Rivista MUSEO_ANDERSEN_ALLESTIMENTI_E_RICERCHE (1)

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Rivista MUSEO_ANDERSEN_ALLESTIMENTI_E_RICERCHE (1)
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
NDERSE
ISSN 2282-2615
N. 1 - 2013
MUSEO H. C. ANDERSEN:
ALLESTIMENTI E RICERCHE
a cura di
Matilde Amaturo
introduzione
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Hendrik e Olivia: due vite una passione
MATILDE AMATURO
A partire dal 2009 il museo Andersen ha dedicato gli allestimenti estivi alla valorizzazione del materiale conservato nei
depositi attraverso la ricerca di documenti che potessero testimoniare quel legame stretto e indissolubile che congiunge
i due principali personaggi del luogo: Hendrik ed Olivia, l'artista e la cognata divenuta precocemente vedova. [fig. 1]
Fig.1: Hendrik e Olivia allo scrittoio, 1915, stampa fotografica
d’epoca, Archivio Andersen
Non è solo la stretta parentela che li terrà uniti negli intenti
artistici, ma un’intensa condivisione di obiettivi e di realizzazioni in un’epoca di trasformazioni, il primo Novecento, è
quindi l’unicità di intenti che li rende complici di esperienze
di vita e di cultura, come il progetto del World Centre of
Communication e la World Conscience Society.
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Sulla base delle testimonianze tratte dalla documentazione
archivistica esistente nel museo, si è voluto ricostruire un'atmosfera che rendesse vive e sensibili quasi palpabili le vicende che a Roma a partire dal 1898 coinvolsero il nucleo degli
Andersen.
Da queste idee ed emozioni imbevute nel tessuto dell'edificio
è nata l'idea di rendere tangibile al pubblico un patrimonio di
opere appartenenti agli Andersen e ai loro amici.
Sono quindi scaturiti diversi progetti espositivi il cui filo conduttore è stato sempre il Diario di Olivia Cushing descritto
per immagini: Paesaggi e figure d'Italia (2009), Storia di
un'anima (2010), La Fontana della Vita (2012) 1.
Grazie alle ricerche archivistiche si è giunti quindi a proporre
un tessuto narrativo che rendesse evidente le vicende testimoniate nella casa museo attraverso le sculture, i dipinti, i
disegni, le numerosissime foto artistiche e di famiglia.
A questo scopo poi nel 2011 al museo Andersen è stato inaugurata una postazione multimediale dalle finalità educative
che raccoglie in file digitali oltre tremila opere del patrimonio
iconografico, dipinti, sculture, disegni foto e cartoline conservate tra sale espositive depositi e cassettiere. Il progetto si avvale di sottotitoli per non udenti e di una postazione per non
vedenti con una sintetica descrizione in braille. Al piano terra
una scultura in bronzo, il busto ritratto di Andreas, rende disponibile l'esperienza tattile.
Tutta la postazione
touch-screen si incentra sull'idea di un
libro parlante che
trae spunto dal Diario di Olivia Cushing,
conservato presso la
casa museo, e narra
le vicende della vita
della giovane cognata Fig.2: Postazione multimediale al Museo Andersen
di Hendrik Christian
Andersen, morta a Roma nel 1917 a trentasei anni. [fig. 2-5]
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Fig.3: Postazione multimediale al Museo Andersen
Fig.4: Postazione multimediale al Museo Andersen
Fig.5 Postazione multimediale al Museo Andersen
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Il progetto si snoda seguendo la voce narrante di Olivia che
partendo dalle sue origini bostoniane si svela come una giovane desiderosa di emanciparsi, di rendersi indipendente
dalla vita agiata e conservatrice della ricca famiglia d'origine.
Così l'amore per l'arte e la letteratura si intreccia con gli scopi
benefici indirizzati a una povera famiglia di immigrati norvegesi sbarcati a Newport (Rhode Island). [fig. 6]
Fig.6: La residenza della famiglia Cushing a Newport, cartolina d’epoca, Archivio Andersen
Si presentano quindi tutti i personaggi della famiglia Andersen, la mamma Helene,
artefice e ispiratrice di
tutta la scalata sociale, il
fratello maggiore Andreas pittore, lo scultore
Hendrik, il fratello minore Arthur musicista, la
sorella adottiva e modella Lucia, il fratello più amato da Olivia, Howard.
Fig.7: Famiglia Andersen, stampa fotografica
Con lo scopo di ripercor- d’epoca, Archivio Andersen
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rere attraverso una ricchissima documentazione tutte le tappe di una storia appassionante di intrecci affettivi [fig. 7]. Le
predominanti femminili, la mamma Helene, Olivia, infine la
sorella adottiva e modella Lucia Lice, segnano tutti i momenti salienti: l'emigrazione negli Stati Uniti , gli studi accademici, la predilezione per l'arte, il grand tour in Europa, il trasferimento a Roma, il progetto del World Centre of Communication [figg. 8-9]
Fig.8: Hendrik ed Olivia, 1910
ca, stampa fotografica d'epoca,
Archivio Andersen
Fig.9: Helene, Olivia e
Hendrik sulla terrazza
della abitazione
a piazza del Popolo, 1909,
stampa fotografica d'epoca,
Archivio Andersen
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Il punto di vista di Olivia è la costante che permette di comprendere a pieno l'atmosfera altrimenti inafferrabile di un
villino costruito negli anni venti del Novecento grazie alla sua
eredità e destinato a pubblico museo per volontà di Hendrik
nel 1940, tenuto in vita come pensione fino al 1978 anno in
cui muore la sorella usufruttuaria Lucia [fig. 10—11].
Fig.11: Hendrik e Lucia nell'atelier di via P.
S. Mancini, 1930 ca, stampa fotografica
d'epoca, Archivio Andersen
Fig.10: Hendrik e Lucia nell'atelier di via di
Ripetta, stampa fotografica d'epoca,
Archivio Andersen
Oggi grazie agli strumenti tecnologici il pubblico si immerge
in una aura ambientale che riproduce, attraverso suoni e immagini graficamente accattivanti, un'epoca che a volte sfugge
nei sui confini temporali a favore o a causa delle dimensioni
predominanti delle magniloquenti statue in gesso, simboli
del World Centre of Communication, conservate ed esposte.
A suggello di queste sequenze multimediali e museografiche,
come cammei incastonati in una storia avvincente e lontana,
si è pensato infine di raccogliere temi cari, affascinanti, simboli del ricco percorso artistico dei protagonisti attraverso una serie di Quaderni che raccolgano il materiale relativo agli
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allestimenti temporanei e permanenti, alle ricerche che possano fornire spunti e approfondimenti, fondamentali riferimenti bibliografici e archivistici.
NOTE AL TESTO
1
Cfr. www.museoandersen.it: archivio mostre. Paesaggi e impressioni d’ Italia. Dipinti di Hendrik C. Andersen dal 1904 al 1940. (luglio- novembre 2009);Storia di
un’anima. Immagini e memorie dal Diario di Olivia Cushing (1871-1917) (giugnoottobre 2010); La Fontana della vita: immagini e simboli (giugno- settembre 2012)
2 La realizzazione del progetto e la postazione sono stati realizzati da Spazio Visivo
3 Indicazioni bibliografiche principali: Museo H. C. Andersen, a cura di E. di Majo,
Milano 2008; F. Fabiani, Hendrik Andersen, Gangemi 2008; A. Ciotta, La cultura
della comunicazione nel piano del Centro Mondiale di Hendrik Ch. Andersen e di
Ernest M. Hébrard, Franco Angeli, Milano, 2011.
Immagini di documentazione digitalizzata
per conto della Gnam da Spazio Visivo nel 2011
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allestimenti
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“E la cosa più difficile diventa facile”.
Esperienze educative per le scuole
al Museo H. C. Andersen
MARTINA DE LUCA
FABIOLA DI FABIO
Secondo il modello ecologico dello sviluppo di Urie
Bronfenbrenner1, la scuola non è un luogo di formazione indipendente da tutti gli altri ambienti di vita dell’individuo
ma, al contrario, è in stretta connessione proprio con tutto
ciò che è al di fuori di essa. La scuola, cioè, è un microsistema
autonomo, con caratteristiche uniche e tuttavia fortemente
legato agli altri microsistemi che l’alunno vive quotidianamente (la famiglia in primis), nonché al macrosistema, base
di tutte le interconnessioni, nel quale è inserita. Per tale motivo l’apertura della scuola al territorio è elemento imprescindibile del percorso formativo del bambino/ragazzo e si offre
quale preziosa risorsa di conoscenza di realtà diverse rispetto
a quelle vissute nell’ambito strettamente scolastico e familiare.
Quale posto, dunque, per l’apprendimento al museo?2 Il museo, che si configura quale preziosa tessera di questo variegato mosaico, offre un luogo di apprendimento non formale,
dove lo studente può fare esperienza diretta e attiva dei molteplici contenuti offerti
dalle opere esposte. Le
svariate tipologie di museo oggi disponibili permettono, infatti, di spaziare
nei campi del sapere più
vari, dall’arte alla storia,
dalla letteratura alle
scienze, dalla musica al
cinema e via dicendo, creando un legame significativo con le discipline più specificamente curricolari.
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Da qui discende (ma ne è anche il punto di partenza) l’idea di
una didattica che non sia solo trasmissione di contenuti preconfezionati, in uno scambio unidirezionale cha va dal docente all’alunno, ma un campo aperto di scoperte, approfondimenti e pensieri creativi e personali: una didattica attiva e
progressiva, per dirla con il celebre pedagogista americano
John Dewey3. E da Dewey arriviamo alle teorie
dell’apprendimento più recenti, passando per un lungo cammino caratterizzato dalla consapevolezza sempre crescente di
dover mettere il discente al centro del processo di insegnamento, fino al paradosso che l’apprendimento precede
l’insegnamento4.
A partire da questo approccio metodologico e considerata la
specificità del Museo Andersen - una casa museo nata come
luogo di abitazione e di lavoro dello scultore norvegese – è
stato realizzato, dal 2009 al 2012, un programma di attività
educative rivolto a scuole di differenti ordini e gradi, con
l’obiettivo di stimolare forme di apprendimento attivo, attraverso un percorso di costruzione delle conoscenze che coinvolge anche la sfera emotiva.
Utilizzando gli strumenti della normativa vigente, è stato
possibile dare corso a progetti realizzati in partenariato con
le istituzioni scolastiche5, con l’indubbio vantaggio di rendere
più efficace l’attività al museo, in quanto contestualizzata e
radicata nel percorso curriculare della classe. Per questo, ad
esempio, ogni ciclo di attività ha previsto interventi degli operatori sia al museo sia a scuola. La scelta di organizzare ogni volta dei piccoli eventi finali ha, inoltre, offerto la possibilità agli studenti di condividere la loro esperienza con i compagni di scuola, gli amici e le famiglie e godere di una propria
“visibilità” all’interno del museo.
Ai bambini della scuola primaria è stato proposto di lavorare
su temi come lo spazio del museo, la scultura, l’architettura e
l’urbanistica. La scoperta della casa di Andersen e del suo lavoro è stato il pretesto per riflettere e approfondire le conoscenze intorno al concetto di spazio (nelle sue diverse decli-
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nazioni: dallo spazio privato della propria casa fino allo spazio pubblico della città) e alle specificità del linguaggio scultoreo e la sua evoluzione nel tempo. In tutti i casi le esperienze proposte hanno cercato di legarsi con quanto quotidianamente i maestri proponevano nel loro lavoro in classe.
Un ulteriore punto di forza del progetto è stato la scelta
dell’équipe: i laboratori sono stati concepiti nell’ambito di una più vasta collaborazione con l’Università “La Sapienza”6 di
Roma e hanno visto impegnato lo staff della
Soprintendenza7, cui è stato
affiancato ogni anno un diverso team di tirocinanti,
provenienti da esperienze
formative differenti (corsi di
laurea storico artistici, pedagogici e Accademia di
Belle Arti)8, nonché - nel
caso dei laboratori dedicati
alla scultura - si sono aggiunti alcuni artisti9, diversi
per linguaggi e generazione,
ma tutti pienamente coinvolti sin dalla fase progettuale del lavoro. L’esito è stata
la trasformazione di un momento formativo in un processo di
lavoro multidisciplinare, dove è stato possibile condividere i
saperi e le esperienze propri della didattica museale, disciplina “di frontiera” dove confluiscono conoscenze e competenze
afferenti a diversi ambiti disciplinari.
Un’impostazione in parte simile è stata proposta per gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado, per i quali,
però, accanto a percorsi brevi, è stato possibile, nell’ambito
dell’Alternanza scuola – lavoro10, avviare percorsi di più ampio respiro. Diversi gli obiettivi, alcuni propri del programma
dell’Alternanza, come l’acquisizione di competenze spendibili
nel mondo del lavoro o l’orientamento al proseguo degli stu-
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di, altri più legati allo specifico del museo, tra cui imparare
ad apprendere con modalità peculiari dell’apprendimento al
museo o il superamento delle barriere che di norma ostacolano l’apprezzamento dei musei da parte dei giovani. L’aver
chiesto agli studenti di ideare, progettare, realizzare e sperimentare strumenti e attività di mediazione del Museo Andersen per i visitatori più giovani, li ha spinti a creare un proprio
percorso di studio e di restituzione dei contenuti del museo,
di cui hanno appreso i complessi meccanismi di funzionamento, partecipando appieno ad alcune delle questioni cruciali relative all’identità delle istituzioni culturali e del loro
ruolo nella società attuale. Non va dimenticato, infatti, che
uno degli obiettivi della didattica museale è maturare la consapevolezza del ruolo e del valore del patrimonio culturale
per la comunità e rendersi conto della necessità della sua tutela e conservazione.
Anche per i ragazzi, al pari dei loro colleghi più giovani, è stato previsto un evento finale di presentazione dei lavori realizzati, che ha costituito un momento molto importante di condivisione e di apertura al territorio.
Attività educative per la scuola primaria
I laboratori dedicati agli alunni di scuola primaria sono stati
concepiti con l’obiettivo di creare un legame significativo tra
scuola e museo, secondo la già citata prospettiva ecologica.
Dunque il punto di partenza è stato scegliere temi inerenti il
museo, declinati in attività che potessero essere svolte sia a
scuola sia al museo. I temi sono stati adattati all’età dei bambini e hanno coperto l’intero ciclo della scuola primaria.
Per i piccoli alunni della prima e seconda classe, i laboratori
dal titolo “La mia casa è un museo” si sono concentrati sul
tema del museo come luogo di
abitazione e atélier
dell’artista, secondo una prospettiva più consona alla mente
dei bambini all’inizio dell’età scolare, quando c’è ancora biso-
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gno di ancorare fortemente l’apprendimento alle proprie esperienze quotidiane.
Per tale motivo il primo incontro svolto a scuola è stato finalizzato alla conoscenza dello spazio-casa, attraverso giochi e
attività che hanno permesso ai bambini di riconoscere, definire e classificare i vari ambienti che costituiscono una casa.
Dal generale si è poi passati al particolare e i bambini sono
stati sollecitati e descrivere l’ambiente di casa per loro più intimo: la propria cameretta.
Una volta al Museo, poi, accolti da un operatore che vestiva i panni di Andersen, i
bambini hanno esplorato tutti gli ambienti di casa Andersen, studiandone la disposizione degli spazi e il loro uso.
L’ultima fase ha riguardato la
riproduzione di un dettaglio
della propria cameretta, con
una breve descrizione che ne
ha costituito la didascalia: i
disegni sono stati, così, esposti nelle sale del primo piano
del Museo, creando un dialogo significativo ed emozionante tra spazi abitati ed opere del
passato e spazi vissuti e testimonianze del presente.
Il laboratorio “La Scultura: dare forma allo spazio” è stato
pensato per gli alunni di terza e quarta classe e si è caratterizzato per il coinvolgimento degli artisti, a ognuno dei quali è
stata affidata una classe che hanno seguito per l’intero percorso. L’obiettivo è stato fornire ai bambini una conoscenza
approfondita del linguaggio scultoreo, partendo da una riflessione generale sulla differenza tra i concetti di spazio bidimensionale (come un dipinto) e tridimensionale (come lo
spazio intorno a sé, a partire dal proprio corpo e per finire al-
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la scultura). L’idea della funzione comunicativa dello spazio è
stata esplorata anche attraverso brevi drammatizzazioni.
Nell’incontro al museo i bambini hanno familiarizzato prima
con gli spazi di casa Andersen e poi con quelli di lavoro dello
scultore, osservandone accuratamente le opere, di cui hanno
scoperto materiali e tecniche. Infine si sino cimentati direttamente nei panni dello scultore, avvalendosi di svariati materiali (pongo, panetti di sapone, legno, cartone, cartoncino…)
che hanno scolpito, modellato e assemblato secondo i due
principali modi “per via di levare” e “per via di porre”.
L’ultimo incontro, avvenuto di nuovo in classe, ha permesso
ai bambini di lavorare a stretto contatto con un artista contemporaneo, che ha mostrato loro il proprio lavoro e le tecniche utilizzate, sollecitando poi i bambini a realizzare delle opere ispirate a quanto visto.
Tutti i lavori realizzati nel corso del laboratorio sono stati esposti al museo, dove i bambini hanno partecipato
all’allestimento, guidati dagli operatori e dagli artisti, sia a
scuola, dove hanno presentato direttamente la loro esperienza agli alunni e agli insegnanti delle altre classi.
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Per i bambini di classe quinta e i ragazzi delle prime due classi della scuola secondaria di primo grado, è stato proposto il
laboratorio “Città reali, Città immaginarie”, con l’obiettivo
di stimolare la riflessione circa le problematiche della città
contemporanea.
Anche in questo caso si è mantenuta la struttura tripartita
degli incontri. Il primo incontro, che ha avuto luogo in classe,
ha avviato i bambini alla scoperta della città, partendo dalla
via della propria casa e
m a nte ne ndo
come punto di
riferimento il
centro di Roma e la posizione del Museo Andersen
all’interno di
esso.
Il focus si è
poi allargato
ai problemi che viviamo quotidianamente nella nostra città e,
attraverso giochi e teatralizzazioni, i bambini hanno approfondito temi quali l’inquinamento, i rifiuti, il traffico, il parcheggio e l’importanza delle aree verdi e del riciclo.
Al Museo Andersen i bambini hanno sperimentato
l’evoluzione storica di Roma (dall’antichità ad oggi), prima
osservando diverse rappresentazioni cartografiche della città,
che hanno illustrato i cambiamenti avvenuti sul territorio in
seguito alla sua espansione, e poi assistendo al racconto di
personaggi celebri che hanno segnato in modo significativo il
volto di Roma (ad es. l’imperatore Adriano o il sindaco Ernesto Nathan). Infine gli operatori hanno introdotto il progetto
utopico di Andersen circa la Città mondiale della comunicazione, mostrando ai bambini i materiali conservati nel Museo.
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Tale discorso è stato poi ripreso nel corso dell’ultimo incontro in classe, dove i bambini, indossando i panni
dell’architetto e dell’urbanista, hanno lavorato in gruppo alla
progettazione di una propria città ideale. Anche in questo caso i laboratori sono stati seguiti da un evento finale, realizzato sia a scuola sia al Museo.
L’Alternanza scuola - lavoro
Questa breve carrellata di attività si conclude con i progetti
realizzati con i ragazzi degli ultimi anni della scuola secondaria di secondo grado, come previsto dalla normativa che disciplina l’Alternanza scuola – lavoro12.
La scelta di questo specifico strumento normativo è stata dettata proprio dalla prospettiva teorica sottesa al lavoro dei
Servizi Educativi del Museo, per i quali, come più volte ribadito, è stato assolutamente prioritario considerare lo studente al centro del progetto formativo offerto. L’Alternanza, infatti, sottolinea in modo ancora più forte l’importanza
dell’“uscita” dei ragazzi dalla scuola per aprirsi al territorio e,
in particolar modo, alle realtà lavorative possibili al termine
del percorso di studi. In questo modo i giovani hanno
l’opportunità di mettere in campo le proprie competenze, di
sperimentare attivamente i saperi appresi e di vedere
“concretamente” finalizzato il proprio studio.
I progetti realizzati al Museo Andersen durante gli anni scolastici 2009/2010 e 2010/2011, in convenzione con l’Istituto
d’Arte di Anagni, hanno previsto la progettazione e realizzazione, rispettivamente, di una serie di arredi per la didattica
museale, tra cui tre tipologie diverse di un tavolo pieghevole
per bambini (IsAndersen), e di un teatro di burattini sulla vita di Andersen (TeatrAndersen). I ragazzi sono stati impegnati per una media di 70-90 ore nell’arco dell’anno scolastico e hanno svolto svariate attività, sia teoriche sia pratiche,
articolate in tre fasi.
La prima fase, definita “teorica”, è stata una fase di preparazione e orientamento, effettuata prevalentemente a Roma e al
Museo Andersen, dove i ragazzi hanno approfondito la cono-
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scenza del Museo e delle sue collezioni. Inoltre hanno svolto
incontri su argomenti concernenti le professionalità del museo, la didattica museale e le modalità di stesura di un progetto e si sono recati presso accademie ed istituti superiori
(come l’Accademia di Moda e Costume, l’Istituto Quasar,
l’ISIA), in cui hanno potuto avere un’idea concreta dei percorsi post-diploma disponibili sul territorio.
La seconda fase, cosiddetta “pratica”, ha visto i ragazzi impegnati direttamente nella messa in opera dei progetti e si è
svolta nei laboratori della scuola, sotto la supervisione dei
docenti: i ragazzi hanno lavorato in gruppo, secondo le diverse specializzazioni del proprio indirizzo di studio (es. architettura, tessitura).
La terza e ultima fase ha riguardato la “restituzione” di quanto prodotto. I ragazzi
hanno seguito personalmente l’ideazione e la
r e a l i z z a z i o n e
dell’“evento finale”, che
ha avuto luogo presso
l’ex auditorium di Anagni e ha visto coinvolte
alcune classi della scuola primaria, nonché gli
altri alunni e i docenti
dell’Istituto d’Arte. Per
l’occasione i ragazzi del
progetto IsAndersen
hanno esposto i loro
prototipi per bambini,
mentre i compagni del
progetto TeatrAndersen
hanno messo in scena
uno spettacolo sulla famiglia Andersen con i
burattini realizzati nel
corso dell’anno13.
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Questa fase è stata molto importante per i ragazzi che hanno
partecipato alle attività dell’Alternanza, poiché per loro ha
voluto dire acquisire consapevolezza dell’impegno preso e del
lavoro svolto, vedendo concretamente in atto il frutto del
proprio studio.
E nelle parole di una studentessa che ha partecipato al progetto TeatrAndersen, ritroviamo molti dei pensieri che ci
hanno accompagnato nel ripercorrere il cammino delle esperienze educative del Museo Andersen: “L'alternanza è per
me un processo di crescita che ti permette di mettere in pratica le tue competenze in un ambiente diverso e più maturo
di quello scolastico che è quello del lavoro. Parteciparvi è
stato per me importante perché non solo mi ha permesso di
autovalutarmi, ma mi ha anche insegnato a condividere
pensieri e opinioni con gli altri e a lavorare in gruppo, questo era un mio limite perché io ero abituata a lavorare da
sola e ho dovuto imparare a rispettare e ad ascoltare anche
le idee degli altri. In più l'alternanza da la possibilità a ragazzi meno fortunati di uscire da una certa quotidianità, facendo visitare loro città e musei che non avrebbero visto in
altro modo. Penso che partecipare a questi progetti sia fondamentale, perché avere un'opportunità di crescita e maturazione a costo zero non è una cosa da sottovalutare” (Marta, 20 anni)14.
NOTE AL TESTO
1 U.
Bronfenbrenner, Ecologia dello sviluppo umano, Il Mulino, Bologna 2002.
Su questi argomenti Cfr M. De Luca, Un esempio di trasposizione didattica: la didattica museale, in P. Lucisano, A. Salerni, Didattica e conoscenza. Appunti per apprendisti educatori, Carocci, Roma 2013, pp. 221-239.
3 J. Dewey, Esperienza e educazione, La nuova Italia, Firenze 1993. Sul rapporto tra
apprendimento ed esperienza v. anche H. Gardner, Educare al comprendere. Stereotipi infantili e apprendimento scolastico, Feltrinelli, Milano 2011.
4 P. Lucisano, Costruire esperienze educative, in P. Lucisano, A. Salerni, op. cit.
5 Ci si riferisce, in particolare, all’Accordo di programma quadro MIBAC - MPI, 20
marzo 1998 che, con l’autonomia scolastica (DPR n. 275, 25 febbraio 1999), riconosce
la possibilità di stipulare accordi tra le singole istituzioni scolastiche e musei/
soprintendenze per realizzare congiuntamente progetti educativi. Ulteriore possibilità
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
è fornita dall’Alternanza scuola-lavoro, introdotta in Italia con l’art. 4, Legge delega n.
53/03. Successivamente, con il D.lg. n. 77 del 15 aprile 2005, viene disciplinata quale
metodologia didattica del Sistema dell'Istruzione per consentire agli studenti che hanno compiuto il quindicesimo anno di età di realizzare gli studi del secondo ciclo anche
alternando periodi di studio e di lavoro. La finalità prevista è quella di motivarli e orientarli e far acquisire loro competenze spendibili nel mondo del lavoro.
6 Per il Corso di laurea in Scienze della formazione e dell’Educazione, Facoltà di Filosofia, presieduto da Pietro Lucisano, ha collaborato Paolo Marabotto.
7 Oltre a chi scrive, hanno collaborato con i Servizi Educativi del Museo Andersen
Susanne Meurer e Paola Guarnera, cui si deve la redazione del dossier per i docenti
relativo al Museo e alla sua collezione, dal quale è possibile trarre informazioni e suggerimenti per la realizzazione di percorsi didattici.
8 I tirocinanti che hanno seguito i laboratori sono: Chiara Bolasco, Chiara Ferrara Luisa Gioia, Alessandro Musella, Cecilia Rumi, Francesca Canessa, Silvia Pietropaoli e
Noemi Rossi.
9 Gli artisti che hanno condotto i laboratori sono: Edoardo De Robert, Bruna Esposito,
Paola Equizi, Lucamaleonte e Vincenzo Rulli.
10 V. nota 5.
11
L’ambiente della mediazione didattica è il museo e i processi di apprendimento e di
insegnamento si svolgono in rapporto con gli oggetti e le esposizioni; l’apprendimento
al museo è differente dall’apprendimento nelle aule scolastiche perché mette in campo abilità e competenze che vanno al di là dell’ascolto e della memorizzazione. Gli obiettivi della didattica museale sono la costruzione di conoscenze e competenze attraverso la lettura degli oggetti. Qualunque sia la sua natura, l’oggetto museale è una fonte di informazioni ricca di potenzialità comunicative. Leggere i beni culturali vuol dire
osservarli, descriverli, metterli in relazione per produrre le informazioni che devono
essere integrate al fine di formare la conoscenza. Fornire gli strumenti per leggere gli
oggetti museali è uno degli obiettivi fondamentali della didattica museale;
l’importante è che alla fine dell’esperienza al museo, il discente abbia sviluppato strutture di pensiero, visivo, estetico, storico attraverso l’esercizio di lettura delle esposizioni. Cfr. M. De Luca op.cit.
12 V. nota 5. Per un panorama approfondito sull’Alternanza scuola – lavoro, nonché
sui progetti realizzati presso il Museo Andersen, v. A. Musella, Il partenariato scuolamuseo: l’alternanza scuola-lavoro. L’esperienza della Soprintendenza alla Galleria
nazionale d’arte moderna e contemporanea, tesi di laurea, Università degli Studi “La
Sapienza” di Roma, dicembre 2012.
13 Il progetto IsAndersen si è svolto nel corso di due anni scolastici (2009/2010 e
2010/2011), per questo l’evento finale ha coinciso con la chiusura del progetto TeatrAndersen, condotto nell’a.s. 2010/2011.
14 A. Musella, op. cit., p. 49.
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allestimenti
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Il Museo Andersen tra antico e contemporaneo
BENEDETTA MARCELLI
La storia istituzionale del museo Hendrik Christian Andersen
di Roma è relativamente recente; la struttura è stata inaugurata solo nel dicembre del 1999, in seguito ai lavori di restauro e ristrutturazione voluti dal Ministero dei Beni Culturali.
Le vicende storiche e artistiche della palazzina in uno stile tra
il Neo-Rinascimentale e Liberty risalgono invece agli inizi
degli anni Venti.
La struttura architettonica è stata progettata dallo stesso Andersen il quale, trasferitosi a Roma già dal 1897, decise di costruirsi un edificio che fosse studio e abitazione e che, alla
sua morte, sarebbe stato donato in eredità allo Stato italiano.
Nonostante la morte dell'artista sia giunta nel 1940, soltanto
nel 1978, in seguito alla scomparsa di sua sorella adottiva Lucia - usufruttuaria del lascito - ebbero inizio le vicende pubbliche dell’immobile. Ma ciò che importa oggi è che la costruzione di via Mancini sia diventata quello che lo scultore norvegese aveva sempre pensato e voluto, una casa museo, un
luogo vissuto dall'artista stesso e dal suo circolo culturale del
tempo, nel quale i posteri avrebbero potuto ammirare le opere e i progetti che ebbero poca fortuna nel periodo della loro
realizzazione.
Fin dai primi anni di apertura al pubblico, il museo Andersen
non ha voluto essere solo un “contenitore” finalizzato alla
semplice esposizione delle opere dello scultore norvegese, ma
si è caratterizzato per l'arricchimento annuale di allestimenti
temporanei. Tali esposizioni hanno spesso cercato di mettere
in dialogo l’arte classica dell’artista – che era pur vissuto in
epoca avanguardista - con quella contemporanea di artisti
nazionali ed internazionali.
Hendrik Christian Andersen era nato in Norvegia, ma da piccolissimo, insieme alla famiglia, si era trasferito in America,
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allestimenti
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
dove aveva passato la maggior parte dell'adolescenza. Gli studi lo avevano poi portato a compiere un viaggio di formazione in Europa e, una volta terminato il percorso scolastico, aveva deciso di stabilirsi definitivamente in Italia.
Una personalità cosmopolita, che pur avendo radici ben salde, apprende dalle culture e dai luoghi con cui viene a contatto durante il corso della sua vita. Seppur cercasse una rassicurante stabilità, Andersen era un instancabile viaggiatore,
con una base fissa, ma sempre in movimento.
Roma è la città che sceglie per sé e la sua famiglia, l'Italia la
nazione a cui decide di lasciare tutta la sua eredità. Un flusso
continuo di correnti intellettuali che si incontrano nel paese
che era culla della cultura.
Un’interessante combinazione che ben rispecchia non solo la
personalità dello scultore, ma anche la volontà di fare di questo museo un luogo di confronto tra arti e nazionalità diverse.
Dal 1999 ad oggi il museo ha ospitato mostre di pittori contemporanei italiani e stranieri (“LINO MANNOCCI. Let there
be smoke” e “ROBERT DE NIRO, SR” entrambe del 2005);
mostre di fotografia, nell’ambito e non dei vari Festival Internazionali (“CECILE BEATON. The Dandy Photographer” nel
2002, “Fotografia contemporanea Israeliana” nel 2005); video istallazioni (“Rassegna d’arte MAXXI Installazioni” nel
2007, in cui venivano presentate 5 opere dalla collezione del
MAXXI, Tony Oursler, Bill Viola, Michelangelo Pistoletto,
Sandinson e Maurizio Mochetti). Ne citerò di seguito alcune
che mi sembrano essere più rispondenti e significative per il
senso di questo saggio.
L’intento di conferire una particolare attenzione nei riguardi
degli artisti stranieri e dei loro ateliers in Italia - e specificatamente a Roma - fra Otto e Novecento, si realizza con la mostra del 2008 dedicata allo scultore olandese Pier Pander
(Drachten 1864 – Roma 1919), personaggio dalle vicende storiche e artistiche molto simili a quelle di Hendrik.
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Pander, dopo il periodo di formazione alla Scuola d’Arte e
Mestieri di Amsterdam e l’esperienza all’Ecole des BeauxArts di Parigi, vince nel 1885 il primo premio per il pensionato romano bandito dal governo olandese con la scultura Ninfa nell’acqua opera che, nel modellato e nelle proporzioni, si
identifica, fin dagli inizi della sua poetica, nel solco del classicismo purista. Giunto a Roma - dove si trasferisce a partire
dal 1890 – risiede in via Nomentana, in una casa-atelier, che
diventa frequente e accogliente luogo d’incontro per la colonia di artisti, scrittori e viaggiatori olandesi.
La presenza delle sue sculture, soprattutto bassorilievi, ad alcune esposizioni romane degli Amatori e Cultori di belle Arti,
fra fine Otto e primi Novecento, gli garantisce una certa notorietà negli ambienti artistici della città di adozione – anche se
è stata soprattutto l’Olanda ad offrire all’artista prestigiose
occasioni di lavoro -.
Il progetto di Pander di una sorta di “Tempio dell’Arte”, costituito da cinque monumentali nudi simbolici maschili e
femminili – Alba, Emozione, Pensiero, Coraggio, Forza - accomuna straordinariamente lo scultore alle utopiche visioni
di Hendrik C.
Andersen.
Per quanto riguarda invece le
esposizioni temporanee e contemporanee
di
artisti che hanno
creato ex-novo
delle opere, relazionandosi e diaFig. 1
logando con la
produzione di Andersen e con la casa-museo stessa, credo
che sia degno di nota l’allestimento di Yinka Shonibare, nel
dicembre del 2001, dal titolo “Be-muse”. [fig. 1]
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Il museo Andersen ha accolto nelle sue sale le opere di un artista che, come Hendrik, ha più nazionalità e si sente parte di
più culture. Un uomo diviso e allo stesso tempo arricchito da
formazioni intellettuali differenti. Un viaggiatore che si ferma
a Roma e ne rimane colpito, che crea, stimolato dal luogo,
pur mantenendo viva la propria impostazione.
Nella sua prima personale italiana l’artista anglo-nigeriano
Yinka Shonibare, oltre a presentare alcuni dei suoi lavori fotografici, realizza due opere ispirate da una visita al museo
Andersen stesso: Le tre grazie, che riprende le mosse di una
foto di archivio di Helene, Olivia e Lucia Andersen, e H. C.
Andersen & Henry James, opera che prende spunto
dall’amicizia realmente intercorsa tra lo scultore e lo scrittore
e dal prolifico rapporto epistolare che i due intrattenevano.
Del 2006 è invece la mostra “OLTRECONFINE. Persistence
and Abnormal” con le opere di Claudio Gobbi e Daniela
D’Avino, in arte Chiba. [fig. 2] Frutto di una collaborazione
tra l’Università La Sapienza e la DARC – Direzione Generale
Fig.2
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per l’architettura e l’arte contemporanea - l’allestimento presenta il lavoro solo apparentemente minimale del fotografo
Claudio Gobbi e le creazioni fantasiose di Chiba. I lavori dei
giovani artisti suggeriscono una riflessione sulla fruibilità
dello spazio e sul confine che esso rappresenta, e pongono
l’accento su una dimensione percettiva. In particolare mi interessava parlare delle opere di Chiba, che forse più di quelle
di Shonibare, riescono a far capire il concetto di opera realizzata per questo particolare spazio espositivo. L'intento
dell'artista contemporaneo al museo Andersen è di nuovo
quello di ispirazione, confronto e dialogo con la produzione
dello scultore di origine norvegese. Le tre creazioni di questa
mostra sono infatti un omaggio ai giganti creati da Andersen
e mai usciti dal suo studio. Bizzarri personaggi-giocattolo,
che prendono il nome di Hendrik, Alice e Hieronymus, sono
sculture di polistirolo e lattice che invadono lo spazio e invitano allo sconfinamento. Così come i momunentali gessi di
Andersen affollano le sale dello studio e dell'atelier, così i giganteschi pupazzi di Chiba occupano le stranze troppo piccole del piano superiore. Una grandiosità fisica, e di progetto,
che visivamente appare racchiusa in uno scrigno dal quale
non riesce ad uscire.
Nell’ambito della IV Giornata del Contemporaneo del 2008 si
colloca invece l’installazione dell’artista rumeno Geo Florenti
“Interno UNO”. Anche questa opera è nata per prendere vita
specificamente all’interno del museo Andersen. Luce ed energia trovano un incontro concettuale nel momento in cui l’una
e l’altra sono alla base del dibattito per la sopravvivenza.
L’installazione che l’artista ha voluto sperimentare ha qui
dunque la funzione di illuminare, nel buio assoluto, alcune
sculture di Hendrik, nonché di rendere, allo stesso tempo,
l’atelier luminoso e fruibile. L'illuminazione dell'artista rumeno, generata attraverso un sistema di autocreazione di energia, evidenzia, nell’oscurità dello spazio, volti, corpi e movimenti dei colossi dello scultore norvegese che solo così
sembrano poter esistere e mostrarsi.
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Ultima, in ordine di tempo, la mostra di Luigi Ontani
'AnderSennoSogno' (terminata il 24 febbraio del 2013). Un
altro artista che, pur essendo italiano, ma viaggiando molto
all'estero, trae ispirazione dal viaggio e dalla grandiosità delle
sculture di Andersen per creare delle opere capaci di confrontarsi e integrarsi con quelle di Hendrik. Ontani compie un
percorso all'interno del proprio immaginario attraversando le
suggestioni stimolate dalla collezione del museo. Le sue maschere musicali di Bali diventano parti dei grandi gessi disposti nello studio e in un tutt'uno di tempi e spazi, sembrano
muoversi al ritmo della colonna sonora di sottofondo. [fig. 3]
Fig.3
Un breve excursus per dimostrare come un museo come questo sia capace di offrire molte ed interessanti occasioni di comunicazione culturale contemporanea, offrendosi esso stesso
come materia da plasmare per nuove operazioni artistiche.
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L’arte va in scena…
SUSANNE MEURER
Interrogato sul segreto del successo dei suoi film, un famoso
produttore hollywoodiano disse che ci vogliono tre cose per
fare un grande film: “Location, location, location!”
E, a quanto pare, alcuni dei suoi colleghi hanno trovato una
location giusta nella casa-museo H. C. Andersen.
Il villino liberty, l’atmosfera particolare fra le statue bianchissime a grandezza sovrannaturale ma anche gli ampi spazi e la
facile accessibilità hanno fatto crescere l’interesse per il museo Andersen, come testimoniano le pellicole per cinema, TV
e pubblicità che sono state girate da noi.
Questi “set” hanno spesso offerto l’occasione per incontri
speciali con registi, scenografi e fotografi che hanno saputo
apprezzare e rispettare le particolari atmosfere del museo.
Cosa fa scegliere una location? I “cinematografari” romani
sono sempre alla ricerca di posti nuovi e particolari che possano dare al film quel qualcosa in più che solo la location perfetta ti può dare. Gli ambienti, la luce, la facilità di posizionare le macchine da presa all’interno e la possibilità di invadere
gli spazi con macchinari ed una troupe di 30 persone sono un
altro aspetto importante…
A volte però la location, invece di essere trasformata dagli
scenografi in ambienti
fantasiosi, deve essere
semplicemente quella
che è – nel nostro caso,
un museo.
E così, quando nel 2002
il regista Antonello Grimaldi (Caos calmo, L’età
dell’oro) ha cercato un
museo dove girare il suo
giallo “Gli insoliti ignoti”, Gli insoliti ignoti, regia Antonello Grimaldi,
i tre protagonisti nel museo
la scenografa Eugenia di
Napoli ha avuto un colpo di fortuna a trovare l’Andersen.
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Il film, interpretato da Valerio Mastandrea, Carlotta Natoli e
Marco Giallini, racconta di un "insolito" gruppo di ladruncoli
dilettanti a cui finalmente si presenta l'opportunità di realizzare un colpo che potrebbe cambiare la loro vita: rubare una
preziosissima tela custodita in un museo. La storia è molto
vagamente ispirata al capolavoro di Mario Monicelli I soliti
ignoti, o meglio, al tentativo di descrivere quel mondo di poveri, ma non troppo, che si barcamenano sul filo fra legalità e
piccoli furti.
I nostri ladri sono: Cosimo Spadoni (Valerio
Mastandrea), un elettricista con una leggera
propensione a delinquere; il suo amico Ruggero
(Marco Giallini), a cui
viene affidata la parte
strategica del grosso
colpo da eseguire; Marisa Spadoni (Carlotta
Natoli), la moglie di Cosimo, che il caso vuole
essere proprio la vigilante del museo dov'è
custodito il raro dipinto.
I personaggi simpatici
ma un po’ sgangherati
vorrebbero dare una Gli insoliti ignoti, regia Antonello Grimaldi,
svolta ad una vita fin i tre protagonisti nel museo
troppo normale rubando un'opera d'arte e invece ne scopriranno la bellezza, rimanendone affascinati e quasi commossi.
Le statue di Andersen questa volta sono diventate spettatori
di una commedia dai risvolti inaspettati che si tinge di giallo
ma in cui alla fine, grazie all’arte, prevale il lato umano.
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Non solo cinema però: l’ambiente particolare dello studio
dello scultore norvegese all’interno del quale sono conservate
le sue statue in gesso ha attirato molti artisti dell’immagine.
Al museo Andersen è passato anche il gettonatissimo fotografo peruviano Mario Testino, fotografo per riviste di moda da
Vogue a Vanity Fair e per le campagne di Gucci, Dolce &
Gabbana, Versace e Burberry, acclamato ritrattista con al suo
attivo mostre personali alla National Portrait Gallery di Londra e al museo Thyssen-Bornemisza di Madrid.
Nel 2007 realizzò un servizio fotografico per Vogue America
con la modella e attrice Sienna Miller nel nostro museo. Il risultato di questo set è una serie di immagini folgoranti in cui
la bellezza palpitante della modella, viva, luminosa, si staglia
contro un turbinio di membra in gesso bianchissime, “bigger
than life”. Con il suo vaporoso abito bianco la modella sembra quasi una Cenerentola sul punto di fuggire... Una delle
foto di questo servizio fu scelta per pubblicizzare la grande
mostra Todo o Nada di Mario Testino a Roma nel 2011.
La foto è visibile a:
www.fondazionememmo.it/fondazione_memmo/
Mario_Testino.html
Il museo Andersen, chiamato anche Villa Helene, ha incantato diversi scenografi grazie al suo aspetto liberty, gli ampi saloni ed i dettagli in stucco creati dallo scultore Hendrik C.
Andersen in persona. Gli spazi che non hanno subito trasformazioni violente ma che sono stati mantenuti con cura nel
loro aspetto originale permettono di ricreare atmosfere
d’altri tempi. A volte poi, l’incanto si ripete.
Questo è stato il caso della scenografa Beatrice Scarpato che
si è trovata per la prima volta davanti al museo Andersen nel
1997, quando per il film Viola di Donatella Maiorca cercava
un edificio di inizio secolo che avesse dei lavori in corso sulla
facciata - e il museo Andersen giusto in quel periodo fu in ristrutturazione.
Dopo questo primo “assaggio”, la scenografa fu conquistata
anche dagli interni, belli, fermi nel tempo, dai vetri colorati
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
dai toni accesi, dalle grandi porte finestre e dai toni tenui delle pareti.
Per via della ristrutturazione gli interni furono girati negli ex
studi De Paolis di Via Tiburtina ma alcuni dettagli dei saloni
hanno trovato spazio nella ricostruzione degli ambienti in
studio, con soddisfazione della scenografa.
Diversi anni dopo, la sala restaurata del Museo Andersen le
era sembrata il luogo ideale per ospitare un altro set, questa
volta per una scena della serie televisiva Tutti pazzi per amore III (regia di Laura Muscardin).
Nella finzione si è trattato dell’installazione dell’artista Jean
Claude Lewinsky che espone se stesso dormiente sotto una
teca di vetro costruita appositamente per la realizzazione della scena. Il museo Andersen ospita ogni anno diverse mostre
di giovani artisti italiani e stranieri – evidentemente, in questo caso realtà e finzione sono venute a confondersi!
Tutti pazzi per amore III, regia Laura Muscardin, rendering della teca di vetro
Il museo Andersen è mutevole, sa cambiare aspetto in base
alla luce, agli ospiti che hanno saputo interpretare gli spazi
con creatività e fantasia, siano essi artisti, scenografi o direttori della fotografia. Per vocazione è un luogo dedicato agli
incontri fra artisti e fra questi, l’incontro con la settima arte
ci sembra davvero speciale…
Ringraziamo la Publispei, Beatrice Scarpato e John Allan della Higher & Higher per
la gentile collaborazione.
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
La Villa Helene di Hendrik Christian Andersen:
aspetti urbanistici e architettonici
MARIA SOLE CARDULLI
Fra le pieghe del piano regolatore di Roma del 1909,
con le varianti degli anni
Venti, e la storia della dirompente espansione postunitaria della capitale si
colloca la vicenda edilizia di
Villa Helene, la casa–
atelier di Hendrik Christian
Andersen, costruita fra il
1922 e il 1924. Nel contesto
del quartiere fuori Porta del
Popolo, allora di recente espansione, si innesta un gusto
architettonico
d’oltreoceano. Da un lato il
caso di Villa Helene rappresenta quasi un esempio paradigmatico della evoluzione della normativa edilizia
Fig.1
in quegli anni, dall’altro risponde a istanze estetiche che solo parzialmente si inquadrano nelle tendenze eclettiche della Roma fra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, trovando particolari
riferimenti nel panorama architettonico americano. La casa
di Andersen entra così in risonanza con la vicenda biografica
e artistica dello scultore. La profonda consonanza formale –
risultato sia della contingenza storica e biografica che del gusto dell’artista – fra l’opera di Andersen e l’edificio in cui essa
è ospitata amplifica così quei caratteri di unitarietà e completezza che costituiscono oggi una delle principali specificità
del Museo Hendrik Christian Andersen [fig.1].
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
La vicenda della costruzione di Villa Helene è nota. Al rifiuto
del primo progetto presentato alla Commissione edilizia comunale dall’impresa dell’ingegner Francesco Settimi nel dicembre 1922 fanno seguito prima l’approvazione con riserva
del secondo progetto del maggio 1923 (la Commissione “è del
parere che si approvino le piante e si respingano i prospetti
affinché siano semplificati e ripresentati entro un mese, sopprimendo i quattro riquadri al pian terreno e facendo proseguire il pilastro dei piani superiori anche al piano sottostante”) e poi l’approvazione definitiva nel luglio del 1923. Nel dicembre del 1924 viene infine concessa l’abitabilità allo stabile
(la documentazione, conservata presso l’Archivio Storico Capitolino, Verbali Ispettorato Edilizio Sanitario, è parzialmente edita in Liguori 1999; di Majo 2008). Il progetto del maggio 1923 è denominato “Costruzione di una palazzina con annesso studio di scultura in zona di ampliamento destinata a
villini”. Tale titolazione rispecchia l’acceso dibattito urbanistico degli anni in cui fu costruita la casa–atelier di Andersen,
nonché le deviazioni in cui erano incorsi gli intenti originari
del piano regolatore del 1909.
Appena una settimana dopo la breccia di Porta Pia veniva istituita per Regio Decreto una Commissione di architetti e
ingegneri “per l’ingrandimento e l’abbellimento” di Roma. Se
il Governo unitario non mancò di prendere immediatamente
atto dell’importanza nazionale dei complessi problemi urbanistici della città, la situazione con la quale ci si confrontava
era delle più complesse. Roma, divenuta capitale d’Italia, doveva dotarsi di adeguate sedi istituzionali, mentre, nell’arco
del trentennio successivo al 1870, vedeva raddoppiata la propria popolazione, in particolare a partire dagli anni Ottanta
dell’Ottocento, in concomitanza con la cosiddetta «febbre edilizia», per poi conoscere una forte crisi economica fra il
1888 e il 1901. Superata la congiuntura sfavorevole si riaprivano i cantieri e gli indici demografici avrebbero quindi registrato un progressivo incremento fino alla Grande Guerra e
all’epidemia di febbre spagnola del 1918 (Castagnoli 1958;
Quaroni 1969; Bartolini 2002).
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Il 10 febbraio 1909 veniva approvato, a ridosso della scadenza di quello precedente, che risaliva al 1883, il nuovo piano
regolatore redatto da Edmondo Sanjust di Teulada, allora capo del genio civile di Milano, su incarico del sindaco Ernesto
Nathan (Insolera 1993). Per la prima volta l’Amministrazione
capitolina si dotava di uno strumento urbanistico che configurava un disegno complessivo della città, accentuando la
funzione direzionale del centro storico e collocando i quartieri residenziali lungo le direttrici di espansione già impostate,
secondo un disegno radiale.
Fra le zone di espansione si individuava proprio il quartiere
Flaminio, fuori dalla Porta del Popolo, fra l’ansa del Tevere e
la via Flaminia, dove sorse la casa-atelier di H. C. Andersen:
dopo una prima vocazione industriale, con l’esposizione del
1911 il quartiere assumeva quel carattere di polo culturale che
avrebbe mantenuto fino ad oggi (Casciato 2002; Marino
2003; Vittorini 2004).
Il piano del 1909 introduceva inoltre il principio
dell’azzonamento, cioè la suddivisione degli edifici di abitazione in diverse categorie, ognuna delle quali rispondente a
determinati parametri, allo scopo di limitare la densità abitativa. In particolare il piano prevedeva che venissero costruiti
nelle zone di espansione tre tipi di abitazioni, denominati
“fabbricati”, “villini” e “giardini”, le cui caratteristiche erano
specificate nel regolamento generale edilizio e nel regolamento speciale edilizio del 1912. I fabbricati potevano essere alti
fino a 24 m; per i villini, che dovevano essere circondati da
ogni lato da giardinetti, erano previsti solo due piani oltre il
piano terra; i giardini, infine, potevano essere edificati con
stabili di lusso per non più di 1/20 della loro superficie.
Dall’azzonamento dipendevano il numero e la densità degli
abitanti, sui quali si basavano le dimensioni dei quartieri, i
servizi, le sezioni stradali, il numero delle piazze, “l’efficienza
tecnica insomma dei singoli quartieri. Occorreva e bastava
far rispettare il vincolo dei villini e dei giardini” scrive Italo
Insolera (Insolera 1993). “Fu proprio questo, invece, che non
si rispettò”. Appena approvato, infatti, il concetto stesso di
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villino è sotto attacco: i proprietari dei terreni fabbricabili destinati a villini si sentono defraudati della possibilità di sfruttamento economico che un edificio più alto avrebbe loro garantito, in ciò supportati per altro dal quadro normativo italiano. Comincia così quella che lo stesso Insolera definisce
“operazione palazzina” che vede la graduale sostituzione, lotto per lotto, dei villini a un’altra, più intensiva, tipologia edilizia. Le “palazzine”, infatti, potevano arrivare a 19 metri con
quattro piani oltre all’attico, mentre il giardino circostante
era di meno di 6 metri di profondità e scompariva verso la
strada. Alla luce di tale normativa edilizia si inquadra dunque
il caso di Villa Helene “una palazzina con annesso studio di
scultura in zona di ampliamento destinata a villini”, come recita il citato progetto del maggio 1923.
La casa di Hendrik Christian Andersen, in rispondenza a tale
quadro normativo, si presenta perciò come una palazzina con
un piano terra costituito dallo studio e dall’atelier di Andersen, sormontato dal piano nobile terrazzato e da un altro piano di abitazione. Il complesso fu poi sopraelevato nel 1935
dallo stesso Andersen di un ulteriore piano dotato di terrazze
agli angoli.
Per quanto riguarda la definizione storico-artistica
dell’aspetto decorativo di villa Helene occorre invece allargare l’orizzonte oltre il panorama romano e italiano.
Francesco Settimi, alla cui impresa Andersen si era rivolto
per il progetto della sua casa-atelier, è stato autore di diversi
interventi di restauro nella Roma post-unitaria, come quello
di palazzo Fiano in via del Corso, di palazzo Sciarra,
dell’ampliamento di palazzo Vidoni in corso Vittorio Emanuele (1886), ma anche di vari cantieri edilizi, come l’albergo
Eden in via Pinciana, un edificio in via dello Statuto (1889),
una casa in Prati fra via Orazio e via Boezio. Paolo Portoghesi, nella sua ancora fondamentale monografia sull’eclettismo
romano, lo elenca in una serie di architetti, fra i quali Francesco Azzurri, Antonio Cipolla, Pietro Carnevale, Gaetano
Koch, Pio Piacentini, Giulio Podesti, Ettore Bernich, Carlo
Busiri-Vici, Giulio De Angelis, “di formazione culturale omo-
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
genea, di gusti in linea di massima convergenti, cosciente
della propria missione e fedele a una tradizione professionale
di probità e di impegno”, compagine alla quale “va attribuita
quasi per intero la responsabilità del nuovo volto assunto
dalla città, il merito di aver definito lo spazio di alcune strade
con un tessuto omogeneo dominato da una misura comune”,
ma anche “la responsabilità di essersi affidati pigramente alle
certezze dell’accademia” (Portoghesi 1968). Bugnato al piano
terra, cornici marcapiano, mostre timpanate o meno, cornicioni mensolati e altri elementi tratti da un linguaggio neorinascimentale inteso come repertorio di citazioni conferiscono all’edilizia della Roma post-unitaria e pre-fascista un volto
che doveva rispondere ad esigenze di decoro borghese. Villa
Helene non appare del tutto estranea a questo linguaggio,
tuttavia già Antonio Nezi, in un articolo dedicato all’artista
sulla rivista “Emporium” nel 1927, riconosceva che quando
Andersen lascia “la stecca e lo scalpello per la squadra e la sesta […] tornano ancora una volta gli schemi di un classicismo
indimenticato, comune alle opere di carattere
monumentale
d’oltre oceano”. Sulla
progettazione
dell’aspetto decorativo dell’edificio, più
che l’impronta eclettica – in senso romano
– di Francesco Settimi, dovettero pesare
l’estro di Andersen e
la sua formazione americana [fig. 2]. La
decorazione minuta
della palazzina, sia
negli interni che nei
Fig. 2
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
prospetti esterni, quel lessico fatto di puttini, sfingi, cantaros
da cui sbocciano fantasiose grottesche, che dialoga con un
apparato scultoreo dal significato ora simbolico (si vedano le
figure femminili recanti i simboli delle arti su via P. S. Mancini), ora allusivo al mondo degli affetti di Andersen (le teste di
Olivia Cushing, di Andreas Andersen e dello stesso Hendrik
su via G. Pisanelli), uniti all’uso del mosaico (l’iscrizione
“Helene”, dedicatoria della palazzina alla madre di Andersen
sul portone d’ingresso e quella “World Conscience” sopra la
porta d’accesso al primo piano) e dei quadri riportati a carattere simbolista del salone del piano nobile (raffiguranti il
carro dell’Aurora e una processione funebre verso un’isola
dei morti di böckliniana memoria), la stessa policromia della
palazzina, condividono
il linguaggio neorinascimentale della coeva
architettura romana,
ma parlano con una
inflessione straniera.
Il giovane Andersen,
trasferitosi con la
famiglia negli Stati
Uniti, trovò a Newport
e a Boston la protezione
di
facoltose
famiglie
americane
(Howe, La Farge,
Cushing, Vanderbilt,
Whitney,
Gardner)
delle quali frequentò le
ricche dimore. “La
casa museo a Boston
di Isabella Stewart
Gardner
[fig.
3]
costruita fra il 1900 e
il 1903, e le altre case
Fig. 3
abitate dalla Gardner
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
in Beacon Street, ancora a Boston, o a Green Hill, se non costituirono per Andersen un precedente diretto da cui derivare
spunti progettuali, poterono comunque fungere da concreto
riferimento per l’ispirazione dell’artista” (Liguori 1999). È in
particolare nell’ambito del cosiddetto “American Renaissance” che vanno ricercati i riferimenti formali, ma anche
ideologici, della casa-atelier di H. C. Andersen. Si tratta di un
movimento culturale e artistico statunitense collocato cronologicamente nel cinquantennio fra gli ultimi trent’anni
dell’Ottocento e i primi venti del Novecento. Dalla convinzione che la democrazia americana fosse l’erede di quella greca
e dell’Umanesimo rinascimentale derivava l’esaltazione del
modello americano, che in senso artistico si traduceva in una
forma di neoclassicismo con connotazioni eclettiche (Wilson
1979; Kidder Smith 1996). “Typically combining splendor
with refined beauty, American Renaissance works often reflect the era’s zest for national power and personal wealth
[…] these works celebrate the value of art as an accompaniment to elite status, a genteel life style, and physical comfort” (Lee Morgan 2007). Non stupisce che Hendrik Christian
Andersen nel costruire la sua dimora nonché atelier, dunque
la sua interfaccia sul mondo esterno, guardasse proprio
all’architettura dell’autoaffermazione – nazionale e personale
– che aveva conosciuto in gioventù. Il riferimento apparirà
tanto più pregnante qualora si prendano in considerazione le
consonanze formali fra la sua produzione e quella degli scultori e pittori dell’American Renaissance quali Herbert Adams, Edwin Blashfield, Thomas Wilmer Dewing, Daniel
Chester French, Henry Siddons Mowbray, Augustus SaintGaudens, Abbott Thayer, Elihu Vedder, che elaborarono un
linguaggio dove istanze simboliste si fondono con un gusto
neorinascimentale.
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ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
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F. Fabiani, Hendrik Christian Andersen: la vita, l’arte il sogno. La
vicenda di un artista singolare, Roma 2003;
A. Marino, Roma: la partecipazione della Banca d’Italia alla costruzione di una capitale, in L’architettura nelle città italiane del XX secolo
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
dagli anni Venti agli anni Ottanta, a cura di V. Franchetti Pardo («Di
fronte e attraverso», 632), Milano 2003, pp. 132-143;
Dalle armi alle arti. Trasformazioni e nuove funzioni urbane nel quartiere Flaminio, a cura di A. Vittorini («Documentare il contemporaneo»), Roma 2004;
ricerche
A. Lee Morgan, s. v. American Renaissance, in A. Lee Morgan, The Oxford dictionary of American art and artists, Oxford 2007, p. 13;
Museo H. C. Andersen, a cura di E. di Majo, Milano 2008.
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Il Centro Mondiale di Comunicazione
nel contesto della modernità
VALENTINA FILAMINGO
''(…) Essere moderni vuol
dire trovarsi in un ambiente
che ci promette avventura,
potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del
mondo; e che, al contempo,
minaccia di distruggere tutto
ciò che abbiamo, tutto ciò che
conosciamo, tutto ciò che
siamo1'' (Marshall Berman)
''In considerazione del desiderio frequentemente espresso
di amicizia e cooperazione tra le nazioni, e la depressione
economica di cui il mondo sta soffrendo, il momento presente sembra appropriato per presentare di nuovo al pubblico
uno schema per fondare una Città Internazionale e Centro
Mondiale di Comunicazione, in altre parole una città che
appartiene a tutte le nazioni, in cui tutti possano incontrarsi
su un terreno neutrale 2''.
H. C. Andersen elaborò l’International Center of Communication in un periodo della modernità che alcuni sociologi3
considerano come il più caratterizzato da profondi cambiamenti a livello economico, politico e sociale. Il progetto recepì infatti quelle trasformazioni che, a partire dalla seconda
rivoluzione industriale fino ai primi anni del XX secolo, stavano subendo alcune dimensioni chiave dell’era moderna.
In primo luogo la compressione delle categorie ‘spazio’ e
‘tempo’.
Categorie indistinte nell’era premoderna4, per cui il
‘quando’ coincideva con il ‘dove’ e corrispondeva a ricorrenze
naturali regolari, il tempo e lo spazio divennero due entità separate nel XVIII secolo con la diffusione dell’orologio meccanico: il tempo divenne ‘vuoto’ perché disgiunto dallo spazio e
quantificabile, fino a diventare istantaneo.
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Anche lo ‘spazio’ e il ‘luogo’ subirono la medesima
separazione5. Le dimensioni spaziali della vita sociale, che nel
contesto premoderno erano dominate da attività in presenza
e geograficamente situate perché lo spazio coincideva con il
luogo, divennero più ampie grazie ai nuovi mezzi di trasporto. Lo sviluppo della rete ferroviaria avviato dalla macchina a
vapore e dalla locomotiva di R. Stephenson (1825), la prima
automobile di G. Daimler e C.F. Benz (1885) nel secolo
dell’elettricità e l’ aeroplano dei fratelli Wright (1903) significarono forme di elevata mobilità e di conseguenza la trasformazione del rapporto con l’altro, che non era più il familiare
o il vicino ma l’estraneo6. Le interazioni faccia a faccia vennero sostituite da contatti impersonali7 e da relazioni tra persone assenti localmente distanti8.
Vennero dunque meno i vincoli delle consuetudini e delle
pratiche sociali in loco che, dall’altra parte, i nuovi mezzi di
comunicazione riuscirono in parte a ristabilire perché permisero di superare le
distanze spaziali:
l’invenzione
del
telefono di A.
Meucci (1871) perfezionato
pochi
anni dopo in America da A.G. Bell,
gli esperimenti di
telegrafia
senza
fili di G. Marconi
(1896), gli inizi
della comunicazione via radio
culminati nel 1913 L’invenzione del telefono sulla prima pagina dello
con l’invio dalla 'Scientific American' 6 ottobre 1877
Tour Eiffel del primo segnale radio in tutto il mondo.
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Un tale evento dimostrò come lo spazio potesse essere annientato nella simultaneità di un istante del tempo pubblico
universale9.
H. C. Andersen risolse la questione spazio-temporale progettando per il Centro Mondiale di Comunicazione una torre
di 320 metri di altezza, più alta della Tour Eiffel, che avrebbe
dovuto ricevere e trasmettere tramite la telegrafia senza fili
''rapide e affidabili comunicazioni (…) essenziali a tutti i popoli e nazioni10'': la Torre del Progresso quale simbolo
dell’Epoca dell’Unificazione11.
Prospetto della Torre del Progresso,
1908 (tempera, china e acquerello su
carta applicata su tela)
Cartolina d’epoca rappresentante la
Tour Eiffel e Champ de Mars (materiale
d’archivio Andersen)
“Cablò” inoltre il Centro con un sistema di grandi linee
ferroviarie sotterranee che avrebbero assicurato il collegamento tra gli edifici e l’ingresso centrale dal natatorium.
Consapevole di come ''le invenzioni moderne e la scienza
hanno unificato il mondo12'' progettò un Centro Scientifico
per unire “tutti i settori delle scienze teoretiche e applicate13’’
e consentire così di accelerare ‘’(…) il processo di una conoscenza generale alla quale le migliori intelligenze di ogni na-
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zione stanno rapidamente e fermamente dedicandosi a beneficio dell’umanità, facilitando, in tal modo, lo sviluppo di
quegli elementi della vita pratica degli uomini che inducono
le nazioni a una reciproca collaborazione14’’.
La crescente industrializzazione significò poi
l’allargamento del mercato15: le industrie produttrici di nuove materie prime (esempio acciaio o alluminio), di beni di
consumo e servizi si trovarono per la prima volta a dover soddisfare una domanda che assumeva dimensioni di massa per
effetto dell’integrazione spaziale. Ciò determinò un aumento
della produzione e la necessità di rendere più efficienti ed economici i processi produttivi, come dimostrato da F.W.
Taylor16 nel 1911 con i Principi di organizzazione scientifica
del lavoro e da Henry Ford17 nel 1913 con l’introduzione della
prima catena di montaggio nelle officine automobilistiche
Ford di Detroit.
Di contro, l’espansione capitalistica significò inasprimento
del sistema di classe teorizzato da K. Marx che vedeva contrapposti la proprietà privata del capitale al lavoro salariato
degli operai subordinati all’automatismo delle macchine e
alienati18 da un lavoro ripetitivo e spersonalizzato.
Il Centro Mondiale di Comunicazione avrebbe, secondo
Andersen, sanato le lotte tra i capitalisti e classe operaia che
stavano dilaniavano i paesi del mondo. Attraverso la regolamentazione della produzione e lo studio dei ''(…) metodi per
migliorare la condizione delle classi lavorative e salvaguardare i loro interessi19'' il Centro avrebbe apportato vantaggi
tanto agli operai quanto ai capitalisti. Gli operai, sosteneva
Andersen, possedevano un grande potere. Potevano costruire
o distruggere la pace nel mondo, impedire o ampliare la comunicazione, incidere sulla fame nel mondo, producendo o
impedendo raccolti. L’intera costruzione del futuro era affidata ai lavoratori. Per questo, bisognava assicurare agli operai condizioni di vita dignitose e occorreva offrire loro i mezzi
sufficienti per vivere decorosamente e per tutelarne la salute
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e l’igiene, in modo che essi potessero lavorare in serenità e in
pace. Tuttavia anche i capitalisti nelle dispute con il lavoratore avevano delle ragioni. Pertanto, anch’essi avevano necessità di essere protetti, anche se si trovavano in una posizione di
superiorità e privilegio che li rendeva più sicuri e forniva loro
i mezzi per rendere schiavi i loro dipendenti. Il Centro avrebbe quindi assolto alla funzione di comporre i conflitti tra capitale e lavoro20.
L’integrazione spaziale, l’industrializzazione su larga scala,
l’aumento della produzione e l’ampliamento dei mercati aprirono così la strada a un’ultima dimensione chiave della modernità nel passaggio dal XIX al XX secolo:
l’internazionalismo.
Andersen ne fu consapevole:
''Il nazionalismo sta lasciando il posto all’internazionalismo.
L’ideale verso cui ci stiamo muovendo è la cooperazione internazionale. Le nazioni sono lontane dall’essere autosufficienti, e devono guardare oltre i confini dei loro stati se vogliono raccogliere i pieni vantaggi della civilizzazione. (…)
E’ ovvio che tutte le forme di cooperazione hanno bisogno di
un centro che sia in contatto con ogni parte
dell’organizzazione affinché il tutto possa lavorare armoniosamente e effettivamente verso il suo scopo. (…) Il più efficace e forse il solo ad assicurare la cooperazione internazionale in tutte le branche dell’attività umana è la fondazione di una città internazionale (…) Una tale città sarebbe di
incalcolabile beneficio nel promuovere uno spirito di amicizia e apprezzamento reciproco tra le varie razze della terra.
Ognuna di loro è in grado di dare il proprio unico contributo agli sforzi umani, e lo scambio necessario di pensieri e esperienze (…)21''.
Secondo Andersen il Centro Internazionale di Comunicazione sarebbe stata la giusta via alla cooperazione mondiale e
all’amicizia tra i popoli, piccoli o grandi, perché avrebbe loro
permesso di incontrarsi con le medesime opportunità. Dalla
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Veduta a volo d'uccello del “Centro Internazionale Mondiale”, 1908-13 (matita, china, acquerello, tempera su carta applicata su tela)
loro relazione sarebbe scaturita ''(…) una comprensione reciproca essenziale per il progresso, e nuovo impeto sarà dato
alle varie industrie e alle arti, alla produzione e al commercio, ora così ampiamente separati dalla concorrenza dei
mercati e dalla diversità degli interessi economici. Un tale
centro, attraverso l’attestazione dei più alti raggiungimenti
umani e attraverso l’offerta della loro conoscenza al mondo
intero, può stimolare la tendenza ad instaurare relazioni armoniche tra le nazioni, e in tal modo rendere possibile
l’approssimarsi di una pace duratura22''.
Per così dire uno spazio-luogo dove recuperare i rapporti interpersonali.
Contro l’internazionalismo e il pacifismo non mancò la diffusione di correnti conservatrici che, in nome del mantenimento dell’ordine sociale esistente, esaltavano le identità locali e difendevano i valori nazionali. Tentando di stabilire una gerarchia tra razze superiori e inferiori e ricorrendo anche
alla violenza militare questo particolarismo portò
all’inasprimento dei rapporti tra gli stati e allo scoppio della
prima guerra mondiale.
Tale evento dimostrò come il Centro Mondiale di Comunicazione sarebbe rimasto solo un progetto utopico del suo ideatore.
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NOTE AL TESTO
Marshall Berman in David Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano,
1993, pag. 23.
2 Traduzione del testo di H. C. Andersen dall’opuscolo intitolato World-Conscience.
An International Society for the Creation of a World Peace by the establishment of a
World Center City of Communication, Sansaini, Roma.
3 Cfr. David Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993. Anthony
Giddens, Le conseguenze della modernità : fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il
Mulino, Bologna, 1994. Charles Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma,
1999.
4 Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità : fiducia e rischio, sicurezza e
pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994, pag. 28.
5 Ibidem pag.29.
6 Cfr. la lettura critica di Ferdinand Toennies (Gemeinschaft und Gesellschaft, 1887)
che contrappose la ‘Comunità’ dell’epoca pre-industriale, caratterizzata da rapporti di
reciprocità e sentimento di appartenenza, alla ‘Società’ della moderna epoca industriale dove i legami affettivi degenerano in relazioni artificiose e basate sullo scambio.
7 Cfr. Charles Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma, 1999, pag. 69.
8 Cfr. Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità : fiducia e rischio, sicurezza
e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994, pag. 29.
9 Cfr. David Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993, pag. 327.
10 H. C. Andersen in A. Ciotta, La cultura della comunicazione nel piano del Centro
Mondiale di Hendrik Ch. Andersen e di Ernest M. Hébrard, Franco Angeli, Milano,
2011, pag. 104.
11 Ibidem pag. 233.
12 Traduzione del testo di H. C. Andersen dall’opuscolo intitolato World-Conscience.
An International Society for the Creation of a World Peace by the establishment of a
World Center City of Communication, Sansaini, Roma.
13 H. C. Andersen in A. Ciotta, La cultura della comunicazione nel piano del Centro
Mondiale di Hendrik Ch. Andersen e di Ernest M. Hébrard, Franco Angeli, Milano,
2011, pag. 89.
14 Ivi.
15 Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Profili storici dal 1900 a
oggi, Editori Laterza, Roma, 1998, pag. 14.
16 Studiando il lavoro in fabbrica, Taylor cercò di stabilire delle pratiche e dei tempi
standard di lavoro, affinché gli operai potessero compiere le operazioni nel minor
tempo possibile eliminando gli sprechi del tempo e le pause ingiustificate.
17 La catena di montaggio consentiva di ridurre i tempi di lavoro frammentando il processo produttivo in una serie di piccole operazioni, ciascuna affidata a un singolo operaio.
18 Secondo Marx, l’alienazione è una caratteristica del lavoro nella società industriale
moderna. L'alienazione riguarda l'operaio e il prodotto del suo lavoro, che gli è estraneo e appartiene al capitalista.
19 Traduzione del testo di H. C. Andersen dall’opuscolo intitolato World-Conscience.
An International Society for the Creation of a World Peace by the establishment of a
World Center City of Communication, Sansaini, Roma.
20 A. Ciotta, La cultura della comunicazione nel piano del Centro Mondiale di Hendrik Ch. Andersen e di Ernest M. Hébrard, Franco Angeli, Milano, 2011, pag. 118.
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Traduzione del testo di H. C. Andersen dall’opuscolo intitolato World-Conscience.
An International Society for the Creation of a World Peace by the establishment of a
World Center City of Communication, Sansaini, Roma.
22 H. C. Andersen in A. Ciotta, La cultura della comunicazione nel piano del Centro
Mondiale di Hendrik Ch. Andersen e di Ernest M. Hébrard, Franco Angeli, Milano,
2011, pag. 61.
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BIBLIOGRAFIA
H. C. Andersen, World-Conscience. An International Society for the
Creation of a World Peace by the establishment of a World Center City
of Communication, Sansaini, Roma.
A. Ciotta, La cultura della comunicazione nel piano del Centro Mondiale di Hendrik Ch. Andersen e di Ernest M. Hébrard, Franco Angeli,
Milano, 2011.
Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Profili storici
dal 1900 a oggi, Editori Laterza, Roma, 1998.
Anthony Giddens, Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio,
sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna, 1994.
David Harvey, La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993.
Charles Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma, 1999.
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Henry James e i suoi amici
MARIA GIUSEPPINA DI MONTE
William Wetmore Story, Henry James ed Hendrik Andersen:
tre generazioni, tre personalità e tre vicende artistiche che
entrano in un intenso e produttivo rapporto, un rapporto che
al di là delle pur pronunciate differenze soggettive, dovute ai
retaggi culturali, alle aspirazioni individuali e ai rispettivi talenti, li condusse a condividere esperienze, progetti e idee
alla cui origine sta lo scenario affascinante e straordinario di
Roma. Roma è la città nella quale tutti tre hanno soggiornato
e vissuto per un certo periodo e che ha esercitato un fascino
indiscutibile e un richiamo sentimentale incessante. Ciò è avvenuto non solo sul piano dell’immaginario artistico ma anche nella trama dei rapporti interpersonali che in questa città
hanno concretamente preso forma e si sono alimentati, in
virtù del particolare contesto e della suggestiva atmosfera che
fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo si respirava nella città eterna.
Roma funge da catalizzatore offrendosi quale luogo prediletto
per innescare la dinamica sottesa al vedere, a quel piacere
dell’osservazione scrupolosa e analitica che costituisce la dote
essenziale e maggiormente coltivata dagli eroi ed eroine jamesiani.
È su questo aspetto, indubbiamente cruciale, che intendiamo
soffermarci per sottolineare come gli incontri e gli scambi,
avvenuti in quel momento e in quel luogo, siano stati per tutti
e tre questi artisti così significativi al punto di orientare le
scelte e i futuri sviluppi della loro produzione.
William Wetmore Story, scrittore, scultore e poeta era nato
nel Massachusetts nel 1819 da una famiglia di illustri uomini
di legge sia da parte paterna che materna. Dopo aver iniziato
la carriera di giurista seguendo le orme del genitore sentì il
richiamo profondo dell’arte e cominciò a dedicarsi all’attività
di scultore. Alla morte del padre gli venne quindi commissionato il monumento funebre che doveva decorarne la tomba.
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Story decise allora di recarsi a Roma in cerca della giusta ispirazione. Quello con la città fu un colpo di fulmine: Story
ne rimase soggiogato e conquistato come traspare dalle sue
parole: “Ero tormentato (…) dal sogno dell’arte e dell’Italia e
ogni notte fantasticavo di essere a lavoro nel mio studio romano. Alla fine realizzai che il mio cuore era passato
dall’amore per la legge a quello per l’arte e mi risolsi a tornare a Roma”.1
Tornato in America nel 1850 si stabilirà in seguito definitivamente a Roma costituendo il famoso circolo che, dopo diversi spostamenti, troverà in Palazzo Barberini la sua sede stabile.
Per Story Roma rappresenta un luogo ideale, una tappa obbligata per ogni artista che si rispetti a causa dell’eredità classica di cui è depositaria e di cui è permeata la sua atmosfera
e la sua storia secolare. Roma è insomma davvero l’ombelico
del mondo, l’alfa e l’omega degli antichi filosofi, ma anche e
soprattutto un’immagine viva e densa di suggestioni, sensazioni, visioni che costituiscono
l’humus di cui ogni artista ha
bisogno per far nascere la propria opera. Questo aspetto sta
al centro del condiviso desiderio di abbandonare il proprio
paese e la dimensione provinciale e angusta, dalla quale si
sentivano oppressi gli intellettuali americani, alla ricerca di
stimoli e di “materiali” adatti
alla realizzazione delle opere
d’arte: letterarie o figurative.
Fu James [fig. 1] a dire che “Il
fiore dell’arte sboccia solo dove
il suolo è profondo, abbisogna
molta storia per produrre un
po’ di letteratura, occorre un
Fig. 1
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complesso macchinario sociale per mettere in moto lo scrittore” 2.
Questo indispensabile substrato è ciò che gli americani trovano a Roma e ciò che farà da sfondo ad uno dei romanzi più
fortunati di Henry James, il piccolo capolavoro di Daisy Miller. La sfortunata e affascinante protagonista, che ha dato il
nome al racconto, vive una breve ma intensa love-story che si
consuma sullo sfondo della città eterna, città tentacolare che
attraendola nel suo gioco seduttivo e inquietante la porterà
ad una fine tragica e ineluttabile.
La malaria, la malattia mortale, è infatti il temibile antagonista in quanto rappresenta un male oscuro e letale, sintesi di
tutti i mali possibili: le ragazze, che, come Daisy, escono di
sera e frequentano personaggi discutibili sono destinate a
perdersi e a capitolare. Roma incarna quindi, come Giano
bifronte, la virtù, in quanto crogiolo dell’arte e della cultura,
e al tempo stesso il vizio dovuto alla fiacchezza morale e alla
eccesiva libertà di costumi che la caratterizzano.
In James il fascino della tradizione europea non è vissuto in
termini a-problematici e sotto il segno della totale adesione:
tutto al contrario; il rapporto fra James l’Europa e l’America
si sostanzia in una continua e drammatica tensione che diventa più estesamente la tensione fra bene e male, perfettamente testimoniata nella incalzante e fitta maglia degli eventi
descritti nel racconto.
“A differenza della Svizzera, Roma non può ispirare
l’autocontrollo alle ragazze americane colla sola forza del paesaggio, delle tradizioni protestanti e dell’ austera società” è
quanto afferma Italo Calvino nella nota introduttiva a Daisy
Miller3, nella quale riconosce l’ambivalente condizione di desiderio e paura che tanta parte hanno nell’opera dello scrittore americano, sospesa fra le ragioni dell’arte e la naturale ed
insopprimibile sua ritrosia.
James costituisce in qualche modo il nodo fra Story e Andersen, artisti ovviamente assai meno dotati, ai quali egli riserva
affetto e comprensione non meno che disapprovazione e rimproveri.
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Fu proprio James a scrivere la ricca e completa biografia di
Wetmore Story, subito dopo la scomparsa dell’amico, biografia che costituisce non solo una documentazione precisa
dell’attività dello scultore americano ma anche uno spaccato
di vita vissuta e una cronaca lucida e penetrante della nostra
società e dei nostri costumi.
Come non ha mancato di mettere in evidenza Giuseppe Prezzolini, in Come gli americani scoprirono Roma 4, James fu
inizialmente mosso più da dovere d’amicizia che non da vero
interesse: come sembra plausibile supporre data la mediocrità di Story, certamente più meritevole per essere stato un mecenate e un uomo dotato di gusto ed eleganza che non un
grande artista.
La ritrosia dovette verosimilmente scaturire dal fatto che era
incontestabilmente arduo scrivere una biografia di un autore
così irrilevante, la cui opera non deve aver per
nulla attratto James, appassionato d’arte e acuto
osservatore.
Non meno severo appare
il giudizio dello scrittore
nei confronti di Hendrik
Andersen,
quando
quest’ultimo gli inviò alcune foto della grande
scultura che ritraeva Lincoln. Il Lincoln di Andersen [fig. 2]. non aveva affatto persuaso James e
non corrispondeva per
nulla a quell’immagine
austera ed insieme nobile
e risoluta che gli americani avevano del loro presidente. Quella di AnderFig. 2
sen è al contrario una
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scultura fredda, troppo levigata e in sostanza inespressiva, a
leggere fra le righe della lunga lettera che James scrisse al
giovane artista dopo aver ricevuto il rotolino di foto. “Un Lincoln seduto - dice James- già mi sconvolge un poco – per noi
tutti era lì in piedi, molto alto ed eretto, anche se mi rendo
perfettamente conto che quella è stata una condizione che hai
forse dovuto, assolutamente, accettare (… ) Non ne sento la
lunghezza delle membra dinoccolate, gamba, tibia ecc. – né
la massa del gran corpo sotto i vestiti – specialmente la presenza di spalle, braccia grandi e mani grandi.”5
Questo atteggiamento, affettuoso ma intransigente nei confronti del più giovane scultore è dovuto al fatto che James
guardava veramente con l’occhio del critico d’arte e come affermò lui stesso: “L’interesse per l’arte, per il “quadro”, “la
mia inclinazione a restare a bocca aperta davanti alle illustrazioni e alle mostre”, lo spinsero a provare lui stesso a
comporre per scene (…) “aspiravo a questa forma di illustrazione a scapito di qualsiasi altra (…) il quadro, il disegno rappresentativo mi affascinavano in maniera forte e diretta e mi
avrebbero affascinato per tutta la vita”.6
L’educazione dell’occhio, l’attenzione al “vedere” è un elemento assolutamente distintivo che impronta di sé le opere
narrative dello scrittore nelle quali il richiamo all’arte è un
tratto caratteristico, esito di una lunga e appassionata frequentazione di musei e gallerie, nei quali James si recava durante i suoi lunghi viaggi e le ripetute permanenze in vari
paesi d’Europa. Non bisogna dimenticare che protagonisti
dei suoi romanzi e racconti sono spesse volte artisti dotati di
quella sensibilità estetica e di quell’acutezza di osservazione
che rappresenta la loro principale e indubbia qualità. Non si
possono dimenticare le pagine di apertura del suo più celebre
e riuscito romanzo Ritratto di signora, nel quale James fa
sfoggio di tutta la sua capacità descrittiva dando letteralmente vita ad un quadro: un grande affresco che ci permette di
cogliere, nella sua essenza, la società americana del tempo,
quella progenie di uomini, donne e adolescenti sinceramente
fiduciosi che solo un contatto con la più stratificata e vecchia
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
cultura europea avrebbe permesso loro di emanciparsi e progredire.
Questa cultura del vedere, che simboleggia in modo tipico la
società europea, diventerà oggetto d’ammirazione da parte di
Henry James che definirà il suo lavoro di scrittore con una
metafora che allude proprio alla visione. “Io ero tutt’occhi, il
mondo decisamente tutto immagini, ciò provvedeva al bisogno del panoramico”.7
Fu proprio sulla scorta della sua attitudine “estetizzante” che
James verrà rapito dalla bellezza e giovinezza di Andersen,
incontrato durante il soggiorno romano della fine degli anni
’90. Quest’ultimo, che gli era stato presentato da comuni
amici, aveva suscitato un potente fascino sul maturo
scrittore che, visitatone lo
studio, non esitò ad acquistare il busto del giovane
conte Alberto Bevilacqua Lazise [fig. 3]. James rimase
stupito e aff ascinato
dall’elegante scultura che
porterà con sé quando tornerà in Inghilterra stabilendosi
nella Lamb House, a Rye, nel
sud del paese. Da qui James
scrive ad Hendrik Andersen
la sua prima lettera datata 19
luglio 1899, lodando il
“bellissimo busto”. Lo scrittore, come confessa nella letFig. 3
tera citata, lo metterà sul caminetto della sala da pranzo, da cui – aggiunge – “domina la
stanza (…) e dove, inoltre, mentre sto seduto a pranzare, lo
avrò costantemente davanti a me quale amato compagno e
amico”.8 La simpatia che James nutrì verso il più giovane artista non gli impedì tuttavia di riconoscerne i limiti, come ha
messo in chiaro Rosella Mamoli Zorzi nell’introduzione al
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carteggio, per cui James non “gli nascose il senso di orrore
che le enormi statue che questi creava suscitavano in lui”.
Furono proprio l’etica puritana e la profonda sensibilità estetica che permisero a James di diventare un mediatore fra la
cultura europea e quella americana, delle quali percepì in
profondità e con somma lucidità i problemi estetici e letterari, anticipando il gusto e l’evoluzione della narrativa che con
lui può dirsi essere entrata nell’età moderna.10 La sua pervicace azione di rinnovamento della struttura del romanzo trova non solo paradigmatica esemplificazione nella produzione
letteraria ma anche in quella teorico-critica, in particolare in
The Art of Fiction, la cui importanza sta – come sottolinea
Sergio Perosa – “nell’enfasi con cui viene rivendicata la natura artistica della narrativa. Non era idea pacificamente accettata, vedendosi fino a quel periodo nel romanzo soprattutto
una forma di intrattenimento.” 11
Con James il genere del romanzo si complica elevandosi a genere per eccellenza dello spirito contemporaneo, una forma
attraverso la quale non solo lui ma una gran schiera di narratori successivi hanno potuto dare vita alle più sottili indagini
psicologiche. Indagini che James riuscì ad intessere grazie a
quella capacità di osservazione analitica della realtà europea.
Una realtà perfettamente incarnata nell’immagine di Roma e
dell’Italia, che egli amò appassionatamente e per la quale ebbe sempre parole lusinghiere e di ammirazione. Per lui come
per i suoi meno fortunati compagni di viaggio, Story e Andersen, il nostro paese rappresentava la bellezza, l’arte e la tradizione e “tutto ciò che rende la vita dolce e splendida.”12
NOTE AL TESTO
1 “I was haunted, (…) by dreams of art and Italy, and every night I fancied I was again
in Rome at work in my study. At last I found my heart had gone over from the Law to
Art, and I determined to go back to Rome” cit. in H. James, William Wetmore Story
and his Friends, Houghton, Mifflin and co., Boston 1903, p. 30
2 Henry James cit. in: S. Perosa Teorie americane del romanzo 1800-1900 da Poe a
Melville da Cooper a James, un’antologia e uno studio critico dei grandi precursori
del modernismo, Bompiani, Milano 1986, p. 32
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Si confronti Italo Calvino, “Nota introduttiva” al romanzo di Henry James, Daisy
Miller, Einaudi, Torino 1971, pp. V-VIII
4 G. Prezzolini, Come gli americani scoprirono Roma, Boni, Bologna 1971, p. 288
5 H. James, Amato ragazzo. Lettere a Hendrik C. Andersen 1899-1915, a cura di R.
Mamoli Zorzi, Marsilio, Venezia 2000, p. 73
6 M. Vanon Alliata, Il giardino delle delizie. L’immaginario visivo di Henry James,
Neri Pozza Editore, Vicenza 1997, p. 14
7 H. James, Un bambino e gli altri, (trad. it.) a cura di S. Perosa, Neri Pozza Editore,
Vicenza 1993, p. 23
8 H. James, Amato ragazzo, op. cit., pp. 38-39
9 ivi, p. 10
10C. Gorcelli, Henry James e l’Italia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1968, p. 11
11S. Perosa, Teorie americane del romanzo, op. cit., p. 33
12 “All that makes life splendid and sweet”, H. James “At Isella” in: The Complete
Tales of Henry James, Ed. L. Edel, Rupert Hart-Davis, London 1962-64, vol. III, p. 15
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Case museo: oggetti e spazi pervasi
dallo spirito del tempo
PAOLA AGNESE CIRIGLIANO
“(…) il nostro scultore vi introduce in un gran salone seguito
da un secondo: sacrario, museo e bottega insieme ove
l’artista lavora indefesso, quasi misticamente raccolto come
un sacerdote della bellezza, tra una folla di statue monumentali (…)”.
Con queste parole il critico Antonio Nezi descrive la casa museo di Hendrik Christian Andersen in via Pasquale Stanislao
Mancini a Roma, luogo in cui l’artista ha abitato a partire dal
1924 e fino alla sua morte nel 1940, quando egli stesso la donò allo Stato italiano insieme a tutto quanto vi era contenuto,
con il nobile fine di costituire un museo di se stesso. La casa
occupa un palazzo di tre piani realizzato in due fasi costruttive: la prima conclusa nel 1925 cui si fa risalire un palazzo di
soli due piani, e la seconda cui invece appartiene la sopraelevazione postuma dell’ultimo piano. All’interno una spina centrale, destinata ad ingresso e corpi scala, divide il piano in
due grandi sale adibite ad atelier e a galleria. Al piano superiore vige una ortodossa sistemazione degli ambienti, con tre
file di stanze che si sviluppano longitudinalmente rispetto alla facciata lunga dell’edificio e che culminano nel grande salone centrale.
Un impianto di grande valore dal punto di vista storico artistico, poiché prova sicura di una realtà rimasta indenne nel
tempo sia nelle sue linee architettoniche che nelle opere che
custodisce al suo interno. Attestazione altrettanto valida, poi,
perché realizzata su progetto dello stesso Andersen, che ne
racchiude dunque tutto il gusto personale di grande sensibilità artistica, emanando, al contempo, il gusto generale
dell’epoca, lo spirito del tempo, di cui si fa irrinunciabile
portavoce.
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Dal Rinascimento in poi si è messo in moto un processo di
affermazione dell’individualità dell’artista, processo che ha
trovato culmine nel corso del XIX e XX secolo
nell’esaltazione della sua dimora, non solo come luogo attrezzato di lavoro e di elaborazione, bensì come rappresentante
di una chiara manifestazione di una cultura dell’apparire intesa positivamente, come espressione di creatività. La casa
stessa insomma viene considerata opera d’arte che riflette un
gusto e una cultura e agevola la comprensione di quel microcosmo in cui l’artista vive ed opera. In questa luce si leggano i
versi che seguono:
“che cosa rimarrà di mio per caso, in queste stanze, o per dispetto? Chi sa, forse un panchetto, di quando ero bambino.
O un’eco incomprensibile, un fruscio”.
Con queste parole Marino Moretti si interrogava nella poesia
Dopo a proposito della casa che lo aveva visto diventare uomo e scrittore e che aveva assistito alla nascita delle sue prime opere e delle ultime. L’evidente angosciosa perplessità di
queste brevi righe nasce dalla consapevolezza che, giunti alla
fine, ogni oggetto, ogni angolo, protagonisti di una vita e di
una carriera intere, siano destinati anch’essi a perire. E
l’angoscia non deriva certo da un materiale attaccamento alle
cose personali, quanto piuttosto dalla consapevolezza che ogni spazio vissuto sia intriso nell’intimo di quella che, con parole rubate a Walter Benjamin, si potrebbe osare definire aura. Per tutelare l’aura nasce la necessità delle case museo, estrema e alta forma di conservazione. Si vuole intendere con
aura il prezioso valore di testimonianza di una cosa e si vuole
tutelare l’aura conservandone l’unicità che, per dirla ancora
con Benjamin, ha fondamento nel rito ove l’ opera ha avuto il
suo primo valore d’uso, in altre parole: il contesto. Avrebbero
infatti altrettanto senso gli arredi, le carte d’archivio, le fotografie e i libri appartenuti ad Andersen se fossero esposti altrove? Nel suo splendido saggio Dalle Sacre Reliquie all’Arte
Moderna, Krizysztof Pomian definisce il museo “uno dei
mezzi che ogni generazione utilizza per fare un sacrificio alle generazioni che le succederanno”, intendendo per sacrifi-
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cio l’atto di trasportare nel museo opere appartenute a contesti diversi, nate e create per contesti diversi. Ecco come invece la casa museo riesce a risolvere questa eterna disputa museografica e, sottraendosi al sacrificio, si presenta essa stessa
in qualità di contesto primario, luogo di creazione e, insieme, ospite delle opere create.
Case museo come quella di Hendrik C. Andersen, intatte, libere da artifici posticci, altro non sono che prolungamenti
della personalità degli artisti che le hanno abitate. È la vita
intima dell’artista che il visitatore incontra attraverso un oggetto che, proprio perché esposto in quel luogo e non altrove,
conserva la facoltà miracolosa di svelare segreti, di parlare.
Ecco dunque che comincia a delinearsi il principale carattere,
forse addirittura l’essenza, delle istituzioni case museo: sintesi eloquenti di passato presente e futuro, siti prediletti
dall’empatia perché in grado di raccontare contemporaneamente la Storia cui appartengono e le tante piccole grandi
storie cui hanno assistito e che oggi affiorano da ogni oggetto,
stanza, persino da ogni spazio vuoto, parlando il lessico delle
abitudini, dei rituali e delle piccole manie di chi li ha vissuti.
In qualità di tale rappresentante, la casa museo (di artisti,
scrittori, filosofi, prosatori eccetera) rientra tra le più alte forme di conservazione del patrimonio, tanto più che il territorio italiano risulta disseminato di esempi del genere, formando un atlante comune di stanze, case, paesaggi, ovvero di luoghi ritenuti templi e teatri della memoria in grado di esprimere valori collettivi da tutti condivisi, a voler indicare tanto
una attenzione statale particolare, quanto un riconoscimento
notevole di pubblico. Volendo citare solo alcuni degli esempi,
perché troppo davvero sarebbe elencarli tutti: il museo Andersen e il museo Mario Praz a Roma, le case di Michelangelo
a Firenze e di Leonardo a Vinci, sempre in Toscana la casa di
Dino Campana, a Ferrara quella di Ariosto, a Nuoro di Grazia
Deledda e così per ogni regione d’Italia, tanto che numerose
sono le raccolte pubblicate sull’argomento, a costituire vere e
proprie guide turistiche dedicate.
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Ormai dagli ultimi decenni si assiste ad una estensione della
valorizzazione museografica che, andando oltre la salvaguardia delle opere singole, si spinge a comprendere contesti ampi, le aree del vissuto e dell’abitato umano, attuando il fondamentale passaggio dalla casa al museo. A tal fine è nata in seno all’ICOM una organizzazione specifica il cui compito essenziale è di valorizzare case e dimore: la DEMHIST (dal
francese demeures historiques). Il Comitato Istituzionale delle Dimore Storiche ha sede a Parigi ed è nato durante la conferenza ICOM di Genova del 1997 intitolata Living History.
Historic House Museums, durante la quale si pone per la prima volta l’accento sulla necessità di dedicarsi nello specifico
a questa particolare categoria di musei. Negli atti del convegno pubblicati a seguito della conferenza vengono individuate ben otto categorie di case museo: regge e palazzi; musei
monografici di uomini illustri; case create dagli artisti; case
dedicate ad uno stile o ad un’epoca; case di collezionisti; contenitori di raccolte storiche; case di famiglia e, infine, case
con una precisa individuazione socio-culturale. Il museo
Hendrik C. Andersen rientra evidentemente nella terza categoria, quella dedicata alle dimore allestite dagli artisti (che
possono, com’è ovvio, essere pittori, scultori, architetti, poeti), sia con fine auto promozionale, sia come strumento del
proprio lavoro, raccogliendovi oggetti e decori usati nel corso
dell’attività creativa.
Alla luce di ciò si può cogliere nella volontà di Andersen un
principio ispiratore che lo accomuna ai suoi contemporanei e
forse anticipa il boom novecentesco delle case museo. Principio ispiratore che sprigiona dalle celebri parole scritte da Gabriele D’Annunzio a Cécile Sorel a proposito della residenza
di Gardone Riviera: “Ho costruito questa casa come si costruisce una tomba. Nulla scomparirà di me. Sarà un luogo
di pellegrinaggio per l’avvenire”. In questa frase mi sembra
riassunto il tema della casa intesa come monumento dove si
conservano e si sacralizzano le memorie di una vita, dove è
dato riposo all’aura e al contempo dove le è garantita la giu-
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sta manifestazione, dove il kunstwollen è da respirare e comprendere senza tradimenti.
BIBLIOGRAFIA
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Travestirsi da se stessi.
Mimesi, dandismo e crossdressing
nell’autorappresentazione di
Hendrik Christian Andersen
PAOLO CASTELLI
Quando Hendrik Christian Andersen giunge a Roma nel 1896
ha ventiquattro anni. È uno dei molti giovani artisti della seconda generazione dei Roman Yankee, i cittadini americani a
Roma come “esuli volontari”: artisti, scrittori, diplomatici,
ricchi espatriati, talvolta nati su suolo italiano. È un’affollata
enclave quella anglo-americana della Roma a cavallo dei due
secoli ma pur tuttavia un’enclave: una comunità i cui membri
si conoscono e frequentano, hanno abitudini affini e un’affine
affezione per la Città Eterna. Una comunità in cui l’arrivo di
ogni nuovo componente non passa inosservato e in cui
l’assidua, reciproca frequentazione si traduce in un continuo
stare su un palcoscenico. L’avvento di Hendrik, giovane e
biondissimo scultore di origini norvegesi, pur se naturalizzato americano, dai modi raffinati coltivati nell’alveo della buona società bostoniana e dal carattere fiero e sprezzante non
lascia indifferente l’ecosistema di salotti, nascenti accademie
e studi di artisti in cui si alimentava il culto del bello e il mito
libertario della nostalgia per l’antico.
Se è vero che già nella precedente generazione degli artisti americani a Roma il pittore James De Veaux era noto come “il
grazioso americano”, non è difficile immaginare che lo stesso
Andersen possa essersi conquistato un appellativo simile. Nel
perseguimento della notorietà e nella competizione tra gli artisti d’oltreoceano per ottenere commissioni da parte dei ricchi connazionali espatriati giocava un ruolo considerevole,
oltre al talento, anche la capacità di stare in società e di risultare piacevoli, ma anche di bella presenza, nei salotti mondani. Il “grazioso americano” De Vaux moriva trentunenne nel
1844, dopo un solo anno di permanenza a Roma, cingendo la
sua memoria di quell’aura di sfortunata eccezionalità che facilmente si tendeva ad elargire ai giovani e promettenti artisti
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stranieri rimasti attratti - fatalmente - dal fascino della giovane e insieme antica capitale. Andersen avrebbe vissuto a lungo e sarebbe rimasto a Roma per oltre quarant’anni. Apparentemente alieno a questi giochi di apparenze, disinteressato a qualunque forma di affermazione economica e sociale,
dichiarava a chi gli preconizzava futura fama: “Lo eviterò il
più possibile, diventare famosi vuol dire solo lunghe cene e
grossi sigari” (25 luglio 1911)*. È interessato solo al lavoro,
per il quale la sua dedizione è totale, e quando, negli anni
dieci, insieme alla influente cognata Olivia Cushing, frequenterà assiduamente i personaggi più in vista, non solo della comunità anglo-americana, ma dell’ambiente politico e gentilizio romano, lo farà principalmente per ottenere finanziamenti e sostegni alla causa della sua città ideale, il Centro Mondiale di Comunicazione. Tuttavia Hendrik è, involontariamente o intenzionalmente, un’attrazione nel contesto della
comunità anglo-americana, che lo ha incoraggiato a venire a
Roma e che lo accoglie con simpatia. Egli “appare bello e solare nei chiari colori nordici, alto, sicuro di sé, franco nei modi […]. E tali specialissime doti, unite al fuoco dell’arte che
emana dalla sua stessa persona, soggiogano verosimilmente
più d’uno nel sofisticato ambiente artistico e culturale nel
quale viene a trovarsi” (Di Majo 2005, p. 115). Ronald Sutherland Gower, nobile e parlamentare inglese, oltre che
scrittore e scultore, vuole adottarlo e farne il suo erede; Mabel Norman, ereditiera e pittrice americana, nutre una passione nei suoi confronti; la cognata Olivia Cushing, dopo la
morte del marito, resterà al suo fianco fino alla fine dei suoi
giorni; Henry James intreccia con lui un’appassionata corrispondenza epistolare.
Hendrik è quantomeno consapevole del suo fascino e nei ritratti fotografici dei primi anni romani ostenta un atteggiamento dandy, tanto nell’eleganza del vestire quanto nelle espressioni. Il ritratto a olio che il fratello Andreas gli fa intorno al 1900 conferma questo dato: la posa sicura, con le mani
ai fianchi, le gambe accavallate, la cravatta vaporosa, il volto
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di tre quarti dallo sguardo penetrante e dal ciuffo indocile
mostrano un insieme di naturalezza e di misura, di veemenza
e di compostezza capaci di colpire l’osservatore. Ma la sua è
soprattutto un’eleganza innata, che proviene dalla finezza dei
lineamenti e del fisico, dalla nobiltà di spirito e di modi.
Diverso è il caso del ritratto
che Hendrik fa di se stesso
nel 1898, il cosiddetto Autoritratto “alla nazarena”, realizzato a carboncino e matita su carta, in cui l’artista
trasfigura volontariamente
la propria immagine (capelli
e barba così lunghi non li
portò mai). Colpisce la solennità della posa e
l’espressione drammatica
che promana dallo sguardo.
È un autoritratto che ha un
valore programmatico. La
foggia
dell’abito
e
l’acconciatura potrebbero
Hendrik C. Andersen,
rimandare all’imitazione di
Autoritratto “alla nazarena”, 1898,
modelli rinascimentali ma
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più suggestivo è leggere nella mise en scène anderseniana una voluta identificazione con la poetica e con le pratiche dei
Nazareni, la confraternita di artisti di area germanica insediatasi a Roma a inizio Ottocento, circa un secolo prima di
Andersen. Promotori di un’arte svincolata dalle accademie,
entusiasti ammiratori dell’arte dei Primitivi italiani e del primo Rinascimento, i Nazareni, così chiamati per il loro aspetto (si lasciavano crescere barba e capelli, indossavano sandali
e lunghe tuniche), praticavano uno stile di vita comunitario e
ascetico, convinti della necessità di identificare l’esistenza
con la pratica artistica. Anch’essi stranieri a Roma, dunque,
legati da vincoli di amicizia e di solidarietà artistica e gravi-
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tanti su un’area circoscritta della città avente per fulcro il
convento di Sant’Isidoro al Pincio, Trinità dei Monti, Piazza
del Popolo e il Caffè Greco (allora Caffè Tedesco), che coincide più o meno con la topografia della Roma anglo-americana
di fine secolo (e, almeno in parte, ancora d’oggi). Come altre
comunità di artisti prima di loro (ad esempio i seicenteschi
Bentvueghels) e dopo di loro (la comunità degli artisti anglofoni di fine Ottocento), i Nazareni hanno bisogno di creare
un’identità collettiva che li distingua e li identifichi e la connotazione dell’abbigliamento non è secondaria in questo senso. Anche i Bentvueghels, ossia gli artisti, per lo più fiamminghi e olandesi, aderenti alla seicentesca Schildersbent che, a
Roma, sosteneva la produzione di una pittura “di genere”
lontana dall’accademismo, sono noti per i loro travestimenti
nel corso dei riti di iniziazione previsti per i nuovi adepti, durante i quali inscenavano parodici riti dionisiaci abbigliati
con toghe e corone d’alloro di cui restano diverse testimonianze pittoriche.
In effetti, la comunità degli artisti anglo-americani a Roma a
fine Ottocento sembra orfana di un’identità di costume, di una maschera così caratterizzata e ben riconoscibile. Quando
Hendrik si abbiglia, prima ancora di ritrarsi, “alla nazarena”
sembra denunciare questa mancanza di una “divisa d’artista”
propria della sua epoca e della sua comunità, perciò rincorre
l’intento, ancora vivo e sentito dai romantici, di ricreare
un’epoca e finisce per imitarne l’imitazione. Sente forte il bisogno di sottolineare un’appartenenza di gruppo che è insieme un’alterità: appartenenza a una comunità “altra” rispetto
al luogo dove è insediata. Anche Hendrik ha fatto di Roma la
propria patria di elezione, il luogo sulla terra dove poter realizzare il suo sogno artistico. La nuova Roma postunitaria,
sentita da Henry James come un “paradiso perduto” in via di
irrimediabile compromissione, è comunque ancora il teatro
dove molti artisti e scrittori inscenano il loro dramma identitario, dove inseguono la patria delle arti e cercano
l’ispirazione quotidiana della bellezza. “Il nuovo che cerca
continuità nel passato, ma nello stesso tempo si traveste, si
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trucca per apparire ora come allora in uno scambio tra culto
per le testimonianze della storia e voglia di rinnovamento” (Amaturo 2012, p. 8).
Mettendo a confronto le due citate immagini di Hendrik,
quella del ritratto eseguito dal fratello e quella
dell’Autoritratto “alla nazarena”, potremmo sostenere che
un travestimento identitario più attuale Andersen lo trovi in
quel dandismo e in quella posa da esteta che era anche adottata da diversi artisti del suo tempo. Basta scorrere la galleria
dei ritratti grafici eseguiti da Hendrik, tra la fine del secolo e
il primo decennio del Novecento, ai diversi conoscenti e frequentatori del suo studio, artisti, scrittori, politici e personalità di spicco della cultura, per notare come comune denominatore una sofisticata eleganza delle pose, una ieraticità e una stilizzazione dell’espressione, prima ancora che della forma, che arrivano a trascendere il dettaglio analitico della pur
sempre appuntita matita di Hendrik. Si avverte in questi disegni una forma di bidimensionalità e teatralità dei personaggi, come in una galleria di figurine. I personaggi sono in
posa. Quasi travestiti da se stessi.
Non è però infrequente, scorrendo gli archivi fotografici del
Museo Hendrik Christian Andersen, che i personaggi si travestano effettivamente, si mascherino da qualcun altro. Tralasciando i casi dei diversi ritratti femminili (grafici e fotografici) in cui le donne indossano il kimono, rivelatori più che
altro del gusto del tempo per la moda giapponese, soffermiamoci invece su una fotografia scattata a Norcia nell’estate del
1903 che ritrae Hendrik in abiti insoliti. Ricevendo la fotografia allegata a una lettera spedita dall’artista nel settembre
dello stesso anno, Henry James risponderà (22 settembre
1903): “…un vivo ringraziamento per la fotografia del Bandito barbuto [bearded Bandit]; molto affascinante malgrado
l’aspetto selvaggio” (James 2000, p.113). Il mascheramento
di Hendrik viene così definito da James come quello di un
“bandito barbuto”. In questo caso il travestimento dell’artista
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non sembra avere scopi di immedesimazione storica con un
passato fantasticato quanto piuttosto con un altrove mitizzato: vestirsi di panni popolari, lasciare la barba incolta, abbandonare il socievole sorriso per una smorfia significa liberarsi
delle formalità e delle consuetudini per identificarsi con un
personaggio plebeo, come Henry James sottilmente intuisce:
un fuorilegge, al di fuori delle regole sociali. Negli album di
famiglia, del resto, non è infrequente imbattersi in fotografie
di popolani della campagna romana e di un’Italia ancora rurale: pastori e contadini in abito tradizionale il cui aspetto
doveva suscitare un misto di fascinazione e inquietudine nei
Roman Yankee, facili a trasfigurarli in epiche icone del brigantaggio. Significativamente, nei giorni della permanenza a
Norcia insieme a Hendrik, Olivia, a sua volta immortalata in
un simile travestimento insieme a Hendrik e al di lui fratello
Howard, appunta sul suo diario: “Tutto ciò che desidero è la
vita in se stessa… non voglio maschere e coperture, vestiti,
scarpe ben fatte e guanti… voglio la realtà in tutta la sua bellezza” (26 agosto 1903).
Hendrik Andersen come “Bandito barbuto”, 1903, Archivio fotografico del
Museo H. C. Andersen
Ritratto fotografico di Hendrik Andersen,
1900 ca., Archivio fotografico del Museo
H. C. Andersen
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Ancora più curiosa è la fotografia che ritrae, alcuni anni dopo, Hendrik insieme alla madre Helene e a Olivia, bardati
con paramenti sacri, in una immagine appartenente a una serie di scatti probabilmente effettuati sulla terrazza della casa
di Piazza del Popolo. Anche in questo caso si può leggere una
sorta di identificazione parodistica con l’Italia e le sue tradizioni ma il gusto carnascialesco dell’inversione dei ruoli ha
qualcosa di inquietante nella messa in scena di un’effettiva
cerimonia religiosa.
Hendrik Andersen, Helene Monsen e Olivia Cushing vestiti con
paramenti sacri, 1907-1917 ca., Archivio fotografico del Museo H. C. Andersen
La gratuità dei travestimenti appena visti, la loro natura di
divertissement e la loro estraneità a qualunque esigenza pratica li distingue dai casi in cui il mascheramento a casa Andersen era funzionale ad esigenze artistiche: paludare i modelli all’antica o far loro indossare abiti esotici poteva servire
all’artista per ritrarli in costume. A partire dalla metà
dell’Ottocento, come evidenziato dalla mostra Arte in Italia
dopo la Fotografia 1850 – 2000 (Galleria nazionale d’arte
moderna, 2011), il ricorso alla fotografia in questo senso era
propedeutico alla realizzazione dell’opera e si andava diffon-
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dendo fino a “un’esaltazione massima quanto emblematica di
quel connubio pittura fotografia che, nato già da tempo, si infittisce proprio a cavallo fra Ottocento e Novecento” (Miraglia 2011, p. 20), forse in parallelo con la diffusione,
a partire dal 1888, della fotocamera Kodak di George Eastman, la prima macchina fotografica destinata a essere usata
da non professionisti e posseduta anche dagli Andersen. In
questi casi lo sfondo veniva sovente allestito per creare
un’ambientazione coerente con la scena che si voleva allestire, come accadeva nei tableaux vivants di Giuseppe Primoli
che spopolavano a Roma proprio in quegli anni ed erano uno
dei passatempi preferiti dell’alta società non solo romana ma
anche americana e inglese. La produzione scultorea di Hendrik Andersen è però concentrata sul nudo: paradossalmente, a dispetto della relativa frequenza dei mascheramenti adottati nella vita privata e testimoniati dalle fotografie, nelle
sculture di Andersen il travestimento e persino
l’abbigliamento è sostanzialmente assente. Questa nudità
delle sue opere avrebbe creato non pochi problemi all’artista
nel piazzarle nella puritana America: esemplare è il caso del
grande bronzo Vita Eterna (1912) che Hendrik avrebbe voluto collocare sulla tomba del fratello nel cimitero di Cambridge (Massachussets) e che viene rifiutato, come riporta Olivia
nel suo diario: “Il presidente del cimitero di Mount Auburn
ha scritto che non è possibile collocare figure nude e che la
vista di figure nude in un clima così freddo darebbe un brivido” (8 gennaio 1909). Mentre Henry James, che sprona sempre Andersen a non precludersi il mercato americano, dove
potrebbe lanciarlo, lo invita ad abbandonare la sua idealistica
“Megalomania” (sic, James 2000, p. 229), lasciando i grandi
nudi per tornare a dedicarsi ai busti-ritratto: “…vedo meno
che mai, carissimo Hendrik, dove ti farà approdare, nella
prospettiva di una qualche possibilità americana, questa colossale moltiplicazione di signori e signore divinamente nudi
e intimamente uniti, che esibiscono pance e sederi e ogni loro
privato affare alla luce del giorno” (James 2000, p. 159).
Questo attrito con la pruderie puritana è una delle ragioni
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che spingono Andersen e altri a rimanere in Europa ed è un
elemento da tenere in considerazione nel rapporto dell’artista
con la nudità e con il travestimento.
In diverse occasioni Hendrik scatta foto di nudo alla modella
Lucia e agli altri modelli che posano per le sue sculture. Tra
questi c’è Giulio Mazzoni, giocatore di pallone da sferisterio
che, in occasione di una visita allo studio di Hendrik per contemplare l’opera Il giocatore di pallone (1910-1911) che
l’artista ha modellato solo in parte sulle sue fattezze, è convinto che sia un esatto ritratto di se stesso e il suo vanitoso
commento viene ironicamente stigmatizzato nel diario di Olivia: “Mi voglio far fotografare così, ha detto guardando le
spalle e lo stomaco piatto dell’atleta, e anche nella posa del
David [di Michelangelo, n.d.r.]. Vedrà che adesso ho la pancia così, non sono più grasso” (22 gennaio 1911). Non si può
evitare un moto di sorpresa leggendo queste parole e ricordando l’appena trascorsa mostra di Luigi Ontani al Museo
Andersen (AnderSennoSogno. Luigi Ontani, 2012-2013), dove una delle opere collocate più in evidenza era la serie fotografica DAvide iPrigioni (1970) in cui l’artista si cala proprio
nei “panni” della nudità michelangiolesca del David e degli
schiavi per la tomba di Giulio II. È solo uno degli infiniti cortocircuiti, intenzionali o accidentali, creati con la collezione
del museo e con la figura di Andersen da Ontani, un artista
che da sempre gioca con il proprio corpo attraverso il travestimento, il mascheramento e la nudità. Rimandi e collegamenti impliciti o espliciti a questi temi ricorrono in diverse
occasioni nelle esposizioni ospitate dal museo negli ultimi
anni: dal fascino per l’abbigliamento dandy di Yinka Shonibare (Yinka Shonibare. Be-Muse, 2001) al trasformismo camaleontico di Liu Bolin (A Secret Tour. Liu Bolin, 2012) gli
autori contemporanei hanno giocato con questa dimensione
mimetica e teatrale che si avverte nell’arte di Andersen e persino nella casa-atelier da lui progettata, dove i ritratti degli
Andersen sono dissimulati tra la decorazione architettonica e
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mescolati alle opere esposte e dove vita e arte sembrano davvero aver trovato una fusione intima e misteriosa.
Olivia Cushing travestita da uomo, 1905?, Archivio fotografico
del Museo H. C. Andersen
Hendrik Andersen travestito da donna, 1905?,
Archivio fotografico del Museo H. C. Andersen
“In tutte le culture gli abiti rappresentano lo spazio deputato
per un complesso circuito di forme di identità, un involucro
che cerca di rendere visibile un sistema di desideri e di aspirazioni, sensoriali e spirituali” (Perrella 2001, p. 14). In queste parole di Cristiana Perrella introduttive alla mostra di
Shonibare si intravede una spiegazione di quella tendenza al
mascheramento che per Andersen - e per la cognata Olivia rappresenta una forma di liberazione, parallela e affine alla
decisione di “esiliarsi” dagli Stati Uniti per risiedere in un altrove agognato e idealizzato. Un altrove, tuttavia, con il quale
non ci si fonde ma si resta personaggi, per essere persone solo nell’intimità. Un’intimità di famigliari e di rari ed elettissi-
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mi amici con i quali è possibile realizzare quella intensa fusione spirituale a cui in particolare Olivia aspira e in cui diventa possibile anche scambiarsi i ruoli: in un altro album di
foto troviamo Hendrik e Olivia travestiti l’uno dall’altra, lui
da donna e lei da uomo. È in realtà una simpatica comitiva en
travesti, che comprende anche maman Helene, Lucia e due
amici, forse immortalati nella campagna di Saltino, dove gli
Andersen sono soliti villeggiare a partire dal 1908, ma la pregnanza delle pose di Hendrik e Olivia, inquadrati anche individualmente, ha qualcosa che trascende la semplice mascherata. Siamo ancora lontani (anche se non troppo) dai consapevoli travestimenti intesi come performance artistica di
Marcel Duchamp - che si farà ritrarre per la prima volta in
abiti femminili nel 1921 come Rrose Sélavy - camuffamenti
che apriranno la strada alla tradizione contemporanea del
travestitismo in arte con
successivi rappresentanti
notissimi come Urs Lüthi,
Cindy Sherman e gli stessi
Luigi Ontani e Yinka Shonibare. Tuttavia, nella seconda metà dell’Ottocento, noti
episodi di crossdressing già
avevano fatto la loro comparsa e, senza scomodare
George Sand, si potrebbe
citare la fotografa americana Frances Benjamin Johnston (1864 - 1952), i cui
provocatori autoritratti in
abiti da uomo o in pose maschili a fine secolo erano una sfida lanciata alle convenzioni sociali e alle restri- Frances Benjamin Johnston, Autoritratto
zioni imposte al costume in abito da uomo con baffi finti, 1890 cirfemminile dal puritanesimo ca, Library of Congress Prints and Photographs Division
statunitense dell’epoca.
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Resta comunque lecito individuare in queste immagini e in
queste pose di Hendrik e dei personaggi che lo hanno circondato un fascino prolifico e suggestivo che non passa inosservato agli occhi degli artisti che vi espongono e dei visitatori
del Museo Andersen.
BIBLIOGRAFIA
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Tour, a cura di R. Gavarro, 2012
E. Di Majo, “Hendrik Andersen e Olivia Cushing. Nascita di un’utopia a
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anglo-americana a Roma (1890-1914) e la fondazione della KeatsShelley House, a cura di C. Huemer, Roma 2005
H. James, Amato ragazzo. Lettere a Hendrik C. Andersen 1899-1915, a
cura di R. Mamoli Zorzi, Venezia 2000
M. Miraglia, “Mimesi e modernismo. Dalla metà dell’Ottocento
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in Italia dopo la fotografia. 1850-2000, a cura di M. A. Fusco e M. V.
Marini Clarelli, Milano 2011
C. Perrella, “Be-Muse. Tra mimesi e alterità”, in Yinka Shonibare. BeMuse, a cura di E. Di Majo e C. Perrella, Roma 2001
*Le citazioni dal diario di Olivia Cushing sono tratte dal Fondo Olivia Cushing
dell’Archivio Andersen, Museo H. C. Andersen.
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ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Olivia Cushing e l’Oriente:
arte, cultura, spiritualità
CARMELA RINALDI
Olivia con kimono
“Ho messo il libro sulla vecchia scrivania cinese che nostro
nonno ha portato dalla Cina e che è sempre lì, da quando ho
memoria, nel piccolo soggiorno affacciato sul mare”(Diari, 5
settembre 1914).
L’interesse di Olivia Cushing per l’Oriente matura sin da
bambina sull’esperienza del nonno paterno John Perkins Cushing che a soli sedici anni partì per la Cina per lavorare con
suo zio, il colonnello Thomas Handasyd Perkins, leader della
comunità mercantile di Boston. John fu così abile nella gestione degli affari da entrare in società, favorendo poi la fusione con Russell & Co., una delle più importanti ditte di
mercanti di Canton. A quarant’anni tornò a Boston con
un’immensa fortuna, oltre ad innumerevoli oggetti cinesi e
servitori orientali: “John Perkins Cushing ha lasciato una
grande prosperità, ritornato a Boston milionario, con valigie
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
piene di bellissimi oggetti cinesi, alcuni dei quali ancora decorano le nostre camere a Roma” (Diari, 13 settembre 1916).
Olivia vive in prima persona il fascino per l’esotico e fin da
giovanissima colleziona oggetti orientali, acquistandoli nei
suoi frequenti viaggi in giro per il mondo: “Ho trascorso la
maggior parte della mattina a fare shopping e a passeggiare
per le strade. Ho comprato parecchie cose indiane che sono
molto più economiche quì che in altri posti”(Diari, 3 settembre 1887 Montreal).
Collezionare oggetti esotici diventa una sorta di passatempo
per Olivia che, tuttavia, non si mostra mai legata alle ricchezze materiali : “Mi chiedo cosa farei se dovessi perdere tutto.
Immagino che la prenderei sempre con molta filosofia soprattutto se si tratta solo di oggetti di uso quotidiano, e che
mi divertirei con le cose come Charles Lamb nel saggio "Old
China"1 con le “tazze cinesi” o qualcosa del genere” (Diari, 19
maggio 1892).
Il soggiorno parigino fa inevitabilmente nascere in lei
un’attrazione per l’arte giapponese, alimentata inoltre da letture di autori come Louis Gonse ed Edmond de Goncourt. Il
primo, direttore della Gazzette des Beaux-Arts, nel 1883 aveva organizzato presso la Galleria George Petit una retrospettiva di arte giapponese e pubblicato nello stesso anno L’art
japonais, in due tomi, avvelendosi dell’aiuto di Wakai Kenzaburo e Hayashi Tamasa, due mercanti giapponesi attivi a Parigi: “Ho letto L’Arte giapponese di Gonse che mi interessa
profondamente” (Diari, 27 novembre 1892).
Edmond de Goncourt, particolarmente ricordato per i suoi
scritti su Utamaro e Hokusai, fu uno dei maggiori promotori
del giapponismo. Nella piccola biblioteca dell’Andersen è
conservata la sua opera in due volumi, La maison d’un artiste pubblicata nel 1881, dove l'autore descrive in dettaglio la
sua casa di Auteuil e le sue collezioni di oggetti d'arte e libri,
un’opera ibrida, a metà strada tra un manuale di interior design, un catalogo per collezionisti, un libro sull'arte francese
del XVIII secolo e una panoramica delle meraviglie d'Oriente.
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È probablimente a Parigi che Olivia acquista gli acquerelli,
presenti nella collezione del Museo Andersen, di Hiroshigega
e di Toyokuni, il grande maestro di ukiyo-e2, conosciuto in
particolare per le sue stampe di kabuki3: “Alcuni giorni prima
avevo comprato un incantevole Toyokuni, bei gruppi e colori
opachi e morbidi […] la grazia del contorno, il movimento,
che morbidezza! E’ sorprendente!” (Diari, 27 novembre
1892).
Hiroshigega,Seki (dalla serie TOKAIDO
GOJUSAN_TSUGI conosciuta anche come
KYOKA TOKAIDO),1840 ca, acquerello
formato attuale ritagliato,mm 154x208
Hiroshigega,Okawe Seki (dalla serie
TOKAIDO GOJUSAN_TSUGI
conosciuta anche come KYOKA TOKAIDO),
1840 ca, acquerello
A Parigi inoltre, insieme ai fratelli Howard e Louisa, frequenta la casa di James Abbott McNeill Whistler, uno dei primi
artisti a subire il fascino del Giappone, il quale inizialmente si
limita ad inserire nei suoi dipinti oggetti orientali e modelle
con costumi esotici, per poi acquisire lo stile tipico della pittura giapponese, caratterizzato da un cromatismo bidimensionale e dalla preziosità della linea di contorno. La famosa
Peacock Room, la Stanza del Pavone (1876-77), decorata a
Londra nel palazzo Leyland come cornice ad un suo quadro
La Princesse du Pays de la Porcelaine, poi ricostruita nella
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Freer Gallery di Washington, anticipa le posizioni artistiche
dell'Art Nouveau per il raffinato decorativismo.
Lo stile decorativo di stampo orientale sembra caratterizzare
anche la sua casa di Parigi che la stessa Olivia ha modo di
ammirare: “Howard oggi pomeriggio ha preso me e Louisa
per andare dai Whistler. Sono stata contenta di andare e mi
sono divertita molto. Whistler stesso è stato una sorpresa, mi
aspettavo di trovarlo molto più alto e dallo sguardo serio chissà perché! - del resto dopo aver letto la sua “Dolce Arte”,
ci si dovrebbe piuttosto aspettare un volto "petillante
d'esprit" e di divertimento, che effettivamente è quello che ho
trovato […] Poi la signora Whistler mi ha chiesto se volevo
vedere la sala da pranzo, e così siamo andate nella stanza accanto, dove Whistler stava mostrando a Howard due piccoli e
incantevoli pastelli. La sala da pranzo è tutta dipinta di blu e
bianco, ha un bel pavone blu ma un po’ più scuro del salotto e
ha delle nicchie disposte su due lati…..” (Diari, 30 aprile
1893).
L’influenza delle stampe giapponesi per Howard Cushing, Andreas
Andersen e John Brigg Potter si
traduce nell’introduzione
all’interno delle loro opere di soggetti in costume orientale, accessori e arredi più che in virtuosismi
stlistici. Ne sono testimonianza alcuni dei loro lavori: Mrs Ethel Cushing (1912 ) di Howard, il taccuino di Potter con figure e ambientazioni orientali, Paesaggio di California con monti sotto la neve di
Andreas Andersen, in cui la montagna rimanda al Fuji innevato,
simbolo del Giappone, ricorrente
nelle stampe di Hokusai e Hiroshige.
Howard Cushing,
Mrs. Ethel Cushing-1912
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
J.B.Potter, Taccuino illustrato,1892-93
.J.B.Potter, Taccuino illustrato,1892-93
A.M.Andersen, Paesaggio di California con
monti sotto la neve, 1890-1900 ca
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Nel Ritratto di Olivia Cushing Andersen di Andreas (1900
ca.) la giovane donna tiene in mano un uchiwa, ventaglio rigido nato in Cina e poi introdotto nella corte giapponese, diventando uno degli oggetti più amati da dame e nobili, solitamente dipinto con motivi floreali e naturalistici.
A.M.Andersen, Ritratto di Olivia Cushing Andersen,
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Un probabile riferimento alle stampe degli artisti dell’ukiyo-e
che raffigurano i fiori come specchio dei sentimenti e delle
passioni umane è invece rintracciabile nei fiori di ciliegio e
nei glicini del taccuino di Olivia.
Olivia Cushing,
Taccuino con fiori,1890-1900 ca
Olivia Cushing,
Taccuino con fiori,1890-1900 ca
Anche Hendrik, che risiede a Parigi tra il 1894 e il 1895, viene
affascinato dalla moda giapponese: l’abito a kimono è presente in alcuni suoi ritratti femminili come Ritratto di fanciulla con lunghi capelli neri e Ritratto di signora con kimono del 1898 ca.
H.C.Andersen, Ritratto di fanciulla
con lunghi capelli neri, 1898 ca
H. C. Andersen, Ritratto di
signora con kimono,1898 ca
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A Roma Olivia e Hendrik continuano ad intrattenere rapporti
con personalità giapponesi del mondo dell’arte. Nel 1912 ricevono la visita di Naoki Kano, professore all’Università Imperiale di Kyoto, conosciuto a Parigi alla Festa dei Crisantemi, e del suo amico Seiichi Taki, figlio di un famoso artista4,
docente di Storia dell’arte presso l'Università Imperiale di
Tokyo e Kyoto, critico d'arte e direttore della rivista Kokka5:
“Strano, mi ricordo di essere stata affascinata da questa rivista, quando vivevamo a Liverpool e a Parigi, e ora il direttore
viene a casa nostra quì a Roma. Sono uomini molto piacevoli
entrambi” (Diari, 6 febbraio 1913).
Copertina della rivista Kokka
La passione di Olivia per la rivista Kokka è testimoniata dalla
presenza nella collezione Andersen di diverse copie della
stessa e anche dalla conoscenza del suo leader storico, Okakura Kakuzō, il quale svolse un ruolo centrale insieme ad Ernest Fenollosa nel preservare e catalogare i tesori artistici
del periodo Meiji. Fu amico e consigliere della collezionista
d'arte Isabella Stewart Gardner e nel 1904 iniziò a lavorare al
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museo di Boston, diventando più tardi curatore delle collezioni giapponesi e cinesi.
A.M.Andersen,Mrs. Gardner nel suo giardino, 1898 ca
Nonostante il rapporto professionale e di amicizia di Olivia e
dei fratelli Andersen con Isabella Stewart Gardner6, non abbiamo testimonianza di un rapporto diretto anche con Kakuzō. Sicuramente Olivia conosce i suoi scritti, in particolare
The Awakening of Japan (1905), testo conservato nella biblioteca della casa-museo, in cui l’autore, rivolgendosi agli
occidentali, con grande vivacità espressiva e intenso patriottismo, li invita a rifuggire l’identificazione del Giappone come
‘pericolo giallo’, sottolinenando l’importanza della sua storia,
della sua religione e della sua arte.
La presenza tra le letture di Olivia di questo e di altri testi come “Oriental religion. China” di Samuel Johnson dimostrano
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come la sua passione vada al di là della moda dell’epoca.
L’interesse di Olivia, nel corso del tempo, abbraccia la cultura
orientale nel suo complesso, il suo sguardo si volge ad un Oriente inteso quale luogo ideale dell’attività contemplativa e
della massima ricchezza spirituale: “Prego per una crescente
intelligenza, un’intelligenza capace di riconoscere i punti di
riconciliazione nell’opposizione del mondo […] Penso
all’Oriente, l’India, il Giappone, la Cina, alla moltitudine di
persone, alla loro civiltà, al loro modo di vivere così diverso
dal nostro, alle loro religioni. Ho la sensazione che in Oriente
ci sia qualcosa di rinviato, che un giorno si fonderà con noi,
per donarci una comprensione più profonda del significato di
Dio” (Diari, 9 maggio 1911).
Le sue riflessioni sono rivolte sovente al confronto tra
l’Oriente spirituale e l’Occidente materialista, ma è convinta
che nelle diverse religioni, arti, civiltà e modi di vivere ci sia
uno spirito comune e che ogni creazione umana non sia che
un riflesso dello spirito di Dio: “Cinese, giapponese, indiano,
europeo, americano, africano, lo stesso spirito è in tutti…”(Diari, 11 maggio 1912).
Da queste considerazioni nasce il suo desiderio di unione e di
armonia universale, alla base del pensiero orientale, in cui la
collettività assume un’importanza maggiore rispetto al singolo e in cui è implicito il dovere di agire per il bene della comunità prima che per l'interesse personale.
Saranno questi stessi pensieri, pienamente condivisi da Hendrik, che porteranno entrambi a coltivare per tutta la vita il
sogno di una Città Mondiale, patrimonio comune di tutte le
nazioni del mondo, fecondo laboratorio di idee nel campo
delle scienze, delle arti, delle religioni e del diritto, un centro
in cui tutti gli uomini avrebbero avuto la possibilità di riunirsi per confrontarsi e scambiarsi idee e da cui l’umanità intera
avrebbe tratto giovamento: “Our dream of a city for all nations, dedicated to the creative spirit of God in man, was hope and prayer in life. Here the dreamers sleep”7.
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NOTE AL TESTO
1 Nel saggio autobiografico ‘Old China’ (1823) di Charles Lamb, la nostalgia per le vecchie tazze di porcellana (la ‘vecchia Cina’) non è altro che il desiderio di tornare ad un
momento meno prospero in cui la capacità di vedere le cose veramente importanti era
molto più acuta.
2 L’ukiyo-e, "immagine del mondo fluttuante", è un genere di stampa artistica giapponese su blocchi di legno, fiorita nel periodo Edo, tra il XVII e il XX secolo. Il successo
di questa produzione artistica fu dovuto soprattutto alla borghesia che richiedeva opere rappresentative della società contemporanea. L’attenzione dei pittori si spostò
quindi dalle grandi cerimonie ai divertimenti dei singoli cittadini.
3 Uno dei principali divertimenti del periodo Edo fu il teatro kabuki. La leggenda narra che il kabuki ebbe origine dalle danze di una sacerdotessa del tempio di Izumo, Okuni (1586), che si esibì assieme ad altre donne nel letto del fiume Kano a Kyoto. A
quel tempo una proibizione buddista impediva alle donne di mostrarsi in qualunque
forma di spettacolo, quindi la danza di Okuni e delle sua compagne destò una tale curiosità e interesse da produrre un nuovo genere teatrale. Il termine kabuki implicava
forse il verbo kabuku che indicava eccentricità, ma venne scritto usando gli ideogrammi del verbo kabusu che significava cantare e danzare; oggi la parola viene scritta con
tre ideogrammi, ka (musica), bu (danza), ki (recitazione). (Cfr. Alida Alabiso, Lineamenti di storia dell’arte giapponese, Roma 2001)
4 Si tratta di Katei Taki (1830-1901), pittore di kacho-ga ( immagini di uccelli e fiori)
che studiò sotto Araki Kankai e partecipò all’Esposizione mondiale di Vienna del
1873.
5 Kokka è una rivista mensile illustrata, uscita la prima volta nell’ottobre del 1889.
Ogni numero detiene il suo fascino come opera d'arte, per la sua particolare copertina
e le pregevoli illustrazioni, oltre ad un certo numero di articoli, soprattutto di studiosi
giapponesi, sull’arte, la storia e l’architettura orientale, con un forte accento sull’arte
buddista.
6 Isabella Stewart Gardner fu una delle protettrici di Andreas, e finanziò in parte il
viaggio in Europa dei due fratelli Andersen. Nel dipinto di Andreas Mrs. Gardner nel
suo giardino (1898 ca.), la donna appare ritratta verosimilmente nel giardino della
sua casa di Green Hill a Brookline.
7
Iscrizione sulla tomba della famiglia Andersen al Cimitero Acattolico di Roma
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"Favole, animali, personaggi e vignette:
l’illustrazione per l’infanzia nella cerchia degli
amici di Hendrik e Andreas Andersen".
VERONICA PIOMBAROLO
I. Un taccuino anonimo di favole illustrate e ipotesi attributive.
Nell’archivio del Museo Christian Hendrik Andersen sono
conservati diversi taccuini di disegni: si tratta per lo più di
quaderni di studio, che presentano schizzi e appunti, di diversi autori: tra di essi riconosciamo gli autografi di Hendrik
e Andreas Andersen, di Olivia e Howard Cushing, ma compaiono anche materiali di altri personaggi, amici della famiglia Andersen1.
Tra questi materiali, spicca un delizioso taccuino di favole illustrate, il cui autore, invece, rimane anonimo2. Il taccuino,
denominato “Taccuino di favole di La Fontaine” è di piccolo
formato e ha forma quadrangolare. Al suo interno troviamo
29 favole di La Fontaine, trascritte in francese: si tratta di favole che raccontano esclusivamente storie di animali3. I racconti sono brevissimi (una pagina, due al massimo). Per ognuno di essi è disegnata un’illustrazione a colori (a penna e
acquerello). Laddove il testo arriva a due pagine, l’autore arricchisce il racconto
con un ulteriore disegno a penna, in
bianco e nero.
Lo stile delle illustrazioni, omogeneo
in tutte le tavole, si
presenta con un
tratto fresco e veloce, dal sapore prevalentemente vignetTaccuino n. Inv. 796, illustrazione per la favola Le corbeau et
tistico.
le renard
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Taccuino n. Inv. 796, illustrazione per la favola Le renard, le
loup & le cheval
Taccuino n. Inv. 796, illustrazione per la favola L’ane & le
chien
Chi potrebbe essere l’autore di queste illustrazioni?
Il taccuino non è autografo, tuttavia nell’archivio del museo
Andersen il confronto con altri materiali ci permette di formulare alcune ipotesi.
Esiste un altro taccuino le cui pagine, riempite di vignette, ricordano moltissimo quello stile fresco e veloce che caratteriz-
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
za le illustrazioni delle favole di La Fontaine4. All’interno di
questo secondo quaderno si susseguono, senza soluzione di
continuità, varie vignette disegnate a penna e matita, talvolta
colorate ad acquerello. I temi e le situazioni che troviamo
rappresentati, si dividono grossomodo in due tipologie:
schizzi di scene di vita quotidiana e di svago (tolette di signore, scene di colazioni in famiglia, giochi di bimbi, studi di animali comuni, passeggiate, uomini e donne in diversi atteggiamenti e occupazioni, pittori o pittrici al lavoro, concerti,
fantini a cavallo, giocatori di polo, ragazzi sullo slittino, etc.),
e scenette di gusto più squisitamente favolistico (animali esotici, una scena con l’arrivo di Cristoforo Colombo alla nuova
terra, odalische, paggi, folletti, re e regine, streghe sulla scopa, indigeni neri intorno al fuoco, personaggi mitologici, scenette di duellanti, sfilate di stendardi e tamburi in costume
medievale, scenette con costumi orientali, etc). Anche qui, i
pochi testi presenti sono tutti scritti in francese.
Taccuino N. Inv. 797, vignetta, Cristophe Colomb
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Sulla pagina iniziale del taccuino invece, c’è un unico paesaggio acquarellato: in alto a destra compaiono le iniziali O. D.
C. tracciate ad acquerello, in rosso; in basso invece ci sono una sigla e una data: J. O. B. 1892-1893.
Taccuino N. Inv. 797, frontespizio
Le prime iniziali si riferiscono senz’altro a Olivia Cushing,
moglie di Andreas Andersen, la quale non fu l’esecutrice della
raccolta di disegni ma, probabilmente, ne divenne la proprietaria. Le sigle in basso, invece, si possono attribuire a John
Briggs Potter: infatti la sigla è da confrontare sicuramente
con la firma relativa ad un altro disegno presente nella collezione grafica del Museo Andersen. Si tratta de Il castello di
Viareggio, un paesaggio a matita, china e acquerello su carta
pesante, di mano di John Briggs Potter, sul quale compare, in
basso a destra, la scritta: Jb. Viareggio 18935.
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
II. Un gruppo di artisti e di amici a Parigi tra il 1892 e il
1893.
John Briggs Potter (1864-1849), fu uno dei più stretti amici
di Andreas Andersen (1869-1902) e di sua moglie Olivia Cushing.
L’amicizia con i fratelli Andersen nacque in Europa nel 1891,
e crebbe durante gli anni in cui, sia Potter che Andreas, frequentarono i corsi all’Accademie Julien di Parigi. Qui, grazie
all’aiuto di Olivia, li avrebbe raggiunti in seguito anche Hendrik, per completare anche lui la sua formazione artistica.
E’ verosimile pensare che il forte legame tra John e Andreas,
non nacque solo grazie ad una serie di consonanze elettive:
John fu, dal 1888 al 1890 studente alla Boston’s Museum
School, mentre Andreas, residente a Newport, si trasferì a
Boston dal 1889, per frequentare i corsi della Cowles Art
School di Darmouth street. Entrambi poterono partire per
l’Europa grazie ad una borsa di studio: questo ci dice, di entrambi, che non erano ricchi di famiglia, ma che dovettero
contare sull’impegno personale e sulla fatica. Questo aspetto
sociale li predisponeva, verosimilmente, ad un’affinità umana, prima ancora che elettiva, fatta forse di tacita comprensione reciproca. A Parigi, frequentarono la stessa Accademie
Julien, e fecero subito amicizia. Ma Parigi all’epoca, come
Roma e Firenze, per gli artisti americani di tutte le estrazioni
sociali era un’occasione unica, con tante opportunità da non
lasciarsi scappare.
Queste città furono letteralmente prese d’assalto da quei
‘nuovi ricchi’ americani, per i quali la ricchezza corrispondeva al prestigio sociale. Questi nuovi ricchi, mondani e dinamici, giravano l’Europa in lungo e in largo, poiché l’arte rappresentava una specie di passatempo nobile e poteva soddisfare il bisogno di affrancarsi dall’enorme divario culturale
con l’Europa. Henry James, lo scrittore che descrisse questo
‘tipo americano’ nei suoi romanzi, fu egli stesso rappresentante di questa elite: insieme a Oscar Wilde, a Whistler e Sargent, rappresenta una figura di intellettuale ricco, internazio-
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
nale e alla moda6. Riuscire a frequentare questi ambienti intellettuali avrebbe rappresentato, per i nostri due amici,
un’occasione per agganciare un mondo che, fino ad allora, avevano visto solo da lontano. Per Andreas e John, elemento
di raccordo con questo bel mondo fu Howard Cushing: con
lui Andreas divideva lo studio di Rue de l’Université, e sappiamo che i tre studenti facevano vita comune, lavorando insieme ogni giorno7.
A differenza dei suoi colleghi, i quali rimasero in Europa grazie alle borse di studio (tanto che quando partirono insieme
ad Hendrik per l’Italia furono costretti a rinunciare a visitare
Roma perché i soldi finirono prima), Howard era molto ricco:
rampollo di una delle famiglie più facoltose di Boston, amico
di Henry James, non ebbe difficoltà ad introdurre i due amici
più poveri nella cerchia elitaria di artisti in voga quali Whistler e Sargent.
Anche la sorella di Howard, Olivia (futura moglie di Andreas), entrò a far parte di questo circolo di amici proprio in
quegli anni. Quando raggiunge il fratello a Parigi è giovanissima: ha 19 anni e ancora non ha fatto il suo debutto in società. Ma non ha smania di farlo. Schiva e idiosincratica, Olivia
preferisce tenersi lontana dai salotti aristocratici e alla moda
che frequenta invece sua sorella Louisa, e ama invece incontrare gli amici artisti di suo fratello, nel suo studio di Rue de
L’Université. Nel suo diario personale Olivia descrive le uscite degli amici, le sedute di lavoro allo studio e all’aperto, esprime giudizi e valutazioni estetiche sui disegni di alcuni
suoi colleghi. La sintonia che si crea attraverso queste frequentazioni è tale, che Olivia sceglie di passare con questi
nuovi amici anche momenti intimi della sua vita come le feste natalizie. Leggiamo nel diario:
(18 dicembre, 1892) abbiamo iniziato i preparativi per un
albero di natale che H. e Andersen stanno mettendo a studio. Bobby e John Potter saranno gli unici invitati.8
Ancora, la vigilia di Natale:
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
(24 dicembre 1892) Siamo appena tornati dal Christmas
tree che è stato un vero successo. Era così strano vedere tutti
riuniti. Abbiamo lasciato le nostre cose nella stanza di Andersen, così accogliente con un buon fuoco che brucia il cuore. Howard e Andersen si erano chiusi nello studio, silenziosi, e solo quando avrebbero aperto la porta avremmo visto
gli oggetti luminosi e splendenti sull'albero. Potter non tardò a venire e quando le candele furono accese, abbiamo ammirato un bellissimo albero. Siamo rimasti a lungo seduti,
sul divano o sulle sedie mentre H. e A. distribuivano i regali... Ogni cosa è venuta da "Babbo Natale"... Era così divertente vedere A. che si dava schiaffi sul ginocchio davanti ogni cosa nuova, lo stupore di Potter e le facce di tutti. A poco a poco abbiamo dovuto mettere fuori le candele ed è rimasta solo una lanterna giapponese appesa sopra il divano
a dare una misteriosa luce morbida, creando una sensazione di irrealtà sopra ogni cosa. Mi è dispiaciuto quando è arrivato il momento di andare. Proprio mentre alcuni di noi se
ne stavano andando è arrivato Mr Whistler, veniva con una grande gabbia contenente uno scoiattolino volante che
Mr Whistler ha chiesto a Howard di tenere per lui fino a
Capodanno9.
Sappiamo che Olivia restò a Parigi anche per gran parte del
1893, continuando a frequentare quegli stessi amici. Questo
istinto, che non era il capriccio di una fanciulla in cerca di
passatempi originali, ma corrispondeva ad una natura che la
portava a legarsi a spiriti affini, nei quali trovare stimoli più
intensi per appagare quella fame intellettuale e quei bisogni
umani di giovane donna anticonformista, indipendente e volitiva, la spinse a legarsi sempre più ad Andreas Andersen. La
loro amicizia, anche lontano dagli echi bohemién, al ritorno
alla vita di Boston, avrebbe continuato ad essere un punto
fermo, tanto da trasformarsi in amore, e i due si sarebbero
sposati nel 1902. Chissà quali risultati artistici Andreas avrebbe potuto ottenere se una morte prematura non lo avesse
portato via all’età di 33 anni, dopo solo un mese di matrimo-
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ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
nio.
L’amico Potter, rientrando negli Stati Uniti, avrebbe invece
abbandonato la pittura per diventare Curatore della Sezione
Dipinti del Museum of Fine Art di Boston, ma anche lui, come l’amico Andreas, sposando Ellen Sturgis Hooper, avrebbe
legato la sua esistenza ad una delle più antiche famiglie di
Beacon Hill and Back Bay.
III. Conclusioni sul Taccuino di Favole di La Fontaine.
Queste pagine di diario e, si spera, la nostra ricostruzione sono utili a tratteggiare un ambiente famigliare e intimo, nel
quale si creò, nel tempo, un humus ricco, un vero e proprio
laboratorio di idee, che ognuno di questi artisti avrebbe potuto utilizzare in seguito, per lo sviluppo delle proprie opere
pubbliche, se la vita non li avesse distolti, in un modo o
nell’altro dal farlo.
E’ in questo clima che possiamo ricondurre la creazione dei
taccuini che stiamo esaminando i quali, quindi, non vanno
intesi come opere finite: sia quello di favole che ammicca alla
produzione di testi illustrati per l’infanzia, che gli altri materiali dal carattere più umoristico e vignettistico, pur presentandosi ai nostri occhi ben strutturati per una evidente padronanza del linguaggio dell’illustrazione, non nacquero per
essere un vero prodotto editoriale da stampare e poi distribuire, non erano intesi come lavoro professionista. Nacquero
piuttosto come gioco sociale tra amici colti, un divertissement fatto di battute, ironia. Un gioco sociale nutrito comunque da una sperimentazione, da ideali artistici, i quali, sebbene in maniera laterale, lasciano intravvedere le speranze di
questa generazione.
Quello che intendo dire si evidenzierà maggiormente se confrontiamo la produzione di Potter con alcuni esempi più famosi. Faremo solo pochissimi nomi: Aubrey Beardsley (18721898), che nel 1893 disegnava le illustrazioni per la Salomè
di Oscar Wilde, e Arthur Rackham (1867-1939), il quale, noto
101
ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
soprattutto per le illustrazioni di Peter Pan nei giardini di
Kensington di James Barrie e per quelle de Alice nel Paese
delle Meraviglie di Lewis Carrol, pubblicava il suo primo libro già nel 1893. Si tratta di illustratori di fama internazionale, che fecero dell’illustrazione una vera professione, e che ebbero carriere alla moda. Ma basterebbe citare la vicenda di
un altro pittore americano, Elihu Vedder per capire veramente come i nostri taccuini furono solo dei giochi divertenti per
chi li eseguiva.
La storia di Vedder (1836-1923) poeta, pittore simbolista, e
illustratore di libri, che si stabilisce a Roma nel 1869, senza
avere dalla sua parte rendite economiche che gli facessero da
salvagente, è piuttosto significativa. Vedder poteva contare
solamente sulla vendita delle sue opere per mantenere la giovane moglie che lo aveva seguito in Italia e che gli diede quattro figli. Vedder a Roma frequentava la casa del banchiere americano James Hooker, al quale spesso chiese aiuto in forma di prestito di denaro per sopravvivere. La casa del banchiere però era anche un punto di riferimento fondamentale
per tutti quei ricchi americani che si trasferivano a Roma per
trascorrere l’inverno e sui quali Vedder contava molto come
risorsa economica in qualità di committenti. Erano proprio le
opere che essi avrebbero richiesto e pagato a fornirgli il vero
sostentamento economico! Infatti non gli fu concesso nessun
anticipo nel 1894 quando gli editori Houghton gli commissionarono le illustrazioni per la Rubaiyat of Omar Khayyam,
nella versione tradotta da Edward FitzGerald. Queste illustrazioni sono l'opera principale per la quale Vedder oggi è
ricordato e influenzarono grandemente le arti grafiche sia in
America che in Italia, basti pensare all’influenza che ebbero
sugli illustratori di D’Annunzio10. Ma Vedder e Rackham e
Beardsley, al contrario del nostro Potter, lavorarono sempre
e solo dietro compenso, da illustratori professionisti.
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
NOTE AL TESTO
1 Nell’archivio del Museo Christian Hendrik Andersen, questi materiali sono stati regolarmente catalogati, e si possono trovare facilmente le notizie ad essi relative.
2 Si tratta del taccuino denominato “Taccuino di favole di La Fontaine”, n. Inv. 796/149. La scheda tecnica, all’interno dell’Archivio Andersen, è a cura della Dott.ssa Chiara Maraghini Garrone, redatta nel l’ottobre 1993.
3 Ecco la lista completa dei titoli: 1) Les deux mulets; 2) Le corbeau et le renard; 3) Le
soleil et les grenouilles; 4) La lionne et l’ourse; 5) L’oiseau blessé; 6) Le cerf se voyant dans l’eau; 7) Le bat & l’huitre; 8) La grenouille qui veut se faire aussi groose
que le boeuf; 9) Le loup, la chevre & le chevreau; 10) La grenouille & le rat; 11)Le
geai pare des plumes de pain; 12) Le renard & le raisin; 13) Le renard, le loup & le
cheval; 14) Le loup & la cigogne; 15) Le renard & le bouc; 16) Le leon & le rat; 17) Le
rat de ville & le rat de champs; 18) Le pot de fer & le pot de terre; 19) Les deux coqs;
20) Le chien qui lache sa proie pour l’ombre; 21) Le heron; 22) Le renard & la cigogne; 23) Le chene & le roseau; 24) Le loup devenu berger; 25) L’ane & le chien; 26)
L’ecrevisse & sa fille; 27) L’arraignee & l’hirondelle; 28) Le serpent & la lime; 29) Les
oreilles du lievre.
4 Taccuino n.
Inv. 797/1-49, vedi la scheda tecnica a cura della Dott.ssa Chiara
Maraghini Garrone, redatta nel settembre 1993.
5 N. Inv. 635 (826), vedi scheda tecnica a cura della Dott.ssa Chiara Maraghini Garrone, marzo 1993, Archivio Andersen. Assimilabile a questi materiali, è da segnalare
anche un gruppo di fogli di vignette umoristiche, che si raccolgono intorno ad un
frontespizio con il seguente titolo: “La Peinture Le dessin et Les Artistes”, si tratta del
taccuino N. Inv. 809/1-5, vedi scheda tecnica a cura della Dott.ssa Chiara Maraghini
Garrone, maggio 1993, Archivio Andersen. Il carattere umoristico di queste vignette,
lo stile veloce, la tecnica, la mano dell’artista sembrano davvero gli stessi riscontrati
nel Taccuino siglato J. O. B, che ci è servito per attribuire Il Taccuino di favole a John
Potter.
6 Vedi F. Bardazzi e C. Sisi (a cura di), Americani a Firenze. Sargent e gli
impressionisti del Nuovo Mondo, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Strozzi, 3
marzo – 15 luglio 2012), Firenze, 2012; e vedi anche Incantati da Roma. La comunità
anglo americana a Roma (1890-1914) e la fondazione della Keats-Shelley House,
catalogo della mostra (Roma, American Academy, Keats-Shelley Memorial House,
Museo Hendrik Christian Andersen, 16 febbraio-16 aprile 2005), pp. 73-77.
7 Vedi F. Fabiani, 1.2 La formazione artistica tra l’America e l’Europa, in Hendrik
Christian Andersen. La vita l’arte il sogno, Roma, 2003. Cfr. Olivia Cushing,
Diaries, vol. IV, 1892 (nell’archivio Andersen esiste una versione dattiloscritta dei
diari che Olivia scrisse dal 1882 al 1917, anno della sua morte).
8 Olivia Cushing, Diaries, vol. IV, 1892.
9 Olivia Cushing, Diaries, op. cit. (la traduzione dall’inglese è della scrivente).
10 Vedi R. Soria, Gli artisti americani al Cimitero di Testaccio, in Cristina Huemer, (a
cura di) Incantati da Roma. La comunità anglo americana a Roma (1890-1914) e la
fondazione della Keats-Shelley House, (op. cit.), pp. 73-77.
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Hendrik Christian Andersen e Le Corbusier.
Percorsi paralleli.
LUCA RIJTANO
LAURA CAMPANELLI
Uno scultore americano-norvegese, sconosciuto ai più e
sicuramente ai margini della storia dell'arte mondiale, vissuto gran parte della sua vita a Roma e la cui magniloquente opera è racchiusa pressocché nella sua totalità nello straordinario scrigno di villa Helene, subito fuori Porta del Popolo.
Uno dei più importanti architetti del Novecento, «tra le
figure più influenti della storia dell'Architettura, [...] maestro
del Movimento Moderno, [...] uno dei padri dell'urbanistica contemporanea, [...] geniale pensatore della realtà del suo
tempo»1.
Hendrik Christian Andersen e Charles-Edouard Jeanneret, in arte Le Corbusier, a prima vista sembrano non avere
niente in comune. Eppure le loro vicende biografiche e professionali presentano significativi punti di contatto.
Entrambi figli di quell'internazionalismo positivista e di
quella fede nel progresso, nella scienza e nella tecnica che conobbero la loro apoteosi nelle Esposizioni Universali, li unisce, soprattutto, la straordinaria perseveranza nel promuovere ad oltranza le proprie idee, o, meglio, "la" propria idea, il
progetto di una vita, destinato, nelle loro menti non immuni
da una megalomania comune a molti artisti, ad avere effetti
salvifici di palingenesi per l'intera umanità.
The World Centre of Communication2 - il progetto di Città Mondiale di Andersen ed Hébrard3 del 1913, dove riunire i
migliori artisti e scienziati del pianeta in nome della cooperazione e del progresso delle nazioni e dell'umanità— e la Ville Radieuse4 - il modello urbano che, a partire dalla Città
contemporanea per 3 milioni di abitanti del 1922, Le Corbu-
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sier, in successivi sviluppi, porterà avanti per tutta la vita vengono entrambi proposti per decenni ai più svariati interlocutori, propagandati costantemente attraverso pubblicazioni e conferenze in giro per il mondo, localizzati geograficamente in tutti i continenti.
E.M. Hébrard, Un Centro Internazionale.
Planimetria generale, 1913. Museo Hendrik
Christian Andersen
Le Corbusier, La Ville Radieuse. Zonizzazione, 1935.
Non è questo il luogo né per un’analisi dei due progetti,
nei loro pregi e nei loro forse più numerosi difetti, né per un
improbabile confronto, sulla cui fattibilità pesa come un macigno prima di tutto la fortuna critica impietosamente opposta che la storia ha loro riservato. Ciò che interessa qui raccontare è come, in un momento cruciale della storia europea,
i destini di Andersen e Le Corbusier - e dei loro progetti - si
siano incrociati con quelli di due personaggi fuori dell'ordi-
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
nario, altrettanto diversi tra loro: Paul Otlet e Benito Mussolini.
Il progetto del Centro Mondiale ha origine dall'idea di
Andersen di realizzare una fontana monumentale - la Fontana della Vita - che esprima simbolicamente ideali di amore,
fratellanza e progresso. Sull'onda del visionario ed entusiasmante scambio di idee e passioni con la cognata Olivia Cushing, ricchissima ereditiera americana che sarà una figura
centrale, nonché la munifica finanziatrice, dell'intera impresa, il progetto cresce a dismisura fino a diventare una vera e
propria Capitale Mondiale; un'utopia che, grazie al pragmatismo di Ernest Hébrard, capace di dare una forma architettonica concreta alla visione di Andersen, e all'indubbia capacità
di lobbying dei due cognati, riesce ad avere, in alcuni momenti della sua vicenda, le potenzialità di diventare
realizzabile5, soprattutto in seguito all'incontro, nel 1911, con
Paul Otlet e Henri La Fontaine.
Socialisti, pacifisti e internazionalisti belgi, Otlet e La Fontaine sono i promotori e segretari dell'Unione delle Associazioni Internazionali
(1910), e sostenitori (in particolare il
giurista La Fontaine, premio Nobel
per la Pace nel 1913) dell'istituzione
della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja e, più tardi, della Società
delle Nazioni. Padri della Classificazione Decimale Universale e, di conseguenza, della moderna Bibliografia, fondano nel 1895 l'Istituto Bibliografico Internazionale e il Museo Ritratto di Paul Otlet. Mundaneum, Mons (Belgio)
Mondiale (Mundaneum). Oggi, Paul
Otlet viene celebrato anche come un pioniere dell'informatica, dell'ipertesto ed un assai precoce ma lucidissimo anticipatore di Internet6.
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Paul Otlet. Species Mundaneum, Forme e tipi di Mundaneum da collegare in una rete. Mundaneum, Mons (Belgio)
Otlet si entusiasma immediatamente al progetto di Città
Mondiale e propone, già nel 1912, un anno prima della pubblicazione ufficiale del progetto di Andersen-Hébrard, un'area a Tervueren, nei pressi di Bruxelles, per l'edificazione della città e la realizzazione immediata di un primo edificio per
ospitare la sede dell'Unione delle Associazioni Internazionali.
Nonostante Andersen rifiuti la proposta, preferendo presentare prima universalmente il progetto svincolandolo da una
collocazione geografica7, da questo momento e per oltre un
decennio, Otlet diventa l'interlocutore privilegiato e il sostenitore più convinto dell'impresa, riuscendo più volte a creare
concrete possibilità di realizzazione, tentando di legare il progetto della Città Mondiale all'organizzazione delle Esposizioni Universali, facendone una sorta di sede permanente, e, dopo l'ecatombe della Grande Guerra, all'istituzione della Società delle Nazioni.
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H.Ch. Andersen, E.M. Hébrard, La Città Mondiale a Tervueren, 1913.
H.Ch. Andersen, E.M. Hébrard, La Città Mondiale sul Mediterraneo,
nei dintorni di Roma, 1913
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Parallelamente ed autonomamente Andersen, anche attraverso la fondazione della World Conscience Society8, continua l'opera di propaganda facendo la spola tra le due sponde dell'Atlantico, ricevendo sostegno da intellettuali, giornalisti e attivisti di tutti i continenti, venendo ricevuto con grande interesse, nel 1913, dai Re del Belgio e d'Italia; senza ottenere, però, risultati concreti.
La fine del rapporto tra Otlet e Andersen avviene quando
quest'ultimo, constatato il fallimento, o per lo meno l'impasse, del tentativo di fare del World Centre il quartier generale
della Società delle Nazioni e, probabilmente, condizionato
anche dalla mancata adesione degli Stati Uniti all'organismo,
chiede ed ottiene udienza, nel gennaio 1926, a Benito
Mussolini9.
Il Duce sta completando in quei mesi la svolta autoritaria
che avrebbe trasformato l'Italia in un regime dittatoriale; non
è ancora il fondatore di città nuove che lo avrebbe portato
con l'epopea della bonifica integrale al massimo livello di
consenso popolare; sicuramente ha bisogno in quel frangente
di costruirsi un ruolo internazionale di interlocutore affidabile e forte; fatto sta che si rivela entusiasta della proposta di
Andersen, offrendo in dono alle nazioni una vasta zona appena bonificata a Maccarese, immediatamente a Nord della foce del Tevere, una delle possibili localizzazioni proposte da
Andersen nella pubblicazione fondativa della World Conscience Society del 191310.
Nella corrispondenza immediatamente successiva tra Andersen e Otlet, il belga insiste nel rapporto con la Società delle Nazioni e nella localizzazione del piano a Ginevra, sua sede
permanente dal 1920; i rapporti tra i due si incrinano irrimediabilmente. Perduto l'appoggio di Otlet e delle Associazioni
Internazionali, la ricerca del sostegno di Mussolini da parte
di Andersen si rivelerà nell'immediato soltanto uno spot propagandistico per il regime fascista.
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La Città Mondiale. Veduta del centro monumentale con indicazione dei principali edifici. Da G.Gresleri,
D.Matteoni, La Città Mondiale.
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Nel 1927, si svolge a Ginevra il concorso internazionale di
architettura per il Palazzo della Società delle Nazioni. Considerato un evento epocale nella storia dell'architettura del
Novecento11, vede per la prima volta il confronto sul più importante palcoscenico internazionale tra il Movimento Moderno e l'Accademia Beaux-Arts. Le Corbusier vi partecipa
con un celebre progetto, e la sua sconfitta ad opera della proposta accademica poi realizzata, contribuirà non poco a costruire il suo mito. Presumibilmente è in questa occasione
che l'architetto svizzero entra in contatto con Paul Otlet.
L'anno successivo Otlet commissiona a Le Corbusier il piano per il Mundaneum. L'architetto lo descrive come «un
centro mondiale-scientifico, documentario ed educativo, al
servizio delle Associazioni internazionali, che si propone di
creare a Ginevra, per completare le istituzioni della più grande Società delle Nazioni e per commemorare, nel 1930, dieci
anni di sforzi verso la pace e la collaborazione internazionali»12. È esattamente la visione che Otlet ha sempre avuto della
Città Mondiale, che fino a questo momento, per oltre tre lustri, ha avuto le forme attribuitele dai raffinati disegni Beaux
Arts di Hébrard e dei suoi collaboratori , e che ci spinge a
presupporre un'assai probabile primogenitura di Otlet sulla
genesi del Centro Scientifico del World Centre, con i centri
congressi, la Corte Internazionale di Giustizia, la Biblioteca
Universale, la Torre del Progresso e della Comunicazione.
Per Le Corbusier, come teorizzato già da vari anni13, la lezione della Classicità è quella delle forme pure e archetipiche,
del «gioco sapiente e magnifico dei volumi sotto la luce»14.
Quindi, per la fondazione di una città, l'architetto ritorna alle
origini della Storia, individuando un recinto sacro, un rettangolo con un tracciato regolatore costruito sulla sezione aurea,
un'Acropoli o Campidoglio15 ideale dove si alzano isolati i volumi dei vari edifici: la sede delle Associazioni Internazionali,
l'università, la biblioteca, gli spazi quasi fieristici per le esposizioni e, in posizione baricentrica, la piramide gradonata a
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Le Corbusier, Mundaneum. Veduta assonometrica generale, 1928
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spirale del Museo Mondiale. Sorprendentemente, però, qualcosa sopravvive del piano Andersen-Hébrard; Otlet ha sicuramente mostrato il World Centre a Le Corbusier, tanto da
condizionarne il progetto. Pur all'interno di un impianto assai differente nelle scelte fondamentali (ad esempio nella localizzazione delle stazioni portuale e ferroviaria, qui posizionate più razionalmente sulle rive del lago, accanto alla preesistente sede dell'Ufficio Internazionale del Lavoro), rimane
una memoria dell'asse monumentale: dalla piazza sul lago,
attraverso la "città alberghiera-residenziale", prima di entrare nella "città della conoscenza", tale asse incontra il grande
stadio, posizionato in modo identico al piano di AndersenHébrard16, ad interrompere la lunga prospettiva, prosegue
poi con l'auditorium dell'università, ripreso fedelmente dal
concorso del Palazzo delle Nazioni, concludendosi con il parallelepipedo un po' modesto della biblioteca. Le Corbusier
sottrae, però, all'asse l'edificio principale, con uno scarto laterale che libera la nuova Torre di Babele al centro del recinto
sacro, facendone un segno monumentale ad una scala paesaggistica.
Dal Museo Mondiale, impostato su un percorso che dalla cima della piramide, raggiungibile tramite ascensori,
scende lungo le rampe
elicoidali (esattamente
come il Guggenheim di
Frank Lloyd Wright a
New York, 1943-59),
parte la ricerca progettuale di Le Corbusier
sull'edificio museale, che
attraverso il prototipo
del Museo a crescita illi- Le Corbusier, Museo Mondiale. Pianta, sezione,
mitata (1930-31) arriva prospetti, 1929
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ai tre musei realizzati nel dopoguerra, ad Ahmedabad, Chandighar e Tokio.
Le Corbusier, Città Mondiale. Prospettiva per diorama, 1929. Archivio della Fondazione Le
Corbusier, n.24530
La proposta di Otlet-Le Corbusier è destinata all'insuccesso. Il Palazzo delle Nazioni, dopo un iter assai
controverso17, verrà costruito secondo un progetto redatto dal
gruppo multinazionale di vincitori ex-aequo del concorso,
mutuando alcuni spunti planimetrici della proposta di Le
Corbusier. Otlet tenterà ancora, invano, almeno fino al 1935,
di realizzare il suo sogno, tra Ginevra e il Belgio18. La Società
delle Nazioni verrà affossata, manifestando tutta la sua impotenza, dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, dopo aver già subito un duro colpo da Mussolini, con l'invasione
dell'Etiopia, e la sostanziale inefficacia delle sanzioni comminate all'Italia.
Nuove prospettive sembrano aprirsi sia per Andersen sia
per Le Corbusier qualche anno più tardi, nel biennio 1934-35,
legate entrambe alla Roma fascista e a Mussolini.
«Sua Eccellenza il Capo del Governo», informa una nota
ufficiale in data 15 gennaio 1934, «si è compiaciuto di dare il
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proprio assenso perché abbia luogo in Italia il progettato corso di conferenze sulle nuove forme dell'Architettura moderna» ad opera del «noto architetto francese Le Corbusier»19.
L'evento, che avrà luogo a giugno, accuratamente preparato
dalla "quinta colonna" di architetti italiani più vicini al maestro svizzero, si inserisce nello scontro più o meno aperto
nell'architettura italiana del tempo, su quale debba essere lo
Stile dell'architettura fascista; scontro nel quale i giovani razionalisti hanno, forse più che in ogni altro paese, ancora
molte carte da giocare.
La speranza di Le Corbusier è ottenere l'incarico per il piano regolatore di Pontinia, la terza città nuova dell'Agro, dopo Littoria e la celebrata Sabaudia. Prepara alcuni schizzi, ha
uno scambio di cordiali lettere con il Ministro della Cultura
Giuseppe Bottai, invia al Duce il primo volume della sua
Oeuvre Complète con dedica referente, rimane a Roma in attesa di un'udienza con Mussolini. Pier Maria Bardi, colui che
tra i suoi sponsor ha più entrature, gli comunica il 20 giugno
che l'incontro potrà avvenire tra il 27 e il 29. Ma Le Corbusier
riparte, ritenendo che i giorni di attesa siano stati troppi per
il suo orgoglio e la sua pazienza.
Quando, nel 1935, Roma ottiene l'organizzazione dell'Esposizione Universale prevista per il 1941-42, anche Andersen vede aprirsi nuove possibilità, nella speranza di legare il
World Centre all'operazione. Prepara per Mussolini una nuova tavola20, una planimetria in cui la Città Mondiale, nell'area
di Maccarese promessa dal Duce nove anni prima, è messa in
relazione con Roma e il quartiere espositivo.
Il nuovo tentativo è coerente con la decisa svolta determinata nell'urbanistica romana dalla localizzazione dell'E.42,
che dà concretezza alla retorica di Roma al mare portata avanti da anni dal regime e che porterà all'elaborazione di un
nuovo Piano regolatore21, mai approvato, in cui la città prende la forma di una cometa, con la coda che si allunga verso il
Tirreno.
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H.Ch. Andersen, Un Centro Mondiale della Comunicazione. Piano
generale, 1935. La Città Mondiale, nell'area di Maccarese, in relazione
alla città di Roma e all'E.42. Museo Hendrik Christian Andersen
Ormai, però, Andersen è fuori dai giochi. Ben più agguerriti sono i protagonisti che si affrontano sul campo di battaglia delle Tre Fontane. Mussolini non gli concede udienza.
Andersen ottiene, soltanto, la promessa di poter esporre il
progetto durante l'Esposizione22. Muore nel 1940, due anni
prima di un evento che non avrà mai luogo.
Nel dopoguerra, invece, Le Corbusier ha la possibilità di
realizzare ciò su cui ha lavorato tutta la vita: l'Unitè d'habita-
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tion a Marsiglia23, la città e il Campidoglio di Chandighar. I
suoi allievi brasiliani costruiscono la nuova capitale, Brasilia.
Memore delle sue esperienze con Otlet, farà parte24 del gruppo di progettazione della sede dell'Organizzazione delle Nazioni Unite a New York. Tutto ciò avrà, però, più il sapore
dell'omaggio al vecchio Maestro, che di una reale affermazione delle sue idee.
L'intuizione che si rivelerà invece straordinariamente anticipatrice e, alla lunga, vincente, sarà quella di Paul Otlet,
scomparso, immaginiamo nello sconforto, nel 1944, nel momento più cruento della guerra. In una conferenza alla
Maison du Livre di Bruxelles, nel 1908, intitolata La funzione e le trasformazioni del libro, affermava: «Ciò che cambierà radicalmente il libro sarà il principio della trasmissione a
distanza, senza limiti di spazio e direzione: onde che possano
trasportare immagini e suoni indiscriminatamente. [...] si avrà allora una rete universale che permetterà la disseminazione della conoscenza senza confini»25. Il World Centre of
Communication, la "Fontana del Perenne Fluire della Conoscenza"26 immaginata da Andersen, sarà immateriale, sarà
una Grande Rete Mondiale, un World Wide Web.
NOTE AL TESTO
Così viene presentato Le Corbusier su wikipedia. Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/
Le_Corbusier
2 Cfr. oltre ai due volumi originali con cui viene presentato il progetto - H.C. Andersen, E.M.Hébrard, Creation of a World Centre of Communication, I vol., Paris 1913 e
H.C. Andersen, O. Cushing Andersen, Creation of a World Centre of Communication,
Legal Argument, Economic Advantage, II vol., Roma 1918 - G. Gresleri, D. Matteoni,
La città mondiale. Andersen, Hébrard, Otlet, le Corbusier, Marsilio, Venezia 1982 e,
tra le pubblicazioni più recenti, F.Fabiani, Hendrik Christian Andersen, la vita, l'arte,
il sogno. La vicenda di un artista singolare, Gangemi ed., Roma 2003, p. 55-79 e
A.Ciotta, La cultura della comunicazione nel piano del Centro Mondiale di Hendrik
Ch. Andersen e di Ernest M. Hébrard, Franco Angeli, Milano 2011.
3 Ernest Michel Hébrard (1875-1933), architetto e urbanista francese, vincitore del
Prix de Rome nel 1904, conosce Andersen l'anno successivo durante il soggiorno come pensionnaire a Villa Medici. Dopo l'esperienza della Città Mondiale, sarà autore di
numerosi piani regolatori in Grecia ed Indocina.
1
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Sterminata, ovviamente, è la bibliografia sulle teorie urbanistiche di Le Corbusier.
Citiamo, tra i testi originali di Le Corbusier, almeno Vers une Architecture, Paris
1923, trad.it. Verso una architettura, Longanesi, Milano 1973, La Ville Radieuse,
Boulogne-sur-Seine 1935, La Charte d'Athènes, Boulogne-sur-Seine 1938, trad. it. La
Carta di Atene, Edizioni di Comunità, Milano 1960, Manière de penser l'urbanisme,
Boulogne-sur-Seine 1946, trad. it. Maniera di pensare l'urbanistica, Laterza, Bari
1965.
5 A proposito di come il progetto della Città Mondiale fosse perfettamente inserito
nella temperie socio-culturale dell'epoca cfr. il paragrafo L'utopia realizzabile, in
F.Fabiani, op.cit., p.55-60.
6Cfr.http://it.wikipedia.org/wiki/Paul_Otlet;
http://en.wikipedia.org/wiki/
Mundaneum; il sito ufficiale del Mundaneum www.mundaneum.org; Ch.Van den
Heuvel, Architectures of Global Knowledge: the Mundaneum and the World Wide
Web, in «Volume» n.15, Aprile 2008, p.48-53.
7 Hendrik e Olivia preferivano, probabilmente, una diversa localizzazione, più simbolica e affascinante, come i dintorni di Roma, o, soprattutto, la patria americana, dove
di certo non mancavano né la visionarietà né i capitali necessari all'iniziativa.
8 Andersen fonda la Società per una Coscienza Mondiale nel novembre 1912, come
strumento di propaganda e raccolta fondi per la realizzazione del Centro Mondiale.
Otterrà numerose adesioni in tutto il mondo, anche attraverso la pubblicazione di opuscoli e pamphlet. Propone senza risultati al Comune di Roma, nel 1913, la costruzione di un World Conscience Building nell'area del padiglione americano all'Esposizione del 1911 a Valle Giulia. Andersen cercherà spesso come interlocutore il sindaco
di Roma Ernesto Nathan e, probabilmente, quella sorta di "Primavera Romana" messa in moto dall'assoluta novità della giunta Nathan, tuttora ricordata come una delle
migliori amministrazioni mai avute dalla Capitale, può aver avuto una certa influenza
anche sull'elaborazione teorica del World Centre, almeno nel ruolo di" incubatrice di
idee innovative"
9 Oltre ai testi citati alla nota 2, cfr. M.Zatterin, Quando Mussolini sponsorizzava la
Città della Pace, in «La Stampa» del 19.07.2011
10 Cfr. H.C. Andersen, World Conscience. An International Society for the Creation of
a World Centre, Roma 1913, p.38. Nel volume, a titolo esemplificativo, vengono proposte, presentando apposite mappe con inserita la planimetria generale della Città, le
localizzazioni di Tervueren nei dintorni di Bruxelles, del Lago di Neuchatel vicino
Berna, dell'Aia, di Parigi, della Costa Azzurra tra Cannes e Saint Tropez, di Santo Stefano nei dintorni di Costantinopoli, di Lakewood nel New Jersey (USA) e, appunto, di
Roma-Maccarese.
11 Cfr. ad esempio le pagine dedicate da Bruno Zevi in Storia dell'Architettura Moderna, Einaudi, Torino 1950, p.162-164, nonché l'ampio risalto dato all'epoca al concorso
su «Architettura e Arti Decorative» con la recensione del direttore Marcello Piacentini
in Problemi reali più che razionalismo preconcetto (fasc. III, novembre 1928)
12 Cr. Le Corbusier & Pierre Jeanneret, Oeuvre Complète de 1910-1929,Girsberger,
Zurich 1948, p.190 e F.Tentori, Vita e opere di Le Corbusier, p.70-71. Sul progetto
corbusieriano del Mundaneum e sui rapporti con Otlet cfr. G. Gresleri, D. Matteoni,
op.cit.
13 Cfr. la sua opera manifesto del '23, Vers une Architecture, e i tanti testi sulla lezione
di Roma, sulla Grecia e il Partenone, pubblicati sulla rivista L'Esprit Nouveau.
14 Cfr. Verso una architettura, p.16
15 Capitol si chiamerà poi anche il centro civico, culturale e politico di Chandighar
16 Anche qui, lo stadio appare posizionato in modo un po' incongruo, obbligando al
suo aggiramento chi volesse dirigersi al centro venendo dal lago. Lo stadio del World
4
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Centre era stato l'elemento più criticato, nelle sue forme e nel suo posizionamento che
impediva alla città la visuale e il contatto diretto con il mare. Cfr. A. Ciotta, op.cit.,
p.168-169, 207-212
17 C'è un momento, tra il '28 e il '29, in seguito allo spostamento del sito per il Palazzo
nell'area del parco dell'Ariana dove Otlet e Le Corbusier stanno progettando il Mundaneum, in cui sembra ritornare in gioco la proposta dell'architetto svizzero. Le Corbusier tenterà di utilizzare come "strumento di pressione" proprio il lavoro che sta
svolgendo con Otlet. Cfr. G. Gresleri, D. Matteoni, op.cit.
18 Viene riproposta, nel 1932, la localizzazione di Tervueren per un nuovo progetto,
dell'architetto Victor Bourgeois. Le Corbusier, invece, già nel 1930 considera l'esperienza ormai chiusa, presentando al CIAM di Bruxelles le tavole della Ville Radieuse.
Cfr. G. Gresleri, D. Matteoni, op.cit., p.82-84, 128-129
19 Cfr. la lettera originale esposta alla recente mostra L'Italia di Le Corbusier, MaXXI
18.10.2012 - 17.02.2013, a cura di Marida Talamona. Cfr. anche N. Ajello, Le Corbusier. Viaggio in Italia, in «La Repubblica» del 9.12.2007
20 La tavola è attualmente esposta nella grande sala al piano terra di Villa Helene, insieme ai disegni di Hébrard di oltre vent'anni prima.
21 Cfr. sulle vicende del cosiddetto "piano-ombra" del 1942, A.Bruschi, La variante
generale del 1942 al Piano Regolatore di Roma, in PICCIONI L. (a cura di), Roma in
guerra. 1940-1943, “Roma moderna e contemporanea”, anno XI, n.3, sett.-dic. 2003,
pp.619-625
22 Tale possibilità era stata negata ad Andersen all'Esposizione Universale di San
Francisco del 1915. Cfr, F.Fabiani, op. cit., p.65
23 Costruirà in seguito altre 4 Unitè a Nantes, Berlino, Briey e Firminy.
24 Poi, per una serie di dissapori, ne uscirà, pur se la sede dell'ONU presenta una chiara impronta corbusieriana
25 Cfr. Ch.Van den Heuvel, op.cit., p.48
26 Una fontana "alimentata dai risultati compiuti da tutti gli uomini nell'arte, nella
scienza, nella religione, nel commercio, nell'industria e nel diritto". Cfr. H.C. Andersen, E.M.Hébrard, op.cit., p.14
120
ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Racconti di vita nelle carte dell'Archivio Andersen
CLAUDIA PALMA
Per chi frequenta e ama gli Archivi trovarsi a contatto con le
carte degli Andersen rappresenta un assoluto piacere.
In una strada di Roma che affaccia al
suo sbocco sul fiume Tevere c'è un
delizioso villino in stile liberty che
conserva preziose testimonianze di
una intera famiglia. Tutto in quella
casa parla di una vita dedicata all'arte,
alla realizzazione di un sogno, quello
di un grande e nuovo "Centro
mondiale di comunicazione" .
Grandiose statue all'entrata di Villa
Helene accolgono, imbarazzano e
confondono il visitatore che
difficilmente riesce a contestualizzarle
se non accede al mondo immaginato
da Andersen nella sua utopia. E salendo la bella e oscura
scala, al primo mezzanino, dietro una porta che già al suo
apparire sembra celare un
raro tesoro, si apre la
s tanz a ,
da lle
b uf f e
finestrelle che ricordano
quelle delle mansarde
parigine, e che raccoglie
appunto le carte di
Hendrik Andersen, di sua
cognata Olivia e della
sorella adottiva Lucia.
Nella piccola saletta, collocati su scaffali in legno, l'archivio
accoglie documentazione variegata. Molteplici ad esempio
121
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MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
sono le copie del testo che Andersen
pubblicò nel 1913, intitolate, nelle due
diverse versioni presenti in francese e in
inglese, "Un centre mondial" e "A world
centre", enormi libroni con coperta in
tela verde o pelle rossa, frutto del lavoro
e dell'ideale di
una vita. E poi
numerose
copie
della
"Creation", il libro che Hendrik
volle pubblicare, dopo
l'improvvisa morte dell'amata
cognata Olivia, sua mentore con i drammi letterari da lei
scritti.
Sono poi conservate scatole
di
diverse
misure
dall'affascinante targhetta
della "Societé Lumière" che
racchiudono
lastre
fotografiche.
Ancora, troviamo fascicoli e
cataloghi che documentano
l'attività espositiva che il
museo Andersen ha svolto dal
dicembre 1999, anno della
sua apertura, ad oggi.
Infine un'altra sezione riguarda le schede di catalogo che
illustrano tutte le opere, sculture e dipinti, del Museo.
Ma naturalmente la parte più affascinante, quella la cui
lettura catapulta ed immerge nel sogno totalizzante
dell’esistenza di Hendrik, di Olivia che delle sue opere fu
122
ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
musa ispiratrice, e di Lucia, fedele e devota governante di
tutta una vita e per questo elevata poi al ruolo di sorella
adottiva, è quella dell’archivio della corrispondenza e dei
documenti personali di questi tre personaggi. E’ questo il
cuore dell’archivio: la ricca documentazione cartacea
custodita da Lucia Andersen che ci giunse conservata in
grandi scatole, ma sostanzialmente già organizzata dallo
stesso artista che aveva custodito le carte da lui prodotte in
modo ordinato e metodico. Quando si cominciò a sistemare
questo archivio, un primo intervento venne curato da un
funzionario archivista della Regione Lazio coadiuvato
dall’allora direttore del Museo, Elena di Majo.
Successivamente venne svolta una specifica tesi, coordinata
ancora da un funzionario archivistico questa volta del
MIBAC, proprio su tali materiali, che comportò una
schedatura delle carte generando l’attuale stato di
conservazione del Fondo, sempre nel rispetto delle originali
indicazioni dell’artista.
Attualmente i faldoni che
costituiscono il Fondo riferito a
Hendrik Christian Andersen sono
quarantasette; si riconoscono tre
serie: Corrispondenza, Centro
mondiale di comunicazione, Varie.
Nella prima, all’interno di un
generale ordine cronologico, i
fascicoli (Unità archivistiche) si
susseguono tra quelli riguardanti la
storia della famiglia Andersen,
attraverso le lettere dei due fratelli
artisti Andreas e Hendrik con i loro
familiari, e quelli, i più cospicui,
semplicemente ordinati per anno, comprendenti il periodo
tra il 1895 e il 1935. Ulteriori Unità archivistiche sono
ordinate per corrispondenti, laddove il volume di lettere è
tale da far ritenere la corrispondenza non occasionale, ma
123
ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
frutto di un rapporto epistolare abituale. Fra questi spicca il
nutrito carteggio con Henry James: settantasette lettere
inviate dal famoso scrittore all’amico “romano” tra il 1899 e il
1915, di cui sono presenti solo le trascrizioni dattiloscritte. Gli
originali, venduti per motivi economici dopo la morte di
Hendrik da Lucia, sono
attualmente conservati presso la
Clifton Waller Barrett Library of
American Literature dell’università
della Virginia a Charlottesville. Tale
carteggio è l’unico che finora risulta
interamente tradotto, commentato
e pubblicato per iniziativa del
Museo Andersen nel volume
“Henry James. Amato ragazzo” a
cura di Rosella Mamoli Zorzi, con
una postfazione di Elena di Majo.
Tutti i carteggi sono per lo più
scritti in lingua inglese, talvolta in
italiano, occasionalmente in
francese e tedesco.
La seconda serie riguarda, come chiaramente espresso dal
suo titolo, tutta la documentazione generata per la
realizzazione del progetto per un Centro mondiale di
comunicazione. Sono presenti quattordici Unità
Archivistiche nominate per soggetto: troviamo quindi
fascicoli
che conservano atti preparatori, inviti,
pubblicazioni della conferenza tenutasi alla Sorbona "La citè
Future", schede di adesione alla "World Conscience Society",
scritti sulla Lega delle Nazioni, eccetera. All’interno di questa
serie è presente una sottoserie interamente dedicata alla
Rassegna stampa ordinata cronologicamente.
Nell’ultima serie è conservato materiale eterogeneo: si trova
dalla minuta del discorso di Andersen trasmesso per radio
agli Stati Uniti d'America nell'aprile del 1935 alla
124
ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
sceneggiatura di un film il cui titolo è "Quattro americani a
Roma", dagli scritti sulle esposizioni universali alle
disposizioni testamentarie, da articoli di giornale a materiali
divulgativi di vario genere.
Il secondo Fondo presente in Archivio è quello formato dalle
carte di Olivia Cushing, nata da una ricca famiglia bostoniana
di origine inglese. L’incontro con il fratello di Hendrik,
Andreas, anch’egli pittore, fu fondamentale per le affinità
artistiche ed esistenziali che la giovane, raffinata e colta
donna dai segnati interessi letterari, riscontrò in lui e che la
portarono a sposarlo insieme
ad i suoi ideali. Fu per questo
che, dopo la morte del marito,
avvenuta solamente ad un mese
dalle nozze, Olivia, facendo
propria la famiglia di Andreas e
trasferendosi con loro a Roma,
sostenne il sogno utopico di
Hendrik moralmente ed
economicamente. Infatti, tutti i
suoi scritti conservati nei dieci
faldoni dell’Archivio del Museo,
insieme alla cospicua corrispondenza di carattere familiare,
rispecchiano il suo impegno dedito, il suo credo
appassionato, l’energia spirituale profusa nel suo lavoro in
sinergia con quello del cognato. Sono presenti più di duemila
carte sui suoi scritti di carattere biblico, revisionate ed
introdotte da Lucille Gulliver, cara amica di Olivia, che dopo
la sua morte li predispose per una futura pubblicazione. A ciò
si aggiungono circa duemilaquattrocento pagine di lavori,
drammi, commedie; circa ottocento carte di annotazioni,
pensieri e poesie; due biografie di Andreas e di Hendrik;
diversi quaderni e blocchi di appunti, tutto vergato in lingua
inglese. Completano i suoi scritti gli otto faldoni dei suoi
Diari, di cui il Museo conserva una copia incompleta. Olivia
cominciò a redigerli dal 1882 e, seppur con qualche
125
ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
interruzione sino al 1902, li terminò nel dicembre 1917,
bruscamente interrotti una settimana prima della sua morte.
Sono ordinati in sessantatre fascicoli composti di
dattiloscritti su fogli di carta velina. Gli originali manoscritti,
in forma più completa, sono conservati presso la Manuscript
Division della Library of Congress di Washington. Anche in
questo caso l’amica Lucille Gulliver cercò, senza riuscirci, di
farne una pubblicazione. E’ questa la lettura che più di ogni
altro degli scritti, pur cospicui, presenti nell’Archivio ci
illustra la vita della famiglia Andersen, proiettandoci nelle
storie, negli ideali, nelle utopie che la pervasero e che ne
costituirono l’essenza.
Ultimo
dei
Fondi
conservati è quello
prodotto da Lucia
Andersen. Originaria
della Ciociaria, la
giovane “Nanna” arriva
a diciotto anni nella
casa dell’artista e vi
rimarrà per sempre,
dapprima ricoprendo il
ruolo della modella,
poi quello di governante, infine, con l’adozione, quello di
figlia e sorella. Sopravvissuta alla morte di tutti i componenti
della famiglia, Lucia produrrà un fondo archivistico che
sostanzialmente sarà testimonianza della sua attività di
amministratrice delle proprietà rimastegli. Il Fondo è
costituito di tre serie: la prima, denominata Corrispondenza,
conserva tutti i carteggi prodotti da Lucia strettamente
ordinati per corrispondente. La seconda serie,
Amministrazione proprietà, conserva blocchetti di ricevute
di affitto, documentazione relativa ai lavori di manutenzione
del villino e alle varie spese da lei sostenute per la sua
ristrutturazione, atti riguardanti stipendi, liquidazioni,
contratti di assunzione del portierato di Villa Helene.
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ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Conclude questo Fondo una serie denominata Varie che
conserva materiali di carattere privato e familiare quali i
documenti comprovanti l'adozione di Lucia da parte della
famiglia Andersen, la manutenzione della tomba di famiglia
al cimitero del Testaccio, ricevute e depliants degli hotel nei
quali la sorella di Andersen soggiornò per villeggiatura,
quietanze di pagamenti di tasse e contributi vari. Tutta la
documentazione risulta scritta in lingua italiana e inglese.
Quando Andersen morì lasciò ogni suo avere allo Stato
italiano specificando che la villa e tutto ciò che conteneva
divenisse Museo pubblico. La scelta di non disperdere i
diversi patrimoni di opere di pittura e scultura, di
arredamenti, di strumenti di lavoro, nonché di libri,
fotografie, corrispondenza e scritti lascia intatto il fascino
primigenio e peculiare di questa casa-Museo, di cui l’Archivio
rappresenta la voce narrante.
BIBLIOGRAFIA
Henry James, Amato ragazzo. Lettere a Hendrik C. Andersen 1899 –
1915, a cura di Rosella Mamoli Zorzi, postfazione di Elena di Majo, Letteratura universale Marsilio, Venezia, 2000
Ynka Shonibare. Be-Muse, a cura di Elena di Majo e Cristiana Perrella,
Umberto Allemandi & co., Torino, 2001
Francesca Fabiani, Hendrik Christian Andersen, la vita, l’arte, il sogno. La vicenda di un artista singolare, Gangemi, Roma, 2003
Incantati da Roma, la comunità anglo-americana a Roma (1890 –
1914) e la fondazione della Keats-Shelley House, Palombi editore, Roma, 2005
Foto di Enzo Riggio
127
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
La biblioteca di Olivia e Hendrik: “i buoni libri”
GIULIA TALAMO
ricerche
“I buoni libri sono la migliore educazione che si possa acquisire senza spendere”, scriveva Andreas Andersen al fratello
Hendrik da Boston intorno al 1890.
I buoni libri sviluppano conoscenza della vita, capacità di operare scelte in piena autonomia di pensiero, attenzione ad
una società che evolve rapidamente, libertà dagli stereotipi
borghesi, cioè le linee guida della cultura e della personalità
di Olivia Cushing.
Il Museo Andersen conserva una biblioteca di circa 300 libri,
prevalentemente in inglese, dei quali era già stato redatto un
elenco. Per una corretta descrizione bibliografica, occorreva
verificare l’esattezza e la completezza dei dati raccolti confrontandoli con le fonti: sono andata incontro ai “buoni libri”
con la mentalità del catalogatore, con lo scopo di effettuare
una “veloce ricognizione del materiale” per la schedatura,
ma sono rimasta affascinata dalla varietà di interessi e di provocazioni culturali offerti dagli autori presenti nella collezione.
128
ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
La biblioteca di casa Andersen apre una finestra su un panorama stupefacente: al centro degli interessi l’umanità, soggetto di tutte le discipline connesse con le problematiche sociali
come l’economia, il welfare, i diritti dei lavoratori, dei minori
e delle donne, la pedagogia, il suffragio universale, il pacifismo, l’analisi dei codici e delle convenzioni morali in tema di
famiglia e matrimonio, dagli orientamenti verso il socialismo
utopistico alla concezione pratica dell’etica di Emerson.
Colpiscono gli scritti sull’abolizionismo e l’attenzione a figure
e personalità femminili speciali, che hanno contribuito, ciascuna nel proprio ambito peculiare, allo sviluppo tanto delle
discipline giuridiche, sociali e pedagogiche quanto dei diversi
mezzi di comunicazione.
Dall’adesione all’evoluzionismo (rappresentato dai lavori di
Darwin, Wallace e Fiske) sembra generarsi una tensione continua verso l’apertura, la ricerca, i progressi sociali e culturali; il lettore trae stimoli al coinvolgimento nell’impegno personale, alla consapevolezza del proprio ruolo nella società,
come testimoniano la filosofia dell’educazione alla responsabilità teorizzata da vari autori, o la statistica applicata agli
studi sociali e all’evoluzione elaborata da Pearson.
C’è evoluzione anche nel modo in cui lo spirito di Dio agisce
sugli uomini, come dimostra l’ampio spazio dedicato alle tematiche religiose, dal Cristianesimo (con la presenza di movimenti cristiano-sociali e fenomeni quali la Unity Church e il
Social Gospel) ai maestri del Buddhismo e dell’Induismo con
le loro implicazioni mistiche ed esoteriche, fino agli scritti dei
fondatori della Theosophical Society, con il concetto di
un’unica verità divina che si rivela nella diversità delle religioni.
Molti i libri storici sull’indipendenza americana e sulle personalità che hanno contribuito a costruirla, ma sono presenti
anche problematiche come l’immigrazione e le minoranza
perseguitate, le posizioni antimilitariste e il pacifismo estremo, con opere che fanno conoscere la voce di molti premi
Nobel per la pace.
129
ricerche
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
Le
parole
chiave
“evoluzione, educazione”,
ma soprattutto “conoscenza
libera, senza confini o definizioni”, sono evidenziate
dalla grande varietà dei temi e delle posizioni che la
biblioteca di casa Andersen
rappresenta: ci sono
l’approccio didattico all’arte
così come le teorie
sull’estetismo puro; troviamo i grandi romanzi sociali
del realismo accanto a quelli che prediligono la psicologia del personaggio e la
sua umanità; il teatro sociale di Ibsen, Shaw e Sheldon
e la concezione di una regia
e scenografia non tradizionali di Craig; non mancano
i Classici greci, latini e della
letteratura antica europea e
sono presenti la mitologia classica e quella nordica; la grande
epopea delle esplorazioni, dalle realtà dell’Africa alle imprese
di Nobile e Shackleton. Tra i volumi si muovono in consonanza eroi ed antieroi, figure nuove ed antiche, idee ed esperienze di vita!
BIBLIOGRAFIA
Francesca Fabiani, Hendrik Christian Andersen; la vita, l’arte, il sogno.
La vicenda di un artista singolare, Roma, Gangemi, 2003.
130
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
introduzione
5
M. AMATURO
Hendrik e Olivia: due vite una passione
allestimenti
15
M. DE LUCA
F. DI FABIO
26
B. MARCELLI
32
SUSANNE MEURER
“E la cosa più difficile diventa facile”.
Esperienze educative per le scuole
al Museo H. C. Andersen
Il Museo Andersen tra antico e contemporaneo
L’arte va in scena…
indice
ricerche
41
M. S. CARDULLI
50
V. FILAMINGO
58
M. G. DI MONTE
66
P. A. CIRIGLIANO
71
P. CASTELLI
La Villa Helene di Hendrik Christian Andersen:
aspetti urbanistici e architettonici
Il Centro Mondiale di Comunicazione
nel contesto della modernità
Henry James e i suoi amici
Case museo: oggetti e spazi pervasi
dallo spirito del tempo
Travestirsi da se stessi. Mimesi, dandismo e
crossdressing nell’autorappresentazione di
Hendrik Christian Andersen
MUSEO H. C. ANDERSEN: ALLESTIMENTI E RICERCHE
83
C. RINALDI
94
V. PIOMBAROLO
Olivia Cushing e l’Oriente:
arte, cultura, spiritualità
"Favole, animali, personaggi e vignette:
l’illustrazione per l’infanzia nella cerchia degli
amici di Hendrik e Andreas Andersen".
L. RIJTANO
L. CAMPANELLI
121
C. PALMA
128
G. TALAMO
La biblioteca di Olivia e Hendrik: “i buoni libri”
indice
104
Hendrik Christian Andersen e Le Corbusier.
Percorsi paralleli.
Racconti di vita nelle carte dell'Archivio Andersen
MUSEO ANDERSEN:
ALLESTIMENTI E RICERCHE
SOPRINTENDENTE
MARIA VITTORIA MARINI CLARELLI
DIRETTRICE
MATILDE AMATURO
PROGETTO GRAFICO
ALESSANDRO MARIA LIGUORI
FABIANA VEROLINI
FOTO
ENZO RIGGIO
SILVIO SCAFOLETTI
SPAZIO VISIVO