generali non si riesce a delimitare il
fenomeno dei rave, si tratta infatti di un movimento molto
composito, in cui anche elementi comuni si declinano in varietà
locali. Nella variante europea, in particolare francese e italiana, la
scena rave ha una componente fortemente politicizzata. In Italia in
particolare il mondo dei rave si divide fra il politicismo
neosituazionista e antagonista dei centri sociali e lo sballo
felicemente prepolitico dei rave commerciali, mentre la scena
americana e quella di San Francisco in particolare ha una vena
tecno-mistica
ed
estatica chiaramente
di discendenza
controculturale e hippie. Il rave, come detto, sviluppa alcuni concetti
base dei paradisi temporanei di Hakim Bay, in primo luogo il suo
carattere festivo, rave infondo significa delirio, estasi, ebbrezza: si
chiama cioè col nome dell’esperienza che vorrebbe suscitare.
L’etimologia del termine rave deriva dall’inglese to rave (farneticare,
delirare) e anche dal francese antico raver, rever (vagabondare,
214
Dall’Utopia all’Eterotopia
delirare, sognare). 163 Il rave in fondo festeggia l’esperienza festiva
spogliata di ogni oggetto, l’esperienza pura, intransitiva, immotivata,
si festeggia la festa, senza ulteriori contenuti sociali, si innalza a
obiettivo in sé lo sfrenamento dionisiaco, la partecipazione
comunitaria, l’abbattimento del principium individuationis, il suo
carattere rituale, tutto ciò grazie alla musica techno e alle droghe
psicotrope che aiutano l’esperienza a prendere corpo, in un senso
letterale, i corpi attraverso la musica e la droga entrano in una sorta
di trance, un’esperienza parallela che apre le porte ad un altro
mondo. Un mondo strutturato dalla musica, come sognava Hakim
Bay, nel rave la techno è l’apoteosi della potenza cosmogonica del
linguaggio musicale, la potenza creatrice di mondi:
Si è fatta strada l’idea che un brano musicale sia già in sé capace
di creare, letteralmente, un ambiente, un mondo. E non stiamo
parlando di molteplici alternative possibili di un mondo
determinato, ma di una effettiva molteplicità di mondi
determinati. Mondi, per così dire, creati dalla loro stessa
descrizione: musiche possibili per mondi possibili... Ed eccoci qui:
con il continuo rimanipolare, ritrasformare i materiali sonori, la
techno fabbrica mondi.164
La musica Techno in realtà svela la sua natura di discendenza
cyberculturale, quindi una natura ipertecnologica della rave culture,
in fondo le tecnologie legate alla sintesi del suono sono del tutto
assimilabili a quelle della sintesi di immagini, come riconosce
Claude Cadoz: Il suono di sintesi e l’informatica musicale non sono dei
rami da innestare alla realtà virtuale, ne sono piuttosto le radici.165
Questo non dovrebbe stupire, in fondo la cybercultura e la rave
culture hanno le stesse radici, la controcultura americana e il suo
M.T. Torti, Abitare la notte, Costa & Nolan, Genova, 1997, p. 38.
M. De Dominicis, Sonni furiosi. I ravers tornano a casa. in G. Salvatore (a cura di)
Techno-trance, Castelvecchi, Roma, 1998, p. 78.
165 C. Cadoz, Le realtà virtuali, Il Saggiatore, Milano, 1996, p.53.
163
164
215
Dall’Utopia all’Eterotopia
evolversi nella correnti culturali degli anni ’90, come abbiamo
tentato di delineare lungo tutto l’arco di questo capitolo, le
accomuna una passione per le possibilità, soprattutto grazie alle
nuove tecnologie, di edificare ed abitare spazi nuovi, mondi
possibili, città ideali. Non manca di certo una certa visione
psichedelica e mistica anche nella rave culture, le concezioni di
questo tipo riguardo al cyberspazio sono state le protagoniste di
questo capitolo, e per il rave il discorso è equivalente, l’esperienze
psichedeliche degli anni ’60 vengono tradotte ora con l’utilizzo
dell’Ecstasy e della musica techno, un intreccio tra cultura
psichedelica e ipertecnologica che Nicholas Saunders, forse il più
importate studioso della cultura rave, riassume in questi termini:
the rave[…]involves entering an altered state of collective
consciousness through the ingestion of drugs, physical activity
and sensory bombardment by technological artifacts such as
hypnotic, emotional, loud music, light shows and smoke
machines.166
Intreccio tra cultura psichedelica e cybercultura che vede centrale il
concetto di esperienza, esperienza liberata e liberatoria, così,
seguendo gli insegnamenti del maestro Hakim Bay, il rave
diventerebbe un’esperienza di riappropriazione, sia degli spazi, non
è un caso che i rave si tengano in massima parte in fabbriche
dismesse, riappropriazione e liberazione quindi della dimensione del
lavoro industriale, sia liberazione e riappropriazione dell’esperienza
in sé, rispetto all’alienazione spettacolare e dei suoi riti che
consentono sempre e solo una partecipazione vicaria. L’esperienza
del rave è però un’esperienza del tutto particolare, è del tutto senza
contenuto, è l’esperienza di sé, del tutto sensuale, elemento che
viene alimentato sia dalla musica techno e soprattutto dall’ecstasy, è
ancora Reynolds a sostenerlo: L’MDMA procura un’esperienza
166
N. Saunders, The spiritual Aspect of Rave Culture, on-line all’indirizzo www.ecstasy.org
216
Dall’Utopia all’Eterotopia
profonda ma, curiosamente ‘senza significato’167 , essa dispone alla
pura convivialità, manda in frantumi la corazza caratteriale,
immerge in un mondo di pure sensazioni senza senso né scopo.
Reynolds interpreta il rave come una sorta di autismo collettivo, la
chiusura in un mondo ovattato fatto di echi, risonanze e dolcezze
tattili, sensazioni slegate da qualsiasi significato e vissute al loro
stato grezzo, bruto, primogenio. Quel che sembra interessare
maggiormente lo studioso americano è una sorta di infantilismo dei
raver, sembra suggerire che nel rave si assista a una
destrutturazione dei piani alti della personalità, via via sino alle
fondamenta infantili, e ancor più indietro, infatti, secondo Reynolds,
l’atmosfera sonora immersiva del rave riprodurrebbe il carezzevole
ambiente uterino pervaso di echi e risonanze di cui ciascuno di noi
porta una innata memoria:
I’d argue that echo’s aura of eternity harks back even further: to
our personal prehistory in the amniotic sea of the womb, where
the fetus hears the mother’s voice refracted through the fleshly
prism of her body. (It’s not for nothing that studio engineers talk
of a recording being ‘dry’ when it’s devoid of reverb.) With its
numinous reverberance and fetus-heartbeat tempo of 70 btm, dub
reggae reinvokes the primordial intimacy of womb time, the lost
paradise before individuation and anxiety. Even after birth, sound
has primacy over vision for several months; the infant in cocooned
in the mother’s preverbal vocal caresses, a soothing and
cherishing sonorous milieu that some theorist believe is the root if
all music.168
In questo passo si intravede quel ritorno all’utero, detto anche
sentimento oceanico che ha caratterizzato molti intellettuali,
pensiamo al Freud del Disagio della civiltà e di Al di là del principio
del piacere, nostalgia del grembo materno che Otto Rank eleva a
167
168
N. Saunders, Generation Ecstasy, Little Brown & Company, London, 1998, p. 375.
N. Saunders, The spiritual Aspect of Rave Culture, on-line all’indirizzo www.ecstasy.org
217
Dall’Utopia all’Eterotopia
soluzione dell’enigma della storia, il ricordo di quel tempo felice
all’interno del grembo sarebbe la base di tutta la cultura umana, a
partire dai miti dell’Età dell’oro o del Paradiso terrestre, opere
ispirate direttamente alle sensazioni nirvaniche del periodo
prenatale. Questa tesi viene oggi ripresa in termini generali da
Christopher Lasch nel suoi testi, in particolare ne L’io minimo. 169
Questa interpretazione del rave introduce un fenomeno che
caratterizza le eterotopie in genere, fenomeno che analizzeremo
meglio in seguito, ma che può essere riassunto con l’emergere del
desiderio, e il sua appagamento, quale figura centrale all’interno
dell’immaginario, utopico e non solo. Desiderio che diviene
prevalente rispetto al bisogno, tematica che introduce una nuova e
decisiva dicotomia (Bisogno/Desiderio), in cui si segue
l’insegnamento de L’anti Edipo di Deleuze e Guattari, ‘il desiderio è
nella sua essenza rivoluzionario’ 170, questo in fondo è stato il grande
insegnamento della cultura Hippie, il soddisfare il desiderio diviene
la base di qualsiasi trasformazione sociale, approccio che trova
conferme in tutte le teorie moderne del desiderio, pensiamo
all’influenza decisiva di autori come Marcuse e Norman O. Brown
sui giovani della controcultura, ma più ampiamente all’interno di
ogni movimento controculturale dagli anni ’60 in poi. Quello di cui
stiamo parlando è di sicuro un desiderio nuovo, espanso un
desiderio polimorfo, concetto che deriva direttamente dallo stadio
dell’infanzia che Freud definisce perverso polimorfo, in cui il
bambino vive in uno stato di beata promiscuità con ogni oggetto che
catturi la sua attenzione, uno stadio che viene poi superato nella
fase genitale, in cui il desiderio si specializza e diviene la base per la
vita sessuale matura, trasformazione e specializzazione che i
freudiani radicali, quali appunto Marcuse e N. O. Brown, recepivano
Cfr. O. Rank, Il trauma della nascita. Sua importanza per la psicoanalisi, SugarCo,
Milano, 1990 e C. Lasch, L’Io minimo, Feltrinelli, Milano, 1996.
170 Cfr. C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto. Einaudi, Torino, 2002, p.
266.
169
218
Dall’Utopia all’Eterotopia
come un impoverimento del desiderio, impoverimento da imputare
alla società borghese.171 Secondo questa visione, la sessualità
genitale è orientata a uno scopo, è produttiva. La perversione
polimorfa è onanista, si appaga di una jouissance sterile e
intransitiva: il rave pare appartenere a questa secondo ordine di
esperienze, volte alla soddisfazione sic et simpliciter del desiderio.
Approccio al desiderio, come detto, che non si limita alla rave
culture, ma che abbraccia tutti i movimenti controculturali quale
nuova base esistenziale, proprio per la natura rivoluzionaria del
desiderio polimorfo. Per chiudere e chiarire il tema che verrà
affrontato più avanti non c’è niente di meglio delle parole di Jacques
Lacan che ha sempre visto un’opposizione radicale tra la morale del
potere e l’etica del desiderio:
Una parte del mondo si è orientata decisamente verso il servizio
dei beni, rigettando tutto ciò che concerne il rapporto dell’uomo
con il desiderio – è quella che si chiama la prospettiva
postrivoluzionaria. La sola cosa che si possa dire è che non si ha
l’aria di rendersi conto che formulando così le cose, non si fa che
perpetuare l’eterna tradizione del potere, ossia – Continuiamo a
lavorare, e, per il desiderio, ripassate.172
Per concludere il discorso sulla rave culture, dobbiamo analizzare
una delle interpretazioni migliori ed più interessanti, che ci viene
fornita da Guido Vitiello nel suo pluricitato Dall’Lsd alla Realtà
virtuale173, in cui il rave diviene un pharmakon per contrastare la
dispersione e l’iperstimolazione della vita metropolitana attraverso
l’esasperazione delle sue condizioni, per poter così dar vita ad uno
Cfr. H. Marcuse, Eros e Civiltà, Einaudi, Torino, 2001 e N. O. Brown, La vita contro la
morte. Il significato psicoanalitico della storia , Adelphi, Milano, 2001.
172 J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi. 1959-1960, Einaudi, Torino,
1994, p.400.
173 G. Vitiello, Op. cit., pp. 125-156.
171
219
Dall’Utopia all’Eterotopia
spazio protetto, un’eterotopia che salvi dal coas della vita
contemporanea:
il rave offre la quiete ebbrezza del tempo divenuto spazio,
l’approdo prospettato da Gurnemanz nel Parsifal…danzare in un
tempo quieto e immobile, che dello spazio condivide l’estensione
infinita…Lo stesso antidoto il rave cerca di fornirlo esasperando il
veleno, ingurgitandolo fino alla feccia; e non si ricorda mai troppo
spesso che il greco pharmakon racchiude entrambi i significati,
veleno e antidoto. Al bombardamento di stimoli che giunge da
ogni strada e da ogni schermo il rave oppone un bombardamento
di grado maggiore, che giunto al suo culmine si capovolge nel suo
contrario, nel vuoto dell’attenzione...L’iperstimolazione della vita
ordinaria crea una corazza, rende distratti e insensibili; il rave la
manda in frantumi con una accumulazione di stimoli di grado
maggiore, e l’anestesia si volge nel suo contrario, nell’iperestesia
della sensibilità dispiegata. Il male della metropoli lo si sconfigge
esasperandolo. È una via omeopatica, dove similia similibus
curentur.174
Queste parole spiegano al meglio l’etica della rave culture, il suo
sogno di creare un’eterotopia sonica che possa liberare uno spazio
realmente svincolato dalla pervasività della società dello spettacolo,
per goder appieno di quell’evanescente attimo di gioia che tenta di
sfuggire ai gangli della società, al suo quotidiano e abitudinario
controllo sulla realtà.
Per riassumere possiamo affermare che le TAZ e la Rave Culture
siano una sorta di costruzione nel “reale” dell’eterotopia del
cyberspazio, questo non deve stupire visto che questi due fenomeni
sono profondamente influenzati dalla cybercultura, dai suoi miti, dal
suo immaginario, dalla sua etica, ciò che ne determina la comunanza
è il loro profondissimo sogno di poter dar vita a degli spazi
alternativi, autoprodotti, festivi, che possano in qualche modo
174
Ivi, pp. 146, 148, 151.
220
Dall’Utopia all’Eterotopia
liberare se stessi e la società. Altro elemento che abbiamo visto
emergere e dobbiamo sottolineare è lo strutturarsi di due
dicotomie che fondano in parte l’immaginario delle eterotopie e più
in generale di tutte le controculture dagli anni ’60 in poi, quelle di
Rivoluzione/Sovversione e Bisogno/Desiderio con l’accento posto
sul secondo termine, elemento che dimostra come ci si trovi di
fronte a delle utopie particolari, che hanno l’ardire di costruire degli
spazi alternativi, ma anche la coscienza di riconoscerne il rischio,
spazi realmente liberi non possono avere nuove istituzioni, perché
queste darebbero nuovamente vita a quella dialettica tra
Rivoluzione e Stato, una costante all’interno degli universi
controculturali. Del desiderio invece abbiamo solamente iniziato a
discutere e lo faremo più approfonditamente più avanti, quello che
vorrei sottolineare è la decisa volontà di liberazione totale, una
liberazione che difficilmente riesce a costituire una qualsivoglia
utopia, visto come queste hanno il sogno di organizzare quasi ogni
aspetto del reale. Differente è invece il sogno cyberculturale che
abbiamo affrontato lungo tutto il corso di questo capitolo, che ha
coinvolto il cyberspazio, la realtà virtuale e le interpretazioni più
affascinati di queste, interpretazioni che invece hanno di certo una
volontà utopica molto forte, il sogno di una società perfetta si
trasporta completamente all’interno dell’universo digitale, la più
perfetta ed adeguata delle eterotopie si potrebbe pensare, invece
questo sogno sembrerebbe spegnersi velocemente come vedremo
nel prossimo capitolo in cui ci occuperemo dei Virtual world e dei
MOOs la discendenza più diretta del sogno cyberspaziale, eredi che
non presentano connotati utopici, anzi sembrerebbero solo delle
riproduzioni ordinarie del mondo sociale o luoghi ludici dove
svagarsi. L’analisi verrà portata avanti studiando diverse
piattaforme virtuali, tra le quali Second Life, Habbo Hotel, League of
Legend e World of Warcraft, cercando di comprenderne l’evoluzione
normalizzatrice, il modo in cui l’universo virtuale abbia perso la sua
vena utopica. Tutto questo sarà fatto cercando di mettere al centro
221
Dall’Utopia all’Eterotopia
la figura dell’utente grazie a delle interviste in profondità così da
poter cogliere i sogni, i bisogni e i miti che li guidano.
Così ha inizio la parte finale del nostro viaggio all’interno
dell’immaginario utopico: forse l’ultima.
222
Dall’Utopia all’Eterotopia
Capitolo 4
Virtual Worlds: fine dell’Utopia?
Non ci sono grosse differenze tra
quello che è reale e quello che è
irreale e tra quello che è vero e
quello che è falso. Una cosa non è
necessariamente o vera o falsa,
può essere entrambe: vera e falsa.
HAROLD PINTER
Il nostro viaggio all’interno dell’immaginario utopico della
Cybercultura si è concluso con l’analisi di quelle che abbiamo
definito delle protesi reali dell’eterotopia cyberculturale, cioè la
T.A.Z e il Rave party. Due fenomeni che tentarono alla fine degli anni
’90 di creare e liberare spazi alternativi all’interno della società
civile. Manifestazioni per propria natura momentanee ed effimere,
consce del fatto che ogni tentativo di realizzare appieno un’Utopia
coincide inevitabilmente con il suo fallimento, come la precoce
dissoluzione dell’esperienza delle comuni hippie aveva dimostrato
inesorabilmente. Il nostro viaggio ha anche approcciato gli estremi
risultati dell’utopia cyberculturale, quelli incentrati sul Cyberspazio,
poi sfociati in una sorta di tecno-anarco capitalismo estremo come il
manifesto Cyberspace and the American Dream: A Magna Carta for
the Knowledge Age ha dimostrato chiaramente, completamente
divergenti dalle idee controculturali da cui la cybercultura aveva
avuto origine. Questo comunque non ha tolto forza e spinta ad una
223
Dall’Utopia all’Eterotopia
visione della tecnologia, soprattutto di quella mediale, quale
portatrice di progresso, benessere e giustizia sociale, visione che ha
avvolto in particolar modo Internet di un’aurea utopica, strumento
divino per la costruzione di una nuova e migliore società, una
visione che Internet eredita direttamente dal filone controculturale
della cybercultura, quali il cyberpunk e la comunità virtuale di Well,
filone talmente frastagliato e multiforme da esser giunto a dar vita a
sogni ad occhi aperti quali quelli della cybertrascendenza o alla
visione tecnognostica del cyberspazio. Oltre a queste visioni
salvifiche eterodosse ed estreme Internet, inteso nella sua
dimensione cyberspaziale, ha sempre avuto profeti che lo hanno
delineato come un nuovo spazio virtuale in cui sarebbe stato
possibile una vita migliore. Questo visione laica del sogno
cyberculturale non aveva, e non ha, niente da condividere con la
visione escapista dell’immortalità tecnologica o dell’onniscienza dei
tecnognostici, ma più prosaicamente interpretava il potenziale della
Rete come strumento per migliorare la vita umana. In particolar
modo la rete diveniva un ambiente in cui era possibile coltivare
nuove relazioni sociali, nuove comunità che avrebbero reso più
ricca e soddisfacente la nostra vita come animali sociali. Seguendo
questa impostazione il cyberspazio diviene il luogo per stabilire
comunità idealizzate che riescono a trascendere i limiti spaziotemporali e le discriminazioni basate sul sesso, la razza e il colore
della pelle. In altre parole Internet stesso si ricopre di connotati
utopici e diviene una Cyberutopia.
Di certo questa non può essere considerata un’utopia a tutti gli
effetti, non essendo strutturata in maniera organica come una
completa e globale ristrutturazione della società, ma sicuramente la
Rete è sempre stata interpretata come un mezzo per eliminare
alcune derive negative della società contemporanea, in particolar
modo quella persistente sensazione di non avere una comunità di
appartenenza. Sentimento o condizione studiata fin dagli albori
della sociologia, pensiamo a Tönnies o a Weber, e che attraverso
Internet ha un rilancio, poiché questo strumento porta con sé, come
dote innata, una capacità di inclusione e di socializzazione che
sembra ormai essere deficitaria nella società contemporanea. Il più
224
Dall’Utopia all’Eterotopia
noto profeta di questa visione del web è il pluri-citato Howard
Rheingold con il suo The Virtual Community: Homesteading on the
Electronic Frontier,1 in cui afferma che la Rete ci può restituire la
dimensione comunitaria che la società occidentale sta perdendo,
approccio espresso in maniera ancora più chiara da quell’ Ester
Dyson già firmatario insieme ad Alvin Toffler del documento
Cyberspace and the American Dream: A Magna Carta for the
Knowledge Age:
The net offer us a chance to take charge of our lives and redefine
our role as citizens of local communities and of a global society. It
also hands us the responsibility to govern ourselves, to think for
ourselves, to educate our children, to do business honestly, and
work with fellow citizens to design rules we want to live by. 2
Altro esempio paradigmatico della visione utopica della rete è
sicuramente quello dell’allora direttore del Media Lab director al
MIT Nicholas Negroponte, che concludeva il suo celebre libro, Being
Digital, ormai divenuto un classico con queste parole:
Today, when 20 percent of the world consumes 80 percent of its
resources, when a quarter of us have an acceptable standard of
living and three-quarters don’t, how can this divide possibly come
together? While the politicians struggle with the baggage of
history, a new generation is emerging from the digital landscape
free of many of the old prejudices. These kids are released from
limitation of geographic proximity at the sole basis of friendship,
collaboration, play, and neighborhood. Digital technology can be
a natural force drawing people into greater world harmony. 3
Cfr H. Rheingold, The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier, MIT
Press, 2000, disponibile on-line all’indirizzo http://www.rheingold.com/vc/book/
2 E. Dyson, Release 2.0: A Design for living in the Digital Age, Broadway Books, New York,
1997, p. 2.
3 N. Negroponte, Being Digital, Vintage Book, , New York, 1996, p. 230, disponibile on-line
all’indirizzo http://archives.obs-us.com/obs/english/books/nn/bdcont.htm
1
225
Dall’Utopia all’Eterotopia
Queste erano le previsioni dei futurologi quando la Rete era ancora
ai suoi albori, naturalmente molto è cambiato, nonostante molti di
questi sogni non si siano realizzati un certo tecno-utopismo ancora
riesce ad evocare ed ispirare le letture e le interpretazioni del web.
Interpretare le nuove tecnologie come strumenti necessari ed
indispensabili per la costruzione di un mondo e di una società
migliore non è di certo una novità come ci ricorda David Noble nel
suo La religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito
d'invenzione 4, in cui per esempio ci ricorda della Cristianopoli di
Johann Andreae in cui tutti gli abitanti erano di fatto degli scienziati,
come la Città del Sole di Campanella o nella nuova Atlantide di
Bacone, Noble ci mostra come dal seicento in poi la tecnologia fosse
lo strumento per dar vita alla Nuova Gerusalemme, ma di questo
abbiam già discorso.
Un’altra aspetto utopico di cui internet sembra esser dotato è
quello di essere uno strumento innatamente democratico, in quanto
sarebbe in grado di ricostruire sul piano virtuale l’Agora dell’antica
Atene, uno spazio libero, non gerarchico, in cui tutti alla pari e
liberamente possano discutere della gestione politica della società.
Una nuova sorta di opinione pubblica di Habermassiana memoria, in
cui l’uguaglianza e la libertà di espressione siano i cardini per una
vita sociale e politica realmente democratica, che possa riportare in
auge una gestione comune della società in un periodo in cui il
distacco dal mondo politico sembra irreversibile.
Ultimo aspetto della visione utopica della Rete è sicuramente
l’aspetto economico. La rete è stata considerata come l’apertura di
un nuovo e infinito mercato, sia dal punto di vista dei produttori,
che da quello del consumo. Ricordiamo l’immensa bolla speculativa
della metà degli anni ’90 in cui miliardi di dollari furono investiti su
qualsiasi azienda che avesse la parvenza di operare nel campo del
web, o forse ancor più importante è sottolineare come il web abbia
Cfr. D. Noble, La religione della tecnologia. Divinità dell'uomo e spirito d'invenzione,
Edizioni di Comunità, Ivrea, 2000.
4
226
Dall’Utopia all’Eterotopia
sviluppato un nuovo immenso territorio da esplorare per
l’economia mondiale, l’e-commerce. Come sappiamo la bolla è
scoppiata, centinaia di aziende hanno chiuso i battenti e miliardi di
dollari sono andati in fumo e con essi il sogno di aver trovato la
soluzione all’enigma dell’economia.
Questa breve e superficiale sintesi sui connotati utopici posseduti
dalla Rete è necessaria per intraprendere l’ultima parte del nostro
viaggio all’interno dell’immaginario utopico, quella che ci porterà ad
analizzare la nascita e lo sviluppo dei mondi virtuali on-line, dei quali
i più famosi sono sicuramente Second Life e World of Warcraft.
Ebbene questi all’interno della nostra tesi potrebbero essere
interpretati facilmente quali delle eterotopie vere e proprie, anche
se virtuali, quello che sembra invece mancare loro sono però
esattamente i connotati utopici. Prendiamo ad esempio Second Life,
questo mondo virtuale infatti, sembra mancare dello spirito
antagonista, caratteristico dell’immaginario informatico, hacker, in
particolare. Facendo più attenzione, però, nella sua struttura
grafica, Second Life sembra possedere quelli che sono i principali
caratteri dell’utopia sistematizzati dalla ricerca sull’utopia filosofica
e letteraria fin qui prodotta, che abbiamo analizzato nel primo
capitolo, principalmente l’insularismo: Second Life possiede, una
propria geografia virtuale (sulla quale tra l’altro sarebbe
interessante indagare più a fondo, vista, per esempio, la curiosa
forma di uno dei “continenti” rassomigliante a quello americano):
l’unità fondamentale del territorio è, appunto, l’isola (la Sim) che,
anche quando confinante con altre unità, è assolutamente
“indipendente”. Quindi la “struttura geometrica”, facilmente
replicabile mediante le basilari forme geometriche che fanno
assomigliare il mondo di Second Life alla Laputa visitata da Gulliver.
Inoltre, l’eguaglianza sociale di base, che può divenire uniformità,
anche in SL, come mostrano alcune esperienze anarchiche di Sim
nelle quali non è previsto l’uso del denaro ma soltanto dello scambio
di beni. Poi, la pressoché totale illimitatezza delle risorse, svincolate
dalla materia. O ancora la scarsa presenza di una legislazione, la
227
Dall’Utopia all’Eterotopia
quale è limitata a poche regole di comportamento che ricalcano la
“netiquette” del web, improntata, com’è noto, a richiami alla
naturale ragionevolezza. Infine, ma non ultimo in un’elencazione
soltanto esemplificativa come la presente, la trasparenza, nella sua
dimensione architettonica e sociale, considerata l’estrema libertà di
movimento e di visione degli spazi virtuali. Altre motivazioni
farebbero supporre una maggiore facilità di presenza della tensione
utopica; l’elemento politico in quanto tale è largamente diffuso in
Second Life: dalla politica pragmatica come i luoghi della
propaganda (ad esempio i siti di supporto o di opposizione alle
varie amministrazioni governative) o come quelli in cui si dibattono
temi particolari della politica, o come i luoghi costruiti da gruppi
socialisti, comunisti, finanche anarchici infatti sono abbastanza
numerosi. Anche se visite più approfondite rivelano, anche in questi,
una certa superficialità e la prevalenza di elementi commerciali e di
svago.
Insomma caratteristiche formali che potrebbero far pensare a
Second life come ad un canale ideale per veicolare valori utopici,
mentre al contrario sembra essere il prodotto di punta della società
post-capitalista, come uno dei tanti strumenti di consumo, che poco
spazio riservano alla progettualità politica, soprattutto alternativa.
Quello che sembra mancare a Second life è la volontà di creare un
mondo-altro, in effetti SL sembra replicare talora compulsivamente
la vita reale, invece di cercare di differenziarsi (le discoteche, i
casino, i luoghi del sesso, sono gli stessi, virtuali), in Second Life la
vita si replica così com’è, come se la vita reale non potesse
esprimere o soddisfare tutti i desideri o gli stimoli che ci propone,
discorso leggermente diverso per World of Warcraft,
rappresentante completamente diverso all’interno dell’universo dei
virtual worlds, infatti questo rappresenta la punta di diamante dei
MMORPG (Massive Multiplayer Role Playing), giochi di ruolo on-line
derivanti dai giochi di ruolo classici o dal mondo dei video games,
mentre Second life e simili come Project Entropia, possono essere
denominati secondo la definizione di Gerosa e Pfeffer, social virtual
228
Dall’Utopia all’Eterotopia
world, 5 avendo come fine unico le relazioni sociali tra gli utenti, di
queste divisioni per genere ce ne occuperemo approfonditamente
più avanti ora è sufficiente dare una definizione articolata del
fenomeno di cui stiamo parlando, così attraverso le parole di
Edward Castronova possiamo definire questi mondi virtuali come
“Universi Sintetici” : un ambiente esteso, comunitario, simile ad un
mondo, creato da esseri umani per esseri umani, e gestito, registrato e
riprodotto da un computer.6 Una sorta di versione ridotta della
realtà virtuale di cui discutevamo nel capitolo precedente, da cui
sicuramente discende, ma da cui si è velocemente separata poiché i
mondi sintetici nascono nel contesto dell’industria dei videogiochi,
mentre la realtà virtuale è di pura fonte dei laboratori di ricerca
delle università, nonostante questa discendenza meno nobile, gli
sviluppatori di videogiochi, divenuti inseguito MMOPRG, sono stati
influenzati dal medesimo immaginario relativo alla realtà virtuale,
da Neuromante di William Gibson a SnowCrash di Neal Stephenson.
Nonostante le comuni influenze l’approccio alla realtà virtuale è
stato completamente opposto, mentre la ricerca scientifica si è
focalizzata sull’hardware di input sensoriale, il mondo dei
videogames, anche per la minor disposizione di fondi, ha preferito
prestare attenzione al software, cioè tentare di immergere l’utente
attraverso il coinvolgimento intellettuale ed emotivo, cioè
rappresentare dei mondi sintetici che potessero coinvolgere
l’utente, attraverso una sorta di processo proiettivo, e non tentando
di ricreare degli input sensoriali che convincessero in qualche
maniera che il mondo costruito fosse reale. Nell’approccio software
lo schermo diventa una finestra attraverso la quale osservare un
universo alternativo, fantascientifico o altro, ciò che più interessa è
il fatto che:
5
6
Cfr. M. Gerosa & H. Pfeffer, Mondi Virtuali, Castelvecchi, Roma, 2006.
E. Castronova, Universi sintetici, Mondadori, Milano, 2007, p.14.
229
Dall’Utopia all’Eterotopia
nel momento in cui esordisce online e inizia ad accogliere
visitatori, un mondo sintetico comincia ad ospitare normali
rapporti umani. Per quanto fantastico questo mondo possa essere,
e per quanto i suoi abitanti possano essere rappresentati come
gangster, draghi o torte alla panna, è e sarà sempre un luogo
popolato da normali esseri umani, con le loro normali abitudini di
interazione. L’ambiente fisico è modellato artificialmente e può
assumere la forma che vogliamo, ma l’ambiente sociale che
affiora al suo interno non è diverso da qualsiasi altro ambiente
sociale umano.7
Una realtà sociale alquanto originale, ma di sicuro interesse
sociologico, pensiamo all’attenzione riservata dagli utenti alla
creazione e modellamento del proprio Avatar, l’interfaccia
elettronica che ci permette di interagire con il mondo programmato
dal computer, e di cui ci occuperemo approfonditamente in questo
capitolo, ma soprattutto pensiamo allo strutturarsi delle relazioni
sociali e al mantenimento di quella realtà sintetica, che più che
essere alternativa al mondo reale, sembra un nuovo livello di
questa, una continuazione della realtà con altri mezzi, elemento che
può anche spiegare come mai in questo livello di virtualità sembra
mancare quella connotazione utopica, che invece era centrale
nell’approccio hardware della Realtà virtuale. Il mondo reale sembra
colonizzare quello sintetico, pensiamo alle istituzioni quali aziende,
atenei, riviste, ospedali che cercano di sfruttare le potenzialità
offerte da questo strumento, così come altrettanto importante è il
sottolineare una sorta di controesodo, gli avatar che finiscono per
rappresentare noi stessi nella realtà tradizionalmente intesa. Ciò
non ci dovrebbe stupire in fondo da un punto di vista
fenomenologico il mondo è frutto di una continua costruzione da
parte degli attori, o meglio è la conseguenza di una interazione
dialettica tra individuo e società ma andando oltre, non si può
parlare di realtà intesa in senso oggettivo, è più opportuno
7
Ivi, p.10
230
Dall’Utopia all’Eterotopia
considerare una serie di realtà multiple.8 In più, secondo il pensiero
di Schutz9 poiché i significati attribuiti alla vita quotidiana si
vengono a modificare da un contesto socio-culturale all’altro, non
soltanto è possibile riconoscere la pluralità dei mondi sociali, ma
anche osservare come le diverse interpretazioni della realtà
rappresentino un principio attivo in tutti i momenti delle nostre vite
individuali. Ognuno di noi può quindi osservare la realtà da vari
punti di vista, definiti anche in base agli specifici interessi di un
momento e a tal proposito Schutz, rielaborando la definizione di
sottouniversi proposta da James, conia l’espressione province di
significato. Ecco quindi che in base a tale prospettiva, i mondi
sintetici potrebbero essere considerati una nuova provincia di
significato, dove tra noi e gli oggetti presenti in questo mondo si
viene a creare una relazione stabile e difficilmente contraddetta,
almeno da chi condivide la visione e la percezione di quell’universo
persistente.10 Le province di significato di cui ci parla Schutz sono
anche finite, e la finitezza comporta che tra le varie province non vi
siano contatti e scambi. Per comprende pienamente i fenomeni più
innovativi introdotti da un mondo sintetico è stato quindi
necessario superare questa problematica spostando l’attenzione
dall’idea di provincia finita di significato a quella di frame così come
vien elaborata da Erving Goffman, ovvero i principi organizzativi o
anche materiali cognitivi, attraverso cui gli individui riescono a dare
significato all’azione sociale, agli eventi e al mondo reale, dove però
il termine “reale”viene dallo studioso inteso come ciò che l’individuo
considera tale.11
Le cornici di significato utili per inquadrare l’esperienza, sono
mutevoli e si legano alla definizione che in un dato momento
Cfr. P.Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1997.
Cfr. A. Schutz, La fenomenologia del mondo sociale, Il Mulino, Bologna, 1974. e Saggi
Sociologici, (a cura di) A. Izzo, UTET, Torino, 1979.
10 Cfr. S. Caldieri, Spazi sintetici. Verso una sociologia dei mondi digitali, Liguori ed., Napoli,
2011.
11 Cfr. E. Goffman, Frame analysis, Armando, Roma, 2001.
8
9
231
Dall’Utopia all’Eterotopia
l’individuo ha di realtà, diventa quindi interessante per lo studioso
comprendere in che modo le esperienze vengono organizzate
cognitivamente, e soprattutto il modo attraverso cui si passa da un
frame all’altro e in cui le varie realtà si sovrappongono.
È proprio la possibilità di questa oscillazione tra i frame, che
permette di spiegare e comprendere l’esperienza dei mondi sintetici,
ciò che si struttura è una nuova cornice che inquadra e definisce una
realtà virtuale che per molti aspetti si sovrappone, se pur
parzialmente, con la realtà off-line.
Inquadrato sociologicamente il campo di indagine resta da
esplicitare il tentativo di evidenziare attraverso interviste in
profondità e una sorta di esperienza sul campo all’interno di diversi
di questi mondi virtuali quali siano le connotazioni utopiche,
eterotopiche in questo caso, se è reale quella che a me sembra una
perdita di immaginario utopico all’interno di questi universi e un
mero appiattirsi di questi sull’ideologia della società dominante,
basata sul mercato, o comunque una incapacità di elaborazione di
quei possibili laterali che sono la base dell’utopia, ma anche
dell’immaginazione sociale nel suo complesso.
Quest’analisi verrà portata avanti studiando l’evoluzione e lo
sviluppo dei social virtual world e di altri mondi sintetici, l’analisi
dell’importanza dell’Avatar all’interno di essi e tentando di dare una
spiegazione su quella perdita di immaginario utopico a cui prima si
accennava.
4.1 Dalla Realtà Virtuale ai MMOs
Il nostro viaggio all’interno dei mondi sintetici per analizzarne i
possibili connotati utopici e in caso di riscontro positivo tentare di
delinearne i contorni e le caratteristiche non può non partire da una
sorta di genealogia di questo tipo di universo sintetico. In maniera
superficiale abbiamo tentato di farlo nell’introduzione a questo
232
Dall’Utopia all’Eterotopia
capitolo, quando abbiamo tracciano una parentela, ma non una
diretta discendenza tra la realtà virtuale e i MMOs12, ora questa
genealogia è necessaria poiché determina in maniera decisiva la
scomparsa di immaginario utopico all’interno dei mondi sintetici.
Scomparso dovuta in massima parte alla natura commerciale di
questi universi, natura commerciale estranea alle ricerche sulla
realtà virtuale portata avanti in esclusiva dai laboratori di ricerca
delle università. Per comprendere al meglio tale fondamentale
differenza è il caso di sviscerarla, innanzi tutto possiamo affermare
con una certa sicurezza che sussistono tre motivi principali di
differenziazione13:
1. La versione ludica della RV si focalizza sulle comunità, non
sugli individui.
2. Come accennato in precedenza la versione ludica della RV si
focalizza sul software, non sull’hardware.
3. La versione ludica della RV è alimentata dal mercato
commerciale, non promossa dai laboratori di ricerca.
Per comprendere al meglio queste differenze torniamo a delineare
velocemente le caratteristiche della versione che possiamo definire
classica della realtà virtuale. A partire dagli anni ’50 e ’60 alcuni
visionari scienziati iniziarono ad immaginare che i computer
potessero essere in grado di trasmettere sensazioni che ai
destinatari sarebbero apparse reali. Essendo generate da computer
queste sensazioni non sarebbero state “realmente reali”, ma solo
“virtualmente reali”. Con l’evoluzione della tecnologia informatica
questi scienziati iniziarono a studiare come creare un ambiente
MMOs acronimo di Massive Multiplayer Online è la definizione più ampia possibile per
descrivere i mondi sintetici.
13 Cfr. E. Castronova, Universi sintetici, Mondadori, Milano, 2007, p. 343.
12
233
Dall’Utopia all’Eterotopia
artificiale che ingannasse l’utente della sua reale essenza,
portandolo a credere che il mondo generato dal computer fosse in
qualche modo reale. Servirono decenni di ricerca e notevoli
investimenti per definire dei dispositivi in grado di dare
l’impressione di essere immersi in un mondo sintetico, alla fine
emerse una visione standardizzata della RV: una singola persona
all’interno di una sala speciale, con indosso un grande elmetto,
braccia e gambe collegate a un dispositivo mobile. Nonostante la
scomodità del device e di tutti quei cavi che circondavano l’utente
tale paradigma di realtà virtuale ebbe successo in quanto rese
possibile sostituire quasi completamente gli input sensoriali esterni
del soggetto con quelli generati da un computer. Certo forse per le
cifre spese i risultati furono al quanto modesti, ma durante gli anni
’90, mentre il fenomeno della dot.com stava per iniziare, tecnologi,
scrittori, esperti e visionari sembravano essere convinti che la RV
fosse la più straordinaria delle tecnologie, visione che può essere
riassunta nelle parole di Howard Rheingold, forse lo studioso che ha
reso così celebre la RV attraverso il suo classico La realtà virtuale 14 :
All’università del North Carolina, ebbi un’esperienza di
conversione simile a quella che aveva accumunato molti pionieri
del personal computer negli anni ’60 e ’70, una visione irresistibile
del futuro. Ma stavolta l’impulso creativo aveva una punta di
sgomento. 15
Lo sgomento dovuto alla possibilità di entrare all’interno del
computer non è l’elemento principale, bisogna sottolineare il sogno
per cui la RV avrebbe completamente cambiato la realtà e la società
in connessione con l’altra tecnologia che stava emergendo, la rete.
Tutto questo palesemente non è avvenuto e tale paradigma di RV è
sfumato rapidamente alla fine del millennio, sicuramente per i costi
14
15
H. Rheingold, La realtà virtuale, Baskerville, Bologna, 1993.
Ivi, p. 12.
234
Dall’Utopia all’Eterotopia
eccessivi delle attrezzature necessarie, quali casco 3d e data glove, e
soprattutto per l’impossibilità di rendere questi device disponibili
ad una grande quantità di persone. In realtà la ricerca aveva delle
falle piuttosto evidenti sin dalla sua elaborazione, considerando il
fatto che l’obiettivo consisteva nell’ingannare qualcuno inducendolo
a credere di essere “immerso” in un mondo generato dal computer e
che quel mondo fosse reale, sembra piuttosto fantasioso il poter
ritenere possibile che una persona potesse sentirsi realmente
immerso in qualcosa con quel pesante elmetto sulla testa e quei cavi
che lo legavano in maniera ineludibile alla spazio del laboratorio di
ricerca. Non penso che ci sia stato nessuno che abbia mai potuto
veramente credere che le immagini proiettate fossero di una natura
diversa da quella di immagine di sintesi. La sospensione
dell’incredulità di Coleridgiana memoria è di sicuro un’abitudine,
pensiamo al cinema o alla letteratura, spesso una scelta cosciente,
ma difficilmente questo può avvenire quando un ricercatore tenta
di sostituire gli stimoli naturali con input del computer. Questo era il
limite ontologico della versione classica della RV, limiti che vennero
capiti e reinterpretati invece dall’industria dei videogiochi. Il nodo
principale non era avere dei computer sempre più potenti per
ingannare sempre meglio gli utenti, ma avere degli utenti che
desiderassero essere ingannati sulla natura dei mondi sintetici, la
RV non ha fare con l’occhio, ma con l’emozione, ha insomma una
dimensione sociale che i ricercatori non avevano compreso,
elemento che comprese invece l’industria del videogioco, il punto
fondamentale era infatti la dimensione ludica: il gioco in se. Una
prospettiva ludica infatti concentra ogni risorsa e ricerca sulla
soggettività e il benessere dell’utente, insiste sull’utilizzabilità
immediata, si giova dell’accesso allargato e dell’utenza multipla per
essere in grado di generare una più forte e spontanea sospensione
dell’incredulità, senza la quale un autentico coinvolgimento non può
avvenire. Tutto questo non avvenne nei laboratori di ricerca, ma in
piccole aziende di videogiochi come quella che in Texas a Austin
diede vita a Ultima Online nel 1997, il primo vero mondo sintetico in
235
Dall’Utopia all’Eterotopia
3d, mondo di diretta derivazione dai MUD (Multi-User Dangeon),
cioè un mondo virtuale completamente testuale non grafico di
diretta discendenza dai giochi di ruolo off-line come Dungeons and
Dragons. L’evoluzione dai Mud fino ai più recenti MMOs o
MMORPG16 la delineeremo nel prossimo paragrafo, ora quello che ci
interessa è sottolineare come furono i giocatori di questo tipo di
giochi e non i ricercatori a fare le prime scoperte critiche che
condussero all’immersione di massa negli spazi di RV alla quale
assistiamo in questo periodo. Le scoperte che permisero
l’implementazione della realtà virtuale nei videogiochi non
riguardarono il miglioramento dei dispositivi sensoriali o
dell’interfaccia utente, ma piccoli perfezionamenti nell’esperienza
del gioco: grafica più fluida, reti più veloci, storie più interessanti, AI
più raffinate (per AI si intendono quei personaggi diretti dal
programma del gioco e non dall’utente) e un migliore stile artistico,
dove migliore non significa un realismo maggiore.
I videogiochi sono ora la frontiera della realtà virtuale e la sua
espansione dipende dalla richiesta del mercato, per ora la RV ha
preso la forma, a tutti gli effetti, di un puro “mondo di gioco” nel
quale le persone partecipano e si divertono insieme. Il fattore gioco
è l’elemento che differenzia questo nuovo paradigma di realtà
virtuale da quello del paradigma classico della RV del campo dei
laboratori di ricerca, i videogiochi infatti, contano su un numero
elevato di giocatori, alcuni mondi sintetici vantano decine di milioni
di utenti, questa condivisione, questo senso di comunità è
determinate per creare il senso di realtà che la RV insegue: la
comunità non genera l’illusione di realtà, essa conferma che una
realtà è concretamente in essere. In fondo come Berger e Luckmann
ci insegnano la realtà è una costruzione sociale e quindi è molto più
semplice percepire come reale una fenomeno che è convissuto in
maniera reale da moltissime persone invece che sospendere la
16
MMORPG acronimo di Massive Multiplayer Online Role-Playing Game
236
Dall’Utopia all’Eterotopia
propria incredulità all’interno di sistemi quali un caschetto 3D e un
data glove, in più l’essenza di una RV non è ciò che si vede, ma ciò
che si fa, quindi deriva dalle interazioni con gli altri giocatori e con
la storia che si può creare all’interno di questi mondi sintetici.
Questo, riprendendo i tre punti che avevamo elencato in
precedenza, spiega perché la RV ludica è basata sulla comunità e
non sul singolo individuo, perché sia più importante occuparsi del
software piuttosto che dell’hardware come il mercato del
videogioco ha capito e saputo sfruttare, un approccio sempre più
apprezzato e desiderato visto l’espansione enorme del mercato dei
videogiochi e dei mondi virtuali.
4.2 Dai MUD ai Social Virtual World
Dopo aver esplicitato la discendenza dei MMOs dalla RV e aver
spiegato la biforcazione tra il paradigma della RV dei laboratori di
ricerca e quello invece specifico del settore dei videogame è utile
specificare anche la discendenza dei social virtual world e dei
MMORPG da alcuni fenomeni dei primi anni in cui si sviluppò la
Rete. Ebbene possiamo far discendere i primi dalle bacheche
elettroniche e dai Bulletins Board e dalle comunità elettroniche
come il The Well in quanto fondate sulla socialità, sono fenomeni
basati sulle relazioni interpersonali, e il loro successo è legato nel
creare e renderle più piacevole, interessanti, coinvolgenti e
appassionanti possibili. I social virtual world potrebbero essere
addirittura definiti come la rappresentazione in grafica 3D delle
comunità on-line della metà degli anni novanta. I MMORPG, dal
canto loro, possono, invece, essere fatti risalire ai primi giochi da
tavolo e alle loro prime rappresentazioni informatiche, all’inizio
naturalmente solo in via testuale; stiamo parlando dei MUD (MultiUser Dangeon), il primo dei quali venne sviluppato verso la fine
degli anni Settanta esattamente in concomitanza con l’apparire delle
237
Dall’Utopia all’Eterotopia
prime bacheche elettroniche, Rheingold definiva questo tipo di
giochi l’altra faccia della cultura del ciberspazio, dove la magia è
reale e l’identità è fluida.17
I MUD rappresentano dei mondi digitali in cui, attraverso
un’interfaccia testuale, ci si può spostare, interagire con altri utenti,
creare oggetti, sono la discendenza diretta dei giochi di ruolo da
tavola di cui il più famoso è sicuramente Dungeons & Dragons, di cui
tra l’altro il Mud deve la sua terza parola, dungeon; sono tra l’altro
costruiti per la maggior parte sul mondo fantasy generato dalla
mente di J.R.R. Tolkien. I MUD non sono altro che una
informatizzazione dei giochi di ruolo o se vogliamo essere più
poetici, di tutti quei mondi immaginari che da sempre l’uomo crea e
in cui si immerge, pensiamo ai mondi creati dalla letteratura, mondi
fantastici in cui era facile perdersi, sospendendo la propria
incredulità.18 I Mud e poi i suoi discendenti cioè i MMORPG e simili
non sono altro che rimediazioni e virtualizzazioni di quei mondi
immaginari da cui l’uomo è sempre stato così affascinato.
Tramite le moderne tecnologie si determina un passo avanti
rispetto a quella Credenza Secondaria che ci viene descritta da J.R.R.
Tolkien, grande ideatore di Mondi secondari, spazi dotati di una
propria coerenza interna e dove veniva rispettato con estrema
attenzione il sistema di corrispondenze interno, ovvero il rapporto
tra realtà secondaria e sua rappresentazione; basti pensare a quanta
accuratezza l’autore riservò alla realizzazione di mappe per rendere
visibile il suo mondo immaginario:
Tolkien non si limita a scrivere L'Hobbit (1934) o Il Signore degli
Anelli (1954-55) ma costruisce un modello e un sistema di
credenze cui il lettore viene invitato ad aderire. C'è qualcosa di
più della "volontaria sospensione di incredulità" che consente al
H. Rheingold, Op. cit., p. 170.
Cfr. S. T. Coleridge, Biographia Literaria,
www.english.upenn.edu/~mgamer/Etexts/biographia.html
17
18
238
Dall’Utopia all’Eterotopia
lettore di interpretare un testo e di stare al gioco facendosi
guidare convenzionalmente dall'autore. Con Tolkien, l'autore
diventa un "secondo creatore" che costruisce un linguaggio
esattamente come quello della fisica e della matematica;
attraverso questo linguaggio disegna dei modelli che sono veri
fino a quando possiamo credere nel linguaggio che ci ha permesso
di costruirli [...] Tolkien non racconta soltanto una storia ma
costruisce il mondo, i personaggi, i linguaggi, le storie che l'hanno
generata. In questo modo egli compie un'operazione di
"virtualizzazione della narrazione" che permette al lettore di
entrare nella storia, di fornire le proprie risposte e, sebbene solo
potenzialmente, di compiere le proprie scelte. La sua non è una
operazione di sospensione di incredulità ma una operazione di
costruzione di una "credenza secondaria".19
Grazie ai computer e alla rete, i costruttori di mondi hanno potuto
non solo inventare ma condividere le proprio immagini con un
crescente numero di persone, soprattutto hanno avuto la possibilità
di esplorare liberamente questi ambienti. Abitando questi mondi
immaginari gli utenti possono agire su questi influenzandoli e
modellandoli attraverso le proprie azioni e le relazioni stabilite con
altri personaggi. Questi nuovi ambienti non costituiscono
semplicemente degli spazi dove giocare, ma ambiti all’interno dei
quali si costruisce una propria cultura, società reali che evolvono
secondo le regole vigenti. La voglia di simulare situazioni vicine alla
realtà in ambito ludico è un’attività piuttosto antica, basti pensare
che il primo gioco da tavolo in cui si rappresentava un giocatore
attraverso una pedina – un rudimentale avatar – fu il Gioco Reale di
Ur, datato come antecedente il 2600 a.c. Con i più moderni giochi da
tavolo si inizia ad attribuire al giocatore ed alla sua
rappresentazione:
L. Giuliano, I padroni della menzogna. Il gioco delle identità e dei mondi virtuali, Meltemi,
Roma, 1997, pp. 114-117.
19
239
Dall’Utopia all’Eterotopia
il gioco da tavolo rappresenta la prima tappa della metafora della
realizzazione personale, non solo perché si assiste alla
personificazione del giocatore, ma anche e soprattutto perché il
personaggio progredisce e acquisisce esperienza a contatto con
l’ambiente in cui evolve.20
Si assiste quindi ad un processo di identificazione tra giocatore e
avatar, dando vita a ciò che Caillois definì mimicry, fenomeno
tramite il quale un giocatore assume per il tempo del gioco un’altra
identità21, reso ancora più forte dalla necessità che l’avatar aderisca
ad un sistema di valori definito nello spazio ludico. Questo
meccanismo di proiezione rappresenta la base di ogni gioco di
ruolo, come ben dimostra Dangeons & Dragons (D&D) creato da
Gary Gygax e Dave Arneson nel 1973, e dei tantissimi giochi da
tavolo e di videogiochi che a lui si sono ispirati. D&D, infatti,
rappresenta una tappa fondamentale nel nostro discorso, poiché
non solo ebbe una grande influenza sulla nascente cultura
informatica, ma aveva una caratteristica che lo trasformò nel format
dei giochi di ruolo:
piuttosto che controllare eserciti dall’alto, i partecipanti scelgono
di “manovrare” personaggi individuali creati in base ad una lista
di razze e classi [...]. Riunendosi con gli altri compagni di gioco si
può esplorare un mondo neomedievale pieno di labirinti
sotterranei e catacombe, e senza nessun ulteriore obiettivo,
cercare il tesoro o le pergamene magiche.22
Nonostante fosse totalmente immaginario, il gioco ispirato alle
storie di Tolkien, rappresentava quindi un mondo dotato di un
dettagliato sistema di regole, concreto, sperimentabile e
manipolabile dal giocatore attraverso il proprio avatar, ecco perché
M. Gerosa, A. Pfeffer, Mondi virtuali, Castelvecchi, Roma, 2006, p. 52.
R. Callois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 2000.
22 E. Davis, Techgnosis, Ipermedium libri, Napoli, 2001, pp. 218-219.
20
21Cfr.
240
Dall’Utopia all’Eterotopia
si può sostenere che Gygax e Arneson non soltanto plasmarono uno
spazio sul modello della Terra di Mezzo, ma avevano costruito gli
strumenti per altri “sottocreatori”, strumenti in grado di costruire
regni ultraterreni che trasformavano i giocatori in partecipanti.23
Nello stesso periodo in cui si diffondevano i giochi di ruolo
l’informatica faceva registrare interessanti progressi; nel 1973
Arpanet contava ben 35 macchine tra loro collegate che
permettevano ai ricercatori americani di comunicare tra loro e
questo condusse anche la creazione dei primissimi giochi on-line. In
quegli stessi anni un ricercatore che lavorava allo Stanford Artificial
Intelligenece Lab, Don Woods, per puro caso trovò un rudimentale
gioco d’avventura realizzato da Will Crowther in uno dei primi
linguaggi di programmazione, il Fortran, per il computer PDP-10;
espandendo quel programma, Woods, ispirandosi all’ambientazione
di D&D, realizzò la prima avventura testuale della storia dei giochi
di ruolo on-line, Adventure (chiamato anche Colossal Cave),
all’interno della quale i giocatori vagavano per gallerie sotterranee
descritte da testi su uno schermo scuro e, digitando dei comandi,
ottenevano delle risposte dal programma per poi proseguire con la
propria avventura, passando da una “stanza” all’altra del mondo
immaginario.24 Adventure rappresentò la vera e propria matrice su
cui sarebbero stati costruiti i successivi giochi on-line e, allo stesso
tempo, Woods dimostrò come il computer unito alla rete potesse
essere considerato come uno strumento in grado di permettere ai
costruttori di mondi di vedere le proprie creazioni animarsi,
trasformandosi in spazi abitabili. Questa linea di pensiero,
combinandosi ai progressi tecnologici che l’informatica faceva
registrare, portò nel 1978 due studenti dell’Università dell’Essex,
Roy Trubshaw e Richard Burtle, ad elaborare un sistema di gioco in
Ibidem.
Per approfondimenti cfr. A history of ′Adventure′, The Crowther and Woods 'Colossal
CaveAdventure' game. Here's where it all began...,
http://www.rickadams.org/adventure/a_history.html
23
24
241
Dall’Utopia all’Eterotopia
rete che dava la possibilità a persone tra loro lontane di poter
occupare, con l’ausilio del proprio computer, lo stesso database
nello stesso momento: nasce in questo modo il Multi-User Dungeon,
il MUD.25
Come per l’antenato Adventure, anche in questo caso il giocatore si
ritrovava di fronte ad uno schermo che diventava la porta su un
mondo fantastico descritto attraverso le parole, in questo caso però
i giocatori potevano incontrarsi tramite i proprio personaggi e
rapportarsi l’un l’altro nel modo ritenuto più coerente rispetto alla
situazione:
Trubshaw e Bartle portarono on line i giochi di ruolo, dando vita
al doppelgänger del cyberspazio denominato alla fine avatar:
doppio digitale che incarna il punto di vista dell’utente e che lo
rappresenta anche di fronte agli altri abitatori degli ambienti
digitali.26
Questa nuova tipologia di gioco on-line ebbe un notevole successo,
tanto che numerosi altri MUD vennero realizzati negli anni
successivi, alcuni dei quali riprendevano l’ambientazione di D&D,
altri invece si proiettarono verso altre tipologie di mondi, ecco
perché l’acronimo MUD da Multi-User Dangeon passò ad indicare un
più generico Multi-User Domain, in modo da includere anche giochi
dallo scenario differente. Ben presto le possibilità offerte ai
giocatori aumentarono, fino al punto di fornir loro la possibilità di
partecipare direttamente alla costruzione degli spazi del MUD,
elaborando oggetti, immagini, descrizioni delle “stanze”, che
sarebbero restate a disposizione di tutti gli abitanti.
L’elemento che rivoluzionò il mondo dei MUD fu il loro diventare
persistenti, esistevano a prescindere dalla presenza del giocatore ed
Per approfondimenti Cfr. H. Rheingold, La realtà virtuale, Baskerville, Bologna, 1993, E.
Davis, Techgnosis, Ipermedium libri, Napoli,2001, M. Gerosa, A. Pfeffer, Mondi Virtuali,
Castelvecchi, Roma, 2006.
26 E. Davis, Op. cit., p. 229.
25
242
Dall’Utopia all’Eterotopia
erano accessibili in qualsiasi momento. Inoltre i giocatori non erano
più sottomessi ad una narrazione precostituita, ma ognuno poteva
lasciare che la propria storia evolvesse, in pratica il giocatore
costruiva una propria biografia nel mondo persistente on-line, ecco
perché l’avatar, da questo momento in poi, non andrà confuso con
un semplice personaggio, in quanto libero da una storia già
esistente. Secondo Rheingold, i MUD rappresentavano dei laboratori
attraverso cui poter studiare l’impatto delle comunità ma, allo
stesso tempo, costituivano dei luoghi dove ricreare la propria
identità, in cui poter comunicare in un modo più vicino alla
conversazione reale, ma di questo parleremo in seguito. Ben presto i
MUD attirarono l’attenzione di studiosi interessati non soltanto a
comprendere la vita all’interno di questi spazi, ma anche ad
individuare possibili utilizzi sperimentali. Iniziarono a nascere i più
democratici MUD sociali, come appunto i MOO: spazi meno
strutturati in cui non predomina il senso dell’avventura quanto
invece la collaborazione tra utenti, che insieme partecipano al
processo di costruzione della realtà. Uno dei più famosi MOOs
sperimentali fu LambdaMOO, realizzato da Pavel Curtis agli inizi
degli anni Novanta. Questo spazio prevedeva in origine un maniero,
ma con il passare degli anni vennero aggiunte non soltanto migliaia
di stanze, ma anche un considerevole numero di oggetti inventati
dagli utenti stessi. Questo progetto ebbe talmente successo che
intorno ad esso si venne a formare una comunità virtuale in cui
ognuno poteva proporre dibattiti, conferenze accademiche e
momenti di evasione, altro elemento interessante da sottolineare è
la presenza all’interno di questo mondo di un sistema legislativo,
una vera e propria costituzione democratica in cui i diritti dei
cittadini venivano salvaguardati dalla Lambda Law, votata dagli
stessi residenti.
Se, come dice Monti, la «realtà virtuale è (semplificando) il nome che
diamo ad ambienti artificiali costruiti col calcolatore, cioè ambienti
che non hanno la consistenza materiale (come quelli fisici in cui
viviamo normalmente) tuttavia vengono vissuti come reali. Infatti ci
243
Dall’Utopia all’Eterotopia
possiamo entrare, li percorriamo, agiamo su di essi trasformandoli e
dentro essi incontriamo persone con cui parliamo, lavoriamo, ci
divertiamo. Insomma, pur essendo virtuali gli ambienti vengono
percepiti come reali da chi vi entra»27, diventa chiaro come già a
partire dai MUD, che al giorno d’oggi possono apparire rudimentali,
si imponesse la loro percezione da parte dei residenti, come di spazi
non meno concreti di quelli tradizionali, un’immagine che diventerà
sempre più forte con l’introduzione della grafica, prima a due
dimensioni poi a tre, che determinerà il passaggio dai MUD ai
MMORPG. Per ricostruire le tappe principali di quest’ultima
generazione di mondi sintetici dobbiamo partire dal 1985, anno in
cui la grafica fece appunto la sua comparsa grazie al Progetto
Habitat. In quell’anno infatti Randall Farmer e Chip Morningstar,
incaricati dalla Lucasfilm Games di progettare una comunità
virtuale, sostituirono alla modalità testuale un’interfaccia grafica 2D
in stile fumettistico, in Habitat si inserisce quindi la metafora
spaziale. Un grande numero di utenti poteva collegarsi tramite il
proprio computer e interagire con altri tramite il proprio avatar, che
per la prima volta recupera una propria fisicità. Oltre ad interagire
con altri utenti, l’avatar poteva manipolare oggetti, e la disposizione
di ogni cosa in Habitat veniva gestita da potenti computer secondo
quello che Rheingold definì: il modello di mondo. In questo modo
veniva garantita la persistenza ad un livello più elevato rispetto ai
MUD, in quanto visiva: se ad esempio un avatar spostava un oggetto,
il computer centrale avrebbe determinato la nuova posizione nel
modello di mondo di tutti i computer degli utenti. Si garantiva in
questo modo un’elevata coerenza interna del mondo, sia in termini
spaziali che in termini temporali.
L’altra idea innovativa alla base di Habitat era rappresentata dal
fatto che questo mondo dovesse essere in grado di adeguarsi alle
esigenze degli utenti, da qui la continua pianificazione degli
L. Monti, Virtuale è Meglio. Cronache dal prossimo mondo, Muzzio Editore, Padova 1993,
p. 12.
27
244
Dall’Utopia all’Eterotopia
ambienti, ma ciò allo stesso tempo fu causa del fallimento di questo
universo, vista l’enorme difficoltà di realizzazione.
Le difficoltà tecniche nel corso degli anni vennero superate da altri
programmatori, tanto che i MMORPG si affermano e si diffondono
tra un numero di utenti sempre in crescita. Oggi i mondi da visitare,
come vedremo, superano i quattrocento, ciascuno dei quali presenta
proprie caratteristiche: si va dai mondi puramente fantasy ai social
virtual world. Un interessante esempio di quest’ultimo tipo di mondi
è There, che può essere considerato l’antenato di Second Life,
realizzato da una omonima società californiana che tra i propri
fondatori conta ex membri di eBay, Electronic Arts, Cisco,
Tickets.com e CBS Internet. In questo mondo sintetico gli utenti
possono conversare, fare sport, ballare, guadagnare e soprattutto
fare acquisti spendendo o la moneta locale (il Theredollaro),
guadagnata in vari modi, per comprare accessori o vestiti o pagare
anche con la carta di credito facendo quindi acquisti con moneta
“reale”. La consistenza di questo tipo di mondo può risultare ancora
più chiara se consideriamo un episodio in particolare, ovvero la
protesta contro alcune decisioni prese dai programmatori portata
avanti dagli abitanti di There che ispirandosi ad una vicenda
storica28, decisero di accumulare delle casse di tè da loro create ai
piedi dei più importanti monumenti degli Stati Uniti. Eventi questi
che se un tempo potevano essere considerati sensazionali, oggi sono
piuttosto comuni anche nella più moderna Second Life, e
rappresentano un primo segnale evidente di quanto si stia
realizzando l’affievolimento di un confine, quello tra reale e virtuale,
che mostra sempre più la sua porosità, soprattutto in quelli che
abbiamo definito social virtual world, che come abbiamo visto con
Castronova sono ben lungi da esser virtuali.
28
Ci si riferisce al Boston Tea Party del 1773.
245
Dall’Utopia all’Eterotopia
4.3 Caratteristiche dei Mondi Sintetici.
Dopo questi due excursus storici, uno sull’eredità e sulle diversità
che intercorrono tra il vecchio paradigma della realtà virtuale ed il
nuovo paradigma, l’altro sulla nascita dei mondi virtuali, dobbiamo
cimentarci nell’analizzare le caratteristiche generali e condivise di
questi mondi sintetici, nell’introduzione abbiamo utilizzato la
definizione che ne dà Edward Castronova, ma credo che sia
necessario ampliarla e sottolineare le caratteristiche peculiari di
questi nuovi mondi sintetici.
In primo luogo bisogna fare una distinzione preliminare tra
MMORPG o Fantasy game e social virtual world, anche se ormai
dovrebbe esser chiara, i MMORPG sono quei mondi virtuali di
diretta derivazione dai giochi di ruolo quali Dungeons and Dragons,
di cui sicuramente il più famoso è World of Warcraft, è sono dei veri
e propri giochi virtuali on-line con tutte le caratteristiche dei
videogiochi classici a cui si aggiungono però la dimensione on-line e
la possibilità di condividere il gioco con altri utenti in linea. I social
virtual world di cui sicuramente il più famoso è Second Life, sono
invece di natura alquanto diversa infatti in questo non ci sono
elementi classici dei videogame come le missioni, qui gli obiettivi, e
le storie non sono già definite, non esistono finché gli utenti non si
mobilitano per costruirle, è un vero e proprio mondo, anzi il mondo
deve essere pressoché costruito dagli utenti che hanno la capacità di
crea case, oggetti e quant’altro. Il fine ultimo dei mondi sintetici
come Second Life è in fondo la socialità e la socializzazione, il
chattare e il comunicare con gli altri utenti senza avere degli
obiettivi specifici. Dopo aver tracciato questa fondamentale linea di
demarcazione tra i mondi sintetici bisogna anche sottolineare che si
tratta di un confine labile, infatti è possibile riscontrare
caratteristiche di un social virtual wolrd all’interno di un MMORPG
o viceversa, riguardo ciò pensiamo al fatto che in alcune SIMS di
Second Life si svolgono effettivamente dei giochi di ruolo e
all’interno di MMORPG sono presenti caratteristiche o tipi di
246
Dall’Utopia all’Eterotopia
relazione utenti peculiari dei social virtual world alla Second Life.
Nonostante queste distinzioni che potremmo definire di genere
alcune caratteristiche sono comuni a tutti i mondi sintetici e per
comodità le abbiamo riassunte nella tabella seguente:
•
Spazio condiviso: il mondo permette ad una pluralità di
utenti di partecipare contemporaneamente
•
Interfaccia grafica: il mondo è presentato graficamente
mediante una ricostruzione più o meno tridimensionale
•
Immediatezza: l’interazione avviene in tempo reale
•
Interattività: il mondo permette agli utenti di alterare,
sviluppare, costruire o inviare contenuto customizzabile
•
Persistenza:
il
mondo
continua
ad
esistere
indipendentemente dalla presenza di utenti connessi
•
Socializzazione/comunità: il mondo permette e incoraggia
la formazione di gruppi sociali in-world
•
Avatarizzazione: l’interazione è mediata da una versione
digitale di sé
Queste sono le caratteristiche immancabili di qualsiasi mondo
sintetico o virtuale andando ad analizzare nel dettaglio per
comprendere meglio, innanzi tutto c’è la necessità di aver un
interfaccia grafica che rappresenti il mondo, in tre dimensioni o
meno, nel quale gli utenti possano giocare, vivere ed avere relazioni
sociali e questo è abbastanza chiaro; c’è il bisogno che il programma
crei un vero e proprio mondo sintetico dal punto di vista della
prospettiva spaziale, o almeno della sua percezione; altro elemento
chiave per questa definizione del mondo che permette un’illusione
di maggiore realtà consiste nel fatto che questo mondo sia condiviso
247
Dall’Utopia all’Eterotopia
con altri utenti giocatori contemporaneamente, su questa
condivisione si innestano altre caratteristiche come quella
dell’immediatezza e della persistenza. Infatti non avrebbe alcun
senso che il mondo si basi su un mondo condiviso
contemporaneamente senza che le interazioni tra gli utenti e
soprattutto quelle tra utente e mondo virtuale non abbiano luogo
nell’immediatezza, questo significa che ogni azione ha una
conseguenza immediata nel mondo sintetico, così come le relazioni
tra utenti, come ad esempio le chat che sono pressoché presenti in
ogni mondo virtuale. La persistenza è un’altra caratteristica
fondamentale, è la capacità del mondo di rimanere esistente, quindi
fuori dal controllo dell’utente, anche se l’utente è off-line, è un
elemento che rende il mondo sintetico più solido, pensiamo alla
dimensione temporale, se in un primo periodo i mondi sintetici non
presentavano un tempo analogo a quello tradizionale quanto
piuttosto un tempo immaginario, più adatto alla fuga dalla realtà, un
tempo che rimandava al sogno di immortalità, i più recenti mondi
on-line hanno integrato una dimensione temporale che scorre in
parallelo a quella off-line. Il tempo sintetico vede l’alternarsi delle
stagioni, del giorno e della notte ma, soprattutto, procede a
prescindere dalla presenza del singolo avatar: qualsiasi cosa
avvenga, continua ad evolvere, il tempo prosegue il suo cammino
inesorabile.29 Un altro fattore chiave è quello dell’interattività,
un’interattività che viene a definirsi su tre dimensioni diverse,
delineate dalle relazioni tra utente e computer, utente e ambiente
digitale e tra i vari utenti, in queste tre dimensioni l’interattività è
d’obbligo per l’esistenza stessa di un mondo sintetico, poiché è ciò
che crea la vita sociale di qualsiasi tipo di mondo sintetico, certo in
alcuni casi questa interattività è definita dal mondo stesso, che ne
detta le condizioni, ad esempio nei giochi di ruolo, ma soprattutto
nei social virtual world questa interattività è la base necessaria per
29
M. Gerosa, A. Pfeffer, Op. cit., p. 95.
248
Dall’Utopia all’Eterotopia
una qualsiasi tipo narrazione, se così la possiamo definire,
narrazione che invece è dettata dall’esterno nei giochi di ruolo.
Su questa base si innestano poi i processi di socializzazione e di
costruzione di comunità all’interno dei mondi virtuali che
rappresentano un’altra delle caratteristiche chiave dei mondi
sintetici. Per quanto riguarda la socializzazione è in pratica il fine
sociale dei social virtual world e rappresenta la sua condizione di
vita, senza la quale quel tipo di mondo non ha senso di esistere,
mentre nei giochi di ruolo di solito la socializzazione e la creazione
di un senso di comunità è dovuta più alla natura e alla struttura del
gioco, come obiettivi da raggiungere in gruppo, o alla strutturazione
in gilde di World of Warcraft. Nei social virtual world invece la
costruzione di comunità ha luogo non all’interno di una dimensione
ludica ma attraverso le relazioni sociali che all’interno del mondo
vengono a crearsi, in Second Life le comunità più famose sono quelle
dei Fur e quella dei Gor, i primi caratterizzati da una fisionomia
ibrida tra uomo e animale, i secondi per un abbigliamento simile a
quello del medioevo e con determinate relazioni sociali stabilite ad
esempio quelle tra padrone e schiavo. Naturalmente ultima, ma
forse più importante caratteristica l’interazione all’interno dei
mondi sintetici è possibile solo attraverso un’interfaccia grafica che
rappresenta il nostro utente: l’Avatar, rappresentazione di noi
stessi, di cui, per la notevole importanza parleremo in un paragrafo
specifico tentando di mettere in evidenza le peculiari relazioni che
intercorrono tra l’avatar e il suo utente e l’identità di quest’ultimo.
Le più importanti caratteristiche naturalmente sono quelle che
aumentano il realismo di questi ambienti, non è un caso che questi
spazi vengano costruiti integrando al loro interno molte dimensioni
tipiche della realtà tradizionalmente intesa, un espediente usato
affinché, per quanto fantastici possano essere questi spazi, sia in
qualche maniera sancita la loro esistenza. Per essere considerati dei
luoghi, essi devono in un certo senso essere vicini alla percezione
che si ha nella vita off-line, ecco perché, come abbiamo visto lo
spazio è innanzitutto persistente. Quello che in questi mondi viene
249
Dall’Utopia all’Eterotopia
completamente messa in discussione è l’opposizione tra reale e
virtuale, infatti per molto tempo si sono considerati gli eventi dei
mondi virtuali come irreali, partendo dal presupposto che la realtà
dovesse coincidere con le “cose” tangibili e materiali, questa idea è
penetrata anche in molti ambiti intellettuali che, colti dalla difficoltà
di inserire questi fenomeni nella categoria della realtà o dell’irrealtà,
hanno optato per la via più immediata da intraprendere: una
semplificazione che ha determinato l’associazione di quanto accade
nei mondi virtuali con il falso e l’illusorio. Una tale visione, oltre ad
essere riduttiva, risulta anche poco utile come quadro interpretativo
di tutti i fenomeni che, questi mondi, stanno facendo registrare. Se
solo ci limitiamo ad un’analisi etimologica del termine virtuale,
possiamo vedere come di effimero ed illusorio abbia ben poco, in
quanto da una parte abbiamo la radice virtus, forza, e dall’altra
abbiamo vir, ovvero uomo, da qui l’idea di virtuale come potenziale,
possibile.
Il virtuale dunque, come sottolineato anche dallo studioso Pierre
Levy, lungi dall’opporsi al reale, rappresenta una diversa modalità
dell’essere30, ecco il perché della sostituzione effettuata da molti
studiosi, che accolgo anche nel mio lavoro, del termine virtuale con
il termine sintetico. In realtà il fenomeno in sé è molto più
complesso, per questo abbiamo fatto ricorso ai concetti di Schuzt di
provincie finite di significato e di Berger e Luckmann di sfere diverse
di realtà e quella di frame di Goffman. Tutto questo per mostrare
come questi universi sintetici si collochino a metà strada tra ciò che
possiamo definire reale e quello che definiamo comunemente
virtuale e spesso siano presenti degli interscambi tra le due
dimensioni. Questo come è possibile? Ebbene una spiegazione di
come le relazioni all’interno di questi mondi siano del tutto reali e
quindi facilitino poi la solidificazione e la percezione di realtà di
questi mondi, è data dalla capacità immersive di questi universi
30
Cfr. P. Levy, 1996, P. Levy 1997.
250
Dall’Utopia all’Eterotopia
sintetici, il processo basilare è infatti rappresentato dall’immersività.
L’immersività è la sensazione di “esserci”, è il senso di appartenenza
al mondo virtuale, maggiore è il senso di immersione maggiore
risulterà la motivazione e il coinvolgimento degli utenti
nell’ambiente digitale. Naturalmente questo concetto è mutuato da
quello di Coleridge di “sospensione dell’incredulità”, ma mentre per
quest’ultimo l’immedesimazione nel personaggio di un libro o in un
attore del cinema o del teatro era dovuta al rispetto di alcune regole,
accettate anche se ritenute fittizie, nei mondi sintetici accade
qualcosa di alquanto diverso, essendo immersi in relazioni sociali
reali, l’immedesimazione si sviluppa rispettando alcune regole
accettate dagli utenti in quanto percepite come reali, questo perché
all’interno del mondo sintetico il rispetto o meno di quelle regole ha
conseguenze reali, da un certo punto di vista. Questo è in fondo la
base dell’immersione e quindi della concretezza dei mondi sintetici,
ci sono delle regole e queste regole sono vissute come reali,
elemento che determina, insieme alla permanenza, la coerenza
interna del mondo e quindi la sua solidità. In realtà alcune regole
sono reali e completamente indipendenti dagli utenti come ad
esempio un corretto utilizzo delle periferiche di gioco o il sistema di
valutazione della performance dell’avatar, altre riguardano la
gestione degli elementi dinamici nello spazio sintetico, la risposta
dell’ambiente alle azioni dell’avatar, tutto quello che quindi non
coinvolge la relazione tra abitanti, ma tra utente e mondo, ma
queste vengono il più delle volte scoperte semplicemente agendo,
così come nella vita off-line. Altre ancora invece sono regole che si
sviluppano all’interno delle relazioni tra gli utenti, infatti poiché
questi spazi non sono dei semplici videogiochi, e l’avatar non
diventa una semplice protesi visiva delle nostre fantasie ma è vivo,
come tale ha determinato l’insorgere, all’interno di queste realtà
sintetiche, di una serie di modelli comportamentali ricorrenti,
tendenti non solo a far evolvere le leggi ma a modificare quelle in
uso. Nel momento in cui un programmatore inserisce una regola,
essa genera una reazione da parte degli abitanti, e la loro volontà
251
Dall’Utopia all’Eterotopia
collettiva può arrivare a determinare non solo il rifiuto o
l’accettazione di una legge, ma anche una sua particolare attuazione,
ad esempio la collettività può far in modo che dei vantaggi attribuiti
ad alcuni residenti non vengano da questi goduti, come?
Semplicemente
con
i
meccanismi
dell’esclusione
o
dell’etichettamento, ecco quindi che accanto alle regole ufficiali ne
emergono di tacite, condivise dai membri di una collettività, che
stabiliscono anche un meccanismo sanzionatorio per chi non si
adegua. Un esempio molto calzante di questo fenomeno ci proviene
da una descrizione di Castronova inerente ad un particolare ruolo
all’interno dei MMORPG, il “guaritore”, le cui funzioni sono limitate
dalla volontà collettiva degli altri avatar:
Dato il ruolo a essi assegnato, questi personaggi possono accedere
ad abilità che permettono di guarire gli altri utenti da diversi tipi
di danno, avvelenamento e ferite. Ma è anche normale per la
coditing authority assegnare a questi personaggi molte altre
abilità per infliggere danno e ingaggiare un combattimento, per
esempio. Tuttavia la volontà collettiva degli utenti può imporre a
questi personaggi un numero più ridotto di abilità. Per quanto ho
potuto osservare, non è inusuale per i guaritori essere
letteralmente costretti a utilizzare solo le loro abilità di
guarigione quando si trovano in gruppo con altri [...] Sebbene
possano disporre di armi da fuoco o incantesimo con palle di
fuoco non possono utilizzarli, a causa dell’infamia che questo
provocherebbe. Nulla di ciò è presente nelle regole ufficiali del
gioco. Si tratta di una convenzione sociale, un’istituzione.31
Lo studioso aggiunge poi un riferimento importante, che ancora una
volta evidenzia lo stretto legame tra il virtuale e il reale, l’avatar è
solo un altro ruolo nella vita di un individuo e in qualsiasi luogo, gli
esseri umani, tendono ad aggiungere alle leggi formali un complesso
sistema di leggi informali di eguale, se non maggiore, importanza.
31
E. Castronova, Universi sintetici, Mondadori, Milano, 2007, p. 121.
252
Dall’Utopia all’Eterotopia
Tale elemento, ai fini della mia riflessione, è di estrema importanza
proprio perché tali istituzioni nascendo spontaneamente non sono
così lontane da quelle in cui ci imbattiamo nella nostra quotidianità.
Pensiamo semplicemente agli studi di Harold Garfinkel sui metodi
che le persone utilizzano per dare significato alle azioni quotidiane,
affinché esse risultino scontate e prive di qualsivoglia
problematicità che possa mettere in crisi la realtà stessa. Ogni
rottura dello schema condiviso di comunicazione nelle nostre
interazioni induce un complesso di reazioni che vanno dallo stupore
alla rabbia, fino ad arrivare all’esclusione, da parte di un’intera
collettività, del soggetto che viene percepito come un’anomalia.32
Il mondo sintetico acquisisce valore proprio tramite questa
costruzione sociale della realtà virtuale, attraverso questo processo,
che è un processo che implica sia l’immersione che l’interattività, la
virtualità si trasforma in realtà e non è un caso che questo tipo di
significazione abbia poi dei riscontri nel mondo reale, influenzando
le persone reali. E’ naturale che in un ambiente così definito,
realizzato attraverso l’interattività e i processi immersivi ci siano
diversi tipi di influenza tra il reale e il sintetico, infatti spesso i
gruppi all’interno dei mondi virtuali si tengono in contatto anche nel
mondo off-line per parlare certo del gioco, ma anche di altri
argomenti fuori dal quel contesto, spesso si organizzano raduni per
incontrarsi, e spesso vengono eseguiti sorte di rituali, sia on-line che
off-line, per definire le appartenenza di gruppo, insomma c’è una
sorta si simbiosi e di dialettica tra queste due sfere di significato o
per dirla alla Goffman di questi due frame33 che è interessante
analizzare e che Matteo Bittanti ha definito terza vita:
la terza vita non è la semplice somma delle precedenti: è la
risultante dell’interazione tra le due. Un soggetto che sperimenta
pratiche di terza vita interseca simultaneamente due piani di
32
33
Cfr. H. Garfinkel, La fiducia, Armando, Roma 2004.
Cfr. E. Goffman, Frame Analysis, Armando, Roma, 2001.
253
Dall’Utopia all’Eterotopia
realtà: quello analogico (prima vita) e quello digitale (seconda
vita) [...] Non vi è nulla di irreale nelle prassi che si realizzano
sullo schermo – come nella realtà, il soggetto fa ricorso a sistemi
simbolici per interagire con gli altri. In entrambi i casi, questi
sistemi sono arbitrari, convenzionali, relativi. Il senso non è
intrinseco alla materia – atomica o digitale – ma è sempre un
costrutto sociale.34
Per spiegare meglio il concetto di terza vita il concetto di frame35 di
Goffman diviene fondamentale, poiché esplicita in che modo sia
possibile immergersi e dare consistenza reale ai mondi sintetici. I
frame per Erving Goffman sono i principi organizzativi attraverso
cui gli individui riescono a dare significato all’azione sociale, agli
eventi e al mondo reale, dove il termine “reale” viene dallo studioso
inteso come ciò che l’individuo considera tale. I frame, infatti,
permettono di inquadrare l’esperienza, prive però di rigidità,
caratterizzandosi anzi per il fatto di essere mutevoli e di legarsi alla
definizione che in un dato momento l’individuo ha di realtà; diventa
quindi interessante per lo studioso comprendere in che modo le
esperienze vengano organizzate cognitivamente, come si passa da
un frame all’altro e inoltre il modo in cui le varie realtà si
sovrappongono. Goffman sostiene che ogni individuo per
riconoscere un particolare evento, ricorre a delle strutture
interpretative primarie, tali strutture consentono anche di avere
una chiave di lettura adeguata alle circostanze: il key è quell’insieme
di convenzioni sulla base delle quali una data attività, già significativa
in termini di una qualche struttura primaria, viene trasformata in
qualcosa modellato su questa attività, ma visto dai partecipanti come
qualcos’altro.36 È proprio la possibilità di questa oscillazione e
sovrapposizione dei frame, che permette di spiegare l’esperienza
dei mondi sintetici. Attraverso l’uso delle nuove tecnologie e tramite
M. Bittanti, , nell’Introduzione a M. Gerosa, Second Life, Op. cit., pp. 14-15.
Cfr. E. Goffman, Op. cit.
36 E. Goffman, Op. cit., p. 84.
34
35
254
Dall’Utopia all’Eterotopia
lo schermo si definisce una nuova cornice che inquadra e permette
la comprensione di una realtà sintetica che per molti aspetti si
sovrappone, se pur parzialmente, con la realtà off-line. Il passaggio
tra un frame all’altro avviene costantemente, vista la possibilità di
essere presenti contemporaneamente su un piano e l’altro, di vivere
in modo simultaneo qui e lì, per questo i mondi virtuali danno
esperienza di realtà, poiché sono basati su strutture primarie sociali
condivise, che permettono l’emergere di frame in base ai quali
comprendere gli eventi e sospendere il dubbio, procedendo sicuri in
una nuova quotidianità. I rapporti con la vita sono altresì
importantissimi, in quanto per legittimare l’esistenza di un mondo
sintetico è stato necessario costruire un contesto ben radicato nel
reale, solo in questo modo si possono accettare anche gli elementi
normalmente ritenuti assurdi, affinché l’intero mondo possa essere
ritenuto coerente non dove essere completamente lontano dalla
realtà ordinaria. Proprio per questo la definizione di terza vita di
Bittanti non sembra per nulla fuori luogo. Se poi qualcuno avesse
ancora dei dubbi sulla porosità esistente tra i confini dei mondi
sintetici e del mondo reale ebbene questi dovrebbero scomparire
analizzando i dati dell’economia dei beni virtuali (esiste forse entità
virtuale più reale dell’economia?), ebbene come mostreremo più
dettagliatamente nel prossimo paragrafo, ci sono milioni di persone
che spendono milioni di dollari ed euro reali per acquistare oggetti
virtuali o soldi virtuali da utilizzare nei mondi sintetici, e ci sono
milioni di persone che lavorano nei mondi sintetici per guadagnare
dei soldi reali. Se neanche questo vi ha convinto della dialettica tra
questi due universi ho paura che difficilmente riuscirete a coglierla
finché non deciderete di entrare nell’universo dei mondi sintetici.
255
Dall’Utopia all’Eterotopia
4.4 Sviluppo dei Mondi Sintetici
Per rendere meno virtuale l’analisi dell’universo di cui stiamo
parlando forse è il caso di tornare alla buona e vecchia statistica. Da
quando sono stati creati i primi videogame della storia Spacewar e
Pong, all’inizio degli anni sessanta, l’industria dei videogame non ha
praticamente mai smesso di crescere, sviluppo incredibile che si è
acuito all’inizio degli anni novanta quando le prime console hanno
fatto la comparsa nell’universo video ludico, da quel momento in poi
la porzione di popolazione che passa il proprio tempo libero davanti
una console o un video game ha avuto una ascesa vertiginosa
consideriamo che secondo i dati della ESA (Entertainment Software
Association) nel 72%37 delle case americane è presente una console
o un device di intrattenimento videoludico, dato che in Italia si
attesta al 45,5%38 secondo la AESVI (Associazone Editori Software
Videoludica Italiana), un dato significativo, in media quasi nella
metà delle case è presente un hardware con cui è possibile
trascorrere del tempo con i videogame. Questo non ci dovrebbe
ormai più stupire, poiché il settore dei videogame è diventato un
complesso enorme e strutturato che coinvolge migliaia di operatori
e lavoratori, secondo il miglior testo di analisi di quest’industria39, il
lavoro del mediologo Dimitri Williams, sono tre le attività principali:
lo sviluppo, la pubblicazione e la vendita. I programmatori creano il
gioco, di solito in team, pensiamo che per i titoli più importanti sono
coinvolti centinaia di lavoratori, suddivisi in molteplici aree che
riguardano lo sviluppo del software, ci sono programmatori, grafici,
tecnici dei suono, manager, e game designer. Quest’ultima una
professionalità nuova che abbraccia il progetto nella sua interezza,
dalla scrittura della sceneggiatura fino alla delineazione grafica del
Dati disponibili on-line all’indirizzo http://www.theesa.com/facts/gameplayer.asp
Dati disponibili on-line www.aesvi.it/cms/attach/editor/Rapporto_Annuale_2011.pdf
39 Cfr. D. Williams, “A structural analysis of market competition in the U.S. home video
game industry” in International journal on Media Management 4(1), 2002, p.41-54.
37
38
256
Dall’Utopia all’Eterotopia
mondo. Dopo di che l’editore pubblica il gioco e prova a venderlo.
Agli albori dell’avventura dei videogame erano molti i Games
development studios indipendenti, ora invece dominano le grandi
aziende quali Electronic Art e Ubisoft, giusto per citare le più
famose. La pubblicazione di un gioco prevede la sua diffusione sul
più ampio numero di piattaforme possibili tra console, pc,
smartphone, in pratica ovunque, fenomeno che gli operatori
definiscono: “ubiquitous gaming”: cioè la possibilità di giocare
sempre e ovunque. La vendita rimane prevalentemente al dettaglio,
ma sta invadendo gli spazi, dai supermercati ai negozi super
specializzati. Detto questo, il mercato dei videogame fattura 15
miliardi di dollari all’anno (quello americano)40, mentre in Europa
intorno ai 12 miliardi di euro, in Italia si attesta nel 2011 a quasi un
miliardo di euro, in flessione a causa della crisi economica, ma che
comunque fa dell’Italia il quarto mercato europeo dietro Gran
Bretagna (2.587 milioni), Germania (2.198) e Francia (2.009). Un
mercato in flessione generale ma che negli Stati Uniti riesce ancora a
superare il box-office di Hollywood, senza però pareggiare il
mercato complessivo di Hollywood. Certo non sarà ancora
Hollywood, ma riesce a raggiungere un’immensa varietà di persone,
secondo i dati della ESA l’età media dei giocatori è di 37 anni, in
Italia 28, il 29% è sopra i 50 anni, in più all’interno della categoria
degli adulti giocatori la media di anni giocati con i videogame è di
13, ciò dimostra che una volta iniziato a giocare praticamente non si
smette più, elemento confermato anche dal fatto che il 45% dei
genitori americani gioca insieme ai figli. Altro dato interessante è la
trasversalità di genere del fenomeno, infatti la percentuale di donne
adulte giocatrici è sensibilmente più elevata, 37% del totale,
rispetto ai ragazzi sotto i 18 anni che raggiungono solo il 13%.
Questo dimostra che il fenomeno è di una portata tale che il suo
studio non può che essere di elevatissimo interesse per gli studi di
40
Dati della ESA disponibili on-line all’indirizzo http://www.theesa.com
257
Dall’Utopia all’Eterotopia
comunicazione, soprattutto pensando che i giocatori in Europa sono
soliti passare una media di 6 ore a settimana davanti ai loro device,
raggiungendo quindi centinaia di migliaia di ore di gioco.
Ora però addentriamoci più approfonditamente nel settore che ci
interessa maggiormente cioè quello relativo ai mondi virtuali al loro
sviluppo e andamento. Per questa analisi ci serviremo dei dati e dei
grafici della Kzero Worldswide41, una consulting company che
dispone di dati aggiornati utili alla comprensione dell’universo dei
mondi virtuali o sintetici, sia dei social virtual world, sia dei
MMORPG. Dal lancio di Ultima Online, nel 1997, uno dei primi mondi
sintetici insieme a WorldsAway e The Palace.com, la moltiplicazione
dei mondi sintetici è pressoché esponenziale, come il grafico
seguente mette in luce.
Number of virtual worlds
In più, anche se nati come un fenomeno di nicchia, oggi sembrano
più o meno nascere al ritmo della legge di Moore, cioè raddoppiano
quasi ogni due anni. Per farsi un’idea della quantità enorme e della
41
http://www.kzero.co.uk/index.php
258
Dall’Utopia all’Eterotopia
varietà di categorie dei vari mondi virtuali disponibili in rete è
interessante osservare il Radar creato dalla Kzero che divide le
diverse categorie di mondi secondo il range di età degli utenti, un
grafico che purtroppo non unisce anche il numero di account per
ogni diverso mondo sintetico, ma sicuramente spiega come
mediamente gli utenti più giovani preferiscano interfacciarsi con
mondi più simili ai videogame, quindi ai MMORPG, mentre gli utenti
più grandi preferiscano i mondi sintetici basati sulla socialità, quelli
che abbiamo definito social virtual worlds.
259
Dall’Utopia all’Eterotopia
L’analisi degli account riveste un ruolo importantissimo in quanto
determina la fortuna, soprattutto commerciale, o meno dei mondi
virtuali in questione. Qui però il discorso diviene molto complesso
poiché la maggior parte degli account non sono realmente attivi;
quasi la totalità dei registrati non rimane attiva nel mondo virtuale
se non per un brevissimo lasso di tempo, in altri termini è presente
una sorta di vacanza virtuale in cui gli utenti si registrano fanno una
visitina all’interno del mondo prescelto e poi lo abbandonano in
maniera definitiva, spesso senza aver avuto nessun tipo di contatto
con altri utenti all’interno del mondo. Questo accade soprattutto per
i programmi che hanno un accesso gratuito al servizio, questo
spinge le persone a registrarsi tranquillamente, senza aver reali
intenzioni di continuare quell’avventura. Un altro fenomeno che
influenza notevolmente il dato del numero complessivo di account è
costituito dal fatto che molti di questi programmi consentono un
multi-account, quindi un unico utente può avere più avatar,
260
Dall’Utopia all’Eterotopia
minando la veridicità dei dati stessi. Ora nei grafici seguenti
vedremo la distribuzione per età e per numero di account, dati
relativi alla fine del 2011.
Come avevamo anticipato i più giovani preferiscono i mondi
sintetici più vicini ai videogiochi classici, mentre quelli più grandi i
mondi sociali. In questo grafico spicca il numero di account di
Habbo Hotel, con i suoi 255 milioni di account, di cui ci occuperemo
più approfonditamente in seguito, che è di gran lunga il mondo
virtuale con il maggior numero di account seguito da IMVU e
WeeWorld con 60 milioni. Habbo Hotel e Imvu sono dei mondi
virtuali alquanto particolari, sembrano più delle chat 3d che veri e
propri mondi sintetici, mentre WeeWorld è una piattaforma on-line
in cui si possono creare degli avatar trasportabili su altre
piattaforme, quali Facebook o Skype, o utilizzabili per esplorare la
comunità virtuale messa a disposizione dalla piattaforma stessa.
Per quanto riguarda gli utenti oltre i 25 anni, i mondi più popolati
sono il più famoso Second Life e Erepubblik, ma con dati nettamente
261
Dall’Utopia all’Eterotopia
inferiori, che si attestano intorno ai 30 milioni di account. Nemmeno
lontanamente paragonabili ai dati di Habbo Hotel e Imvu.
Tornando al discorso precedente secondo le interpretazioni
economiche riguardo i numero di account, queste ci dicono che solo
il 20 o 30 per cento degli account sono realmente attivi.42 Così
Second Life, per esempio, che offre una registrazione gratuita, ha
secondo i dati di Kzero 30 millioni di account, in realtà possiede solo
200.000 attivi contemporaneamente, quindi in realtà gli account
realmente da prendere in considerazione sono solo tra un 1.000.000
e i 660.000 (200.000 diviso 0.3 e 0.2). I rimanenti 29 milioni e oltre
in realtà sono solo account di visitatori che si sono iscritti e hanno
abbandonato il programma nell’arco di pochi giorni e non ci hanno
Cfr. E. Castronova, Exodus to the Virtual World. How on-line fun is changing reality,
Palgrave MacMillan, New York, 2007, p. 33.
42
262
Dall’Utopia all’Eterotopia
più messo piede. Castronova 43 applica una nuova limitazione al
conteggio degli account, in primis constata che per i mondi che
hanno una registrazione gratuita, il 90% degli account è un “non
residente”, poi comparando la registrazione tra questi mondi
gratuiti e quelli che invece richiedono una fee o una sottoscrizione a
pagamento calcola che esiste praticamente un rapporto di 1 a 10 tra
virtual world gratuiti e virtual world a pagamento, come può essere
World of Warcraft. Facciamo un altro esempio, Habbo Hotel afferma
sul suo sito www.habbo.com di avere 255.000.000 account, ma sono
in linea, nel momento in cui vi sto scrivendo solo 52.000 persone,
quindi seguendo le regole che il nostro amico economista ci ha
insegnato 52.000 persone in linea dovrebbero essere equivalenti
più o meno a 175.000 260.000 account realmente attivi, quindi
260.000 diviso 255.000.000 dà un risultato veramente poco
lusinghiero per i programmatori confrontato con il valore di un
account di World of Warcraft, più o meno 0,0010, cioè si ha bisogno
di 1,700 registrazioni su Habbo a 1 di World of Warcraft per avere
lo stesso rapporto tra numero di utenti contemporaneamente in
linee e quelli registrati. Tutti questi calcoli sono abbastanza difficili
da comprendere, ma ci fanno capire come lo sviluppo dei virtual
world sia sicuramente in ascesa, ma necessita di un occhio critico,
per valutare oggettivamente questa crescita, non è un caso infatti
che non tutti i mondi sintetici rilascino delle statistiche e anche
quelli che lo facevano adesso sono più restii a renderle manifeste,
anche Second Life che da questo punto di vista era un leader
dall’ottobre del 2010 non rilascia più alcuni tipi di statistiche, che
forse farebbero più chiarezza su quello che veramente accade
nell’universo dei mondi sintetici. Nonostante questo il numero di
account è sempre in vertiginosa ascesa come ci dimostrano i dati di
Kzero, sfondando addirittura la quota di un miliardo e mezzo di
accounts, e anche tenendo conto che delle correzioni statistiche che
43
Ibidem.
263
Dall’Utopia all’Eterotopia
ci suggerisce Castronova le cifre sarebbero comunque notevoli e
degne di uno studio approfondito, perché si parlerebbe comunque
di centinaia di milioni di utenti presenti e attivi sulle diverse
piattaforme disponibili.
Total cumulative registered accounts
Milioni di persone che oltre a costituire nuove relazioni sociali
creano soprattutto un nuovo mercato economico, sempre più in
espansione e sempre più importante per le aziende, non è un caso
che moltissime industrie siano ben rappresentate all’interno di
questo universo sintetico, ma quello che forse è ancora più
importante è il mercato di beni virtuali che ormai è una grande
realtà, sia per la quantità di denaro impiegato, ma soprattutto per
l’ampiezza del mercato che sta emergendo. Qui di seguito
riportiamo due importanti grafici sempre provenienti dalle ricerche
della Kzero worldswide che ci illustrano con maggior chiarezza il
fenomeno di cui stiamo parlando. Il primo delinea la crescita
dirompente del mercato dei mondi virtuali dal 2007 in poi, mercato
che nella sua complessità oggi si aggira intorno ai quattro miliardi di
dollari, ma che secondo la legge di Moore, porterà il mercato nel
2013 a un giro di affari superiore agli otto miliardi di dollari. In
questo grafico sono presenti sia le registrazioni premium per le
piattaforme virtuali che le prevedono, quali le quote di
abbonamento mensili e simili, sia la vendita di prodotti o il
marketing di questi all’interno delle piattaforme, sia le micro
transazioni tra gli utenti.
264
Dall’Utopia all’Eterotopia
Virtual world revenues (USD)
Ben più importante forse è il secondo grafico nel quale vengono
riportati i dati inerenti al mercato di tutti i beni virtuali dai virtual
world ai social network. Quindi dai servizi allo scambio inter-utente
di beni virtuali. Ebbene secondo la Kzero anche qui il mercato è già
di proporzioni enormi, si parla di 9 miliardi di dollari, e per il
prossimo anno già si prevede una crescita pari quasi al 30%, che
porterebbe il giro di affari intorno ai 15 miliardi di dollari.
Virtual goods revenues (USD)
265
Dall’Utopia all’Eterotopia
Quello che ha dato vita e potrebbe essere la molla per
quest’ulteriore crescita è da ricercarsi nella possibilità di fare
acquisti all’interno dei mondi sintetici stessi, questo perché questi
sono dotati di una moneta propria, ad esempio la moneta di Second
Life è il lindendollar, che quotidianamente viene valutato nei
confronti del dollaro reale. In più come spiegheremo più avanti è
possibile convertire la moneta virtuale in moneta reale, elemento
che spinge alcuni a trovare e svolgere dei veri e propri lavori
all’interno dei mondi virtuali per avere poi una rendita in quello
reale. Questo è dal mio punto di vista l’elemento che più allontana
questo tipo di realtà virtuale dalla concezione eterotopica di cui
avevamo discusso nel capitolo precedente. Qui non si crea o utilizza
un nuovo mondo per creare una società migliore, anche se sul piano
virtuale, ma si riproduce il meccanismo economico sociale
pedissequamente, dimostrando ancora una volta come il
capitalismo sia in grado di cooptare ai propri meccanismi quei
fenomeni che erano nati con intenzioni e prospettive
completamente diverse. Ricordiamo le interpretazioni alternative
della RETE e della Realtà virtuale alla fine dello scorso millennio e
come queste si fossero velocemente trasformate fino a divenire
praticamente dei thing tank del nuovo capitalismo. Ricordiamo
ancora una volta il documento Cyberspace and the American Dream:
A Magna Carta for the Knowledge Age, che esprime ai massimi livelli
questo capovolgimento assiologico.
Detto questo, tornando all’argomento di cui ci stavamo occupando,
quello che bisognerebbe analizzare e sottolineare sono i
cambiamenti che lo sviluppo del mercato virtuale può apportare
all’interno del mercato reale. Sempre secondo Edward Castronova,44
uno dei più grandi esperti di economia dei mondi virtuali, quello a
cui stiamo assistendo è un vero è proprio esodo verso i nuovi
mondi, esodo, che soprattutto nell’ambito economico, può portare
44
Cfr. E. Castronova, Op. cit., soprattutto pp. 137-187.
266
Dall’Utopia all’Eterotopia
ad una vera e propria rivoluzione del mercato, rivoluzione che
riguarderebbe tutti gli assi portanti della sua strutturazione: dal
mercato del lavoro alla politica monetaria, fin alla crescita
economica. L’analisi di questi cambiamenti porterebbero alla fine
delle politiche economiche basate sulla teoria della scarsità verso
una rivoluzione: la Fun Revolution, con cui tutte le istituzioni
politiche ed economiche dovranno fare i conti. In breve questa
rivoluzione si baserebbe sui connotati specifici dei mondi virtuali,
quindi il divertimento prima di tutto, anche il lavoro deve e può
essere divertimento, soprattutto remunerativo, nelle possibilità di
impiego ci dovrebbe essere una vera parità di opportunità, perché
in fondo nei mondi virtuali questo accade, tutti possono trovare il
lavoro che è più consono alle proprie capacità. Così come c’è una
vera democrazia in cui tutti possano realmente partecipare. Tutto
questo delirante progetto non sembrerebbe assurdo se fosse figlio
di menti degeneri e degenerate come quelle di Timothy Leary o
Terence Mckenna, ma divulgate da un economista suonano
abbastanza strane. In più dal mio punto di vista Castronova sembra
dimenticare elementi alquanto basilari, ad esempio lo scarseggiare
delle materie prime, in particolare quelle definite terre rare, che per
le loro innate qualità di superconduttori sono indispensabili per la
costruzione dei nuovi device tecnologici, dai pc ai server, ecco
chiedo io come è in grado il nostro buon economista di conciliare
questo dato con la sua Ending the politics of misery45 Questo non lo
ha spiegato, ma dal suo punto di vista ha risolto l’enigma della
storia:
some of the policies I’ve reviewed here must seem like a leftist’s
dream, others the fantasy of the most radical right-winger. Yet
this real-world application of fun policy have an advantage that
the fancies of political radicals never do: they have been
successfully applied, by virtual-world designers, in genuine human
45
Ivi, p.187
267
Dall’Utopia all’Eterotopia
societies. They are being tinkered with and perfected, even now, in
an industry experiencing exponential growth and a vast
expansion in available resources. True, the environment in which
this new policies have been applied is its-self fantasy. Yet the
people are real, and so is the social order they generate. With in
that social order, millions of people are having fun. We could take
some distinct lessons from all this fun. In fact, we will probably not
have a choice; these policies will either became unavoidable or
second nature, as more and more people spend their formative
years visiting virtual worlds. We should not be surprised when
future generations of voters star to demand full employment,
rapid wages, equal opportunity and an end to general economic
growth.46
Questa effettivamente potrebbe essere una splendida utopia, ma
sostengo di difficilissima realizzazione, quale utopia non lo è. Dopo
questo piccolo excursus statistico sull’universo dei mondi sintetici
ora è il caso di tentare di prevedere quali potrebbero essere gli
sviluppi e le trasformazioni che questi potranno avere, verificare
cioè quali potrebbero essere le linee di evoluzione di questo
universo virtuale.
4.5 I mondi sintetici del futuro
Dopo aver narrato la storia, anche dal punto di vista statistico, e la
discendenza dei mondi virtuali dalla realtà virtuale dalle comunità
on-line, è aver delineato le loro caratteristiche principali, ora penso
sia utile tentare di immaginare quali potranno essere i cambiamenti
all’interno dei mondi sintetici, cambiamenti sia di tipo tecnologico,
in fondo la ricerca nel campo dei videogame e non solo è sempre al
lavoro, ma anche cambiamenti degli stimoli e delle necessità degli
utenti che comporteranno delle trasformazioni all’interno dei mondi
46
E. Castronova, Op. cit., p. 157.
268
Dall’Utopia all’Eterotopia
sintetici. Alcune linee guida di tali cambiamenti sono già
ampiamente tracciate e implementate, altre nasceranno e quindi i
mondi sintetici, ma l’universo dei videogiochi in generale dovrà
adattarsi. Poiché predire il futuro si dimostra sempre un’impresa
difficile per il rischio di venir smentiti in maniera categorica
partiamo dalle basi che sicuramente non potranno cambiare poi
molto, i mondi sintetici saranno sempre rappresentazioni 3D che
immergeranno l’avatar dell’utente in un mondo con regole coerenti
al proprio interno, tutto il resto sicuramente cambierà, innanzitutto
i mondi sintetici si moltiplicheranno, questo soprattutto per un
semplice motivo, visto che il gioco multiplayer on-line sta
riscuotendo un successo incredibile ogni videogame si doterà di una
piattaforma on-line permanente, ciò non significa si costituiranno
dei veri e propri mondi virtuali, ma di sicuro, almeno inizialmente,
copieranno i modelli dei mondi sintetici esistenti, con le loro
caratteristiche e le loro finzioni, tipo chat, messaggistica istantanea
e simili. Questa invasione è ormai iniziata ed è iniziata quando le più
famose console game come la Playstation, la Xbox 360 e la Nintendo
Wii hanno dotato i propri device di schede che consentano la
connessione ad internet. Questo non significa che ogni singolo
giocatore giocherà sempre in tale modalità, ma le ricerca di settore47
hanno evidenziato come spesso anche su piattaforma multiplayer il
giocatore procede in modalità “SOLO”, cioè non connesso con altri,
per essere più libero di seguire i suoi stimoli, giocando, però, in
modalità solo, come se la componente sociale gli donasse un piacere
superiore, come se i suoi atti fossero accreditati in maniera
maggiore dagli altri utenti e questo desse più soddisfazione al
giocatore. Questo avvalora ancor di più l’ipotesi di una
moltiplicazione di piattaforme on-line per la maggior parte dei
Cfr. N. Ducheneaut, N. Yee, E. Nickell, R. Moore, “Alone together? Exploring the social
dynamics of massively multiplayer on-line games” in Xerox Palo Alto Research Center
Working Paper. Disponibile on-line all’indirizzo
http://www.parc.com/content/attachments/alone_together_exploring_5599_parc.pdf
47
269
Dall’Utopia all’Eterotopia
videogame. Altro elemento di sviluppo quasi certo sarà la capacità
di accedere alla piattaforma on-line da qualsiasi device; infatti
attraverso gli smart-phone l’accesso ad internet è possibile
ovunque, le reti wireless di ultima generazione come la wi-max si
stanno sviluppando e tra breve saranno a disposizione di tutti,
ormai vediamo sempre più persone con addosso auricolari e
microfono bluetooth e non è una eventualità remota il fatto che
sfruttando questa tecnologia sarà possibile creare dei piccoli
schermi per gli occhi e mini-comandi da inserire sulle dita per
consentire alle persone di giocare online. La console portatile
Nintendo Ds già permette a diversi giocatori di giocare insieme
grazie ad un collegamento wireless: è un punto di non ritorno, si
può tranquillamente prefigurarsi un vicinissimo futuro in cui tutti i
personal communication device saranno in grado di connettersi a
giochi on-line e quindi anche ai nostri cari mondi sintetici. I giochi
saranno sempre più alla portata di tutti, è quello che il settore dei
videogame definisce “ubiquitos gaming” e se facciamo attenzione a
quello che accade nelle nostre strade e nei locali tutto questo è già in
atto. Un aspetto che sicuramente si svilupperà in maniera ancor più
esponenziale sarà quello dell’avatarizzazione, infatti poiché, come
abbiamo affermato, è facile pensare che tutti i giochi avranno le
proprie piattaforme on-line per il gioco in multiplayer allora
sicuramente queste faranno in modo di poter creare il proprio
doppio digitale. L’avatar come abbiamo già accennato e come
vedremo più in dettaglio nei prossimi paragrafi è di sicuro il vero
protagonista dei mondi virtuali e non c’è nessun dubbio che con
l’ampliarsi delle piattaforme on-line la sua importanza crescerà di
conseguenza, gli utenti vanno letteralmente pazzi per i propri doppi
virtuali, soprattutto per la possibilità di customizzazione, ed è
sicuramente questo aspetto che verrà ancor più sviluppato nei
nuovi mondi sintetici, la possibilità di poter cambiare nelle maniere
più svariate e imprevedibili il proprio avatar. I diversi mondi
virtuali si daranno sicuramente battaglia per creare le migliori e più
originali modalità di customizzazione dei propri avatar. Questo
270
Dall’Utopia all’Eterotopia
genererà un conseguente sviluppo del mercato ad essi collegato,
come vedremo meglio nel prossimo paragrafo che si occuperà nel
dettaglio dell’economia dei mondi virtuali ci sono milioni di persone
che spendono cifre ingenti per modificare e migliorare i propri
avatar, con ogni sorta di accessorio virtuale. Per sfruttare questo
mercato emergente e in continua espansione i nuovi mondi virtuali
e le nuove piattaforme on-line dovranno sicuramente implementare
e sviluppare meccanismi per il commercio di beni virtuali,
spingendosi a sviluppare come già alcuni mondi virtuali, tra i quali
Second Life, delle vere e proprie valute virtuali che dovranno essere
scambiabili con le valute reali. Se questo non verrà portato a
compimento sicuramente gli utenti, come già fanno di fatto,
troveranno altri canali di scambio, come le aste di beni virtuali su
eBay o una sorta di baratto virtuale tra beni immateriali. Non è un
caso che anche un social network come Facebook si stia adoperando
per poter rendere la propria moneta virtuale, non solo acquistabile
da parte dei propri utenti, ma soprattutto convertibile in denaro
reale. Un altro aspetto che sicuramente il settore dei videogiochi e
soprattutto quello dei mondi sintetici tenterà di sviluppare sarà
quello di creare un device che possa trasmettere la sensazione del
tatto, in fondo questo è uno dei pochi sensi che mancano all’interno
di questi universi. Questa necessità è sentita sempre più impellente
all’interno dei mondi sintetici, poiché è l’unico senso ancora non
replicabile su base virtuale. Un altro aspetto da non sottovalutare è
sicuramente quello del sesso, non giriamo intorno all’argomento, la
maggior parte dei siti in internet ha contenuti pornografici, in
Second Life il sesso, in maniera più o meno esplicita, è pressoché
onnipresente, gli utenti acquistano o creano script, cioè stringhe di
codice, che consenta ai propri avatar di mostrarsi nudi e di, con
alcuni comandi, avere rapporti virtuali con degli altri avatar. La
tecnologia si sta avvicinando a dei controller che rispondano a degli
impulsi del gioco, pensiamo ai pad delle console come la Xbox che in
determinate situazione vibra, ebbene sicuramente si tenterà di
sviluppare tale tecnologia per giungere ad un device che non solo
271
Dall’Utopia all’Eterotopia
permetta di ricreare sensazioni tattili, ma anche programmi che
permettano che tali sensazioni siano inviate non solo dal
programma ma da altri utenti attraverso dei comandi speciali.48 Su
questo sicuramente si lavorerà, un altro aspetto su cui già oggi ci
sono passi avanti è quello di poter proiettare l’utente direttamente
dentro il gioco e in seguito anche all’interno dei mondi sintetici
senza bisogno di controller o pad. Questa è la scommessa che hanno
fatto sia la Sony che la Xbox, con i propri sistemi Eyetoy e Kinetic,
dispositivi costituiti fondamentalmente da telecamere che
riprendono i movimenti dell’utente e li riproducono all’interno del
gioco, ma possiamo immaginare che questa tecnologia possa essere
tranquillamente applicata anche per i mondi sintetici. Questo
rappresenterebbe realmente la prosecuzione del sogno della RV:
riuscire finalmente ad entrare all’interno del computer, o dei mondi
virtuali, un sogno che sembrava terminato con il collasso dei
dispositivi classici di RV come l’elmetto 3D e il data glove, e che oggi
rinnova la volontà di colonizzare il mondo dell’immaginazione,
desiderio che non sembra arrestarsi davanti a nulla, solo in futuro
vedremo dove questa aspirazione ci condurrà, consci del fatto che
difficilmente sparirà. L’immaginario eterotopico sembra invece
l’elemento non in agenda per quanto riguarda l’universo virtuale,
fermo nel suo complesso ludico e commerciale, anche qui solo il
tempo ci dirà se queste impressioni verranno confermate o
smentite. Continuiamo con le previsioni fantastiche sulle evoluzioni
dei mondi virtuali e delle tecnologie video ludiche in generale, di
sicuro un altro ambito di ricerca sarà quello di rendere i NPC (non
Sulla sessualità, la teledildonica e argomenti simili cfr. J. Pinckard, “Sex in game: rex +
vibrator” e “Rez Trance Vibrator: redux” in Game Girl Advance on-line at
www.gamegirladvance.com/archive/2002/10/26/sex_in_gamerezvibrator.html#000141
, www.gamegirladvance.com/archive/2005/02/24/rez_trance_vibrator_redux.html, e R.
Lynn, “Ins and Outs of Teledildonics”, Wired News, on-line at
www.wire.com/news/culture/0,65064-0.html
48
272
Dall’Utopia all’Eterotopia
player character)49 cioè i personaggi controllati non dagli utenti, ma
dal programma stesso, più simili agli utenti reali, quindi con una
sorta di propria personalità e addirittura emotività, pensiamo al
creatore di mondi virtuali Mark Sellers, l’inventore del primo virtual
world Meridian59, che ha progettato un “people engine” per creare
NPC credibili per gli ambienti sintetici, o pensiamo alla ricerca che si
sta svolgendo alla University of Southern California’s Institute for
Creative Technology, dove un gruppo di ricercatori sta lavorando su
un sistema di emozioni interattive attraverso modelli
computazionali, un settore definito virtual humans project che ha
l’obiettivo di creare degli agenti di intelligenza artificiale più
realistici per i software interattivi. Altri progetti come quello del
MIT invece si pongono il fine di catturare gli stati emotivi personali
e usarli nei programmi; è facile comprendere come tutto questo
possa essere estremamente utile all’interno dei videogame,
soprattutto nei mondi sintetici.
Altro elemento chiave che verrà sicuramente implementato sarà la
convergenza multimediale. Già oggi in molti mondi sintetici gli
utenti possono scambiarsi instant message o chattare, su Second life
è possibile vedere dei film o la tv e navigare su internet, ora alcuni
mondi stanno sviluppando il modo di far comunicare i propri utenti
tramite microfono o sistemi di Voice-on-Internet, per rendere ancor
più realistiche le relazioni sociali. L’elemento che indubbiamente si
svilupperà in maniera ancor più evidente di quanto non lo sia oggi
sarà di certo l’espansione dell’user generate content, cioè dei
contenuti, siano essi oggetti virtuali o script per le azioni degli
avatar o dell’ambiente sintetico, creati direttamente dagli utenti.
Questo è un elemento fondamentale sia perché rende più
coinvolgente i mondi sintetici, che hanno la libertà di creare tutto
ciò che desiderano, sia per i mondi sintetici stessi che potranno
evolvere senza che le società creatrici spendano milioni per lo
Cfr. E. Castronova, Exodus to the Virtual World. How on-line fun is changing reality,
Palgrave MacMillan, New York, 2007, p. 55.
49
273
Dall’Utopia all’Eterotopia
sviluppo, mondi che invece evolveranno naturalmente per l’apporto
creativo dei propri utenti. Second Life si basa fondamentalmente su
questo aspetto, infatti in questo mondo virtuale gli utenti hanno la
capacità di utilizzare gli script forniti dai programmatori per
generare qualsiasi tipo di contenuto essi desiderino, gli elementi
fondamentali sono definiti prims o primitives, cioè gli elementi base
per la costruzione degli oggetti virtuali, ma Second Life, rendendo
libero il codice sorgente, permette anche di modificare i movimenti
degli avatar, cosicché gli utenti possono customizzare a proprio
piacimento i movimenti del proprio avatar. Questa capacità di
generare contenuti propri è un fenomeno importante poiché
permette agli utenti una sorta di democratizzazione e un controllo
sull’evoluzione del proprio mondo sintetico, e in fondo apre un
nuovo mercato, infatti gli oggetti creati sono di proprietà riservata
dei loro creatori e questi possono rivenderli utilizzando la valuta
corrente del mondo. L’user generate content è un guadagno per tutti,
per i creatori che li vendono, per il mondo che può evolvere senza
una spesa eccessiva e perché può mettere una tassa su altri
elementi, ad esempio in Second life la registrazione è gratuita, ma
per avere una casa devi avere un terreno virtuale e per far ciò devi
avere un account premium, cioè a pagamento, ed è anche un
vantaggio per gli altri utenti che hanno una sorta di controllo
sull’evoluzione del proprio mondo. Di sicuro l’user generate content
si svilupperà sempre più e prenderà piede anche in mondi sintetici
più rigidi, come i MMORPG. L’ultima evoluzione, dal mio punto di
vista la più importante, che potrà prendere piede è la possibilità di
consentire agli utenti di spostarsi con i propri avatar da un mondo
virtuale all’altro senza dover cambiare avatar, anzi mantenendo le
caratteristiche del proprio doppio virtuale. Questo che potremmo
definire Connecting worlds o Crossworld è dal mio punto di vista
fondamentale poiché consentirebbe la creazione di un vero e
proprio universo sintetico, in cui gli utenti si possano spostare come
all’interno di un mondo vero, quindi generando di fatto una vera e
propria seconda vita. Questo fenomeno potrebbe essere un
274
Dall’Utopia all’Eterotopia
fondamentale valore aggiunto poiché potrebbe sfruttare le qualità
intrinseche del sistema a rete per generare un mega-network di
mondi sintetici. Questo processo è già in atto, infatti Second Life
lasciando libero il codice sorgente permette l’interconnessione con
un altro mondo virtuale WeeWorld, in cui gli utenti possono
utilizzare l’avatar di Second life e viceversa. Questo, per adesso,
rappresenta l’unico esempio di crossworld, ma questa necessità si
sta espandendo, esistono già social network per avatar di diversi
mondi, che si possono mettere in contatto tra loro, e più sono attivi
sia nel proprio mondo che nel social network e più vantaggi hanno
per il proprio avatar. Il primo social network di questo genere si
chiama Myrl,50 ed è attivo da un paio d’anni, con il fine di
interconnettere i vari mondi sintetici e tentare di creare
effettivamente un universo virtuale.
Il fattore decisivo per questa interconnessione è rappresentato dalla
struttura stessa della connessione tra i vari mondi, infatti si possono
aver almeno due varianti, una in cui si renderebbe possibile la
connessione tra tutti i diversi mondi sintetici, un’altra invece che
preveda una piattaforma esterna ai mondi che metta in contatto
questi mondi. Queste due varianti sono ben rappresentate
dall’immagine sottostante.
50
http://www.myrl.com/myrl/virtual-world
275
Dall’Utopia all’Eterotopia
La differenza consisterebbe fondamentalmente tra una
interoperabilità tra i vari mondi sintetici, quindi una sorta di
indipendenza da terzi, e una etero-operabilità, che faciliterebbe
invece una mantenimento dei propri codici sorgenti, visto che questi
sarebbero in dote ad un elemento terzo e non ad un diretto
concorrente. Questi sono discorsi che poco ci interessano,
l’elemento principale risulterebbe di sicuro quello di poter creare
un universo sintetico interconnesso, elemento che non solo
renderebbe maggiormente immersiva l’esperienza degli utenti, ma
aprirebbe un infinito mercato, questo perché in fondo si
genererebbe un altro tipo di medium a cui il marketing aziendale
potrebbe ambire, che sarebbe tra l’altro di più facile accesso. Infatti
le diverse aziende non dovrebbero fare piani di marketing per ogni
particolare e singolare mondo sintetico, ma potrebbero costruire un
media planning su ampio raggi, utile su tutti i diversi mondi virtuali.
La creazione di questo tipo di universo sintetico sarebbe veramente
l’ideale per la costruzione di un nuovo immaginario eterotopico, si
potrebbero generare diverse e completamente nuove relazioni
sociali tra i vari mondi sintetici e tra gli utenti di questi, ma
l’esperienza sembra smentire questo approccio, infatti come
all’interno dei singoli mondi sintetici l’elemento dominante sembra
essere la relazione commerciale e un tipo di gerarchia sociale
fondata sulla notorietà e la visibilità, l’utopia come creazione di una
nuova e migliore società sembra essere svanita in questo tipo di
mondi virtuali, ma di questo ci occuperemo meglio in seguito.
4.6 Per una metaforologia dei mondi sintetici
L’ obiettivo di questo paragrafo è quello di passare in rassegna le
più famose e influenti metafore con cui si è tentato di dare una
spiegazione complessiva del fenomeno dei mondi sintetici, le
metafore di solito si sono estese alla Rete, o sono nate
276
Dall’Utopia all’Eterotopia
dall’interpretazione di questa e poi hanno inglobato i mondi
sintetici per analogia, si sono articolate di solito intorno ai dei
paradigmi binari che per la maggior parte non hanno colto le
ambivalenze, le contraddizioni, i confini porosi e instabili del
fenomeno che stiamo analizzando. Le metafore che prenderemo in
analisi in questo paragrafo sono in particolare quella della frontiera,
quella del cerchio magico, una visione escapista dei virtual world e
dei videogame e naturalmente la mia visione dell’eterotopia.
L’insieme di queste metafore parte da un’interpretazione simile del
fenomeno del cyberspazio e dei mondi sintetici, quella per cui questi
fenomeni siano collocati in uno spazio ontologicamente diverso e
separato da quello che viene comunemente definito e vissuto come
the Real World. Questa visione condivisa come accennato in
precedenza si basa essenzialmente su un’interpretazione di questi
fenomeni basata su una struttura binaria quella che oppone la realtà
del mondo alla virtualità dei fenomeni presi qui in esame, divisione
imprescindibile che colloca i mondi virtuali su un piano
ontologicamente diverso e quindi su un piano completamente altro
e diverso da quello della realtà quotidiana. Per i mondi virtuali
questa dicotomia binaria si raddoppia poiché oltre alla virtualità si
aggiunge quella della dimensione ludica o per utilizzare una parola
inglese più efficace della gameness opposta sempre alla solidità del
mondo reale e alla sua dimensione di lavoro e di produzione.
All’interno di questa struttura binaria si inserisce il concetto di
derivazione Huizinghiano di cerchio magico51 assunto anche questo
come linea di demarcazione tra due piani completamente diversi,
quello del gioco e quello della vita reale, intendendo il gioco come
spazio circoscritto, con regole interne, completamente separato
dalla realtà quotidiana, spesso inteso in senso dispregiativo, come
spazio in cui si evitano le fatiche e le sofferenze della vita
51
Cfr. J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino, 2000.
277
Dall’Utopia all’Eterotopia
quotidiana, una dimensione in cui non è presente il lavoro, elemento
che genera una nuova dicotomia tra gioco e lavoro.
La retorica della frontiera è una delle metafore più utilizzate e più
influenti all’interno dell’intrepretazioni dei mondi virtuali e del
cyberspazio in generale, i primi due studiosi che la utilizzarono
furono sicuramente Barlow e Kapor che in questa maniera
descrivevano Internet:
Over the last 50 years, the people of the developed world have
begun to cross into a landscape unlike any which humanity has
experienced before. It is a region without physical shape or form.
It exists, like a standing wave, in the vast web of our electronic
communication system. It consists of electronic states,
microwaves, magnetic fields, light pulse and thought itself…In its
present condition, Cyberspace is a frontier region, populated by
few hardly technologist who can tolerate the austerity of its
savage computer interface, incompatible communication
protocols, proprietary barricades, cultural and legal ambiguities,
and general lack of useful maps or metaphors. 52
La metafora della frontiera riferendosi al cyberspazio, come
sappiamo, ebbe ed ha ancora un enorme successo, e fu subito
utilizzata e divulgata ampiamente dalla letteratura cyberpunk per
cui il mondo virtuale è quello che si trova superando i confini
rappresentati dallo schermo. L’immagine degli hardly technologist
che si avventurano all’interno di un territorio sconosciuto e
selvaggio è stata l’eredità che ci ha lasciato l’immaginario
cyberpunk, con i suoi Hacker, nuovi cowboy informatici alla
conquista del nuovo spazio informatico. La retorica della frontiera è,
tra l’altro, divenuto un tropo comune nella letteratura di coloro che
descrivevano il mondo delle nuove tecnologie come Rushkoff53,
J.P. Barlow, & M. Kapor, Across the electronic frontier, disponibile on-line all’indirizzo
w2.eff.org/Misc/Pubblications/John_Perry_Barlow/?f=across_the-ef.article.txt
53 D. Rushkoff, Cyberia. La vita tra le pieghe dell'iperspazio, Apogeo, Milano, 1994.
52
278
Dall’Utopia all’Eterotopia
Rheingold54, Mitchell55 e molti altri durante gli anni novanta. Il
parallelo con la frontiera affascinava per la sua spinta colonizzatrice,
una rievocazione straordinaria della conquista del West:
The early days of cyberspace were like those of western frontier.
Parallel, breakneck development of the internet and of consumer
computing devices and software quickly created an astonishing
new condition; a vast. Hitherto-unimagined territory began to
open up for exploration.56
L’esempio comunque più eclatante, meglio strutturato e pertinente
della metafora della frontiera è stato scritto da Jeffrey R. Cooper e
porta il titolo di The Cyberfrontier and America at the turn of the 21st
century: Reopening Frederick Jackson Turner’s Frontier.57 In questo
articolo il concetto di frontiera viene analizzato in rapporto alla
fondamentale opera di Turner The Significance of the Frontier in
American History, e riattualizzato in funzione dell’emergere delle
nuove tecnologie. Per questo testo in realtà non si dovrebbe parlare
di metafora, poiché qui il concetto di frontiera non è utilizzato come
una analogia per interpretare i nuovi fenomeni informatici, manca
di quella dicotomia tra virtuale e reale caratteristica degli esempi
che abbiamo addotto in precedenza, le nuove tecnologie per Cooper
sono del tutto reali e soprattutto hanno conseguenze reali molto
importanti. In primo luogo smentiscono l’affermazione di Turner
per cui la frontiera fosse completamente chiusa, con le conseguenze
simboliche che questo comportava, poiché le tecnologie mediali
erano riuscite a riaprirla, avevano creato un nuovo territorio da
colonizzare e sviluppare:
Cfr H. Rheingold, The Virtual Community: Homesteading on the Electronic Frontier, MIT
Press, 2000, disponibile on-line all’indirizzo http://www.rheingold.com/vc/book/
55 W.J. Mitchell, City of bits: space, place and the infobath, MIT press, Cambridge, 1995.
56 Ivi, p. 109.
57 J.R. Cooper, The Cyberfrontier and America at the turn of the 21st century: Reopening
Frederick Jackson Turner’s Frontier, disponibile on-line
http://firstmonday.org/htbin/cgiwrap/bin/ojs/index.php/fm/article/viewArticle/768
54
279
Dall’Utopia all’Eterotopia
these new information technologies, in giving rise to the explosive
growth of the Internet, opening the cyber domain, and fostering a
worldwide infosphere, have really created a vast new territory. In
doing so, they have reopened "the frontier."58
Cooper analizza poi che conseguenze apporterà questa nuova
apertura della frontiera dal punto di vista politico, sociale,
economico e culturale, in particolar modo analizza quale dovrebbe
essere il ruolo del governo nel gestire questo nuovo territorio e
come questo influenzi la società nel suo complesso.
La sua interpretazione non è per nulla metaforica, Cooper pensa e
attribuisce le medesime caratteristiche del West al cyberspazio, che
l’autore preferisce chiamare cyberfrontier:
Clearly any conceptual relationship between the American West
and the Information Revolution is not based on superficial
similarities of time or technology. The historical appreciation of
the transcontinental expansion in the nineteenth century is not
likely to be a helpful guide with respect to technical details or
specific choices among information technologies. Rather,
relevance flows from the observation that what happens on
frontiers are fundamentally economic and cultural adaptations of
society to the twin pressures of environment and technology. On
the economic level, both frontiers demanded new models both for
allocation of finance capital, including better appreciation of the
value of the vast new resource stocks, and for organizational
arrangements, having overturned established hierarchies . Both
frontiers also generated tremendous spurts of emotion, ethos and
mythos - they sparked enormous outpourings of excitement and
imagination - that amplified and transcended their physical
impacts. The roles that the frontier played in American life, which
58
Ibidem.
280
Dall’Utopia all’Eterotopia
are reflected in many of our cultural icons, had a strongly
emotional (indeed, heroic and romantic) theme and content. 59
Quello che Cooper mette in evidenza è il fatto che l’importanza della
frontiera non è da ricercarsi semplicemente sul piano economico,
ma soprattutto su quello culturale, sul mito che questa riesce a
generare, innescare e interpellare. La capacità che questo mito ha di
infondere nuovamente fiducia nel progresso, nel futuro, nello
sviluppare un nuovo senso di individualismo propositivo, aperto
alle novità, alle possibilità che il nuovo territorio mette a
disposizioni di coloro che hanno il coraggio e l’iniziativa di
sfruttarle, esattamente come era avvenuto per la corsa al west, circa
trecento anni prima. Penso che questo sia l’elemento principale
dell’analisi di Cooper poiché mette in risalto la valenza morale con
cui Cooper riveste il cyberspazio rappresenta, forse, l’elemento
principale della sua analisi, poiché ne esplicita la sua natura utopica,
il sogno di poter migliorare la società nel suo complesso, infatti il
cyberspazio concede nuovamente l’iniziativa alle singolarità che
avendo un nuovo territorio dove esprimersi si liberano dalla morsa
del governo centrale e si riorganizzano creando dei nuovi rapporti
sociali, trasformando in maniera radicale la società. Questo aspetto
è importante poiché sottolinea la forza socio poietica che deriva
dalla colonizzazione della frontiera.
In this sense too, our present situation on the cyberfrontier
resembles that western frontier experience: it is less about
reallocating existing customers and sharing existing markets than
about creating entirely new products, services, and industries and opportunities as well. The "West" was a place to get away
from failure and from too much control, by social conventions or
by government, and it is crucial to recognize the sense of freedom
that the frontier represented, not only to Americans but to those
drawn from afar to settle the America frontier. Great struggles
59
Ibidem.
281
Dall’Utopia all’Eterotopia
would be fought over governments' ability to extend control, in
fact as opposed to in law, and these arguments also mirror many
present-day issues of contention over legal regimes and
regulation of this new space60.
Bisogna altresì notare come comunque nell’analisi del nuovo
mercato in effetti Cooper utilizzi le figure stereotipate del mito della
frontiera come metafora delle nuove figure emergenti all’interno del
nuovo territorio, come quella del cowboy, o del self-made man, per
specificare il compito che spetta a coloro che vogliono
intraprendere l’avventura di colonizzare il nuovo universo
informatico:
the successive waves of new information technology generations
mirror the episodic stages of our earlier westward expansion; the
"high-tech start-ups" that populate each of them represent our
new frontier settlements. "Whatever.com," or any Web address, is
the modern equivalent of the miner's claim or the homesteader's
land patent - a mere $70 to stake out a two-year claim to a name
on which fortune can be founded. After all, how different is the $5
million in first-round venture capital financing for a cyber startup from the silver prospector's grubstake? One perceptive
governor recently commented, "Our goal is to create new
pioneers. The pioneers of the last century followed the railroads.
The new ones follow the Internet”61
Un altro importante elemento da sottolineare in questo passo
consiste nel fatto che la tecnologia lungi da essere interpretata come
vera creatrice di questa nuova frontiera sia in realtà il mezzo per
sfruttarne a pieno le potenzialità. Il mio interesse per questo
articolo ha una duplice motivazione, la prima naturalmente riguarda
l’assenza della dicotomia tra reale e virtuale: la nuova cyberfrontiera
è reale e viene interpretata come tale, lungi da essere un territorio
60
61
Ibidem.
Ibidem.
282
Dall’Utopia all’Eterotopia
completamente diverso e per questo ontologicamente separato e
migliore dalla dalla real life. Approccio, quindi, completamente
diverso dagli studiosi fin qui analizzati, in cui la frontiera era una
metafora senza reali contenuti e per lo più del tutto
sensazionalistici, per Cooper la frontiera non è un altro mondo, ma
un modo per migliorare quello esistente. A questo riguardo però
sorge spontanea in me una riflessione al riguardo del concetto di
frontiera in sé che è comunque completamente utilizzabile anche
per la cyberfrontiera e per i mondi sintetici in generale. La
riflessione nasce dal constatare come la frontiera, soprattutto nella
sua versione informatica, venga interpretata, da Cooper in
particolare, come se possedesse delle capacità taumaturgiche per la
società grazie alla sua capacità di moltiplicare le risorse, le
opportunità e in qualche maniera di aumentare la libertà stessa. La
frontiera, quindi, in quest’ottica, si pone come una soluzione per
l’incapacità delle società umane di costruire delle comunità
realmente paritarie, libere e con una equa distribuzione e
redistribuzione delle risorse; ma questa in realtà sarebbe solo un
surrogato di soluzione, un’illusione, una procrastinazione della reale
risoluzione dei problemi sociali ed economici, l’opposto dell’Utopia,
un tentativo di non mettere realmente all’ordine del giorno una
ridefinizione delle strutture portanti delle società, e un
rinnovamento reale delle relazioni sociali che questa compongono.
Da questo punto di vista i mondi sintetici non sembrerebbero che
un altro tentativo di distrarre, rimandare ulteriormente, i problemi
sociali che dovrebbero essere realmente affrontati, con tutte le
difficoltà socio-economiche e culturali che tali trasformazioni
comporterebbero. I mondi sintetici divengono, dunque, una sorta di
sublimazione, qui si realmente virtuale, delle necessità che la società
non riesce a soddisfare, o perlomeno non riesce a soddisfare
nell’interezza del corpo sociale. Questo spiegherebbe anche il
motivo per il quale i mondi virtuali e le nuove tecnologie nel
complesso non siano riuscite a dar vita a organizzazioni sociali
completamente diverse e migliori o comunque a trasformare nelle
283
Dall’Utopia all’Eterotopia
sue basi strutturali le ingiustizie sociali, nonostante le indiscutibili
trasformazioni sostanziali apportate alla società. In quest’ottica
sarebbe anche facile spiegare perché anche nei mondi sintetici i
desideri e i bisogni che vengono soddisfatti siano la fotocopia di
quelli del mondo reale, appagati nella propria forma sintetica; se
così fosse, e io penso che lo sia, sarebbe più che lecito parlare di
sublimazione o escapismo, ed eleggerli quali termini chiave e
strutturali nell’interpretazione dei mondi sintetici. A conferma di
questo vengono le interviste da me realizzate ad alcuni utenti di
mondi virtuali, che nella quasi totalità dei casi confermano e
sottolineano l’elemento di sublimazione come soluzione delle
proprie frustrazioni quotidiane, soprattutto nell’ambito lavorativo.
Questo discorso sarà ripreso in seguito, ora è il caso di procedere
nell’analisi delle altre metafore interpretative dei mondi sintetici, ci
occuperemo della metafora dei virtual world come cerchio magico,
retorica che mette in campo l’altra dicotomia che abbiamo evocato
cioè quella tra gameness e realtà. Il concetto di cerchio magico è
stato coniato dal sociologo Huizinga nel lontano 1955 nel suo
celebre Homo Ludens62 ed è stato ripreso immediatamente dagli
studiosi dei videogame e dei mondi sintetici63 per definire i confini
spaziali, temporali e psicologici che dividono e circoscrivono lo
spazio del gioco da quello della realtà. Purtroppo questa definizione
e la sua interpretazione si sviluppano a causa di un’estrapolazione
del termine dal suo contesto:
Ogni gioco si muove entro il suo ambito, il quale, sia
materialmente, sia nel pensiero, di proposito o spontaneamente, è
delimitato in anticipo. Come formalmente non vi è distinzione tra
un gioco e un rito, e cioè il rito si compi e con le forme stesse d' un
gioco, così formalmente non si distingue il luogo destina o al rito
da quel lo destinato al gioco. L' arena, il tavolino da gioco, il
J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino, 2002.
Cfr. K. Salen & E. Zimmerman, Rules of play: Game design fundamentals. MIT press,
Cambrige, 2003.
62
63
284
Dall’Utopia all’Eterotopia
cerchio magico, il tempio, la scena, lo schermo cinematografico, il
tribunale, tutti sono per forma e funzione dei luoghi di gioco, cioè
spazio delimitato, luoghi segregati, cinti, consacrati sui quali
valgono proprie e speciali regole. Sono dei mondi provvisori entro
il mondo ordinario, destinati a compiere e un 'azione con chiusa in
sé.64
Come si capisce per Huizinga il cerchio magico non si riferisce solo
al gioco, ma anche ad altri contesti sociali in cui le regole sociali
definiscono e differenziano i diversi spazi sociali uno dall’altro, gli
analisti dei mondi sintetici, invece, estrapolando il concetto dal
contesto, lo utilizzano per sottolineare ed enfatizzare la totale
distinzione del gioco dalla realtà, interpretazione completamente
contraria a quella dello studioso olandese, che considerava il gioco
una componente fondamentale della cultura umana, soprattutto un
elemento cruciale per la sua costituzione. Questo utilizzo fazioso del
concetto di cerchio magico è reso bene da queste parole degli
studiosi Salen e Zimmerman:
Although the magic circle is merely one of the example in
Huizinga’s list of “play grounds”, the terms is used here as shorthand for the idea of a special place in the time and space created
by game. The fact that the magic circle is just that a circle is an
important feature of this concept. As a closed circle, the space it
circumscribes is enclosed and separate from the real
world…within the magic circle, special meaning accrue and
cluster around object and behaviors. In effect, a new reality is
created, defined by rules of the game and inhabited by its
players.65
J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino, 2002, p. 10.
K. Salen & E. Zimmerman, Rules of play: Game design fundamentals. MIT press,
Cambrige, 2003, p. 95-96, cit. in G. Calleja, Digital games and Escapism in Games and
Culture October 2010 vol. 5 no. 4 pp. 335-353.
64
65
285
Dall’Utopia all’Eterotopia
Il concetto di cerchio magico viene utilizzato per definire il campo
da gioco e per separare nettamente questo dalla realtà, ma come
abbiamo visto precedentemente parlando dei frame e della terza
vita, non si possono delimitare i mondi sintetici solo nel virtuale,
poiché le due dimensioni sono comunicanti ed hanno un rapporto
dialettico, si influenzano vicendevolmente e limitare i virtual world
nella dimensione del virtuale significa non comprendere appieno la
natura di questi mondi e le porosità che intercorrono tra le diverse
sfere di realtà che il nostro mondo ci propone. In più limitare i
mondi sintetici nella dimensione del gioco, inteso in senso
dispregiativo, come una dimensione inferiore a quella del lavoro o
della vita reale, limita considerevolmente la loro comprensione
come nuova dimensione delle relazioni sociali, che invece
andrebbero analizzate e interpretate nel contesto più ampio delle
relazione umane.
Utilizzando questo tipo di approccio a doppia struttura binaria
virtuale/reale e gioco/non gioco è facile capire perché un’altra
metafora utilizzata per interpretare i mondi sintetici sia quella della
fuga, dell’escapismo. Attraverso tale approccio i mondo sintetici
vengono intesi come luoghi completamente avulsi dalla società
reale, in cui difendersi dalle difficoltà e dai problemi delle vita reale,
pensando solo a distrarsi tramite il gioco on-line, come queste
parole di due analisti dell’universo dei videogame dimostrano
ampiamente:
Play becomes a method to escape reality by entering a new and
computer generated reality…Games are about immersing the
players with different forms of entertainment that creates escape
from reality.66
M. Dymek & S. Bergvall, Playing with covers in The Pink Machine Papers disponibile online all’indirizzo http://www.pinkmachine.com/PMP/nr19.pdf
66
286
Dall’Utopia all’Eterotopia
Questo interpretazione è molto diffusa tra gli analisti, sopratutto in
quelli dei mondi sintetici, sopratutto per la capacità di questi di
creare un grande coinvolgimento emotivo nell’utente, come
abbiamo visto, la capacità di coinvolgimento è interpretata come
una fonte di escapismo in sé:
Escapism is the primary appeal. Moreover, as the graphics get
better and the game play more sophisticated, playing becomes
even more engrossing. It is easy to understand why anyone would
want to escape our difficult and complicated world and fall into a
vivid, compelling game environment. One can live there with little
or no interaction with the ordinary world. 67
I mondi sintetici e i videogame sono definiti escapisti perché hanno
la capacità intrinseca di ammaliare, affascinare, incantare e
soprattutto rubano tempo al resto, non importa quanto impegno,
quante capacità cognitive e intellettuali una persona impieghi per
svolgere al meglio il compito del gioco o lo sviluppo del proprio
personaggio all’interno di un mondo virtuale, il punto fondamentale
rimane che tutto ciò toglie tempo alle cose serie, in una tipica visione
in cui vi è una netta separazione tra il tempo del lavoro e il tempo
libero o loisir, ma questo non è il gioco, il gioco non viene sussunto
dal tempo libero, come abbiamo visto è molto di più, per Huizinga68
e Piaget rappresenta una parte sostanziale della vita sociale e della
cultura umana tout court. Piaget lo reputava una parte
fondamentale del nostro sviluppo, un momento decisivo per
imparare a capire il mondo e dare forma alla personalità
individuale.69 Per Huizinga, come visto, fa parte imprescindibile
della cultura umana, pur avendo una sfera specifica, è una parte
J. Messerly, How computer games affect us (and other) student’s school performance in
Communications of ACM, 3, 2004, pp. 29-31.
68 Cfr. J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Torino, 2002.
69 Cfr. J. Piaget, La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno,
immagine e rappresentazione, La Nuova Italia, Firenze, 1979.
67
287
Dall’Utopia all’Eterotopia
integrante della vita quotidiana alla pari del rito, richiamando alla
memoria la citazione precedente. Anzi proprio Huizinga temeva il
distaccarsi del gioco dalla vita quotidiana, processo che per lui stava
prendendo piede nella società moderna:
In più si impone la triste conclusione che dal Settecento, in cui
potemmo segnalarlo ancora in pieno vigore, l’elemento ludico
della cultura ha perduto il suo significato in quasi tutti i campi in
cui una volta soleva manifestarsi. La cultura moderna ormai non
viene quasi più “giocata”, e la dove sembra giocare, il gioco è
falso.70
In questo caso bisogna constatare come il problema non sia il gioco
in sé, ma la finzione del gioco, un gioco che viene sradicato dalla
nostra routine quotidiana perde il suo valore, come spiega ancor
meglio Roger Caillois, per il quale le attività come hobby e giochi,
così popolari nel mondo contemporaneo, siano emerse in parte
come distrazione da “un lavoro faticoso, monotono e inviso”.71
La metafora escapista commette l’errore di inglobare il gioco nel
loisir, i mondi virtuali sono lungi dall’essere semplice occupazione
del tempo libero, o nella versione escapista mondi in cui rifugiarsi
dopo aver abbandonato il mondo reale, anzi secondo le interviste
che ho fatto con alcuni giocatori abituali, questi rappresentato un
modo di rispondere agli eccessivi stimoli del mondo stesso, come se
a questi si rispondesse espandendo lo scontro su un ulteriore livello,
quello virtuale.72 Di certo non si può negare che da un certo punto di
vista il rischio di escapismo e di un certo tipo di alienazione sia
possibile, non è una coincidenza se i casi di dipendenza dai
videogame siano in crescita, quello che non si deve accettare è una
J. Huizinga, Op. cit., p. 243.
R. Callois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 2000, p.
171.
72 L’elemento da sottolineare in questo caso è che le risposte di questo tipo sono arrivate
da lavoratori nel campo dell’informatica.
70
71
288
Dall’Utopia all’Eterotopia
versione dell’escapismo negativa tout court, poiché come evidenzia
Gordon Calleja la capacità e la volontà di fuggire o di allontanarsi
momentaneamente dalla realtà, attraverso anche la semplice
immaginazione, è un elemento basilare della cultura umana, anzi la
cultura umana si basa su questo e i mondi sintetici non fanno altro
che riprodurre tutto ciò in una nuova dimensione:
If the relative nature of this conception of escapism seems overly
broad, it is exactly because escapism is an important and
unavoidable aspect of our culture. Escapism is the homeostatic
force that defines our culture and being, and if digital game
enable such process, it is because they are able to simulate
experience beyond the ludic and agonistic.73
L’ultima metafora per interpretare questi mondi naturalmente è
quella del sottoscritto, cioè quella di eterotopia, in effetti questi
mondi sono degli spazi specifici all’interno della nostra società, non
perché siano virtuali o sintetici, ma poiché spesso sono organizzati
in maniera differente, manca come spesso sottolineato all’interno di
questo capitolo però quell’immaginario utopico che alimenta la
volontà di costruire realmente uno spazio alternativo alla realtà
dominante, come la realtà avesse invaso anche questi spazi che
erano nati con un immaginario completamente diverso, sovversivo,
alternativo, mentre ora sembrano riprodurre soltanto gli schemi
della società dominante, sarà veramente questa la fine dell’utopia?
Non so comunque le mie ipotesi di risposta a questa domanda la
troverete nelle conclusioni.
G. Calleja, Digital games and Escapism in Games and Culture October 2010 vol. 5 no. 4 pp.
335-353.
73
289
Dall’Utopia all’Eterotopia
4.7 Avatar e Identità nei mondi sintetici
Attraverso il nostro viaggio all’interno dei mondi sintetici siamo
finalmente giunti all’analisi di quello che ne rappresenta il vero
protagonista, cioè l’avatar. Di per sé l’avatar non è altro che la
rappresentazione grafica dell’utente all’interno del mondo virtuale,
ma proprio per questa connessione biunivoca con l’utente, lo studio
di questa interfaccia si è rivelata essere fonte inesauribile di studi,
per i suoi collegamenti con il concetto di individualità personale, per
l’importanza data agli avatar dai propri proprietari, studi
sull’economia e sul mercato che riguarda gli accessori e le
caratteristiche degli avatar stessi. L’avatar è stato il campo di
indagine di numerosi settori di ricerca, dalla sociologia, alla
psicologia, dai videogames studies all’economia, un’infinità di saggi è
stata scritta e in questo paragrafo tenteremo di delineare al meglio
quale siano le caratteristiche fondamentali dell’avatar e quali le
interpretazioni più importanti, soprattutto le indagini che
riguardano i collegamenti tra avatar e identità.
Per iniziare possiamo dire che il termine avatar deriva dal sanscrito
avatāra, che nell’induismo e nel brahmanesimo indica ciascuna
delle dieci reincarnazioni del dio Visnu: l’avatar è associato a
termini
quali
reincarnazione,
ritorno,
trasformazione.
Nell’informatica, come detto è il rappresentante grafico dell’utente.
Ma questa definizione è già troppo parziale, in quanto in realtà
l’avatar è molto di più, non solo è l’incarnazione virtuale dell’utente,
ma ne rappresenta l’indole, le caratteristiche, riproduce l’essenza o
parte di essa dell’utente, questo perché come scrive Edward
Castronova nel suo Theory of the avatar74 “il mondo virtuale e così la
realtà virtuale danno la possibilità, a chi partecipa, di potersi trovare
in un nuovo corpo, diverso da quello che si ha sulla terra…non sono
giocatori, ma cittadini di un nuovo mondo.”75 Detto questo, l’utente si
74
75
E.Castronova, Theory of avatar, 2003 disponibile on-line ssrn.com/abstract=385103
Ivi, p.2.
290
Dall’Utopia all’Eterotopia
trova alle prese con un mondo virtuale, si trova in un nuovo essere
che fa le sue veci in un nuovo mondo, dove tutto deve essere
scoperto. L’avatar sembrerebbe allora semplicemente essere un
personaggio di finzione, su cui avviene un processo di
identificazione e proiezione da parte del giocatore. Nel momento in
cui si decide di dar vita ad un nuovo sé l’utente/giocatore ha la
possibilità di scegliere come essere, cioè può decidere le proprie
caratteristiche fisiche, le quali andranno a delineare l’avatar. Detto
questo, poiché il termine avatar mette di fronte ad alcune
discussioni e problemi di identificazione, quali ad esempio la
differenza tra agent e avatar; per fare un esempio la navicella di un
videogioco è sì una rappresentazione grafica dell’utente, ma non è
un avatar poiché questo deve rappresentare l’essenza dell’utente,
deve essere il suo doppio virtuale:
An avatar is a virtual, surrogate self that acts as a stand in for our
real-space selves, that rappresents the user. The cyberspace
avatar functions as a locus that is multifarious, displaced from the
facticity of our real-space selves…Avatar space indisputably
involve choice in the creation of one’s avatar; there is substantial
scope in which to execise choice and create meaning within the
videogame.76
Il concetto di avatar come si nota è qui più complesso, attraverso la
nozione di creative choice non solo si delineano le caratteristiche
peculiari dell’avatar all’interno dell’universo sintetico, ma si
specifica anche la relazione tra l’avatar e il proprio utente e tra
questo e il mondo sintetico. Usando il concetto di creative choice è
semplice distinguere tra un agent e un avatar, ad esempio Pac-man
è un agent poiché non può essere modificato o alterato nelle sue
L. Wilson, Interactivity or Interpassivity: A questiono of agency in Digital Play in Fine art
forum, 17.3, 2003 on-line www.fineartforum.org/backissue/vol_17/index.html
76
291
Dall’Utopia all’Eterotopia
qualità fisiche o nella propria apparenza dall’utente, così come Lara
Croft o SuperMario.
Quello che viene anche messo in campo è lo strano rapporto che
intercorre tra l’avatar e il suo utente, un rapporto che è stato
studiato da molti ricercatori, ma ancora oggi non ha portato a delle
conclusioni che non siano controverse e non definitive, in fondo
come scrive Katherine Hayles: “The avatar both is and is not present,
just as the user both is and is not inside the screen”.77 Allo stesso
modo la pensa Rehak:
The avatar’s behavior is tied to the player’s through an interface:
its literal motion, as well as its figurative triumphs and defeats,
result from the player’s actions. At the same time, avatars are
unequivocally other. Both limited free by difference from the
player, they can accomplish more than the player alone; they are
supernatural ambassadors of agency.78
Come si nota entrambi gli autori suggeriscono che la relazione tra
gli utenti e i propri avatar sia una relazione che si sviluppa
attraverso una determinante tensione: da una parte l’avatar è parte
dell’utente, ma allo stesso tempo rimane separato da lui, e
nonostante sia l’utente a creare e a determinare la natura e le azioni
dell’avatar anche questo esiste indipendentemente dall’utente.
Anche Marie Ryan riconosce questa tensione, ma sostiene che sia
l’utente ad avere il controllo assoluto sul suo avatar e soprattutto
sulla relazione che instaura con esso:
will she be like an actor playing role, innerly distanced from her
character and simulating emotions she does not really have, or
will she experience her character in first-person mode, actually
K. Hayles, How became Posthuman: virtual bodies in cybernetics, literature, and
informatics. University of Chicago Press, Chicago, 1999, p. 38.
78 B. Rehak, Playing at Being: Psychoanalisys and the Avatar, disponibile on-line
all’indirizzo http://gscfall09.pbworks.com/f/Playing_at_Being.pdf
77
292
Dall’Utopia all’Eterotopia
feeling the emotions that motivate the character’s behavior or
that may result from her action? 79
La definizione di avatar di Wilson (creative choice ) privilegia la
scelta dell’utente, la Ryan descrive come sia l’utente ad avere il
completo controllo dell’avatar e sulla relazione che intercorre con
esso, ma la realtà sembra abbastanza diversa, spesso gli utenti
appaiono così legati ai propri avatar che il rapporto ha portate che
travalicano i limiti dei mondi sintetici. Questo per due motivi
fondamentali, il primo ci è suggerito da un vecchio game designer
della Lucas Arts, Tim Schafer, in un’intervista concessa a Celia
Pearce, in cui sostiene che nonostante l’utente abbia il completo
controllo sul proprio avatar all’inizio del gioco la loro relazione ha la
tendenza a modificarsi con l’evolversi dello stesso, all’inizio,
afferma, i giochi have to provide the character with motivation and
you have to provide the player with motivation. Because the character
will care about things that the player will not necessarily care about.
Inseguito, con il progresso del gioco Schafer ipotizza che l’utente
inizi a ego-invest, they share the motivations of the character.80
La nozione di ego-investing è complessa e complica notevolmente il
rapporto tra utente ed avatar, rendendolo reciproco, introducendo
un coinvolgimento, che rappresenta la seconda spiegazione a cui
facevamo riferimento in precedenza, derivante dal fatto che
psicologicamente l’utente è l’avatar. Questo punto controverso
viene esplicitato da Byron Reeves e Clifford Nass, due professori
della Stanford università, nel loro libro The media Equation,
equazione che esprime la asimmetricità tra le esperienze mediali
con quelle della vita reale; dal loro punto di vista noi comprendiamo
i media come la realtà, quindi interagiamo, dal punto di vista
M. Ryan, Beyond Myth and Metaphore: the case of narrative in digital media in Game
studies 1.1, disponibile on-line all’indirizzo www.gamestudies.org
80 C. Pearce, Game noir: A conversation with Tim Shafer, in Game studies 3.3, disponibile
on-line all’indirizzo www.gamestudies.org
79
293
Dall’Utopia all’Eterotopia
emotivo, con gli altri avatar come faremmo con le persone reali.
Hanno notato come nei mondi sintetici le persone durante le
conversazioni siano più o meno alla stessa distanza che avrebbero
nella vita quotidiana in più: “People respond to interactive
technology on social and emozional levels much more than we ever
thought…people fell bad when something bad happens to their avatar,
and they fell quite good happens.”81
Per dare un esempio di questo profonda relazione tra l’avatar e il
proprio utente possiamo raccontare un episodio veramente al
limite, la vicenda risale all’ ottobre 2008 quando due giapponesi, un
ragazzo e una ragazza, si conoscono e si frequentano all’interno di
Maplestory, mondo online sviluppato dalla Wizet (ROK), Lei (43)
pur abitando a Sapporo, aveva avuto una relazione con Lui (33) di
Tokio, con tanto di incontri amorosi e matrimonio virtuale, lui, però,
ad un certo punto decide improvvisamente di divorziare, un’opzione
prevista dal gioco, e lei sconvolta dalla decisione, si impadronisce
della password del personaggio di lui e lo cancella definitivamente.
Lui reagisce accusando l’ex amante e moglie virtuale prima agli
amministratori del gioco e poi alla polizia. La polizia rubrica la
vicenda alla stregua di un attacco hacker e la arresta. La donna viene
condannata a cinque anni di carcere, con una multa di 4.000 euro.
Questo pur essendo un caso limite mostra quale sia il grado di
coinvolgimento dell’utente nella vita del suo avatar, tale
coinvolgimento nasce innanzitutto per la condivisione sociale che
avviene all’interno di questi mondi sintetici, come abbiamo descritto
in precedenza la realtà di questi mondi è una realtà generata dal
fatto che tutti i partecipanti considerano il mondo in sé reale, ancor
più importante sono le relazioni sociali che si sviluppano all’interno
dei mondi sintetici, poiché queste sono del tutto reali, sono relazioni
tra persone comuni mediate dal mondo virtuale. La migliore
spiegazione ce la fornisce però la neurobiologia con la scoperta dei
B. Reeves e C. Nass, The media Equation, cit. in M.S. Meadows, I, Avatar. The culture and
consequences of having a Second life, New Raiders, Berkley, 2008, p.50.
81
294
Dall’Utopia all’Eterotopia
neuroni specchio, chiarimento che mette in campo una connessione
non solo psicologica, ma fondamentalmente fisica. I neuroni specchio
sono un piccolo gruppo di cellule nervose posizionate nella zona
inferiore della corteccia parietale, queste hanno delle funzioni
veramente importanti permettono l’identificazione con le azioni
degli altri, specialmente se sono azioni orientate ad uno scopo. Per
farla breve, quando guardiamo qualcuno che compie un’azione si
attivano, attraverso i neuroni specchio, le stesse zone celebrali che
si attiverebbero se quella azione la stessimo compiendo.
Tecnicamente i neuroni specchio sono neuroni che si attivano sia
quando compiamo un’azione sia quando guardiamo qualcun altro
compierla:
La principale caratteristica funzionale dei neuroni specchio
consiste nel fatto che questi si attivano sia quando la scimmia
compie una particolare azione (per esempio quando lancia un
oggetto o lo raccoglie) sia quando osserva un altro soggetto
compiere un’azione simile. 82
Quindi sono i neuroni specchio a consentirci l’immedesimazione con
il nostro avatar. Questo punto risulta però essere controverso,
poiché alcuni studiosi ritengono che si raggiunga un’identificazione
maggiore con il proprio avatar attraverso la visuale in prima
visione. Infatti quasi tutti i mondi sintetici permettono di scegliere la
visuale con cui si preferisce giocare: in prima persona si vede il
mondo come se fossimo all’interno della testa del nostro avatar,
come se guardassimo dai suoi occhi, o la visione in terza persona, in
cui abbiamo una visione posizionata dietro le spalle del nostro
avatar, e lo vediamo quasi nella sua interezza. Quale sia la
prospettiva che favorisca l’identificazione maggiore e quindi
l’immersione maggiore nel mondo sintetico è ancora dibattuta,
82
L. Craighero, I neuroni specchio, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 34.
295
Dall’Utopia all’Eterotopia
alcuni come Taylor propendono per la prospettiva in prima persona,
nonostante neanche lui sembri troppo convinto:
Players have more direct agency in first-person shooters, due in
large part because FPS games are identified by their predication
on action and control, and that this sense of agency creates a
sense of primary identification with the player as being within the
game. Yet, FPS games also disrupt the gaze by removing the
player from the field of the gaze… Playing first-person I play as me
so I never pass through the medium of screen; acting on the screen
rather than within the screen because I have identified with and
taken in only my own actions instead of a character’s. Essentially,
from a position alone the player cannot enter into the game space
as part of that game space because of the lack of context which
embodiment, in third-person point of view games, provides. 83
Taylor come detto protende per ritenere che il massimo grado di
identificazione risieda nella prospettiva in prima persona, ma non
tutti sono convinti, poiché molti utenti con tale visione non riescono
ad orientarsi, si sentono frastornati, questo risulta anche dalle mie
interviste, in particolar modo nei MMORPG, in cui si è verificata una
spaccatura esattamente a metà tra coloro che preferiscono il gioco
in prima persona, ritenedolo più immersivo, mentre altri vedono
esattamente in questa visuale un limite all’immersione nel mondo,
anzi si sentono frastornati e non riescono a orientarsi nel campo di
gioco. Una mia semplice osservazione a questo riguardo,
osservazione che non ha pretese di prova visto il piccolo campione a
mia disposizione, consiste nel fatto che la maggior parte di coloro
che affermavano di preferire la visuale in prima persona sono
giocatori di lunghissimo corso, più che quindicennale, mentre coloro
che preferiscono quella in terza persona, erano si giocatori abituali,
ma non di così ampia esperienza, quindi si potrebbe concludere che
L. Taylor, When Seams fall apart: videogame space and player in Game studies 3.2,
disponibile on-line all’indirizzo www.gamestudies.org
83
296
Dall’Utopia all’Eterotopia
coloro che hanno maggior esperienza ed hanno in qualche modo
interiorizzato l’orientamento necessario all’interno dei mondi
sintetici preferiscono la visuale in prima persona perché non hanno
bisogno di orientarsi, lo fanno in maniera naturale, e qualsiasi
elemento che si frapponga tra loro e lo spazio sintetico risulta una
limitazione alla propria identificazione con l’avatar, mentre coloro
che non hanno una capacità di orientamento così naturale hanno
bisogno di una visuale che li ancori allo spazio del gioco, altrimenti
si sentono spaesati. Sempre su questo argomento, facendo un
parallelo con un altro medium, nello specifico il cinema, un film
annunciato come del tutto innovativo poiché girato completamente
nella soggettiva del protagonista, La donna del lago, risultò un
completo fiasco, proprio perché, secondo la spiegazione e
l’interpretazione di Andrea Minuz,84 il pubblico non riuscì ad
immedesimarsi nel protagonista, anzi anche in quel caso si sentì
disorientato esattamente come i giocatori meno esperti di MMORPG.
All’interno della relazione tra avatar e utente il concetto che più
affascina i ricercatori è sicuramente quello di identità.
Naturalmente questo è un tema di analisi che da sempre interessa
vari campi di studi, in particolare la sociologia e la psicologia, ma
che trova nei mondi sintetici una nuova dimensione di analisi che
allarga lo spettro delle speculazioni e moltiplica le teorie
sull’identità stessa, sulla sua dimensione, sulle dinamiche della sua
formazione, e soprattutto sull’influenza che hanno i mondi sintetici
e in particolar modo gli avatar su questa. In primo luogo dobbiamo
affermare che l’utente nel momento in cui entra a far parte di un
mondo sintetico si trova in una posizione identitaria abbastanza
stravagante in quanto multipla, infatti come fanno notare Mario
Gerosa e Aurelien Pfeffer l’utente si troverà diviso in almeno tre
identità diverse, ma convergenti e sovrapposte, da un lato avrà
“un’identità sociale”, cioè l’individuo con le sue proprie
84
Cfr. A. Minuz, Dell’incantamento, Ipermediumlibri, Napoli, 2009, p. 41.
297
Dall’Utopia all’Eterotopia
caratteristiche socioculturali e psicologiche, un’identità di giocatore,
poiché in quel momento ha le conoscenze tecnico cognitive per
intraprendere il gioco, poi all’interno del mondo sintetico avrà
l’identità specifica del suo avatar, il ruolo che questo riveste
all’interno del mondo sintetico, attraverso il quale l’utente si
immedesimerà nel suo avatar o doppio virtuale.85
Questo dimostra chiaramente quale intreccio complicato si venga a
creare tra l’avatar e l’identità dell’utente. Prima di spingersi
nell’analisi delle teorie che studiano tale complesso legame forse è il
caso di procedere con una certa cautela prendendo in esame quelle
che sembrano le poche e uniche certezze in questo campo di analisi.
Ciò che sembra rientrare nell’ambito delle certezze o comunque ciò
che sembra essere accolto con favore dalla maggior parte degli
studiosi è una classificazione che Richard A. Bartle, coautore del
primo mondo testuale nel 1979, il Mud1, ha stilato per descrivere le
classi di utenti, divise in base alle motivazioni e ai loro ruoli
all’interno dei mondi sintetici. Bartle ne individua quattro:


85
Gli Esploratori: individui che visitano i mondi virtuali per
scoprire cosa riservano e per mapparli. Apprezzano in
particolare le sfide che implichino il progressivo
disvelamento del mondo. Vogliono che il mondo sia molto
vasto e contenga meraviglie nascoste a cui sia possibile
accedere soltanto grazie alla tenacia e alla creatività.
I Socializzatori: individui che visitano i mondi virtuali per
stare insieme ad altre persone. Apprezzano in particolare le
sfide che implichino la creazione di gruppi con altri
giocatori al fine di portare a termine obiettivi condivisi.
Vogliono che il mondo offra estese infrastrutture sociali e
attività condivise: città, associazioni, arene, matrimoni,
gruppi di caccia.
Cfr. Cfr. M. Gerosa & H. Pfeffer, Mondi Virtuali, Castelvecchi, Roma, 2006, p.101.
298
Dall’Utopia all’Eterotopia


Gli Achiver: individui che visitano i mondi virtuali per
raggiungere obiettivi. Apprezzano in particolare le sfide che
implichino il progressivo accumulo dei beni che
promuovono il rispetto sociale. Vogliono che il mondo
permetta l’accumulo di capitale e la creazione di una
reputazione. Vogliono la possibilità di incrementare il
potere del proprio avatar, di costruire nuove strutture, di
accumulare ricchezze e di modificare il mondo stesso.
I Dominatori: individui che visitano i mondi virtuali per
imporsi su altre persone. Apprezzano in particolar modo le
sfide che implichino la competizione e la possibilità di
sconfiggere altri giocatori. Definiti anche Griefer, vogliono
che il mondo permetta agli utenti di intervenire nelle
attività degli altri, così che sia possibile stabilire una
situazione di controllo e di dominio. Dal loro punto di vista,
tutto può essere ricondotto ad un’attività agonistica.86
Come si nota la classificazione è qui fatta in maniera semplicistica,
comunque trova un riscontro nella realtà oggettiva. Ora però è
giunto il momento di affrontare quella che sembra essere la
relazione tra l’avatar, l’utente e l’identità: sembra che gli avatar
siano riusciti a concludere quel processo di frammentazione
identitaria che aveva messo in crisi la concezione unitaria del sé.
Infatti mentre una concettualizzazione che potremmo definire
moderna dell’identità prevedeva un’identità singola solida non
contraddittoria, quella che la seguì, che potremmo definire
postmoderna concepiva l’identità come un’entità non univoca,
molteplice, plurale, superficiale, in cui non era possibile definire un
centro e un cuore ben preciso. Non è un caso che per descrivere
questo fenomeno viene normalmente utilizzata una metafora un po’
buffa che assimila l’uomo ad una cipolla, con una moltitudine di
strati che non rappresenterebbero altro che la molteplicità delle
Cfr. R. Bartle, HEARTS, CLUBS, DIAMONDS, SPADES: PLAYERS WHO SUIT MUDS,
disponibile on-line all’indirizzo http://www.mud.co.uk/richard/hcds.htm
86
299
Dall’Utopia all’Eterotopia
identità contemporanee, senza un nucleo solido al proprio interno.
In fondo come afferma Jameson il postmoderno è l’età del
superficiale87, non della profondità, e l’avatar in quest’ottica non
farebbe che rappresentare semplicemente una nuova superficie,
questa volta sintetica, che si va semplicemente ad aggiungere alle
altre, anzi forse per la propria natura, disvela agli altri piani
identitari la loro intrinseca superficialità e intercambiabilità.88
Quella che potremmo definire la profetessa di questa visione
dell’identità è sicuramente Sherry Turkle, con il suo lavoro, ormai
diventato un classico, La vita sullo schermo. Per questa assertrice
della visione postmoderna la frammentazione identitaria viene resa
con una metafora tecnologica:
le finestre [del computer] sono diventate potenti metafore per
pensare il proprio sé come un sistema multiplo distribuito[…] La
pratica di vita delle finestre è quella di un sé decentrato che esiste
in molti mondi e impersona ruoli diversi nello stesso istante […]I
MUD… offrono la possibilità di assumere identità e vite parallele.
L’esperire tale parallelismo fa in modo che sia la vita sullo
schermo sia quella fuori vengano considerate con un
sorprendente livello di uguaglianza…sono clamorosi esempi di
come la comunicazione mediata dal computer possa servire come
luogo per la costruzione e la ricostruzione dell’identità. 89
Questo passo enuncia le basi concettuali sulla visione dell’identità
di Sherry Turkle, riprese più o meno da tutti sono diventate le basi
teoriche per l’analisi dei rapporti tra l’identità e i mondi sintetici;
questi infatti non sono diventati delle semplici finestre, la Turkle si
Cfr. F. Jameson, Il postmodermo ovvero la logica del tardo capitalismo. Fazi, Roma, 2007.
Per approfondimento sull’identità cfr. A. Cavicchia Scalamonti, La morte. Quattro
variazioni sul tema, Ipermedium libri, Napoli, 2008 e G. Pecchinenda, Dell’identità,
Ipermedium libri, Napoli, 1999 , Videogiochi e cultura della simulazione. La nascita dell’
‘homo game’, Laterza, Roma-Bari, 2003 e Homunculus. Sociologia dell’identità e
autonarrazione, Liguori Editore, Napoli, 2008.
89 S. Turkle, La vita sullo schermo, Apogeo, Milano, 2005, p. 7.
87
88
300
Dall’Utopia all’Eterotopia
riferisce alle finestre di windows, non alternative, ma
contemporanea alla vita quotidiana, fenomeno che moltiplica
semplicemente i piani di esistenza e le sfere di realtà, tutte di pari
grado di significazione. Questo non può che moltiplicare e
frammentare ancor di più la dimensione identitaria degli individui.
Un altro aspetto fondamentale da sottolineare nel nuovo rapporto
tra identità e mondi sintetici é la dimensione performativa
dell’identità stessa, l’identità virtuale del nostro avatar, quindi la
nostra identità virtuale può essere una dimensione dove mettere
alla prova diversi aspetti del nostro sé, o provando a performare le
nostre innumerevoli personae, che in latino appunto significava
maschere. I mondi sintetici ci permettono di costruire e ricostruire
le nostre identità provandone sempre di nuove, come se
interpretassimo dei personaggi in un film o a teatro, ci permette di
creare personas, simili a noi, ma anche completamente diverse,
casomai cambiando sesso, elemento molto frequente nei mondo
virtuali, questo è possibili perché come nella vita reale quello che va
in scena nei mondi sintetici sono dei rituali in cui ogni utente mette
in scena il suo doppio virtuale. Esattamente come descrive
Goffman90, nella vita quotidiano per quanto riguarda scena e
retroscena, cosi accade all’interno dei mondi sintetici, in cui è
sempre in atto una rappresentazione, una messa in scena delle
identità virtuali. E come nella vita reale anche nei mondi sintetici
sono molti i rituali dell’interazione91 che non hannoaltro scopo che
quello di confermare le regole della vita quotidiana sintetica,
dandole così una solidità ulteriore, e di rafforzare le narrazioni
identitarie dei nostri doppi virtuali. Non è un caso che in questi
mondi siano ben presenti gruppi comunitari con definizioni e
caratteristiche ben stabilite, gruppi come i Gor e i Furry di cui
abbiamo parlato in precedenza, gruppi, gli appena citati, spesso in
contrasto tra di loro, nel più classico conflitto di demarcazione
90
91
Cfr. E. Goffman, La vita come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 2001.
Cfr. R. Collins, Teorie sociologiche, Il Mulino, Bologna, 2007.
301
Dall’Utopia all’Eterotopia
identitaria, quello tra outgroup e ingroup92, che ha il compito di
confermare ulteriormente le due identità di gruppo. Tornando
all’argomento che stavamo trattando un’altra autrice che abbraccia
la visione della Turkle e quindi una visione di frammentazione del
sé evidenziata dalla relazione con le tecnologie informatiche è
sicuramente Allucquere Roseanne Stonne per cui:
Le
identità
che
emergono
da
queste
interazioni
[macchine/uomo], identità frammentate, complesse, diffratte
dalle lenti della tecnologia… Riesco a vedere la lotta sopraumana
di queste identità con l’alta tecnologia impegnate in una lotta
meravigliosa e terribile, sforzarsi di dare un senso e un significato
alla loro stessa idea di cultura.93
La relazione con le tecnologie informatiche sembrano esaltare il
carattere di frammentazione dell’identità postmoderna, di cui è
possibile aver addirittura una rappresentazione grafica attraverso
gli avatar e i mondi virtuali, una relazione che sembra farsi sempre
più stretta e per questo motivo sempre più studiata. In questo
campo di ricerca una delle concettualizzazioni più interessanti e
seguite, soprattutto nel filone americano dei videogame studies, è
sicuramente l’approccio di James Paul Gee, che nel suo testo What
Video Games Have to Teach Us About Learning and Literacy, delinea
un approccio tripartito dell’identità nei rapporti tra l’utente e il suo
avatar.94
Gee descrive la relazione tra l’identità e i mondi sintetici prendendo
ad esempio un MMORPG, Arcanum, in cui il suo avatar è un mezzo
elfo, chiamato “Bead Bead”, ebbene secondo il suo punto di vista la
prima forma di identità sarà sicuramente la real-world identity, che
Cfr. Z. Bauman, T. May, Pensare sociologicamente, Ipermedium Libri, Napoli, 2000.
Stone Allucquère Rosanne, Desiderio e tecnologia. Il problema dell'identità nell'era di
Internet, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 50.
94 J.P. Gee, What Video Games Have to Teach Us About Learning and Literacy, Palgrave
MacMillan, New York, 2004.
92
93
302
Dall’Utopia all’Eterotopia
anche lui comunque interpreta in maniera plurale e molteplice, nel
solco della tradizione postmoderna: “Of course, in the real world I
have a good many different non-virtual identities. I am a professor, a
linguist, an Anglo American, a middle-age male, baby boomer, a
parent, an avid reader, a middle-class person initially raised outside
the middle class, a former devout Catholic, a lover of movies, and so
on.”95 Aspetti della sua identità che vengono attivati, nel suo
ragionamento dagli stimoli esterni. La sua seconda identità è la
virtual identity, cioè l’avatar che lo rappresenta nel mondo virtuale,
in questo caso un mezzo elfo nella terra di Arcanum. Quali sono i
rapporti tra questi due tipi di identità? Gee li descrive come a
delicious blend of my doing and not my doing96 che introduce al terzo
distinto elemento identitario, cioè la projective identity:
A third identity that is at stake in playing a game like Arcanum is
what I will call a projective identity, playing on two senses of the
word “project,” meaning both “to project one’s values and desires
onto the virtual character” (Bead Bead, in this case) and “seeing
the virtual character as one’s own project in the making, a
creature whom I imbue with a certain trajectory through time
defined by my aspirations for what I want that character to be
and become (within the limitations of her capacities, of course)…
In this Identity the stress is on the interface between—the
interactions between—the real-world person and the virtual
character… The kind of person I want Bead Bead to be, the kind of
history I want her to have, the kind of person and history I am
trying to build in and through her is what I mean by a projective
identity. Since these aspirations are my desires for Bead Bead, the
projective identity is both mine and hers, and it is a space in which
I can transcend both her limitations and my own. 97
Ivi, p. 55.
Ibidem.
97 Ivi, p. 56.
95
96
303
Dall’Utopia all’Eterotopia
Come si può notare la projective identity di Gee è uno stato
intermedio tra l’identità del mondo reale, sempre e comunque
molteplice e frammentata, e quella virtuale dell’avatar. Anche se Gee
non la spiega mai in questi termini la projective identity rappresenta
una sorta di spazio liminare, uno spazio che si trova tra il mondo
reale e quello virtuale. Il Limine, nello studio antropologico dei riti
di passaggio, così come viene descritto da Van Gennep ripreso poi
da Victor Turner98, è lo stadio di mezzo di un rito di passaggio, in cui
contemporaneamente si appartiene e non si appartiene alla fase
precedente e a quella successiva, cioè rispettivamente, la
separazione e la re-incorporazione. Inteso in questo senso forse è
più chiaro perché la descrizione del rapporto tra utente e avatar sia
così difficoltosa. L’idea di questa relazione tra projective identity e il
limen, mi è venuta in mente leggendo l’articolo, già citato in
precedenza di Bob Rehak, Playing at Being: Psychoanalisys and the
Avatar99 in cui così espone il rapporto tra l’avatar e la liminalità:
Movement back and forth across the border separating self from
other might therefore be considered a kind of liminal play: an
attempt to isolate and capture (fleetingly) the oscillatory motion
of consciousness by which we are sutured into this reality… We
create avatars to leave our bodies behind, yet take the body with
us in the form of codes and assumptions about what does and does
not constitute a legitimate interface with reality-virtual or
otherwise… The worlds we create-and the avatarial bodies
through which we experience them- seem destined to mirror not
only our wholeness, but our lack of it.100
Come possiamo notare Rehak non solo parla di liminalità, ma anche
di come gli avatar in realtà siano la rappresentazione più evidente
Cfr. A. Van Gennep, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 1981 e V. Turner, Dal
rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986.
99 B. Rehak, Playing at Being: Psychoanalisys and the Avatar, disponibile on-line
all’indirizzo http://gscfall09.pbworks.com/f/Playing_at_Being.pdf
100 Ivi.
98
304
Dall’Utopia all’Eterotopia
della frantumazione identitaria. In alcuni passi molto interessanti lo
studioso paragona i mondi sintetici e i videogame in generale al
famoso e studiatissimo gioco del fort/da 101 analizzato da Freud, i
videogame sarebbero così un modo per ricostituire o rimodellare
una realtà caotica e poco comprensibile:
As argued above, video games seem to enact the fort/ da game. If
our unity is itself a misrecognition, then the video game, for all its
chaotic cartoonishness, may constitute a small square of
contemplative space: a laboratory, quiet and orderly by
comparison with the complexity of the real world, in which we toy
with subjectivity, play with being. As small-scale implementations
of VR and other interactive technologies of the imaginary, video
games seem to offer the potential for profound redefinitions of
body, mind, and spirit. 102
I mondi sintetici divengono allora dei laboratori identitari dove
poter esplorare le proprie identità e dove giocare ad essere, poiché
spesso la complessità della realtà non ci permette una reale
esplorazione e sperimentazione di noi stessi. Il collegamento con il
fort/da, quindi con la ripetitività e la comprensione del reale, la
sperimentazione identitaria all’interno dei videogame è dimostrata
da un semplice fatto, gli avatar o i personaggi non possono morire,
c’è qualcosa di simile, si perdono i punti forza o cose del genere, ma
la morte non è contemplata, anzi, quella che può essere definita una
morte temporanea non è altro che il meccanismo attraverso il quale
viene reintrodotta la ciclicità, quindi un’ulteriore possibilità di fare
sperimentazioni. Come abbiamo visto quasi tutti gli studiosi
concordano sulla stretta e importante relazione che intercorre tra il
proprio avatar e l’identità dell’utente che lo ha generato, ma è
realmente così?
Cfr. A. Cavicchia Scalamonti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium libri,
Napoli, 2008, p. 128-130.
102 B. Rehak, Op. cit.
101
305
Dall’Utopia all’Eterotopia
Possibile che una visualizzazione grafica possa determinare o
almeno in parte influenzare un processo così importante come
quello della costruzione della propria identità?
Ebbene un tentativo di risposta ce lo fornisce Zach Waggoner, nel
suo My Avatar, My Self103 , in cui analizzando da vicino alcuni
giocatori di MMORPG, tenta di delineare il vero rapporto che
intercorre tra l’avatar e l’identità del proprio creatore. La ricerca si
basa su delle interviste in profondità con due hard-player e due non
giocatori, che vengono invitati a partecipare alla ricerca e quindi per
la prima volta approcciano il mondo dei mondi sintetici. Ebbene
secondo questa ricerca tutte le ipotesi che avevamo fatto fin ora
sembrano trovare conferma.
In primo luogo tutti i partecipanti sembrano essere molto coinvolti
a livello emotivo alle vicende del proprio avatar, i due hard-gamer
naturalmente in misura maggiore, ma anche più consapevole,
mentre i novellini che all’apparenza sembrano avere un maggior
distacco nei confronti del proprio avatar in realtà hanno
comportamenti che negano di fatto tali asserzioni, tra le più evidenti
utilizzano sia la prima persona singolare o la prima persona plurale
per riferirsi al proprio avatar.
Un altro dato importante che Waggoner sottolinea risiede nel fatto
che gli utenti, anche in questo caso in maniera più chiara quelli
abituali, riconoscono che il proprio avatar ha degli aspetti in
comune con le loro personalità, in maniera velata o anche esplicita.
Un altro elemento che lo studioso americano mette in luce consiste
nell’influenza della’avatar sulla personalità e sull’identità del
proprio utente, ebbene anche questa sembra accertata secondo la
ricerca svolta, infatti alcuni giocatori riferiscono di riportare nella
vita reale un comportamento più sicuro di sé quando hanno delle
buone relazioni all’interno dei mondi sintetici.104
103
104
Z. Waggoner, My Avatar, My Self, McFarland, North Carolina, 2009.
Cfr. Z. Waggoner, Op. cit.
306
Dall’Utopia all’Eterotopia
Per il resto sembra confermare ciò di cui stavamo discutendo in
precedenza, quindi che i mondi sintetici non siano altro che altri
frame all’interno della vita quotidiana, dove sussistono per la
maggior parte le stesse regole relazionali, dove si possono
sperimentare nuove identità, nuove narrazioni del proprio sé, che
vengono introiettate nella propria identità, esattamente come i
diversi ruoli e le identità che attiviamo nella nostra vita quotidiana.
Un altro aspetto importante che lo studioso mette in campo
riguarda l’annosa questione terminologica di cui abbiamo già
discusso, cioè quella della dicotomia tra reale e virtuale. Ebbene
poiché nell’interpretazione di Waggoner non essendoci nulla di
virtuale nella relazione tra avatar e identità individuale, di sostituire
il termine virtuale con quello di verisimulacratude:
I offer the term “verisimulacratude” as a way to describe the
general phenomenon and process of becoming immersed in a vRPG and avatarial identification within those virtual settings. I
believe verisimulacratude when paired with verisimilitude,
creates the terminological range of a continuum that would
enable videogames scholars to more accurately, articulate,
categorize, and investigate the phenomenon of identity
construction in videogames. 105
La verisimulacratude non è altro che la crasi terminologia e
concettuale dei termini verosimiglianza e simulacro. Questi sono due
processi fondamentali poiché senza di loro l’immersione e
l’identificazione nei mondi sintetici non sarebbe possibile, infatti la
verosimiglianza assicura la presenza nel mondo sintetico di alcuni
framework di orientamento che devono essere rispettati affinché
l’utente possa “sospendere la propria credulità” e percepire
l’ambiente sintetico come reale, il più importante è la
rappresentazione prospettiva del mondo, ma questo è un fenomeno
105
Ivi, p. 167.
307
Dall’Utopia all’Eterotopia
già noto per i nostri lettori.106 Perché ci sia questa
immedesimazione però la verosimilitudine non basta, è necessario
che il mondo sintetico si presenti anche come un simulacro, cioè
abbia una aderenza ed una coerenza ai mondi finzionali o narrativi a
cui quello specifico mondo sintetico si ispira. Ad esempio se ci
troviamo in un MMORPG di genere fantasy le convenzioni e le
coerenze del genere devono essere rispettate, pena la mancata
identificazione del giocatore, infatti: Identificatory immersion
depends on a “delicious blend” of non-virtual, virtual, and projective
aspects.107
L’ultimo tema che gli avatar sollevano è quello del Doppio, tema
ampiamente trattato nella cultura occidentale. Il doppio come figura
emblematica che coniuga in maniera problematica ed
contraddittoria il Sé al suo contrario, ovvero la vis creativa e libidica
all’annichilimento dell’individuo. Il doppio nella quasi totalità delle
sue apparizioni rappresenta un elemento di minaccia, in primo
luogo perché distrugge e mette in crisi l’unicità e l’unita dell’identità
umana, mettendo in discussione la riconoscibilità personale del
soggetto. La messa in discussione dell’identità da parte del doppio
viene messa in scena nella cultura occidentale in diverse forme,
innanzitutto come corpo riprodotto o sostituito, che mantiene la
morfologia/identità esterna ma che in realtà è un simulacro. Il
doppio si può anche presentare con le sembianze di un corpo invaso
o posseduto, che mette in crisi per il conflitto tra l’individuo e le sue
nuove pulsioni, pensiamo all’ibridazione con un corpo alieno. Una
delle più riuscite figure di doppio è sicuramente quella del
replicante, presente nella sua massima espressione in Blade
runner,108 costrutto biologico del tutto simile all’uomo, ma mancante
Vedi paragrafo 4.3 Caratteristiche dei Mondi Sintetici.
Z. Waggoner, Op. cit., p.167.
108 Per un’interpretazione dei replicanti in Blade Runner, cfr. A. Cavicchia Scalamonti, Le
proiezioni della memoria, Ipermedium Libri, Napoli, 2009.
106
107
308
Dall’Utopia all’Eterotopia
di empatia. Queste sono le più frequenti rappresentazioni del
doppio, che è così pericoloso perché:
rappresenta la negazione stessa di quel processo di ontogenesi
identitaria che caratterizza la tradizione occidentale fin dalle sue
origini: la perdita di riconoscibilità, il timore di essere sostituiti, il
terrore dell’ambiguità, come dell’informe e del disordine, sono
tratti centrali nel pensiero filosofico fin dalle sue prime
espressioni nella cultura greca.109
Questa visione umbratile e negativa del doppio la possiamo adattare
anche alle prime rappresentazione dei robot e degli automi, ormai
sembra essersi affievolita, pensiamo alla normalizzazione, spesso
critica e generatrice di crisi, questo senza dubbio, attuata dalla
figura del cyborg, quindi del processo di ibridazione uomo
macchina. Queste crisi si sciolgono con l’emergere della società
informatica e il doppio informatico, nella figura dell’avatar, diviene
rappresentazione coerente e riepilogativa
del processo di
frammentazione dell’identità umana. Non è più un doppio negativo,
diviene un potenziale mezzo di espressione del sé, o almeno di una
parte di questo, ed è soprattutto parte integrante della nostra
umanità come evidenzia in maniera eccelsa Mark Stephen
Meadows:
The avatar is the usher of a post-human era. This is not science
fiction, but “progress”. This is simply the face of humanity as we
strap on more and more tools, embedding them into our bodies,
growing into them, improving limbs and replace organs, allowing
them to change into us as we change into them. It’s how we grow
into our imaginations, and how our dreams became real. 110
R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino,
2002, p. 308.
110 M.S. Meadows, I, Avatar. The culture and consequences of having a Second life, New
Raiders, Berkley, 2008, p. 95.
109
309
Dall’Utopia all’Eterotopia
4.8 Fine dell’Eterotopia?
In questo capitolo ci siamo addentrati nell’analisi dei mondi virtuali,
li abbiamo studiati in profondità, per verificare se anche in questi,
come nel primo paradigma della realtà virtuale fosse presente quel
particolare immaginario utopico che avevamo definito eterotopia;
ebbene di questo desiderio utopico non vi è traccia, troppo implicati
nei fondamenti culturali della società dominate da non essere in
grado di elaborare e mettere in pratica delle relazioni sociali
innovative. Questo è particolarmente visibile nei social virtual world,
in cui la maggior preoccupazione degli utenti è quella della visibilità
che poi si fonda con un senso estremo della notorietà. Infatti il
meccanismo della notorietà in mondi come Second Life sembra
essere dominante, la tua identità virtuale ha valore solo se la
comunità la riconosce, questo in fondo vale anche nella vita di tutti i
giorni, ma nei mondi sintetici questo concetto è portato all’estremo,
soprattutto si basa sulle doti estetiche del proprio avatar, un avatar
che non ha nulla di originale mina seriamente le possibilità e le
risorse relazionali del proprio utente. Questo è importante
sottolinearlo poiché entra in relazione con un aspetto molto
concreto, la disponibilità di denaro. Infatti solo chi dispone di
denaro ha la possibilità ci acquistare applicazioni o accessori che
possano rendere il proprio avatar attraente per la comunità. Così
bisogna constatare come anche nei social virtual world esista una
precisa stratificazione sociale, che per di più è identica a quella della
vita quotidiana. Per essere onesti non è del tutto vero, poiché al
vertice di questa scala sociale virtuale accanto ai facoltosi troviamo
gli assi dell’informatica, fenomeno abbastanza normale visto che ci
troviamo all’interno di un mondo informatico, questi sono in grado
di programmarsi da soli gli elementi di distinzione sociale. Questo
però è loro possibile solo in quei mondi sintetici che permettono lo
user generate content, altrimenti l’elemento base rimane lo stesso
della realtà quotidiana, il denaro. Altro elemento che classifica come
non utopici questi ambienti è il fatto che la maggior parte delle
310
Dall’Utopia all’Eterotopia
relazioni siano vincolate da rapporti commerciali e di mercato,
infatti il passatempo preferito degli utenti di Second Life risulta
essere l’e-shopping o la compravendita di beni virtuali. Questo
mostra ancora una volta la mancata propensione ad un approccio di
tipo diverso alle relazioni sociali. In realtà, all’interno dei social
virtual world, non parlo dei MMORPG, poiché a livello sociale sono
troppo determinati dal tipo di gioco di ruolo che è stato sviluppato,
in particolar modo all’interno di Second Life , esistono delle sim che
sono state generate esattamente come adattamento virtuale delle
utopie classiche, o comunque sim in cui è vietato l’uso del denaro.
Per assurdo ci troviamo di fronte a fenomeni eterotopici di secondo
livello, cioè un’eterotopia all’interno di un’eterotopia, o meglio a
quella che in principio era stata deputata ad esserlo.
Se la vita all’interno dei mondi sintetici rispecchia quasi per intero
quello della vita quotidiana allora qual è il motivo della loro così
ampia espansione. Ebbene una delle risposte si annida dal mio
punto di vista nella metafora della frontiera che abbiamo analizzato
in un paragrafo precedente, infatti la frontiera virtuale rappresenta
solo un modo per moltiplicare senza molti sforzi la possibilità dei
soggetti di soddisfare i propri desideri e bisogni, senza mettere
realmente in discussione le basi socioeconomiche che rendono
impossibile una più equa distribuzione della ricchezza economica e
culturale all’interno della realtà quotidiana. Questa visione può
avere anche una variante escapista, poiché nel real-world non si è in
grado, non si hanno le capacità o le risorse necessarie, siano esse
economiche, sociali, culturali o cognitive, di soddisfare i propri
desideri o bisogni, allora ci si rifugia nei mondi sintetici, una volontà
di uscire dal mondo reale ed avere una nuova possibilità in quello
virtuale. Anche se non dobbiamo pensare che tutti gli utenti
utilizzino i virtual world sotto quest’ottica, dobbiamo riconoscere
che quest’approccio ha qualcosa di reale, per il semplice motivo che
il primo dei mondi sintetici, Habitat, sviluppato da Chip Mornigstar
e Randall Farmer della LucasFilm, fu creato appositamente per i
bambini ammalati e ricoverati in ospedale, per dar loro
311
Dall’Utopia all’Eterotopia
un’alternativa alla dolorosa noia della vita ospedaliera. Il mondo
sintetico di Habitat, era infatti un mezzo che permetteva ai bimbi,
che non potevano muoversi dai propri letti, di giocare insieme e
dimenticare per un attimo le proprie sofferenze. Prendendo spunto
da questo evento e ricordando che Habitat è stato inventato in
California, Mark Stephen Meadows sostiene che i mondi sintetici
non sono altro che la prosecuzione dell’American dream con altri
mezzi, un tentativo di recuperare il senso di comunità, concetto
anche per lui chiave all’interno delle nuove tecnologie come per
molti studiosi, che è stato spazzato via dalla strutturazione
metropolitana e anonima della società civile:
American dream tell us that we can become what we want, and
we profit by doing so. It is a dream of independence and success
and that core ability to make yourself into who and what you
want…these people had assembled their own synthetic
communities because they had none on hand in the real
world…also give these same people an opportunity to explore a
place that is safer than what modern world seems to afford…offer
an alternative to the “American dream” of decentralized cities full
of anonymous faces, depersonalized living, mass media and
fear…it only makes sense that another life offering greater
engagement might start to compete with one that, for many
people, is not what they’d hoped. They have another option.
Virtual worlds are American Dream second edition, a response to
the American dream first edition. 111
Come si nota quello che si viene a creare è una sorta di ritorno alla
vera forma di American dream, una forma che nella vita quotidiana
sembra ormai esser svanita nella strutturazione delle nuove
megalopoli che non permettono il costituirsi di quella forma
elementare di struttura relazionale rappresentata dalla comunità.
Qui, in realtà sembra di assistere alla solita dicotomia che angustia
111
Ivi, pp. 86, 87.
312
Dall’Utopia all’Eterotopia
la sociologia dai tempi di Tönnies cioè quella tra società e comunità,
ebbene per questo studioso, come molti altri nel campo della ricerca
sulle nuove tecnologie, di cui di sicuro il più celebre è Rheingold
queste riescono a ricostruire quel senso comunitario che la società
contemporanea sembra aver completamente annientato. Questa
visione dal mio punto di vista sembra, però, molto semplicistica,
anche se non si può nascondere che questo tipo di interpretazione
ha qualche appiglio nel reale, quello che non riesce a spiegare però è
il motivo per cui le società sintetiche sembrano strutturarsi
esattamente allo stesso modo di quello reale, quindi senza volontà o
capacità di migliorare la struttura sociale, anzi in più sembra che
l’essere migliore dei mondi sintetici risulti semplicemente dalla loro
natura virtuale, per dirla in altri termini i mondi sintetici sembrano
innatamente migliori semplicemente per il fatto di esser virtuali,
questo al nostro ragionamento non può apportare alcunché di
interessante, anzi forse da alcuni punti di vista sembra
semplicemente una prosecuzione dell’ideologia del progresso, in
cui ogni nuova tecnologia è interpretata in maniera positiva
semplicemente perché rappresenta il nuovo, ma anche questo
sembra una concettualizzazione che non riesce a spiegare del tutto
il fenomeno che stiamo affrontando.
Forse l’approccio che può risultarci più utile è interpretare la
nascita dei mondi sintetici come la risposta ad una realtà troppo
complessa, troppo piena di stimoli, la maggior parte dei quali non
potranno mai essere soddisfatti, se non da una minima parte della
popolazione, non solo per la scarsità delle risorse, ma
semplicemente per la mancanza di tempo o per la complessità che la
loro soddisfazione richiederebbe. Quest’approccio collegato con la
mia interpretazione della metafora della frontiera, quale espansione
del territorio di possibilità esistenziali, espansione necessaria per
diminuire la conflittualità sociale causata dalla stratificazione della
società stessa, porterebbe alla conclusione che i mondi sintetici non
siano altro che un nuovo frame esistenziale che moltiplica ed amplia
il territorio di possibilità esistenziali, necessario per soddisfare la
313
Dall’Utopia all’Eterotopia
proliferazione esponenziale degli stimoli, che forse a questo punto
potremmo e dovremmo definire desideri e bisogni. Tra questi
entrano di prepotenza quelli di visibilità e riconoscimento che ho
citato nel capitolo precedente, che hanno una valenza fondamentale
all’interno di una sfera mediale sempre più importante e soprattutto
decisiva nel processo di formazione identitaria, elemento esposto al
meglio dal successo incredibile dei social network come Facebook e
simili, utili per un autoriconoscimento così difficoltoso nell’attuale
società, che dà forma a quell’individualismo di rete come
evidenziano sia Barry Wellman, che Manuel Castells nei propri
lavori e che rappresenta per loro la base identitaria
contemporanea.112
Ebbene se i mondi virtuali rappresentano soltanto una sfera di
realtà che sembra far in modo che sia il reale ad invadere il virtuale
e non il contrario, si può ben capire come in un ambiente così
strutturato ci sia poco spazio per un reale immaginario utopico.
L’universo virtuale sembra aver perso quella capacità di poter
creare realtà, nel caso dell’immaginario utopico di creare realtà
sociali alternative, forse in verità non lo ha mai avuto tale potere, e il
paradigma della prima realtà virtuale e del cyberspazio erano
semplici concettualizzazioni di stampo utopistico per la propria
natura di
pura potenzialità, non essendo all’epoca ancor
implementate come reali tecnologie sociali, come sono oggi, e
questo permetteva un’immaginazione forte sulle reali
caratteristiche e potenzialità del mezzo. Un altro aspetto che vorrei
sottolineare nell’analisi dei mondi sintetici è una riflessione che si è
sviluppata dopo le interviste sostenute con gli utenti di questi
universi, che si fonda su una semplice intuizione sembrerebbe che
oggi poiché la quasi totalità degli stimoli ci provengono da canali
Cfr. B. Wellman, Physical place and cyber-place: The Rise of Personalized Networking.
International Journal for Urban and Regional Research, 25, 227-52. M. Castells, Galassia
Internet, Feltrinelli, Milano, 2002 e La nascita della società in rete, Vol. 1: L'età
dell'informazione: economia, società, cultura, Bocconi, Milano, 2002.
112
314
Dall’Utopia all’Eterotopia
mediali, la loro soddisfazione non può che essere di quella stessa
natura, una sorta di contrappasso dantesco, in realtà qui si dovrebbe
parlare di parossismo, infatti gli stimoli mediali son diventati così
numerosi che una loro soddisfazione implica di fatto una natura
mediale. Questo è una suggestione che mi ha colto parlando con i
miei intervistati, la maggior parte dei quali programmatori
informatici, ebbene dopo le canoniche ore di lavoro trascorse
davanti ad uno schermo, per loro non c’è nulla di più naturale di
immergersi in un universo informatico come quello dei virtual
world, allora l’unico pensiero che mi ha colto è il pensare che il
mondo sia ormai un mondo informatico nella sua essenza, i virtual
world e la realtà non sono altro che dei frame all’interno
dell’universo mediale-informatico.
315
Dall’Utopia all’Eterotopia
Conclusioni
Il nostro viaggio per Utopia è giunto così alla sua conclusione,
abbiamo attraversato mari tempestosi e spesso nebbie concettuali,
ma abbiamo descritto, o almeno ci abbiamo provato, quella che
abbiamo definito la nuova dimensione dell’immaginario utopico:
l’eterotopia. Quella mercuriale forma utopica che predente di
abitare e riformare il reale contestualmente alla società dominante,
in un ambito che seppur parziale, virtuale o temporaneo possa
essere rivoluzionario. Una trasformazione che strappa al futuro e
all’ideologia del progresso il dominio sull’immaginario utopico e lo
muta radicalmente compiendo una metaformosi completa.
Nonostante gli esempi di tale immaginario siano complessi e vari
possiamo sostenere che le sue origini e le sue basi concettuali siano
da rintracciare nella Controcultura degli anni ’60 e ’70, nel suo
rifiuto dell’american way of life, ma soprattutto nelle modalità di
questo rifiuto, nella volontà di creare uno spazio alternativo
compresente, senza affidare al futuro il momento della realizzazione
di una società migliore e perfetta, ambizione che la comune Hippie
incarnava, e che diventerà il modello dei successivi movimenti
controculturali. Abbiamo descritto come la Cybercultura degli anni
’90 abbia una discendenza diretta dalle istanze controculturali e
abbiamo mostrato i tentativi di realizzare tali istanze in un nuovo
territorio, la nuova dimensione del virtuale, nelle sue declinazione
di cyberspazio e realtà virtuale. Abbiamo intrapreso quindi un
viaggio all’interno della normalizzazione di questa nuova cultura
informatica analizzando la perdita di connotati utopici avvenuta nei
mondi virtuali e nella cultura dei videogame, in questo lungo viaggio
abbiamo studiato l’immaginazione sociale dei vari movimenti
antagonisti mettendone in luce i sogni, le ambizioni, le mitologie e
molto spesso le contraddizioni. Abbiamo tracciato delle linee
intrerpretative che ci hanno condotto a definire alcune metafore e
dicotomie assiologiche, come la metafora della frontiera per il
317
Dall’Utopia all’Eterotopia
cyberspazio e la dicotomia tra Rivoluzione e Sovversione per le TAZ
e la Rave culture, per mostrare come l’interpretazione delle forme
eterotopiche possa essere sfuggente e mutevole. Giunti a questo
punto non ci resta che affrontare l’ultimo argomento, che segna in
maniera decisiva tutto l’arco della ricerca e le conferisce forse una
visione unitaria e d’insieme: il legame tra eterotopia, desiderio e
mondi virtuali. Abbiamo sfiorato questo tema lungo tutto il nostro
viaggio ed è giusto affrontarlo ora perché sintetizza e porta alla luce
alcuni elementi fondamentali dell’immaginario eterotopico. In fondo
viviamo oggi in una società del desiderio come afferma Ugo Volli1, in
cui questo è la materia prima di tutto l’apparato economico e
sociale, un elemento che è il punto di partenza di ogni relazione
sociale. Il problema nasce dal fatto che il desiderio risulta definibile
con difficoltà ancor maggiori dell’utopia: ciò che rimane impensato al
cuore stesso del pensiero,2 l’elemento impensabile per definizione
necessita infatti di essere esaminato perché in esso è presente la
mancanza, l’insufficienza dell’essere, ma insieme vi è il progetto, la
capacità di far essere quel che non c’è, di realizzarlo sulla base di
un’immagine che spesso è solamente mentale. Una possibilità
creativa, uno scarto rispetto al reale che non possiamo trovare negli
altri esseri viventi e che talvolta è stata nominata come il divino
nell’umano o l’essenza dell’uomo.3 Essenza creatrice e produttrice
che non può non essere assimilata e accostata all’utopia, in fondo
come abbiamo già notato il desiderio è rivoluzionario nella sua
essenza,4 e dunque chiaro che ogni filosofia politica implica una
filosofia del desiderio, non è infatti un caso che questo sia in fondo
l’obiettivo di molte utopie, dalla Repubblica di Platone alla Teoria dei
quattro movimenti di Fourier, l’utopia non può non pensare il
desiderio poiché:
U. Volli, Figure del desiderio. Forme, testo, mancanza. Meltemi, Roma, 2002, p.7.
M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 2007, p. 386.
3 Cfr. B. Spinoza, Etica, Libro III, Utet, Torino, 1977.
4 Cfr. Cap. 3.7
1
2
318
Dall’Utopia all’Eterotopia
la realtà del desiderio è immediatamente politica. Il desiderio
anima i flussi economici e attraversa i poteri; si cristallizza e
consolida la sua potenza in sistemi di potere; alimenta le forze
stesse che lo opprimono; degenera nel totalitarismo e nel
fascismo. Ciò nonostante, non manca mai di affermare la propria
essenza rivoluzionaria.5
Qui nasce in realtà una prima difficoltà poiché in fondo l’utopia
tenta ciò che è impossibile, gestire, ordinare, sedare ciò che è
impossibile da placare, il desiderio appunto, un impulso, anzi un
moto dell’anima, indefinito e indefinibile che ha in realtà desiderio
solo di se stesso, forza extra-individuale difficilmente limitabile.
L’emergere del desiderio come entità utopica e rivoluzionaria nasce
naturalmente, e questo ormai non dovrebbe più stupire, durante gli
anni ’60 e ’70 attraverso un’interpretazione particolare delle tesi di
Freud portate avanti da intellettuali quali Marcuse e Norman
Brown, di cui abbiamo già parlato, soprattutto il primo con il suo
Eros e Civiltà, ha dato vita ad una vera e propria utopia del
desiderio, in cui difende l’idea di una cultura non repressiva della
libido, e quindi la trasformazione di questa in Eros, che liberato
porterebbe alla creazione di una società migliore, non repressiva ne
violenta:
Dobbiamo chiederci se gli istinti sessuali, eliminata ogni
repressione addizionale, siano in grado di creare una≪ razionalità
libidica≪ non soltanto compatibile col progresso, ma anche atta a
promuovere forme superiori di libertà civile.6
L’Eros liberato sarebbe anche in grado di sconfiggere l’istinto di
morte, che Marcuse riconduce al principio del Nirvana, che definisce
non come tendenza del vivente a raggiungere uno stato zero di
intensità, e dunque a morire, ma come stato di costante
5
6
C. Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto. Einaudi, Torino, 2002, p. 267.
H. Marcuse, Eros e Civiltà, Einaudi, Torino, 2001, p. 216.
319
Dall’Utopia all’Eterotopia
soddisfazione e di assenza di dolore, il principio del Nirvana
diventerebbe pulsione distruttiva solo sotto l’effetto della
repressione sociale :
Se l’obiettivo fondamentale dell’istinto non è la fine della vita ma
la fine del dolore – la mancanza di tensione – paradossalmente, in
termini di istinto, il conflitto tra vita e morte si riduce tanto più
quanto più la vita si avvicina allo stato di soddisfazione. In questo
caso, principio del piacere e principio del Nirvana convergono.
Allo stesso tempo l’Eros, liberato dalla repressione addizionale,
verrebbe rafforzato, e quest’Eros rafforzato assorbirebbe per così
dire l’obiettivo dell’istinto di morte.7
Come notiamo il desiderio liberato non è solo in grado di creare una
società migliore, ma anche una sorta di paradiso. Negli anni ’60 e ’70
interpretazioni di questo del desiderio erano piuttosto diffuse,
pensiamo alle opere di Wilhelm Reich8, ma in realtà semplificano la
figura del desiderio, che è per natura non limitabile, è votato
all’eccesso come ci insegna Baitalle9, vuole consumare e consumarsi,
quindi una razionalità libidica sembra del tutto irrealizzabile, ma
non dobbiamo stupirci, come detto l’utopia tenta di mettere un
freno al desiderio, ma ciò non è possibile, poiché il desiderio è un
moto complesso che possiamo descrivere al meglio solo con le
parole del filosofo del desiderio per eccellenza, Gilles Deleuze, che ne
ha fatto del una delle chiavi interpretativa del reale e così lo
definisce nella voce “Desiderio” del suo Abecedario, il film-intervista
realizzato nel 1988:
Finora si è parlato di desiderio astrattamente perché si è isolato
un oggetto che si suppone essere l’oggetto del desiderio, e allora si
Ivi, p. 247.
Cfr. W. Reich, La funzione dell'orgasmo. Dalla cura delle nevrosi alla rivoluzione sessuale e
politica. Il Saggiatore, Milano, 2010.
9 Cfr. G. Baitalle, L' erotismo, ES, Milano, 2009.
7
8
320
Dall’Utopia all’Eterotopia
può dire ‘desidero una donna, desidero partire per un viaggio…’ E
noi dicevamo (Deleuze e Guattari) una cosa semplice: non si
desidera mai veramente qualcuno o qualcosa. Si desidera sempre
un ‘insieme’. Qual è la natura dei rapporti tra gli elementi perché
ci sia desiderio, perché diventino desiderabili? Dice Proust, non
desidero una donna, ma desidero anche un ‘paesaggio’ che è
contenuto in quella donna, un paesaggio che forse neanche
conosco, ma che intuisco e finché non ho sviluppato questo
paesaggio non sarò contento, cioè il mio desiderio non sarà
compiuto, resterà insoddisfatto. Quando una donna dice ‘desidero
un vestito’ è evidente che non lo desidera in astratto. Li desidera
nel suo contesto, nella sua organizzazione di vita. Il desiderio non
solo in relazione a un paesaggio, ma a delle persone, i suoi amici o
no, la sua professione. Non si desidera mai qualcosa di isolato. Ma
ancora, non desidero neanche un insieme, desidero in un insieme.
In altri termini non c’è desiderio che non scorra in un
concatenamento. Di modo che il desiderio per me è sempre
stato…. Se cerco il termine astratto corrispondente, è
‘costruttivismo’. Desiderare è costruire un concatenamento,
costruire un insieme. L’insieme di una gonna, di un raggio di
sole…di una strada, il concatenamento di un paesaggio, di un
colore. Ecco cos’è il desiderio. E costruire un concatenamento
significa costruire una regione. Concatenare. Il concatenamento è
un fenomeno fisico, è come una differenza. Perché accada
qualsiasi evento c’è bisogno di una differenza di potenziale e ci
vogliono due livelli, bisogna essere in due, allora accade qualcosa.
Un lampo o un ruscelletto e siamo nel dominio del desiderio. Un
desiderio è costruire. Tutti passiamo il nostro tempo a costruire.
Per me quando qualcuno dice ‘desidero la tal cosa’ significa che
sta costruendo un concatenamento. Il desiderio non è
nient’altro.10
Gilles Deleuze isola due elementi fondamentali del desiderio, in
assoluto non fa derivare il desiderio dalla mancanza, elemento
comune della riflessione filosofica e psicologica, da Freud in poi,
10
G. Deleuze, L’abecedario di Gilles Deleuze, interviste televisive con C. Parnet dirette da
P. A. Boutang, Derive Approdi, Roma, 2005.
321
Dall’Utopia all’Eterotopia
sull’origine del desiderio, inoltre sottolinea la sua natura
sovraindividuale: non siamo soli a desiderare, siamo sempre nel
campo di un desiderio (anzi, di desideri molteplici), all’interno di
una macchina di desiderio che è collettiva.
Da queste parole si comprende la difficoltà del campo di analisi, la
sua versatilità e mutevolezza, ma oltrepassando il pensiero
deleuziano, possiamo indicare alcuni concetti chiave che poi ci
torneranno utili, in primo luogo il concetto di mancanza all’interno
del discorso sul desiderio è fondamentale, in quanto Freud11 vede il
sorgere del desiderio da una mancanza originale, una mancanza che
mai più può essere colmata, il grembo materno, in cui tutti i bisogni
venivano esauditi immediatamente, condizione a cui l’uomo
tenterebbe di tornare grazie a quella che definisce sentimento
oceanico di cui abbiamo gia parlato nel terzo capitolo, non potendo
più esaudire quel desiderio allora lo si sublima, gli si cambia
obiettivo, lo si feticizza, per questo il desiderio non può mai essere
appagato, per questo la società tenta di limitarlo il più possibile.
Altro approccio fondamentale al desiderio, per noi forse il principale
è quello di Lacan:
il desiderio dell’uomo trova il suo senso esattamente nel desiderio
dell’altro, non tanto perché l’altro detenga le chiavi dell’oggetto
desiderato, quanto perché il suo primo oggetto è di essere
riconosciuto dall’altro.12
Il desiderio non è tanto una relazione con un oggetto, quanto una
relazione intersoggettiva, è sempre “il desiderio è di fare riconoscere
il proprio desiderio…il desiderio è desiderio di desiderio, desiderio
dell’Altro”.13 Questa interpretazione deriva direttamente dall’analisi
Cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, Al di là del
principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, Totem e tabù, Mondadori, Milano,
1994.
12 J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 2002, p. 261.
13 Ivi, p. 337.
11
322
Dall’Utopia all’Eterotopia
della dialettica hegeliana Servo-Padrone di Kojève di cui Lacan fu
studende, gli elementi fondamentali sono due, in assoluto il
desiderio innato di essere riconosciuto, riconosciuto come essere
umano, nella propria unicità, è in fondo il desiderio di essere amato:
Il Desiderio umano deve dirigersi verso un altro Desiderio…Così,
per esempio, nel rapporto fra un uomo e una donna, il Desiderio è
umano unicamente se uno non desidera il corpo, bensì il desiderio
dell’altro, se vuole “possedere” o “assimilare” il Desiderio assunto
come tale, se cioè vuole essere “desiderato”, “amato” o meglio,
“riconosciuto” nel suo valore umano, nella sua realtà di individuo
umano.14
Il riconoscimento quindi come base esistenziale, riconoscimento
non solo della propria umanità, ma soprattutto della propria
individualità, della propria identità. Identità che riconosciuta
diviene in fondo la base della società stessa, come hanno mostrato
in maniera decisiva le opere di Elias, Durkheim, Goffman e Collins15,
questo perché la dissoluzione della società premoderna disintegra
le istanze classiche di legittimazione e di identificazione, il Sé viene
affrancato da ogni vincolo esterno, per questo il riconoscimento
assume una nuova e cruciale importanza, poiché diviene lo
strumento imprescindibile per la costruzione di un’identità che non
è più data a priori, e che si configura come l’obiettivo
permanentemente incerto di una difficile ricerca. Non solo, secondo
questi autori, il Sé diviene il centro della solidarietà sociale, il
ricevere riconosciemento, il rispetto assoluto che il Sé deve ricevere
è il fondamento dei rituali dell’interazione sociale su cui si basa la
solidarietà sociale. Il Sé libero dalle catene di qualsiasi
A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano, 1996, pp. 19, 20.
Cfr. N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, Bologna, 1998, E. Durkheim, Le
forme elementari della vita religiosa, Meltemi, 2005, E. Goffman, Il rituale dell’interazione,
Il Mulino, Bologna, 1988 e La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna,
1997, R. Collins, L'intelligenza sociologica, Ipermedium Libri, Napoli, 2008.
14
15
323
Dall’Utopia all’Eterotopia
gerarchizzazione si trova all’interno di una fluidità sociale a cui deve
dare una risposta, risposta di cui si fa carico l’Altro, attraverso il
processo mimetico in cui Girard16 ha individuato il fondamento
stesso dell’identità individuale e delle relazioni sociali: il Sé
costruisce la propria immagine guardandosi con gli occhi degli altro,
sia esso reale o immaginario, verso il quale si pone in un rapporto
essenzialemente imitativo. Il processo mimetico investe in pieno,
dunque, il desiderio, il nostro desiderio è dell’altro nella misura in
cui siamo portati a desiderare ciò che gli altri desiderano – mode,
stili di vita, futuri: nella misura insomma in cui diviene desiderio
mimetico. Per cui, la domanda originaria del desiderio non è
direttamente: “Cosa voglio?”, ma: “Cosa vogliono gli altri da me?
Cosa vedono in me? Cosa sono io per quegli altri?” I desideri
dell’individuo sono quindi dipendenti dal desiderio dell’altro e
l’oggetto desiderato ha in sé meno importanza della relazione
mimetica con l’altro. Quindi l’Altro è determinante non solo perché
riconosca la mia identità, ma anche perché si pone davanti al Sé
come un modello. Naturalmente al riconoscimento si deve
affiancare una naturale visibilità sociale, visibilità che con
l’affermarsi della vita metropolitana ha fatto in modo di riversarsi
prima sui grandi mass media, come la radio e il cinema, unici mezzi
disponibili per l’auto-rappresentazione. Il più grande capitolo del
rapporto tra media, identità e riconoscimento è stato scritto con
l’avvento della broadcasting televisivo, in grado di trascinare e
uniformare tutto al proprio modello di cultura e di identità
collettiva. Ha messo in gioco nuove forme di azione e interazione,
nuovi tipi di relazione e nuovi modi di rapportarsi a se stessi e agli
altri, così le forme del riconoscimento reciproco e i tradizionali
legami sociali sono stati reinterpretati in nuovi spazi mediali che
hanno articolato l’intero patrimonio dei significati socialmente
condivisi, il riconoscimento è stato medializzato, ma con l’emergere
16
Cfr. R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano, 2002.
324
Dall’Utopia all’Eterotopia
dei nuovi media il rapporto di visibilità che prima era unidirezionale
si rompe, vi è stata una fluidificazione della visibilità sociale17, il
soggetto si immerge in nuovi spazi mediali dove è più importante la
sua auto-rappresentazione:
il nostro presente è appunto caratterizzato dall’analogia, anzi
dall’omologia tra la crisi delle grandi filosofie della storia e la crisi
dell’immaginario collettivo costruito dai grandi media storici
quali il cinema, la radiotelevisione e la stampa di massa. Il loro
ciclo sembra ormai prossimo a chiudersi a vantaggio di forme di
comunicazione, di tecnologie, che favoriscono modelli
autopoietici, cioè mezzi espressivi, di elaborati del linguaggio, che
fuoriescono dalla dimensione totalitaria e unidirezionale dello
schermo, dalla sua vita propria, dalla sua indipendente potenza
generativa, investendo più intimamente l’artificialità del soggetto,
del suo corpo-mente, attrezzandolo più efficacemente come
organizzatore delle comunicazione piuttosto che semplice
ricettore.18
È esattamente su questo piano di visibilità e di desiderio di
riconoscimento che entrano in gioco i media elettronici, e i mondi
virtuali non fanno eccezione, anzi, per questo hanno perso la loro
carica utopica, la centralità è data alla visibilità, al riconoscimento,
Facebook e Twitter, penso ne siano l’esempio più lampante, come
anche il declino del social virtual world, che avendo lo stesso
obiettivo sono stati superati in efficacia dai suddetti, il web e i media
elettronici in fondo offrono possibilità inedite di definizione del sé,
nuove possibilità di visibilità e di riconosciemento, la crescente
disponibilità di materiali mediati ha consentito al sé di affrancarsi
progressivamente dai suoi legami con i contesti pratici della vita
quotidiana19, ma la reale carica liberatoria dell’esperienza mediata
Cfr. V. Scurto, Op. Cit.
A. Abruzzese, D. Borrelli, L’industria culturale, Carocci, Roma, 2000, p. 48.
19 Cfr. il concetto di disembedding di J. B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità.
Una teoria sociale dei media. Il Mulino, Bologna, 1998.
17
18
325
Dall’Utopia all’Eterotopia
si esprime non tanto nella riduzione dei condizionamenti – di tipo
materiale, culturale e ideologico – quanto in una inedita libertà di
accesso alle risorse simboliche e mediali in una accresciuta
attenzione alla costruzione autonoma del sé come principio di
organizzazione dell’esperienza e delle pratiche sociali, Il Sé si viene,
quindi, a costituire come progetto riflessivo20 che impegna
attivamente gli individui in un ininterrotto processo creativo di
acquisizione ed editing di materiali simbolici e nella
rappresentazione discorsivizzata del proprio percorso, della propria
storia individuale, della propria coscienza, e sicuramente dei propri
desideri. Si crea quello che Wellman definisce un networket
individualism in cui il soggetto deve gestire tutte le sue relazioni, sia
online che offline, costantemente impegnato ad aprire e chiudere
collegamenti, a gestire relazioni sociali multiple sulle diverse
finestre aperte sullo schermo, a costruire e interpretare proiezioni
identitarie differenziate a seconda dello specifico contesto
comunicativo, creando delle Personalized communities embodied in
me-centered networks21, in cui il soggetto riceve visibilità e
riconoscimento, grazie in particolare al web e ai nuovi media che
divengono dispositivi di visibilità personale, pensiano ai blog, ai già
citati Facebook e Twitter, alla diffusa socializzazione ed editing di
immagini e suoni in formato digitale, l’uso del telefono mobile come
nodo delle connessioni di comunicazione interpersonale in voce, in
forma scritta o per immagini, la diffusione dei sistemi di
messaggistica, forum e posta elettronica, tutti strumenti che
determinano la nostra visibilità sociale, la nostra identità, il
desiderio più importante che in questa società si deve soddisfare.
Ora dovrebbe essere facile comprendere come e perché la carica
utopistica dei mondi virtuali si sia inaridita, l’utente in essi cerca
una propria rappresentazione, una propria visibilità, elemento che
Cfr. A. Giddens, Identità e società moderna, Ipermedium Libri, Napoli, 2001.
Cfr. B. Wellman, Physical place and cyber-place: The Rise of Personalized Networking.
International Journal for Urban and Regional Research, 25, 227-52.
20
21
326
Dall’Utopia all’Eterotopia
era in effetti al centro dei social virtual world come abbiamo visto,
ma che sono stati surclassati in questo dai social network, i
MMORGP, in realtà seguono una logica del tutto diversa, in questi
riveste un’importanza decisiva la narrazione, la volontà di
immergersi in un mondo immaginario, di costruire una storia, un
ruolo, sogno di vivere un’avventura, insomma siamo nel campo di
ciò che Callois definiva mimicry22, il piacere elementare e complesso
della negazione della realtà, in nome di un mondo immaginario. In
realtà questo aspetto è ben presente anche nei social virtual world
in cui ciò che si sperimenta è una nuova identità, si gioca con le
potenzialità dell’identità virtuale, se ne assumono costantemente di
nuove per puro divertimento. Detto questo penso ormai sia chiaro il
motivo della perdita di spinta utopica da parte dei mondi virtuali,
ma questo non deve destare preoccupazione, immaginando un
mondo completamente omogeneo in cui non sia possibile alcun tipo
di utopia, in realtà già esistono molte pulsioni utopiche, bisogna
notare, però, come i nuovi movimenti antagonisti, siano privi di
quella che possiamo definire una vera e propria utopia, infatti, pur
immaginando mondi alternativi, sono poche le issue su cui basano il
proprio antagonismo, mancano quindi di un progetto sistemico e
integrato di mondo-altro, una caratteristica che possiamo definire
polverizzazione utopica, forse un nuovo tipo di utopia. Quello che
non deve invece stupire è la sempre più accentuata centralità del
concetto di Identità, campo sul quale si scontrano in realtà le nuove
istanze sociali e politiche, in fondo il desiderio di riconoscimento è
l’istanza primogenia non solo dell’identità, ma soprattutto della
lotta politica, si ricordi la dialettica hegeliana del servo/padrone, ma
se questo non vi convincesse lasciatevi condurre da queste parole di
Wayne Hudson sull’opera di Bloch, in cui l’autore ricorda come
l’Utopia per Bloch è molto di più della somma dei suoi testi, è
un’impulso che governa ogni cosa:
22
Cfr. R. Callois, Op. cit.
327
Dall’Utopia all’Eterotopia
Ne Il principio di speranza Bloch fornisce una rassegna senza
precedenza delle immagini del desiderio nell’uomo e dei sogni di
una vita migliore. Il saggio inizia con i piccoli sogni a occhi aperti
(prima parte), a cui fa seguito l’esposizione della teoria di Bloch
della coscienza anticipatrice (seconda parte). Nella terza parte
Bloch applica la sua ermeneutica alle immagini del desiderio
riscontrabili nello specchio della vita di tutti i giorni: l’aura
utopica che circonda un abito nuovo, la pubblicità…nel cinema e
nel teatro…Per finire, nella quinta parte Bloch passa alle
immagini del desiderio dell’istante dell’appagamento, le quali
dimostrano che è “l’identità” il presupposto fondamentale della
coscienza anticipatrice.23
W. Hudson, The Marxist Philosophy of Ernst Bloch, New York, 1982, cit. in F. Jameson, Il
desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 18, 19.
23
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