protezione nei confronti di azioni - Dipartimento di Strutture per l
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTA’ DI INGEGNERIA CORSO DI LAUREA IN INGEGNERIA CIVILE TESI DI LAUREA PROTEZIONE NEI CONFRONTI DI AZIONI CATASTROFICHE DA ERUZIONI VULCANICHE: IL CASO VESUVIO Relatore: prof. Candidata: FEDERICO M. MAZZOLANI Correlatrici: prof.ssa ing. BEATRICE FAGGIANO ANNA MARZO DANIELA DE GREGORIO Matricola 37/2246 ANNO ACCADEMICO 2006/2007 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio INDICE INDICE………………………………………………………………………... 1 INTRODUZIONE…………………………………………………………….... 4 1. LE ERUZIONI………………………………………………………………… 5 1.1. IL FENOMENO NATURALE……………………………………………...... 1.1.1. I vulcani………………………………………………………. 1.1.2. I prodotti delle eruzioni effusive……………………………... 1.1.3. I prodotti delle eruzioni esplosive……………………………. 1.1.4. La classificazione delle eruzioni esplosive…………………... 1.2. I VULCANI SUL TERRITORIO ITALIANO…………………………………... 1.2.1. Premessa……………………………………………………… 1.2.2. Colli Albani…………………………………………………... 1.2.3. Campi Flegrei………………………………………………… 1.2.4. Ischia………………………………………………………..... 1.2.5. Stromboli……………………………………………………... 1.2.6. Lipari…………………………………………………………. 1.2.7. Vulcano………………………………………………………. 1.2.8. Etna…………………………………………………………... 1.2.9. Isola Ferdinandea…………………………………………….. 1.2.10. Pantelleria……………………………………………………. 1.3. I VULCANI NEL MONDO…………………………………………………. 1.3.1. Premessa……………………………………………………… 1.3.2. Merapi (Indonesia)…………………………………………… 1.3.3. Big Island: Hawaii…………………………………………..... 1.3.4. Ruapehu (Nuova Zelanda)…………………………………… 5 5 7 17 20 27 28 25 33 36 39 40 43 44 47 48 49 49 52 54 56 2. IL CASO VESUVIO…………………………………………………………... 60 2.1. LA TIPOLOGIA VULCANICA……………………………………………... 2.2. LA STORIA……………………………………………………………… 2.2.1 Premessa……………………………………………………… 2.2.2 L’eruzione delle pomici di Avellino………………………….. 2.2.3 L’eruzione del 79 d.C………………………………………… 2.2.4 L’eruzione del 1631………………………………………….. 61 62 62 66 67 70 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 2.2.5 L’eruzione del 1944………………………………………….. 2.3. IL PARCO NAZIONALE DEL VESUVIO……………………………............ 2.4. IL PIANO NAZIONALE DI EMERGENZA………………………………….. 2.4.1. L’eruzione di riferimento…………………………………….. 2.4.2. Le zone di rischio…………………………………………….. 2.4.3. Il Piano Nazionale di Emergenza…………………………….. 2.4.4. “Incertezze”…………………………………………………... 2.5. IL PROGETTO VESUVIUS 2000……………………………................... 73 77 80 80 81 84 88 89 3. IDENTIFICAZIONE E CARATTERIZZAZIONE DELLE AZIONI ECCEZIONALI CONSEGUENTI LE ERUZIONI……………………………… 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 3.5. 3.6. 3.7. PREMESSA………………………………………………………………. SISMA…………………………………………………………………... FLUSSI PIROCLASTICI…………………………………………………… PRECIPITAZIONI DI TEPHRA……………………………………………... COLATE DI LAVA………………………………………………………... ALLUVIONI DA COLATE DI FANGO E LAHAR……………………………... MAREMOTI (O TSUNAMI)……………………………………………….. 92 92 93 97 102 108 111 117 4. IDENTIFICAZIONE DELLE TIPOLOGIE DI COSTRUZIONE NELLA ZONA VESUVIANA…………………………………………………………………. 125 4.1. 4.2. 4.3. 4.4. EDIFICI IN MURATURA…………………………………………………... EDIFICI IN CEMENTO ARMATO…………………………………………... COSTRUZIONI MONUMENTALI IN MURATURA…………………………… COSTRUZIONI INDUSTRIALI……………………………………………... 4.4.1. Costruzioni prefabbricate in c.a. e in c.a.p…………………… 4.4.2. Edifici monopiano in acciaio………………………………… 4.5. PONTI E VIADOTTI………………………………………………………. 125 132 139 149 149 156 159 5. IL RISCHIO VULCANICO…………………………………………………… 164 5.1. PROCEDURA DI ANALISI DEL RISCHIO VULCANICO……………………… 5.1.1. Premessa……………………………………………………... 5.1.2. Il Rischio vulcanico…………………………………………... 5.1.3. Stime di rischio per l’area napoletana………………………... 5.2. PREVISIONE SCENARI…………………………………………………… 5.2.1. Premessa……………………………………………………… 5.2.2 Simulatore Vulcanico Globale………………………………. 5.2.3. Progetto Exploris……………………………………………... 164 164 166 168 172 173 174 176 5.2.4. Metodo LURR………………………………………………... 180 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 5.3. ANALISI DEI DANNI TIPICI SULLE STRUTTURE IN MURATURA E IN C.A…... 5.3.1. Premessa……………………………………………………… 5.3.2. Quadri fessurativi degli edifici in muratura………………….. 5.3.3. Quadri fessurativi degli edifici in c.a………………………… 183 183 184 186 6. ANALISI DI VULNERABILITÀ………………………………………………. 189 6.1. PROCEDURA SAVE……………………………………………………… 6.2.1. Premessa……………………………………………………… 6.2.2. Indice sintetico di danno medio………………………………. 6.2.3. Tipologie strutturali verticali…………………………………. 6.2.4. Peso dei parametri……………………………………………. 6.2. INDICI DI DANNO E DI VULNERABILITÀ NELL’INDAGINE POST-TERREMOTO DELLE CHIESE……………………………………….. 6.3. ESTENSIONE ALLA VULNERABILITÀ DA ERUZIONI VULCANICHE………… 189 189 189 191 193 7. ESEMPIO APPLICATIVO ANALISI PUSH-OVER……………………………. 198 7.1. PREMESSA………………………………………………………………. 7.2 MATERIALI……………………………………………………………… 7.3 RISULTATI ANALISI……………………………………………………... 198 199 201 GLOSSARIO…………………………………………………………………… 211 BIBLIOGRAFIA……………………………………………………………….. 221 194 197 Daniela De Gregorio matr.37/2246 1. LE ERUZIONI VULCANICHE 1.1. IL FENOMENO NATURALE Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 1.2.1. I VULCANI Figura 1. 1: Schema strutturale di un vulcano (Osservatorio Vesuviano) I vulcani rappresentano delle aperture nella crosta terrestre attraverso le quali il magma, una miscela incandescente di liquido, gas e cristalli che si trova all'interno della Terra, fuoriesce in superficie risalendo lungo un condotto detto di alimentazione (Figura 1.1). La zona di formazione dei magmi è detta sorgente. Essa si trova in genere nella parte superiore del mantello terrestre, ma può anche essere ubicata nella crosta profonda o 5 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio intermedia. I magmi, attraverso una serie di canali ad andamento verticale, possono risalire direttamente in superficie dalla zona sorgente oppure, molto più comunemente, si fermano nella crosta o al limite tra crosta e mantello (circa 35km di profondità) per formare dei serbatoi (camere magmatiche, Figura 1.2) all’interno dei quali subiscono un lento raffreddamento con cristallizzazione dei minerali. Di particolare interesse vulcanologico sono le camere magmatiche che si formano a bassa profondità (4÷5km) al di sotto di alcuni apparati vulcanici. In occasione di alcune grosse eruzioni effusive o esplosive, le camere magmatiche superficiali si possono svuotare quasi completamente. Ciò causa il crollo di parte del vulcano (Peccerillo). Figura 1. 2: Dettaglio della camera magmatica La superficie della Terra è costituita da una serie di placche rigide, le placche terrestri, in continuo movimento le une rispetto alle altre sotto la spinta delle forze interne della Terra. La maggior parte dei vulcani è concentrata lungo i margini delle placche che rappresentano delle zone preferenziali per la risalita del magma verso la superficie, ovvero per il verificarsi di un’eruzione. In ultima analisi, il magma riesce a risalire in superficie sotto l’azione delle forze di pressione e di galleggiamento dovute ai moti interni della Terra e alla presenza di gas disciolti nel magma stesso. La natura e lo stato del magma determinano la tipologia del vulcano (Osservatorio Vesuviano). Se il magma esce sotto forma di un liquido continuo con bolle di gas disperse, si formano delle colate di lava e il vulcano è detto di tipo effusivo (Figura 1.3a). Questo tipo di vulcano è caratterizzato da pendii lievi che si estendono anche decine di chilometri e spesso viene detto anche “vulcano a scudo”, poiché la forma raggiunta non è conica, ma appunto a scudo. L’Etna, ad esempio, appartiene a questa categoria. Viceversa, se il magma viene emesso in modo violento sotto forma di getti di gas e particelle liquide e 6 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio solide in esso disperse, il vulcano è di tipo esplosivo (Figura 1.3b). Questi vulcani sono caratterizzati da pareti più ripide e da una sommità simile a un tronco di cono e sono noti anche come “stratovulcani”. Il Vesuvio appartiene a questo secondo tipo anche se ha prodotto colate di lava nel suo passato. Esistono ovviamente numerosi comportamenti intermedi tra queste due categorie di vulcani che dipendono essenzialmente dal contesto geologico in cui si trova il vulcano stesso. a) b) Figura 1. 3: a) Eruzione effusiva . b) Eruzione esplosiva La frequenza delle eruzioni dipende dal tipo di vulcano. Vulcani di tipo effusivo possono essere in uno stato di attività continua o comunque eruttare con frequenza dell’ordine degli anni (ad esempio l’Etna), mentre vulcani di tipo esplosivo possono avere anche lunghi periodi di riposo (ad esempio il Vesuvio). In Italia abbiamo sia vulcani attivi di tipo prevalentemente esplosivo, come il Vesuvio, i Campi Flegrei e Ischia, sia vulcani di tipo effusivo come l’Etna, che rappresenta il vulcano attivo più grande d’Europa. Vi sono poi le Isole Eolie, dove Stromboli, Vulcano, Lipari e Panarea hanno eruttato negli ultimi 2000 anni circa. Nel Canale di Sicilia attività eruttiva ha interessato anche l’Isola di Pantelleria, in età preistorica, e l’Isola Ferdinandea, alla fine del 18° secolo. Infine, i Colli Albani, che hanno prodotto l’ultima eruzione intorno al 400 a.C. (Neri). 1.2.2. I PRODOTTI DELLE ERUZIONI EFFUSIVE Le lave sono magmi eruttati in superficie. Esse possono formare ampie colate oppure raffreddarsi immediatamente al di sopra del condotto vulcanico dando luogo a strutture 7 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio cupoliformi dette duomi lavici. Dal raffreddamento dei magmi si formano le rocce ignee (Peccerillo). Se il processo avviene all’interno della terra le rocce prendono il nome di rocce ignee intrusive. Se il raffreddamento avviene sulla superficie terrestre le rocce vengono dette ignee effusive. Le rocce ignee sono costituite da minerali di varia natura, tra cui i più importanti hanno composizione silicatica e sono rappresentati da olivina, anfiboli, pirosseni, biotite, feldspati e quarzo. Le proprietà fisiche dei magmi che rivestono maggiore importanza nella determinazione dei caratteri di una possibile eruzione sono, essenzialmente, la composizione chimica, la temperatura, la densità e la viscosità (Osservatorio Vesuviano). a. COMPOSIZIONE CHIMICA. Il componente chimico più abbondante in una roccia ignea (e quindi nel magma da cui deriva) è di gran lunga la silice, variando dal 35 all’ 80% circa in peso. In funzione del diverso contenuto in SiO2 è possibile classificare le rocce ignee secondo uno schema che può essere utile per una discussione circa le proprietà fisiche dei magmi. Sulla base di tale parametro si avranno, pertanto: - rocce acide, con contenuto in silice >63%; - rocce intermedie, con contenuto in silice compreso tra 63 e 52%; - rocce basiche, con contenuto in silice compreso tra 52 e 45%; - rocce ultrabasiche, con contenuto in silice <45%. Molti tipi di rocce differenti possono essere compresi in ognuna di queste classi, sicché essi potranno essere distinti sulla base di altri caratteri, quali il contenuto in alcali o la saturazione in allumina. La variazione di questi parametri si riflette sul comportamento reologico dei magmi e quindi, in definitiva, sulle caratteristiche delle eruzioni che essi possono alimentare. b. TEMPERATURA. I vari magmi presenti in natura possono essere caratterizzati da temperature estremamente variabili in funzione della composizione chimica e del contenuto in H2O e CO2: in generale magmi più basici sono caratterizzati da più alte temperature al momento dell’eruzione (nell’ordine dei 1000÷1200°C), mentre magmi più acidi sono caratterizzati da temperature mediamente più basse (nell’ordine 8 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio dei 700÷900°C). A parità di altre condizioni, un maggiore contenuto in componenti volatili (H2O o CO2 nella maggior parte dei casi) tenderà ad abbassare le temperature di solidus e liquidus di un fuso magmatico. c. DENSITÀ. La densità di un magma dipende anch’essa principalmente dalla sua composizione, con magmi basici mediamente più densi di magmi acidi, anche se l’effetto di temperature più alte può essere determinante nel ridurne il valore qualunque sia la composizione chimica. La densità inoltre dipende strettamente dalla pressione confinante, aumentando all’aumentare di quest’ultima. d. VISCOSITÀ. La viscosità può essere definita come la resistenza opposta da una sostanza a deformarsi sotto l’azione di una sollecitazione meccanica applicata. Si immagini di avere un fluido in quiete, confinato tra due piastre A e B (Figura 1.4). Se si impone alla piastra A una forza che produca un moto con velocità v=dx/dt, all’interno del flusso si stabilirà un gradiente di velocità pari a dv/dy. Il flusso cioè comincerà a muoversi con velocità maggiore in prossimità della piastra A, secondo una legge precisa. Figura 1. 4: La viscosità La forza applicata su A (F/A), sarà infatti proporzionale al gradiente di velocità dv/dy, secondo un coefficiente di proporzionalità chiamato viscosità μ: F / A = μdv / dy (1.1) In sintesi, la viscosità è un coefficiente che regola il moto di un fluido quando ad esso viene applicata una forza F. L’equazione (1.1) può essere scritta come: σ = σ 0 dv / dy (1.2) dove σ è uguale a F/A e dv/dy rappresenta la variazione di velocità lungo l’asse y. 9 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Tutti i fluidi che obbediscono all’equazione (1.2) vengono definiti newtoniani. Per essi la viscosità è indipendente dalla forza applicata, ed il rapporto tra forza e spostamento segue una legge lineare (Figura 1.5). Le sostanze newtoniane si deformano nel momento stesso in cui uno sforzo infinitesimale viene applicato: sostanze di questo genere sono ad esempio l’aria e l’acqua. Viceversa, sostanze in cui lo sforzo applicato non è in relazione lineare con la velocità di deformazione vengono definite sostanze non newtoniane o pseudoplastiche. Quando, invece, una relazione lineare tra sforzo e velocità di deformazione esiste a partire da un determinato valore di sforzo applicato che deve essere superato prima che si abbia una apprezzabile deformazione, si parla di comportamento non newtoniano di tipo Bingham, e le sostanze caratterizzate da questo tipo di comportamento, vengono definite sostanze di Bingham. Il valore di sforzo che deve essere superato perché in queste sostanze si realizzi una apprezzabile deformazione è detto soglia di snervamento. In generale le lave (e quindi i magmi da cui esse derivano) possono essere considerate con buona approssimazione come fluidi non newtoniani caratterizzati da una soglia di snervamento, molto simili ad un fluido di Bingham ideale. In generale, il moto di un fluidi è regolato dalla seguente equazione: σ = σ0 + μ dv n dy (1.3) in cui σ è lo sforzo di taglio totale e σ0 è la soglia di snervamento (per una sostanza di Bingham). Per sostanze Newtoniane σ0=0 ed n=1; per sostanze pseudoplastiche σ0=0 ed n<1; e per sostanze di Bingham σ0 ha un valore finito ed n=1 (Figura 1.5). Figura 1. 5: Flussi newtoniani e di Bingham 10 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 1. 6: Comportamento eruttivo dei magmi acidi e basici con diverso contenuto in gas Considerazioni sulla viscosità dei magmi sono importanti perché essa influenza la mobilità e la forma di lave eruttate come fluidi coerenti non frammentati, e perché influenza la velocità di vescicolazione che rappresenta un fattore di importanza determinante nel momento in cui ci si approssima ad una fase di frammentazione esplosiva del magma. La viscosità, inoltre, unitamente alla soglia di snervamento di un fluido, oltre a controllare la fluidità di un corpo lavico, ne può determinare anche la geometria e la morfologia. Lave basiche, fluide e ricche in gas (Figura 1.6A) danno eruzioni effusive accompagnate da fenomeni esplosivi di modesta entità quali jet di lava alti fino a molte centinaia di metri (fontane di lava); le stesse lave, se povere in gas, danno eruzioni effusive tranquille senza apprezzabili fenomeni esplosivi (Figura 1.6B). Le lave acide, viscose ricche in gas danno eruzioni esplosive di alta energia (Figura 1.6C); le stesse lave, se povere in gas, danno duomi lavici o colate di modesto spessore (Figura 1.6D). Figura 1. 7: Struttura degli accumuli di lave a cuscino sottomarine 11 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Tra colate basiche subaeree, invece, vale la pena citare due tipologie morfologiche estreme indicate con i termini hawaiani pahoehoe e aa (Giacomelli). Figura 1. 8: Colate di tipo pahoehoe Le COLATE DI TIPO PAHOEHOE sono costituite da lave che derivano da magmi basici molto fluidi che solidificano formando una superficie liscia o con strutture a corde più o meno regolari (Figura 1.8). Le corde consistono in corrugazioni della superficie alte pochi centimetri che si formano per lo stiramento della sottile crosta superficiale provocato dal movimento del materiale sottostante ancora fluido (Figura 1.9a). Se il flusso di lava è arginato lateralmente, ai bordi si crea una resistenza allo scorrimento, sia per l’attrito che per la perdita di calore più rapida al contatto con le rocce fredde, mentre la parte centrale può muoversi più velocemente. In questo modo le corde si curvano secondo l’andamento della corrente. Il rapido raffreddamento della parte esterna delle lave pahoehoe permette di camminare sopra un flusso ancora in movimento e con temperature intorno ai 1000° C nella sua parte più interna (Figura 1.9b). Il significato del termine hawaiano esprime proprio questa proprietà dei flussi con superfici lisce. Con la distanza dal cratere, lo spessore della crosta fredda superficiale aumenta e funziona sulla lava sottostante come un coperchio che rallenta la dispersione del calore. Il raffreddamento della superficie della colata parte dalle zone laterali e si propaga verso in centro del flusso e in direzione della corrente fino a formare un vero e proprio tubo freddo al cui interno continua a scorrere la lava calda. 12 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio La formazione di tubi mantiene la lava calda e fluida, condizioni che le consentono di percorrere lunghe distanze. I flussi pahoehoe, a parità di alimentazione al cratere, possono raggiungere distanze maggiori rispetto a quelle di altre colate. a) b) Figura 1. 9: a)Lava pahoehoe a corde del Vesuvio. b)Colata pahoehoe Etna Quando il flusso di lava comincia a diminuire e il tubo è riempito solo in parte dal materiale caldo, dal soffitto possono formarsi strutture simili a stalattiti per il gocciolamento della lava incrostata. La forma è come quella di un candelotto di ghiaccio oppure di un bastoncino ricoperto di gocce rotondeggianti di lava liquefatta dai vapori e dal calore del flusso che scorre a un livello più basso. A eruzione ultimata, i tubi di lava spesso restano vuoti, formando complessi sistemi di gallerie. La volta del canale può cedere e collassare, creando sulla superficie lunghe depressioni. La formazione di tubi è una caratteristica delle lave pahoehoe e difficilmente in altri tipi di flussi si formano tunnel così ampi e numerosi. Il fronte di una colata di lava pahoehoe che si allarga sul terreno ha i bordi leggermente sollevati rispetto al suolo, in quanto l’attrito rallenta il movimento della parte basale. La parte superiore può anche avanzare e scavalcare quella sottostante. 13 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Quando diverse colate pahoehoe di piccolo spessore, da qualche centimetro a poche decine di centimetri, si susseguono rapidamente e si sovrappongono, solidificano formando una serie di piccoli gradini. La superficie di una colata pahoehoe può anche essere fratturata in lastroni irregolari, con dimensioni di alcuni metri (Figura 1.10). Questo si verifica quando la superficie fredda può diventare molto spessa come, ad esempio, in un tratto pianeggiante dove il flusso rallenta. La lava defluisce e crea un vuoto sotto la crosta che può fratturarsi. In altri casi, la crosta può essere spinta e rotta contro ostacoli nei punti in cui il flusso riprende velocità. Le lastre di crosta fredda possono essere basculate, trascinate e ammucchiate una sull’altra o anche essere inglobate nuovamente nella lava fluida. Figura 1. 10: Lava a lastroni, Etna I flussi di lava pahoehoe, essendo molto fluidi, si muovono rapidamente e, se di piccolo spessore, avanzano rotolando con un movimento regolare. Quelli più grossi sono meno mobili e si muovono formando grosse lingue rotondeggianti di lava. L’incontro di irregolarità del terreno, o un incremento nel flusso al cratere, può aumentare la spinta della massa calda interna e rompere la parte esterna in via di solidificazione. Dal punto di rottura fuoriesce materiale caldo che avanza sul terreno formando digitazioni, lingue e lobi rapidamente solidificati all'esterno, ma ancora caldi all’interno. Il nucleo caldo può rompere nuovamente la crosta e produrre un altro getto di lava e altri ancora in successione, fino a che le lingue diventano piccole, si raffreddano completamente e si fermano. Molti flussi di lave pahoehoe avanzano in questo modo, per protrusione di una lingua di lava da un’altra. 14 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Quando una colata pahoehoe incontra degli alberi, questi vengono avvolti dal flusso e spesso lasciano nella lava l’impronta del tronco simile a un pozzo cilindrico (lava tree molds). Le strutture pahoehoe sono caratteristiche delle colate dei grandi vulcani hawaiiani, ma si sviluppano in ogni tipo di lava con viscosità sufficientemente bassa. E’ frequente il caso di colate con strutture pahoehoe vicino al cratere, quando sono ancora molto calde, che cambiano stile con la distanza. Le COLATE DI TIPO AA (Figura 1.11) sono colate più spesse delle pahoehoe, presentano la superficie ricoperta da detriti prodotti dall’autobrecciatura della crosta, costituiti da blocchi di lava con spigoli vivi (detti anche clinker) e con dimensioni fino ad un metro (Giacomelli). Figura 1. 11: Colata aa Sono colate meno fluide delle pahoehoe o per differenza di composizione chimica (più acide) o per una differenza di temperatura (meno calde). Una lava può essere molto fluida vicino alla bocca eruttiva e assumere le caratteristiche di un flusso aa solo con la distanza. Ovviamente, tranne che in alcune strutture a piccola scala, non si verifica il contrario. La velocità di queste colate è in genere di qualche metro all’ora e comunque inferiore a quella delle lave pahoehoe. Raramente, se non vicino alla bocca dove il canale di scorrimento è abbastanza stretto, le colate aa formano tubi entro i quali il magma scorre mantenendo alte temperature. I blocchi che ricoprono la superficie delle colate aa sono in gran parte pezzi di crosta rigida che viene fratturata dal movimento del materiale caldo sottostante (autobrecciatura). La formazione della crosta fredda attraversa diversi stadi lungo il tragitto del flusso, condizionata dalle variazioni di temperatura e di viscosità della lava. 15 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Vicino alla bocca, la temperatura è così alta che la lava ha un colore rosso-arancio, senza crosta superficiale. Dopo pochi metri, si forma una sottile crosta vetrosa, di colore grigio, ricoperta da filamenti e con strutture pahoehoe come corde e ondulazioni. Entro un altro breve tratto, comincia a formarsi una superficie irregolare con protrusioni di dimensioni decimetriche che danno alla colata l’aspetto irregolare di un cavolfiore (cauliflower aa). Le forme rotondeggianti sono ricoperte da strutture millimetriche, dette spine, tipiche delle lave aa con forma a cavolfiore. Dopo le strutture a cavolfiore si formano delle brecce con frammenti più grandi e meno spigolosi. Il tratto di colata ricoperto da brecce prende il nome di flusso brecciato (rubbly aa). I frammenti meno spigolosi derivano da altri formatisi in precedenza e abrasi dagli urti, ma nella maggior parte dei casi i blocchi si formano per autobrecciatura della crosta solida. I blocchi del flusso brecciato presentano una superficie ricoperta di piccole sporgenze quasi angolari, simili a granelli di zucchero. Una decina di centimetri sotto la superficie, i blocchi possono essere immersi in una matrice fine formata da questi granelli, staccati dai frammenti soprastanti e caduti verso il basso. La parte basale della colata, a contatto con il terreno, è più fredda di quella soprastante e avanza più lentamente. Per questo motivo, la zona superiore del fronte tende a sporgere, a frantumarsi e a far ricadere il detrito davanti alla massa che avanza e ai suoi lati. La formazione di detrito e la sua caduta davanti al flusso continua per tutto il percorso della colata e la lava scorre costantemente sopra il proprio detrito. In flussi lenti il fenomeno si osserva facilmente, ma il processo è uguale anche in colate veloci. Il fronte di una colata aa è composto da materiale fuso in movimento e da pezzi di materiale solido che vengono trasportati (Figura 1.12). Figura 1. 12: Fronte colata tipo aa 16 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Un flusso di lava aa compie gran parte del suo percorso del vulcano incanalato entro argini (levées) la cui forma, dimensione e struttura evolvono al progredire dell’eruzione. Il movimento del fronte di una colata avviene spingendo in avanti i frammenti solidi e estrudendo tra il detrito pezzi di lava incandescente che possono avere la forma di strati soffici o di protrusioni viscose. Gli strati soffici hanno spesso strutture pahoehoe e avanzano anche di alcuni metri, fino a che il fronte li riprende. Le protusioni viscose sono blocchi, anche di diversi metri, che si strappano e ricadono dal fronte. La caduta è accompagnata da cascate di granuli incandescenti che, al microscopio, appaiono di forma cubica. Se una colata ha un fronte molto ampio, questo tende a dividersi in lobi. I lobi possono avanzare tutti con la stessa velocità oppure alcuni possono rallentare e fermarsi e il flusso si concentra in un fronte più stretto. Un fronte può dividersi in lobi anche quando più flussi confluiscono in uno solo o per la rottura di un argine o quando la colata incontra un ostacolo e si divide per aggirarlo. 1.2.3. I PRODOTTI DELLE ERUZIONI ESPLOSIVE Nelle eruzioni vulcaniche esplosive il rapido rilascio e la decompressione dei gas magmatici, o l’istantanea vaporizzazione di acqua esterna, determina la frammentazione del magma prima che questo venga a giorno e la sua espulsione sotto forma di una vasta gamma di prodotti piroclastici. Se la frammentazione del magma è dovuta alla sola espansione esplosiva dei volatili contenuti nel magma, l’eruzione è detta magmatica (Figura 1.13a). Se la frammentazione avviene con il contributo di acqua di origine esterna (acqua di falda o superficiale) che, venendo a contatto con il magma vaporizza espandendosi in maniera esplosiva, l’eruzione viene detta freatomagmatica (Figura 1.13b). Nel caso in cui si abbia una esplosione dovuta alla sola vaporizzazione di acqua di falda, senza che in superficie vengano eruttati frammenti del magma che innesca l’esplosione, allora l’eruzione è definita freatica (Osservatorio Vesuviano). Nelle eruzioni esplosive si distingue la cosiddetta colonna eruttiva, costituita da una dispersione gas-solido che si innalza verticalmente a partire dal centro eruttivo, sotto una 17 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio spinta iniziale dovuta ai gas magmatici, e che, successivamente, in maniera convettiva risale fino ad un’altezza alla quale comincia ad espandersi lateralmente, subendo in questo l’azione del vento che tende a disperdere la nube in una direzione piuttosto che in un’altra. a) b) Figura 1. 13: Eruzioni esplosive magmatiche (a) e freatomagmatiche (b) In base a questa definizione è possibile dividere una colonna eruttiva in tre tronchi (Osservatorio Vesuviano): una porzione inferiore sostenuta dalla spinta iniziale dei gas in rapida espansione per decompressione; una parte superiore in cui l’instaurarsi di moti convettivi dovuti al rilascio di energia termica da parte dei gas magmatici e delle particelle juvenili, determina una ulteriore risalita della colonna fino ad un livello, detto di galleggiamento neutrale, in cui la densità della sospensione gas-solido eguaglia quella dell’atmosfera circostante; una parte definita ombrello, in cui la colonna si espande radialmente e/o nella direzione del vento dominante, continuando a salire fino ad una altezza massima sotto l’azione della sua quantità di moto (Figura 1.14). I piroclasti sono il prodotto della frammentazione del magma nel corso di una eruzione vulcanica esplosiva. In base alle loro dimensioni essi vengono distinti in: blocchi o bombe, con dimensioni maggiori di 64mm; lapilli, con dimensioni comprese tra 2 e 64mm; ceneri, con dimensioni inferiori a 2mm Queste ultime possono essere a loro volta suddivise in: ceneri grossolane, con dimensioni comprese tra 0,0625 e 2mm; e ceneri fini, con dimensioni inferiori a 0,0625mm. L’accumulo di questi frammenti determina la formazione dei depositi piroclastici. 18 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 1. 14: Porzioni della colonna eruttiva Esistono tre tipi basilari di depositi piroclastici, classificati in base al meccanismo di trasporto e deposizione dei clasti. Essi sono: depositi piroclastici da caduta, da flusso e da surge. a. In un’eruzione esplosiva, gli elementi clastici, formatisi a seguito dell’esplosione che determina la frammentazione del magma, sono scagliati nell’atmosfera. Una parte di essi ricade al suolo sotto l’azione della gravità dopo un trasporto più o meno lungo secondo traiettorie balistiche; altri sono compresi a far parte della colonna eruttiva che risale verticalmente attraverso l’atmosfera e che, espandendosi, si libera del carico solido a diversa distanza dal centro eruttivo. In entrambi i casi il deposito che si forma a seguito dell’accumulo delle particelle solide sotto la semplice azione della forza di gravità, si definisce DEPOSITO PIROCLASTICO DA CADUTA. Essi possono formarsi anche a seguito della deposizione delle particelle solide che formano le nubi cineritiche coignimbritiche. I costituenti fondamentali dei depositi piroclastici da caduta possono essere suddivisi in juvenili e non juvenili a seconda che essi derivino dalla frammentazione del magma che alimenta l’eruzione o che derivino dalla frammentazione di rocce preesistenti. 19 Daniela De Gregorio matr.37/2246 b. I DEPOSITI PIROCLASTICI DA FLUSSO Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio sono quelli rilasciati da dispersioni gas-solido ad elevata concentrazione di particelle, che si spostano lungo la superficie sotto l’azione della gravità. Tali flussi sono caratterizzati da elevate temperature, possono essere parzialmente fluidizzati e, come regola generale, sono controllati dalla topografia, incanalandosi lungo le valli e colmando le depressioni. Tuttavia certi flussi pomicei particolarmente violenti, messi in posto a velocità estremamente elevate, hanno la capacità di sormontare barriere topografiche anche di alcune centinaia di metri di altezza. c. I SURGES PIROCLASTICI sono dispersioni solido-gas molto espanse, turbolente, a bassa concentrazione di particelle, che fluiscono lungo la superficie terrestre essendo solo in parte influenzate dalla topografia. Il flusso è generalmente instabile ed effimero e si realizza a seguito di un impulso (o di una serie di impulsi) la cui energia cinetica decresce rapidamente. 1.2.4. LA CLASSIFICAZIONE DELLE ERUZIONI ESPLOSIVE Il primo studio che descrive e classifica le eruzioni vulcaniche esplosive in relazione ai depositi da caduta fu effettuato da Walker nel 1973 (Figura 1.15). Figura 1. 15: Schema di classificazione delle eruzioni in base all’indice di dispersione (D) e all’indice di Frammentazione (F) secondo Walker 20 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Egli costruì uno schema quantitativo che si basa su un’accurata misurazione degli spessori dei depositi da caduta e sull’analisi granulometrica degli stessi per determinare due parametri: la dispersione (D) ed l’indice di frammentazione (F) del deposito (Figura 1.15). La dispersione di un deposito da caduta (D) è definita come l’area racchiusa nella isopaca che raccorda i punti in cui lo spessore del deposito è pari all’1% dello spessore massimo. La frammentazione (F) invece è definita come la percentuale di particelle più fini di 1mm, nel punto in cui l’asse di dispersione del deposito interseca l’isopaca che raccorda i punti in cui il deposito ha uno spessore pari al 10% dello spessore massimo. Questo schema di classificazione di Walker è di tipo genetico e prevede una prima distinzione in due gruppi delle eruzioni esplosive (Figura 1.16). Figura 1. 16: Diagramma dell’altezza della colonna eruttiva in funzione dell’esplosività (grado di frammentazione) Il primo gruppo comprende eruzioni magmatiche che, in ordine crescente di dispersione e frammentazione, possono così essere schematizzate: ERUZIONI HAWAIIANE, STROMBOLIANE, SUB-PLINIANE, PLINIANE ed ULTRAPLINIANE. Il secondo gruppo comprende le eruzioni freatomagmatiche e comprende due sole categorie: ERUZIONI SURTSEYANE ed ERUZIONI FREATOPLINIANE. Questi due tipi di eruzione occupano il settore del diagramma di Walker a più elevato grado di frammentazione, mentre un tipo intermedio di eruzione in cui l’interazione tra acqua e magma gioca un ruolo più o meno importante, che comprende le ERUZIONI VULCANIANE, si colloca in una porzione centrale del diagramma (Osservatorio Vesuviano). 21 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio ERUZIONI HAWAIIANE. Tipiche dei vulcani delle Isole Hawaii, sono eruzioni caratterizzate da abbondanti effusioni di lava, aventi viscosità molto bassa, che danno origine a vulcani a scudo. Questi vulcani possono presentare una caldera sommitale al cui interno può ristagnare un lago di lava (Figura 1.17a). All’inizio dell’eruzione i gas possono trascinare per poche centinaia di metri in altezza brandelli di lava fusa dando luogo a fontane di lava (spatter) che spesso, ricadendo al suolo si agglutinano; il magma arriva in superficie degassato e forma, insieme con tutto ciò che ricade dalla fontana, un torrente di lava molto fluida che scorre lungo le pendici del vulcano. Le eruzioni hawaiiane sono caratterizzate da una bassa esplosività e manifestano scarsa efficienza nella conversione dell’energia termica in energia meccanica, quindi gran parte dei prodotti è poco frammentata e dispersa su aree limitate. a) b) Figura 1. 17: Eruzione hawaiiana: a)Ristagno lago di lava. b)Fontana e colate di lava Nell’attività di tipo hawaiiano (Figura 1.17b) la colonna eruttiva è essenzialmente costituita da una fontana di lava che, salvo casi particolari, non supera i 200m di altezza, ed è prodotta dall’emissione di getti di lava in via di frammentazione. ERUZIONI STROMBOLIANE. Sono eruzioni tipiche del vulcano attivo di Stromboli (Isole Eolie), caratterizzate dal susseguirsi di brevi esplosioni durante le quali brandelli di magma incandescente vengono lanciati in aria e ricadono nelle vicinanze della bocca eruttiva (Figura 1.18). I gas si espandono tumultuosamente, provocando fontane di lava alte fino a 2km nelle fasi avanzate dell’eruzione. L’attività stromboliana vera e propria deriva da una successione di esplosioni singole, separate da intervalli di tempo brevi da 1 ora a pochi minuti. Si ipotizza che quest’attività sia dovuta all’esplosione di singole bolle di gas di dimensioni rilevanti che, muovendosi in un magma poco viscoso, raggiungono la 22 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio superficie libera del magma esplodendo. Se l’intervallo di tempo tra un’esplosione e la successiva è tale da consentire la solidificazione della superficie esposta della lava nel condotto, nel corso della seguente fase esplosiva, la crosta così formata sarà distrutta, generando lastroni e blocchi di lava rappresa che vengono scagliati e depositati assieme agli altri piroclasti. Se le esplosioni si susseguono in rapida successione, è possibile che si formi una colonna eruttiva sostenuta che può raggiungere l’altezza di una decina di chilometri. Figura 1. 18: Eruzione stromboliana. Stromoli, ottobre 1997 I prodotti di questa attività esplosiva sono caratterizzati da una frammentazione relativamente modesta del magma con una percentuale di cenere fine relativamente scarsa (Walker, 1973). Le eruzioni stromboliane producono caratteristici depositi da caduta di scorie; se la caduta di scorie assume una certa consistenza, le scorie saldandosi possono dar luogo a bastioni. ERUZIONI VULCANIANE. L’attività durante queste eruzioni è caratterizzata da un numero variabile di esplosioni discrete separate da intervalli temporali di pochi minuti o di ore. Queste esplosioni, che sono di brevissima durata, quasi dei colpi secchi simili a cannonate, producono una serie di piccole colonne eruttive, alte 5÷10km (Figura 1.19), formate da particelle molto sottili che vengono facilmente disperse dai venti, garantendo dispersioni anche piuttosto elevate (porzione centrale del diagramma di Walker). Le eruzioni di tipo vulcaniano sono caratterizzate da un magma più viscoso rispetto al caso delle eruzioni stromboliane. Questo comporta che i gas si muovano verso la superficie con molta più difficoltà e che la lava, nella parte alta del condotto, si solidifichi. Di conseguenza i gas riescono a fuoriuscire una volta raggiunta una pressione elevata rompendo l’ostruzione con un’esplosione violenta, tanto da coinvolgere a volte la sommità 23 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio stessa del cono vulcanico. Il magma che erutta trascina con sé numerosi brandelli della vecchia ostruzione mentre dal cratere si alza una gran nube a forma di fungo, di colore scuro per la grande quantità di ceneri vulcaniche trasportate in sospensione da gas e da vapori. Figura 1. 19: Eruzione vulcaniana. Le nuvole piroclastiche che scorrono lungo i fianchi sono surge e colate piroclastiche Le eruzioni vulcaniane derivano il loro nome dall’Isola di Vulcano nell’arcipelago delle Eolie, dove sono avvenute eruzioni con queste caratteristiche. ERUZIONI PLINIANE. Si definisce con il termine pliniana (da Plinio il Giovane, che per primo ne descrisse una nell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.) un’eruzione particolarmente violenta che produce la fuoriuscita dal condotto di un getto di gas ad alta velocità carico di pomici e ceneri; queste originano una colonna eruttiva alta da alcuni chilometri fino ad alcune decine di chilometri (Figura 1.20), che garantisce una accentuata dispersione areale (D>500km2) dei depositi da caduta. Le eruzioni pliniane sono eventi ad alta energia in cui un flusso turbolento e continuo, approssimativamente stazionario, di magma frammentato e gas viene rilasciato nell’atmosfera. Il tasso eruttivo nel corso di una eruzione pliniana è controllato dal gradiente di pressione tra la camera magmatica e la superficie, dalle dimensioni del condotto e dalla viscosità e contenuto in volatili del magma. Molto spesso le singole 24 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio eruzioni pliniane sono caratterizzate da un progressivo aumento del tasso erutivo: questo fatto va messo in relazione col progressivo aumento del diametro del condotto in seguito all’erosione dovuta alla miscela in rapida risalita. I prodotti di molte eruzioni pliniane indicano la transizione da una attività di caduta ad una di flusso, generalmente attribuita al collasso della colonna eruttiva. Figura 1. 20: Eruzioni pliniane Le maggiori eruzioni pliniane conducono spesso alla espulsione rapida di talmente tanto magma sotto l’edificio vulcanico, che questo tende a collassare parzialmente o totalmente per formare una grande depressione detta caldera, di forma in genere circolare. La rimozione del magma conduce alla perdita del supporto strutturale della roccia sovrastante, portando al collasso del suolo ed alla formazione della grande depressione. Le caldere sono quindi diverse dai crateri, che sono in generale depressioni più piccole, ancora spesso circolari, ma create direttamente da fenomeni esplosivi nel corso di una eruzione. ERUZIONI SUB-PLINIANE. Si tratta di eruzioni con depositi da caduta che differiscono da quelli precedentemente descritti, principalmente in termini di dispersione (D compreso tra 5 e 500km2) e di volume. L’aspetto di un deposito subpliniano è molto simile a quello di un deposito pliniano ma, talora, può essere maggiormente evidente una stratificazione interna dovuta a variazioni granulometriche che riflettono una maggiore instabilità della colonna eruttiva. ERUZIONI ULTRAPLINIANE. Sono le eruzioni con più alto grado di esplosività e di conversione dell’energia termica in energia meccanica. 25 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio I depositi ultrapliniani, costituiti prevalentemente da materiale fino, presentano le stesse caratteristiche di quelli pliniani, ma con volumi (fino a 1000 km3) e dispersioni (>500km2) molto maggiori. Tali depositi sono connessi con la formazione di colonne eruttive che possono raggiungere altezze di circa 50 km. Figura 1. 21: Eruzione surtseyana ERUZIONI SURTSEYANE. Quando l’acqua esterna ha accesso al condotto, come per esempio in un lago o in un mare relativamente basso, l’esplosività dell’eruzione può aumentare dando luogo ad una minuta frammentazione del magma. Tali eruzioni prendono il nome di surtseyane, dall’attività vulcanica eruttiva che ha dato luogo alla formazione dell’Isola islandese di Surtsey, 1963-1967 (Figura 1.21). Quando le colonne eruttive sono limitate e l’area di dispersione ridotta, l’indice di frammentazione dei prodotti è sempre molto alto (F è circa il 100%), per le condizioni di esplosività create dall’interazione acqua-magma. ERUZIONI FREATOPLINIANE. Il termine freatopliniano è stato introdotto in letteratura come corrispondente idrovulcanico di pliniano. Le eruzioni freatopliniane danno luogo a alte colonne eruttive (di altezza comunque inferiore a quella delle corrispondenti eruzioni magmatiche) il cui sostentamento è spesso impedito dalla bassa temperatura della miscela gas-particelle. La dispersione dei depositi da caduta featopliniani è molto ampia e la 26 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio frammentazione è prossima al 100%. I depositi sono spesso finemente laminati e, in zona prossimale sono intercalati a depositi da surge e da flusso piroclastici. 1.2. I VULCANI SUL TERRITORIO ITALIANO 1.2.1. PREMESSA I vulcani italiani attivi sono quelli siciliani (Isole Eolie, Etna e Canale di Sicilia) e quelli campani (Vesuvio, Campi Flegrei e Ischia), oltre ai Colli Albani. (Figura 1.22, Tabella 1.1). Figura 1. 22: Vulcani attivi in Italia (Osservatorio Vesuviano) 27 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio I termini per stabilire se un vulcano inattivo deve essere considerato definitavamente spento o meno non sono molto precisi essendo i tempi di un vulcano, e in generale i tempi geologici, troppo lunghi per l’osservazione umana. Ritenere che un vulcano non tornerà in attività richiede una certa cautela, dal momento che si conoscono vulcani i cui periodi di riposo si sono protratti per molte centinaia di anni (Giacomelli). HMAX [m] ULTIMA ERUZIONE COLLI ALBANI 949 11.400 anni fa VESUVIO 1281 1944 CAMPI FLEGREI 458 1538 ISCHIA 789 1302 STROMBOLI 926 Attività persistente LIPARI 602 729 VULCANO 500 1888-90 ETNA 3350 03/2005 ISOLA FERDINANDEA -8 1831 PANTELLERIA 836 1891 Tabella 1. 1: Altezza massima ed ultima eruzione dei vulcani italiani attivi (Osservatorio Vesuviano) Di seguito si riporta una descrizione dei vulcani italiani attivi, rimandando al Capitolo 2 per il Vesuvio. 1.2.2. COLLI ALBANI Figura 1. 23: I Colli Albani I Colli Albani (Figura 1.23) sono considerati un vulcano quiescente, cioè un vulcano in cui il tempo trascorso dall’ultima eruzione è inferiore a quello intercorso in media tra una fase eruttiva e la successiva: l’ultima fase eruttiva risale a circa 30.000 anni fa, con la deposizione del Peperino di Albano, un tufo granulare di consistenza litoide già largamente usato dai romani come materiale da costruzione e decorativo (lapis albanus), mentre i cicli eruttivi si sono alternati con pause di circa 45.000 anni (Di Buduo). 28 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio L’EVOLUZIONE DEI COLLI ALBANI. L’attività vulcanica ha avuto inizio circa 600.000 anni fa ed è stata caratterizzata dall’alternarsi di eruzioni esplosive ed effusive in tre distinte fasi succedutesi nel corso del tempo. Alla prima metà della storia eruttiva appartengono depositi di colate piroclastiche (come quelle che hanno investito Pompei), depositi da ricaduta e colate laviche, emessi da un grande edificio vulcanico, che rappresentano insieme il 70% del volume totale dei prodotti albani (fase del Tuscolano-Artemisio). Tali depositi rappresentano anche quelli caratterizzati dalla più ampia diffusione areale e si ritrovano diffusamente nell’area urbana di Roma. Al termine di questa prima fase lo svuotamento della camera magmatica ha comportato il collasso della parte centrale del vulcano e la formazione di una vasta depressione, la Caldera Tuscolano-Artemisia: il grande anello che circonda la parte centrale dei Colli Albani rappresenta ciò che rimane dell’originario apparato vulcanico centrale (Figura 1.24). A partire da circa 300.000 anni fa l’attività vulcanica è ripresa all’interno della caldera (fase delle Faete), portando alla costituzione di un piccolo stratovulcano (edificio delle Faete), ma con emissione di un volume di prodotti notevolmente inferiore. Merita però menzione la colata di Capo di Bove sulla quale corre la via Appia Antica (regina viarum) per circa 10 km: tale colata lavica si arresta in corrispondenza della tomba di Cecilia Metella (dove sono presenti dei fregi che raffigurano delle teste di bue, da cui il nome), dove l’Appia Antica sale sul fronte della colata con una brusca pendenza, e rappresenta, assieme alle altre lave di composizione simile, il materiale con cui i Romani pavimentavano con grossi blocchi le strade (basolato) e di cui sono costituiti i famosi sampietrini. L’ultima fase vulcanica dei Colli Albani è avvenuta a partire da circa 200.000 anni fa sul versante occidentale, in corrispondenza di diversi crateri di varia grandezza (Albano, Nemi, Ariccia, Prata Porci, Castiglione, etc.) oggi in parte occupati da laghi. Esplosioni parossistiche ad altissima energia con materiale magmatico ricco di gas (fase freatomagmatica) hanno prodotto depositi caratterizzati da ceneri finissime con inclusi delle rocce attraversate, come il già citato Peperino di Albano. 29 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 1. 24: Modello digitale del terreno dell’area dei Colli Albani (Di Buduo) FENOMENI. L’area dei Colli Albani è notoriamente una zona sismogenetica: i periodi di attività più intensa si ripetono all’incirca ogni 30 anni e raggiungono intensità massime dell’ VIII grado della scala Mercalli a causa della bassa profondità degli ipocentri (le zone nel sottosuolo dove si originano i sismi), compresi tra i 2 e i 6 km, in corrispondenza delle zone dove sono avvenute le eruzioni più recenti (laghi di Albano e di Nemi, e altri crateri eccentrici). Misurazioni condotte lungo una linea di capisaldi hanno permesso di evidenziare un fenomeno di deformazione lenta del suolo, analogo a quello di molti vulcani considerati attivi, con sollevamenti fino a 30cm in circa 50 anni (il tasso di sollevamento è diminuito negli ultimi anni). 30 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Un fenomeno interessante è il trabocco delle acque del Lago di Albano, che ha provocato fino in epoca romana violenti episodi di alluvionamento nella zona di Ciampino. A tale fenomeno è forse ascrivibile la realizzazione del canale di drenaggio del Lago di Albano, alle soglie del IV secolo a.C., ed anche un precedente simile intervento da parte degli Etruschi. La risalita del livello del lago è probabilmente dovuta all’immissione di ingenti volumi di CO2 e di acque calde sul fondo durante eventi sismici, con conseguente risalita in superficie delle acque profonde e liberazione di gas, fino alla fuoriuscita dell’acqua dal bordo più basso del cratere prospiciente la piana di Ciampino e l’innesco di imponenti flussi di detrito (debris flows). La zona dei Castelli Romani è interessata da un reticolo idrografico ben sviluppato; i corsi d’acqua hanno approfondito le proprie valli durante lo stazionamento basso del livello marino nel corso dell’ultima epoca glaciale (fino a -110 metri rispetto all’attuale); nella zona di Ciampino (chiamata infatti piana di Ciampino) i depositi delle colate hanno riempito le depressioni, generando una vasta zona pianeggiante allungata verso nord-ovest, su cui tra l’altro è stato realizzato l’aeroporto. Le manifestazioni più evidenti e conosciute del vulcanismo dei Colli Albani sono, però,le emanazioni gassose dal sottosuolo (Figura 1.25). Figura 1. 25: Modalità di infiltrazione dei gas all’interno delle abitazioni (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) 31 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio I gas che vengono liberati sono diossido di carbonio (anidride carbonica, CO2), disolfuro di idrogeno (H2S) e radon (Rn): tutti e tre questi gas sono pericolosi per gli esseri viventi e ad elevate concentrazioni (CO2 e H2S) possono essere addirittura mortali, mentre il radon e i prodotti del suo decadimento sono la principale causa di esposizione alla radioattività naturale e rappresentano la seconda causa per tumore al polmone nel mondo dopo il fumo. L’emissione dei gas dal sottosuolo avviene in maniera all’incirca continua in corrispondenza di fratture lungo le quali essi risalgono verso la superficie, ma può subire un incremento in concomitanza di eventi sismici o per cause antropiche, come scavi per fondazioni e realizzazioni di pozzi. Le zone di maggior emissione sono storicamente conosciute e costantemente monitorate, come per esempio Cava dei Selci nel comune di Marino. Questi gas sono più pesanti dell’aria e quindi in mancanza di ventilazione ristagnano nelle depressioni: all’aperto possono essere dannosi soprattutto per la vegetazione e per gli animali, mentre nelle abitazioni possono affluire lungo piccole fratture nel suolo o da tubi e condutture e ristagnare presso il pavimento nei locali seminterrati. Il radon viene anche rilasciato dai blocchi di lava e di tufo con cui sono costruiti i muri, in seguito al decadimento di elementi radioattivi contenuti in piccole percentuali nei prodotti vulcanici. Anidride carbonica e radon sono incolori e insapori, mentre il disolfuro di idrogeno è facilmente individuabile a causa del caratteristico odore di uova marce. Le norme di comportamento (a cura del Dipartimento Protezione Civile, dell’I.N.G.V. e dei Comuni di Marino e di Ciampino) sono le seguenti: aerare sempre i locali, chiusi da molto tempo, prima di accedervi (cantine, garage, lavatoi); non utilizzare locali interrati e seminterrati per attività abitative, lavorative, ricreative e soprattutto per ricovero notturno; vietare l’accesso negli scantinati ai bambini, se non accompagnati da adulti; dotare i locali interrati e seminterrati di un impianto di ventilazione forzata, per garantire un’adeguata circolazione dell’aria e impedire pericolosi accumuli di gas tossici negli ambienti chiusi; evitare la permanenza prolungata in strutture depresse, eventualmente presenti all’esterno delle abitazioni (piscine vuote, canali di raccolta delle acque, cisterne interrate, pozzi, etc.) e accedervi con grande prudenza, avendo l’accortezza che all’esterno della struttura vi sia qualcuno in grado di portare soccorso. 32 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 1.2.3. CAMPI FLEGREI I Campi Flegrei sono un’area vulcanica della Campania, formata da una serie di vulcani monogenici cresciuti all’interno di una caldera (Figura 1.26). Figura 1. 26: I Campi Flegrei L’attività vulcanica della zona a Nord-Ovest di Napoli, dove sono collocati i Campi Flegrei, inizia intorno a 150.000 anni fa, sull’isola d’Ischia e successivamente sull’isola di Procida, mentre nei Campi Flegrei veri e propri le prime manifestazioni sono avvenute probabilmente più tardi e in ambiente sottomarino (Giacomelli). L’area deve essersi poi lentamente sollevata e le lave del Monte di Cuma sono state eruttate in ambiente subaereo. Intorno a 34.000 anni fa, in una gigantesca eruzione, forse la maggiore avvenuta in Italia nel Quaternario, vennero eruttati di circa 80km3 di magma. I prodotti di questa eruzione, chiamati Ignimbrite Campana, ricoprono tutta la Campania con spessori fino a oltre cento metri e si ritrovano sui primi versanti dell’Appennino fino a quote di 600÷800m. 33 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Differenti pareri considerano l’Ignimbrite Campana prodotta da una sola eruzione localizzata nei Campi Flegrei o da più eventi e da diversi centri eruttivi. I prodotti successivi all’Ignimbrite Campana, formano una successione di tufi, con un’età compresa fra 21.000 e 14.000 anni, che si ritrovano nella città di Napoli e al bordo occidentale dei Campi Flegrei. Intorno ai 12000 anni fa un’altra grossa eruzione, o una serie di eruzioni, sconvolsero la zona. Il deposito di questa fase eruttiva, il cui volume è stimato dell’ordine dei 20÷50km3, è chiamato Tufo Giallo Napoletano. Dopo questa eruzione l’area collassò, formando la caldera dei Campi Flegri. L’attività post-calderica è testimoniata sul bordo della caldera dal cono di tufo del Gauro, datato circa 10.000 anni. Una grossa eruzione pliniana, detta delle Pomici Principali, avviene nell’area orientale dei Campi Flegrei intorno a 8.000 anni fa. Probabilmente questa eruzione esplosiva è stata seguita dall’eruzione che ha costruito l’attuale isola di Nisida e forse anche da un’altra sul cui bordo craterico relitto si è formata successivamente la Solfatara di Pozzuoli. Dopo questi eventi, la formazione di un suolo umificato (paleosuolo) indica una stasi di attività. Intorno a 6.000 anni fa, la parte centrale dei Campi Flegrei comincia a sollevarsi. Il movimento del suolo è testimoniato a Pozzuoli da uno strato di sedimenti marini rialzato sopra il livello del mare di circa 40m. Questo fenomeno non è esclusivo dei Campi Flegrei: in numerose caldere si osserva, dopo le grandi eruzioni che causano il collasso del tetto della camera magmatica, un rigonfiamento della parte centrale della caldera che viene ricollegato alla risalita verso livelli più superficiali del magma non ancora eruttato. Fra 4.500 e 3.500 anni fa, nei Campi Flegrei l’attività eruttiva ritorna intensa. Si collocano in questa fase le eruzioni di Astroni e di Monte Spina. Sembra anche probabile che nello stesso punto si siano succedute eruzioni di stile diverso, come nel caso di Astroni, dove l’effusione di un duomo lavico è seguita da una fase esplosiva, senza variazione nella composizione chimica dei prodotti. Il cratere del Senga mostrava tre distinti recinti vulcanici, a testimonianza di diversi eventi esplosivi succedutisi nello stesso punto. Anche il cratere della Solfatara e il duomo di Monte Olibano sono collegati a un solo sistema di alimentazione e la formazione di un duomo lavico precede anche l’eruzione esplosiva di Monte Spina. 34 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Le ultime eruzioni di questa fase sono quelle di Senga e di Averno. Ancora non si hanno datazioni sicure dei vulcani che si trovano sulla direttrice che va da Capo Miseno all’Averno, ma nuovi dati archeologici indicano che almeno uno di questi (Fondi di Baia) si è formato in epoca recente, in quanto i suoi prodotti ricoprono un insediamento dell’Età del Bronzo. Molte eruzioni dei Campi Flegrei sono state di tipo esplosivo, probabilmente causate dal contatto del magma con acqua esterna. E’ difficile dire se l’acqua derivasse da falde acquifere sotterranee o se, almeno in parte, l’area non si trovasse in ambiente di mare basso o lacustre. Va ricordato che tutta la zona di Agnano, fino all’inizio del secolo, era un lago. Ad esempio, l’eruzione di Astroni dopo le fasi esplosive ha una fase finale effusiva. Può essere che, dopo l’interazione con acqua esterna e le fasi esplosive, fosse venuta a cessare l’interazione con l’acqua o per esaurimento della falda, o perchè il recinto vulcanico appena costruito impediva all’acqua del lago circostante di giungere a contatto con il magma. Dopo questa fase di attività, segue un lungo riposo e il suolo, nella parte centrale dei Campi Flegrei, si abbassa lentamente. In epoca romana, la continua subsidenza costrinse a incessanti lavori di riparazione e bonifica della via Erculea che correva davanti al lago Lucrino. Gli edifici romani che si trovavano lungo la costa furono lentamente sommersi e, intorno al IX secolo d.C., la città di Pozzuoli giaceva sommersa sotto un braccio d’acqua. Questo fenomeno, cui venne dato il nome di bradisismo (un termine che deriva dal greco e che significa lento movimento del suolo), è probabilmente legato al progressivo riaggiustamento del sottosuolo dopo l’emissione dei grandi volumi di magma che era avvenuta nelle eruzioni precedenti. Intorno al 1502 gli abitanti di Pozzuoli notarono che si andavano formando nuovi lembi di spiaggia. Nel 1536 si cominciarono ad avvertire dei terremoti nella città che divennero continui e violenti nell’ultima settimana del settembre 1538. Il 27 e 28 settembre il mare parve ritirarsi dal villaggio Tripergole, in prossimità del lago d’Averno. All’una di notte del 29 settembre, vicino al mare si formò un rigonfiamento dal quale fuoriusciva acqua fredda. Rapidamente quest’acqua si trasformò in una nube di vapore mista a fango che si innalzava nel cielo formando una caratteristica colonna a fungo. In pochi giorni l’eruzione costruì una montagnola alta circa 130m che venne 35 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio chiamata, con scarsa immaginazione, Monte Nuovo e che rappresenta l’ultimo evento eruttivo dei Campi Flegrei. 1.2.4. ISCHIA L’isola d’Ischia è un campo vulcanico che si erge per circa 900m dal fondo del mare, nella parte nord-occidentale del Golfo di Napoli. Essa copre un’area di circa 42km2 e raggiunge un’altezza massima sul livello del mare di 787m, in corrispondenza del Monte Epomeo (Figura 1.27), situato nella parte centrale dell’isola. Figura 1. 27: L’isola di Ischia Quest’ultimo non è un edificio vulcanico ma bensì il risultato del sollevamento di rocce vulcaniche avvenuto negli ultimi 30.000 anni. La maggior parte dell’isola è costituita da depositi di eruzioni sia effusive che esplosive che hanno costruito edifici vulcanici alcuni dei quali ancora ben visibili, altri del tutto smantellati o sepolti. Molto diffusi sono anche i 36 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio depositi di frane derivanti dall’accumulo e la cementazione di frammenti di rocce vulcaniche preesistenti (Osservatorio Vesuviano). L’evento che ha segnato indelebilmente la storia geologica dell’isola è senza dubbio l’eruzione del Tufo Verde dell’Epomeo. Tale eruzione, avvenuta circa 55.000 anni fa, determinò lo sprofondamento della parte centrale dell’isola, con la formazione di una caldera. Successivamente a questa eruzione l’attività vulcanica è stata condizionata da un complesso fenomeno di risorgenza del fondo calderico, iniziato circa 30.000 ani fa, che ha portato al sollevamento delle rocce depositatesi nella caldera (inizialmente sommersa dal mare) fino a formare l’attuale Monte Epomeo (alto 787m). Gli studi condotti hanno reso possibile una suddivisione della storia vulcanica dell’isola nel modo seguente. VULCANISMO PIÙ ANTICO DELL’ERUZIONE DEL TUFO VERDE DELL’EPOMEO. Sin da 150.000 anni (età delle rocce più antiche datate) si registra attività vulcanica sull’isola, anche se sono visibili in affioramento rocce più antiche di cui non è nota l’età. Verosimilmente esisteva un complesso vulcanico, oggi in buona parte eroso e sepolto, i cui resti si rinvengono nel settore sud-orientale dell’isola. I prodotti dell’attività successiva alla formazione di questo complesso sono costituiti da piccoli duomi lavici situati lungo le coste dell’isola ed hanno un’età compresa tra 150.000 e 74.000 anni. ERUZIONE DEL TUFO VERDE DELL’EPOMEO (55.000 ANNI) . L’eruzione, fortemente esplosiva, del Tufo Verde dell’Epomeo è responsabile della formazione di una caldera che verosimilmente occupava la zona in cui oggi si trova la parte centrale dell’isola. L’eruzione del Tufo Verde determinò la formazione di flussi piroclastici che andarono a colmare parzialmente la depressione calderica, frattanto invasa dal mare, ed a ricoprire in parte le zone allora emerse. Il Tufo Verde depositato in ambiente subacqueo è attualmente esposto al M. Epomeo e si distingue per la tipica colorazione verde dovuta al lungo contatto con l’acqua di mare. Il Tufo Verde depositato in ambiente subaereo, è attualmente esposto al M. Vico, a Sant’Angelo ed alla Scarrupata di Barano, lungo la periferia dell’isola; esso non presenta colorazione verde. 37 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio VULCANISMO DI ETÀ COMPRESA TRA 55.000 E 33.000 ANNI. Dopo l’eruzione del Tufo Verde, l’attività vulcanica è proseguita con una serie di eruzioni esplosive, fino a circa 33.000 anni fa. Le rocce originate nel corso di queste eruzioni sono esposte lungo le falesie tra S. Angelo e Punta Imperatore, a Citara e a Monte Vico. Esse sono attribuite a centri eruttivi che erano ubicati lungo i margini sud-occidentale e nord-occidentale dell’isola. VULCANISMO DI ETÀ COMPRESA TRA 28.000 E 18.000 ANNI. L’attività vulcanica, iniziata con l’eruzione di Grotta di Terra avvenuta circa 28.000 anni fa lungo la costa sud-orientale dell’isola, è continuata sporadicamente fino a 18.000 anni fa, con eruzioni effusive ed esplosive. Le rocce appartenenti a questo periodo di attività sono ben esposte alla Grotta di Terra, Grotta del Mavone, al M. di Vezzi, nell’area di S. Anna e Carta Romana, a M. Cotto, Campotese e tra Punta Imperatore e Sant’Angelo. VULCANISMO DI ETÀ INFERIORE A 10.000 ANNI. Il terzo periodo di attività è cominciato circa 10.000 anni fa, dopo un periodo di stasi relativamente lungo, ed è proseguito anche in epoca storica con una serie di eruzioni, di cui l’ultima avvenuta nel 1302 d.C. determinando la formazione della colata lavica dell’Arso. Questo periodo è stato caratterizzato da un’intensa attività vulcanica sia effusiva che esplosiva. La maggior parte dei centri eruttivi attivi in questo periodo è situata nella depressione posta ad est del M. Epomeo e comprende Selva del Napolitano, M. Trippodi, Costa Sparaina, area di Cantariello, Posta Lubrano, M. Rotaro, Fondo d’Oglio e Montagnone, Punta La Scrofa, Cafieri, S. Alessandro, Ischia Porto, Vateliero, Cava Nocelle, Molara, Arso e Fondo Bosso. Solo alcuni centri, come ad esempio quelli da cui si sono originati la colata lavica di Zaro e il deposito piroclastico dell’unità di Chiarito, sono ubicati al di fuori dell’area descritta. 1.2.5. STROMBOLI Stromboli è un isola di formazione molto recente (Figura 1.28), l’ultima fra le Eolie ad essere emersa dal mare. Probabilmente la sua nascita è stata preceduta da quella dello Strombolicchio, un piccolo vulcano di cui l’ultimo resto è lo scoglio isolato nel mare, ad una distanza di 1,5Km dall’isola attuale. Questo scoglio rappresenta ciò che resta della lava 38 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio consolidatasi nel condotto eruttivo, mentre il conico vulcanico, costituito da materiali piroclastici incoerenti e da piccole colate laviche posati su di essi, è stato completamente demolito dal mare. Figura 1. 28: Isola di Stromboli In quanto allo Stromboli si riconosce nella sua storia, sia attraverso la morfologia, sia attraverso la differenziazione delle lave, due periodi nettamente distinti. Nella prima fase, fra 40.000 e 12.000 anni fa, si è formato un regolare cono vulcanico, che ha raggiunto l’altezza di quasi mille metri: è il Paleo Stromboli. Le sue lave sono molto simili a quelle dello Strombolicchio, che si potrebbe quindi considerare come un suo cono avventizio. Infatti la profondità marina fra questo e l’isola di Stromboli non supera i venti metri. Il vulcano così formatosi è in realtà la parte sommatale di un edificio vulcanico che, seguitandone il più o meno regolare pendìo, scende fino alla profondità di 3000m dal livello marino. Quindi è un vulcano di dimensioni simili all’Etna, di cui non si vede altro che il cocuzzolo. Ad un certo momento la metà Nord Ovest del Paleo Stromboli è sprofondata nell’abisso. Il Vulcano è stato sezionato quasi assialmente. Ma su questo 39 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio sprofondamento è sorto ben presto un altro vulcano, che si è venuto ad appoggiare a ciò che rimaneva del precedente, senza raggiungerne l’altezza: è il Neo Stromboli, al quale appartiene il cratere attualmente attivo. Anche il Neo Stromboli ha dei centri eruttivi secondari, come la Sciara del Fuoco, un piano inclinato sul quale, dall’altezza di 700m, rotolano fino al mare i materiali lanciati in aria dalle intermittenti esplosioni del cratere o scendono le lave di periodiche eruzioni (Figura 1.29). La Sciara, che a livello del mare presenta un’ampiezza di circa 1Km, continua ininterrotta al disotto del livello marino fino ad una profondità di almeno 500m. Di qui si assiste allo straordinario spettacolo offerto dal cratere, nella quale sono oggi aperti cinque bocche eruttive, dalle quali escono le fiamme o nelle quali si vedono ribollire le lave fuse. Stromboli ha infatti un’attività vulcanica particolarissima che dura ininterrotta attraverso i millenni: è un continuo succedersi di esplosioni, ora dall’una ora dall’altra delle sue bocche, che lanciano in aria brandelli di lava incandescente. Questi ricadono all’intorno o rotolando lungo la Sciara. Le esplosioni si succedono con ritmo abbastanza regolare, che può variare da pochi minuti a qualche ora, sempre accompagnate da impressionanti fragori e da emissioni di nuvole di gas, che investono gli escursionisti togliendo il respiro, ma che in generale, spinte dal vento, passano rapidamente. Figura 1. 29: Sciara del Fuoco, Stromboli 1.2.6. LIPARI E’ questa l’isola che da il nome a tutto l’arcipelago, essendo la più grande (37.6km2) e anche la più complessa dal punto di vista vulcanologico, in quanto composta da un numero 40 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio molto alto di centri, anche monogenici (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Catania). L’isola si eleva da un fondale di circa 1000m ed è allineata in direzione circa N-S con le isole di Salina e Vulcano, alle quali è anche legata da una moltitudine di apparati vulcanici sottomarini. La vetta più alta è il Monte Chirica (602m s.l.m.), ma l’altezza media di tutta l’isola si aggira intorno ai 200m. A 100m di profondità è presente un vasto terrazzo marino sommerso, testimonianza di antiche oscillazioni eustatiche. La morfologia di Lipari si presenta molto articolata per la presenza degli edifici conici di M.te S. Angelo e M.te Pilato nel settore centrale e settentrionale, di quella di vaste strutture cupoliformi in quello meridionale e di depressioni vulcano-tettoniche legate ai collassi dei centri di Monte Guardia, Monte Giardina e Timpone del Corvo. L’attività magmatica subaerea, iniziata 223.000 anni fa, è continuata fino al 580 d.C. Al momento sono presenti solamente delle manifestazioni fumaroliche a bassa temperatura (80÷90° C) nei settori a mare antistanti la costa occidentale e quella orientale, e varie manifestazioni termali in località Vallone Ponte e Timponi Pataso ed Ospedale. L’evoluzione vulcanologica dell’isola è stata studiata nel dettaglio da molti autori tra i quali, però, non c’è accordo nella suddivisione delle sequenze stratigrafiche in cicli eruttivi. In realtà, è possibile operare una prima grossolana suddivisione utilizzando come fattore discriminante un lungo periodo di stasi eruttiva avvenuta da 150.000 a 100.000 anni fa, durante il quale si sono formati il conglomerato di erosione ed i terrazzi marini. All’interno di queste due fasi principali è possibile riconoscere l’attività di vari apparati eruttivi. FASE PRE-EROSIVA. Periodo I (da 223.000 a 150 anni fa). Durante questo periodo iniziale si sono formati una serie di vulcani monogenici, i cui prodotti affiorano lungo la costa occidentale dell’isola. I prodotti emessi sono lave autobrecciate e scorie di ricaduta fittamente attraversati da dicchi. Periodo II (da 150.000 a 92.000 anni fa). Questo ciclo è iniziato dopo una breve stasi, con l’edificazione degli stratovulcani centrali di Monte Chirica-Costa d’Agosto e Monte S. Angelo. I periodi di attività sono stati vari e le vulcaniti sono scorie e scorie saldate, piroclastiti freatomagmatiche, debris flow, e colate laviche. Durante questo periodo si è 41 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio inoltre verificato un collasso strutturale, parzialmente colmato, successivamente, da depositi lacustri. FASE POST-EROSIVA Periodo III (42.000 a 22.400 anni fa). L’attività è ripresa nel settore meridionale con la messa in posto di pomici e/o scorie, duomi endogeni, e spessi cineriti idromagmatiche per tutta l’isola. Su questi ultimi sono state deposte le lave delle nuove cupole Monte Guardia, Monte Giardina, Castello di Lipari, S. Lazzaro, Falcone, Capparo, Capistrello. Alla fine di questa sequenza è avvenuto un collasso tettonico che ha interessato il fianco meridionale del vulcano di Monte S. Angelo. Periodo IV (11.000 a 8.000 anni fa). Nel settore settentrionale di Lipari si è formato il tuffring di Gabellotto. Dopo una stasi di circa 3000 anni, si è formato un cono di brecce pomicee dal quale è fuoriuscita la colata di ossidiana lobata di Forgia Vecchia. L’ultima attività, una serie di eruzioni esplosive che hanno formato il cono di pomici di Monte Pilato (Figura 1.30) con la colata di ossidiana di Rocche Rosse (tra 1400 e 1300 anni fa), è stata localizzata nell’area settentrionale dell’isola. L’evoluzione dell’attività sull’isola è avvenuta mediante una progressiva migrazione dell’ubicazione dei centri eruttivi dai settori orientali a quelli occidentali; nell’ambito di ogni singolo ciclo, si può osservare che i vari apparati che si sono formati sono allineati in direzione NW-SE, lungo la linea tettonica Tindari-Letojanni. Figura 1. 30: Lipari 42 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 1.2.7. VULCANO Vulcano, l’antica Hierà (sacra), un tempo dimora del dio dei venti Eolo, è l’isola più a sud dell’arcipelago eoliano ed è la più vicina alla Sicilia, (12 miglia da Capo Milazzo). E’ separata dalla vicina Lipari da un canale largo circa 1,6km. La sua superficie è di 21km2. Dal punto di vista geologico, l’isola è formata da 4 vulcani: Lentia, Vulcano Piano, Fossa di Vulcano e Vulcanello. L’unico da considerarsi ancora attivo è il Vulcano della Fossa (Figura 1.31), che è rimasto in fase fumarolica. L’attività vulcanica di quest’isola fu nota fino dall’antichità ai greci e ai romani, che ne furono fortemente impressionati. Le eruzioni del vulcano, intercalate da periodi di quiescenza durante i quali si mantenne una più o meno intensa attività fumarolica, furono prevalentemente di materiali piroclastici. Durante l’eruzione del 1739 si ebbe l’emissione di una colata di ossidiana, detta delle pietre cotte, che si può osservare sul versante nord-ovest della Fossa. Figura 1. 31: Vulcano della Fossa L’ultima violenta eruzione del secolo scorso, durata dall’agosto del 1888 al marzo del 1890, diede nome all’attività che è definita vulcaniana, caratterizzata dall’esplosione del tappo che ostruiva il condotto e dal lancio di bombe a crosta di pane. Da allora, il vulcano è rimasto in fase fumarolica limitatamente al cono della Fossa e all’interno del suo cratere; vulcanologi e geologi continuano a considerare Vulcano un’ottima palestra per i loro studi. 43 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Altre manifestazioni di natura vulcanica sono presenti nella zona di Porto Levante: si tratta di fanghi bollenti e fumarole sottomarine, sfruttati soprattutto nella cura delle forme reumatiche. L’isola ha circa 470 abitanti, che si chiamano vulcanari. 1.2.8. ETNA L’Etna, avente un volume di circa 500km3, è il vulcano attivo più grande d’Europa e uno tra i più grandi del mondo. La sua base ha una forma quasi ovale di circa 1.600 km2, con l’asse maggiore, in direzione Nord-Sud, lungo circa 60 km e quello minore, in direzione Est-Ovest, di circa 40 km. Almeno una delle numerose bocche presenti sul Cratere Centrale è quasi sempre attiva con emissione di lava o fuoriuscite di cenere e gas. Quando il magma si trova a livelli più profondi e non si verificano eruzioni, le bocche del Cratere Centrale sono soggette a frequenti franamenti che determinano le continue variazioni di forma subite dalla cima dell’Etna, la cui altezza, nel 1994, era di 3.321 m s.l.m. (Giacomelli, Pesaresi). L’Etna è considerato un vulcano composito (o strato-vulcano). Il termine definisce le strutture vulcaniche con pendenza dei fianchi progressivamente maggiore verso l’alto, per il continuo accumulo di prodotti derivanti da alternate fasi esplosive ed effusive intorno ad una bocca eruttiva centrale. La definizione non è, però, prettamente appropriata per l’Etna, costituito prevalentemente da colate laviche. La pendenza dei suoi fianchi deriva da una moderata attività persistente al Cratere Centrale che determina, mediante piccole colate, il più rapido accrescimento della parte sommatale rispetto a quello della zona basale, interessata solo dalla sporadica attività laterale. L’ampio e complesso apparato Etneo è il risultato di diverse fasi di attività alternate a periodi di riposo e di erosione; i punti di risalita del magma tendono, inoltre, a spostarsi nel tempo conferendo al vulcano la forma irregolare attuale. L’attività vulcanica nell’area etnea è iniziata in epoche geologiche relativamente recenti, tra 700.000 e 500.000 anni or sono, e si è sviluppata attraverso varie fasi. Le eruzioni dell’Etna sono prevalentemente di tipo effusivo; l’attività esplosiva è limitata a sporadiche fasi vulcaniane, e a ben più frequenti manifestazioni di tipo stromboliano con tipica emissione di fontane laviche. 44 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Solo alcuni depositi non recenti sono formati da prodotti piroclastici derivanti da attività esplosiva vera e propria. Per questo motivo l’Etna è considerato un vulcano relativamente poco pericoloso. L’attività stromboliana è la più comune forma di attività esplosiva dell’Etna. I lanci di brandelli di magma possono raggiungere altezze di alcune centinaia di m. La massima quota raggiunta dalle bombe è di 500 m e solo sporadiche violente esplosioni hanno lanciato brandelli di magma a più di 700 m di altezza. Ogni esplosione stromboliana è generalmente accompagnata da un forte boato. Un’attività stromboliana particolarmente violenta è stata registrata nell’agosto del 1979 presso il Cratere di SE, nel corso della quale brandelli di magma con dimensioni prossime al metro sono stati lanciati a circa 300 m di distanza dal cratere; a 500 m di distanza sono state trovate, invece, bombe di mezzo m. Durante la stessa eruzione, lapilli di 1-2 cm sono ricaduti in zone sottovento a 3,5 km di distanza e la cenere si è riversata fino all’aeroporto di Catania, a 29 km dal vulcano. Per quanto concerne l’attività effusiva, occorre distinguere tra le eruzioni che si presentano sulla superficie terrestre e quelle che invece avvengono sott’acqua. Le lave emesse in ambiente subacqueo consolidano velocemente al contatto con l’acqua e tendono a formare strutture rotondeggianti, dette lave a cuscino o pillow, ricoperte da una sorta di crosta vetrosa dovuta al rapido raffreddamento, con presenza di fessurazioni radiali causate dalla pressione esercitata dai gas che tendono a fuoriuscire. Le colate di lava subaeree, invece, vengono indicate con differenti termini di origine hawaiana a seconda delle strutture che presentano in superficie: lave6 pahoehoe e lave aa. Relativamente alle colate laviche subaeree è importante sottolineare che molte colate emesse dall’Etna hanno una superficie di tipo aa. In alcuni casi, la lava è molto viscosa già vicino alla bocca eruttiva perché possiede una temperatura relativamente bassa, come nel caso di una breve e spessa colata emessa nella prima fase dell’eruzione laterale del 1974. Più frequenti sono le colate che presentano strutture di tipo pahoehoe (caratterizzate da maggiore fluidità) vicino alla bocca eruttiva, o nei pressi di bocche effimere, e che diventano aa (più viscose) solo dopo un certo tragitto. La durata dell’eruzione ha una grande influenza sulla forma finale della colata. La durata media delle eruzioni laterali all’Etna è di 22 giorni, ma vi sono episodi che si sono esauriti in poche ore e altri che si sono protratti per mesi, e addirittura per anni. L’attività iniziata al Cratere di NE nel gennaio del 1966, ad esempio, si protrasse per oltre 5 anni. 45 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 1. 32: Etna, eruzione del 26 ottobre 2002 46 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio L’eruzione più duratura, poi, è stata quella laterale del 1614-1624 che formò un vasto campo di lave pahoehoe. Mediamente le eruzioni laterali dell’Etna fanno registrare tassi di emissione (volume di magma emesso in un secondo) di 8m3/s. L’attività persistente è caratterizzata, invece, da tassi di emissione inferiori ad 1m3/s. La misurazione esatta di questo dato è comunque molto difficile. In linea generale, è opportuno ricordare che le eruzioni dell’Etna con alti tassi di emissione (circa 20m3/s) sono di breve durata, mentre quelle con bassi tassi di emissione (meno di 10 m3/s) sono più prolungate nel tempo. Il volume totale di lava che viene emesso nel corso di un’eruzione laterale dell’Etna è mediamente di 0,03km3. La maggior parte delle eruzioni più voluminose ha avuto volumi inferiori a 0,15 km3 e poche eruzioni storiche hanno fatto registrare volumi più rilevanti. In Figura 1.32 è riportata l’eruzione del 26 Ottobre 2002, considerata la più grande eruzione esplosiva in tutta Europa degli ultimi secoli, ben più intensa di quella del Vesuvio del 1944. 1.2.9. ISOLA FERDINANDEA L’isola Ferdinandea, chiamata anche Julia o Graham, si è formata durante una breve eruzione sottomarina nel 1831 nel Canale di Sicilia. L’eruzione con caratteri idromagmatici, ha portato alla rapida costruzione di un rilievo vulcanico esclusivamente piroclastico alto poche decine di metri sopra il livello del mare (Figura 1.33). La mancanza di una adeguata copertura lavica ha privato l’isola di una protezione dai flutti che, in effetti, l’hanno smantellata completamente nel giro di pochissimi mesi (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Catania). Figura 1. 33: Isola Ferdinandea (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) 47 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Dalla fine dell’eruzione, varie crociere oceanografiche si sono succedute con l’intento di cartografare il fondale di quella zona e di monitorare una eventuale ripresa dell’attività vulcanica. Attualmente, ciò che rimane dell’isola vulcanica è un banco vulcanico ubicato a 37°09'48",95 di latitudine N e 12°43'06",85 di longitudine E, con la sommità che occupa un’area di circa 30m2, con profondità variabile dagli 8 ai 12m e fondali circostanti molto irregolari che, a circa 200m dall’apice del banco, precipitano considerevolmente. 1.2.10. PANTELLERIA L’isola di Pantelleria, con un’area di 84km2 sorge nello Stretto di Sicilia, a circa 100km dalla costa sudorientale della Sicilia e a soli 70 km dalle coste del Nord Africa. E’ ubicata nel Rift di Pantelleria, il cui fondo è costituito da crosta continentale (con uno spessore di soli 20÷21km) e rappresenta la parte emersa di una struttura vulcanica costituita da lave e depositi piroclastici. Pertanto, comprendendo anche la parte sommersa, l’apparato vulcanico è complessivamente alto circa 1400m. Geologicamente, l’isola si compone di due porzioni separate da un sistema di faglie orientate NE-SW, che costituiscono una discontinuità crostale lungo la cresta assiale del rift. Nel settore nord-ccidentale affiorano colate laviche basaltiche, che hanno generato sequenze spesse anche più di 100m, la cui emissione, avvenuta tra 118.000 e 29.000 anni fa, è stata controllata dalla apertura di fratture orientate NW-SE. Nel settore sudorientale si trovano quasi esclusivamente rocce siliciche e peralcaline associate a strutture calderiche di età compresa tra 324.000 e 4.000 anni fa. La storia geologica di Pantelleria si suddivide in due parti principali, la prima precedente alla messa in posto del Tufo Verde e la seconda successiva. La storia successiva all’emissione del Tufo Verde è stata suddivisa in sei cicli silicici, a volte intercalati con eruzioni basaltiche. Il Tufo Verde rappresenta il primo ciclo. L’attività eruttiva più recente risale al 1831 ed è avvenuta in corrispondenza di un sistema di fratture eruttive subacquee, ubicate a circa 4km a nord dell’attuale porto di Pantelleria. Inoltre, sull’isola è presente un termalismo diffuso, rappresentatato da fumarole (Favara Grande, Grotta del Bagno Asciutto, Fossa della Pernice, Cuddia di Mida) e sorgenti di 48 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio acque calde (Bagno dell'Acqua, Porto di Scauri, Nicà, Punta S. Gaetano e Gadir). In virtù di questi elementi, il vulcanismo sull’isola è tutt’altro che estinto. Figura 1. 34: Pantelleria, Monte Gibele 1.4. I VULCANI NEL MONDO 1.4.1. PREMESSA I vulcani presenti sulla terra non sono distribuiti in modo uniforme sulla superficie terrestre ma il 99% di loro sono concentrati in alcune aree particolari che tra l’altro sono sede anche di frequenti terremoti (Figura 1.35). Le aree interessate al fenomeno del vulcanesimo possono essere cosi suddivise: 1. DORSALI MEDIO-OCEANICHE. Le dorsali sono quelle aree rilevate presenti sui fondali oceanici. Esse emettono soprattutto magmi basaltici, dando origine alla crosta dei fondali oceanici. La dorsale medio-atlantica affiora con l’Islanda sopra il livello del mare per cui questo tipo di vulcanesimo può essere agevolmente studiato. 49 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Una delle ultime eruzioni spettacolari verificatasi in Islanda e stata quella che ha dato origine all’isola di Surtsey nel 1963. Altri vulcani con caratteristiche analoghe si trovano in collegamento con la grande fossa tettonica africana che con ogni probabilità rappresenta, assieme al mar Rosso, una nuova dorsale medio-oceanica in via di formazione. A questo gruppo appartengono i vulcani della Dancalia (Etiopia) come l’Erta ’Ale e i grandi vulcani centro-africani come il Kilimangiaro e il Nyamiagira. Figura 1. 35: Mappa dei vulcani (Global Volcanism Program) 2. CINTURA DI FUOCO CIRCUMPACIFICA. E’ l’area meno tranquilla di tutta la terra dove sono concentrati più del 60% dei vulcani attivi e dove si sono registrati più del 70% dei terremoti verificatisi tra il 1904 e il 1952. Si tratta della fascia che borda tanto le coste orientali che quelle occidentali dell’oceano Pacifico dove la concentrazione così elevata di vulcani giustifica il nome di cintura di fuoco. I vulcani qui presenti emettono sia lave di tipo basaltico sia lave più acide di tipo andesitico e questi ultimi manifestano frequentemente attività a carattere esplosivo. La costa americana del Pacifico presenta i sistemi montuosi di recente formazione 50 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio delle Montagne Rocciose e delle Ande, le cui cime più alte sono di origine vulcanica. A titolo di esempio si ricordano: il S. Elia (Alaska), il Cotopaxi e il Kimborazo (Messico), l’Aconcagua (Cile). La costa occidentale del Pacifico è bordata da una serie di arcipelaghi di forma arcuata, chiamati archi insulari, la cui struttura fondamentale è costituita da vulcani molti dei quali sono ancora attivi o lo sono stati in epoca storica. In ordine, da nord a sud, troviamo: le isole Aleutine, le isole Kurili, il Giappone, le Filippine, l’Indonesia, le isole della Melanesia e la Nuova Zelanda. Tra i numerosi vulcani presenti in questa parte della cintura di fuoco ricordiamo: il Bezymianny (penisola di Kamchatka), il Fujyama (Giappone), il Tambora e il Kraka-toa (Indonesia). 3. PUNTI CALDI. Si tratta di aree oceaniche (o talora continentali) in cui troviamo allineamenti di edifici vulcanici. Questi allineamenti di vulcani sono in collegamento con getti o pennacchi (in inglese: plume) di materiale caldo in grado di risalire dalle zone profonde del mantello, che, perforando la litosfera, generano in superficie dei vulcani. Questi plume sono fissi nel mantello e di conseguenza, intanto che una placca di litosfera vi scorre sopra muovendosi in una certa direzione, si origina tutta una serie di vulcani che saranno sempre più antichi mano a mano che ci si allontana da quello attualmente attivo. Uno degli esempi più noti di plume in area oceanica è quello che sta sotto le isole Hawaii e che è attivo da più di 70 milioni di anni. Secondo il Catalogo dei Vulcani Attivi del Mondo i vulcani attivi del mondo vengono suddivisi nelle seguenti 19 regioni. Regione 1: dall’Europa al Caucaso; Regione 2: Africa e Mar Rosso; Regione 3: Medio Oriente e Oceano Indiano); Regione 4: Nuova Zelanda e isole Fiji; 51 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Regione 5: Melanesia e Australia; Regione 6: Indonesia e Isole Andatane; Regione 7: Filippine e Asia SE; Regione 8: Giappone, Taiwan e Isole Marianne; Regione 9: Isole Kurili; Regione 10: Kamchatcka e Asia continentale; Regione 11: Alaska; Regione 12: Canada e USA Occidentale; Regione 13: Hawaii e Oceano Pacifico; Regione 14: Messico e America Centrale; Regione 15: Sud America; Regione 16: Indie Occidentali; Regione 17: Islanda e Oceano Artico; Regione 18: Oceano Atlantico; Regione 19: Antartide e Isole Sandwich Meridionali. Di seguito si riporta, per semplicità, la descrizione di alcuni vulcani tra i più pericolosi. 1.4.2. MERAPI (INDONESIA) L’Indonesia, predominantemente montagnosa, ha circa 500 vulcani, di cui circa 100 attivi, tra questi solo poco più di una ventina hanno manifestato una rilevante eruzione negli ultimi trenta anni. Il Merapi è uno stratovulcano tra i più attivi dell’intero pianeta ed è situato nella parte centrale dell’isola di Giava che con 120 milioni di abitanti è una delle isole più popolate del Mondo. La città di Yogyakarta, con una popolazione di 3 milioni di abitanti, dista solo 25km a Sud del Merapi. In caso di una grande eruzione, circa un milione di persone sono da considerarsi a rischio, ed altre 70.000, in zone rurali a ridosso del vulcano, sono a massimo rischio. Il vulcano Merapi, caratterizzato da eruzioni piuttosto violente, per il suo alto livello di pericolosità è considerato uno tra i 16 meno raccomandabili vulcani al Mondo. Il Merapi contiene nella sommità un duomo craterico attivo ed instabile che spesso 52 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio collassa parzialmente generando flussi piroclastici. Questi flussi possono scendere per 13km e raggiungere velocità di 110Km/h, creando con i depositi il materiale per possibili lahars (valanghe di fango). A causa dei frequenti collassi il Merapi è il vulcano al Mondo che ha generato più nubi ardenti. L’attività del Merapi è caratterizzata da eruzioni che durano da uno a cinque anni, tipicamente iniziano con flussi piroclastici e seguono con lanci in aria di piroclasti che ricadono a pioggia, continuano manifestandosi con esplosioni e emissione di gas a bassa pressione e seguono con pericolosi picchi di massima. Nella storia di questo vulcano sono comuni eruzioni Pliniane e Subplianiane, dallo studio dei depositi si risale che modi eruttivi nei secoli sono stati molto diversi. Il vulcano è stato sede di numerosissime tra piccole e grandi eruzioni di cui almeno 13 hanno causato decessi. Dal 1548 sono state registrate 68 eruzioni di rilievo delle quali 32 sono state accompagnate da micidiali nubi ardenti 12 delle quali hanno disseminato morte tra la popolazione vicina al vulcano. Nel 1672 un flusso piroclastico causò più di 3000 morti. Ancora un flusso piroclastico causò nel 1930 la distruzione di 42 villaggi e la morte di 1369 persone. L’ultima eruzione che ha prodotto vittime si è avuta nel 1994 con 60 decessi. Il vulcano è continuamente monitorato e parecchie sono le misure di sicurezza assunte. Ad esempio, sono state realizzate numerose barriere nei pressi di scuole ed edifici vari per protezione dai frequenti lahars. a) b) Figura 1. 36: Vulcano Merapi. a)Eruzione del febbraio 2001. b)Eruzione del maggio 2006 53 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 1.4.3. BIG ISLAND: HAWAII L’arcipelago delle isole Hawaii è ciò che emerge di una catena sottomarina di origine vulcanica. Lunga circa 3500km, si estende nell’ Oceano Pacifico da NE a SO con numerosi vulcani attivi, spenti e sottomarini. Le isole Hawaii si sono formate in milioni di anni con lo spostamento da NE a SO del punto caldo che attualmente è posizionato sotto la Big Island. Con il passar dei millenni il punto caldo tenderà a muoversi verso SO creando nuove isole. Il vulcano sottomarino attivo Loihi (-900m), sarà il primo ad emergere allungando l’arcipelago. Nel Mondo queste isole sono il miglior laboratorio naturale per lo studio dei fenomeni vulcanici. Allineando e misurando le otto principali isole si raggiunge una lunghezza di 640km esse sono: Hawaii (Big Island), Maui, Molokai, Lanai, Kahoolawe, Oahu (con la capitale Honolulu), Kauai, Nihau. Tutti i vulcani attivi dell’arcipelago sono concentrati nella Big Island, tuttavia anche la vicina isola Maui è stata attiva in tempi storici. Big Island geologicamente potrebbe considerarsi un unico grande vulcano con diametro di base 250km e altezza massima (Mauna Kea) 4206 metri. L’edificio vulcanico, misurato dalla piattaforma sottomarina di base al cratere più alto, supera i 9000 metri, risultando il più grande vulcano del Globo. L’area vulcanica della Big Island viene suddivisa dagli studiosi in 5 vulcani con diversi stadi di evoluzione: • Il Kohala (la “Terra del Nord”), sulla punta a NO dell'isola, 1700m, emerso 460.000 anni fa ed estinto 60000 anni fa. • Il Manua Kea (la “Montagna Bianca”) sul lato Ovest , 4206m, emerso 300.000 anni fa estinto 3000 anni fa. • Lo Hualalai (“Quello che trascina l’onda”) sul lato Est, 2500m, emerso120.000 anni fa, attivo (ultima eruzione1801). • Il Manua Loa (“Montagna del fuoco rosseggiante”) al centro dell’isola, 4170m, emerso 200.000 anni fa, attivo. • Il Kilauea (“Luogo delle foglie dell’albero Ki”) a SO affianco al Manua Loa, 1222 m, attivo ed in continua eruzione dal 1983. A preoccupare maggiormente è il Complesso del Kilauea, formato dalla caldera Kilauea (Figura 1.37), dal picco vulcanico Pu'u O'o (Figura 1.38), dalla voragine craterica 54 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Halemaumau, da altri crateri secondari e, soprattutto, da due importantissimi rifts (canaloni) che arginano la zona del Kilauea inducedo il prodotto lavico a sfogare in mare incrementando un delta lavico. Dal Pu' u O'o si sviluppa sotto la dura lava superficiale un naturale canale di lava fluida detto Tubo che scorre sino al mare. La lava raffreddandosi velocemente al contatto con l’acqua marina, forma nuvole di gas e vapore. Il Kilauea è il più giovane vulcano delle isole Hawaii, la sua caldera si è formata nel 1790d.C., e contiene in sé il cratere voragine Halemaumau che ha un record di continuità eruttiva durata per quasi tutto il 19° secolo e parte del 20°. Il 90% della lava che ricopre il Kilauea ha meno di 1100 anni. L’enorme caldera ha un raggio di quasi 2km. e, al suo interno, la lava si genera quasi continuamente da aperture che si aprono, nel tempo, in differenti posizioni. Figura 1. 37: Vulcano Kilauea L’attività eruttiva di questo complesso vulcanico è molto particolare ed ha una denominazione tipica: Hawaiana. A Sud della caldera del Kilauea, a ridosso del rift si eleva il Pu'u O'o, vulcano con un cratere piccolo ma di eccezionale attività. Oltre alla continuità eruttiva dell’Halemaumau, negli ultimi 200 anni, il Mauna Loa e il Pu'u O'o hanno avuto la tendenza media ad eruttare ogni 2 anni. Attualmente l’azione eruttiva è manifestata dal Pu'u O'o che dal 1983 ad oggi attraverso un tubo lavico erutta continuamente senza segni di declino. Questa è tra le più lunghe eruzioni di tipo Hawaiano storicamente registrata, seconda a quella secolare dell’Halemaumau. L’eruzione hawaiana nell’area del Kilauea si manifesta ininterrottamente da 18 anni con 55 rilevanti episodi eruttivi che hanno come 55 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio primo attore il cratere Pu`u `O`o e come protagonisti la caldera Kupaianaha, il tubo lavico ed la crescente piattaforma costiera di lava luogo terminale delle colate eruttive. Il 55° episodio eruttivo risulterà l’emissione di lava più voluminosa degli ultimi 5 secoli. Durante il Gennaio 2000, 1,9km cubici di lava hanno coperto102 km2 di terreno, la parte di costa a Sud del Kilauea è aumentata di 205 ettari, sono state distrutte 181 case e ricoperti 13km di strada asfaltata sotto 25m di lava. Figura 1. 38: Pu'u O'o L’eruzione ebbe inizio nel 1983 con una serie di improvvise fontane di lava che alimentò la crescita del cono di cenere e lava Pu`u` O`o. Nel 1986, l’eruzione si spostò 3km più giù nella Zona Est del Rift dove si formò la caldera Kupaianaha serbatoio di lava che alimenterà per i prossimi 5 anni la colata di lava verso il mare. Nel 1992 un grande collasso sul cono Pu`u O`o determinò la continua eruzione di lava che da alcune fessure del fianco occidentale e meridionale andrà per anni al mare creando ed attraversando un tubo lavico. 1.4.4. RUAPEHU (NUOVA ZELANDA) Il Monte Ruapehu è uno stratovulcano situato al centro dell’isola del Nord di Nuova Zelanda . Dal 1861 ha eruttato almeno 50 volte. La cima del vulcano è sempre coperta da neve, ed il cratere risulta colmo d’acqua e neve, in esso si forma un lago craterico. Ciò determina, durante le eruzioni, l’innalzamento di grosse nuvole di vapore ed enormi 56 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio esplosioni causate dal contatto della lava con l’acqua. Quasi tutte le sue eruzioni sono di tipo freatico, di recente, la più violenta si è avuta nel 1975. Quando un vulcano entra in eruzione, si compie soltanto la fase finale di un complesso processo di formazione e immagazzinamento del magma, un processo che potrebbe essere iniziato molti anni prima dell’eruzione. a) b) Figura 1. 39: Vulcano Ruapehu. a)17/06/1996; b)18/06/1996 57 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Il Monte Ruapehu è il vulcano più attivo dell’Australasia. E’ formato da andesite, il secondo tipo di roccia ignea più comune al mondo. I vulcani di andesite sono tra i più pericolosi al mondo, in quanto le loro eruzioni sono frequenti e spesso imprevedibili. Questi vulcani sono spesso circondati da ricchi suoli vulcanici e di conseguenza, in molte parti del mondo, nelle loro prossimità si trovano alte concentrazioni di popolazione. Prevedere le eruzioni dei vulcani di andesite potrebbe potenzialmente salvare molte vite e ridurre i danni economici che questi provocano. Il Monte Ruapehu fa parte di un sistema vulcanico formatosi a seguito della collisione tra la placca tettonica australiana e quella del Pacifico. Ai suoi margini, la placca del Pacifico si sta spostando sotto quella australiana, un contatto che genera altissime temperature e pressioni. Tutto ciò porta alla formazione di magma a circa 100km di profondità. In alcune zone del mondo il magma fuoriesce immediatamente dopo la sua formazione, ma in Nuova Zelanda il magma è ricoperto da uno spesso strato di crosta, e perciò rimane immagazzinato per un certo periodo di tempo in camere magmatiche situate sotto il vulcano. Recenti ricerche (Meyers), sulla base di campioni di lava di passate eruzioni del Monte Ruapehu, hanno fornito una nuova ed unica immagine del sistema idraulico naturale del vulcano Ruapehu e di molti altri simili: il vulcano Ruapehu non è formato da una grande camera magmatica di immagazzinamento, ma piuttosto da un complesso sistema idraulico e di serbatoi con depositi magmatici relativamente piccoli collocati lungo la crosta sotto il vulcano. Ciascun batch di magma si sviluppa in un arco di tempo proprio, assimila la crosta circostante e poi si mescola con altri batch. Questa è la prima dimostrazione convincente secondo cui i vulcani di andesite, come il Monte Ruapehu, possiedono un sistema idraulico aperto che permette lo scambio di calore e di materiale tra il magma e la crosta circostante. Il modello dimostra che le previsioni a lungo termine di eruzioni di vulcani come Ruapehu, basate sui tempi di immagazzinamento del magma, sono poco attendibili. Allo stesso tempo però fornisce un interessante quadro per realizzare accurate analisi a breve termine sul comportamento di singoli vulcani nell’arco di settimane o mesi, purché vengano impiegate molteplici tecniche (sismica, deformazione terrestre, chimica di gas e radiometria). 58 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio I principali campioni della ricerca appartengono all’eruzione del 1995/96, la prima eruzione del vulcano dopo 50 anni di inattività (Figura 1.39): il 17 giugno 1996, nelle prime ore del mattino, i notiziari radio hanno annunciato una nuova eruzione del Ruapehu. Questa fase eruttiva era iniziata nel Settembre 1995. 59 Daniela De Gregorio matr.37/2246 2. Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio IL CASO VESUVIO Figura 2. 1: Vesuvio, Andy Warhol 60 Daniela De Gregorio matr.37/2246 2.1. Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio LA TIPOLOGIA VULCANICA Il Vesuvio è un vulcano poligenico, ossia formato da molte eruzioni successive; è prevalentemente basaltico per la natura dei suoi prodotti; ed è un vulcano misto, ossia formato di lave e detriti, di lave antiche e moderne. Si tratta inoltre di uno dei più tipici vulcani a recinto, formato cioè di due coni concentrici, l’uno nell’altro, di cui quello esterno è un vulcano formatosi in epoca anteriore, quello interno in epoca più recente (Alfano). Si tratta quindi di un grande vulcano esterno decapitato, sventrato, che include un cono secondario che è quello attualmente attivo. La circonferenza della base del cono esterni, il Somma, è circa 75km, ed è percorsa completamente dalla ferrovia circumvesuviana. La circonferenza degli orli del cratere del Somma è circa 12km, con un diametro di 3500m. La più alta vetta del Somma, punta Nasone, è a SO, e attualmente è a 1132m s.l.m. Se questo cono esterno fosse completo, però, come probabilmente era in epoca più remota, la sua altezza sarebbe intorno ai 2500m (Figura 2.2). Figura 2. 2: Ricostruzione del profilo originario dell’antico vulcano del Somma. Il monte Somma è ciò che rimane del fianco settentrionale del vecchio edificio La morfologia attuale del cono interno, il Vesuvio (o Gran Cono), è stata determinata dalle eruzioni più recenti, e forse in modo rilevante proprio da quella del 79 d.C. che distrusse Ercolano, Pompei e Stabia. Le eruzioni successive hanno modificato anch’esse il profilo del vulcano, la cui quota è diminuita o aumentata più volte di varie centinaia di metri. Oggi il Gran Cono è separato dalla cinta craterica del Somma dagli spettacolari solchi dell’Atrio del Cavallo, della Valle del Gigante e della Valle dell'Inferno (Figura 2.3). Il recinto craterico del Somma, ancora ben conservato nel settore settentrionale, domina la valle del Gigante con speroni rocciosi e ripidi pendii di ghiaia e sabbie vulcaniche. ha un 61 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio tipico andamento a saliscendi e culmina, da nord-ovest a sud-est, nei Cognòli di Santa Anastasia (1.086m), nella Punta del Nasone e nei Cognòli di Ottaviano (1.112m), cui seguono le modeste elevazioni dei Cognòli di Levante (874m), caratterizzati dalla formazioni di lave a corda. Figura 2. 3: Vesuvio illustrato Il Vesuvio tocca i 1.281m. La vetta si trova nel tratto nord-orientale della cinta craterica, in corrispondenza delle impressionanti pareti di lava che precipitano per quasi 400m fino al fondo del cratere. Sul lato più basso, quello affacciato verso Napoli e la costa, l’orlo del cratere arriva a 1.158m e il dislivello tra il fondo e l’orlo è di circa 230m. Sul versante che da sulla costa, ai piedi delle ripide ghiaie del Gran Cono, tra i 600 e i 900m di quota, si distendono i pendii occupati dalla foresta demaniale del Vesuvio, cuore della riserva naturale Tirone-Alto Vesuvio. Impiantata sulle lave a partire dal 1912, la foresta fu attraversata dalle colate del 1944, i cui depositi sono ancora chiaramente visibili. 2.2. LA STORIA 2.2.1. PREMESSA 62 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Il Somma-Vesuvio è un complesso vulcanico composto dal Monte Somma, la cui attività è terminata con la formazione di una caldera sommitale, e dal più recente vulcano del Vesuvio, cresciuto all’interno di detta caldera. L’attività eruttiva di questo complesso è iniziata oltre 25.000 anni fa. Il Vesuvio ebbe probabilmente nel periodo pliocenico un’attività sottomarina; poi cacciò la cima e i fianchi fuori dal mare. Gigantesche e numerose dovettero essere le sue eruzioni. come attestano i grandiosi dicchi di lava del Somma che si osservano dall’Atrio del Cavallo; le colate laviche dei dintorni, su una delle quali fu edificata Pompei; i coni eccentrici che lo circondano. Negli ultimi 20000 anni il vulcano ha avuto 7 eruzioni di scala Pliniana e sub-Pliniana (Neri), ovvero simili a quelle del 79 d.C. e del 1631 (Tabella 2.1). NOME DELL’ERUZIONE ETÀ (ANNI FA O dC) Codola 25.000 Sarno – Pomici Basali 19.000 Pomici Verdoline 15.000 Mercato 7.900 Avellino 3.700 Pompei 24 Agosto 79 dC Pollena 5 Novembre 472 dC 1631 16-18 Dicembre 1631 Tabella 2. 1: Principali eruzioni del Somma – Vesuvio tra 25.000 anni fa ed il 1631 Si può dire che l’epoca storica del Vesuvio inizi con il terremoto del 5 febbraio 63d.C. Napoli, Ercolano, Nocera, Pompei furono tanto più rovinate quanto più erano vicine al centro del movimento. Fu quello, forse, un tentativo fallito di eruzione. Il 24 ottobre del 79 altre scosse di terremoto annunziarono che il condotto del Vesuvio finalmente si riapriva. È probabile che il Gran Cono vesuviano si sia formato, o almeno iniziato, con l’eruzione del 79. Dopo il 79 il Vesuvio entrò probabilmente in fase abitualmente esplosiva, ma interrotta da numerose eruzioni effusive laterali di cui non si hanno molte date certe. Le più sicure sono quelle del 203, 472, 512, 685, 787, 968, 991, 999, 1007, 1037, 1139. Date molto incerte sono quelle del 651, 748, 1035, 1036, 1038, 1500,1568. Poi il vulcano rientrò in fase di riposo fino al 1631. Il 16 dicembre 1631 con una fase parossismale il Vesuvio produsse fenomeni catastrofici: terremoti, boati, esplosioni, folgori, pioggia di bombe, di sassi, di lapilli, di cenere; sette rami di lava invasero i paesi vesuviani, invadendo perfino il mare, distruggendo animali, 63 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio terreni coltivati e facendo quattromila vittime umane. Dopo questa eruzione eminentemente esplosiva, straordinariamente effusiva, il Vesuvio non è entrato più in fase di lungo riposo (Tabella 2.2); ma ha cominciato un ciclo di periodi caratteristici, formati in successione di fase di emanazione, di fase predominantemente esplosiva, ed infine di fase eminentemente effusiva. Con tale fase di efflusso lavico rapido, laterale o eccentrico, il vulcano chiude ciascun periodo, per ricominciare dopo breve riposo. DATA TIPO DI ERUZIONE NOTE 3 Luglio 1660 6 Aprile-30 Maggio 1694 Stromboliana Effusiva 10 Maggio-1 Giugno 1698 Effusiva-Esplosiva 28 Luglio-13 Agosto 1707 19 Maggio-6 Giugno 1737 23 Dicembre 17605Gennaio1761 19-27 Ottobre 1767 8-15 Agosto 1779 15-24 Giugno 1794 21 Ottobre-11 Novembre 1822 23 Agosto-10 Settembre 1834 5 Febbraio-2 Marzo 1850 Effusiva-Esposiva Effusiva-Esplosiva Effusiva-Esplosiva Effusiva-Esplosiva Effusiva-Esplosiva Effusiva-Esplosiva Effusiva-Esplosiva Effusiva-Esplosiva 1-28 Maggio 1855 Effusiva 1858 Effusiva Caduta di cenere verso NE Lave verso W e SE Lava verso W; danni per tephra a Boscotrecase, T. Ann., Ottaviano Colata di lava ad W e SE Lava ad W e S; un flusso di lava invade T. del Greco Apertura di bocche lat. sul fianco S verso T. Annunziata (300m slm) Colata di lava verso SW Lave ad W; ceneri e lapilli su Ottaviano Un flusso di lava distrugge T. del Greco Due flussi di lava verso T. del Greco e Boscotrecase Lave verso SE Lave verso SE Lave verso NW; un flusso di lava invade Massa e S. Sebastiano Produzione di lave a corda Apertura di bocche laterali sul fianco SW tra 300 e 218m slm. Lave verso NW Lave verso NW; un flusso di lava invade Massa e S. Sebastiano Lave verso S; ceneri e lapilli verso ENE Emissione di vapori ed efflussi di lava Formazione del conetto Efflussi lavici, con trabocchi dall’orlo di N-E e con invasione nella Valle dell’Inferno e sulle pendici E Lave ad E verso Terzigno Lava verso NW; un flusso di lava invade Massa e S. Sebastiano Effusiva-Esplosiva 8-10 Dicembre 1861 Effusiva-Esplosiva 15-30 Novembre 1868 Effusiva 24 Aprile-2 Maggio 1872 Effusiva-Esplosiva 4-22 Aprile 1906 1913 1914 Effusiva-Esplosiva Effusiva-Esplosiva Effusiva-Esplosiva 1926 Effusiva 4-10 Giugno 1929 Effusiva 18-30 Marzo 1944 Effusiva-Esplosiva Tabella 2. 2: Principali eruzioni del Vesuvio nel periodo 1631 – 1944 (Osservatorio Vesuviano) Trascurando le fasi intermedie basterà ricordare soltanto le eruzioni di chiusura di periodo, quali forse furono quelle del 1660, 1694, 1698, 1701, 1707. Più caratteristiche sotto questo aspetto furono: l’eruzione laterale del 19 maggio 1737, la cui lava invase l’intero abitato di Torre del Greco; quella del 1760 (Figura 2.4), ritenuta eccentrica, perché il crepaccio si aprì sulle pendici meridionali dell’edificio del Somma; quella dell’ottobre 1767 (Figura 2.5), con altro efflusso rapido laterale; del 1779, durante la quale il Vesuvio emise dal cratere addirittura una fontana di fuoco. Nel 1794 vi fu altra eruzione di tipo etneo. Torre 64 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio del Greco fu completamente invasa dalla lava: il campanile è ancora sepolto per due ordini sotto la lava. Figura 2. 4: Pietro Fabris. Eruzione del 1760 Figura 2. 5: Pietro Fabris. Eruzione effusiva del 20 ottobre 1767 65 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Nel 1822 altro efflusso laterale, come eruzione di chiusura di periodo, con prevalenza di cenere. Altri efflussi lavici rapidi si ebbero nel 1850 e 1855. Dell’eruzione 1858 sono famose le lave cosiddette a corda. Nel 1861 altra eruzione di tipo etneo: le bocche si aprirono poco sopra Torre del Greco, che ne fu spaccata per metà. L’eruzione dell’aprile 1872, di tipo laterale, rapida, fu funestata, oltre che dalla distruzione di due paesi, Massa e S. Sebastiano, dalla morte di molti escursionisti travolti dalla lava nell’Atrio del Cavallo, mentre si spingevano troppo vicini al fenomeno. Le lave di questa eruzione circondarono completamente l’Osservatorio Vesuviano. L’ultima eruzione di chiusura di periodo fu quella dell’8 aprile 1906, la cui lava apportò grandi rovine a Boscotrecase e minacciò Torre Annunziata, fermandosi a pochi metri dal cimitero di questa città. Furono anche imponentissime le emissioni di cenere che caddero per molti giorni consecutivi, arrecando sprofondamenti e rovine, specialmente ad Ottaviano e Somma. Dopo questa eruzione il Vesuvio rimase decapitato di 180m, e presentò nel cratere una enorme voragine di circa 600m di profondità e 700m di diametro. Nel 1913 si riaprì il condotto vulcanico nel fondo della voragine con emissione di vapori ed efflussi di lava. Durante il 1914 si formò il conetto, che gradualmente con esplosioni di materiale frammentario e con efflussi lavici, ha riempito quasi tutta la voragine del 1906. Notevoli efflussi lavici, con trabocchi dall’orlo di nord-est e con invasione di lave nella Valle dell’Inferno e sulle pendici orientali, si sono avuti il 27 novembre 1926, il 30 luglio 1927, il 28 novembre 1928, il 4 giugno 1929. L’ultima eruzione del Vesuvio è avvenuta nel 1944 e il successivo periodo di riposo, che persiste a tuttora, è molto più lungo degli intervalli di riposo che si sono avuti nel periodo 1631-1944, durati al massimo 7 anni. Di seguito si riporta una descrizione più dettagliata dei maggiori eventi di riferimento nelle stime di probabilità di eruzioni future. 2.2.2. L’ERUZIONE DELLE POMICI DI AVELLINO L’eruzione pliniana delle Pomici di Avellino (3700 anni fa) è stata tra le più violente della storia eruttiva del Vesuvio ed ha determinato la messa in posto di spessi depositi di pomici da caduta dispersi verso E e di depositi da flusso e surge piroclastico, dispersi fino a oltre 20km dal centro di emissione in direzione NW (Figura 2.6). 66 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio La sequenza di eventi che ha caratterizzato questa eruzione è raggruppabile in tre fasi principali: una prima fase di apertura, una seconda fase pliniana ed una fase finale freatomagmatica (Osservatorio Vesuviano). Figura 2. 6:Distribuzione areale dei depositi da caduta (in azzurro; area racchiusa dall’isopaca 20 cm) e dei depositi da flusso piroclastico (in rosso) delle Pomici di Avellino (Osservatorio Vesuviano) L’eruzione di Avellino scaraventò nella stratosfera quasi 100.000 tonnellate al secondo di roccia surriscaldata, scorie e ceneri. La colonna raggiunse un’altezza di circa 35km, più o meno tre volte la quota di crociera degli aerei di linea. All’inizio, i venti dominanti che soffiavano da ovest trasportarono gran parte del materiale in direzione nord-est, verso Nola e Avellino: nel giro di alcune ore si accumularono depositi di pomice e lapilli alti fino a 2,5m. La colonna di cenere restò sospesa nell’aria a lungo, forse anche per 12 ore; poi collassò, creando una rovente e turbinosa valanga di detriti che si rovesciò lateralmente dai fianchi del vulcano, percorrendo molti chilometri inizialmente a grande velocità: 385km/h con temperature non inferiori ai 480°C. Tutta la campagna intorno al Vesuvio fu sepolta da una polvere che raggiunse uno spessore di 20m a 5km dal cratere, e di 25cm in un raggio di 24km (Hall, 2007). Numerosi resti archeologici dimostrano che una fiorente civiltà del bronzo antico era presente nelle aree intorno al Vesuvio al momento della eruzione delle Pomici di Avellino e che l’impatto di questa eruzione sia sull’ambiente che sulla vita dell’uomo fu notevole. 67 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 2.2.3. L’ERUZIONE DEL 79 D.C. Figura 2. 7: Ricostruzione digitale dell’eruzione del 79d.C. a Pompei Quella del 79 d.C. è l’eruzione pliniana più conosciuta, non solo del Vesuvio, ma di tutta la storia della vulcanologia . Essa è stata descritta in due lettere di Plinio il Giovane (61-114 d.C.) allo storico Tacito. Tali lettere costituiscono la prima descrizione di un’eruzione da qui la denominazione di eruzione pliniana per questo tipo di fenomeno particolarmente violento e distruttivo (Grimaldi). Nell’eruzione, Pompei (Figura 2.7) ed Ercolano furono completamente distrutte e molte altre città furono fortemente danneggiate fra cui Oplonti e Stabia, dove probabilmente Plinio il Vecchio trovò la morte all’età di 56 anni. Diversi anni dopo l’eruzione del 79 d.C. lo storico Caio Cornelio Tacito, amico intimo di Plinio il Giovane, dovendo scrivere un racconto storico di quegli anni chiese all’amico di fornirgli notizie relative alla morte di suo zio Caio Plinio Secondo (noto come Plinio il 68 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Vecchio, 23-79 d.C.) comandante della flotta romana di stanza a Miseno -uno dei porti più importanti dell’impero- ed autore della Historia Naturalis, un’enorme enciclopedia di 37 volumi. Al tempo dell’eruzione il diciottenne Plinio il Giovane, segretario imperiale di Traiano, viveva con la madre presso lo zio, in quanto orfano di padre. Tacito fu talmente interessato alla prima lettera, che riscrisse a Plinio il Giovane per richiedergli una seconda lettera che lo ragguagliasse sulla sorte sua e di sua madre, dopo la morte dello zio. Le lettere descrivono il susseguirsi dei fenomeni eruttivi ed i loro effetti quali le scosse sismiche che preludono all’eruzione, la grande colonna di cenere e gas a forma di pino, le ricadute di ceneri e di pomici che seppelliscono gli edifici, gravando sui tetti e ostruendo le vie respiratorie degli abitanti e la totale oscurità. Secondo le lettere di Plinio il Giovane, l’eruzione sarebbe iniziata a mezzogiorno del 24 agosto e terminata intorno alle 6 del pomeriggio del 25. E’ da rilevare che a quell’epoca il Vesuvio non era considerato un vulcano attivo e sulle sue pendici sorgevano diverse floridi città. L’eruzione fu preceduta da una serie di terremoti come testimoniato dalle tracce di lavori di riparazione provvisori effettuati poco prima dell’evento eruttivo e rinvenuti in molte case distrutte dall’eruzione e riportate alla luce dagli scavi archeologici. Il terremoto più grave avvenne nell’anno 62 o 63 d.C. e fu avvertito anche a Napoli e a Nocera, dove si verificarono alcuni danni. Dallo studio dei prodotti dell’eruzione del 79 d.C. osservati a Pompei e nelle altre città distrutte è stato possibile ricostruire la dinamica e la successione dei fenomeni eruttivi tipici di un’eruzione pliniana. Si possono così distinguere tre fasi: PRIMA FASE. Iniziata all’incirca alle ore 13 del 24 agosto, fu caratterizzata dall’interazione magma-acqua (attività freatomagmatica) con apertura del condotto vulcanico ed accompagnata da una serie di forti esplosioni. SECONDA FASE. Durata fino alle ore 8 del 25 agosto, fu caratterizzata dalla formazione di una colonna di gas, ceneri, frammenti litici e pomici bianche e grigie alta circa 15km al di sopra del vulcano accompagnata da frequenti terremoti. Secondo alcuni autori la nube raggiunse probabilmente un’altezza di 26km durante la fase delle pomici bianche e successivamente di 32km durante quella delle pomici grigie. I volumi di magma emessi 69 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio nelle due fasi delle pomici, che a Pompei formano un deposito con spessore di circa 4m, ammontarono rispettivamente a 1 e 2,6 km3. Durante la notte molte persone, approfittando di una stasi dell’attività eruttiva, fecero ritorno alle proprie case, ma nella mattinata del 25 soffrirono della ripresa dell’attività. Si verificò, infatti, il collasso completo della colonna eruttiva con conseguente formazione di flussi piroclastici che si distribuirono radialmente rispetto al centro eruttivo e causarono la distruzione totale dell’area di Ercolano, Pompei e Stabia. In seguito si formò una nuova grande nube eruttiva il cui collasso diede origine ad una serie di surges piroclastici che riversandosi verso valle ad altissima velocità seppellirono tutto quanto incontrarono lungo il loro cammino. Ercolano soffrì particolarmente durante questa fase. TERZA FASE. Durata fino alla tarda mattinata del 25 agosto, continuarono a formarsi i flussi piroclastici mentre la grande nube raggiunse Capo Miseno. Durante questa eruzione furono emessi circa 3-4 km3 di magma con una portata di circa 40.000m3/s. 2.2.4. L’ERUZIONE DEL 1631 L’eruzione sub-pliniana del 1631 (Figura 2.8), presa a riferimento per la stesura del Piano di Emergenza, fece oltre quattromila morti. Iniziata alle 7 del mattino del 16 dicembre, fu caratterizzata da quattro fasi principali (Osservatorio Vesuviano): 1. formazione della colonna pliniana, colonna sostenuta carica di ceneri, lapilli e pomici (dalle 7 alle 18 del 16 dicembre); 2. produzione di violente esplosioni intermittenti (dalle 18 del 16 dicembre alle 10 del 17 dicembre); 3. emissione di flussi di blocchi e ceneri (tra le 10 e le 11 del 17 dicembre); 4. emissione delle ceneri freatomagmatiche (a partire dal pomeriggio del 17 dicembre). 70 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 2. 8: L’eruzione del Vesuvio del 1631 L’ultima fase fu accompagnata dalla formazione di colate di fango e da alluvionamenti (a partire dal pomeriggio del 17 dicembre). Secondo alcuni autori, durante il giorno 17 si ebbe anche l’effusione di alcune colate laviche verso mare. La fase pliniana fu caratterizzata dalla formazione di una colonna eruttiva a forma di “pino” la cui altezza massima fu di circa 13km fra le ore 7 e le ore 15, e di 19km fra le ore 15 e le ore 18. La ricaduta del materiale solido trasportato dalla colonna si verificò ad est del vulcano, producendo un deposito di lapilli e ceneri in un’area stretta ed allungata a causa della presenza di un vento molto forte (circa 100 km/h). Lo strato di lapilli presentava spessori massimi di circa 50cm nella piana ad est del vulcano (area di San Giuseppe Vesuviano). La fase eruttiva avvenuta nella notte fra il 16 ed il 17 fu caratterizzata da una serie di esplosioni discrete che causarono soprattutto un notevole panico. Le nubi ardenti emesse durante la mattina del 17 dal Vesuvio devastarono numerosi villaggi ai piedi del vulcano. I centri abitati di Boscoreale, Torre Annunziata, Torre del Greco, Granatello e Cercola, praticamente intoccati dai lapilli durante la fase pliniana, vennero rasi al suolo nel giro di due ore dal passaggio delle colate piroclastiche. Alcuni dei rami più consistenti delle colate piroclastiche raggiunsero il mare e vi entrarono nei pressi di Torre Annunziata, Torre del 71 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Greco e Granatello. L’emissione delle nubi ardenti del 1631 si verificò in concomitanza con lo sfondamento della parte sommitale del cono vesuviano e la formazione di una depressione sommitale (caldera) di circa 1.5km di diametro. Le nubi ardenti furono emesse da un’attività di semplice trabocco dal cratere (boiling over) e furono fortemente condizionate nel loro scorrimento dalla gravità e dalla morfologia. A causa di questa particolare dinamica la parete del Monte Somma costituì una barriera insormontabile ed una efficace difesa per i centri abitati di Ottaviano, Somma Vesuviana e Sant’Anastasia. Contemporaneamente all’eruzione delle nubi ardenti il livello del mare si abbassò di alcuni metri in quasi tutto il golfo di Napoli per una decina di minuti. Tale abbassamento fu seguito da un rapido rientro e dalla formazione di onde alte da 2 a 5m (maremoto). L’eruzione delle ceneri freatomagmatiche si verificò principalmente nel pomeriggio del 17 e con un’intensità decrescente anche nei giorni seguenti. La fase di emissione delle ceneri fu accompagnata dalla ricaduta di ceneri umide e da forti precipitazioni. Molte abitazioni in un’ampia area intorno al vulcano subirono il collasso dei tetti a causa dell’accumulo di ceneri umide. Colate fangose di grosse proporzioni si riversarono lungo le valli del vulcano colmando gli alvei dei lagni e causando inattesi e micidiali fenomeni di esondazione. La formazione della colate di fango fu favorita dalla sostanziale impermeabilizzazione del substrato operata dalle ceneri fini, che impedì il regolare assorbimento delle acque piovane. Questo aumento esorbitante della portata della rete idrica si verificò anche in quella parte dei rilievi appenninici, circostante il vulcano, interessati dalla ricaduta delle ceneri e dalla loro conseguente impermeabilizzazione. L’eccesso di acqua superficiale causò anche estesi alluvionamenti nella piana campana nel triangolo approssimativamente compreso tra Acerra, Nola e Cicciano. La maggioranza delle persone (oltre quattromila) morirono per effetto delle nubi ardenti la mattina del 17. Il bilancio delle vittime sarebbe stato ben più grave se i centri della costa, su cui le nubi ardenti si abbatterono, non fossero stati pressoché totalmente evacuati spontaneamente la notte prima, a seguito del terrore generato dalla ricaduta delle ceneri e pomici della fase pliniana. Diversi morirono annegati o travolti dalle colate di fango nel pomeriggio del 17. Il collasso dei tetti e la ricaduta di blocchi sembra aver causato un numero modesto di vittime. I danni dell’eruzione furono ingenti. Le cittadine di Torre del Greco, Torre Annunziata e 72 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Boscoreale furono rase al suolo. Largamente distrutte risultarono Ottaviano e Massa di Somma, mentre fortemente colpite furono San Sebastiano, San Giorgio a Cremano, Resina, Portici quasi tutta Somma Vesuviana e parte di Trocchia. Tutte le vie di comunicazione furono interrotte. Moltissime abitazioni subirono il collasso del tetto a causa dell’accumulo di materiale piroclastico (lapilli e ceneri). Più di 400 tetti di case collassarono nella sola città di Nola (15km a nordest del Vesuvio). 2.2.5. L’ERUZIONE DEL 1944 L’eruzione del 1944 venne osservata e descritta dal direttore dell’Osservatorio Vesuviano, Giuseppe Imbò, il quale suddivise l’evento in 5 fasi (Imbò, 1945): 1. fase effusiva (dalle ore 16,30 del 18 alle 17 del 21 marzo); 2. fase delle fontane laviche (dalle ore 17 del 21 alle 12 del 22 marzo); 3. fase delle esplosioni miste (dalle ore 12 del 22 alle 14 del 23 marzo); 4. fase sismo-esplosiva (dalle ore 14 del 23 al 26 marzo); 5. fase finale (dal 26 al 30 marzo). FASE EFFUSIVA. La pausa eruttiva iniziata nella notte tra il 17 e 18 marzo si protrasse sino al tramonto del 18 marzo quando, alle 16.30, si verificarono nuove esplosioni seguite da un’abbondante emissione di lava che segnò l’inizio dell’eruzione del 1944. La lava si spinse contro l’orlo craterico in più rami, tra nord e sud-sud-est, fino a traboccare da diversi punti. Il ramo nord raggiunse in circa 20 minuti i fianchi del Somma dai quali si diresse a ovest verso il Fosso della Vetrana. Le esplosioni si intensificarono e, verso sera, si osservarono abbondanti e continui lanci di scorie e brandelli di lava sino a 100m di altezza sull’orlo. A tarda sera la portata della colata settentrionale risultò alquanto ridotta rispetto a quella iniziale e la velocità del fronte della colata scese fino a 10m/h. Molto più copioso fu un flusso traboccato a sud che si fermerà completamente solo il 21 marzo. 73 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio La sera del 18 marzo altre colate di lava traboccarono sulle pendici occidentali del Gran Cono. La mattina del 19, alle 11, il ramo settentrionale raggiunse il Fosso della Vetrana e, nella sera, le prime case di Massa e S. Sebastiano. Gli abitati vennero invasi dalla lava che avanzò fino a circa 1,5km dal centro di Cercola (22 marzo). Dalla mattina del 19 l’attività esplosiva si mantenne per lo più costante con sporadici incrementi e caratterizzata da frequenti e tumultuosi lanci di scorie e brandelli di lava alti sino a 150 metri. Dalla sera del 18 al mattino del 19 si avvertirono all’Osservatorio tremiti discontinui e, dalle ore 10 del 19, tremiti continui con intermittenti rinforzi. Figura 2. 9: Eruzione del Vesuvio del 1944 FASE DELLE FONTANE DI LAVA. Alle 17 del 21 marzo la lava venne emessa con tale violenza che la colonna incandescente si innalzò sino a 2 km dall’orlo craterico. La fontana lavica si manifestò per 30 minuti. Il materiale ricadde e si accumulò sulle pendici esterne del Gran Cono, da dove franò formando pseudo-colate di lava e scorie. Una di queste, particolarmente grande, si manifestò ad ovest-sud-ovest dove raggiunse i 700m s.l.m. Alle 17.30 ritornò una calma quasi totale con una notevole riduzione dei fenomeni esplosivi e la cessazione dei tremiti. La pausa eruttiva si protrassee sino alle 20.10, allorché iniziò a manifestarsi una nuova fontana lavica che durò 20 minuti e presentò le medesime caratteristiche della precedente. Anche questa fu seguita da una nuova riduzione generale dell’attività eruttiva. L’andamento alterno dell’eruzione continuò per tutta la notte e il mattino del 22 marzo. Si susseguirono 8 fasi di fontane di lava; con l’ultima si ebbe il massimo eruttivo di tutto il parossismo. Le scorie e i lapilli scagliati a maggiori altezze vennero trasportati dal vento in 74 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio quota verso Angri e Pagani. Alle 9 del 22 marzo a Poggiomarino si osservò la caduta di scorie del peso variabile tra i 500 e i 1000 grammi. Dalle 10, scorie con un diametro massimo di 15cm, ricaddero anche su S.Giuseppe Vesuviano. FASE DELLE ESPLOSIONI MISTE. Dalle 12 del 22 marzo si verificò un graduale cambiamento dei fenomeni eruttivi con l’emissione, oltre che di materiale incandescente, anche di materiale roccioso strappato dal condotto. Alle pseudo-colate di scorie, caratteristiche della seconda fase, seguirono nuovi fenomeni di flusso tipo “valanghe incandescenti” e “nubi ardenti in miniatura”. La principale nube ardente si manifestò a sud alle 10 del 24 marzo. Essa si sovrappose alla colata lavica meridionale spingendosi, in pochi secondi, per 2 km oltre l’orlo craterico. La violenza straordinaria dell’attività esplosiva subì un ulteriore incremento verso le 13, rimanendo poi sino alle 17 per lo più costante. Il conetto terminale, in ricostruzione già dal 18 marzo, si saldò, nel pomeriggio del 22, alle pareti interne del Gran Cono, raggiungendo una quota massima di oltre 1260 m s.l.m. Alle ore 21 del 22 marzo, ripresero le esplosioni. La loro intensità crebbe fino a raggiungere i livelli del pomeriggio, dopodiché, dalle prime ore del 23 marzo, decrebbe gradualmente. Nel corso dello stesso giorno le colate si arrestano completamente: quella a sud si fermò a 350 m s.l.m. (rioni Monticelli- Le Voccole) e quella a nord si fermò a 120 m s.l.m. (1,2 km da Cercola). FASE SISMO-ESPLOSIVA. Alle 12 del 23, mentre le esplosioni decrementavano, incominciarono ad essere avvertite all’Osservatorio un numero sempre crescente di scosse sismiche. La crisi sismica precedette di poco un cambiamento delle caratteristiche esplosive. Infatti, dalle 14, si osservò una netta prevalenza, rispetto al materiale incandescente, di ceneri e materiali scuri (Figura 2.9). Dalla stessa ora si cominciò a manifestare un’alternanza di crisi sismiche e esplosive. In coincidenza con eventi esplosivi di particolare entità riapparirono sia i riverberi che i getti di materiale incandescente con produzione di valanghe incandescenti (specialmente a sud-ovest), nubi ardenti e fenomeni di ionizzazione atmosferica. Col procedere di questa fase, iniziò una graduale riduzione dei fenomeni. Il 24 marzo continuò l’emissione di ceneri più chiare delle precedenti. 75 Daniela De Gregorio matr.37/2246 FASE FINALE. Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Il 27 e 28 le crisi esplosive risultarono sempre più rare e generalmente meno violente e, il 29, l’eruzione può dirsi conclusa. Tutta l’attività si ridusse a semplici esalazioni post-eruttive. Terminate le esplosioni, le pareti intracrateriche e i fianchi del Gran Cono iniziarono ad essere interessati da notevoli fenomeni di assestamento. Il 29 marzo il cratere, giacente grosso modo su un piano inclinato da nord-est a sud-ovest, presentava una profondità centrale di 300 m (rispetto all’orlo), un perimetro di 1,6 Km. L’orlo ovest, il più interessato dalle frane, risultava a 1169m s.l.m. e quello nord-est a 1300m s.l.m.. Il bordo del cratere pur essendo alquanto irregolare, si avvicinava, visto dall’alto, alla forma ellittica con l’asse maggiore di 580 m (est-ovest) e quello minore di 480 m (nordsud). Per i continui fenomeni di frana il cratere subì negli anni successivi numerose modificazioni. Dopo l’eruzione del 1944 il Vesuvio entrò in un fase di quiescenza che dura a tutt’oggi. Gli unici segni della sua attività sono alcuni piccoli terremoti che vengono costantemente registrati dai sismografi dell’Osservatorio Vesuviano e l’attività fumarolica che si osserva al cratere. LE TESTIMONIANZE. L’eruzione del Vesuvio avvenne poco dopo l’arrivo delle truppe alleate a Napoli. A causa degli eventi bellici l’Osservatorio era diventato una stazione metereologica delle truppe alleate ed il suo Direttore, Giuseppe Imbò, fu relegato in un’unica stanzetta dalla quale compiva le sue osservazioni nei giorni dell’eruzione. L’evento colse di sorpresa gli americani e causò loro danni maggiori di un bombardamento aereo: un intero stormo composto da 88 bombardieri B-25 che si trovava nel campo di atterraggio in prossimità di Terzigno venne distrutto in breve dalle ceneri. Il Vesuvio sembrò così voler manifestare per l’ultima volta tutta la sua potenza prima di rientrare in un minaccioso riposo. Dalla presenza in Napoli di tanti occasionali testimoni durante l’eruzione scaturirono un gran numero di scritti, attraverso i quali si colgono le intense emozioni di quei giorni. Fra le molte testimonianze, proponiamo quella dell’inviato speciale del Manchester Guardian, il quale così scrive nel suo resoconto del 22 marzo 1944: “Questi italiani mostrano un’apparente indifferenza, davvero rimarchevole, nei confronti del disastro. Mi ero 76 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio aspettato scene di panico, donne esagitate, padri di famiglia impazziti. Non vi era niente di tutto ciò. In gruppi si raccoglievano a osservare il lento sacrificio del villaggio come se si trattasse di un incendio casuale. Il medico del paese tralasciò di salvare alcuni suoi beni per mostrarmi un buon punto di osservazione. Ci furono anche alcuni accenni di umorismo. Osservavamo la lava che cominciava ad avvolgere una casa che ancora recava in maniera del tutto non necessaria, date le circostanze, lo slogan fascista "Vivi pericolosamente". In quel momento la casa crollò. Mentre la nuvola di polvere si dileguava, un incrocio di cane pastore improvvisamente sbucò dalla massa di calcinacci e sfrecciò verso la salvezza. Aveva messo in pratica le direttive di Mussolini (…)”. 2.3. IL PARCO NAZIONALE DEL VESUVIO Il Parco Nazionale del Vesuvio nasce ufficialmente il 5 giugno 1995. Viene istituito al fine di conservare le specie animali e vegetali, le associazioni vegetali e forestali, le singolarità geologiche, le formazioni paleontologiche, le comunità biologiche, i biotopi, i valori scenici e panoramici, i processi naturali, gli equilibri idraulici e idrogeologici, gli equilibri ecologici del territorio vesuviano (Parco Nazionale del Vesuvio). Figura 2. 10: Il Vesuvio visto da Boscotrecase Le finalità comprendono anche l’applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale, mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici e architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali; alla promozione di attività di educazione, di formazione e di ricerca scientifica, anche interdisciplinare, nonché di attività ricreative compatibili; alla difesa e ricostituzione degli equilibri idraulici e idrogeologici. 77 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Nel caso del Parco Nazionale del Vesuvio i compiti e le valenze si fanno decisamente più ampie tenendo in conto il fatto che si tratta di dover difendere e valorizzare il vulcano più famoso del mondo, ma, nel contempo, anche uno dei cinque vulcani più pericolosi al mondo per la fortissima conurbazione urbana che negli anni si è andata formando intorno ad esso. Il Parco Nazionale del Vesuvio rappresenta quindi un’anomalia nel panorama dei Parchi naturali europei, una sorta di scommessa dell’ambientalismo mondiale tesa a recuperare la selvaticità e il fascino del Vesuvio e del Monte Somma, strappandolo all’incredibile degrado cui era pervenuto e restituendolo al godimento delle attuali e future generazioni, a cui, in ultima analisi, appartiene. Dal punto di vista naturalistico il territorio del Parco si presenta particolarmente ricco e interessante. Sotto il profilo mineralogico è celebre per essere uno dei territori più ricchi di minerali del pianeta. Sotto il profilo vegetazionale e floristico la ricchezza trofica dei suoli lavici ne fa una delle aree più ricche di specie in rapporto alla ridotta estensione. Sono note ben 906 specie vegetali per il complesso vulcanico Somma-Vesuvio, tra queste figurano la Betulla, l’Ontano napoletano, l’Elicriso litoreo, la Valeriana rossa, oltre venti specie di orchidee, molte piante della macchia mediterranea. Anche la fauna è particolarmente ricca sia tra gli invertebrati, numerose ad esempio le farfalle diurne, presenti con 44 specie, che tra i vertebrati, con la nidificazione, tra l’altro, di Poiana, Sparviere, Gheppio, Pellegrino, Corvo imperiale, e la presenza di Volpe, Faina, Lepre, Coniglio selvatico e Topo quercino. La ricchezza dei suoli lavici fa del Somma-Vesuvio, come per gli altri vulcani in genere, una terra ricchissima per l’agricoltura, con la coltivazione di varietà che acquistano caratteristiche organolettiche uniche. E’ il caso dell’albicocca vesuviana, presente con numerose varietà colturali, delle ciliegie, dell’uva, da cui si ricava il vino DOC Lacryma Christi e l’uva da tavola “catalanesca”, dei pomodorini del pizzo. Nell’area sono stati catalogati oltre 230 minerali differenti ed è possibile osservare i depositi di diverse eruzioni storiche e le forme generate dall’azione degli agenti esogeni sulle originarie coltri piroclastiche. Questi depositi sono poi stati lentamente colonizzati dalla vegetazione: si osserva quindi una successione dei tipi di vegetazione che operano questo tipo di colonizzazione, a partire dal primo anello della catena, un lichene, lo Stereocaulon 78 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio vesuvianum. Le aree circostanti al piede del vulcano sono state popolate da sempre per la fertilità delle vulcaniti, ricche di potassio. Il Parco occupa una superfice di 8.482 ettari e interessa il territorio di 13 Comuni: Ercolano, Torre del Greco, Trecase, Boscoreale, Boscotrecase, Terzigno, San Giuseppe Vesuviano, Sant’Anastasia, Ottaviano, Somma Vesuviana, Pollena Trocchia, Massa di Somma, San Sebastiano al Vesuvio (Figura 2.11). Figura 2. 11: Mappa del Vesuvio Fra i compiti istituzionali dell’Ente Parco è anche il controllo del territorio contro eventuali attività difformi ai suoi strumenti di tutela. Pertanto “Il legale rappresentante dell’organismo di gestione dell’area naturale protetta, qualora venga esercitata un’attività in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, dispone l’immediata sospensione dell’attività medesima ed ordina in ogni caso la riduzione in pristino o la ricostruzione di specie vegetali o animali a spese del trasgressore con la responsabilità solidale del committente, del titolare dell’impresa e del direttore dei lavori in caso di costruzione e trasformazione di opere” (art. 29 L. 394/91). 79 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Per abusiva trasformazione del territorio si intende “qualsiasi intervento non pianificato nell’area protetta ed in tale casistica rientrano i casi di abusivismo edilizio.” La lotta all’abusivismo si concretizza attraverso l’emissione di ordinanze di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, ed, in caso di inottemperanza da parte dell’ingiunto, con l’intervento in danno dell’Ente. L’alto livello di antropizzazione del territorio del Parco, e la difficile assimilazione da parte delle popolazioni locali delle regole collegate alla tutela del patrimonio naturale, ha determinato che fin dalla data della sua istituzione, l’Ente abbia sempre dovuto spendere grande energia nell’impegno alla lotta alle attività abusive. Basti pensare che dalla sua istituzione sono state emesse 795 ordinanze di cui 214 solo nel 1999. Nel 2002 le ordinanze sono state 169 anche se di queste 26 sono revoche per ripristino spontaneo dello stato dei luoghi. 2.4. IL PIANO NAZIONALE DI EMERGENZA 2.4.1. L’ERUZIONE DI RIFERIMENTO Secondo alcuni studi vulcanologici condotti sul Vesuvio, l’evento di riferimento da porre a base della pianificazione di emergenza, in caso di riattivazione del vulcano, è un’eruzione subpliniana simile a quelle avvenute nel 472 d.C. e nel 1631 (Protezione Civile). La sequenza dei fenomeni attesi più pericolosi è la seguente (Figura 2.12). Figura 2. 12: Simulazione esplosione. Progetto EXPLORIS 80 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio PRIMA FASE. Una colonna eruttiva sostenuta composta di gas e frammenti piroclastici, alta 15-20Km, determina il depositarsi a terra di pomice, lapilli e cenere trasportate dal vento. Il rischio è correlato alla densità e al carico esercitato dalla coltre piroclastica che può comportare un sovraccarico eccessivo sui tetti degli edifici determinandone il crollo. Ulteriori rischi sono connessi alle difficoltà di respirazione dovute all’elevata concentrazione di sottili particelle nell’aria, alla contaminazione delle colture e dell’acqua, alle difficoltà di utilizzare vie di fuga e agli ingorghi stradali. SECONDA FASE. La colonna eruttiva collassa, generando colate piroclastiche con nuvole di gas e particelle sospese, che possono raggiungere velocità di 100km/h, e possono avere un enorme potere distruttivo. I modelli fisico- numerici indicano che dall’avvenuto collasso della colonna eruttiva, la colata piroclastica per raggiungere il mare impiegherà dai 5 ai 10 minuti distruggendo tutto ciò che incontra. TERZA FASE. Il rischio della terza fase è correlato al generarsi di colate di fango e lahars durante e dopo l’eruzione. Si tratta di colate di detriti molto rapide e dense generate dalla pioggia che trascina il materiale piroclastico depositatosi lungo le ripide pendici del vulcano e dei rilievi Appenninici situati sottovento. Questi lahars hanno immenso potere distruttivo e ciò comporta la necessità di evacuare la popolazione presente nelle zone esposte a tale rischio. 2.4.2. LE ZONE DI RISCHIO Il Piano Nazionale di Emergenza, elaborato dalla Protezione Civile sulla base dello scenario dei fenomeni più probabili (eruzioni del 472 d.C. e del 1631), fornito dalla comunità scientifica, individua tre aree a diversa pericolosità definite: zona rossa, zona gialla e zona blu (Figura 2.13). ZONA ROSSA. La zona rossa è l’area immediatamente circostante il vulcano (nel raggio di circa 7-8km dal cratere) ed è quella a maggiore pericolosità in quanto potenzialmente soggetta all’invasione dei flussi piroclastici, ossia miscele di gas e materiale solido ad 81 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio elevata temperatura (500÷700°C) che, scorrendo lungo le pendici del vulcano ad alta velocità (≅100km/h), possono distruggere in breve tempo tutto quanto si trova sul loro cammino. Probabilmente i flussi piroclastici non si svilupperanno a 360° nell’intorno del vulcano, ma si dirigeranno in una o più direzioni preferenziali; non è tuttavia possibile conoscere preventivamente quali saranno le zone effettivamente interessate dai flussi. La rapidità con la quale si sviluppano tali fenomeni, associata al loro potenziale distruttivo, non consente però di attendere l’inizio dell’eruzione per mettere in atto le misure preventive. Pertanto il piano nazionale d’emergenza prevede che la zona rossa venga completamente evacuata prima dell’inizio dell’eruzione. Se la priorità, nella messa in sicurezza, spetta ovviamente alle persone, non si può dimenticare che nella zona rossa vi sono anche numerosi e preziosi beni culturali che meritano anch’essi di essere protetti nel limite del possibile. La zona rossa comprende 18 Comuni circumvesuviani per un totale di circa 200 km2 di estensione e poco meno di 600 mila abitanti. Figura 2. 13: Le tre aree a diversa pericolosità 82 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio ZONA GIALLA .La zona gialla presenta una pericolosità minore rispetto alla rossa e corrisponde a tutta l’area che potrebbe essere interessata dalla ricaduta di particelle piroclastiche (ceneri e lapilli), che quando non scorrono lungo le pendici del vulcano possono salire in alta quota, dai 20 ai 30Km d’altezza, entrano nella stratosfera e lì vengono trasportate dal vento creando una pioggia, creando un sovraccarico eccessivo sui tetti degli edifici fino anche a determinarne il crollo. La ricaduta di particelle, inoltre, può causare problemi alle vie respiratorie, in particolare in soggetti predisposti non adeguatamente protetti, danni alle coltivazioni e problemi alla circolazione aerea, ferroviaria e stradale. La zona gialla non è centrata intorno al Vesuvio ma è spostata verso est perché alle latitudini in esame il vento spira prevalentemente verso est nella zona della stratosfera. Si prevede che, come accadde nel 1631, solo il 10% della zona gialla sarà effettivamente coinvolto dalla ricaduta di particelle, subendo danneggiamenti. Pertanto, delle 1.100.000 persone che vi abitano, circa 110 mila saranno coinvolte dall’emergenza. Anche in questo caso tuttavia non è possibile conoscere preventivamente quale sarà la zona effettivamente interessata, in quanto dipenderà dall’altezza della colonna eruttiva e dalla direzione e velocità del vento in quota al momento dell’eruzione. Diversamente da quanto accade per la zona rossa però, i fenomeni attesi nella zona gialla non costituiscono un pericolo immediato per la popolazione ed è necessario che trascorra un certo intervallo di tempo prima che il materiale ricaduto si accumuli sulle coperture degli edifici fino a provocare eventuali cedimenti delle strutture. Vi è pertanto la possibilità di attendere l’inizio dell’eruzione per verificare quale sarà l’area interessata e procedere all’evacuazione della popolazione ivi residente se necessario. La zona gialla comprende 96 Comuni delle Province di Napoli, Avellino, Benevento e Salerno per un totale di circa 1.100 kmq e 1.100.000 abitanti. ZONA BLU .La zona blu ricade all’interno della zona gialla, ma è soggetta ad un agente di pericolosità ulteriore. Corrisponde infatti alla conca di Nola che, per le sue caratteristiche idrogeologiche, potrebbe essere soggetta a inondazioni e alluvionamenti oltre che alla ricaduta di ceneri e lapilli. 83 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio La cenere che cade sul terreno lo impermeabilizza (ne bastano pochi decimetri) e quando c’è una pioggia che accompagna l’eruzione o è successiva ad essa, si mescola alla cenere e crea delle alluvioni di fango violentissime. La zona blu include 14 Comuni della Provincia di Napoli, per un totale di 180 mila abitanti. 2.4.3. IL PIANO NAZIONALE DI EMERGENZA Il Piano di Emergenza è strutturato in due parti: un Piano Generale ed i Piani Particolareggiati, che dovranno seguire al Piano Generale e la cui stesura spetta ai singoli Comuni interessati dall’emergenza. Il Piano di emergenza nazionale prevede sei fasi operative e sette livelli di previsione dell’evento, scanditi da una serie di fenomeni precursori. Queste fasi costituiscono la risposta operativa a ciascun livello di rischio e sono strutturate in funzione del crescente livello di rischio. Saranno attuate in base ai dati forniti dalla comunità scientifica, costituita dal Gruppo Nazionale per la Vulcanologia, dall’Osservatorio Vesuviano e dal Gruppo Nazionale Difesa dai Terremoti. Il piano prevede che il sistema di controllo e comando del territorio nell’area di evacuazione venga effettuato tramite Centri operativi di area (COA) e Centri operativi misti (COM), attraverso l’individuazione di opportuni punti prestabiliti. Per le diverse operazioni necessarie alla salvaguardia delle popolazioni interessate dal piano di evacuazione, si prevede di impiegare, oltre al personale della Protezione Civile, quello della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, dei Vigili del Fuoco, del Corpo Forestale, delle Forze Armate, della CRI e appartenente alle associazioni di volontariato. Le Fasi del piano di emergenza sono: FASE 1 – ATTENZIONE. I cambiamenti che sono registrati nello stato del vulcano (livelli di rischio 1 e 2) suggeriscono una maggiore attenzione nel rilevamento dati e l’utilizzo di attrezzature mobili e sistemi automatici. La comunità scientifica presenta le proprie relazioni alla Commissione Grandi Rischi ed alla Prefettura, che sarà incaricata di: 84 Daniela De Gregorio matr.37/2246 • Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio predisporre l’unità operativa che si occuperà degli eventi sismici e dei danni che potranno essere provocati da questi; • fornire un adeguato supporto logistico agli scienziati che dovranno operare nell’area vesuviana; • attivare programmi di informazione alla popolazione sui fenomeni che si stanno verificando e sulle eventuali conseguenze; • informare costantemente degli accadimenti il Dipartimento della Protezione Civile, il Ministero dell'Interno, la Regione Campania, la Provincia di Napoli. FASE 2 – PREALLARME. In questa fase viene dichiarato lo “Stato di emergenza nazionale” (livello di rischio 3). E’ convocato un Comitato Operativo che si occuperà della gestione dell’emergenza. Sono individuati vari organismi ai quali saranno affidati i diversi ambiti operativi. Si predispone un piano coordinato per le forze dell’ordine, che saranno incaricate di effettuare i seguenti servizi: servizio di vigilanza, servizio di sicurezza pubblica durante l’esodo e servizio di presidio e sicurezza del territorio da evacuare. In questa fase si potrà verificare l’allontanamento spontaneo di una parte della popolazione dell’area a rischio. Le persone che vorranno allontanarsi dovranno comunicare al Sindaco del Comune di appartenenza data e ora di partenza, ed il nuovo recapito presso cui saranno ospitati. FASE 3 – ALLARME. In questa fase, in cui i fenomeni osservati indicano come molto probabile il verificarsi dell’eruzione, si dà il via all’ evacuazione vera e propria. Le vie di allontanamento saranno predeterminate. L’allontanamento avverrà attraverso “cancelli”, cioè punti di transito (in entrata ed uscita dalla zona a rischio) presidiati. I cancelli sono ubicati lungo le principali direttrici viarie, all’esterno della zona a rischio. Attraverso questi punti, la cui gestione è affidata al Comitato di coordinamento dei soccorsi, sarà disciplinato e regolato il flusso dei veicoli e delle persone, e sarà impedito il rientro dei non autorizzati nell’area rossa. L’area evacuata verrà controllata e presidiata dalle forze dell’ordine. Soltanto persone munite di speciali autorizzazioni potranno entrare nell’area. FASE 4 – ATTESA. Questa fase inizia appena conclusa l’evacuazione. Non si potrà rimanere sul territorio a rischio se non muniti di speciali autorizzazioni, che saranno date soltanto a 85 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio rappresentanti delle forze dell’ordine, scienziati, tecnici, ecc. I soccorritori rimarranno allertati per organizzare l’evacuazione dalla zona gialla della popolazione eventualmente interessata dall’evento. Le forze dell’ordine creeranno una cintura di interdizione lungo i confini della zona evacuata, per impedire l’accesso ai non autorizzati e scongiurare così il verificarsi di azioni di sciacallaggio. FASE 5 - DURANTE L'EVENTO. L'eruzione è in corso. Durante questa fase (livello di rischio 6) si provvederà all’allontanamento, in base all’evoluzione del fenomeno, di una parte della popolazione nella zona gialla. Le persone interessate saranno indirizzate verso strutture di ricovero (aree Sele, Volturno, Napoli est) e turistiche ubicate all’interno della Regione Campania. FASE 6 - DOPO L'EVENTO. Si provvederà al ripristino di tutte le strutture operative e ad effettuare tutta una serie di operazioni tecnico-scientifiche finalizzate al rientro della popolazione. Una volta ultimate tali operazioni, sarà revocato lo Stato di Emergenza, e si provvederà al rientro della popolazione. Il ritorno della popolazione dopo l'eruzione avverrà progressivamente ed in misura legata all’entità dei danni prodotti. Per quanto concerne l’evacuazione della popolazione, il programma prevede che: DELL’EVENTO, PRIMA durante la fase di Allarme, avverrà l’evacuazione di tutta la zona rossa, costituita da circa 586.500 persone. La popolazione sarà indirizzata verso regioni esterne alla Campania, secondo un meccanismo di gemellaggio tra ogni paese della zona rossa e una regione italiana (Tabella 2.3 e Figura 2.14). Nelle regioni ospitanti la popolazione evacuata avrà diritto a accoglienza e assistenza generale. Le famiglie che dispongono di un ricovero alternativo (presso parenti, amici o seconde case) al di fuori della zona da evacuare, e vogliono allontanarsi spontaneamente, dovranno avvisare il Sindaco del Comune di appartenenza. I percorsi e le vie di uscita (cancelli) saranno indicate dalla Direzione Operativa, e saranno presidiate dalle forze dell’ordine. Si prevede che l’intera operazione potrà essere completata in sette giorni. DURANTE L’ERUZIONE, verrà evacuata solo una parte della popolazione residente nella zona gialla (circa 100.000 persone). I settori interessati potranno essere determinati solo ad eruzione in corso, in base alla direzione assunta dai venti in quota (generalmente orientata 86 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio COMUNE DELLA ZONA ROSSA REGIONE GEMELLATA San Giorgio a Cremano Lazio Portici Emilia Romagna Ercolano Toscana San Sebastiano al Vesuvio Molise Pollena Trocchia Umbria Massa di Somma Umbria Ottaviano Piemonte e Valle d’Aosta Sant’Anastasia Marche Somma Vesuviana Abruzzo Cercola Friuli Venezia Giulia San Giuseppe Vesuviano Lombardia Terzigno Veneto Boscoreale Puglia Pompei Liguria Torre del Greco Sicilia Torre Annunziata Calabria Trecase Basilicata Boscotrecase Basilicata Tabella 2. 3: Gemellaggi previsti dal Piano d’emergenza (Protezione Civile) Figura 2. 14: Carta dei gemellaggi previsti dal Piano di Emergenza (Protezione Civile) 87 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio in direzione NE-E-SE), ed in base alla probabile direzione di flusso delle colate di fango. La popolazione residente in questi settori verrà fatta confluire in aree di ricovero all’interno della regione Campania. Come si è detto, gli abitanti della zona rossa dovranno essere allontanati prima dell’inizio dell’eruzione. Naturalmente in Campania non vi sarebbe la possibilità di accogliere 600 mila persone, pertanto, anche per consentire il mantenimento delle relazioni sociali e la continuità delle attività scolastiche, ciascuno dei 18 comuni della zona rossa è gemellato con una regione che, in caso di eruzione, ne accoglierà gli abitanti. 2.4.4. “INCERTEZZE” Le critiche mosse al Piano di Emergenza Nazionale sono sintetizzabili in tre punti. 1. Il Piano è stato redatto in riferimento all’eruzione sub-pliniana del 1631, sulla base dei calcoli dell’Osservatorio Vesuviano, secondo i quali la probabilità che nei prossimi 150 anni si scateni un’eruzione devastante come quella di Pompei o, peggio, di Avellino, è intorno all’1%, un’eruzione minore è data al 60%, una di gravità media al 30%. C’è da osservare, però, che le catastrofi dei nostri giorni, dall’uragano di New Orleans allo tsunami, avvengono perché si sono sottovalutati gli scenari estremi (Hall, 2007). Tanto più che per una parte del mondo scientifico (Michael Sheridan dell’Università di Buffalo negli Stati Uniti e altri), ogni anno la probabilità che si scateni un’eruzione violenta, come quella delle pomici di Avellino, è superiore al 50% e le possibilità aumentano col passare del tempo. Questo significa che l’evacuazione potrebbe non riguardare più soltanto i 18 comuni della zona rossa (600.000 persone), ma anche l’area metropolitana di Napoli. 2. Alla base del Piano c’è l’idea che sia possibile prevedere un’eruzione in “breve tempo”: attraverso il sistema di monitoraggio del Vesuvio, si pensa che si possano 88 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio cogliere i primi segni del risveglio diverse settimane, se non alcuni mesi, prima dell’inizio del manifestarsi dell’evento. Secondo alcuni (Neri), però, mentre è possibile prevedere, con un buon margine di accuratezza, “dove” e “come” un’eruzione vulcanica avverrà, assai più difficile è stabilire “quando”. In altri termini, è estremamente probabile che il Vesuvio, prima o poi, tornerà ad eruttare, ma è difficile predire, con esattezza temporale, quando questo avverrà. La previsione a “breve termine” delle eruzioni vulcaniche (Hall, 2007) non costituisce, dunque, una scienza esatta. Ad esempio, il Monte St. Helens, in Alaska, aveva dato segni di inquietudine prima dell’eruzione del 1980, ma nel mese precedente il quadro non si era modificato. Addirittura, la mattina del 18 maggio, un’ora e mezza prima dell’eruzione, non si registrò alcun cambiamento insolito che potesse essere interpretato come un segnale d’allarme. 3. Il Piano prevede l’evacuazione di 600.000 persone, senza tenere in conto la confusione e l’incertezza nei giorni precedenti l’eruzione. Una parte dei cittadini “potrebbe fuggire ai primi cenni di turbolenza sismica, altri ancora potrebbero andarsene e magari, dopo settimane o mesi di incertezza sismica, decidere di far ritorno” (Hall, 2007). Se a questo si aggiunge la “qualità” delle infrastrutture presenti sul territorio e il traffico della tangenziale di Napoli, lo scenario apocalittico è completo. 2.5. IL PROGETTO VESUVIUS 2000 Nel 1995, in alternativa al Piano di Emergenza, è stato lanciato il progetto VESUVIUS 2000, con lo scopo di ridurre la densità abitativa dell’area vesuviana. Sono sostenitori del progetto i professori Flavio Dobran, presidente dell’associazione GVES, e Giuseppe Luongo del Dipartimento di Geofisica e Vulcanologia dell’Università Federico II di Napoli. VESUVIUS 2000 si propone di ideare modelli globali per la simulazione dei futuri eventi eruttivi, di educare la popolazione al rischio vulcanico e di sviluppare una pianificazione 89 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio urbana e degli scenari socio-economici per una nuova localizzazione della popolazione individuando aree industriali, residenziali e del tempo libero a distanza di sicurezza dal vulcano (Dobran, 1998). Il progetto nasce dalla volontà di andare al di là della politica dell’emergenza prodotta dal Piano di Evacuazione. La filosofia è quella di prevenire future catastrofi nell’area vesuviana creando un ambiente sicuro per la popolazione che vive intorno al vulcano, attraverso campagne di informazione e di educazione al rischio e con la prospettiva di incentivi economici indirizzati al raggiungimento di collaborazione tra diversi attori e alla riorganizzazione del territorio. Questi attori sono persone di tutti i livelli sociali che vivono e lavorano nell’area e i cui discendenti dovranno confrontarsi con eruzioni devastanti. VESUVIUS 2000 sostiene l’idea che ad una popolazione consapevole del rischio non si devono impartire indicazioni sul da farsi e su come comportarsi in una situazione di emergenza: nella situazione ideale il territorio si autoregola, grazie ad una forte intesa tra la popolazione e gli amministratori. Secondo Dobran e Luongo, il Piano di Emergenza, costruito su poco affidabili previsioni delle eruzioni vulcaniche, mira alla “deportazione” della popolazione e alla distruzione della sua cultura. VESUVIUS 2000 opera nella direzione opposta. La sua premessa di base è che una sicura convivenza del popolo con il vulcano è possibile e che questa convivenza può produrre benefici socio-economici, scientifici e culturali alla popolazione senza provocare effetti contrari all’ambiente. Il progetto non mira ad una fuga massiccia dal Vesuvio in caso di un’emergenza, ma a preparare la popolazione ed il territorio a confrontarsi con le emergenze con minime perdite culturali e socio- economiche. Per le deleterie abitudini mentali esistenti nell’area vesuviana (rassegnazione, fatalismo, potere dell’ignoranza, tifoseria, omertà, clientelismo, camorra), questo tipo di preparazione richiede tempo per affermarsi e, per questo, dovrebbe essere avviato subito. I diversi attori nel territorio dovrebbero, dunque, acquisire la consapevolezza della necessità di collaborare per creare la sicurezza, mirando ad abitudini mentali tese a salvaguardare quanto c’è di positivo e ad eliminare o perlomeno ridurre il negativo. Molti vesuviani sono consapevoli del pericolo perché il vulcano è stato attivo fino a 50 anni fa, ma non conoscono le opportunità o come trarre vantaggio dal pericolo per produrre le condizioni per esse. 90 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio VESUVIUS 2000 richiede che il problema Vesuvio sia affrontato attraverso progetti interdisciplinari che coinvolgono ingegneri, pianificatori urbani, sociologi, educatori, economisti, ambientalisti, geofisici, volontari della protezione civile, e la popolazione. I suoi OBIETTIVI PRINCIPALI sono i seguenti. • La DEFINIZIONE DEL SISTEMA VULCANICO DEL VESUVIO e dell’eruzione del 1631 in particolare, al fine di sviluppare un modello fisico-matematico-informatico del vulcano capace di valutare eruzioni future e i loro effetti sul territorio. A tal fine è necessario sviluppare modelli fisici e matematici per il rifornimento di magma e per l’aumento di pressione nella camera magmatica, per l’ascesa di magma lungo il condotto e l’interazione con il sistema circostante, per la stabilità strutturale del cono vulcanico, e per il mescolamento del materiale espulso dal vulcano con l’atmosfera, per il collasso della colonna vulcanica e per il movimento del flusso piroclastico, della lava e delle colate fangose lungo le pendici del Vesuvio. Lo sviluppo della capacità di modellizzazione dell’eruzione del 1631 serve per testare il modello e per prevedere accuratamente le future eruzioni e valutare la vulnerabilità del territorio. Una gran parte di questi modelli, che fanno parte del Simulatore Vulcanico Globale, è stata già elaborata e ha consentito di prevedere le prossime eruzioni del Vesuvio. • VALUTAZIONE DELLA VULNERABILITÀ della popolazione, delle importanti strutture ed infrastrutture industriali, culturali (scavi di Pompei, Oplonti, Ercolano) e delle telecomunicazioni nell’area vesuviana per stabilire le aree più vulnerabili in funzione di diversi scenari eruttivi. Questo include anche una valutazione degli effetti, riguardanti la stato di salute della popolazione, causati da prodotti vulcanici (gas, cenere), dell’impatto socio-economico sul territorio prima e dopo diversi scenari eruttivi e degli interventi di pianificazione nel territorio. Queste valutazioni sono necessarie prima che alcuni investimenti possono essere realizzati per riorganizzare l’area vesuviana. • SVILUPPO DI UNA CORRETTA METODOLOGIA EDUCATIVA fondamentale per stabilire nuove abitudini mentali, finalizzate alla creazione della cultura della sicurezza. Senza tale educazione, non è possibile stabilire la necessaria collaborazione tra i diversi attori che lavorano in direzione degli stessi obiettivi. 91 Daniela De Gregorio matr.37/2246 3. IDENTIFICAZIONE Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio E CARATTERIZZAZIONE DELLE AZIONI ECCEZIONALI CONSEGUENTI LE ERUZIONI 3.1. PREMESSA Le azioni eccezionali prodotte da un’eruzione vulcanica sono le seguenti. SISMA. La risalita del magma nella crosta terrestre è accompagnata da una serie di fenomeni tra cui la fratturazione delle rocce, dunque l’attività vulcanica è sempre accompagnata da attività sismica locale, più o meno intensa, sia prima che durante l’eruzione. Inoltre, in alcuni casi, eruzioni vulcaniche possono innescare terremoti regionali non localizzati nell’area eruttiva. Meno chiaro è invece l’effetto che grossi terremoti possono avere sull’innesco di eruzioni vulcaniche (Neri). FLUSSI PIROCLASTICI. Durante un’eruzione esplosiva, si generano dei flussi ad alta e bassa (surge) concentrazione di particelle solide, capaci di muoversi lungo i pendii del vulcani a velocità di 200÷300km/h. All’interno della camera magmatica, il materiale successivamente esploso presenta una temperatura che può raggiungere i 900°C. Di conseguenza, nelle fasi iniziali di un’eruzione il flusso è un vero e proprio “vento arroventato”. Si pensi che, durante l’eruzione delle pomici di Avellino, il flusso piroclastico trattenne abbastanza calore da far bollire l’acqua a 15km dal cratere (Hall, 2007). PRECIPITAZIONI DI “TEPHRA”. A seguito di un’eruzione, si assiste per ore o giorni alla precipitazione di materiali piroclastici aerotrasportati. Essi originano dei depositi gravitativi (detti con termine tecnico tephra), dallo spessore e dalla composizione variabile, in grado di causare crollo di tetti (Spence, 2005). COLATE DI LAVA. Durante un’eruzione effusiva o moderatamente esplosiva, si generano colate di lava, costituite da magma, totalmente o parzialmente fuso, giunto in superficie. Il 92 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio comportamento di questi flussi è strettamente legato alla loro viscosità. In generale, comunque si potrebbe pensare di deviare il loro percorso attraverso esplosioni, o barriere. ALLUVIONI DA COLATE DI FANGO O LAHAR. A seguito di un’eruzione, a causa del calore che scioglie la neve o a causa di forti piogge, possono presentarsi fenomeni alluvionali costituiti da colate di fango e di materiale vulcanico, talvolta ancora caldo (lahar). MAREMOTI (O TSUNAMI). Gli tsunami nella maggior parte dei casi sono prodotti da terremoti sottomarini, ma non mancano esempi di maremoti dovuti ad eruzioni vulcaniche. Nei paragrafi successivi si riporta una descrizione più dettagliata delle azioni elencate, con particolare riferimento al Vesuvio. 3.2. SISMA Il Vesuvio è un vulcano attivo la cui ultima eruzione è avvenuta nel 1944. Attualmente è caratterizzato dalla presenza di un sistema idrotermale che alimenta un campo di fumarole all’interno del cratere ed è sede di una modesta sismicità rappresentata da alcune centinaia di piccoli terremoti per anno. Solo i maggiori di questi eventi sono avvertiti dalla popolazione residente nell’area (Osservatorio Vesuviano). Gli eventi sismici risultano localizzati nell’area craterica, con profondità ipocentrali comprese nei primi 6km, ed hanno valori di magnitudo che raramente risultano maggiori di 3,0 (la magnitudo massima è di 3,6). Le caratteristiche spettrali degli eventi sismici, i meccanismi focali e la forma d’onda sono tali da far attribuire il meccanismo sorgente a fenomeni di fratturazione delle rocce. Tali eventi si definiscono vulcano-tettonici e non sono direttamente associati al movimento di masse magmatiche. Prima del 1944 il Vesuvio si trovava in condizioni di condotto aperto e presentava attività intracraterica pressoché permanente, intervallata da frequenti eruzioni. Fonti storiche riportano che durante quel periodo, durato circa tre secoli, anche l’attività sismica è stata 93 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio intensa e che le maggiori eruzioni sono state precedute da sciami di terremoti distintamente avvertiti dalla popolazione. Nel 62 d.C. un grande terremoto (valutato per magnitudine M=5) provocò danni importanti alle città che circondano il vulcano, ma non c’è nessuna indicazione chiara connessa all’eruzione avvenuta diciassette anni più tardi. Dopo l’eruzione del 79 D.C. e fino a quella subplinian del 472, le fonti storiche non registrano terremoti con epicentro sotto il vulcano. Anche se i danni del terremoto accompagnato all’eruzione 472 sono riferiti a Nuceria, moderna Nocera (Dobran). Molti mesi di attività sismica precederono l’ultima eruzione subpliniana del 16 dicembre 1631 e nel giorno precedente il vulcano produsse un terremoto di magnitudine M=4 che è stato avvertito a Napoli. Terremoti di magniudo più piccola continuarono durante il giorno e la notte fino all’eruzione avvenuta circa alle 7 di mattina del 16 dicembre. Purtroppo non si dispone di dati scientifici relativi a questa attività poiché, all’epoca non esisteva un’osservazione strumentale. I primi sistemi per il monitoraggio strumentale della sismicità del Vesuvio risalgono alla seconda metà dell’800, quando con l’istituzione dell’Osservatorio Vesuviano, questo vulcano, molto attivo in quel periodo, diventò un laboratorio naturale per la sperimentazione di strumentazione sismometrica. Così, il Vesuvio è stato uno dei primi vulcani al mondo, se non il primo, ad ospitare detta strumentazione, sia pure in forma pionieristica. Tuttavia lo sviluppo di un moderno sistema di monitoraggio è iniziato negli anni settanta, con l’installazione delle prime stazioni della rete sismica, ed ha avuto una rapida progressione fino a raggiungere la configurazione attuale (Figura 3.1). Figura 3. 1: Sistema per il monitoraggio sismico del Vesuvio 94 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Il sistema per il monitoraggio sismico del Vesuvio è basato su dodici stazioni sismiche che trasmettono via radio i segnali al centro di acquisizione. Tali stazioni costituiscono un sottoinsieme della rete sismica dell’Osservatorio Vesuviano su cui si basa il monitoraggio dei vulcani campani. Figura 3. 2: Numero di eventi ed Energia dei terremoti vesuviani dal 1981 al 2001 In Figura 3.2 è riportata la distribuzione temporale del numero di eventi e dell’energia per i terremoti con magnitudo M 1,9 avvenuti al Vesuvio dal 1981 fino a Giugno 2001 e registrati alla stazione sismica OVO (Sede storica dell’Osservatorio Vesuviano), che è considerata come stazione di riferimento per tutte le analisi relative alla sismicità. Dalla distribuzione semestrale risulta che il numero medio di terremoti con M 1,9 dal 1981 al 2000 è circa 25 eventi per semestre (Osservatorio Vesuviano). Il picco M=3,6 è avvenuto il 9 ottobre 1999 ad approssimativamente 3km sotto il cono centrale ed è stato avvertito fino a 25km dal vulcano 95 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio L’istogramma, invece, è stato ottenuto calcolando l’energia dei singoli terremoti mediante la relazione di Gutenberg-Richter: Log E = 9,9 + 1,9M (3.1) e sommando tali valori per ogni semestre. Secondo la Zonizzazione Sismica, il territorio della Campania è quasi tutto di II categoria con intensità macrosismica attesa I=7÷8 (riferita alla scala MCS Mercalli, Cancani, Sieberg) e accelerazione al suolo (PGA) compresa tra 0,15 e 0,25g (Figura 3.3). La scala Mercalli, chiamata anche scala di intensità, prende in considerazione solo i danni prodotti dal terremoto su persone, costruzioni e terreno, in una determinata zona. La scala Richter o di magnitudo, invece, si basa su misure strumentali della forza del sisma nel suo punto di origine. Anche se appare sempre delicato fare delle correlazioni tra le due scale, visto la loro differenza sostanziale riguardo ai parametri usati per determinare la forza dell’evento, sono state formulate delle relazioni empiriche tra magnitudo e intensità. Nel caso di terremoti verificati in Italia Centrale può essere applicata, con forte approssimazione, la seguente espressione: M = 0,40 I0 + 1,69 (3.2) dove M rappresenta la magnitudo (scala Richter) e I0 l’intensità massima nella scala MCS. Questo significa che la zonizzazione prevede terremoti di magnitudo M=4,5÷5. Figura 3. 3: Intensità macrosismica (a) e PGA (b) secondo i limiti previsti dall’Ordinanza 3274 96 Daniela De Gregorio matr.37/2246 3.3. Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio FLUSSI PIROCLASTICI Un pericolo notevole durante le eruzioni vulcaniche esplosive, è la formazione dei flussi piroclastici, anche detti correnti di densità piroclastica (PDCs), costituiti da nubi di particelle e gas capaci di fluire giù dai pendii come una valanga di neve e di raggiungere notevoli distanze dal punto di emissione, con velocità che possono facilmente superare i 100km/h (≅30m/s) e con temperature anche maggiori di 500°C (Figura 3.4). Figura 3. 4: Flussi piroclastici, vulcano Mayon I danni da PDCs, secondi soltanto alle precipitazioni di tephra, sono associati alle elevate temperature, alla pressione dinamica (funzione della densità) ed alla velocità. L’ingresso di cenere, a pressione dinamica ridotta, all’interno di un edificio può provocare combustione di contenuti infiammabili, come la mobilia. Nel flusso più veloce, a pressione dinamica più elevata, invece, particelle, frammenti, pietre e “missili” (frammenti volanti) di tutti i generi concorrono a raggiungere l’impatto distruttivo. I flussi piroclastici causano rapida perdita della vita per inalazione e/o scottature. Gli esseri umani sopravvivono per meno di 15 minuti a temperature tra i 150 ed i 200°C e per meno di 5 minuti a temperature che eccedono 250°C. 97 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Esistono valutazioni (Dobran) delle pressioni dinamiche prodotte dai flussi piroclastici lungo il pendio meridionale del Vesuvio. Il riferimento è a ad eruzioni di media e larga scala: le prime con scarichi di materiale di 107kg/s, le seconde di 108kg/s. Figura 3. 5: Pressione dinamica prodotta da flussi piroclastici lungo il pendio meridionale del Vesuvio a 10m da terra, in riferimento ad eruzioni di media e larga scala (Dobran) Dalla Figura 3.4 si evince che, a distanze che eccedono approssimativamente i 4km dal cratere, le pressioni dinamiche sono inferiori ai 2kPa. Questo valore suggerisce che le persone che si trovano in strutture propriamente progettate, a distanze sufficienti dal cratere, possono essere protette, sempre che in queste strutture non si apra una breccia per effetto del collasso di porte e finestre. In sintesi, la sopravvivenza delle persone all’interno di un edificio, in caso di PDC, è possibile, mentre è lecito ipotizzare la morte per quelle che si trovino in ambiente aperto. Se un edificio crolla, si presume che ogni occupante rimanga ucciso. In edifici che non crollano, invece, il fattore principale che governa la vulnerabilità umana è la resistenza delle aperture. Dunque, essendo il vetro il punto debole di un edificio, la probabilità che una finestra resista può essere aumentata proteggendola con imposte o scuri. La resistenza delle aperture, e dunque dei vetri, è funzione della temperatura ed della pressione del flusso. Dalla sperimentazione si evince che queste due grandezze sono legate da una legge parabolica: 98 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio ( Ti = T0 1 − (Pi / P0 ) 2 ) (3.3.) ove: P0 e T0 sono, rispettivamente, la pressione e la temperatura relative ad una determinata probabilità di crisi indipendente; Pi e Ti sono, rispettivamente, la pressione e la temperatura che agiscono insieme per dare quella stessa probabilità di crisi (Spence, 2007). Dall’equazione (3.3.) si arriva ad una serie di distribuzioni di probabilità di collasso, costruite in funzione della pressione per diverse temperature di flusso. Queste curve possono essere interpretate come deviazioni costanti o variazioni rispetto alle curve di probabilità di collasso a temperatura ambiente, nelle quali la variazione ∆P, per ogni temperatura, è definito dalla seguente equazione: ΔP = c ⋅ T 2 (3.4.) dove: c assume il valore di 9×10-5, 4×10-5 e 3×10-5 Pa/°C2, rispettivamente, per finestre piccole, medie e grandi. La corrente PDC può generare dei missili. In questo caso i danni provocati dipendono dall’energia cinetica del missile e dalla relativa vulnerabilità di edifici e persone. Nel caso di frammenti prodotti da vento e cicloni, Wills (1998) propone una classificazione per dimensioni, distinguendo oggetti: - compatti, con dimensioni dello stesso ordine di grandezza secondo tre direzioni; - a foglio, con due dimensioni dello stesso ordine di grandezza, ed una terza molto più piccola; - ad asta, con due dimensioni dello stesso ordine di grandezza, ma molto più piccole della terza. Le dimensioni di un oggetto che può essere alzato in volo da una PDC sono proporzionali al quadrato della velocità del flusso. La potenziale causa di danno, invece, è riferita all’energia cinetica dell’oggetto. Se la velocità di volo di quest’ultimo è una frazione W della velocità U della corrente (cioè la velocità di volo dell’oggetto è W×U in m/s), le equazioni determinate da Wills possono essere riscritte (Spence, 2007), in modo da poter determinare l’energia cinetica Ek del più grande oggetto probabilmente in volo nel flusso, in relazione alla velocità di flusso U: ⎛ ρ pf C f 1 Oggetto compatto: E k = ρ '0 ⎜⎜ 16 ⎝ ρ 0 Ig 3 ⎞ 2 8 ⎟⎟ W U ⎠ (3.5.) 99 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Oggetto foglio: ⎛ CfW 2 1 E k = ρ ' pf ⎜ ⎜ Ig 4 ⎝ ⎞ ⎟ AU 4 ⎟ ⎠ Oggetto asta: ⎛ CfW 2 1 E k = ρ ' pf ⎜ ⎜ Ig 4 ⎝ ⎞ 4 ⎟U ⎟ ⎠ (3.6.) (3.7.) Ove: ρ0 [kg/m3] è la densità di un oggetto come potenziale missile; ρpf [kg/m3]è la densità del flusso piroclastico; Cf è un coefficiente di forza applicabile a diverse forme di missili potenziali in una PDC: oggetti compatti=1, oggetti foglio=0,3, oggetti asta=0,6; I è un coefficiente di fissità per piccoli oggetti in ambiente urbano, pari ad 1 per oggetti liberi e >1 per oggetti vincolati; g è l’accelerazione di gravità pari a 9,81m/s2; W è la frazione della velocità U della corrente che rappresenta la velocità di volo dell’oggetto trasportato; A [m2] è l’area dell’oggetto a foglio. Figura 3. 6: Energia cinetica di assicelle in legno con rapporto di esilità pari a 25. La velocità del vento è quella in grado di sostenere l’oggetto in volo (Spence, 2007) In Figura 3.5 sono riportati i valori dell’energia cinetica di assicelle in legno con rapporto di snellezza (rapporto tra la lunghezza ed una dimensione trasversale rappresentativa) pari a 25, una volta raggiunte le condizioni di “volo”. La curva più in alto è quella di inviluppo. Essa indica l’energia massima di un oggetto trasportato nel flusso con una certa velocità. 100 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio La probabilità di impatto di un missile sulle finestre dipende dalla velocità e dalla densità del flusso, dalla densità dei potenziali missili nell’area di influenza della finestra e dall’area e dall’orientamento delle finestre. L’impatto del missile provocherà collasso se la sua energia cinetica sarà sufficiente a rompere la finestra. L’energia richiesta per rompere un pannello di vetro è uguale all’energia assorbita dal pannello stesso nella sua deformazione elastica fino alla crisi. Il modulo di Young del vetro è di 65.000MPa. L’energia necessaria a rompere una finestra varia da 8 a 20J per finestre di dimensioni medie e grandi, con vetri dello spessore di 3÷4mm. Si può presumere, dunque, che, per certe velocità di flusso, missili con energia cinetica inferiore ad 8J romperanno poche finestre, missili con energia cinetica tra 8 e 20 J romperanno delle finestre, e missili con energia cinetica superiore a 20J romperanno più finestre. In Figura 3.6 si riporta la valutazione (Spence, 2007) della probabilità di collasso di finestre poste al piano terra di un edificio, al variare della densità e della velocità del flusso piroclastico. Il riferimento è ad un’ipotetica eruzione sub-pliniana del vulcano de’ La Soufrière (Guadeloupe). Figura 3. 7: Probabilità di collasso di una finestra a piano terra per effetto di un missile, con densità dei missili normali ed alte (Spence, 2007) La probabilità combinata pf di collasso del vetro di una finestra per effetto della pressione e della temperatura del flusso e dell’impatto di un missile è pari a: p f = 1 − (1 − p fm )× (1 − p fp ) (3.8) 101 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio dove: pfm è la probabilità di collasso per impatto e pfp è la probabilità di collasso per pressione e temperatura. In Figura 3.7 sono riportate le probabilità di collasso separate e combinate per effetto di missili e pressione dinamica, in funzione della pressione del flusso, presumendo una densità di flusso di 5kg/m3, per finestre medie in un ambiente di normale accesso per il missile. Figura 3. 8: Probabilità di collasso separate e combinate di finestre medie, per effetto di missili e pressione, con una densità di flusso di 5kg/m3 (Spence, 2007). 3.4. PRECIPITAZIONI DI TEPHRA In linea con le definizioni vulcanologiche standard, il termine greco tephra (in italiano si trova anche la forma tefra) include depositi di scorie, pomici, cenere, lapilli, blocchi e bombe, vale a dire qualsiasi accumulazione piroclastica aerotrasportata (Figura 3.9). Eruzioni vulcaniche pliniane e sub-pliniane possono essere accompagnate da cadute di tephra per ore o giorni, sufficienti a provocare danni seri ad edifici ed attività umane. La composizione, lo spessore, la densità e la distribuzione di taglia delle particelle del deposito, dipendendo da fattori riferiti alla specifica natura dell’eruzione vulcanica, principalmente allo stile dell’eruzione e all’altezza della colonna, variano estesamente da vulcano a vulcano. Variazioni importanti di questi parametri sono anche possibili 102 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio all’interno del deposito di un’unica eruzione, vista l’influenza delle dinamiche delle diverse particelle e del tempo, specialmente vento e precipitazioni. Figura 3. 9: Depositi da tephra Vicino alla fonte dell’eruzione, cadute di tephra possono includere blocchi e bombe di massa sufficiente a provocare gravi ferite o morte delle persone colpite, così come bucare tetti e finestre con conseguenti possibili incendi. In questi casi, però, ceneri e/o lapilli possono proteggere l’edificio da blocchi e bombe fungendo da cuscino nei confronti dell’impatto. Con l’aumentare della distanza dal vulcano in eruzione, invece, i depositi di tephra sono costituiti da particelle sempre più piccole e sottili. Questo perché esse possono viaggiare più lontano, trascinate nelle nubi eruttive a distanze maggiori. In alcuni casi, comunque, ad una decina di chilometri dalla fonte, cadute di tephra possono accumularsi con profondità sufficiente a provocare crollo di tetti. A seguito dell’eruzione del Monte Pinatubo (Filippine), il 15 giugno 1991, la vulnerabilità strutturale alla caduta di tephra è stata misurata in cinque livelli, come mostrato in Tabella 3.1. LIVELLO DI DANNO D0 D1 D2 DESCRIZIONE Nessun danno. Leggero danno in copertura. Moderato danno in copertura. Severo danno in copertura e alcuni danni alla D3 struttura verticale. Collasso parziale della copertura e danni D4 moderati al resto dell’edificio. Collasso completo della copertura e danni D5 severi al resto dell’edificio. Tabella 3. 1: Livelli di danno per effetto del tephra 103 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Allo scopo di valutare l’effetto della caduta di tephra sui tetti, è indispensabile determinare il carico massimo, o il carico per unità di superficie. Entrambi dipendono dalla densità e dallo spessore della cenere: Carico da Tephra = ρ gh (3.9) ove g=accelerazione di gravità (9,80665m/s2), h=spessore o profondità del tephra (m), ρ=densità di tephra (kg/m3). La densità dipende dalla composizione del tephra (in particolare dalle proporzioni di solido e particelle veicolari), dal grado di compattezza, dall’umidità del deposito o da pioggie susseguenti. Essa perciò può cambiare con il tempo: in condizioni asciutte varia da 400kg/m3 a più di 1600 kg/m3, in funzione della compattezza; in condizioni umide, invece, va da 800kg/m3 a 2000kg/m3 (Spence, 2005). C’è da dire, però, che anche se i carichi da tephra a terra sono noti o possono essere dedotti da una mappa isopach, il massimo carico su tetto può essere diverso per molte ragioni. L’accumulazione piroclastica potrebbe, infatti: - scivolare da un tetto inclinato; - essere più o meno umida in relazione alle capacità di smaltimento idrico del tetto; - muoversi, accumulandosi su alcune parti del tetto più che su altre; - essere soffiata via da venti o pioggia. Alcuni aspetti dell’azione da tephra, come caduta del carico da tetti molto inclinati o l’accumulazione in scavi o contro muri, sono gli stessi dell’azione da neve, dunque, il carico statico da tephra può essere considerato un carico gravitazionale distribuito, simile a quello da neve. Il carico da neve, in un progetto relativo ad alcune regioni dell’Italia settentrionale, può anche raggiungere 3÷4kPa, mentre per l’area napoletana non si supera 1,0kPa. Dove il carico da neve non è una preoccupazione solita per il progetto, i tetti sono dimensionati rispetto a pressioni da vento o in relazione al grado di accesso delle persone, fosse soltanto per manutenzione periodica. E’ probabile che queste circostanze richiedano un carico minimo imposto che è di circa 0,5÷1,0 kPa, con valori più alti se il tetto è piano e/o per accesso normale o deposito. Ogni progetto presenta una certa riserva di sicurezza rispetto al valore dei carichi da norma, ma il superamento di questa soglia causerà probabilmente il crollo del tetto, di una sua parte o dell’intero edificio. 104 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Per la maggior parte dei materiali strutturali, è probabile che il crollo della struttura del tetto avvenga solamente dopo che abbiano avuto luogo delle deformazioni sostanziali. Sotto carico da tephra, oltre al tetto, possono subire collasso colonne, muri o fondazioni. Ciò può essere dovuto ad un incremento dei carichi verticali. Più comunemente, però, la crisi della struttura verticale è la conseguenza dell’iniziale crollo del tetto o del carico orizzontale da cenere che si raccoglie contro i muri. A causa degli effetti molto estesi di questo fenomeno, Protezione Civile ed autorità hanno il difficile compito di identificare le aree che hanno bisogno di essere evacuate, ma edifici capaci di resistere agli effetti probabili di un’eruzione, incluso il tephra, potrebbero ridurre l’urgenza dell’evacuazione. Il Piano di Emergenza per il Vesuvio valuta la probabilità di crollo di un tetto in relazione a valori di resistenza critici, variabili con la tipologia, tali da provocare seri problemi per la gestione delle emergenze. Questi valori (Protezione Civile) sono pari a 200 kg/m2, 300 kg/m2, 400 kg/m2 rispettivamente per tetti in legno, con travetti di acciaio, e solai in c.a. Queste soglie di resistenza sono state usate per definire limiti di confine nell’area gialla. Allo scopo di comprendere meglio la vulnerabilità dei tetti dell’area vesuviana in ragione della diversa tipologia strutturale è stata effettuata una sperimentazioni su 18 tetti esistenti nella zona (Coppa, 2004). In tal modo diventano fattori dell’analisi anche la degradazione nel tempo dei materiali strutturali e gli effetti di quelli non strutturali come malta, intonaco e tegole. La probabilità di crollo valutata con questa analisi è definita dalla seguente relazione: p(collasso) = Φ(Qmedio,Qdev) (3.3) ove: Qdev (Pa) è la deviazione standard del carico limite sul solaio per unità di superficie, Qmedio(Pa) è il carico limite medio del solaio per unità di superficie e Φ è la distribuzione cumulativa normale con valore medio Qmedio e deviazione Qdev. I valori proposti per Qmedio e Qdev sono divisi per 5 classi di tetto (Tabella 3.2), per ognuna delle quali si è assunto Qdev=20%Qmedio. Un’attenzione particolare va posta nei riguardi dei solai misti calcestruzzo- laterizi con travetti prefabbricati tipo SAP, realizzati comunemente negli anni quaranta e cinquanta in Italia, soprattutto al sud. Sono stati osservati crolli spontanei di tetti realizzati secondo questa tipologia a causa dell’elettro-corrosione per effetto pila. Questo significa che i solai 105 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio SAP presentano, per sovraccarico trascurabile, una probabilità di collasso diversa da zero. Intorno all’area vesuviana, circa il 10% dei tetti (pari al 15% degli edifici in c.a.) presenta solai in c.a. SAP (Spence, 2007). Qmedio Qdev [kPa] [kPa] Tetto in legno o con travi in ferro 4,5 0,9 Cemento armato SAP 2,5 0,5 Cemento armato con più di 20 anni di età 9,5 1,9 Cemento armato con meno di 20 anni di età o travi in acciaio e solai in c.a. 13,5 2,7 Tetto a falda in c.a. 20 4 Tabella 3. 2: Parametri di stima della probabilità di collasso pei i tetti vesuviani (Coppa 2004) TIPO Da questi risultati, si può concludere che la sostituzione delle tre tipologie più deboli (tetto in legno, con travi in ferro e SAP), costituirebbe un miglioramento significativo della resistenza dei tetti dell’area vesuviana. Oggi, circa il 70% della popolazione vesuviana vive in appartamenti costruiti nel periodo postbellico, costituiti da telai e tetti in c.a. Gli edifici realizzati prima del XX secolo, abitati dal 16% della popolazione, presentavano in origine tetti a volta in muratura, ma oggi ne restano pochi (un esempio è quello di Terzigno riportato in Figura 3.10). Figura 3. 10: Tetto a volta , comune di Terzigno In Tabella 3.3 è riportata una classificazione basata sulla probabile resistenza ai carichi da tephra (Progetto Exploris). Lo scopo è definire un set di classi di vulnerabilità standard per 106 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio tetti, ognuna con la propria curva di vulnerabilità caratteristica. La resistenza è compresa tra 1 e 8kPa. Le classi sono state definite in maniera tale che le resistenze medie di ciascuna siano spaziate ugualmente su una scala logaritmica, dalla più debole (We) con una resistenza media di 2kPa alla più forte (St) con una resistenza media di 7kPa, passando per le altre 2 classi (MW e MS) con resistenze medie di 3kPa e 4.5kPa, rispettivamente. CLASSE WE (weak) MW (medium weak) MS (medium strong) ST (strong) DESCRIZIONE Tetto con lamiere, vecchio o in cattive condizioni Tetto con tegole, vecchio o in cattive condizioni. Tetto a volta in muratura. Tetto con lamiere su struttura in legno di qualità media. Tetto con tegole su travicelli in legno o travatura reticolare di qualità media o buona. Acciaio o travetti in c.a. prefabbricati e tetti a terrazzo per civile abitazione. Tetto piano in c.a. not all above characteristics; tetto a falda in c.a. Tetto con tegole su travicelli in legno o capriata di qualità e condizioni buone, progettato per resistere all’azione dei cicloni. Tetto in c.a. piano progettato per l’accesso, di buona qualità e con età non superiore ai 20 anni. NORMALE RANGE DI CARICO DI PROGETTO [KPA] CARICO DI COLLASSO MEDIO [KPA] Pre-design code, or no design code. 2,0 1÷2 3,0 2÷3 4,5 >3 7,0 Tabella 3. 3: Proposta di classificazione europea per la resistenza alla precipitazione da tephra per tipologia di tetto In Figura 3.11 sono riportate le curve di vulnerabilità per ogni classe. La distribuzione logaritmica (logn) cumulativa presenta un coefficiente di variazione del 20%, presentando una dispersione simile a quella dei tetti vesuviani. Figura 3. 11: Curve di vulnerabilità per tetti soggetti a precipitazioni da tephra, relative alla classificazione in Tabella 3.3. Da sinistra a destra le classi WE, MW, MS, ST. 107 Daniela De Gregorio matr.37/2246 3.5. Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio COLATE DI LAVA Una colata lavica può essere caratterizzata da forme e dimensioni estremamente variabili, in funzione di alcuni parametri fondamentali, quali il tasso eruttivo, le proprietà fisiche del magma e la pendenza del substrato. Il tasso eruttivo, ovvero il volume di magma emesso nell’unità di tempo, è il fattore che maggiormente influenza l’estensione di una colata lavica. Questo accade in quanto le lave emesse con maggiore abbondanza percorreranno distanze maggiori di quelle emesse con bassa portata, prima che il raffreddamento aumenti la loro viscosità, inibendone il movimento. I tassi eruttivi dei magmi basici variano di circa quattro ordini di grandezza (tra 0,5 e 5000 m3/sec): le portate maggiori formano colate costituite, su grandi estensioni, da una singola unità di flusso (colate semplici), mentre le portate più basse portano alla formazione di colate costituite da piccole unità di flusso impilate l’una sull’altra (colate composite), in genere incapaci di percorrere grandi distanze rispetto al centro di emissione (Osservatorio Vesuviano). Le lave possono essere assimilate a fluidi di Bingham, e un simile comportamento reologico non Newtoniano può essere considerato il fattore principale che governa la forma delle colate. Un parametro che comunemente viene usato per descrivere la geometria di una colata lavica è il cosiddetto rapporto d'aspetto (V/H) dato dal rapporto tra lo spessore medio della colata V e la sua estensione orizzontale H, espressa come il diametro del cerchio la cui area è pari a quella coperta dalla colata (Figura 3.12). Il rapporto d’aspetto di una colata dipende dalla soglia di snervamento del magma, considerato appunto come un fuido di Bingham (Osservatorio Vesuviano). Affinché una sostanza di Bingham possa fluire lungo un pendio è necessario che essa raggiunga uno spessore sufficiente a far sì che lo sforzo di taglio alla base del flusso sia superiore alla soglia di snervamento. In generale sui margini di una colata, quando essa fluisce liberamente senza vincoli laterali, lo spessore non è sufficiente e queste zone stazionarie tendono a formare degli argini lungo i margini della colata. Lo spessore e la larghezza di un flusso, così come l’ampiezza delle zone stazionarie, sono legati a cinque parametri iniziali: il tasso eruttivo F; la pendenza del substrato a; la viscosità h; la soglia di snervamento s0 ed il peso specifico gr, con g=accelerazione di 108 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio gravità e r=densità. Lo spessore critico dc che deve essere superato affinché la sostanza fluisca, è dato dalla relazione: dc = s0/gra (3.4) Figura 3. 12: Dimensioni e volumi di corpi lavici a differente composizione. Le linee tratteggiate che si dipartono dall’origine degli assi rappresentano diversi livelli di V/H. Le linee punteggiate forniscono valori indicativi di volumi di corpi lavici a base circolare di dimensioni ricavabili dai valori degli assi (Walker, 1973a, modificata) Da essa si desume che più elevata è la soglia di snervamento, più spessa deve essere la colata. Da questa relazione, viscosità e tasso eruttivo si direbbe che non giochino alcun ruolo nel determinare il rapporto d’aspetto di una colata, ma in realtà essi sono presenti significativamente in quanto entrambi hanno forte influenza sul valore della soglia di snervamento: infatti essa è dipendente dalla viscosità, che a sua volta è funzione della temperatura che, a livello di gradiente di abbassamento, dipende dal tasso eruttivo. La pendenza della superficie di scorrimento influenza la forma di una colata nel senso che quanto più ripido è il pendio, tanto più stretta sarà la colata, ma, in generale, la pendenza potrà avere maggiore influenza sulle caratteristiche del flusso, influenzandone le strutture superficiali. In Figura 3.13 è riportata la carta geologico-strutturale del Somma Vesuvio. 109 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio LEGENDA: orlo calderico centri più vecchi di 15 ka faglie centri attivi dopo il 79 AD Piroclastiti indifferenziate spesso rimaneggiate di età inferiore ai 17.000 anni Piroclastiti indifferenziate di età inferiore a 17.000 anni Piroclastiti e scorie saldate del 1944 Frane in piroclastiti ancora calde verificatesi durante l'eruzione del 1944 Lave eruttate tra il 1944 e il 1913 Lave eruttate tra il 1906 e il 1875 Lave eruttate tra il 1872 e il 1855 Lave eruttate tra il 1850 e il 1824 Lave eruttate tra il 1822 e il 1798 Lave eruttate tra il 1794 e il 1744 Lave eruttate tra il 1737 e il 1637 Depositi di flussi piroclastici dell'eruzione del 1631 Colate laviche precedenti il 1631 e posteriori il 79 d.C. Dicchi e colate laviche del M. Somma Figura 3. 13: Carta schematica geologico - strutturale del Somma Vesuvio. 110 Daniela De Gregorio matr.37/2246 3.6. Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio ALLUVIONI DA COLATE DI FANGO E LAHAR I fenomeni alluvionali sono, spesso, strettamente concatenati all’attività eruttiva e, in modo più specifico all’attività esplosiva. Questa attività è caratterizzata dall’emissione di ceneri, pomici e lapilli, materiali poco coerenti, derivanti dalla frammentazione del magma che, nel corso di un’eruzione, quando giunge nella parte sommatale del condotto, a causa della liberazione improvvisa dei gas depressurizzati, viene sgretolato in elementi di diversa grandezza. I depositi dei prodotti dell’attività vulcanica esplosiva (i piroclastiti) ricoprono le superfici dei vulcani, con spessori che vanno da pochi centimetri fino ad oltre centinaia di metri. Durante l’attività esplosiva del Vesuvio, ingenti masse di piroclastiti si accumulano in prossimità delle bocche eruttive, o a distanza relativamente piccola da esse, generando ammassi caratterizzati da un’elevata instabilità gravitativa. Elementi come la scarsa coerenza dei materiali vulcanici derivanti dalla frammentazione del magma, le elevate pendenze che spesso si riscontrano sugli apparati vulcanici (20°÷30°) e la sismicità che accompagna e segue una fase eruttiva, possono contribuire a determinare condizioni di equilibrio precario dei depositi che rivestono i vulcani ed i rilievi circostanti. A rendere ancora più instabile questo delicato equilibrio intervengono le piogge che, di sovente, seguono gli eventi vulcanici esplosivi di una certa energia. Queste piogge sono innescate dal cambiamento dello stato termico atmosferico in prossimità del vulcano a seguito dell’eruzione, nonché dalla presenza delle ceneri che raggiungono altezze di diversi chilometri fungendo da nuclei di condensazione del vapore acqueo (Carlino). Quando i materiali accumulati sui pendii in prossimità del vulcano raggiungono le condizioni critiche di stabilità, le piogge innescano la mobilizzazione del deposito, con la formazione di colate di fango e lahar (Figura 3.14). Il termine lahar è di origine indonesiana e fu utilizzato per la prima volta da Escher, nel 1922, per descrivere i flussi di fango originatisi da un’eruzione vulcanica avvenuta in un lago. Questo termine viene oggi comunemente usato per indicare qualsiasi tipo di flusso fangoso contenente materiale vulcanico. Tuttavia, in molti casi, si adopera il sostantivo lahar quando si parla di grosse colate di materiale vulcanico, talvolta ancora caldo, per distinguerlo dalle colate di fango che, generalmente, coinvolgono volumi minori di detrito 111 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio e che sono sempre scaturite in seguito alle piogge. In genere tutti flussi di fango sono condizionati da meccanismi di trasporto e sedimentazione simili a quelli delle frane (debris flow) di materiale non vulcanico. Questi si muovono per effetto della gravità ed il moto stesso è vincolato da parametri come lo sforzo di taglio, la concentrazione del flusso e la pendenza della superficie di scorrimento. Figura 3. 14: Formazione delle colate di fango. I depositi da colata di fango risentono fortemente del controllo topografico, per cui frequentemente si incanalano in depressioni o si accumulano allo sbocco di valli. Al loro interno, in taluni casi, si possono trovare dei tronchi carbonizzati o delle strutture da degassazione, indici evidenti che al momento della messa in posto il deposito aveva ancora temperature elevate. Gli spessori dei depositi da colata o da lahar possono essere estremamente variabili, da pochi metri fino a diverse decine di metri, con ispessimenti nella parte anteriore del flusso. Le condizioni estremamente pericolose determinate dalle colate di fango derivano dalla loro elevata energia cinetica, indotta dalla velocità di spostamento, generalmente dell’ordine di diverse decine di chilometri all’ora, fino ad oltre 100km/h, e dalle caratteristiche granulometriche del flusso. La densità e l’energia di trasporto delle colate di fango possono essere talmente elevate da trascinare per diversi chilometri detriti con una granuolometria molto eterogenea e con massi di grandi dimensioni. Non di rado capita di osservare sulle pendici del Vesuvio depositi da colata o da lahar che inglobano blocchi di roccia vulcanica di dimensioni superiori al metro (Carlino). 112 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Le colate di fango ed i lahar, che da un punto di vista fisico vanno sotto il nome generico di flussi di massa, possono generarsi in condizioni iniziali che variano dalle concentrazioni più basse (basso rapporto solido/fluido), fino ai flussi estremamente concentrati (alto rapporto solido/fluido). Anche le temperature delle colate e dei lahar sono assai variabili e dipendono, oltre che dalla tipologia e dalla quantità dei materiali e dei gas eruttati, dai tempi che intercorrono tra il momento della deposizione di questi ultimi e il momento della rimobilizzazione. E’evidente che, a parità delle altre condizioni, maggiore è il tempo intercorso, minori saranno le temperature delle masse rimobilizzate. Un ulteriore elemento di pericolosità delle colate di materiale piroclastico, è determinato dalla facilità con cui l’acqua riesce a miscelarsi ad esse durante il percorso del flusso verso valle. Il contenuto d’acqua è, in particolare, un elemento che determina la maggiore o minore densità e viscosità di un flusso. La mobilità di quest’ultimo, difatti dipende strettamente dalla sua viscosità, ovvero dalla maggiore o minore capacità di scorrere su un pendio sotto l’azione del campo gravitazionale. A tal proposito, si osservi che i flussi newtoniani (meno viscosi) si muovono liberamente sotto l’azione della gravità, non appena insorgono le condizioni critiche di stabilità, mentre i flussi di Bingham necessitano di uno sforzo aggiuntivo per potersi mobilitare, poiché il loro comportamento è più viscoso. A parità di altre condizioni (pendenza del piano di scorrimento, granulometria del flusso, ecc.), la capacità di moto di una colata di fango dipende dal contenuto in acqua di quest’ultima, e dalla capacità della stessa di perdere o immagazzinare acqua durante il percorso. Diversi esperimenti eseguiti in Giappone, su alcuni vulcani attivi, hanno fornito dei dati sulle condizioni di criticità della pioggia, che determina l’innesco delle colate di fango e dei lahar. Yamaoka (1987) indica che, per uno spessore di 500mm di piroclastiti mediamente cerniti, di lunghezza pari a 300m, su un pendio di 17-18 gradi, la pioggia critica è uguale a circa 20mm, con un’intensità approssimativa di 10mm/h. Ulteriori condizioni di pericolosità possono provenire dalla presenza di ghiaccio o di laghi vulcanici che rappresentano dei serbatoi naturali d’acqua. In questo caso il grado di rischio è proporzionale al volume d’acqua disponibile. Altri fattori che vanno considerati nel quantificare il rischio di colate di fango e lahar sono le pendenze dei fianchi del vulcano, la presenza di alvei e linee di impluvio nei quali possono incanalarsi i flussi e il grado di infiltrazione delle acque piovane. 113 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Le colate di fango, mediamente ricche di acqua, possono essere assimilate a dei fluidi newtoniani. Quelle con alto rapporto solido/acqua, invece, offrendo una maggiore resistenza al moto, si comportano come flussi di Bingham. Le colate di fango, durante il loro percorso, sono in grado di assumere dei caratteri intermedi tra flussi newtoniani e di Bingham. In taluni casi una colata che inizialmente ha le caratteristiche di un fluido newtoniano, può divenire di tipo Bingham per la perdita d’acqua che subisce nel suo spostamento da monte a valle. In questo caso la colata può arrestarsi prima, poiché non è più in grado di scorrere liberamente sotto l’azione della gravità, come per i fluidi newtoniani. Lo studio del comportamento fisico delle colate di fango e dell’energia che queste possono produrre e trasferire alle strutture è fondamentale ai fini della protezione civile. Attraverso un’analisi dettagliata delle caratteristiche fisiche dei materiali prodotti da un vulcano, dei volumi che possono essere rimobilizzati sotto forma di colate di fango, della morfologia del vulcano, degli eventi avvenuti in passato, delle aree a maggior rischio di invasione, delle zone abitata e delle infrastrutture sottoposte a tale rischio, è possibile definire delle mappe del rischio e agire sul territorio con opportuni interventi finalizzati alla mitigazione del rischio stesso. Faella & Nigro, sulla base dei danni prodotti sugli edifici durante la frana di Sarno, propongono dei meccanismi di crollo utili per comprendere gli effetti delle colate di fango, dei lahar e delle lave, anche se mancano gli effetti delle temperature. Allo scopo di interpretare gli effetti di una massa semi-solida sulle strutture, lo studio si riferisce a prove su modelli analitici, basati sull’osservazione del danno e la successiva valutazione dell’energia spesa dal flusso di fango per produrre un certo danno. Questa energia può essere trasformata in un sistema di forze equivalenti che agiscono sulla struttura, producendo lo stesso danno. Gli effetti dell’impatto della frana sugli edifici varia con i seguenti parametri: - tipologia strutturale (muratura, telai in c.a.); - direzione del flusso di fango rispetto all’edificio (frontale, tangenziale); - valore dell’energia cinetica. Nel caso di impatto frontale, l’energia cinetica è trasmessa direttamente all’edificio, producendo, per strutture in muratura, la rottura dei muri ortogonali alla direzione del 114 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio flusso. Per strutture a telai in c.a., invece, non è il semplice crollo delle tamponature a provocare riduzione della capacità portante, ma l’impatto di masse in movimento e la pressione dinamica del flusso a produrre meccanismi di crollo nella struttura intelaiata, a causa della formazione di cerniere plastiche all’estremità o al centro delle colonne. L’analisi e l’interpretazione del danno strutturale ha consentito di identificare alcune tipologie di meccanismo di collasso per edifici in c.a. e in muratura che permettono di valutare la capacità portante ultima dei singoli elementi e/o della struttura complessiva. Il confronto tra la capacità portante ultima e la pressione di idrostatica/idrodinamica prodotta dall’impatto del flusso ha consentito di valutare la velocità di impatto. Nei modelli idrodinamici, si è fatta l’ipotesi di una corrente fluida di densità continua, mentre si è trascurata la possibile presenza di masse concentrate, quali alberi, pietre e altro materiale trasportato. Dall’osservazione del danno causata dalla frana del Sarno (1998), sono stati individuati i seguenti meccanismi (Figura 3.15): a.Edifici in cemento armato - crollo delle tamponature in mattone, senza danno agli elementi strutturali (Figura 3.15); - formazione di tre cerniere plastiche: meccanismo di collasso delle colonne, senza collasso globale (Figura 3.15b); - meccanismo di collasso a taglio delle colonne, con spostamento delle parti dell’edificio (Figura 3.15c). - formazione di cerniere plastiche: meccanismo di collasso delle colonne, con la formazione del meccanismo di piano a pianterreno, producendo il fallimento della struttura intera (Figura 3.15d); b.Edifici di muratura - meccanismo di pannello, con la formazione di tre cerniere plastiche nel pannello verticale (Figura 3.15e). L’analisi dei risultati ha indicato che: 115 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio - velocità di flusso relativamente basse (<5÷6m/s), anche in regime di idrostatico, possono produrre il crollo di edifici di muratura; - velocità basse (approssimativamente di 3m/s) costituiscono le cause del crollo delle tamponature degli edifici in c.a.; - impatti frontali con velocità di flusso di circa 10m/s possono provocare il crollo di edifici in c.a., a causa del meccanismo di piano per la formazione di due cerniere plastiche; - una velocità di flusso compresa tra i 15 e i 20m/s può produrre il collasso delle sole colonne, con la formazione di tre cerniere plastiche. b) a) d) c) e) Figura 3. 15: Modelli per frane (Faella & Nigro, 2001) a)Crollo dei muri esterni in mattone – meccanismo ad arco. b)Meccanismo di collasso delle colonne in c.a. per formazione di tre cerniere plastiche. c)Meccanismo di collasso per taglio delle colonne in c.a. d)Meccanismo di collasso delle colonne in c.a. del piano terra per formazione di due cerniere plastiche. e)Meccanismo resistente dei pannelli in muratura. Sulla base di queste indicazioni è possibile studiare delle raccomandazioni speciali che diano orientamenti tecnici per la realizzazione di nuove costruzioni nelle aree a rischio. I nuovi edifici devono essere progettati in modo da resistere al flusso di frammenti, quantificando le azioni sulla base della velocità di impatto. 116 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Con questo scopo, l’area interessata è stata suddivisa in tre zone diverse, sulla base dei valori attesi di velocità di flusso e pressione corrispondente (Tabella 2.4). ZONA A RISCHIO VELOCITÀ ATTESA PRESSIONE IDRODINAMICA [m/s] [kN/m2] A. Alto 10 150 B. Medio 7 73,5 C. Basso 5 37,5 Tabella 3. 4: Zone a rischio, in riferimento alla velocità attesa ed alla relativa pressione idrodinamica. E’ interessante osservare che tali azioni possono essere più forti delle normali azioni di progetto per terremoto. 3.7. MAREMOTI (O TSUNAMI) La comunità scientifica internazionale ha unanimemente adottato il termine tsunami, dal giapponese (ideogramma a sinistra) “tsu”=porto e “nami”=onda (onde di porto o onda nel porto), per indicare il fenomeno dei maremoti. I maremoti sono onde lunghe, con periodi compresi tra 5 e 60 minuti (mediamente 15÷20 min), generate impulsivamente per lo spostamento della massa d’acqua e che, avvicinandosi alla costa, possono raggiungere altezze molto elevate. Figura 3. 16: Tsunami (fotomontaggio) 117 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Gli tsunami sono causati, nella maggior parte dei casi, da terremoti sottomarini o in prossimità della costa e, meno frequentemente, da frane sottomarine o aeree, da eruzioni vulcaniche e, raramente, dall’impatto di meteoriti nell’acqua. Non tutti i terremoti sottomarini sono in grado di generare maremoti. Perché questo si verifichi occorre che il terremoto abbia una profondità focale non troppo elevata, una magnitudo rilevante (almeno di magnitudo 7 della scala Richter) e, soprattutto, abbia un meccanismo focale che provochi uno spostamento verticale (sollevamento o sprofondamento) del fondo marino in grado di mettere in moto la massa d’acqua sovrastante. Movimenti di tipo trascorrente (con piano di faglia verticale) hanno minore capacità di generare maremoti. Anche le frane sottomarine, con scivolamento di sedimenti (spesso attivato da terremoti), possono modificare l’equilibrio della massa d’acqua e produrre uno tsunami, così come la caduta in acqua di grossi blocchi rocciosi o di sedimenti in caso di frane aeree. Talvolta violente eruzioni vulcaniche sottomarine possono creare una forza impulsiva che sposta la colonna d’acqua e genera il maremoto. Inoltre tsunami di origine vulcanica possono essere dovuti allo scivolamento in mare di masse di materiale lavico incandescente lungo i fianchi ripidi del vulcano. Figura 3. 17: Schema grafico della terminologia Da un punto di vista fisico le onde di maremoto sono caratterizzate da lunghezze d’onda, distanza tra due creste (Figura 3.17), molto elevate, dell’ordine delle decine o centinaia di chilometri, quindi molto grandi rispetto alla profondità dell’acqua in cui viaggiano, anche in aperto oceano. Questa caratteristica fa sì che le onde di maremoto si comportino come “onde in acque basse” (shallow water waves). Queste onde viaggiano ad elevata velocità in mare aperto, raggiungendo anche i 700÷800km/h, e sono in grado di propagarsi per migliaia di chilometri conservando pressoché inalterata la loro energia ed essendo quindi in grado di abbattersi con eccezionale violenza anche su coste molto lontane dal punto di origine (Tinti). 118 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio La velocità v di propagazione delle shallow-water waves è: v = g ⋅d (3.5) ove: d è la profondità dell’acqua e g è l’accelerazione di gravità (9,8 m/s2). Le onde di tsunami, che in mare aperto passano spesso inosservate per la loro scarsa altezza, quando si avvicinano alla costa subiscono una trasformazione: la loro velocità si riduce (essendo direttamente proporzionale alla profondità dell’acqua) e di conseguenza l’altezza dell’onda aumenta, fino ad arrivare a raggiungere anche alcune decine di metri quando si abbatte sulla costa. L’altezza e l’impatto delle onde sulla costa è funzione di molti parametri. Infatti, oltre alla profondità dell’acqua anche la topografia del fondale marino e le caratteristiche della costa, come la presenza di insenature, golfi, stretti, o foci di fiumi che possono produrre effetti di amplificazione, giocano un ruolo determinante. Talvolta il maremoto si manifesta con un fenomeno di iniziale ritiro delle acque (regressione) che lascia in secco i porti e le navi per breve tempo. In realtà questo rappresenta l’arrivo del cavo dell’onda ed è, pertanto, un fattore determinante che preannuncia l’arrivo della successiva cresta e la conseguente inondazione (ingressione). Lo tsunami che raggiunge la costa può apparire simile ad una marea che cresce e decresce rapidamente, sollevando il livello generale dell’acqua anche di molti metri; o si può presentare come un treno di onde, delle quali la prima non necessariamente è la maggiore; oppure si presenta come un vero e proprio muro d’acqua e, in questi casi, l’impatto delle onde di tsunami sulla costa è molto spesso devastante (il fotomontaggio in Figura 3.16 chiarisce l’entità del fenomeno). La massima quota raggiunta dall’onda è detta runup. Dopo l’inondazione, quando un’onda di tsunami si ritira (draw down) tende a trascinare con se tutto quello che ha incontrato nel suo percorso sulla spiaggia e a lasciare sul terreno acqua e detriti. I maremoti sono un fenomeno molto importante e spesso sottovalutato, in grado di produrre danni ingenti e perdita di molte vite umane. Fortunatamente i maremoti catastrofici sono eventi rari, tuttavia tsunami rilevanti e di entità minore colpiscono spesso nel mondo. In particolare l’area del Pacifico è quella nella quale questi fenomeni sono più frequenti e disastrosi, con onde in grado di attraversare l’intero Oceano Pacifico in meno di 24 ore. La regione del Giappone-Taiwan rappresenta l’area più attiva, dove si genera circa il 30% del totale degli tsunami del Pacifico, anche se non tutti sono distruttivi. Nel 1896 un forte maremoto in Giappone ha provocato 27.000 morti ma il più forte è quello seguito al 119 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio terremoto del Cile del maggio 1960, che ha causato oltre 1000 vittime nelle coste cilene. Lo tsunami ha poi raggiunto le coste delle isole Hawaii con ingenti danni e vittime e si è propagato fino in Giappone attraversando il Pacifico in 22 ore e provocando oltre 150 vittime. Nel marzo del 1964 un altro violento tsunami fu prodotto in Alaska, con poche vittime ma con onde che si propagarono sino alle coste della California. Anche il Mediterraneo è stato interessato nei secoli da eventi di tsunami, sia distruttivi che di minore entità, principalmente lungo le coste della Grecia e dell’Italia. Il maremoto in assoluto più devastante è stato quello prodotto dal collasso della caldera del vulcano Santorini, circa nel 1400a.C. dove l’esplosione ha prodotto il collasso della caldera con onde stimate tra 50÷90m di altezza. Il maremoto si propagò con una velocità di oltre 300km/h e in pochi minuti raggiunse le coste della Turchia meridionale. Meno di tre ore dopo la Siria, l’Egitto e la Palestina furono devastati dalle onde. Questo evento è ritenuto essere la possibile causa della scomparsa della civiltà minoica. Per quanto riguarda le coste italiane, il maremoto più disastroso è quello seguito al terremoto di Messina del dicembre 1908. Il terremoto distrusse totalmente le città di Messina e Reggio Calabria ed un violento tsunami seguì la scossa principale, causando ingenti danni e centinaia di vittime, con onde che raggiunsero i 13m di altezza sulle coste calabre, a Pellaro e 11,70m a S.Alessio, sulle coste della Sicilia. L’ultimo maremoto italiano è quello avvenuto a Stromboli (Isole Eolie) il 30 Dicembre 2002, causato dallo scivolamento (prevalentemente sottomarino) di un enorme massa di materiale vulcanico dalla Sciara del Fuoco (Figura 3.18). Le onde, che hanno raggiunto 11 metri di altezza a Stromboli, hanno prodotto danni ingenti e si sono propagate fino a Ustica, Sicilia settentrionale e coste campane. Nei mari europei i tempi di tragitto dell’onda dalla sorgente del maremoto alla costa sono relativamente brevi, generalmente non superiori a 30 min. Questo tempo è ancora minore per i maremoti del Mediterraneo e dell’Italia in particolare, dove solitamente le onde colpiscono le coste solo una decina di minuti dopo il verificarsi della scossa. Questo perché la maggior parte dei terremoti tsunamigenici si verificano in mare a poca distanza dalla costa o addirittura in terra molto vicino alla costa. L’Italia è zona potenzialmente soggetta agli tsunami, non fosse altro che per la sua posizione peninsulare e per l'alta sismicità di alcune regioni. 120 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 3. 18: Maremoto del 30 Dicembre 2002, Stromboli Nella Tabella 3.5 si riportano gli tsunami di origine vulcanica registrati dall’anno 1000 ad oggi in Italia. ANNO 1631 1919 1930 1944 1954 2002 LOCALITA' CAUSA DEL MAREMOTO Runup.[m] Campania Eruz. vulcanica a terra 4 5,00 Ritiro nel Golfo di Napoli Isole Eolie Eruz. vulcanica sottomarina 3 Inondazione a Stromboli Isole Eolie Eruz. vulcanica sottomarina 3 2,50 Ritiro-inondazione (Stromboli) Isole Eolie Eruz. vulcanica sottomarina 2 Inondazione/ abitazioni distrutte Isole Eolie Eruz. vulcanica sottomarina 2 Debole tsunami a Stromboli Onde anomale ad Augusta Isole Eolie Eruz. vulcanica 3,00 Inondazione a Stromboli per una frana provocata dall'eruzione Tabella 3. 5: Tsunami di origine vulcanica in Italia dall’anno 1000 ad oggi INTENSITA' 3 3 3 4 2 2 Per stabilire l’intensità di uno tsunami si usa la scala Sieberg-Ambraseys (introdotta nel 1927 da August Sieberg e poi modificata da Nicholas Ambraseys nel 1962) adottata anche nei cataloghi europei. Questa scala (Figura 3.5) prevede i sei gradi seguenti. 121 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio I - MOLTO DEBOLE. Onda percettibile solo dai mareografi. II – DEBOLE. Onda avvertita da persone che vivono vicino alla spiaggia e hanno familiarità col mare. Osservata solo su spiagge molto piatte. III - ABBASTANZA FORTE. Onda avvertita da tutti. Inondazione di coste a dolce pendenza. Piccole imbarcazioni spinte sulla spiaggia. Modesti danni alle strutture leggere vicino alla costa. Negli estuari inversione della corrente dei fiumi. IV – FORTE. Inondazione delle spiagge fino a una altezza definita caso per caso. Leggera erosione dei terreni non consolidati. Danni alle strutture leggere prossime alla riva. Piccoli danni alle strutture in muratura sulla costa. Insabbiamento di imbarcazioni o loro trascinamento al largo. Detriti galleggianti lungo le coste. V - MOLTO FORTE. Inondazione delle spiagge fino a una altezza definita nelle diverse zone. Danni significativi alle strutture in muratura lungo la spiaggia. Distruzione delle strutture leggere. Forte erosione. Oggetti galleggianti e animali marini sparsi sulla riva e lungo la costa. Tutti i tipi di imbarcazione, a parte le grandi navi, sono scaraventate a terra o trascinate in mare aperto. Alte ondate sugli estuari dei fiumi. Danni alle costruzioni portuali. Persone affogate. Onda accompagnata da un forte rombo. VI – DISASTROSO. Totale o parziale distruzione di tutte le costruzioni fino a una determinata distanza dalla spiaggia. Inondazione della costa fino a una notevole altezza. Danni forti anche alle grandi navi. Alberi sradicati e troncati. Molte vittime. Una recente ricerca canadese (Palermo) schematizza i carichi da tsunami in impatto iniziale e flusso post-impatto (Figura 3.19). L’impatto iniziale è prodotto dal fronte d’onda (Fs) e dai frammenti trasportati (Fi). Il flusso post-impatto, invece, è costituito dall’impatto dei frammenti (Fi), dall’azione di trascinamento (FD) e dalla pressione idrostatica dell’acqua (FHS). Le azioni suddette valgono: Fs = 4,5 ρ gh 2 ; Fi = m ul ρ C D Au 2 1 ; FD = ; FHS = ρ Δt 2 2 ⎛ u 2p ⎞ ⎟ g⎜ d s + ⎜ ⎟ g 2 ⎝ ⎠ (3.6) ove: ρ è la densità; g l’accelerazione di gravità; h l’altezza del fronte d’onda; m la massa dei frammenti trasportati; u la velocità del flusso; ds il livello di inondazione. 122 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio a) b) Figura 3. 19: Carichi prodotti da uno tsunami: a)impatto iniziale; b)flusso post- impatto I valori da inserire nelle relazioni (3.6) sono offerti dalla normativa di Honolulu (CCH) e dal Manuale delle costruzioni litoranee dell’Agenzia per la Gestione delle Emergenza Federali (FEMA 55): - Impatto frammenti trasportati (Fi): m = 455kg ; (CCH ) ⎧ 0,1s Δt = ⎨ ⎩0,2 ÷ 0,6s ( FEMA55) I valori di Δt si riferiscono ad edifici in c.a. - Azione di trascinamento (FD): 123 Daniela De Gregorio matr.37/2246 ⎧ ds u=⎨ ⎩2 gd s Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio (CCH ) (CCH ) ⎧1,0 ; CD = ⎨ ( FEMA55) ⎩1,2 ( FEMA55) Figura 3. 20: Variazione della velocità del flusso u, con il livello di inondazione ds. 124 Daniela De Gregorio matr.37/2246 4. IDENTIFICAZIONE Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio DELLE TIPOLOGIE DI COSTRUZIONE NELLA ZONA VESUVIANA 4.1. EDIFICI IN MURATURA In generale, gli edifici in muratura possono dividersi in tre classi (De Angelis, 2002): • I classe. Costruzioni costituite esclusivamente da muratura. • II classe. Costruzioni costituite da una scatola muraria verticale a sostegno di solai orizzontali formati con travi non collegate con la muratura nei punti di appoggio. • III classe. Costruzioni costituite da pareti murarie collegate orizzontalmente da impalcati monolitici. I CLASSE. Lo schema che caratterizza la I classe è quello in cui tutte le membrature portanti siano costituite da muratura (incapace di resistere a trazione) e sopportino carichi esclusivamente in regime di compressione, generalmente eccentrica. In particolare le strutture che sostengono i carichi agenti sugli orizzontamenti sono realizzate con schemi spingenti (volte, archi) . Le membrature verticali devono essere capaci di sostenere , oltre che i carichi verticali , anche le spinte indotte da archi e volte. Solo gli edifici più antichi forniscono esempi di costruzioni integralmente in muratura, con i sostegni verticali e gli impalcati realizzati con materiali lapidei. In particolare, gli impalcati sono sagomati secondo archi e volte ripianati superiormente con materiale di riempimento, staticamente inerte. I carichi sono costituiti, per la maggior parte, dal peso proprio e dai sovraccarichi permanenti. Essi determinano presso-flessione nella generica sezione trasversale. Le azioni degli archi e delle volte alle imposte si compongono con i pesi delle murature verticali e, affinché la risultante delle forze sia sempre contenuta all’interno della sezione, ancora meglio entro il terzo medio, le murature verticali devono assumere notevoli proporzioni. Tutta la struttura è in definitiva sollecitata a presso-flessione. L’ipotesi di assoluta incapacità di resistere a trazione si riferisce ad una condizione limite teorica, a cui tende la struttura. In realtà, all’inizio, esistono delle zone di muratura 125 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio sottoposte a trazione, naturalmente nell’ambito della resistenza limite. Nel primo periodo di vita, quindi, si determina un regime statico che corrisponderebbe ad un materiale resistente anche a trazione. Negli anni successivi si sovrappongono agli effetti iniziali dei carichi esterni, gli assestamenti lenti del piano di posa, le coazioni dovute ai cicli termici stagionali, gli effetti del ritiro, del vento ecc. e le zone che risultavano tese nel primo periodo, o per fatica o per superamento della resistenza di trazione, finiscono in gran parte per cedere o per fratturarsi. Ciò causa parzializzazione degli archi dei sostegni verticali che vedono così ridursi la loro rigidità. Le deformazioni iniziali crescono e la struttura dallo stato iniziale di completa integrità , passa attraverso nuovi stati caratterizzati da sempre più ampie parzializzazioni delle zone che man mano risultano soggette ad una trazione al di là della resistenza limite. Il passaggio è graduale e lo schema statico della struttura, corrispondente all’evoluzione del quadro fessurativo, si modifica con variazione delle caratteristiche geometriche ed elastiche, tendendo al limite (teorico) di struttura completamente priva di zone tese. Si giustifica, quindi, a vantaggio di sicurezza, la formulazione e l’adozione dell’ipotesi limite finale di parzializzazione “a priori” di tutte le sezioni trasversali della muratura. Si suppone la struttura costituita da un insieme di conci “scabri” tra loro idealmente separati . Il contatto puntuale tra i singoli blocchi è assicurato dalla malta che sposa la scabrosità dei conci lapidei. La capacità portante complessiva di questo schema è di certo inferiore a quella effettiva e quindi esso è accettato a vantaggio di statica. II CLASSE. Nel caso della II classe, gli orizzontamenti sono realizzati in legno o in ferro e poggiati sulle murature a convenienti intervalli. I carichi sono sostenuti per flessione e taglio ed è eliminato ogni effetto spingente caratteristico della prima classe, con notevole vantaggio per la scatola muraria. La caratteristica di questa classe è l’autonomia statica dei muri verticali che prescindono dalla collaborazione delle travi orizzontali, che possono essere sostituite, almeno in parte, senza arrecare pregiudizio alle strutture verticali. Nell’ipotesi limite di vincoli privi di attrito le travi scivolano liberante sulle murature, costituendo due sistemi indipendenti che si trasmettono mutue azioni verticali. In realtà i vincoli non sono lisci ma dotati di attrito. Con opportuni accorgimenti (chiavi di ancoraggio alle testate delle travi) si possono imporre spostamenti orizzontali congruenti con notevole beneficio per la statica dell’edificio. Aspetto importante nella tecnica costruttiva è che il verso di orditura dei solai 126 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio sia alternativamente variato ai vari livelli in modo che non esistano muri slegati per tutta l’altezza dell’edificio. Ogni parete muraria viene considerata staticamente slegata anche dai muri trasversali ai quali è geometricamente adiacente. Questa ipotesi si realizza se si verifica un distacco delle pareti in corrispondenza degli incroci. Ciò è possibile perché mancano elementi orizzontali resistenti a trazione che assicurino il collegamento. La condizione statica dei muri perimetrali è particolarmente delicata. Infatti l’appiombo della superficie esterna viene mantenuto costante per motivi architettonici e le riseghe si effettuano tutte all’interno. Inoltre, negli spigoli degli edifici, laddove i solai sono orditi parallelamente alla parete, manca un pur minimo vincolo trasversale (almeno l’attrito) e quindi, il muro può manifestare tendenza a ribaltare verso l’esterno. III CLASSE. Questa classe vede disposto, in corrispondenza di ogni impalcato, un telaio orizzontale di piano costituito da un cordolo in c.a. che esplica la funzione di concatenamento, impedendo gli spostamenti relativi. Viene, altresì, imposta una certa congruenza delle rotazioni tra solai e muratura. a) b) c) Figura 4. 1: Esempi di edifici in muratura dell’area vesuviana: a) Torre del Greco, zona litoranea; b) Torre Annunziata, corso Vittorio Emanuele III; c) Pollena Trocchia Oggi, le costruzioni presenti nell’area vesuviana sono sostanzialmente due: a masso continue ed a masso composte (Gangemi, 1991). 127 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Le costruzioni a masso continue (Figura 4.2a) sono costituite da chiusure e partizioni interne in muratura, piano interrato, piano terra e piani superiori con orizzontamenti a volta, coperture a volta estradossata o a terrazza su volta. E’ il caso di edifici rurali, generalmente abitazioni monofamiliari ad uno o due piani. Le costruzioni a masso composte (Figura 4.2b), invece, sono costituite da chiusure e partizioni verticali interne in muratura, piano interrato e piano terra con orizzontamenti a volta, piani superiori con solai piani, generalmente in legno, coperture a tetto o a terrazzo. E’ il caso di edifici pluripiano frequenti in ambito urbano. (a) (b) Figura 4. 2: Costruzioni a masso continue (a) e a masso composte (b) Gli elementi murari (Figura 4.3) sono costituiti da pietrame naturale alla rinfusa; pietra naturale squadrata; muratura a sacco; muratura in laterizi; da file alternate di pietra naturale (tufo) e laterizi. Figura 4. 3: Tessiture di muratura di tufo: a ad una pietra (spianata); b per spessori fino a circa 70cm; c per spessori superiori a 100cm La pietra più diffusa è il TUFO che presenta buone caratteristiche dal punto di vista statico e dell’isolamento termico, ma è alquanto deteriorabile se esposto agli agenti atmosferici. Di qui l’impiego generalizzato di intonaco a difesa della muratura e l’utilizzazione, solo in rarissimi casi, del tufo a faccia vista. 128 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Lesene e marcapiani, ove presenti nelle decorazioni delle facciate, sono, quasi sempre, realizzati in stucco su supporto di muratura sagomata e lievemente aggettante. Figura 4. 4: Le aperture negli edifici in muratura I vani di finestre e balconi sono ottenuti realizzando piedritti in tufo oppure in mattoni pieni, utilizzati da soli o in filari alternati coi tufo. Il traverso superiore è costituito da una piattabanda realizzata con conci di tufo squadrati di forma trapezoidale, spesso alternati a mattoni pieni disposti in coltello. In molti casi, al di sotto della piattabanda è presente un architrave in legno di castagno, in pratica una «forma persa» usata nella costruzione della piattabanda stessa. Esistono, tuttavia, aperture con traverso superiore costituito dalla sola piattabanda in tufo o dal solo architrave in legno (Figura 4.4). I SOLAI degli edifici in muratura sono sostanzialmente di due tipi: in legno ed in ferro. Nei primi la formazione dei piano è ottenuta con piccoli tronchi di legno di castagno, del diametro di 8÷10cm, di lunghezza pari all’interasse delle travi, tagliati per metà lungo la dimensione maggiore e poggianti sulle travi uno accanto all’altro con la convessità rivolta verso l’alto; tali elementi prendono il nome di panconcelle (Figura 4.5). Il massetto di compianamento è costituito da un conglomerato di calce e lapillo con l’aggiunta, non infrequente, di materiale di risulta derivante dalla lavorazione del tufo. Sul 129 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio massetto è allettato il pavimento che, a seconda dell’epoca di costruzione, è costituito da piastrelle di argilla cotta smaltata (riggiole) o da marmette di cemento e graniglia di marmo pressati. I solai in legno sono spesso occultati da una controsoffittatura di tela di juta. Su una griglia di listelli di legno di abete agganciata alle travi e poggiante su un listello di maggiori dimensioni posto lungo il perimetro delle pareti, è inchiodata la tela di juta su cui è incollata della carta successivamente imbiancata oppure, in taluni casi, artisticamente decorata. Altro tipo di controsoffittatura è la cosiddetta incannucciata, usata soprattutto per la realizzazione di finte volte, costituita da un intreccio di canne e sovrapposto strato di intonaco. Figura 4. 5: Solaio in legno I solai in legno costituiscono una soluzione costruttivamente facile, ma che generalmente prevede spessori utili elevati, alta deformabilità meccanica, facilità di usura per effetto di agenti esterni, scarse caratteristiche di isolamento termico ed acustico, facilità di incendio. Altra nota dolente dei solai in legno è la scarsa possibilità di collegamento con la restante struttura portante che li rende così poco adatti per costruzioni in zona sismica; se non ben 130 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio curati infatti, i collegamenti non sono in grado di trasmettere adeguatamente le forze inerziali di piano con conseguente mal funzionamento dell’intero organismo strutturale. All’inizio del XX secolo si è diffuso l’uso di solai con travi in ferro a doppio T ad ali strette (putrelle) con compianamento costituito da voltine in conci di tufo o in mattoni pieni disposti in coltello o in foglio (Figure 4.6, 4.7 e 4.8). Questi solai rispetto a quelli in legno, oltre a mantenere la facilità di esecuzione hanno la possibilità di superare luci assai maggiori e con minore deformabilità, migliorando inoltre le caratteristiche termiche ed acustiche. Come quelli in legno, i solai in acciaio sono vulnerabili al fuoco e spesso presentano problemi di finitura come ad esempio la difficoltà di intonacare uniformemente l’intradosso per la presenza di materiali differenti (acciaio e laterizio). Figura 4. 6: Solai in ferro: a) con “spaccatele di tufo”; b) con voltine di mattoni in foglio; c) con voltine di laterizio forati; d) con voltine di mattoni Figura 4. 7: Sezioni solai in ferro 131 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 4. 8: Assonometria solai in ferro 4.2. EDIFICI IN CEMENTO ARMATO Molto diffusi nell’area vesuviana sono gli edifici con scheletro completamente in conglomerato cementizio armato (Figura 4.9). a) b) c) Figura 4. 9: Esempi di edifici in cemento armato dell’area vesuviana: a) Torre Annunziata, via Prota, coop. San Giorgio; b) Somma Vesuviana, Parco App.; c) Portici, viale Melina. 132 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio In questo caso, le murature, pur contribuendo all’irrigidimento della struttura, si considerano non portanti. Dal punto di vista del calcolo delle sollecitazioni indotte da un evento sismico e del relativo comportamento della struttura, la schematizzazione più completa è quella dello scheletro spaziale, diaframmato ad ogni piano da lastre (solai) rigide nel loro piano. Negli edifici ad ossatura in c.a., le tipologie possibili di SOLAI sono quelli: a soletta piena e nervata, latero-cementizi gettati in opera, con travetti prefabbricati in c.a. o in c.a.p., predalles, a pannelli prefabbricati (Paolacci, 2004). I solai a soletta piena furono i primi ad essere proposti ma avevano l’inconveniente principale di essere estremamente pesanti. Venne così l’idea di alleggerire la struttura realizzando graticci di travi in cemento armato collegate da una sottile soletta sovrastante anch’essa in c.a., la cosiddetta soletta nervata (Figura 4.10). Questo tipo di struttura ricalca fedelmente l’orditura classica dei solai in legno con un’orditura principale, una secondaria e un elemento piano di collegamento. Il primo e forse unico grande vantaggio della soletta nervata è senza dubbio la monoliticità. Di contro gli svantaggi sono molteplici: gli elevati oneri per la sua realizzazione (carpenteria e mano d’opera), la superficie dell’intradosso non piana e le scarse proprietà di isolamento acustico hanno fatto si che si ricercassero soluzioni alternative più economiche e di più rapida esecuzione. Figura 4. 10: a) Solaio monolitico a soletta nervata. b) Solaio latero-cementizio gettato in opera Gran parte di questi problemi vennero risolti inserendo, tra i travetti, un materiale leggero quale laterizio o polistirolo, i quali isolano e permettono di avere un intradosso piano e facilmente rifinibile. Nacquero così i primi solai latero-cementizi gettati in opera (Figura 4.11). 133 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 4. 11: Solaio latero-cementizio L’onere maggiore, nella realizzazione di un solaio totalmente gettato in opera è la carpenteria, cioè la costruzione di un impalcato ligneo provvisorio. Per ovviare a questo inconveniente sono nati i solai con travetti prefabbricati in cemento armato o cemento armato precompresso (Figura 4.12a, b). Questi travetti, a seconda delle loro caratteristiche, hanno capacità portanti più o meno elevate e sono in grado, quindi, di sostenere da soli il peso dei laterizi e del getto di completamento in calcestruzzo, aiutati solo da elementi rompitratta situati ad intervalli regolari. Inoltre, rispetto al solaio gettato in opera, conservano comunque una discreta flessibilità di adattamento anche a fabbricati di pianta complessa. a) b) Figura 4. 12: a) Solaio con travetti prefabbricati a traliccio. b) Solaio con travetti prefabbricati precompressi I travetti a traliccio sono quelli più in uso e sono composti da una piccola struttura reticolare spaziale con discrete capacità autoportanti. A seconda dell’utilizzazione vengono realizzati tralicci di diverse altezze e armature. Oltre a un’armatura di base, già inserita nell’elemento, possono essere annegati nella suola ulteriori ferri la cui sezione complessiva dipenderà dalle condizioni statiche del solaio finale. L’armatura destinata ad assorbire i 134 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio momenti flettenti negativi, invece, deve essere posizionata in opera poco prima del getto finale. Con i travetti a traliccio gli elementi rompitratta devono essere posti a una distanza compresa tra 1 e 1,5 metri. I travetti in c.a.p. sono una valida alternativa ai travetti a traliccio soprattutto in presenza di luci o carichi elevati o quando è difficoltosa la realizzazione di una puntellazione adeguata poiché posseggono capacità autoportanti superiori e necessitano di travetti rompitratta posti a distanze comprese tra 1,5 e 2 metri. Le dimensioni e l’armatura di precompressione, realizzata con acciai ad alta resistenza, variano a seconda del campo di utilizzazione, mentre l’armatura destinata ad assorbire i momenti flettenti negativi, anche in questo caso, deve essere posizionata in opera poco prima del getto di completamento finale. Una soluzione ancora annoverabile fra i solai misti è quella tipo predalles con lastre prefabbricate e travetti a traliccio o prefabbricati direttamente incorporati ed elementi di alleggerimento in polistirolo o in laterizio (Figura 4.13). Figura 4. 13: Solaio tipo predalles Le lastre, in genere, hanno uno spessore minimo di 4cm che può essere aumentato a piacimento rendendo questa soluzione particolarmente adatta quando sussistono problemi di resistenza al fuoco. La loro capacità portante, invece, è analoga a quella dei travetti a traliccio o dei travetti prefabbricati usati singolarmente, e quindi necessitano della stessa opera di puntellamento. Una volta che le lastre sono state poste in opera si posizionano le eventuali armature aggiuntive previste in fase di progetto e si completa la struttura con la fase di getto del calcestruzzo. L’intradosso di questi solai, in genere, è pensato per non essere intonacato. 135 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Il comportamento dei telai in c.a., oltre che dalla qualità dell’accaio e del cls utilizzati, è influenzato da numerose variabili. Tra queste: qualità del nodo trave-pilastro e presenza di armature lisce; presenza di elementi tozzi; presenza di tamponatura; degrado del cls e dell’armatura. I NODI TRAVE-PILASTRO sono delle regioni cruciali per la sicurezza delle costruzioni in cemento armato, poiché garantiscono la continuità delle strutture intelaiate e permettono il trasferimento delle forze tra gli elementi strutturali in essi concorrenti (Russo, 2007). Il flusso di tali forze può risultare compromesso se il nodo subisce un elevato degrado, generalmente dovuto a deficienza di resistenza a taglio ciclico. Infatti la zona di nodo è soggetta a forze interne orizzontali, parallele alle forze di taglio agenti sul pilastro, notevolmente superiori rispetto a quelle che si sviluppano nelle sezioni di pilastro immediatamente al di sopra ed al di sotto del nodo. Tale incremento è dovuto alle forze trasmesse al nodo dalle travi in esso concorrenti. Infatti, in presenza di azioni sismiche di elevata intensità, a causa dell’inversione delle forze e della conseguente inversione dei momenti, si manifestano delle fessure sia all’estradosso che all’intradosso della trave all’interfaccia trave-pilastro. Tali fessure, per effetto della ciclicità dell’azione, si propagano verso l’interno della trave, dando così luogo ad una fessura passante. Tale fessura si genera all’interfaccia trave-pilastro da entrambe i lati del nodo. In queste condizioni il pannello di nodo risulta sollecitato dalle forze ad esso trasmesse dalle armature delle travi, forze che risultano esterne al nodo. Tali forze esterne determinano nella sezione orizzontale del pannello un taglio aggiuntivo rispetto a quello agente al piede del pilastro del piano sovrastante. Pertanto il taglio agente sul nodo nelle sezioni trasversali comprese tra le armature superiori e inferiori della trave può essere notevolmente superiore al taglio agente sul pilastro, in alcuni casi anche del 500%. Le azioni sismiche possono produrre nei nodi trave-pilastro diffuse fessurazioni diagonali nelle due direzioni, con conseguente degrado della rigidezza del nodo e dell’aderenza tra le barre d’armatura ancorate nel nodo ed il calcestruzzo circostante. La maggiore deformabilità del nodo e gli slittamenti rigidi connessi al degrado dell’aderenza possono determinare spostamenti d’interpiano addizionali tanto rilevanti da produrre il crollo. Il degrado dei nodi travepilastro può risultare particolarmente critico nel caso di nodi privi di staffe, quali quelli realizzati in quasi tutti gli edifici in c.a. esistenti in Italia, in accordo con le normative sismiche vigenti all’epoca della costruzione. 136 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Prove effettuate (Russo, 2007) permettono di mettere in evidenza alcune fondamentali carenze dei nodi trave-pilastro esterni di edifici costruiti negli anni ’50-’70: • Il massimo momento sopportabile dal nodo è prossimo al momento di fessurazione della trave in esso concorrente. • Subito dopo la fessurazione della trave si verifica lo scorrimento delle armature longitudinali della trave stessa, a causa dell’utilizzo di barre lisce e di lunghezze d’ancoraggio insufficienti. • A causa dell’insufficiente aderenza, tali barre non raggiungono la tensione di snervamento e non si ha una zona di trave con elevate deformazioni (superiori a quelle di snervamento), ma soltanto una fessura localizzata. Non vi è quindi formazione di cerniera plastica e conseguentemente la trave non risulta in grado di dissipare energia tramite la propria deformazione. La perdita di aderenza è di per sé un meccanismo scarsamente dissipativo, e pertanto si conclude che, in presenza di azioni sismiche, il meccanismo di collasso dei nodi travepilastro esterni di edifici esistenti è di tipo fragile. Tali nodi necessitano pertanto di interventi volti a migliorare l’ancoraggio delle barre al loro interno, per incrementare il momento resistente e, sotto azioni elevate quali quelle sismiche, determinando snervamento delle barre per ottenere maggiore dissipazione dell’energia in ingresso. Dopo aver adeguato l’ancoraggio potrebbe inoltre essere utile anche rinforzare il pannello di nodo o, dove non è possibile, almeno i pilastri al di sopra e al di sotto del nodo stesso, in modo che, a fronte di forze più elevate trasferite dalle barre della trave al nodo, tali rinforzi siano in grado di assorbire almeno in parte le tensioni diagonali che dovrebbero formarsi nel pannello nodale. Negli elementi strutturali appartenenti alle strutture intelaiate in c.a. le dimensioni della sezione trasversale sono spesso comparabili con la lunghezza. ELEMENTI TOZZI si configurano, ad esempio, ai piani bassi di edifici di altezza elevata, nei telai attestati su setti in c.a., nei telai di scala con travi rampanti ovvero nei telai a tamponatura parziale. In caso di evento sismico, tale tipologia di elementi strutturali tende a sviluppare meccanismi inelastici governati dallo sforzo di taglio, con possibilità di crisi anticipata a carattere locale (De Stefano, 2007). Per tale motivo i moderni codici di progettazione antisismica tendono a sconsigliare il ricorso ad elementi tozzi, specie se il criterio di progetto presuppone una risposta strutturale complessiva caratterizzata da sufficienti capacità 137 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio dissipative. Un valore di soglia attendibile, di separazione tra elementi snelli ed elementi tozzi, è dato dal rapporto a/d=2.5 (a: luce di taglio, d: altezza della sezione). Gli edifici in cemento armato, nei riguardi di azioni eccezionali come il sisma, possono classificarsi sulla base della struttura portante verticale in (De Sortis, 2007): • telai in calcestruzzo armato non tamponati; • telai in calcestruzzo armato con tamponature deboli; • telai in calcestruzzo armato con tamponature consistenti. L’osservazione dei danni causati da terremoti in occasione di eventi sismici recenti indica che la presenza di TAMPONATURE influisce in maniera significativa sul comportamento degli edifici a telaio in calcestruzzo armato. Le strutture in c.a. progettate in diversi periodi e in diverse zone del territorio italiano posseggono caratteristiche estremamente diverse, sia in termini di resistenza che di duttilità. Inoltre, frequentemente accade che i telai vengano progettati senza nessuna esplicita considerazione delle caratteristiche e della disposizione, in pianta e in elevazione, dei pannelli di muratura di tamponamento. A giustificazione di ciò spesso si adduce la considerazione che le tamponature siano costituite da elementi non strutturali, e che pertanto trascurare il loro contributo si traduca in una progettazione in favore di sicurezza. Infatti, la presenza di tamponatura viene ritenuta vantaggiosa dal momento che essa fornisce sia un aumento nella resistenza laterale dell’edificio, sia un supplemento di capacità di dissipare energia. Tuttavia, i principi della dinamica delle strutture indicano che tale asserzione può rivelarsi non sempre vera. In effetti, la massa aggiuntiva dovuta alla presenza della muratura e la diminuzione del periodo fondamentale di vibrazione della struttura, determinato dall’aumento di rigidezza, può causare un forte incremento delle forze d’inerzia orizzontali indotte dal terremoto. Inoltre la disposizione non regolare in pianta ed in elevazione dei pannelli di tamponatura, inducendo effetti torsionali o concentrazioni di sforzi, può comportare un peggioramento del comportamento sismico dell’edificio. Studi su telai nudi e tamponati mostrano che l’omessa considerazione del contributo della tamponatura, scelta questa adottata per consuetudine nella progettazione, costituisce una misura prudenziale nel caso di telai regolari, e in particolar modo quando i pannelli in muratura siano ben costruiti, resistenti e realizzati in mattoni pieni e malta di buona qualità. Tuttavia, tale pratica può risultare non sempre conservativa nei casi in cui i pannelli in 138 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio muratura siano molto deboli, quali quelli costituiti da mattoni forati e malta di cattiva qualità. Mattoni fessurati posso innescare un collasso improvviso in uno spigolo così come una leggera curvatura del piano genera spesso sbandamenti ed espulsioni. Queste incertezze sono particolarmente rilevanti nel caso dei pannelli di forati poiché questi sono generalmente prodotti senza procedimenti che possano garantire l’omogeneità delle geometrie e delle caratteristiche meccaniche. Come evidenziato da prove eseguite su pannelli di semipieni la regolarità dei blocchi e la loro geometria compatta favorisce di molto una realizzazione di muri piani, con ricorsi allineati e privi di imperfezioni. Ne conseguono dunque resistenze più omogenee e meccanismi di collasso non difformi. E’ noto che il calcestruzzo presenta caratteristiche meccaniche e di resistenza variabili nel tempo a causa dei PROCESSI DI DEGRADO di diversa natura (chimica, fisica, ambientale, etc.) cui è sottoposto. Molte strutture di calcestruzzo armato presenti nel territorio italiano, anche non particolarmente datate, mostrano infatti segni evidenti di degrado, soprattutto se ubicate in ambienti particolarmente aggressivi (atmosfera marina, industriale, etc.) o se realizzate con calcestruzzi scadenti ovvero messe in opera con modalità non controllate. Tra gli attacchi ambientali più frequenti per le strutture in c.a. si possono citare l’effetto dei cloruri e la carbonatazione del conglomerato; entrambi fenomeni che possono portare alla corrosione delle armature, probabilmente la più importante causa di degrado delle strutture in c.a. Prove sperimentali su travi inflesse (Berto, 2007) hanno dimostrato come, al progredire del livello di corrosione, si abbia non soltanto la diminuzione della capacità portante, ma si possa modificare sostanzialmente la modalità di rottura, passando da una rottura di tipo duttile ad una via via più fragile. 4.3. COSTRUZIONI MONUMENTALI IN MURATURA La storia dell’area vesuviana è condizionata in ogni sua fase dall’incombente mole di lava e fuoco gettata dal Vesuvio. La storia delle eruzioni si intreccia da sempre a quella dei centri più importanti, a partire dall’eruzione del 79 d.C. che distrusse Pompei, Ercolano ed Oplonti. 139 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Durante il XIII secolo, il periodo di relativa quiete dell’attività vulcanica indusse a costruire alcuni casali nei pressi della zona vulcanica. Nel Cinquecento a prevalere furono i palazzotti rustici, destinati alla gestione dei fondi agricoli, nel corso del Seicento, invece, si assistette alla edificazione di nuove dimore costruite ex novo o completamente ristrutturate, destinate ad una villeggiatura dispendiosa e per questo poste lungo la costa, da San Giovanni a Teduccio quasi ai confini di Torre Annunziata, che prenderà il nome di Miglio d’oro (Figura 4.14). In esse compaiono ampie logge, corti per l’accesso delle carrozze e piani nobili caratterizzati da un arredo raffinato e da decorazioni estranee alle severe residenze cinquecentesche. Figura 4. 14: Il Miglio d’oro Questa tendenza fu spezzata dalle terribile eruzione del 1631, che si diresse sia verso il versante settentrionale del monte che verso quello meridionale del mare. Tuttavia la popolazione tornò a risiedere in quella zona, che si popolò nuovamente di numerose ville. Con la costruzione della Reggia di Portici, per volere di Carlo di Borbone e della moglie Maria Amalia Cristina, inizia nel Settecento una nuova era che vede aumentare il numero delle ville restaurate o costruite ex novo da autentici talenti, che vanno da Goffredo a Sanfelice, da Vaccaio a Fuga fino a Vanvitelli. In questi edifici compare una forte attenzione al particolare. Cornici e cimase, che svolgono un’efficace funzione protettiva nei confronti dell’infisso (Figura 3.8), sono realizzate in pietra che può essere piperno o pietrarsa. La parte superiore delle cimase è 140 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio generalmente protetta da una sottile lastra di ardesia leggermente inclinata per l’allontanamento dell’acqua piovana. I davanzali delle finestre sono costituiti da una tavola unica di piperno (Figura 4.15) Il legno usato per la realizzazione degli infissi esterni è quello di castagno o di pino, ambedue sempre coperti da uno strato protettivo di vernice. L’intonaco è composto di calce e sabbia che essendo, talvolta, di origine marina produce caratteristiche efflorescenze chiare sulla superficie per la presenza di cloruro di sodio. Lo spessore è quasi sempre notevole per ovviare alle irregolarità delle muratura, ciò facilita fenomeni di distacco e caduta. La colorazione è ottenuta, in molti casi, immettendo direttamente nell’impasto terre colorate come il giallo di Napoli o il rosso di Pozzuoli ma più frequente è l’uso di attintare con pittura a calce. Figura 4. 15: Sezione tipo di edifici di pregio in muratura. 141 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Il Settecento costituisce l’ultimo grande momento di rigoglio della stagione del barocco e del rococò europeo; nel corso dell’Ottocento infatti le nuove ville assumono un carattere ripetitivo ed un repertorio stilistico privo di qualità. Nel 1839 la costruzione della ferrovia che da Napoli portava alla Reggia di Portici, la prima d’Italia, tagliò come una ferita la continuità del paesaggio che da dalle pendici del Vesuvio si estendeva con terrazze degradanti fino al mare. Il guasto di quella prima ferita fu continuato nel tempo e infine completato, e superato, dall’urbanizzazione intensiva dei nostri giorni. Una utilizzazione improvvida e irrispettosa del territorio, che non si sarebbe fermata dinanzi a quel che resta delle 120 ville del Miglio d’oro, senza l’operato dell’Ente per le Ville Vesuviane che, dal 1997, a seguito di un accurato inventario, sta tentando di tutelare il patrimonio pervenutoci in pessime condizioni. Oggi, numerose costruzioni monumentali (in muratura) sono presenti nell’area vesuviana. Particolarmente pregevoli risultano quelle di seguito elencate. VILLA DI OPLONTIS, Torre Annunziata (Figura 4.16). A 2,5 km a Nord di Pompei sono stati scavati a partire dal 1964 i ruderi di una grande villa per la quale è stata proposta l’identificazione con un sito menzionato nella Tabula Peutingeriana (antica carta con indicazione delle vie militari dell’Impero Romano) col nome di Oplontis e collocato tra Pompei ed Ercolano. La villa apparteneva alla famiglia di Poppea Sabina, la seconda moglie di Nerone. Tutto il complesso condivise naturalmente il destino di Pompei ed Ercolano e venne inghiottito dalle ceneri dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. A quell’epoca la villa aveva poco meno di un centinaio d’anni: il nucleo originario della struttura risale alla metà del I sec. a.C., e ciò risulta incontrovertibilmente dalla tecnica edilizia in opus incertum e opus quasi reticulatum, e soprattutto dagli affreschi di pieno II stile. Peraltro proprio un centinaio d’anni avevano i cinque platani e i tre oleandri che adornavano i lati del vialetto di uno dei giardini: di essi, a chiudere il cerchio della completa condivisione del destino della più nota Pompei, rimangono i calchi ad impronta presi nella cenere. Quella di Oplontis è una delle tante ville romane dell’area circumvesuviana sepolte dall’eruzione del vulcano; ed è stata dichiarata dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità insieme a Pompei ed Ercolano (Ministero per i Beni e le Attività Culturali). L’edificio si strutturava in una struttura compatta articolata tra portici, terrazze, ambienti residenziali; ed un notevole impianto termale; il giardino era organizzato a vialetti 142 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio e aiuole con siepi di bosso adornati di statue pregevoli, due delle quali raffiguravano forse la stessa Poppea e Nerone fanciullo. Sul giardino, che era illusionisticamente dilatato mediante pitture di alberi e fontane, si apriva un porticato con una grande piscina dai bordi adornati anch’essi di statue. E proprio le raffinate e fastose pitture parietali costituiscono la caratteristica più pregevole della villa: tra tutti gli affreschi non può non essere menzionato quello celeberrimo del salone nella parte più ad Ovest conservata, che offre una splendida visione di un santuario di Apollo. Figura 4. 16: Villa di Oplontis, Torre Annunziata BASILICA DI SANTA CROCE, Torre del Greco (Figura 4.17a). Ricostruita sulle rovine dell’antica chiesa che fu completamente distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 1794. Di stile neoclassico, la facciata presenta due ordini, quello inferiore è scandito da sei colonne con capitelli corinzi e due nicchie all’interno delle quali sono posizionate le statue di San Gennaro e Sant’Elena risalenti al 1858. A sinistra è visibile il campanile barocco che rimase indenne dopo l'eruzione del 1794. Di notevole interesse sono le lapidi (custodite nella basilica) che ricordano le visite dei Papi Pio IX (1849) e Giovanni Paolo II (1990). a) b) Figura 4. 17: a)Basilica di Santa Croce, Torre del Greco; b) Chiesa di San Ciro, Portici 143 Daniela De Gregorio matr.37/2246 CHIESA DI Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio SAN CIRO, Portici (Figura 4.17b). Costruzione iniziata nel 1633, la chiesa fu aperta al pubblico nel 1642. I due campanili e la cupola sono stati realizzati nel ‘700 da Domenico Vaccaro. PALAZZO REALE, Portici (Figura 4.18a). Dimora storica fatta costruire dal sovrano Carlo III, come palazzo reale per la dinastia dei Borbone di Napoli, prima della costruzione della più imponente Reggia di Caserta. E’ situata all’interno di un ampio parco dotato di un giardino all’inglese e di un anfiteatro. Sembra che il sovrano Carlo III di Borbone e la sua consorte Maria Amalia Cristina di Sassonia, in visita presso il palazzo di un aristocratico locale, fossero rimasti così favorevolmente impressionati dall’amenità del luogo, che decisero di farvi costruire, di lì a poco, un palazzo che potesse ospitarli come dimora ufficiale. Il via ai lavori fu dato nel 1738 con un progetto architettonico commissionato a Antonio Canevari, richiamato in Italia proprio da Carlo di Borbone per dare seguito, assieme ad altri architetti di fama dell’epoca, al suo ambizioso programma di opere pubbliche e di rappresentanza nel Regno di Napoli. Nel 1799 avvenne la spoliazione del palazzo ad opera di Ferdinando IV di Borbone, in fuga verso Palermo per sfuggire ai Francesi. Fu Gioacchino Murat ad arredare ex-novo la reggia con mobilio francese e con gusto improntato ad un notevole lusso mentre, sotto Ferdinando II di Borbone, la reggia ospitò anche il pontefice Pio IX, per divenire progressivamente un sito sempre meno frequentato col passare dei decenni. Oggi la reggia ospita la sede della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. La reggia presenta una ampia e maestosa facciata terrazzata e munita di balaustre, a pianta quadrangolare e l’atrio è sostenuto da nove volte a pilastri. Il cortile del palazzo, che in pratica è simile ad una vero e proprio piazzale, presenta sul lato sinistro la Caserma delle Guardie Reali e la Cappella Palatina del 1749, mentre un maestoso scalone del 1741 (Figura 4.18b) conduce dal vestibolo al primo piano, dove si trova l’appartamento di Carolina Bonaparte. Da rilevare anche il riccamente decorato salottino Luigi XIV e il boudoir (Figura 4.18c) della regina Maria Amalia di Sassonia, con le pareti decorate in porcellana di Capodimonte, di cui la sovrana era estimatrice (I Borboni delle due Sicilie). 144 Daniela De Gregorio matr.37/2246 a) Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio b) Figura 4. 18: Reggia di Portici c) VILLA CAMPOLIETO, Ercolano (Figura 4.19a, b, c). La villa, restaurata dall’Ente Ville Vesuviane ed inaugurata nel 1984, è situata lungo il “Miglio d’Oro”, limitrofa alla Villa Favorita. Sorta in una posizione fra le più felici e suggestive, non lontano dalla reggia di Portici e contigua alla Villa Favorita, Villa Campolieto venne edificata per volontà del Principe Luzio di Sangro, Duca di Casacalenda, che nel 1755, affidò il progetto e l’esecuzione dei lavori a Mario Gioffredo. Questi impostò l’edificio a pianta quadrata, articolandolo in quattro blocchi separati dai bracci di una galleria centrale a croce greca; sulla facciata posteriore innestò un portico circolare - belvedere coperto verso il mare - e sistemò la scuderia e la rimessa delle carrozze. Intorno al 1760, quando i lavori erano già in fase avanzata di esecuzione, Gioffredo fu costretto ad abbandonare l’opera in seguito ai contrasti insorti con i Casacalenda e fu dapprima sostituito da Michelangelo Giustiniani e successivamente da Luigi Vanvitelli che, dal 1763 al 1773 ( anno della sua morte ) diresse i lavori completati nel 1775 dal figlio Carlo. Se l’intervento di Giustiniani fu limitato alla prosecuzione dell’opera di Gioffredo, non così fu quello di Vanvitelli che apportò sostanziali modifiche al progetto originario. Vanvitelli, infatti, trasformò lo scalone principale portandolo oltre il volume originario della fabbrica; modificò il disegno della rotonda interrompendone il perimetro in corrispondenza degli estremi della facciata posteriore, lungo la quale aveva disposto un portico rettilineo. Divaricando le testate così ottenute, mutò in forma ellittica lo spazio originariamente circolare. Egli realizzò ancora importanti modifiche agli spazi interni sovrintendendo successivamente, a tutti i lavori di decorazione che furono realizzati da pittori dell’epoca (Ente per le Ville Vesuviane). 145 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio La Villa Campolieto, completata nel 1775, ebbe un periodo di splendore limitato nel tempo, infatti alla morte del Duca di Sangro nel 1792, i beni della famiglia passarono al figlio primogenito Scipione che morì nel 1805 senza eredi diretti. Pertanto, già ai primi dell’800, la proprietà veniva divisa tra i vari nipoti del duca avviandosi verso il declino, culminato dopo l’occupazione militare negli anni dell’ultimo conflitto, nell’abbandono dell’edificio ormai pericolante. La Villa Campolieto, acquistata nel 1977 dall’Ente per le Ville Vesuviane, è stata riportata al suo primitivo splendore con l’esecuzione di lavori di consolidamento statico e restauro conservativo ai fini di restituire all’uso integrato con le esigenze della collettività internazionale l’insieme monumentale. a) b) c) Figura 4. 19: Villa Campolieto, Ercolano VILLA PETTI RUGGIERO, Ercolano (Figura 4.20a, b, c). La villa sorge non lontano da Villa Campolieto. Il posizionamento di tale fabbrica, alle falde del Vesuvio, quindi un’area collinare piuttosto lontana dal mare, la fa appartenere ad una categoria di dimore rustiche legate un tempo soprattutto ad attività produttive di tipo agricolo priva di quelle pretese di eleganza tipiche delle ville della fascia costiera. Fu costruita per volere del barone Petti verso la metà del ‘700 ed appartenne a questa famiglia fino al 1863, anno in cui passò ai Ruggiero. La villa presenta lungo la strada una facciata di modeste dimensioni le cui proporzioni originarie risultano oggi alterate per l’aggiunta di un piano sopraelevato. Nella composizione della facciata, domina un bel portale, girato a tutto sesto, in piperno e marmo bianco con ai lati lesene bugnate e capitelli ionici sormontato da un balcone mistilineo. La decorazione della facciata è costituita da timpani in stucco che incorniciano le aperture del piano rialzato e del piano nobile. L’impianto planimetrico è tra i più consueti: il profondo corpo prospiciente la strada si prolunga in due brevi ali che, collegate da un’esedra, determinano lo spazio del cortile ellittico. Il vestibolo, posto in asse con il varco 146 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio dell’esedra, è articolato nella successione di tre spazi coperti da volte a crociera che si dilatano nella parte centrale determinando due esedre dove trovano posto i sedili marmorei che seguono l’andamento delle parti laterali incurvate. Il prospetto sul cortile è sicuramente la parte peculiare della fabbrica: articolato da una serliana, che sorregge una terrazza, con spiccato gusto rococò (Figura 4.20a, b). Presenta, infatti, nell’ordine inferiore, una partitura di lesene lisce che si ripete anche sulle brevi ali laterali che inquadrano i tre varchi del porticato aperto sul cortile. Sulla facciata del piano superiore, arretrata per dar luogo alla terrazza, si aprono i balconi incorniciati da cartigli e volute in stucco e nella parte centrale è disposta una nicchia che ospita il busto di S. Gennaro nel consueto gesto di fermare la lava del vulcano. La terrazza, la cui balaustra alterna alle ringhiere panciute poggi in piperno a sostegno di busti scultorei, secondo un motivo ricorrente nella cultura settecentesca napoletana, costituisce l’episodio decorativo più ricco di tutto il complesso. Da qui si può scorgere l’ombroso viale del giardino chiuso sul fondo da una nicchia (Ente per le Ville Vesuviane). a) b) c) Figura 4. 20: Villa Petti Ruggiero, Ercolano VILLA FAVORITA, Ercolano (Figura 4.21a, b, c). L’imponente edificio, opera di Ferdinando Fuga, denominato la Favorita dal re Carlo di Borbone in omaggio alla regina Maria Carolina d’Austria, presenta un impianto planimetrico piuttosto inconsueto che si discosta dagli schemi ricorrenti tipici delle ville settecentesche del Miglio d’Oro. La facciata, che si sviluppa lungo la strada non presenta infatti, lungo l’asse centrale aperture che consentano una diretta comunicazione dalla strada verso il parco. I due cortili d’accesso, asimmetrici, sono collocati lateralmente e il corpo centrale si dilata verso una direttrice posta in asse con il mare, concludendosi al piano rialzato, con un terrazzo posto in cima ad uno scalone semicircolare. Le scale di collegamento tra i piani sono poste alle 147 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio estremità delle ali. La novità della composizione architettonica della villa va attribuita non solo alla particolare impostazione planimetrica, ma anche per l’articolazione degli spazi, per il gioco dei livelli sfalsati tra il piano rialzato, il salone ellittico ed il giardino, spunti questi tratti dalla produzione tardo barocca locale (Ente per le Ville Vesuviane). a) b) c) Figura 4. 21: Villa Favorita, Ercolano La grande area del parco della Villa Favorita ricca di essenze mediterranee e esotiche alquanto rare, interrotto nella sua continuità dalla linea ferroviaria e da un asse viario, si conclude verso il mare con l’approdo borbonico. L’Ente per le Ville Vesuviane, nell’intento di ricucire il tessuto territoriale del comprensorio di Ercolano, dopo il restauro della Villa Campolieto (1984) e Ruggiero (1991) e delle aree annesse, ha intrapreso l’opera di recupero della zona a sud del Parco della Villa Favorita, area nella quale sorgono alcune costruzioni di mirabile pregio quali la Palazzina del Mosaico (Figura 4.21b), dependance della più sontuosa villa, ed i suoi due coffée house posti in prossimità della costa. L’intervento di recupero è stato finalizzato, mediante la piantumazione di alcune essenze ormai irrimediabilmente deteriorate ed il restauro arboreo effettuato per altre, alla sistemazione delle aree verdi nonché dei percorsi di penetrazione al fine di offrire una gradevole passeggiata fino al mare. VILLA BRUNO, San Giorgio a Cremano (Figura 4.22). E’ una delle più belle ville vesuviane settecentesce, della duchessa Pignatelli di Monteleone, conserva oggi la configurazione planimetrica originaria. Fu comprata da Francesco Rigetti che vi realizzò una famosa fonderia. La facciata è rivolta verso il parco e tutta la struttura, disposta su due piani, è arretrata rispetto alla strada perché preceduta da un cortile. 148 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 4. 22: Villa Bruno, San Giorgio a Cremano 4.4. COSTRUZIONI INDUSTRIALI 4.4.1. COSTRUZIONI PREFABBRICATE IN C.A. E C.A.P. Figura 4. 23: Esempi di edifici industriali in c.a.p. dell’area vesuviana: a) Ditta Muroli , via Somigliano, Sant’Anastasia; b) Sicur Tec, Torre Annunziata, via Piombera Una buona parte delle costruzioni per l’edilizia ad uso industriale, commerciale e per il terziario sono costituite da manufatti prefabbricati in calcestruzzo normale e precompresso, in grado di risolvere problemi realizzativi di opere ed edifici mono (Figura 4.24a) e pluripiano (Figura 4.24b) relativi alle principali tipologie funzionali. Le tipologie costruttive si dividono in sistemi: con copertura a doppia falda; con copertura piana; con copertura pseudopiana; per strutture pluripiano. 149 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Nella Tabella 3.1 sono sinteticamente indicate le valenze d’impiego prevalenti delle diverse tipologie (Carotti, 2004). Figura 4. 24: a)Edifici monopiano. b) Edifici pluripiano STRUTTURE MONOPIANO STRUTTURE COPERTURE A COPERTURE COPERTURE PLURIPIANO DOPPIA FALDA PIANE PSEUDOPIANE Industriale • • • o Commerciale • • • o Terziario • • • o Sociale • • • o Polifunzionale • • • o • VALENZA PRIMARIA o VALENZA GENERICA Tabella 4. 1: Valenze funzionali dei sistemi costruttivi TIPOLOGIE FUNZIONALI I modelli costruttivi che derivano dall’aggregazione di elementi monodimensionali ripropongono sia pure con specifiche modalità di calcolo e d’impiego, il telaio in c.a. che permette una grande flessibilità progettuale, limitata soltanto dai limiti statici di ciascun componente. Le componenti principali degli edifici prefabbricati sono: plinti di fondazione; pilastri; travi di bordo ad altezza variabile; solai; tegole; gronde, converse, shed, elementi accessori; pannelli di tamponamento. I sistemi, classificati in relazione alla tipologia strutturale dei componenti di copertura, comprendono coperture con tegoli Π (Figura 4.25a ) e coperture con solai alveolari (Figura 4.25b). Per i sistemi costruttivi monopiano, accanto ai tradizionali e consolidati edifici con trave a doppia pendenza e solai di vario tipo, sono presenti sistemi con coperture pseudopiane realizzate con tegoli in c.a.p. 150 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio a) b) Figura 4. 25: Esempi di sistemi monopiano con: a)tegoli di copertura; b)solai alveolari I pilastri, in c.a. normale, hanno sezione quadrata o rettangolare con dimensioni dei lati variabili in funzione dell’impiego e dei carichi previsti. Le tipologie normalizzate hanno sezioni quadrate 50x50 e 60x60cm, rettangolari con lato minore di 50 o 60 cm e maggiore da 60 a 120 cm. Figura 4. 26: Trave con sezione ad I in c.a.p. 151 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Le travi primarie, in cemento armato precompresso, appartengono a tre tipologie fondamentali: travi con sezione ad I (Figura 4.26); travi con sezione a T rovescio; travi con sezione ad L. I sistemi costruttivi pluripiano (Figura 4.27) prevedono l’impiego di pilastri monolitici su più piani, posti ad interasse variabile, in funzione delle esigenze specifiche; impalcati realizzati con tegoloni a doppio T o solai in c.a.p. alveolari. Figura 4. 27: Struttura pluripiano Particolare attenzione va posta nei riguardi degli edifici industriali realizzati negli anni Sessanta e Settanta, periodo di maggiore diffusione della prefabbricazione I sistemi prodotti durante questo periodo possono essere classificati in relazione alla tipologia della capriata (Fabbrocino, 2004). • trave piena, per luci minori di 30m (per la maggior semplicità e rapidità di progettazione e produzione); • trave reticolare, per luci maggiori di 30m (perché la trave ad anima piena diventa troppo pesante); • arco, per luci superiori ai 40m. Nel primo caso, durante gli anni dello sviluppo costruttivo le forme della sezione trasversale sono state perfezionate e dalla sezione rettangolare si è passati a quella ad I, a Y, ad Ω o a T al fine di alleggerire la struttura portante. La conformazione della sezione trasversale delle travi a parete piena risultava influenzata dalla luce da coprire, dalla scelta 152 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio del sistema portante, dal tipo di armatura (lenta o tesa) e dal sistema di copertura; sezioni ad I venivano generalmente utilizzate per le travi ad altezza variabile. La diffusione delle travi reticolari in c.a. si ebbe con l’affermazione della prefabbricazione; infatti, la trave reticolare gettata in opera avrebbe presentato difficoltà di ordine esecutivo: un cassero costoso e complicati lavori di betonaggio a causa delle dimensioni relativamente ridotte delle aste; inoltre, talvolta, per evitare la fessurazione nel corrente inferiore delle travi reticolari, che veniva precompresso. Tre erano gli schemi statici più comuni con cui venivano realizzate le strutture ad arco: 1) arco a spinta eliminata mediante tiranti in acciaio, incernierato ai pilastri, i quali sono incastrati alla base; 2) telaio rigido con trave ad arco; 3) arco privo di tiranti, incastrato all’imposta alle fondazioni. Le tipologie costruttive adottate negli anni Sessanta e Settanta per la realizzazione di capannoni industriali prefabbricati intelaiati possono essere suddivise in quelle caratterizzate o da elementi monodimensionali quali travi e pilastri o da parti di telaio o da telai eseguiti in un sol pezzo. Con i capannoni alti e di luci ridotte, vale a dire di circa 12 metri, non era economicamente conveniente realizzare e montare pilastri e capriate separatamente; si preferiva, quindi, ricorrere alla tipologia con elementi di telaio prefabbricati. Relativamente ad essa, le soluzioni che si affermarono maggiormente furono i telai a cerniera (due in corrispondenza del collegamento telaio-fondazione, un’altra in sommità) ed il sistema “lambda”. I telai rigidi gettati in un sol pezzo venivano, invece, impiegati per luci inferiori ai 12 metri. Per quanto riguarda i materiali, ovviamente l’acciaio ed il calcestruzzo utilizzati per gli elementi precompressi erano caratterizzati dalle migliori prestazioni disponibili nel periodo di riferimento. L’armatura per la precompressione era costituita da trefoli o barre ad alta resistenza (tensione di snervamento maggiore di 700MPa); il calcestruzzo raramente presentava una resistenza a compressione inferiore a 35MPa. Invece, valori tipici di tensione di snervamento per l’armatura dolce e di resistenza a compressione del calcestruzzo nel caso di cemento armato normale erano rispettivamente 320 e 25MPa. Le barre lisce arano utilizzate in maniera diffusa, sebbene nelle strutture prefabbricate quelle ad aderenza migliorata erano maggiormente adottate rispetto alle strutture ordinarie. Di seguito si presenta una breve panoramica dei dispositivi, più diffusi nel periodo di studio 153 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio per la realizzazione di collegamenti tra pilastro e fondazione, tra pilastro e trave e tra trave e copertura. Per quanto riguarda il collegamento tra il pilastro e la fondazione, vale la pena di ricordare alcuni schemi proposti per ricreare, tra questi due elementi strutturali, un vincolo cerniera. Molti di essi si rifanno palesemente a soluzioni già adottate ed affermate nel campo delle costruzioni in acciaio e richiedono che il collegamento sia realizzato mediante saldature e/o bullonature. In tutti il contatto tra le superfici degli elementi prefabbricati non è mai diretto, perché si vuole evitare che, a causa di imperfezioni di dette superfici, si possa avere una trasmissione della sollecitazione di compressione non uniforme, condizione che potrebbe provocare danneggiamenti del calcestruzzo. Tra le superfici degli elementi da collegare vengono, quindi, interposte una o due piastre metalliche annegate nel calcestruzzo con superfici di contatto da ritenersi perfettamente rettificate; alternativamente si realizza un cuscinetto con malta cementizia o con altri materiali. Altra soluzione consiste nell’utilizzare plinti a pozzetto o a bicchiere prefabbricati, che consentono di ottenere un incastro praticamente perfetto; tale unione è quella che, grazie alla semplicità di esecuzione ed alla sua funzionalità, si è affermata e viene attualmente correntemente utilizzata (Figura 4.28). Condizioni esattamente opposte sono quelle relative al collegamento trave pilastro, per il quale negli anni di riferimento sono adottate sia soluzioni ad incastro che a cerniera; le prime, però, a causa della eccessiva laboriosità di realizzazione sono successivamente abbandonate in favore delle seconde. Il tipo più comune di collegamento viene realizzato appoggiando la trave sul pilastro (la cui testa può essere eventualmente sagomata a forchetta) o su mensole sporgenti da esso. Anche in questo caso, fra gli elementi collegati, si interpone un dispositivo d’appoggio, in modo da ripartire adeguatamente le pressioni ed evitare eventuali lesioni nel calcestruzzo; talvolta, nel caso di piccole strutture, tale precauzione non viene presa. L’elemento d’appoggio, quando presente, è costituito da: 1) un cuscinetto di malta con uno spessore almeno pari ad 1.5÷2.0 cm; 2) un cuscinetto in gomma o in resina sintetica; 3) due piastre metalliche ancorate nel calcestruzzo; 4) una piastra di piombo duro compresa tra due lamierini metallici a protezione del calcestruzzo; il piombo, deformandosi sotto carico, fornisce un funzionamento a cerniera. Gli appoggi in gomma costituiscono la soluzione migliore tra quelle esaminate: tali dispositivi, infatti, oltre a permettere con una buona approssimazione la creazione di un vincolo a cerniera, garantiscono un effetto smorzante 154 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio delle azioni sismiche. Nel corso degli anni, migliorando le tecniche di prefabbricazione e, conseguentemente, allungandosi le luci delle travi, sono aumentati i carichi che devono trasferirsi mediante il cuscinetto in gomma; si è passati, quindi, dal cuscinetto in sola gomma a quello in gomma armata mediante reti ondulate fatte penetrare sotto carico, per arrivare alla soluzione, tutt’oggi utilizzata, del pacchetto costituito da fogli di gomma con interposti lamierini metallici, rigidamente fissati tramite vulcanizzazione. Al fine di limitare la rigidezza flessionale del pacchetto e migliorare, così, il suo comportamento a cerniera, si ricorreva, come del resto si fa anche oggi, ad un aumento della sua altezza. Figura 4. 28:Esempio di pilastro intermedio. La eccessiva deformabilità a compressione e a taglio che si crea in tal modo, viene eliminata incapsulando il pacchetto in una scatola metallica. Infine, il metodo di collegamento tra la trave e gli elementi di copertura dipende fortemente dal tipo di 155 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio copertura adottata. Per coperture piane o a doppia pendenza, realizzate generalmente con tegoli a Π, si bullonano gli zoccoli del tegolo alla sommità della trave, mediante l’apposizione di piastre metalliche a L. I tegoli vengono resi tra loro solidali, attraverso la saldatura di piastre localizzate al loro estradosso. Più particolari sono i collegamenti relativi a coperture a shed. In tal caso, lo shed viene vincolato alla trave mediante perni, successivamente sigillati con malta, che vengono lasciati sporgere dalla capriata. Maggiormente laboriosa e sofisticata risultava essere l’unione che sfrutta le linguette fuoriuscenti dall’angolare dello shed e che vanno ad alloggiarsi nelle apposite scanalature presenti sulla trave. Una particolare attenzione veniva rivolta al collegamento tra l’estremità della trave e le catene in acciaio nelle strutture ad arco. 4.4.2. EDIFICI MONOPIANO IN ACCIAIO Figura 4. 29: Esempio di capannone in acciaio, Somma Vesuviana Sono fabbricati in cui la copertura ha la prevalente funzione di protezione nei riguardi degli eventi atmosferici, generalmente destinati ad attività industriali, espositive, ecc. Sono impostati su due o più file di colonne, che individuano navate anche di altezze differenti tra loro, e che possono fornire sostegno a vie di corsa per carroponti anche in più ordini sovrapposti (Strata, 2006). Per gli schemi strutturali delle membrature verticali si ricorre generalmente a una delle seguenti tipologie correnti: • telai in ambedue le direzioni (Figura 4.30a); • struttura pendolare controventata nelle due direzioni (Figura 4.30b); 156 Daniela De Gregorio matr.37/2246 • Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio telai in direzione trasversale e controventi con struttura pendolare in direzione longitudinale (Figura 4.30c). Nelle varianti: colonne incastrate alla base e non vincolate in sommità; colonne incastrate alla base e collegate in sommità da capriate- bielle; portale incastrato o incernierato alla base (soluzione più frequentemente usata). Figura 4. 30: Schemi strutturali delle membrature verticali. a) Telai nelle due direzioni. b) Controventi in una direzione telai nell’altra. c) Controventi nelle due direzioni I telai trasversali hanno tipologie assai diverse a seconda della presenza o meno delle vie di corsa (Figura 4.31). Nel caso di capannoni con carroponte impegnativi, le colonne sono formate da un tronco inferiore composto ad anima piena o reticolare e tronco superiore a inerzia ridotta (baionetta) disposto fra il piano delle vie di corsa e la copertura. Le vie di corsa sono travi presso-inflesse dalle azioni verticali e orizzontali (trasversali e longitudinali) dei carriponte. La loro sezione assume forme diverse a seconda della importanza del carroponte stesso. Nei fabbricati monopiano, per la loro grandissima eterogeneità di destinazione e forme, possono essere presenti svariati complessi resistenti, ciascuno con una specifica funzione. Qui vengono nominati i principali. • Arcarecci: elementi inflessi che riportano il carico verticale agente in copertura alle travi principali (luce generalmente 6,00m). • Capriate di copertura: strutture prevalentemente inflesse, generalmente reticolari. • Colonne: elementi compressi dal peso proprio, dai carichi verticali della copertura, della facciata e degli eventuali carriponte, e inflessi dalle forze orizzontali dovute al vento e ai carriponte. • Travi di bordo: accolgono le reazioni delle capriate che non cadono in corrispondenza delle colonne, se il passo delle stesse è maggiore dell’interasse delle capriate. 157 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 4. 31:Colonne per capannoni industriali. a) Tipiche soluzioni senza carriponte o con carriponte di limitata portata. b) Capannoni con carriponte impegnativi Un’attenzione particolare va posta nei riguardi dei dispositivi di controvento, che svolgono un ruolo determinante nella stabilità delle strutture in acciaio e in particolare in quelle monoplano. Si distinguono i tipi seguenti: • controventi verticali longitudinali e trasversali: generalmente reticolari, disposti nelle campate centrali delle file longitudinali e trasversali di colonne, destinati ad accogliere le forze orizzontali del vento e degli eventuali carriponte (spunto, frenatura, serpeggiamento, urto); • controventi di falda longitudinali e trasversali: strutture reticolari leggere, disposte nel piano delle falde, con funzione stabilizzante per gli arcarecci e le capriate; • controventi delle capriate di copertura (crociere): stabilizzano la briglia inferiore delle capriate di copertura reticolari quando esse sono rigidamente connesse (“a telaio”) con le colonne e, pertanto, sede di azioni di compressione nei campi prossimi agli appoggi per effetto delle azioni orizzontali. Le pareti di chiusura (tamponamenti o baraccamenti) sono spesso in lamiera grecata, sostenute da graticci di montanti e listelli orizzontali che, talvolta, possono anche partecipare alla struttura resistente complessiva del fabbricato. 158 Daniela De Gregorio matr.37/2246 4.5. Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio PONTI E VIADOTTI Un ponte è una costruzione che consente il superamento di una depressione del terreno (l’alveo di un fiume, una valle, ecc.), oppure di un’altra infrastruttura o di qualsiasi ostacolo naturale. In un ponte si distingue innanzitutto tra impalcato e sostegni. L’impalcato è l’insieme delle strutture orizzontali che realizzano il piano d’appoggio della sovrastruttura stradale o del binario ferroviario. I sostegni sono le strutture, di norma verticali, che attraverso le fondazioni trasferiscono al terreno i carichi trasmessi dall’impalcato. I sostegni intermedi si chiamano pile o piedritti, quelli di estremità spalle. La campata è il tratto di ponte compreso tra due pile successive, la cui lunghezza è detta luce della campata. I calcoli costruttivi dei ponti devono tener conto dei carichi permanenti (peso proprio della struttura portante e dei completamenti) e accidentali (veicoli transitanti, folla, azioni dinamiche per veicoli in movimento, forze centrifughe se il ponte forma una curva, azione del vento, sollecitazioni sismiche). I ponti possono essere classificati con riferimento alla funzione svolta (ponti stradali, ponti ferroviari, ponte-canale, passerelle pedonali, cavalcavia, sottovia), con riferimento al materiale costituente l’impalcato (ponte in muratura, in cemento armato, in legno, metallici), con riferimento alla posizione della via rispetto alle travi portanti (ponte a via superiore, intermedia o inferiore). Una classificazione che permette di ricondurre a soli tre tipi tutte le varietà strutturali dei ponti è quella basata sul funzionamento statico della struttura portante che distingue fra ponti a travata, ponti ad arco, ponti sospesi e ponti strallati. a) b) c) Figura 4. 32: Esempi di ponti e viadotti dell’area vesuviana: a) Asse Mediano; b) Stazione di Pompei; c) Autostrada Napoli – Pompei - Salerno 159 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Nell’area vesuviana (Figura 4.32) sono diffusi i ponti a travata e i viadotti, anche se non mancano esempi di ponti ad arco. PONTI A TRAVATA. La struttura portante è costituita da travi ad andamento rettilineo, appoggiate direttamente sulle spalle e sulle pile; in questa tipologia si distinguono, quando le campate sono più di una, i ponti a travi semplicemente appoggiate e i ponti a travi continue su più appoggi che consentono economie costruttive ma sono irrimediabilmente danneggiati da cedimenti anche modesti delle fondazioni. Figura 4. 33: Schema statico di un ponte a travata con vincoli alternati cerniera-appoggio I materiali impiegati sono il legno, per opere modeste e carichi ridotti, l’acciaio e il calcestruzzo armato o precompresso. Le maggiori luci (500÷600m) sono state raggiunte con travate continue d’acciaio; nelle strutture in calcestruzzo, le travi orizzontali possono essere collegate rigidamente ai sostegni, realizzando telai o sbalzi uniti da cerniera centrale o da travi di accoppiamento, che consentono di raggiungere luci notevoli (250÷300 m). Con l’impiego del calcestruzzo armato precompresso si sono diffusi molto la prefabbricazione e il sistema di costruzione a sbalzo per conci successivi in avanzamento. Lo schema di travi appoggiate- appoggiate è particolarmente adatto per strutture prefabbricate o quando si temano cedimenti differenziali delle fondazioni. In generale, le 160 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio forze orizzontali, dovute al vento, alle forze di frenatura ed al sisma, si trasmettono agli elementi di sostegno verticali (pile e spalle) attraverso gli appoggi fissi, pertanto, disponendo questi opportunamente, è possibile distribuire le azioni orizzontali in modo che le pile siano ugualmente sollecitate posizionando su ciascuna di esse sia un appoggio fisso che uno scorrevole (Dipartimento Ingegneria Civile. Università di Salerno). In caso di evento sismico le pile possono oscillare in controfase, pertanto nello schema con vincoli alternati cerniera- appoggio, si possono generare crolli a catena (effetti go down) conseguenti il collasso iniziale di una campata (Figura 4.33). Per evitare questi pericolosi fenomeni di collasso occorre assicurare un determinato “franco” agli apparecchi d’appoggio, valutando attentamente la distanza dell’asse del dispositivo dall’estremità della pila, e inserire battite di fine corsa oppure dei restrainers, ovvero dei dispositivi che limitano gli spostamenti tra le travate (Figura 4.34). Figura 4. 34: Restrainers che limitano gli spostamenti delle travate Lo schema statico con travi continue è adottato soprattutto negli impalcati d’acciaio, o in quelli in c.a.p. nel caso di getto in opera per campate successive e di costruzioni per conci successivi, o nel caso di travi inizialmente isostatiche e rese continue in opera attraverso l’impiego di cavi di precompressione disposti nella soletta o in appositi fori disposti nelle travi. Rispetto allo schema statico di travi appoggiate- appoggiate, lo schema di trave continua consente di ridurre l’entità del momento flettente agente, ed inoltre di trasferire tutte le azioni orizzontali ad un elemento molto rigido (spalla) disimpegnando le pile (Figura 4.35). 161 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 4. 35: Schema statico di ponte a travata continua. Per evitare di sovraccaricare le spalle in corrispondenza di forze sismiche, è possibile utilizzare dei dispositivi di vincolo dinamico (scock trasmitter) che creano vincoli temporanei, attivi solo in presenza di azioni sismiche. Nel caso di movimenti lenti, ad esempio dovuti a variazioni termiche, ritiro e viscosità, consentono liberamente gli spostamenti, nel caso di movimenti improvvisi, ad esempio eventi sismici, i dispositivi diventano rigidi, trasformando temporaneamente appoggi mobili in fissi. La presenza dei scock trasmitters consente di ripartire le forze sismiche tra le spalle e le pile, le quali, per la presenza degli appoggi scorrevoli, senza tali dispositivi non sarebbero sollecitati da azioni orizzontali. Figura 4. 36: Elementi costitutivi di un viadotto. 162 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio VIADOTTI. Quando un ponte presenta un notevole sviluppo in lunghezza e più appoggi sul terreno, si chiama più comunemente viadotto, ma per gli aspetti costruttivi la distinzione tra ponte e viadotto non ha rilevanza. I classici viadotti autostradali (Figura 4.36) sono costituiti da un impalcato, realizzato con una soletta in c.a. e travi longitudinali e traversi in c.a.p. o acciaio e da elementi di sostegno centrali (pile) e laterali (spalle). PONTI AD ARCO. La struttura portante è l’arco , al quale l’impalcato trasmette i carichi e che a sua volta scarica sulle spalle o sulle pile forze verticali e orizzontali. Anche qui i materiali impiegati sono i più diversi: si va dai massicci ponti in muratura, ai ponti reticolari metallici, ai moderni ponti in cemento armato che consentono grandi luci e minori curvature dell’arco. a) b) Figura 4. 37: Ponti ad arco a via superiore (a) ed a via inferiore (b). Se il piano viabile corre al di sopra dell’arco il ponte è detto a via superiore (Figura 4.38a). In questo caso l’impalcato è sostenuto dall’arco mediante una serie di elementi verticali o subverticali sollecitati a compressione e chiamati piedritti; l’arco trasferisce al terreno consistenti forze orizzontali, dette spinte ed il sistema viene chiamato ad arco spingente. Se l’arco sovrasta il piano viabile il ponte è detto a via inferiore (Figura 4.38b) e l’impalcato è sospeso all’arco mediante elementi verticali o inclinati sollecitati a trazione e chiamati pendini o tiranti. In questo caso la travata d’impalcato può essere resa solidale con le estremità dell’arco ed in tal caso può equilibrare in toto o parzialmente le componenti orizzontali delle azioni trasmesse dall’arco. Questo tipo di struttura prende il nome di arco a spinta eliminata e consente di trasferire sul terreno azioni orizzontali minime o nulle. 163 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 5. IL RISCHIO VULCANICO 5.1. PROCEDURA DI ANALISI DEL RISCHIO VULCANICO 5.1.1. PREMESSA Fin dai tempi preistorici la vita umana è stata influenzata dalle catastrofi naturali. Uragani, alluvioni, terremoti ed eruzioni vulcaniche sono stati responsabili di milioni di morti ed i loro effetti hanno spesso messo in pericolo la sopravvivenza di intere civiltà. Talvolta le popolazioni erano state attirate verso zone particolarmente esposte alle catastrofi geologiche dalla fertilità agricola, dalla posizione strategica dei luoghi o da altri fattori di carattere culturale. Il numero di vite umane perse in conseguenza dei disastri naturali rende l’idea della relativa importanza dei vari fenomeni (Scandone, D’Andrea, 1994). A partire dal 1600 le eruzioni hanno causato approssimativamente 260.000 vittime, di cui circa l’80% in soli sei eventi, mentre durante lo stesso periodo di tempo si stima che almeno cinque milioni di persone abbiano perso la vita a seguito di terremoti. La peggiore catastrofe vulcanica di cui si ha conoscenza (quella del Tambora nel 1815) ha causato circa 92.000 morti, mentre il maggior numero di vittime causato da un uragano è stato di 500.000. Nel disastroso terremoto del 1976, a Tang Shan in Cina, persero la vita 830.000 persone. Negli Stati Uniti, fra il 1963 ed il 1983 le vittime da inondazioni sono state 200 all’anno, quelle causate da frane 25, 12 causate da terromoti, 6 per tsunami, mentre solo 3 per anno sono state causate da eruzioni. Nonostante gli eventi vulcanici sollevino talvolta più impressione di altri fenomeni naturali, da queste cifre appare evidente che in realtà essi pongono meno problemi rispetto ad altre catastrofi più frequenti e in molti casi anche più prevedibili. Questo non toglie nulla alla capacità di distruzione di un evento eruttivo, ma mette in risalto come le conseguenze siano particolarmente legate alla presenza di insediamenti umani in 164 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio prossimità di apparati vulcanici le cui aree risultano comunque relativamente piccole se confrontate con quelle esposte alla possibilità di inondazioni, frane e terremoti. La maggiore o minore pericolosità dei vulcani dipende dalle caratteristiche della loro attività. Tra i meno pericolosi sono da considerarsi i vulcani che manifestano esclusivamente un’attività di tipo effusivo, come i grandi vulcani a scudo hawaiani o, in Italia, l’Etna. Al contrario i vulcani a carattere prevalentemente esplosivo possono provocare immense catastrofi naturali, soprattutto se si tratta di vulcani che erano ritenuti ormai definitivamente spenti e che riprendono improvvisamente la loro attività. Quasi mezzo miliardo di persone, nel mondo, vive nei pressi di vulcani attivi, o considerati a rischio di eruzione. In Europa ci sono diversi esempi di questo tipo, come il vulcano La Soufriere, nell’Isola di Guadeloupe (Francia), il vulcano Teide, nell’Isola di Tenerife (Spagna), o il vulcano Sete Citades, nelle portoghesi Azzorre, con i 75.000 abitanti che vivono ai suoi piedi. La regione europea più esposta al rischio vulcanico, però, è la Campania, più precisamente l’area del Vesuvio, per l’alta densità abitativa della zona circostante (più di mezzo milione di persone vive oggi nel raggio di 8km dal cratere) e per il carattere prevalentemente esplosivo del vulcano (Cavazzoni). A differenza del rischio sismico, per il rischio vulcanico si conosce con notevole precisione l’area potenzialmente interessata all’eruzione e questo permette di programmare gli interventi con maggiori probabilità di successo. Per definire il rischio vulcanico bisogna tenere conto di numerosi fattori e in particolare della precedente attività. E’ necessario ricostruire nei particolari il comportamento di ogni vulcano durante le precedenti fasi eruttive, prevedere l’eventuale «periodo di ritorno» dell’attività vulcanica, studiare la morfologia del vulcano stesso per individuare le aree in cui probabilmente fluiranno le colate laviche, analizzare i venti prevalenti nell’area in cui esso sorge per determinare la direzione probabile di caduta dei materiali piroclastici più fini e, infine, delimitare l’area che è stata interessata dagli episodi eruttivi precedenti, anche quelli verificatisi in epoche molto antiche. I risultati di questi studi vengono poi condensati nella carta del rischio vulcanico, attraverso cui l’area in prossimità del vulcano viene suddivisa in un certo numero di zone, 165 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio ciascuna delle quali ha una certa probabilità di essere colpita da una particolare conseguenza dell’eruzione. 5.1.2. IL RISCHIO VULCANICO Che cos’è il RISCHIO? Le domande da farsi in proposito sono tre: “Cosa può accadere?”, “Quanto è probabile che ciò accada?”, “Quali sono le conseguenze?”. Quantitativamente, il rischio si misura in relazione a tutti i possibili scenari Si, alla probabilità Li di verificarsi di ogni scenario, e alle conseguenze Xi dello scenario di i-esimo (Dobran), cioè: R = (Si, Li, Xi) (5.1) Si può pensare a R come una traiettoria tridimensionale individuata da triadi Si, Li, Xi , con i=1,...,n. Per l’area del Vesuvio, i possibili scenari includono quelli che non sono associati necessariamente al vulcano (terremoti, frane, fughe chimiche, attività terroristiche) e quelli che lo sono. Tra questi ultimi: precipitazioni di tephra, flussi piroclastici, lava, e lahars. Per le stime di rischio vulcanico dell’area napoletana è stato adottato, quale definizione di rischio, il seguente prodotto (Scandone, D’Andrea, 1994): Rischio = (Valore) x (Vulnerabilità) x (Hazard) (5.2) dove: il Valore è dato dal numero di vite umane, oppure dal valore in beni immobili, a rischio; la Vulnerabilità è il valore percentuale delle vite umane (o beni) a rischio in conseguenza di un dato evento, e l’Hazard è la probabilità che una data area sia soggetta ad un determinato evento distruttivo (Figura 5.1). Con questa definizione di rischio si cerca di tener conto del fenomeno naturale e della probabilità con cui si ripete nonché degli effetti che esso può determinare sull’ambiente umano. Nelle valutazioni di Hazard, per quanto possa sembrare strano, l’elemento di maggiore difficoltà nella stima del rischio, è la valutazione della probabilità di eruzione del vulcano. 166 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 5. 1: Definizione di Rischio Questa stima è ancora più complessa quando il vulcano ha lunghi periodi di quiescenza e presenta poche eruzioni in epoca storica. Di conseguenza, diventa anche più difficile la ricostruzione della sua storia eruttiva, la cui accuratezza rappresenta la base per un lavoro di previsione. La vita di un vulcano abbraccia periodi di tempo dell’ordine delle decine o centinaia di migliaia di anni e, per ricostruire la sua storia eruttiva, bisogna ricorrere a metodologie differenti che siano in grado di coprire spazi temporali vasti rispetto alla durata della vita umana. I documenti storici permettono uno studio accurato solo per quello che riguarda le ultime centinaia di anni. La lunghezza del periodo storico ricoperto da testimonianze è però variabile a seconda delle aree geografiche. L’area italiana è particolarmente “fortunata” in quanto sede delle più antiche civiltà testimoni di buona parte degli eventi vulcanici negli ultimi 2500 anni. In altre aree del mondo, come ad esempio gli Stati Uniti, si dispone di testimonianze dirette dell’attività vulcanica solo per gli ultimi 100 anni. Gli studi geologici sono utilizzati per ricostruire la storia vulcanologica di un particolare vulcano soprattutto dove non si hanno altri tipi di informazioni. Con le datazioni assolute si possono stimare, partendo dai prodotti, le età delle varie eruzioni. 167 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Malgrado da molti anni la comunità vulcanologica internazionale stia lavorando allo scopo di ridurre gli effetti delle eruzioni, a tutt’oggi si dispone di carte di Hazard solo per un numero limitato di vulcani, mentre le stime di Rischio sono disponibili solo per l’area napoletana. 5.1.3. STIME DI RISCHIO PER L’AREA NAPOLETANA Le carte di Rischio per l’area napoletana sono state redatte sulla base dell’indice VEI, secondo lo schema di classificazione semiquantitativo delle eruzioni proposto da Newhall e Self e adottato dalla Smithsonian Institution nella compilazione del catalogo mondiale delle eruzioni. L’indice prende il nome di INDICE DI ESPLOSIVITÀ VULCANICA (VEI: Volcanic Explosivity Index) e si basa su una serie di parametri osservabili nel corso di un’eruzione, combinati in maniera tale da fornire una scala di relativa grandezza fra i vari eventi. Lo schema è stato pensato in particolare per formulare una classificazione dell’esplosività di un’eruzione e quindi non permette un’adeguata classificazione degli eventi puramente effusivi. VEI Descrizione Log volume [m3] Altezza colonna Descrizione qualitativa Classificazione Durata [ore di emissione continua] Iniezione troposferica Iniezione Stratosferica 0 1 non esplosiva 2 3 piccola 4 5 moderata 6 grande 7 8 molto grande 4 4÷6 6÷7 7÷8 8÷9 9÷10 10÷11 11÷12 >12 <0,1 0,1÷1 1÷5 3÷15 10÷25 >25 …. …. …. effusiva esplosiva stromboliana Effusiva esplos. cataclism. parossistica pliniana cataclism. colossale hawaiiana parossist. colossale grave vulcaniana grave notevole notevole terrificante ultrapliniana terrificante Figura 5. 2: Schema di classificazione delle eruzioni basato sull’indice di esplosività (VEI). (Newhall e Self, 1982) Sebbene lo schema di valutazione dell’indice VEI (Figura 5.2) sia largamente qualitativo, ha tuttavia il pregio di permettere una stima della “grandezza” delle eruzioni anche basandosi su una semplice descrizione dell’evento. Questo dato è molto importante in 168 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio quanto consente di attribuire un ordine di grandezza anche ad eruzioni avvenute nel passato. Analizzando la storia vulcanologica del Vesuvio è stato possibile stimare la probabilità di eruzione per ciascuna classe di esplosività. Le classi di VEI considerate come capaci di produrre rischio per l’area Vesuviana sono tre: I. VEI=3. E’ il caso di eruzioni moderate o a “piccola scala”, analoghe a quelle avvenute nel 1906 e nel 1944, definibili, secondo lo schema di Walker, stromboliane. II. VEI=4. Si tratta di eruzioni a “scala intermedia”, riferibile come esempio alle eruzioni sub-pliniane del 472 d.C. e del 1631. III. VEI=5. Sono eruzioni a “grande scala”, analoghe all’eruzione del 79 d.C. che distrusse Ercolano e Pompei. Si tratta di eruzioni catastrofiche con alti valori di esplosività, definite pliniane. I valori di probabilità di ciascuna classe, cioè la probabilità di osservare almeno una eruzione di determinato VEI nei prossimi dieci anni, sono, rispettivamente: P(3) = 0.0989 P(4) = 0.0175 P(5) = 0.0030 Il prodotto tra la probabilità assoluta di eruzione e la probabilità relativa che un’area intorno al vulcano sia interessata da una certa fenomenologia dà l’Hazard. I criteri utilizzati per il calcolo delle probabilità relative sono diversi a seconda dell’intensità delle eruzioni e delle loro caratteristiche. In particolare la probabilità relativa che un’area intorno al vulcano sia interessata da lave, da flussi piroclastici e lahar è stata stimata in base alla morfologia dell’area, alla passata storia eruttiva ed all’entità dell’eruzione in oggetto. Come valori di vulnerabilità per vite umane sono stati attribuiti valori molto bassi per quanto riguarda le lave e valori più elevati, decrescenti con la distanza, per le fenomenologie di flussi piroclastici e lahar (Scandone, D’Andrea, 1994). Come parametro di Valore è stato considerato il numero di abitanti residenti in ciascun comune (Tabella 5.1). 169 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio I valori di Rischio per ciascun comune sono riportati in Figura 5.3. La suddivisione in quattro classi di rischio è fatta su base logaritmica, cioè il passaggio da una classe all’altra comporta una variazione di Rischio di un ordine di grandezza. Per i comuni che ricadono nelle prime due classi è ipotizzabile che, in caso di emergenza vulcanica, vengano adottate misure di evacuazione o quanto meno di riduzione del numero di abitanti esposti (evacuazione di ospedali, persone inabili, ecc). In base a questa suddivisione si nota che i sei comuni con rischio ALTISSIMO sono i comuni di Torre Annunziata, Torre del Greco, San Giorgio a Cremano, Portici, Ercolano e Napoli (zona orientale). Per questi comuni si impongono delle scelte drastiche per la riduzione del rischio ed è ovvio che devono essere quelli sui quali si devono concentrare i principali interventi della Protezione Civile in caso di imminenza di attività vulcanica. POPOLAZIONE POPOLAZIONE 1998 2001 Boscoreale 29.411 27.381 Boscotrecase 11.255 10.638 Cercola 19.356 18.572 Ercolano 58.254 54.699 Massa di Somma 6.036 5.902 Ottaviano 23.307 22.549 Pollena Trocchia 13.134 13.326 Pompei 26.143 25.751 Portici 62.106 58.905 San Giorgio a Cremano 60.357 52.807 San Giuseppe Vesuviano 26.838 23.152 San Sebastiano al Vesuvio 10.323 9.851 Sant’Anastasia 28.908 27.472 Somma Vesuviana 32.429 32.838 Terzino 15.789 15.831 Torre Annunziata 47.659 48.720 Torre del Greco 95.665 90.255 Trecase 9.886 9.179 TOTALE 576.856 547.828 Tabella 5. 1: Dati ISTAT dei comuni della zona rossa COMUNE Per i comuni che ricadono nella categoria ad ALTO rischio il discorso è simile. Tuttavia questi si trovano in una zona abbastanza ampia attorno al vulcano e quindi gli interventi in caso di imminenza di attività vulcanica devono essere valutati caso per caso. Per i comuni che ricadono nelle altre due classi sarebbe opportuno prevedere delle misure tecniche da adottare in caso di eruzione vulcanica, senza tuttavia ricorrere a misure drastiche di evacuazione. 170 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 5. 3:Classificazione di Rischio vulcanico dei comuni vesuviani in base allo schema proposto da Scandone e altri (1993) Nel quadro generale della mappa di rischio schematica mostrata in Figura 5.4, risulta evidente che l’area esposta a maggior rischio è quella costiera e ciò sia per l’altissima densità di abitanti, sia per la morfologia e relativa vicinanza dei centri abitati al vulcano. 171 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio In questo quadro va sottolineata la particolare situazione di Napoli, la quale deve il suo elevatissimo coefficiente di rischio prevalentemente ad eventi con VEI=4 (60%) e VEI=5 (40%). Nonostante la distanza, la morfologia e una probabilità relativamente bassa che questi eventi si verifichino nel corso del prossimo decennio, lo “straordinario” numero di persone residenti nelle zone orientali della città fa rientrare quest’area fra quelle con maggior coefficiente di rischio. Figura 5. 4:Mappa di Rischio vulcanico dell’area vesuviana 5.2. PREVISIONE SCENARI 5.2.1. PREMESSA Sulla base della (5.1), risulta determinante, nella valutazione del rischio vulcanico, l’individuazione dei possibili scenari, siano essi associati o meno al vulcano. 172 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Lo studio delle eruzioni del Vesuvio ha permesso di costruire modelli, elaborati da calcolatori, per mezzo dei quali è possibile simulare il comportamento del Vesuvio in un certo intervallo di tempo, e tracciare carte come quelle riportate in Figura 5.5. e Figura 5.6. Figura 5. 5: Carta delle probabilità di caduta di materiali piroclastici. A: accumulazioni di spessore smax=4m; B: accumulazioni con smax<4m; C: flussi piroclastici o da colate di fango; D: centri abitati Nella carta delle probabilità di caduta di materiali piroclastici (Figura 5.5), si distinguono: • il settore A, che indica le zone nelle quali le accumulazioni possono raggiungere i 4m di spessore; • il settore B, relativo a spessori prevedibili minori; • la zona C che indica le aree che possono essere interessate da flussi piroclastici o da colate di fango; • Le zone D indicano i centri abitati. La carta delle probabilità di lahar (Figura 5.6) si riferisce al versante settentrionale del Vesuvio. I numeri crescono con l’aumentare del rischio. L’area 5 è quella dove le colate si possono accumulare. 173 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 5. 6: Carta delle probabilità di lahar. I numeri crescono all’aumentare del rischio. Di seguito si riporta una breve descrizione di modelli per la previsione di: • eruzioni (scenario associato al vulcano): è il caso del SIMULATORE VULCANICO GLOBALE e del PROGETTO EXPLORIS. • terremoti (scenario non necessariamente associato al vulcano): metodo LURR. 5.2.2. SIMULATORE VULCANICO GLOBALE Nell’ambito del progetto VESUVIUS 2000, la GVES sta sviluppando il Simulatore Vulcanico Globale del Vesuvio. Si tratta di un modello fisico- matematico-computerizzato dell’intero sistema vulcanico, e come tale è utile per produrre scenari di eruzione diversi per l’analisi di rischio. Il simulatore incorpora modelli fisici e chimici di tutti i processi magmatici concepibili all’interno del vulcano e nell’atmosfera sopra di esso. Incorpora i dati geologici e geofisici che concernono l’origine e la composizione di depositi vulcanici, le falde acquifere, le pietre e i suoli, e la forza, l’elasticità e la plasticità di magma e lava. Questi dati sono utilizzati per produrre i modelli matematici (equazioni costitutive) di comportamento di materiale in microscale e macroscale a differenti pressioni e temperature. Le equazioni costitutive sono usate poi nelle leggi fisiche di base della conservazione di massa, momento, ed energia per produrre un modello fisico-matematico complessivo appropriato. 174 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Il modello della camera magmatica rende conto dei cambiamenti di volume, di temperatura e di pressione, dei tassi di entrata e uscita di magma dalla camera, e delle caratteristiche fisiche delle rocce intorno alla camera. Diversi tipi di modelli di ascesa del magma schematizzano i cambiamenti del regime del flusso magmatico e della fusione delle pareti del condotto. Una combinazione di tali modelli consente la previsione a lungo termine di eruzioni, della loro durata, e delle caratteristiche del magma (velocità, temperatura, pressione, tasso di eruzione) nell’uscita dal condotto. Queste condizioni sono poi utilizzate in un modello della colonna vulcanica dal simulatore per produrre la distribuzione temporale e spaziale dei prodotti vulcanici nell’atmosfera e lungo le pendici del vulcano (Dobran). E’ impossibile prevedere le future eruzioni del Vesuvio con grande precisione per la difficoltà di elaborare un modello fisico-matematico accurato del complesso vulcanico e per la incompletezza della storia eruttiva che è stocastica in natura. Nonostante ciò, è possibile stabilire le probabilità di eruzioni future e così valutare l’incertezza nel predire le eruzioni. In base al Simulatore e utilizzando vari parametri del sistema Vesuvio (ubicazione ed estensione della camera magmatica, proprietà strutturali delle rocce intorno alla camera), le eruzioni sub-pliniane e pliniane si verificheranno con uguale probabilità nei prossimi 100 anni, con un’incertezza di più o meno 100 anni (Dobran & Mascolo, 1998). Questa incertezza è dovuta alla incompleta conoscenza del sottosuolo del sistema vulcanico e nel prossimo futuro la scienza non sarà in grado di migliorare tale conoscenza. La storia eruttiva del Vesuvio degli ultimi 300.000 anni insegna che i periodi tra le eruzioni e le loro grandezze sono stocastici in natura e seguono le leggi probabilistiche che sono più precise per le eruzioni più grandi che per le quelle più piccole. I risultati di questa informazione, estrapolati nel futuro, dimostrano che le probabilità di grandi (pliniane e sub pliniane) eruzioni esplosive sono quelle riportate in Tabella 5.1. Da esse si evince che è quasi certo (Probabilità = 1) che una grande eruzione esplosiva avverrà ogni 500 anni, mentre è molto improbabile che questa si verifichi in tempi più brevi (meno di qualche centinaio di anni). Dall’ultima grande eruzione esplosiva del 1631 (367 anni fa) esiste dunque un’alta probabilità di un’eruzione simile o più grande nell’immediato futuro, e specialmente nel XXI secolo, come è stato determinato indipendentemente anche dal Simulatore Vulcanico Globale. 175 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Probabilità (500 anni) Probabilità (100 anni) Probabilità (50 anni) Probabilità (10 anni) Probabilità (1 anno) 0,99 0,90 0,75 0,30 0,04 Tabella 5. 2: Probabilità di grandi eruzioni esplosive (Dobran & Mascolo, 1998) Quando questa informazione probabilistica è unita alla teoria della decisione, che coinvolge vari tipi di eruzione, si può dimostrare che il rapporto di verosimiglianza (RV) della nostra capacità di prevedere future eruzioni è quello in Tabella 5.2. RV(1 settimana per l’evacuazione) RV(1 mese per l’allarme) RV(100 anni per la prevenzione) 1000 100 0,1 Tabella 5. 3:Rapporto di verosimiglianza (Dobran & Mascolo, 1998) Il significato di questi numeri è che è quasi certo che non è possibile prevedere l’eruzione per un’evacuazione in una settimana o per l’allarme in un mese, ma che la fattibile direzione è di operare per la prevenzione nel territorio a lungo termine. Per esempio, la nostra capacità di prevedere il tempo metereologico con 24 ore in anticipo si aggira intorno a RV=5 e nessun precursore di terremoto si è mai verificato con RV più grande di uno. Dovrebbe essere dunque chiaro che è estremamente improbabile prevedere l’eruzione in breve tempo o alcune settimane prima, come previsto dai vulcanologi, che hanno stilato il Piano di Emergenza dell’Area Vesuviana, e che l’unico modo di proteggere la popolazione è quello di una strategia di prevenzione a lungo termine, per la quale il rapporto di verosimiglianza si abbassa notevolmente. 5.2.3. PROGETTO EXPLORIS Valutare scientificamente il rischio vulcanico in zone densamente popolate è sicuramente un impegno importante per i ricercatori, ma anche per le regioni e le nazioni interessate. Poter calcolare il rischio per la popolazione, prevedere in tempo le eruzioni, saper 176 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio fronteggiare eventuali emergenze, è divenuta una priorità per tutelare la sicurezza dei cittadini e dell’ambiente circostante. A questo fine, nove partner Europei, che includono Istituti di Ricerca, Università, Osservatori Vulcanologici e Imprese di cinque Paesi Europei (Italia, Gran Bretagna, Spagna, Francia e Portogallo), hanno dato vita al Consorzio EXPLORIS, un progetto triennale finanziato dalla Comunità Europea - nell’ambito del V Framework Programme, Programma Enviroment and Sustainable Development e coordinato dalla sezione di Pisa dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. EXPLORIS è l’acronimo del titolo del Progetto, EXPLOsive Eruption RISk and Decision Support for EU Populations Threatened by Volcanoes. Esperti di Geologia, Fisica, Matematica, Informatica, Ingegneria, Architettura, Medicina e Analisi del Rischio si sono riuniti in questo progetto, che rappresenta un’opportunità unica per accrescere le capacità Europee di valutazione del rischio vulcanico. Il Consorzio CINECA è stato coinvolto nelle attività di sviluppo dei modelli numerici, nell’attività computazionale e nell’integrazione e visualizzazione dei dati collegati alle attività del progetto. Riguardo ai modelli matematici, il progetto si è focalizzato sulle eruzioni esplosive e la dispersione di ceneri vulcaniche. Nell’ambito di EXPLORIS sono state realizzate le prime simulazioni tridimensionali e transitorie dei processi di dispersione delle ceneri nell’atmosfera, del collasso della colonna vulcanica e della formazione di colate piroclastiche lungo le pendici del vulcano. Tali modelli, utilizzando la potenza di calcolo dei supercomputer del CINECA, permettono di rappresentare i fenomeni vulcanici con un’accuratezza superiore al passato nonché di quantificare meglio le azioni pericolose ad essi associate. Assieme alla temperatura, le simulazioni permettono di studiare anche molte altre grandezze che caratterizzano l’eruzione, come la densità dei piroclasti e dei gas, la pressione, la velocità e la direzione del flusso piroclastico. Le simulazioni più accurate hanno avuto come soggetto l’eruzione esplosiva più probabile per il Vesuvio, per la quale è stato utilizzato un dominio di simulazione comprendente un’area di 12Km di lato (Vesuvio più territorio circostante) e che si estende fino alla quota di 8Km; il dominio è stato discretizzato su una griglia cartesiana di dimensione 200x200x200 a risoluzione variabile (dai 20 metri in prossimità del cratere a 100 metri per 177 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio le celle più lontane). L’eruzione è stata seguita per 30 minuti di tempo reale utilizzando un time step (discretizzazione temporale) di 0,1 secondi (Cavazzoni). Per portare a compimento questa simulazione sono stati utilizzati 450 processori del sistema IBM SP5 del CINECA per un totale di 180 ore (80000 ore/cpu), equivalenti a 10 anni calcolo utilizzando un solo processore. Le simulazioni su grande scala, come quelle sopra citate, producono una enorme mole di dati che devono essere analizzati e visualizzati per essere comprensibili agli esperti. A questo scopo sono stati realizzati due strumenti: uno dedicato all’analisi quantitativa del dato (denominato EXPLORIS-A, dove A sta per Analyser) e l’altro alla analisi qualitativa ed alla integrazione con altre tipologie di dati provenienti da altre sorgenti (EXPLORIS-V, dove V sta per Visualiser). La principale caratteristica di EXPLORIS-A è quella di potersi interfacciare direttamente con i dati grezzi della simulazione, costituiti dai campi scalari e vettoriali relativi alle grandezze simulate (Pressione, Temperatura, Concentrazione e Velocità delle particelle e dei Gas), salvati dalla simulazione ad intervalli regolari (2 secondi di tempo simulato). EXPLORIS-V invece è uno strumento a più alto livello e consente di integrare in un’unica visualizzazione: i dati sui flussi piroclastici provenienti dalla simulazione; un modello fotorealistico del suolo (orthofoto) e il suo profilo topografico (DGM - Digital Elevation Model); e le informazioni geografico-urbanistiche (GIS). Grazie a questa integrazione è possibile, ad esempio, visualizzare contemporaneamente il dato della densità abitativa o la rete viaria, e la temperatura del flusso piroclastico in un dato istante. È anche possibile visualizzare lo scenario in 4D ovvero al variare del tempo, ed interagire real-time col dato stesso. Sono stati ricostruiti i primi 25 minuti dell’eruzione di potenza pari a quella del 1631 (Sartini). In Figura 5.6 sono riportate le immagini del Vesuvio pochi minuti dopo l’inizio dell’eruzione virtuale simulata: le diverse gradazioni di rosso (Figura 5.7a) evidenziano le isosuperfici della temperatura, a 100 (superficie esterna) e 350 (superficie interna) gradi Celsius; le isosuperfici grigie (Figura 5.7b), invece, rappresentano due diversi livelli di concentrazione del materiale eruttivo. 178 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio a) b) Figura 5. 7: a)Isosuperfici di temperatura. b)Isosuperfici di concentrazione (Progetto Exploris) Le immagini (Figura 5.8) e il video che illustrano visivamente il Progetto Exploris si riferiscono alla visualizzazione del terreno con edifici e strade (dati GIS) del comune di Ercolano. 179 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Nella cartina sono indicati con il colore rosso gli edifici residenziali, in verde gli edifici socio-amministrativi, in giallo gli edifici industriali e in blu gli edifici di culto. Le vie di comunicazione sono invece evidenziare in bianco. Al territorio è stata sovrapposta la simulazione dell’eruzione esplosiva del Vesuvio (Figura 5.7). a) b) Figura 5. 8: a) Il Vesuvio a 5 minuti dall’esplosione. b) Il Vesuvio a 25 minuti dall’esplosione. In marrone la colate piroclastica a maggior temperatura. (Foto INGV- Cineca) 5.2.4. METODO LURR Un terremoto si genera a seguito del collasso o dell’instabilità dei focal media, accompagnata da un rapido rilascio di energia. Dunque, il processo preparatorio di un sisma consiste nella deformazione e nel danno dei focal media. 180 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Una curva costitutiva tipica per focal media (roccia) è quella in Figura 5.9. Figura 5. 9: Curva costitutiva della zona focale In ordinata è riportato il generico carico P (in luogo della tensione σ ), in ascissa la risposta R al carico P (in luogo della deformazione ε). In campo elastico, il materiale gode della proprietà di invertibilità: le risposte al carico ed allo scarico sono le stesse. Al di là del regime elastico, invece, le due risposte differiscono sensibilmente ed il danno, che non è più irreversibile, causa il deterioramento del materiale. Per misurare quantitativamente la differenza di cui sopra sono stati definiti due parametri: la risposta percentuale X ed il LURR (Load-Unload Response Ratio) Y: X = lim ΔP → 0 Y= ΔR ΔP X+ X− (5.3) (5.4) Avendo indicato con: ΔP la variazione del carico/scarico P che produce la variazione ΔR della risposta R; e con X+ e X- le risposte percentuali relative al carico (+) ed allo scarico (), definite dal limite (5.3). 181 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio In regime elastico, X+=X- e Y=1, oltre X+>X- e Y>1. Al crescere del danneggiamento del materiale, cresce il valore di Y, così che Y (LURR) potrebbe misurare la prossimità al collasso. La teoria del LURR (X. C. Yin, 2000), atta alla previsione di terremoti, si basa su questa osservazione: quando un sistema è stabile, la sua risposta a carico e scarico è pressoché la stessa e, dunque Y=1, mentre la risposta a carico e scarico è piuttosto diversa e Y>1 quando il sistema sta avvicinandosi ad un stato critico. Valori di LURR alti indicano che una regione si sta preparando ad un terremoto importante. Negli anni precedenti, forti terremoti in Cina e negli altri paesi che usano il parametro LURR sono stati previsti nel medio termine. Ad esempio, il terremoto di Northridge del 17/01/1994, di magnitudo M=6.6 è stato previsto da X.C.Yin e dal suo gruppo al 28/10/1993, con M=6÷6.5. Di norma, il LURR è definito dalla seguente espressione: ⎛ N+ m ⎞ ⎜ ∑ Ei ⎟ ⎝ i =1 ⎠+ Ym = N − ⎛ ⎞ ⎜ ∑ Eim ⎟ ⎝ i =1 ⎠− (5.5) dove: E indica l’energia sismica rilasciata; i pedici + e – le fasi di carico e scarico; e l’esponente m assume i valori 0, 1/3, 1/2, 2/3 o 1. Per m=1, Em è l’energia stessa; per m=1/2, Em è lo sforzo di Benioff ; per m=1/3 e 2/3, Em rappresenta, rispettivamente, la scala lineare e la scala di area della zona focale; per m=0, Y=N+/N-, dove N+ e N- rappresentano il numero di terremoti verificatisi durante il periodo di carico e scarico. In Figura 5.10 è riportata una tipica curva Y-t: il LURR raggiunge valori elevati molti mesi o anni prima del verificarsi di terremoti importanti, alla vigilia dei quali il LURR decresce a livelli bassi. Secondo l’esperienza dei ricercatori che hanno messo a punto questo metodo: • Se per una regione il valore di Y è basso, si è completamente fiduciosi che nessun terremoto violento si verifichi nell’immediato futuro (dell’ordine di parecchi mesi) nella suddetta regione. 182 Daniela De Gregorio matr.37/2246 • Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Se per una regione il valore di Y è abbastanza alto, le possibilità sono molteplici: 1) nella maggioranza dei casi, un terremoto più o meno forte si verifica nella finestra di tempo di approssimativamente 1 anno e nella finestra spaziale di approssimativamente 100km; 2) in alcuni casi, terremoti più o meno forti non si verificano nella finestra predetta, ma non lontano da essa; 3) in casi rari, nessun evento violento si verifica per un tempo prolungato (circa 1 anno o più). Figura 5. 10: Anomalia del LURR negli anni precedenti i terremoti di Kobe e Tottori 5.3. ANALISI DEI DANNI TIPICI SULLE STRUTTURE IN MURATURA E IN C.A. 5.3.1. PREMESSA Ogni indicatore di rischio è proporzionale al DANNO atteso, il quale è in relazione alla sua probabilità di accadimento, per tale ragione una lettura dei quadri fessurativi per tipologie di costruzione risulta fondamentale. 183 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Nell’area vesuviana a prevalere sono i complessi edilizi in muratura ed in cemento armato: è ad essi che ci si riferisce nel seguito. La Tabella 5.4 raggruppa i dati rilevati dall’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia): nella provincia di Napoli l’88,5% dei complessi edilizi presenta una struttura in muratura o in c.a., con un numero di piani da uno a quattro (Tabella 5.5). EPOCA STRUTTURA MURATURA C.A. ACCIAIO MISTA N.I. TOTALE <1919 648 8 1 23 16 696 19-45 245 20 2 36 1 304 46-62 196 200 2 71 3 472 63-82 124 826 25 94 8 1077 >1982 11 509 19 15 5 559 N.I. 81 52 4 21 32 190 TOTALE 1305 1615 53 260 65 3298 [%] 39,5 49,0 1,6 7,9 2,0 100 Tabella 5. 4: Complessi edilizi per epoca costruttiva e struttura verticale prevalente della provincia di Napoli (dati regionali INGV) PIANI C.A. 412 525 329 149 58 90 ACCIAIO 23 11 13 1 3 STRUTTURA MISTA 66 90 53 23 4 8 TOTALE 958 1016 630 286 104 127 TOTALE 3121 Tabella 5. 5: Complessi edilizi per numero di piani e struttura verticale prevalente della provincia di Napoli (dati regionali INGV) 1 2 3 4 5 >5 MURATURA 444 380 233 113 40 25 N.I. 13 10 2 1 1 1 [%] 21,1 9,2 14,3 32,7 16,9 5,8 100 [%] 30,7 32,6 20,2 9,2 3,3 4,0 100 5.3.2. QUADRI FESSURATIVI DEGLI EDIFICI IN MURATURA L’analisi del quadro fessurativo degli edifici con murature portanti consente di ottenere alcuni degli elementi necessari a formulare un giudizio sulle condizioni statiche strutturali o di risalire alle cause determinanti i dissesti. Le lesioni tipiche riportate in letteratura sono le seguenti (Gangemi): - Muratura portante senza aperture con lesioni ad andamento variabile da orizzontale alla base a verticale in sommità, localizzate su un fascia verticale (Figura 5.11a). Causa: cedimento dell’estremità della fondazione posta oltre la zona in cui sono concentrate le lesioni. 184 Daniela De Gregorio matr.37/2246 - Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Muratura portante con lesioni inclinate localizzate su un fascia verticale in corrispondenza delle zone da minore resistenza (Figura 5.11b). Causa: cedimento dell’estremità della fondazione posta oltre la zona in cui sono concentrate le lesioni. Figura 5. 11:Quadro fessurativo delle strutture in muratura - Muratura portante con lesioni inclinate localizzate su due fasce verticali in corrispondenza delle zone da minore resistenza (Figura 5.11c). Causa: cedimento verticale di un tratto intermedio della fondazione. - Lesioni verticali situate in corrispondenza delle zone di muratura portante posta a livello delle aperture (zone di minore resistenza) (Figura 5.11d). Causa: schiacciamento della muratura. - Lesioni verticali localizzate su una fascia verticale, ad una estremità della facciata (Figura 5.11e). Causa: rotazione nel muro trasversale attorno alla base con perdita dell’ammorsamento fra i due muri. - Lesioni ad andamento verticale con caratteristica forma ad imbuto. Il distacco fra i bordi delle lesioni è maggiore alla base della muratura (Figura 5.11f). Causa: allontanamento di masse di terreno senza che si verifichi cedimento verticale, causate da dilatazioni e contrazioni del terreno, movimenti franosi, eventi sismici. 185 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 5. 12: Danni ad edifici in muratura per effetto del sisma Per effetto del sisma, invece, le lesioni registrate sono quelle in Figura 5.12: 1: Lesioni ad andamento pressoché verticale sulle architravi di aperture. 2: Lesioni ad andamento diagonale nelle fasce di piano (parapetti di finestre, architravi). 3: Lesioni ad andamento diagonale in elementi verticali (maschi murari). 4: Schiacciamento locale della muratura con o senza espulsione di materiale. 5: Lesioni ad andamento pressoché orizzontale in testa e/o al piede di maschi murari. 6: Lesioni ad andamento pressoché verticale in corrispondenza di incroci fra muri. 7: Come 6 ma passanti. 8: Espulsione di materiale in corrispondenza degli appoggi di travi dovuta a martellamento. 9: Formazione di cuneo dislocato in corrispondenza della intersezione fra due pareti ad angolo. 10: Rottura di catene o sfilamento dell’ancoraggio. 11: Lesioni ad andamento orizzontale in corrispondenza dei solai o sottotetto. 12: Distacco di uno dei paramenti di un muro a doppio paramento. 5.3.3. QUADRI FESSURATIVI DEGLI EDIFICI IN C.A. Le lesioni tipiche degli edifici in c.a. sono le seguenti: 186 Daniela De Gregorio matr.37/2246 - Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Trave in c.a. con lesioni verticali ravvicinate disposte all’intradosso in mezzeria e all’estradosso agli incastri (Figura 5.13a). Cause: plasticizzazione delle sezioni maggiormente sollecitate da momento flettente. - Trave in c.a. con lesioni inclinate di 45° in vicinanza alle zone di vincolo (Figura 5.13b). Causa: rottura per sforzi di taglio o torsione eccessivi. Figura 5. 13: Quadri fessurativi degli edifici in c.a. - Lesioni nelle pareti con andamento di parabole convergenti verso il pilastro che ha subito cedimento (Figura 5.13c). Causa: cedimento verticale di pilastro. - Lesioni di forma curva concave verso l’elemento spingente ( solaio) dell’edificio vicino con cui si condivide un muro portante o un pilastro (Figura 5.13d). Causa: variazioni di temperatura, ritiro e eventi sismici. - Apertura delle staffe di un pilastro con espulsione del copriferro. Causa: schiacciamento di un pilastro. - Espulsione del copriferro in corrispondenza di spigoli di travi e pilastri. Causa: ossidazione delle armature metalliche. - Lesioni verticali ed orizzontali in corrispondenza delle giunzioni. Causa: ritiro della malta. - Rottura delle pareti con andamento delle lesioni a 45°. Causa: eccessiva deformazione dell’elemento strutturale sottostante (trave o solaio). 187 Daniela De Gregorio matr.37/2246 a) c) e) Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio b) d) f) Figura 5. 14: Lesioni da sisma in edifici in c.a. Durante eventi sismici, le lesioni che possono osservarsi sono diverse. Tra queste: - Lesione di rottura a presso flessione e taglio di un pilastro tozzo (Figura 5.14a). - Espulsione di copriferro in testa al pilastro (Figura 5.14b). - Danno al nodo e all’attacco del pilastro con espulsione del materiale (Figura 5.14c). - Fuori piombo e formazione di cerniere plastiche in testa e al piede dei pilastri del piano terra (Figura 5.1d). - Lesioni gravi in tamponature deboli (Figura 5.14e). - Collasso per cedimento del piano terra soffice (Figura 5.14f). 188 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 6. ANALISI DI VULNERABILITÀ: STATO DELL’ARTE 6.1. METODOLOGIA SAVE 6.1.1. PREMESSA Il progetto SAVE del GNDT (Gruppo Nazionale Difesa dai Terremoti) nasce nel 2000 con lo scopo di valutare la vulnerabilità sismica, su scala nazionale, del patrimonio edilizio privato e pubblico, degli edifici monumentali (in particolare le chiese), delle infrastrutture e dei sistemi urbani, sulla base di database esistenti. La metodologia SAVE (Strumenti Aggiornati per la Vulnerabilità sismica del patrimonio Edilizio e dei sistemi urbani) consente l’attribuzione ad una classe di vulnerabilità in funzione di una serie di parametri, il cui peso sul comportamento sismico d’insieme è tarato su elaborazioni statistiche del danno rilevato su classi tipologico-strutturali in occasione di precedenti eventi sismici in Italia negli ultimi 25 anni (Albanese, 2007). La procedura, che lavora sulla base di dati “poveri” facilmente ricavabili, lungi dal fornire valutazioni definitive sulla resistenza degli edifici, consente tuttavia di definire con buona precisione le situazioni strutturali maggiormente vulnerabili e di stilare delle “graduatorie” di riferimento. I risultati offerti, insieme all’analisi di aspetti inerenti l’esposizione delle vite umane e delle attività produttive, danno la possibilità di redigere le mappe di rischio. 6.1.2. SCHEDA DI RILIEVO La prima attività prevista dalla metodologia SAVE è quella su campo. Essa consiste in un programma di rilievi che porta alla compilazione di schede di rilievo. Obiettivo della scheda è quello di acquisire informazioni sulla funzionalità generale delle costruzioni, sul loro livello di vulnerabilità sismica, sulle caratteristiche morfologiche del terreno di fondazione e delle aree circostanti, sui collegamenti terrestri, marini ed aerei disponibili, sui percorsi di accesso e sulle vie di fuga, sulle principali infrastrutture presenti 189 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio nell’intorno e, sia pure a livello generale, sul livello di vulnerabilità del costruito immediatamente circostante. Figura 6. 1: Sezione B. Paragrafo relativo a: muratura, c.a. e acciaio Figura 6. 2: Sezione B. Paragrafo relativo al quadro fessurativo 190 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Naturalmente la rilevazione non pretende di essere esaustiva rispetto alle problematiche presenti nelle costruzioni esaminati e nel loro intorno, ma costituisce uno strumento in grado di segnalare, sulla base dei risultati e delle conclusioni dei rilievi, la necessità di una più approfondita valutazione. Nel caso della valutazione di vulnerabilità sismica nell’ambito del rilievo degli elementi strutturali e funzionali delle sedi COM (Centri Operativi Misti) in Italia (Albanese, 2007), la scheda si compone di 6 sezioni, ciascuna delle quali è ulteriormente articolata in paragrafi: • Sezione A- Dati Generali; • Sezione B- Vulnerabilità strutturale dell’edificio (Figure 6.1 e 6.2); • Sezione C- Caratteristiche morfologiche; • Sezione D- Collegamenti principali; • Sezione E- Vulnerabilità circostante l’edificio; • Sezione F- Sintesi di rilievo. 6.1.3. TIPOLOGIE STRUTTURALI VERTICALI E INDICE SINTETICO DI DANNO Secondo la scala macrosismica europea EMS 98 (Figura 6.4), l’assegnazione di un edificio ad una delle sei classi di vulnerabilità (A÷F) previste dipende prevalentemente dalla tipologia strutturale verticale (in numero pari a 15, di cui ben 7 relative ad edifici in muratura e 6 ad edifici di c.a.). Figura 6. 3: Parametro sintetico di danno 191 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Per effettuare agevolmente il confronto fra diverse distribuzioni di danno si è reso necessario un valore che esprimesse in maniera sintetica il danneggiamento complessivo. Questo valore, definito come INDICE SINTETICO DI DANNO MEDIO (SPDV) è indicato come l’ascissa baricentrica della distribuzione di danno (Figura 6.3) Figura 6. 4: Correlazione fra classi di vulnerabilità e tipologie secondo la EMS-98 Su questa base, si è assegnata in via preliminare ogni tipologia ad una classe di vulnerabilità EMS verticale (Figura 6.5). Figura 6. 5: Classificazione degli edifici secondo la tipologia della struttura verticale 192 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 6.1.4. PESO DEI PARAMETRI In quasi tutti i casi, la correlazione fra classi di vulnerabilità e tipologie secondo la EMS-98 non è una relazione deterministica, ma una implicita relazione probabilistica della quale è esplicita una classe “modale” più probabile (most likely vulnerability class) affiancata da due gruppi di classi giudicate probabili (probable) e meno probabili (less probable o exceptional). La percentuale di incertezza espressa dal probable range può essere piuttosto ampia e quindi tale da influenzare anche pesantemente le analisi di rischio. Pertanto, risulta opportuno considerare in aggiunta altre caratteristiche strutturali che possano meglio qualificare l’assegnazione ad una classe di vulnerabilità. Tali parametri sono: età di costruzione, altezza media di piano, numero di piani, tipologia verticale, orizzontamenti, tipologia della copertura, presenza di catene orizzontali, regolarità in elevazione e/o in pianta, regolarità delle tamponature esterne, presenza di piano debole, posizione dell’edificio. Al fine di valutare l’influenza di tali parametri sulla risposta strutturale sotto sisma di una assegnata tipologia verticale, si sono interpretati statisticamente i dati sul danneggiamento raccolti in occasione degli eventi sismici del passato. In particolare sono state costruite differenti distribuzioni di danno per categorie di edifici, con medesima struttura verticale, raggruppati in funzione dei parametri di cui si intendeva analizzare l’influenza. La formula finale di valutazione della vulnerabilità combina fra loro tutti i parametri, sommando le influenze dei singoli parametri indipendenti e quelle della media dei parametri dipendenti presi proporzionalmente ai coefficienti di correlazione fra i vari parametri: SPDEMS m m ⎛ δ i , j ( p j + pi )cij ⎜ ∑∑ n j =1 i =1 ⎜ = SPDVEMS ⎜1 + ∑ q s + m −1 s =1 ⎜⎜ ⎝ ⎞ ⎟ ⎟ ⎟ ⎟⎟ ⎠ (6.1) Dove: q= valore del parametro indipendente, p= valore del parametro dipendente, n= numero dei parametri indipendenti, m=numero dei parametri dipendenti, cij= coefficiente di correlazione; δij= operatore di Kronecker (δij=0 se i=j, δij=1 se i≠j). 193 Daniela De Gregorio matr.37/2246 6.2. INDICI DI DANNO E DI Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio VULNERABILITÀ NELL’INDAGINE POST-TERREMOTO NELLE CHIESE Il problema della vulnerabilità sismica assume particolare rilevanza per costruzioni di interesse storico – artistico, in virtù della loro importanza architettonica e dei beni di valore in esse contenute, quali affreschi, altari di pregio, ecc. Da un sistematico esame dei danni causati dal terremoto in Friuli , si evince che la risposta sismica delle chiese può essere descritta secondo una fenomenologia ricorrente, ascrivibile a danni o meccanismi di collasso di macroelementi indipendenti dal resto della struttura. Esempi tipici di macroelementi sono la facciata, il campanile, l’abside e le cappelle laterali. Questo approccio, che mal si adatta all’analisi di edifici complessi, molteplicemente connessi come palazzi o conventi, permette un’interpretazione qualitativa del comportamento delle chiese. Questa stessa metodologia fu successivamente applicata ai danni causati dal terremoto del 1987 nelle province di Modena e Reggio Emilia e nelle chiese toscane di Lunigiana e Garfagnana, colpite dal terremoto del 10 ottobre 1995, L’attività di accertamento del danno strutturale subito dalle chiese di Umbria e Marche durante il terremoto del 1997 è stato affidato al GNDT (Gruppo Nazionale per Difesa da Terremoti) su coordinamento di Francesco Doglioni (Marche) e Sergio Lagomarsino (Umbria). Il numero di chiese prese in esame è approssimativamente di 3000. Per ciascuna di esse è stata compilata una scheda suddivisibile in sette sezioni: 1. Tipologia e dati dimensionali. Questa sezione contiene informazioni sulla tipologia e sulle dimensioni della chiesa, con indicazioni relative ai diversi elementi architettonici (vestibolo, presbiterio, abside, cupola, cripta, facciata, sagrestia, campanile) e agli elementi strutturali che determinano la risposta sismica (contrafforti, catene, ecc.). 2. Danno ad elementi di valore artistico. La presenza di beni artistici e gli eventuali danni subiti vanno annotati, senza riferimento al valore. 194 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 6. 6: Abaco dei meccanismi di danno nei macroelementi delle chiese. (Lagomarsino, 1998) 3. Indice di danno ed indice di vulnerabilità. I possibili danni e i meccanismi di collasso dei diversi macroelementi sono in numero pari a 16 (Figura 6.6). Per ogni meccanismo va indicato: a) la presenza di un macroelemento; b) la misura del danno (0: assenza di danno; 1: danno leggero; 2: meccanismo interamente sviluppato; 3: danno severo, vicino al crollo); c) la vulnerabilità intrinseca dell’edificio a quel meccanismo, attraverso due indicatori legati alla fragilità dell’edificio. 195 Daniela De Gregorio matr.37/2246 4. Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Caratteristiche della muratura. Le diverse murature dei vari macroelementi è descritta in riferimento alle caratteristiche degli elementi e della malta, alla composizione delle facciate e delle sezioni trasversali. 5. Sicurezza. In questa sezione viene chiesto di giudicare la sicurezza della struttura, scegliendo tra quattro possibili alternative: sicuro, sicuro con interventi di primo soccorso, parzialmente sicuro, pericoloso. 6. Note. Questa sezione è atta a segnalare la necessità di interventi urgenti a protezione del bene o della pubblica sicurezza e a presentare particolari situazioni non rientranti nelle descrizioni tipologiche e di danno delle sezioni 1 e 3. 7. Illustrazioni: piante, prospetti, sezioni e schizzi utili ad una migliore comprensione della struttura dei particolari meccanismi di danno attivati. L’accertamento dei meccanismi di danno per macroelementi consente di comprendere il danno sismico, permettendo anche di escludere il terremoto come causa di danno già esistenti e di altra natura. L’elaborazione dei dati raccolti, porta alla valutazione di due indici. • L’INDICE DI DANNO: è un numero tra 0 ed 1, che misura il livello medio di danno. E’ definito dall’equazione: id = 1 3N 16 ∑d i =1 k (6.2) dove: dk è il danno nel k-esimo meccanismo (0÷3); N è il numero dei potenziali meccanismi attivati (N≤16). • L’INDICE DI VULNERABILITÀ: è un numero legato all’inclinazione della chiesa ad essere danneggiata dal terremoto. E’ dato dall’equazione: iV = 16 1 vk ∑ 2 N − m k =1 (6.3) dove: vk sono gli indicatori di vulnerabilità presenti nel k-esimo meccanismo (0÷2); m è il numero di domande di vulnerabilità alle quali non è possibile rispondere (ad esempio, alcune zone della costruzione potrebbero non essere ispezionabili durante l’emergenza oppure potrebbero non essere disponibili elementi sufficienti ad esprimere un giudizio). 196 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Nella fase di emergenza l’indice di danno è particolarmente utile. Esso costituisce infatti un parametro sintetico utile alla definizione di una gerarchia di serietà di danno, necessaria nella programmazione di azioni rapide per l’utilizzabilità delle chiese. L’indice di vulnerabilità rappresenta uno strumento utile per l’analisi di vulnerabilità delle chiese, anche in territori non colpiti dai recenti terremoti. 6.3. ESTENSIONE ALLA VULNERABILITÀ DA ERUZIONI VULCANICHE I metodi sopra esposti nascono per la valutazione della vulnerabilità indotta da sisma. Per essi il presupposto è l’individuazione di un parametro di danno, sulla base del quale effettuare le stime, tarato sulle numerose osservazioni disponibili, relative alle condizioni delle costruzioni soggette ad eventi tellurici passati. Nel caso delle eruzioni questi dati sono scarsi o, comunque, riferiti a tessuti edilizi di aree ed epoche storiche differenti e dunque, troppo eterogenei. L’ostacolo può essere superato soltanto con l’integrazione di analisi numeriche e su modelli: ecco dunque, la necessità di un vasto impegno scientifico. 197 Daniela De Gregorio matr.37/2246 7. ESEMPIO APPLICATIVO 7.1. PREMESSA Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Con riferimento al portale in Figura 7.1 si è effettuata un’analisi push- over. Figura 7. 1: Schema statico Le geometrie considerate sono in totale quattro: due per il cls e due per l’acciaio. Secondo l’Eurocodice 1 i sovraccarichi agenti sugli edifici sono quelli riportati in Tabella 7.1. q ψ0 ψ1 [kN/m2] A: domestici e residenziali 2,0 0,7 0,5 B: uffici 3,0 0,7 0,5 D: aree di acquisto 5,0 0,7 0,7 E: magazzini 6,0 1,0 0,9 Tabella 7. 1: Valori dei sovraccarichi secondo l’EC1. CATEGORIA ψ2 0,3 0,3 0,6 0,9 Le sezioni minori sono relative a destinazione d’uso A e B, le altre a destinazioni D ed E. Il carico verticale distribuito qV sta a schematizzare le precipitazioni da tephra, quello orizzontale qH l’azione dei flussi piroclastici, delle colate di fango e dell’impatto del fronte d’onda di uno tsunami e la forza concentrata F il sisma. 198 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Il carico da tephra è pari a ρgh, con g=accelerazione di gravità (9,81m/s2), h=spessore della precipitazione(m), ρ=densità (kg/m3). La densità, in condizioni asciutte, varia da 400kg/m3 a più di 1600 kg/m3, in funzione della compattezza; in condizioni umide, invece, va da 800kg/m3 a 2000kg/m3. Lo spessore massimo atteso è pari a 4m. La pressione (in kPa) prodotta dai flussi piroclastici varia con la distanza dal cratere e con l’intensità dell’eruzione (Figura 3.5), come mostrato in Tabella 7.2. D [km] LARGA SCALA (79d.C.) MEDIA SCALA (1631) 2 3 4 5 6 10 3 1 1 0,8 2 0,75 0,5 0,3 0,3 Tabella 7. 2: Pressione prodotta dai flussi piroclastici 7 0,5 0,2 8 0,3 0,1 Le colate di lahar, in riferimento alle diverse zone di rischio (Figura 5.6), producono le pressioni idrodinamiche in Tabella 7.3. ZONA DI RISCHIO PRESSIONE IDRODINAMICA [kN/m2] A. Alto 150 B. Medio 73,5 C. Basso 37,5 Tabella 7. 3: Pressioni idrodinamiche prodotta dalle colate di fango L’impatto prodotto dal fronte d’onda di uno tsunami è pari a: Fs = 4,5ρ gh 2 ove: ρ è la densità; g l’accelerazione di gravità e h l’altezza del fronte d’onda pari a 5m (il riferimento è all’eruzione del 1631). Il valore da attribuire all’azione da sisma è stato calcolato in relazione all’Ordinanza 3274. Alcune delle azioni esaminate prodotte da un’eruzione vulcanica si presentano con temperature diverse da quella ambiente, dunque si è scelto di assumere T pari 20, 150, 300 e 450°C. 7.2. MATERIALI Lo schema di Figura 7.1 è stato risolto con riferimento a due diversi materiali: il cemento armato e l’acciaio. Per essi si è assunto un legame σ-ε elastico perfettamente plastico. 199 Daniela De Gregorio matr.37/2246 • Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Cemento armato Si è scelto di utilizzare un cls Rck250 ed un acciaio da armaura FeB38k Le variazioni delle caratteristiche meccaniche al variare della temperatura sono quelle suggerite dall’Eurocodice 2 (Tabella 7.4) T fc fc/fc(20°C) 2 Ec Ec/Ec(20°C) 2 fy fy/fy(20°C) 2 Es Es/Es(20°C) 2 [°C] [N/mm ] [%] [N/mm ] [%] [N/mm ] [%] [N/mm ] [%] 20 20 100,0 29.000 100,0 375 100,0 210.000 100,0 150 19,3 96,5 19.333 66,7 356 94,9 196.350 93,5 300 17,3 86,5 9.425 32,5 300 80,0 151.200 72,0 450 14,4 72,0 3.625 12,5 217 57,9 100.800 48,0 Tabella 7. 4:Valori, al variare della temperatura T, della resistenza a compressione fc e del modulo elastico Ec del cls, e della tensione di snervamento fy e del modulo elastico Es dell’acciaio da armatura. • Acciaio L’acciaio utilizzato è un Fe430. Le variazioni delle caratteristiche meccaniche al variare della temperatura sono quelle suggerite dall’Eurocodice 3 (Tabella 7.5). T fy fy/fy(20°C) Es Es/Es(20°C) 2 2 [°C] [N/mm ] [%] [N/mm ] [%] 20 275 100,0 210.000 100,0 150 275 100,0 199.550 95,0 300 275 100,0 168.000 80,0 450 245 89,1 136.500 65,0 Tabella 7. 5: Valori, al variare della temperatura T, della resistenza allo snervamento fy e del modulo elastico Es dell’acciaio. • Cerniere plastiche Il comportamento delle cerniere plastiche è stato schematizzato a mezzo di un diagramma momento- curvatura (M-θ) elastico perfettamente plastico, con il valore massimo di M pari al valore al limite elastico (My). 200 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Per la curvatura ultima θu si sono assunti i limiti suggeriti dalla normativa americana FEMA 356 (Tabella 7.6). θu [rad] Acciaio c.a. Travi Colonne IO 0,005 0,005 0,25θy LS 0,02 0,01 2θy CP 0,025 0,02 3θy Tabella 7. 6: Valori limite curvatura secondo la normativa FEMA 356 7.3. RISULTATI ANALISI Di seguito si riportano le curve carico spostamento risultanti dall’analisi, effettuata con l’ausilio del programma SAP2000, Versione8 Non Linear. Le condizioni di carico assunte sono qV, qH, qV+qH, F+qV, F+qV+qH. Le Figure 7.2-7.5 sono relative a telai in c.a., mentre le 7.6-7.9 ai telai in acciaio. Le dimensioni delle sezioni assunte sono quelle riportate di seguito con riferimento alla Figura 7.1 TIPOLOGIA STRUTTURA MATERIALE c.a. Telaio 1 Telaio 2 Trave Colonna 40x45 40x40 50x70 50x50 Tabella 7. 7: Sezioni utilizzate. Acciaio Trave Colonna IPE 270 HEB 160 IPE 360 HEB 180 Si osservano delle riduzioni di resistenza ed aumenti di deformabilità all’aumentare della temperatura. Sia per il c.a. che per l’acciaio, sotto carichi verticali (Figure 7.2 e 7.6) la struttura va in crisi per collasso della trave, la presenza del carico orizzontale, invece, chiama in causa anche i pilastri. 201 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 7. 2: Analisi push-over telaio in c.a., con controllo dello spostamento vert. di mezzeria della trave 202 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 7. 3: Analisi push-over telaio in c.a., con controllo dello spostamento orizzontale dell’estremità superiore del pilastro 203 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 7. 4: Analisi push-over telaio in c.a., con controllo dello spostamento vert. di mezzeria della trave 204 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 7. 5: Analisi push-over telaio in c.a., con controllo dello spostamento orizzontale dell’estremità superiore del pilastro 205 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 7. 6: Analisi push-over telaio in acciaio, con controllo dello spostamento vert. di mezzeria della trave 206 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 7. 7: Analisi push-over telaio in acciaio, con controllo dello spostamento orizzontale dell’estremità superiore del pilastro 207 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 7. 8: Analisi push-over telaio in acciaio, con controllo dello spostamento vert. di mezzeria della trave 208 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio Figura 7. 9: Analisi push-over telaio in acciaio, con controllo dello spostamento orizzontale dell’estremità superiore del pilastro 209 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio I risultati delle analisi push- over per le sezioni studiate mostrano che la prima cerniera plastica si forma all’estremità della trave, mentre la cerniera che determina il cinematismo si forma in mezzeria Con riferimento all’azione da tephra (qV) sono state eseguite analisi push- over co riferimento alle temperature di 20 e 150°C, essendo quest’ultima quella massima raggiungibile. Nel caso di c.a., per il portale Tipo1, le prime cerniere plastiche si formano per uno spessore di 85cm, in condizioni asciutte, e di 55cm in condizioni umide, mentre il collasso si ha per spessori di 120 e 57 cm, rispettivamente. Per il portale Tipo2, le prime cerniere plastiche si formano per uno spessore di 180cm e 128cm, mentre il collasso si ha per spessori di 240 e 170cm. Nel caso dell’acciaio, i portali Tipo1 e Tipo 2 presentano, rispettivamente, la formazione delle prime cerniere plastiche a 1,8e 1,28m e a 2 e 1,43m. I flussi piroclastici (qH), invece, determinano collasso nelle immediate vicinanze del cratere (<4km), ove le temperature attese possono ragionevolmente assumersi pari a 450°C. 210 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio 211 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio GLOSSARIO ALCALI: nome degli idrati dei metalli alcalini (metalli del primo gruppo del sistema periodico: litio, sodio, potassio, rubidio e cesio). ALLUMINA: ossido di alluminio, dotato di grande durezza e di alto punto di fusioe. ANDESITE: roccia effusiva neovulcanica, di colore grigio, verde o nero, costituita essenzialmente da plagioclasio sodico- calcico e da elementi femici. ANELLO DI TUFO: vulcano monogenetico generato da eruzioni freatomagmatiche quando il magma interagisce con acqua di falda; è composto da materiale piroclastico ben stratificato, consolidato e con granulometria prevalentemente fine. E’ caratterizzato da un cratere ampio, tipicamente tra 0,1 e 3km, fianchi interni ed esterni debolmente inclinati (<10÷12°), giacitura quaquaversale. Il rapporto tra diametro e altezza è compreso tra 10 e 50. Il materiale piroclastico che lo costituisce è composto da juvenili (>90%) e da rocce preesistenti frantumate dall’esplosione (litici); la messa in posto avviene per surge e in misura minore flusso piroclastico e caduta. BLOCCO: frammento piroclastico con dimensioni superiori a 64mm di materiale litico emesso allo stato solido e derivante dall’edificio vulcanico o dal basamento, generalmente è spigoloso. In alcuni casi può essere costituito da materiale juvenile (distruzione di duomi, fratturazione di bombe). Un deposito consolidato costituito prevalentemente da blocchi e bombe è chiamato breccia piroclastica. BOMBA: frammento piroclastico con dimensioni superiori a 64mm di materiale juvenile emesso allo stato fluido o semifluido che solidifica durante il tragitto in aria o appena ricaduto a terra. Si riconoscono diverse tipologie di bombe principalmente in funzione della tipologia di raffreddamento. BOMBA A CROSTA DI PANE (bread crust bomb): caratterizzata da una superficie screpolata e fessurata per aumento di volume in seguito 212 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio all’espansione dei gas nel nucleo ancora fuso. BOMBA AFFUSOLATA (spindle shaped bomb): formata da lava fluida che assume una forma fusiforme (aerodinamica) durante il lancio. BOMBA A FOCACCIA (cowdung bomb): bomba che cade al suolo ancora calda e almeno in parte plastica assumendo forme schiacciate. BOMBA ARMATA: bomba che ha un nucleo costituito da un frammento litico (cored bomb) o che è formata da frammenti e cenere umida (bomba composita, armoured bomb). Un deposito consolidato costituito prevalentemente da blocchi e bombe è chiamato breccia piroclastica. CALDERA: ampia depressione di origine vulcanica, a contorno subcircolare o ellittico, di diametro generalmente superiore al km. È caratterizzata da pareti subverticali e risulta dal collasso di una parte più o meno cospicua del tetto di una camera magmatica superficiale che si è svuotata in seguito ad una grossa eruzione. CENERE: frammenti piroclastici di dimensioni minori di 2mm. Si distinguono in cenere grossolana (64μm÷2mm) e cenere fine (<64μm). Quando consolidati formano tufo o tufo cineritico. COLATA: termine generico che indica la modalità di messa in posto per flusso: colata di lava, colata piroclastica (v. flusso piroclastico), colata di fango (v. deposito di lahar), etc. CONDOTTO VULCANICO: struttura attraverso la quale il magma risale alla superficie, può essere di forma sia cilindrica che fissurale. CRATERE: termine generico indicante la depressione ad andamento subcircolare, posta al di sopra del condotto e attraverso la quale è stato emesso il materiale vulcanico. DEPOSITO DI CADUTA: deposito piroclastico generato dalla ricaduta dei prodotti eiettati nell’atmosfera dalle eruzioni esplosive. Il trasporto avviene o in seguito alla sola energia cinetica dei frammenti lanciati dal centro di emissione (frammenti balistici) o, per i clasti più fini, ad opera del sollevamento dei gas caldi che formano la colonna eruttiva e dell’azione dei venti. In genere i depositi di caduta mantellano la topografia, il loro spessore e la granulometria decrescono con la distanza dal centro di emissione. Questo tipo 213 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio di depositi è composto da uno o più strati ed è caratterizzato da buona classazione, struttura massiva o gradata, base non erosiva, presenza di strutture da impatto ed equivalenza idraulica tra pomici e litici. La distribuzione areale dei depositi di caduta è influenzata dalla direzione e dalla forza del vento al momento dell’eruzione; inoltre la topografia può determinare un certo controllo sulla distribuzione dei prodotti, quando questi ricadono su superfici molto inclinate e subito dopo rotolano verso valle. DEPOSITO DI FLUSSO PIROCLASTICO: deposito piroclastico dovuto alla messa in posto, in massa, di un flusso gravitativo ad alta concentrazione, costituito da un miscuglio di particelle di varie dimensioni (juvenili e non), di gas ed eventualmente di aria intrappolata dall’ambiente circostante. Il regime del moto è di tipo laminare e solo localmente turbolento; la grande mobilità è dovuta alla fluidizzazione esercitata dai gas che tendono a fuoriuscire dal mezzo e che costituiscono un supporto fluidodinamico per le particelle. In genere i depositi di flusso piroclastico subiscono un forte controllo topografico accumulandosi nelle depressioni vallive. Il deposito è quasi completamente massivo, anche se è possibile riconoscere dei livelli con maggiore concentrazione di litici o pomici rispettivamente a gradazione normale o inversa, la cernita granulometrica è scarsa o assente, la base del deposito può essere erosiva e si può avere un certo grado di saldatura. Sono frequenti le strutture di degassazione. È sinonimo di deposito di colata piroclastica. Vedi anche ignimbrite. DEPOSITO DI LAHAR: con il termine lahar si definisce un flusso di detrito e il relativo deposito che si origina sui fianchi di un vulcano per imbibizione d’acqua di un materiale vulcanoclastico poco coerente. I depositi di lahar presentano una variazione laterale di facies cha va da quella tipica dei depositi da debris flow a quella dei flussi iperconcentrati. I lahar si possono originare sia in seguito a eruzioni, per esempio a causa del calore che scioglie la neve, sia indipendentemente da queste, per esempio a causa di forti piogge. Il deposito di lahar è caratterizzato da una distribuzione fortemente controllata dalla topografia, classazione scarsa ed eterogeneità della composizione dei clasti. Nelle zone intermedie e distali il deposito tende a divenire più fine, stratificato e con un maggiore grado di selezione. Talvolta è indicato come deposito da colata di fango. 214 Daniela De Gregorio matr.37/2246 DEPOSITO DI SURGE: Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio deposito piroclastico di flusso dovuto alla messa in posto di una corrente gravitativa a bassa concentrazione di particelle solide, altamente espansa e turbolenta. Il flusso è composto da particelle solide sempre subordinate a gas e acqua o vapore. Il sostegno delle particelle solide è garantito dalla elevata turbolenza che caratterizza questi flussi. In base all’analisi dei depositi, vengono distinti tre tipi di correnti piroclastiche a bassa densità: Base surge, ash-cloud surge e ground surge. I base surge si originano da eruzioni freatomagmatiche; il termine ground surge viene riferito a prodotti di surge che si trovano alla base di un deposito di flusso piroclastico; l’ash-cloud surge consiste in una corrente che si forma per la segregazione di ceneri nella parte superiore di un flusso piroclastico. I depositi dovuti a surge subiscono un controllo topografico limitato essendo in grado di superare, grazie all’elevata turbolenza, anche zone abbastanza rilevate. Questi depositi, sempre a granulometria fine, si suddividono in tre facies in funzione della distanza dal cratere: nella zona prossimale sono presenti una fitta stratificazione parallela o incrociata e strutture a dune o antidune; in quella intermedia gli strati sono discontinui e massivi; infine nella zona distale il deposito è a stratificazione parallela con gradazione inversa. Queste variazioni di facies testimoniano il variare del meccanismo di trasporto con la diminuzione della densità del flusso dalla zona prossimale verso quella distale. DEPOSITO PIROCLASTICO: termine generico riferito ai depositi formati dai prodotti emessi durante le eruzioni esplosive; questi possono essere suddivisi in depositi di caduta e in depositi di flusso in funzione dei meccanismi di trasporto e sedimentazione. DICCO: intrusione sub-superficiale di magma con geometria planare, discordante e a inclinazione da media a verticale. L’orientazione dei dicchi fornisce indicazioni importanti sull’assetto strutturale di una regione. In rapporto alle strutture di un edificio vulcanico i dicchi possono essere anulari, conici, radiali, periferici o tangenziali. Possono essere indicati con il termine filoni quando il loro spessore è ridotto (al massimo qualche metro). DUOMO: vulcano generalmente monogenico costituito da un accumulo di lava con forma a bulbo e pareti ripide, che si installa sulla verticale di un condotto senza grande espansione laterale. Si forma in seguito all’emissione di lave acide e molto viscose con un contenuto di gas insufficiente a innescare una grande eruzione esplosiva; tipicamente la composizione 215 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio chimica è riolitico-riodacitica o dacitico-andesitica. Un duomo può essere isolato, può essere un apparato satellite di un edificio vulcanico maggiore, oppure può essere associato a parecchi altri duomi fino a formare un campo di duomi. In genere sulla base delle modalità di crescita si tendono a distinguere due tipologie di duomo. Duomo endogeno: quando la crescita avviene dall’interno del condotto ed è accompagnata dall’allargamento e frantumazione della superficie esterna del duomo (CARAPACE), i prodotti più recenti si trovano nella parte più interna dell’edificio, il duomo può avere la sommità depressa in seguito al ritiro del magma nel condotto. Duomo esogeno: quando la lava fuoriesce dal condotto, eventualmente perforando il carapace precedente, ma essendo molto viscosa non dà luogo a una colata e si accumula nelle vicinanze del punto di emissione, la parte apicale di un duomo esogeno può presentare una forma depressa che coincide con la zona di emissione delle lave. FALESIA: scarpata molto ripida formatasi per intensa azione erosiva del mare sulla costa rocciosa. FUMAROLE: emissioni naturali di miscele aeriformi a prevalenza di vapore d’acqua. La temperatura delle fumarole che emettono vapore secco può raggiungere valori di diverse centinaia di gradi centgradi. La temperatura delle fumarole a vapore saturo è invece prossima alla temperatura di ebollizione dell’acqua alla quota dell’emergenza. IGNEA: roccia magmatica. ISOPACA: (in inglese, isopach) linea che in una carta unisce i punti di uguale spessore di una formazione geologica. JUVENILE: si definiscono con questo termine i componenti di un deposito piroclastico che sono parte del magma ancora fluido al momento dell’eruzione. Juvenile si contrappone a litico, termine che indica i clasti che fanno parte di rocce già esistenti prima dell’eruzione. LAPILLI: frammenti piroclastici di dimensioni comprese tra 2mm e 64mm. Possono essere di natura juvenile o litica. Quando consolidati formano il tufo a lapilli (lapillistone). 216 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio LAVA: è il termine utilizzato per indicare il magma, totalmente o parzialmente fuso, quando questo giunge in superficie in seguito a una eruzione effusiva o moderatamente esplosiva. Il termine lava è esteso anche alle rocce derivate dalla solidificazione del magma eruttato. Nella quasi totalità dei casi la lava è composta da materiale silicatico, anche se è noto almeno un caso di vulcano attivo che emette lava carbonatica (Oldoinjo Lengai, Tanzania). La composizione del fuso silicatico è molto variabile e il contenuto in SiO2 è generalmente compreso nell'intervallo 45÷75% (in peso). LAVA AA: vengono chiamate con il termine hawaiiano aa quelle lave basaltiche che si presentano con una superficie formata da blocchi di lava con spigoli vivi e con dimensioni fino a un metro. LAVA A BLOCCHI: con questo termine si indicano le colate con morfologia superficiale caotica caratterizzata da campi di blocchi da metrici a decametrici. Queste lave vengono anche definite autobrecciate, la frantumazione avviene a causa dell’elevata viscosità. LAVE A CUSCINO: (pillow lava) lave prodotte da eruzioni basaltiche sottomarine; si presentano come blocchi rotondeggianti, con dimensioni che variano da pochi centimetri fino a qualche metro. I pillow sono caratterizzati da una superficie liscia e vetrosa e da fratture concentriche e radiali; la loro frantumazione origina ialoclastiti. LAVA PAHOEHOE: con il termine hawaiiano pahoehoe si indicano le colate basaltiche molto fluide che presentano una superficie liscia, con strutture a corde più o meno regolari. LITICO: si definiscono con questo termine i componenti di un deposito piroclastico che non sono parte del magma che era fluido al momento dell’eruzione. I litici si dividono in congeniti, accessori e accidentali. I litici congeniti sono frammenti di origine magmatica, non vescicolati, facenti parte del magma che ha generato l’eruzione e solidificati prima della stessa. I litici accessori sono frammenti di roccia di qualsiasi natura, già esistenti prima dell'eruzione (rocce del basamento) ed emessi durante l’eruzione stessa. I litici 217 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio accidentali sono clasti ripresi dal terreno e inglobati in un flusso piroclastico o in un surge durante lo scorrimento al suolo. MAGMA: il magma è una sostanza naturale ad alta temperatura, che costituisce un sistema eterogeneo contenente una prevalente fase liquida, generalmente di composizione silicatica, una fase solida minerale e una fase gassosa in quantità variabili. Il magma si forma quando nel mantello terrestre o nella crosta si verificano condizioni di temperatura e pressione dei fluidi tali da determinare la fusione parziale delle rocce. Quando un magma raggiunge la superficie terrestre viene chiamato lava. La composizione del fuso silicatico è molto variabile e il contenuto in SiO2 è generalmente compreso nell'intervallo 45÷75% (in peso). NUBE ARDENTE: termine in disuso, lo stesso che deposito di flusso di blocchi e cenere. OSCILLAZIONI EUSTATICHE: variazioni relative di livello tra le masse oceaniche e quelle continentali. OSSIDIANA: vetro vulcanico di composizione acida (usualmente riolitica), colore nero o comunque molto scuro, caratterizzato da fratture concoidi. Talvolta si presenta bandato e con rare microliti e sferuliti. PAROSSISMO: complesso dei fenomeni esplosivi coi quali un vulcano entra in attività. PIROCLASTICO: termine utilizzato in riferimento ai depositi vulcanoclastici la cui frammentazione deriva da attività vulcanica esplosiva. I depositi piroclastici possono avere caratteristiche diverse in funzione dei meccanismi di trasporto e sedimentazione (flusso, surge e caduta). POMICE: termine adimensionale usato per indicare frammenti juvenili di colore chiaro, con bassa densità, molto vescicolati e vetrosi con eventuali cristalli. Si tratta di prodotti di eruzioni esplosive che coinvolgono magma viscoso, acido o intermedio. La densità media varia con l’inverso della granulometria e i clasti più grandi, quando si depositano 218 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio sull’acqua, possono essere in grado di galleggiare. In funzione della granulometria si usano i termini bombe o blocchi pomicei (>64mm), lapilli pomicei (2÷64mm) e cenere (<2mm). SOLFATARA: termine obsoleto indicante un’area di diffusa alterazione idrotermale, con attività fumarolica che deposita zolfo. STRATOVULCANO: con questo termine (sinonimo di vulcano composito) si indicano i vulcani poligenetici formati da strati di prodotti sovrapposti, che derivano da alternate fasi di attività effusiva ed esplosiva (colate di lava e depositi piroclastici). Questo tipo di vulcani è generalmente rappresentato da un cono con diametro dell’ordine di parecchi chilometri o decine di chilometri, fianchi acclivi ed un cratere sommitale, anche se la forma può essere estremamente irregolare in seguito a collassi, crescita di edifici laterali, etc. STRUTTURE DI DEGASSAZIONE: strutture sub-verticali prodotte dal fenomeno di degassamento delle colate piroclastiche. Si distinguono le strutture prodotte dalla fuoriuscita dei gas surriscaldati, che causano il semplice allontanamento selettivo delle particelle fini, e le tracce di fumarolizzazione fossile, con deposizione di minerali secondari. TEPHRA: termine collettivo per tutti i depositi piroclastici a prescindere dal loro meccanismo di deposizione e dal loro grado di saldatura. TUFF- RING: vedi anelli di tufo. TUFO: termine generale usato per indicare una roccia piroclastica saldata composta prevalentemente da particelle con dimensione della cenere. Il passaggio da depositi cineritici non consolidati a tufo viene favorito dalla trasformazione dei vetri vulcanici in minerali di alterazione, quali le zeoliti. UNITÀ DI FLUSSO: un’unità di flusso è costituita da una quantità finita di lava, emessa in continuazione da un centro eruttivo, che scorre lungo i fianchi di un vulcano mantenendosi 219 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio fluida per tutto il suo percorso. In sezione verticale un’unità di flusso è costituita da una porzione di lava massiva, limitata a tetto e a letto da parti scoriacee più o meno sviluppate. Il concetto di unità di flusso si applica anche ai depositi di flusso piroclastico, quando è possibile riconoscere, in un deposito derivato da un singolo evento eruttivo, flussi distinti associati alle diverse fasi dell’eruzione. VELOCITÀ DI VESCICOLAZIONE: velocità di formazione di cavità vescicolari. VULCANO: l’insieme delle strutture dovute alla risalita del magma verso la superficie terrestre e alla sua fuoriuscita o alla fuoriuscita di gas o fluidi ad esso collegati. Interferenza del magma con la superficie topografica. VULCANO A SCUDO: con questo termine si indicano i vulcani poligenetici costruiti in seguito a frequenti eruzioni di lava fluida basaltica dai crateri sommitali o dai fianchi dell’edificio. I vulcani a scudo sono dei coni con fianchi a bassa inclinazione (circa 5°), spesso con centri eruttivi laterali ed eccentrici e con zone di effusione allungate, note come rift vulcanici. Sulla base delle dimensioni si distinguono vulcani a scudo di tipo islandese (diametro basale di qualche km), Galapagos (diametro di poche decine di km) e hawaiano (diametro di decine o centinaia di km). VULCANO MONOGENETICO: vulcano che si forma nell’ambito di un unico evento eruttivo principale. VULCANO POLIGENETICO: vulcano che si costruisce gradualmente in seguito a ripetute eruzioni. 220 Daniela De Gregorio matr.37/2246 Protezione nei confronti di azioni catastrofiche da eruzioni vulcaniche: il caso Vesuvio BIBLIOGRAFIA V. Albanese, F. Cacace, C. 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