comportamenti e consumi socialmente responsabili nel sistema

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comportamenti e consumi socialmente responsabili nel sistema
COMPORTAMENTI E CONSUMI SOCIALMENTE RESPONSABILI NEL SISTEMA AGROALIMENTARE
collana STUDI SULL’IMPRESA
COMPORTAMENTI E CONSUMI
SOCIALMENTE RESPONSABILI
NEL SISTEMA AGROALIMENTARE
a cura di Lucia Briamonte e Sabrina Giuca
ISBN 978-88-8145-202-6
ISTITUTO NAZIONALE DI ECONOMIA AGRARIA
Comportamenti e consumi
socialmente responsabili
nel sistema agroalimentare
a cura di
Lucia Briamonte e Sabrina Giuca
Il presente documento è stato elaborato nell’ambito del progetto “Studio preparatorio alla conferenza nazionale dell’agricoltura” – linea A “La responsabilità sociale d’impresa tra nuovi rapporti di filiera e aspettative del consumatore” realizzato dall’INEA e finanziato dal MIPAAF con D.M. 14541 del
31/10/2008.
Responsabile Progetto: Lucia Briamonte
Comitato scientifico: Lucia Briamonte (Responsabile INEA), Prof. Luciano Hinna (Università degli Studi
di Roma “Tor Vergata”), Francesco Zecca (Università di Perugia), Fabio Monteduro (Università degli Studi
di Roma “Tor Vergata”), Maria Assunta D’Oronzio (INEA), Raffaella Pergamo (INEA), Ester Dini (Censis).
La segreteria del progetto è stata curata da Novella Rossi e Anna Caroleo.
Per l’impostazione e la progettazione dello studio ha operato il seguente gruppo di lavoro:
Lucia Briamonte (INEA), Sabrina Giuca (INEA), Maria Assunta D’Oronzio (INEA), Ester Dini (Censis),
Paolo Biraschi (MEF), Saverio Scarpellino (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”).
La revisione del testo è stata curata da Lucia Briamonte e Sabrina Giuca.
I contributi al testo sono di:
Introduzione: Lucia Briamonte
Capitolo I: Sabrina Giuca
Capitolo II: Lucia Briamonte (2.1, 2.2), Maria Assunta D’Oronzio (2.3), Elisabetta Capocchi (2.4), Ester
Dini (2.5), Sabrina Giuca (2.6)
Capitolo III: Paolo Biraschi e Saverio Scarpellino
Capitolo IV: Fabio Monteduro
Capitolo V: Marco Livia
Il contenuto del CD-ROM è stato curato da Gabriele Cassani
La consulenza editoriale è di Moira Rotondo
Segreteria tecnica: Gabriele Cassani
Impaginazione grafica: Pierluigi Cesarini
Pubblicazioni INEA sul tema Responsabilità sociale nel sistema agroalimentare:
La responsabilità sociale delle imprese del sistema agroalimentare, a cura di L. Briamonte e L. Hinna,
Studi e Ricerche INEA, 2008.
Linee guida Promuovere la Responsabilità Sociale delle imprese agricole ed agroalimentari, INEA 2007.
Le esperienze italiane di imprese del settore agricolo ed agroalimentare, a cura di L. Briamonte INEA
2007.
I metodi di produzione sostenibile nel sistema agroalimentare, a cura di L. Briamonte e R. Pergamo,
INEA 2010.
La responsabilità sociale d’impresa: un’opportunità per il sistema agroaolimentare.
Percorsi di responsabilità sociale d’impresa nei rapporti di filiera, L’ortofrutta e la zootecnia da carne, a
cura di L. Briamonte e A. D’Oronzio, INEA 2010
Presentazione
Negli ultimi anni le questioni socio-ambientali sono diventate parte integrante degli obiettivi della politica agricola. La sempre crescente richiesta di qualità, salubrità e genuinità dei prodotti alimentari, gli shock climatici ed energetici e le
problematiche sociali e ambientali riconducibili al tema dello sviluppo sostenibile
hanno contribuito ad accelerare questo processo.
Ci troviamo, così, di fronte a un nuovo modello di sviluppo in cui la competitività dell’impresa agricola deriva anche dal suo impegno a garantire adeguati
livelli di sostenibilità economica, sociale e ambientale nel contesto territoriale in
cui opera.
Ne consegue che il successo dell’agricoltura rispetto alle nuove attese della società risiede nella capacità dell’impresa agricola di produrre alimenti sani e
genuini e concorrere allo stesso tempo alla protezione delle risorse naturali e allo
sviluppo equilibrato del territorio, creando occupazione e riservando maggiore attenzione alla qualità del lavoro.
Oggi il consumatore è sempre più attento e orientato verso acquisti consapevoli e include nel concetto di qualità dei prodotti agroalimentari anche valori quali
la sostenibilità ambientale e sociale della produzione. L’agricoltura, quindi, riserva
grande attenzione a temi trasversali quali sicurezza alimentare, tracciabilità delle
produzioni, qualità dei prodotti, rispetto dell’ambiente e delle risorse umane. Tali
aspetti hanno contribuito a declinare il concetto di produzione in una dimensione
più ampia di filiera e di territorio, affiancata dalla promozione e dalla rintracciabilità
delle produzioni agroalimentari e da forme di comunicazione istituzionale volte a
valorizzare e a dare riconoscibilità alla qualità dei prodotti agroalimentari italiani, a
creare la consapevolezza dell’evoluzione dell’agricoltura fra tradizione e innovazione e a promuovere il “made in Italy” quale stile di vita e di consumo.
Il consumo sostenibile, in particolare, diviene l’oggetto di studio della presente pubblicazione. Ciò nasce dalla necessità di approfondire la conoscenza di
questo argomento così attuale e dibattuto, soprattutto per via delle numerose modalità con cui esso si riflette nella vita reale (dal commercio equo e solidale ai GAS,
passando per i farmers’ market, ecc.).
In tal senso, l’auspicio dell’INEA è quello di contribuire con la sua attività a
3
promuovere una nuova forma mentis e un nuovo modo di fare impresa secondo un
approccio integrato (triple bottom line) che tenga conto di aspetti economici, ambientali e sociali.
On. Lino Carlo Rava
Presidente INEA
4
Un consumatore può essere definito etico se ha
argomenti altruistici nella sua
funzione di utilità (Maietta, 2004)
5
Indice
Introduzione
11
Parte Prima - Responsabilità sociale e modelli di consumo
Capitolo I - L’evoluzione dei consumi alimentari
15
1.1
Introduzione
15
1.2
I consumi alimentari delle famiglie italiane dal dopoguerra a oggi:
le dinamiche socioeconomiche
16
1.2.1
Il consumatore degli anni Duemila
21
1.3
Il consumatore sensibile all’etica agroalimentare basata sulla
sostanza (qualità) del prodotto
26
1.3.1
I consumi dei prodotti DOP/IGP
28
1.3.2
I consumi dei vini di qualità
35
1.3.3
I consumi di prodotti biologici
37
1.4
Conclusioni
44
Capitolo II - I profili di responsabilità sociale da parte del consumatore
45
2.1
Introduzione
45
2.2
La riscoperta del valore della territorialità nei consumi alimentari
47
2.3
Il recupero delle tradizioni alimentari
52
2.4
Il valore etico del consumo
56
2.4.1
I confini del consumo etico e la responsabilità sociale di impresa
58
2.4.2
La sensibilità ambientale nel consumo agroalimentare
61
2.4.3
Le implicazioni sociali nella catena di fornitura:
il commercio equo e solidale
63
2.5
Il neo soggettivismo del consumo alimentare
68
2.6
Il principio di equità e solidarietà applicato agli acquisti:
il caso dei GAS
74
7
Parte Seconda - Responsabilità sociale e modelli di produzione
Capitolo III - Il ruolo della comunicazione della RSI nel settore agricolo
e agroalimentare
83
3.1
Introduzione
83
3.2
L’evoluzione della comunicazione della RSI alla luce delle nuove
tendenze del consumo
85
3.2.1
La modifica della struttura dei consumi: il nuovo profilo del
consumatore
85
3.2.2
Peculiarità della comunicazione nelle aziende che praticano la RSI
86
3.3
Aspetti rilevanti della comunicazione della RSI
88
3.3.1
Caratteristiche e funzioni: da informazione a coinvolgimento
90
3.3.2
I soggetti destinatari della comunicazione della RSI
94
3.3.3
Gli strumenti
96
3.4
Limiti e opportunità nell’attuazione della comunicazione della RSI
98
3.4.1
Limiti
98
3.4.2
Opportunità
99
3.5
Conclusioni
100
Capitolo IV - Gli strumenti di RSI per le imprese agroalimentari
103
4.1
Introduzione
103
4.2 La valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali 106
4.2.1
L’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale per la
valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali
108
4.3
Il rispetto ambientale
111
4.3.1 L’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale
per il rispetto ambientale
112
4.4
Miglioramento delle condizioni di lavoro
112
4.4.1 L’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale per
il miglioramento delle condizioni di lavoro
114
4.5
Conclusioni
116
Parte Terza - L’indagine IREF
Capitolo 5 - Le famiglie e la crisi: stili di vita e politiche di consumo
responsabili
8
119
5.1
Introduzione
119
5.2
L’indagine IREF
122
5.3
L’orientamento dei cittadini verso forme di consumo alimentare
responsabile: alcune riflessioni
132
Bibliografia
139
Sitografia
147
9
Introduzione
Le recenti tendenze nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa (RSI) sembrano confermare il carattere estremamente dinamico di tale tematica, che coinvolge
tutti i portatori d’interesse, con specifico riferimento ai consumatori e alle imprese. In
particolare, nel settore agricolo e agroalimentare, la tipicità dei beni e dei servizi offerti
impone al consumatore scelte che sembrano dipendere sempre più da fattori non riconducibili esclusivamente al rapporto qualità/prezzo, ma che, invece, coinvolgono anche
aspetti direttamente legati all’etica, alla salvaguardia dell’ambiente e alla tutela del lavoro. D’altra parte, oggi, le imprese non si limitano solo a intraprendere azioni di RSI, ma
decidono spesso di portare gli stakeholder a conoscenza di tali condotte nel tentativo di
migliorare la reputazione aziendale e i risultati economici. Pertanto, pur in modo talvolta
inconsapevole, si va a delineare una sinergia tra imprese e consumatori: le scelte di consumo di questi ultimi condizionano le politiche aziendali, le quali, se opportunamente
comunicate, sono in grado di influenzarne gli acquisti.
Il presente lavoro parte da un duplice obiettivo: da un lato, evidenziare le dinamiche che hanno portato a tracciare un nuovo profilo del consumatore, oggi attento alle
conseguenze delle sue scelte d’acquisto dal punto di vista sociale, etico e ambientale;
dall’altro, individuare quelle strategie di comunicazione di RSI da parte delle imprese
che più di altre riflettono queste dinamiche, soffermandosi sugli strumenti più efficaci
che l’impresa può adottare riguardo agli ambiti nei quali può tradursi la sua azione di
responsabilità sociale.
Il volume, strutturato in tre parti, si propone di individuare gli aspetti salienti del
comportamento dei principali attori economici (consumatori e imprese) nell’ambito
dell’attuazione delle pratiche di RSI.
La prima parte analizza le azioni socialmente responsabili intraprese dagli individui, coerentemente alla diffusione di un nuovo modello di consumo che va oltre le tradizionali variabili del prezzo e della qualità e si fonda sui valori etici, sociali e ambientali dei
prodotti acquistati. Nello specifico, il primo capitolo esamina l’evoluzione dei consumi
agroalimentari dal dopoguerra a oggi, caratterizzato da un aumento della sensibilità nei
confronti di sicurezza alimentare, tipicità dei prodotti, salvaguardia delle tradizioni locali, riduzione dell’impatto ambientale e tutela dei lavoratori. Tale evoluzione, acutizzata
dagli effetti delle diverse crisi del settore agroalimentare, manifestatesi a partire dalla
seconda metà degli anni Novanta (BSE, influenza aviaria), risulta in gran parte legata
a ragioni di carattere culturale e socio-demografico, tra cui il livello di istruzione della
11
popolazione, il contesto sociale di riferimento, l’età e la disponibilità di informazione,
soprattutto grazie allo sviluppo sostenuto di alcuni mezzi di comunicazione di massa
(si pensi, in particolare, al ruolo svolto da internet). Il secondo capitolo declina il nuovo
profilo di responsabilità sociale da parte del consumatore, soffermandosi sulle differenti modalità che sono alla base delle sue scelte d’acquisto: boicottaggio, consumo
critico, consumo equo e solidale, costituzione dei gruppi di acquisto solidale, ecc. Oggi,
infatti, la figura del consumatore-cliente che si preoccupa solo di scegliere l’opzione
migliore in relazione al rapporto qualità/prezzo, viene progressivamente sostituita dal
consumatore-cittadino, il quale è interessato a conoscere le dinamiche che giacciono
dietro il prodotto.
La seconda parte del volume affronta i temi chiave della RSI dal lato dell’offerta,
esaminando gli strumenti di cui dispongono le imprese per veicolare le scelte effettuate
in linea con i principi e i valori della responsabilità sociale. Il terzo capitolo, infatti, delinea le strategie di comunicazione di RSI attuate dalle imprese. Alla luce del nuovo profilo
del consumatore, infatti, la comunicazione assume un ruolo centrale, che non si limita
a informare i soggetti acquirenti, ma intende anche renderli partecipi indicando loro il
percorso intrapreso e i relativi strumenti. A ciò si aggiunga il fondamentale ruolo che la
comunicazione svolge all’interno dell’impresa, mirando a coinvolgere direttamente lavoratori e fornitori in alcune delle principali scelte di politica aziendale. Il quarto capitolo,
invece, si concentra sull’analisi degli strumenti che le imprese hanno a disposizione per
porre in essere le loro strategie di RSI, distinguendo tre ambiti specifici: la valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali, la salvaguardia dell’ambiente e le
condizioni del lavoro. In particolare, la scelta di una molteplicità di strumenti rispecchia
largamente la dimensione multifunzionale dell’attività agricola, fonte di potenziali opportunità di sviluppo.
Infine, la terza parte del volume riporta un contributo dell’Istituto di ricerche educative e formative (IREF) che, partendo da un’indagine condotta tra settembre 2009 e
febbraio 2010, approfondisce alcune espressioni del consumo socialmente responsabile, alla luce degli effetti provocati dalla recente crisi economico-finanziaria sull’attività
produttiva. Riallacciandosi alle osservazioni emerse nella prima parte del volume il capitolo conclusivo riflette sulla possibilità, da parte delle famiglie italiane, di continuare a
perseguire le loro scelte di acquisto nel campo etico, sociale e ambientale.
Il volume è corredato da un CD-ROM contenente un glossario sui principali termini utilizzati in materia di RSI e consumo responsabile nel sistema agroalimentare.
12
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Parte prima
responsabilità sociale e modelli di consumo
13
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Capitolo I
L’evoluzione dei consumi alimentari
1.1 Introduzione
Le trasformazioni socio-demografiche connesse allo sviluppo economico esodo dalle campagne, inurbamento, diffusione dell’occupazione femminile, pendolarismo - l’aumento del reddito delle famiglie, la crescita e la differenziazione
della domanda hanno stimolato, da un lato, profonde innovazioni di prodotto e di
processo e, dall’altro, una significativa trasformazione dell’organizzazione produttiva, passata da modelli artigianali e locali a modelli industriali e delocalizzati
(Belliggiano, 2009; Belletti, Marescotti, 1995). L’inurbamento, in particolare, ha allontanato i consumatori dai luoghi della produzione, facendo perdere i riferimenti fiduciari e inducendo, a fronte della maggiore disponibilità di alimenti (security
food), un aumento della sensibilità in termini di sicurezza (safety food). Tale sensibilità, peraltro, è stata acuita dagli scandali alimentari e dalle emergenze sanitarie
a cavallo tra vecchio e nuovo millennio che hanno duramente colpito il settore agricolo e agroalimentare su scala globale.
Tuttavia, non solo il rischio alimentare quanto piuttosto le tendenze e le sensibilità diffuse verso tematiche strettamente connesse al cibo e alla sua lavorazione (che include il trattamento delle materie prime, la fasi di preparazione e confezionamento del prodotto)-dall’inquinamento dell’eco-sistema alla perdita della
biodiversità, dalle condizioni di allevamento degli animali alla manipolazione genetica, dalle nuove forme di sfruttamento del lavoro all’aumento delle disuguaglianze
sociali - alimentano altrettante nicchie di mercato da soddisfare. Ne consegue che
la componente propriamente soggettiva della domanda riconducibile al gusto personale del consumatore, considerata in passato residuale, diviene oggi subordinata
a fattori di natura culturale e socio-demografica (istruzione, età, contesto sociale),
assumendo un ruolo di primo piano nel mercato. Questa componente consente
un’attenta interpretazione della domanda - non solo alimentare - e della sua trasformazione, dal momento che le tradizionali variabili esplicative - prezzo, prezzi
15
relativi e reddito - non sono più in grado, da sole, di farlo (Belliggiano, 2009).
In effetti, da almeno tre decenni i mercati sono strutturati in base alle diverse
variabili su cui il consumatore di volta in volta può convergere: la convenienza in
termini di prezzo, l’occasione di acquisto, la facilità di utilizzo, la durata del prodotto, il confezionamento (packaging), la qualità, l’ecologia, l’etica e il rispetto dei
diritti dei lavoratori, il piacere, la salute, la dieta, la golosità,.
Nel capitolo si indaga su come il consumatore stesso compone e scompone
le proprie aspettative in più dimensioni, in conseguenza delle dinamiche socioeconomiche che hanno investito l’Italia da oltre mezzo secolo, ricostruite dal Censis
su dati Istat in una recente ricerca della quale si propone una rilettura (Censis/
Coldiretti, 2010). In particolare, si riflette su alcuni item dell’indagine Censis-Swg
sulle abitudini alimentari degli italiani, alla luce delle principali analisi di valenza
nazionale sui consumi alimentari (Ismea, Istat, Fabris/Osservatorio sui consumi
degli italiani). Ciò che emerge nel secondo paragrafo, è uno scenario in evoluzione,
in cui il cittadino-consumatore è spinto a cercare nei prodotti alimentari soddisfazione a una molteplicità di bisogni. Tali bisogni vanno dalla sicurezza alimentare, in
termini di caratteristiche igieniche e nutrizionali, alla sostenibilità ambientale, in
termini di uso prevalente di risorse locali e rinnovabili, di utilizzo di prodotti e procedimenti naturali, di rispetto per le condizioni di vita degli animali allevati, fino a
tutta una serie di componenti etiche, dalla sicurezza sui luoghi di lavoro alla tutela
dei lavoratori, dalla coesione sociale della comunità locale alla valorizzazione delle
aree rurali di produzione e delle tradizioni enogastronomiche locali. In particolare,
nel terzo paragrafo l’indagine verte sul consumo significativo dei prodotti di qualità
DOP/IGP e su quello crescente dei prodotti biologici, espressione della sensibilità
di un consumatore attento e responsabile al metodo di preparazione dei prodotti
che consuma, alla loro origine e al loro contenuto non solo nutrizionale ma anche
di valori.
1.2 I consumi alimentari delle famiglie italiane dal dopoguerra a
oggi: le dinamiche socioeconomiche
È facile intuire come nel periodo della ricostruzione post bellica (1946-1961)
l’economia si sia rimessa in moto con un aumento sensibile del reddito: i consumi
degli italiani, secondo i dati Istat, sono cresciuti in termini reali del 293,6%, a fronte
di una crescita comunque significativa nei 15 anni precedenti il conflitto mondiale
(+14,3%), in cui aveva preso avvio la modernizzazione del Paese. L’Italia “contadina”,
16
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
investita da trasformazioni sociali “traumatiche” che avevano portato all’abbandono delle campagne da parte di migliaia di famiglie, si trovava a vivere grandi cambiamenti con la riforma agraria degli anni Cinquanta. Le nuove politiche agrarie,
con un diverso uso del suolo, sono state finalizzate a rimuovere la società contadina
tradizionalmente associata al latifondo e ai baronati - e legata alla diffusione della
monocultura - a favore di una classe di contadini proprietari; tutto ciò sullo sfondo
delle spinte verso l’industrializzazione e l’urbanizzazione del Paese che hanno segnato proprio l’esodo dalle campagne (Giuca, 2009a).
In pieno “boom economico”, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta,
esplodeva l’Italia “cittadina” creciuta e assoggettata a fini urbanistici, industriali
e speculativi e iniziava la “dissoluzione” dell’Italia agricola: nel 1970 gli occupati
in agricoltura scendevano a 4 milioni, poco più del 20% della popolazione attiva. In
questo periodo, secondo il Censis (op. cit., 2010, p. 24) «decolla la corsa al benessere come motore dello sviluppo e della trasformazione socioeconomica del Paese; le
famiglie conquistano quote crescenti di reddito e i consumi alimentari cominciano
a evolversi anche in relazione agli impatti della rapida diffusione di nuove opportunità tecnologiche, come gli elettrodomestici, e la disponibilità di cibi in lattina,
omogeneizzati e surgelati».
Il Censis, che ha fotografato l’evoluzione delle abitudini alimentari e dei consumi degli italiani degli ultimi quaranta anni, ha enucleato le caratteristiche e gli
indicatori economici principali suddividendoli in cinque tappe, ciascuna corrispondente ad altrettanti periodi (Prospetto 1). La definizione data a ciascuna tappa, di
cui si riportano alcuni flash in questo e nel prossimo paragrafo, è di per sé una
chiave di lettura.
17
Prospetto 1 - Le tappe dell’evoluzione del rapporto con i consumi alimentari in
Italia: 1970-2009*
Periodo e
definizione
Fino agli anni
Settanta:
Caratteristiche prevalenti
Principali indicatori economici
- Progressiva soddisfazione dei bisogni di - I consumi crescono del 293% in termini reali
base
dal 1946 al 1961
“La fine delle povertà
di massa”
Anni Settanta:
- Cresce il reddito come aggregato di più - Il 41% delle famiglie ha 2 percettori di reddito,
redditi
il 18,3% più di due
“Il grande balzo in
avanti”
Anni Ottanta:
“L’era del pieno
consumo”
Anni Novanta:
“Di tutto, sempre di
più”
Anni Duemila:
“Più qualità che
quantità”
- Crescono consumi e risparmi
- Dominano i consumi alimentari in casa
- La spesa alimentare è pari al 20,9% del totale
della spesa
- Aumento nel decennio della spesa alimentare
pro capite reale del 12,1%
- Cresce la quota patrimoniale e finanzia- - Il reddito da capitale sale dal 12,3% al 19% del
ria dei redditi
1990
- Si avviano i consumi di nuova acquisi- - Aumento nel decennio della spesa alimentare
zione (seconda casa, seconda macchina, pro capite reale del 6,8%
vacanze) tra i quali il mangiare fuori casa - La spesa alimentare fuori casa sale a quasi il
- Nei consumi alimentari c’è sperimenta- 38% del totale della spesa
zione del nuovo e segnali di eccessi
- Decollano i redditi finanziari
- La quota delle azioni e dei fondi sul reddito pro- I consumi continuano a crescere, inclusi dotto sale dal 5,7% del 1990 al 21,7% del 2000
quelli alimentari, ma a ritmo più rallenta- - Aumento nel decennio della spesa alimentare
to
pro capite reale del 4,2%
- Irrompe la Grande distribuzione organiz- - Il 44,1% della distribuzione avviene attraverso
zata (GDO)
la GDO
- Si blocca la corsa a più alti consumi
- Diminuzione nel decennio della spesa alimenta- Cresce l’attenzione alla qualità, alla sicu- re pro capite del 4,3%
rezza, all’impatto eco-sociale
- 49,8% il valore della spesa alimentare fuori
- Il fuori casa conta come il mangiare in casa
casa
- Oltre il 70% il valore della quota della GDO nel- La GDO è il principale canale di vendita la distribuzione commerciale
* Dato relativo all’ultimo anno del decennio .
Fonte: elaborazioni Censis su dati Istat
Il benessere economico generalizzato accompagna le famiglie italiane dal
dopoguerra fino agli anni Settanta (Figg. 1.1 e 1.2), quando la spesa alimentare
complessiva è pari al quinto del totale dei consumi e la spesa alimentare pro-capite
raggiunge 1.626,00 euro nel 1979 (in valori dell’anno 2000), con un incremento ri-
18
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
spetto al decennio precedente del 12% in termini reali.
Gli anni Settanta sono segnati, da un lato, dalla modernizzazione socioeconomica (imprenditoria, mobilità sociale, inurbamento, scolarizzazione di massa,
femminilizzazione del lavoro) e, dall’altro, dalla prima grande crisi globale, causata
dalla dipendenza energetica dall’estero e dal rialzo del prezzo del petrolio. «Con la
crescita del reddito disponibile per la spesa - osserva il Censis (op. cit., 2010, p. 24)
- si avvia il passaggio verso una società dei comportamenti individuali e dei consumi
come fattore primo caratterizzante gli individui». In questo decennio il Prodotto
interno lordo (PIL), così come i consumi complessivi, crescono a un tasso medio
annuo di quasi il 4%, mentre i consumi alimentari sfiorano un tasso di crescita del
2%. Seppure in aumento in termini reali, la spesa agricola subisce, però, una contrazione; l’aumento dei prezzi al dettaglio di prodotti deperibili e freschi - salumi,
caseari, latte, pesce - a forte rischio di inflazione accentua la tendenza dei consumatori a cercare il massimo risparmio sulle merci grocery dure e sulla piccola
spesa quotidiana (Fabris, 2003).
Figura 1.1 - Tasso medio annuo di crescita reale della spesa alimentare, della
spesa totale e del PIL in Italia (val. %)
Fonte: elaborazioni Censis su dati Istat
A cavallo tra questo decennio e gli anni Ottanta, prende avvio il processo di
modernizzazione e di diversificazione dei canali commerciali. È l’epoca dell’orien-
19
tamento al mercato in termini di spazio e non di presidio, superato l’ostacolo delle
concessioni amministrative con una nuova legislazione, al fine di creare una rete,
fino ad allora inesistente, di supermercati e ipermercati. Nel 1980 il peso della
distribuzione moderna, in Italia, è del 30% contro il 70% della distribuzione tradizionale; tale rapporto si ribalta dieci anni dopo, quando il peso della distribuzione
moderna è del 70% contro il 30% di quella tradizionale (AA.VV., 1994).
Negli anni Ottanta, secondo il Censis (op. cit., 2010, p. 25), «i consumi in
generale, anche quelli alimentari, beneficiano di un raggiunto benessere che si
esprime in nuova capacità di spesa, con la corsa al pieno consumo, e con una maggiore attenzione alla capacità individuale di scegliere, di differenziarsi, di ritagliare i
consumi sulle proprie esigenze». In questo decennio (Figg. 1.1 e 1.2) la quota della
spesa alimentare sul totale scende al 17,2%, anche se si registra un incremento
percentuale significativo del consumo alimentare pro capite, appena inferiore al
10%. Tuttavia, la spesa alimentare pro capite scende al 6,8% e praticamente si dimezza rispetto agli anni Settanta. Il tasso medio annuo di crescita del PIL scende
al 2,4%, al di sotto del tasso medio annuo di crescita della spesa alimentare (2,7%).
All’inizio degli anni Novanta le nuove tendenze nel comportamento di acquisto dei consumatori italiani per effetto dello sviluppo della distribuzione verso
forme moderne e avanzate (si sviluppa la GDO), rendono necessaria, per l’industria
alimentare e per il commercio (trade), una rivalutazione del punto di vendita come
mezzo imprescindibile di differenziazione nel contesto competitivo (Fornari, 1994).
Per tutto il decennio (Figg. 1.1 e 1.2) la spesa alimentare pro capite cresce a un
ritmo piuttosto contenuto rispetto agli anni Ottanta (4,8%), mentre il suo incremento complessivo è del 4,2%. Si riduce al 15,4% la spesa alimentare come quota del
totale dei consumi per effetto della diversa intensità di crescita dei vari aggregati.
Si riducono ancora i tassi medi di crescita del PIL, dei consumi complessivi e dei
consumi alimentari: i primi due scendono addirittura al di sotto del 2%.
Gli anni Novanta, osserva il Censis (op. cit., 2010, p. 26), sono caratterizzati «dalla moltiplicazione del consumo, dalla destrutturazione dei pasti in casa e
da una ricerca ancora esplorativa di beni e servizi tendenzialmente esclusivi, non
standard, riconoscibili che rappresentano una vera sfida per il mercato dell’offerta». I consumatori sono più esigenti, informati, orientati su molteplici direzioni e
si presentano in più dimensioni combinabili, con esigenze e comportamenti complessi e variati (Zancani, 1993; Fabris, 2003). È esplicativa l’osservazione di Fabris
(op. cit, 2003, p. 25): «dal consumatore unidimensionale della società di massa, o
da soggetto rigido della società segmentata, si passa a un soggetto complesso,
flessibile, multidimensionale, in cui le diversità coesistono, e che vive un’esistenza
20
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
a opzioni multiple, secondo la logica dell’iperscelta che si realizza in tutte le sfere
che coinvolgono i consumi». I consumatori mostrano la tendenza a una maggiore
razionalizzazione nelle scelte e alla ricerca di una comunicazione essenziale, guardano al primato della sostanza del prodotto a discapito dell’immagine (Calvi, 1994).
È interessante osservare che, in tale contesto, le strategie di comunicazione commerciale basate essenzialmente sulla sostenibilità, sul valore ambientale
della merce (green marketing) e sulla valenza salutistica del prodotto alimentare
(cura del corpo e prevenzione) fanno leva sulle scelte di acquisto dei consumatori
verso i prodotti biologici, che incarnano questi valori; le imprese che differenziano
la propria produzione nel biologico o entrano nel settore, pertanto, guadagnano
posizione in questa nuova nicchia di mercato (Giuca, 2009b).
Figura 1.2 - Quota della spesa alimentare sul totale e variazione in ciascun decennio della spesa alimentare pro capite in Italia (val. % e var. %)
Fonte: elaborazioni Censis su dati Istat
1.2.1 Il consumatore degli anni Duemila
Nel nuovo millennio (Figg. 1.1 e 1.2) si registra quello che il Censis ha definito un “mutamento epocale”, con il tasso medio annuo di crescita del PIL dello 0,9%,
i consumi alimentari sostanzialmente fermi (+0,1%) e un modesto incremento me-
21
dio annuo della spesa totale (+0,6%). Si allungano i tempi di sostituzione di beni
come automobili ed elettrodomestici e la variazione percentuale nel decennio della
spesa alimentare pro capite e di segno negativo (-4,3%), mentre comparti come
quello dei prodotti alimentari biologici (oggi pari a circa il 3% della spesa alimentare complessiva delle famiglie italiane) e quello dei prodotti del benessere sembrano andare controcorrente. Nel decennio risulta praticamente dimezzato, secondo
l’Istituto di studi e analisi economica (ISAE)1, il potere d’acquisto della moneta e
dal 2003 si registra un gap crescente tra reddito effettivo e reddito necessario per
mantenere invariato il potere d’acquisto.
Sono gli anni della globalizzazione, dove i comportamenti di acquisto e di
consumo sono sempre più soggettivi ed eterogenei, mentre si modifica il rapporto
che le persone hanno con l’alimentazione. «Una certa insicurezza si installa nel
cuore del sociale» osserva il Censis (op. cit., 2010, p. 26) e «a contare non sono più
le dinamiche incrementali dettate dalla logica del di più è sempre meglio» ma le
dinamiche espressione di nicchie altamente motivate dove la sicurezza e la genuinità diventano obiettivi essenziali: dai prodotti di origine controllata e protetta, ai
prodotti biologici, a quelli equo-solidali.
I prodotti grocery hanno subìto un processo di progressiva banalizzazione,
in quanto l’attività di acquisto ha assunto, per il consumatore, un carattere di routine alla quale dedicare poco tempo, privilegiando la scelta del punto di vendita a
quella della marca dei prodotti e manifestando una forte propensione agli acquisti
self service. Nel settore food le diverse modalità di consumo (e quindi degli atteggiamenti nei confronti dei prodotti e delle singole marche), la molteplicità delle
formule distributive e l’abbondanza dell’offerta hanno finito per incitare fortemente
la clientela all’infedeltà, sia di marca (brand) sia di punto di vendita (store). Conseguenza, anche, del ricorrente e spesso esclusivo uso, da parte delle singole aziende di produzione e distribuzione, di azioni tattiche a breve termine, a discapito di
azioni strategiche a lungo termine.
Ma, d’altra parte, se le strategie di comunicazione2 consentono di individuare
i comportamenti di acquisto dei consumatori, riconducendoli a tipologie con caratteristiche più o meno omogenee, è pur vero che oggi l’analisi del comportamento
dei consumatori non poggia più su criteri socio-demografici o di stili di vita, ma
sul tipo di acquisto legato al gusto - tra l’altro, eterogeneo e mutevole - e sulle caratteristiche del punto di vendita, conseguenza di un allargamento delle opzioni e
1
Dati disponibili on line (www.isae.it).
2
Cfr. capitolo 3.
22
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
della libertà di scelta per le famiglie. I consumatori degli ultimi anni, pertanto, non
sono più classificabili in target definiti, in quanto i loro comportamenti di consumo
presentano aspetti anche contraddittori.
Certo, i consumatori di oggi sembrano apprezzare stili di vita improntati alla
condanna degli sprechi, alla sostenibilità ambientale e a privilegiare prodotti a marchio che si distinguono per una maggiore attenzione alla dimensione etica (Fabris,
2010). La crisi economica internazionale - e le conseguenze sul settore agroalimentare, soprattutto a partire dall’ultimo trimestre del 2009 -, però, non sembrano aver
indotto il consumatore, come osserva il Censis (op. cit., 2010, p. 3), a «rassegnarsi
a una qualità non adeguata dei prodotti alimentari o rinunciare in alcuni momenti
o per alcuni specifici bisogni a togliersi qualche sfizio spendendo qualche soldo in
più». Anzi, Fabris (op. cit., 2010) mette in discussione il mito del PIL come indicatore
assoluto di sviluppo perché il consumatore, anche se spende meno - nel 2009 la
spesa media mensile per generi alimentari e bevande, pari a 461 euro, si è ridotta
del 3% rispetto al 2008 (Istat, 2010a), si è accorto che può spendere meglio3, rispettando gli altri e l’ambiente senza rinunciare alla qualità, soprattutto grazie al web,
che si sta rivelando un moltiplicatore di informazioni.
Il consumatore odierno finisce, allora, per incasellarsi in più dimensioni
combinabili, con esigenze e comportamenti complessi e variati che oscillano tra
l’attenzione alla salute e la gratificazione del palato, tra la responsabilità sociale e
il consumismo, privilegiando la qualità alla quantità. Si tratta di un soggetto poliedrico che si mostra nomade e disorientato ma pragmatico e competente, selettivo
e curioso, attento ai dettagli, esigente in quanto a prodotti e servizi personalizzati e
attento al sociale, essendo disposto a pagare di più per un prodotto di qualità, la cui
produzione rispetta l’ambiente e i diritti dei lavoratori (Fabris, 2009).
Le più recenti ricerche (Censis, Ismea, Istat, Fabris/Osservatorio sui consumi degli italiani) tracciano il profilo di un consumatore italiano che affianca pasti
tradizionali e completi a pasti frammentati ed extra-domestici, con quote di consumo alimentare in linea con il resto dell’Europa, secondo i più recenti dati Eurostat
3 Nel 2009, il 35,6% delle famiglie italiane ha ridotto la quantità e/o la qualità dei prodotti alimentari
acquistati; tra queste, il 63% ha diminuito solo la quantità, mentre il 15% ha ridotto, oltre alla quantità, anche la qualità. Rispetto al 2008, la spesa media mensile delle famiglie è diminuita soprattutto
per pane e cereali, oli e grassi, patate, frutta e ortaggi, zucchero, caffè, bevande, con contrazioni più
accentuate nelle regioni del Centro-Sud (Istat, 2010a). Secondo le rilevazioni ISMEA/Nielsen (Ismea,
2010) solo alcuni prodotti del fresco (ortaggi, ittici, avicoli) e i salumi hanno fatto segnare una crescita nel 2009, mentre altri prodotti sono suscettibili di un’espansione dei consumi di medio periodo;
su tali tendenze incidono non solo fattori congiunturali legati agli effetti della crisi (prezzi) ma anche
fattori strutturali connessi ai diversi stili di vita delle famiglie (ad esempio ricerca di prodotti a forte
contenuto salutistico e di servizio).
23
(Tab. 1.1); si tratta di un consumatore “polivalente” che acquista prodotti freschi,
a denominazione di origine, biologici ed equo-solidali ma anche snack, surgelati,
scatolame e semipronti. Il consumatore odierno, secondo la definizione del Censis
(op. cit., 2010, pp 1-2) è, dunque, «un “io che decide” la combinazione di luoghi di acquisto, il contenuto del carrello (Tab. 1.2) e le portate sulla tavola in base alle proprie
preferenze, abitudini, prassi, aspettative e, ovviamente, alle risorse di cui dispone».
Tabella 1.1 - Spesa delle famiglie per consumi alimentari in alcuni Paesi UE
Quota % consumi
alimentari
su totale
2007
Quota pasti %
extradomestici su
domestici
Var %
media annua2002-07
2007
domestici
extradomestici
Grecia
Ungheria
27,6
25,8
61,5
15,0
3,7
3,9
4,9
6,3
Italia
Finlandia
Francia
Austria
Belgio
Germania
Paesi Bassi
Totale UE-27
22,8
21,8
19,5
19,4
19,1
17,2
16,7
21,5
48,0
37,7
33,5
66,3
31,4
36,6
38,1
51,5
2,2
2,5
1,7
2,7
2,2
0,7
1,4
2,6
3,1
4,2
2,9
2,5
2,2
1,1
1,7
3,5
Fonte: Eurostat
Tabella 1.2 - I prodotti sentinella acquistati dalle famiglie italiane *
Prodotti surgelati
Prodotti a marchio commerciale, del distributore (es. prodotti Coop)
Val. %
69,6
65,0
Scatolame
58,7
Acquisto diretto dal produttore (inclusi i mercati del contadino)
41,4
Verdure lavate e tagliate già pronte (insalate, carote, pomodorini)
38,7
Prodotti DOP/IGP
Frutta e verdura da agricoltura biologica (non trattata con pesticidi o conservanti)
Cibi precotti, già pronti
Prodotti del commercio equo e solidale (es. cioccolata, caffè e altri prodotti alimentari provenienti
da Paesi in via di sviluppo)
Cibi etnici, diversi da quelli tradizionali del proprio Paese (es. cucina orientale, cibi messicani, cibi
indiani)
29,1
28,6
20,3
19,4
11,3
* Si tratta di prodotti particolarmente rappresentativi di comportamenti di acquisto e consumo, nonché del contenuto
del rapporto con gli alimenti. Il totale non è uguale a 100 poiché erano possibili più risposte.
Fonte: Indagine Censis-Swg, 2009
24
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
A corollario di ciò, è interessante notare come, nel nuovo millennio, sia aumentata l’incidenza dell’alimentazione extradomestica sui consumi alimentari
(Tab. 1.1) per esigenze lavorative, voglia di convivialità o semplicemente per gusto
e golosità, con i consumatori che rinunciano occasionalmente al salutismo che pure
caratterizza l’ultimo biennio. Allo stesso tempo cresce, nell’alimentazione domestica,
l’orientamento verso prodotti meno cari, succedanei di quelli abitualmente acquistati
o a marchio del distributore, ma senza rinunciare alla qualità. Come evidenziato nella
tabella 1.3, gli acquisti domestici degli ultimi anni interessano maggiormente i canali di
vendita della GDO, all’insegna della convenienza e dei servizi; secondo le stime Ismea
(2009c), il canale discount è l’unico che, nel 2008, ha fatto segnare incrementi sostenuti
delle vendite a fronte di una variazione media annua dei prezzi inferiore a quella degli altri canali di vendita, mentre nel 2009 si assiste alla riscoperta degli esercizi di prossimità
(liberi servizi)4 e alla marginalizzazione del dettaglio tradizionale (Ismea, 2010d).
Tabella 1.3 – Quantità e prezzi dei prodotti alimentari acquistati dalle famiglie italiane per canale di vendita (variazioni %) *
Quantità **
Var. % media
Var. %
annua
2009/08
2008/07
2004-2009
Supermercati ipermercati
Discount
Liberi servizi
Dettaglio tradizionale
Altri (***)
Totale canali di vendita
1,0
10,1
9,2
-8,3
-7,5
0,8
0,1
10,9
-6,5
-2,8
-1,2
0,5
1,9
7,8
-3,3
-5,1
-3,2
0,5
Prezzi **
Var. % media
Var. %
annua
2009/08
2008/07
2004-2009
-2,9
-0,7
2,2
2,8
6,0
-1,5
4,7
6,2
4,9
4,4
6,3
4,4
1,8
2,0
2,6
3,3
4,3
2,1
* In ordine decrescente secondo il peso percentuale della quota sul totale dei canali di distribuzione.
** Indici concatenati, 2000 = 100.
*** Cash & Carry, ambulanti, mercato rionale, produzione propria, porta a porta, ricevuto in regalo, altre fonti.
Fonte: Ismea
Riguardo alla frequenza degli acquisti alimentari, l’indagine Censis (op. cit.,
2010) ha rilevato che il 61% degli italiani fa la spesa settimanalmente, il 27% effettua acquisti giornalieri e il 2% addirittura una volta al mese. La convenienza in
termini di prezzi (38,5%) e la disponibilità di promozioni, offerte e sconti (37%) sono
i criteri prevalenti che spiegano la preminenza della GDO nella scelta del canale di
4 Strutture di piccoli commercianti con un’area di vendita al dettaglio che va dai 100 m² ai 400 m²,
inferiore a quella dei supermercati (classificazione Nielsen: http://it.nielsen.com).
25
acquisto da parte dei consumatori: infatti, si reca al supermercato/minimarket più
frequentemente il 53% del campione indagato, seguito dall’ipermercato (43,4%) e
dal negozio specializzato (19%).
1.3 Il consumatore sensibile all’etica agroalimentare basata sulla
sostanza (qualità) del prodotto
Negli ultimi anni, sulla spinta emozionale di eclatanti episodi di sofisticazione,
adulterazione e contraffazione alimentare e di emergenze sanitarie di rilevante portata,
come l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE) e l’influenza aviaria, il cibo ha assunto
un ruolo primario nel rapporto con l’ambiente in cui il cittadino-consumatore si trova
a vivere. Pertanto, oggi, i prodotti alimentari sono chiamati a rispondere sempre più –
alle regole del mercato e ai consumatori -,da un lato, in termini di igiene, trasparenza
e rintracciabilità5 e, dall’altro, in termini di provenienza, metodi di coltivazione, processi
di produzione, confezionamento e distribuzione, proprietà nutrizionali, nuove tendenze
e valori (ecologici, etici, culturali, sociali, ecc.).
I consumatori odierni esigono sempre più qualità e tipicità. La qualità è percepita attraverso l’informazione esterna (pubblicità, passaparola), attraverso una serie di
indicatori intrinseci (gusto, aspetto, salubrità) e estrinseci (marca, origine dei prodotti,
marchio di qualità) e, soprattutto attraverso tutti quegli elementi attrattivi, come la
convenience (rapporto qualità attesa/prezzo) e il servizio, come la conservabilità e la
facilità d’uso (Giuca, 2010a). La “tipicità alimentare” è anch’essa ben nota al consumatore, che ne associa significati differenti ma comunque riconducibili alla presenza di un
legame tra prodotto e territorio; tale legame può trovarsi nell’origine geografica delle
materie prime oppure nella localizzazione delle attività di trasformazione, lavorazione, conservazione o stagionatura o, ancora, nelle metodiche di lavorazione consolidate
nella tradizione e nella cultura dei territori di origine (Nomisma, 2001; Pencarelli, Forlani, 2006). Tra l’altro, il territorio come patrimonio della comunità, fonte di identità e di
sicurezza, è un elemento riconducibile anche all’accorciamento della filiera (Sassatelli,
2010), con prodotti ottenuti e commercializzati all’interno della medesima fattoria o
5 Tutti gli Stati membri dell’Unione europea possono contare su un sistema disciplinare unitario, organizzato per principi e finalità, e su strumenti innovativi condivisi, in grado di garantire al consumatore europeo livelli di protezione elevati e prodotti alimentari sicuri lungo l’intero percorso “dai
campi alla tavola”; gli elementi caratterizzanti il sistema, in cui l’Autorità europea per la sicurezza
alimentare (EFSA) svolge un ruolo fondamentale, sono: il controllo di filiera; la responsabilizzazione
del produttore; la rintracciabilità dei percorsi di alimenti, mangimi e loro ingredienti; i sistemi di
allarme rapido sui rischi alimentari; l’informazione al consumatore (INEA, 2009).
26
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
agriturismo, nelle fiere o presso strutture locali (negozi, ristoranti, scuole).
In un mercato ormai globalizzato che propone prodotti spersonalizzati
dall’industria, con etichette indicative di prodotti generici (ad esempio 100% italiano), privi di identità tipica certifica e rintracciabile, il consumatore si mostra particolarmente sensibile all’etica agroalimentare, basata sulla sostanza (qualità) del
prodotto, forte del recupero delle tradizioni olfattive e gustative legate alle origini
territoriali o aziendali, rilevate nella certificazione o ereditate da una tradizione produttiva (Fonseca, Ruggieri, 2009). L’attenzione delle stesse aziende e del marketing
per la zona di origine di un prodotto, considerata da sempre elemento influente nel
processo decisionale di acquisto dei generi alimentari6, è andata crescendo con il
riconoscimento giuridico delle denominazioni di origine DOP e IGP7.
Ugualmente, il metodo naturale di produzione, la valenza ambientale, l’assenza di organismi geneticamente modificati (OGM), la “sanità” del prodotto - ovvero l’assenza di residui di sostanze nocive e l’assenza di coloranti e conservanti
nei prodotti confezionati, aumentano la percezione di questi prodotti come alimenti
di elevata qualità e ne determinano l’attrattività per i consumatori. Si tratta di un
insieme di elementi che i consumatori associano ai prodotti biologici, come dimostrano numerose ricerche (Berardini et al., 2006; Ismea, Area & Studio Cresci,
2006; Cicia, 2007; Van Der Borg et al., 2007; Ismea, 2008).
Nel complesso, l’andamento del mercato delle DOP/IGP, dei vini DOC-DOCG
e dei prodotti biologici (Fig. 1.3), seppure segnato dalla recente congiuntura negativa che ha ridotto il potere di acquisto delle famiglie, è trainato dalla voglia di
riscoprire le cosiddette “buone cose di una volta”, di guardare alle origini culturali
eno-gastronomiche, alla valenza salutistica e ambientale e, in genere, a tutti quei
requisiti con una forte componente etica e sociale in quanto valorizzano e promuovono le risorse locali. Allo stato attuale i consumi di questi prodotti, e in particolare
dei prodotti biologici, che saranno approfonditi nei paragrafi seguenti, testimoniano la propensione dei consumatori, consapevoli e sensibili, a spendere meno ma
meglio (poco ma di qualità), a razionalizzare (ad esempio nei vini di qualità) senza
rinunciare, tuttavia, ai valori intrinseci e all’etica agroalimentare dei cibi che scelgono di portare sulle loro tavole.
6 In Italia, ad esempio, la tutela delle produzioni tipiche - che ha contribuito a rendere famosi in tutto
il mondo i nostri prodotti - vanta un’esperienza, anche normativa, di oltre mezzo secolo: il riconoscimento della denominazione di origine controllata (DOC) ha riguardato i formaggi già negli anni
Cinquanta, con la legge 125/54, i vini nel decennio successivo, con la legge 930/63, e poi salumi, olio,
ortofrutticoli negli anni Ottanta e Novanta.
7
Il riconoscimento della denominazione di origine e dell’indicazione geografica dei prodotti agricoli è
avvenuto con il regolamento CEE 2081/92, abrogato e sostituito dal regolamento CE 510/2006.
27
Figura 1.3 - Evoluzione dell’andamento in valore degli acquisti domestici di prodotti agroalimentari a denominazione di origine e biologici confezionati in Italia *
* Variazioni % sull’anno precedente. ** Primi dieci mesi del 2009.
Fonte: Ismea/Nielsen
1.3.1 I consumi dei prodotti DOP/IGP
Nei prodotti tipici certificati DOP/IGP è, dunque, il territorio che genera la qualità,
le caratteristiche o anche la semplice rinomanza del prodotto (Albisinni et al., 2007). Il
riconoscimento comunitario ha così rappresentato, all’interno del mercato unico europeo, uno strumento innovativo per la tutela e la valorizzazione delle produzioni agricole
e agro-alimentari mediterranee, caratterizzate dalla vocazione del territorio, dalla tradizionalità dei saperi e artigianalità delle tecniche. Tale strumento, infatti, si è inserito in un
contesto internazionale in cui alla produzione di massa dei beni alimentari è subentrata
una produzione differenziata, limitata e flessibile alle esigenze di mercato, esitata da nuovi format commerciali (ipermercati, centri commerciali) e soddisfacente nuovi modelli di
consumo e nuove modalità di vendita, frutto del processo di modernizzazione e diversificazione in atto nel sistema distributivo internazionale.
Alcuni prodotti DOP/IGP hanno caratteristiche e dimensioni di mercato simili ai
prodotti di largo consumo indifferenziati, con una reputazione consolidata, soprattutto
per quanto riguarda i prodotti trasformati come formaggi, salumi, olio e vini8, che sono
8 Con l’entrata in vigore, il 1° agosto 2009, della riforma del settore vitivinicolo - reg. CE 479/08, reg. CE
491/09 - i vini DOC, DOCG e IGT transitano automaticamente nel nuovo registro comunitario delle DOP
e IGP (reg. CE 607/09, reg. CE 401/10). La disciplina sulla tutela delle denominazioni di origine dei vini è
dettata, in Italia, dal d.lgs. 61/10 che ha abrogato la legge 164/92.
28
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
esportati in tutto il mondo. Altri, invece, rappresentano eccellenze di nicchia, con una
forte specializzazione tanto delle materie prime quanto della localizzazione della trasformazione; alcuni di questi prodotti sono a “filiera chiusa”, ovvero consumati nell’ambito
della ristretta area di produzione9 oppure sono conosciuti e consumati da una fascia “elitaria” di estimatori nazionali e persino internazionali. Tutti i prodotti DOP e IGP, però, si
caratterizzano come “arte del particolare” ed anche quando presentano caratteristiche
di commodity (pasta, pane, conserve di pomodoro), essendo legati a territori di eccellenza
paesaggistica, culturale e artistica in grado di esprimere valori materiali e immateriali riconoscibili dal consumatore, possono contribuire allo sviluppo di determinate aree
rurali nel rispetto dell’eco-sistema, soprattutto se valorizzati in sede locale (agriturismo,
vendita diretta, ristorazione).
Il mercato nazionale dei prodotti DOP/IGP è in continua crescita, sia come numero di denominazioni e di prodotti in attesa di riconoscimento, sia per valore e quantità prodotte, con un maggiore orientamento verso il mercato interno, in particolare per
il consumo domestico, e un buon andamento della domanda estera. Nel quinquennio
2005-2009 (Istat, 2010b) il settore ha fatto segnare un consistente incremento (Tabb. 1.41.6) sia del numero delle specialità riconosciute (+26%) e attive (+27,7%)10 sia dei produttori (+41,6%) e delle strutture produttive (+61,5% gli allevamenti e +27,6% le superfici
coltivate), con un aumento più contenuto dei trasformatori (+6,1%) dovuto alla riduzione
del loro numero nel 2008. Complessivamente, si contano 77.427 produttori e oltre 47.200
allevamenti nel 2009, per una superficie totale di 138.900 ettari.
Tabella 1.4 – DOP/IGP: prodotti, strutture produttive e superfici in Italia, 2005-09 *
Prodotti DOP/IGP (n.)
di cui attivi
Produttori (n.)
Trasformatori (n.)
Allevamenti (n.)
Superfici (ha)
2005
154
141
54.678
5.718
29.287
108.824
2006
156
153
62.539
5.681
33.802
124.258
Anno
2007
166
161
75.448
6.034
44.390
128.100
2008
175
167
75.963
5.812
46.290
132.250
2009
194
180
77.427
6.065
47.291
138.900
Var. 2009/2005
assolute
%
40
26,0
39
27,7
22.749
41,6
347
6,1
18.004
61,5
30.076
27,6
*Un’azienda agricola può condurre uno o più allevamenti e un trasformatore può svolgere una o più attività di
trasformazione.
Fonte: Istat
9 In alcuni casi questi prodotti si avvalgono di specifiche forme di vendita diretta, come la vendita per
corrispondenza, l’e-commerce, la consegna a domicilio a singoli o a gruppi organizzati di consumatori (Carbone, 2006).
10 I prodotti attivi sono quelli per cui viene effettuata, controllata e certificata la produzione e/o la trasformazione nell’anno di riferimento.
29
Tabella 1.5 - DOP/IGP: produttori e trasformatori per comparto in Italia nel biennio 2008/09 *
Produttori
Trasformatori
Comparto
2008
2009
Var. %
09/08
2008
2009
Var. %
09/08
Carni fresche
Preparazioni di carne
Formaggi
Altri prodotti di origine animale
Ortofrutticoli e cereali
Oli extravergini di oliva
Aceti diversi dagli aceti di vino
Prodotti di panetteria
Spezie
Oli essenziali
Totale
3.696
4.274
33.999
114
15.450
18.167
149
8
76
30
75.963
5.746
4.123
32.749
64
15.776
18.708
150
9
73
30
77.427
55,5
-3,5
-3,7
-43,9
2,1
3,0
0,7
12,5
-3,9
1,9
872
678
1.671
28
573
1.565
313
23
79
10
5.812
866
695
1.695
18
706
1.537
445
21
74
8
6.065
-0,7
2,5
1,4
-35,7
23,2
-1,8
42,2
-8,7
-6,3
-20,0
4,3
* Un’azienda agricola può condurre uno o più allevamenti e un trasformatore può svolgere una o più attività di trasformazione.
Fonte: Istat
Tabella 1.6 - DOP/IGP: allevamenti e superfici per comparto in Italia nel biennio
2008/09
Allevamenti (n.)
Comparto
2008
2009
Carni fresche
Preparazioni di carne
Formaggi6t
Altri prodotti di origine animale
Ortofrutticoli e cereali
Oli extravergini di oliva
Aceti diversi dagli aceti di vino
Prodotti di panetteria
Spezie
Oli essenziali
Totale
3.727
5.245
37.204
114
46.290
5.818
5.158
36.250
65
47.291
Superfici (ha)
Var%
09/08
56,1
-1,7
-2,6
-43,0
2,2
2008
42.921,5
88.814,3
202,9
84,6
7,1
219,7
132.250
2009
45.315,0
92.981,0
200,1
178,7
9,7
215,8
138.900
Var %
09/08
5,6
4,7
-1,4
111,3
35,5
-1,8
5,0
Fonte: Istat
Nel 2008 il fatturato alla produzione ha toccato i 5,3 miliardi di euro e il fatturato al consumo ha totalizzato 9,8 miliardi di euro, il 20% circa realizzato sui mer-
30
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
cati esteri, per un totale di 1,8 milioni di tonnellate di produzione e 106.000 aziende
certificate11 coinvolte (Osservatorio Qualivita, 2010); il 93% delle strutture operative
è rappresentato da aziende agricole e allevamenti e solo il 7% da strutture di trasformazione artigianali e industriali. Per effetto del riconoscimento assegnato da
pochi anni alle mele del Trentino, il settore ortofrutticoli e cereali si è collocato
per il terzo anno consecutivo, secondo l’Osservatorio Qualivita (op., cit., 2010), al
primo posto per quantità certificata (62,7% del totale delle produzioni DOP/IGP),
seguito da formaggi (25,1%), prodotti a base di carne (11,3%) e oli extravergini di
oliva (0,5%).
L’Italia si distingue a livello europeo per numero di prodotti DOP/IGP12, con
denominazioni di alta reputazione a livello internazionale come il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano e il Prosciutto di Parma. Tuttavia, la produzione complessiva
dei prodotti certificati continua a essere trainata da meno del 9% dei prodotti che
hanno ottenuto il riconoscimento comunitario; se si guarda ai primi 15 prodotti
di qualità certificata per produzione e fatturato nel 2008, questi rappresentano,
complessivamente, oltre il 90% della produzione totale DOP/IGP e realizzano oltre
il 90% del fatturato al consumo totale. Si tratta, però, di certificazioni che storicamente rappresentano le grandi produzioni tipiche italiane (formaggi e salumi)
e che, complessivamente, realizzano l’80% del fatturato alla produzione totale di
DOP/IGP, e di 2 prodotti ortofrutticoli con un forte peso sul mercato dei prodotti a
marchio collettivo: la “Mela Alto Adige” che ha ottenuto l’IGP nel 2005 e la “Mela Val
di Non” che ha ottenuto la DOP nel 2003. A seguire, tra le oltre 180 denominazioni
che rappresentano, insieme, meno dell’8% della produzione totale DOP/IGP e circa
il 5% del fatturato alla produzione totale, vi sono prodotti di grande potenzialità
come l’Arancia Rossa di Sicilia IGP che, da sola, costituisce il 50% della produzione
nazionale di arance.
Nel 2008 quasi il 47% delle vendite in volume è confluito alla GDO, il 33%
ai grossisti e il 9,3% ai negozi tradizionali, con situazioni differenziate a seconda
dei comparti; i prodotti a base di carne sono esitati attraverso la GDO per quasi il
62% della quantità prodotta e attraverso il dettaglio tradizionale per quasi il 24%,
mentre ortofrutticoli e cereali sono confluiti ai grossisti per il 59% (Ismea, 2010a).
Quote contenute di prodotti DOP/IGP, secondo Ismea, sono state destinate: al ca11 Aziende che ricevono la registrazione finale DOP/IGP e quindi si trovano nella fase finale della filiera,
ad esempio le aziende che effettuano l’imbottigliamento per gli oli extravergine di oliva (Osservatorio Qualivita, 2010).
12 L’Italia, con 213 prodotti certificati al 28/09/2010 (133 DOP, 78 IGP e 2 STG), pari al 22,3% del totale
dei prodotti certificati UE (955), è leader europeo, davanti a Francia (174) e Spagna (142).
31
nale Ho.Re.Ca, ovvero alberghi, ristoranti, bar, catering, ecc. (4,7%), con punte del
10,5% per i prodotti a base di carne; alla vendita diretta (2,5%), attraverso la quale
è passato quasi il 17% degli oli extravergini di oliva; al dettaglio specializzato (1,9%)
e ai mercati rionali (1,2%), attraverso i quali è esitato quasi il 6% dei formaggi a
denominazione di origine.
A conferma del fatto che le vendite maggiori di prodotti DOP/IGP avvengono
presso la grande distribuzione su tutto il territorio nazionale, coinvolgendo segmenti
differenziati di consumatori, nel 2008, secondo Ismea (op. cit., 2010a), la quota della
GDO ha guadagnato 3,7 punti in valore assoluto sugli altri canali13; infatti, quasi l’80%
delle vendite complessive di prodotti DOP/IGP (oltre il 91% di prodotti a base di carne e oltre il 93% di ortofrutticoli e cereali) ha interessato aree che superano i confini
regionali, poco più del 19% è rimasto nella regione di provenienza dei prodotti e solo
il 2% della produzione commercializzata sul mercato nazionale è stata destinata al
mercato locale. È interessante notare come la specificità della zona sia molto sentita
per i formaggi, quasi il 40% dei quali vengono venduti nei mercati regionali, e per gli
oli extravergini di oliva, un quarto dei quali viene commercializzato a livello locale e regionale. Nel 2008, le vendite dei prodotti DOP/IGP sui mercati locale e regionale hanno
guadagnato quota sulle vendite sul mercato nazionale (complessivamente, 3,2 punti in
valore assoluto): ciò conferma l’attenzione dei consumatori al rapporto tra il cibo e il
proprio territorio, vissuto come un contesto ben conosciuto e rassicurante.
Nel 2008 gli incrementi nell’export di prodotti DOP/IGP, “carta di identità” del
made in Italy, risultano meno consistenti del 2007; si segnalano, comunque, aumenti in quantità (5%) maggiori rispetto a quelli in valore (3%), con modesti aumenti nei
comparti dei formaggi e dei prodotti ortofrutticoli e una riduzione del comparto dei
prodotti a base di carne (Ismea, 2010a). Il fatturato all’export ha invece sfiorato, nel
2009, il valore di 1,3 miliardi di euro, con una crescita di quasi il 15% sul 2008 (Ismea,
2010c). Il mercato domestico, invece, ha fatto segnare, nel 2008, una flessione in volume (-4,3%) compensata da un aumento in valore (2,3%) per effetto della crescita dei
prezzi al consumo. D’altra parte, a fronte della limitata crescita del potere di acquisto
delle famiglie legata alla recente crisi economica e finanziaria, la crescita dei prezzi
dei prodotti alimentari degli ultimi anni potrebbero aver penalizzato l’ulteriore sviluppo
del settore delle DOP/IGP il cui ruolo sui consumi agroalimentari domestici è stimato
da Ismea in una quota di circa il 18% della spesa totale, che sale al 24% circa per i formaggi e si attesta intorno al 12% per i prodotti a base di carne e al 2,5% per gli oli; nel
13 Secondo le prime anticipazioni, nel 2009 la distribuzione degli acquisti domestici di prodotti DOP
e IGP per canale distributivo ha interessato, per il 69%, supermercati e ipermercati, per il 12% il
dettaglio tradizionale e per il 7% i discount (Ismea, 2010c).
32
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
2009, infatti, si registra una riduzione in valore del volume degli acquisiti domestici dei
prodotti a denominazione di origine (-1,1%), appena compensata nel primo semestre
del 2010 (+0,1%). Il settore, d’altra parte, è caratterizzato da un livello dei prezzi più
alto rispetto ai corrispondenti prodotti convenzionali; secondo le analisi comparative
dell’Ismea (op. cit., 2010a), oli extravergini, riso e salumi con denominazione di origine
costano in media, rispettivamente, il 57%, il 29% e il 30% in più degli omologhi prodotti
senza riconoscimento UE. In particolare (Tabb. 1.7-1.8), gli oli extravergini di oliva DOP/
IGP, che pure avevano fatto registrare un buon incremento in quantità e valore nel 2008,
hanno subìto un calo sostenuto nel 2009, ancora più accentuato nel primo semestre
del 2010, in gran parte dovuto agli effetti della crisi sui prezzi. Nel 2009 sono ripresi
i consumi di prodotti a base di carne, con buone performance per la Bresaola della
Valtellina e lo Zampone di Modena, ma nel primo semestre del 2010 si registra una
contrazione negli acquisiti di questi prodotti. I formaggi a denominazione, trainati da
produzioni storiche e rinomate come il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, hanno
tenuto bene il mercato (Tabb. 1.7 e 8). Il segmento della frutta fresca DOP/IGP, invece,
è quello che maggiormente ha accusato una contrazione dei consumi durante l’ultimo
triennio, riducendosi sensibilmente in quantità e valore (Tab. 1.7).
Tabella 1.7 - Andamento dei consumi domestici di quattro segmenti di prodotti
DOP/IGP in Italia
Quantità
Var. %
2008/07
Var. %
2009/08
Valore
Var. %
2010/09 *
Var. %
2008/07
Var. %
2009/08
Var. %
2010/09 *
Formaggi
Prodotti a base di carne
Oli extravergini di oliva
Frutta fresca
-0,5
-5,7
21,3
-9,9
0,9
2,8
-19,6
-1,7
0,8
-3,9
-19,7
3,7
4,0
-3,3
12,0
-2,9
-0,9
1,1
-22,6
-8,5
2,3
-6,4
-17,9
-4,3
Totale
-4,3
-0,1
1,7
2,3
-1,1
0,1
* Primo semestre 2010 rispetto al primo semestre 2009.
Fonte: Ismea /Nielsen
È interessante notare come, tra coloro che dichiarano di acquistare regolarmente prodotti DOP/IGP, il 77,7% acquista regolarmente surgelati, il 67,6% scatolame e oltre il 29% acquista anche cibi precotti, mentre addirittura il 22,6% si reca
presso i fast food almeno una volta a settimana (Censis/Coldiretti, 2010). Dunque,
si tratta di un comportamento che denota grande attenzione dei consumatori alla
qualità e all’etica agroalimentare anche quando queste comportano, come nel caso
33
dei prodotti a denominazione di origine, una spesa mediamente più alta, ma senza
rinunciare al consumo di altri alimenti che soddisfano, abitualmente o anche solo
occasionalmente, bisogni diversi (golosità, convenienza, praticità, ecc.). Tutto ciò
conferma, come si è avuto modo di descrivere nelle pagine precedenti, un consumatore odierno “polivalente”, che si muove in più direzioni anche se, sullo sfondo
di scelte dettate da una maggiore sensibilità verso i temi salutistici e ambientali,
come si dirà più avanti, il consumatore è portato a soffermarsi sui prodotti biologici
in modo maggiore rispetto ai prodotti che hanno una denominazione d’origine.
Tabella 1.8 - Variazione degli acquisti domestici dei principali prodotti DOP/IGP*
Quantità
Valore
Var.%
‘07/06
Var. %
‘08/07
Var. %
‘09/08**
Var.%
‘07/06
Var. %
‘08/07
Var. %
‘09/08**
Parmigiano Reggiano DOP
Grana Padano DOP
Prosciutto di Parma DOP
Mozzarella di Bufala Campana DOP
Gorgonzola DOP
Prosciutto di San Daniele DOP
Asiago DOP
Pecorino Sardo DOP
Pecorino Toscano DOP
Pecorino Romano DOP
Montasio DOP
Taleggio DOP
Speck dell’Alto Adige IGP
Bresaola della Valtellina IGP
Quartirolo Lombardo DOP
Oli DOP Puglia***
Oli DOP Toscana***
Mortadella Bologna IGP
Zampone Modena IGP
Olio extravergine di oliva Riviera Ligure DOP
-4,3
-1,8
-6,0
4,9
15,0
6,3
-4,6
2,3
-1,6
-7,4
-7,5
-6,1
13,9
85,7
-1,6
8,6
-10,6
28,0
7,3
-14,3
0,0
4,0
-5,3
-10,9
0,0
-5,0
1,1
-3,6
-1,7
4,6
-1,5
-1,3
25,6
-21,1
-4,7
26,0
-9,2
-9,8
-14,0
11,1
-1,9
2,3
-1,1
6,7
-6,3
7,4
2,2
-0,2
-53
1,4
-2,6
-0,3
9,0
30,9
-12,1
-44,8
-29,9
-26,7
13,7
-11,3
-2,1
1,7
-3,6
6,8
15,8
5,9
-1,0
4,0
-2,6
-3,0
-7,0
-2,4
10,7
83,4
-1,0
9,2
6,6
70,1
11,7
-18,8
4,0
8,2
-3,6
-9,5
9,4
-3,0
10,5
-0,4
0,6
13,2
8,3
5,9
27,8
-13,7
2,8
1,0
-7,3
-6,2
-7,1
23,2
-45
-2,6
-2,8
5,6
-8,2
8,9
0,5
1,7
-2,0
6,4
-2,6
-4,5
2,4
26,5
-11,7
-50,9
-34,4
-25,3
16,5
-19,2
* Ordinati in modo decrescente in base alla graduatoria degli acquisti in valore 2008.
** gennaio-ottobre 2009 rispetto allo stesso periodo del 2008.
*** Oli extravergine di oliva DOP e IGP diversi, delle regioni Puglia e Toscana.
Fonte: ISMEA/Nielsen
34
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
1.3.2 I consumi dei vini di qualità
La propensione a razionalizzare i propri acquisti si è fatta particolarmente
sentire nel settore dei vini di qualità DOC-DOCG e IGT14 (Tab. 1.9), particolarmente
apprezzati dai consumatori di vino; le quantità di vini DOC-DOCG acquistate dalle famiglie italiane, infatti, sono aumentate mediamente del 3% nel quinquennio
2004-2008, nonostante nello stesso periodo si sia verificato un aumento medio dei
prezzi al consumo di questi prodotti del 3,1% (Ismea, 2009e).
Tabella 1.9 - Variabili strutturali per i primi dieci vini DOC-DOCG e per i primi dieci
vini IGT, 2008
N.
denunce
Totale DOC-DOCG
157.733
Superfici in
produz. (ha)
213.083
Uva prodotta
(q.li)
Produzione
potenziale* (hl)
Produzione
certificata**
(hl)
18.796.508
13.031.070
9.930.510
Montepulciano d’Abruzzo
7.073
12.082
1.366.241
956.369
827.611
Chianti
3.787
14.980
1.082.065
755.281
761.320
5.015
9.816
899.083
674.317
673.442
Trentino
Asti
12.517
5.967
732.409
512.583
267.719
Soave
3.096
4.738
731.234
511.872
456.841
Conegliano Valdobbiadene
3.004
4.977
621.545
435.082
430.430
Valpolicella
4.038
5.988
716.279
417.992
434.491
Oltrepò Pavese
5.157
7.021
492.813
344.279
354.173
Friuli Grave
4.358
4.292
440.472
308.259
186.997
Alto Adige
9.643
4.447
391.940
274.245
281.822
Totale IGT
158.950
154.284
19.048.420
13.702.551
Sicilia
23.270
43.126
3.692.628
2.952.583
Veneto
27.191
14.115
2.421.478
1.758.636
Marca Trevigiana
17.678
10.683
1.977.518
1.044.923
Ravenna
3.727
4.815
1.083.935
867.148
Salento
7.307
10.092
1.059.323
807.168
Emilia o dell’ Emilia
7.421
5.188
889.384
703.762
582.340
Puglia
3.118
5.336
772.413
Toscano o Toscana
7.704
10.041
723.417
567.591
Delle Venezie
5.362
4.423
717.777
545.097
Provincia di Verona
o Veronese
7.007
2.418
663.103
529.768
Fonte: ISMEA su dati Infocamere e CCIAA.
14 In Italia risultano 48 DOCG, 320 DOC (di cui 9 interregionali) e 118 IGT, di cui 4 interregionali (elenco
MIPAAF aggiornato all’8 aprile 2010, www.politicheagricole.it).
35
Nel 2008, il peso dei vini DOC-DOCG e IGT sul totale di vini e spumanti è
risultato pari al 44% in quantità e al 59% in valore, con lievi incrementi dei due
indici nel 2009 (Tab. 1.10). Gli IGT, in particolare, hanno fatto segnare una crescita
significativa all’interno dei vini di fascia alta, con una variazione media annua del
9,4% nel periodo 2003-2008, sicuramente incentivata da differenziali di prezzo non
elevatissimi rispetto ai vini da tavola, i quali, infatti, nello stesso periodo di riferimento hanno perso quote di mercato (Ismea, 2009d). Anche il peso, nel 2009, degli
Hard Discount sulla stratificazione degli acquisti per canale distributivo (13% in
quantità e 7% in valore) - alle spalle di ipermercati (38% in quantità e 42% in valore)
e supermercati (33% in quantità e 37% in valore) - rispecchia l’interesse di segmenti sempre più numerosi di consumatori, che economizzano le proprie spese senza
rinunciare ai prodotti di qualità, tanto più evidente se si guarda alla variazione in
quantità e valore degli acquisti presso questo canale. Si tratta, infatti, dell’unico
format che ha tenuto, nel 2009, a fronte di contrazioni sostenute nei canali del Cash
& Carry, dei grossisti e degli spacci, dei mercati rionali e delle vendite porta a porta, nei confronti dei quali si erano già rivolti i consumatori, nel 2008, per spuntare
prezzi di acquisto più convenienti (Tab. 1.11). Nonostante da tempo il consumatore
dimostri di apprezzare sulla propria tavola i vini di qualità, con una variazione media
annua dei consumi del 6,8% nel periodo 2003-2008, gli acquisti domestici di questi
prodotti hanno accusato, nel 2009, una perdita significativa in valore, pari all’8,7%
(Ismea, 2010c). In particolare, nel corso del 2009, gli acquisti domestici di vini DOCDOCG (Tab. 1.10) si sono contratti del 2,4% in quantità e dell’11% in valore, segno
che tra le rinunce all’acquisto più evidenti che hanno contribuito alla contrazione
complessiva dei consumi alimentari si collocano quei vini di qualità che hanno subìto aumenti di prezzo più consistenti. L’aumento dei prezzi dei vini di qualità ha
colpito anche le esportazioni (Ismea, 2010b) che, rispetto al 2008, hanno accusato
un calo sia in quantità (-4,4%) sia in valore (-8,3%).
36
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Tabella 1.10 - Acquisti domestici di vini nel biennio 2008-2009
Peso % sul totale
vini e spumanti,
2008
Var. %
2008/2007
Totale vini e spumanti
Totale vini
- vini DOC/DOCG
- vini IGT
Var. %
2009/2008
Quantità
Valore
Quantità
Valore
Quantità
-1,7
-1,8
1,5
2,9
3,4
4,1
5,3
7,7
100
94,6
25,2
18,8
100
87,1
39,2
19,5
-2,7
-2,9
-2,4
4,9
Valore
-7,9
-8,7
-11,0
-2,3
Peso % sul totale
vini e spumanti,
2009
Quantità
Valore
100
94,5
25,3
20,3
100
86,3
37,9
20,7
FonteISMEA/Nielsen
Tabella 1.11 - Acquisti domestici di vini DOC-DOCG per canale distributivo, 2009
Var. % 2008/2007
Quantità
Peso %, 2008
Var. % 2009/2008
Valore
Quantità
Valore
Valore
Quantità
Valore
Ipermercati
Supermercati
Hard Discount
2,8
0,3
12,4
6,9
5,1
23,5
36,0
33,0
11,7
40,0
38,0
6,0
2,6
-2,4
7,8
-8,3
-13,3
7,9
37,8
33,0
12,9
41,6
37,1
7,2
Cash & Carry,
Grossisti e Spacci
35,9
48,5
7,7
5,0
-21,7
-29,6
6,2
4,0
-22,8
-3,3
-38,3
-29,5
28,1
-37,4
1,9
1,7
1,8
1,7
1,7
1,2
-7,1
-28,4
-18,3
27,2
-23,3
-9,9
1,8
1,3
1,5
2,4
1,5
1,2
5,4
-4,8
0,2
0,1
-25,5
51,2
0,1
0,2
68,6
-17,3
9,2
-16,4
0,1
6,0
0,0
5,9
-72,9
-12,2
-47,2
-26,9
0,0
5,4
0,0
4,8
1,5
5,3
100
100
-2,4
-11,0
100
100
Ricevute in regalo
Negozi tradizionali
Superette
Ambulanti/Mercati
rionali
Vendite porta a porta
Altre fonti
Totale Italia
Quantità
Peso %, 2009
Fonte: Ismea/Nielsen
1.3.3 I consumi di prodotti biologici
Negli anni Settanta i consumatori europei cominciano ad attribuire ai prodotti biologici15 una forte valenza salutistica e ambientale e si dimostrano disposti
15 In agricoltura, l’applicazione delle teorie di Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, la filosofia che
reagisce al materialismo e allo sviluppo della scienza proponendo nuove forme alternative di coltivazione, risale al 1924; negli anni successivi cominciano a diffondersi, in tutta Europa, metodi di coltivazione
ecologica (agricoltura biodinamica, biologica, integrata) associati a stili di vita alternativi che, attraverso il
contatto diretto con gli agricoltori, conquistano sempre più l’interesse dei consumatori.
37
a pagare prezzi di mercato nettamente più alti (premium price) rispetto a quelli dei
prodotti ottenuti con l’agricoltura convenzionale. In pochi anni si diffondono negozi specializzati nella vendita di alimenti biologici, che rappresentano, insieme alla
vendita diretta, i canali di distribuzione dominanti nel settore.
Nell’Europa settentrionale e centrale, dove si sviluppa maggiormente la coscienza
ambientalista e salutista dei consumatori, la domanda di prodotti biologici aumenta molto più rapidamente dell’offerta. Cominciano a svilupparsi flussi commerciali di importexport, con Germania, Gran Bretagna e Paesi scandinavi che importano prodotti biologici
da Italia, Spagna e Francia. Nei Paesi importatori l’espansione dell’offerta stimola la creazione di un’efficiente organizzazione commerciale a livello regionale e interregionale e
la distribuzione moderna comincia a interessarsi a questo mercato in espansione.
In tutta Europa i prodotti biologici cominciano a essere commercializzati nelle
grosse superfici di vendita a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, contestualmente a
importanti dinamiche che investono l’agricoltura nel suo complesso. L’interesse per uno
sviluppo economico sostenibile e la necessità di una maggiore integrazione tra politiche
produttive e di tutela ambientale generano una serie di interventi normativi comunitari
nel settore agricolo, con riflessi sia sul lato della produzione, sia su quello della distribuzione. La UE, attraverso la PAC, favorisce l’orientamento della produzione verso le zone
vocate e riconosce la valenza ambientale della produzione biologica e il pregio delle produzioni tradizionali, regolamentando il metodo di produzione biologico e le produzioni a
denominazione di origine DOP/IGP.
In Italia, in particolare, lo sviluppo dei prodotti biologici è stato trainato, sul fronte della domanda, dalla maggiore attenzione dei consumatori per la qualità ambientale,
intesa come rispetto della salute umana e delle risorse naturali. Sull’offerta - e dunque
sulla scelta di adottare tecniche a basso impatto ambientale - hanno inciso, invece, gli
incentivi alla produzione e la possibilità di differenziare i prodotti segmentando il mercato
per assicurarsi vantaggi competitivi; anche fattori non economici, come la riduzione dei
rischi di esposizione dell’operatore a prodotti tossici hanno attratto coltivatori e allevatori.
Parallelamente, è cresciuto l’interesse delle aziende di produzione e di trasformazione
per la certificazione dei prodotti e dei processi produttivi con metodo biologico, affiancate
anche da altre forme di certificazione volontaria16, in modo da garantire ai consumatori
16 La certificazione accreditata da una parte terza e indipendente è il mezzo con cui un’azienda, che vi
aderisce volontariamente, può dimostrare ai portatori di interesse (stakeholder) la conformità del
suo sistema di gestione e dei suoi prodotti/servizi ai requisiti della norma internazionalmente riconosciuta (emessa da organizzazioni internazionali UNI EN ISO) e per cui ha ottenuto la certificazione.
che può essere di: sistema agroalimentare; prodotto agroalimentare; filiera agroalimentare; sistema ambientale; prodotto ambientale; produzione eco-sostenibile; sistema di sicurezza sul lavoro;
etica sociale (Giuca, 2010).
38
7,6
1.067.102
227.610
Superfici (ha):
- Prati e pascoli
22,3
4.941
185
Trasformatori (n.)
Importatori (n.)
Fonte: Elaborazioni su dati Sinab
72.241
977.537
- avicoli (n.)
44.733
31.338
- suini (n.)
- api (n. arnie)
86.537
Produttori (n.)
15,3
738.737
- ovini (n.)
- caprini (n.)
4,9
16,5
0,9
18,3
60,7
-5,1
4,7
0,1
34
222.516
- bovini (n.)
2.128.906
63.096
Capi bio per specie:
- Altre colture
1,1
23.106
- Colture industriali
55,6
20,9
67.407
31.170
0,3
- Ortofrutta
106.938
- Olivo
2,9
-7,6
- Vite
288.927
258.848
- Foraggi
- Cereali
14,8
Var.%
2006/05
2005
194
5.756
45.115
85.489
1.571.310
29.736
90.591
852.115
222.725
2.851.966
77.172
23.362
37.693
104.917
107.233
239.092
297.441
261.252
1.148.162
2006
8,8
21,8
0,3
32
-14,8
-9,5
3,6
0,9
9,6
-6,1
-26,4
7,9
-2,7
-2,7
2,6
1
20,6
-16
0,2
Var. %
2007/06
211
7.011
45.231
112.812
1.339.415
26.898
93.876
859.980
244.156
2.677.137
56.805
25.210
36.684
102.086
109.992
241.430
358.610
219.438
1.150.255
2007
16,6
7,8
-1,9
-9,3
61,1
26,5
-11,1
17,2
-11,3
34,5
11
-39,2
10,3
3,2
4,1
-4,1
-42,1
2,4
-12,9
Var.%
2008/07
246
7.559
44.371
102.280
2.157.201
34.014
83.411
1.007.605
216.476
3.600.987
63.057
15.340
40.480
105.311
114.472
231.569
207.584
224.601
1.002.414
2008
Tabella 1.12 - Superfici a biologico, allevamenti e operatori del settore in Italia, 2005-2009
5,7
3
-8,8
0,9
-61,3
-23,7
-10,7
-34,6
-14,3
-47,7
83
-3,2
7,7
-14,9
22
8,8
-13,6
21,2
10,4
Var. %
2009/ 08
260
7.787
40.462
103.216
835.677
25.961
74.500
658.709
185.513
1.883.576
115.378
14.842
43.614
89.646
139.675
251.906
179.439
272.184
1.106.684
2009
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
39
l’effettivo valore ambientale dei prodotti, unitamente all’adozione di politiche di marchio
che rendano facilmente riconoscibili tali prodotti (Giuca, 2009b). L’ingresso della grande
distribuzione nel settore ha poi contribuito largamente alla circolazione e all’incremento
dei consumi, tanto che nel 2001 il mercato italiano dei prodotti biologici è stato interessato da un vero e proprio boom, con un incremento rilevante delle aziende di trasformazione del 48% rispetto al 2000 (dati Sinab)17 e, negli anni successivi, con significativi aumenti
delle superfici a biologico e del numero degli operatori coinvolti nella filiera (Tab. 1.12).
La fiducia dei consumatori è rafforzata dal fatto che i prodotti biologici, per
essere immessi in commercio, non solo devono soddisfare, come tutti gli alimenti, i
requisiti di natura igienico-sanitaria e i requisiti di natura merceologico-mercantile,
ma sottostanno a uno specifico quadro giuridico che, da venti anni, ne disciplina il
metodo di produzione, la loro etichettatura e il loro controllo18. Oggi, inoltre, il prodotto biologico abbraccia uno spettro di valori più ampio di quello originario, che
va dagli aspetti etici e sociali agli impatti sul cambiamento climatico in termini di
riduzione di gas serra, sia dal lato delle metodiche di produzione, sia dal lato delle
modalità con cui questi prodotti vengono distribuiti e commercializzati (food miles o
chilometri zero)19. I consumatori più attenti e sensibili, pertanto, tendono a cercare
nei prodotti biologici soddisfazione a una molteplicità di bisogni.
Il settore dei prodotti biologici, dunque, ha assunto un’importanza crescente
nella produzione agricola nazionale, tanto che l’Italia occupa attualmente una posizione di avanguardia nel panorama biologico internazionale20, con oltre 1 milione
di ettari coltivati nel 2009 e oltre 48.500 operatori certificati coinvolti nella filiera, il
maggior numero a livello europeo (Sinab, 2010). L’Italia è anche il maggior esportatore mondiale di prodotti biologici (soprattutto verso l’Europa, gli Stati Uniti e il
Giappone), per un valore dell’export bio di circa 900 milioni di euro.
Negli ultimi anni, all’espansione dell’offerta di alimenti biologici nazionali
si sta affiancando un aumento dei prodotti d’importazione, come confermano la
17 Dati disponibili sul sito del Sistema d’informazione nazionale sull’agricoltura biologica del MIPAAF:
www.sinab.it.
18 Una definizione univoca e regole chiare per regolamentare la produzione biologica vegetale si deve
al regolamento CEE 2092/91 e, per le produzioni animali, al regolamento CE 1804/99; entrambi sono
stati abrogati e sostituiti dal reg. CE 834/07, al quale hanno fatto seguito i regolamenti CE 889/2008
(modalità di applicazione), 1235/2008 e 537/2009 (importazione di prodotti biologici dai Paesi terzi),
710/2009 (produzione di animali e di alghe marine dell’acquacoltura biologica), 967/08 e 271/2010
(logo obbligatorio di produzione biologica dell’Unione europea).
19 Espressioni usate per indicare l’entità dell’impatto ambientale del trasporto del cibo che arriva sulla
nostra tavola (Franco, 2007).
20 Per un’analisi di dettaglio cfr. Berardini et al., 2006.
40
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
crescita degli importatori, quasi il 17% in più nel 2008 e quasi il 6% in più nel 2009
(Tab. 1.12), e l’incremento delle quantità totali di prodotto importato da Paesi terzi,
pari a 90 milioni di tonnellate nel 2008 (30% in più rispetto all’anno precedente) e a
50 milioni di tonnellate nel 2009 (Sinab, 2010).
Secondo le rilevazioni Ismea/AC Nielsen (Ismea 2008, 2009a), la spesa per i
prodotti biologici presso le grandi superfici di vendita della distribuzione organizzata ha fatto segnare un aumento del 5,7% nel 2008 (6,1% medio annuo nel periodo
2003-08), nonostante l’aumento della spesa alimentare complessiva sia stato più
contenuto (4,4%). Un’ulteriore crescita del 6,9% dei consumi di prodotti biologici
acquistati presso la GDO ha caratterizzato il 2009 - crescita che ha toccato il 7,4%
nel primo semestre (Tab. 1.13) - per un valore totale di oltre 350 milioni di euro.
Complessivamente, gli italiani che dichiarano di consumare regolarmente cibi biologici sono passati dal 22% del 2008 al 26% del 2009 (Ismea 2009b, 2010a).
È interessante notare come l’Hard Discount, nonostante il peso ridotto sulla
stratificazione degli acquisti in valore per canale distributivo, pari all’1% nel 2006
alle spalle di supermercati (50%) e ipermercati (42%) - è il format che registra,
nell’ultimo biennio, variazioni percentuali in misura maggiore rispetto a tutti gli
altri canali (Tab. 1.13). Addirittura, il dettaglio tradizionale - canale storico del bio
segna, nel primo semestre del 2009, una contrazione in valore di oltre il 40%, a testimonianza che i consumatori, soprattutto al Nord, dove si concentrano le maggiori quote di spesa in valore, non volendo rinunciare ai prodotti biologici in questo periodo di maggiore contrazione dei consumi alimentari nel loro complesso, si recano
presso strutture distributive in grado di offrire prezzi più convenienti e una gamma
più ampia di prodotti primo prezzo (Tab. 1.13). Anzi, coloro che acquistano regolarmente i prodotti dell’agricoltura biologica, mostrandosi sensibili ai temi salutistici
e ambientali e pagando un premium price, continuano ad acquistare regolarmente,
secondo l’indagine del Censis (op. cit., 2010), anche prodotti convenzionali (il 73%
acquista surgelati, il 63% scatolame e quasi il 65% prodotti con marchio del distributore) e a spendere persino all’ipercalorico e convenzionale fast food, dove si
recano almeno una volta a settimana il 26,7% degli acquirenti abituali di frutta e
verdura da agricoltura biologica.
41
Tabella 1.13 - Consumi domestici di prodotti biologici confezionati per area geografica e canale distributivo (quote in valore), 2005-2009
Var.%
consumi
in valore
2006/05
Quota
su totale
Italia
2006
Var.%
consumi
in valore
2007/06
Quota
su
totale
Italia
2007
Var.%
consumi
in valore
2008/07
Quota
su totale
Italia
2008
Var.%
consumi
in valore
2009/08
(*)
Quota
su
totale
Italia
2009 (*)
Totale Italia
9,2
100
10,2
100
5,4
100
7,4
100
Nord Ovest
13
41
15
44
6,8
44
7,9
44
Nord Est
2,8
27
17
29
-0,8
27
11,9
28
Centro e Sardegna
6,1
22
-4,6
19
8,5
20
8,5
20
8
Sud e Sicilia
21,5
9
3,4
9
12,3
9
-10,7
Ipermercati
11,3
42
12,7
-
5,8
-
13,5
-
6,6
50
5,4
-
5,2
-
5,4
-
Superette
-17,1
2
59,8
-
-25,4
-
39,7
-
Hard Discount
45,4
1
-6,9
-
45,9
-
15,7
-
Cash&Carry+
Grosisti+Spacci
19,6
0
-
-
-
-
-
-
Porta a porta
Ambulanti
mercati rionali
Negozi tradizionali
167,6
0
-
-
-
-
-
-
-20,7
0
-
-
-
-
-
-
30,2
2
23
-
17,3
-
-40,9
-
Ricevuto in regalo
8,2
0
-
-
-
-
-
-
44,2
3
11,2
-
2,5
-
-8,9
-
Supermercati
Altri canali
Fonte: Ismea/ACNielsen
Gli incrementi maggiori, calcolati sui primi sei mesi del 2009, hanno interessato ortofrutta fresca e trasformata (37,8%), uova (24,3%) e bevande (11,6%),
che, insieme ai prodotti lattiero-caseari e a quelli per la prima colazione (entrambi
questi segmenti mostrano una contrazione rispetto al primo semestre del 2008),
rappresentano, da diversi anni, la quota maggiore sul totale degli acquisti di prodotti biologici confezionati, quota pari al 58,6% nel 2007, al 63,4% nel 2008 e al 65%
nel primo semestre del 2009 (Tab. 1.14).
42
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Tabella 1.14 - Consumi domestici di prodotti biologici confezionati in Italia nel
triennio 2007-09 (% calcolate su dati in valore)
Var. %
2007/06
Ortofrutta fresca
e trasformata
Lattiero caseari
Prodotti prima colazione
Bevande
Uova
Pane e sostituti,
pasta e riso
Prodotti per l’infanzia
Oli
Miele
Gelati e surgelati
Zucchero, caffè e tè
Condimenti
Salumi ed elaborati
di carne
Prodotti dietetici
Altri prodotti
Totale prodotti biologici
Quota
comparto/
totale bio
2007
Var. %
2008/07
Quota
comparto/
totale bio
2008
Var. %
2009/08 *
Quota comparto
/totale bio 1°
semestre 2009
25,2
17,1
19,8
19,5
37,8
25,2
9,2
-3,4
19,1
1,6
20,6
11,4
9,5
7,1
1,5
-13,8
2,7
14,1
19,8
14,1
10,0
7,7
-3,9
-2,8
11,6
24,3
17,8
12,2
10,0
8,3
9,9
7,1
14,3
7,7
-12,8
7,1
36,4
4,4
4,8
13,7
-4,8
30,2
5,4
4,7
3,6
2,3
5,8
1,6
16,1
7,1
7,5
10,0
-
5,7
4,8
3,7
2,4
-
-18,2
1,8
10,4
-2,0
-
4,8
3,9
3,6
2,4
-
21,7
0,9
-
-
-
-
-12,3
5,7
10,2
0,7
1,6
100
1,9
5,4
4,6
100
7,1
7,4
4,7
100
* Primo semestre 2009 rispetto allo steso periodo 2008
Fonte: Ismea/Nielsen
La vendita di prodotti biologici al di fuori del canale della distribuzione organizzata è aumenta del 17% nel 2008 (Mingozzi e Bertino, 2010), nonostante i prezzi
più alti del 20%. Nel triennio 2007-2009, in particolare, è aumentato il numero dei
punti vendita specializzati (2%) e sono cresciute le attività legate alla filiera corta,
soprattutto i Gruppi d’acquisto solidale21, e le aziende con vendita diretta (32%).
Risultati interessanti provengono anche dai canali extradomestici, con il diffondersi dei negozi da asporto (fast food, enoteche, pizzerie, catering) e la crescita
della ristorazione e delle mense scolastiche: queste ultime, espressione della sensibilità delle pubbliche amministrazioni all’etica agroalimentare, rappresentano
anche un nuovo modello di business per gli operatori del catering, con 197 milioni
21 Cfr. infra, cap. 2 par.3.
43
di pasti bio serviti in un anno tra nidi, scuole materne e scuole primarie e un giro di
affari che, nel 2008, è stato di 250 milioni di euro (Mingozzi e Bertino, 2010).
1.4 - Conclusioni
Come è emerso dall’analisi condotta in questo capitolo, nelle scelte di acquisto
dei prodotti alimentari il consumatore odierno è mosso da un senso di responsabilità e
di consapevolezza, da una condivisione di vedute e di sensibilità in cui l’etica e la responsabilità sociale - soprattutto in termini di impatto che la produzione e la distribuzione
può avere sulla vita delle persone, sui legami sociali e sull’ambiente - sono sempre
più parte integrante del concetto di qualità. Il consumatore si mostra attento a ciò che
mangia in termini di igiene, salubrità e qualità nutrizionale, acquistando, magari, minori
quantità di cibo ma cercando in essi «una parte emozionale che ha nel gusto, nell’esperienza e nel rispetto dell’ambiente il suo centro (Fabris, 2009)». Infatti, in un contesto
generale di crisi dell’economia internazionale e di erosione del potere di acquisto delle
famiglie che stanno caratterizzando la fine di questo decennio, la maggiore sensibilità
verso l’etica agroalimentare e verso i temi salutistici e ambientali, spinge comunque il
cittadino-consumatore ad avere, sulla propria tavola, prodotti tipici a denominazione di
origine e, in misura maggiore, prodotti biologici. Il biologico, in particolare, continua a
far registrare tassi di crescita che complessivamente vanno in controtendenza rispetto
al settore convenzionale.
Il consumatore, infatti, in questi prodotti percepisce, da un lato, il legame della materia prima utilizzata con il territorio come valore di qualità aggiunta al prodotto
stesso, espressione di genuinità e di sicurezza alimentare; dall’altro, il rispetto della
stagionalità, delle tradizioni e dei cicli biologici naturali all’interno del sistema agricolo
locale. Si tratta di prodotti con una forte componente etica, in grado di esprimere un
valore aggiunto immediatamente riconoscibile, distintivo e univoco per comunicare - e
preservare - l’identità socio-economica della collettività geografica che lo produce (più
evidente nei prodotti a denominazione di origine) e un modello di sviluppo sostenibile basato sulla salvaguardia e sulla valorizzazione delle risorse naturali oltre che sul rispetto
dell’ambiente, della salute umana e del benessere animale (più evidente nei prodotti
biologici). Accanto a questa tendenza, tuttavia, il consumatore, pur mostrandosi salutista e responsabile, non intende affatto rinunciare, nei consumi domestici, alla praticità
di piatti pronti o a “sfizi gastronomici” anche ipercalorici e, nei pasti consumati fuori
casa, alla convivialità e alla golosità, sia all’interno di un ristorante da “gambero rosso”,
sia in un economico e informale fast food.
44
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Capitolo II
I profili di responsabilità sociale da parte
del consumatore
2.1 Introduzione
Il sistema agroalimentare italiano che, con i suoi prodotti, rappresenta un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale, è da sempre legato alle tradizioni e
identità locali. L’unicità dei nostri prodotti, infatti, è stata preservata anche grazie
al fatto che la produzione alimentare non si è sovrapposta alla cultura preesistente
in un territorio dando vita a nuovi prodotti, ma si è inserita e adattata cercando di
acquisire il patrimonio culturale di quel territorio trasformandolo in prodotto agroalimentare. È proprio questo che ha reso i prodotti del “made in Italy” una sintesi
unica dell’identità, della tradizione culturale, del patrimonio naturale, dei saperi e
sapori locali come strumento di sviluppo di quel determinato territorio.
L’evoluzione degli stili di vita e la maggiore attenzione da parte di imprese
e consumatori a portare avanti comportamenti e strategie responsabili, contribuiscono a promuovere una crescita sostenibile tramite la valorizzazione delle identità
locali. Ciò contribuisce alla tutela e alla conservazione delle comunità presenti - si
pensi a tutte le azioni/strumenti a sostegno del recupero e della crescita delle aree
rurali – come anche del patrimonio culturale e ambientale.
In questa ottica, il presente capitolo offre spunti di riflessione sui nuovi bisogni del consumatore post-moderno, indagandone i principali profili. Il “moderno
consumatore” è ormai considerato dall’impresa uno degli stakeholder principali, in
quanto sceglie, acquista, utilizza e consiglia prodotti e servizi in modo consapevole.
A tal fine, l’impresa punta sempre più a differenziarsi in termini di maggiore qualità
di beni, servizi e nei rapporti con i propri clienti. Le teorie economiche classiche e
neoclassiche, figlie di una società caratterizzata dall’“indigenza”, in cui la figura
del consumatore coincideva con quella del contraente debole, vittima delle asimmetrie informative, non sarebbero più applicabili alla società attuale caratterizzata
45
dal benessere. Attualmente, infatti, il consumatore, sempre più consapevole delle proprie scelte d’acquisto, non verserebbe più in una condizione di subalternità
ma si dimostra capace di compiere scelte “razionali”, di apprezzare e “richiedere”
specifiche caratteristiche e determinati requisiti di qualità di un bene, nonché di
volerne individuare la storia e la tipicità.
Il livello di benessere che caratterizza la società occidentale, quindi, porta i
singoli individui a compiere scelte di acquisto sempre più basate su considerazioni
etico-morali e orientare l’attenzione in misura maggiore verso temi quali la qualità
della vita, la responsabilità verso le generazioni future e la condizione di povertà
dei più svantaggiati.
Di conseguenza, i consumatori svolgono un ruolo sempre più importante nella “moralizzazione dei mercati” come “guardiani del mercato”; essi, infatti, attraverso azioni che possono essere negative (boicottaggio, sciopero dei consumi, reclami,
ecc.) o positive (acquisti privilegiati nei confronti di prodotti con determinate caratteristiche, attivazione di campagne informative e lobbying nei confronti delle istituzioni pubbliche, ecc.), individuali o collettive (GAS, associazioni dei consumatori, ecc.),
“chiedono” alle imprese standard qualitativi ed etici sempre più elevati.
Dopo aver approfondito, nel precedente capitolo, le dinamiche che hanno portato all’evoluzione dei consumi, nei paragrafi che seguono vengono messi in risalto
quei macro-orientamenti al consumo che, dietro la spinta di criteri etici, sociali e
ambientali, oggi influenzano sensibilmente il comportamento dei consumatori e le
scelte di acquisto dei prodotti alimentari, finendo per tracciare un nuovo profilo di
consumatore.
Il paragrafo 2.2 affronta il tema del valore del “territorio” nell’orientare le scelte
di acquisto, ovvero la tendenza crescente ad acquistare i prodotti “tipici” dei territori e
l’attenzione alla provenienza degli stessi e per i marchi di origine (dop, docg, ecc.), fino
alle recenti tendenze a far coincidere luogo di produzione e acquisto (km 0).
L’attenzione a un’alimentazione corretta e salutare, che sta fortemente sensibilizzando gli italiani verso i requisiti nutrizionali e di qualità dei prodotti che scelgono di consumare, è il tema del paragrafo 2.3, dove si approfondiscono quei comportamenti che ne sono testimonianza: l’evoluzione delle diete alimentari, la tendenza
a controllare provenienza e origine dei prodotti, la sicurezza alimentare, ecc.
Nel paragrafo 2.4 si affrontano i comportamenti di consumo “etici”, vale a
dire l’influenza che, nel momento dell’acquisto, hanno tutta una serie di valutazioni
che attengono ai comportamenti adottati dalle imprese. Quanto pesa il consumo
etico oggi in Italia? E quali sono i valori di responsabilità dell’imprese che più di altri
sono in grado di indirizzare le scelte dei consumatori?
46
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Come si è visto, l’emergere di una figura di consumatore molto più critico
e attento rispetto alla moltiplicazione dei servizi e dei prodotti offerti sul mercato,
rappresenta una delle trasformazioni più significative dei modelli di consumo degli
italiani negli ultimi anni ed è il tema affrontato nel paragrafo 2.5: siamo di fronte
a un neo-soggettivismo del consumo soprattutto nel comparto agricolo e agroalimentare.
Infine, il paragrafo 2.6, parte dal presupposto che alcune strategie messe a
punto dalle aziende del settore agroalimentare per la salvaguardia del territorio
e, in particolare per valorizzare i contesti locali di produzione, investono anche le
fasi successive della produzione, trasformazione e vendita dei prodotti, essendo
controparte di un approccio attento e responsabile al consumo da parte degli stessi
cittadini-consumatori. Tale approccio ha assunto, oggi, varie sfaccettature tra cui la
partecipazione dei cittadini ai GAS, valida risposta alla globalizzazione del mercato
e alla standardizzazione delle produzioni da parte di quei consumatori che vogliono
esercitare una libera scelta alla cui base vi sono elementi come la solidarietà e
l’etica. Tale modalità di acquisto diretto dal produttore è, infatti, percepita dal consumatore come una soluzione a diverse esigenze, quali il recupero del territorio e
il rapporto di fiducia con il produttore, la garanzia di genuinità e la sicurezza del
prodotto, il minor impatto ambientale, la forte valenza socio-culturale del patrimonio di saperi e sapori della comunità che lo produce, oltre naturalmente alla convenience, in termini di rapporto prezzo/qualità, dovuta alla riduzione dei passaggi
e delle intermediazioni.
2.2 La riscoperta del valore della territorialità nei consumi alimentari
Negli ultimi anni si sta registrando un crescente interesse al valore del territorio nelle scelte di acquisto degli italiani. Dalla ricerca della tipicità dei prodotti,
all’attenzione crescente per “gli alimenti di casa propria”, provenienti da luoghi
sempre più vicini al consumatore, fino a essere coincidenti con la propria abitazione (gli orti in casa), allo sviluppo straordinario di nuove forme di commercializzazione (dal km 0 ai farmers’ market).
Un ritrovato rapporto con la terra contraddistingue ormai le scelte di un numero crescente di italiani. È come se il mangiare stesse tornando a essere, per
molti versi, un atto agricolo in senso proprio, dietro il quale si cela la riscoperta di
un mondo rurale, a lungo dimenticato e abbandonato a se stesso, fino a ieri sino-
47
nimo di arretratezza, oggi sempre più metafora di qualità; non solo del vivere e del
mangiare bene, ma anche di tutto un sistema di valori e relazioni, di cui il legame
con il territorio rappresenta l’elemento distintivo e fondante. La qualità del territorio diventa, pertanto, un valore da incorporare nei prodotti e nei servizi.
Per avere un’idea, basti solo considerare che, secondo l’indagine Censis/Coldiretti (2010), i tre quarti degli italiani (74,5%) al momento di acquistare un prodotto alimentare, si fanno condizionare dal fatto che questo sia prodotto nella propria zona (al
Sud e nelle Isole la percentuale sale addirittura al 78,8%) e, in seconda battuta, dal fatto
che sia stato coltivato in luoghi e secondo procedure rispettose dell’ambiente.
Ancora, il 40,1% afferma di acquistare spesso frutta e verdura direttamente dal
produttore, anche attraverso i mercati dove spesso sono presenti produttori diretti, mentre sono un quarto (il 29%) gli italiani che dichiarano di acquistare regolarmente prodotti
di origine protetta, mettendo così in primo piano quella ricerca di qualità che trova la
sua ragione d’essere nei colori, nei sapori e negli odori della terra in cui è stato prodotto.
Il 54% dei rispondenti preferisce, ove possibile, acquistare prodotti alimentari locali e artigianali, a cui si aggiunge un 12% orientato all’acquisto di prodotti “di marca”
italiani; in altri termini, il “made in Italy” non è un fenomeno che si rispecchia solo nel
settore tessile, ma anche nelle abitudini degli italiani a tavola.
Insomma, sono molti gli italiani che, spinti da motivazioni diverse e con comportamenti altrettanto articolati, sembrano esprimere, con le loro scelte, un apprezzamento crescente rispetto al valore territorio, premiando quei prodotti e quelle modalità di
acquisto in grado di garantire un rapporto ancora più diretto. Le motivazioni di questo
rinnovato rapporto con la terra sono tuttavia più complesse di quanto potrebbe apparire
e destinate sicuramente a rivoluzionare le abitudini alimentari e di acquisto degli italiani,
molto più di quanto alcune esperienze un po’ alla moda lascerebbero intendere (si pensi
all’enfasi sulle esperienze dei GAS o dei farmers’ market).
A ben vedere, dietro quest’attenzione crescente che gli italiani mostrano per
la terra, si nascondo diverse motivazioni, ovvero:
•
la crescente ricerca di “qualità alimentare”, che oggi è sempre più sinonimo
di genuinità e freschezza degli alimenti, aspetti che la prossimità al territorio di coltivazione e produzione possono ben garantire. Se solo fino a pochi
anni fa la tendenza era di avere frutta e verdura in ogni luogo e stagione oggi,
l’attenzione alla provenienza degli alimenti, dalla carne, al pesce, alla frutta
sta spingendo sempre più in direzione di una riscoperta del rispetto dei cicli
della natura, della stagionalità e, conseguentemente, anche dei luoghi in cui
le produzioni sono effettuate;
•
la maggiore attenzione per la tipicità e l’autenticità del prodotto, che signifi-
48
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
ca la capacità di racchiudere in un bene alimentare la storia e le peculiarità
di un territorio, la sua cultura e le sue tradizioni;
•
la “connotazione relazionale” che assume in molti casi l’atto d’acquisto: la
scelta di cosa mangiare sta diventando sempre più per il consumatore un atto
che va oltre quello del mero acquisto. Dalle strade del vino, dell’olio, ai farmers’ market, intorno al consumo alimentare si stanno sviluppando percorsi
ed esperienze sempre più strutturati, che testimoniano la voglia di entrare in
relazione con il mondo contadino, di accrescere le proprie conoscenze, di fare
un’esperienza radicalmente diversa dalla quotidianità lavorativa;
•
la valorizzazione della ruralità in generale, di un mondo contadino dimenticato, che sta tuttavia tornando in auge, perché portatore di valori – l’attenzione alla natura e all’ambiente, il valore del passato, della memoria, della
tradizione, la solidità delle relazioni microcomunitarie – oggi dispersi, ma
oggetto di nuove attenzioni da parte di una società che forse, dopo tanti anni,
sente la voglia di guardarsi dentro e, in particolare, nel suo passato;
•
ultimo, ma non meno importante, la ricerca di soluzioni che consentano al
consumatore di contenere i costi, tramite l’acquisto diretto nelle fattorie, anche in gruppi organizzati, o nei mercati dove sono presenti gli agricoltori.
Ovviamente, rispetto a tali cambiamenti intervenuti sul fronte della domanda, non va sottovalutato come tutto il mondo dell’agricoltura italiana sia interessato
ormai da qualche anno da un forte processo di ristrutturazione interna, che ha
portato non solo a un decisivo ammodernamento delle modalità di organizzazione
e gestione della produzione, ma soprattutto di innovazione nella distribuzione. La
crescita dei punti vendita gestiti direttamente dai contadini, la pronta risposta che
le imprese hanno fornito allo svilupparsi di modalità nuove di approvvigionamento,
direttamente nei luoghi di produzione, mira a soddisfare la ricerca di prezzi più
bassi da parte dei consumatori; tale esigenza, resa del resto necessaria dalla forte
dinamica inflattiva registratasi negli ultimi anni nei mercati alimentari, ha realizzato importanti side benefits, inducendo produttori e consumatori a farsi parte attiva
per intervenire sui costi di filiera che, in qualche caso, moltiplica fino a sette volte
per il consumatore quanto è stato pagato alla fonte.
Volendo passare in rassegna le diverse iniziative di filiera corta oggi presenti
sul territorio italiano22, l’elenco appare ampio, andando dalle realtà dei farmers’
market (circa 600 in tutta Italia tra mercati settimanali, bisettimanali e periodici),
o della vendita diretta (dalle 60 alle 100 mila imprese esclusi gli agriturismo), alla
22 Carlo Hausmann, Seminario INEA sul consumo socialmente responsabile (Aprile 2010).
49
produzione partecipata, sempre più in espansione, caratterizzata dalla figura ibrida
del partner/cliente. Altre forme di filiera corta includono la vendita on-line (soprattutto attraverso i GAS), l’autoraccolta e la vendita diretta, che sta attraversando
una fase di rapida crescita e consolidamento, dal momento che vi ricorre ormai il
41% degli italiani (con punte del 49% nel Sud e Isole) per l’acquisto di frutta fresca
e verdura.
In generale, le varie opzioni di filiera corta sono in grado di ricondurre a un
rapporto diretto, stretto e duraturo nel tempo, tra produttore e consumatore che,
nonostante la presenza dei mercati rionali, si è andato perdendo con il passare
dei decenni. Oltre a questo, si generano benefici di tipo economico e ambientale: i
primi sono a vantaggio del produttore agricolo, il quale potrà avvalersi di una maggiore quota del valore aggiunto visto che non ci sono ulteriori passaggi intermedi
prima che il prodotto arrivi al consumatore; i secondi sono a vantaggio dell’intera
comunità, considerando le mancate emissioni di CO2 prodotte durante le fasi di
trasporto tra uno stadio e l’altro della filiera.
In questo senso, è interessante capire in maniera più specifica quali siano
i fattori che spingono il consumatore ad acquistare prodotti locali. Treagar e Ness
(2005) si sono posti la stessa domanda nel contesto inglese, scoprendo che l’interesse nell’acquisto di prodotti locali è da ricondurre a fattori di tipo attitudinale,
contestuale e demografico. Per quanto riguarda il primo tipo, è necessario chiarire
tre punti fondamentali:
1.
l’interesse per la filiera alimentare da parte del consumatore non è dovuto
tanto ai potenziali rischi per la salute che si sono verificati negli ultimi anni
quanto, piuttosto, ai problemi di competitività e maggiore vulnerabilità a cui
sono esposti i piccoli produttori e rivenditori locali;
2.
il mondo rurale gode di una generale simpatia da parte dei consumatori anche grazie all’enfasi posta dai media sulle varie iniziative di vendita diretta;
3.
al momento della scelta del prodotto si pone maggiore attenzione alle questioni etiche e ambientali, pur considerando egualmente importante la convenienza (prezzo), la qualità e l’aspetto del prodotto stesso.
Insomma, tramite strumenti e modalità di incontro tra domanda e offerta,
quali quelle cresciute all’insegna del modello di filiera corta, «si riscopre il rapporto con il territorio, la relazione reale, non mediata, con chi alleva gli animali, coltiva
la terra, ne raccoglie i frutti. Quando poi l’azienda agricola è specializzata nella
produzione biologica, l’approvvigionamento diviene sovente occasione per comprendere i metodi di produzione alimentare, la relazione esistente tra produzione
agricola e la salvaguardia delle risorse naturali, per valorizzarne la tradizione e
50
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
le specificità delle produzioni tipiche, per riscoprire la relazione tra stagionalità
e alimenti, per evidenziare il lavoro dell’agricoltore nel rispetto dell’ambiente, per
favorire la biodiversità. Si realizza così, in trasparenza a queste apparenti modalità
arcaiche quella sinergia tra produttore e consumatore, tra utente e produttore, che
rappresenta forse la più avanzata delle teorizzazioni di un marketing post crescita
(Fabris, 2010)».
A conclusione dell’analisi, appare utile citare l’indagine di Eurobaromentro
2008 sui prodotti biologici23, dalla quale emergono quattro comportamenti tipo che
orientano la scelta dei consumatori verso questi prodotti: convinti (26%), responsabili (27%), occasionali (30%) e indifferenti (17%) (Fig. 2.1). Tali profili, infatti, sembrano adattarsi anche per quanto riportato relativamente ai prodotti tipici legati al
territorio.
Figura 2.1 – Il consumo biologico
Fonte: Eurobarometro 2008 - Indagine Ethos
23 Come evidenziato nel paragrafo 1.3.3, i consumi di prodotti biologici risultano in continua crescita, in
controtendenza rispetto a quanto avviene, in questi anni di crisi, per gli altri prodotti agroalimentari
e per altri settori dell’economia.
51
In conclusione, quello che diventa importante è la valorizzazione del sistema
territoriale come sommatoria dei valori portati da tutti gli attori della filiera a beneficio sia del consumatore sia di tutti gli stakeholder che operano in quel territorio.
Le produzioni legate al territorio diventano, dunque, uno strumento per la diffusione di modelli alternativi di consumo legati non soltanto alla qualità e sicurezza
alimentare, ma anche alla tipicità e al territorio, alla stagionalità dei prodotti, al
rapporto diretto con i produttori, in un ottica di affermazione di valori etici e sociali.
Molte identità territoriali, infatti, sono un’entità complessa da custodire non solo
preservando le tradizioni e tutelando le produzioni agroalimentari, ma presidiando
e salvaguardando il territorio in cui essi nascono.
2.3 Il recupero delle tradizioni alimentari
La globalizzazione e il cambiamento dei ritmi di vita hanno facilitato, negli
ultimi decenni, l’introduzione di abitudini alimentari diverse da quelli dei nostri padri, ma soprattutto meno equilibrate. Oggi, l’attenzione dei consumatori è orientata,
da un lato, verso una crescente richiesta di soluzioni che rispondano all’esigenza
di maggiore velocità in termini di approvvigionamento, di preparazione e di trasferibilità, con comportamenti di consumo differenziati, come ampiamente descritto nel primo capitolo di questo lavoro. Dall’altro, le migrazioni a livello mondiale
e le contaminazioni culturali hanno di fatto modificato profondamente il rapporto
dell’uomo con il cibo.
Il cibo, inteso per secoli come elemento fondamentale per la sopravvivenza,
si è evoluto sino a trasformarsi in un vero e proprio “veicolo culturale”, rivestito di
connotazioni conviviali e religiose, simbolo di identità dei popoli all’interno delle
tradizioni culinarie; al tempo stesso, il cibo ha assunto valenze edonistiche ed estetiche, con l’industria alimentare che si è adoperata a preservare (e a esaltare) il più
possibile, nei processi di trasformazione e confezionamento, le caratteristiche nutrizionali proprie del prodotto. Di recente, poi, si assiste alla scoperta di nuovi principi, frutto di ricerche nel campo della chimica, della biologia e della genetica, che
danno origine a nuovi prodotti industriali arricchiti da integratori vitaminici, omega
3, probiotici, antiossidanti. A ogni lancio è forte la speranza che queste sostanze
possano risolvere i problemi di salute, senza sforzi eccessivi; ma la mancanza di informazioni per identificare la sostanza o l’assenza di prove che indicano un’effettiva
utilità per il mantenimento o il miglioramento delle funzioni del corpo, come per le
“proprietà antiossidanti”, hanno indotto l’Autorità europea per la sicurezza alimen-
52
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
tare (EFSA), come prevede la regolamentazione UE del settore delle dichiarazioni
nutrizionali e sanitarie a respingere in molti casi le indicazioni nutrizionali sulle
etichette dei prodotti alimentari. D’altra parte, se salute e alimentazione sono considerati dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) due diritti fondamentali
dell’uomo, strettamente correlati tra loro, il progressivo allungarsi della vita media
rende sempre più necessario trovare modalità per garantire una lunga e sana esistenza a tutti gli individui. E’ ovvio che senza una buona salute è difficile ottenere
una soddisfacente qualità di vita e la buona salute non dipende solo dalla medicina,
ma soprattutto dall’adozione di un migliore stile di vita che sia equilibrato, da una
corretta alimentazione e da una costante attività di prevenzione24.
Tutto ciò ha portato alla modellizzazione e alla definizione di nuovi e diversi stili di vita e alimentari influenzando, di conseguenza, anche i fattori produttivi
ed economici collegati; il dover assicurare igiene, sicurezza e qualità dei prodotti
alimentari segue un processo che coinvolge tutti gli attori della complessa catena
alimentare: la produzione, la lavorazione, il trasporto, la vendita al dettaglio e la
ristorazione.
Così, la diffusione della ristorazione collettiva (tavole calde, mense) o l’abitudine ad acquistare prodotti industriali già pronti all’uso, sollecitata da esigenze
di lavoro e da mancanza di tempo, rappresentano un esempio di una nuova forma
di “libertà” che consente di poter mangiare quello che veramente piace, ma non
senza soddisfare specifici elementi che garantiscono al consumatore un consumo
sano, quali: il rispetto degli standard di sicurezza alimentare e igienico-sanitaria
nella produzione degli alimenti; il giusto apporto nutrizionale collegato all’uso di
pasti fuori casa e il miglioramento della qualità dei prodotti già pronti all’uso; la
disponibilità di prodotti per particolari tipi di alimentazione legata, ad esempio a
problemi di diabete o celiachia.
Dunque, l’impiego della tecnologia in campo alimentare – che svolge un ruolo importante poiché rende disponibile un’ampia gamma di prodotti che altrimenti
il consumatore non riuscirebbe ad avere -, la crescita del commercio internazionale e l’allungarsi della filiera hanno ulteriormente allontanato le persone da ciò che
mangiano, rendendo necessari nuovi percorsi di costruzione della fiducia nel cibo,
24 La UE sostiene in tutti gli Stati membri, nell’ambito della Strategia europea 2008-2013 (decisione
1350/2007/CE) per i problemi di salute connessi alla nutrizione, al sovrappeso e all’obesità, misure
che prevedono campagne per promuovere stili di vita e un’alimentazione più sana. L’alimentazione
inadeguata è una delle principali cause del sovrappeso e dell’obesità di cui soffrono ben 21 milioni
di cittadini comunitari, di cui 5 milioni, secondo l’OMS, sono bambini; in Italia, il 9,8% degli adulti è
obeso e secondo il Ministero della salute più di un bambino italiano su tre di età compresa tra i 6 e
i 10 anni è in soprappeso (Giuca, 2010b).
53
nonostante un’intensa attività legislativa in materia di sicurezza e qualità alimentare a livello europeo (Sassatelli, 2010).
La gente “vuole mangiare più sano” e vuole sapere quello che mangia. Le
esigenze crescenti dei consumatori in materia di sicurezza alimentare, trasparenza e rintracciabilità dei prodotti alimentari, si sono tradotte nelle attuali, severe
regolamentazioni comunitarie, con molteplici norme specifiche e settoriali (Giuca, 2010). In quest’ottica, l’etichettatura, in base alla quale i produttori alimentari
hanno l’obbligo per legge di indicare sulla confezione del prodotto le sue caratteristiche organolettiche, gli ingredienti utilizzati e altre informazioni nutrizionali, rappresenta un importante e imprescindibile strumento di informazione sulle
caratteristiche dei prodotti alimentari. Affinché il consumatore possa compiere
una scelta informata è stata recentemente accolta dal Parlamento europeo la proposta che prevede di estendere l’indicazione obbligatoria del Paese di origine, oggi
in vigore solo per alcuni alimenti, a tutti i tipi di carne, pollame, prodotti lattierocaseari e altri prodotti a base di un unico ingrediente e nel caso in cui carne, pollame e pesce sono utilizzati come ingrediente in prodotti alimentari trasformati25.
La maggior parte dei consumatori europei, infatti, vorrebbe conoscere l’origine26
dei prodotti alimentari che acquista, come risulta dalla consultazione pubblica
sul tema della qualità dei prodotti agricoli nella politica comunitaria contenuta
nel Libro Verde (CE, 2008)27. Al riguardo, secondo le ricerche commissionate dalla
Food Standard Agency (FSA)28, i consumatori sarebbero non solo disorientati dalle
attuali indicazioni in etichetta circa l’origine dei cibi, ma addirittura ingannati proprio dall’assenza dell’indicazione dell’origine stessa. L’ente di ricerca Oxford Evidentia29 ha scoperto che la maggioranza dei consumatori ritiene che il “Paese di
origine” si riferisca al posto in cui il prodotto è stato prodotto, coltivato o cresciuto
(nel caso di animali). In realtà, con “Paese di origine” di un prodotto trasformato si
allude normalmente al luogo in cui è avvenuta l’ultima trasformazione30. Un altro
25 Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 16 giugno 2010 sulla Proposta di regolamento
del Parlamento europeo e del Consiglio sulla fornitura di informazioni alimentari ai consumatori
presentata dalla Commissione (COM 2008/40 del 30 gennaio 2008).
26 L’obbligo di etichettatura di origine nell’UE riguarda carne bovina, miele, olio d’oliva, prodotti della
pesca, frutta e verdure fresche, uova fresche e latte fresco pastorizzato. Dal 1° luglio 2010 è obbligatoria l’indicazione del luogo di coltivazione o allevamento per gli ingredienti dei prodotti biologici,
unitamente al logo bio UE.
27 Cfr. http://ec.europa.eu/agriculture/quality/policy/opinions_en.htm.
28 Cfr: http://www.food.gov.uk.
29 Cfr: htpp://www.oxfordevidentia.co.uk.
30 Cfr. regolamento CE n. 450/2008 (nuovo codice doganale).
54
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
aspetto interessante della ricerca riguarda il fatto che i consumatori spesso non
riescono a leggere ed interpretare correttamente tutte le informazioni che vengono loro fornite dall’etichetta e ciò genera “confusione, fraintendimenti e incertezza,
che a loro volta provocano scetticismo e sfiducia nel cibo”. Sempre in base alle
ricerche inglesi, i consumatori chiederebbero l’indicazione dell’origine di provenienza ben visibile, e chiaramente leggibile, in modo da far capire dove il prodotto
sia stato raccolto/cresciuto. Solo l’11% dei consumatori intervistati avrebbe affermato che cerca informazioni generali sulle confezioni, mentre ben il 52% richiede
che sia esplicitato sull’etichetta il Paese di provenienza; i consumatori, inoltre,
percepiscono gli alimenti di origine locale come più freschi rispetto ad altri di
provenienza esterna.
L’acuta sensibilità dei consumatori rispetto alle caratteristiche qualitative
è fortemente cresciuta nel tempo ed è legata ai contenuti nutrizionali e salutistici
degli alimenti, oltre agli aspetti igienici e di sicurezza sanitaria divenuti ormai dei
pre-requisiti di qualità. Nel tempo, la società ha richiesto all’agricoltura prodotti
di sempre maggiore qualità a basso impatto ambientale e un utilizzo razionale
delle risorse naturali e la loro valorizzazione nel processo produttivo. Ne sono
un esempio la richiesta crescente da parte dei consumatori di prodotti biologici,
fenomeno sociale ormai consolidato, ma anche di tutti quei prodotti tipici locali,
della tradizione contadina, delle microfiliere o acquistati nei farmers’ market. Si
può dire, addirittura, che una “carica di nostalgia del passato” ispira, negli ultimi
anni, il consumatore di questi prodotti che ricevendo dalle mani dell’agricoltore
il cestino della frutta raccolta nel suo campo riesce a riscoprire i sapori naturali
dei prodotti, a verificare e partecipare alla lavorazione, ad accorciare la filiera, ad
aumentare la redditività per il produttore e a ridurre l’impatto ambientale della
circolazione delle merci.
Ecco, allora, che oggi il cibo acquisisce una nuova e differente chiave di
lettura volta al recupero culturale delle tradizioni e delle identità territoriali che
altrimenti andrebbero perse; le antiche tradizioni sembrano essere tornate di
moda fra i consumatori che le associano alla genuinità, alla qualità del cibo e alla
propria salute. Il cibo ottenuto attraverso coltivazioni biologiche e tradizionali e il
recupero di antiche ricette garantisce ai consumatori la possibilità di recuperare
ritmi di vita più sereni e di riappropriarsi del territorio. È necessario, quindi, proteggere le varietà territoriali locali, anche nell’ottica di una maggiore conoscenza
dell’unicità di ogni luogo in termini di tradizioni, trasmettere la conoscenza e il
“saper fare” nella preparazione dei cibi ma, soprattutto, comunicare tutti questi
valori al consumatore.
55
2.4 Il valore etico del consumo
Nelle società economicamente più sviluppate il consumo è il fenomeno che
più di altri caratterizza la vita sociale degli individui. Il consumo soddisfa bisogni individuali e utilitaristici dell’uomo e, allo stesso tempo, svolge un ruolo di creazione
e mantenimento delle relazioni sociali, assurgendo i beni di consumo a strumenti
simbolici di appartenenza a un gruppo sociale (De Luca, 2009). Negli ultimi anni,
tuttavia, si sono manifestati approcci più critici verso le pratiche di consumo, determinati da una crescente consapevolezza della non neutralità dell’atto di acquisto e
dell’esistenza di nuovi doveri sociali accanto al semplice perseguimento di utilità e
piacere. Tra i fattori che hanno favorito lo sviluppo di una nuova coscienza dei consumi vi è sicuramente una perdita di fiducia nelle imprese, provocata dal verificarsi
di disastri ambientali (Seveso, Chernobyl), di crack finanziari fraudolenti (Enron,
Parmalat) e di episodi di violazione di fondamentali diritti umani (Nike). Inoltre il
flusso di informazioni, grazie alle nuove tecnologie comunicative, è divenuto globalizzato, consentendo una maggiore conoscenza e sensibilità verso problematiche
inerenti l’umanità nel suo complesso (cambiamenti climatici, organismi geneticamente modificati, guerre e carestie, fenomeni di allarme per la salute generale
quali Sars, BSE, influenza aviaria). I consumatori non sono più esclusivamente destinatari di flussi informativi unidirezionali veicolati dalla comunicazione commerciale, ma diventano a loro volta in grado di inviare segnali al mondo della produzione, segnali che facciano conoscere la loro attenzione ai temi della salvaguardia
ambientale, della giustizia, dei diritti umani e a tutto ciò che riguarda il contenuto
etico delle attività commerciali.
Tabella 2.1 - Cosa deve garantire un’azienda per essere considerata etica?
Difesa ambiente
Rispetto leggi
Qualità dei prodotti
Rispetto diritti lavoratori
Trasparenza per consumatore
Prezzo equo
Difesa deboli
18,6%
17,9%
15,4%
22,2%
15,3%
5,5%
4%
Fonte: rilevazione Episteme, 2009
Il consumo definito di volta in volta “critico”, “responsabile”, “consapevole”,
abbraccia una modalità di scelta del bene che prende in considerazione gli effetti
sociali e ambientali del ciclo di vita del prodotto e si discosta dal semplice consumo
56
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
utilitaristico, perché valuta oltre a prezzo e qualità altre componenti del prodotto e,
in particolare, gli effetti della sua produzione e commercializzazione sull’ambiente
e sulle persone. L’attenzione del soggetto nell’atto di acquisto è quindi rivolta alle
modalità di produzione del bene, alle caratteristiche del soggetto che lo produce
e allo smaltimento del prodotto, privilegiando, di conseguenza, processi di produzione e fasi di post-consumo meno inquinanti, che non comportino un depauperamento delle risorse naturali e lavorazioni in cui non siano stati violati diritti umani o
norme a tutela delle condizioni di lavoro, quali quelle relative a lavoro nero, impiego
di minori, orario, salute e prevenzione.
Si viene così delineando un nuovo modello di consumatore-cittadino, che
attribuisce alle sue scelte economiche una valenza diversa e ulteriore rispetto al
consumatore-cliente. Il concetto di qualità di beni e servizi per tali consumatori
assume una veste nuova e finisce per comprendere anche qualità etica del bene
e responsabilità sociale dell’impresa produttrice: secondo un’indagine Episteme
condotta nel 2009 (Tab. 2.1), i consumatori legano l’etica dell’impresa soprattutto
alla legalità, al rispetto del diritto dei lavoratori e alla difesa dell’ambiente (De Luca,
2009).
Il sistema agroalimentare, per alcune intrinseche peculiarità, più di altri settori è passibile di implicazioni di carattere etico. Le motivazioni sono rinvenibili, in
letteratura, in diverse argomentazioni, di cui si riportano quelle più significative:
• il cibo soddisfa un bisogno primario ed è maggiormente deperibile rispetto
ad altri, pertanto, si presta a operazioni quali quelle del Progetto Last Minute Market per evitare sprechi e soddisfare i meno abbienti (www.lastminutemarket.org);
•
il cibo è cultura e ha un alto valore simbolico. La conservazione dei “giacimenti del gusto” è attaccamento alle proprie radici, da difendere dalla massificazione del gusto alimentare, come testimoniato dalla nascita di movimenti quali Slow Food (www.slowfood.it);
•
gli scandali alimentari (mangimi alle farine alimentari, polli agli antibiotici,
ecc.) hanno reso rischioso il consumo di cibo e acuito la necessità di garantire in tutta la filiera elevati standard di igiene e sicurezza;
•
il consumatore è sempre più interessato ai metodi di produzione e alle condizioni di vita degli animali allevati;
•
l’uso di bioteconologie e in particolare degli OGM per scopo alimentare ha
sollevato questioni etiche relative alla necessità di applicare il principio di
precauzione e alle ripercussioni sulla salute umana, sull’ambiente e sulle
economie dei Paesi poveri (Cappellotto, 2001);
•
il ricorso al lavoro minorile è correlato alla specializzazione delle esportazio-
57
•
•
•
ni nel settore primario (Becchetti, Trovato, 2002);
gli alimenti costano poco quindi considerazioni etiche possono superare
quelle economiche, anche per consumatori con vincoli di spesa più stringenti;
il cibo si presta più di altri beni a operazioni di marketing territoriale;
il settore agricolo è quello più distorto nel commercio mondiale: il sostegno
dell’agricoltura intensiva nei Paesi sviluppati crea povertà nei Paesi in via di
sviluppo e blocca l’accesso ai mercati internazionali (Bianchi, 2003).
2.4.1 I confini del consumo etico e la responsabilità sociale di impresa
Il consumo responsabile mostra diverse sfumature: dalla scelta di acquistare solo specifiche categorie di prodotti o marche in funzione del grado di approvazione verso la condotta socialmente responsabile dell’azienda al non consumo, che
assume il significato di “sanzione” verso quei prodotti o quelle marche non coerenti
con il proprio sistema di valori.
Il consumo responsabile, pertanto, indaga tutte le caratteristiche del prodotto e rappresenta una naturale evoluzione della pratica del consumo critico, basato non tanto nel rispetto di criteri predeterminati ma nell’abitudine di porsi delle
domande prima di scegliere un prodotto.
I criteri del consumo responsabile investono la dimensione etico-sociale e
quella dell’impatto ambientale, in particolare:
•
le condizioni dei lavoratori: vengono evitate le produzioni in Paesi in cui non
sono garantiti i diritti dei lavoratori in termini di condizioni di lavoro, orari,
salari o che non assicurano un giusto compenso ai produttori delle materie
prime e agli altri soggetti della filiera;
•
le politiche ambientali: vengono evitate le aziende impegnate in progetti ritenuti dannosi per l’ambiente, mentre vengono preferite quelle che hanno
ottenuto certificazioni che attestano una gestione aziendale a basso impatto
ambientale;
•
il ciclo produttivo: vengono evitati prodotti e imballaggi la cui produzione richiede grandi consumi di energia o risulta altamente inquinante;
•
l’imballaggio: vengono preferiti i prodotti alla spina o sfusi o comunque con
pochi imballaggi, per ridurre il consumo di risorse utilizzate per produrli ed
evitare lo smaltimento di rifiuti;
•
la stagionalità: vengono preferite frutta e verdura di stagione per evitare il
58
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
consumo di energia dovuto alla coltivazione in terra e al trasporto da aree
lontane;
•
la provenienza: vengono preferite i prodotti locali o di aree limitrofe, per sostenere la filiera locale e ridurre il consumo di energia e l’emissione di gas di
scarico causato dai trasporti.
Al riguardo, in Italia, almeno 3 consumatori su 10 ritengono di dover essere
informati dei comportamenti scorretti delle imprese riguardo alla sicurezza e ai
diritti dei lavoratori, a forme d’abuso di potere, a eventuali attività condotte nel terzo mondo, all’impatto delle produzioni sull’ambiente e all’utilizzo di OGM; inoltre,
almeno 2 consumatori su 10 vogliono essere informati di comportamenti illeciti e
fraudolenti e dell’eventuale uso di etichette e messaggi ingannevoli (Unioncamere,
2004).
Il modello del consumo responsabile, tuttavia, non ha confini univoci e non
è facile stabilirne il numero di praticanti. Nel 2000, il 58% dei cittadini europei riteneva che il mondo economico non fosse abbastanza responsabile sul piano sociale,
il 25% degli intervistati giudicava molto importante, al momento dell’acquisto, la
responsabilità sociale e l’impegno dell’impresa produttrice e il 44% si dichiarava
disponibile a pagare di più per acquistare prodotti socialmente ed ecologicamente
connotati 31.
Per quanto riguarda la tendenza in Italia, secondo un’indagine condotta nel
2008 dalla società Ethos dell’istituto Lorien Consulting, il 69 % degli intervistati dichiara di aver compiuto almeno un acquisto socialmente responsabile negli ultimi
mesi, contro il 31% rilevato dallo stesso istituto nel 2003 e il 59% nel 2005, rivelando
una fisiologica crescita del fenomeno. Una rilevazione realizzata nello stesso periodo dalla società Episteme, descrive un consumatore disposto a pagare di più per un
prodotto qualora la produzione rispetti l’ambiente (per il 23,4% degli intervistati) o
qualora vengano rispettati i diritti dei lavoratori che lo producono (16,5%). La stessa
indagine rivela che, se nel 2008 tra più marche il 56% sceglie quella che difende
l’ambiente, il dato nel 2009 cresce al 63%.
I consumatori costituiscono uno degli stakeholder delle imprese, insieme
a dipendenti, azionisti, fornitori, investitori, istituzioni, comunità locale e territorio,
capaci di condizionare in modo incisivo la decisione di un’impresa di adottare scelte
imprenditoriali socialmente responsabili. Il Libro verde della Commissione europea
(CE, 2001) si muove in questa direzione, sostenendo che «il consumatore-cittadino,
stakeholder fondamentale del sistema di consumo, è uno dei più importanti sog31 Indagine CSR Europe 2000.
59
getti di stimolo e controllo alla RSI; può infatti esercitare una pressione importante:
dall’indignazione alla denuncia, dal consumo responsabile al boicottaggio». La RSI
rappresenta, infatti, una leva di differenziazione ormai irrinunciabile per l’imprenditore che voglia considerare le molteplici richieste del mercato verso un’agricoltura che garantisca adeguati livelli di protezione sociale e rispetti l’ambiente, che
contribuisca allo sviluppo sostenibile del territorio e fornisca cibi sicuri e di qualità.
In Italia, la percezione dei consumatori rispetto alle aree aziendali sulle quali
la responsabilità sociale d’impresa dovrebbe agire è stata efficacemente indagata
dall’istituto Lorien Consulting; dopo il profilo etico-morale, come si evince dalla
tabella 2.2, i rapporti con il personale e la gestione aziendale rappresentano gli ambiti che i consumatori vorrebbero maggiormente interessati da azioni socialmente
responsabili da parte dell’impresa stessa.
Tabella 2.2 - Percezione rispetto alle aree aziendali sulle quali la responsabilità
sociale d’impresa dovrebbe agire
Profilo Etico-Morale
40,3%
Attenzione ai bisogno della società
18,8%
Responsabilità
Onestà, correttezza,eticità
Rapporti con il personale
9,8%
8,3%
25,6%
Tutelare i dipendenti
3,2%
Rispettare il personale
12 %
Tutelare diritti dei lavoratori
2,2%
Attenzione ai bisogni dei dipendenti
1,8%
Gestione aziendale
25,2%
Creare occupazione
22,6%
Buona gestione
13,5%
Rispettare le esigenze dei clienti
6%
Rispetto delle normative
20,7 %
Rispetto dell’ambiente
11,6 %
Rispetto delle leggi
Rispetto delle norme per la sicurezza dei dipendenti
7,9 %
3%
Produzione
9,4 %
Attenzione alla produzione
5, 2 %
Fornire un buon prodotto
4,5 %
Fonte: Istituto Lorien Consulting, rilevazione 2006 per Altis – Osservatorio Operandi su base cittadini
60
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
2.4.2 La sensibilità ambientale nel consumo agroalimentare
Secondo le tesi sostenute a livello internazionale, il consumo del mondo sviluppato è globalmente insostenibile e non sarebbe possibile replicare nei Paesi in
via di sviluppo i livelli e il modello di consumo dei Paesi industrializzati. L’economia
del mondo, come più volte dimostrato dall’impronta ecologica nei principali studi
di settore, non può crescere nello stesso modo in maniera illimitata. L’evidenza dei
rischi per l’ambiente, la consapevolezza dell’uso insostenibile delle risorse e una
generale presa di coscienza delle conseguenze dell’azione umana sull’ambiente,
hanno portato la collettività, negli ultimi venti anni, a una crescente sensibilità per
le questioni ambientali e per i temi dello sviluppo sostenibile32.
Anche le istituzioni pubbliche promuovono lo sviluppo sostenibile attraverso
il controllo delle esternalità negative provocate dall’attività umana sull’ambiente; i
sistemi economici industrializzati hanno solitamente utilizzato gli strumenti normativi, ma negli ultimi anni si assiste a un’inversione di tendenza e gli strumenti di
natura economica sembrano ottenere maggiore importanza. Uno degli strumenti
individuati a livello mondiale e comunitario per indirizzare il modello produttivo verso un modello di sviluppo sostenibile, è rappresentato dalla certificazione ambientale volontaria, basata sul comportamento “proattivo” delle imprese, stimolate dal
mercato a migliorare le prestazioni ambientali dei propri prodotti e servizi. I consumatori dei Paesi a più alto reddito, infatti, sono sempre più consapevoli del degrado
ambientale provocato dagli attuali sistemi produttivi e, essendo potenzialmente in
grado di sollecitare comportamenti maggiormente responsabili delle aziende, si
orientano verso prodotti a più basso impatto ambientale, scegliendo quelli garantiti
dalla certificazione di un soggetto terzo e indipendente. Se il consumatore rappresenta, quindi, un elemento chiave nell’insostenibilità dell’attuale sistema economico, può altresì diventare il punto di forza di un sistema completamente diverso,
attraverso l’esercizio della propria sovranità di consumatore e svolgendo una funzione attiva d’indirizzo produttivo.
In tal modo s’instaura tra le imprese una nuova forma di concorrenza, basata non più sulla sola competizione di prezzo (price competition) ma anche sulle
32 Nel 1987, con il documento dal titolo “Our Common Future”, elaborato nell’ambito dell’ONU, dalla
World Commission on Environment and Development, presieduta da G.H. Brundtland, si giunse ad
una definizione di sviluppo sostenibile come quel «processo attraverso il quale è possibile soddisfare le necessità delle generazioni presenti senza compromettere le necessità delle generazioni
future». Negli anni Novanta si assiste alla creazione dell’International Society for Environmental
Ethics (ISEE), che partecipa al congresso dell’ONU sull’ambiente e sullo sviluppo a Rio de Janeiro
nel ’92: inizia, così, l’epoca dello sviluppo sostenibile.
61
scelte sociali e ambientali che possono contribuire a differenziare notevolmente un
prodotto da un altro (non price competition). In tal senso, i parametri per la scelta
di un prodotto c.d. “verde” si basano sull’impatto ambientale della produzione e si
riferiscono tanto al prodotto quanto al comportamento del produttore.
I prodotti “verdi” sui quali si orienta l’opzione di acquisto del consumatore
responsabile ricoprono una vasta gamma di offerta; tra.questi, si possono senz’altro annoverare: i prodotti che riducono l’inquinamento e/o che risparmiano energia
nell’uso o nella produzione; i prodotti riciclabili o riutilizzabili e quelli realizzati con
materiali riciclati; i prodotti con meno packaging; i prodotti con meno emissioni
dannose; i prodotti realizzati con materiali naturali e biologici; i prodotti realizzati
con meno materie prime; i prodotti certificati come green; i prodotti non testati su
animali.
Il modello prevalente di consumo “verde” si ispira alla logica dell’“usa e getta”, del monouso e quindi del sovra-sfruttamento delle risorse, con un’attenzione
particolare agli imballaggi e al loro smaltimento33.
In Europa, l’indagine svolta nel 2008 da Boston Consulting group per indagare la sensibilità ambientale dei consumatori, ha rilevato che secondo il 75% degli
intervistati le aziende dovrebbero fornire informazioni sull’impatto ambientale delle
loro attività, dovrebbero avere una buona tracciabilità ambientale (73%) e dovrebbero offrire prodotti “verdi” (66%); il 34% degli intervistati, inoltre, ha dichiarato di
ricercare sistematicamente prodotti “verdi” e il 24% ha ritenuto accettabile pagare
un prezzo maggiore per questi prodotti
Nel settore agroalimentare in Italia, le strategie di comunicazione commerciale basate sulla sostenibilità e sul valore ambientale della merce (green marketing) e sulla valenza salutistica del prodotto alimentare (cura e prevenzione del
corpo) hanno fatto leva, negli anni, sulle scelte di acquisto dei consumatori verso i
prodotti biologici che, sin dalla loro comparsa sul mercato, hanno incarnato questi
valori (Cfr. par. 1.3.3).
Nella grande distribuzione, ciò si è tradotto nella crescita della superfici di
vendita destinate ai prodotti biologici e ai prodotti ecologici (Box 2.1), mentre hanno
33 Nel mondo si consumano dai 500 ai 1.000 miliardi di sacchetti di plastica ogni anno; in Europa 100
miliardi, di cui almeno 15 in Italia. La media del consumo di sacchetti di plastica pro capite si aggira,
nei paesi industrializzati, tra i 200 e i 500 pezzi all’anno. Sostituendo i normali sacchetti di plastica
con altri sacchetti riutilizzabili si eviterebbe di disperdere nell’ambiente 1 milione di tonnellate di
plastica all’anno, si risparmierebbero 700 mila tonnellate di petrolio e si ridurrebbero le emissioni
di CO2 di 1,4 milioni di tonnellate. A partire dal 2011, tenuto conto della non conformità degli attuali
sacchetti in plastica alle norme tecniche EN 13432 sugli imballaggi, in Italia sarà vietato l’uso di tali
sacchetti.
62
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
fatto la loro comparsa, accanto alla vendita diretta e a varie opzioni di filiera corta
(Cfr. par. 2.2), modalità di vendita sostenibile che rinunciano all’uso degli imballaggi
(Box 2.2).
Box 2.1 - La linea Vivi Verde Coop
Allo scopo di sensibilizzare i consumatori sui temi della salvaguardia dell’ambiente, Coop Italia ha deciso di raggruppare tutti i prodotti a marchio provenienti da agricoltura biologica e quelli non alimentari a basso impatto
(linee “bio-logici Coop” ed “eco-logici Coop”), realizzati con criteri sostenibili e di compatibilità ambientale, sotto
un unico brand: Vivi Verde Coop.
Vivi Verde Coop comprende 300 referenze di prodotti biologici a marchio, per i quali Coop ha deciso di escludere
dalla lista degli ingredienti sia i grassi tropicali sia gli aromi, anche se naturali, e i prodotti Coop garantiti dal marchio europeo di qualità ecologica Ecolabel, come i detergenti per la pulizia della casa, i prodotti in carta riciclata
al 100% e le nuove lampade a risparmio energetico.
Box 2.2 - I distributori di latte sfuso
Da qualche anno è possibile acquistare latte fresco, in alcuni Comuni, distribuito mediante erogatori, proveniente
dalle aziende di allevamento locali e trasportato sfuso. I distributori sono collocati all’interno di negozi, supermercati o in prossimità di luoghi pubblici e il contenitore può essere acquistare presso lo stesso punto di distribuzione
ed è riutilizzabile.
Scegliere il latte fresco ha il vantaggio di inquinare meno grazie a una riduzione del trasporto, dei consumi energetici e dei rifiuti.
2.4.3 Le implicazioni sociali nella catena di fornitura: il commercio equo e solidale
Alcuni fenomeni tipici degli ultimi decenni hanno posto l’attenzione
sull’importanza di includere criteri etici nella gestione delle catene di fornitura
lungo l’intera filiera. Il processo di globalizzazione dell’economia mondiale ha
dato alle imprese dei Paesi industrializzati la possibilità di delocalizzare le fasi
di produzione delle proprie attività in Paesi in cui i bassi costi della manodopera permettono di conseguire consistenti vantaggi di costo.
A tale processo si accompagna il progressivo snellimento delle strutture
aziendali e la crescente importanza dell’outsourcing al fine di concentrare le
risorse aziendali sulle attività che consentono la maggior creazione di valore.
Tale tendenza si è tradotta, soprattutto per le imprese operanti in alcuni settori manifatturieri e agro-alimentari, nella concentrazione delle risorse interne
sulle attività di product development e design, sulle fasi logistiche e distributive della catena del valore, sulle attività di marketing e comunicazione e, di
63
riflesso, nell’esternalizzazione delle attività a basso valore aggiunto, tipicamente quelle a monte della catena del valore connesse ai processi produttivi
(Guidotti, 2006).
La delocalizzazione suscita una forte competizione volta ad attrarre investimenti e capitali occidentali sia tra i Paesi, sia tra i produttori dello stesso
Paese. Ne consegue una “corsa al ribasso” nella tutela dei diritti fondamentali
dei lavoratori impiegati nelle produzioni (Guidotti, 2006). I livelli minori di tutela
consentono un abbassamento del costo medio della manodopera attraverso
diversi fattori: le retribuzioni al di sotto dei livelli minimi stabiliti dagli ordinamenti nazionali e dai trattati internazionali; l’impiego di categorie di lavoratori (ad esempio migranti, donne e minori) che per condizioni socio-culturali
accettano una situazione di lavoro disagiata quanto a sicurezza, orari, ecc; le
limitazioni alla libertà associativa dei lavoratori al fine di eludere lo strumento
della contrattazione collettiva.
A partire dai primi anni Novanta del secolo scorso l’opera di sensibilizzazione svolta da alcune organizzazioni della società civile attive per il rispetto
dei diritti umani ha portato a conoscenza del grande pubblico numerosi casi
di violazione dei più basilari diritti dei lavoratori impiegati all’interno di siti
produttivi dislocati nei Paesi asiatici e dell’America Latina. Tale opera, favorita
dall’attenzione data dai media, ha avuto la sua manifestazione più evidente in
numerose azioni di pressione finalizzate a spingere le imprese ad assicurare il
rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori all’interno di tutti i siti che compongono le rispettive catene di fornitura.
Lo sviluppo di forme di commercio diverse da quelle tradizionali e basate
su finalità mutualistiche costituisce una delle principali novità del panorama
economico attuale. Come già sottolineato, il fenomeno del consumo etico si
configura come l’introduzione, nelle determinanti di consumo, di motivazioni
che condizionano l’acquisto non in quanto migliorano l’utilità o il benessere
dell’acquirente, ma in quanto determinano un miglioramento del benessere
di altri soggetti (Sali, 2004).Ovvero, vengono introdotti nelle azioni di consumo
elementi di decisione dipendenti da scelte altruistiche e, pertanto, diventando
significativa la difesa di diritti di altri, ciò costituisce un valore per l’intera collettività.
Il commercio equo e solidale rappresenta uno degli strumenti più interessanti attraverso i quali la responsabilità sociale del consumatore può dare
un contributo alla risoluzione dei problemi della sostenibilità sociale e ambientale dei processi di sviluppo. Una definizione precisa e – soprattutto – uni-
64
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
versalmente condivisa del fenomeno del Commercio Equo e Solidale (CEeS) è
estremamente difficile da proporre. Quella più comunemente citata definisce
il CEeS come una modalità di relazione commerciale tra i produttori del Sud
del mondo e i consumatori finali del Nord del mondo, alternativa a quella tradizionale. Più specificatamente, vengono generalmente ricondotti in questa
categoria quei prodotti alimentari e artigianali che presentano caratteristiche
peculiari rispetto ai prodotti generalmente venduti sul mercato, che riguardano più che la natura del prodotto le caratteristiche del processo produttivo.
La nascita del commercio equo e solidale34 ha avuto il merito di rivelare
ai produttori tradizionali operanti sul mercato la presenza di una quota non
marginale di consumatori le cui scelte di consumo sono basate non solo sui
tradizionali elementi di prezzo e qualità, ma anche sul valore sociale del prodotto stesso. Ciò ha imposto, alle imprese tradizionali, di aumentare il proprio
grado di responsabilità sociale al fine di catturare la quota di consumatori più
attenti ai contenuti etici e sociali del prodotto. In questo senso, il commercio
equo e solidale rappresenta un importante strumento attraverso il quale è possibile risolvere “dal basso” il problema del rapporto tra conflitto e solidarietà
nel mercato, trasformando la solidarietà stessa in una delle variabili competitive su cui si gioca la concorrenza nel mercato (Becchetti, Paganetto, 2003).
Con gli acquisti di prodotti socialmente responsabili come quelli del commercio equo e solidale i consumatori del Nord del mondo agiscono da “sindacalisti”
per i lavoratori del Sud, creando gli incentivi ad un miglioramento delle loro
condizioni di lavoro e ad una convergenza con quelli dei lavoratori del Nord.
I principi del commercio equo e solidale rappresentano efficaci strategie in
questa direzione e la loro applicazione non coercitiva, fondata sulla libera scelta dei consumatori, rappresenta un’opportunità di aumento del benessere dei
consumatori attraverso un ampliamento della gamma dei prodotti che tenga
conto dell’importanza del contenuto sociale degli stessi.
L’azione di sostegno allo sviluppo svolta dal Commercio Equo e Solidale
vede l’azione congiunta di diversi soggetti (Barbetta, 2006):
34 Il “commercio equo e solidale” (fair trade) nasce negli anni Sessanta, quando diverse organizzazioni
senza scopo di lucro intraprendono iniziative pionieristiche volte e favorire l’esportazione di merci,
prevalentemente derrate agricole e oggetti di artigianato, da parte di alcuni produttori marginali del
Sud del mondo. Queste merci, attraverso una nascente rete distributiva di esercizi commerciali specializzati, le “botteghe del mondo”, cominciano a essere vendute a gruppi di consumatori dei paesi
occidentali ad elevata sensibilità sociale. Mosse dallo slogan “trade not aid”, queste organizzazioni
puntano a usare il commercio internazionale come un fattore di sviluppo per i paesi più arretrati.
imponendo, così, il fair trade all’attenzione nazionale e internazionale alla fine degli anni Novanta.
65
a)
b)
c)
d)
i produttori;
i trader (esportatori e importatori);
i distributori;
i certificatori.
In particolare, i produttori del commercio equo sono rappresentati da
piccole organizzazioni generalmente a dimensione familiare o con struttura
cooperativa, ma in alcuni casi anche con strutture proprietarie capitalistiche,
localizzate in aree svantaggiate dei Paesi del Sud del mondo. Il loro sviluppo
economico è stato, negli anni, spesso ostacolato dalla impossibilità di intrattenere rapporti commerciali con aree più ricche del mondo, che sarebbero in
grado di assorbire i loro prodotti agricoli e artigianali. Con l’adesione di questi
produttori alla filiera del CEeS è possibile individuare nuovi sbocchi commerciali per i loro prodotti nei Paesi più ricchi e reperire assistenza tecnica nella
produzione dei beni stessi. In cambio di questi vantaggi, i produttori che partecipano alla filiera del commercio equo si impegnano a garantire il rispetto
di alcuni requisiti minimi riguardanti le condizioni di lavoro degli associati o
dei dipendenti (in termini di libertà di associazione e contrattazione, condizioni
di impiego e salute, salari), la sostenibilità ambientale dei processi produttivi
adottati e la destinazione a fini sociali e comunitari del premio (inteso come
sovrappiù rispetto al prezzo) pagato dagli acquirenti dei loro prodotti.
I trader (esportatori e importatori) della filiera del CEeS sono i soggetti
che favoriscono o effettuano materialmente il trasferimento dei beni realizzati
dai produttori nei Paesi dove i beni saranno consumati. Raramente la figura
del produttore e quella dell’esportatore coincidono. Più di frequente, specie
nel caso del commercio di derrate agricole, tale funzione viene esercitata da
organizzazioni specializzate, generalmente costituite in forma cooperativa o
consortile, con la proprietà assegnata agli stessi produttori associati.
Gli importatori dei beni si impegnano a garantire ai produttori (o agli
esportatori creati da questi ultimi) contratti di lungo termine che consentano loro di effettuare gli investimenti specifici, necessari a sviluppare prodotti
sostenibili e con caratteristiche adatte ai mercati occidentali. Gli importatori,
se i produttori lo richiedono, si impegnano ad anticipare una parte del costo
delle forniture, così da ridurre le necessità di indebitamento dei produttori;
essi, inoltre, garantiscono ai produttori almeno il prezzo minimo concordato
e stabilito dalle organizzazioni di certificazione, necessario a coprire i costi di
produzione. Gli importatori assicurano anche il pagamento di un premio il cui
ammontare viene destinato a fini sociali e di sviluppo della comunità dei pro-
66
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
duttori secondo progetti controllati dai certificatori.
I distributori sono le organizzazioni, localizzate nei Paesi occidentali, che
vendono i prodotti della filiera ai consumatori finali. In un periodo più recente, i
prodotti del CEeS hanno interessato anche alcune catene della GDO, così come
alcuni negozi tradizionali, sicché ora essi sono disponibili presso un ampio
spettro di esercizi commerciali al dettaglio35.
L’ultimo soggetto della filiera del CEeS è rappresentato dai certificatori.
La presenza di un “marchio di garanzia” credibile ed affidabile è una caratteristica cruciale del movimento del commercio equo e solidale, poiché permette
ai consumatori di identificare i prodotti che rispettano appieno i principi nella
produzione e nella importazione dei beni. Nel 1997, varie organizzazioni nazionali – riconosciuta l’esigenza di un unico marchio e di una adeguata struttura
di certificazione - hanno dato vita a FLO (Fairtrade Labelling Organization)36,
una associazione senza scopo di lucro di diritto tedesco, che agisce come ente
internazionale di certificazione e detiene i diritti d’uso del marchio “Fairtrade”
che ormai caratterizza il CEeS a livello mondiale.
Nel 2006, secondo una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca, il fenomeno del fair trade, in Italia, ha interessato 485 botteghe del mondo, il 55%
delle quali ha aperto dopo il 2000, gestite da 347 cooperative e/o associazioni
non profit con un fatturato complessivo del settore di 97,5 milioni di euro, alle
spalle del Regno Unito (216 milioni di euro) e della Svizzera (138 milioni di
euro). A tale data erano presenti sul territorio nazionale 10 organizzazioni non
profit specializzate e 70 licenziatari del marchio TransFair-Fair Trade. I principi
del commercio equo e solidale nel nostro Paese sono sostenuti dall’Associazione Assemblea Generale Italiana del CEeS (Box 2.3)
35 Le potenzialità del settore, grazie anche alla diffusione di questi prodotti presso mense pubbliche,
servizi di ristorazione e catene della grande distribuzione, stanno però scontando una normativa ad
oggi ancora incompleta.
36 La certificazione garantisce il rispetto degli standard sociali internazionali stabiliti da FLO tra cui
prezzi minimi garantiti, contratti di acquisto duraturi, rispetto dei lavoratori, un margine sociale da
destinare a progetti che beneficiano tutta la comunità, utilizzo di metodi agricoli di lotta integrata.
67
Box 2.3 - Gli obiettivi del commercio equo e solidale nella Carta dei criteri
adottata dalla Associazione Assemblea Generale Italiana del commercio equo
e solidale
1.Migliorare le condizioni di vita dei produttori aumentandone l’accesso al mercato, rafforzando le organizzazioni
di produttori, pagando un prezzo migliore ed assicurando continuità nelle relazioni commerciali.
2.Promuovere opportunità di sviluppo per produttori svantaggiati, specialmente gruppi di donne e popolazioni
indigene e proteggere i bambini dallo sfruttamento nel processo produttivo.
3.Divulgare informazioni sui meccanismi economici di sfruttamento, tramite la vendita di prodotti, favorendo e
stimolando nei consumatori la crescita di un atteggiamento alternativo al modello economico dominante e la
ricerca di nuovi modelli di sviluppo.
4. Organizzare rapporti commerciali e di lavoro senza fini di lucro e nel rispetto della dignità umana, aumentando la
consapevolezza dei consumatori sugli effetti negativi che il commercio internazionale ha sui produttori, in maniera
tale che possano esercitare il proprio potere di acquisto in maniera positiva37.
5.Proteggere i diritti umani promuovendo giustizia sociale, sostenibilità ambientale, sicurezza economica.
6.Favorire la creazione di opportunità di lavoro a condizioni giuste tanto nei Paesi economicamente svantaggiati
come in quelli economicamente sviluppati.
7. Favorire l’incontro fra consumatori critici e produttori dei Paesi economicamente meno sviluppati.
8.Sostenere l’auto-sviluppo economico e sociale.
9.Stimolare le istituzioni nazionali ed internazionali a compiere scelte economiche e commerciali a difesa dei
piccoli produttori, della stabilità economica e della tutela ambientale, effettuando campagne di informazione e
pressione affinché cambino le regole e la pratica del commercio internazionale convenzionale.
10.Promuovere un uso equo e sostenibile delle risorse ambientali.
2.5 Il neo soggettivismo del consumo alimentare
37
L’attuale congiuntura economica ha messo ancora più in luce, accelerandolo,
uno dei processi di trasformazione da tempo in atto nella società occidentale e in quella
italiana in particolare: il progressivo allontanamento dei consumatori da quel modello
di società opulenta e dell’iperconsumo a cui avevano per decenni, a partire almeno dagli
anni Settanta, informato le loro scelte di acquisto. È da tempo, infatti, ben prima dello
scoppio della crisi, che presso la platea dei consumatori si era iniziato ad assistere a
comportamenti per certi versi anomali, rispetto a quelli tradizionali, come confermato
37 Il criterio della trasparenza implica che il consumatore sia consapevole e pienamente informato
circa la destinazione di ogni componente del prezzo pagato per il prodotto. A tal fine la gran parte
dei prodotti sono accompagnati da schede che, in dettaglio, riportano la composizione delle varie
voci di spesa che vanno a comporre il loro costo finale (prezzo FOB, costi di trasporto, dazi, ecc.). Allo
scopo di aderire al principio di trasparenza, l’etichetta del prodotto equo e solidale deve contenere
tutta l’informazione reperibile relativa ai costi di produzione, al prezzo di vendita all’ingrosso e alle
caratteristiche nutrizionali del prodotto.
68
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
dall’emergere di un orientamento critico rispetto alle logiche di fondo su cui il sistema
era costruito, e molto più autonomo e distintivo rispetto a quell’orientamento massificante che ha caratterizzato la costruzione della società dell’iperconsumo almeno dagli
anni Ottanta in poi. Su questi “germi” la crisi si è innescata come un detonatore, facendo
esplodere, tra le famiglie e gli individui, una vera e propria rivoluzione dei modelli di
consumo, che proprio dal restringimento e progressivo assottigliamento della capacità
di reddito e spesa delle famiglie ha tratto nuovo ossigeno ed alimento (Cfr. capitolo 1).
Quello che infatti si va sempre più affermando è un modello di comportamento in
cui gli imperativi dell’opulenza cedono progressivamente il passo a quelli di sobrietà e
austerità, da intendersi tuttavia non in senso riduttivo e pauperista, di risposta alla crisi,
ma come crescente consapevolezza e rifiuto di un modello, di consumo e di crescita,
non solo non più sostenibile, ma sempre più inattuale rispetto alle trasformazioni profonde che hanno investito la nostra società.
La crescita degli acquisti fair trade, il sempre maggiore apprezzamento per la
“capacità di durata” dei prodotti e dei servizi, l’orientamento verso prodotti di qualità, soprattutto nell’agroalimentare, il ritorno del valore del risparmio, la lotta allo spreco, delle
risorse energetiche come di quelle economiche, sono segnale di uno stile di vita che va
vieppiù inglobando quelle trasformazioni da tempo in atto a livello globale, vale a dire:
•
il declino delle aspettative crescenti, ovvero dell’idea di uno sviluppo come irreversibile percorso di crescita, con l’equivoco di fondo, a questo connesso, di un
benessere che si misura in termini di quantità dei beni consumati;
•
l’esplodere delle emergenze – ambientali, sociali – e l’affermarsi assieme a queste di una logica di sviluppo sempre più orientata e improntata a principi di sostenibilità e compatibilità ambientale, ma anche psicologica e sociale;
•
una sempre maggiore attenzione alla qualità della vita, sotto il profilo sociale e
relazionale, che sta progressivamente portando a riconsiderare anche il rapporto
con il lavoro e con il reddito da questo generato, soprattutto quando non presenta
rilevanti aspettative di crescita e di promozione;
•
la trasformazione dei mercati e dei processi di vendita, indotta dalla globalizzazione e dall’avvento di internet, che presentano, oggi rispetto a ieri, un’offerta
di beni e servizi radicalmente diversa, perché molto più estesa, differenziata e
soprattutto accessibile.
L’effetto più significativo di tali trasformazioni va rinvenuto nella progressiva presa di distanza da parte dei consumatori da quei comportamenti orientati all’accumulo
di beni e servizi, alla “quantità” insomma, e nella sempre più frequente ricerca di una
qualificazione progressiva delle scelte di consumo, orientandole alla qualità e a un’attenzione sempre più marcata a tutti quegli aspetti relazionali, valoriali, che la connotano:
69
insomma, la ricerca di una sobrietà che non significa rinuncia, ma «presa di distanza
dall’eccesso, dall’iperbole, dall’elitismo di un consumo gridato, ostentato o anche soltanto inutile e inutilmente cospicuo (Fabris, 2010)».
Tale cambio di atteggiamento comporta diverse conseguenze di ordine pratico
nel comportamento di consumo, vale a dire:
•
la crescente “soggettivizzazione” del consumo, che traspare dai comportamenti
tanto della domanda quanto dell’offerta, tendendo entrambe a sfuggire a quella
logica massificante che, come accennato, ha orientato il mercato fino a pochi
anni fa;
•
il downgrading del livello di consumo, all’insegna dell’imperativo categorico del
“consumare meno, consumare meglio”, che comporta una maggiore attenzione
e cautela nello spendere, sconosciuta in passato;
•
la crescente attenzione al prezzo, che deriva, come già sottolineato, non solo dalla minore disponibilità economica da parte dei consumatori e dalle attese “decrescenti” che caratterizzano sempre più le loro aspettative, ma anche da una
maggiore consapevolezza che sia oggi possibile spendere meno, senza per ciò
dovere rinunciare alle attese di qualità dei beni e servizi consumati;
•
l’aumentato apprezzamento per la qualità del bene/servizio acquistato, e della
durata come tratto distintivo di qualità e asse portante del nuovo sistema di valori
cui sono improntate le scelte dei consumatori;
•
la ricerca di canali di acquisto plurimi e diversificati, in cui il consumatore diventa
vero protagonista delle scelte, arbitro unico del proprio consumo, districandosi
nella giungla delle opzioni – sempre più articolate e differenziate – e dei luoghi
di vendita e acquisto (dai discount, agli outlet, dagli spacci aziendali ai temporary
shop, a internet, che più di tutti ha contribuito a determinare lo stravolgimento
dei modelli e dei comportamenti di consumo);
•
il progressivo slittamento del valore del consumo dal possesso all’uso, dal consumo come status, indotto dalla proprietà di un bene o servizio, a un’idea di consumo come effettiva fruizione dello stesso, il che significa la tendenza crescente
non solo a sostituire l’acquisto con il noleggio, e la relativa esplosione di tutte le
forme di acquisto disgiunte dalla proprietà (il leasing, l’affitto, ecc), ma anche
la riscoperta dello scambio, del baratto e dell’usato, del valore del dono e della
gratuità come nuova frontiera di consumo.
Tali trasformazioni appaiono in tutta la loro evidenza con riferimento ai consumi
alimentari, che da sempre rappresentano un terreno privilegiato, ma al tempo stesso
sottovalutato e trascurato, di esplorazione e analisi delle trasformazioni dei comportamenti di consumo.
70
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Sono interessanti da questo punto di vista i risultati della recente indagine Censis/Coldiretti (2010), da cui emerge il diffondersi presso gli italiani di un atteggiamento
decisamente nuovo e originale rispetto ai propri comportamenti di consumo alimentare,
molto più critico e intelligente, connotato da un felice impasto tra attenzione alla qualità
di ciò che mangiano, alla tutela della salute, della sicurezza e genuinità dei prodotti, e la
più consolidata e incessante ricerca di convenienza a tutti i costi. Se le abitudini alimentari rispondono alla pluralità di esigenze e aspettative, difficilmente queste possono tradursi in abitudini alimentari di massa, ma sempre più rispecchiano un “politeismo” del
consumatore degli anni Duemila, fatto di combinazioni di luoghi di acquisto dei prodotti,
budget di spesa famigliari e diete alimentari; il rapporto con l’acquisto di generi alimentari appare, pertanto, una dimensione sempre più soggettiva, espressione dell’”io che
decide” cosa, quanto, come e dove acquistare e consumare (Cfr. par. 1.2.1).
È interessante notare, come emerge dall’indagine citata, che oltre l’82% degli
italiani dichiari che al momento in cui fa la spesa, conta molto sulle proprie capacità
di scegliere i prodotti, prima ancora che sulla possibilità di risparmiare o di optare per
prodotti di basso costo (Tab. 2.3). La capacità di arbitraggio individuale, di mettere insieme e ponderare da soli i tanti fattori che connotano il comportamento di consumo,
orientandosi tra le alternative, a prescindere dalle sollecitazioni, espresse o implicite
che provengono dall’esterno, costituisce pertanto il principale driver di orientamento
nel consumo alimentare, addirittura più forte dell’attenzione al risparmio, che, tuttavia,
viene immediatamente dopo.
Oltre il 79% degli intervistati afferma, infatti, di puntare a risparmiare dove è
possibile e, tuttavia, su alcuni prodotti acquista solo quello che presenta caratteristiche qualitative più elevate, senza badare al prezzo (Tab. 2.3). È un’indicazione di come,
anche in un contesto in cui la spinta a risparmiare o comunque a ricercare l’opzione
economicamente più vantaggiosa in termini di prezzo è molto forte, ci sia un approccio
del tipo trading up; ovvero, gli italiani fanno una selezione dei bisogni e dei beni in grado
di soddisfarli, enucleandone alcuni come irrinunciabili e strategici, decidendo, quindi, di
investire su questi beni in misura maggiore che su altri.
In altre parole, la selezione porta a considerare alcune tipologie di beni, spesso
appartenenti all’alimentare, come quelli che danno un beneficio soggettivo assoluto e
marginale più alto, tanto da giustificare un impiego maggiore di risorse specifiche. In
questi casi, la variabile prezzo diventa secondaria, non guida più la ricerca di informazioni e i transiti da un canale all’altro, perché l’obiettivo diventa avere la qualità considerata
più alta. Ne consegue la complessità delle valutazioni e degli atteggiamenti che connotano l’atto di acquisto di generi alimentar, mettendo al riparo anche da facili e ingannevoli interpretazioni in chiave di consumo low cost, come confermato da oltre il 71% degli
71
italiani intervistati che ritiene che basso prezzo non vuol dire scarsa qualità, percentuale
che al Sud-Isole sale a quasi il 76% (Tab. 2.3).
Se l’abilità del consumatore risiede sempre più nella capacità, espressa tramite le proprie scelte soggettive degli alimenti e dei luoghi di acquisto, di contemperare esigenze diverse, di essere “protagonista intelligente” delle proprie scelte,
ciò è tanto più vero in tempo di crisi. L’attuale congiuntura negativa ha supportato
le dinamiche di più lungo corso, a cominciare dal rapporto meno compulsivo con
i consumi. Alla richiesta di indicare come le famiglie italiane hanno reagito alla
crisi, il 51,3% degli italiani, ha dichiarato di aver tagliato gli sprechi, mentre è solo
il 33,1% a parlare di tagli ai consumi essenziali; in particolare, al Nord-est è più
forte la convinzione che in questi mesi le famiglie hanno proceduto a razionalizzare,
piuttosto che a tagliare consumi essenziali (Tab. 2.4).
Se il meccanismo prevalente di adattamento è stato il taglio degli sprechi,
entrando nel dettaglio delle strategie poste in essere, la stragrande maggioranza
degli italiani, quasi l’89%, dichiara di avere sostanzialmente cambiato il proprio
modo di fare la spesa e di consumare (Tab. 2.5). Ancora una volta a prevalere è il
richiamo a ridurre gli sprechi (44,5%) come strategia di razionalizzazione primaria
anche nelle modalità di acquisto, seguita dalla corsa alle promozioni e alle offerte
(indicata da quasi il 43% degli intervistati) e, ancora, dalla rinuncia ad alcuni dei
beni che più pesano sui bilanci familiari (20,5%).
Quello che emerge è una pluralità di comportamenti che contribuiscono, in misura e modo diverso, al tentativo di un downsizing morbido dei consumi, dove è evidente
lo sforzo per massimizzare il potere d’acquisto del reddito di cui si dispone, cercando di
spuntare un costo del carrello della spesa inferiore a quello dei listini.
Insomma, se la crisi ha accentuato e reso ancora più visibile quell’orientamento alla ricerca di qualità sostenibile, recentemente sempre più presente tra gli italiani,
questa si è tradotta prevalentemente in un contenimento degli eccessi lungo tutta la
filiera delle attività di acquisto e di consumo degli alimenti, stimolando i cittadini, al di là
delle loro caratteristiche socio-demografiche e territoriali, sia a cercare le opportunità
di acquisto più vantaggiose, sia a ridurre il consumo di alimenti, tagliando quelli che
meno rispondono alle proprie aspettative. Consumare meno, consumare meglio diventa, pertanto, la parola d’ordine di tutti, il modo di rapportarsi alla spesa e ai consumi;
ciò significa che non è solo la ridotta disponibilità del reddito a determinare il nuovo
rapporto con i consumi, ma l’incertezza del momento esalta la sobrietà e anche l’astuzia
dell’acquisto, indispensabili per salvaguardare il tenore di vita e, al contempo, la qualità
del consumo alimentare (Cfr. par. 1.3). in un contesto di paura per il futuro e dove la necessità di risparmiare torna a essere un’esigenza cruciale.
72
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Tagliare, senza tuttavia rassegnarsi a una qualità non adeguata dei prodotti o rinunciare in alcuni momenti a soddisfare specifici bisogni, denota una nuova soggettività
competente nella gestione dei consumi alimentari, che include la tendenza di ciascun
individuo a selezionare tra i beni quelli sui quali si è disposti a investire di più per avere
una qualità più alta.
Tabella 2.3 - Gli italiani e il rapporto con i prodotti alimentari, per ripartizione
geografica (val. %)*
Quali tra le seguenti affermazioni caratterizzano maggiormente il suo rapporto con i
prodotti alimentari?
Nord
Ovest
Nord
Est
Centro
Sud e
Isole
Italia
Conto molto sulla mia personale capacità di scegliere i prodotti
89,8
92,8
87,1
88,0
82,2
Risparmio dove è possibile (offerte, saldi) però su
alcune cose prendo solo il prodotto a qualità più
alta senza badare al prezzo
80,7
75,6
80,7
79,7
79,5
Basso prezzo non vuol dire scarsa qualità
72,4
70,0
69,9
75,8
71,3
Ogni tanto mi concedo piccoli o grandi sfizi acquistando prodotti a prezzo molto più alto
48,2
37,3
43,5
43,6
43,6
* Il totale non è uguale a 100 in quanto erano possibili più risposte.
Fonte: Indagine Censis/Coldiretti, 2010
Tabella 2.4 - Impatto della crisi sui consumi alimentari delle famiglie, per area
geografica (val. %)
Riguardo ai consumi alimentari, secondo Lei
con la crisi le famiglie italiane:
Nord
Ovest
Nord
Est
Centro
Sud e
Isole
Italia
In realtà hanno tagliato gli sprechi
53,3
55,8
47,4
49,3
51,3
Hanno dovuto tagliare consumi essenziali
30,7
29,3
35,3
35,9
33,1
Non hanno dovuto cambiare granché, i consumi
alimentari sono grosso modo gli stessi
14,1
14,3
15,7
12,9
14,1
Hanno aumentato i consumi alimentari (perché
molti prezzi sono diminuiti, perché altri consumi si
sono ridotti)
1,9
0,6
1,6
1,9
1,5
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
Totale
Fonte: Indagine Censis/Coldiretti, 2010
73
Tabella 2.5 - Impatto della crisi sul modo di fare la spesa delle famiglie, per tipologia familiare (val.%)
La crisi come ha cambiato il
modo di fare la spesa della
Sua famiglia?
Unipersonale
Coppia
senza
figli
Coppia
con
figli
Non ha cambiato il modo di fare
la spesa
15,9
17,1
9,1
8,3
11,2
Sì, ha cambiato il modo di fare la
spesa (*)
84,1
82,9
90,9
91,7
88,8
Riduce gli sprechi
48,3
43,2
44,7
42,1
44,5
Ricorre a offerte e promozioni
34,4
36,7
45,4
46,6
42,8
Rinuncia ai prodotti più cari che
pesano di più sul bilancio familiare
16,5
20,2
21,4
20,4
20,5
Rinuncia alle marche più care
13,3
16,5
15,1
18,2
15,6
Riduce le quantità consumate
7,3
11,7
10,9
9,7
10,4
Si adatta a una qualità inferiore
per tutti i beni
4,3
5,3
5,9
10,1
6,2
Monogenitore/
altra tipologia
Totale
di cui:
* Il totale non è uguale a 100 in quanto erano possibili più risposte
Fonte: Indagine Censis/Coldiretti, 2010
2.6 Il principio di equità e solidarietà applicato agli acquisti: il
caso dei GAS
I comportamenti etici e responsabili che si stanno diffondendo nelle aziende
del settore agroalimentare per valorizzare i contesti locali di produzione investono
anche le fasi successive della trasformazione e della vendita dei prodotti, espressione di qualità non solo dei processi produttivi e dei prodotti, ma anche del lavoro
(Giuca, 2010a). Si tratta, in sostanza, di un agire concreto dell’azienda per la salvaguardia del territorio - ad esempio, attraverso l’impiego di cultivar e razze locali,
l’adozione di processi di lavorazione a basso impatto ambientale, l’orientamento
alla produzione biologica - e per il sociale, con un ruolo attivo degli stessi lavoratori
e della comunità, come l’inclusione di soggetti svantaggiati, la diffusione di cooperative sorte nei terreni confiscati alla mafia, le fattorie didattiche, terapeutiche e
riabilitative.
74
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Questo agire concreto delle aziende è controparte di un approccio attento e responsabile al consumo da parte degli stessi cittadini-consumatori, sempre più alimentato, negli ultimi anni, da valutazioni di ordine etico e da una particolare attenzione alla
qualità sociale del prodotto o del servizio. In questo senso, il consumo responsabile di
ciascun individuo ha assunto, oggi, varie sfaccettature, comprendendo al suo interno
diversi comportamenti riguardo al cibo e ai beni non alimentari come il consumo critico
e la sobrietà nel consumo - segno del disagio verso il sistema economico globalizzato
e della ricerca di valide alternative sostenibili, la partecipazione ai Gruppi di acquisto
solidale (GAS) e il sostegno al commercio equo e solidale38. Comportamenti di consumo
responsabile sono anche la pratica del turismo rispettoso dei popoli e dell’ambiente, la
finanza etica (dove l’investitore punta su attività che rispondono a requisiti di responsabilità sociale e ambientale) e l’adozione dei cosiddetti “bilanci di giustizia” con cui le famiglie verificano sul proprio bilancio economico l’incidenza delle modifiche allo stile di vita.
Alla base degli acquisti dei consumatori che si mostrano responsabili, quindi,
non c’è solo la responsabilità verso se stessi che si esplica con la scelta di prodotti
che soddisfano il benessere e la felicità personale, ma la responsabilità etica e sociale
verso gli altri, verso il territorio e verso l’ambiente che si manifesta nel caso dei prodotti
alimentari, come illustrato nelle pagine precedenti, con la scelta di prodotti sostenibili,
biologici e integrati, di prodotti tipici e a denominazione di origine e di prodotti del commercio equo e solidale. Il consumatore attento e responsabile, infatti, sceglie i propri
beni di consumo non solo in base all’informazione esterna (pubblicità/passaparola), alla
qualità e alla convenience (rapporto qualità attesa/prezzo) come è stato ampiamente
descritto, ma anche in base alla storia dei prodotti stessi e al comportamento delle imprese che li producono (AA.VV., 2003). La provenienza dal proprio territorio, in particolare,
è un aspetto che viene visto come una garanzia della qualità e della sicurezza dei cibi, in
grado di influenzare in modo significativo la scelta dei prodotti alimentari (Censis/Coldiretti, 2010); così come il rispetto dell’ambiente, il rispetto dei diritti dei lavoratori, l’equità
e la solidarietà nella distribuzione del valore lungo tutta la filiera e fra capitale e lavoro
possono orientare il cittadino-consumatore verso un’azienda, un prodotto o un marchio
che esprimono, più di altri, questi valori39.
Il consumo responsabile, è bene ricordare, si basa su un sistema di relazio38 Cfr. infra par. 2.4.1.
39 Ciò, tuttavia, non limita le opzioni di scelta del consumatore che, come si è avuto modo di approfondire nel capitolo 1 al quale si rimanda, assume comportamenti di acquisto multivariati, occasionali o
abituali, coesistendo i propri bisogni in più dimensioni, dall’etica al gusto, dalla praticità alla convenienza, ecc. Ne è un esempio il fatto che 2 consumatori su 10 tra coloro che acquistano direttamente
dal produttore si recano presso i fast food almeno una volta a settimana (Censis/Coldiretti, 2010).
75
ni informali e di credenze condivise che può portare ciascun soggetto a operare
le proprie scelte di acquisto individualmente ma anche collettivamente, come nel
caso dei GAS, rafforzandone l’efficacia. Nei Gruppi di acquisto solidale, in particolare, la responsabilità nei consumi si coniuga al principio di equità tra soggetti.
Per le persone che spontaneamente decidono di unirsi per fare i propri acquisti in
modo responsabile, l’elemento chiave è la possibilità di comprare all’ingrosso e/o
di rivolgersi direttamente ai produttori della propria area, veicolo per valorizzare i
contesti locali di produzione; in effetti oggi, nella scelta dei canali di acquisto, spicca la crescita della filiera corta rispetto al «dualismo grande distribuzione-negozi
tradizionali, giocata sul prezzo e sul servizio incorporato nei beni (Censis/Coldiretti,
2010)» e sono sempre più numerosi nuovi ambiti di acquisto senza intermediari
come gli spacci aziendali, i frantoi, le cantine, le malghe e le cascine.
Gli acquisti diretti dal produttore, infatti, sono percepiti dal consumatore
come una soluzione che risponde ad alcune esigenze forti, quali il recupero del
territorio e il rapporto di fiducia con il produttore, garanti di genuinità e sicurezza del prodotto, il minor impatto ambientale (“chilometri zero”), la forte valenza
socio-culturale del patrimonio di saperi e sapori della comunità che lo produce,
oltre naturalmente alla convenience, dovuta alla riduzione dei passaggi e delle intermediazioni. Secondo un’indagine Censis (op., cit., 2010), nel 2009 il 67% dei consumatori ha acquistato almeno una volta direttamente dal produttore agricolo, con
un incremento dell’11% del valore delle vendite e un totale stimato in 3 miliardi di
euro (Coldiretti/Agri2000, 2010), a conferma che gli acquisti domestici degli ultimi
anni stanno interessando maggiormente quei canali di vendita dove la variazione
percentuale dei prezzi si mostra più contenuta (Cfr. Capitolo 1); gli acquisti diretti
dal produttore - vino in cantina (41% del totale), ortofrutta (21%), formaggi e latte
(14%), carni e salumi (8%), olio di oliva (5%) - risultano motivati della necessità di
risparmiare, che rappresenta una priorità per il 40% dei consumatori, ma senza
rinunciare alla genuinità (71%) e al gusto (26%).
Il fenomeno più che decennale dei GAS, che coniuga il risparmio e la genuinità dei prodotti all’equità e alla solidarietà delle azioni, si sovrappone, in realtà,
a quello dei Gruppi di acquisto, ben noti nel sistema distributivo italiano e definiti
negli anni Novanta dal Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato
come «Associazione tra soli grossisti o fra dettaglianti e/o pubblici esercenti (appartenenti a uno o più settori merceologici determinati), ciascuno dei quali conserva la propria autonomia giuridica patrimoniale, promossa principalmente al fine
di realizzare acquisti e servizi di vendita in comune». Mutuando da questa formula
distributiva, in quegli anni gruppi di persone, famiglie, amici e condomini si sono
76
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
uniti liberamente per acquistare all’ingrosso prodotti alimentari o di uso comune
da ridistribuire tra loro e, quasi immediatamente, il Gruppo di acquisto si è arricchito della componente del consumo critico; l’esercizio concreto del fare la spesa
è diventato, in tal modo, vettore di un percorso di crescita all’insegna non solo del
risparmio ma dello sviluppo sostenibile (AA.VV, 2010a). Infatti, il Gruppo di acquisto
diventa solidale «nel momento in cui decide di utilizzare il concetto di solidarietà
come criterio guida nella scelta dei prodotti» e, in tal senso, «aiuta a non sentirsi
soli nella propria critica al consumismo, a scambiarsi esperienze ed appoggio, a
verificare le proprie scelte (AA.VV., 2010b)».
Anche se ogni GAS nasce con motivazioni proprie, che possono anche essere
molto diverse da un gruppo a un altro, alla base di questa esperienza si trova sempre una critica profonda verso l’attuale modello di consumo e di economia globale,
insieme alla ricerca di una alternativa praticabile da subito e da condividere, che
investe la sfera personale e lo stile di vita: nei GAS, infatti, esistono momenti conviviali e forme di baratto/scambio (scooter/biciclette; auto/car pooling/car sharing;
libri; elettrodomestici/utensili; banca del tempo, ecc.) e vere e proprie esperienze
di autoproduzione di beni e servizi (pane, pasta, detersivi, baby sitter).
Con i GAS i partecipanti applicano il principio di equità e solidarietà ai propri consumi, estendendolo ai piccoli produttori e ai fornitori locali40 (anche mercati
all’ingrosso) e uscendo, in tal modo, dal circuito delle multinazionali e della grande
distribuzione traendone, ovviamente, un vantaggio in termini di economia di spesa
in relazione ai volumi di acquisto (Giuca, 2008). La scelta degli acquisti avviene,
inoltre, sulla base della qualità del prodotto e dell’impatto ambientale totale, privilegiando cibi locali e stagionali - per ridurre l’inquinamento e lo spreco di energia
derivanti dal trasporto, alimenti da agricoltura biologica o integrata, prodotti del
commercio equo e solidale e prodotti di uso comune che rispettano l’ambiente, le
condizioni di lavoro e i popoli del Sud del mondo. Spesso i gruppi si organizzano
per recarsi dai loro produttori e avere informazioni sui prodotti in campo e sulle
tecniche di coltivazione utilizzate. Sempre più gruppi, inoltre, si formano nella ricerca specifica di prodotti biologici che costino meno rispetto ai negozi specializzati; soprattutto per le famiglie meno abbienti che risiedono nei quartieri popolari
delle grandi città, dove gli alimenti biologici stentano a essere venduti perché poco
accessibili economicamente, i GAS rappresentano un’opportunità concreta, se non
l’unica, di risparmiare senza rinunciare a questi prodotti.
40 In alcuni casi ciò è servito, attraverso ordinativi e/o pagamenti anticipati rispetto alla produzione, a
far sopravvivere artigiani e piccoli produttori, schiacciati dai debiti, altrimenti destinati a uscire dal
mercato.
77
Tra l’altro, il funzionamento del Gruppo di acquisto è molto semplice: i partecipanti definiscono una lista di prodotti che vogliono acquistare, stabiliscono una
cifra base da spendere uguale per tutti, compilano un ordine di gruppo e solitamente effettuano il pagamento al momento della consegna dei prodotti, di norma
recapitati a domicilio in cassette o pacchi a un unico membro del gruppo che si
occupa di smistarli. Naturalmente, gli accordi del Gruppo di acquisto solidale con il
fornitore possono essere differenti e possono prevedere: la consegna settimanale
o bisettimanale dei prodotti, soprattutto cassette di frutta e verdura di stagione e
pacchi di carne, che rappresenta la modalità di acquisto più diffusa; la formulazione di specifici ordini per telefono o attraverso internet; l’abbonamento con l’offerta
di prodotti a scadenze fisse e a pagamento anticipato. Recentemente, accanto alle
consegna a domicilio dei prodotti si stanno diffondendo nuove modalità di acquisto,
dall’adozione in gruppo di animali da latte e da carne fino alla raccolta, da parte dei
membri del GAS, direttamente in azienda, addirittura dagli alberi e dagli orti: è il
cosiddetto fenomeno del “pick your own”.
La ricerca di un’alternativa di consumo sostenibile e responsabile, tuttavia,
non avviene solo attraverso i GAS, ma anche mediante un vero e proprio “capitale
di relazioni”, basato su progetti di filiera corta, esperienze di consumo a chilometro
zero, gruppi per le energie rinnovabili, realtà di turismo responsabile, fiere del consumo critico e distretti di economia solidale (AA.VV., 2010c).
Attualmente i GAS, che sin dal 1997 hanno formato la Rete nazionale dei
Gruppi di acquisto (Retegas), potrebbero essere addirittura un migliaio, ma sono
difficili da censire perché si formano (e cessano) in continuazione. Anche ogni giorno, infatti, nei condomini, uffici, dopolavoro, centri sportivi e ricreativi, addirittura
municipi, nuovi gruppi di persone, famiglie, parenti, amici e colleghi decidono di
mettere in comune conoscenze e risorse e, anche sulla base di semplici accordi
verbali41, fanno la spesa insieme; in tal modo fruiscono di condizioni vantaggiose,
comprano prodotti a forte valenza etica e creano relazioni di fiducia con chi li produce, siano essi singoli produttori, gruppi di produttori o cooperative.
41 Il GAS, solitamente, è strutturato in Associazione di promozione sociale, Associazione culturale, Associazione di volontariato o Cooperativa di consumo, può appoggiarsi ad altre realtà (ad es. “Bottega
del mondo”, “Campagna amica”, ecc.) e/o collaborare con altri GAS, strutture solidali (InterGAS/
DES/RES), enti e associazioni pubbliche o private.
78
parte prima
| responsabilità sociale e modelli di consumo
Tabella 2.6 - Gruppi di acquisto solidale in Italia per Regione e percentuale sul
totale, 2009
n. GAS
% sul totale
Lombardia
Piemonte
Liguria
Valle d’Aosta
Totale Nord-Ovest
Veneto
Emilia-Romagna
Trentino-Alto Adige
Friuli-Venezia Giulia
Totale Nord-Est
Toscana
Lazio
Marche
Umbria
Totale Centro
Puglia
Campania
Sicilia
Sardegna
Abruzzo
Calabria
Basilicata
Molise
Totale Sud e Isole
Regione
160
71
17
4
252
51
51
13
6
121
84
50
23
7
164
19
18
17
8
7
3
1
1
74
26,2
11,6
2,8
0,7
41,2
8,3
8,3
2,1
1,0
19,8
13,7
8,2
3,8
1,1
26,8
3,1
2,9
2,8
1,3
1,1
0,5
0,2
0,2
12,1
ITALIA
611
100
Fonte: Elaborazioni su dati Coldiretti-Agri2000
Secondo Retegas, sono 702 i Gruppi di acquisto solidale presenti in Italia
al primo semestre del 2010, organizzati in 11 reti locali per poter diffondere, il più
capillarmente possibile, esperienze e scambiare informazioni (AA.VV., 2010b). Coldiretti e Bio Bank, che annualmente diffondono le cifre di questa realtà, hanno
censito, rispettivamente, 611 e 598 GAS nel 2009, con un incremento del 30% rispetto al 2008, che sale al 68% nel triennio 2007-2009; i GAS, nel 2009, hanno anche
fatto segnare l’incremento più significativo tra le forme di vendita diretta (Coldiretti/
Agri2000, 2010; Mingozzi e Bertino, 2010).
Riguardo alla localizzazione, i Gruppi di acquisto solidale risultano presen-
79
ti in tutte le Regioni (Tab. 2.6), nelle grandi città come nei piccoli centri, concentrandosi soprattutto in Lombardia (26,2% del totale), Toscana (13,7%), Piemonte
(11,6%), Veneto, Emilia-Romagna e Lazio, tutte e tre con quote che vanno oltre l’8%
(Coldiretti/Agri2000, 2010). Il fenomeno dei GAS, tuttavia, risulta avere una maggiore espansione nel Nord-Ovest dell’Italia (41,2%) e nel Centro (26,8%).
È interessante notare che spesso i GAS si mantengono piccoli per non perdere l’identità e per assicurare una partecipazione democratica nell’ambito in cui si
sono formati, ma vi è comunque la propensione a fare sistema, formando una fitta
rete di piccoli gruppi che copre tutto il territorio nazionale, in modo da aumentare
la propria influenza in relazione alla numerosità. È anche vero, però, che in alcune realtà locali si sta facendo il “salto di qualità”, passando dai GAS ai Distretti di
economia solidale (DES), con l’obiettivo di supportare l’allargamento del bacino di
consumatori che sviluppano e mettono in pratica il consumo critico e responsabile,
creano solidarietà e socializzano all’insegna del motto che “l’unione fa la forza” e
l’intera comunità ne coglie i benefici.
I GAS, come è stato descritto con lucidità nel documento base redatto dalla Retegas alla fine degli anni Novanta, continuano pertanto a rappresentare «un
trampolino di lancio per i produttori e i consumatori e un importante anello nella
catena del processo di formazione e sensibilizzazione sia per i membri del gruppo
che nei confronti delle persone esterne, con la possibilità di diventare i punti nodali
in una rete di scambio di informazioni tra le diverse realtà esistenti anche oltre
confine (AA.VV., 1999, pag.11)».
80
Parte Seconda
Responsabilità sociale
e modelli di produzione
81
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
Capitolo III
Il ruolo della comunicazione della RSI nel
settore agricolo e agroalimentare
3.1 Introduzione
Nel corso degli ultimi anni l’individuazione di un’appropriata ed efficace
strategia di comunicazione dei comportamenti socialmente responsabili ha assunto un ruolo centrale nella conduzione delle politiche d’impresa, costituendo
probabilmente una tra le sfide di maggiore interesse da affrontare nell’immediato futuro. Al riguardo, infatti, le imprese operanti nei diversi settori economici hanno compreso che, al fine di sfruttare appieno i vantaggi economici e di
credibilità derivanti dall’adozione di pratiche di RSI, diviene indispensabile comunicare adeguatamente ai propri stakeholder gli impegni assunti e le relative
azioni, adottando di volta in volta gli strumenti comunicativi ritenuti più idonei.
La chiave del successo di un’impresa socialmente responsabile risiede,
pertanto, non solo nella concreta attivazione di pratiche di RSI, ma soprattutto nella capacità di renderle note ai propri portatori di interesse. In sostanza,
tale attività si concretizza nell’instaurare e accrescere un dialogo costante con
gli stakeholder, migliorando la capacità di comunicare i valori perseguiti, gli
impegni assunti verso i temi etici, sociali ed ambientali di proprio interesse e,
infine, i risultati conseguiti.
Tali considerazioni rivestono particolare rilevanza per le imprese agricole e agroalimentari. Innanzi tutto per le peculiarità e delle caratteristiche dei
beni e servizi offerti nei diversi comparti; poi per la struttura del mercato in
cui operano, costituita per la quasi totalità da imprese di medie e piccole, se
non addirittura, piccolissime dimensioni; infine, per gli interessi specifici dei
consumatori, sempre più attenti oltreché spinti, nelle decisioni di acquisto, da
considerazioni legate non solo al prezzo e alla qualità dei prodotti, ma - come
si è avuto modo di illustrare ampiamente nei capitoli precedenti - anche ai
83
temi socio-ambientali, quali le condizioni di lavoro degli addetti e la tutela del
territorio, dell’ambiente e delle tradizioni locali.
Inoltre, le emergenze sanitarie di carattere internazionale, che sempre
più frequentemente hanno interessato il settore agricolo e agroalimentare a
partire dalla seconda metà degli anni Novanta, testimoniano il ruolo strategico che ricopre la comunicazione delle pratiche di RSI nei settori in questione,
rafforzando l’esigenza di un adeguato investimento in tale campo, che sia in
grado di contrastare gli effetti negativi (in termini monetari e reputazionali) di
eventuali crisi future.
L’obiettivo del capitolo è duplice. In primo luogo, partendo dagli elementi
caratterizzanti il profilo del “nuovo” consumatore, emerso dall’analisi condotta
nei capitoli precedenti, si vogliono ripercorrere i principali aspetti (fondamenti,
caratteristiche, finalità e strumenti) della comunicazione in tema di responsabilità sociale all’interno di un quadro generale; in tal modo, si vogliono individuare le specificità che, in linea di principio, dovrebbero caratterizzare questo
tipo di comunicazione nel settore agricolo e agroalimentare. In secondo luogo,
si vogliono evidenziare le problematiche che le imprese operanti in tale settore
potrebbero incontrare nell’attuare le politiche di comunicazione e le opportunità che queste possono cogliere, al fine di individuare, da un lato, le migliori
pratiche (best practice) da intraprendere e, dall’altro, un insieme di principi
o azioni comunemente applicabili a tutte le imprese, pur tenendo conto delle
specificità delle singole realtà aziendali operanti nei diversi comparti del settore.
Il paragrafo 3.2 analizza, pertanto, l’evoluzione e le peculiarità della comunicazione della RSI alla luce delle recenti tendenze del consumo e del nuovo profilo del consumatore, sempre più informato sulle problematiche etiche,
sociali e ambientali e in grado di influenzare, con le sue decisioni di acquisto,
importanti aspetti delle politiche aziendali. Il paragrafo 3.3 passa in rassegna
i tratti distintivi della comunicazione della responsabilità sociale in termini di
caratteristiche, funzioni, soggetti e strumenti, partendo da principi e considerazioni generalmente applicabili a tutti i settori, per poi focalizzarsi su quello
agricolo e agroalimentare. Concentrandosi su quest’ultimo settore, il paragrafo 3.4 evidenzia le problematiche da risolvere e le opportunità da cogliere per
un’impresa che decide di comunicare le proprie attività in tema di responsabilità sociale. Nell’ultimo paragrafo, infine, si riportano alcune riflessioni conclusive.
84
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
3.2 L’evoluzione della comunicazione della RSI alla luce delle
nuove tendenze del consumo
3.2.1 La modifica della struttura dei consumi: il nuovo profilo del consumatore
Nell’ultimo decennio si sono manifestati inequivocabili segnali di cambiamento nella struttura dei consumi: evidenze che hanno fatto registrare un’ulteriore accelerazione proprio a partire dal 2008, anno in cui si sono materializzati i
primi effetti di una crisi economica di valenza mondiale42. Effettivamente, non tanto l’oggettiva caduta del livello complessivo del reddito prodotto, ma soprattutto il
proporsi in modo sempre più pressante delle emergenze relative ai temi dell’inquinamento ambientale, del riscaldamento dell’atmosfera e dei limiti delle risorse
a disposizione del pianeta hanno generato nei comportamenti di acquisto incisivi
mutamenti: «destinati a suscitare nuove consapevolezze e ad acquisire, con ogni
verosimiglianza, stabile cittadinanza nei modelli di consumo» (Fabris, 2010).
Specificamente, con l’emergere di nuove sensibilità nei confronti di una
maggiore moderazione e sobrietà dei consumi, ma anche rispetto alla compatibilità delle produzioni con la salvaguardia dei temi etici, ambientali e sociali, si sono
manifestate alcune tendenze inequivocabili, illustrate con maggior dettaglio nelle
pagine precedenti, che qui è utile richiamare: la considerazione dell’etica e della
responsabilità sociale del produttore come dimensioni prevalenti della qualità in
tutti i settori merceologici, con la conseguenza che aumenta la desiderabilità di un
bene percepito come eticamente caratterizzato; una crescente attenzione ai prodotti biologici e di qualità e ai prodotti del territorio di riferimento (a filiera corta),
oltre che alla biodiversità e alla stagionalità. A ciò si aggiunge una crescente attenzione all’acquisto di prodotti sfusi (soprattutto in riferimento ai generi alimentari),
che consentono di evitare il consumo spesso inutile, oltre che dannoso per l’ambiente, delle confezioni e degli imballaggi, concentrandosi sulla qualità effettiva
del bene di cui si necessita; una riduzione considerevole (circa 40%) dello spreco di
generi alimentari e una diminuzione degli acquisti di prodotti usa e getta.
Questi fenomeni, conseguenza di un deciso cambiamento del profilo del consumatore, che mostra di aver acquisito determinate caratteristiche che ne orientano in modo netto i comportamenti nei confronti dell’offerta, si possono riassumere
in:
42 Cfr. Capitolo 1.
85
•
l’autonomia, vale a dire la fine della subordinazione nei riguardi della produzione, con la conseguenza di acquisire una più ampia propensione critica,
volta a ottenere una relazione di tipo biunivoco con l’offerta;
•
la competenza, nel senso di sviluppare una più ampia conoscenza e sensibilità nei confronti delle merci; dunque una maggiore esigenza, intesa come la
richiesta a chi vende di una sempre maggiore attenzione e qualità, proprio in
virtù della elevata competenza di cui si dispone;
•
l’orientamento in senso olistico, scaturente dal fatto che ai fini della scelta si
coinvolgono tutte le dimensioni in gioco;
•
la responsabilità, ovvero la crescente attenzione ai riflessi dei singoli prodotti
sull’ambiente e ai loro significati sociali, con la conseguenza che nelle scelte
che si compiono vengono introdotte motivazioni altruistiche e socialmente
ispirate;
•
la riflessività, vale a dire una sensibilità nei confronti di elementi quali l’etica,
la responsabilità sociale, la sostenibilità sociale e ambientale.
Alla luce di questi mutamenti, quindi, va riconsiderato il rapporto tra produzione e consumo. Mentre nella società della produzione di massa il consumatore assumeva una posizione passiva, di soggezione nei confronti dell’offerta, che
cercava di plasmarlo sulla base delle sue esigenze e di farlo agire secondo le sue
previsioni, oggi il consumatore ha modificato la natura del rapporto con la produzione, diventando più dialettico e più creativo. Questo processo di interazione ha
assunto una forma tale che la funzione, la forma del prodotto, il suo significato
possono diventare sempre più spesso il risultato di un processo di co-definizione
tra produttore e consumatore. Il fenomeno è in fase di progressivo consolidamento,
al punto che comincia a utilizzarsi il termine “prosumer” (producer + consumer)
per indicare un nuovo soggetto sociale, in grado di sviluppare un ruolo attivo, competenze specifiche e un sapere specialistico da lui elaborato, diventando almeno
teoricamente, per chi produce, una fonte di esperienze e di conoscenze innovative
(Fabris, 2010).
3.2.2 Peculiarità della comunicazione nelle aziende che praticano la RSI
Nella veste di strumento di informazione, la comunicazione rappresenta un
valore nell’ambito del sistema aziendale, svolgendo un ruolo determinante e indispensabile per il raggiungimento delle finalità imprenditoriali. In tutte le aziende
che conseguono un profilo di RSI, la comunicazione sociale ha lo scopo di informa-
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parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
re gli stakeholder sui risultati raggiunti nel modo più chiaro e sintetico possibile,
avvalendosi di una documentazione che sia in grado di soddisfare le richieste conoscitive in modo rapido. Tuttavia, la comunicazione sociale non può svolgere soltanto
una funzione di tipo informativo, ma deve assolvere anche al compito di creare le
condizioni per attivare un rapporto di tipo relazionale tra gli interlocutori.
Specificamente, il processo comunicativo nelle imprese che operano
nell’area della responsabilità sociale implica la trasmissione di informazioni sia sui
valori dell’azienda, sia sul tipo di prodotti o di servizi forniti. D’altra parte, l’attivazione di un valido processo comunicativo rappresenta la condizione indispensabile
perché l’etica e la responsabilità si trasformino da valori personali del singolo imprenditore o dei manager a elementi portanti della cultura aziendale. Così come,
in tutti i casi nei quali la comunicazione prescinde dall’etica, essa appare, per lo
più, retorica priva di contenuto: pratica che talvolta nasconde fatti che potrebbero
nuocere negativamente alla reputazione aziendale e che è rivolta a conseguire consenso a buon mercato (Vermiglio, 2004).
In effetti, il rilievo crescente delle dimensioni legate all’etica nella scelta di un
prodotto o di un servizio ha indotto talvolta alcune imprese, consapevoli delle nuove
sensibilità del consumatore, ad assumere comportamenti scorretti, attribuendosi,
per esempio attraverso la pratica del green washing, crediti di compatibilità ecologica attraverso il patrocinio di cause di rilievo ambientale: disinteressandone, però,
nell’ambito del proprio operare.
Alla luce del nuovo profilo del consumatore, dunque, qual è il ruolo che può
ricoprire il marketing? Con riferimento alle imprese che adottano pratiche di responsabilità sociale e che operano nel settore agricolo e agroalimentare, va sottolineato che, superata la fase della produzione indifferenziata in cui il cliente era
considerato un soggetto da condizionare, sedurre e conquistare, oggi il marketing dovrebbe assumere un orientamento assai diverso rispetto al passato, volto a
fare del consumatore, sulla base di una relazione biunivoca, un vero interlocutore
dell’impresa, utilizzandone con successo il patrimonio di conoscenze e di saperi
(Fabris, 2010). Orientamento al consumatore, infatti, significa capacità di soddisfarne i bisogni, i desideri, le attese, cercando di adeguare le caratteristiche dei
prodotti alle sue esigenze. Come ha scritto Giaretta (2000, p. 73), nella fase in cui il
marketing è orientato al consumatore «la competitività dell’impresa viene allora a
formarsi non solo nei termini di risolvere direttamente i problemi del consumatore,
ma anche di tutelarne i diritti all’informazione, alla sicurezza, alla libertà di scelta,
all’ascolto, alla qualità promessa e alla parità di trattamento».
Il tema che si pone, quindi, è relativo al modo con cui orientare il marke-
87
ting nella stessa direzione dell’ecologia e della responsabilità sociale. In questo
senso è necessario analizzare il contributo che proprio il marketing può apportare
nell’adottare nuovi stili di vita: esigenza, quest’ultima, particolarmente sentita alla
luce della rilevanza dei problemi ambientali43. In questo nuovo scenario è stata ipotizzata la possibilità di impiegare il marketing in tre direzioni (Fabris, 2010).
La prima è quella in cui possa incentivare comportamenti virtuosi e disincentivare comportamenti inappropriati. Nell’impresa che già adotta criteri di responsabilità sociale nello svolgimento della sua attività, tale forma di marketing
deve informare il consumatore dell’alto livello di qualità che i prodotti riescono a
raggiungere. L’impresa, in questo caso, promuove alcune caratteristiche dei propri
beni al fine di trarne un vantaggio competitivo: quanto più il mercato del bene risulta concorrenziale, tanto più rapido sarà l’adeguamento a tali standard da parte
delle altre imprese. Ciò incentiverà l’impresa che ha percorso la strada della RSI a
proseguire nell’innovazione, introducendo standard ancora più rigorosi.
La seconda direzione è quella in cui il marketing venga utilizzato da parte
delle imprese che già abbiano raggiunto standard elevati e che vogliono far partecipare attivamente i consumatori non solo all’acquisto dei propri prodotti, ma
anche all’adozione di pratiche che prevedano un loro coinvolgimento nella stessa
direzione e in coerenza con l’atto di acquisto.
La terza direzione, infine, fa riferimento a pratiche di decolonizzazione culturale. In tal caso il marketing dovrà svolgere una funzione pedagogica, contribuendo
alla diffusione di stili di vita che contraddicano quelli che oggi si sono fortemente
radicati, con riferimento soprattutto alla rivisitazione dei concetti di felicità e di
benessere.
3.3 Aspetti rilevanti della comunicazione della RSI
Guardando, quindi, agli elementi caratterizzanti il profilo del “nuovo” consumatore è evidente la crescente relazione biunivoca che nel corso degli ultimi
anni ha legato le scelte di consumo responsabile con quelle della produzione di
beni e servizi. In questo paragrafo ci si soffermerà, pertanto, sugli aspetti ritenuti
fondamentali della strategia di comunicazione della RSI, ovvero dello strumento
più importante di cui l’impresa dispone per rafforzare tale legame.
In generale, comunicare agli stakeholder ciò che l’impresa ha deciso di at43 Sul tema dell’orientamento dell’impresa agli stakeholder nel marketing contemporaneo cfr. Kotler
P. (2007), Marketing management, Addison & Wesley, Longman Italia.
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parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
tuare nell’ambito delle azioni socialmente responsabili non significa esclusivamente fornire notizie sui beni e servizi prodotti, ma soprattutto dare informazioni sui
valori e sugli obiettivi che la stessa persegue. Inoltre, rendendo pubblica la propria
strategia di responsabilità sociale si coinvolge l’intera comunità e si trasmette un
esempio positivo alle altre realtà aziendali che operano nel settore di appartenenza.
L’esigenza delle imprese di comunicare i loro comportamenti socialmente
responsabili deriva, quindi, dal bisogno di confrontarsi continuamente con i propri
interlocutori, condividendone le esperienze maturate e costruendo un percorso di
crescita comune, che si traduca in scelte di politica aziendale più trasparenti e attente alle sensibilità etiche, sociali e ambientali dei consumatori.
In particolare, all’impresa agricola e agroalimentare che intraprende percorsi di responsabilità sociale nello svolgimento della propria attività, proprio in
ragione delle peculiarità del settore, è richiesto un constante impegno volto a pubblicizzare tali percorsi, sia internamente sia esternamente, costruendo in questo
modo una strategia di comunicazione ottimale.
Pur differenziandosi da impresa a impresa in relazione all’attività svolta e al
settore di provenienza, la comunicazione della RSI presenta dei contenuti comuni
che interessano i seguenti aspetti: indicazioni valoriali, caratteristiche del prodotto
e del servizio offerto, sostenibilità ambientale, relazioni con il personale, i clienti, i
fornitori, i soci, la comunità territoriale di appartenenza e gli Enti locali. È opportuno sottolineare che le modalità di attuazione della strategia di comunicazione su
questi temi sono strettamente legate a due fattori ben precisi, quali le dimensioni
dell’impresa e il relativo stato di avanzamento nell’applicazione dei principi della
responsabilità sociale. È evidente, infatti, che le imprese (di norma quelle di maggiori dimensioni) che da lungo tempo hanno avviato un processo di internalizzazione dei principi della RSI e intrapreso concrete azioni e iniziative in tale ambito si
mostrano interessate e coinvolte nella quasi totalità dei temi evidenziati in precedenza e sono pertanto in grado di fornire un’informazione completa ed esauriente
agli stakeholder. Al contrario, le imprese di piccole dimensioni, soprattutto all’inizio
del loro percorso di RSI, spesso sottovalutano l’importanza dell’adozione di una
strategia di comunicazione per mancanza di esperienza e, a causa dei costi da sostenere, preferiscono concentrarsi esclusivamente su alcuni temi specifici di loro
maggiore interesse.
Nel settore agricolo e agroalimentare, proprio la ridotta dimensione di moltissime imprese, spesso a carattere famigliare, sembra rappresentare un fattore
ostativo all’attuazione di un’efficace strategia di comunicazione. Molte aziende del
settore, infatti, rinunciano o limitano la comunicazione della RSI, considerandola
89
un’attività eccessivamente costosa, priva di un immediato ritorno economico, oppure un fattore di natura secondaria e di competenza esclusiva delle imprese più
grandi o, addirittura, uno strumento di mera promozione e/o di marketing fine a se
stesso.
Tuttavia, nonostante l’entità dell’investimento iniziale scoraggi la maggior
parte delle piccole imprese, queste potrebbero addirittura costruire una strategia
comunicativa volta a ottenere benefici di breve–medio periodo, dal punto di vista
della reputazione e sotto il profilo economico, sfruttando, ad esempio, la alla relazione, spesso diretta, con la comunità locale di appartenenza.
Pertanto, il fatto che gli sforzi tesi a sviluppare la consapevolezza della RSI
non siano stati fino a oggi una priorità necessita di una approfondita riconsiderazione; infatti, riuscire a portare a conoscenza degli stakeholder le attività intraprese
in tema di RSI potrebbe determinare vantaggi per l’azienda e potrebbe spingere
persino altre imprese ad attuare attività analoghe (sulla base del principio di emulazione), aumentando il benessere generale della collettività (Cfr. par.4).
A questo proposito sembra quanto mai indispensabile, da parte delle istituzioni e della comunità stessa, riuscire ad accrescere il know-how complessivo, per
far sì che questo diventi una risorsa a disposizione di tutti gli stakeholder, favorendo l’attivazione di un circolo virtuoso per la creazione di valore, mediante la diffusione di una nuova cultura d’impresa e, in particolare per le imprese del settore
agroalimentare, delle best practice in tema di RSI.
3.3.1 Caratteristiche e funzioni: da informazione a coinvolgimento
Rispetto alla consueta comunicazione d’impresa, la comunicazione della RSI
si presenta necessariamente più diretta, meno filtrata e più attenta agli elementi
di possibile feedback, ovvero maggiormente sensibile alle reazioni dei portatori di
interesse. Infatti, mentre la comunicazione d’impresa tout court solitamente si limita ad assolvere un ruolo di promozione dei beni e servizi a cui fa riferimento, nel
caso della comunicazione in tema di RSI, indipendentemente dal settore di appartenenza, si perseguono una molteplicità di obiettivi legati alle varie tipologie degli
stakeholder da coinvolgere e alla necessità di avvalersi di strumenti più immediati.
In altre parole, il bisogno di raggiungere vari soggetti interessati ad aspetti diversi
della RSI impone all’impresa di adottare una strategia comunicativa differenziata,
ma allo stesso tempo semplice e trasparente.
In questo contesto, la partecipazione o l’organizzazione di eventi ad hoc, qua-
90
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
li riunioni, seminari, conferenze e workshop, il rilascio di interviste, la pubblicazione di periodiche newsletter o riviste e l’utilizzo diffuso del web assumono una particolare rilevanza. Tali strumenti dovrebbero rappresentare uno dei punti cardinali di
un nuovo tipo di comunicazione, basato su costanti rapporti interpersonali e su una
crescente interattività, al fine di mettere in contatto l’impresa con i propri interlocutori e ciascun gruppo di stakeholder con gli altri e fare in modo che ognuno possa
realmente comprendere e condividere i bisogni di tutte le parti coinvolte.
L’obiettivo prioritario della comunicazione di RSI è quello di interessare contemporaneamente una pluralità di soggetti, in linea con una concezione sistemica dell’impresa socialmente responsabile, evitando il più possibile di organizzare
momenti di dialogo “a compartimenti stagni”, distinguendo, cioè, tra l’impresa e
i lavoratori, tra l’impresa e i fornitori, tra l’impresa e le associazioni di categoria
e, infine, tra l’impresa e le università e/o gli istituti di ricerca. Alla luce di queste
considerazioni, è facilmente spiegabile il fatto che le campagne pubblicitarie del
tipo “advertising”, tradizionalmente molto sfruttate dalla comunicazione, ricoprano nell’ambito della RSI solo un ruolo marginale, in genere riconducibile ai casi di
cause-related marketing44.
Partendo dalla necessità di un costante confronto tra l’impresa e gli stakeholder, all’interno delle varie funzioni svolte dalla comunicazione in tema di RSI, la
letteratura prevalente distingue tra una “comunicazione partecipativa” e una “comunicazione programmatica”.
Per comunicazione partecipativa si intende il momento del confronto tra
un’impresa socialmente responsabile, che sceglie di dotarsi di standard e sistemi
di rendicontazione della qualità e delle performance ambientali, sociali ed etiche, e
gli stakeholder. Infatti, è fondamentale che l’impresa, una volta deciso di introdurre
tali strumenti di monitoraggio, controllo (ex ante) e valutazione (ex post), renda
partecipi i soggetti interessati allo svolgimento della propria attività, creando dei
momenti di aggregazione per fare in modo che queste pratiche diventino un patrimonio condiviso da tutti i componenti dell’azienda. Pertanto, se un’impresa decide
di adottare un proprio codice etico oppure il bilancio sociale, non deve limitarsi
a comunicare l’avvenuta introduzione, una volta terminata la redazione del documento, ma deve necessariamente informare e dialogare con i propri stakeholder
prima, ovvero in corso d’opera In questo modo, tutte le componenti aziendali hanno
la possibilità di interagire e contribuire a definire l’identità dell’impresa e i principi
44 Campagne promozionali nelle quali l’azienda collabora con un altro soggetto (in genere un’organizzazione no profit) allo scopo di promuovere un prodotto “etico” o di raccogliere fondi per un’iniziativa
benefica.
91
della sua condotta, per fare in modo che gli strumenti di rendicontazione e gli standard diventino uno strumento condiviso e riconosciuto da ciascuno come proprio.
La comunicazione programmatica riguarda, invece, la propensione dell’impresa a instaurare un rapporto stabile con i propri interlocutori, al fine di individuare gli obiettivi comuni e il modo ottimale per il loro raggiungimento. È questo,
ad esempio, il caso delle relazioni tra l’impresa, attore fondamentale del tessuto
sociale e uno fra gli interlocutori principali della Pubblica Amministrazione, e gli
stessi Enti locali, i quali, nel perseguire l’interesse pubblico, hanno il compito di
fare da cerniera fra lo Stato e la società civile, recependo le istanze di quest’ultima
e, al contempo, proponendo le soluzioni più idonee. Si profila, pertanto, uno scenario nel quale gli Enti locali rappresentano un referente strategico dell’impresa,
attraverso cui si possono intrecciare relazioni strategiche mutuamente profittevoli
a vantaggio del benessere comune.
Accanto alla funzione partecipativa e programmatica, la comunicazione
nell’ambito della RSI svolge anche un ruolo di “tutela preventiva” nei confronti
di un’opinione pubblica non solo attenta al rapporto qualità/prezzo, ma anche
sempre più vigile e critica sui temi legati al rispetto dell’ambiente, del territorio
e del lavoro. Fra i consumatori, infatti, cresce la consapevolezza di poter incidere significativamente anche sulle performance economiche delle imprese per
mezzo delle proprie scelte d’acquisto, arrecando notevoli danni nei casi in cui si
accerti che le aziende adottino comportamenti difformi da quanto annunciato in
tema di RSI45. Le imprese, quindi, dovrebbero comunicare costantemente la propria condotta, dal momento che la sola percezione di comportamenti non in linea
con le attese potrebbe indurre i consumatori a non acquistarne più i prodotti,
determinando di conseguenza una sostanziale contrazione della domanda e una
conseguente caduta dei ricavi46.La sensibilizzazione del consumatore sull’attività
di responsabilità sociale svolta dall’impresa, pertanto, dovrebbe indurlo non solo
ad acquistare i beni e i servizi offerti, ma a compiere le proprie scelte in maniera
consapevole.
45 Ciò implica che le caratteristiche del prodotto offerto dovrebbero necessariamente coincidere con i
criteri o i valori in base ai quali il consumatore “critico” ha compiuto la scelta.
46 Le imprese socialmente responsabili hanno sicuramente il massimo interesse a sensibilizzare il
proprio consumatore con una comunicazione adeguata; non si può affermare, infatti, che a fronte
di un comportamento socialmente responsabile realmente intrapreso, vi sia un immediato e diretto
riscontro in termini di aumento dei volumi di vendita, poiché le scelte dei consumatori appaiono
ancora oggi in molti casi motivate da criteri che non includono l’etica dell’impresa e/o un suo comportamento responsabile. Tuttavia, è noto che la comunicazione, di per sé, può svolgere un ruolo
determinante nella percezione che il consumatore ha dell’impresa e dei suoi prodotti e, se opportunamente impostata, del suo comportamento socialmente responsabile.
92
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
Come accennato nel paragrafo precedente, la strategia comunicativa delle
imprese si differenzia in modo sostanziale a seconda del settore di appartenenza.
Nel settore agricolo e agroalimentare, tenuto conto delle specificità di ogni singolo comparto, le preoccupazioni in termini di comunicazione di RSI riguardano
l’effettiva capacità dell’impresa di informare adeguatamente il consumatore sulle
azioni che essa ha intrapreso. La comunicazione, pertanto, può svolgere tante
funzioni quante sono le azioni socialmente responsabili dell’impresa, come, ad
esempio: a) rassicurare i propri stakeholder sulla qualità dei propri prodotti, con
particolare riferimento alla selezione e provenienza delle materie prime, al relativo processo di lavorazione e confezionamento e alla sicurezza del prodotto finale47, anche perseguendo l’obiettivo di diffondere la cultura di una corretta e sana
alimentazione; b) informare i consumatori circa l’effettiva riduzione dell’impatto
ambientale riconducibile alla produzione dei beni e servizi offerti, con specifico
riferimento alla gestione dei rifiuti e alla loro parziale o completa riciclabilità, alla
riduzione delle emissioni inquinanti, all’utilizzo di energie alternative pulite; c)
mostrare agli stakeholder che l’eticità della produzione riguarda anche l’utilizzazione del fattore lavoro, non solo attraverso il pieno rispetto delle norme di legge
in tema di sicurezza del lavoro, ma soprattutto grazie alla costante valorizzazione
della manodopera impiegata e alla sua consultazione e/o partecipazione attiva
alle decisioni relative ad alcuni aspetti della gestione dell’impresa48; d) evidenziare il forte legame che si è creato con la comunità locale, in grado da un lato di
promuovere su scala nazionale o internazionale le produzioni, la cultura e i valori
locali, valorizzando il territorio, le tradizioni e i prodotti tipici, dall’altro di favorire
la crescita economica attraverso la creazione di posti di lavoro nelle produzioni
principali e nell’indotto; e) mostrare di avere attenzione al processo di selezione
e controllo dei fornitori, attraverso la verifica dell’adozione di codici di comportamento e di standard di certificazione sulle caratteristiche dei prodotti e/o dei
servizi forniti, e sulla rintracciabilità dei prodotti, ad esempio comunicando, nel
caso delle aziende della distribuzione, i marchi che vengono commercializzati
attraverso le private label, riconducendo la propria reputazione a quella di case
47 Alla luce delle recenti crisi alimentari internazionali (BSE, febbre aviaria), appare evidente come il
consumatore sia particolarmente attento a tutte le fasi legate alla catena della produzione, dalle
materie prime utilizzate, con riferimento, ad esempio, all’eventuale uso di organismi geneticamente
modificati, alla valutazione delle tecniche di confezionamento e di conservazione.
48 Il miglioramento delle condizioni di lavoro attraverso politiche del personale centrate sull’investimento in capitale umano e più attente alle esigenze dei lavoratori-dipendenti tende a distendere il
clima delle relazione lavorative, potendo indurre, allo stesso tempo, un incremento della produttività del lavoro e della redditività dell’impresa.
93
produttrici già note; f) fornire informazioni, soprattutto nel caso delle imprese di
grandi dimensioni, riguardo alla corporate governance49 sia riportando i compiti
dei vari organi e i rapporti di comunicazione e controllo fra gli stessi (carta dei valori, codice etico e bilancio sociale), sia aumentando la trasparenza del processo
di decisione aziendale attraverso il coinvolgimento diretto dei singoli amministratori, per dare non solo un’anima ma anche un volto all’azienda.
Un’efficace strategia di comunicazione dovrebbe tradursi in un approccio
multidimensionale, in grado di coprire tutte le aree in cui è stato adottato dall’impresa un comportamento socialmente responsabile e di interfacciarsi con i relativi interlocutori. Nella realtà, tuttavia, l’approccio comunicativo, soprattutto verso
l’esterno, della RSI dipende fortemente dal modo in cui le imprese interpretano la
responsabilità sociale. Per molte di esse, infatti, essere socialmente responsabili
significa limitarsi, da un lato, alla redazione del bilancio sociale o del codice di
condotta e, dall’altro, ad azioni di solidarietà verso la comunità che, il più delle
volte, si concretizzano in donazioni o contributi una tantum a specifici eventi. Altre imprese, invece, interpretano la responsabilità sociale in maniera più estesa,
integrandone quotidianamente le pratiche all’interno del proprio processo gestionale e decisionale e coinvolgendo in tale processo ogni funzione aziendale e
tutti gli stakeholder di riferimento.50 È in questa direzione che, nonostante i netti
progressi compiuti nell’ultimo decennio in tale ambito, le imprese del settore
agricolo e agroalimentare dovranno convergere, al fine di sfruttare appieno i benefici economici e i vantaggi, anche competitivi, in termini di credibilità, derivanti
dall’applicazione delle pratiche di RSI.
3.3.2 I soggetti destinatari della comunicazione della RSI
Le iniziative di responsabilità sociale delle imprese coinvolgono una molteplicità di soggetti che possono essere raggruppati, per facilità espositiva, in
quattro distinte categorie di stakeholder: mercato, luogo di lavoro, comunità e
ambiente.
Il mercato, che entra in gioco quando l’azienda desidera informare sul suo
49 Con il termine corporate governance si indica l’insieme delle procedure che riguardano la gestione
e il controllo dell’impresa.
50 Si tratta, per la rilevanza dell’attenzione mediatica e delle istanze di consumatori, associazioni e comunità locali a loro rivolte, di aziende di grandi dimensioni e di multinazionali, che per prime hanno
adottato tali pratiche.
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parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
modo di operare responsabilmente, include quali potenziali soggetti interessati,
i clienti, compresi i lavoratori dell’azienda nella veste di possibili acquirenti, le
associazioni di consumatori, i fornitori, i partner aziendali e gli investitori. Gli
sforzi attuati dall’impresa verso questi stakeholder comprendono azioni volte a
migliorare il supporto dei fornitori locali, la soddisfazione del cliente, l’etica commerciale, la garanzia dei diritti del consumatore, le condizioni di vita e di lavoro
puntando, ad esempio, su un livello elevato di qualità e sicurezza del prodotto/
sevizio, sulla divulgazione delle informazioni attraverso l’etichettatura, sulla sostenibilità dell’imballaggio, sull’adozione di determinati criteri di selezione dei
partner commerciali.
Il luogo di lavoro, che è interessato dai miglioramenti ottenuti con l’adozione di strategie di RSI all’interno dell’azienda, comprende le risorse umane interne, i sindacati (eventualmente presenti), la comunità locale (comprese le associazioni di categoria) e le autorità pubbliche. In tale ambito, l’impresa può adottare
un insieme di azioni che riguardano: la soddisfazione professionale, la salute e
la sicurezza dei lavoratori, la formazione e l’aggiornamento delle risorse umane
(ovvero l’investimento in capitale umano), il rispetto delle pari opportunità di impiego e delle diversità (religiose, cultuali e fisiche), l’equilibrio lavoro/vita privata
(flessibilità di orario, eventuale disponibilità di asili nido aziendali).
Invece, quando l’azienda ha interesse a fornire informazioni sull’impegno
verso la comunità locale, le iniziative tendono a focalizzarsi su: lavoratori; organizzazioni o istituzioni locali (per esempio associazioni, scuole, ospedali); autorità pubbliche e organizzazioni non profit. Alcuni esempi concreti di tali interventi
possono includere gli sforzi dell’azienda tesi al rafforzamento dell’integrazione
sociale (tolleranza etnica e coesione sociale), del benessere e/o dell’istruzione,
nonché al miglioramento della qualità della vita e delle infrastrutture locali, oltre
alla partecipazione a eventi di beneficienza.
Infine, se l’impresa desidera comunicare le iniziative intraprese per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente, dovrebbe rivolgersi ai seguenti interlocutori: lavoratori, partner commerciali, organizzazioni non profit, consumatori, autorità pubbliche e comunità locale. In questo caso le iniziative potrebbero riferirsi,
ad esempio, alla riduzione dell’inquinamento energetico e idrico, alla riduzione
dell’uso di sostanze chimiche pericolose, al non utilizzo di organismi geneticamente modificati, al mantenimento dell’equilibrio biologico evitando l’eccessivo
sfruttamento delle risorse naturali coinvolte, alla riduzione della produzione dei
rifiuti e alle modalità di smaltimento dei rifiuti pericolosi.
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3.3.3 Gli strumenti
Al fine di rendere la comunicazione delle pratiche di RSI pienamente efficace, è necessario che l’impresa individui un set ampio di strumenti51 in grado di
soddisfare, di volta in volta, tutte le richieste informative dei relativi stakeholder. È
logico, quindi, attendersi che la scelta degli strumenti di comunicazione da attivare
dipenda dai soggetti che si desidera raggiungere, dalle capacità e dalle risorse a diposizione dell’impresa e, in particolare, dalla tematica che si intende trattare. Pertanto, a seconda dell’interlocutore al quale si rivolge, ciascuna impresa predispone
differenti strumenti comunicativi, attiva canali distinti e utilizza linguaggi diversi.
I mezzi di comunicazione della RSI più comunemente utilizzati nel settore
agricolo e agroalimentare comprendono: etichette del prodotto, confezioni di imballaggio, comunicati stampa, newsletter, eventi collegati, relazioni, poster, volantini, brochure, siti web, pubblicità, pacchetti informativi o, semplicemente, il “passaparola”. Una comunicazione efficace deriva dall’impiego degli strumenti idonei a
garantire che la categoria degli stakeholder interessata recepisca adeguatamente
il messaggio; per questo motivo è importante individuare, per ogni categoria di
portatori di interesse, gli strumenti più adatti a tale scopo.
In primo luogo, ogni impresa deve tener conto dei clienti/consumatori a cui è
rivolto il maggiore sforzo comunicativo, a partire dall’impostazione del sito internet
che oggi rappresenta la vetrina aziendale. Poiché la comunicazione di RSI deve avere tre caratteristiche fondamentali, ovvero semplicità, trasparenza e immediatezza,
anche il sito web deve essere predisposto in modo da rendere facile la navigazione
e immediatamente fruibili i contenuti. In esso devono essere presenti sezioni appositamente predisposte sulle azioni socialmente responsabili, all’interno delle quali
gli interessati possono trovare documenti istituzionali, come il bilancio sociale e la
carta dei valori, eventualmente modellati sulle esigenze dei consumatori e arricchiti da immagini e riquadri esemplificativi per consentirne una lettura più agevole.
Il sito, inoltre, si presta a divenire luogo di comunicazione interattiva, attraverso i
servizi di mailing forniti da diverse aziende, nel tentativo di instaurare un rapporto
diretto52. Altre azioni di comunicazione dirette al consumatore sono: a) l’attivazione
di call center informativi con l’utilizzazione di figure professionali adeguatamente
51 L’obiettivo di questo paragrafo è di soffermarsi sugli strumenti più rilevanti ai fini della comunicazione delle pratiche di RSI; per un’analisi approfondita degli strumenti in tema di RSI si confronti Cap.
4.
52 Un limite all’efficacia di tale strumento deriva dalla composizione della propria clientela e dalle
caratteristiche del core business di riferimento, con il rischio di non raggiungere i clienti che non
hanno accesso o consuetudine alla navigazione sul web.
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parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
formate; b) la costituzione di propri punti vendita per valorizzare presso i consumatori la sensibilità aziendale verso le questioni sociali e ambientali, impiegando
oltre al personale, panel informativi e utilizzando brochure e opuscoli; c) la somministrazione di questionari da compilare ad hoc; d) il lancio di linee di prodotti
“sostenibili” (equo e solidale, biologico, ecologico).
In secondo luogo, vi è la comunicazione aziendale rivolta ai soci, indubbiamente incentrata sulla trasparenza della gestione aziendale e legata ai temi della
corporate governance. In questo caso lo strumento fondamentale per l’impresa è
quello dell’assemblea annuale, anche se l’invio periodico di materiale informativo
sotto forma di riviste, la possibilità di consultare bilanci sociali e/o di sostenibilità
e la costituzione di un dipartimento ad hoc destinato alla comunicazione con i soci
costituiscono valide alternative. Anche il sito internet, inoltre, potrebbe fornire alcuni servizi specificamente rivolti ai soci, individuando una sezione loro dedicata,
di norma ad accesso riservato, con una pagina sulle FAQ53, un servizio di mailing e
numerose informazioni utili, dai verbali delle assemblee alla corporate governance.
In terzo luogo, vi è la comunicazione interna destinata ai lavoratori dell’azienda, attenta anche agli aspetti formativi. Al riguardo, uno degli strumenti privilegiati
è intranet; attraverso il web, infatti, le informazioni possono circolare liberamente
fra gli addetti e si può costituire una sorta di archivio al quale può accedere chi
è interessato a ulteriori approfondimenti. Sono due le strategie principalmente
adottate: da un lato si prevede una pianificazione della formazione interna sulla
RSI, avvalendosi proprio di intranet (servizio di mailing, corsi on-line); dall’altro si
utilizza intranet come archivio e per l’arricchimento sui temi della RSI. Tuttavia,
nella formazione (e informazione) diretta ai lavoratori non si devono tralasciare
alcuni strumenti tradizionali, quali i manuali e le linee guida distribuite in versioni
cartacee, i magazine aziendali con uscita periodica e gli incontri formativi rivolti al
personale dirigenziale, amministrativo e operativo.
In quarto luogo, si distingue una comunicazione aziendale rivolta ai fornitori
a scopo informativo ma anche di formazione e di controllo. Al riguardo, un numero
crescente di imprese predispone dei codici di condotta e delle linee guida specificamente rivolte ai propri fornitori, che sono tenuti a seguirle. Talvolta si cerca di
instaurare una relazione di feedback anche con i fornitori, somministrando loro dei
questionari da compilare.
Infine, si deve sottolineare il rapporto con la comunità locale di appartenen53 Con l’acronimo FAQ (Frequently Asked Questions) si intendono le domande che gli utenti più frequentemente pongono all’impresa.
97
za, che si sviluppa lungo due direttrici. La prima si riferisce al rapporto con gli enti
locali attraverso una collaborazione avente per oggetto, di norma, l’elaborazione e
la successiva valutazione di nuovi standard e di strumenti di valutazione e rendicontazione delle performance. La seconda interessa la comunità locale nell’accezione
più ampia del termine, con l’obiettivo di instaurare un rapporto diretto e di vicinanza alla comunità. Tale rapporto nasce e si consolida mediante l’organizzazione di
grandi eventi e la concessione di donazioni, traducendo la comunicazione in azioni tangibili. Un’altra modalità utilizzata è quella volta a incontrare direttamente i
membri della comunità, organizzando seminari sia con suoi esponenti, ma anche
entrando nelle scuole con percorsi formativi e materiale informativo. Qualora il termine comunità fosse inteso in maniera ancora più estesa, non dovrebbero mancare gli incontri con organizzazioni non governative, associazioni di categoria e altre
associazioni di rilievo per la collettività, allo scopo di coinvolgerle direttamente nei
processi decisionali e gestionali, per discutere insieme su come l’impresa possa
integrarsi sul territorio.
Naturalmente, dovrebbero essere accuratamente gestite le relazioni con la
comunità scientifica, alla quale vengono indirizzati documenti di ricerca, che si vanno ad aggiungere al diretto coinvolgimento di alcune imprese in gruppi di ricerca e
network nazionali ed internazionali.
3.4 Limiti e opportunità nell’attuazione della comunicazione della RSI
Nell’ambito del settore agricolo e agroalimentare italiano, caratterizzato per
lo più, come più volte sottolineato, da una dimensione piccola e media dell’impresa,
la comunicazione della RSI, se ben strutturata, garantisce importanti opportunità
di crescita e conseguenti miglioramenti dei risultati economici. Tuttavia, nel contesto delle modalità con cui viene definito e realizzato il processo comunicativo,
spesso si manifestano anche rilevanti criticità che rischiano di compromettere la
reputazione aziendale nei confronti degli stakeholder, finendo per incidere in modo
negativo anche sui risultati economici conseguiti.
3.4.1 Limiti
Una prima problematica che emerge relativamente alla comunicazione della
RSI fa riferimento proprio alla dimensione dell’impresa agricola e agroalimentare,
98
parte seconda
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che talvolta risulta troppo piccola per consentirle di sviluppare politiche comunicative adeguate. In questo senso, l’impresa spesso non riesce ad avere un’adeguata
percezione dell’importanza del processo comunicativo; oppure, non essendo comunque abituata a parlare dei propri valori, non manifesta la sensibilità necessaria
per farlo, realizzando una comunicazione che rischia di non utilizzare i toni giusti
e il linguaggio appropriato. D’altra parte, la piccola dimensione incide anche sulla
possibilità di acquisire le risorse finanziarie adeguate per sostenere i costi della
comunicazione; in particolare, possono emergere difficoltà a coprire i costi fissi,
quando non si dispone di una scala dimensionale sufficiente per poterli facilmente
ammortizzare sull’ammontare della produzione realizzata.
Invece, nei casi in cui sono state comunque attivate forme di comunicazione, una criticità che spesso si evidenzia è legata all’eccessiva enfasi utilizzata, sia
per valorizzare le caratteristiche “positive” dei prodotti e dei processi implementati,
sia in riferimento al tema dell’etica. Quest’ultimo, infatti, si mostra un argomento
particolarmente critico agli occhi del consumatore, a causa dei vari scandali alimentari che hanno coinvolto anche imprese agricole e agroalimentari, che pure
avevano adottato comportamenti socialmente responsabili, impiegando strumenti
di rendicontazione e di comunicazione apparentemente ineccepibili.
Un’ulteriore problematica riguarda l’incoerenza, spesso presente nei processi comunicativi. In questo caso la comunicazione rischia di essere percepita come
strumento finalizzato soltanto a “ripulire” l’immagine dell’impresa che la propone:
un classico esempio di incoerenza è dato dalla pratica del greenwashing54. Proprio
al fine di scongiurare l’incoerenza, invece, l’impresa dovrebbe evitare di promuovere le proprie attività verso l’esterno se non le ha prima condivise al suo interno,
così come dovrebbe esimersi dal comunicare ciò che non ha realmente effettuato,
ovvero non annunciando progetti, ma comunicando soltanto i risultati conseguiti.
3.4.2 Opportunità
La comunicazione della RSI, se organizzata in modo ragionevole e con gli
strumenti adatti, può offrire importanti opportunità per trasmettere e diffondere
i valori a cui si richiama l’impresa, per metterne in luce i tratti distintivi, per farla
entrare il più possibile in sintonia con i suoi diversi stakeholder, avvicinandola in
questo modo al consumatore e ai suoi riferimenti valoriali. Per questo occorre che
54 Cfr. infra, par. 2.
99
tale forma di comunicazione sia sempre esaustiva, trasparente e facilmente recepibile. Un valido processo comunicativo delle pratiche di responsabilità sociale
adottate produce effetti positivi sia all’interno, sia all’esterno dell’impresa: da un
lato, esso migliora la gestione dei rapporti con i lavoratori e con i collaboratori/fornitori, dall’altro consolida la sua presenza sul territorio di riferimento e consente
di realizzare progetti innovativi e di maggior successo per il mercato, con concreti
miglioramenti dei risultati economici. In questo ambito di analisi, dunque, una buona comunicazione permette di aumentare la reputazione dell’impresa agli occhi dei
suoi principali interlocutori e quindi la fiducia che essi ripongono nei confronti del
suo operato. La chiarezza e la trasparenza, perciò, risultano delle condizioni necessarie per conquistare e conservare il credito accumulato presso i clienti: proprio
per questo occorre che l’impresa comunichi sempre il vero e che allo stesso modo
eviti di nascondere i problemi che possa aver incontrato o che sta affrontando.
D’altra parte, una buona strategia comunicativa è quella che consente all’impresa di instaurare un rapporto di tipo sinergico con i suoi principali stakeholder,
consentendo loro di influire su alcune decisioni aziendali. Proprio da una strategia
di questo tipo, come già accennato, scaturisce un impulso decisivo alla costruzione (e conseguente soddisfazione) di un nuovo profilo del consumatore: quello del
“prosumer”55.
3.5 Conclusioni
La strategia di comunicazione della RSI, pur rappresentando, ancora oggi,
un aspetto poco dibattuto ed esplorato in letteratura, che necessita di ulteriore
approfondimento teorico ed empirico, costituisce, senza dubbio, un tema di vitale
importanza per migliorare la capacità dell’impresa di stare sul mercato. Per le
imprese del settore agricolo e agroalimentare, come si è visto, l’adozione di efficaci
pratiche di comunicazione potrebbe risultare strategica sia per superare i limiti di
competitività (e di sbocco sul mercato) - derivanti spesso dalle dimensioni ridotte
-, sia per aumentare la visibilità delle scelte socialmente responsabili attuate in
passato e che si intende realizzare nel prossimo futuro.
Comunicare la responsabilità sociale, a nostro avviso, è importante per l’impresa agricola ed agroalimentare in quanto la aiuta - con l’apporto di tutti i suoi stakeholder - a definire la propria identità, ma anche perché contribuisce a costruire
55 Cfr. infra, par. 2.
100
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
una solida reputazione e dunque a instaurare e rafforzare legami di fiducia, senza i
quali non sarebbe possibile svolgere alcuna attività economica. Ciò assume importanza fondamentale alla luce delle recenti evoluzioni delle scelte del consumatore,
divenuto sempre più “critico”, ovvero sensibile non solo al rapporto qualità/prezzo,
ma anche ai temi etici, sociali e ambientali.
Tuttavia, è importante non sottovalutare la fragilità del meccanismo reputazionale, in quanto gli investimenti sulla responsabilità sociale possono dare effetti
di reputazione nel medio o nel lungo periodo, mentre sono estremamente soggetti
a shock informativi di breve periodo. Affinché la reputazione si sviluppi in modo
efficace, dunque, è necessario che l’impresa assuma impegni anche in contesti
caratterizzati da eventi imprevisti o in cui l’informazione è asimmetrica (ovvero, distribuita in modo molto diseguale) e parallelamente occorre che gli stakeholder
possano verificare l’osservanza degli impegni anche quando mancano contratti regolarmente dettagliati e obiettivi espliciti. Infatti, come è stato osservato, (Morsing
e Schultzn, 2006., p. 6) «se il meccanismo reputazionale risultasse imperfetto, l’intero impianto della RSI ne risulterebbe invalidato».
101
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
Capitolo IV
Gli strumenti di RSI per le imprese agroalimentari
4.1 Introduzione
Il tema della RSI abbraccia molteplici ambiti della gestione aziendale e gli
strumenti che si possono utilizzare per esplicarla sono altrettanto numerosi e difficilmente riconducibili a un elenco finito. Tale circostanza è ancora più vera nel
contesto delle imprese agricole e agroalimentari che si caratterizzano per la loro
multifunzionalità56.
L’agricoltura multifunzionale può essere così spiegata: ogni giorno consumiamo i cibi che essa produce, usiamo gli spazi aperti e il paesaggio che gli agricoltori abitano e mantengono, usufruiamo della difesa del territorio dai dissesti
idrogeologici e godiamo di una condizione di maggiore sicurezza per noi stessi, per
gli insediamenti produttivi e per le infrastrutture necessarie alla vita civile. Agricoltura, quindi, non vuol dire solo cibo, ma anche ambiente, biodiversità, paesaggio, sicurezza idrogeologica, servizi alla popolazione, cultura e tradizioni: in altre
parole essa significa “qualità della vita”. Il riconoscimento della multifunzionalità
dell’agricoltura, ovvero della capacità del settore primario di dare origine a produzioni congiunte - beni fisici, servizi diversi ed esternalità ambientali, costituisce un
elemento di valore strategico per lo sviluppo del settore e un’importante opportunità economica per tutte le imprese agricole.
In Italia questi principi sono stati introdotti con il d.lgs. n. 228/2001, che amplia lo spettro delle attività considerate agricole, apportando sostanziali novità in
tema di configurazione giuridica e funzionale dell’impresa agraria (Germanò, 2006).
L’imprenditore agricolo, nelle nuove disposizioni del codice civile, emerge come
soggetto inserito in un contesto economico, sociale e territoriale, anche con com56 Il concetto di multifunzionalità è stato introdotto per la prima volta nel 1992 in occasione della Conferenza mondiale sull’ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro.
103
piti di presidio, tutela e valorizzazione delle risorse ambientali. Infatti, oltre alle attività agricole principali «dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una
fase necessaria a tale ciclo», l’imprenditore agricolo, in base al nuovo testo dell’art.
2135 del c.c., può svolgere anche attività dirette «alla manipolazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente dalla
coltivazione del fondo o del bosco o dell’allevamento di animali, nonché le attività
dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda, comprese le attività di valorizzazione del territorio e
del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione e di ospitalità». Oltre alla produzione di alimenti, dunque, l’attività agricola dà vita anche a funzioni secondarie.
Per l’Unione europea, secondo quanto previsto dall’Agenda 2000, la multifunzionalità indica il nesso fondamentale tra agricoltura sostenibile, sicurezza
alimentare, equilibrio territoriale, conservazione del paesaggio e dell’ambiente,
nonché garanzia dell’approvvigionamento alimentare. La multifunzionalità viene
promossa attraverso la propria Politica agricola comune (PAC) con la Strategia per
lo Sviluppo Rurale 2007-2013, che individua tre obiettivi generali: 1) migliorare la
competitività del settore agricolo e forestale; 2) valorizzare l’ambiente e lo spazio
rurale attraverso la gestione del territorio; 3) migliorare la qualità della vita nelle
zone rurali e promuovere la diversificazione delle attività economiche.
L’agricoltura multifunzionale presuppone, pertanto, un’innovazione sia nelle
politiche agricole sia nei sistemi di produzione e nell’organizzazione aziendale; a
tal proposito, la RSI si innesca proprio a partire dalla necessità di introdurre nuovi strumenti di gestione (Briamonte, Hinna, 2008). Anzi, l’adozione di strumenti di
responsabilità sociale è, forse, l’espressione più concreta della scelta di gestire la
propria attività in maniera etica.
Nelle Linee guida dell’INEA “Promuovere la responsabilità sociale delle imprese agricole ed agroalimentari” (AA.VV, 2007), alle quali si rimanda per un approfondimento, le motivazioni alla base della decisione di intraprendere un percorso
di RSI sono state suddivise in base ai vantaggi che ne possono derivare: interni o
esterni all’impresa; di breve o di lungo periodo. Tale scelta, infatti, non è dettata da
mere logiche di mercato - che da sole potrebbero bastare a garantire all’impresa
un successo in termini commerciali - ma deriva dalla decisione di portare avanti
una filosofia aziendale incentrata su valori e principi che si intende rendere trasparenti e condividere con i potenziali clienti. La trasparenza, come si è avuto modo
di evidenziare parlando di comunicazione57, è un elemento fondamentale della RSI
57 Cfr. infra, cap. 3.
104
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
che, insieme alla partecipazione degli stakeholder, deve essere presente trasversalmente in tutte le fasi di gestione dell’attività.
La multifunzionalità dell’impresa agricola, che può essere espressa
anche con l’adozione degli strumenti trattati in questo capitolo, si configura, pertanto, come uno degli elementi che caratterizzano il percorso di RSI
che l’impresa decide di implementare. Questo percorso, tenendo conto dei
vari ambiti di interesse dell’agricoltura - produzione, ambiente, paesaggio,
turismo, cultura, salute, sociale, ecc. - e dei vari soggetti che entrano in relazione con essa (stakeholder), non può fare a meno di esaltare la peculiarità
multifunzionale di questo settore, mettendone in evidenza le potenzialità di
sviluppo.
In questo capitolo viene presentato un ventaglio di possibili strumenti
utilizzabili per applicare la RSI nella gestione delle imprese agricole, senza
alcuna pretesa di voler fornire un elenco esaustivo, dato il carattere aperto
e discrezionale di tale materia. Partendo dagli strumenti di gestione della
governance a disposizione delle imprese agricole, nei paragrafi successivi
vengono analizzati gli strumenti esistenti per l’attuazione della RSI con riferimento ai tre elementi essenziali della multifunzionalità: la valorizzazione del
territorio e dei rapporti con le comunità locali: la salvaguardia ambientale; il
miglioramento delle condizioni di lavoro. A ognuno di questi tre temi è dedicato un paragrafo seguito da un sottoparagrafo in cui è illustrata l’attuazione
pratica degli strumenti di responsabilità sociale a esso legati.
Prima di passare all’analisi puntuale degli strumenti di RSI suddivisi in
base all’obiettivo a cui tendono, è possibile introdurre il tema della RSI nelle
aziende agricole con riferimento a quegli strumenti che hanno lo scopo di
qualificare le imprese che decidono di adottarli come socialmente responsabili. Rientrano in tale categoria: l’Accountability 1000 (AA 1000), il bilancio sociale, il bilancio ambientale, il bilancio di sostenibilità, il codice etico, la carta
dei valori, lo Standard Etico e Sociale (SA8000) e l’organizzazione di workshop
interni per la sensibilizzazione e la comunicazione dei temi della RSI (AA.VV,
2007). Gli strumenti appena elencati, infatti, non si focalizzano su un aspetto
specifico della multidimensionalità - fatta eccezione per il bilancio ambientale
che, però, nasce come parte integrante del bilancio sociale e racchiude in sé
aspetti e caratteristiche molto ampi -, ma riguardano, più in generale, la governance dell’impresa e la gestione strategica nel suo complesso. Ciò che si
vuole approfondire in questo capitolo non attiene tanto alle motivazioni di carattere generale alla base della scelta di attivare comportamenti responsabili,
105
ma riguarda, principalmente, gli strumenti a disposizione delle imprese agricole per offrire prodotti e servizi che siano riconducibili alla logica della RSI.
4.2 La valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità
locali
Se è vero che la multifunzionalità in agricoltura comprende l’insieme dei
benefici che gli agricoltori forniscono sia direttamente sia indirettamente alla collettività, ciò assume un valore ancora più forte con riferimento alla comunità e al
territorio specifico con cui un’impresa agricola si relaziona e si confronta quotidianamente. La natura multifunzionale delle imprese agricole, dunque, può essere
considerata un sentiero di adattamento dell’agricoltura al nuovo modello di economia territoriale: un modello incentrato su attività economiche molto più orientate
alla valorizzazione integrata e sostenibile delle risorse locali, alle economie di scopo
e di differenziazione piuttosto che alle economie di scala, e molto più sensibili ai beni
pubblici locali. Inoltre, la multifunzionalità implica un forte radicamento territoriale
delle imprese agricole: infatti, solo una completa immersione nella società locale
può consentire di cogliere e sfruttare pienamente quel potenziale di diversificazione
e di complementarità produttiva e di generare - oltre al vantaggio competitivo - anche un valore sociale per l’intera comunità.
Il legame tra agricoltura e territorio è tanto forte quanto complesso: non basta dire che l’agricoltura svolge le sue attività su un territorio le cui caratteristiche
organolettiche ne condizionano lo svolgimento (Albisinni, 2000). Il concetto di territorio deve essere inteso, anzitutto, nella doppia accezione di specifica dotazione di
risorse materiali, come la composizione del suolo e il clima, e immateriali, come la
cultura e la conoscenza delle tradizioni. Inoltre, nel caso della produzione agricola,
entrano in gioco platee di attori e istituzioni locali per cui il territorio diventa una
leva dello sviluppo, nel senso che il livello e la qualità della crescita economica sono
strettamente connessi alla qualità del contesto socio-istituzionale e delle risorse
locali.
Esaminando il legame tra RSI nelle imprese agricole, territorio e comunità
locali, è fondamentale evidenziare che l’impresa agricola consente di mettere in
evidenza (e in alcuni casi fa rivivere) la cultura e le tradizioni di un popolo e di un
territorio e le utilizza come volano per la sua stessa attività, creando così un sistema
che si autoalimenta e permette lo sviluppo di un successo economico, equilibrato
anche da un punto di vista sociale. Sono soprattutto le specificità di un territorio che
106
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
permettono a un’azienda agricola di sviluppare un vantaggio in termini economici e
di attuare azioni di responsabilità sociale. La valorizzazione degli elementi di specificità del territorio consente di esaltarne l’aspetto sociale e culturale, sviluppare forme di modernizzazione, attivare processi di coinvolgimento della popolazione locale
e dei diversi attori della filiera e promuovere nuove forme di contatto tra le aziende
e tra aziende e consumatori (filiera corta, fattorie didattiche, adozione di marchi collettivi) (Giuca, 2008). Tutto ciò è ascrivibile nel grande mondo della RSI che spesso,
soprattutto in agricoltura, è attuata senza la consapevolezza di chi la pone in essere.
Soprattutto per le produzioni tipiche o tradizionali, il valore aggiunto che le caratterizza risiede proprio in quegli aspetti storico-culturali e, quindi, nel territorio e nelle
tradizioni della comunità locale da cui traggono origine.
In tale prospettiva, l’adozione degli strumenti di seguito riportati, soprattutto
se basata su una reale interiorizzazione del concetto di responsabilità sociale nella gestione d’impresa, può supportare una più consapevole e matura strategia di
valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali. Se consideriamo
stakeholder non solo i soggetti a monte e a valle della filiera agricola, ma tutti coloro che hanno contribuito a rendere unico il territorio da cui ha origine un prodotto,
espressione della RSI può essere considerato un marchio attraverso il quale si indica il luogo di provenienza e che ne trasmette all’esterno l’immagine, i valori e le
tradizioni. Tra i marchi in questione, si citano quelli varati dall’Unione Europea (Regolamento (CE) n. 510/2006) per proteggere la tipicità di alcuni prodotti alimentari
attraverso una precisa normativa che ne riconosce il nesso diretto di causalità fra
l’area di produzione e le caratteristiche distintive del prodotto (Albisinni et al., 2007).
Questi marchi, per la definizione dei quali si rimanda al glossario, sono: la denominazione di origine protetta (DOP) e l’indicazione geografica protetta (IGP). DOP e IGP
costituiscono una valida garanzia per il consumatore e una tutela per i produttori
nei confronti di eventuali imitazioni e azioni di concorrenza sleale: in un’ottica di RSI
sono l’espressione della scelta di condurre la propria attività secondo i principi della
gestione responsabile e nel rispetto dei disciplinari previsti. Tali marchi, infatti, legano il concetto di RSI a quello di valorizzazione del territorio e delle comunità locali58.
Sempre nell’ottica degli strumenti utilizzabili dalle imprese agricole e rientranti nella logica della RSI con l’obiettivo della valorizzazione della tipicità e della
tradizionalità delle produzioni, inserite in un contesto territoriale, troviamo il marchio collettivo di natura pubblica (marchio geografico territoriale)
58 Dal 1/8/2009, la denominazione di origine controllata (DOC), la denominazione di origine controllata
e garantita (DOCG) e l’indicazione geografica tipica (IGT) dei vini rientrano nel nuovo registro comunitario delle DOP e IGP.
107
Se per la maggior parte degli strumenti citati è l’area geografica (territorio) a
garantire la qualità del prodotto, con il marchio di specialità tradizionale garantita
(STG), rilasciato dall’UE ai sensi del regolamento (CE) n. 509/2006, è la tradizione, dunque un fattore legato alla cultura della comunità locale, a determinarne la
peculiarità. Infatti nel caso della STG per ottenere il marchio è necessario seguire
un processo che rispetti il tradizionale metodo di produzione del bene, indipendentemente dal luogo in cui questo avviene. E’ però interessate notare come, a
parere di chi scrive, i due fattori (territorio e tradizione) possano essere considerati
come due facce della stessa medaglia che consentono di assegnare al prodotto un
valore aggiunto che va oltre quello di mercato. Tale valore, inoltre, ha un risvolto
non solo in termini monetari. Un territorio, infatti, è tale anche in quanto vissuto
da una popolazione che ne ha determinato le caratteristiche immateriali e non, in
base alle proprie tradizioni e quindi al modo di relazionarsi con esso e all’uso più o
meno rispettoso che ne ha fatto nel tempo. Inoltre, soprattutto in un’ottica di lungo
periodo, è interessante rilevare il generarsi di un rapporto di fiducia tra produttore
e consumatore che può essere considerato uno dei motivi principali che spingono
l’impresa agricola a intraprendere un percorso di RSI che ha come conseguenza
l’adozione di questi marchi. Non bisogna però intendere la fiducia solo in termini di
fidelizzazione del cliente ma, prevalentemente, in un’ottica di condivisione di valori.
L’imprenditore agricolo, infatti, sa che il consumatore, sempre più frequentemente,
ha bisogno di una guida in grado di orientarlo nelle scelte d’acquisto che lo rendano
consapevole di ciò che c’è dietro il prodotto che compra.
Possiamo, pertanto, sostenere che l’adozione dei marchi sopra riportati rientra a pieno titolo nella logica della RSI in quanto esprimono, più o meno direttamente, il legame e il rispetto per un territorio e per la cultura di chi lo abita, insieme alla volontà di fare di questi elementi un punto di forza della propria mission
aziendale.
4.2.1 L’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale per la valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali
Gli strumenti elencati nel paragrafo precedente, finalizzati alla valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali, rientrano nella categoria della
certificazione regolamentata. Con questa locuzione si intende una certificazione
di prodotto, di un metodo di produzione o di un sistema di gestione di processo,
rilasciata attraverso denominazioni, marchi, loghi, diciture, etichettature e bollini
108
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
da organismi autorizzati dall’autorità competente, in cui i criteri normativi e i procedimenti di certificazione sono definiti da regole cogenti (normativa comunitaria,
nazionale e regionale) (AA.VV., 2007). Passando a un’analisi che metta in evidenza i
punti di forza e di debolezza di questi strumenti, possiamo riscontrare che, grazie
all’utilizzo di ciascuno di essi, il valore aggiunto che un’impresa può acquisire risiede nella capacità di fare sistema nel tessuto produttivo locale, nella difesa delle
produzioni locali, delle tipicità e delle tradizioni, e nella creazione di un sistema di
valorizzazione territoriale. Inoltre, per quanto riguarda il marchio collettivo geografico, si deve aggiungere che quest’ultimo prevede la possibilità di: pianificare gli
aspetti organizzativi e gestionali e di impostare efficaci azioni di marketing collettivo con il supporto della Regione o dell’Ente pubblico; consentire uno stretto legame
tra produzione agricola e prodotto trasformato; mantenere e incrementare i livelli
di notorietà e di penetrazione sul mercato acquisiti nelle zone di maggior interesse
commerciale. Per quanto riguarda gli aspetti critici di questi strumenti, infine, va
evidenziato che, nel caso di DOP e IGP, esistono problemi legati da un lato ai limiti
della commercializzazione (soprattutto nel caso di produzioni ridotte e per piccoli
trasformatori di tipo artigianale) e, dall’altro, alla localizzazione che spesso risulta
decentrata; nel caso del marchio geografico, invece, gli aspetti più problematici
riguardano la necessità di garantire quantità costanti di produzione, la difficoltà
di contrastare le strategie della grande distribuzione che punta alla produzione di
massa e all’omologazione dei gusti a livello nazionale con prodotti standardizzati e
la mancanza di notorietà presso i consumatori (AA.VV., 2007)59.
Con le Linee guida “Promuovere la responsabilità sociale delle imprese agricole ed agroalimentari” (AA.VV, 2007) l’INEA ha presentato delle proposte operative,
concrete e flessibili alle imprese agroalimentari che intendono adottare un percorso di RSI. Partendo dalla metodologia di ricerca e dagli elementi di riflessione
che hanno portato all’elaborazione delle Linee guida, nello schema seguente (Box
4.1) è stato possibile pesare l’analisi INEA costi-benefici relativa all’adozione degli
strumenti di RSI proprio su quelli finalizzati a valorizzare il territorio e i rapporti con
le comunità locali.
59 Cfr. L’appendice degli strumenti di RSI contenuta nel CD-ROM allegato alla pubblicazione.
109
Box 4.1 - Costi-benefici degli strumenti di RSI per la valorizzazione del territorio
e dei rapporti con le comunità locali
Costi
Benefici
Un primo svantaggio inerente alla scelta di adottare
metodi di produzione che, nel rispetto del territorio e
di chi lo vive, siano conformi a disciplinari produttivi
di riferimento (spesso anche molto rigidi) risiede, prevalentemente, nella ristrettezza dei mercati di sbocco.
La collocazione tipica dei prodotti che possono fregiarsi dei marchi di cui stiamo trattando, infatti, non è la
grande distribuzione (anche se nei supermercati è solito trovarne). Il consumo di massa, invero, mal si adatta
alle caratteristiche peculiari che contraddistinguono
una produzione di questo genere. Tutto ciò fa si che
l’affermazione dei prodotti presso la GDO non può essere considerata un obiettivo da raggiungere e di conseguenza il giro d’affari dell’impresa resta circoscritto,
quanto meno in termini distributivi. Non bisogna però
pensare che tale circostanza sia necessariamente vissuta come un limite dagli imprenditori agricoli. Ciò è
dimostrato dal fatto che sono essi stessi a prediligere
sbocchi commerciali che garantiscono una particolare
attenzione all’aspetto informativo-comunicativo stante
dietro la produzione. Il limite della commerciabilità,
unito a quello dell’impossibilità di garantire grandi produzioni, potrebbe diventare quindi, così come accade
per i beni di lusso, un punto di forza che caratterizza la
produzione (solo a titolo esemplificativo si pensi al valore aggiunto dei pezzi unici nel campo dell’artigianato
artistico).
Oltre alla valorizzazione del territorio e dei rapporti con
le comunità locali, che è di per sé un beneficio per l’impresa agricola in quanto garantisce il perdurare delle
condizioni materiali e non, che sono alla base della
peculiarità della produzione, gli strumenti di RSI di cui
si è parlato hanno ulteriori conseguenze positive che
possono essere così riassunte:
Fonte: ns. elaborazioni
110
- riconoscibilità all’esterno: il marchio collettivo, che
identifica una produzione fatta seguendo le regole previste dal disciplinare di produzione, è una garanzia sia
per il consumatore, che per l’impresa che se ne avvantaggia, anche in termini di comunicazione pubblicitaria;
- creazione di reti: l’adozione degli strumenti in oggetto non deriva da motivazioni meramente commerciali
e, infatti, la scelta di intraprendere una gestione che
risponda a logiche di responsabilità sociale viene inserita nella mission aziendale. Ciò significa che il rispetto
e la condivisione dei valori su cui si fonda la RSI sono
elementi che fungono da collante non solo tra l’impresa, il territorio e le comunità locali, ma anche tra
l’impresa e le altre realtà produttive che decidono di
intraprendere un percorso o di avvicinarsi al tema della
responsabilità sociale;
- miglioramento della governance: anche per quanto
riguarda la gestione aziendale si hanno conseguenze
positive in seguito all’adozione di tali strumenti. Anzitutto, perché una gestione improntata a un’ottica di RSI
prevede la condivisione con gli stakeholder interni di
principi e valori posti alla base dell’azione imprenditoriale, il che di per sé agevola il ruolo direzionale. Nello
specifico degli strumenti analizzati, inoltre, il territorio
funge da punto di forza e di unione tra i soggetti coinvolti, a vario titolo, nell’impresa. E’ importante, quindi,
che l’attaccamento al territorio sia un valore per tutti
coloro che lavorano nell’impresa e che l’utilizzo degli
strumenti in oggetto sia un punto di arrivo di una formazione e di una consapevolezza che, dal top management in giù, coinvolge l’intera struttura.
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
4.3 Il rispetto ambientale
Il legame tra agricoltura e tutela dell’ambiente è uno dei pilastri fondamentali per quelle imprese agricole che decidono di rendere socialmente responsabile
la loro attività. Ancora una volta, il richiamo è alla multidimensionalità dell’agricoltura e, in particolare, all’aspetto legato alla tutela ambientale.
Dare vita o gestire un’attività economica nel settore agricolo e agroalimentare
significa relazionarsi con le problematiche legate alla necessità di far convivere le
esigenze di carattere economico - di breve periodo - con quelle ambientali - di lungo
periodo e che solo apparentemente possono sembrare in opposizione alle prime
(Rook Basile, 1983). A tal proposito, e con l’affermarsi della diffusione di un’agricoltura sempre più intensiva che minaccia la conservazione dell’ambiente, sin dalla
Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, è
stato condiviso, a livello internazionale, il principio dello sviluppo sostenibile, definito come “lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la
possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”60. Questo concetto
è divenuto, negli ultimi venti anni, un fattore determinante per le politiche economiche di tutti gli Stati e uno degli elementi principali delle diverse forme che la responsabilità sociale può assumere, soprattutto nel settore agricolo e agroalimentare.
Le varie funzioni che l’agricoltura svolge sono collegate, più o meno direttamente,
all’ambiente e di conseguenza l’impresa agricola, nello svolgere la sua attività, si
trova in un rapporto che possiamo definire di interdipendenza con esso. L’impatto
che l’agricoltura esercita sull’ambiente si identifica attraverso le cosiddette esternalità, ovvero conseguenze involontarie delle attività poste in essere da un’impresa
che possono essere di natura positiva, come la salvaguardia di habitat naturali, la
diminuzione di gas a effetto serra, la tutela dei paesaggi e della biodiversità, e negativa, come l’inquinamento dell’aria, delle acque e dei suoli (Peri, 2008). Attraverso
l’adozione di una politica di responsabilità sociale, l’impresa può indirizzare le sue
attività al fine di porre in essere azioni che abbiano ricadute positive in termini ambientali e nel fare ciò può servirsi di strumenti che, da un lato, fungono da guida per
l’attuazione di comportamenti sostenibili e, dall’altro, consentono al consumatore
di conoscere le azioni e la cura che l’impresa utilizza per la tutela dell’ambiente
(Benvenuti, 2000). Tra questi strumenti, quelli più diffusi sono61: la certificazione del
sistema di gestione ambientale (SGA-ISO14000), l’eco-management and audit sche60 Si tratta di una definizione contenuta nel rapporto Brundtland presentato dalla Commissione europea nel 1987 e ripreso dalla Conferenza ONU nel 1992.
61 Cfr. Glossario in appendice,
111
me (EMAS), il life cycle assessment (ISO 14040-LCA), la dichiarazione ambientale
di prodotto (EPD), il prodotto da agricoltura biologica certificata, il programme for
endorsement of forest certification (PEFC) e il forest stewardship council (FSC).
4.3.1 L’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale per il rispetto ambientale
Anche nell’ambito del rispetto ambientale possiamo identificare quali sono
gli elementi che caratterizzano l’applicazione degli strumenti di responsabilità sociale. Contrariamente a quanto emerso dall’analisi degli strumenti prevalentemente finalizzati alla valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali,
non esistono molti punti di congruità. Ciò evidenzia l’importanza della creazione di
un set di strumenti che, messi a sistema, possono consentire all’impresa di attuare
una politica aziendale che tenga conto dei diversi risvolti positivi che possono scaturire dall’attuazione di una gestione responsabile dell’attività d’impresa.
Anche in questo caso è stato possibile calibrare l’analisi INEA costi-benefici relativa all’adozione degli strumenti di RSI (AA.VV, 2007) essenzialmente su quelli finalizzati alla tutela dell’ambiente, come commentato nello schema seguente (Box 4.2).
4.4 Miglioramento delle condizioni di lavoro
Questo paragrafo è dedicato al tema del lavoro nell’ottica di una gestione
responsabile delle imprese agricole e agroalimentari. Per queste imprese, quello
del lavoro è forse uno degli ambiti più complessi in cui attivare interventi e strumenti a sostegno di una politica di RSI. Se anche negli altri settori economici il
tema della RSI è declinato con minore enfasi nell’ambito delle risorse umane, privilegiandone l’attuazione nei confronti di stakeholder esterni (ad esempio clienti e
fornitori) o dell’ambiente, questa circostanza è ancora più accentuata nelle imprese
agricole, date le caratteristiche che il lavoro assume in questo settore. Vediamo,
infatti, che le criticità riguardano diversi aspetti della realtà agricola: dal punto di
vista della produzione c’è, anzitutto, il problema della stagionalità che condiziona
negativamente le relazioni nei rapporti di lavoro; esiste, poi, il fattore dimensionale
delle imprese, con prevalenza di microimprese, spesso a conduzione familiare, che
incide negativamente, come illustrato nelle pagine precedenti, sulla possibilità di
attuare azioni di RSI. Nell’agricoltura, inoltre, è molto diffuso il lavoro irregolare
112
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
Box 4.2 - Costi-benefici degli strumenti di RSI per la tutela dell’ambiente
Costi
Benefici
Il “costo” dell’adozione di questi strumenti risiede
prevalentemente nella scelta di dare una priorità ad
alcuni aspetti della gestione aziendale che non hanno
un ritorno economico di breve periodo. A parere di chi
scrive, quindi, più che di costo si dovrebbe parlare di
mancato profitto o, meglio ancora, di una forma di investimento di lungo termine dato che, come dimostrato
dai dati presenti nel primo capitolo di questo lavoro, il
cambiamento dei modelli di consumo si sta muovendo,
nell’economia italiana, verso abitudini alimentari che
prediligono produzioni certificate e consentono alle imprese agricole che le adottano di ottenere un riscontro
anche in campo commerciale. Gli investimenti di lungo
periodo in produzioni agricole, forestali o in allevamenti che tengono conto della tutela dell’ambiente e la produzione per nicchie di mercato se, da un lato, possono
essere considerati un mancato profitto di breve periodo, dall’altro permettono di assicurare il mantenimento
di condizioni ambientali tali da rappresentare una garanzia per le produzioni future.
Per quanto riguarda i benefici che possono derivare
dall’adozione di strumenti di RSI per la tutela dell’ambiente elencati nel paragrafo precedente, possiamo
fare una classificazione in base agli stakeholder (interni ed esterni) che entrano in relazione con l’impresa. E’
possibile quindi fare un’analisi in base a:
- Enti, autorità e soggetti istituzionali con cui l’impresa
si relaziona: nei rapporti con questi soggetti, gli imprenditori agricoli che decidono di implementare azioni
di RSI rivolte alla tutela dell’ambiente hanno dei vantaggi in termini di agevolazioni, semplificazioni e, in generale, di miglioramento delle relazioni. La legislazione
nazionale infatti prevede, sempre più frequentemente,
la concessione di sgravi fiscali e facilitazioni finanziarie
per chi adotta strumenti per il rispetto dell’ambiente.
- Consumatori e opinione pubblica: la crescente attenzione di questi soggetti per le tematiche ambientali
porta molte imprese a investire in pubblicità finalizzata a presentare un’immagine quanto più “sostenibile”
dell’azienda. Con l’adozione di strumenti di RSI finalizzati alla tutela dell’ambiente questa necessità viene
automaticamente soddisfatta.
- Organizzazione, gestione e know how all’interno
dell’impresa: adottare gli strumenti di RSI analizzati in
questo paragrafo significa implementare una riorganizzazione interna finalizzata a una crescita dell’efficienza
(non solo in termini ambientali) della gestione aziendale; un altro vantaggio riguarda la riduzione dei costi a
seguito di una razionalizzazione nell’uso delle risorse e
nell’adozione di tecnologie pulite. Infine, un ulteriore
beneficio deriva dal fatto che l’utilizzo di tali strumenti
consente all’imprenditore agricolo e a tutti coloro che
lavorano nell’azienda di incrementare specifiche conoscenze tecnico-scientifiche e di utilizzarle sia per il miglioramento continuo delle prestazioni ambientali che,
più in generale, per la gestione dell’attività.
Fonte: ns. elaborazioni.
113
(che spesso assume la forma del caporalato), vi è una forte presenza di lavoratori
immigrati, a causa della diminuzione della forza lavoro disponibile, e le mansioni
svolte sono spesso anche pericolose (Dini, 2008). Negli ultimi anni il fenomeno
della manodopera irregolare, che riguarda prevalentemente lavoratori agricoli extracomunitari, interessa l’intero sistema e costituisce una componente strutturale
dell’occupazione e del mercato del lavoro in questo settore62. Tutto ciò, oltre a far
sì che l’agricoltura rappresenti il settore più complesso riguardo all’applicazione
della responsabilità sociale nell’ambito delle risorse umane, determina in molte
aziende agricole, soprattutto in quelle di piccole dimensioni, grandi difficoltà anche a restare in quello che è definito lo spazio dell’esigibile, ovvero all’interno del
regime di legalità, e quindi a rispettare le disposizioni di legge (Hinna, 2005). Quando si parla di azioni di RSI aventi come obiettivo il miglioramento delle condizioni
di lavoro nelle imprese agricole e agroalimentari, quindi, bisogna considerare le
enormi differenze che esistono tra le aziende che riescono a portare avanti politiche orientate in tal senso (best practice) – che sono poche e di grandi dimensioni
- e quelle che faticano anche a restare entro i limiti di legge, che sono le piccole e
micro imprese che costituiscono la maggior parte delle imprese del settore. Non
va dimenticato, però, che in alcuni casi le piccole imprese agricole sono gestite, in
modo del tutto inconsapevole, secondo criteri che possono essere considerati, a
pieno titolo, di responsabilità sociale. Fatta questa premessa, si possono individuare due strumenti di RSI legati al tema del lavoro: la certificazione del sistema per
la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro (OHSAS 18001) e la SA8000, per la cui
definizione si rimanda al glossario.
4.4.1 L’attuazione pratica degli strumenti di responsabilità sociale per il miglioramento delle condizioni di lavoro
Anche sull’applicabilità delle certificazioni OHSAS 18001 e SA8000 quali
strumenti di RSI per il miglioramento delle condizioni di lavoro, è stato possibile
elaborare uno schema commentato (Box 4.3), partendo dall’analisi INEA costi-benefici relativa all’adozione degli strumenti di RSI (AA.VV., 2007).
La certificazione OHSAS 18001 presenta, oltre a una buona adattabilità al
settore agricolo e agroalimentare, un’efficace integrazione con gli standard ISO
9001 per i Sistemi di Gestione della Qualità e ISO 14001 per i Sistemi di Gestione
62 Sull’argomento cfr. Cicerchia e Pallara (a cura di), Gli immigrati nell’agricoltura italiana, INEA,
Roma, 2009.
114
parte seconda
| responsabilità sociale e modelli di produzione
Ambientale. In questo modo le aziende che lo desiderano possono integrare agevolmente fra loro questi tre diversi sistemi di gestione. Anche per quanto riguarda
la certificazione SA8000 è possibile riscontrare una buona adattabilità al settore sia
per le imprese che delocalizzano la produzione, spesso oggetto di critiche da parte
dell’opinione pubblica per le condizioni di lavoro dei lavoratori, sia per chi produce
sul territorio nazionale.
Box 4.3 - Costi-benefici degli strumenti di RSI per il miglioramento delle condizioni di lavoro
Costi
Benefici
Le imprese agricole e agroalimentari hanno difficoltà
a intraprendere un percorso di responsabilità sociale
nell’ambito del miglioramento delle condizioni di lavoro
a causa delle particolarità che caratterizzano il lavoro
in questo settore (stagionalità, alto tasso di irregolarità, imprese micro e a conduzione familiare). Gli elementi di controllo previsti dalla certificazione OHSAS
18001 presuppongono la programmazione di obiettivi
di sicurezza chiari e quantificabili per i quali si devono stabilire degli indicatori che permettano il controllo
dei risultati raggiunti. Tutto ciò necessita della predisposizione di una struttura organizzativa ad hoc (che
necessariamente comporta dei costi per l’azienda) che
difficilmente si ritrova nelle imprese del settore agricolo e agroalimentare. Un ulteriore costo da sostenere è
quello necessario per l’attuazione di piani di sensibilizzazione, informazione, formazione e addestramento,
ricerca del dialogo, coinvolgimento, definizione di compiti e responsabilità. Nel caso dell’adozione dello standard SA8000, invece, lo svantaggio riguarda prevalentemente l’impossibilità per l’impresa responsabile di
accedere a quei mercati di sbocco in cui il basso livello
dei prezzi dei beni prodotti deriva dallo sfruttamento
della manodopera e nei quali la concorrenza (sleale)
non le consente di competere. Relativamente agli stakeholder interni, il vantaggio
principale riguarda l’introduzione di
una cultura della sicurezza che ha conseguenze positive non solo per i lavoratori ma anche per l’azienda;
infatti il miglioramento della qualità del lavoro - tramite l’implementazione, la gestione ed eventualmente il
miglioramento di un sistema sicurezza della salute dei
lavoratori - e delle relazioni aziendali è garanzia di una
maggiore produttività.
Con riferimento agli stakeholder esterni è possibile
affermare che, conseguentemente all’adozione di
strumenti quali la OHSAS18001 e la SA8000, vi è la
garanzia di un’automatica conformità alle disposizioni
legislative in materia di sicurezza e salute sui luoghi
di lavoro.
Infine è da registrare un beneficio in termini di immagine in quanto l’opinione pubblica - e quindi i potenziali
clienti e partner dell’impresa - è sempre più attenta
agli aspetti di sostenibilità sociale delle imprese.
L’adozione di strumenti di RSI per il miglioramento
delle condizioni di lavoro, quindi, può essere una leva
per l’affermazione dell’impresa nel mondo del consumo
responsabile che, soprattutto negli ultimi anni, si va affermando sempre con maggior enfasi.
Fonte: ns elaborazioni.
115
4.5 Conclusioni
Se è giusto sostenere che ogni impresa dovrebbe svolgere, oltre a un compito economico, un ruolo sociale all’interno del contesto in cui opera, tale constatazione è ancora più appropriata nel caso delle imprese agricole e agroalimentari, il
cui operato ha ricadute in diversi ambiti della vita umana. La tutela dell’ambiente,
della comunità, del lavoro, del territorio e della salute degli uomini e delle donne
è, infatti, strettamente collegata alle scelte sociali compiute dal management delle
imprese che operano nel settore agricolo.
Per un imprenditore agricolo, proprio in virtù della multifunzionalità, la scelta di adottare una gestione etica della propria attività ha ricadute in diversi ambiti
della vita sociale; pertanto, intraprendere un percorso di responsabilità sociale ha,
anzitutto, una valenza intrinseca che è determinata dalla natura stessa dell’attività svolta. È importante sottolineare che tale scelta matura anche da motivazioni
strategiche, oltre che di carattere etico-sociale, per effetto dei benefici derivanti
dall’adozione degli strumenti analizzati, Si tratta di strumenti che sono stati scelti
in relazione alle tre tematiche chiave legate alla multifunzionalità in agricoltura
- valorizzazione del territorio e dei rapporti con le comunità locali, rispetto dell’ambiente e miglioramento delle condizioni di lavoro,ai fini dell’analisi di RSI nelle imprese agricole e agroalimentari, con la consapevolezza che non è possibile individuare un elenco finito di strumenti in grado si svolgere tale compito. L’adozione
degli strumenti di RSI così individuati, permettono all’impresa agricola di presentare ai consumatori i propri prodotti e servizi con un’immagine capace di trasmettere
con estrema immediatezza i principi e i valori che sono alla base della mission
aziendale, soprattutto nel caso dei marchi per la valorizzazione del territorio e dei
rapporti con le comunità locali, Inoltre, in un’ottica di gestione trasparente dell’attività imprenditoriale, è possibile rilevare come il consumatore venga informato circa
le scelte e le ricadute in ambito sociale dell’attività d’impresa prevalentemente con
l’ausilio degli strumenti individuati per la tutela dell’ambiente e per il miglioramento delle condizioni di lavoro.
Tuttavia, al di là dei singoli strumenti che possono essere utilizzati, è fondamentale che questi vengano integrati nella “normale” gestione dell’impresa: la responsabilità sociale, infatti, deve diventare parte integrante dell’orientamento strategico dell’impresa, in quanto elemento di supporto per la governance aziendale.
116
parte terza
| l’indagine iref
Parte terza
L’indagine IREF
117
parte terza
| l’indagine iref
Capitolo V
Le famiglie e la crisi: stili di vita e politiche
di consumo responsabili
5.1 Introduzione
In questo capitolo vengono approfondite alcune espressioni del consumo socialmente responsabile, con riferimento anche ai generi alimentari, alla
luce degli effetti provocati dalla recente crisi economico-finanziaria sull’attività
produttiva, sulla base dell’indagine sui consumi condotta dall’Istituto di ricerche
educative e formative (IREF) tra settembre 2009 e febbraio 2010.
Occorre fare, tuttavia, una premessa: nelle società occidentali è prevalsa
a lungo l’idea che il consumo, cioè lo scambio, l’acquisto e l’uso dei beni, fosse
un fenomeno di natura esclusivamente economica, implicando nella gran parte
dei casi un esborso in denaro. Il postulato su cui si fonda questa interpretazione assimila il consumatore a un agente razionale che, mosso dalla necessità di
soddisfare i propri bisogni, acquista e consuma seguendo il principio dell’utilità e
della convenienza individuale. Per tale ragione, le pratiche di consumo vengono
analizzate, in primo luogo, attraverso le categorie dell’economia e dell’utilitarismo, utilizzando il reddito come una delle principali variabili esplicative. Non sorprende, quindi, che su questo terreno si siano cimentati soprattutto economisti
ed esperti di marketing.
In realtà, l’acquisto e l’uso di oggetti non sono rilevanti solo dal punto di vista economico; in tutte le società umane, fin da quelle tradizionali e pre-moderne,
tali pratiche hanno assolto un ruolo fondamentale per il mantenimento dell’ordine e del legame sociale. Nell’odierna società dell’informazione, poi, il concetto
di consumo riunisce una pluralità di significati e di funzioni sociali. Il consumo è
fondamentale per creare e mantenere la propria identità individuale; è uno strumento per tessere relazioni sociali; è un linguaggio che consente di comunicare
la propria visione del mondo e, nel medesimo tempo, per distinguersi dagli altri.
119
È un atteggiamento educativo che, a livello familiare, determina la crescita di un
modello e di una dimensione educativa che si trasmette anche alle generazioni
future.
Una prima considerazione, pertanto, è che nel consumo confluiscono molti
aspetti, oltre a quello economico, che vanno tenuti in considerazione. Per esempio,
è evidente dall’analisi dei risultati che nei comportamenti di consumo la dimensione etico-educativa gioca un ruolo fondamentale: questa, infatti, fa concentrare
l’attenzione del consumatore sulla qualità sociale del bene, ovvero sulle ricadute
sulla società delle scelte di acquisto. Ragionando in questi termini, il consumo e le
scelte a esso collegate non possono essere più considerate un fatto esclusivamente privato, ma un elemento indicativo che determina gli stili di vita delle famiglie e
che deve essere ben considerato anche da chi produce beni e servizi. Del resto, la
presenza di un numero cospicuo di consumatori pro-sociali e delle dimensioni consistenti del fenomeno del consumo responsabile risultava evidente già nell’analisi
ad hoc condotta dall’IREF all’inizio degli anni Duemila (IREF, 2002).
Una seconda considerazione è che se è pur vero che alla fine degli anni Sessanta le Nazioni Unite coniarono lo slogan “Trade not aid” per sintetizzare il nuovo
orientamento strategico delle politiche di sviluppo volte a favorire una maggiore
distribuzione della ricchezza mondiale, tramite il miglioramento delle condizioni
di vita nei Paesi economicamente meno sviluppati,i parametri con cui si misurano
le disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo continuano, oggi, a descrivere
un quadro drammatico caratterizzato dall’esistenza di profonde ingiustizie. Circa
l’80% della popolazione mondiale ha a disposizione soltanto il 20% della ricchezza
globale, mentre tende a dilatarsi ulteriormente il rapporto tra la parte più ricca
del pianeta e le fasce di popolazione più povera. D’altro canto, anche a causa della
recente crisi, alcune delle materie prime e dei prodotti alimentari provenienti dal
terzo mondo hanno visto diminuire il loro valore sui mercati internazionali, mentre
si è riscontrata anche in questi Paesi una sostanziale crescita dei prezzi di generi
alimentari e di beni di consumo primari.
Tra le cause di natura strutturale all’origine di questa realtà, il progressivo
peggioramento delle condizioni di scambio tra artigiani e agricoltori dei Paesi economicamente meno sviluppati, da un lato, e le grandi imprese multinazionali dedite all’importazione e alla distribuzione dei loro prodotti, dall’altro, rappresentano
senza dubbio le ragioni più importanti che impediscono il dispiegamento delle potenzialità di sviluppo delle aree del terzo mondo. La disparità delle condizioni in cui
avvengono gli scambi economici e il peso esercitato dagli interessi e dalle diseguaglianze che contraddistinguono il livello di sviluppo economico e tecnologico tra il
120
parte terza
| l’indagine iref
Nord e il Sud del mondo sembra, al momento, costituire un ostacolo insormontabile che l’attuale crisi ha reso ancor più difficile. Eppure, l’insieme dei comportamenti
e delle azioni che hanno evidenziato la presenza di livelli significativi di sensibilità
dei cittadini dei Paesi economicamente più avanzati nei confronti di queste tematiche può rappresentare un leva di sviluppo per le aree depresse del pianeta. Si tratta,
quindi, di convogliare queste energie verso la creazione di nuovi mercati fortemente
caratterizzati sotto il profilo etico e sociale. Comincia, in effetti, a essere di tutta
evidenza, per fasce cospicue e crescenti della popolazione residente nei Paesi più
ricchi, che la partecipazione dei cittadini alla democrazia economica e alla solidarietà internazionale si eserciti anche e soprattutto attraverso scelte di consumo e
di risparmio adeguate e funzionali e un atteggiamento di vita sobrio.
Allo stesso tempo, l’importanza da attribuire alla dimensione culturale per
la comprensione dei comportamenti di consumo è ancora più manifesta qualora si
considerino le azioni alternative di consumo - il cosiddetto consumo responsabile - adottate negli ultimi anni da un numero considerevole e sempre maggiore di
cittadini.
In questo contesto, gli elementi emersi dall’indagine dell’IREF del 2002 e
quelli relativi alla recente indagine dell’Istituto sulle famiglie, qui presentata, sono
stati riletti alla luce dei dati Eurobarometro sugli stili di consumo in Europa e sulla
situazione delle famiglie europee, al fine di verificare quali percorsi orientino le famiglie a sistemi di consumo etici e con quali ricadute sugli stili di consumo la crisi
attuale stia investendo le famiglie stesse63. Le espressioni del consumo responsabile riconosciute e analizzate nelle indagini citate sono le seguenti:
•
il consumo critico che consiste nell’acquisto di beni e servizi da imprese che
rispettano i diritti umani e dei lavoratori, ovvero che non sfruttano il lavoro
minorile, non inquinano l’ambiente o devolvono una parte dei loro ricavi a fini
di beneficenza;
•
il commercio equo e solidale, che riguarda l’acquisto di prodotti alimentari o
di artigianato, il cui ricavato va effettivamente ai produttori che operano nei
Paesi poveri;
•
gli stili di vita basati sulla sobrietà del consumo, ovvero le pratiche di consumo caratterizzate da una particolare attenzione al risparmio energetico e
accompagnate dal recupero e dal riutilizzo di beni di cui si è già in possesso;
•
altre forme di consumo responsabile come i bilanci di giustizia, la parteci63 Per un approfondimento cfr. Atti del convegno “Il consumo socialmente responsabile: un volano per
lo sviluppo dell’economia civile”- INEA, Roma, 22 aprile 2010.
121
pazione a gruppi di acquisto solidale o l’acquisto di pacchetti del turismo
responsabile;.
•
la finanza etica che si può riassumere nella sottoscrizione di fondi di risparmio, conti correnti e obbligazioni con un fine etico o nel finanziamento di
progetti a carattere sociale o a sostegno dei Paesi poveri o dell’ambiente.
La presenza di quote di cittadini con preferenze etiche che indirizzano le loro
opzioni di consumo e di risparmio verso appositi strumenti può dare un segnale
forte, a istituzioni e imprese, sull’attenzione crescente dei consumatori rispetto
ai problemi dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile. Ciò può in prospettiva indurre le imprese agricole e agroalimentari a operare nella direzione di aumentare
la propria responsabilità sociale al fine di conquistare i segmenti di mercato dei
consumatori etici. L’impulso fornito dai comportamenti di consumo etico potrebbe,
in tal modo, porsi l’ulteriore obiettivo di condizionare l’intero ciclo economico e
produttivo del settore.
5.2 L’indagine IREF
Gli strumenti più importanti dell’economia dal basso, frutto dei predetti
orientamenti e espressioni del consumo – non solo alimentare - responsabile, sono
allo stato attuale quelli rappresentati dalla nascita e dalla proliferazione di banche
etiche, della finanza etica e dalla crescita nei mercati di prodotti derivanti dal commercio equo e solidale.
Nell’analizzare i dati si è innanzitutto verificato se fosse possibile individuare,
attraverso i comportamenti di consumo, un modello culturale specifico, uno stile
di consumo, in grado di identificare in maniera univoca un gruppo di persone che
condivide valori, opinioni, atteggiamenti verso il consumo.
In base a queste premesse, sono state identificate tre tipologie di consumatori italiani (IREF, 2010), definiti tradizionalisti, narcisisti ed etici. I consumatori
tradizionalisti rappresentano ben il 47,4% del campione e sono caratterizzati essenzialmente da tre dimensioni: 1) l’auto-sostentamento, cioè l’atteggiamento per
il quale il consumo viene concepito come un modo per procurarsi il necessario,
dunque per soddisfare i bisogni primari; la pensano in questo modo il 59,6% dei
tradizionalisti contro il 43,5% dell’intero campione; 2) la concretezza, cioè l’attenzione agli elementi concreti del bene che porta i tradizionalisti a valutare, soprattutto, aspetti quali il prezzo (76,9% contro il 61,9% del campione) e la robustezza e
facilità d’uso del prodotto (59,2% contro il 44%), senza ricercare altre gratificazioni
122
parte terza
| l’indagine iref
in esso; 3) la parsimonia, cioè la tendenza alla sobrietà, ovvero a un atteggiamento
contrario allo spreco e al consumismo, che fa sì che i tradizionalisti siano disposti
a limitare gli acquisti e a riutilizzare gli oggetti che già posseggono (97,9% contro
l’89,4%).
In linea con queste tendenze, i tradizionalisti esprimono, quale principale
preoccupazione, quella di non riuscire a risparmiare (26,4% contro il 21,9% del
campione) e sono guidati, pertanto, nei loro acquisti dall’anticonsumismo e dall’esigenza di cautelarsi contro gli imprevisti. In questa tipologia di consumatori prevalgono le classi di età fra i 55 e i 64 anni, e oltre i 64 anni, cioè coloro che sono nati
immediatamente dopo il conflitto mondiale, figli della generazione che ha vissuto
le privazioni della guerra, sviluppando un saldo senso di moderazione nei consumi. Questi consumatori sono soprattutto pensionati e casalinghe, concentrati nel
Centro Italia, con un basso livello di istruzione e un basso livello di reddito (fino
a 1.033,00 euro mensili). Queste caratteristiche svolgono una funzione di rinforzo
della parsimonia nei consumatori tradizionalisti e li espongono a una maggiore
vulnerabilità sociale.
All’interno del gruppo dei consumatori tradizionalisti sono scarsamente praticati i modelli di consumo responsabile, soprattutto - ed è questo il rilievo interessante - a motivo della mancanza o della scarsa conoscenza di tali pratiche (38,2%
contro il 31,1% del campione).
Al contrario, il gruppo dei consumatori etici sono coloro che adottano pratiche e atteggiamenti di consumo responsabile, con percentuali all’interno del gruppo e del campione come indicato nella tabella seguente.
Tabella 5.1 – Il profilo del consumatore etico (val. %)
Pratiche e atteggiamenti di consumo
Nel gruppo
Nel campione
50,6
9,4
- commercio equo e solidale
69,5
19,9
- sobrietà
53,9
18,2
- consumo critico
49,3
10,4
Maggiore preoccupazione come consumatore:
- i processi produttivi inquinino ed esauriscano le risorse naturali
39,0
17,9
Aspetti che tiene in considerazione quando acquista:
- la presenza di informazioni su dove e come viene fabbricato
32,5
13,4
- il fatto che il prodotto e il suo imballaggio non inquinino
17,5
4,5
Partecipazione a forme di boicottaggio
Comportamenti di consumo responsabile:
Fonte: IREF, 2010
123
Ma quanto la crisi economica internazionale e le conseguenze sul settore agroalimentare, soprattutto a partire dall’ultimo trimestre del 2009, hanno inciso nella capacità
dei consumatori e delle famiglie italiane di proseguire nelle scelte etiche e solidali? Numerose indagini e sondaggi d’opinione hanno documentato, nel corso del 2009, lo stato
di crescente malessere delle famiglie italiane per le conseguenze economiche e occupazionali della crisi economica globale; questi contributi, numerosi e qualificati, hanno
avuto il merito di ricostruire, passo dopo passo, il clima d’opinione sull’andamento della
crisi (IREF, 2010)64.
Nel febbraio 2009, nell’indagine realizzata dal Censis in collaborazione con la
Confcommercio, si leggeva che «in una fase in cui la crisi mostra segnali di peggioramento, poco più della metà delle famiglie guarda al futuro con ottimismo, mentre il 30%
si dichiara ancora pessimista; e se il 42% del campione ha mantenuto lo stesso livello
di consumi negli ultimi sei mesi, per quasi il 44% la spesa ha subìto un incremento,
spesso dovuto agli aumenti relativi alle tariffe delle utenze domestiche; il “sentiment”
generale, comunque, è quello di una sostanziale prudenza, visto che per il 43% del campione il modo migliore per affrontare la crisi è quello di risparmiare di più, mentre il 22%
ha intenzione di ridurre i consumi. Insomma, crisi e incertezza sono reali e diffuse, ma
esiste un capitale fiduciario privato che non deve essere disperso ma, anzi, opportunamente sviluppato perché, forse, è proprio da questo capitale che si potrà ripartire per
costruire una strategia di ripresa della nostra economia» (Confcommercio/Censis, 2009).
Quest’analisi, per quanto di carattere chiaramente congiunturale, poneva già la questione della fine della crisi e dei modi per rimettere in moto il Paese. Tuttavia, finita la fase
economico-finanziaria si è avviata la fase occupazionale della crisi, tuttora in atto, e le
stime del Censis sono state ampiamente confermate dalla successiva ricerca contenuta
nell“Agenda delle famiglie italiane 2009” (IREF, 2010), secondo la quale quasi il 60% delle
famiglie ha percepito il 2009 come un anno più difficile rispetto al 2008 (Fig. 5.1).
La ricerca dell’IREF ha richiesto la realizzazione di tre indagini campionarie: la
prima, conclusasi a maggio 2009, la seconda nel settembre dello stesso anno e la terza
terminata a febbraio 2010. Il questionario – somministrato telefonicamente a un campione rappresentativo di 1.500 famiglie italiane, per un totale complessivo di 4.500 interviste65 – conteneva quesiti riferiti ai tre mesi precedenti l’intervista. Il disegno della
ricerca ha preso le mosse da quanto già sviluppato nell’analisi delle condizioni di vita
delle famiglie. In particolare, il questionario trae spunto da elementi tratti dalle prin64 Cfr. commento a cura di Zucca G. nell’indagine Agenda delle Famiglie 2009 (IREF, 2010).
65 La ricerca è stata condotta in collaborazione con Paolo Santurri e Raffaele Cassa della cooperativa
di ricerca Codres di Roma che si è occupata della realizzazione delle interviste.
124
parte terza
| l’indagine iref
Figura 5.1 - La percezione della crisi delle famiglie italiane (val. %)
(domanda: dal punto di vista economico, per la sua famiglia il 2009 è stato…? )
Fonte: IREF, 2010
cipali indagini sulle famiglie realizzate negli ultimi anni in Italia: l’indagine multiscopo
dell’ISTAT, la survey sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia e l’indagine longitudinale sulle famiglie italiane (ILFI) realizzata dall’Università di Trento. Oltre a questi riferimenti e a contributi di ricerca qualificati, l’indagine dell’IREF recupera temi e soluzioni
tecniche già sperimentate in una precedente ricerca realizzata dall’Istituto (Caltabiano
e Morga, 2001).
Lo strumento di rilevazione è composto da una sezione fissa e da una sezione
tematica. La sezione stabile, ripetuta tre volte fra il 2009 e gennaio 2010, ha riguardato le
condizioni di vita delle famiglie, mentre la seconda sezione ha affrontato di volta in volta
un tema specifico.
Guardando ai risultati, si rileva che nel Nord-Est e nel Sud dell’Italia si concentra la maggior parte di famiglie che giudica il 2009 come un anno negativo: si tratta di
una percentuale, rispettivamente, del 59,3% e del 60,1%. Le “regioni dei capannoni” e
dell’economia diffusa si attestano, quindi, allo stesso livello delle aree sotto industrializzate del meridione: il tessuto produttivo italiano, per quanto fitto, non ha retto all’onda
d’urto della recessione, cosicché la forza livellatrice della crisi ha accomunato aree del
Paese molto diverse.
125
Sul fronte delle famiglie che hanno dichiarato di aver “tenuto botta” alla recessione, nel Nord-Ovest si riscontra la quota più elevata (47,5%); anche in questo caso, la
vocazione produttiva del territorio fornisce una buona cornice esplicativa. Il triangolo
Piemonte-Lombardia-Liguria è ancora l’area della grande impresa italiana, ovvero quel
segmento di produzione che ha avuto accesso agli ammortizzatori sociali e per il quale
sono state stanziate anche delle risorse aggiuntive per allungare i periodi di cassa integrazione. Scomponendo i dati a seconda della tipologia familiare si può, inoltre, notare
come i giudizi maggiormente problematici vengano espressi dalle famiglie con figli, il
60,2% delle quali afferma che il 2009 è stato un anno peggiore del precedente; un valore
molto alto si riscontra anche tra le famiglie monogenitoriali (63,1%). Sono dunque i nuclei con carichi familiari più grandi ad aver sofferto della crisi in misura maggiore.
Nel febbraio 2010, secondo il 40,8% delle famiglie residenti al Sud dell’Italia la
crisi economica si è sentita molto nel posto dove vivono (Fig. 5.2); tale percentuale è dieci
punti più alta di quella registrata nel Nord-Ovest del Paese (30,6%) mentre nel Centro si
registra la quota più elevata di famiglie secondo le quali nella città dove abitano la crisi
si è sentita abbastanza (54,6%).
Figura 5.2 – Ripartizione geografica della percezione della crisi delle famiglie
italiane (val. %)
(domanda: quanto si è sentita la crisi nel posto dove vivete?)
Fonte: IREF, 2010
126
parte terza
| l’indagine iref
Nel disegno della ricerca IREF si è pensato di tradurre operativamente le
conseguenze più immediate e macroscopiche della crisi sulle famiglie attraverso
due set di indicatori, uno relativo ai comportamenti di consumo (alimentare e non),
l’altro alle strategie di risparmio. I comportamenti di consumo sono un punto di
osservazione ravvicinato delle dinamiche di impoverimento, la reazione più immediata alla perdita di potere d’acquisto; si è quindi pensato di ipotizzare una serie di
situazioni che fossero in grado di sintetizzare il livello di contrazione dei consumi,
ovvero l’acquisto di prodotti a basso costo (low cost), il risparmio sulle utenze casalinghe, il mancato pagamento di rate, mutui e bollette.
Figura 5.3 – Comportamenti di consumo delle famiglie italiane, confronto
settembre 2009-febbraio 2010 (val. % affermativi) (domanda: negli ultimi tre mesi vi è capitato di…)
Fonte: IREF, 2010
Confrontando, nella figura 5.3, il dato di settembre 2009 con quello di febbraio 2010 riferito ai comportamenti di consumo delle famiglie italiane, si nota che
rimane elevata ma stabile la quota di famiglie alle quali, nei tre mesi precedenti
all’intervista, è capitato di acquistare prodotti a basso costo (rispettivamente 67,8%
e 66,1%). La percentuale di intervistati che afferma di aver risparmiato sulla cura
della propria persona passa dal 33% del settembre 2009, al 44,5% rilevato a febbraio 2010; allo stesso modo si nota un incremento della percentuale di famiglie
127
che hanno risparmiato su acqua, luce e gas, pari al 32,1% nel 2010, rispetto al
20,6% del periodo precedente. Sostanzialmente stabile, rispetto al settembre 2009
è la percentuale di nuclei familiari che hanno dovuto rinunciare all’acquisto di una
cosa che sarebbe servita (31,9% a febbraio 2010). In generale, le famiglie che sono
venute meno a impegni come rate e bollette sono poco numerose, al contrario, più
frequenti sono stati i tagli rispetto a quelle spese suscettibili di essere ridotte o aumentate. In altre parole, per far fronte ai costi fissi le famiglie italiane hanno dovuto
ridurre i costi variabili.
Per completare l’analisi delle dinamiche che hanno interessato la struttura
di spesa delle famiglie italiane è stato preso in esame l’altro set di indicatori relativo alle strategie di risparmio, nel quale sono state comprese le seguenti voci di
spesa: vacanze e viaggi, abbigliamento, tempo libero e divertimenti, spesa alimentare, casa, trasporti.
Confrontando, nella figura 5.4, i risultati delle rilevazioni di settembre 2009
e febbraio 2010, relativi alle strategie di risparmio delle famiglie italiane, si nota
che risultano pressoché stabili le percentuali di famiglie che hanno risparmiato su
consumi alimentari (50,3% a settembre 2009 e 48,7% a febbraio 2010) e abbigliamento (dal 53% al 55,3%); mentre crescono, in modo sostenuto, le quote di famiglie
che hanno ridotto le spese per vacanze e viaggi (dal 43% al 56%) e, soprattutto, per
il tempo libero e i divertimenti (35,6% a settembre 2009 contro il 52,7% a febbraio
2010). In termini evolutivi è interessante notare come la contrazione dei consumi
abbia prima interessato i beni di base e solo successivamente i beni voluttuari. Tale
indicazione potrebbe apparire contro intuitiva poiché si suppone che in una situazione di difficoltà prima di arrivare a tagliare i consumi alimentari si cerchi di ridurre le spese per vacanze e svaghi. Tuttavia, per comprendere questi dati, occorre
riflettere sull’evoluzione dei bisogni familiari nella società dei consumi.
Secondo lo schema classico di Riesman (Riesman e Roseborough, 1969) gli
individui hanno uno “standard package”, ovvero una quantità di spese di routine,
vissute come obbligate per sentirsi parte del sistema sociale. Nel corso della seconda metà del Novecento questo “pacchetto” è andato ampliandosi arrivando a
inglobare un numero sempre crescente di beni e oggetti: dal frigorifero alla televisione, dall’automobile alla lavatrice. Progressivamente, tra i consumi standard,
hanno cominciato a trovare spazio anche le spese legate al tempo libero (Dumazieder, 1978) e al cosiddetto leisure time66. In questo senso, il risparmio alimentare
66 L’ingresso delle vacanze e dei divertimenti all’interno dei consumi di base è stato, peraltro, ratificato
dalla legge n. 135 del 29 marzo 2001 con la quale si prevedono delle agevolazioni finanziarie (buoni
vacanze) per le famiglie meno abbienti (www.buonivacanze.it).
128
parte terza
| l’indagine iref
e per l’abbigliamento va letto anche alla luce dei fattori stagionali e della diversa
struttura dei costi. In altre parole, è possibile che nel corso dell’estate si sia risparmiato per potersi permettere le cosiddette ferie; allo stesso tempo, bisogna notare
che cibo e abbigliamento sono due beni di consumo che offrono una forte differenziazione dei prezzi per cui è possibile che la riduzione delle spese sia dovuta a scelte d’acquisto improntate alla sobrietà. Sui consumi alimentari, in particolare, si è
avuto modo di osservare, nei capitoli precedenti, come, oltre alle risorse disponibili,
incidano preferenze, abitudini, prassi e aspettative polivalenti e del tutto soggettive.
Figura 5.4 – Strategie di risparmio delle famiglie italiane, confronto settembre
2009-febbraio 2010 (val. % affermativi)
(domanda: negli ultimi tre mesi la sua famiglia ha fatto economia sulle seguenti
voci di spesa?)
Fonte: IREF, 2010
Inoltre, sebbene la gerarchia dei consumi sia mutata, la riduzione dei consumi alimentari può rimandare a una situazione di povertà alimentare, un fenomeno
che purtroppo continua a essere presente anche nel nostro Paese. Un’indagine
della Fondazione per la sussidiarietà stima che: «nell’anno 2007 sono presenti in
Italia poco più di un milione di famiglie - pari al 4,4% delle famiglie residenti nel
complesso del Paese - che presentano una spesa alimentare insufficiente in rapporto al costo del cibo nella regione di residenza» (Accolla e Rovati, 2009).
129
I dati della ricerca IREF evidenziano che a febbraio 2010 più di una famiglia
su tre (34,8%) ha risparmiato sull’acquisto di generi alimentari di base (pane, pasta
e carne); tale percentuale risulta sostanzialmente stabile rispetto a quanto fatto
registrare a settembre 2009. Tuttavia, all’interno di un generale trend di risparmio,
la riduzione dei consumi di pane, pasta e carne indica un ulteriore peggioramento
delle condizioni di vita non solo delle famiglie meno abbienti ma anche di quelle con
una solidità economica media e alta (Fig. 5.5) che non può essere certamente letta
con la lente della sobrietà.
Figura 5.5 - Percentuale di famiglie che nei tre mesi precedenti l’intervista hanno
risparmiato su pasta, pane e carne a seconda della solidità economica
Fonte: IREF e Acli/Caritas Italiana, 2010
In primo luogo, le dotazioni economiche di base condizionano in modo evidente le
spese alimentari delle famiglie anche se i comportamenti di spesa sono determinati, sia
nel livello che nella struttura, dalle caratteristiche del nucleo familiare. Tra le famiglie
che hanno un alloggio di proprietà e dei risparmi, dunque con una solidità economica
alta, la percentuale di nuclei che hanno ridimensionato la spesa sui generi di prima
necessità è del 19,8%. Al diminuire della solidità economica cresce in modo molto forte
la necessità di ridurre i consumi alimentari primari: si passa, difatti, dal 30,6% delle
famiglie con una buona solidità economica al 68,4% delle famiglie economicamente
molto fragili (Fig. 5.5). La progressione percentuale evidenziata chiarisce il ruolo dei
costi fissi nella definizione dei comportamenti di consumo: se si deve far fronte a un
130
parte terza
| l’indagine iref
impegno di spesa periodico, come quello di un affitto o di un mutuo, occorre risparmiare
un po’ su tutto, anche sui generi alimentari di base. Eliminando le situazioni estreme, è
interessante notare come, in termini comparativi, le famiglie che possono contare su dei
risparmi, anche se titolari di mutui o affitti, tendono ad avere una condizione migliore
di quelle che, pur essendo proprietarie di casa, non riescono a risparmiare: difatti, il
risparmio alimentare interessa, nel primo caso, il 30,6% delle famiglie, nel secondo il
47,8%.
Secondo i dati della ricerca IREF, dunque, la crisi economica ha colpito anche i
consumi fondamentali e le famiglie economicamente più esposte hanno dovuto intaccare in modo evidente i consumi alimentari di base. Le difficoltà riguardano, in misura
maggiore, le famiglie residenti nel Sud Italia (42,2%), le famiglie di pensionati (45,7%), le
coppie monoreddito nelle quali la persona occupata ha una posizione professionale di
livello basso (41,7%)67 e le famiglie che risiedono nella periferia di un’area metropolitana
(46,7%).
Si confermano, quindi, alcuni fenomeni ben noti come, ad esempio, la maggiore vulnerabilità delle famiglie di pensionati e dei nuclei che vivono nel meridione; ma
si evidenziano, anche, alcune significative, purtroppo in negativo, novità. Innanzitutto,
l’ampliarsi della fascia dei cosiddetti working poor, ovvero persone che pur lavorando
non riescono ad avere un tenore di vita adeguato: in Italia, la percentuale di lavoratori
poveri continua a mantenersi tra le più pesanti in Europa, al pari di Lettonia e Portogallo,
con il 10% degli occupati che vive al di sotto della soglia di povertà relativa, due punti
percentuali al di sopra della media UE-25 (CIES, 2009). Un secondo elemento, in parte
legato al precedente, è dato dal disagio delle periferie e delle cinture metropolitane: dal
momento che nelle grandi città il costo degli alloggi è, negli ultimi anni, lievitato a dismisura – addirittura a Roma il costo degli affitti è cresciuto tra il 1999 e il 2008 del 145%
(CGIL-SUNIA, 2009), le famiglie con meno disponibilità economica hanno cominciato a
spostarsi nei comuni delle cinture urbane, compensando la spesa sui trasporti con il
risparmio sulla casa. Secondo la ricerca IREF è aumentata la quota di famiglie che ha
dichiarato di risparmiare anche sui trasporti, passata dal 24,2% del settembre 2009 al
30% del febbraio 2010; questo dato risulta più marcato tra le famiglie residenti nella periferia delle aree metropolitane (58,2%), per le quali i trasporti sono una voce di costo significativa, al contrario di coloro che vivono in luoghi dove i tempi di percorrenza tra casa
e lavoro sono più contenuti. È lecito supporre che le forme di risparmio abbiano previsto
un più frequente uso dei trasporti pubblici a sfavore dell’automobile (D’Arcangelo, 2009).
67 Questi dati, peraltro, sono in linea con quanto emerge dall’indagine coordinata da Campiglio e Rovati in particolare per quel che riguarda il legame tra titolo di godimento dell’abitazione e il livello
professionale della persona occupata (Cfr. Accolla e Rovati, op. cit., pp. 74-80).
131
Riguardo alla più generale contrazione dei consumi, è possibile concludere che
la pressione della crisi abbia radicalizzato alcune tendenze ben conosciute nel contesto
italiano. È noto che, in Italia, l’abitazione sia un elemento che condiziona in modo pesante i bilanci familiari. Sinora le famiglie avevano risposto al problema sottraendo reddito
ad altri capitoli di consumo: in pratica, la voce “casa” tendeva ad attrarre buona parte
delle risorse economiche. Sotto la spinta della crisi economica le operazioni di bilancio
sono sempre più vincolate, per cui occorre innanzitutto onorare gli impegni di spesa assunti in precedenza; tale stato di cose è evidente dal dato relativo alla capacità di risparmio. Nella ricerca IREF alle famiglie è stato chiesto che importo avessero a disposizione
una volta pagate le spese fisse (ovvero casa, rate, bollette e spesa alimentare): è emblematico constatare che oltre il 52% del campione ha dichiarato che non rimane nulla o
quasi (meno di 100 euro), il 36,9% ha affermato di avere risorse economiche comprese
tra i 100 e i 500 euro e solo il 10,6% ha dichiarato di poter contare su oltre 500 euro.
5.3 L’orientamento dei cittadini verso forme di consumo alimentare responsabile: alcune riflessioni
Il clima di fiducia dei consumatori, in progressivo miglioramento nella seconda metà del 2009, è tornato a peggiorare nei primi mesi del 2010, riportandosi,
in marzo, sui livelli dello scorso giugno (IREF, 2010). Sulla fiducia delle famiglie
pesa il maggiore pessimismo circa la situazione economica generale del Paese e
l’accresciuta preoccupazione sulle condizioni del mercato del lavoro; la percentuale dei consumatori intervistati che prevede un forte aumento della disoccupazione nei prossimi dodici mesi è salita oltre il 30% in marzo, il doppio di quanto
registrato lo scorso luglio. Incide sui giudizi dei consumatori anche il deterioramento dei bilanci familiari; le prospettive di risparmio, infatti, sono viste come
sensibilmente meno favorevoli. Inoltre le percezioni d’inflazione sono aumentate
nell’ultimo semestre, in sintonia con la risalita dell’indice dei prezzi al consumo
(Banca d’Italia, 2010).
Una riflessione che matura dai risultati appena analizzati è la seguente: il
mercato, lasciato al solo principio della ricerca del profitto, non riesce a produrre
coesione sociale di cui pure ha bisogno. Senza forme interne di solidarietà e di
fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione
economica. Molti economisti, soprattutto quelli attenti alle dinamiche pro sociali,
ci ricordano la funzione primaria di iniziative economiche di tipo associativo, volontario o di imprenditoria sociale. «Occorre che nel mercato si aprano spazi per
132
parte terza
| l’indagine iref
attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare
il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso
rinunciare agli standard di qualità e a produrre valore economico. Le tante espressioni di economia che traggono origine da iniziative not for profit dimostrano che
ciò è concretamente possibile. Si va sempre più diffondendo il convincimento in
base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli
proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di
soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori
dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo
alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi
che stabiliscono di fatto i loro compensi: tutto ciò degenera nel perseguimento di
interessi privati a scapito dei predetti soggetti» (Becchetti e Paganetto, 2003).
Figura 5.6 - Importanza dell’impatto ambientale di un prodotto nelle decisioni di
acquisto dei consumatori
Fonte: Eurobarometro, 2009
La flessione dei consumi e la ricerca del risparmio a tutti i costi può indurre i consumatori e le famiglie a rivolgersi a operatori commerciali che offrono
prodotti a minor prezzo ma che non tutelano la qualità degli stessi; essi, inoltre,
133
potrebbero non essere indotti a ricercare prodotti che rispettino gli standard etici.
Dunque, l’impossibilità di proseguire nella scelta solidale dei consumatori - le cui
manifestazioni in campo alimentare sono state ampiamente illustrare nei capitoli
precedenti - potrebbe essere un altro riflesso della crisi.
Tuttavia, appare utile soffermarsi sulla maggiore sensibilità dei cittadini italiani, rispetto alla media dei cittadini europei, ad acquistare prodotti che rispettano
l’ambiente (Eurobarometro, 2009). Infatti, il 54,1% dei consumatori italiani contro
una media europea del 33,8%, giudica molto importante l’impatto ambientale di
un prodotto nelle proprie decisioni di acquisto (Fig. 5.6); si tratta di una forma di
consumo socialmente responsabile che, naturalmente, interessa anche i prodotti
agroalimentari. Ma è anche una delle 5 azioni a favore dell’ambiente ritenute indispensabili per il consumatore socialmente responsabile (Eurobarometro, 2009). Le
altre sono; acquistare elettrodomestici a basso consumo; usare meno acqua; ridurre e riciclare i rifiuti; viaggiare meno e usare mezzi a basso impatto ambientale.
Nei Paesi europei la distribuzione delle azioni responsabili tra di essi è differenziata, senza che nessuno riesca realmente a primeggiare eccessivamente
nell’una o nell’altra voce (Fig. 5.7). Ciò dimostra che ancora molta strada va percorsa perché i comportamenti dei cittadini abbiano una reale ricaduta positiva sull’ambiente, invertendo quello che attualmente appare come un reale avvelenamento
costante del nostro ambiente.
Come detto, gli italiani sono consumatori attenti all’impatto ambientale dei
prodotti e nell’utilizzo di mezzi di trasporto sostenibili, i cittadini spagnoli sono i più
attenti nel ridurre e riciclare i rifiuti, così come a consumare meno acqua, mentre
in Germania prevale l’attenzione dei cittadini al risparmio energetico e, come in
Italia, all’acquisto di prodotti a basso impatto ambientale. I cittadini francesi e quelli
inglesi, invece, non riescono a primeggiare rispetto agli altri.
Riguardo al modo migliore per promuovere e diffonderne l’acquisto dei prodotti eco-friendly, i consumatori europei hanno messo al primo posto la capacità
dei prodotti di “raccontare se stessi”; il 36,9% degli italiani lo ritiene il modo più
interessante rispetto al 30,5% della media dei cittadini europei (Fig. 5.8). Le informazioni prevalgono anche sui “banconi dedicati” ai prodotti ecologici, che il 24,6%
degli italiani ritiene una modalità adatta a promuovere tali prodotti, o dalle vetrine
dedicate, ritenuto uno strumento valido di promozione dal 14,9% degli italiani.
Queste indicazioni possono far riflettere su come i consumatori attenti e responsabili sono anche informati e sensibili alle informazioni sui prodotti, non sono
attirati da campagne pubblicitarie o strategie di marketing e vogliono realmente
conoscere l’impatto ambientale dei prodotti che intendono acquistare.
134
parte terza
| l’indagine iref
Figura 5.7 - Azioni dei consumatori con il maggior impatto nella soluzione dei
problemi ambientali (val. %)
Fonte: Eurobarometro, 2009
Figura 5.8 - Modo ritenuto migliore dai consumatori con il quale i commercianti
possono promuovere i prodotti eco-friendly (val. %)
Fonte: Eurobarometro, 2009
135
Tuttavia, la fiducia sui bilanci sociali e ambientali appare ancora molto bassa in quasi tutti gli stati europei, ben al di sotto del 50% in 16 Paesi su 27, mentre
l’Italia si colloca in buona posizione, con il 36% di cittadini che lo ritiene un valido
supporto informativo (Fig. 5.9).
Figura 5.9 – Fiducia dei consumatori nelle aziende che realizzano azioni di reporting delle performance sociali e ambientali (val. %)
Fonte: Eurobarometro, 2009
Dall’analisi dei dati Eurobarometro emerge un chiaro segnale di crescita e di
maturazione dei consumatori italiani riguardo al consumo sostenibile, quale forma
di consumo socialmente responsabile, che porta a guardare oltre gli effetti della
crisi sulle famiglie e sugli stili di vita.
In sostanza: quale modello di società si vuole costruire per lasciare alle generazioni future un territorio preservato e uno stile di vita migliore rispetto all’attuale? Sembra utile concludere con le riflessioni presentate al convegno promosso
dall’INEA “Il consumo socialmente responsabile: un volano per lo sviluppo dell’economia civile” del 22 aprile 2010:
•
promuovere una maggiore educazione al consumo responsabile tra le famiglie e i cittadini;
•
incentivare le aziende che applicano criteri di sostenibilità ambientale e di
responsabilità sociale;
136
parte terza
•
•
| l’indagine iref
sviluppare modelli di RSI che possano essere chiaramente declinati all’interno dei report sociali e facilmente compresi dai consumatori;
realizzare marchi e certificazioni di filiera “locali” che permettano ai consumatori di individuare i prodotti realizzati nei territori più vicini, capaci di
garantire non solo elevati standard di qualità ma anche promozione e tutela
del territorio e forte concorrenza ai prodotti non di qualità.
137
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