Catalogo 2005 PDF - 7.6 Mb - 52a Mostra Internazionale del Nuovo

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Catalogo 2005 PDF - 7.6 Mb - 52a Mostra Internazionale del Nuovo
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CATALOGO DELLA 41a MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA
A cura di Mazzino
Montinari
Traduzioni in inglese di Natasha Senjanovic
AVVERTENZA
Le abbreviazioni usate significano: doc (documentario); Cm (cortometraggio); Mm (mediometraggio);
b/n (bianco&nero).
© 2005 Fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus
Via Villafranca, 20
00185 Roma
Finito di stampare
nel mese di giugno 2005
presso la tipografia Lineagrafica - Roma
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LA MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO CINEMA
È STATA REALIZZATA CON IL CONTRIBUTO DI
MINISTERO PER I BENI
E LE ATTIVITÀ CULTURALI
COMUNE DI PESARO
PROVINCIA DI
PESARO E URBINO
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Fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus
41a MOSTRA INTERNAZIONALE
DEL NUOVO CINEMA
Pesaro, 25 giugno – 3 luglio 2005
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FONDAZIONE
PESARO NUOVO CINEMA Onlus
Stagisti
Stefano Gentili, Manuel Pecoraro
Soci fondatori
Comune di Pesaro
Luca Ceriscioli, Sindaco
Traduzioni
dall’inglese Laura Palandrani
dall’inglese e dal tedesco Paola Fragalà
dallo spagnolo Amanda Lorenzo
Provincia di Pesaro e Urbino
Palmiro Ucchielli, Presidente
Regione Marche
Gian Mario Spacca, Presidente
Fiorangelo Pucci, Delegato
Consiglio di Amministrazione
Luca Ceriscioli, Presidente
Luca Bartolucci, Gianaldo Collina, Alessandro Fattori,
Simonetta Marfoglia, Franco Marini, Ornella Pucci,
Paolo Sorcinelli, Aldo Tenedini
Segretario generale
Ennio Braccioni
Amministrazione
Lorella Megani
Coordinamento
Viviana Zampa
41a MOSTRA INTERNAZIONALE DEL NUOVO
CINEMA
Comitato Scientifico
Bruno Torri, Presidente
Adriano Aprà, Pierpaolo Loffreda, Giovanni Spagnoletti, Vito Zagarrio
Direzione artistica
Giovanni Spagnoletti
Direzione organizzativa
Pedro Armocida
Assistente alla programmazione
Linda Somma
Segreteria
Maria Grazia Chimenz
Ufficio Documentazione e Catalogo
coordinamento presentazione libri
Mazzino Montinari
Movimento copie
Anthony Ettorre
Accrediti e ospitalità
Michela Paoletti
con la collaborazione di
Elena Urciuolo, stagista
Collaborazione alla sezione “Jang Sun-woo e Korean Digital”
Davide Cazzaro
Collaborazione alla retrospettiva “Víctor Erice”
Pedro Armocida
Coordinamento conferenze stampa e concorso video
Pierpaolo Loffreda
Giuria Concorso Video: “L’Attimo Fuggente”
Giuliana Gamba (Presidente), Paolo Angeletti, Gualtiero
De Santi, Alberto Pancrazi, Fiorangelo Pucci
Traduzioni simultanee
Anna Ribotta, Simonetta Santoro, Marina Spagnuolo
Progetto di comunicazione
la COLONIA della comunicazione
Facoltà di Sociologia
Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo"
Marco Livi, direzione creativa
Alessandro Capanna, Gabriele Muscatello, Stefano
Menconi, Luca Sarti,
Alessandro Sartori, grafica
Coordinamento proiezioni
Gilberto Moretti
Consulenza assicurativa
I.I.M. di Fabrizio Volpe, Roma
Trasporti
Stelci & Tavani, Roma
Ospitalità
A.P.A., Pesaro
Sottotitoli elettronici
Napis, Roma - [email protected]
Allestimento “Cinema in piazza” e impianti tecnici
L’image s.r.l., Padova
Pubblicità
Dario Mezzolani
Viaggi
Playtime della EDO Viaggi Srl, Roma
Ufficio stampa
Studio Morabito
Mimmo Morabito (responsabile)
Rosa Ardia (assistente)
con la collaborazione di
Roberto Donati, Francesca Battistoni
Stampa regionale
Beatrice Terenzi
Selezione e coordinamento “Proposte Video”
Andrea Di Mario
Corrispondente in Germania
Olaf Möller
Sito internet
Claudio Gnessi
Realizzazione immagini su internet
Federico Greco
Database generale Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Luca Franco
MOSTRA INTERNAZIONALE
DEL NUOVO CINEMA
Via Villafranca, 20 - 00185 Roma
tel. (+39) 06 491156 / (+39) 06 4456643
fax (+39) 06 491163
www.pesarofilmfest.it
e-mail: [email protected]
[email protected]
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Si ringraziano
AB Film (Angelo Bassi)
AGIS-ANEC
Ambasciata di Finlandia (Sickan Park, Pirkko Rossi)
Avril Philippe
BIM Film (Valerio De Paolis, Antonio Medici)
Catalan Films & TV (Mercè Ayesta)
Celluloid Dreams (Pascale Ramonda)
Ciné Tamaris (Cecilia Rose)
Classic Storie (Irene Ranzato, Elisabetta)
D’Urso Vincenza
Doo Entertainment (Choi Doo-Young, Park Jin-Weon)
East Film Co. (Ryu Jin-ok, Jung Sue-yeon)
Elías Querejeta P.C.
Envies de Tempête Productions (Yves Le Yaouanq, Frédéric Dubreuil)
Farabi Cinema Foundation
Freunde der Deutschen Kinemathek (Karol Winter)
Grupo Novo de Cinema e Tv / Brazilian Cinema Promotion (Susana Schild)
Hayashi Kanako
Indies Film
Instituto Cervantes (Luis Javier Ruiz Sierra, Ana Vázquez
Barrado, Olivia Gallego)
Kinotar (Hannes Vartiainen, Lasse Saarinen, Aretta Vähälä)
KOFA Korean Film Archive
KOFIC Korean Film Council (Won Chun-sik, Park Dukho, Kim Hawon, Jung Hyunchang, Lee Keun-sang)
Latini Giulio
Lorenzo Martín Amanda
Lucky Red (Georgette Ranucci, Stefano Massenzi)
Martinotti Francesco
Mdc int. GmbH (Marta Lamperova)
Mikado Film
Ministerio de Cultura, I.C.A.A. Instituto de la Cinematografía y de las Artes Audiovisuales (Manuel Llamas)
Moonfish Films
Motel Films (Jessica van Hoorn)
Onoma International (Cécile Penavayre)
Pagani Amedeo
Paquet Darcy
Park Ki-yongz
PIFF (Dosin Pak, Huh Moon-yung, Kim Dong-ho, Lee
Yong Kwan)
Polacchi Elena
Primer Plano (Julia Meik)
Quinzaine des Réalisateurs/Cannes 2005
Retzler Mary (Cathay Pacific Airways)
Ripley’s Filmmakers’ COOP NY (Angelo Draicchio)
Rosebud Films (Beatriz Abad)
Schmidt Arnold
Semaine Internationale de la Critique/Cannes 2005
(Marianne Guillon)
Sheherazad Media International (Ziba Shahpoori, Katayoon Shahabi)
Sixpackfilm (Brigitta Burger-Utzer, Ute Katschthaler)
Sony Pictures Releasing International (Sal Ladestro, Alyson Dewar, Cathy Escandell)
Sunday Morning Productions (Mikhaël Hers)
The Finnish Film Foundation (Marja Pallassalo )
Thule Film (Silvana Leonardi)
Tube Entertainment (Jisun Back)
Vidal Nuria
Villa-Lobos Francisco
Wanda Visión
www.cinemacoreano.it
Zip Films (Marina Lahoz)
Nel complesso del sistema audiovisivo italiano, i festival rappresentano
un soggetto fondamentale per la promozione, la conoscenza e la diffusione della cultura cinematografica e audiovisiva, con un’attenzione
particolare alle opere normalmente poco rappresentate nei circuiti commerciali come ad esempio il documentario, il film di ricerca, il cortometraggio. E devono diventare un sistema coordinato e riconosciuto dalle
istituzioni pubbliche, dagli spettatori e dagli sponsor.
Within the framework of the Italian audiovisual system, film festivals are
fundamental in the promotion, awareness and diffusion of cinema and
audiovisual culture, as they pay particular attention to work that is
usually not represented by commercial circuits, such as, for example,
documentaries, experimental films and short films. And they must become
a system that is coordinated and recognized by public institutions, spectators and sponsors alike.
Per questo motivo e per un concreto spirito di servizio è nata nel novembre 2004 l’Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic). Gli associati
fanno riferimento ai principi di mutualità e solidarietà che già hanno
ispirato in Europa l’attività della Coordination Européenne des Festivals. Inoltre, accettando il regolamento, si impegnano a seguire una
serie di indicazioni deontologiche tese a salvaguardare e rafforzare il
loro ruolo.
For this reason, and in the explicit spirit of service, the Association of Italian Film Festivals (Afic) was founded in November, 2004. The members
follow the ideals of mutual assistance and solidarity that are the guiding
principles of the Coordination Européenne des Festivals and, upon accepting the Association's regulations, furthermore strive to adhere to a series
of ethical indications aimed at safeguarding and reinforcing their role.
L’Afic nell’intento di promuovere il sistema festival nel suo insieme,
rappresenta già oggi più di trenta manifestazioni cinematografiche e
audiovisive italiane ed è concepita come strumento di coordinamento e
reciproca informazione.
In its objective to promote the entire festival system, the Afic already
represents over thirty Italian film and audiovisual events and was conceived as an instrument of coordination and the reciprocal exchange of
information.
Aderiscono all’Afic le manifestazioni culturali nel campo dell’audiovisivo caratterizzate dalle finalità di ricerca, originalità, promozione dei
talenti e delle opere cinematografiche nazionali ed internazionali.
The festivals that are part of the Afic are characterized by their search for
the new, originality, and the promotion of talent and national and international films.
L’Afic si impegna a tutelare e promuovere, presso tutte le sedi istituzionali, l’obiettivo primario dei festival associati.
The Afic is committed to protecting and promoting, through all of its
institutional branches, the primary objective of the member festivals.
Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic)
Via Villafranca, 20
00185 Roma
Italia
Associazione Festival Italiani di Cinema (Afic)
Via Villafranca, 20
00185 Roma
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IL PROGRAMMA MEDIA DELLA COMMISSIONE EUROPEA
A SOSTEGNO DEI FESTIVAL CINEMATOGRAFICI
THE MEDIA PROGRAMME OF THE EUROPEAN COMMISSION SUPPORTED AUDIOVISUAL FESTIVALS
Anche se fugaci momenti di festa e di incontri, i festival di cinema e di televisione, svolgono un ruolo estremamente importante nella promozione dei
film europei. Tali eventi presentano un numero considerevole di produzioni audiovisive, costituendo un punto di passaggio quasi obbligato nella
commercializzazione delle opere: senza i festival migliaia di film e video
resterebbero, in mancanza di acquirenti, sugli scaffali. Attualmente, il
numero di spettatori che vi partecipano – due milioni – garantisce il loro
reale impatto economico, senza parlare del ruolo da essi svolto sul piano
culturale, sociale ed educativo, che sta generando livelli crescenti di impiego diretto e indiretto in tutta Europa.
È ovvio che il Programma MEDIA della Commissione Europea sostenga
queste manifestazioni, cercando di migliorare le condizioni per la distribuzione e la promozione delle opere cinematografiche europee in tutto il
continente. A tale scopo, esso aiuta più di cento festival che beneficiano di
un supporto finanziario di oltre 2 milioni di Euro.
Ogni anno, grazie all’azione di questi festival e al contributo della Commissione, circa 10.000 opere audiovisive, che illustrano la ricchezza e la
diversità delle cinematografie europee, vengono proiettate. L’ingresso nel
Programma di undici nuovi paesi – Lettonia, Estonia, Polonia, Bulgaria,
Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Lituania, Malta e Cipro,
non può che risultare fruttuoso su questo piano.
Inoltre, la Commissione sostiene ampiamente la messa in rete di questi
festival. In tale settore, le attività del Coordinamento Europeo dei Festival
di Cinema favoriscono la cooperazione tra manifestazioni, rafforzando il
loro impatto attraverso lo sviluppo di operazioni comuni.
Fleeting times of celebration and encounters, film and television festivals nevertheless play an extremely important role in the promotion of European films. These
events screen a considerable number of audiovisual productions, acting as a near
obligatory means of securing commercial success: without festivals thousands of
films and videos would remain, buyer-less, on the shelves. The number of spectators now drawn to festivals – two million – ensures their real economic impact, not
to mention their cultural, social and educational role, creating increasing levels of
direct and indirect employment across Europe.
It is evident that the MEDIA Programme of the European Commission support
these events, endeavouring to improve the conditions for the distribution and promotion of European cinematographic work across Europe. To this end, it aids more
than 100 festivals, benefiting from over 2 million Euros in financial aid. Each
year, thanks to their actions and the Commission’s support, around 10 000 audiovisual works, illustrating the richness and the diversity of European cinematographies, are screened. The entrance into the Programme of eleven new countries –
Latvia, Estonia, Poland, Bulgaria, the Czech Republic, Hungary, Slovakia, Slovenia, Lithuania, Malta and Cyprus, can only increase the fruits of this labour.
In addition, the Commission supports the networking of these festivals. In this
area, the activities of the European Coordination of Film Festivals encourage cooperation between events, strengthening their impact in developing joint activities.
Contantin DASKALAKIS
Acting Head of Unit, MEDIA Programme
Constantin DASKALAKIS
Programma MEDIA
Programma MEDIA, partner della Mostra Internazionale del Nuovo
Cinema, 41ª edizione, 2005
he MEDIA Programme, partner
of the 41st Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, 2005
Commissione Europea
Programma MEDIA II - festival audiovisivi
EAC – T120 1/74
B-1049 Brussels
Tel. +32 2 295 95 30 o Fax + 32 2 299 92 14
European Commission
MEDIA II Programme – audiovisual festivals
EAC – T120 1/74
B-1049 Brussels
Tel. +32 2 295 95 30 o Fax + 32 2 299 92 14
Il Coordinamento europeo dei Festival del Cinema riunisce più di 170
manifestazioni dedicate a differenti tematiche e formati, tutte impegnate
nella difesa del cinema europeo. Questi festival rappresentano, con alcune
eccezioni, l’insieme dei paesi della Comunità Europea.
The European Coordination of Film Festival is composed of 170 festivals of different themes and sizes, all dedicated to promoting European Cinema. All member countries of the European Union are represented, as well as some other European countries.
Il Coordinamento sviluppa una serie di azioni comuni e di cooperazioni a
beneficio dei membri, nella prospettiva di valorizzare le cinematografie
europee e di migliorare la loro diffusione e la conoscenza presso il pubblico.
The Coordination develops common activities for its members through cooperation, aimed at promoting European Cinema, improving circulation and raising
public awareness.
Al di là di queste azioni comuni, il Coordinamento incoraggia inoltre le
cooperazioni bilaterali e multilaterali tra i suoi membri.
Besides these common activities, the Coordination also encourages bilateral and
multilateral projects among its members.
Il Coordinamento ha elaborato un codice deontologico, adottato dall’insieme dei suoi membri, che mira a armonizzare il lavoro dei festival.
The Coordination has created a code of ethics, which has been adopted by all its
members, to encourage common professional practise.
Il Coordinamento è anche un centro di documentazione e incontro tra i
festival.
The Coordination is also an information centre and a place for festivals to meet.
Coordination Européenne
des Festival de Cinéma GEIE
64, rue Philippe Le Bon
B-1000 Bruxelles
Belgique
European Coordination
of Film Festivals GEIE
64, rue Philippe Le Bon
B-1000 Brussels
Belgium
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INDICE
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INTRODUZIONE
di Giovanni Spagnoletti
SELEZIONE UFFICIALE
15
Concorso Pesaro Nuovo Cinema - Premio Lino Miccichè & Cinema in Piazza
31
19° Evento Speciale: La Balia di Marco Bellocchio
RETROSPETTIVE E OMAGGI
37
Jang Sun-woo
57
Korean Digital
73
Kinotar e Mika Taanila
91
Víctor Erice
109
FUORI PROGRAMMA
123
PROGETTOVIDEO
RETROSPETTIVE E OMAGGI
125
Laura Waddington
135
Carlo Michele Schirinzi
155
Cane Capovolto
183
NUOVE PROPOSTE VIDEO E DOCUMENTANDO
194
VIDEO DA “TRANSMEDIALE”
195
CONCORSO VIDEO “L’ATTIMO FUGGENTE”
VIDEO DALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO
196
VIDEO DAL LEMS
197
INDICE DEI REGISTI E DEI FILM
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Pesaro 2005: I nostri primi quarant’anni
Pesaro 2005: Our First Forty Years
di Giovanni Spagnoletti
by Giovanni Spagnoletti
Dopo la Mostra dell’anno scorso in cui abbiamo festeggiato la nostra quarantesima edizione, inevitabilmente ci troviamo ora, nel 2005, a compiere quarant’anni tondi di
lavoro e a presentare qui il programma. E’ questa un’occasione utile non tanto per guardare indietro con soddisfazione a un passato glorioso quanto invece per continuare,
per quanto possibile, quella ricerca del “nuovo” che da
sempre ha caratterizzato lo spirito più vero della manifestazione pesarese. Ma per fare due passi avanti bisogna
anche farne uno indietro. Ad esempio il momento per
occuparsi oggi di cinema sudcoreano è molto propizio –
qualcuno potrebbe dire, con una punta snob, persino troppo scontato -, di certo comunque più propizio del 1992
quando, per prima in Europa, la Mostra Internazionale del
Nuovo Cinema aveva dedicato a quell’importante cinematografia un’ampia e pionieristica retrospettiva. A partire da
allora, infatti, la politica, la società e il cinema nella Corea
del Sud hanno conosciuto enormi cambiamenti, innescati
in gran parte dall’insediamento del primo governo civile
(1993) dopo decenni di regimi e dittature militari. Gli anni
Novanta hanno rappresentato un periodo di rapida trasformazione finendo per rifondare in modo quasi totale
una delle industrie cinematografiche più regolamentate al
mondo, tenuta sotto il giogo della censura, indebolita dalla concorrenza della distribuzione americana e dall’indifferenza del proprio pubblico. Oggi una nuova e dinamica
leva di giovani registi, l’afflusso di nuovi investimenti e
una crescente varietà di generi, temi e stili hanno sancito
da circa un decennio la (ri)nascita del cinema coreano. E
dopo Hong Kong, Giappone, Cina e Taiwan, da alcuni
anni a questa parte, giustamente si fa un gran parlare a
livello critico di essa. A partire da questo contesto, abbiamo scelto di mettere sotto osservazione il caso della Corea
del Sud tramite una duplice iniziativa: 1) un “breve incontro” con il suo recente cinema digitale, la strada più praticata dal cinema indipendente di quel paese (ma non solo
lì) per esprimersi in modo diverso e personale rispetto ai
blockbuster ad alto costo globalizzati che contraddistinguono la più recente fase di sviluppo del cinema dell’Estremo Oriente; 2) una retrospettiva dell’opera di uno dei
massimi protagonisti della “nouvelle vague” coreana: Jang
Sun-woo. Un innovatore controverso e sempre provocatorio, in grado di riassumere e distanziarsi al contempo dalle molteplici tendenze della produzione locale e di mutare
le forme e i soggetti del proprio narrare in modo coerente
rispetto ai cambiamenti della società e della cultura che lo
circonda. Un cineasta atipico fin dalla sua formazione –
nessun particolare interesse per il cinema fino a quasi l’età
di trent’anni, nessuna scuola di cinema e pochissimo
apprendistato al mestiere –, un autore che, nella sua filmografia tanto ambiziosa e articolata quanto sincera e affascinante, spazia dal sesso, alla politica e alla religione.
Oltre alla Corea del Sud e tornando nella vecchia Europa,
un secondo paese è ospite quest’anno della Mostra: la Finlandia, una zona di confine dove la Storia (tragica) si è
intrecciata a storie di passaggio e di transito. Nello scacchiere geo-politico, incapsulata tra Est e Ovest almeno fino
alla caduta del Muro, e comunque per quasi tutto il tragi-
After last year’s festival, during which we celebrated our 40th
edition, we inevitably find ourselves now, in 2005, fully entering
our forties in terms of our work in general and this year’s program in particular. This is therefore a good opportunity not so
much for looking back with satisfaction on a glorious past, but
for continuing, to the best of our capabilities, the search for the
“new” that has always characterized the true spirit of the Pesaro
Film Festival. In order to take two steps forward, however, we
must also take one back. For example, the moment to dedicate
ourselves to South Korean cinema is a very auspicious one –
some might say, with some snobbery, even too much of a given –
certainly more so than in 1992 when, for the first time in Europe,
the Pesaro Film Festival held a broad and groundbreaking retrospective on that country’s cinema.
Since then, in fact, the politics, society and cinema of South
Korea have undergone enormous change, triggered in large part
by the inauguration of the first civilian government (in 1993),
after decades of military regimes and dictatorships. The 1990s
represented a period of rapid transformation, and ended in reestablishing, almost entirely, one of the most regulated film
industries in the world, kept under the yoke of the censors and
weakened by the diffusion of American films and the indifference
of local audiences. Today, a new and dynamic generation of
young directors, the influx of new investments and a growing
variety of genres, themes and styles have been announcing the
(re)birth of Korean cinema for approximately a decade. And after
Hong Kong, Japan, China and Taiwan, western critics have been
extolling South Korean cinema for several years now, and rightfully so. From this context, we have chosen to place South Korea
under observation through a double initiative: 1) a “brief
encounter” with its recent digital films, the most well-worn path
that independent cinema in South Korea (as elsewhere) has chosen to express itself in a different and personal way in respect to
the globalized, high cost blockbusters that distinguish the most
recent developments in Asian cinema; 2) a retrospective on one
of the leading figures of the Korean “new wave,” Jang Sun-woo,
a controversial innovator and eternal provocateur, capable of
simultaneously representing and distancing himself from the
multiple tendencies of local production, as well as coherently
mutating the forms and themes of his own stories in respect to
the changes within the society and culture that surround him.
An atypical filmmaker from the beginning: no particular interest in cinema until he was almost thirty, no film school education and hardly any apprenticeships in the field. An auteur
whose filmography, as ambitious and articulated as it is honest
and fascinating, ranges from sex to politics to religion.
Along with South Korea, and to return to “old” Europe, this
year’s second guest country at the festival is Finland, a border
zone where history has become intertwined with stories of passage and transit. In the geo-political chessboard, caught between
the East and the West (at least until the fall of the Wall, and nevertheless throughout almost the entire tumultuous and tragic
previous century), the Finns experienced the events of the 20th
century as a delicate balancing act along a tightrope stretched
first between Hitler and Stalin and, later, between NATO and
the Warsaw Pact. The memory of all that is very much alive in
Finland while, besides the Kaurismaki brothers, its cinema is
still one of the very few “UFOs” among European cinema, even
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co secolo scorso, la nazione finlandese ha vissuto gli eventi del ‘900, camminando, in difficile equilibrio, lungo una
corda tesa sull’orlo del baratro, stretta cioè, prima, tra Hitler e Stalin e poi tra la Nato e il Patto di Varsavia. La
memoria di tutto ciò è ancora vivissima in Finlandia mentre, a parte i fratelli Kaurismaki, il suo cinema resta ancor
oggi, pur nella nostra epoca dell’informazione totale, uno
dei pochissimi Ufo tra tutte le cinematografie europee.
L’ampia retrospettiva qui proposta, dedicata alla casa di
produzione e di distribuzione “Kinotar” - la prima se non
andiamo errati della storia di Pesaro dedicata ad un “gruppo produttivo” e non a un autore del cinema - trova una
propria valida motivazione non tanto in un banale proposito informativo, quanto nel piacere della scoperta di un
dimensione vicina (relativamente) e lontana al tempo stesso. L’occhio filmico dei registi finlandesi o meglio di registe donne - anche questo un aspetto non certo privo d’interesse - segue, come scrive in questo Catalogo Mazzino
Montinari, non casualmente delle “esistenze in transito. E’
un cinema che racconta le storie al plurale, che si muove su
strade di confine accidentate e che cerca affannosamente di
raccogliere le testimonianze di individui che in ogni istante si chiedono, o impongono allo spettatore di chiedersi,
che cosa significhi stare a questo mondo. I sette documentari [proposti] … hanno un comune denominatore. Tutti i
personaggi e i testimoni ripresi dalle macchine da presa e
dalle agili videocamere digitali si sentono al limite tra l’essere e il non essere in questo mondo, tra l’avvertire che in
questo mondo abitano e il percepire che questo stesso
mondo non abita dentro di loro”. Dunque molto documentario e molto digitale (ancora e ce ne sarà sempre più!),
ma ciò non esaurisce la nostra selezione dal catalogo
“Kinotar”: oltre a due opere di fiction (ma con molti elementi di cinema testimoniale), questa volta dirette da
uomini, la casa finlandese ha prodotto e produce l’opera
poliedrica e multiforme di uno dei più noti artisti internazionali, Mika Taanila, la cui opera spazia tra cinema, arte
contemporanea, musica elettronica e del quale presentiamo una personale completa.
Non vale quasi la pena spendere delle parole per presentare la personalità di Víctor Erice, il massimo regista spagnolo vivente, che terrà a Pesaro una lezione di cinema
oltre ad accompagnare le sue opere. Formazione di critico
negli anni Sessanta, è autore solo di tre lungometraggi
(1973: El espiritu de la colmena, un complesso viaggio nel
mondo dell’infanzia; nel 1982: El Sur; nel 1992: El sol del
membrillo) che gli hanno valso una fama internazionale
invidiabile e sono annoverati tra le opere più importanti di
lingua spagnola (e non).
Con un occhio attento alle nuove tendenze internazionali
(soprattutto provenienti dall’Oriente) prosegue la Sezione
a concorso del Festival (5.000 euro al vincitore) che da quest’anno sarà intitolato alla memoria del fondatore della
Mostra del Nuovo Cinema, Lino Miccichè, purtroppo
deceduto durante la passata edizione. Così come proseguono le otto proiezioni serali a “cielo aperto” nella piazza principale di Pesaro, tra cui gli spettatori assegneranno,
come da tempo, il tradizionale “Premio del pubblico”.
Nei “Fuori Programma” oltre agli ultimi lavori di alcuni
nostri cineasti “beneamati” (Agnès Varda, Gustav
Deutsch), segnaliamo, tra l’altro, un mini-omaggio a l’enfant terrible del cinema filippino Khavn de La Cruz che con
10
in our era of information overload. The ample retrospective
offered here, dedicated to the Kinotar production company – the
first, if we are not mistaken, of such retrospectives at Pesaro,
dedicated to a production group and not to a single filmmaker –
is motivated not so much by a prosaic offering of information as
by our pleasure in discovering a dimension that is simultaneously (relatively) near and far. The cinematic eye of the Finnish
directors presented here, most of them female – another interesting aspect – follows these “lives in transit,” as Mazzino Montinari writes in this catalogue. They are films with multiple stories, which move along uneven border roads, anxiously seeking
to gather the testimonies of individuals who continuously ask
themselves, or force the spectators to ask themselves, what it
means to be a part of this world. The seven documentaries offered
here share a common denominator. All of the characters and witnesses captured by the movie cameras and agile digital cameras
feel themselves to be caught between being and not being a part
of this world; as if they live in this world yet perceive that this
same world, however, does not live inside of them. Therefore,
numerous documentaries and digital films (of which there will
continue to be many more in the years to come!). Yet that does
not represent our entire selection from the Kinotar catalogue.
Besides two fiction works (which nevertheless contain many elements of “testimonial cinema”), directed by men, the Finnish
production company has produced and continues to produce the
eclectic and manifold works of one of the world’s most renowned
artists, Mika Taanila, whose work ranges from film, contemporary art and electronic music, and to whom we have dedicated a
complete retrospective.
It is almost unnecessary to present Víctor Erice, the greatest living Spanish director, who will not only accompny his work but
honor us with a film class as well. A film critic since the 1960s,
he has made only three feature films (1973: The Spirit of the
Beehive, a complex journey into the world of childhood; in
1982, The South; in 1992, The Quince Tree Sun), which have
earned him enviable international acclaim and are considered to
be among the most important films of the Spanish language (and
beyond).
With an attentive eye towards new international tendencies,
(especially those from Asia), the Competition Section will once
again offer a 5,000 Euro prize and will be re-named in memory
of Pesaro Film Festival co-founder Lino Miccichè, who sadly
passed away during last year’s festival. We will also naturally
continue our nightly open-air screenings in Pesaro’s main
square, where spectators will choose the traditional Pesaro Audience Award.
In the Fuori Programma section, along with the latest works of
some of our most “beloved” filmmakers (such as Agnès Varda
and Gustav Deutsch), we also offer a mini-homage to the enfant
terrible of Filipino cinema, Khavn de La Cruz, whose iconoclastic digital works will surely stir up interest (and not only)
among film experts and fans of “demented cinema.”
The complete retrospective on Marco Bellocchio, as well as a conference and a photography exhibit, organized by Adriano Aprà,
makes up the 19th “Special Event,” whose relevance is selfexplanatory and needs no further commentary. Except perhaps
that we could mention that this is yet another splendid opportunity to enjoy and/or re-examine one of the best and most vital of
our filmmakers.
From among our wide and varied video section, programmed as
always by Andrea Di Mario, we must at the very least point out
three important retrospectives: two on Italian artists and one
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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le sue opere iconoclaste in digitale di sicuro desterà interesse (ma non solo) tra i cinefili e gli appassionati del
“cinema demenziale”.
La retrospettiva completa di Marco Bellocchio (insieme ad
un convegno e a una mostra fotografica) riempie il cartellone del 19° “Evento speciale”, curato da Adriano Aprà, la
cui rilevanza si commenta da sé e non richiede ulteriori
spiegazioni. Se non ricordare che si tratta di un’altra splendida occasione per gustare e/o ristudiare uno dei cineasti
più validi e vitali del nostro cinema.
Nell’ampia e variegata programmazione della sala video,
per la cura di Andrea Di Mario, ci preme segnalare per lo
meno i tre omaggi retrospettivi: due italiani e quello all’inglese Laura Waddington, artista già molto stimata e conosciuta a livello internazionale. Fondato nel 1992, il gruppo
catanese di Cane CapoVolto si è fatto notare per il suo
riutilizzo dell’informazione visiva, letteraria e sonora,
indagine che si è poi estesa al radiodramma, con cui è
affrontato linguisticamente e polemicamente il meccanismo della persuasione. Attivo anche nel campo delle tecniche miste tra video, fotografia e pittura, Carlo Michele
Schirinzi è, invece, un videasta i cui lavori, attenti soprattutto alla bidimensionalità dell’immagine hanno partecipato con successo dal 2000 alle più importanti manifestazioni nazionali e internazionali, ottenendone significativi
riconoscimenti.
Probabilmente ci siamo dimenticati qualcosa… ma che
altro aggiungere se non: Buon Festival!
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dedicated to English video and filmmaker Laura Waddington,
who is already esteemed and well-known around the world.
Founded in 1992, the Sicilian collective Cane CapoVolto first
drew attention to themselves for their re-utilization of visual, literary and sound information, a search that later expanded to
include the radio play, which is compared linguistically and controversially to the language of persuasion. An artist who passionately mixes video, photography and painting techniques,
Carlo Michele Schirinzi is a videomaker whose works, focused
above all on the bi-dimensionality of the image, have been presented in the most important national and international festivals
since 2000, earning him significant acclaim.
We’ve probably forgotten something…but when else can we add
except: Enjoy the festival!
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SELEZIONE UFFICIALE
Concorso Pesaro Nuovo Cinema - Premio Lino Miccichè
Cinema in Piazza
19° Evento Speciale: La Balia di Marco Bellocchio
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LA GIURIA
ERALDO AFFINATI
Nato a Roma nel 1956, è scrittore, insegnante e giornalista. Ha pubblicato “Veglia d’armi”, “L’uomo di Tolstoj” (1992), “Soldati del 1956” (1993), “Bandiera bianca” (1995, Premio Bergamo), “Patto giurato”, “La poesia di Milo De Angelis” (1996), “Campo del sangue” (1997, Selezione Premio Campiello e Strega), “Uomini pericolosi” (1998, Premio Palmi), “Il nemico negli occhi” (2000, Premio Pisa), “Un teologo contro Hitler”. “Sulle tracce di Dietrich Bonhoeffer” (2002, Premio Omegna), “Secoli di gioventù” (2004, Premio
Grinzane Cavour). I suoi libri sono editi da Mondadori. Nel 2003 ha curato “Storie dall’Altipiano”, l’opera omnia di Mario Rigoni Stern (I Meridiani, Mondadori).
Born in Rome in 1956, Eraldo Affinati is a writer, teacher and journalist. His published works
include Veglia d’armi, L’uomo di Tolstoj (1992), Soldati del 1956 (1993), Bandiera bianca
(1995, Premio Bergamo), Patto giurato, La poesia di Milo De Angelis (1996), Campo del
sangue (1997, Selezione Premio Campiello e Strega), Uomini pericolosi (1998, Premio Palmi),
Il nemico negli occhi (2000, Premio Pisa), Un teologo contro Hitler, Sulle tracce di Dietrich
Bonhoeffer (2002, Premio Omegna) and Secoli di gioventù (2004, Premio Grinzane Cavour).
His books are published by the Mondadori Publishing Company. In 2003, he edited Storie dall’Altipiano, the complete works of Mario Rigoni Stern (I Meridiani, Mondadori).
MARIA PIA FUSCO
Inviata da lungo tempo del quotidiano “La Repubblica”, ha vissuto per cinque anni a
Londra dove ha esordito nel mondo del cinema come sceneggiatrice con Ennio De Concini, di film come Daniele e Maria, Gli ultimi dieci giorni di Hitler, Salon Kitty. La sua carriera ha avuto inizio alla Rai come autrice di programmi radiofonici giornalistici e culturali, la collaborazione è continuata fino al suo ingresso a “Repubblica” nel 1979. Attualmente oltre alla stampa scritta, cura una rubrica di informazione cinematografica su
“Radio Capital” e interventi di spettacolo su “Repubblica Radio.”
Maria Pia Fusco, a long-time correspondent for the daily newspaper La Repubblica, spent five
years in London, where she debuted as a screenwriter with director Ennio De Concini, on films
such as Daniele and Maria, Hitler: The Last Ten Days and Salon Kitty. She began her career
at RAI, as the creator of numerous journalistic and cultural radio programs, and worked there
until she started writing for La Repubblica in 1979. Currently, besides print journalism, she regularly conducts cinema-related programs on Radio Capital and Repubblica Radio.
GIUSEPPE PICCIONI
Nato nel 1953 ad Ascoli Piceno, ha esordito alla regia con Il grande blek (1987) interpretato da Sergio Rubini e da Roberto De Francesco. Il film è stato premiato con un Nastro
d’argento. Seguono Chiedi la luna (1990) con Margherita Buy e Giulio Scarpati. Di seguito firma Condannato a nozze (1992) e Cuori al verde (1995). Nel 1999 dirige Fuori dal mondo
con Margherita Buy e Silvio Orlando. Il film fa incetta di David e ottiene un buon successo di pubblico. Poi è la volta di Luce dei miei occhi (2002) che vale la coppa Volpi a Venezia come migliori interpreti a Luigi Lo Cascio e Sandra Ceccarelli. La stessa coppia di
attori è protagonista nell’ultimo film di Piccioni, La vita che vorrei.
Born in 1953 in Ascoli Piceno, he debuted as a director with Il Grande Blek (1987), featuring
Sergio Rubini and Roberto De Francesco, which won him a Nastro d’argento award. His subsequent films include Ask For the Moon (1990), with Margherita Buy and Giulio Scarpati, Condemned to Wed (1992) and Penniless Hearts (1995). In 1999, he made Not of This World,
with Margherita Buy and Silvio Orlando. The film picked up numerous David di Donatello
awards and enjoyed audience success. His following film, Light of My Eyes, won Luigi Lo Cascio and Sandra Ceccarelli, respectively, Best Actor and Actress Coppa Volpi Awards at the 2002
Venice Film Festival. Lo Cascio and Ceccarelli also play the leads in Piccioni’s latest film, La vita
che vorrei.
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- PREMIO LINO MICCICHÈ
Christopher Buchholz &
Sandra Hacker
HORST BUCHHOLZ
... MEIN PAPA
Horst Buchholz ... mio padre
Il ritratto di un padre famoso eppure sconosciuto. Horst
Buchholz l’attore, Horst Buchholz il padre. In questo documentario il figlio Christopher con l’aiuto di Sandra Hacker
prova a riconciliare le due figure. Sullo sfondo passano le
immagini dei film, comprese le scene dell’ultima interpretazione di Horst, quelle de La vita è bella. Intanto sopraggiunge la morte dell’attore, quasi a proteggerlo dal costante rifiuto di ricordare la propria vita.
A portrait of a famous yet unknown father. Horst Buchholz, the
actor; Horst Buchholz, the father. In this documentary, his son
Christopher, with the help of Sandra Hacker, tries to reconcile the
two figures. Images of his father’s films are projected in the background, including Horst’s last role in Life is Beautiful. In the
meantime, his father dies, almost as if death were protecting him
from his constant refusal to look back over his own life.
“Spero che ognuno possa trovare un pezzo di sé nel film.
Fondamentalmente, ho voluto realizzare un film sulle
famiglie.”
Christopher Buchholz
“I hope everyone can find a piece of him or herself in the film.
Basically, I wanted to make a film about families.”
Christopher Buchholz
Biografia
Christopher Buchholz è nato a Los Angeles nel 1962. Attore per Antonioni, Peter Yates, Claire Denis, Pierre Schoendoerffer, Virgil Widrich e Alessandro Colizzi, è anche regista teatrale e ha diretto alcuni cortometraggi.
Sandra Hacker è nata ad Augsburg nel 1975. Ha studiato
all’Accademia di cinema di Baden-Württemberg con particolare attenzione per i documentari. Lavora dal 1998 come
sceneggiatrice, regista e montatrice. Nel 2003 ha fondato
con Christopher Buchholz la casa di produzione Say Cheese Productions.
Biography
Christopher Buchholz was born in Los Angeles in 1962. He has
worked as an actor for Michelangelo Antonioni, Peter Yates,
Claire Denis, Pierre Schoendoerffer, Virgil Widrich and Alessandro Colizzi. He is also a theatre director and has directed several
short films.
Sandra Hacker was born in Augsburg in 1975. She studied at
the Film Academy in Baden-Württemberg, with a concentration
in documentary filmmaking. She has been working as a screenwriter, director and editor since 1998. In 2003, she and Christopher Buchholz founded the production company Say Cheese Productions.
sceneggiatura/screenplay: Christopher Buchholz und Sandra
Hacker
fotografia/photography (colore): Christopher Buchholz, Olivier
Distel, Sandra Hacker, Arthur Boisnard
montaggio/editing: Jean-Marc Lesguillons
suono/sound: Balthasar Jucker, Christopher Buchholz
musica/music: Arnaud Jacquin
interpreti/cast: Horst Buchholz, Christopher Buchholz,
Myriam Buchholz Gru, Simran Kaur Khalsa, Heidi Dietrich
produttore/producer: Sandra Hacker, Christopher Buchholz
produzione/production: Say Cheese Productions, SWR, RBB,
Arte, Medienboard Berlin Brandenburg
contatto/contact: Marienburger Strasse 9 - D-10405 Berlin
[email protected]/[email protected]
durata/running time: 90’
origine/country: Germania 2005
Filmografia
Christopher Buchholz: Amours de Russie (Mm, 1994), Happy Birthday (Cm, 2000), Bad Boys’ Garden (Cm, 2002), Horst
Buchholz ... mein Papa (doc, 2005)
Sandra Hacker: Le complice du photographe Pierre Gassmann (doc, 1998), Laughter is my Lady (doc, 2000), Der Madendoktor
(doc, 2001), Kefallonia (doc, 2001), Virtuelle Welten (doc, 2002), Ma Vie (doc, 2003), Horst Buchholz ... mein Papa (doc, 2005)
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CINEMA IN PIAZZA
Alice De Andrade
O DIABO A QUATRO
Four For None
(t.l.: Il diavolo a quattro)
Tre ragazzi di Copacabana in fuga dal mondo che li circonda, che li assedia. Ognuno ha un motivo personale per
cercare un luogo migliore dove vivere un’altra esistenza. Si
ritrovano insieme a causa di Rita, giovane e bella e anche
lei in fuga.
Three boys from Copacabana on the run from the world that surrounds and overwhelms them. Each one of them his own reason
for searching for a better place in which to live a different kind of
life. They end up together because of Rita, a beautiful young
woman also on the run.
“Nessuna immagine è reale, ogni emozione è vera. L'ambizione del film è immensa. Fabbricare un miracolo visuale. Come se il linguaggio del film cercasse una lingua
dimenticata, cancellata o proibita. E da ritrovare. (...) Sembra che Alice de Andrade inviti i suoi connazionali a
riprendersi quei patrimoni immaginari morti, sepolti ma
spettralmente indocili.”
Roberto Silvestri, “Il Manifesto”, 7 ottobre 2004
“No image is realistic, each emotion is real. The film’s ambition
is immense: to create a visual miracle. As if the language of the
film were itself searching for a forgotten, erased or forbidden language. One that should be reclaimed. It would seem as if Alice de
Andrade were inviting her fellow citizens to take back the patrimony of their dead collective imagination, buried but spectrally
untamed.”
Roberto Silvestri, Il Manifesto, October 7, 2004
Biografia
Nata nel 1964 a Rio de Janeiro, figlia del celebre regista
brasiliano Joaquim Pedro de Andrade, ha studiato sceneggiatura alla scuola di cinema e televisione di Cuba. E’ stata assistente alla regia oltre che di suo padre anche di John
Boorman, Ruy Guerra, Walter Lima Jr., André Téchiné,
Pascal Bonitzer e Carlos Diegues. I suoi lavori hanno già
ricevuto dei premi internazionali. O diabo a quatro è il suo
primo lungometraggio di finzione.
Biography
Born in Rio de Janeiro in 1964, Alice de Andrade, the daughter
of renowned Brazilian director Joaquim Pedro de Andrade, studied screenwriting at Cuba’s film and television school. She
worked as an assistant director for her father as well as for directors John Boorman, Ruy Guerra, Walter Lima Jr., André Téchiné, Pascal Bonitzer and Carlos Diegues. Her work has already
received international awards. O diabo a quatro is her first feature film.
sceneggiatura/screenplay: Pauline Alphen, Jacques Arhex, Joaquim Assis, Alice de Andrade, Jean-Vincent Fournier, Cláudio MacDowell, Evandro Mesquita
fotografia/photography (colore): Pedro Farkas, Jacques Cheuíche
montaggio/editing: Dominique Pâris
suono/sound: Paulo Ricardo Nunes, Bruno Fernandes
musica/music: Lenine, Pedro Luís
scenografia/art direction: Daniel Flaksman
costumi/costumes: Claudia Kopke
interpreti/cast: Maria Flor, Marcelo Farias, Márcio Libar,
Netinho Alves, Johnathan Haagensen, Ney Latorraca, Marí-
lia Gabriela, Evandro Mesquita, Ana Beatriz Nogueira,
Chris Couto, Renato de Souza, Leila Indiana, Sérgio Machado, Roberta Rodrigues, Maria Sílvia
produttore/producer: Flávio R. Tambellini, Jacques Arhex,
Yannick Bernard, François d’Artemare, Maria João Mayer,
Laurence Darthos
produzione/production: Acacia Films Productions, Ravina Filmes, Flavio R Tambellini, Filmes do Tejo, Les Film de l'Après-midi
durata/running time: 108’
origine/country: Brasile, Francia, Portogallo 2004
Filmografia
Luna de miel (1992, doc), Dent pour dent (1994, Cm), Deux Portugais à Paris (1994, Cm), Le Pari Burkinabé (1999, doc, Mm),
La Télé des Fous (1999, doc, Cm), Meu Nome é Eu (2000, Cm), Ela é que vê Nós (2000, doc, Cm), La Rivière de Janvier (2000,
doc, Mm), Activité sur les Toits (2003, doc, Cm), O diabo a quatro (Four for None, 2004)
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- PREMIO LINO MICCICHÈ
Martín De Salvo &Vera Fogwill
LAS MANTENIDAS SIN SUEÑO
Kept & Dreamless
(t.l.: Le mantenute senza sogni)
Avere un “progetto di vita” e realizzarlo significa essere
felici? Protagoniste della storia sono Florencia e Eugenia,
madre e figlia di nove anni. La prima non sa cosa fare della sua vita e di quella della figlia, mentre la seconda vorrebbe scuotere la madre e condurla a un’esistenza dignitosa. Accanto a loro, altre donne che cercano di mantenere
l’equilibrio sull’orlo del precipizio. Miglior opera prima al
XX Festival del Cinema di Guadalajara.
Does having a "life’s ambition" and achieving it mean being
happy? The main characters of this story are Florencia and her
nine year-old daughter, Eugenia. Florencia does not know what
to do with her life, nor with her daughter’s, while Eugenia would
like to shake her mother out of her current existence and towards
a more respectable life. They are surrounded by women trying to
maintain their balance on the edge of the abyss. The film was
awarded Best Debut Film at the 20th Guadalajara Film Festival.
“Kept and Dreamless ci immerge nell’intricatezza del mondo femminile. In questa storia di cocaina e gravidanza,
femminilità, mestruazioni e parto nessuna delle donne
può fare niente da sola. Ma insieme possono almeno avere
la possibilità di sognare qualcosa.”
Vera Fogwill & Martín de Salvo
“Kept and Dreamless immerses us in the intricacies of the feminine world. In this story of cocaine and pregnancy, femininity,
menstruation and childbirth, none of the women can do anything by themselves. But together they might at least get the
chance to dream about something.”
Vera Fogwill & Martín de Salvo
Biografia
Vera Fogwill è nata a Buenos Aires nel 1972. Ha lavorato
come attrice di teatro dall’età di 14 anni aggiundicandosi
alcuni premi importanti. Inoltre ha scritto opere teatrali.
Come attrice cinematografica ha lavorato per il regista
argentino Alejandro Agresti.
Martín de Salvo è nato nel 1973 a Buenos Aires dove ha frequentato l’università di video e cinema. Ha prodotto, scritto e diretto numerosi cortometraggi, videoclip e spot. Ha
scritto anche un libro di cinema e una sceneggiatura per un
documentario.
Biography
Vera Fogwill was born in Buenos Aires in 1972. She began
working as a theatre actress at the age of 14 and has won several important prizes. She also writes plays. As a film actress, she
has worked with Alejandro Agresti.
Martín de Salvo was born in Buenos Aires in 1973, where he
attended film and video school. He has produced, written and
directed numerous short films, music videos and commercials.
He has also written a book on cinema and a documentary screenplay.
sceneggiatura/screenplay: Vera Fogwill
fotografia/photography (colore): Nicolas Trováto
montaggio/editing: Rosario Suárez
suono/sound: Gaspar Scheuer, Diego Martínez
musica/music: Babasónicas
scenografia/art direction: Daniela Podcaminsky
interpreti/cast: Lucía Snieg, Vera Fogwill, Mirta Busnelli,
Edda Díaz, Mía Maestro, Elsa Berenguer, Julián Krakow,
Gastón Pauls
produzione/production: INCAA, Vera Fogwill, Stefan Schmitz,
Avalon Production s.l.
distribuzione/distribution: Primer Plano Film Group
contatto/contact: Pasqual Condito - Riobamba 477 (1025),
Buenos Aires - Argentina, [email protected]
durata/running time: 94’
origine/country: Argentina 2004
Filmografia
Vera Fogwill: Las mantenidas sin sueños (Kept & Dreamless, 2004)
Martín de Salvo: Otra más (Cm, 1996), Las mantenidas sin sueños (Kept & Dreamless, 2004)
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CINEMA IN PIAZZA
Doan Minh Phuong &
Doan Thanh Nghia
HAT MUA ROI BAO LAU
Bride of Silence
(t.l.: La sposa del silenzio)
La storia è ambientata nel nord del Vietnam due secoli fa.
Ly An è una giovane donna non ancora sposata, una
ragazza madre che ha scelto la via del silenzio rendendo
la sua vita misteriosa. Rifiuta di dire il nome del padre
del bambino. I vecchi del villaggio allora ordinano che la
sua testa venga tagliata e che il bambino venga abbandonato su un fiume e affidato alla volontà divina. Una tempesta travolge il villaggio e il bambino si salva. Da qui
comincerà la ricerca della verità sulla sorte e la vita della
madre. I toni sono epici, l’estetica raffinata.
The story takes place two centuries ago in northern Vietnam. Ly
An is a young, unmarried mother who refuses to divulge the
name of her baby’s father, rendering her life mysterious through
her silence. The elders of the village thus decide that she must be
beheaded and that the child is to be abandoned by the river, to
divine intervention. A storm sweeps away the village and the
baby is saved. Hence begins his search for the truth behind his
mother’s life and fate. The tone is epic, the aesthetics refined.
“Questa è una storia sacra e sensuale. E naturalmente
sostiene la filosofia buddhista sul rapporto tra causa ed
effetto. (...) E’ un film sulla libertà di una donna. Comincia
in silenzio e in solitudine.”
Doan Minh Phuong
“The story is both sacred and sensual. And, of course, it upholds
the Buddhist philosophy of cause and effect. It’s a film about a
woman’s freedom. It begins in silence and in loneliness.”
Doan Minh Phuong
Biografia
Doan Minh Phuong (1956) e Doan Thanh Nghia (1966)
sono sorella e fratello entrambi nati a Saigon. Quando è
terminata la guerra Phuong si è diretto in Germania fondando una rivista di letteratura vietnamita a Bonn, mentre
Nghia è emigrata negli Stati Uniti. Tornati in Vietnam all’inizio degli anni ‘90, hanno impiegato circa dieci anni per
realizzare il loro primo film, Bride of Silence. Phuong è una
scrittrice, film-maker e curatrice di mostre d’arte, Nghia è
un fotografo e scultore.
Biography
Doan Minh Phuong (1956) and Doan Thanh Nghia (1966) are
brother and sister, respectively, and were born in Saigon. When
the war ended, Phuong went to Germany and founded a Vietnamese literary magazine in Bonn, while Nghia emigrated to the
U.S. They returned to Vietnam in the early 1990s and took
approximately ten years to make their first film, Bride of
Silence. Phuong is a writer, filmmaker and an art curator;
Nghia is a photographer and sculptor.
sceneggiatura/screenplay: Doan Minh Phuong
fotografia/photography (colore): Mak Hoi Man, HKSC
montaggio/editing: Matt Villa, Doan Minh Phuong
suono/sound: Wayne Pashley
scenografia/art direction: Nguyen Minh Thanh
costumi/costumes: Truong Tan
interpreti/cast: Truong Ngoc Anh, Nguyen Manh Thang,
Truong Huu Quy, Tran Minh Thanh, Trinh Mai Anh, Nguyen Anh Quan, Nguyen Phuong Mai, Nguyen Manh Hung,
Quach Dong Phuong, Nguyen Nhu Quynh, Nguyen Manh
Duc, Truong Thi Bich Ngoc, Nguyen Phuong Linh, Dao
Anh Khanh, Nguyen Van Hao, Nguyen Thi Phan, Nguyen
Thi Ba, Ngo Thanh Binh, Nguyen Thanh Tuan
produttore/producer: Doan Minh Phuong
produzione/production: Moonfish Films GmbH, TNHH Thuy
Trieu
contatto/contact: 10 Phan Dinh Phung - Cu Xa Kien Thiet Q9 - Ho Chi Minh City - Vietnam [email protected]
durata/running time: 114’
origine/country: Vietnam, Germania, Australia 2005
Filmografia
Hat Mua Roi Bao Lau (Bride of Silence, 2005)
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- PREMIO LINO MICCICHÈ
Fow Pyng Hu
PARADISE GIRLS
(t.l.: Il paradiso delle ragazze)
Un ragazzo lascia la sua fidanzata, un padre decide di tornare in patria distaccandosi così dalla figlia, un bambino
malato deve affrontare un’operazione delicatissima con
poche probabilità di sopravvivenza. Miki è la fidanzata,
Pei Pei la figlia, Shirley la madre. Tre giovani protagoniste,
per tre storie che portano al Paradiso delle ragazze.
A young man leaves his girlfriend. A father decides to return to
his country, thus distancing himself from his daughter. A sick
boy must face an extremely delicate operation with little chance
of survival. Miki is the girlfriend, Pei Pei the daughter, Shirley
the mother. Three young women, for three stories that lead to a
paradise for girls.
“Ogni reazione individuale delle ragazze a queste sventure recenti testimonia oltre a una determinazione anche un
amore per la vita nel subconscio che è caratteristico della
loro età.”
Fow Pyng Hu
“Each girl’s individual reaction to these recent misfortunes illustrates a determination as well as a subconscious love of life that
is so characteristic to their age.”
Fow Pyng Hu
Biografia
Nato nel 1970, di origine cinese, ha studiato ad Amsterdam
design industriale e ha realizzato numerosi video e quattro
cortometraggi. Il primo lungometraggio, Jacky, lo ha diretto insieme a Brat Ljatifi ed è stato selezionato in vari festival internazionali, primi fra tutti quello di Cannes (Un Certain Regard) e di Pusan.
Biography
Born in 1970, of Chinese origin, Fow Pyng Hu studied industrial design in Amsterdam and has made many videos and four
short films. His first feature film, Jacky, co-directed with Brat
Ljatifi, was presented at numerous international film festivals,
including Cannes (Un Certain Regard) and Pusan.
sceneggiatura/screenplay: Fow Pyng Hu
fotografia/photography (colore): Benito Strangio
montaggio/editing: Menno Boerema
suono/sound: Marco Vermaas, Andréa Seligmann
musica/music: Mick Witkamp
scenografia/art direction: Floris Vos
costumi/cosumes: Marie Therese Jacobse
interpreti/cast: Kei Katayama, Eveline Wu, Jo Koo
produttore/producer: Frans van Gestel & Jeroen Beker
produzione/production: Motel Films, Pandora Films, NPS television
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 97’
origine/country: Olanda, Germania 2004
Filmografia
Cola Lovers (1995, Cm), Noodle (1996, Cm), Atomic Boy (1997, Cm), Sunny Afternoon (1997, Cm), Delicious Lettuce (1997, Cm),
Jacky (2000), IND (2002, Cm), Paradise Girls (2004)
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- PREMIO LINO MICCICHÈ
Ciro Alfonso Guerra
LA SOMBRA DEL CAMINANTE
(t.l.: L’ombra del viandante)
Mañe sta attraversando una difficile situazione economica.
Ha perso una gamba e per questo non può lavorare e nemmeno pagare l’affitto. Nei suoi tentativi disperati di
sopravvivere, incontra uno strano personaggio, un uomo
che per lavoro si carica sulle spalle la gente e la trasporta
per il centro di Bogota. I due fanno amicizia e scoprono il
proprio passato violento, quello che hanno vissuto tanti
altri colombiani. Per i due protagonisti l’unica speranza
ancora viva è quella di poter cominciare da capo una nuova esistenza.
Mañe is going through a difficult financial situation. He has lost
a leg, which is the reason why he can neither work nor pay his
rent. In his desperate attempts to survive, he meets a strange
man who carries people on his back for a living, taking them
through the center of Bogotá. The two becomes friends and discover each other’s violent past, the same past that many Colombians have experienced. For the two characters, the only hope
they still have is to begin a completely new life.
“Questa è una storia sulla gente che vive nel cuore di un
Paese in guerra. Gente la cui storia si intreccia per le strade di una città caotica. Gente che porta con sé il peso di
un’interminabile violenza, che è la storia del Paese. Pur
avendo visto e vissuto esperienze molto atroci, non si sono
mai arresi e non hanno smesso di combattere. Gente con la
volontà di rompere il circolo infinito di morte e desolazione e di ricominciare a vivere. Gente che ride, che soffre, che
cade, che sogna, che celebra.”
Ciro Alfonso Guerra
"This is the story of people who live in the heart of a country at
war. People whose lives intersect among the streets of a chaotic
city. People who carry within themselves the weight of an endless violence: the country’s history. Despite having witnessed
and lived through numerous atrocities, they have never given
up, nor have they stopped fighting. People who want to break the
infinite circle of death and despair and start living again. People
who laugh, suffer, fall, dream, celebrate."
Ciro Alfonso Guerra
Biografia
Nato a Río de Oro nel 1981, ha studiato cinema e televisione e ha realizzato numerosi cortometraggi. La Sombra del
Caminante è il suo primo lungometraggio.
Biography
Born in Río de Oro in 1981, Ciro Alfonso Guerra studied film
and television and has made numerous short films. La Sombra
del Caminante is his first feature film.
sceneggiatura/screenplay: Ciro Alfonso Guerra
fotografia/photography (dv cam, bianco e nero): Emmanuel
Rojas
montaggio/editing: Iván Wild, Ricardo Cortés
suono/sound: Cesar Rojas
musica/music: Richard Cordoba
scenografia/art direction: Cristina Gallego
interpreti/cast: César Badillo, Ignacio Prieto, Inés Prieto,
Lowin Allende, Adelaida Corredor, Julian Díaz, Andrés Gaitán, Diego Manzano, Carolina Cifuentes, Jose Manuel Ospi-
na, Henry Vargas, Wilmar Zamora, John Heiver Vargas
Cruz, Henry López, Diana Caicedo, Claire De Rojas, Johan
Guerrero, German Pinzón, Francisco Molina Salas, Carlos
Andres Perez Oliveros, Ruben Darío Jaramillo, Carlos Fernando Barrera
produttore/producer: Jaime Osorio
produzione/production: Ciudad Lunar, Tucán Producciones
contatto/contact: [email protected], [email protected]
durata/running time: 91’
origine/country: Colombia 2004
Filmografia
Silencio (1998, Cm), Documental Siniestro: Jairo Pinilla, cineasta colombiano (1999, documentario, Cm), Alma (2000, Cm),
Intento (2001, Cm), La Sombra del Caminante (2004)
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CINEMA IN PIAZZA
Pirjo Honkasalo
MELANCHOLIAN KOLME
HUONETTA
The 3 Rooms of Melancholia
(t.l.: Tre stati di melanconia)
Il documentario affronta in modo trasversale il tema della
guerra in Cecenia. La Honkasalo ha messo in primo piano
la vita così com’è di alcuni bambini in tempo di guerra. La
macchina da presa ha seguito quegli innocenti nel loro triste percorso che li ha portati o in una scuola militare di
cadetti o in una casa famiglia per orfani e bisognosi. In
questo penoso tragitto, che solo fisicamente allontana i
bambini dal conflitto sanguinoso, si manifesta un dolore
silenzioso che non necessita di voci fuoricampo e di dialoghi. Gli spettatori sono chiamati in prima persona a fare i
conti con quel silenzio e con quel dolore.
The film indirectly tackles the war in Chechnya. Honkasalo has
brought to the forefront the lives of children during wartime. The
camera followed these innocent beings throughout the sad circumstances that led them to military cadet school or a home for
orphans and the poor. On this painful journey, which removes
the children only physically from the bloody conflict, a silent
pain is revealed, which needs no off-camera voices or dialogues to
express itself: The specatators are directly asked to confront this
silence and their pain.
“L’Europa è piena di persone che hanno bisogno di tolleranza per spegnere una rabbia giusta che gli si rivolta contro. La vita non è un tribunale, la giustizia non prevale, la
vita sì. Scardinare le icone del nemico vuol dire accettare la
tolleranza (un affrancarsi dal bisogno di odiare) insieme al
senso del giusto.”
Pirjo Honkasalo
“Europe is full of people who need grace to cope with a righteous
rage that turns against them. Life is no court of justice; justice
does not prevail, life does. Stripping away icons of the enemy
calls for the acceptance of grace (a liberation from the urge to
hate) along with righteousness.”
Pirjo Honkasalo
Biografia
Nata nel 1947, è una delle più acclamate e famose registe
dei Paesi nordici. Nel corso della sua carriera ha diretto
numerosi film e documentari. Ha inoltre lavorato come
scenografa per l’Opera Nazionale Finlandese e per il Turku Municipal Theater. La sua serie di documentari A Trilogy of the Sacred and Satanic ha ottenuto riconoscimenti e
premi internazionali e il documentario Atman ha ricevuto
il premio “Joris Ivens” al Festival di Amsterdam nel 1996.
Tulennielija (La mangiafuoco) è stato presentato in diversi
Festival, tra cui quello di Locarno dove ha vinto due Premi, e di Los Angeles dove ha ottenuto il Gran Premio della Giuria.
Biography
Born in 1947, she is one of Northern Europe’s most acclaimed,
well-known directors. She has directed numerous films and documentaries throughout her career, and has also worked as a stage
designer for the Finnish National Opera and for the Turku
Municipal Theater. Her documentary series A Trilogy of the
Sacred and Satanic received significant recognition as well as
international prizes, and the documentary Atman received the
Joris Ivens Prize at the 1996 Amsterdam Festival. Tulennielija
(Fire-Eater) was presented at various festivals, including the
Locarno Film Festival, at which it won two prizes, and the Los
Angeles Film Festival, where it received the Grand Jury Prize.
sceneggiatura/screenplay: Pirjo Honkasalo
fotografia/photography (colore): Pirjo Honkasalo
montaggio/editing: Niels Pagh Andersen, Pirjo Honkasalo
musica/music: Sanna Salmenkallio
produttore/producer: Kristiina Pervilä, Pirjo Honkasalo
produzione/production: Millenium Film, Lisbet Gabriellson
Film, Magic Hour Films, Ma.Ja.De, Arte
durata/running time: 106’
origine/country: Finlandia 2004
Filmografia
Ikäluokka (Their Age, 1976), Vaaran merkki (The Sign of Danger, 1978), Kainuu 39 (Two Forces, 1979), Tulipaa (Flame Top,
1980), 250 grammaa - radioaktiivinen testamentti (250 Grammes: A Radioactive Testament, 1983), Da Capo (1985), Mysterion
(1991), Tanjuska ja 7 perkelettä (1993), Tallinnan Tuhkimo (1996), Atman (1996), Tulennielija (Fire-Eater, 1998), Pimeys (Darkness, 2000), Melancholian kolme huonetta (The Three Rooms of Melancholia, 2004)
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CONCORSO PNC
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- PREMIO LINO MICCICHÈ
Vimukthi Jayasundara
SULANGA ENU PINISA
The Forsaken Land
(t.l.: La terra abbandonata)
The Forsaken Land ci porta in Sri Lanka in una indefinita
ambientazione post-bellica in mezzo al nulla: “Dio è assente ma il sole continua a sorgere, sopra una casa solitaria, tra
due alberi in una terra abbandonata.”
The Forsaken Land takes us to Sri Lanka in an indefinite and
desolate post-war setting, almost in the middle of nowhere: “God
is absent, but still the sun rises, over a lonely home between two
trees in a forsaken land.”
“Se The Forsaken Land ha qualcosa a che fare con la storia
del mio paese è principalmente per il passaggio attraverso
quello stato sospeso tra l’essere Senza-Guerra e l’essere
Senza-Pace.”
Vimukthi Jayasundara
“If The Forsaken Land has something to do with my country's
history, it is especially through its conveyance of the suspended
state of being simultaneously without war and without peace.”
Vimukthi Jayasundara
Biografia
Critico e sceneggiatore, il ventisettenne regista nato in Sri
Lanka, ha vinto la “Camera d’Or” all’ultimo festival di
Cannes con The Forsaken Land. In precedenza aveva realizzato un documentario, The Land Of Silence, sulle vittime
della guerra civile, selezionato in vari festival internazionali (Berlino, Rotterdam, Marsiglia). Ha studiato in Francia presso la scuola d’arte Le Fresnoy.
Biography
Critic and screenwriter, the 27 year-old director from Sri Lanka
won the Camera d’Or Award at the recent Cannes Film Festival
for The Forsaken Land. Previously, he made a documentary,
The Land Of Silence, on the victims of the civil war, which was
screened at various international festivals (Berlin, Rotterdam,
Marseilles). He studied in France at the Le Fresnoy Art School.
sceneggiatura/screenplay: Vimukthi Jayasundara
fotografia/photography (colore): Channa Deshapriya
montaggio/editing: Gisèle Rapp-Meichler
suono/sound: Alberto Crespo-Ocampo, Franck Desmoulins,
Nicolas Nagelen
musica/music: Nadeeka Guruge
interpreti/cast: Mahendra Perera , Kaushalya Fernando, Nilu-
pili Jayawardena, Hemasiri Liyanage,Saumya Liyanage,
Pumudika Sapurni Peiris
produttore/producer: Philippe Avril
produzione/production: Unlimited, Les Films de l'Etranger,
Arte, Onoma International
durata/running time: 108’
origine/country: Sri-Lanka, Francia 2004
Filmografia
Thibiri Dela (1996, Cm), The Land of Silence (2001, Cm, doc), Empty for love (2002, Cm), Sulanga Enu Pinisa (The Forsaken Land,
2005)
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CINEMA IN PIAZZA
Lu Chuan
KEKEXILI
Mountain Patrol
(t.l.: I protettori della montagna)
Ga Yu, un giornalista di Pechino, è determinato a scoprire
la vera storia dei volontari di una pattuglia che proteggeva le antilopi tibetane destinate ad essere massacrate dai
bracconieri. In cerca della verità, accompagna la pattuglia
per 40mila chilometri quadrati di deserto. Da osservatore
distaccato, Ga Yu si sente sempre più coinvolto e realizza
che questa non è un semplice pattugliamento ma un viaggio intorno alla vita. Tratto da una storia vera, gli occhi di
Ga-Yu sono testimoni di una battaglia dove il bene e il
male non hanno confini.
Ga Yu, a journalist from Beijing, is determined to uncover the
true story behind the volunteers of a patrol team that protects
Tibetan antelopes from poachers. In search of the truth, he
accompanies the team through 40,000 square kilometers of
desert. Although a detached observer at first, Ga Yu becomes
increasingly more involved and realizes that is not simply a
guard watch but a journey into life. Based on a true story, GaYu bears witness to a battle where good and evil have no boundaries.
“Questo lavoro si basa sulla vera storia del team del
Mountain Patrol nella zona disabitata di Qingzang
Heights a Kekexili. Nonostante sia stato ufficialmente
creato dal governo locale, la pattuglia non riceve alcun
supporto finanziario. Affrontano una continua battaglia
contro i cacciatori di frodo. (…) Volevo esplorare anche gli
eventi dall’altro punto di vista, quello dei bracconieri. Il
risultato è che ora, per me, questi sono più simili a dei normali allevatori piuttosto che a dei ladri brutali, come uno
potrebbe immaginare. La povertà li trasforma in macellai
che uccidono le antilopi per una sola ragione: la propria
sopravvivenza. (...) Questa è la ragione per cui ho fatto
questo film, per dare una testimonianza sugli uomini della pattuglia e sul loro viaggio, e per mostrare alla gente
che, in definitiva, siamo tutti coinvolti nella lotta per la
sopravvivenza.”
Lu Chuan
“This film is based on the true story of the Mountain Patrol team
in the uninhabited area of Qingzang Heights in Kekexili.
Although officially formed by the local government, the patrol
team does not receive any financial support from them. They face
an ongoing battle with illegal poachers. I also wanted to explore
the events from the other side, from the standpoint of the poachers. I visited Kekexili several times while writing the script, and
met with many real poachers. As a result, I now see them more
as ordinary farmers rather than the brutal robbers one would
imagine. Poverty turns them into slaughterers, killing the
antelopes for only one reason – their own survival. This is the
reason I made this film – to set the record straight about the
patrolmen and their journey, and to show people that, ultimately, we are all involved in the struggle for survival.”
Lu Chuan
Biografia
Nato nel 1971 a Xinjiang, ha terminato nel 1998 un master
in regia presso l’Accademia di Cinema di Pechino. Il suo
primo lungometraggio, The Missing Gun ha ricevuto
numerosi premi.
Biography
Born in Xinjiang in 1971, he received his Masters in Directing
at Beijing’s Film Academy in 1998. His first feature, The Missing Gun, picked up numerous awards.
sceneggiatura/screenplay: Lu Chuan
fotografia/photography (colore): Cao Yu
montaggio/editing: Teng Yun
suono/sound: Song Qin
musica/music: Lao Zai
scenografia/art direction: Lu Dong, Han Chunlin
interpreti/cast: Duo Bujie, Zhang Lei, Qi Liang, Zhao Xueying, Ma Zhanlin
produttore/producer: Wang Zhongjun
produzione/production: Huayi Brothers, Taihe Film Investment Co., Ltd., Columbia Pictures Film Production Asia
Ltd.
distribuzione/distribution: Sony Pictures Releasing International
durata/running time: 95’
origine/country: Cina, Hong Kong 2004
Filmografia
The Missing Gun (2002), Kekexili (2004)
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CINEMA IN PIAZZA
Mohammad Rasoulof
JAZIREH AHANI
Iron Island
(t.l.: Isola di Ferro)
Della povera gente nella costa sud dell’Iran non ha un luogo dove stare e dunque vive in una vecchia nave abbandonata in mare. Il capitano Nemat, il loro capo, cerca di
persuadere il proprietario della nave e le autorità a non
riprenderla indietro. Contemporaneamente, sta vendendo
le parti di ferro della nave pezzo dopo pezzo. Presto la
nave affonderà.
Some poor people on the southern coast of Iran have no place to
live and thus reside on an old, abandoned ship. Captain Nemat,
their leader, tries to persuade the ship-owner and the official
authorities not to take back the ship. On the other hand, he is
selling the iron parts of the ship piece by piece. Soon the ship will
sink.
“Pensando ai personaggi del film e al luogo dove vivono,
ho cercato, più che in altre occasioni, di raccontare la storia
in modo vero. Ho vissuto con i protagonisti di Iron Island e
li ho conosciuti bene. Ho provato a testimoniare la loro vita
dolorosa con immagini realistiche, mostrando i volti di
ogni singola persona. Iron Island è una bella isola, e la vita
va avanti malgrado tutti i problemi.”
Mohammad Rasoulof
“Considering the characters of the film and the space they live in,
I tried, above all, to tell the story in a true manner. I lived with
the people of the Iron Island and know them well. I have tried to
present a realistic portrait of these people’s lives and their painful
condition, which I witnessed in each of their faces. The Iron
Island is a beautiful island, and life goes on despite the problems.”
Mohammad Rasoulof
Biografia
Nato a Shiraz nel 1973, si è laureato in sociologia. Ha studiato anche montaggio. Ha realizzato sei cortometraggi e
ha fatto da assistente a molti registi. The Twilight, il suo primo lungometraggio, ha ricevuto riconoscimenti in tutto il
mondo.
Biography
Born in 1973 in Shiraz, he graduated in Sociology and also studied editing. He has made six short films and worked as an assistant to many directors. His first film, The Twilight, received a
number of international awards.
sceneggiatura/screenplay: Mohammad Rasoulof
fotografia/photography (colore): Reza Jalali
montaggio/editing: Bahram Dehghan
suono/sound: Mohammad Mokhtari
musica/music: Mohammad-Reza Aligholi
scenografia/art direction: Mohammad Rasoulof
interpreti/cast: Ali Nasirian, Hossein Farzi-Zadeh, Neda Pak-
daman
produttore/producer: Mohammad Rasoulof, Abolhasan
Davoodi
produzione/production: Farabi Cinema Foundation
durata/running time: 90’
origine/country: Iran 2005
Filmografia
Friday (Cm, 1991), The Pin (Cm, 1993), Seven Dreams (Cm, 1994), Ten Seconds More (Cm, 1995), The Glass House (Cm, 1997),
Evening Party (Cm, 1999), The Twilight (2002), Jazireh Ahani (2005)
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CONCORSO PNC
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- PREMIO LINO MICCICHÈ
Song Il-gon
GIT
Feathers in the Wind
(t.l.: Piume)
Due amanti, dopo essersi lasciati, si ripromettono comunque di rivedersi nello stesso luogo del loro ultimo incontro
avvenuto dieci anni prima in una sperduta isola coreana.
L’uomo è Hyun-sung, un regista in crisi che deve scrivere
una sceneggiatura. Il suo animo nostalgico lo porta a mantenere la promessa nonostante debba terminare urgentemente il lavoro. Della sua ex amante, invece, non v’è traccia. Nel motel dell’isola dove Hyun-sung soggiorna, vive
una giovane donna, So-yeon, la cui vitalità è in contrasto
non solo con l’ambiente desolato del luogo, ma anche con
il carattere dello stesso Hyun-sung, che pensa malinconicamente al passato, e con quello di suo zio, che da quando
è stato abbandonato dalla moglie non parla più. Il film,
nato inizialmente come un corto, nel corso delle riprese si
è trasformato in un lungometraggio che mette in scena il
contrasto esistenziale di chi guarda solo al proprio passato
e di chi punta i propri occhi al futuro sorridendo alla vita.
Two lovers, after having broken up, promise to meet up again ten
years later, on an out-of-the-way Korean island, the same place
where they last saw each other. The man is Hyun-sung, a director in crisis who has to write a screenplay. His nostalgic soul
makes him keep his promise despite the fact that he has to finish
his work urgently. However, there is no trace of his former lover.
A young woman, So-yeon, lives in the island motel in which
Hyun-sung is staying. Her vivacity stands out not only against
the solitary environment, but also against Hyun-sung (who
melancholically contemplates the past), as well as with the
woman’s uncle, who has not spoken since his wife left him. Initially thought up as a short film, it became a feature during
shooting, and portrays the existential difference between those
who look only to the past and those who set their gaze upon the
future, smiling at life.
“Git è una storia ambientata in un’isoletta vicino Jeju
Island. E ha come protagonisti una ragazza che abita nell’isoletta e un uomo che vi fa visita. Woodo è un luogo che
rappresenta la natura, il rifugio, il qui e ora, che riempie
quel senso di vuoto prodotto dalla città. Tutti sentono
nostalgia della natura, ma la scusa degli affari li porta a
dimenticare quel desiderio. Con questo film ho voluto
comunicare la virtù della natura, il saper attendere quella
cesura che può accadere una volta nella vita.”
Song Il-Gon
“Git is a story set on a small island near Jeju Island. The main
characters are a girl who lives on the island and a man who is
just visiting. Woodo is a place that represents nature, a refuge,
the here and now, which fills up that sense of the void that the
city creates. Everyone is nostalgic for nature, but the excuse of
work makes them forget that desire. With this film, I wanted to
depict the virtues of nature, and knowing how to wait for that
moment that comes but once in life.”
Song Il-Gon
Biografia
Nato a Seoul nel 1971, si è diplomato presso il Seoul Institute of Art e ha continuato a studiare alla scuola nazionale
di cinema di Lodz, in Polonia, dove ha realizzato alcuni
cortometraggi che hanno ottenuto premi internazionali.
Nel 1999 il corto The Picnic ha vinto il Gran Premio della
Giuria al cinquantaduesimo Festival di Cannes.
Biography
Born in Seoul in 1971, he graduated from the Seoul Institute of
Art and continued his studies at the National Film School in
Lodz, Poland, where he made several short films that won international prizes. In 1999, his short film The Picnic won the
Grand Jury Prize at the Cannes Film Festival.
sceneggiatura/screenplay: Song Il-gon
fotografia/photography (dv, colore): Song Il-gon
montaggio/editing: Song Il-gon
interpreti/cast: Jang Hyeon-seong, Lee So-yeon
produzione/production: Lumix Media
durata/running time: 80’
origine/country: Corea del Sud 2004
Filmografia
The Wall (1993, Mm), Ophelia Audition (1994, Mm), The Dream of the Clown (1996, Cm, doc), A Family Story (1996, Cm), The
Fishes (1997, Cm, doc), Liver and Potato (1998, Cm), The Picnic (1999, Cm), Flush (2000, Cm), Flower Island (2001, Cm), Spider Forest (2003), Feathers in the Wind (2004), Digital Films by Three Filmmakers: Magician (2005, Cm)
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CONCORSO PNC
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- PREMIO LINO MICCICHÈ
Ramon Térmens & Carles Torras
JOVES
UNA FUGIDA AL NO RES
Youth - A Getaway to nowhere
(t.l.: Giovani
Una fuga verso il nulla)
Jordi, il broker rampante; Cristina, la figlia del boss di Jordi pronta a festeggiare il proprio compleanno; Pau, il fratello di Jordi dedito all’alcol e agli spinelli. Tre storie parallele per una fuga verso il nulla. Ritratto crudo di una gioventù bruciata prima ancora di prendere fuoco.
Jordi, a yuppy broker; Cristina, the daughter of Jordi’s boss,
ready to celebrate her birthday; Pau, Jordi’s brother, a heavy
drinker and pot smoker. Three parallel stories for an escape into
nothingness. A raw portrayal of burnt-out youth before their
fires have even been lit.
“(...) quello che interessa in questo film sorprendente è la
sfida che punta su uno sguardo della condizione giovanile realizzato non dall’alto dell’età adulta (...) con desiderio,
senza smancerie, con talento. E inoltre fa male come un
pugno nello stomaco.”
M. Torreiro, “Diario El País”
“...the interesting thing about this surprising film is its challenging look at the condition of young people not from the
"heights" of adulthood...with desire and talent, and without
mawkishness. Furthermore, it hurts like a blow to the stomach.”
M. Torreiro, Diario El País
Biografia
Ramon Térmens è nato a Barcellona nel 1974. Ha cominciato
come co-sceneggiatore per un video nel 1997. Ha proseguito
dirigendo e scrivendo cortometraggi. Joves è il suo primo
lungometraggio.
Carles Torras è nato a Barcellona nel 1974 e ha iniziato come
aiuto regista per un cortometraggio nel 1999, continuando in
produzioni indipendenti sia come regista che come co-direttore. Anche per Torras, Joves rappresenta l’esordio alla regia
di un lungometraggio di finzione.
sceneggiatura/screenplay: Ramon Térmens, Carles Torras
fotografia/photography (colore): Ángel Luis Fernández
montaggio/editing: Amat Carreras
suono/sound: Licio Marcos de Oliveira
musica/music: Contratempo, Santos Martinez
scenografia/art direction: Toni Galí
costumi/costumes: Marta Alsina
interpreti/cast: Roger Coma, Alina Clotet, Pau Roca, Judit
Uriach, Oriol Vila, Natasha Yarovenko, Carmela Poch,
Adriana Cabrol, Jordi Dauder, Pep Molina, Vicky Peña, Jor-
Biography
Ramon Térmens was born in Barcelona in 1974. He began working in cinema as a co-scriptwriter for a video in 1997 before
going on to write and direct short films. Joves is his first feature
film.
Carles Torras was also born in Barcelona in 1974 and began
working as an assistant director on a short film in 1999, then in
independent films as both director and co-director. Joves is his
first feature film as well.
di Serrat, César Rojas, Gorka Lasaosa, Aleix Rengel Meca,
Mohamed Bouachmir, Lluís Pérez
produttore/producer: Norbert Llaras, Jordi Rediu
produzione/production: Zip Films
distribuzione/distribution: Sorolla Films
contatto/contact: Les Flors 22, 2 - 08001 Barcellona
[email protected]
durata/running time: 105’
origine/country: Spagna 2004
Filmografia
Ramon Térmens: Meliés (Cm, 1998), Ronda de nit (Cm, 2002), Joves (2004)
Carles Torras: Juan, cronica de un fracaso (Cm, 2000), Las Puertas (Cm, 2001), Barcelona: Guerra al capital (2002, doc), El
sonido del silencio (2002), Joves (2004)
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CONCORSO PNC
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- PREMIO LINO MICCICHÈ
Darielle Tillon
LA LIGNE
The line
(t.l.: La linea)
Vincent ha 23 anni e con il suo viso ancora giovanile attraversa in macchina i paesi della Francia. La strada, i villaggi, le aree parcheggio, un itinerario ben definito, un lavoro
nel campo odontoiatrico, un discorso preparato, una giovane donna, un bambino, un deputato, una cantante e tutti gli altri. Tutto sembra procedere in modo predefinito.
Ogni notte una camera da letto lo aspetta. Da solo, Vincent
avanza.
Vincent, 23 years old, with his very youthful face, drives
through the French countryside. The road, the villages, the
parking lots, a well-defined itinerary, a job in dentistry, a
prepared speech, a young woman, a child, a deputy, a
singer and all the others. Everything seems to have been
pre-planned. Every night a room awaits him. Alone, Vincent continues.
“Si tratta senza dubbio di un film sulla partenza o, più
esattamente, su di un ‘passaggio’ da uno stadio all’altro,
da uno statuto all’altro. Noi volevamo mostrare il protagonista sperduto, attraversando un mondo che fatica a comprendere e nel quale per lui è difficile trovare uno spazio.”
Darielle Tillon
“It is without a doubt a film about departure or, more precisely, about the ‘passage’ from one stage to the next, from
one state to the next. We wanted to depict the protagonist
as lost, passing through a world he struggles to comprehend, in which he finds it difficult to find his own space.”
Darielle Tillon
Biografia
Darielle Tillon (1967) dopo gli studi alla Scuola Nazionale
di Belle Arti, ha lavorato come aiuto regista. Negli anni ‘90
ha realizzato film in super 8 sperimentali. Nel 1999 ha realizzato il suo primo cortometraggio, Joyeux anniversaire.
Biography
Darielle Tillon (1967) worked as an assistant director after finishing her studies at the National School of Fine Arts. In 1999,
she made her first feature film, Joyeux anniversaire.
sceneggiatura/screenplay: Darielle Tillon, Guillaume Esterlingot
formato/format: super 16, colore
montaggio/editing: Christophe Nowak
suono/sound: Cedric Deloche
scenografia/art director: Citronelle Dufay
interpreti/cast: Vincent Branchet, Hélier Cisterne, Catherine
Klein, Jeanne Delavenay, Laurent Poutrel, Christelle Godefroy
produttore/producer: Mikhaël Hers
produzione/production: Sunday Morning Productions
contatto/contact: 25, rue Michel Le Comte - 75003 Paris
durata/running time: 60’
origine/country: Francia 2005
Filmografia
Joyeux anniversaire (1999, Cm), A la vitesse d’un cheval au galop (2002, Mm), La Ligne (2005)
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CINEMA IN PIAZZA
Clark Lee Walker
LEVELLAND
Se la vita ti dà il cemento, fai onde solide. In Levelland un
gruppo di sette adolescenti prova i limiti della libertà in
una soffocante periferia. Non c’è altro da fare per i fratelli
Zach e Nick se non cercare i luoghi adatti per fare skate
come piscine vuote o canali di drenaggio. Solo l’euforia
dello skate tiene insieme questa pattuglia smarrita.
If life gives you cement, make concrete waves. In Levelland, a
gang of seven skateboarding friends test the limits of freedom in
a stifling suburb. What's there for brothers Zach and Nick to do
all summer but search for skateable terrain in empty pools and
drainage ditches. Only the exhilaration of skating holds this lost
patrol together.
“Filmare con giovani attori, nessuno dei quali con esperienze precedenti, rappresenta un’opportunità per modellare una personalità e per fare scoperte interessanti nel
casting... Non è un film sulla vita dei teenager in generale,
vi sono momenti che si riferiscono a quella vita in particolari condizioni.”
Clark Lee Walker
“Filming with young actors, none of them that experienced, is
an opportunity to mold a personality and make interesting casting discoveries.... It’s not teenage life in general, there are
moments that tell you this is life under particular conditions.”
Clark Lee Walker
Biografia
Nato in un paesino del Texas, oggi vive a Austin. Produttore, sceneggiatore e attore, ha lavorato tra gli altri per
Richard Linklater (The Newton Boys, SubUrbia). Levelland
rappresenta il suo esordio alla regia.
Biography
Born in a small town in Texas, today he lives in Austin. Producer, screenwriter and actor, he has worked for various directors,
including Richard Linklater (The Newton Boys, SubUrbia).
Levelland is his directorial debut.
sceneggiatura/screenplay: Clark Lee Walker
fotografia/photography (colore): Mark Miks
montaggio/editing: Mark Coffey
costumi/costumes: Claire Nicolas
interpreti/cast: Matt Barr, Marie Black, Lathan McKay, Simon
Bingham, Kelly Bright, Logan Camp, Erik Ostos, Jason Juranek,
Jessica Schwartz
produttore/producer: Anne Walker-Mcbay
produzione/production:
distribuzione/distribution:
durata/running time: 107’
origine/country: Usa 2003
Filmografia
Levelland (2003)
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CINEMA IN PIAZZA
Vito Zagarrio
TRE GIORNI D’ANARCHIA
Sicilia, luglio 1943. Le truppe Alleate stanno per sbarcare e
il fascismo sta crollando. Giuseppe torna a casa in licenza
dopo la laurea. Qui ritrova gli amici, la famiglia, l’amore.
Nel paese vi è grande confusione e fermento per i nuovi
avvenimenti. Attratto da Anna, giovane e bella aristocratica, ma vicino a Pina, con cui condivide speranze e passioni, Giuseppe dovrà scegliere la donna della sua vita e
superare le divisioni tra la sua stessa gente, l’incertezza del
futuro, la morte del padre, fiero difensore di quegli ideali
di eguaglianza, libertà e democrazia sopravvissuti alla violenza del regime e della guerra.
Sicily, July 1943. The Allied troops have just landed and fascism
is collapsing. Giuseppe, on leave for a few days after having
graduated, is reunited with his family, friends and love. The
entire village is in a state of confusion and ferment over recent
events. Attracted to Anna (young, beautiful and aristrocratic)
but closer to Pina (with whom he shares hopes and passions),
Giuseppe will have to choose between them and overcome the
divisions among his own people, an uncertain future and the
death of his father, a proud defender of the ideals of equality, freedom and democracy that have survived the violence of the recent
regime and war.
“Tre giorni d’anarchia è un film storico (avviene all’alba dello sbarco alleato in Sicilia) ma è anche una storia d’amore
e, soprattutto, una favola: quella di un paese che vive un
periodo di interregno tra il vecchio e il nuovo potere, una
fase di sospensione dove tutto è possibile, dalla rivoluzione politica a quella dei sentimenti. La piccola utopia vissuta dalla comunità che ruota attorno al protagonista è anche
una metafora delle grandi utopie accadute, anche per un
attimo, nella nostra vita e nella nostra storia.”
Vito Zagarrio
"Three Days of Anarchy is a historical film (that takes place at
the dawn of the Allied troops' landing in Sicily), as well as a love
story and, above all, a fairy tale: that of a country going through
a period of change betwen old and new forms of power, and a
suspended state in which everything is possible, from a political
to an emotional revolution. The small utopia that the community surrounding the main character is experiencing is also a
metaphor for the larger utopias realized, even if just for a
moment, in our lives and our history."
Vito Zagarrio
Biografia
Filmmaker, critico e docente universitario presso la terza
Università di Roma, ha lavorato per la televisione, ha firmato documentari e video oltre che corti e lunghi di finzione. A lanciato in Italia John Waters.
Biography
A filmmaker, critic and film professor at Roma Tre University, he
has worked for television and made documentaries, videos, short
films and features. He introduced John Waters to Italian audiences.
sceneggiatura/screenplay: Vito Zagarrio
fotografia/photography (colore): Pasquale Mari
montaggio/editing: Roberto Missiroli
suono/sound: Fabio Santesarti
musica/music: Pivio, Aldo De Scalzi
scenografia/art direction: Adolfo Recchia
costumi/costumes: Elena Del Guerra
interpreti/cast: Enrico Lo Verso, Tiziana Lodato, Marica Coco,
Salvatore Lazzaro, Gaetano Aronica, David Coco, Dino Santoro, Claudio Undari, Rosa Pianeta, Donatella Furino,
Romina Caruana, Biagio Barone, Robert Purvis, Luigi Maria
Burruano, Giacinto Ferro, Antonio Petrocelli, Nino Frassica,
Renato Carpentieri
produttore/producer: Silvana Leonardi, Silvia Geminiani, Vincenzo Di Marino
produzione/production: Artimagiche, Cavadaliga, Raicinema
distribuzione/distribution: Thulefilm
durata/running time: 98’
origine/country: Italia 2004
Filmografia
La generazione del cinema (1979, doc), Divine Waters (1983), Quel sud diverso (1986, doc), La donna della luna (1988), Un bel dì
vedremo (1988, Cm), Movida! (1990, Mm), Bonus Malus (1993), Elogio del sudicio (2000, Cm), Tre giorni d’anarchia (2005)
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CONCORSO PNC
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- PREMIO LINO MICCICHÈ
Zhang Lu
MANG ZHONG
Grain in Ear
(t.l.: Il grano nell’orecchio)
Cui Ji è una donna cinese di origini coreane. Una madre
che cresce da sola il suo bambino. Vive lontano dalla propria città natale e vende Kimchi, dei sottaceti coreani. Una
venditrice abusiva, sempre in fuga dai commercianti locali che la perseguono. Kim è un coreano e si innamora di
Cui. Ma Kim è anche un uomo sposato e il loro amore deve
rimanere una cosa nascosta.
Cui Ji, a Chinese woman of Korean ancestry, is a single mother
bringing up her young son. She lives far from her hometown and
makes a living by selling Kimchi, a Korean Style pickle. An
unlicensed vendor, she is constantly on the run, pursued by the
local commercial prosecutor, Kim, who is also an ethnic Korean.
He and Cui fall in love, but Kim is married and their love can
only be an illicit affair.
“Io vorrei chiamare il mio film antiterrorista. Qui il terrorismo non può avere un senso politico, si riferisce alla tragedia che deriva dalle tensioni tra il forte e il debole, tra il
ricco e il povero, tra l’oppressore e l’oppresso. In quanto
donna povera e appartenente a una minoranza etnica, Cui
Shunji è un personaggio tipicamente oppresso. Vive ai
margini della società.”
Zhang Lu
“I would call this film an ‘anti-terrorism’ film.’ ‘Terrorism’ here
does not have a specific political meaning. It refers to the tragedy
resulting from the tensions between the powerful and the powerless, the haves and the have-nots, the oppressors and the
oppressed As a poor woman and a member of an ethnic minority, Cui Shunji is a typically downtrodden character. She lives at
the bottom of society.”
Zhang Lu
Biografia
Nato nel 1962, si è laureato in letteratura cinese. Nel 1986
firma il suo primo romanzo, a cui ne seguiranno altri premiati nell’ambito di numerose manifestazioni culturali
cinesi. Nel 2001 dirige Eleven, il suo cortometraggio d’esordio che partecipa a moltissimi festival, da Venezia a
Toronto, passando per Clermond-Ferrand, Bilbao e Pusan.
Zhang Lu è anche sceneggiatore. Tang Shi, il suo primo
film di fiction, gli ha consentito di coniugare scrittura e
cinema, i suoi due principali interessi.
Biography
Born in 1962, he graduated in Chinese literature. In 1986, he
published his first novel, which was followed by other prizes at
numerous Chinese cultural events. In 2001, he directed Eleven,
his debut short film, which was selected by many festivals,
including Venice, Toronto, Clermond-Ferrand, Bilbao and
Pusan. Zhang Lu is also a screenwriter. Tang Poetry, his first
feature film, gave him the opportunity to unite writing and film,
his two main interests.
sceneggiatura/screenplay: Zhang Lu
fotografia/photography (colore): Liu Yong Hong
montaggio/editing: Kim Sun-Min
suono/sound: Wang Ran
scenografia/art direction: Zhang Hui
interpreti/cast: Liu Lian Ji, Jin Bo, Zhu Guangxuan, Wang
Tong-Hui
produzione/production: Doo Entertainment, Shu Film Workshop
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 109’
origine/country: Cina, Corea 2004
Filmografia
Eleven (2001, Cm), Tang Shi (Tang Poetry, 2003), Mang Zhong (Grain in Ear, 2005)
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CINEMA IN PIAZZA:
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19° EVENTO SPECIALE
Marco Bellocchio
LA BALIA
Italia, primi del Novecento. Il professor Mori, neuropsichiatra, è sposato con Vittoria. La loro esistenza sembra
serena, ma la nascita di un bambino fa esplodere la crisi: il
neonato rifiuta il latte materno e questo provoca in Vittoria una sorta di rifiuto del figlio. Mori decide di prendere
una giovane balia, Annetta, che riesce instaurare con il
bambino un rapporto di grande intimità e fisicità. Vittoria
cade sempre più in un’angoscia profonda tanto da decidere di allontanarsi da casa. La balia, che è analfabeta e ha il
compagno in carcere per motivi politici, chiede al professore di insegnarle a leggere e a scrivere. Ma non sarà la
sola Annetta a imparare qualcosa: attraverso le “lezioni” il
professor Mori recupererà una tensione verso gli affetti
prima sconosciuta, compreso il rapporto con la moglie.
Italy, the beginning of the 19th century. Professor Mori, a neuropsychiatrist, is married to Vittoria. Their life seems peaceful,
yet the birth of their baby brings triggers a crisis: the newborn
refuses his mother’s milk, which in turn leads Vittoria to refuse
the boy. Mori decides to hire a young wet-nurse, Annetta, who
succeeds in creating a very intimate and physical relationship
with the baby. Vittoria grows increasingly more anguished, to
the point where she decides to leave home for a while. The wetnurse, who is illiterate and whose companion is in prison for
political reasons, asks the professor to teach her to read and write.
But it is not only Annetta who will learn something: through the
“lessons,” Professor Mori gains a new understanding of his feelings, including in his relationship with his wife.
“La balia è un film sulle azioni che non si vedono: una
grammatica degli affetti, un lemmario dei sentimenti, una
sintassi del non-visibile. ‘Io non riesco a scrivere le cose
che non vedo’, dice la balia al professore che ha accettato dopo la fuga della moglie - di insegnare a leggere e a scrivere alla donna che sta facendo vivere suo figlio. Bellocchio prova a farlo per lei, e per noi. Si fa ‘balia’ del nostro
sguardo, e ci reinsegna a vedere. Con una vocazione
‘pedagogica’ quasi impensabile nel suo cinema spigoloso e
chiuso. Bellocchio disegna con La balia un film fatto per lo
più di azioni che non si vedono: quasi un film senza verbi,
o una trama di anacoluti. Tutte le azioni visibili nel film (il
parto, la fuga della moglie, gli scontri in piazza fra i carabinieri a cavallo e i dimostranti socialisti) sono sintatticamente delle subordinate: le reggenti - le azioni e i movimenti che determinano il ‘sentire’ dei personaggi - sono
quasi tutte nascoste nel cuore e nell’anima. Sono ‘salti nel
vuoto’ e ‘sogni di farfalla’: non si vedono, si possono solo
immaginare. Tanto che Bellocchio sperimenta proprio qui,
come mai aveva fatto in passato, la scrittura dell’immaginazione: che è fatta di soprassalti e di ellissi, di occhiate
sghembe e di indugi in penombra, di appostamenti alla
finestra e di epifanie rivelatrici.
Gianni Canova, La balia, “Segnocinema”, n. 98, luglio-agosto 1999, pp. 37-38.
“The Wet-Nurse is a film about actions that are not seen: a
grammar of affections, a list of sentiments, a syntax of the nonvisible. ‘I can’t write about the things that I don’t see,’ says the
wet-nurse to the professor who, after his wife runs away, agrees
to teach the woman who is keeping his son alive to read and
write. Bellocchio tries to do it for her, and for us. He becomes the
‘wet-nurse’ of our gaze and re-teaches us to see. With a ‘pedagogical’ vocation almost unthinkable in his jagged and closed
films. With The Wet-Nurse, Bellocchio creates a film made up
mostly of actions that are not seen: a film almost without verbs,
or a plot of anacolutha. All of the visible actions in the film (the
birth, the wife’s departure, the confrontations in the square
between the Carabinieri on horseback and the Socialist demonstrators) are syntactically mere subordinates: the main actions –
the actions and movements that determine the characters’ ‘feeling’ – are almost all of them hidden in the heart and the soul.
They are ‘leaps in the dark’ and ‘butterfly dreams.’ They’re not
seen, they can only be imagined. So much so that it is precisely
in this film that Bellocchio experiments, like never before, a
‘writing of the imagination,’ which is made up of jerks and
ellipses, of sideways glances, of hesitations in the half-light, of
ambushes at the window and of revealing epiphanies.”
Gianni Canova, “La balia,” Segnocinema, no. 98, July-August,
1999, pp. 37-38.
sceneggiatura/screenplay: Marco Bellocchio, Daniela Ceselli
(liberamente ispirata all’omonima novella di Luigi Pirandello)
fotografia/photography (colore): Giuseppe Lanci
montaggio/editing: Francesca Calvelli
musica/music: Carlo Crivelli
scenografia/art direction: Marco Dentici
costumi/costumes: Sergio Ballo
interpreti/cast: Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi,
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Maya Sansa, Jacqueline Lustig, Pier Giorgio Bellocchio,
Gisella Burinato, Elda Alvigini, Eleonora Danco, Fabio
Camilli, Michele Placido
produttore/producer: Marco e Pier Giorgio Bellocchio
produzione/production: Filmalbatros, Istituto Luce, con la collaborazione della RAI
distribuzione/distribution: RAI Trade
durata/running time: 105’
origine/country: Italia 1999
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Solares Fondazione Culturale
MARCO BELLOCCHIO: QUADRI
IL PITTORE E IL CINEASTA
Solares Fondazione Culturale si occupa da anni di progettazione e produzione culturale, volgendo un’attenzione
particolare alle differenti declinazioni dell’arte contemporanea, dal cinema alla fotografia, dalla video-arte all’installazione, dalla musica al teatro. Da sempre, Solares persegue l’idea dell’integrazione tra diverse componenti artistiche che si alimentino tra loro e dunque privilegia la collaborazione con artisti la cui personalità è veicolata da
diverse forme espressive. Tra le produzioni di carattere
internazionale che arricchiscono il curriculum di Solares,
la Biennale di Valencia, la mostra/evento “Pesce for
Lunch” di Gaetano Pesce a New York, la mostra “The
Giving Person – Il dono dell’artista” che ha inaugurato il
nuovo PAN di Napoli. Inoltre, la co-produzione cinematografica del film documentario Super8 Stories di Emir
Kusturica e gli eventi dedicati ai grandi cineasti, come l’esposizione di fotografie Nel corso del tempo, di Wim e
Donata Wenders, la più grande mai realizzata, e la mostra
di quadri di Peter Greenaway, “Artworks”, in occasione
della quale l’autore ha realizzato l’installazione pittorica
“A Map to Paradise”.
The Solares Fondazione Culturale has for years been dedicated to
cultural projects and production, paying particular attention to
the different declinations of contemporary art, from cinema to
photography, from video-art to installations, from music to theatre. From the onset, Solares has advanced the integration of
diverse artistic elements that feed off of one another and has thus
espoused collaborations with artists whose personalities are
guided by diverse expressive forms. International productions
that have enhanced Solares’ curriculum include: the Valencia
Biennale; the “Pesce for Lunch” exhibit/event by Gaetano Pesce
in New York; and the exhibit “The Giving Person – Il dono dell’artista” that inaugurated the new PAN in Naples. Furthermore, they also co-produced Emir Kusturica’s documentary
Super8 Stories and have organized events dedicated to
acclaimed filmmakers, such as come the photography exhibit
“Nel corso del tempo” by Wim and Donata Wenders, the biggest
ever organized, and the exhibit of Peter Greenaway’s paintings,
“Artworks,” for which the artist created the pictorial installation, “A Map to Paradise.”
“Pensare e costruire questa esposizione ci ha permesso di
avvicinare un aspetto molto importante e troppo poco
esplorato dell’espressione artistica di Marco Bellocchio,
ovvero la sua naturale propensione verso l’arte visiva
‘pura’, in forma di pittura e disegno. Non solo. Questa
riflessione diventa l’accesso privilegiato al profondo dialogo tra le differenti arti, che si fanno strumenti di un unico
racconto, alla relazione complessa tra linguaggio cinematografico, segno grafico e pittura. È la scoperta di una stimolante stratificazione di sensi e significati che si contaminano componendosi, per chi guarda, in un orizzonte di
comprensione più ampio e delineato, capace di restituire
l’immagine sfaccettata dell’artista Marco Bellocchio. La
scelta è di non separare: così come tutto si mescola, s’incrocia e sovrappone nella vita di ciascuno, così Solares cerca nell’integrazione e frapposizione delle possibilità
espressive di ogni essere umano il significato più profondo dell’arte. In questo senso, accogliere un artista complesso e completo come Marco Bellocchio ci corrisponde e
ci onora. È vero. Guardare e mostrare il lavoro di un maestro, da angolazioni nuove e complementari, interrogare la
sua biografia, spesso porta alla luce gioielli.”
Stefano Caselli
Presidente di Solares Fondazione Culturale
“Thinking of putting this exhibit together allowed us to
approach a very important and little explored aspect of Marco
Bellocchio’s artistic expression or, rather, his natural propensity
towards ‘pure’ visual art, in the form of painting and drawings.
And much more. This reflection becomes privileged access to the
profound dialogue between the different arts, which are instruments of a single story, as well as the complex relationship
between cinematic language, design and painting. It is the discovery of a stimulating stratification of senses and meanings
that become contaminated, creating, for observers, a broader and
more delineated horizon of comprehension, capable of restoring
the multi-faceted image of Marco Bellocchio, the artist. The
choice is one of not separating: just as all things becomes mixed,
interwoven and superimposed in life, Solares seeks out the deepest meaning of art within the integration and interposition of the
expressive possibilities of each human being. In this sense, working with an artist as complex and well-rounded as Marco Bellocchio reflects with and honors us. It is true. Observing and
exhibiting the work of a master, from new and complementary
perspectives, as well as delving into his biography, often brings
jewels to light.”
Stefano Caselli
Presidente di Solares Fondazione Culturale
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“A scuola spesso, distratto, disegnavo sui margini dei libri
scarabocchi sempre uguali, insignificanti (per esempio
elmetti tedeschi…) Poi da adolescente ho cominciato a
dipingere, la cosa era grande ed era un modo di isolarmi e
di esprimermi, solitariamente. Non ero il primo in famiglia, anche mia madre dipingeva da ragazza in modo molto diligente, poi smise, non so quando, certamente prima
di sposarsi (suonava anche il pianoforte sempre prima di
sposarsi). Ed anche Paolo, il fratello primogenito, si era
diplomato al liceo artistico di Piacenza, aveva facilità e
gusto a dipingere, ma, dopo i vent’anni, non dipinse più. E
anch’io smisi quando a vent’anni andai a Roma al Centro
Sperimentale di Cinematografia. Perciò i pochi quadri
rimasti sono tutti di quegli anni e rappresentano soggetti,
temi contraddittori, ma anche ‘complementari’: Chagall e
l’espressionismo tedesco, Pascoli e i mutilati di Grosz, carri funebri senza cavalli, angoscia senza colori (Munch),
madri in carrozzina coi capelli corti (sono ancora donne?)
e bambini col collo spezzato (ma anche Arlecchini al chiaro di luna, violinisti verdi e bambini il giorno della prima
comunione). Questa disperazione un po’ compiaciuta, ma
anche molto motivata, traeva ispirazione oltre che dalla
vita dalle grandi letture libere e obbligatorie, apparentemente inconciliabili dell’adolescenza, Dostojewskj, Dante,
ma anche Brecht, e dai film, allora si vedevano tutti i film,
di ogni genere e qualità. A Roma non portai il necessario
per dipingere, lasciai tutto a Piacenza, dove ritornavo
spesso. Ma, come mia madre e mio fratello Paolo, non toccai più un pennello, anche se poi la mia vita fu completamente diversa dalla loro.”
Marco Bellocchio
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“Often at school, distracted, I would draw doodles in the margins of books that were always the same, insignificant (for example, German helmets…). Then, as an adolescent, I began painting. It meant a lot to me and it was a way to isolate and express
myself, alone. I wasn’t the first person to do so in my family,
even my mother painted as a young girl, very diligently, and
then she stopped, I don’t know when, certainly before marrying
(she also played the piano, also before getting married). And even
Paolo, my oldest brother, who graduated from an arts high school
in Piacenza, had an ease and taste for painting but he stopped
once in his twenties. I also stopped, at twenty, when I left to
attend the Centro Sperimentale di Cinematografia in Rome. This
is why the few paintings left are all from that time and are on
subjects and themes that are contradictory as well as ‘complementary’: Chagall and German Expressionism, Pascoli and the
Grosz’s mutilated figures, horseless funeral carts, colorless
anguish (Munch), short-haired mothers in baby carriages (are
they still women?) and children with their necks broken (as well
as Harlequins in moonlight, green violinists and children on the
day of their Communion). This rather satisfying, but also very
motivated, desperation got its inspiration from life as well as
from great literature – both free and required reading, seemingly
irreconcilable with adolescence (Dostoevsky, Dante, Brecht) –
and from films. At the time, you could see all kinds of films, of
every genre and level. I didn’t bring the necessary things for
painting to Rome; I left everything in Piacenza, where I returned
often. However, like my mother and my brother Paolo, I didn’t
pick up a paintbrush again, although my life turned out completely different from theirs.
Marco Bellocchio
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RETROSPETTIVE E OMAGGI
Jang Sun-woo
Korea Digital
Kinotar e Mika Taanila
Victor Erice
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JANG SUN-WOO
“Ogni volta che finisco un
film inizio a pensarne un altro
totalmente differente. Sono
molto mutevole, ma questa
instabilità è anche il diritto di
tutte le cose viventi.”
“As soon as I finish one film, I
begin thinking about the next,
completely different film. I am
very erratic, but this instability
is a right that all living things
have.”
Foto cortesemente concessa dalla rivista coreana “Cine21”
Per il cinema coreano Jang Sun-woo è stato un provocatore culturale. Le sue opere erano spesso sopra le righe e si scontravano con la mentalità gretta e pedante. Sempre imprevedibile, ha messo in crisi critici e giornalisti, guadagnandosi
però il favore del pubblico. Dai suoi film emerge una immaginazione fervida, idee cinefile sovversive e innovative, con
una profondità intellettuale che spazia dall’estremismo politico al credo buddista. Posso affermare con certezza che senza Jang Sun-woo la storia del cinema coreano, dopo il 1985, sarebbe stata molto diversa. Sono molto felice che la Mostra
di Pesaro abbia dimostrato un interesse sempre crescente nei confronti del cinema coreano, e che abbia deciso di dedicare un programma speciale a Jang Sun-woo. Credo che i suoi film possano essere considerati come un linguaggio universale per tutta la società contemporanea, al di là dei suoi confini. Spero quindi che il pubblico europeo possa apprezzarli
così come li ho apprezzati io. Molte grazie.
Kim Dong-ho, Director, Pusan International Film Festival (PIFF)
Kim Dong-ho, Direttore del Pusan International Film Festival (PIFF)
Jang Sun-woo has been a troublemaker for the Korean film industry. His works have often crossed the line and clashed with burea
crats, and his unpredictability has given journalists and critics a hard time. At the same time, however, his unpredictability and troublesome activities have been a pleasure for audiences. His unlimited imagination, subversive yet breakthrough cinematic ideas, and
his profound intellectual world - from radical political issues to Buddhistic beliefs - are all exposed through his films. I am confident
to say that Korean film history from 1985 onward would have been very stark without Jang Sun-woo. I am more than happy that
Pesaro has shown persistent interest in Korean cinema and is dedicating a special program to Jang Sun-woo. I believe his films can
be universal languages with which to communicate among contemporary people across all boundaries. I do hope that his films will
give European audiences the same pleasure they have given me, and leave just as strong an impression. Thank you very much.
Kim Dong-ho, Director, Pusan International Film Festival (PIFF)
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La vita e la carriera di Jang Sun-woo
The life and career of Jang Sun-woo
di Darcy Paquet e Davide Cazzaro
by Darcy Paquet and Davide Cazzaro
Figlio di un’epoca tutt’altro che irrilevante nella storia
coreana contemporanea, Jang Sun-woo ha fatto del suo
tempo (interiore ed esteriore), e del suo Paese, le basi per
un personalissimo corpus di opere capace di snodarsi tra
variazioni imprevedibili e spiazzanti. Ogni tentativo di
trascurare il mutevole ambito socio-culturale da cui tali
opere sono scaturite, e verso cui sono primariamente rivolte, rischia di diffonderne una conoscenza limitata se non
addirittura distorta. Il tentativo di ripercorrere la sua formazione, contestualizzare la genesi e lo sviluppo dei vari
progetti, e registrare le reazioni più significative della
stampa e del pubblico locale, è teso a offrire alcuni spunti
per riflettere e comprendere la caleidoscopica carriera di
Jang Sun-woo.
The product of an era that is anything but insignificant in contemporary Korean history, Jang Sun-woo used his time (both
internal and external), and his country, as the basis for a highly
personal body of work capable of unfolding into unpredictable
and heartrending variations. Any attempt to disregard the
changing socio-cultural environment from which his work has
poured forth, and towards which it was chiefly directed, risks
offering a limited, if not even distorted, knowledge of his films.
Our attempt to go over his background and education, to contextualize the genesis and development of various projects, and
to record the more significant reaction of the local press and
audiences, is meant to present just a few insights that can aid in
reflecting upon and understanding Jang Sun-woo’s kaleidoscopic career.
1952-1985
Nato a Seoul nel 1952, le pochissime notizie sulla sua giovinezza parlano di un ragazzo poco dedito agli studi che
trascorre lunghi periodi lontano da casa. Durante gli ultimi anni delle scuole superiori è affascinato dagli scritti
nietzschiani sul nichilismo e sul superuomo. Ferisce una
persona in una lite durante un viaggio in campagna e per
questo viene condannato al carcere minorile ed espulso
dalla scuola. Successivamente, trascorre un inverno nel
tempio buddista di Naeso, nella penisola di Byeonsan, e
decide di riprendere gli studi ed entrare all’università. Nel
1971 si iscrive al corso di laurea in Archeo-antropologia
presso la prestigiosa Seoul National University.
Durante il primo anno di studi, assiste a una performance
teatrale della tradizione coreana e ne rimane molto colpito. In seguito, si avvicina a una forma di teatro politico
bandita dalle autorità, entrando a far parte di un gruppo
studentesco. L’incontro con gli studenti più anziani lo
spinge a unirsi al movimento pro-democratico di quegli
anni. Nel 1975 è tra gli organizzatori del funerale di Kim
Sang-jin, uno studente universitario che si era suicidato in
segno di protesta contro la dittatura militare, e per questo
viene espulso dall’università. Tenta di nascondersi per
alcuni mesi ma la polizia riesce a rintracciarlo e nel 1976
trascorre sei mesi in prigione. Scontata la pena, per quattro
anni si divide tra l’attivismo politico e lavori occasionali.
All’inizio del 1980, durante la cosiddetta “Primavera di
Seoul”, viene riammesso all’università ma poco dopo è
nuovamente arrestato per aver organizzato una manifestazione alla Seoul National University. Viene sottoposto a frequenti interrogatori e tre mesi, durante i quali si consumano i tragici fatti di Kwangju, li trascorre in carcere.
Riflettendo sul mezzo più idoneo per riprodurre le vicende di Kwangju si convince delle potenzialità del cinema
che, contrariamente al teatro, consente di arrivare alle masse. Esce di prigione nella tarda estate dello stesso anno e
continua a pensare al cinema; arrivato l’inverno assiste alla
proiezione del film A Fine Windy Day di Lee Jang-ho e
prende quella che lui stesso definisce una “decisione tardiva”: occuparsi di cinema. Un amico scrittore gli presenta
Lee Jang-ho e nel 1981 è tra gli aiuto registi dello stesso Lee
nel film They Shot the Sun. Sul set collabora con Sun-woo
1952-1985
Born in Seoul in 1952, the little information there is on Jan Sunwoo’s childhood depicts a boy scarcely fond of school who spent
long periods of time away from home. During his last years of
high school, he became fascinated with Nietzsche’s writing on
nihilism and the Superman. He wounded someone during a fight
during a trip to the country and for this was sentenced to a juvenile jail and expelled from school. He subsequently spent a winter in the Buddhist temple of Naeso, on the peninsula of Byeonsan, and decided to go back to his studie. In 1971, he enrolled in
the Archeo-Anthropology department at the prestigious Seoul
National University.
During his first year at university he attended a traditional
Korean play that made a deep impression on him. Afterwards, he
became drawn to a form of political theatre banned by the authorities and joined a student group. Meeting and talking to older
students inspired him to join a pro-democratic movement. In
1975, he was one of the organizers of the funeral of Kim Sang-jin
(a university student who killed himself as a sign of protest
against the military dictatorship), which led to his expulsion
from university. He attempted to hide out for several months but
the police found him and he spent six months in prison in 1976.
After serving his sentence, he spent four years dividing his time
between political activism and sporadic employment.
In early 1980, during the so-called “Seoul Spring,” he was readmitted back into university but shortly thereafter was arrested
again for organizing a demonstration at Seoul National University. He was subjected to frequent interrogations and spent three
months in jail, during which the tragic events of Kwangju took
place.
Contemplating upon the most appropriate means for reproducing the events of Kwangju, he became convinced of cinema’s
potential that, as opposed to theatre, allowed one to reach the
masses. He was released from prison in late summer of the same
year and continued thinking about cinema. With the onset of
winter, he attended the screening of A Fine Windy Day by Lee
Jang-ho and made what he himself calls “a belated decision”: to
make films. A writer friend introduced him to Lee Jang-ho and
in 1981 Jang Sun-woo got a job as one of Lee’s assistant directors on They Shot the Sun. On the set, he worked with Sunwoo Wan, who at the time was Lee’s first assistant director.
Shortly thereafter, he worked with Sun-woo once again when he
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Wan, all’epoca primo assistente di Lee, e poco dopo lavora nuovamente assieme a Sun-woo come aiuto regista di
Choi Ha-won per The Invited Guests. Lo stesso anno si
avvicina al buddismo Mahayana, destinato a diventare un
punto di riferimento indispensabile nella sua vita.
Nel 1982 alcuni amici gli propongono di scrivere critica
cinematografica. Accetta non prima di aver cambiato il suo
vero nome, Jang Man-chul, in Jang Sun-woo “rubando”,
come ha scritto lui stesso, il cognome dell’amico Sun-woo
Wan per utilizzarlo come nome. Tra il 1982 e il 1984 scrive
di cinema per le riviste “Madang” e “Chosun”, entra brevemente a far par parte del Seoul Film Collective e scrive
alcuni saggi teorici. Nel 1983 completa gli studi. In quello
stesso periodo realizza alcuni filmati video di rappresentazioni teatrali e documentari dedicati al lavoro in fabbrica.
Nel 1984-85 inizia a scrivere sceneggiature e si fa presto un
nome nell’ambiente televisivo. Scrive alcuni sceneggiati
diretti da Sun-woo Wan per la serie Best-seller Theater dell’emittente MBC.
1985-2002
Nel 1985 Jang ha pochissima esperienza pratica di cinema,
chiede perciò all’amico Sun-woo Wan di codirigere una
storia basata su una sua sceneggiatura che narra di un
uomo che fugge da un manicomio e crede di essere Gesù
Cristo. A quel tempo, in Corea del Sud la produzione indipendente viene nuovamente legalizzata, a seguito di una
revisione della Motion Picture Law (che precedentemente
consentiva la produzione di film solo alle società che
rispettavano i criteri governativi). I due registi decidono
quindi di sfruttare questa opportunità e di utilizzare il
finanziamento di Kim Won-du della Hyunjin Films, produttore-investitore indipendente. Benché Jang descriva la
sua collaborazione creativa con Sun-woo “molto soddisfacente”, la produzione risente della mancanza di fondi.
Altri problemi insorgono sia a causa delle proteste dei
gruppi cristiani coreani, sia a causa della censura, dato che
il film contiene riferimenti politici, seppur in forma allegorica, che il governo non tollera. Durante la post-produzione, il produttore, accampando difficoltà finanziarie, e al
contempo preoccupato per la polemica incombente, decide di abbandonare, lasciando tutta la responsabilità del
lavoro a Sun-woo e a Jang. Senza fondi (alla fine rinunceranno al loro compenso per la regia) e preoccupati per la
censura, i due registi decidono autonomamente di tagliare
molte scene potenzialmente problematiche e acconsentono
al cambiamento del titolo che da Seoul Jesus diventa The
Emperor of Seoul, proprio per riguardo verso i gruppi cristiani. Pur passando la censura, il film non riesce a essere
distribuito nelle sale e solo nel 1988 viene distribuito in
video.
Intanto, gli scritti di Jang riscuotono l’attenzione di registi
e critici innovatori. L’aspettativa per il debutto alla regia è
grande. Esordio che avviene con The Age of Success, il primo film che Jang dirige da solo. La satira del capitalismo
raccontata attraverso l’ascesa e la caduta di un ambizioso
direttore di marketing, si dimostra azzeccata, anche se la
critica è divisa. In particolare, i detrattori sottolineano la
caduta di tono soprattutto nella seconda parte del film,
quella melodrammatica e giudicata “commerciale”. Malgrado ciò, cominciano ad arrivare i primi riconoscimenti.
Jang viene definito un regista promettente.
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was an assistant director for Choi Ha-won on The Invited
Guests. That same year, he began practicing Mahayana Buddhism, which became a vital point of reference in his life.
In 1982, several friends offered him the opportunity to write film
critiques. He accepted, but not before changing his real name,
Jang Man-chul, into Jang Sun-woo, “stealing,” as he himself
admitted, his friend Sun-woo Wan’s surname to use as a name.
Between 1982 and 1984, he wrote about film for the magazines
Madang and Chosun, joined the Seoul Film Collective for a
short period of time and wrote several theoretical essays. He finished his studies in 1983. In that same period, he made several
videos of theatrical works as well as documentaries on factory
work. From 1984-85, he began writing screenplays and soon
made a name for himself in the world of television. He wrote several screenplays, which were directed by Sun-woo Wan, for the
series Best-Seller Theatre for the MBC channel.
1985-2002
In 1985, Jang had very little practical cinema experience, and
therefore asked his friend Sun-woo Wan to co-direct a film with
him based on his screenplay about a man who escapes from a
mental institution and believes himself to be Jesus Christ. At
that time in South Korea independent films were once again
legalized, following a revision of the Motion Picture Law (which
previously allowed for the production of films of only those production companies that respected government criteria). The two
directors thus decided to take advantage of this opportunity and
to use the financing offered by Hyunjin Films’ Kim Won-du, an
independent producer/investor. Although Jang describes his creative collaboration with Sun-woo as “very satisfying,” the production suffered from lack of funds. Other problems arose, both
as a result of protests from Korean Christian groups as well as
censorship, seeing as how the film contained political references,
albeit in allegorical form, which the government did not tolerate.
During post-production, the producer, citing financial difficulties, and at the same time worried about the impending controversy, decided to abandon the project, leaving all of the work, and
responsibility, in Sun-woo’s and Jang’s hands. Without any
money (they ultimately waived their directors’ fees) and worried
about censorship, the two directors decided themselves to cut
many potentially problematic scenes and also agreed to change
the film’s title from Seoul Jesus to The Emperor of Seoul,
specifically in reference to Christian groups. Although the film
passed the censorship committee, it did not manage to get distributed in the cinemas and was not even released on video until
1988.
In the meantime, however, Jang’s writing earned him the attention of innovative directors and critics. Expectations for his
directing debut were great, and it came with The Age of Success, the first film that Jang directed alone. This satire on capitalism as depicted through the rise and fall of an ambitious marketing director proved to be right on the mark, yet critics were
divided. In particular, its detractors emphasized its faltering
tone, especially in the film’s second, more melodramatic half,
judged to be “commercial.” Nevertheless, Jang began to receive
initial recognition and was deemed a promising director.
For his next project, the director decided to shed the ironic tone
of his previous film and make Lovers in Woomuk-baemi,
based on the eponymous novel by Park Young-han. It is the story of an illicit affair that takes places in Seoul’s poorer suburbs.
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Per il film successivo, il regista decide di abbandonare il
tono satirico del lavoro precedente e realizza Lovers in Woomuk-baemi, tratto dall’omonimo romanzo di Park Younghan. È la storia di un affare illecito che si svolge nelle periferie depresse di Seoul. Come in The Age of Success, Jang
lavora con Yoo Young-kil, uno dei più prestigiosi direttori
della fotografia coreani. Anche senza aver avuto un particolare successo al botteghino, pubblico e critica reagiscono
positivamente. Ancora oggi, molti dei giovani registi
coreani che hanno debuttato alla fine degli anni ‘90, citano
il film tra le opere più influenti.
The Road to the Racetrack rappresenta la prima delle due
collaborazioni con la Taehung Pictures, importante società
cinematografica, nota per aver prodotto molte opere di Im
Kwon-taek. Il film è basato sull’omonimo provocatorio
best-seller di Ha Il-ji. Jang si è costruito una solida reputazione e la decisione di girare un film dal tema esplicitamente sessuale, coglie molti di sorpresa. È l’unica volta che
Jang non prende parte alla stesura della sceneggiatura.
L’approccio scelto è “iperrealistico”. Alla fine, l’opera ha
un grande successo di pubblico e si aggiudica numerosi
premi.
Hwaomgyong (Passage to Buddha)viene considerato da Jang
una specie di fallimento, tuttavia il film ottiene un grande
successo con la vittoria del premio Alfred Bauer al Festival
di Berlino del 1994.
Dopo aver affrontato la spiritualità, Jang volge ora lo
sguardo al “trash” della società. To You, From Me, tratto dal
romanzo di Jang Jung-il, è ad alto contenuto sessuale sui
valori morali della società. Il regista spiega che non si tratta di un film “pornografico, ma prende a prestito le vesti
della pornografia per rappresentare i vari aspetti della
nostra instabile società contemporanea sotto una luce satirica”. Ancora prima dell’uscita, il film è nei guai con la censura che non permette la proiezione di scene così spinte. To
You, From Me diventa il maggior successo commerciale di
Jang.
Nel 1994, il British Film Institute (BFI) invita Jang a realizzare l’episodio coreano della serie The Century of Cinema.
Sinceratosi dell’effettiva possibilità di realizzare un lavoro
personale, accetta l’incarico, coinvolgendo due importanti
critici cinematografici dell’epoca e confrontandosi sia con
la storia del proprio Paese sia con la forma del documentario. Un’esperienza destinata a influenzare non poco alcune sue scelte successive. “Non avevo alcun piano preciso,
solo l’idea di interrogarmi su cosa fosse il cinema coreano
nella nostra storia”, dirà in seguito il regista.
Fin dall’inizio della carriera, Jang ha ripetutamente tentato di realizzare un film su Kwangju, l’evento storico che
l’ha persuaso a occuparsi di cinema. All’inizio del 1995, i
fatti di Kwangju sono al centro di una popolare serie televisiva e, soprattutto, tornano con prepotenza sulla scena
pubblica con il processo contro gli ex presidenti Chun
Doo-hwan e Roh Tae-woo per il colpo di Stato del 1979 e
per i crimini compiuti dall’esercito nei tragici giorni del
maggio 1980. Nello stesso periodo la nuova casa di produzione Miracin Korea Film, mostra interesse per una collaborazione con Jang su questo tema. Il progetto di A Petal
entra dunque nel vivo e, con un budget di oltre tre milioni
di dollari, pari al triplo della media dell’epoca, si segnala
fin da subito come uno dei lavori più ambiziosi mai realizzati. Per la prima volta le scene della protesta e del massa-
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As in The Age of Success, Jang worked with Yoo Young-kil,
one of South Korea’s most esteemed cinematographers. Although
the film did not enjoy particular box office success, critics and
the public reacted positively. Still today, many young Korean
directors who debuted in the late 1990s cite this film as one of
their greatest influences.
The Road to the Racetrack is the first of two collaborations
with Taehung Pictures, an important production company
renowned for having produced many of Im Kwon-taek’s films.
The film is based on the provocative best-seller of the same name
by Ha Il-ji. Jang had created a solid reputation for himself and
decided to shoot a film about a sexually explicit subject, taking
many by surprise. This was the one time that Jang did not participate in the drafting of the screenplay and the approach he
chose was hyper-realistic. Ultimately, the film was a big success
with audiences and picked up a number of awards.
Although Jang considered Passage to Buddha to be a failure of
sorts, the film garnered much success after being awarded the
Alfred Bauer Prize at the 1994 Berlin Film Festival.
After having taken on spirituality, Jang then turned his gaze
upon society’s “trash.” To You, From Me, based on the novel by
Jang Jung-il, has much sexual content and takes on society’s
moral values. The director explained that the film is not “pornographic, but uses the guise of pornography in order to depict various aspects of our instable contemporary society in a satirical
light.” Even before its release, the film had trouble with the censors, who did not want such risqué scenes to be shown. To You,
From Me became Jang’s biggest commercial success.
In 1994, the British Film Institute (BFI) invited Jang to create
the Korean episode of the series The Century of Cinema. Making sure that he could truly make a personal work, he accepted
the commission, involving two important film critics of the time.
and tackled both his country’s history as well as the documentary format. This experience significantly influenced his subsequent choices. “I had no precise plan, just an idea to examine
what Korean cinema was within our history,” said the director
afterwards.
Ever since the beginning of his career, Jang had tried repeatedly
to make a film about Kwangju, the historical event that led him
to become a filmmaker. At the beginning of 1995, the events of
Kwangju were at the heart of a popular television series and,
above all, returned to the forefront of the public scene with the
trial against former presidents Chun Doo-hwan and Roh Taewoo for the 1979 coup and for the crimes committed by the army
during the tragic days of May, 1980. At the same time, the new
production company Miracin Korea Film showed interested in
collaborating with Jang on this subject. Thus, A Petal came to
life and, with a budget of over eight million dollars (three times
the then average budget of South Korean films), immediately
became one of the most ambitious films ever made in the country. For the first time, scenes of the protest and the massacre were
recreated in Kwangju and many of the survivors offered to participate. This film also marked the last collaboration between
Jang and cinematographer Yoo Joung-kil che, who passed away
in 1998 at the age of 63. Reactions to A Petal were less positive
than expected and critics were divided. Detractors remarked negatively on the gratuitous and prosaic use of sexual violence as a
way of depicting history, as well as on the film’s blend of sexual,
social and historical problems.
Jang found A Petal to be “overly constructed” and saw in the
story of Timeless, Bottomless, Bad Movie an opportunity to
use a stylistic and narrative approach that moved away from
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cro vengono ricreate nella stessa Kwangju, e molti dei
sopravvissuti offrono la loro collaborazione. Questo film
sarà anche l’ultimo atto della collaborazione con il direttore della fotografia Yoo Joung-kil che, all’età di 63 anni, si
spegnerà nel 1998. A Petal ottiene un risultato inferiore al
previsto. Le reazioni della critica sono contrastanti. In
negativo viene rimarcato l’uso gratuito e banale della violenza sessuale come modo di ripercorrere la storia. Parte
dei commenti stigmatizza la commistione di problematiche sessuali, sociali e storiche.
Jang trovava A Petal “troppo costruito” e vedeva nel soggetto di Timeless, Bottomless, Bad Movie l’occasione per un
approccio stilistico e narrativo che si distaccasse dalle pratiche convenzionali e per avvicinarsi a quel “OPEN FILM,
CINEMA” da lui stesso teorizzato all’inizio degli anni ‘80.
Bad Movie, è tratto dall’omonimo brano dei Pipi Longstocking, una band locale guidata da Dal Paran a cui viene affidata la colonna sonora. Una collaborazione tanto riuscita
da portare lo stesso Dal Paran a firmare anche le musiche
di Lies e Resurrection of the Little Match Girl, caratterizzando così quella che è stata definita la “fase sperimentale”
della carriera del regista. In Bad Movie, nulla era stato prestabilito. Tra non poche vicissitudini la lavorazione viene
conclusa dopo trentaquattro giorni effettivi di riprese. “La
gente ha detto cose molto cattive su di me a causa di Bad
Movie – ad esempio che non era nemmeno un film e che
corrompevo i teenager – con Lies la mia situazione è diventata più problematica – venivo accusato di pornografia – e
con Match Girl è peggiorata ulteriormente!” ha dichiarato
Jang nel 2003. La Miracin Korea Film taglia, senza l’autorizzazione di Jang, ben ventiquattro minuti e Bad Movie
esce dunque nelle sale coreane in una versione misconosciuta dallo stesso autore e da più parti definita “senza
senso”, data la mancanza di alcune scene chiave. Dopo
aver interrotto qualunque rapporto con la Miracin, Jang
non prende parte nemmeno alle prime due proiezioni della versione integrale, presentata e premiata ai festival di
Pusan e Tokyo. Il critico Tony Rayns parla dell’opera più
provocatoria mai realizzata in Corea del Sud.
Dopo le polemiche di Bad Movie, Jang in un primo tempo
pensa di girare Resurrection of the Little Match Girl, ma il
produttore Shin Chul della compagnia Shincine lo convince a lavorare prima su Lies. Il film, basato sullo scandaloso
romanzo di Jang Jung-il, finito in carcere con l’accusa di
pornografia, è sin dall’inizio destinato a suscitare aspre
polemiche. Per questo motivo la produzione cerca in tutti
i modi di non far trapelare alcun dettaglio alla stampa. La
società conta di presentare il film ai principali festival
internazionali, cercando in tal modo di influenzare le inevitabili future battaglie con la censura. Il film entra in concorso a Venezia. La censura coreana commenta nel seguente modo: “Lies presenta in modo esplicito scene sessuali
sadomasochistiche e perverse con un minore, che potrebbero avere un impatto malsano [sulla società]”. La Shincine proietta in anteprima per la stampa la cosiddetta “versione locale”. Le critiche nel complesso sono positive. L’anteprima mondiale a Venezia ha molta risonanza nella
stampa coreana, mentre al festival viene accolto in maniera contrastante da pubblico e critica. Alla fine il film esce in
Corea vietato ai minori di 18 anni e con vari tagli.
Resurrection of the Little Match Girl era nei piani di Jang fin
dal 1998. “Questo film - commenta Jang - sarà un action
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conventional methods and towards that “Open Film, Cinema”
that he theorized about in the early 1980s. Bad Movie is based
on the eponymous song by the South Korean punk rock band
Pipi Longstocking, led by Dal Paran, who was commissioned to
create the soundtrack. This collaboration was so successful that
Dal Paran later also composed the music for Lies and Resurrection of the Little Match Girl, thus characterizing that
which has been defined the “experimental phase” of the director’s
career. Nothing was established beforehand in Bad Movie.
Plagued with numerous difficulties, the film was shot in 24 days.
“People said a lot mean things about me because of Bad Movie
– for example, that it wasn’t even a film and that I was corrupting teenagers. With Lies, my situation became even more problematic – I was accused of pornography. And with Match Girl
it’s gotten even worse!” said Jang in 2003. Miracin Korea Film
edited the film, without Jang’s permission, cutting out 24 minutes of Bad Movie which was released in Korean cinemas in a
version that the director refused to acknowledge and was deemed
“senseless” by more than a few, given the absence of several key
scenes. After having cut all ties with Miracin, Jang did not even
participate in the first screenings of the restored version, presented and awarded at the Pusan and Tokyo Film Festivals. Critic Tony Rayns called it the most provocative film ever made in
South Korea.
After the controversy of Bad Movie, Jang initially thought to
make Resurrection of the Little Match Girl, but producer Shin
Chul of the Shincine production company convinced him to work
on Lies first. The film, based on the scandalous novel by Jang
Jung-il, who was accused of and imprisoned for pornography on
account of it, was destined to evoke controversy from its earliest
stages. For this reason, the production company tried in every
possible not to leak out any details to the press. The company
reckoned that by presenting the film at the main international
film festivals, they could thus have greater influence upon the
inevitable impending battle with censors. The film was selected
for competition at the Venice Film Festival. The Korean censors’
comments: “Lies explicitly presents perverse and sadomasochistic sexual scenes with a minor, which could have an unhealthy
impact [on society].” Shincine screened the so-called “local version” for the press. The critical response was generally positive.
The world premiere in Venice resonated greatly with the Korean
press, while both the festival’s public and the press received it
with mixed reviews. Ultimately, the film was released in Korea
but restricted to minors, and certain scenes were cut out altogether.
Jang had wanted to make Resurrection of the Little Match
Girl ever since 1998. “This film,” says Jang, “will be an action
movie, something I never imagined I could make. It certainly
won’t be easy, there will be a large crew, a big budget…it will be
like a war, but we’ll have fun.” From the anticipated budget of
little more than three million dollars, the budget rose to eight
million (not including marketing costs) and, even with a long
pause in the middle, the six months of production turned into
fourteen. Variety wrote: “An industry analyst spoke of Match
Girl as a film that causes more qualms than expectations because
of its unusually high budget. Since it is being directed by industry bad boy Jang Sun-woo… many fear that the film will not be
able to gain enough of the public’s attention to cover the considerable investment costs.”
A prophetic observation seeing as how after its release Match
Girl did not even earn back its marketing budget. “During production,” Jang admitted, “we paid the price of our relative inex-
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movie, qualcosa che non avevo mai immaginato di poter
fare. Certamente non sarà facile, una troupe molto numerosa, budget elevato […], sarà come una guerra ma ci
divertiremo”. Dai poco più di tre milioni di dollari previsti
si passa a un budget di otto milioni (spese di lancio escluse) e, seppure con un’ampia pausa nel mezzo, i sei mesi di
lavorazione previsti diventano quattordici. Scrive
“Variety”: “Un analista dell’industria ha parlato di Match
Girl come di un film che suscita più preoccupazioni che
aspettative a causa del budget inusualmente elevato. Dal
momento che è diretto dal cattivo ragazzo dell’industria,
Jang Sun-woo […], molti temono che il film non sarà in
grado di attirare così tanto l’attenzione del pubblico da
coprire il cospicuo investimento”. Osservazioni profetiche
perché, distribuito nelle sale, Match Girl non recupera
nemmeno le spese di lancio. “Durante la lavorazione - ha
ammesso Jang - abbiamo pagato la poca esperienza nella
gestione di un budget elevato e sono stati fatti molti errori. Era anche la prima volta in cui mi cimentavo con un
film d’azione e non avevo grande esperienza nel campo.
Mi sento responsabile per questo. Non ho alcun rimpianto
nell’aver realizzato Match Girl, ma sono molto dispiaciuto
nei confronti delle persone che hanno continuato a investire nel film grazie alla fiducia che riponevano in me. Non
pensavo potesse essere un flop così sonoro.” Per Tony
Rayns, però, questo è un film “realizzato con l’intelligenza
e il talento visivo caratteristici di Jang, interpretato magnificamente e di grande intrattenimento.”
2002 - ...
Parallelamente a Match Girl, Jang stava pensando alla realizzazione, con Park Jae-dong, del film d’animazione Princess Bari. Per diversi motivi la preparazione del progetto
viene interrotta. Il regista riflette sulla sua carriera. La possibilità di lasciare il cinema, presa in considerazione più di
una volta nel corso degli anni, sembra tutt’altro che esclusa. Tra il 2002 e il 2003 debutta, rispettivamente, come attore – parodiando se stesso in So Cute, singolare opera prima
di Kim Soo-hyun – e come scrittore – pubblicando “On
Separation”, raccolta di poesie dedicate in gran parte al
buddismo, alla relazione tra uomo e donna e al cinema.
Nel 2004 inizia a scrivere la sceneggiatura di un film che
lui stesso definisce un percorso a ritroso verso le sue origini e l’inizio della sua carriera. A Thousand Plateaus, questo
il titolo di lavorazione, è il suo primo film interamente
girato all’estero (Mongolia), di ambientazione non contemporanea (1800 anni fa) e, stando alle sue dichiarazioni,
adatto ad un pubblico di qualsiasi età. Così Jang ha presentato il suo progetto: “Ci sono uomini che percorrono
strade senza meta. Altri vivono per strada. Quelli che vivono per strada, meno hanno e meglio si sentono. Stanno
bene quando possono condividere quello che hanno, come
la seta bianca, o l’alcol che ricavano dal latte di giovenca.
Meno si possiede, più si è liberi...”
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perience in managing such a big budget and many mistakes were
made. It was also the first time that I tried my hand at an action
film and I didn’t have much experience in the field. I feel responsible for this. I have no regrets over having made Match Girl,
but I feel very bad for the people who continued investing in the
film because of the trust they had in me. I didn’t think it could
be such a big flop.” For Tony Rayns, however, Match Girl was
a film “made with intelligence and the visual talent characteristic of Jang, magnificently acted and extremely entertaining.”
2002 – present
At the same time as Match Girl, Jang contemplated making an
animated film with Park Jae-dong, entitled Princess Bari. For
various reasons, preparations for the project were interrupted.
The director contemplated his career. The possibility of leaving
cinema, which he considered more than once over the course of
the years, was anything but forgotten. Between 2002 and 2003,
he debuted, respectively, as an actor, parodying himself in So
Cute, the singular debut film by Kim Soo-hyun; and as a writer,
with On Separation, a collection of poetry on Buddhism, relationships between men and women, and cinema. In 2004, he
began writing a screenplay for a film he described as a backwards
journey towards his origins and the beginning of his career. A
Thousand Plateaus, the title of this upcoming project, is his
first film shot entirely abroad (in Mongolia), with a non-contemporary setting (1800 years ago) and, according to Jang himself, suitable for audiences of all ages. Jang presented his project
as follows: “There are men who take streets with no direction.
Others live on the streets. Those who live on the streets have less
and feel better. They feel good when they can share what they
have, like white silk, or the alcohol they extract from cow’s milk.
The less one possesses, the more one is free....”
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JANG SUN-WOO
SEOUL YESU
Seoul Jesus
(t.l.: Il Gesù di Seoul)
Un uomo che si crede Gesù Cristo, fugge dal manicomio e
si dà alla latitanza a Seoul. La punizione divina annunciata nell’Apocalisse di Giovanni incombe e il “nuovo” Gesù
inizia a cercare una donna che simbolizzi questa Seoul
decadente e corrotta. Deve convincerla a convertirsi perché la città sia salva. Nel frattempo incontra Tokkani, un
orfanello che vende gomme da masticare alla stazione.
Con il bimbo continuerà il suo folle cammino. Tokkani crede che quest’uomo così generoso sia davvero Gesù e che
grazie a lui potrà finalmente trovare una madre. Braccati
dagli infermieri del manicomio, Gesù e l’orfanello trovano
Maria, affascinante promessa sposa di un facoltoso industriale della città.
A man believing himself to be Jesus Christ escapes from a mental institution and hides out in Seoul. The divine punishment
heralded in the Apocalypse of John is impending and the “new”
Jesus begins searching for a woman who symbolizes this decadent and corrupt Seoul. He must convince her to convert so that
the city will be saved. During his search, he meets Tokkani, an
orphan who sells chewing gum at the train station, and will continue his mad quest accompanied by the boy. Tokkani believes
that this very generous man truly is Jesus and that, thanks to
him, he will finally find his mother. Pursued by the institution
nurses, Jesus and the orphan find Maria, the charming fiancée of
a wealthy businessman from Seoul.
“Il film prova a immaginare cosa accadrebbe se oggi Gesù
Cristo apparisse a Seoul. L’idea originale prevedeva un climax fino alla crocefissione, ma abbiamo dovuto cambiare
in favore di una fine più lieta. Abbiamo avuto due problemi durante la produzione: la mancanza di soldi e di cooperazione da parte delle autorità che lo vedevano come un
film antigovernativo.”
Jang Sun-woo (1993)
“The film tries to imagine what would happen if Jesus Christ
appeared in Seoul today. The original idea was to climax with his
crucifixion, but we had to change it to a happier ending. We had
two problems during the production: no money, and no cooperation from the authorities, who saw it as an anti-government
film.”
Jang Sun-woo (1993)
“Guardando indietro, ovviamente, si può leggere il film in
modo politico ma penso che sia qualcosa di inutile, non
così importante; certo a quel tempo Seoul era il simbolo
della situazione politica, del desiderio e della corruzione.
Ma ora è meglio non concentrarsi sulle questioni politiche.”
Jang Sun-woo (2004)
“Looking back now, of course you can interpret the film in a
political way, but I think that’s kind of useless, it’s not that
important. Of course at that time Seoul was a symbol of the
political situation, of desire and corruption. But now it’s better
not to focus on the political issues.”
Jang Sun-woo (2004)
co-regia/co-director: Sun-woo Wan
sceneggiatura/screenplay: Jang Sun-woo
fotografia/photography (35mm, colore): Seo Jeong-min
lmontaggio/editing: Hyeon Dong-chun
suono/sound: Kim Song-chan
musica/music: Oh Chin-woo
interpreti/cast: Kim Myong-kon, Ahn Yong-nam, Oh Su-mi,
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Na Han-il, Kang Sok-ran, Park Sang-cho
produttore/producer: Kim Won-du
produzione/production: Hyun Jin Films
durata/running time: 102’
origine/country: Corea del Sud 1985/86
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JANG SUN-WOO
SONGGONG SIDAE
The Age of Success
(t.l.: L’età del successo)
Kim Pan-chok (il cui nome significa “promotore di vendite”) è deciso a diventare a tutti i costi un uomo di successo. Durante un colloquio di lavoro presso la Mack Gang
(“insaziabile”) Corporation mostra tutto il suo talento e
viene assunto. Il giorno seguente, Pan-chok viene promosso a un incarico più alto. Dopo aver festeggiato si reca al
The Age of Success, il locale in cui si ritrova abitualmente la
concorrenza. Lì conosce la proprietaria, la fascinosa Song
So-bi (“consumatrice sessuale”) e fa colpo su di lei. Il suo
successo sembra inaresstabile. Pan-chok è spregiudicato e,
inoltre, comincia una relazione amorosa con So-bi così da
ottenere preziose informazioni sulle mosse della concorrenza. La fortuna, però, gli volta le spalle e la parabola si fa
improvvisamente discendente.
Kim Pan-chok (whose name means “promoter of sales”) is determined to become successful, at any price. During a job interview
with the Mack Gang (“insatiable”) Corporation, he demonstrates all his talents and is hired. The following day, Pan-chok
is promoted to a higher position. After celebrating, he goes to
The Age of Success, a bar in which the competition often hangs
out. There, he recognizes the owner, the enchanting Song So-bi
(“sexual consumer”) and makes an impact on her. His success
seems unstoppable. Pan-chok is ruthless and, furthermore,
begins an affair with So-bi in order to obtain precious information on the competition. However, luck turns its back on him and
his upward spiral suddenly plummets.
“La storia è una satira sullo sfruttamento commerciale,
sulla pubblicità e così via. Negli anni ‘70 il materialismo
americano ha cospirato con il fascismo coreano per deformare la società, e io volevo registrare una protesta, ecco
tutto.”
Jang Sun-woo (1993)
“The story is a satire on commercial exploitation, advertising
and so on. In the 1970s, materialism from America conspired
with Korean fascism to deform society, and I wanted to register
a protest, that’s all.”
Jang Sun-woo (1993)
“Non penso ci sia nessuna differenza creativa di rilievo tra
The Age of Success e Seoul Jesus nel modo in cui ironizzano
sulla società. In The Age of Success volevo parlare del capitalismo e rimpiango che non sia stato possibile girare la
scena finale originale che avevo scritto nella sceneggiatura. Senza quella scena molte persone hanno frainteso un
film che voleva essere anti-capitalista e che proprio per
quella scena mancante, invece, è stato usato come propaganda nelle grandi aziende.”
Jang Sun-woo (2004)
“I don’t think there’s any significant creative difference between
The Age of Success and Seoul Jesus in the way they lampoon
society. In The Age of Success I wanted to talk about capitalism but I regret that it was impossible to shoot the original final
scene I wrote in the script. Without that scene many people misinterpreted the film. It was meant to be an anti-capitalist film
but since that scene was not shot, it was used as a propaganda
film by big corporations.”
Jang Sun-woo (2004)
sceneggiatura/screenplay: Jang Sun-woo
fotografia/photography (35mm, colore): Yoo Young-kil
montaggio/editing: Kim Hyun
suono/sound: Kim Myung-su
musica/music: Lee Jong-ku
scenografia/art direction: Park Jae-ju
costumi/costumes: Chun Du-ho
44
interpreti/cast: Ahn Sung-ki, Lee Hye-young, Choi Bong,
Jeong Boo-mim, Jeong Jin
produttore/producer: Hwang Ki-sung
produzione/production: Hwang Ki-sung Films
durata/running time: 110’
origine/country: Corea del Sud 1988
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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JANG SUN-WOO
UMUK PAEMIUI SARANG
Lovers in Woomuk-Baemi
(t.l.: L’amore di Woomuk-Baemi)
Bae Il-do, un sarto vicino ai trent’anni, accetta di lavorare
in una piccola fabbrica di gonne e maglieria a WoomukBaemi, una cittadina piuttosto povera nella periferia di
Seoul. Si trasferisce assieme alla moglie e al loro bambino.
La coppia non va molto d’accordo. Min Kong-rye è la lavoratrice più giovane della piccola fabbrica. Donna timida e
tranquilla, vive a Woomuk-Baemi assieme al figlioletto e a
un marito violento e donnaiolo. Un giorno Kong-rye chiede a Il-do di uscire con lei. I due si innamorano e iniziano
un’intensa relazione abbandonando le proprie famiglie. La
moglie di Il-do soffre per l’improvvisa fuga e decide di
vendicarsi. Dopo varie umiliazioni Il-do è costretto a
ricongiungersi con la moglie, pur continuando ad amare
Kong-rye.
Bae Il-do, a tailor approaching his thirties, agrees to work in a
small skirt and knitwear factory in Woomuk-Baemi, a rather
poor town on the outskirts of Seoul. He moves there with his wife
and child, but the couple goes not get along very well. Min
Kong-rye is the youngest worker in the small factory. A shy,
calm woman, she lives in Woomuk-Baemi with her young son
and a violent and womanizing husband. One day, Kong-rye asks
Il-do to go out with her. The two fall in two and begin a passionate relationship, leaving their families. Il-do’s wife suffers
because of her husband’s sudden abandonment and decides to get
revenge. After numerous humiliations, Il-do is forced to go back
to his wife despite the fact that he still loves Kong-rye.
“Mi piaceva il fatto che il romanzo di Park riguardasse la
gente ordinaria suburbana e fosse basato su un’osservazione e un’esperienza in prima persona. Woomuk-Baemi,
è situato nei sobborghi più periferici di Seoul, è un luogo
di transizione in cui i valori della campagna e della città si
incontrano e si intersecano.”
Jang Sun-woo (1993)
“I liked the fact that Park’s novel was about ordinary, suburban
people and based on first-hand experience and observation.
Woomuk-Baemi, in the outer suburbs of Seoul, is a place of transition, where the values of the countryside and the city meet and
intersect.”
Jang Sun-woo (1993)
sceneggiatura/screenplay: Jang Sun-woo, Im Jong-jae, dal
romanzo omonimo di Park Young-han
fotografia/photography (35mm, colore): Yoo Young-kil
montaggio/editing: Kim Hyun
suono/sound: Lee Young-kil
musica/music: Lee Jong-ku
scenografia/art direction: Kim Han-sang
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
interpreti/cast: Park Jung-hun, Choi Myung-kil, Yu Hye-ri,
Lee Dae-kun, Choi Ju-Bong, Shin Chun-sik, Kim Young-ok,
Yang Taek-Jo
produttore/producer: Suh Byung-ki
produzione/production: Mogard Korea
durata/running time: 114’
origine/country: Corea del Sud 1990
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JANG SUN-WOO
KYONGMAJANG KANUN KIL
The Road to the Racetrack
(t.l.: La strada per l’ippodromo)
R, sposato con figli, ha vissuto cinque anni a Parigi lontano dalla famiglia. In quel lungo periodo, R si è legato sentimentalmente per tre anni e mezzo con la piccolo borghese J. Una relazione interrotta quando la donna ha deciso di
tornare a Seoul. Il giorno in cui anche R rientra in Corea
del Sud, J lo va a prendere all’aeroporto. Lui vorrebbe ricominciare subito la relazione ma lei è estremamente riluttante. R trascorre le sue giornate tra anonimi motel e caffè
di Seoul, dove J continua a respingerlo, e la sua casa a Daegu, dove la moglie non solo non gli concede il divorzio ma
minaccia di ricattarlo. Una sera J cede all’insistenza di R,
ma le cose sono cambiate rispetto a tempi di Parigi.
R, married with children, spent five years in Paris far from his
family. In that long period, he had a three and a half year relationship with conventional, middle-class J; a relationship that
was broken off when she decided to return to Seoul. The day that
R also goes back to South Korea, J picks him up at the airport. He
wants to start the affair back up immediately but she is extremely reluctant. R spends his days between anonymous motels and
cafes in Seoul, where J continues to reject him, and his house in
Daegu, where his wife not only refuses to grant him a divorce
but also threatens him with blackmail. One evening, J gives in to
R’s insistence, but things have changed since Paris.
“Perché il film si chiama The Road to the Racetrack se non ha
niente a che fare con gli ippodromi? La risposta forse è che
questa è la chiave per un nuovo film d’arte di cui questa
generazione ha bisogno, un nuovo modo di pensare.”
Jang Sun-woo (1991)
“Why is this film called The Road to the Racetrack when the
film had nothing to do with racetracks? The answer is perhaps
that this is the key to a new art film that this generation requires,
a new way of thinking.”
Jang Sun-woo (1991)
“Il film dovrebbe essere fastidioso, per ottenere un’atmosfera estremamente realistica, cupa e irritante.”
Jang Sun-woo (1998)
“The film was supposed to be annoying, to have an extremely
realistic, gloomy and irritating atmosphere.”
Jang Sun-woo (1998)
sceneggiatura/screenplay: Ha Il-ji, dal suo romanzo omonimo
fotografia/photography (35mm, colore): Yoo Young-kil
montaggio/editing: Kim Hyun
suono/sound: Lee Young-kil
musica/music: Kim Su-chol
scenografia/art direction: Kim Yu-jun
costumi/costumes: Miss Ji Collection
46
interpreti/cast: Moon Seong-keun, Kang Su-yeon, Kim Boyeon, Yun Il-joo, Kwon Il-jong, Im Jong-mi, Lee In-ok, Kim
Sun-kyung
produttore/producer: Lee Tae-won
produzione/production: Taehung Pictures
durata/running time: 138’
origine/country: Corea del Sud 1991
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JANG SUN-WOO
HWAOMGYONG
Passage to Buddha
(t.l.: Il Sutra della Ghirlanda Fiorita)
Abbandonato in una coperta dalla madre, Sonje viene cresciuto dal ladro Munsu. Il padre adottivo muore e Sonje,
all’età di undici anni, rimane solo. Presa la coperta con cui
la madre l’aveva abbandonato, intraprende un viaggio di
diversi anni lungo il Paese, deciso a ritrovare la donna. Tra
i vari incontri, si imbatte in Pobwoon, un monaco buddista che gli spiega come potrebbe raggiungere l’Illuminazione. Altri personaggi interrompono il cammino di Sonje.
Tra questi, Iryon, una ragazza che aveva conosciuto anni
prima e Pobwoon, il monaco che ordina a Sonje di portare
con se la ragazza. Rimasta in cinta, Iryon perde il bambino
e decide di scappare. Nuovamente solo, Sonje incontra
ancora una volta Pobwoon. Finalmente trova in sogno la
madre. Ha raggiunto l’Illuminazione, la madre che non ha
mai trovato in realtà è nascosta in ogni cosa.
Abandoned in a blanket belonging to his mother, Sonje is raised
by the thief Munsu. His adopted father dies, leaving Sonje alone
at the age of eleven. Taking the blanket, he begins a many-year
journey throughout the country, intent on finding his mother.
Among his many encounters, he meets Pobwoon, a Buddhist
monk who teaches him how to reach Enlightenment. Other characters interrupt Sonje’s travels. Among them, Iryon, a girl he
met years earlier, and Pobwoon, the monk who orders Sonje to
take the girl with him. After becoming pregnant, Iryon loses the
child and decides to run away. Alone once again, Sonje meets up
with Pobwoon once more. He finally meets his mother in a
dream. He has reached Enlightenment: the mother he never
found in real life is hidden in all things.
“Oviamente Hwaomgyong solleva molte questioni politiche
e sociali, tuttavia per me questo film riguarda il problema
della realizzazione e della libertà degli individui. Ho voluto adattare il romanzo perché mi sentivo insoddisfatto circa i modi con i quali si valuta la direzione verso la quale si
muove la nostra società. Sentivo che il prisma del Sutra
avrebbe fornito una nuova prospettiva.”
Jang Sun-woo (1993)
“Obviously Hwaomgyong raises many social and political
questions, but for me it centres on questions of fulfilment and the
freedom of the individual. I wanted to adapt the novel because I
felt dissatisfied with existing ways of evaluating the direction
our society is moving in. I sensed that the prism of the Sutra
would provide a new perspective.”
Jang Sun-woo (1993)
sceneggiatura/screenplay: Jang Sun-woo, dall’omonimo
romanzo di Ko Un
fotografia/photography (35mm, colore): Yoo Young-kil
montaggio/editing: Kim Hyun
suono/sound: Kim Won-yong
musica/music: Lee Jong-ku
scenografia/art direction: Kim Yu-jun
costumi/costumes: Lee Eun-kyung
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
interpreti/cast: Oh Tae-kyung, Lee Hye-young, Kim Eun-mi,
Kim Hye-sun, Won Mi-kyung, Chung Su-young, Lee Hojae, Shin Hyun-joon, Ko Young-jae, Ho Byung-seop, Kim
Suk-man, Im Chang-dae, Lee Dae-ro
produttore/producer: Lee Tae-won
produzione/production: Taehung Pictures
durata/running time: 116’
origine/country: Corea del Sud 1993
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JANG SUN-WOO
NOEGE NARUL PONENDA
To You, From Me
(t.l.: A te mando me)
Uno scrittore, Io, vive solitario nella città di Daegu. In passato aveva vinto un premio letterario che gli era stato tolto
perché accusato di plagio. Dopo l’accaduto si trova costretto a scrivere per una casa editrice illegale che pubblica
romanzi porno camuffati da manifesti comunisti sovversivi nordcoreani. La sua vita viene sconvolta quando Lei,
Paji, una donna giovane e sexy, bussa alla sua porta. Paji è
convinta del talento letterario dello scrittore. Si trasferisce
da lui, gli offre il suo corpo e cerca di aiutarlo. Quando
però scopre che anziché coltivare la sua vocazione letteraria scrive romanzi porno, minaccia di andarsene e così
facendo convince lo scrittore a rescindere il contratto con la
casa editrice e tornare alla “vera” scrittura. Ogni tentativo
risulta vano. Dopo varie avventure, Paji cerca di convincere un’ultima volta l’ormai ex scrittore a ricominciare la carriera letteraria. Lui però rifiuta, è felice di essere così
com’è.
A writer lives alone in the city of Daegu. A few months earlier,
he won a literary prize that was taken away from him because he
was accused of plagiarism. Consequently, he is forced to write for
an illegal publishing company that publishes pornographic novels camouflaged as subversive North Korean Communist manifestos. His life is turned upside down when Paji, a sexy young
woman, knocks at his door. Paji is convinced of the writer’s literary talent. She moves into his house, offers him her body and
tries to help him. However, when she discovers that instead of
cultivating his literary vocation, he writes porn novels, she
threatens to leave and thereby persuades the writer to break his
contract with the publishing company and go back to“real” writing. His every attempt is in vain. After several adventures, Paji
tries one last time to convince the (by now) ex-writer to restart
his literary career, but he refuses. He is happy with the way he is.
“Ho provato a fare i conti con valori più alti, nel mio ultimo film Hwaomgyong. Questa volta sono andato all’estremo opposto.”
Jang Sun-woo (1994)
“I tried to deal with higher values in my last film, Hwaomgyong. This time I’ve gone to the other extreme.”
Jang Sun-woo (1994)
“All’epoca pensavo che l’intera società dovesse interrogarsi sul perché nulla andava bene, volevo fare i conti con la
realtà spicciola. Il romanzo di Jang Jung-il parlava dell’immondizia della società coreana. Leggendolo ho scoperto
che l’immondizia può essere santità e allo stesso tempo
che la santità può essere immondizia.”
Jang Sun-woo (2004)
sceneggiatura/screenplay: Jang Sun-woo, Ku Sung-ju, dall’omonimo romanzo di Jang Jung-il
fotografia/photography (35mm, colore): Yoo Young-kil
montaggio/editing: Kim Hyun
suono/sound: Kim Won-yong
musica/music: Kang San-ae
scenografia/art direction: Cho Young-sam, Kim Cheol-wung
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“At that time, I thought the entire society had to be questioned
because nothing was right; I wanted to deal with the cheap reality. The novel by Jang Jung-il was about the trashiness of Korean society. In it, I found that trash can be holy and, at the same
time, that the holy can be trash.”
Jang Sun-woo (2004)
costumi/costumes: Kim Yoo-seon
interpreti/cast: Moon Seong-keun, Jeong Seon-kyeong, Yeo
Kyun-dong
produttore/producer: Yoo In-taek
produzione/production: Kihweck Shidae
durata/running time: 109’
origine/country: Corea del Sud 1994
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YONGHWA PAEK CHUNYON
KINYOM HAN’GUKP’YON:
KIL WIUI YONGHWA
Cinema on the Road
(Cinema on the road: un saggio sul
cinema coreano di Jang Sun-woo)
Documentario commissionato dal British Film Institute
(BFI) per la serie The Century of Cinema, testimonia la ricerca di Jang Sun-woo sulla vera essenza del cinema coreano.
Il regista gira alcuni chilometri di pellicola a Seoul ma li
ritiene inutili per il suo scopo. Intraprende dunque un
viaggio che tra visite ai luoghi della memoria e interviste a
registi, addetti ai lavori e gente comune, ripercorre le
vicende del Paese e del suo cinema, intersecandole tra loro.
A documentary commissioned by the British Film Institute for
the The Century of Cinema series bears witness to Jang Sunwoo’s search for the true essence of Korean cinema. The director
shoots several kilometers of film in Seoul but considers them useless for his intentions. He then undertakes a journey that –
among visits to memorable places and interviews with directors,
those who work in the world of cinema, and ordinary people –
traces and intertwines the events of his country and his films.
“Ho incontrato gente per la strada e ho registrato quello
che hanno detto a proposito del cinema coreano con una
16mm. È un bilancio personale del modo in cui il cinema
ha influenzato la vita dei coreani moderni.”
Jang Sun-woo (1995)
“I met people on the road and recorded what they said about
Korean cinema with a 16mm camera. It’s a personal account of
the way that cinema has influenced the lives of modern Koreans.”
Jang Sun-woo (1995)
sceneggiatura/screenplay: Lee Jung-ha, Jang Sun-woo
fotografia/photography (16mm, colore, bianco e nero): Yoo
Young-kil, Park Hyun-chul
montaggio/editing: Dongyang Image, Seoul Digital, Digital
Media
suono/sound: Kim Seok-won, Hwang Sung-gi
musica/music: Won il
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
interpreti/cast: Kim Dae-rye
produttore/producer: Park Ki-yong
produzione/production: Samsung Nices
distribuzione/distribution: BFI
distribuzione italiana/Italian distribution: BIM distribuzione
durata/running time: 52’
origine/country: Corea del Sud 1995
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JANG SUN-WOO
KKONNIP
A Petal
(t.l.: Un petalo)
Corea del Sud, 1980. Una ragazza in stato confusionale
vaga per la campagna alla ricerca del fratello maggiore.
Inizia a seguire Chang, misero e taciturno operaio edile
che, pur comportandosi in modo violento, inizia a prendersi cura della ragazza. Cominciano a circolare delle voci
riguardo una strage di civili compiuta dall’esercito nella
città di Kwangju. Raggiunto un cimitero, la ragazza si inginocchia davanti a una tomba e inizia a ricordare gli eventi
con lucidità: messa al corrente dell’uccisione del figlio, la
madre aveva deciso di andare in città per unirsi alle proteste contro il regime. Quando l’esercito inizia a sparare sulla folla, la donna rimase uccisa. Finito il racconto la ragazza sprofonda nuovamente in uno stato confusionale. E
come un virus, lo squilibrio mentale colpisce anche Chang,
mentre della ragazza si sono perse le tracce.
South Korea, 1980. A dazed girl wanders through the countryside in search of her older brother. She begins following Chang, a
hapless and taciturn construction worker who, despite his violent behavior, starts taking care of the girl. Rumors begin circulating about a massacre of civilians carried out by the army in
the city of Kwangju. At a cemetery, the girl falls to her knees
before a gravestone and begins recalling the events clearly: upon
finding out about the murder of her son, her mother decided to
go to the city to join the protests against the regime. When the
army began shooting into the crowd, the woman was killed.
When she finishes the story, the girl falls back into a daze. It is
like a virus: her mental imbalance strikes Chang as well, while
all traces of the girl are lost.
“Sono diventato un regista in gran parte per quello che è
accaduto a Kwangju, ho sempre sentito il bisogno di fare i
conti con il massacro in qualche modo. In questo film, non
ho potuto affrontare l’intero background storico culturale,
perciò ho deciso di mettere a fuoco il modo in cui la storia
influisce sull’ individuo. In particolare le cicatrici che sono
rimaste nella psiche di una ragazza di 15 anni.”
Jang Sun-woo (1996)
“I became a filmmaker largely because of what happened in
Kwangju, and I have always felt a need to deal with the massacre
somehow. I couldn’t tackle the full political and historical background in this one movie, and so I chose to focus on the way that
history affects the individual. In particular, the scars that were
left on the psyche of one 15-year-old girl.”
Jang Sun-woo (1996)
“Se avessi avuto l’opportunità di fare un film su Kwangju
prima del ’96 sarebbe stato più documentaristico perché
ho sempre voluto riprodurre quello che è accaduto a
Kwangju; ma tra quei fatti e il ‘96 sono passati troppi anni,
così ho pensato che non avesse senso, ecco perché ho realizzato il film in un altro modo, come un rituale sciamanico che mi ha permesso di liberarmi del fardello di questo
avvenimento storico.”
Jang Sun-woo (2004)
“If I had the chance to make a film about Kwangju before ’96 it
would have been more like a documentary because I always
wanted to reproduce what happened in Kwangju. But ’96 was
after too many years so I thought it was meaningless. That’s why
I made the film in another way, like a shaman ritual that enabled
me to put down the burden of this historical incident.”
Jang Sun-woo (2004)
sceneggiatura/screenplay: Jang Moon-il, Jang Sun-woo, dal
racconto “Over There Silently Wilts a Petal” di Choi Yun
fotografia/photography (35mm, colore, bianco e nero): Yoo
Young-kil
montaggio/editing: Kim Yang-il
suono/sound: Lee Young-kil
musica/music: Won Il
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scenografia/art direction: MBC Art Center
interpreti/cast: Lee Jeong-hyeon, Moon Seong-keun, Lee
Young-ran, Park Kwang-jeong, Sol Kyung-gu, Chu Sang-mi
produttore/producer: Ahn Byoung-ju
produzione/production: Miracin Korea Film
durata/running time: 101’
origine/country: Corea del Sud 1996
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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JANG SUN-WOO
NAPPUN YEONGHWA
Timeless, Bottomless, Bad Movie
(t.l.: Film brutto/Film cattivo)
Episodi che raccontano le vicende avventurose, divertenti,
tragiche e scabrose dei ragazzi di strada e dei senzatetto di
Seoul, collegati liberamente tra di loro in un crescendo di
violenza e disperazione. Un caleidoscopio di speranze
infrante, autodistruzione, droga, microcriminalità, videogiochi, prostituzione, alcol e stupri.
Episodes depicting the adventurous, fun, tragic and trying
events of the lives of street kids and the homeless in Seoul, liberally interconnected in a crescendo of violence and despair. A
kaleidoscope of shattered hopes, self-destruction, drugs, petty
crime, video games, prostitution, alcohol and rape.
“Bad Movie è stato un esperimento realizzato con molte difficoltà, la logica interna del film stava nella mia aspirazione alla libertà. (...) Ai fini della riflessione ho tentato un
esperimento oltraggioso e nel far questo mi sono sentito a
mio agio.”
Jang Sun-woo (1998)
“Bad Movie was an experiment which was made with lots of
difficulty, but the internal logic was that I was aiming at freedom....) For the purpose of reflection, I tried an outrageous
experiment and, in that, I felt comfortable.”
Jang Sun-woo (1998)
“Bad Movie è un film molto rozzo, disordinato, nulla era
stato deciso precedentemente: il genere, la struttura, il cast,
le macchine da presa, nemmeno la sceneggiatura. Ecco
perché non si riesce a distinguere tra finzione e non-finzione. (...) Volevo ritrarre i veri outsiders della nostra società, i ragazzi di strada e i senzatetto.”
Jang Sun-woo (2003)
“Bad Movie is a very rough, unarranged movie, nothing was
decided before: not the genre, the structure, the cast, the cameras,
nor the script. In this way you can’t tell if it’s fiction or non-fiction.... I wanted to portray the real outsiders of our society, the
street kids and the homeless.”
Jang Sun-woo (2003)
sceneggiatura/screenplay: Jang Sun-woo, Kim Soo-hyun e altre
19 persone
fotografia/photography (colore): Choi Jung-woo (35mm), Cho
Yong-kyou (35mm, 16mm), Kim Woo-hyung (16mm, 8mm
digitale), Yom Jung-suk e Lee Hye-young (6mm digitale,
8mm)
montaggio/editing: Kim Yong-su
suono/sound: Lee Pyong-ha, Han Chol-hee
musica/music: Dal Paran, Pipi Longstocking
scenografia/art direction: Choi Jung-hwa
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
costumi/costumes: Park Jeong-won
interpreti/cast: Jang Nam-kyoung, Kwon Hyok-shin, Han
Seul-ki, Park Kyeong-won, Lee Jae-kyung, Byeon Sang-gyu,
Kim Kkot-chi, Ju Jin-ju, Choi Mi-seon
produttore/producer: Yeo Han-ku, Kim Soo-jin
produzione/production: Miracin Korea Film
distribuzione/distribution: Miracin Korea Film
durata/running time: 143’
origine/country: Corea del Sud 1997
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JANG SUN-WOO
KOJIMMAL
Lies
(Bugie)
Y è una studentessa liceale diciottenne decisa a perdere la
verginità prima del diploma. Conosce J, un trentottenne
scultore di successo, e inizia una relazione clandestina e
saltuaria in alberghi spesso di infima categoria. Ben presto
si passa alle pratiche sadomaso. I due si concedono reciprocamente a prestazioni sempre più estreme, accettando
il dolore come forma di dedizione totale al partner. J tuttavia è sposato con G che vive a Parigi. E quando J si reca
dalla moglie, la distanza accentua il suo desiderio per la
giovane amante. La loro relazione clandestina, però, sta
per esaurirsi, messa in crisi prima dal fratello di Y che fa di
tutto per separare gli amanti, e poi dal logorio di un rapporto che avrà un ultimo atto a Parigi.
Y is an 18 year-old high school determined to lose her virginity
before graduation. She meets J, a successful 38 year-old sculptor
and begins a secret and sporadic affair with him, often in seedy
hotels. Very soon, they begin engaging in sadomasochism. The
two indulge mutually in increasingly more extreme acts, accepting pain as a form of total dedication to one another. However, J
is married to G, who lives in Paris. And when J visits his wife,
the distance only heightens his desire for his young lover. Their
secret affair, however, is coming to an end, disrupted first by Y’s
brother, who does everything possible to separate the lovers, and
then by the strain of a relationship whose final act will take place
in Paris.
“Cerco di sbarazzarmi delle distinzioni tra bene e male, tra
bello e brutto. Questo film è incentrato su vita e amore. Ma
l’amore non è sempre così splendido. Solitamente nei film
è abbellito. Comunque ci vuole soltanto una piccola variazione d’angolatura per vederlo come assurdo o senza speranze. Il film parla anche del sogno di vivere, mangiare e
scopare senza dover lavorare. L’ortodossia sociale prescrive che ciascuno dovrebbe lavorare sodo e vivere una vita
decente.[…] Volevo che le nozioni di bene e male perdessero ogni significato, ma volevo anche continuare ad avere un film ricco di un certo pathos… Comunque, cosa stiamo giudicando? Non cadiamo nella tentazione di giudicare. Giochiamo e basta. Alla fin fine è tutto un gioco.”
Jang Sun-woo (1999)
“I seek to rid the distinctions between good and evil, between
beauty and ugliness. This film centres on life and love. But love
isn’t always so terrific. It’s usually beautified in films. However,
it only takes a small change of perception to see it as absurd or
hopeless. This is also about a dream of living, eating and fucking
without having to work. Social orthodoxy prescribes that everyone should work hard and live a decent life....I wanted the
notions of good and evil to lose all meaning, but still have a film
rich in a kind of pathos.... What are we judging anyway? Let's
throw away the impulse to pass judgement. Let’s just play. After
all, it’s all a game.”
Jang Sun-woo (1999)
sceneggiatura/screenplay: Jang Sun-woo, dal romanzo “Tell
Me a Lie” di Jang Jung-il
fotografia/photography (35mm, colore): Kim Woo-hyung
montaggio/editing: Park Gok-ji
suono/sound: Lee Young-kil
musica/music: Dal Paran
scenografia/art direction: Kim Myeong-kyeong
costumi/costumes: Park Shin-yeon
interpreti/cast: Lee Sang-hyun, Kim Tae-yeon, Jeon Hye-jin,
Choi Hyun-joo, Han Kwan-taek, Kweon Hyok-pung,
52
Cheong Young-keum, Shin Min-su, Cho Young-sun, Ahn
Mi-kyung, Yeom Kum-ja, Choi Boo-ho, Goh Hye-won, Lee
Jin-ho
produttore/producer: Shin Chul
produzione/production: Shincine Communications
distribuzione/distribution: Korea Pictures
distribuzione italiana/Italian distribution: Key Films
durata/running time: 115’
origine/country: Corea del Sud 1999
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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JANG SUN-WOO
SONGNYANG PARI SONYO
UI CHAERIM
Resurrection of the
Little Match Girl
The Resurrection
Ju sogna di diventare un professionista dei videogiochi.
Per questo, frequenta assiduamente una sala gestita da
Hae-mi, ragazza della quale è innamorato. Una sera viene
invitato a prendere parte a uno strano videogioco chiamato Resurrection of the Little Match Girl. L’obbiettivo è quello
di aiutare la piccola fiammiferaia, che ha le stesse sembianze di Hae-mi, a morire di freddo evitando che sia
avvicinata da clienti o malintenzionati. Inoltre, mentre sta
morendo, la fiammiferaia non deve sognare la propria
nonna, come avviene nella fiaba di Andersen, bensì il giocatore. In caso di vittoria è previsto un cospicuo premio in
denaro e la possibilità di vivere con la fiammiferaia in un
mondo felice. Se il giocatore si rivela avventato, potrebbe
non tornare più nel mondo reale. Ju accetta la sfida ma presto dovrà fare i conti con avversari spietati e con il misterioso “Sistema”, che regola il funzionamento del gioco e,
apparentemente, della realtà.
Ju dreams of becoming a video game professional, which is why
he regularly patronizes a video game parlor run by Hae-mi, the
girl with whom he is in love. One evening, he is invited to play
a strange video game called The Resurrection of the Little
Match Girl. The aim is to help the little match girl (who looks
like Hae-mi) die of cold, avoiding any encounters with clients or
the ill-intentioned. Furthermore, as she is dying, the little match
girl must not dream about her grandmother, as takes place in the
Andersen’s fairy tale, but the player. If the player wins, he will
receive a substantial monetary prize and the possibility to live
with the little match girl in a happy world. However, if the player proves to be imprudent, he might not come back to the real
world. Ju accepts the challenge but must soon face ruthless
adversaries and the mysterious “System,” which regulates the
game and, apparently, reality.
“Ho portato all’interno di Resurrection of the Little Match
Girl molti standard e formule del cinema commerciale pur
continuando a farne un film personale. Quello che volevo
mostrare con tutti questi elementi era il caos, la confusione. Ci sono molti generi mischiati in questo film, perché
non volevo che fosse facilmente classificabile in una limitata definizione di genere. Tutte le immagini caotiche del
film dovrebbero porre allo spettatore interrogativi sulla
natura delle immagini stesse: sono solo illusioni o sono la
realtà?”
Jang Sun-woo (2004)
“I brought many standards and formulas from commercial cinema into Resurrection of the Little Match Girl, while still making it a personal film. What I wanted to show with all these elements was chaos, confusion; there are a lot of genres all mixed up
in the film, because I didn’t want it to be clearly boxed into a limited definition of genre. All the chaotic images in the film are
supposed to ask the viewer questions about the nature of the
images themselves: are they real or not? Are they just illusion,
or are they reality?”
Jang Sun-woo (2004)
sceneggiatura/screenplay: Jang Sun-woo, In Jin-mee
fotografia/photography (35mm, colore): Kim Woo-hyung
montaggio/editing: Kim Hyun, Han Seung-ryong
suono/sound: Lee Young-kil
musica/music: Dal Paran
scenografia/art direction: Lee Chul-ho
costumi/costumes: Im Sun-ok, Chae Kyung-wha
interpreti/cast: Im Eun-kyung, Kim Hyun-sung, Kim Jin-pyo,
Jin Xing, Myung Kay-nam, Jeong Doo-hung, Pierre Rissient
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
produttore/producer: Hur Chang-kyung, Kim Seung-bum, Lee
Kang-bok
produzione/production: Kihweck Shidae, Tube Entertainment,
CJ Entertainment
distribuzione/distribution: CJ Entertainment
distribuzione italiana/Italian distribution: AB Film Distributors
durata/running time: 124’
origine/country: Corea del Sud 2002
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JANG SUN-WOO ATTORE
Kim Soo-hyun
GWIYEOWO
So Cute
(t.l.: Carina)
Un padre, interpretato da Jang Sun-woo, e i suoi tre figli
vivono in un appartamento cadente. L’uomo è un falso
sciamano impotente che ha avuto i suoi figli da tre donne
diverse. Il primogenito è un fattorino, il secondo è un
camionista, il terzo è uno yakuza. Quando improvvisamente irrompe Soony, una donna che vende biscotti sul
treno, tutti e quattro gli uomini ne restano attratti. Inizia
una furiosa rivalità che sconvolgerà la vita dei cinque protagonisti.
A father (played by Jang Sun-woo) and his three sons live in a
ramshackle apartment. The man is a fake, impotent shaman who
had his three sons with three different women. The oldest is a
messenger, the second a truck driver, the youngest a yakuza.
When their lives are suddenly interrupted by Soony, a woman
who sells cookies on trains, all four men become attracted to her.
A furious rivalry erupts, upsetting the lives of all five characters.
“Sono rimasto molto colpito dall’energia della sceneggiatura che mi aveva dato Kim Soo-hyun... dopo aver trascorso anni dietro alla cinepresa, c’è voluto molto coraggio per
passare dall’altra parte.”
Jang Sun-woo (2004)
“I was really struck by the energy of the screenplay that Kim
Soo-hyun gave me.... After having spent so many years behind
the camera, it took a lot of courage to go over to the other side.”
Jang Sun-woo (2004)
Biografia
Kim Soo-hyun si descrive come un regista che cerca di realizzare film sinceri. So Cute, il suo esordio, è basato sulle
sue prime esperienze lavorative di fattorino e camionista.
Biography
Kim Soo-hyun describes himself as a director who tries to make
honest films. So Cute, his directorial debut, is based on his first
work experiences as a messenger and a truck driver.
sceneggiatura/screenplay: Kim Soo-hyun
fotografia/photography (35mm, colore): Kim Chul-joo
montaggio/editing: Kim Hyun
musica/music: Lee Byung-hoon
scenografia/art direction: Park Hye-sung
interpreti/cast: Kim Suk-hoon, Jung Jae-young, Ye Ji-won,
Jang Sun-woo
produttore/producer: Hwang Woo-hyun, Hwang Jae-woo
produzione/production: Tube Pictures
distribuzione/distribution: Tube Entertainment
durata/running time: 115’
origine/country: Corea del Sud 2004
Filmografia
Nappun yeonghwa (decimo episodio di Bad Movie, regia di Jang Sun-woo 1997), Gwiyeowo (So Cute, 2004)
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JANG SUN-WOO, UN DOCUMENTARIO
Tony Rayns
THE JANG SUN-WOO
VARIATIONS
(t.l.: Le variazioni Jang Sun-woo)
Un intimo ritratto di Jang Sun-woo, il più iconoclasta dei
registi coreani, mentre sta preparando due nuovi film: il
live-action cyber-action thriller The Resurrection of the Little
Match Girl e l’animato Buddista/Sciamanico Princess Bari
(un progetto in realtà non ancora iniziato). Diviso in capitoli il documentario esamina la carriera e i film di Jang da
molteplici angolazioni e include le voci non solo di coloro
che hanno lavorato con lui ma anche di molti coreani che
sono rimasti toccati/scioccati/eccitati/offesi dai suoi lavori. Singoli capitoli sono dedicati ad argomenti come l’acconciatura idiosincratica di Jang e le controversie attorno
al suo precedente lavoro Lies. Il documentario cerca di porre Jang e il suo lavoro in un contesto sociale il più ampio
possibile, e non solo in quello del cinema coreano. In fondo è una delle più sincere e rivelatrici interviste con lo stesso Jang.
An intimate portrait of Jang Sun-woo, Korea's most iconoclastic
director, as he prepares two new films: the live-action cyberaction thriller The Resurrection of the Little Match Girl and
the animated buddhist/shamanist feature Princess Bari. Divided into chapters, the documentary examines Jang's career and
films from many different angles and includes the voices not
only of those who have worked with Jang but also of numerous
ordinary Koreans who have been touched/shocked/excited/
offended by his work. Individual chapters are devoted to such
topics as Jang's idiosyncratic hairstyle and the controversy surrounding his previous feature, Lies. The documentary tries to
place Jang and his work in the widest possible social context, not
only in the context of Korean cinema. At its heart is a series of
remarkably candid and revealing interviews with Jang himself.
Biografia
Tony Rayns è un filmaker, critico e organizzatore di festival. E’ considerato tra i maggiori conoscitori del cinema
asiatico. Ha scritto e realizzato documentari su autori
come Kitano Takeshi, Chen Kaige, Miike Takashi, Zhang
Yimou, facendoli conoscere al pubblico occidentale. Nel
1997 ha organizzato la prima retrospettiva dedicata a Jang
Sun-woo al festival di Rotterdam.
Biography
Tony Rayns is a filmmaker, critic and festival organizer. He is
considered to be one of the greatest experts of Asian cinema. He
has written and made documentaries on directors such as Kitano
Takeshi, Chen Kaige, Miike Takashi and Zhang Yimou, introducing them to western audiences. In 1997, he organized the
first retrospective dedicated to Jang Sun-woo at the Rotterdam
Film Festival.
sceneggiatura/screenplay: Tony Rayns
fotografia/photography (betacam, colore): Kim Woo-hyung,
Park Jong-woo
montaggio/editing: Kim Sun-min
suono/sound: Jeong Jin-woo
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
musica/music: Dal Paran
produttore/producer: Park Jin-sung
produzione/production: Fine Communications
durata/running time: 119’
origine/country: Corea del Sud 2001
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JANG SUN-WOO E YOO JOUNG-KIL
Hong Hyo-sook
THE BLISS OF TRAVELLING
THIS ROAD
(t.l.: La gioia di attraversare
questa strada)
Il festival di Pusan nel 1998 realizzò un programma speciale in memoria di Yoo Joung-kil, direttore della fotografia, tra gli altri, di molti film di Jang Sun-woo, e scomparso proprio in quell’anno all’età di 63 anni. In quella terza
edizione furono proiettati alcuni dei film più importanti ai
quali collaborò il grande direttore della fotografia. E fu
realizzato, per l’occasione, anche un documentario con
vari spezzoni di film e interviste a registi, attori e, in generale, agli addetti ai lavori, per ricordare un protagonista
indiscusso del cinema sudcoreano.
fotografia/photography (colore): Hong Hyo-sook
montaggio/editing: Kim Chung-soo
produttore/producer: Myung Kye-nam
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In 1998, the Pusan Film Festival organized a special program in
memory of Yoo Joung-kil, the acclaimed cinematographer who
worked with Jang Sun-woo, among others, and who died that
year at the age of 63. In that year of its third edition, the festival
screened some of the most important films on which the celebrated cinematographer worked. A documentary was also created for the occasion, which includes various excerpts of films and
interviews with directors, actors, and others from the world of
cinema, to commemorate one of the undisputed greats of South
Korean cinema.
produzione/production: Pusan International Film Festival
durata/running time: 70’
origine/country: Corea del Sud 1998
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KOREAN DIGITAL
“(...) una videocamera digitale mi permette di tentare molte
più cose con una troupe numericamente inferiore e con un
piccolo budget e, al tempo stesso, mi consente di creare
immagini più forti e di catturare con uno sguardo ravvicinato le persone e gli eventi.”
Song Il-Gon
“...a digital video camera also allowed me to try many different things with fewer crew members and a smaller budget,
and, at the same time, I was able to depict stronger images
and capture a closer look at people and events.”
Song Il-Gon
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Perché digitale?
Why Digital?
di Park Ki-yong
by Park Ki-yong
Era il 1998, in un piccolo centro d’arte a Seoul: facevo parte della ristretta cerchia di persone che aveva appena assistito a un film girato con una videocamera dv. Alcuni se ne
erano già andati, io invece sono rimasto incollato alla sedia
e ho meditato a lungo. Era un film rudimentale, radicale e
fresco. Era un tipo di film completamente diverso, quindi
per me un’esperienza nuova: era Festen di Thomas Vinterberg, il primo film del Dogma e per me il primo in digitale.
A quel tempo pensavo spesso alla possibilità di fare un
film low budget che mi lasciasse la massima libertà di azione. Il mio primo lungometraggio, Motel Cactus, girato nel
1997, doveva essere low budget, ma per via delle difficoltà
di finanziamento era diventato un film commerciale con
attori famosi che alla fine mi aveva lasciato insoddisfatto.
Il film aveva ottenuto un certo riconoscimento ai festival
ma fu un vero e proprio flop al botteghino e venne massacrato dai critici locali. Per questo motivo, avevo scarse possibilità di riuscire a girare un altro film commerciale perché era un periodo molto difficile, quindi dovevo arrangiarmi con le mie forze. Avevo già potuto constatare quanto fosse difficile ottenere finanziamenti, anche per i film
low budget. Per fare un lungometraggio da 35mm ci vuole
qualche centinaio di migliaia di dollari, ma secondo i produttori restava comunque un progetto più rischioso che
realizzare un film ad alto budget. Pensavano che fosse
molto difficile attirare il pubblico senza attori famosi e con
un film “povero”. Anche se questo in un certo senso può
corrispondere al vero, non significa che si debbano fare
solo film commerciali. Comunque sia, ero costretto a trovare un’altra strada per poter realizzare un film con un
budget davvero ridotto, il più basso possibile. Un’altra
possibilità era il 16mm, ma il processo di produzione era lo
stesso e il budget non era molto inferiore al 35mm perché
bisognava comunque affittare tutte le attrezzature (cineprese, luci, attrezzature per l’editing ecc.).
Che Festen non fosse il primo lungometraggio girato con
una videocamera dv, per me non era importante, e non mi
interessava nemmeno che The Vow of Chastity seguisse le
regole del manifesto del Dogma 95, la cosa importante era
mostrare la possibilità di fare film in digitale e low budget,
grazie alla dv-cam. Non ero molto orgoglioso della qualità
delle immagini, ma il film era comunque diverso da altri
girati con videocamere analoghe. Già verso la fine degli
anni ottanta si parlava molto di video, ma fino allora questo mezzo veniva utilizzato esclusivamente per girare film
porno, cortometraggi e documentari. Nell’ambiente del
cinema quasi tutti lo ritenevano ancora un mezzo troppo
modesto. Anch’io non l’ho mai preso in seria considerazione, ma il digitale era differente, era sempre video ma
con una dimensione diversa e, soprattutto, offriva possibilità nuove. Per me era molto incoraggiante e ho cominciato a sognare di fare un film in digitale.
Dopo aver deciso di girare Camel(s) in digitale o, per essere più preciso, dopo aver deciso di girare un film in digitale, ho cominciato a cercare una storia che potesse andare
bene. Per me, però, la cosa più importante era che il film
sembrasse “una pellicola” perché la gente considera film
It was 1998, at a small art house in Seoul: I was one of a small
audience who had just seen a film shot with a DV camera and
transferred to film. Others left, but I was stuck to my seat, chewing over the film again and again. It was rough, radical and
fresh. It was a completely new type of film, and a new experience
for me. The film was Celebration (Festen) by Thomas Vinterberg. The first Dogma film, and my first digital film.
At that time, I was thinking quite hard of how to find a way to
make a low budget film, which would hopefully give me total
freedom and allow me to make what I wanted to make. My first
feature film, Motel Cactus, made in 1997, was also planned as
a low budget film but due to financing problems it ended up
becoming a mainstream film with big stars, and I was not happy
with the result. The film got certain recognition at film festivals,
but was a flop at the box office and was disregarded by local critics. There was very little chance for me to make another commercial film. It was a difficult time. I had to find a way to make
films on my own, away from the mainstream. They had to be low
budget but, as I had already experienced, getting financing for
even a low budget film was very difficult. To make a 35mm feature film, you had to have at least a few hundred thousand US
dollars but producers thought that it was even riskier than making a big budget film. They thought there could be no audience if
you did not use any stars and make the film look rich. While this
was true, it did not mean that a film could only be made in the
mainstream system. So, I had to find a way, but it had to be very
low budget. 16mm was another option, but the production
process was the same and the budget was not much different
from 35mm because one still has to rent all the equipment (cameras, lights, editing facilities, etc.). I had to find an entirely new
way of making a film with as low a budget as possible.
Whether or not Celebration was the first feature film shot with
a DV camera was of no importance to me. Or whether the film
The Vow of Chastity had followed the rules of the Dogme 95
manifesto was also of little interest to me. For me, the important
thing was that the film had shown the possibility of making digital films, and that low budget filmmaking was possible with a
DV-cam. The film had a certain video look that I was not very
fond of, but it was different from films shot with analogue video
cameras. From the late 1980s, people have discussed making
films on video but eventually only porn films for video release,
short films and documentaries used the medium. Most film people thought it a cheap tool. It was never seriously considered as
an alternative to filmmaking, but digital was different. It was
also video, but with a different dimension and, best of all, it
offered a new possibility. I was very much encouraged and started dreaming of making a digital film.
After I had decided to make Camel(s) on digital or, to be more
precise, after I had decided to make a digital film and started
looking for a suitable story, the most important thing for me was
how to make the film have a “film look.” This was because people still considered only films with a “film look” to be real films.
I conducted a number of expensive film transfer tests in order to
find the right method, but very soon I realized that there was no
point in trying to make the film look like it was shot on film when
it obviously was not. And, furthermore, I though there should be
something more to the experience than merely switching cameras, from a 35mm or 16mm to a DV camera The camera’s
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solo quelli girati in pellicola. Per trovare il metodo giusto,
ho effettuato una serie di test abbastanza costosi, ma presto ho realizzato che non era possibile cercare di fare sembrare una pellicola una cosa che ovviamente non lo era. E
comunque sentivo che c’era qualcosa di più del semplice
passaggio da 35mm o 16mm alla dv. Il peso e le dimensioni ridotte della videocamera, i lunghi tempi di registrazione sulla cassetta e il sistema di montaggio non lineare
richiedevano una nuova attitudine e un nuovo approccio.
Il metodo di regia convenzionale sembrava quindi inadeguato e dovevo cercarne uno nuovo. Mi trovavo di fronte
alla domanda: “Cos’è il digitale?”
Durante i mesi in cui ho girato Camel(s), ho capito a poco a
poco che fare un film in digitale era molto diverso che fare
un film in pellicola. La distanza tra la videocamera e gli
attori è differente, così come il rapporto tra il regista e gli
attori. Non è soltanto un modo per fare film low budget. Per
molti registi che hanno fatto film in digitale, la parola chiave è liberazione: da apparecchiature pesanti, da ore perse
a regolare le luci, dai vecchi metodi e sistemi e, soprattutto, liberazione dal linguaggio convenzionale del cinema. È
ovvio che questa liberazione è diventata possibile soprattutto grazie all’emancipazione dal capitale, ma è quasi
paradossale che meno capitale dia una maggiore libertà.
Questo nuovo modo di considerare i film, ha creato
comunque una nuova estetica del cinema e la gente ha
cominciato a considerare il digitale non solo come un nuovo strumento cinematografico, ma anche come un mezzo
per mettere in discussione la vera identità del film: “Che
cosa è film e che cosa è regia?”
Personalmente credo, e sono sicuro che molti siano d’accordo con me, che l’avvento del digitale sia uno degli
eventi più importanti nella storia del cinema. Il digitale ha
stravolto tutto. Fare film non è più qualcosa per pochi eletti che operano all’interno del mainstream: tutti potranno
farlo perché, grazie al digitale, il budget e le questioni tecniche non saranno più un problema. I software di elaborazione al computer vengono aggiornati ogni anno e le
videocamere HD compatte sono già sul mercato. E comunque la tecnologia viene perfezionata continuamente. Inoltre, la distribuzione e la proiezione digitale entreranno in
uso relativamente presto, ragion per cui sarà possibile fare
un lungometraggio senza budget e proiettarlo nei teatri
commerciali. Sono sicuro che questo avverrà a breve. Perciò l’unica cosa importante sarà come utilizzare al meglio
questo mezzo liberatorio – il video digitale.
Non è fondamentale sapere se o quando il digitale riuscirà
a abbattere e sostituire la pellicola. Non è questione di
superiorità ma di scelta, proprio come si decide se fare un
film all’interno o all’esterno del mainstream, si può scegliere tra pellicola e digitale. Adesso la domanda è: “Perché il
digitale?”
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
lighter weight and small size, the long recording time of the tape,
and the non-linear editing system were asking for a new attitude
and approach. The conventional filmmaking method seemed
inappropriate and I had to find a new one. I was faced with the
question: “What is digital?”
During the several months it took to make Camel(s), I gradually learned that making a film on digital is different from making
a film on film. The distance between the camera and the actor is
different; the relationship between the director and the actor is
different; and so forth. It was not merely just a way of making a
film cheaply. Many who have made digital films have said that
the key word for digital filmmaking is liberation: liberation from
heavy equipment, from the long hours of setting the lights, from
the old system and method, and, above all, liberation from the
conventional language of film. Of course, this liberation was
possible or became possible due to the liberation of capital. It is
paradoxical that less capital gives greater freedom. Anyhow, a
whole new way of looking at film has called for new film aesthetics, and people have started to consider digital not only as a
new tool for filmmaking but also as a new tool for questioning
the very identity of film: “What is film or filmmaking?”
I personally think, and I am sure many will agree with me, that
the advent of digital is one of the most important events in film
history. Digital has changed everything. Filmmaking is no
longer for the selected few within the mainstream system: anybody can make a film. With digital filmmaking, the budget and
technical matters will no longer be an issue. PC editing software
is being upgraded every year and mini-HD cameras are already
on the market. The technological advances will not cease. Furthermore, digital distribution and screening will be in general
use quite soon. By then, one will be able to make a feature film
without any budget and show it in commercial theaters. I am
pretty sure that this will happen soon. Therefore, the important
thing will be how to use this liberating medium – digital video.
It is not important whether or when digital can kill and replace
film. It is not a matter of superiority but a matter of choice. Just
as you choose to make a film within or outside the mainstream
system, you can make a choice between film and digital. Now,
the question is: “Why digital?”
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KOREAN DIGITAL
Kim Dong-won
SONGHWAN
Repatriation
(t.l.: Rimpatrio)
Tema del documentario è la dolorosa divisione tra le due
Coree. Il punto di vista è quello delle spie inviate dal Nord
e arrestate nel Sud tra gli anni ‘60 e ‘80. In particolare, Kim
Dong-won ha intervistato le spie liberate a partire dal
1992, ossia quelle che resistettero al “programma di ri-educazione” e che dunque furono scarcerate più tardi rispetto
a chi sotto tortura decise di sconfessare l’ideologia comunista. Non avendo un luogo dove poter vivere, solo nel settembre del 2000, questi prigionieri poterono rimpatriare
nella Corea del Nord. Kim Dong-won incontrò due di queste spie e decise di raccontarne le vicende, affascinato dal
fatto che nonostante la prigionia e le torture non avessero
rinunciato alla propria ideologia.
The documentary’s theme is the painful division between the two
Koreas. The point of view is that of the spies sent from the North
and arrested in the South from the 1960s to the 1980s. In particular, Kim Dong-won interviewed spies freed after 1992 or,
rather, those who resisted against the “reeducation program”
and were thus freed later than those who, under torture, decided
to repudiate Communist ideology. Not having a place to live,
these prisoners were not repatriated to North Korea until September of 2000. Kim Dong-won met two of these spies and decided to relate the events of their lives, fascinated by the fact that
they did not disavow their ideology despite years of prison and
torture.
“Questo documentario cerca di instillare la fede e la speranza nella pace e nella coesistenza, superando ogni differenza ideologica.”
Kim Dong-won
“This documentary tries to instill belief in and hope for peace
and coexistence that can overcome ideological differences.”
Kim Dong-won
Biografia
Nato nel 1955 a Seoul, si è laureato all’Università di
Sogang con un diploma in comunicazione di massa. Ha
lavorato come assistente di regia e come produttore di
documentari. Nel 1991 ha fondato la P.U.R.N. Production,
attraverso la quale ha prodotto e diretto circa trenta documentari.
Biography
Born in 1955 in Seoul, he graduated in Mass Communications
from the University of Sogang. He worked as an assistant director and documentary producer In 1991, he founded P.U.R.N.
Production, through which he has produced and directed approximately thirty documentaries.
sceneggiatura/screenplay: Kim Dong-won
fotografia/photography (dv cam, colore, b/n): Kim Tai-il, Jung
Chang-young, Chang Young-kil, Oh Jung-hoon, Moon Junghyun
montaggio/editing: Kim Dong-won, Ryu Mi-rye
suono/sound: Pyo Yong-soo
musica/music: Lee Ji-eun
interpreti/cast: Jo Chang-son, Kim Seon-myeong, Kim Yeongsik, Ryu Hanok, Kim Seok-hyeong, Sin In-yeong
narrazione/narration: Kim Dong-won
produzione/production: P.U.R.N Production
durata/running time: 149’
origine/country: Corea del Sud 2003
Filmografia
Sangkeiy-dong Olympics (1988, doc), Standing on the Edge of Death (1990, doc), In the Forest of Media (1993, doc), Haengdangdong People (1994, doc), We’ll Be One (1995, doc), The Six-Day Struggle at the Myong Dong Catherdral (1997, doc), Another
World We Are Making (1999, doc), One Man (2001, coc), Repatriation (2003, doc)
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KOREAN DIGITAL
Kim Gok & Kim Sun
JABONDANG SEONEON:
MANGUKUI NODONGJAYEO,
CHUKCHEOTHARA!
Capitalist Manifesto: Working Men
of all Countries, Accumulate!
(t.l.: Manifesto Capitalista: Lavoratori di tutte le Nazioni, Accumulate!)
Una storia che si ripete ossessivamente. Una civiltà di
balordi che giocano d’azzardo, vendono materiali pornografici e gestiscono bordelli.
A story that is repeated obsessively. A civilization of dimwits
that gamble, sell pornographic material and run brothels.
“Il digitale è molto economico ed è perfetto per noi perché
non abbiamo budget a disposizione. Diciamo pure che siamo stati obbligati ad optare per il digitale. (...) L’obiettivo
del gruppo è semplice: sfidare il capitalismo. Troviamo la
sintassi di molti film molto capitalista, commerciale, dunque vogliamo attaccare e offendere quel sistema. (...) Cerchiamo di far procedere la narrazione attraverso forme
pure: immagini e suoni. I film hollywoodiani, ad esempio,
vanno nella direzione opposta, dialoghi, azione. Il loro
obiettivo, si sa, sono solo i soldi”.
Kim Gok & Kim Sun
“Digital is very cheap and is perfect for us because we do not
have [big] budgets at our disposal. Let us say that we were obliged to choose digital....The group’s goal is simple: to defy capitalism. We feel that the syntax of many films is capitalistic and
commercial and we want to attack and offend that system…. We
try to push the narrative forward through pure forms: images
and sounds. Hollywood films, for example, go in the other direction: dialogue, action. Everyone knows that their goal is to make
money.”
Kim Gok & Kim Sun
Biografia
Kim Gok e Kim Sun sono due gemelli nati nel 1978. Sono
laureati in filosofia e letteratura e non hanno frequentato
scuole di cinema. Hanno cominciato a lavorare come registi indipendenti dal 2001. Il loro cinema è dichiaratamente
politico, comunista e radicalmente anticapitalista. Hanno
fondato la casa di produzione Goska.
Biography
Kim Gok and Kim Sun are twins born in 1978. They graduated
in Philosophy and Literature and did not attend film school.
They began working as independent directors in 2001. Their
films are blatantly political, Communist and radically anti-capitalist. They founded the production company Goska.
sceneggiatura/screenplay: Kim Sun
fotografia/photography (dv cam, colore): Park Hong-yeol
montaggio/editing: Kim Gok, Kim Sun
scenografia/art director: Ji Yoon-jung
musica/music: Han Chang-hee
interpreti/cast: Kim Min-jin, Choi Sun-hee
produttore/producer: Oh Dan
produzione/production: Goksa
durata/running time: 115’
origine/country: Corea del Sud 2003
Filmografia
Ecce Homo (2001), Anti-Dialectic (2001), Time Consciousness (2002), Principle if Party Politics (2003), Capitalist Manifesto (2003),
Light and Class (2003)
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KOREAN DIGITAL
Kim Hong-joon
MY KOREAN CINEMA
(t.l.: Il mio cinema coreano)
Ciclo di documentari sul cinema e l’industria del presente
e del passato filtrati attraverso la memoria e l’esperienza
diretta di Kim Hong-joon. Un work in progress che intende
costruire una sorta di mosaico della storia, e delle storie,
del cinema coreano.
A series of documentaries on film and the film industry, from the
present and past, filtered through Kim Hong-joon’s personal
experiences. A work in progress whose aim is to be a mosaic of
the history and stories of Korean cinema.
“Ho fatto alcune interviste sul treno per andare a Jeonju in
occasione del festival (...) Ho filmato, in collaborazione con
alcuni studenti, le varie fasi del restauro di An Empty
Dream (...) Ho intervistato un famoso direttore della fotografia degli anni ‘60 a cui si deve l’uso di alcuni dispositivi particolari (...) Quattro, cinque temi differenti e devo
ancora decidere se proseguire con vari episodi brevi o
pochi episodi più lunghi…”
Kim Hong-joon
“I conducted some interviews on the train when I was going to
Jeonju for the festival…. I filmed, together with several students,
the various phases of restoration of An Empty Dream…. I
interviewed a famous cinematographer of the 1960s to whom we
are indebted for the use of several particular devices…. There are
four or five different themes and I still have to decide whether to
make a series of short episodes or fewer, longer episodes….”
Kim Hong-joon
“Unico e indispensabile per penetrare all’interno del cinema coreano. Cominciando dalle sue origini nella produzione cinematografica, il direttore di festival, organizzatore e film-maker Kim Hong-joon mostra un affascinante
ritratto della Corea a partire dagli anni ‘60. Gli anni ‘60, ‘70
e ‘80 hanno rappresentato un “periodo oscuro” nella politica della Corea del Sud e perciò pochi guardano con
nostalgia alla cultura di quell’epoca e ancora meno prendono quel tempo e quei problemi per riguardare i film realizzati in quegli anni. Ovviamente, Im Kwon-taek, Yu
Hyon-mok, Kim Ki-young, Shin Sang-okk e altri ancora
realizzarono un’opera riconoscibile sotto il vecchio studio
system, tuttavia la maggior parte dei film coreani fatti in
quelle decadi ‘oscure’ sono state dimenticate e non documentate.”
Tony Rayns
“Unique and indispensable for gaining an insight into Korean
cinema. Starting with his own roots in the film business, festival
director, commissioner and filmmaker Kim Hong-joon offers a
fascinating portrait of Korea from the 1960s on. The 1960s, 70s
and 80s were a ‘dark period’ in South Korean politics and thus
few think back nostalgically on the culture of the period and even
fewer have taken the time and trouble to look afresh at the films
made in those years. Of course, it's known that Im Kwon-taek,
Yu Hyon-mok, Kim Ki-young, Shin Sang-okk and others did distinguished work under the old studio system, but the great bulk
of Korean films made in the ‘dark’ decades remain forgotten and
undocumented.”
Tony Rayns
Biografia
Dal 1998 insegna presso la Korean National University of
Arts. Regista di La Vie en Rose e Jungle Story, è stato il direttore artistico del Pusan International Fantastic Film Festival.
Biography
Since 1998, he has taught at the Korean National University of
the Arts. Director of La vie en rose and Jungle Story, he was
also artistic director of the Pusan International Fantastic Film
Festival.
sceneggiatura/screenplay: Kim Hong-joon
fotografia/photography (dv, colore, b/n): Kim Hong-joon
montaggio/editing: Kim Hong-joon
produttore/producer: Kim Hong-joon
durata/running time: 80’
origine/country: Corea del Sud 2002-2005
Filmografia
La Vie en Rose (1994), Jungle Story (1996), My Korean Cinema (2002-2004, doc)
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Kim So-young
HWANGHOLKYONG
I’ll Be Seeing Her: Images of
Women in Korean Cinema
(t.l.: La vedrò: immagini delle
donne nel cinema coreano)
Il documentario incrocia e giustappone liberamente generi e scene differenti dei film, presentando le immagini delle donne nel cinema Sud Coreano e discostandosi deliberatamente dallo stile documentaristico ortodosso. I’ll Be
seeing Her, perciò, fonde la maniera fantastica e quella realistica.
The documentary intertwines and freely juxtaposes genres and
scenes from various films to present images of women in South
Korean cinema. By deliberately not employing an orthodox documentary approach, I’ll Be Seeing Her blends fantastic and
realistic styles.
“Il titolo originale di questo documentario Hwangholkyong
evoca stati di estasi, fantasia, fantasmagoria. E’ una celebrazione ironica degli eccessi dei sentimenti che le spettatrici hanno esperito e ottenuto dai film notoriamente misogeni prodotti in Corea del Sud nelle passati decadi.”
Kim So-young
“The original Korean title of this documentary, Hwangholkyong, evokes states of ecstasy, fantasy, and phantasmagoria. It is
an ironic celebration of the excesses of feeling that female spectators have experienced and attained from the notoriously misogynistic films of South Korea over the past decades.”
Kim So-young
Biografia
Laureata all’Accademia delle Arti, è docente di cinema
presso l’Università Nazionale Coreana di Seoul. Ha scritto
numerosi libri e diretto tre documentari indangando il
ruolo della donna coreana nelle arti. Ha lavorato per il
Women’s Film Festival di Seoul e il Jeonju International
Film Festival (JIFF).
Biography
Kim So-young graduated from the Academy of Art and teaches
cinema at the Korean National University in Seoul. She has
written numerous books and has directed three documentaries
investigating the role of Korean women in the arts. She worked
for the Women’s Film Festival in Seoul and the Jeonju International Film Festival (JIFF).
sceneggiatura/screenplay: Fanta Sisters
fotografia/photography (dv cam, colore, b/n): Kim Jeongwook, Kim Young-nam
montaggio/editing: Kim Su-jin
scenografia/art direction: Lee Aerim
produzione/production: Lee B-Won, Lee JungA
durata/running time: 50’
origine/country: Corea del Sud 2003
Filmografia
Winter Illusion (1984, Cm), Black Requiem (1985, Cm), Little Time maker (1986, Cm), Even Little Glass has its name (1989, Mm),
Winter Illusion (2000, Cm, doc), Koryu (2000, doc), I’ll Be Seeing Her: Women in Korean Cinema (2002, Mm, doc), A Runner’s
High (2003, Cm), New Women: Her first Song (2004, Mm, doc)
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Lee Ji-sang
SIBUDO 1. SIMU SOREUL CHAJASEO
Ten Ox-Herding Pictures
#1 - Going Out in Search
of the Ox
(t.l.: Dieci film su una mandria di
buoi - #1 - Andando in cerca del
bue)
“Sono un regista e un giorno ho lasciato la mia anziana e
malata madre e il mio debole padre per tornare nella fattoria del paese. Non sapevo il perché di questa decisione.
Prima di andare, ho chiesto a mia madre di farmi una cintura. Ricordo le sue mani tremolanti e il suo sorriso luminoso. Un giorno mia madre è morta. Con l’aiuto di una
persona, ho comprato un pezzo di terra per seppellirla in
una tomba. Ho un rituale per lei con il riso che ho raccolto
io stesso. Questo è un film su un regista in una fattoria,
osservato da una camera fissa. La camera cattura i sentimenti inespressi verso i suoi genitori mentre vita e morte
quietamente si alternano intorno a lui.”
“I am a film director and one day I left my sick, elderly mother
and feeble father to return to a farm in the country. I didn’t know
why I had made that decision. Before I left, I asked my mother to
make me a belt. I remember my mother’s shaky hands and her
bright smile. One day, my mother passed away. Through someone’s help, I bought some land to bury my mother in a grave. I
performed a ritual for her with the rice I harvested myself. This
is a film about a film director on a farm, as seen from a fixed camera. The camera captures his unspoken feelings towards his parents as life and death quietly happen around him.”
Lee Ji-sang
Lee Ji-sang
Biografia
Nato nel 1962 a Kimhae ha studiato presso l’Università
Teologica di Hankook. Ha esordito alla regia nel 1993 con
il cortometraggio For Rosa. La sua opera prima, Yellow Flower, è stata proiettata in occasione della trentacinquesima
Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.
sceneggiatura/screenplay: Lee Ji-sang
fotografia/photography (dv, colore): Lee Ji-sang, Lee Dong-hun
montaggio/editing: Kang Mi-ja
Biography
Born in 1962, he studied at the Theological University of Hakook
in Kimhae. He debuted as a director in 1993 with the short film
For Rosa. His first feature, Yellow Flower, was screened at the
35th Pesaro Film Festival.
produzione/production: Jisang Film
durata/running time: 74’
origine/country: Corea del Sud 2004
Filmografia
For my Rosa (1993, Cm), De-Pure Land (1996, Cm), Yellow Flower (1998), A Sudden Crash (1999), A Story about Her (2000),
Thank You (2003), Ten Ox-Herding Pictures#1 Going Out in Search of the Ox (2004)
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Moon Seung-wook
NABI
The Butterfly
(t.l.: La farfalla)
Anna ha comprato un pacchetto dal tour operator Butterfly. Viene promessa, durante il soggiorno in una località
dell’Asia non meglio precisata, la perdita della memoria
attraverso il “virus dell’oblio”. Numerosi turisti sono attirati da questa offerta. Di contro, gli abitanti del luogo si
disinteressano al “virus” a causa dell’inquinamento che
minaccia la sopravvivenza sia della popolazione che della
città stessa. In questa situazione cupa e claustrofobica,
Anna incontra Yuki, una guida dell’agenzia Butterfly e K,
un giovane tassista orfano.
Anna bought a tour package from the Butterfly Agency. She is
promised that during her stay in an unspecified locality in Asia,
she will lose her memory through the “oblivion virus.” Numerous tourists are attracted to this offer. Meanwhile, the inhabitants of the place have lost interest in the “virus” on account of
the pollution that threatens the survival of the people as well as
the city. In this dismal and claustrophobic situation, Anna meets
Yuki, a Butterfly Agency tour guide, and K, a young orphan taxi
driver.
“Nabi affronta il tema della ricerca del miracolo e dell’utopia. (...) Come le religioni, il virus dell’oblio permette agli
esseri umani di sfuggire momentaneamente ai ricordi
dolorosi. Ma la memoria è proprio ciò che ci lega a noi stessi e agli altri. Per me, nella sua incessante corsa alla modernizzazione, l’Asia non fa altro che dimenticare il proprio
passato. Come gli umani attaccati dal virus, noi viviamo
sospesi in una sorta di nichilismo, soffrendo per un dolore
rimosso.”
Moon Seung-wook
“Nabi takes on the theme of the search for miracles and utopia....
Like other religions, the oblivion virus allows human beings to
momentarily escape from their painful memories. But memory is
precisely that which binds us to ourselves and to others. I believe
that in its incessant haste towards modernization, Asia has done
nothing other than forget its past. Like the men infected by the
virus, we live suspended in a kind of nihilism, suffering a pain
that we have erased from our memories.”
Moon Seung-wook
Biografia
Nato a Seoul nel 1968, si è laureato nel 1989 in scienze delle comunicazioni. Ha frequentato l’Accademia Nazionale
del Cinema di Lodz, in Polonia. Ha avuto tra i suoi maestri, Krzysztof Kieslowski. Ha esordito alla regia con un
cortometraggio nel 1994. Nel 1997 realizza il suo primo
lungometraggio, Taekwondo.
Biography
Born in Seoul in 1968, he graduated in 1989 in Communications. He later attended the National Film Academy in Lodz,
Poland, where Krzysztof Kieslowski was one of his teachers. He
debuted as a director with a short film in 1994. In 1997, he made
his first feature film, Taekwondo.
sceneggiatura/screenplay: Moon Seung-wook
fotografia/photography (colore): Kwon Hyuk-joon
montaggio/editing: Lee Jang-wook, Kim Duk-young
suono/sound: Lee Sung-chul
musica/music: Jung Hun-young
interpreti/cast: Kim Ho-jung, Kang Hea-jung, Kim Hyun-
sung
produttore/producer: Park Ji-young, Jung Rae-young
produzione/production: D-Production
durata/running time: 106’
origine/country: Corea del Sud 2001
Filmografia
Mother (1994, Cm), The Old Airplane (1995, Cm), Ibangin (Taekwondo,1997), Nabi (The Butterfly, 2001), Survival Games (2002,
episodio di After the War)
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Park Ki-yong
NAKTA(DUL)
Camel(s)
(t.l.: Cammello(i))
Il weekend di una coppia “clandestina”. Un uomo e una
donna si incontrano in una camera d’albergo presso una
località turistica di mare, Wolgot. Stanno insieme, conversano, mangiano e fanno l’amore. Girato con una videocamera in 12 giorni con una troupe ridotta a poche unità,
questo film vive anche sulla capacità di improvvisazioni
“jazz” del regista e dei due attori protagonisti.
A weekend in the life of a “clandestine” couple. A man and
woman meet in a hotel room near the sea resort town of Wolgot.
They spend time together, talk, eat and make love. Shot with a
video camera in 12 days, with a small crew and few units, this
film is alive thanks also to the improvisational “jazz” skills of the
director and the two actors.
“Il regista usa lo spazio claustrofobico della stanza di un
motel, come nel suo primo film, per descrivere la vita agitata delle persone di mezza età.”
Han Sang-jun (Pusan International Film Festival - 2001)
The director, as in his prior film, uses the claustrophobic space of
a motel room to depict the tumultuous lives of middle-aged people.
Han Sang-jun (Pusan International Film Festival - 2001)
Biografia
Nato nel 1961, ha studiato al Seoul Institute of Art e alla
Korean Academy of Film Arts. Ha lavorato come produttore per To the Starry Island di Park Kwang-su e Cinema on
the Road di Jang Sun-woo. Il suo primo lungometraggio,
Motel Cactus, ha ricevuto numerosi premi, tra cui quello
della critica al Festival di Rotterdam.
Biography
Born in 1961, he studied at the Seoul Institute of Art and at the
Korean Academy of Film Arts. He worked as a producer on Park
Kwang-su’s To the Starry Island and Cinema on the Road by
Jang Sun-woo. His first feature film, Motel Cactus, received
numerous awards, including the Critics Prize at the Rotterdam
Film Festival.
sceneggiatura/screenplay: Park Ki-yong
fotografia/photography (mini dv, b/n): Choi Chan-min
montaggio/editing: Park Ki-yong, Kim Sung-soo
suono/sound: Jung Jin-wook, In Sang-hyun
musica/music: Park Jin-suk
interpreti/cast: Lee Dae-yeon, Park Myung-sin
produttore/producer: Ko Choong-gil
produzione/production: Fine Communications
durata/running time: 90’
origine/country: Corea del Sud 2001
Filmografia
Motel Soninjong (Motel Cactus, 1997), Nakta(dul) (Camel(s), 2001), Digital Search (2003, Cm)
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IMMAGINI DALLA COREA
Repatriations
The Butterfly
Camel(s)
Feathers in the Wind, Concorso PNC Lino Miccichè
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JEONJU INTERNATIONAL FILM FESTIVAL:
DIGITAL SHORT FILMS BY THREE FILMMAKERS 2000 & 2003
Il Jeonju International Film Festival (JIFF) è stato fondato
nel 2000 e fin dalla prima edizione ha cercato di ritagliarsi
un posto importante nel panorama internazionale. Oggi il
festival è il terzo evento cinematografico più prestigioso
dopo Pusan e Puchon. La manifestazione offre una straordinaria varietà di eventi. Il festival offre non solo un’accurata selezione di film ma anche iniziative parallele come
conferenze, dibattiti, incontri con gli autori, seminari ed
esposizioni d’arte. Altra iniziativa prestigiosa è rappresentata dai Digital Short Films by Three Filmmakers; sin dalla
prima edizione il festival invita tre cineasti asiatici a realizzare un cortometraggio ciascuno della durata di circa 30
minuti, girato con apparecchiature digitali. Il festival
finanzia e distribuisce l’intero progetto, lasciando completa libertà agli autori. I tre corti annualmente vanno poi a
comporre un lungometraggio di circa 90 minuti. Ogni
anno risulta molto interessante osservare in che modo i
registi utilizzano una tecnologia, con la quale forse non
hanno molta confidenza, e scoprire eventuali originalità o
somiglianze tra le loro scelte. A Pesaro proponiamo le
annate 2000 e 2003.
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The Jeonju International Film Festival (JIFF) was founded in
2000 and from its first edition sought to carve out an important
niche in the international landscape. Today, the festival is the
third most prestigious cinematic event in Korea, after Pusan and
Puchon, and offers an extraordinary variety of events. The festival not only offers a thorough selection of films, but parallel initiatives as well, such as conferences, debates, meetings with filmmakers, seminars and art exhibits. Another prestigious initiative
is Digital Short Films by Three Filmmakers. Since its first
edition, JIFF has invited three Asian filmmakers to make a short
film each, of approximately 30 minutes, using digital equipment.
The three shorts then make up a feature film of approximately 90
minutes. It is interesting to see each year how the directors use
the technology, with which perhaps they are not very experienced, and to discover the originality of and resemblance among
their choices. Pesaro will be presenting the works from 2000 and
2003 editions.
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Park Kwang-su
WWW.WHITELOVER.COM
Ha-yan è una pornostar. Un fan le ha dedicato un sito web
www.whitelover.it. La sua carriera, però, è a un bivio: ottiene una parte in un film artistico per un regista di grande
fama. Non dovrà più spogliarsi davanti a una videocamera. O forse le verrà ancora chiesto di esibire il suo corpo?
Ha-Yan is a porn star to whom a fan has dedicated a website:
www.whitelover.it. Her career, however, is at a crossroads: she
lands a part in an art film by a very famous director. She will
never again have to take off her clothes in front of a camera . Or
perhaps she will be asked to display her body again?
Biografia
Nato nel 1955, ha studiato arte a Seoul. Dopo un periodo
passato a Parigi, è tornato in Corea per dirigere il suo primo lungometraggio nel 1988, Chilsu and Mansu. Ha ricevuto riconoscimenti per i suoi Black Republic, To the Starry
Island, The Uprising, il suo ultimo lungo realizzato nel 1999.
Biography
Born in 1955, he studied art in Seoul. After a long period spent
in Paris, he returned to Korea in 1988 to direct his first feature
film, Chilsu and Mansu. He has received awards for his films
Black Republic, To the Starry Island and his last feature, The
Uprising, which was made in 1999.
sceneggiatura/screenplay: Park Kwang-su
fotografia/photography (dv cam, colore): Kim Byoung-seo
montaggio/editing: Park Kwang-su
scenografia/art director: Yoon Ji-yeon
musica/music: Won-il
interpreti/cast: Wang You-seon, Lee Moon-ho
produttore/producer: Rue Jin-ok
durata/running time: 30’
origine/country: Corea del Sud 2000
Kim Yun-tae
DAL SEGNO
Un tassista ha dimenticato cosa ha fatto la notte precedente. Non ricorda nemmeno dove ha lasciato il suo taxi. Una
storia difficile da ricostruire, una realtà che prende la forma di un incubo. Il tempo del racconto si confonde tra passato e presente, immaginazione e realtà.
A taxi driver forgets what he did the previous night. He does not
even remember where he left his taxi. A difficult story to reconstruct, a situation that turns into a nightmare. In the story, time
becomes mixed up between the past and the present, imagination
and reality.
Biografia
Nato nel 1962, realizza per lo più film sperimentali, tra cui
Wet Dreams del 1992 che ha vinto il primo premio al
Korean Short Film Festival. Tra i suoi lavori che hanno partecipato a manifestazioni nazionali e internazionali si possono citare Slapdash/Concoction, Dowsing, Video Ritual.
Biography
Born in 1962, he has mostly made experimental films, of which
Wet Dreams won the Grand Prize at the 1992 Korean Short
Film Festival. Works of his that have been presented at national
and international festivals include Slapdash/Concoction,
Dowsing and Video Ritual.
sceneggiatura/screenplay: Kim Yun-tae
fotografia/photography (dv cam, colore): Park Ki-woong
montaggio/editing: Kang Tae-soon, Lee Chang-bin
scenografia/art director: Oh Jae-won, Jung Eun-young, Jeon
Sung-ho
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
costumi/costumes: Kang Tae-yeon, An Young-hyun, Gong Mi-ra
interpreti/cast: An Seok-hwan, Lee Ji-hae
produttore/producer: Lee Soo-jung
durata/running time: ‘30
origine/country: Corea del Sud 2000
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Zhang Yuan
JIN XING FILES
Jin Xing è una danzatrice moderna e una coreografa. La
sua è la storia di un passaggio da una natura all’altra. Ed è
il racconto di un’esistenza difficile, fatta di solitudini e
incertezze. Una storia vera.
Jin Xing is a modern dancer and choreographer. Hers is the story of the passage from one nature to another. It is the story of a
difficult existence, made up of solitude and uncertainties. A true
story.
Biografia
Nato a Nanjing, dopo essersi laureato all’Accademia di
Cinema di Pechino, ha debuttato nel 1990 con Mama. I suoi
film Beijing Bastard, Sons, East Palace West Palace, hanno
vinto premi in vari festival. È il più importante rappresentante della sesta generazione cinese di registi.
Biography
Born in Nanjing, after graduating from the Beijing Film Academy, he debuted in 1990 with Mama. His films Beijing
Bastard, Sons and East Palace West Palace have won awards
at various festivals. He is the most important representative of
the sixth generation of Chinese directors.
sceneggiatura/screenplay: Ning Dai
fotografia/photography (dv cam, colore, b/n): Gong Li
suono/sound: Wu Lala
interpreti/cast: Jin Xing
produttore/producer: Shan Dongbing
durata/running time: 30’
origine/country: Corea del Sud 2000
Aoyama Shinji
LIKE A DESPERADO
UNDER THE EAVES
Akihiko vive in un vecchio appartamento suonando la chitarra e cantando le sue canzoni in strada, ma non è esattamente la vita che sognava. Akihiko ha anche una ragazza
che, però, non si decide a mettersi alle spalle la storia con
il suo ex fidanzato. Al piano di sopra vive uno strano individuo che irromperà nella vita di Akihiko.
Akihiko lives in an old apartment, plays his guitar and sings his
songs on the streets, but it is not exactly the life he envisioned for
himself. Akihiko also has a girlfriend who, however, cannot make
up her mind to put the relationship with her ex-boyfriend behind
her. Above him lives a strange individual who will disrupt Akihiko’s life.
“Ho liberamente dipinto un quadro della mia letargica età
quando avevo circa 25 anni e bevevo, maledicevo il mondo, non avevo un lavoro.”
Aoyama Shinji
“I freely painted a portrait of my lethargic phase, when I was 25,
drank, cursed the world and had no job.”
Aoyama Shinji
Biografia
Nato in Giappone nel 1964, ha debuttato come aiuto regista. Nel 2000 il suo film Eureka ha ricevuto grandi elogi.
Durante l’ultimo festival di Cannes (“Un Certain Regard”)
ha presentato il suo ultimo film, Eli, Eli, Lema Sabachtani.
Biography
Born in Japan in 1964, he debuted as an assistant director. In
2000, his film Eureka received many accolades. During the
2004 Cannes Festival, his last feature, Eli, Eli, Lema Sabachtani, was screened in the Un Certain Regard Section.
sceneggiatura/screenplay: Aoyama Shinji
durata/running time: 40’
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origine/country: Giappone 2003
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Bahman Ghobadi
DAF
In un villaggio del Kurdistan, vicino al confine con l’Iraq,
Faegh ha tre mogli e undici figli. L’occupazione della famiglia è fabbricare il Daf, il più famoso strumento iraniano
fatto con la pelle di pecora e suonato per celebrare una
nascita o per un lamento funebre. La famiglia di Faegh
accoglie apprendisti fra la povera gente per insegnare loro,
di notte, a suonare il Daf. Il film è una combinazione di
musica e vita.
In a village in Kurdistan, near the Iranian border, Faegh has
three wives and eleven children. The family’s trade is making
Dafs, the most famous of Iranian instruments, made with sheepskin and played to celebrate a birth or at a funeral. At night,
Faegh’s family receives apprentices from among the poor, to teach
them how to play the Daf. The film is a blend of music and life.
Biografia
Nato nel 1969, ha cominciato a produrre i suoi film amatoriali con altri giovani registi a Sanandaj. Il suo cortometraggio Life in Fog ha vinto il Premio Speciale della Giuria
a Clermont-Ferrand. Nel 2000 con The Hours of Drunken
Horses si è aggiudicato il Premio Internazionale della Critica e la Camera d’Or al festival di Cannes.
Biography
Born in 1969, he began producing his amateur films with other
young directors in Sanandaj. His short film Life in a Fog won
the Special Jury Prize at the Clermont-Ferrand Festival. In
2000, he won the International Critics Prize and the Camera
d’Or at the Cannes Film Festival for The Hours of Drunken
Horses.
sceneggiatura/screenplay: Bahman Ghobbadi
fdurata/running time: 30’
origine/country: Iran 2003
Park Ki-yong
DIGITAL SEARCH
“Quando mi fu chiesto di girare Digital Search per il JIFF,
ero agitato circa il cosa fare con una camera digitale e il
come farlo. (...) Pensavo che avrei dovuto cercare qualcosa
di nuovo. Sono dominato da questa ossessione proprio
perché è digitale. (...) Con la mia camera digitale ho esplorato Seoul, il set della mia vita di tutti i giorni, e poi le persone. Volevo cogliere un aspetto che finora non ero mai
riuscito a fissare. Mi domando cosa scoprirò e come mi
sentirò una volta finita questa mia personale ricerca digitale.”
Park Ki-yong
“When I was asked to shoot Digital Search for JIFF, I was excited about what to do with a digital camera, and how to do it…. I
thought I would have to seek out something new. I am overwhelmed by this obsession precisely because it was digital
[video]…. With my camera, I explored Seoul, the set of my
everyday life, as well as its people. I wanted to capture something
that I had never been able to capture before. I wonder what I will
discover and how I will feel once I have finished this personal
digital search of mine.”
Park Ki-yong
Biografia
Nato nel 1961, ha prodotto To the Starry Island di Park
Kwang-su e Cinema on the Road il documentario sul cinema
coreano di Jang Sun-Woo. Nel 1997 ha realizzato il suo primo lungometraggio, Cactus Motel, che ha ricevuto numerosi premi. Nel 2001 ha diretto Camel(s).
Biography
Born in 1961, he produced To the Starry Island by Park
Kwang-su and Cinema on the Road, Jang Sun-woo’s documentary on Korean cinema. In 1997, he made his first feature
film, Cactus Motel, which received numerous awards. In 2001,
he directed Camel(s).
sceneggiatura/screenplay: Park Ki-yong
montaggio/editing: Park Ki-yong
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
durata/running time: 30’
origine/country: Corea del Sud 2003
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Omaggio a Mika Taanila
La fiction: Veikko Aaltonen e Esa Illi
I documentari: uno sguardo al femminile
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Guardare il mondo
Looking at the World
di Mazzino Montinari
by Mazzino Montinari
Essere un Paese di confine significa essere un Paese a stretto contatto con la Storia. Ed essere un Paese a stretto contatto con la Storia significa essere un Paese di “storie”, di
esistenze in transito. La Finlandia sembra confermare la
proprietà transitiva appena menzionata. Schiacciato tra
l’Ovest e l’Est europeo, almeno fino alla caduta del Muro
di Berlino, e comunque per quasi tutto il travagliato e tragico secolo scorso, il popolo finlandese si è trovato a vivere a stretto contatto con gli eventi storici del ‘900, attraversando una strada impervia sempre sul limite di un precipizio. Verrebbe da dire tra Hitler e Stalin, o tra la Nato e il
Patto di Varsavia, se si avesse intenzione di semplificare il
discorso e si credesse a una storia fatta da attori protagonisti e poi, in seconda battuta, da comparse o, comunque,
da un superfluo cast di supporto. Ma, appunto, la Storia
prevede e contiene al suo interno le “storie” e, dunque,
intrecci complessi che non si sciolgono con il pettine fornito dall’ideologia manichea. Quello che, per intenderci,
dirime la destra dalla sinistra o che, con pari forza omologante, aggiusta gli opposti in modo tale che formino un
tutt’uno, al solo scopo di liberarsi del problema dell’irriducibile complessità e pluralità della vita umana.
Le cose non stanno così. Non ci sono pettini che permettano di trarsi dall’impaccio del discernere. Non si può essere certi che i quattro punti cardinali siano sufficienti per
orientarsi nel caos della vita. Da questo punto di vista,
l’ampia retrospettiva dedicata alla produzione cinematografica Kinotar trova una valida motivazione proprio nel
cercare quelle opere cinematografiche che privilegiano le
“storie” e non la Storia, la complessa vicenda dell’esistenza umana piuttosto che il racconto ingabbiato dall’ideologia. Una petizione a favore degli autori che attraversano il
dubbio contro chi, per mezzo delle immagini in movimento, fissa le vicende umane in quadri statici e, per paradosso, in rappresentazioni immobili.
Il cinema dei registi finlandesi, anzi, nel caso della selezione pesarese, delle registe finlandesi, segue le esistenze in
transito. E’ un cinema che racconta le storie al plurale, che
si muove su strade di confine accidentate e che cerca affannosamente di raccogliere le testimonianze di individui che
in ogni istante si chiedono, o impongono allo spettatore di
chiedersi, che cosa significhi stare a questo mondo.
I sette documentari e le due fiction, queste ultime dirette
da due uomini (su Taanila si farà un discorso a parte), hanno un comune denominatore. Tutti i personaggi e i testimoni ripresi dalle macchine da presa e dalle agili videocamere digitali si sentono al limite tra l’essere e il non essere
in questo mondo, tra l’avvertire che in questo mondo abitano e il percepire che questo stesso mondo non abita dentro di loro.
Si potrà pure pensare che la proposta di documentari
diretti da sole donne sia un capriccio dei selezionatori, e si
obietterà che il catalogo Kinotar ha al suo attivo tanti registi uomini, ad affermarlo sono gli stessi produttori della
casa di produzione finlandese; nonostante ciò, in un panorama cinematografico che sempre più è disposto ad annacquare i conflitti o, di contro, a confezionare con grave mio-
Being a border country means being a country in close contact
with history. And being a country in close contact with history
means begin a country of “stories,” of lives in transit. Finland
seems to confirm this very transitiveness. Caught between Western and Eastern Europe, at least until the fall of the Berlin Wall
(and nevertheless throughout almost the entire tumultuous and
tragic past century), the Finns found themselves living in close
contact with the historical events of the 20th century, heading
down an impervious road along the edge of a precipice. That is to
say, between Hitler and Stalin, or between NATO and the Warsaw Pact, if we were to simplify the idea and if we were to believe
in a story made up of lead actors and, later, by extras or, nevertheless, by a supporting cast. However, history anticipates and
contains within it “stories” and thus complex knots that cannot
be untangled by the comb of Manichean ideology. That which
separates the right from the left or that, with equal homologizing
force, amends opposites in such a way so that they form a single
entity, with the sole intention of freeing them from the problems
caused by the irreducible complexity and plurality of human life.
This is not how things stand. There are no combs that allow us
to distance ourselves from the burden of discernment and to
hence rest assured that the four cardinal points are enough to orient us in the chaos of life. From this standpoint, the broad retrospective dedicated to the Kinotar production company is validated precisely by the search for those cinematic works that favor
“stories” and not history, the complex vicissitude of human existence rather than the story imprisoned by ideology. A petition in
favor of filmmakers that doubt those who, through the medium of
moving images, place human events within static paintings and,
paradoxically, within immobile representations.
The films of Finnish directors – or, to be more specific in regards
to the selection here at Pesaro, of female Finnish directors – follow these lives in transit. They are films that relate stories in the
plural, that move along bumpy border roads and that anxiously
seek to gather the testimonies of individuals who ask themselves,
or force the spectators to ask themselves, what it means to be a
part of this world.
The seven documentaries and two fiction films, the latter which
are directed by men (Taanila is a separate issue), share a common
denominator. All of the characters and witnesses captured by the
movie cameras and agile digital cameras feels themselves to be on
the edge between being and not being a part of this world,
between feeling that they live in this world and perceiving that
this same world, however, does not live inside of them.
Some may think that selecting documentaries directed only by
women is a whim on the part of the programmers, and they may
object that the Kinotar catalogue features many male directors,
as the Kinotar producers themselves attest. Nevertheless, in a
cinema landscape that is increasingly more oriented towards
diluting conflicts or, on the other hand, to presenting pre-established themes with grave shortsightedness (let us not forget that
we are in the midst of an era of preventative war), it seems opportune to turn to a female perspective or, rather, to eyes that see the
lacerations of reality with sensitivity and unimpaired rationality.
In regards to the documentary program, let us begin by citing
Kanerva Cederström who, with Trans-Siberia (1999) and Lost
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pia tesi prestabilite (non dimentichiamo che siamo in epoca di guerra preventiva), sembra opportuno affidarsi a uno
sguardo al femminile, ossia a occhi che vedono con sensibilità e intatta razionalità le lacerazioni dell’esistente.
Vediamo allora il programma dei documentari e cominciamo col citare Kanerva Cederström che con Trans-Siberia
(1999) e Lost and Found (2003) affronta il tema della persecuzione e della fuga dal regime totalitario. Storia più grande, quella della deportazione in Siberia, e forse più piccola, quella di un omosessuale che è costretto a scappare in
un altro Paese e perciò a trasformarsi in un apolide, ossia
in un senza patria perché “senza sesso”. Come detto in
precedenza, testimoni e spettatori sono messi di fronte al
lacerante quesito di un mondo che è luogo nel quale si abita e che, al tempo stesso, non si fa abitare. Il mondo che
Marcel Bloemendal nel documentario di Maija Blåfield,
Saving the World (2005), vorrebbe appunto salvare. Marcel
è sofferente di schizofrenia, o al contrario è dotato di quello che a torto si considera un male e che invece permette
uno sguardo trasversale e immaginifico, l’unico in grado
di ripensare la vita in una diversa prospettiva.
Continuiamo con la coppia di registe Susanna Helke e Virpi Suutari che entrano nell’abitazione di una famiglia
“improduttiva” nell’epoca della produttività totale (A
Soapdealer’s Sunday, 1998), o che pedinano un gruppo di
giovani fuorigioco, posti cioè al di la di quella linea entro
la quale è consentito ricevere la palla per segnare un goal
(The Idle Ones, 2001). Una linea immaginaria, eppure così
reale, imposta da chi detta le regole senza bisogno di vedere le azioni dei giocatori. Susanna Helke e Virpi Suutari,
che non hanno la pretesa di mettere la moviola in campo
perché non affidano alle immagini alcun potere salvifico,
osservano, inseguono, cercano il mondo insieme ai loro
protagonisti. E insieme a loro non lo trovano.
E a inseguire il mondo ci sono anche le Good Girls (2000) di
Hanna Miettinen. Donne di generazione e cultura diverse,
eppure accomunate dal dover essere in pace con ciò che le
circonda: brave casalinghe, brave lavoratrici, brave studentesse… che poi significa brave ad accettare il mondo
senza che il mondo accetti loro.
Storie inconciliate come quelle che apprendiamo vedendo
On Edge (2002) di Maria Lappalainen, ossia di coloro che in
tenera età per via di un gesto incomprensibile vedono
segnata la propria esistenza per sempre. Quei ragazzini,
che hanno compiuto un crimine atroce, sono il simbolo di
un’epoca in cui il ridere e il piangere non hanno più ragione, sono il frutto di uno stato emotivo il cui senso non è più
rintracciabile. Dentro di loro il passato si è fatto futuro e il
futuro si è incagliato nelle strette maglie del passato. Non
si può tornare indietro e nemmeno andare avanti. O forse
sì, perché dopo il cinema, le immagini che abbiamo visto
muoiono nello schermo e la vita continua a scorrere, anche
per quei bambini.
Lo schermo, dunque, come luogo di transito delle esistenze, dove per un attimo le lacerazioni si ingrandiscono e poi
tornano alla loro dimensione normale. Una “semplice”
testimonianza che non pretende di colmare la distanza tra
la vita dell’individuo e il mondo.
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and Found (2003), tackles the topic of persecution and an
escape from a totalitarian regime. A larger story, on deportation
in Siberia, and perhaps a smaller story, that of a homosexual
forced to run away to another country and thus become a displaced person or, rather, a country-less person because he is “sexless.” As stated above, witnesses and spectators are made to face
the heartrending problem of a world we inhabit that, at the same
time, does not allow us to inhabit it. The very world that Marcel
Bloemendal, in Maija Blåfield’s Saving the World (2005),
would like to save. Marcel – who suffers from schizophrenia and
who is endowed with something that others believe to be bad, yet
which gives him a transversal and highly imaginative perspective – is the only person capable of rethinking the world from a
different point of view.
We continue with directorial twosome Susanna Helke and Virpi
Suutari, who enter the house of an “unproductive” family in a
period of complete productivity (A Soapdealer's Sunday,
1998), or who trail a group of young “offsiders,” placed beyond
that line up to which one is allowed to receive the ball to score a
goal (The Idle Ones, 2001). An imaginary line, and yet so real,
imposed by those who dictate the rules without feeling the need
to see the players in action. Susanna Helke and Virpi Suutari –
who do not claim to place the camera on the field because they do
not bestow the images any redeeming power – observe, follow
and search for the world together with their protagonists. And,
together with them, do not find it.
Others who also chase after the world are Hanna Miettinen’s
Good Girls (2000). Women of different generations and cultures who nonetheless share the need to be at peace with the
world around them: good housewives, good workers, good students… which means they are good at accepting a world that
does not accept them.
Irreconcilable stories, like those that we encounter in Maria Lappalainen’s On Edge (2002); those who, at a tender age and
because of an incomprehensible gesture, see their entire lives
marked forever. These young kids, who have committed atrocious
crimes, are symbols of an era in which laughing and crying are
no longer right, and are the result of an emotional state whose
sense is no longer traceable. Behind them, the past has become
the future and the future has come to a standstill in the tight
mesh of the past. They cannot go back, nor can they move forward. Or perhaps they can, because, later, the images that we
have seen die on the screen and life continues to flow, even for
these children.
Thus, the screen is the place of existential transit, where for one
moment the lacerations are enlarged before then return to their
normal dimensions. A “simple” testimony that does not claim to
fill the gap between the individual’s life and the world.
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Futuro (Quadro) Perfetto
Future/Picture/Perfect
di Olaf Möller
by Olaf Möller
Macerie di futuri trascorsi – la loro data di scadenza, anche
– così come frammenti – che si pongono provocatoriamente come la cosa vera – di futuri più possibili che probabili,
ecco i materiali che formano l’opera di Mika Taanila.
Essendo una creatura del nostro tempo – o almeno sapendo come mostrarsi per tale – il lavoro di Taanila è stato difficile da collocare, contrassegnare: per ora è più apprezzato nel mondo dell’arte contemporanea, specialmente della
musica elettronica, che in quello del cinema, malgrado
Taanila sia prima di tutto un filmmaker.
Un filmmaker le cui opere sono, indubbiamente, ibridi di
primo grado, il che potrebbe essere la ragione delle difficoltà della cultura cinematografica nei suoi confronti –
nessun genere da solo offre uno scudo abbastanza grande
per coprirli. I film di Taanila sono miscele perfidamente
sagge, insolite e strambe, di documentario e approccio sperimentale alle forme con decisivi tocchi di – science, sì!, e
sicuramente speculativa – fiction.
Si prenda la sua ultima creazione, terminata di recente,
Optinen Ääni/Optical Sound (2005). Sono 6 tesi minuti, una
esplorazione/documentazione generosamente espansa in
Cinemascope di una piece del gruppo canadese The Source
che mette in scena stampanti a matrice di punti probabilmente vecchie di due decadi, che sferragliano segni e suoni. Alcuni potrebbero definirlo un esperimento strutturalista per tecno-fanatici, altri un videoclip materialista: di certo è un capolavoro. Strumenti antichi suonano una musica
troppo lontana per essere di questo tempo – non a caso il
titolo del film più lungo e noto di Taanila, un profondo
inchino per Erkki Kurenniemi, pioniere finlandese dell’arte elettronica, compositore, inventore di strumenti, filmmaker, scienziato nucleare, specialista di robotica industriale, designer di computer grafica ecc., dice tutto: Tulevaisuus ei ole entisensä/The Future Is Not What It Used to Be
(2002), che solo ai perennemente depressi suona unicamente negativo. Allo stesso modo il passato, se osservato
abbastanza a lungo, con sguardo adeguatamente perplesso e incantato, apparirebbe potentemente fantascientifico,
come provato dalla squisita installazione di found footage
multiscreen Fysikaalinen/A Physical Ring (2002), basata sulle
riprese di alcuni esperimenti scientifici degli anni ‘40, la
cui effettiva natura nessuno ricorda più. C’è solo l’immagine di un anello che ruota – fatto presente e futuro immediatamente passato da una colonna sonora elettronica da
secondo millennio a venire – a significare la più grande di
tutte le ironie storiche: tutto ciò che parte, prima o poi torna, in qualche modo è così. Come nell’affermazione di
Hugh Heffner: “Questo è il progresso – l’abilità dell’uomo
di controllare l’ambiente che lo circonda ‘... chi ha detto
che il futuro ha a che fare col progresso, di chi e quale poi?
E intanto l’anello ruota, e ruota...
L’allargarsi, lo stringersi, il contraddittorio contrarsi del
cerchio contiene il principio di Taanila: tutto, in un modo o
nell’altro ritorna, e Taanila è l'artista del riciclo, il ri-valutatore di immagini e suoni che mescolano i tempi. In questo contesto il concetto di found footage – concetto a volte
menzionato a proposito del suo lavoro – sembra d’im-
Debris of futures way past (their sell-by date, too) as well as
fragments – posing defiantly as the real thing in and of themselves – of futures more possible than likely are the stuff Mika
Taanila's oeuvre is made of. Being a creature of our timesbetween (or at least knowing how to look like one... ), Taanila's work has been difficult to classify, pigeonhole. For now, it
is more appreciated in the worlds of fine art and modern,
mainly electronic, music than in cinema although Taanila is a
filmmaker first and foremost.
Taanila’s films are, admittedly, hybrids of the first order,
which might be the reason for film culture's difficulties with
him. No genre alone provides a shield big enough for him to
don: his films are wickedly wise, weird, and wacky mixes of
documentary and experimental forms/approaches with decisive touches of – science (yeah!) and certainly speculative –
fiction.
Just take his latest creation, the only recently finished Optinen Ääni/Optical Sound (2005): a tight 6-minute, generously CinemaScope-expansive exploration/documentation of
a piece by the Canadian group The Source, featuring dotmatrix printers probably two decades old rattling away signs
and sounds – some might call it a structuralist experiment for
techno-hipsters, others a materialist music video. What is certain is that it is a masterpiece. Instruments of the past play a
music too far out to be of this tense, all now (nudge nudgewink wink), the title of Taanila's longest and best-known
film, a deep, deep bow to Erkki Kurenniemi, Finnish electronic arts pioneer/composer/instrument inventor/filmmaker/
nuclear scientist/industrial robotics specialist/computer
graphics designer/etc., says it all: Tulevaisuus ei ole
entisensä/The Future Is Not What It Used to Be (2002),
which only to the ever-depressive sounds solely negative. The
same way the past, if stared at long, puzzled yet mesmerised
enough, might look mighty science fiction-ish, as proven by
Taanila's exquisite found footage-miniature/multiscreen
installation Fysikaalinen rengas/A Physical Ring (2002),
which is forged out of footage of some scientific experiment
from the 40s whose actual nature nobody remembers anymore. There’s just this image of a spinning ring (made present
and future-soon-to-be-past by an echt second-millenniumadvent-ian electronic soundtrack), suddenly a signifier of that
greatest of all historical ironies: what goes round comes
round, somehow, that is. And so much for Hugh Heffner's
claim, "That's what progress is all about: man's ability to
control his environment." Who said that the future has something to do with progress, and whose and which anyway?
And round and round it spins.
The widening, tightening, contradictorily contracting circle,
in a way, contains the Taanila-principle: everything comes
back in some way or other – Taanila, the recycling artist, the
re-considerer of images and sounds who mixes the tenses. In
this context the concept of found footage – a notion sometimes
mentioned in connection with his work – suddenly sounds a
bit misguidedly romantic for it implies some straight progression forward instead of an erratic bumbling roughly
towards the sun. Or, more simply: Taanila's works are more
concerned with lost or missed contexts than materials,
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provviso ingannevolmente romantico, perché implica una
progressione rettilinea invece di un eccentrico vacillare
verso il sole; o più semplicemente: i lavori di Taanila sono
più legati a contesti perduti che ai materiali usati, anche se
estrarre “cose” è una parte essenziale della sua arte.
Per questo, sembra sempre inappropriato quando Taanila,
per ragioni di praticità nella presentazione, divide la sua
opera in film – le produzioni in 35mm (realizzate da Kinotar) – video musicali – principalmente per i 22-Pistepirkko
e i Circle – e “altri lavori”, che comprendono i suoi primi
documentari video prodotti dal Lahti Polytechnic, i video
destinati alle proiezioni sullo sfondo per il gruppo teatrale
sperimentale Maus & Orlovski (di cui è membro), un trittico live in 16mm live per tre proiettori, commissionato nel
1998 dal Kiasma nella sua città natale, Helsinki. Perché in
realtà, in un modo o nell’altro, tutto è collegato, come per
esempio un videoclip che diventa la base di un documentario le cui ricerche e realizzazione portano alla pubblicazione di un libro e di un dvd allegato con materiali extra,
fra i quali si ritrovano alcuni “scarti”, parti troppo piccole
da poter essere qualificate come lavori autonomi ecc.
Visto che ci siamo, prendiamo il caso di Futuro – tulevaisuuden olotila/Futuro – A New Stance for Tomorrow (1998),
omaggio di Taanila alla Futuro-house, un pezzo d’avanguardia progressiva finlandese, in passato conosciuta a
livello internazionale, – eccessiva e sconnessa: una casa
fatta di plastica che sembra un stoviglia volante – niente
di meno. Anche quelli della Polykem che la concepirono
hanno affermato di aver usato quella particolare forma
solo per motivi termici e non come esempio di design, dato
che l’originale Futuro fu commissionata come rifugio sciistico in un alloggio con impellente necessità di riscaldamento veloce... Si può dire: fisica che diventa zeitgeist. Da
più punti di vista, la Futuro-story contiene la storia intera di
quella futile, selvaggia decade speranzosa e incline all’insolenza fra la metà degli anni Sessanta e Settanta: dalla
vivace e prosperosa età alto-industriale, con i suoi propositi di espandere la vita nello spazio, oltre i confini del pianeta terra, allo schianto di questa utopia (?) chiamato crisi
petrolifera, che rese la sola idea di una casa di plastica
assurda, almeno in quel momento – troppo si è dato, troppo si è preso, quel che resta è un’opzione per il cambiamento, una memoria. Ora, come già si accennava, Futuro –
A New Stance for Tomorrow si sviluppò in un videoclip con
found footage da esso tratto, Needle’s Eye (1996), realizzato
da Taanila con Marko Home per l’omonima titletrack di un
album dei Cybermen. Affascinati dalle immagini che avevano raccolto – beh, inizialmente non avevano dovuto scavare troppo, perché il “padre” di Futuro, l’architetto Matti
Suuronen, aveva donato proprio allora i suoi lavori al Suomen Rakennustaiteen Museon – iniziarono una ricerca sulla storia di Futuro, che in un certo senso era anche un viaggio a ritroso nella loro infanzia, dalla quale venivano i
ricordi degli ufo (Taanila è nato nel ‘65). Durante le ricerche, scovarono molto materiale da tutto il mondo e da differenti contesti: da immagini in super 8 di una cerimonia
shintoista in occasione della prima di Futuro in Giappone
(concessa da Peter Stude, supervisore del Polykem’s Futuro-project e videomaker amatoriale, come molti finlandesi
negli anni Sessanta) a riprese girate dall’artista pop tedesco, appassionato di spazio e proprietario di una Futurohouse Charles Wilp, che tra le altre cose usò il suo “spazio-
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although digging out stuff is an essential part of his art.
Therefore, it always feels just dead wrong when Taanila, for
oeuvre-presentational purposes, divides his work up into
Films (his 35mm-productions, all done by Kinotar), Promotional Music Videos (mainly for 22-Pistepirkko and Circle),
and Other Works, which subsumes everything from his early
video documentaries produced by Lahti Polytechnic, to the
video backdrop projections for the experimental theatre group
Maus & Orlovski (of which he is a member), to a 16mm-live
triptych for three projectors commissioned in 1998 by the
Kiasma in his hometown of Helsinki. Actually, they all in one
way or another belong together, with, for example, a music
video becoming the basis of a documentary whose research
and realisation leads also to the publication of a book which
comes with a DVD of the film plus bonus materials among
which one finds a few "throw-aways," tiny pieces too small,
it seems, to qualify for being featured as stand-alone works,
etc.
Now, while we're already at it, let's take the case of Futuro tulevaisuuden olotila/Futuro - A New Stance for
Tomorrow (1998), Taanila's homage to the Futuro-house, an
internationally once famous/hip piece of echt Finnish, progressive-while-outré off-ness: A house made of plastic that
looks like a flying saucer – no shit and nothing less. A flying
saucer, even if the people of Polykem who developed it say
they used that particular shape only for thermal reasons and
not as a design statement, for the original Futuro was commissioned as a ski lodge, i.e., a house in dire need of fast heating.... Let's say it's physics becoming zeitgeist. In many
ways, the Futuro-story contains the whole history of that
vain, wild, hope-stoned and hubris-prone decade between the
mid-60s and 70s: from the swinging, prosperous high-industrial age with its vision of extending life into space, beyond
the boundaries of planet earth, to this utopia(?)'s crash-landing called the oil crisis which made the idea alone of a plastic
house look, well, criminally insane, at least at that moment - hype giveth and hype taketh, and what remains is an option
for change, a memory.
Now, as already alluded to, Futuro - A New Stance for
Tomorrow developed out of a Futuro-footage-driven music
video, Needle's Eye (1996), which Taanila made together
with Marko Home for the eponymous title track of an album
by The Cybermen. Fascinated by the images they found –
well, initially they didn't have to dig too deep, for Futuro's
father, architect Matti Suuronen, had just then donated his
materials to the Suomen rakennustaiteen museon – they
started research into Futuro's history, which, in a certain
way, was also a journey back into their childhood from
when(ce) they remembered these UFOs (Taanila is of '65-vintage). During their re/search they dug up more material from
all over the world and all different kinds of contexts, consisting of everything from Super-8-material of a Shinto ceremony on the occasion of the first Futuro in Japan (courtesy of
Polykem's Futuro-project supervisor Peter Stude, like so
many 60s-Finns a home movie-maker); to footage shot by
space-crazy German pop artist and Futuro-owner Charles
Wilp who, among other things, used his 'gravity-free social
space' for one of his time/style capsules of Afri Cola-commercials; to an issue of legendary Swedish porno-publication Private featuring a photo-story called "The Goddesses of Galaxia," with hot blonde chicks in nasty black leather – anybody
mumbled Aryan?... thought so – doing the dirty with each
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sociale-senza-gravità” per uno dei suoi commercial dell’Afri Cola, vere e proprie capsule temporali/stilistiche, fino a
un numero della leggendaria pubblicazione pornografica
svedese “Private” contenente una foto-storia intitolata
“The Goddesses of Galaxia” con calde pollastrelle bionde
in mise di pelle nera – qualcuno ha detto ariano? Così mi è
sembrato… – a fare sesso in una Futuro (dopo essere stata
promossa da “Playboy” come perfetta casa da celibe, era
solo questione di tempo…). Per rendere servizio alla storia, Taanila e Home filmarono del nuovo materiale in
Super-8 che, messo a confronto con le vecchie riprese, sembra strano tanto quanto malinconico; bene, molto di quest’ultimo finì nel dvd Futuro. Tomorrow's House from Yesterday (2002) come “materiale di scarto”, con musiche del collettivo d’improvvisazione sperimentale con base a Pori
Ektroverde. The Future is Not What It Used to Be si è espanso in maniera simile nell’eccellente dvd The Dawn of DIMI,
che contiene, oltre al film di Taanila: i corti (incompiuti,
troppo poco tempo a disposizione) di Kurenniemi nel loro
stato originale come in nuovi montaggi di Taanila su composizioni di Kurenniemi all’incirca dello stesso tempo delle riprese; tesori disseppelliti come DIMI Ballet (1971), una
performance d’improvvisazione di Kurenniemi e Riitta
Vainio filmata da Hannu Heikinhelmo per la YLE, che non
la trasmise mai; il documentario di un concerto con Pan
sonic che suona Kurenniemi su strumenti da lui inventati
e costruiti (con Taanila che provvede alle proiezioni dal
vivo) ecc.
Ancora: la casa di domani che arriva da ieri, il che evidenzia esattamente il genere di paradossi sempre ricercati da
Taanila con squilibri tra tempi e design, interrogazioni di
tempi e design, affettuosamente. Per dare alle sue interviste coi Futuro-pionieri una spinta supplementare, Taanila li
filmò nella nudità di uno studio “senza tempo” con differenti sfondi a bolle in 3D stile anni Sessanta come ironici
schizzi di colore. Nel suo film sul calcio RoboCup99 (1999)
usa la (troppo spesso abusata) strategia delle riprese finto
antiche – bianco e nero, graffiature – su un materiale così
evidentemente attuale che pone le cose in prospettiva con
un gesto allora (e ancora oggi – fino a quando?) d’avanguardia.
Tutti questi movimenti di contrari servono unicamente a
uno scopo: sono misure protettive. Perché sarebbe troppo
facile prendere per il culo ogni persona apparsa in un film
di Taanila dato che tutti, in un modo o nell’altro, fuori dal
tracciato dritto e limitato dell’accettabilità storica, e/o rappresentativi di visioni e ideali, non ce l’hanno fatta. Ancora ancora ancora ancora, dice Taanila, che ama i suoi protagonisti e di conseguenza, in qualche modo, quello che
fanno, anche se non necessariamente lo condivide – come
potrebbe amare veramente la muzak, protagonista del suo
primo lavoro in 35mm Thank You For the Music – elokuva
muzakista/A Film about Muzak (1997)? Ma come potrebbe
negare lui, appassionato di musica elettronica, impresariopromotore di festival, il suo rapporto con questa parte specifica di ingegneria sociale? Chi può sapere in cosa potrebbe svilupparsi la muzak? Nello spazio/mondo di Taanila,
uno stato della Repubblica Patafisica delle Idee Immodeste
(del quale per lo storico dei media Erkki Huhtamo, Erkki
Kurenniemi è certamente un cittadino), le cose più strane
sono possibili e tendono ad accadere.
Si prenda la RoboCup: nel 1999, nella sua terza edizione,
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other inside a Futuro (after being promoted by Playboy as a
choice bachelor pad, this was only a matter of time...).
As a service in a return to history, Taanila and Home also
shot some new Futuro-material fittingly on Super-8 which,
watched side-by-side with the older footage, feels as eerie as it
does melancholic. Well, some of this stuff ended up on the
Futuro. Tomorrow's House from Yesterday DVD (2002),
as "throw-aways," with scores by the Pori-based experimental improv-collective Ektroverde. The Future Is Not What It
Used to Be expanded in a similar fashion into the excellent
DVD The Dawn of DIMI that features, besides Taanila's
film: the (unfinished, too little time) shorts of Kurenniemi in
their original state as well as in new edits by Taanila done to
Kurenniemi-compositions from roughly the same time as the
footage; buried treasures like DIMI Ballet (1971), an improvised performance by Kurenniemi and Riitta Vainio shot by
Hannu Heikinhelmo for YLE, which never aired it; a concert
documentary featuring Pan sonic playing Kurenniemi on
instruments he invented/built (with Taanila providing live
background projections); and so forth.
Again: Tomorrow's house from yesterday. That nicely nails
the kind of paradoxes Taanila is always after – with
times/designs disequillibrating, questioning times/designs,
lovingly. To give his interviews with the Futuro-pioneers an
additional spin, Taanila shot them against a studio's naked
"timelessness" with different 60s'ish 3D-wobblewobble-backgrounds as ironic splashes of colour. In his soccer-film
RoboCup99 (1999) he uses the (so often-abused) strategy of
"fake footage-ageing" – B&W, scratches, the works – on
material that's so obviously just-now then that it puts things
into perspective with a then (and still -- till when?) hip gesture.
All these counter-moves serve solely one purpose: they're protective measures. Because it would be soooooo fucking easy to
take the piss out of probably every person who ever appeared
in a Taanila film, for they're all in some way or another off the
straight and narrow track of historical acceptability and/or
representatives of visions and ideals that didn't make it. Yet,
yet yet yet, says Taanila who loves his protagonists and therefore, somehow, what they're doing, even if he doesn't necessarily embrace it. And how could he truly love muzak, the
subject of his first major 35mm-work, Thank You For the
Music - elokuva muzakista/Thank You For the Music A Film about Muzak (1997)? But then, how could he deny
his – the electronic music-lover/festival entrepreneur/promoter's – relationship to this particular piece of social engineering? And who knows what muzak might develop into? In
Taanila-world/space, a state in the pataphysical Republic of
Immodest Ideas (of which media historian Erkki Huhtamo,
Erkki Kurenniemi is certainly a citizen; soooooo), the
strangest things are possible and tend to happen.
Take the RoboCup. In 1999, during only its third edition, an
Italian team was able to win its semi-finale match against a
German team in a penalty shoot-out, which is something
that's not too likely to happen in that other reality (heh heh),
but which looks positively possible compared to a world champion from... Iran: CE Teheran won the RoboCup!
Who cares that it all looks utterly bizarre with some dark
clouds threatening: grown-ups shouting hysterically at the
top of their lungs in support of their robots which, no, who
look like gutted shoe boxes or, well, dogs(?) chasing a ball they
manage to just slooooowly roll over the goal line, and all those
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una squadra italiana vinse la semi-finale contro un team
tedesco ai calci di rigore, cosa non troppo probabile nell’altra realtà (he he he), ma che sembra effettivamente possibile se si pensa a un campione del mondo proveniente
dall’...Iran: la CE Teheran vinse la RoboCup!
Cosa importa che il tutto appaia così assolutamente bizzarro, con nuvole nere minacciose, adulti che gridano istericamente a pieni polmoni per sostenere i propri robot che
sembrano scatole di scarpe sventrate, o forse cani a rincorrere una palla che riescono a malapena a far rotolare leeeentamente oltre la linea di porta, e tutti i dubbi seminati dalle
riprese anni Sessanta che mostrano Dio in veste di Pelè –
grazia/astuzia/intelligenza: un altro tipo di trinità –, promemoria della distanza ancora da superare per una squadra robotica che vuole affrontarne una umana (con Pelè
memoria evanescente lui stesso...), e lasciamo stare i commenti intimidatori dello scienziato russo che parla delle
possibilità di usare questa tecnologia per scopi militari.
Perché questo è ADESSO il futuro, e noi abbiamo tutte le
possibilità e il potere di deciderlo.
doubts sown by that footage from the 60s showing God in his
guise as Pele – grace/cunning/intelligence: another kind of
trinity – a reminder of the distance still to cross for a robot
team to be able to face a human squad (with Pele being a fading memory itself...), let alone the daunting comments by the
Russian scientist who talks about the possibilities of using
this technology for military purposes. For this is NOW. The
future we've got all possibilities and power to decide about.
Biografia:
Nato a Helsinki nel 1965, è un filmaker e un artista. Ha studiato Antropologia Culturale presso l’Università di Helsinki e si è specializzato al Lahti Institute of Design. Vive e lavora ad Helsinki. Insegna all’Accademia di Belle Arti. Ha partecipato a numerose manifestazioni internazionali.
Considerato uno dei pionieri del genere dei video musicali finlandesi, Taanila ha realizzato dozzine di videoclips per
rockband finlandesi, attività questa che l’autore ha definito “più come un hobby” e che gli è valsa comunque numerosi riconoscimenti. Nel 2002 ha ricevuto la Menzione Onoraria nella categoria di musica digitale al Prix Ars Electronica.
Ha realizzato film, videoclip e installazioni che mettono a tema soprattutto le scoperte della scienza e le utopie della
civiltà tecnologica. Un futuro rappresentato tra sogni e visioni inquietanti. I lavori di Taanila sono inoltre apparsi nel
contesto delle Arti Visuali in numerose esposizioni di arte contemporanea, tra cui la 7ma biennale di Istanbul (2001) e
Manifesta 4 (2002) a Francoforte.
Biography:
Born in Helsinki in 1965, Mika Taanila is a filmmaker and artist. He studied Cultural Anthropology at the University of Helsinki and graduated from the Lahti Institute of Design. He lives and works in Helsinki and teaches at the Fine Arts Academy. He has
participated in numerous international cultural events. Considered to be a pioneer of the Finnish music video genre, Taanila has
made dozens of music videos for Finnish rock bands, an activity that the filmmaker has defined as “more of a hobby” and for which
he has nevertheless received numerous awards. In 2002, he received Honorable Mention in the digital music category at the Prix
Ars Electronica. He has made films, music videos and installations that focus above all on scientific discoveries and the utopias of
technological civilization. A future represented by dreams and disturbing visions. Taanila’s works have furthermore been showcased
as Visual Art at many contemporary art exhibits, including the 7ma Biennale in Istanbul (2001) and Manifesta 4 (2002) in Frankfurt.
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ELOKUVA MUZAKISTA
Thank You for the Music
(t.l.: Grazie per la musica)
Le “musichette” di sottofondo dei supermercati (muzak) e
i suoi inquietanti e sottovalutati effetti sulle fantasie di 160
milioni di inconsapevoli ascoltatori e consumatori.
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila, Anton Nikkilä
fotografia/photography (35mm, colore): Jussi Eerola
montaggio/editing: Mika Taanila
suono/sound: Pietari Koskinen
musica/music: Paul Natte Orchestra, Malcolm Carlton Orchestra, Ronnie Price Orchestra, Frank Chacksfield Orchestra,
The background “music” of supermarkets (muzak) and its disturbing and underestimated effects on the imaginations of 160
million unwitting listeners and consumers.
Muzak Corporation
produttore/producer: Lasse Saarinen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 24’
origine/country: Finlandia 1997
FUTURO - TULEVAISUUDEN OLOTILA
Futuro - A New Stance for Tomorrow
(t.l.: Futuro - Una nuova posizione
per il domani)
Futuro è una casa “portatile” di forma ellittica progettata
nel 1968 dall’architetto finlandese Matti Suuronen. E’ un
modulo abitativo di 50 metri quadrati pensato come casa
vacanze per località sciistiche e zone montane. La cabina è
realizzata interamente in plastica, poliestere e PVC. Una
costruzione utopica simile a un disco volante che auspicava una vita migliore. Le sue forme originali suggestionarono artisti come lo scultore Christo, il fotografo Charles
Wilp e il fondatore di “Playboy”. Non ebbe, però, sviluppi
commerciali anche a causa della guerra in Vietnam. Oggi
alcuni esemplari sono esposti nei musei. Questo documentario riporta alla luce una pietra miliare del design finlandese attraverso filmati di repertorio.
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila, Marko Home
fotografia/photography (35mm, colore, bianco e nero): Jussi
Eerola
montaggio/editing: Mika Taanila
suono/sound: Olli Huhtanen
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Futuro is a “portable,” elliptically-shaped house created in 1968
by Finnish architect Matti Suuronen. It is an inhabitable module of 50 square meters, designed as a vacation home for ski and
mountain resort areas. The cabin is made entirely of plastic,
polyester and PVC and is a utopian construction similar to a flying saucer that holds the promise of a better life. Its original
forms influenced artists such as the sculptor Christo, the photographer Charles Wilp and the founder of Playboy. However, it
was not commercially developed, in part due to the Vietnam
War. Today, several examples are exhibited in museums.Through
the use of archive material, this documentary unearths a milestone of Finnish design.
musica/music: Ektroverde, Dick Hyman, 101 Strings
produttore/producer: Lasse Saarinen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 30’
origine/country: Finlandia 1998
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OMAGGIO A MIKA TAANILA
ROBOCUP99
Le prime immagini sono quelle di Italia-Brasile, la finale di
Messico ’70. A Stoccolma nel 1999, altri “giocatori”sono i
protagonisti del torneo: i robot. Come nei celebri mondiali
messicani, anche in questo caso ci sarà un’intensa semifinale tra Italia e Germania che non finirà nei tempi regolamentari. Ma in finale ad attendere la vincitrice vi sarà l’Iran. Un film sportivo su una particolare utopia umana:
l’uomo riprodotto in una macchina autonoma. Una creatura del dottor Frankenstein che dovrebbe essere migliore
degli umani stessi.
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila
fotografia/photography (35mm/Beta SP, colore): Jussi Eerola
montaggio/editing: Mika Taanila
suono/sound: Olli Huhtanen
musica/music: Rehberg & Bauer, Shizuo, Christoph de Baba-
The initial images are of the final game of the 1970 World Cup
in Mexico between Italy and Brazil. In Stockholm, in 1999, other “players” are playing in a championship: robots. Like the infamous Mexico finals, here too there will be an intense semi-final
game that will go into overtime, between Italy and Germany.
But the ultimate winning team will be Iran. A sports film about
a specific human utopia: man replicated in an autonomous
machine. A creature of Doctor Frankenstein’s meant to be superior to humans.
lon
produttore/producer: Lasse Saarinen/Ulla Simonen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 26’
origine/country: Finlandia 2000
FYSIKAALINEN RENGAS
A Physical Ring
(t.l.: Un suono fisico)
Un found-footage che documenta un esperimento scientifico avvenuto in Finlandia negli anni ’40 e i cui obiettivi
restano oscuri. Con un montaggio meticoloso e con il fondamentale supporto musicale di Mika Vainio, Taanila trasforma questo materiale in qualcosa di ipnotico.
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila
fotografia/photography (35mm, colore, bianco e nero): Jussi
Eerola
montaggio/editing: Mika Taanila
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A found-footage film that documents a scientific experiment that
took place in Finland in the 1940s and whose objectives are still
unclear. With meticulous editing and an underlying, fundamental musical score by Mika Vainio, Taanila transforms this material into something hypnotic.
musica/music: Ø (Mika Vainio)
produttore/producer: Mika Taanila
durata/running time: 4’
origine/country: Finlandia 2002
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OMAGGIO A MIKA TAANILA
TULEVAISUUS EI OLE ENTISENSÄ
The Future Is Not What It Used To Be
(t.l.: Il futuro non è quello
che è solito essere)
Un film sulle avanguardie degli anni ’60 e sulla storia dei
primi micro-computer, più in generale sulle questioni
scientifiche aperte del ventunesimo secolo. Protagonista di
questo racconto è Erkki Kurenniemi, considerato un profeta dell’headband video, della realtà e dell'intelligenza artificiale, campi in cui ha condotto ricerche pionieristiche. Il
materiale d’archivio risale agli albori dell’arte elettronica, e
include spezzoni di cortometraggi sperimentali incompiuti di Erkki Kurenniemi. E’ il ritratto di un visionario
dimenticato. Come in altre opere di Taanila, si guarda al
passato, e attraverso ciò si vede molto chiaramente il lontano futuro.
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila
fotografia/photography (digital beta, colore e b/n): Jussi Eerola
montaggio/editing: Mika Taanila
suono/sound: Olli Huhtanen
musica/music: Erkki Kurenniemi, György Ligeti, Jukka Ruohomäki, Sähkökvartetti
A film on the avant-garde of the 1960s, the history of the first
micro-computers and, in general, on the scientific questions postulated in the 20th century. This story centers on Erkki Kurenniemi, considered to be the prophet of headband videos, artificial
reality and artificial intelligence; fields in which he conducted
groundbreaking research. The archive material goes back to the
dawn of electronic art, and includes clips of Erkki Kurenniemi’s
unfinished, short experimental films. It is a portrait of a forgotten visionary. As in other of Taanila’s films, the focus is on the
past, through which the distant future can be seen clearly.
interpreti/cast: Erkki Kurenniemi
produttore/producer: Ulla Simonen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 52’
origine/country: Finlandia 2002
OPTINEN ÄÄNI
Optical Sound
(t.l.: Suono ottico)
In una sinfonia del contemporaneo gli strumenti sono i
computer e le stampanti. Optical Sound è basato sulla
“Symphony #2 for Dot Matrix Printers” del canadese [The
User].
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila, Jussi Eerola
fotografia/photography (colore): Jussi Eerola
montaggio/editing: Mika Taanila
musica/music: [The User]
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In a contemporary symphony, the instruments are computers
and printers. Optical Sound is based on “Symphony #2 for Dot
Matrix Printers” by Canadian duo [The User].
produttore/producer: Ulla Simonen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 6’
origine/country: Finlandia 2005
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SELECTION OF VIDEOCLIPS
Selezione di Videoclip
22-PISTEPIRKKO: BIRDY (1993)
sceneggiatura/screenplay: Asko Keränen, Tiina Keränenä
fotografia/photography (b/n): Jussi Eerola
montaggio/editing: Mika Taanila
produzione/production: Polygram
durata/running time: 4’
KAUKO RÖYHKÄ: KULTAINEN AASI (1993)
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila
fotografia/photography (colore): Jussi Eerola
montaggio/editing: Mika Taanila
produzione/production: Mika Taanila
durata/running time: 4’
22-PISTEPIRKKO: (JUST A) LITTLE BIT MORE (1993)
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila
fotografia/photography (colore): Jussi Eerola
montaggio/editing: Mika Taanila
produzione/production: Bare Bone Business
durata/running time: 4’
LARRY & THE LEFTHANDED: NO MAN’S LAND (1993)
sceneggiatura/ screenplay: Mika Taanila
fotografia/photography (colore): Mika Taanila
montaggio/editing: Mika Taanila
produzione/production: Lefta Centre
durata/running time: 3’
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KIILA: VERBRANNTES LAND (1993)
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila
fotografia/photography (colore): Mika Taanila
montaggio/editing: Mika Taanila
produzione/production: Mika Taanila
durata/running time: 7’
CIRCLE: KYBERIA (1994)
sceneggiatura/screenplay: Mika Taanila
fotografia/photography (b/n, colore): Jussi Eerola (16 mm),
Mika Taanila (8 mm)
montaggio/editing: Mika Taanila
produzione/production: Mika Taanila
durata/running time: 4’
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KINOTAR FICTION
Veikko Aaltonen
JUOKSUHAUDANTIE
Trench Road
Possedere una casa a tutti i costi e riconquistare l’amore
della propria moglie. Questo è il progetto di Matti. Un’ossesione che porterà l’uomo a un’azione di stampo militare
nel ricordo della seconda guerra mondiale.
sceneggiatura/screenplay: Veikko Aaltonen, da un romanzo di
Kari Hotakainen
fotografia/photography (35mm, Betacam, colore): Pekka Uotila
montaggio/editing: Kimmo Kohtamäki
suono/sound: Olli Huhtanen
musica/music: Mauri Sumén
scenografia/art direction: Marjaana Rantama
costumi/costumes: Jaana Tamminen
Owning a house at any expense and regaining his wife’s love.
This is Matti’s plan. An obsession that will lead the man to a
military-style action reminiscent of WWII.
interpreti/cast: Eero Aho, Tiina Lymi, Ella Aho, Kari Väänänen, Esko Pesonen, Aake Kalliala, Eeva Litmanen, Matleena
Kuusniemi, Kaija Pakarinen, Katariina Kaitue, Eila Roine,
Teija Sopanen
produttore/producer: Lasse Saarinen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 111’
origine/country: Finlandia 2004
Esa Illi
BROIDIT
Brothers
(t.l.: Fratelli)
Due fratelli lontani l’uno dall’altro. Il più grande vive in
Finlandia, quello più giovane si è trasferito in Estonia. Il
primo sta vivendo una crisi sentimentale, il secondo si è
innamorato. Un tragico evento porterà Sami e Joni a rincontrarsi e a condividere insieme alcuni istanti della loro
vita.
sceneggiatura/screenplay: Esa Illi
fotografia/photography (35mm, digital beta, beta sp, colore):
Marita Hällfors
montaggio/editing: Kaie-Ene Rääk
suono/sound: Janne Laine
costumi/costumes: Tiina Kaukanen
interpreti/cast: Max Bremer, Aaro Vuotila, Milka Ahlroth,
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Two brothers who live far apart from one another. The older
brother lives in Finland, the younger one has moved to Estonia.
The former is going through a bad relationship, the latter has
fallen in love. A tragic event will lead Sami and Joni to see each
other again and to share a few moments of their lives.
Marianne Kütt, Yko Nicola Lüdimois, Cécile Orblin, Sara
Paavolainen, Ville Virtanen
produttore/producer: Lasse Saarinen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 80’
origine/country: Finlandia 2003
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KINOTAR DOCUMENTARI: UNO SGUARDO AL FEMMINILE
Maija Blåfield
MAAILMAA PELASTAMASSA
Saving the World
(t.l.: Salvare il mondo)
Il mondo di oggi visto e spiegato con gli occhi di Marcel
Bloemendal. Uno sguardo profondo ed emozionante che
fa cambiare il nostro modo di pensare la schizofrenia. “Se
non l’avessi - afferma Marcel – potrei essere una persona
ordinaria e noiosa, e invece ora posso salvare il mondo.”
sceneggiatura/screenplay: Maija Blåfield
fotografia/photography (colore): Maija Blåfield
montaggio/editing: Sakari Kirjavainen
interpreti/cast: Marcel Bloemendal
Today’s world as seen and explained by Marcel Bloemendal. A
penetrating and moving look that changes our perception of
schizophrenia. “If I didn’t have [schizophrenia],” says Marcel, “I
would be an ordinary and boring person. Instead, now I can save
the world.”
produttore/producer: Cilla Werning
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 55’
origine/country: Finlandia 2005
Kanerva Cederström
MUISTIINPANOJA LEIREILTÄ
Trans-Siberia
I campi di prigionia in Siberia raccontati da due testimoni
e vittime del regime stalinista: Andrej Sinjavski e Amalia
Susi. Attraverso i loro scritti e diari, si riflette sulle questioni fondamentali dell’esistenza umana.
sceneggiatura/screenplay: Kanerva Cederström
fotografia/photography (16mm, super 16, 35mm, colore): Jyrki
Arnikari
montaggio/editing: Kanerva Cederström
suono/sound: Pekko Pesonen
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The Siberian prison camps as described by two witnesses and
victims of the Stalinist regime: Andrej Sinjavski and Amalia
Susi. Their writings and diaries offer reflections on fundamental
questions of human existence.
narratore/narrator: Tomi Jarva, Hellevi Seiro
produttore/producer: Lasse Saarinen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 55’
origine/country: Finlandia 1999
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KINOTAR DOCUMENTARI: UNO SGUARDO AL FEMMINILE
Kanerva Cederström
LOST AND FOUND
(t.l.: Perduto e trovato)
Konstantin Gontcharev è un uomo la cui vita è un mosaico. Fuggito da Mosca a causa delle persecuzioni nei confronti degli omosessuali che non cessarono nemmeno con
la Perestrojka, Konstantin ha trovato riparo a Helsinki dove
di giorno è un infermiere in un ospizio e ascolta amorevolmente le parole dei suoi anziani assistiti; di notte frequenta i locali gay e si esibisce in numeri da cabaret.
sceneggiatura/screenplay: Kanerva Cederström
fotografia/photography (35mm, Beta SP, colore): Timo Peltonen, Jyrki Arnikari, Kanerva Cederström, Rostislav Aalto
montaggio/editing: Kanerva Cederström
suono/sound: Pelle Venetjoki
musica/music: Maritta Kuula, Tatjana Ipatova, Konstantin
Gontcharov
Konstantin Gontcharev is a man whose life is a mosaic. He fled
Moscow because of the persecution of homosexuals, which did
not let up during Perestroika. Konstantin found refuge in
Helsinki where, by day, he is a hospice nurse who listens lovingly to his elderly patients’ stories and, by night, he performs
cabaret in gay bars.
costumi/costumes: Oksana Ahinko
interpreti/cast: Konstantin Gontcharev
produttore/producer: Ulla Simonen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 53’
origine/country: Finlandia 2003
Susanna Helke & Virpi Suutari
SAIPPUAKAUPPIAAN SUNNUNTAI
A Soapdealer's Sunday
(t.l.: Una domenica del venditore
di saponette)
La famiglia Kurppa vive in un moderno sobborgo. Kari, il
padre, è disoccupato e prova a vendere porta a porta saponi e vitamine. Sua moglie Pirjo, anch’essa disoccupata, è
incinta del quarto figlio. I bambini hanno come principale
occupazione i videogiochi. La vita della famiglia Kurppa è
una piatta domenica protratta per l’intera settimana.
sceneggiatura/screenplay: Susanna Helke, Virpi Suutari (episodio della serie “Home sweet home”)
fotografia/photography (35mm, colore): Tuomo Virtanen
montaggio/editing: Susanna Helke, Virpi Suutari
suono/sound: Olli Huhtanen
musica/music: Sanna Salmenkallio
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The Kurppa family lives in a modern suburb. Kari, the father, is
unemployed and sells soap and vitamins door to door. His wife
Pirjo, also unemployed, is pregnant with their fourth child. The
children’s main occupation is video games. The life of the Kurppa family is a dull Sunday that lasts the entire week.
interpreti/cast: Kari Kurppa, Pirjo Kurppa
produttore/producer: Lasse Saarinen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 25’
origine/country: Finlandia 1998
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KINOTAR DOCUMENTARI: UNO SGUARDO AL FEMMINILE
Susanna Helke & Virpi Suutari
JOUTILAAT
The Idle Ones
(t.l.: I perdigiorno)
I perdigiorno di questo documentario sono tre ragazzi di un
paesino a nord della Finlandia che passano la loro vita
girando in macchina o pescando al lago. Finita l’adolescenza, non sembra arrivare ancora la maggiore età. Tra
piccoli e grandi problemi, il ritratto di una gioventù che
senza volerlo vede sfuggire di mano il proprio tempo.
sceneggiatura/screenplay: Susanna Helke, Virpi Suutari
fotografia/photography (16mm, colore): Harri Räty, Heikki
Färm
montaggio/editing: Kimmo Taavila
suono/sound: Pekko Pesonen
musica/music: Sanna Salmenkallio
The “idle ones” of this documentary are three kids in a town in
northern Finland who spend their days cruising in their car or
fishing at the lake. Although no longer adolescents, it doesn’t
seem as if their adulthood is approaching. Amidst big and small
problems emerges a portrait of a youth that unwittingly watches on as time slips by.
interpreti/cast: Jaakko Lähdesmäki, Harri Moilanen, Tero
Kinnunen
produttore/producer: Ulla Simonen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 80’
origine/country: Finlandia 2001
Maria Lappalainen
REUNALLA
On Edge
Cinque ragazzini già responsabili di gravi crimini raccontano il loro tragico destino. Ora vivono in una scuola speciale. Niente sembra poter cancellare un passato vissuto
tra genitori alcolizzati o violenti, e niente potrà riportare la
loro vita indietro, prima di uccidere o compiere altri gravi
crimini. Eppure quei ragazzini hanno ancora un’esistenza
intera da vivere e in qualche modo dovranno pensare a
costruirsi un domani.
sceneggiatura/screenplay: Maria Lappalainen
fotografia/photography (beta sp, colore): Leena Kilpeläinen
montaggio/editing: Heikki Innanen
suono/sound: Olli Huhtanen
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Five young kids who have already committed serious crimes
relate their tragic fates. They now live in a special school. It
seems as if nothing can erase their pasts, lived among violent
and alcoholic parents, nor can anything turn back time to before
they killed or committed their crimes. Yet these children still
have their entire lives in front of them and in one way or another will have to figure out how to build their future.
produttore/producer: Lasse Saarinen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 55’
origine/country: Finlandia 2002
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KINOTAR DOCUMENTARI: UNO SGUARDO AL FEMMINILE
Hanna Miettinen
KILTIT TYTÖT
Good Girls
(t.l.: Brave ragazze)
L’educazione luterana ha insegnato a ignorare le proprie
esigenze e a pensare ogni volta cos’è meglio per gli altri. In
questo film si raccontano le storie di tre donne diverse per
età, formazione e ceto sociale, che similmente cercano l’approvazione dei familiari, degli insegnanti, degli amici e dei
datori di lavoro. Tre brave ragazze diligenti e produttive che
confessano il loro senso di inadeguatezza.
sceneggiatura/screenplay: Hanna Miettinen
fotografia/photography (35mm, super 16, colore): Marita Hällfors
montaggio/editing: Kimmo Kohtamäki
suono/sound: Janne Laine
musica/music: Jarmo Saari
Lutheran education has taught people to ignore their own needs
and to always think of what is best for others. This film relates
the stories of three women of different ages, education and social
classes, who similarly seek the approval of their families, teachers, friends and employers. Three diligent and productive “good
girls” who confess to their sense of inadequacy.
interpreti/cast: Riitta Piri, Pirjo Korremäki, Suvi Pennanen
produttore/producer: Ulla Simonen
produzione/production: Kinotar
durata/running time: 51’
origine/country: Finlandia 2000
Maija Blåfield
Hanna Miettinen
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KINOTAR: BIOGRAFIE E FILMOGRAFIE
Biografie e filmografie
Biographies and filmographies
Veikko Aaltonen
Nato nel 1955, ha cominciato la sua carriera negli anni ’80
come assistente alla regia, sceneggiatore, montatore per
Rauni Mollberg e Aki Kaurismäki
Veikko Aaltonen
Born in 1955, he began his career in the 1980s as an assistant
director, screenwriter and editor for Rauni Mollberg and Aki
Kaurismäki.
Maija Blåfield
Nata a Helsinki nel 1973, ha preso un master in arte presso l’Accademia di Helsinki e ha realizzato opere lavorando con immagini in movimento e stills, Saving the World è
il suo primo film.
Maija Blåfield
Born in Helsinki in 1973, she got a Masters in Art at the Helsinki Academy and for her first works used moving and still images.
Saving the World is her first film.
Kanerva Cederström
Nata nel 1949, si è laureata in Scienze Sociali. Successivamente ha studiato cinema a Stoccolma. I suoi documentari hanno ottenuto numerosi riconoscimenti sia in patria
che all’estero. Dal 2003 insegna cinema documentario
presso la UIAH.
Kanerva Cederström
Born in 1949, she graduated in Social Sciences and later studied
film in Stockholm. Her documentaries have won numerous
prizes both at home and abroad. Since 2003, she has been teaching documentary filmmaking at the UIAH.
Susanna Helke & Virpi Suutari
Virpi Suutari e Susanna Helke sono nate nel 1967. Hanno
studiato entrambe arte e design all’università di Helsinki,
e giornalismo e comunicazione di massa all’università di
Tampere. Lavorano insieme a vari progetti dal 1993.
Susanna Helke & Virpi Suutari
Virpi Suutari and Susanna Helke were born in 1967. They both
studied art and design at the University of Helsinki, and Journalism and Mass Communications at the University of Tampere.
They have worked together on various projects since 1993.
Esa Illi
Nato nel 1962, è regista e sceneggiatore. Nel 1994 ha preso
un master presso l’università di Arte e Design di Helsinki.
Esa Illi
Born in 1962, he is a director and screenwriter. In 1994, he got
a Masters at the University of Art and Design in Helsinki.
Maria Lappalainen
Nata nel 1969, si è laureata presso il Russian State Institute of Cinematography.
Maria Lappalainen
Born in 1969, she graduated from the Russian State Institute of
Cinematography.
Hanna Miettinen
Nata nel 1973, ha studiato estetica a Helsinki e a Parigi. Ha
insegnato sceneggiatura e regia. Con Good Girls si è aggiudicata un premio speciale al festival di Tampere.
Hanna Miettinen
Born in 1973, she studied Aesthetics in Helsinki and Paris. She
has taught screenwriting and directing. She won the Special
Prize at the Tampere Film Festival for Good Girls.
Susanna Helke & Virpi Suutari
Maria Lappalainen
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KINOTAR: BIOGRAFIE E FILMOGRAFIE
Esa Illi
Kanerva Cederström
Veikko Aaltonen
Tuhlaajapoika (Prodigal Son, 1993), Isä Meidän (Pater Noster, 1994), Rakkaudella Maire (Kiss Me in the Rain, 1999), Maa (Earth,
2001), Työväenluokka (Working Class, 2003), Juoksuhaudantie (Trench Road, 2004)
Maija Blåfield
Maailmaa Pelastamassa (Saving the World, 2005)
Kanerva Cederström
Puppet House (1985, tv- movie), Genius Logi (1986, documentario), Lenin-setä asuu Venäjällä (Uncle Lenin Lives in Russia,
1988, documentario per la tv), Laila (1988, documentario per la tv), Meetings at the Artist's House (1988, documentario per
la tv), Borderland (1989, documentario), Two Uncles (1990), Nuuttien ylösnousemus (Reflections from the Glass Eye, 1992, documentario), Matkalla Toven kanssa (1993, documentario per la tv), Soledad (1993, documentario per la tv), Työttömän pöytäkirja (Jobless Days, 1994), Haru, yksinäisten saari (Haru - The Island of the Solitary, 1998, Cm, documentario per la tv), Muistiinpanoja leireiltä (Trans-Siberia, 1999, Mm, documentario), Lost and Found (2003, Mm, documentario)
Susanna Helke & Virpi Suutari
Lover (1994, documentario, Cm), Tree Stump (1994, documentario, Cm), Animal’s Hand (documentario, 1994), Insolence
(1994, documentario), Synti - dokumentti jokapäiväisistä rikoksista (1996, Cm, documentario), Saippuakauppiaan sunnuntai
(Soapdealer’s Sunday, 1998, Cm, documentario), Valkoinen Taivas (White Sky, 1998, documentario, Mm), Joutilaat (The Idle
Ones, 2001)
Esa Illi
Juhannustarinoita (Midsummer Stories, 1997), Apinajuttu (Monkey Business, 2000), Broidit (Brothers, 2003)
Maria Lappalainen
The Bed (1995), Iron and a Few Shots (1998), On Edge (2002), Milja (2004)
Hanna Miettinen
9,95 per minute (1995, Cm), If you only knew (1996, Cm, documentario), The Rose of the Railroad (1996, cm), 100 kelloa (100
Clocks, 1998, Mm), Kiltit tytöt (Good Girls, 2000, Cm, documentario), Espoon viimeinen neitsyt (Suburban Virgin, 2003, tv,
Mm)
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VÍCTOR ERICE
“È così, attraverso la scrittura,
che un giorno ho cominciato a
pensare il cinema, scoprendo un
modo di prolungarne la visione e
anche di realizzarlo. Fu nell’estate del 1959, dopo aver visto Les
quatre cents coups al Festival di
San Sebastián. Al termine della
proiezione uscii in strada commosso.”
“So it was through writing that I
began to think about cinema one day,
discovering a way to extend its vision
and even to make films. It was in the
summer of 1959, after having seen
The Four Hundred Blows at the
San Sebastián Festival. After the
screening, I walked out onto the
street, moved.”
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Scrivere di cinema
Writing about Cinema
di Víctor Erice
by Víctor Erice
È così, attraverso la scrittura, che un giorno ho cominciato
a pensare il cinema, scoprendo un modo di prolungarne la
visione e anche di realizzarlo. Fu nell’estate del 1959, dopo
aver visto Les quatre cents coups al Festival di San Sebastián.
Al termine della proiezione uscii in strada commosso. E
quella stessa notte sentii la necessità di mettere per iscritto
le idee ed i sentimenti che le immagini di François Truffaut
avevano risvegliato in me. Era la prima volta che mi accadeva qualcosa di simile. Gli anni sono passati da allora e,
anche se sono riuscito a girare alcuni film, continuo ancora a scrivere di tanto in tanto.
Penso che fra tutte le arti il cinema sia quella che si conosce di meno. Generalmente se ne ignora la storia, ma
soprattutto la sua vera natura. Forse, proprio perché il
cinema è il più segreto dei linguaggi, è anche il più incompreso. Per qualche tempo interessarsi alla sua essenza ha
significato porsi la domanda che a suo momento si fece
André Bazin: “Che cosa è il cinema?” Perché allora oggi
avvertiamo che questa questione, e la riflessione che l’accompagna, risulta ogni volta più insolita, più impropria,
più fuori luogo persino tra i nostri professionisti?
Cercando una spiegazione a questo fatto si potrebbe parlare, a seconda dei casi, di mancata conoscenza, di pigrizia
intellettuale o di semplice conformismo. Ma in fondo questi motivi non dicono tutto, danno l’impressione di mettere a tacere la spiegazione più semplice, quella che potremmo enunciare in questo modo: non ha senso chiedersi che
cosa è il cinema perché non solo non ha futuro, ma soprattutto perché, in un certo senso ha già smesso di esistere;
adesso bisogna piuttosto parlare di Audiovisivo.
Se parafrasando Louis Lumière “il cinema è un’invenzione
senza futuro”, se il futuro è degli altri, che senso ha continuare ad interrogarci sull’essenza di quella che è stata definita settima arte? Più di un apocalittico e più di un integrato sarebbero d’accordo su questo punto. E ciononostante se vogliamo sapere quel che il cinema può essere oggi
perché non cominciare col chiederci cosa è stato, cosa
abbiamo creduto che fosse, e ciò che è stato in realtà? Si
tratta di un orizzonte più ampio di quel che può sembrare
a prima vista, perché la revisione di quel passato ci porta a
considerare storie così intimamente unite da costituirne
una sola: la storia del cinema, la storia del XX secolo.
Lo sapevamo senz’altro, ma lo avevamo dimenticato:
“Cinematografo, arte del secolo”. Esattamente quel che si
disse quando, con un gesto non privo di malizia, gli si volle render giustizia attribuendogli in un colpo solo tutti gli
aggettivi del riconoscimento sociale. Mai, nemmeno in
quel solenne istante, abbiamo immaginato che con il passare degli anni sarebbe diventato un elemento essenziale
della nostra memoria, il recipiente capace di contenere le
immagini che meglio riflettono le esperienze umane del
secolo che finisce. Come non vedere in quello sguardo che
proiettiamo verso il passato, sospeso nell’aria, la figura
dell’angelo della melanconia! È in qualche modo inevitabile. Perché quella storia unica – quella del cinema, quella
del secolo – si confonde irrimediabilmente con la nostra
stessa biografia. Parlo per le persone della mia generazione, quelle nate al tempo del silenzio e della rovina che
So it was through writing that I began to think about cinema one
day, discovering a way to extend its vision and even to make
films. It was in the summer of 1959, after having seen The Four
Hundred Blows at the San Sebastián Festival. After the screening, I walked out onto the street, moved. And that same night I
felt the need to put into writing the ideas and feelings that
François Truffaut’s images had awoken in me. It was the first
time that something like that had happened to me. Many years
have passed since then and even though I have managed to make
several films, I continue to write every so often.
I think that of all the arts, film is the least well known. Generally, its history is ignored as is, above all, its true nature. Perhaps
because film is the most secret of languages, as well as the most
misunderstood. For some time, reflecting upon its essence meant
asking the question that André Bazin posed in his day: “What is
cinema?” Why is it then that today we perceive this question,
and the contemplation that accompanies it, to be increasingly
less common, more inappropriate, more out of place, even among
our professionals?
By way of explanation, one could talk about, depending on the
situation, a lack of knowledge, intellectual laziness or simple
conformism. Yet, ultimately, these reasons are not comprehensive, they give the impression of silencing the simplest explanation, the one we could express accordingly: it makes no sense to
ask what cinema is because not only does it have no future, it
has, furthermore, in a certain sense, already ceased to exist. Now
we must speak instead of the “audiovisual.”
If, to paraphrase Louis Lumière, “the cinema is an invention
without a future,” if the future belongs to others, what sense is
there in continuing to question the essence of that which has
been deemed the seventh art? More than one apocalyptic or
extremist person would agree on this point. And despite this, if
we want to know what cinema can be today why don’t we begin
by asking ourselves what it has been, what we believed it to be,
and what it really was? The horizon is broader than it may seem
at first glance because re-examing the past leads us to consider
histories so intimately intertwined – the history of cinema and
the history of the 20th century – that they make up only one single history. Something we most certainly knew yet forgot is:
“Cinema, the art of the century.”
That is exactly what was said when, with a gesture not lacking
malice, those who wanted to do justice to cinema attributed to it
all the adjectives of social recognition in one blow. Never, not
even in that solemn moment, could we have imagined that with
the passing of time it would have been become an essential element of our memory, a container capable of holding the images
that best reflect the human experience of the past century. How
can we not see, in that gaze that we project towards the past, suspended in the air, the figure of the angel of melancholy! It is, in
some way, inevitable. Because this sole history – that of cinema
and the century combined – becomes irreversibly mixed up with
our own biography. I speak on behalf of those of my generation,
born in the time of silence and ruins that followed our last civil
war. Whether real or symbolic orphans, cinema adopted us, offering us extraordinary consolation: the feeling of belonging to the
world. Precisely that which communication, in its current state
of maximum development, does not offer.
Based upon technical reproducibility and universal dissemina-
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seguì la nostra ultima Guerra Civile. Orfani reali o simbolici, il cinema ci ha adottati, offrendoci una consolazione
straordinaria: il sentimento d’appartenenza al mondo. Proprio quello che paradossalmente la Comunicazione, nel
suo attuale stato di massimo sviluppo, non offre.
Basato sulla riproducibilità tecnica e la diffusione universale, aspetti accelerati dagli effetti del video e della televisione capaci di moltiplicare all’infinito quelle facoltà, prodotto e nient’altro che prodotto (secondo la dittatura del
Mercato, più implacabile che mai, fino al punto di essere
riuscito ad alienare il concetto di autore), al cinema socialmente, su scala planetaria, il potere costituito sembra offrire oggi soltanto un destino unico: quello proprio dell’industria dello spettacolo. In questo incrocio, quindi, non gli
resta forse altra alternativa che quella di ripiegare su se
stesso e sulla sua solitudine, per affermare la propria
dignità: quella di essere l’ultimo dei linguaggi artistici
inventati dall’uomo. Questa è la sua qualità distintiva,
quella che veramente lo contraddistingue dagli altri mezzi
di comunicazione audiovisiva.
Ogni tanto, diventati fantasmi, i corpi presenti nelle immagini di quei film che abitarono la nostra infanzia e adolescenza si alzano dalle loro tombe e si affacciano dal piccolo schermo televisivo nelle ore più tarde, vicine all’alba.
Offrendosi ai nostri occhi insonni sembrano dirci qualcosa:
che cosa? Tra le altre cose che il futuro del cinema è probabilmente il suo passato. Ma a condizione di contemplarlo
con occhi disingannati, senza paura. Perché, come afferma
Jean-Luc Godard, “le cinéma autorise Orphée de se retourner sans faire mourir Eurydice.”
tion (aspects that are accelerated by the effects of video and television capable of infinitely multiplying these faculties), and the
fact that it is a product and nothing more (according to the dictates of a market that is more ruthless that ever, to the point of
having succeeded in alienating the concept of the auteur), on a
planetary scale, the powers that be seem to offer only one possible social destiny to cinema today: precisely that of the ndustry
of spectacle. Therefore, at this crossroads, it perhaps has no other alternative than to reflect back upon itself and its loneliness,
in order to avow its own dignity: that of being the latest of the
artistic languages invented by man. This is its distinctive quality, that which truly distinguishes it from other means of audiovisual communication.
Every so often, having become ghosts, the bodies present in the
images of those films that inhabited our childhood and adolescence rise up from their graves and peer out from the small television screen late at night, as dawn approaches. Offering themselves up before our sleepy eyes, they seem to tell us something,
but what? Among other things, that the future of cinema is probably its past. But on the condition that we examine it not with
disillusioned eyes, and fearlessly. Because, as Jean-Luc Godard
said, “le cinéma autorise Orphée de se retourner sans faire
mourir Eurydice.”
(Published in Banda aparte, no. 9-10, Valencia, January, 1998)
(Pubblicato su “Banda aparte”, n° 9-10, Valencia, gennaio 1998)
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Conversazione a Madrid
Conversation in Madrid
con Amanda Lorenzo e Isabel Escudero
with Amanda Lorenzo and Isabel Escudero
Conversazione tra il cineasta Víctor Erice, Isabel Escudero,
scrittrice, critica cinematografica e docente universitaria, e
Amanda Lorenzo, autrice della tesi di laurea, “Crescere
verso le origini: il cinema di Víctor Erice tra storia, mito e
memoria”, Università degli Studi di Pavia, 2004.
Questa intervista è stata realizzata nell’Ateneo di Madrid
il 21 marzo 2003.
A conversation between filmmaker Víctor Erice; writer, film
critic and university professor Isabel Escudero; and Amanda
Lorenzo, author of the graduate thesis, “Crescere verso le origini: il cinema di Víctor Erice tra storia, mito e memoria,” University of Pavia, 2004.
This interview was held at Madrid’s Ateneo Universityon
March 21, 2003.
Amanda Lorenzo: Nel suo cinema è molto importante la relazione dialettica che ciascun personaggio instaura con la propria
memoria, l’intreccio che cerca di legare l’immaginario, il volo
dello spirito, con il ricordo personale e storico già fissato. È questo disaccordo, questo conflitto tra realtà e desiderio ciò che inizialmente muove le sue creature cinematografiche?
Amanda Lorenzo: In your films, the dialectical relationship that that each character has with his or her memory
is very important; the intertwined relationship that seeks
to connect the imaginary, the flight of the spirit, with
already established personal and historical memories. Is
it this discord, this conflict between reality and desire,
that which initially drives your cinematic creations?
Víctor Erice: Sì, sicuramente è così… Ma in ogni caso si
tratta di un conflitto che può essere enunciato in modi
molto diversi, e che nasce ogni volta che ci interroghiamo
sul senso di ciò che chiamiamo vita.
A.L.: Si potrebbe dire che la memoria agisce come principio regolatore della conoscenza. Quindi colui che non è capace di conciliarsi o di giocare in qualche modo con la propria memoria si
arresta o perde l’equilibrio. Ci riferiamo in particolare ai genitori ne El espíritu de la colmena, che non sono capaci di reagire
al ricordo della guerra vissuta, e ad Agustín ne El sur, che sembra immobilizzato, incapace di fare della sua memoria un elemento vivificante. Ma davanti a questi blocchi sembra che ci siano i bambini, la presenza dell’infanzia, nel suo caso “le bambine” che giocano e rimescolano questi ristagni. Si tratta di un elemento ricorrente nella sua opera. Crede che l’infanzia vissuta o
ricordata conservi qualcosa del luogo sacro, santuario redentore
della realtà?…. Glielo chiedo perché lei ha cercato questo luogo
ripetute volte. Per esempio senza andare lontano, ne “El umbral
del sueño”, il suo testo introduttivo alla sceneggiatura de La
promesa de Shanghai in cui narra come due bambini entrano
di soppiatto in un cinema per vedere un film a loro proibito, The
Shanghai Gesture di Josef Von Sternberg.
V.E.: Mi è difficile parlare di questi argomenti in relazione
ai film che ho realizzato. E questo per un motivo: perché
quello che posso dire con parole avrà sempre un valore,
un’espressività, un’eloquenza molto minore rispetto a
quella che può forse scaturire dalle immagini di quei film.
Sarebbe più coerente non parlarne pubblicamente, ma mi
pare ovvio che è praticamente impossibile. Infine, quello
che lei ha segnalato a proposito dell’infanzia è vero, almeno io la penso così. Si è detto e scritto molte volte che la
vera patria di un essere umano è la sua infanzia. L’infanzia
è il luogo dell’Origine, l’età in cui le cose accadono per la
prima volta e si accede a una forma speciale di conoscenza, di comunione con la vita che dopo, diventati persone
adulte, perdiamo.
A.L.: Sembra che per lei il linguaggio più vicino alla verità sia
quello dello sguardo – lo sguardo primordiale – mentre la parola
crea la finzione, e in un certo modo la falsificazione. Comunque
– paradossalmente – lei confida in qualche modo nella parola, e
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Víctor Erice: Yes, it definitely is.… However, this is a conflict
that can be expressed in very different ways, and that arises
each time we question the meaning of that which we call life.
A.L.: One could say that memory acts as the regulating
principle of the conscience. Therefore, he who is incapable of reconciling himself or playing in some way with
his memory stops moving or loses his balance. This is
particularly true of the parents in The Spirit of the Beehive,
who are incapable of fighting against the memory of the
war they experienced, and of Agustín in The South, who
seems paralyzed, incapable of transforming his memory
into something revitalizing. Yet it seems as if the presence
of childhood and children is there to counteract these
barriers; in your case, “the girls,” who play with and stir
up this stagnation. This is a recurring element in your
work. Do you believe that the childhood one experiences
or remembers preserves something of the holy, of reality’s redeeming sanctuary? …. I ask because you have
sought this out repeatedly. For example, in “El umbral
del sueño,” your introduction to the screenplay of La
promesa de Shanghai, in which you depict two children
sneaking into a cinema to see a film they’re not allowed
to see, Josef Von Sternberg’s The Shanghai Gesture.
V.E.: It’s difficult for me to speak about these things in respect
to the films I’ve made. And for the simple reason that what I
can say with words will always be less eloquent, and have a
lesser value or expressiveness, than that which perhaps comes
forth from those films’ images. It would be more coherent to not
speak of this publicly, but, obviously, this is practically impossible. Ultimately, what you pointed out in respect to childhood
is true, at least that’s how I see it. It’s been said and written
many times that childhood is a human being’s true home.
Childhood is the place of “origin,” the age at which things happen for the first time and a special form of knowledge is gained,
a communion with life that later, once we become adults, we
lose.
A.L.: It seems as if, for you, the form of expression that
comes closest to the truth is that of the gaze – the primordial gaze – whereas words create fiction and, in a
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spesso affida alla voce “in off” il compito di narrare le vite. Tuttavia anche nelle parole dei suoi personaggi sono presenti osservazioni che sembrano voler mettere in guardia lo spettatore sulla dicotomia realtà/finzione, ovvero la possibilità di falsificazione
che può darsi nel cinema: Isabel ad Ana “…en el cine todo es
mentira” (nel cinema tutto è falso); Agustín nella sua lettera a
Laura: “Sí, ya sé que las cosas que ocurren en el cine son mentiras” (Sì, lo so che le cose che accadono nel cinema sono per finta); Dani a Susana, nella sceneggiatura de La promesa de
Shanghai “… a mí los sitios cuando los veo en una peli me
parecen que no son de verdad” (… a me i posti quando li vedo
in un film mi sembra che non siano veri). Può parlarci di questa
contraddizione o gioco tra l’immagine e la parola nel suo cinema?
V.E.: Non so se ho capito bene quello che vuole dire, ma in
ogni caso io non darei quel valore allo sguardo in relazione alla parola. Credo che nello sguardo, che come esseri
razionali proiettiamo sulle cose, sia già contenuta una forma di finzione. Che dire poi se quello sguardo è cinematografico, vale a dire se si proietta attraverso la lente di una
cinepresa… Quel che mi sembra indubbio è che lo sguardo è più vicino all’Origine. André Breton, per esempio,
diceva che l’occhio esiste allo stato selvaggio, e in un certo
senso è vero, dal momento che l’essere umano prima di
imparare a parlare già vede, guarda. D’altro canto guardare è quello che fa lo spettatore di un film, immerso nell’oscurità della sala. La parola, il linguaggio, è l’artificio
umano per eccellenza. In relazione allo sguardo, si può
dire che viene sempre dopo. Anche il cinema ha vissuto
questo processo, perché agli inizi era muto. Credo che i
miei film si muovano in questa dialettica che si stabilisce
fra l’immagine e la parola.
sense, falsification. Ironically, however, you confide in
words and often give the off-camera voice the task of narrating the [on-camera] lives. Yet even in your characters’
words there are observations that seem to want to warn
the spectator against the reality/fiction dichotomy; or,
rather, the possibility of falsification that can exist in cinema: Isabel to Ana “…en el cine todo es mentira” (in cinema, everything is fake); Agustín, in his letter to Laura:
“Sí, ya sé que las cosas que ocurren en el cine son mentiras” (Yes, I know that the things that happen in films are
fake); Dani to Susana, in the screenplay of La promesa de
Shanghai “…a mí los sitios cuando los veo en una peli me
parecen que no son de verdad” (…the places I see in films
don’t seem real to me). Could say something about this
contradiction or game between images and words in
your films?
V.E.: I’m not sure that I fully understand what you are alluding to, but in any case, I wouldn’t give that value to the gaze
over words. I believe that a kind of fiction is already contained
within the gaze, which as rational beings we project onto
things. Furthermore, what does it mean if that gaze is cinematic, if it’s projected through the lens of a movie camera…?
That which seems indubitable to me is that the gaze is closer to
the “Origin.” André Breton, for example, used to say that the
eye exists in its savage state, and in a sense that’s true, seeing
as how human beings, before learning to speak, already see,
watch. On the other hand, watching is what a spectator does,
immersed in the dark of the movie theatre. The word (or language) is humanity’s artifice par excellence. One can say that
words always come after the gaze. Even cinema went through
this process, because in the beginning it was silent. I believe
that my films exist in this dialectic that is created between
images and words.
Isabel Escudero: Nel suo terzo film ha fatto un passo decisivo
in questo senso. Ne El sol del membrillo si fanno vedere senza
alcuna dissimulazione gli strumenti di lavoro, di registrazione
“artificiosa” della realtà. Una sorta di de-realizzazione. Sembra
che lei voglia conferire all’operazione cinematografica un grado
maggiore di “allontanamento” dalla realtà, collocando il cinema
– come nelle scatole cinesi – più in là e più lontano della pittura,
e la pittura ancora più in là rispetto alla natura o ciò che chiamiamo realtà. Ma non crede che questo calcolato processo tecnico di “indietreggiamento” dello sguardo agisca – paradossalmente – avvicinandoci al mistero? Non è forse questo allontanamento ciò che favorisce la scoperta di qualcosa che non si vede ad
occhio nudo?
Isabel Escudero: In this sense, you took a decisive step in
your third film. In The Quince Tree Sun one can plainly see
the work tools, the “artful” recording of reality. A kind of
un-making. It seems as if you would like to bestow upon
cinema a greater degree of “distance” from reality, placing it – like in a Chinese box – even farther beyond painting, and painting even farther away from nature, or that
which we call reality. But don’t you think that this calculated technical process of the gaze’s “retreat” serves, ironically, to draw us closer to the mystery? Isn’t it perhaps
this retreat that encourages the discovery of something
that cannot be seen with the naked eye?
V.E.: Sì, evidentemente c’è qualcosa di tutto quello a cui lei
fa riferimento… Forse bisognerebbe parlare un po’ del
processo di realizzazione de El sol del membrillo. A differenza dei film di finzione che partono da un materiale letterario di base, sia che si tratti di una sceneggiatura originale o comunque di un adattamento, in questo caso la narrazione scaturisce da un fatto reale. Anche perché Antonio
López aveva deciso di dipingere l’albero indipendentemente dal fatto che una troupe fosse presente o meno per
filmare il suo lavoro. Ho girato il film senza alcun tipo di
sceneggiatura. Da qui la prospettiva documentaria.
Ho già detto in altre occasioni che io non avevo mai visto
Antonio López dipingere un albero. L’avevo visto dipingere altri tipi di soggetti, generalmente paesaggi urbani,
V.E.: Yes, obviously there is some of all that which you refer
to… Perhaps we should speak a little about the creative process
behind The Quince Tree Sun. As opposed to fictional films
that originate from a literary source – be it an original screenplay or even an adaptation – this story came about from a real
event because Antonio López had decided to paint the tree
regardless of whether or not a crew was going to be there to film
him. I shot the film without having any kind of screenplay. This
is where the documentary element came from….
I’ve already said before that I’d never seen Antonio López paint
a tree. I’d seen him paint other kinds of subjects, usually urban
landscapes, but never a tree. Or, rather, a living thing that
evolves over time. For this reason, my point of view, at least
initially, had to be that of an observer. An observer attempting
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ma mai un albero, ovvero un essere vivo che si evolve nel
tempo. Per questo il mio punto di vista, almeno inizialmente, doveva essere quello di un osservatore. Un osservatore che tentava di affrontare l’evento sprovvisto di
qualsiasi aprioristica pretesa interpretativa, cercando di
avere un atteggiamento il più umile possibile. Mi sembra
che questa sia la condizione primaria per avvicinarsi al
mistero. Io non la metterei tanto sul piano tecnico quanto
su quello linguistico.Voglio dire che non si tratta di retrocedere tecnicamente, ma di rimettersi a una delle qualità
originarie del cinema: la sua capacità di registrare ciò che
avviene, tradizionalmente legata ai film dei fratelli Lumiére, all’effetto Lumiére. Questo è stato il primo passo del
processo a cui ho accennato, al quale è poi seguito un altro
di tipo diverso, ma altrettanto decisivo, che nasce una volta concluse le riprese, e che corrisponde al montaggio.
Periodo di riflessione su quello che è successo, in questo
caso più lungo del solito, dal quale è nata la costruzione
della narrazione.
to deal with the event without any prior interpretive pretense,
with as humble an attitude as possible. I think this should be
the primary condition for approaching the mystery. I wouldn’t
put this so much on a linguistic plane but, rather, on a technical one. By this I mean that it isn’t a question of a technical
demotion, but of putting yourself in the position of cinema’s
original qualities: its capacity to record what happens, traditionally tied to the Lumiére brothers’ films, to the Lumiére
effect. This was the first step of the process I alluded to, which
was followed by another, different, although just as decisive
step, which arose once shooting was over, during editing. This
was the period for reflecting upon what had happened, in this
case longer than usual, and from which the narrative construction came about.
A.L.: Nel suo cinema si può osservare una certa tendenza a non
intervenire troppo sulla scena, come se lei sospettasse i pericoli di
un intervento più manifesto. Che rapporto vorrebbe stabilire con
lo spettatore?
V.E.: In the case of The Quince Tree Sun, from the moment that
I assumed the attitude of an observer, the tendency you speak of
became evident. But it’s also present in my purely fictional films.
I’ve always been more interested in creating a world of allusions
rather than explicit messages. I try to communicate with the
spectator in the least authoritative way possible, which does not
entail the imposition of one single interpretation. In general, I
try to make it so that the spectator can experience the same
process I experienced in making the film. I ask him or her to have
an attitude that is not passive and that is not entirely contemplative, but active.
V.E.: Nel caso de El sol del membrillo, dal momento che il
mio atteggiamento era quello di un osservatore, la tendenza di cui parla è palese. Ma è presente anche nei miei film
di pura finzione. Mi è sempre interessato di più creare un
mondo di suggerimenti che di messaggi espliciti. Cerco di
comunicare con lo spettatore nel modo meno autoritario
possibile, che non preveda l’imposizione di un senso unico. In definitiva, cerco di far sì che lo spettatore viva lo
stesso processo che ho vissuto io in relazione all’opera. Gli
richiedo un atteggiamento che non è passivo e che non è
del tutto contemplativo, ma anche attivo.
A.L.: In più di un’occasione è stato detto da alcuni critici che nel
suo cinema i personaggi hanno una vita “contemplativa” perché
non sono capaci di entrare né di inferire nel mondo. Non siamo
d’accordo, riteniamo che la sua opera faccia riferimento a una
contemplazione attiva, nel senso che è una contemplazione che
comporta la conoscenza e la trasformazione del soggetto, della
sua interiorità.
I.E.: Vorrei aggiungere, per far capire meglio quanto appena detto, che l’illusione dominante come politica d’autore è di “fare” il
più possibile, di intervenire nella realtà cercando di modificarla
ma restando incolumi, intatti, cosicché non cambia niente. Invece i suoi personaggi cambiano interiormente, si muovono verso
la propria interiorità, guardano dentro se stessi quando guardano l’esterno. Questa sarebbe certamente l’azione più vera del suo
cinema, perché implica innanzitutto una resistenza al credo
dominante. Lei è d’accordo o crede effettivamente che i suoi personaggi si mantengano in una sorta di alienazione o di impossibilità di vivere?
V.E.: Immagino che si stia riferendo ai personaggi degli
adulti. Perché penso che, in questo senso, c’è una sostanziale differenza tra i personaggi degli adulti, che in qualche modo hanno già un’identità definita, e i personaggi dei
bambini che ancora si trovano sulla soglia del mondo, den-
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A.L.: One can observe a certain tendency of yours not to
intervene very directly in your films, as if you distrusted
the dangers of a more manifest intervention. What kind of
relationship would you like to create with the spectator?
A.L.: On more than one occasion, several critics of your
work have said that your characters have a “contemplative” life because they’re incapable of participating in or
comprehending the world. We don’t agree, and feel that
your films depict an active contemplation that implies the
character’s self-awareness and transformation, of his or
her inner life.
I.E.: I’d like to add, to better clarify what was just said, that
the prevailing illusion of the politics of the auteur is to
“do” as much as possible, to intervene upon reality, to
attempt to modify it while remaining unscathed, intact, so
that nothing changes. Instead, your characters change
inside. They move towards their inner life, they look inside
themselves when they look outward. This is certainly the
most truthful action in your films, because it implies,
above all, a resistance against dominant beliefs. Do you
agree or do you believe that your characters are alienated
or find it impossible to live?
V.E.: I imagine you’re referring to the adult characters. Because
I think that, in this sense, there is a significant difference
between the adult characters, who in some way already have an
identity, and the children, who are still on the threshold of the
world, simultaneously inside and outside of it. That is the case
with Ana, the girl in The Spirit of the Beehive. That alienation
or impossibility to live belongs precisely to the adults and, more
specifically, to the men: the beekeeper in The Spirit of the Beehive; Agustín, the doctor, in The South. They are both divided
men.
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tro e fuori da esso allo stesso tempo. È il caso di Ana, la
bambina di El espíritu de la colmena. Quell’alienazione o
impossibilità di vivere è propria degli adulti e più specificatamente dei maschi: l’apicoltore ne El espíritu de la colmena; Agustín, il medico di El sur. Entrambi sono uomini scissi.
I.E.: I suoi personaggi femminili adulti sembrano essersi adattati di più alla realtà o al passato, sembra che risulti loro più sopportabile e persino letterario il traffico della vita, mentre gli
uomini sono come smarriti, immobilizzati da qualche ossessione,
turbamento o perdita. Sono come ossessionati dalla ricerca di
una chimera, che quasi sempre si conclude nella morte, la pazzia
o la solitudine. Le donne invece sono più rassegnate alla quotidianità, in cui la loro unica via di fuga sembrano essere le lettere, la scrittura sentimentale, le attività quotidiane…
V.E.: Sì, è possibile rintracciare nelle figure delle madri
quella rassegnazione di cui lei parla. Comunque ho sempre creduto che le donne siano più vicine alla vita di quanto lo siano gli uomini, dato che questi sono più facilmente
prigionieri di un compito sociale che li obbliga ad agire
come protagonisti della Storia. Lì, in quel campo dell’esperienza, mi sembra che gli uomini siano condannati a
una sorta di fallimento metafisico.
I.E.: Poi però ci sono le bambine, così importanti nella sua opera. Nel suo cinema rappresentano forse l’anello perduto di una
femminilità meno sottomessa, più vicina alla solitudine maschile, una femminilità che non fa sentire l’uomo escluso? Ed è per
questo che – a loro volta – le sue bambine si legano all’uomo, al
padre assente o solitario, alla pazzia o all’assenza del padre, alla
mostruosità dell’amore di Frankenstein?
V.E.: Il fatto che le due protagoniste di El espíritu de la colmena siano bambine è il risultato di una scelta. Avevo pensato che la scena dell’incontro tra il mostro e la bambina,
che ha luogo sulla riva di un lago nel film Il dottor Frankenstein di James Whale, sarebbe risultata più intensa se a
contemplarla fossero stati occhi femminili, dato che in questo modo il livello di identificazione poteva essere maggiore. Tuttavia, nel caso della sceneggiatura de La promesa
de Shanghai, in cui proprio per la prima volta nel mio cinema dovevano comparire dei bambini maschi, non credo
che la differenza con le bambine sarebbe stata molto significativa… In quanto a quel legarsi delle bambine alla figura maschile, forse, ciò accade perché ritrovano nel padre
qualcosa della loro essenziale solitudine, della loro emarginazione. Frankenstein è una replica mostruosa e fantasmatica della figura paterna. È forse il caso di ricordare che
Mary Shelley dedicò il romanzo al padre, William Godwin… L’attrazione che Ana prova nei confronti del mostro
è evidente, e alla fine risulta essere più forte della paura
che prova allo stesso tempo. L’amore di Estrella per il
padre Agustín ne El sur è evidente. Agustín e Frankenstein
hanno in comune, fra le altre cose, il fatto di essere due
diverse figure dell’emarginazione.
I.E.: A proposito di questa presenza primordiale delle bambine
c’è nel suo cinema un episodio significativo: quando Ana ne El
espíritu de la colmena offre la mela al fuggiasco ricordandoci
Eva. La figura della mela in mano a una donna (bambina) e offer-
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I.E.: Your adult female characters seem to have adapted
better to reality or to the past, it seems as if they find life
more bearable, even literary, whereas the men seem lost,
paralyzed by an obsession, anxiety or loss. They seem
obsessed by the search for a pipe dream, which almost
always ends in death, madness or solitude. Women, on
the other hand, are more resigned to everyday life, in
which their only ways out seem to be letters, sentimental
writing, daily activities…
V.E.: Yes, it’s possible to find that resignation you speak of in
the characters of the mothers. However, I’ve always believed
that women are closer to life than men, given that men are more
often prisoners of the social duties that oblige them to act as
history’s protagonists. There, in that field of experience, it
seems to me that men are condemned to a certain metaphysical
failure.
I.E.: But then we have little girls, a vital element in your
films. Do they perhaps represent in your work the missing link of a less submissive subjugated femininity, closer to masculine solitude, a femininity that perhaps makes
men feel excluded? And is it for this reason that the girls
in your films in turn bond with men, with the absent or
solitary father, with madness or the absence of the father,
with the monstrosity of Frankenstein’s love?
V.E.: The fact that the two main characters of The Spirit of the
Beehive are girls is the result of a choice. I thought that the
scene of the encounter between the monster and the little girl,
which takes place on a lakeshore in James Whale’s Frankenstein, would be more intense if seen from a female perspective,
seeing as how in this way, the level of identification could be
greater. Nevertheless, in regards to the screenplay of La
promesa de Shanghai, in which little boys were to appear in
one of my films for the first time, I don’t think that the difference between them and the girls would have been very significant.… As far as the girls’ bonding with the male figures is
concerned, perhaps that happens because they find something
of their fundamental solitude and marginalization reflected in
the father. Frankenstein is a monstrous and phantasmagoric
replica of the father figure. And perhaps we should recall that
Mary Shelley dedicated her novel to her father, William Godwin…. The attraction that Ana feels towards the monster is
obvious, and in the end is even stronger than her fear. Estrella’s love for her father Agustín in The South is obvious. What
Agustín and Frankenstein have in common, among other
things, is the fact that they are two different depictions of marginalization.
I.E.: There is a significant moment in your work in
regards to this primordial presence: when Ana in The
Spirit of the Beehive offers the fugitive an apple, reminding
us of Eve. The image of an apple in the hands of a woman
(girl) and offered to a man, the fugitive, in some way
summons up the Genesis, with all the ambiguities connected to the interpretation of the myth. The apple represents both the invitation to enter the tribe as well as the
doubts about tribal law, which is nothing other than
God’s law, and which forbids us from eating from the tree
of life, or from the tree of good and evil. In any case, it is
an invitation from a woman to a man to lose his fear, to
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ta a un uomo, il fuggiasco, riprende in qualche modo l’immagine della Genesi, con tutte le ambiguità connesse all’interpretazione del mito. La mela rappresenta sia l’invito a entrare nella
tribù, sia il dubbio sulla legge della tribù, che altra non è che la
legge di Dio, che proibisce di mangiare dall’albero della vita o
dall’albero del bene e del male. In ogni caso si tratta dell’invito
della donna all’uomo a perdere la paura, a disfarsi del timore di
Dio. In questo senso è commovente vedere come una bambina,
che dovrebbe avere paura di uno sconosciuto in fuga e solitario,
in un gesto di innocente pietà, tolga le paure all’uomo offrendogli la mela. E anche la giacca. Gli offre l’indumento del padre
senza sapere che c’è nascosto l’orologio, il tarlo del tempo, la
morte.
V.E.: Sì, in effetti credo che sia così, io non saprei spiegarlo
meglio… Pochi critici hanno capito il senso della mela e
dell’orologio in quella scena. Soprattutto dell’orologio, il
tarlo del tempo come lei dice… Quando Angel Fernández
Santos e io durante la stesura della sceneggiatura decidemmo che la bambina offrisse una mela al fuggiasco, inevitabilmente pensammo ad Adamo ed Eva.
I.S.: Infine, le “sue bambine” – ognuna a modo suo – conservano qualche traccia di una femminilità che poi diventando adulte,
perdono inevitabilmente?
V.E.: Può darsi… Oggi giorno la donna è spinta dalla società ad assomigliare sempre più all’uomo, perché possa
eventualmente sostituirlo nel mondo del lavoro, della politica, ecc… Generalmente, viene considerata pienamente
adatta per agire la Storia. Ciononostante, al di là di ciò che
suggeriscono i luoghi comuni su questo argomento, bisogna chiedersi fino a che punto la donne hanno superato la
loro storica emarginazione, che senso ha in realtà la cosiddetta liberazione della donna… Si tratta di un cambiamento abbastanza complesso, di dimensioni antropologiche,
nel quale ci sono perdite, è vero, ma anche conquiste. Le
bambine che io ho rappresentato, appartengono al passato, a un mondo che c’è stato prima della televisione. Con
questo si spiega tutto. Per questo portano in sé qualcosa
che le bambine di oggi probabilmente ormai non hanno
più.
I.E.: A partire dalla questione dello sguardo o degli occhi si
potrebbe dire qualcosa come “chiudi gli occhi e vedrai” . I suoi
personaggi, concretamente le sue bambine, Ana, Estrella, Susana, chiudono gli occhi quando vogliono evocare qualcosa. Che
significato hanno quei momenti? Si tratta forse della fase in cui
si tenta di riconoscere, in ciò che ci ha dato lo sguardo, l’essenziale che diventa memoria e pertanto conoscenza? Si può dire che
sia necessaria un’operazione di astrazione dalla realtà immediata, di negazione della fede in quello che si vede con gli occhi, per
dare vita invece a una fede più vera, che va oltre la condizione
perché sorga l’evocazione o la creazione di qualcosa di nuovo? E
non è proprio questo l’atto più simile all’ingresso nell’oscurità di
una sala cinematografica? Può parlarci di questa oscurità, di
questo abbandono dell’immediatezza, di questa sospensione di
giudizio quando si entra veramente nel cinema?
V.E.: Nell’atto di chiudere gli occhi possono essere compresi tutti questi significati, è vero. Ne El espíritu de la colmena mi venne in mente che Ana chiudesse gli occhi per
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shed the fear of God. And so it’s moving to see a little
girl, who should be afraid of a lone stranger on the run,
in a gesture of naïve pity, placate the man’s fear by offering him the apple. And the jacket as well. She offers him
her father’s clothing without knowing the watch is hidden inside: the sands of time, death.
V.E.: Yes, I essentially believe that to be true, I wouldn’t know
how to explain it any better… Few critics understood the
meaning of the apple and the watch in that scene. Especially
the watch, the sands of time, as you say… When Angel Fernández Santos and I decided, while writing screenplay, that the
girl should offer the fugitive an apple, we inevitably thought of
Adam and Eve.
I.S.: Ultimately, do “your girls,” each in her own way,
contain some trace of femininity that, upon growing up,
they inevitably lose?
V.E.: Perhaps.… In today’s world, society pushes women to be
more and more like men, so that they can eventually replace
men in the workforce, in politics, etc.… Generally, they are
considered to be fully adapted to guide history. Nevertheless,
despite that which the clichés on this subject suggest, we must
ask ourselves just how much women have truly overcome their
historical marginalization, what meaning does so-called
women’s liberation really have.... It is a relatively complex
change, of anthropological dimensions, in which they are losses, it’s true, but also conquests. The girls I portrayed belong to
the past, to a world that existed before television. This explains
everything. This is why they have something within them that
today’s little girls probably no longer have.
I.E.: Building upon the idea of the gaze or the eyes, we
could say, “close your eyes and you’ll see.” Your characters, specifically your little girls – Ana, Estrella, Susana –
close their eyes when they want to see something. What
meaning do those moments have? Is it perhaps the phase
in which one tries to recognize, in that which the gaze has
given us, the primary elements that go on to become
memory and thus knowledge? Could it be said that it’s
necessary to conduct an operation of abstraction from the
reality that surrounds us, to refuse to have faith in that
which can be seen with the eyes, in order to give life
instead to a truer faith, which goes beyond the condition
so that the evocation or creation of something new can
arise? And isn’t it precisely this act that is most similar to
entering the dark of a movie theatre? Could you say
something about this darkness, about this abandonment
of immediacy, this suspension of judgment when you truly enter cinema?
V.E.: These meanings can be construed by the act of closing
your eyes, that’s true. In The Spirit of the Beehive it occurred
to me that Ana closed her eyes to evoke the monster. But it’s her
sister, Isabel, who initiates her in this gesture. The difference
between the two girls is established from the way in which they
both experience this act. For Isabel, it is only a game, but for
Ana, it’s much more. It’s sad that Isabel doesn’t believe in that
language she invented almost unknowingly. That’s why she
can only pretend, or act. She can’t really conjure up the ghost.
Ana can, however. The act of closing one’s eyes is very impor-
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evocare il mostro. Ma è proprio sua sorella, Isabel, colei
che la inizia a quel gesto. La differenza tra le due bambine
si stabilisce a partire dal modo in cui entrambe vivono
questo fatto: per Isabel si tratta solamente di un gioco; per
Ana è qualcosa di più di un gioco. È triste che Isabel non
creda in quell’alfabeto che, quasi senza rendersene conto,
ha inventato; per questo è capace solo di fingere, di rappresentare, e non può evocare veramente il fantasma. Ana
invece può farlo. L’atto di chiudere gli occhi ha in questo
film una grande importanza, come anche nel caso di Susanita, la protagonista del mio progetto La promesa de Shanghai.
Si può dire che, in entrambi i casi, le bambine chiudano gli
occhi per cancellare il mondo esterno ed essere in grado di
guardare dentro se stesse. Anche per fare un richiamo nell’oscurità, per suscitare una comunicazione a distanza con
una persona cara: il fuggitivo, il padre assente… Tutto
questo a una prima lettura, perché in una dimensione più
segreta forse chiudono gli occhi facendo una sorta di
appello a qualcosa che sfugge alla logica, e in definitiva al
linguaggio codificato di ciò che chiamiamo realtà. Diciamo
che sia Ana sia Susanita cercano giustamente di sospendere o di cancellare la realtà, anche se solo per alcuni secondi.
I.E.: Ricordo in merito un aneddoto molto interessante, che suppongo lei ricorderà, in uno dei film di Fellini. Un’immagine specialmente commovente è quella dell’aristocratica cieca de E la
nave va, che cammina per la nave e va per il mondo con gli occhi
bene chiusi, e che quando le danno per la prima volta un bacio
sulla bocca, un bacio d’amore, compie l’operazione contraria a
quella che abitualmente facciamo quando diamo o riceviamo un
bacio. È l’unico istante del film in cui la donna cieca apre gli
occhi, che è anche un modo di chiuderli, perché è un aprire gli
occhi a una specie di luce dentro un’oscurità.
A.L.: Quale influenza hanno avuto sulla sua opera registi come
Rossellini, Pasolini, Ozu, Bresson, Renoir, Godard, Nicholas
Ray…
V.E.: L’elenco è lungo. E in quello che lei riporta ci sono
assenze fondamentali: Chaplin, John Ford, Buñuel, Jean
Vigo, Mizoguchi, Dreyer, Flaherty, Von Stroheim, Von
Sternberg, Jacques Tati, Jean Rouch, Chris Marker, Jean
Eustache… Ma soprattutto F. W. Murnau… Devo dire che
come spettatore infantile sono cresciuto con i film americani. È evidente che quello americano è stato, come per
tanti altri spettatori europei, il cinema della mia infanzia.
In quel periodo viveva ancora momenti di grande splendore, era un cinema veramente popolare. Mi riferisco a
quello che si produceva negli anni Quaranta, e anche nei
Cinquanta, e che probabilmente ha dato vita alla maggior
parte dei miti cinematografici che ho potuto ammirare. In
effetti Il dottor Frankenstein di James Whale, il film che compare ne El espíritu de la colmena, è americano.
Nella mia formazione come spettatore adulto fin dall’adolescenza ha avuto una notevole importanza il cinema italiano, tutto il cinema italiano nel suo insieme, a partire dal
1945 fino alla fine degli anni Sessanta, approssimativamente. In primo luogo i film del Neorealismo, che ho scoperto poco a poco, anche se con un certo ritardo. E dico in
ritardo perché molti dei suoi titoli fondamentali non furo-
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tant in this film, just like with Susanita, the main character of
my project La promesa de Shanghai. We can say that, in
both cases, the girls close their eyes in order to make the external world disappear and to be able to look inside themselves. As
well as to let out a cry in the dark, to communicate at a distance
with someone they care about: a fugitive, an absent father….
All of this is an initial interpretation because, in a more secret
dimension, perhaps they close their eyes as if to appeal to something that defies logic and, ultimately, to the codified language
of that which we call reality. Let’s say that both Ana and
Susanita try, rightfully so, to suspend or erase reality, albeit for
only a few seconds.
I.E.: A propos of this, I remember an interesting anecdote,
which I imagine you also remember, from one of Fellini’s
films. There is a particularly moving image of the blind
aristocratic woman in And the Ship Sails On, who goes
around the ship and the world with her eyes tightly shut,
and when someone kisses her on the mouth for the first
time, an amorous kiss, she does the opposite of what we
usually do when we give or receive a kiss. It’s the only
moment in the film in which the blind woman opens her
eyes, which is also a way of closing them, because it
means opening one’s eyes towards a kind of light inside
the darkness.
A.L.: What influence have the films of directors such as
Rossellini, Pasolini, Ozu, Bresson, Renoir, Godard and
Nicholas Ray had on you…?
V.E.: The list is long. And there are some fundamental names
missing from your list: Chaplin, John Ford, Buñuel, Jean Vigo,
Mizoguchi, Dreyer, Flaherty, Von Stroheim, Von Sternberg,
Jacques Tati, Jean Rouch, Chris Marker, Jean Eustache.… But
above all F. W. Murnau…. I have to admit that, as a kid, I grew
up watching American films. Obviously, in my case, as in the
case of many other European filmgoers, American films were
the films of my childhood. In that period, it was still living out
its heyday; it was a truly popular cinema. I’m referring to the
films of the 1940s, and even the 50s, which probably inspired
most of the great directors that I admired. In effect, Frankenstein by James Whale, the film that appears in The Spirit of
the Beehive, is American.
Ever since my adolescence, as I became an adult spectator, Italian cinema played a very important role in my life. More or less
all Italian cinema from 1945 until the late 60s. First and foremost, the neorealistic films, which I discovered slowly, and
even a bit late. I say late because many of the most important
films weren’t shown in Spain when they came out, due to censorship or distribution problems. For example, my memory of
when I saw De Sica’s The Bicycle Thief is a particularly moving one. And especially what seeing Rome, Open City for the
first time meant to me. I saw it under extraordinary circumstances, with a print that someone managed to sneak out of the
customs office of the Barajas Airport, confiscating it for a few
hours. I had the privilege to attend that practically covert
screening of Rome, Open City. Spain was at the height Francoism and there were only ten or twelve of us, sitting in the
dark of a small rehearsal room. Rossellini’s film moved all of us
in a very special way.
Of all the Italian directors, Roberto Rossellini was the most
important for me. Among other things, because that which
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no proiettati in Spagna quando uscirono, per motivi di
censura o di distribuzione. Ricordo, per esempio, con particolare emozione, la visione di Ladri di biciclette di De Sica.
E soprattutto quello che significò per me la visione per la
prima volta di Roma città aperta, che vidi in circostanze
eccezionali, con una copia che qualcuno riuscì a sottrarre
alla dogana dell’aeroporto di Barajas, sequestrandola per
alcune ore. Ho avuto il privilegio di accedere quella proiezione praticamente clandestina di Roma città aperta. Allora
eravamo in pieno franchismo ed eravamo solo dieci o
dodici persone, sedute nell’oscurità di una piccola sala
prove. Il film di Rossellini ci emozionò tutti in un modo
molto speciale.
Tra tutti i cineasti italiani Roberto Rossellini è stato per me
fondamentale. Fra l’altro perché quello che è stato definito
Cinema Moderno proviene dai suoi film; non solo quelli
legati direttamente alla Seconda Guerra Mondiale (Roma
città aperta, Paisà, Germania, anno zero…), ma soprattutto
quelli che realizzò con l’attrice Ingrid Bergman come protagonista (Stromboli, Viaggio in Italia, Europa 51… ). Ammiro molto anche Francesco giullare di Dio e India. Anche i
lavori di Rossellini per la televisione mi sembrano molto
importanti. Riuscì a dare a quel mezzo di comunicazione
pubblica delle speranze che invece, purtroppo, sono state
tradite con il passare del tempo.
Allo stesso modo nutro una particolare devozione per Pier
Paolo Pasolini, che è per me un esempio di dissidenza di
cui oggigiorno si sente molto la mancanza. A parte il suo
valore come cineasta, poeta civile e saggista, mi sembra
che sia stato un uomo che ha saputo capire con una lucidità straordinaria la progressiva distruzione della cultura
popolare nell’Italia del “neocapitalismo”. Un fenomeno
che si è poi esteso ovunque. In questo senso Pasolini è stato, ripeto, un precursore, che visse questa trasformazione
di carattere sociale, perfino antropologico, in una prospettiva profondamente impegnata, che lo condusse a un finale tragico.
A.L.: Da quale corrente cinematografica attuale si sente più
coinvolto e perché?
V.E.: Più che di una corrente credo sia il caso di parlare di
un cinema realizzato in modo sparso, soprattutto in Europa, e che potremmo denominare di “resistenza”. Un cinema che resiste ai modelli dominanti: quello di Manoel de
Oliveira, Jean Luc Godard, Eric Rohmer, Aki Kaurismaki,
Abbas Kiarostami, Straub-Huillet, Joao César Monteiro,
Hao Hsiao Hsien, Raymond Depardon…
I.E.: Ritiene che nel cinema dei margini, quello che non è ancora
sotto il Regime della Tecnodemocrazia Sviluppata, che è più libero, si possa far vedere un cinema meno mediatizzato dal modello
dominante dell’Audiovisivo? Penso – ad esempio – all’opera di
Kiarostami.
V.E.: Sì, credo di sì. Tra l’altro perché dai margini del Sistema si può percepire con maggiore chiarezza quello che è
veramente essenziale. Ma, infine, lavorare nei margini
significa innanzitutto riconoscere il luogo dove si è andati
a finire. Non è un luogo comodo, certamente, e nemmeno
privo di contraddizioni. Per esempio, la contraddizione
che può stabilirsi tra quell’emarginazione – non pretesa,
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came to be called “modern cinema” arose from his films. Not
just those directly about WWII (Rome, Open City; Paisà;
Germany Year Zero…), but above all those that he made with
Ingrid Bergman [Stromboli, Voyage to Italy, Europa 51 (No
Greater Love)]. I also really admire Francis, God’s Jester
and India. Even the films Rossellini made for television seem
very important to me. He succeeded in giving that medium of
public communication a hope that, unfortunately, has been
betrayed with the passing of time.
I was also similarly devoted to Pier Paolo Pasolini, who was an
example of a kind of dissidence that I believe is sorely lacking
today. Apart from his merits as a filmmaker, civil poet and
essayist, I think he understood with extraordinary clarity of
mind the progressive destruction of Italian “neocapitalist”
popular culture, a phenomenon that later spread everywhere.
In that sense, Pasolini was, I repeat, a precursor, who experienced this social, even anthropological, transformation through
a profoundly committed point of view, which lead to his tragic
demise.
A.L.: What current cinematic movement inspires you the
most, and why?
V.E.: More than a movement, I think it’s more appropriate to
talk about individual films by predominantly European directors, and which we can call “resistance films.” Films that resist
dominant models: those by Manoel de Oliveira, Jean Luc
Godard, Eric Rohmer, Aki Kaurismaki, Abbas Kiarostami,
Straub-Huillet, Joao César Monteiro, Hao Hsiao Hsien, Raymond Depardon…
I.E.: Do you think that within marginal cinema – that
which is not yet part of the regime of developed “TechnoDemocracy” and is freer – it’s possible see films less
“mediaized” by the dominant audiovisual model? For
example, Kiarostami’s films come to mind.
V.E.: Yes, I think so, because one can perceive with greater clarity that which is truly essential from the system’s margins.
However, working outside the mainstream means above all recognizing what we have come to. It’s not a comfortable place,
that’s for sure, nor does it lack contradictions. For example, the
contradiction that can arise from that (imposed rather than
sought out) marginalization is the use of a language that still
contains the last breaths of popular tendencies. A characteristic that renders the situation all the more difficult, if that’s possible, seeing as how film’s role as a popular art has disappeared,
at least in the west. Nevertheless, that is undoubtedly the area
where the most interesting films are being made today, even
though they often have to survive in the midst of inevitable
solitude.
Kiarostami’s case, to which you referred, is a bit special, given
that it is part of a cinema, Iranian cinema, which finds itself
overall at the edges of the system and that belongs to that which
was called the Third World. I was referring mostly to the margins of those who, like me, work within the neoliberal regime,
in the advanced capitalism of the European west.
I.E.: This is a phenomenon afflicting the situation of
national film industries…
V.E.: National film industries in Europe were for the most part
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ma imposta – e il fatto di utilizzare un linguaggio che mantiene ancora un anelito di vocazione popolare. Una caratteristica che rende ancora più difficile se possibile la situazione, visto che il cinema come arte popolare è scomparso,
almeno in Occidente. Tuttavia, è senza dubbio in quel territorio dove si producono oggi i film più interessanti,
anche se spesso devono sopravvivere in mezzo ad un’inevitabile solitudine.
Il caso di Kiarostami, al quale fa riferimento, è un po’ speciale, dato che si colloca all’interno di una cinematografia,
quella iraniana, che nel suo insieme si trova alla periferia
del Sistema, che appartiene a quel che è stato definito Terzo Mondo. Io mi riferivo, soprattutto, ai margini di coloro
che come me lavorano all’interno del regime neoliberale,
del capitalismo avanzato in atto nell’Occidente europeo.
I.E.: Questo è un fenomeno che affligge la situazione delle cinematografie nazionali…
V.E.: In effetti in Europa le cinematografie nazionali sono
state per la maggior parte liquidate dall’enorme espansione e dal potere dell’industria americana. Questo è uno dei
principali motivi per cui i film europei travalicano appena
le frontiere nazionali. Se all’interno di questo triste panorama il cinema francese si mantiene ancora in piedi è grazie a una politica che prevede una lotta più energica a
favore dell’eccezione culturale, una resistenza maggiore al
dominio nordamericano.
I.E.: Vorrei che ci soffermassimo un momento sul cinema iraniano. In qualche modo in questo cinema, in concreto in quello di
Kiarostami, ma anche in quello di Panahi e altri quattro o cinque, che stanno veramente creando come dice lei una specie di
scuola, è il tono generale o il fattore comune ciò che li separa e li
rende un’altra cosa diversa dal cinema dello spettacolo. Visto da
qui quel cinema è un atto di resistenza. La resistenza al pericolo
di entrare nel modello dominante, che è il modello uniforme della società neoliberale del Regime del Benessere sottomesso all’impero dell’Audiovisivo: ovvero il cinema come spettacolo, pericolo
di cui furono profeti Guy Debord e i situazionisti. Non essendo
entrati in pieno regime dell’Audiovisivo, il cinema in questi
posti, questi luoghi curiosi come l’Iran, sembra avere ancora la
funzione di strumento per la conoscenza, perfino di strumento di
educazione. Abbiamo il caso di Kiarostami: i migliori film che
abbiamo visto, fatti proprio con bambini e per bambini all’interno del sistema scolastico pubblico, sono i film di Kiarostami.
Questo non si fa più nella società del benessere in cui il cinema
è stato spogliato della sua caratteristica di arte della scoperta e
della conoscenza, no?
V.E.: Sì, sembra che sia così… Anche se forse stiamo proiettando sul cinema iraniano un’idea un po’ troppo semplice,
almeno per quanto riguarda le sue risorse. Non dobbiamo
dimenticare un fatto importante: i film di Kiarostami, e di
altri registi iraniani di spicco, esistono per lo più grazie
all’aiuto offerto dalla produzione francese. Il cinema iraniano si è creato uno spazio nel panorama internazionale
grazie all’appoggio della critica cinematografica, specialmente quella francese. Senza quell’appoggio probabilmente non avrebbe ottenuto una diffusione come quella di cui
gode attualmente. È un segnale di speranza che indica la
creazione di focolai di resistenza verso ciò che è istituzio-
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eradicated by the enormous expansion and power of the American industry. This is one of the main reasons why European
films barely manage to cross national borders. If within this sad
landscape French cinema is still standing, it is thanks to a
political agenda that requires a more vigorous battle in favor of
cultural exception, and a greater resistance to North American
domination.
I.E.: I’d like to linger for a moment on Iranian cinema. In
some way, in this cinema, specifically in Kiarostami’s
films, but also in the films of Panahi and four or five other directors who are truly forming, as you say, a kind of
school, it is their general tone or shared elements that distinguishes them and renders them something other than
spectacle cinema. From this standpoint, those kinds of
films are an act of resistance. Resistance against the dangers of becoming part of the dominant model, which is
the uniform model of the neoliberal society of the
“Regime of Well-Being” subjugated by the empire of the
audiovisual: cinema as spectacle, a danger that Guy
Debord and the Situationists prophesized. Not having
fully entered the audiovisual regime, films in these places
– strange places such as Iran – seem to still function as an
instrument of knowledge, even of education. Take
Kiarostami: the best films we’ve seen made with children
and for children within the public school system are
Kiarostami’s films. This is no longer done in the society
of well-being, in which cinema has been stripped of its
trait as an art of discovery and knowledge, is it?
V.E.: No, it doesn’t seem to be… Although perhaps we are projecting an overly simplistic idea onto Iranian cinema, at least
as far as its resources are concerned. We shouldn’t forget an
important fact: Kiarostami’s films, like those by other leading
Iranian directors, exist mostly due to the help offered by French
production companies. Iranian cinema has been able to carve
out a niche for itself in the international landscape thanks to
the support of film critics, especially in France. Without that
support, it probably wouldn’t have been able to obtain the widespread diffusion it is currently enjoying. It’s a sign of hope that
indicates the creation of hotbeds of resistance against the institutions and dominant forms, which I believe are crucial. The
system always leaves some kind of crack or opening that we
have to know how to take advantage of, even in totalitarian
regimes.
I.E.: We can attest to the fact that the cracks and openings
of the old regimes, as you say, have given rise to very fertile possibilities, as is the case with your work, your first
films, and even in Buñuel’s films, despite his problems
with censorship. Yet today’s highly conformed regimes,
or regimes of advanced progress, leave very little space
for a truly creative crack. It occurs to me that that are very
few instances, and so it would even be commendable to
speak of certain filmmakers such as Aki Kaurismaki, who
are part of the regime yet outside it, and several young
American filmmakers who are currently truly part of the
regime’s dominant axis.
V.E.: I believe that in describing the current situation in this
way, you are referring to the characteristic economic censorship of the neoliberal regimes in which we are forced to live, and
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ne, verso ciò che è dominante, che mi sembrano fondamentali. Il Sistema, perfino nei regimi totalitari, lascia sempre qualche crepa o fessura che bisogna saper utilizzare.
I.E.: Si può essere verificato che le fessure nei sistemi dei vecchi
regimi, come lei dice, abbiano dato luogo effettivamente a possibilità molto feconde, come nel caso della sua stessa produzione,
delle sue prime opere, e perfino dello stesso Buñuel, nonostante i
suoi problemi con la censura. Tuttavia adesso i regimi così conformati, o regimi del progresso avanzato, lasciano pochissimo
spazio a una fessura veramente creativa. Mi viene in mente che
esistono pochissimi casi, e pertanto sarebbe lodevole parlare di
certi cineasti come Aki Kaurismaki che sono dentro il regime e
tuttavia ne sono fuori, e anche di alcuni giovani cineasti americani che in questo momento sono veramente sull’asse dominante del Regime.
V.E.: Credo che descrivendo in questo modo la situazione
presente lei si stia riferendo alla censura economica caratteristica dei regimi neoliberali in cui siamo costretti a muoverci, e che ha a che fare con la dittatura che impone il
Mercato, non è vero? Certamente questo tipo di censura –
apparentemente sprovvista di motivi dottrinari o ideologici in senso stretto – spesso ha un carattere tanto repressivo
quanto quella dei regimi totalitari di stampo tradizionale… Lei cita adesso Aki Kaurismaki seguendo ancora una
volta come esempio, dei casi particolari… Aki Kaurismaki,
che conosco – sono stato in Finlandia con lui – è un magnifico cineasta, senza dubbio… Ma io, a questo punto, non
vorrei continuare a fare riferimento a dei casi particolari.
Almeno se si tratta di approfondire il tema della scomparsa delle cinematografie nazionali. Un tema che si sviluppa
in parallelo a quello dell’Eccezione Culturale nei paesi che
fanno parte dell’Unione Europea, soprattutto nell’attuale
momento di transizione. In questa situazione non si può
parlare in primo luogo dei cineasti sopravvissuti, resistenti o franco tiratori, con cui mi sento solidale. Bisognerebbe
parlare piuttosto della ricerca di un’alternativa, sicuramente utopica, contro il potere stabilito, che possa servire
per tutto il mondo, senza distinzioni.
A.L.: Qualche tempo fa lei ha parlato del cinema di Straub e
Huillet come di una possibilità di appoggiarsi economicamente
alla televisione per fuggire dal potere asfissiante delle “multinazionali del cinema”. Crede che questa possibilità esista ancora
oggi e sia fattibile, oppure la dipendenza dalle televisioni è l’ultimo tour de force contro l’autonomia creativa del cinema?
V.E.: È molto difficile che un progetto cinematografico, se
vuole veramente diventare realtà, sfugga al compromesso
economico con la televisione. L’ho detto molte volte: il
cinema vive attualmente un’esistenza vicaria, il cui domicilio sociale più noto è la televisione. È una condizione che
vale tanto per i film europei di consumo popolare quanto
per un film minoritario, realizzato da un dissidente. Alla
fine, sono i dirigenti della televisione quelli che decidono
cosa si deve o non si deve fare. Si spera che decidano con
un minimo di intelligenza, rispettando certe regole del gioco. Anche le minoranze hanno il diritto di esistere, non è
vero?
I.E.: Nel film El sol del membrillo lei attribuiva alla televisio-
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that it is related to the dictatorship imposed by the market, isn’t
it? Surely, this type of censorship – apparently devoid of doctrinal or ideological reasons in the strictest sense of the words
– is often as repressive as the censorship of traditional totalitarian regimes…. You cite Aki Kaurismaki, once again making
an example of special cases… Aki Kaurismaki, whom I know –
I went to Finland with him – is without a doubt a magnificent
filmmaker…. However, at this point, I don’t want to continue
referring to special situations. At least not if we’re trying to
probe the issue of the disappearance of national film industries.
A topic that is developing side by side with the idea of “cultural exception” in EU countries, especially in this current
moment of transition. In this case, we cannot speak first and
foremost of directors who are survivors, who go against the
mainstream or belong to the resistance, towards whom I feel a
great solidarity. Instead, we should speak of the search for a
(surely utopian) alternative against the powers that be, which
can be of use to the whole world, indiscriminately.
A.L.: Some time ago, you spoke of the films of Straub and
Huillet as a possibility to take economic advantage of
television [production companies] in order to escape the
suffocating power of the “multinationals of cinema.” Do
you think this possibility still exists and is feasible, or is
this dependence on television the latest tour de force
against cinema’s creative autonomy?
V.E.: It’s very difficult for a film project, if it really wants to see
the light of day, to avoid a financial compromise with television. I’ve said it a number of times: cinema currently has a secondary existence, and its most noted social residence is television. This condition holds as true for commercial European
films as it does for a lesser known film made by a dissident. In
the end, television executives are the ones who decide what
should or shouldn’t get made. The hope is that they make their
decisions with at least some intelligence, respecting certain
rules of the game. Even minorities have the right to exist, don’t
they?
I.E.: In the film The Quince Tree Sun, you attributed to television a role similar to that of the “Eye of Providence.”
“Everyone in his or her home and a television in everyone’s house.” In the film, there appeared this invasive
image that was seen from every window: the lethal light
of the television set, on in the middle of the night, a kind
of assimilation in each of us of television’s eye, which in
turn watches over all of us, like divine providence. This
imposition of a uniform and simultaneously individualistic vision is diametrically opposed to cinematic creation, which is shared and not individualistic. Cinema
drives people out of their homes and unites them in the
dark of the movie theatre, where personal limits melt
away. Cinema creates a kind of community among people. The small screen, on the other hand, is like an autistic regression towards an idiocy that is particular but not
identical to that of your neighbor’s. In The Quince Tree
Sun, is there a kind of irony in regards to this omnipotent
presence, this theological eye of television’s?
V.E.: Perhaps… The presence of television in The Quince Tree
Sun was practically inevitable. During shooting, each night
when I left the painter’s garden, I noticed that in all the hous-
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ne un ruolo simile a quello di occhio della Provvidenza. “Ognuno a casa sua e la televisione in quella di tutti”. Nel film compariva quest’immagine invadente che si vedeva in ogni finestra: la
luce letale del televisore acceso in mezzo alla notte dei tempi, una
specie di incorporazione in ognuno di noi dell’occhio del televisore, che a sua volta ci osserva tutti come la divina Provvidenza.
Questa imposizione di una visione uniforme e individualista allo
stesso tempo è diametralmente opposta alla creazione cinematografica, che è una creazione comune e non individualista. Il cinema ti porta fuori dalla tua casa e ti unisce agli altri nell’oscurità
della sala dove i limiti personali di dissolvono. Il cinema stabilisce una specie di comunità tra gli uomini. Il piccolo schermo
invece è come una regressione autistica all’idiozia particolare ma
non identica a quella del tuo vicino. C’è ne El sol del membrillo una sorta di ironia su questa presenza onnipotente, questa
specie di occhio teologico della televisione?
es in the neighborhood, in the half-light, there was the almost
always identical, solitary light: that of the television set. I
thought it could be interesting to film this nocturnal landscape
around the quince tree, and so I did. Subsequently, this very
simple fact had much broader, perhaps inevitable repercussions.
As a result of this, three different forms of communication
appear in the film: painting, cinema and television.
Until the 19th century, painting was the sole representative of
the image. Later, it lost that privilege, first to photography,
then to cinema, and in the second half of the 20th century, to
television. On a global scale, today’s citizens, whether they live
in the country or city, consume their daily ration of images
thanks to that small screen. So nowadays we can say that the
day doesn’t truly end when the sun goes down, but when the
television is turned off.
V.E.: Può darsi… La presenza della televisione nelle immagini di El sol del membrillo era praticamente inevitabile.
Durante le riprese, ogni notte, nel momento di lasciare il
giardino del pittore, io guardavo le case del vicinato per
scoprire che al loro interno in penombra brillava quasi
sempre un’unica e identica luce: quella del televisore. Pensai che potesse essere interessante filmare quel paesaggio
notturno attorno al melocotogno, e lo feci. Successivamente questo fatto così semplice ha ottenuto una ripercussione
molto più ampia, forse inevitabile. Perché in questo modo
nel film appaiono insieme improvvisamente tre forme di
comunicazione: la pittura, il cinema e la televisione.
Fino al secolo XIX la pittura ha detenuto lo statuto di
immagine. Successivamente lo ha perso con la comparsa
della fotografia prima, e del cinema poi. Nella seconda
metà del secolo XX quella posizione passa nelle mani della televisione. Su scala planetaria il cittadino di oggi, che
viva in campagna o in città, consuma la sua razione quotidiana di immagini grazie a quel piccolo schermo. Ecco che
oggi si può dire che il giorno finisca veramente non quando il sole scompare all’orizzonte, ma quando si spegne il
televisore.
Víctor Erice e Omero Antonutti
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Biografia
Nato a San Sebastián nel 1940, dopo gli studi in scienze politiche, si è diplomato all’Escuela Oficial de Cine. Inizialmente, ha lavorato come critico cinematografico. Il debutto alla regia avviene nel 1967 con un episodio del film collettivo Los
Desafíos (Le sfide). L’esordio alla direzione di un lungometraggio è del 1973 con Lo spirito dell’alveare, sospeso a metà tra
realtà e immaginazione, tra i problemi dell’infanzia, il mito di Frankenstein e la guerra civile spagnola. Dopo un periodo
nel quale ha lavorato per la televisione e la pubblicità, torna alla regia cinematografica nel 1982 con il dramma psicologico El Sur (Il Sud). Anche questo film mostra la Spagna del passato, quella degli anni ’40, e pone al centro della storia il difficile rapporto tra un padre e sua figlia, confermando la propensione a indagare la complessa relazione tra il mondo dell’infanzia e dell’adolescenza e quello degli adulti. A dieci anni di distanza, nel 1992, realizza El Sol del Membrillo (Il sole del
melocotogno), premiato dalla critica a Cannes. Protagonista di questo film che rimanda allo stile documentario, è il pittore
A. López. Infine, l’ultimo lavoro, Alumbramiento (2002), uno degli episodi del film collettivo, Ten Minutes Older: The Trumpet.
El Espíritu de la Colmena
Biography
Born in San Sebastián in 1940, after studying political science, he graduated from the Escuela Oficial de Cine and initially worked
as a film critic. In 1967, he directed an episode of the collective film, Los Desafíos (The Challenges). His feature directing debut
came in 1973 with The Spirit of the Beehive, suspended halfway between reality and imagination, between the problems of childhood, the myth of Frankenstein and the Spanish Civil War. After a period in which he worked in television and advertising, he directed his second film in 1982, the psychological drama The South. This film also portrays a Spain of the past, of the 1940s, and features
at its heart the story of a troubled relationship between a father and daughter, confirming Erice’s propensity towards probing the complex relationship between the world of childhood/adolescence and adulthood. Ten years later, in 1992, he made The Quince Tree Sun,
which picked up several awards at that year’s Cannes Film Festival. The protagonist of this documentary-style film was painter Antonio López. His last work, Alumbramiento (2002), was one of the episodes of the collective film Ten Minutes Older: The Trumpet.
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VÍCTOR ERICE
EL ESPÍRITU DE LA COLMENA
Lo spirito dell’alveare
In un paesino nascosto nella geografia di un paese in rovina, che conta i morti e i dispersi della sua ultima Guerra
Civile, in un pomeriggio d’inverno in un furgoncino malconcio arriva il cinema. Come d’abitudine la proiezione
unica, annunciata dalla propalatrice, si tiene all’interno di
una sconquassata sala del comune. I compaesani di ogni
età e condizione, contadini per lo più, hanno portato da
casa le sedie e gli scaldini. I bambini e le bambine occupano le prime file. Per qualche istante tutto si fa buio. Poi si
accende la luce del proiettore. Alcune immagini in bianco
e nero, arrivate da molto lontano, appaiono su una parete
in cui qualcuno ha disegnato la cornice di uno schermo…
In a small town hidden within the geography of a country in
ruins, which counts its dead and missing from its last civil war,
cinema arrives one winter afternoon in a small, decrepit van. As
usual, the single screening, announced by the town crier, is held
inside a dilapidated room in the town hall. The townspeople of all
ages, shapes and sizes, and for the most part farmers, bring their
own chairs and blankets from home. The boys and girls sit in the
first rows. For a few seconds, there is total darkness. Then the
light of the projector comes on. Several black and white images,
arriving from far way, appear on a wall on which someone has
designed the borders of a screen….
“In questo film che oggi ricordo nuovamente non c’è nulla che non scaturisca da una scena primordiale: l’incontro
sulla sponda di un fiume di una bambina con un mostro,
contemplato da uno sguardo che osserva il mondo per la
prima volta. Forse, allora, il tempo che le sue immagini
vogliono davvero catturare non è altro che quello delle origini: quel tempo senza date che ritorna, una e ancora
un’altra volta, negli occhi dei bambini.”
Víctor Erice
“In this film, which I recall again today, there is nothing that
does not arise from a primordial scene: the encounter on a riverbank between a little girl and a monster, seen from a perspective
that looks at the world for the first time. Perhaps, then, the time
that its images truly want to capture is nothing more than that
of its origins: that dateless time that surfaces, again and again,
in the eyes of children.”
Víctor Erice
“Favola rarefatta e sconsolata sulla solitudine e l’isolamento, parabola sulla guerra civile rimossa, è un film
magico e statico, come sospeso in un triste incanto, che ha
il passo lento e irradia echi misteriosi. Fu questo film opera di uno dei registi più originali e marginali di Spagna (3
film in vent’anni) che indusse 2 anni dopo Carlos Saura a
prendere Ana Torrent come protagonista di Cria Cuervos.”
Morando Morandini
“A refined and melancholy fable on loneliness and isolation, a
parable on the civil war [that has been removed from the collective memory], it is a magical and static film, as if suspended in
a sad spell, which has a slow pace and radiates mysterious
echoes. This was the film, from one of Spain’s most original and
marginal directors (three films in 20 years), which two years later inspired Carlos Saura to choose Ana Torrent to play the lead
in Cria Cuervos.”
Morando Morandini
sceneggiatura/screenplay: Víctor Erice, Ángel Fernández Santos
fotografia/photography (35mm, colore): Luis Cuadrado
montaggio/editing: Pablo González del Amo
suono/sound: Luis Rodríguez
musica/music: Luis de Pablo
scenografia/art direction: Adolfo Cofiño
costumi/costumes: Peris Hermanos
interpreti/cast: Fernando Fernán Gómez, Teresa Gimpera,
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Ana Torrent, Isabel Tellería, Kety de la Cámara, Estanis
González, José Villasante, Juan Margallo, Laly Soldevilla,
Miguel Picazo
produttore/producer: Elías Querejeta
produzione/production: Elías Querejeta Producciones Cinematográficas S.L.
durata/running time: 98’
origine/country: Spagna 1973
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EL SUR
(t.l.: Il sud)
Nella finca “La Gaviota”, una casa con banderuola, nella
periferia di una città del nord, abita Agustín, medico e rabdomante; Julia, sua moglie, maestra che ha sofferto le rappresaglie dopo la guerra civile ed Estrella, la loro figlia. Il
film narra la crescita di Estrella e il fascino che Agustín
provoca sulla piccola. Un giorno, quasi per caso, Estrella
scopre qualcosa che la fa insospettire sul fatto che suo
padre abbia avuto un’altra donna nel passato. Da quel
momento la vita ne “La Gaviota” viene modificata.
In “La Gaviota,” a house with a weathervane on the outskirts of
a northern city, live Agustín, a doctor and water diviner; Julia,
his wife, a teacher who suffered the retaliations after the civil
war; and Estrella, their daughter. The film narrates Estrella’s
growing up and her profound fascination with her father. One
day, almost by chance, Estrella discovers something that makes
her suspect that her father had a lover in the past. From that
moment on, life changes at “La Gaviota.”
“El Sur è un film inconcluso. La Produzione interruppe la
sua realizzazione dopo 48 giorni di riprese, quando ne
mancavano 33 per completare il piano di lavoro stabilito. Il
regista completò il montaggio della parte girata fino a quel
momento. Il film fu distribuito con successo. Ma Estrella,
la sua protagonista, non potè mai arrivare al sud.”
Víctor Erice
“The South is an unfinished film. The production company
shut down production after 48 days, when there were still 33 left
to complete the established shooting schedule. The director edited what had been shot up until that point. The film was released
and was a success. But Estrella, its main character, was never
able to reach the south.”
Víctor Erice
sceneggiatura/screenplay: Víctor Erice, José Luis Linares
fotografia/photography (35mm, colore): José Luis Alcaine
montaggio/editing: Pablo González del Amo
suono/sound: Bernardo Menz
scenografia/art direction: Antonio Belizón
costumi/costumes: Maiki Marín
interpreti/cast: Omero Antonutti, Sonsoles Aranguren, Icíar
Bollaín, María Massip, Lola Cardona, Rafaela Aparicio,
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Aurore Clément, Francisco Merino, María Caro, José Vivó,
Germaine Montero, José García Murilla
produttore/producer: Elías Querejeta
produzione/production: Chloë Productions, Elías Querejeta
Producciones, Cinematográficas S.L., Televisión Española
(TVE)
durata/running time: 93’
origine/country: Spagna, Francia 1982
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EL SOL DEL MEMBRILLO
(t.l.: Il sole del melocotogno)
L´artista Antonio López prova a dipingere, durante il
periodo della maturazione dei frutti, un albero, un melocotogno, che piantò tempo addietro nel giardino di casa
sua. Durante la sua vita, quasi come un bisogno, l´artista
ha lavorato sullo stesso argomento in diverse occasioni.
Ogni anno, con l´arrivo dell´autunno, quel bisogno si rinnova. Quello che il pittore non ha mai fatto nel suo dipinto dell´albero è mostrare tra le foglie i raggi di sole. Visto
lo stile realistico che gli è caratteristico, quel tentativo si
rivela particolarmente difficile. Premio della Giuria a Cannes ’92 e vincitore del Fipresci.
The artist Antonio López tries to paint a quince tree during the
period when its fruit ripens, a tree that he planted in his garden
years ago. Throughout different moments of his life, the artist
has worked on the same subject, almost as if it out of a need to do
so. And each year that need is rekindled with the onset of
autumn. That which the painter has never done in his paintings
of the tree is to show the rays of the sun through the leaves. Given the realistic style that characterizes his work, this endeavor is
particularly difficult. The film was awarded the Jury and
Fipresci Prizes at the 1992 Cannes Film Festival.
“Questa è la storia di un artista che cerca di dipingere un
melocotogno che cresce nel suo giardino. Anche se ha
lavorato altre volte su questo tema, quel che non ha mai
fatto nei suoi dipinti dell’albero è introdurre i raggi del
sole tra le sue foglie. Nello stile che gli è proprio questo
tentativo comporta una grande difficoltà; e si rivela a
seconda delle circostanze quasi come un’impossibilità. In
questa occasione decide di affrontarla. Ma lo fa come è
solito, con uno slancio ragionevole, senza nemmeno pretendere di finire il dipinto, con la sola preoccupazione di
trascorrere alcune settimane d’autunno accanto al fragile e
generoso albero. Con l’arrivo dei primi freddi invernali le
mele cotogne mature, cadendo dai rami, mettono fine al
suo lavoro, e iniziano in terra il loro processo di putrefazione. È allora che l’artista, di notte, ci racconta un sogno.”
Víctor Erice
“This is the story of an artist who tries to paint a quince tree
growing in his garden. Although he’s already worked on this
subject before, in his paintings of the trees he’s never introduced
the rays of the sun through the leaves. In the style in which he
paints, this undertaking is a great challenge, which throughout
the years has become virtually impossible. He decides to face the
problem on this occasion, but he does so in his usual, sensible
way, without even expecting to finish the painting. His only
thought is to spend several autumn weeks next to the fragile and
generous tree. With the onset of the first cold winter days, the
quinces ripen and fall from the branches, putting an end to his
work and beginning their decomposition process in the ground.
It is then, in the night, that the artist tells us about a dream.”
Víctor Erice
sceneggiatura/screenplay: Víctor Erice, Antonio López García
fotografia/photography (35mm, colore): Javier Aguirresarobe,
Ángel Luis Fernández
montaggio/editing: Juan Ignacio San Mateo
suono/sound: Ricardo Steimberg, Daniel Goldstein
musica/music: Pascal Gaigne
interpreti/cast: Antonio López García, Marina Moreno, Enrique Gran, María López, Carmen López, Elisa Ruiz, José
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Carretero, Amalia Aria, Lucio Muñoz, Esperanza Parada,
Julio López Fernández, Fan Xiao Ming, Yan Sheng Dong,
Janusz Pietrzkiak, Marek Domagala, Grzegorz Ponikmia
produttore/producer: Carmen Martínez, Carlos Taillefer
produzione/production: Maria Moreno P.C., Euskal Media e
Igeldo Zine Produkzioak
durata/running time: 138’
origine/country: Spagna 1992
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VÍCTOR ERICE
Ten Minutes Older: The Trumpet
ALUMBRAMIENTO
(t.l.: Parto)
Werner Herzog, Víctor Erice, Chen Kaige, Jim Jarmusch,
Aki Kaurismäki, Spike Lee, Wim Wenders: sono tra i registi che raccontano in dieci minuti una storia legata al tempo. Con la più completa libertà creativa, ogni autore porta
sullo schermo la sua personale interpretazione del “tempo”, usando la tecnologia cinematografica in maniera
innovativa e provocatoria. Questo film mostra tutte le
esperienze umane: nascita, morte, amore, sesso, il quotidiano, la storia e il mito.
Werner Herzog, Víctor Erice, Chen Kaige, Jim Jarmusch, Aki
Kaurismäki, Spike Lee and Wim Wenders: these are just some of
the directors who, in ten minutes, tell a story related to time.
Enjoying absolute creative freedom, each filmmaker brings to the
screen his own personal interpretation of “time,” using cinematic technology in an innovative and provocative manner. This
film portrays the entire range of the human experience: birth,
death, love, sex, everyday life, history and myth.
“Nel buio, accanto al rumore del campo in una sera d’estate si sente il pianto di un neonato. Dopo le fatiche del
parto, la giovane madre e il suo bambino dormono quieti.
Improvvisamente una piccola macchia rossa compare sulle fasce che avvolgono il neonato: nessuno se ne accorge.
Gli abitanti del luogo continuano i propri lavori o giochi. E
la natura prosegue indifferente il suo cieco corso. Chiuso
in una soffitta in penombra un bambino aspetta in solitudine. Per ingannare il tempo sul polso della sua mano sinistra disegna la cassa di un orologio. Finito il disegno lo
accosta all’orecchio, quasi sentisse un segnale misterioso: il
battito del mondo che lo circonda. È l’ora del meriggio. (...)
Cronos, con il suo occhio allerta, pretende di contabilizzare la vita, ma la vita sfugge. La macchia di sangue del neonato continua ad aprirsi come una rosa interminabile. Il
bambino nella soffitta cancella dalla pelle del polso l’orologio immaginario. La voce di una donna lancia nell’aria
una ninnananna: ‘Non ora, bimbo mio, non ora!’ L’eco della Storia – la fotografia di alcuni soldati tedeschi del Terzo
Reich sorridenti sul ponte internazionale di Hendaya –
presente nelle pagine di un giornale abbandonato, svanisce lentamente. Prima che diventi di nuovo buio riusciamo
a intravedere una data: venerdì, 28 giugno 1940.”
Víctor Erice
“In the dark, along with the sounds of a field on a summer’s
evening, the cry of a newborn baby is heard. After the exertion of
the labor, the young mother and her baby boy sleep peacefully.
Suddenly, a small red stain appears on the cloth in which the
baby is wrapped. No one notices. The townspeople continue on
with their work and play. And nature obliviously continues its
blind course. Locked up in an attic, a little boy waits alone in the
half-light. In order to deceive time, he designs the face of a watch
on his left wrist. Upon finishing the design, he places the watch
to his ear, as if listening to a mysterious signal: the heartbeat of
the world around him. It is noon.... Cronos, with his watchful
eye, thinks he can chronicle life, but life evades all such attempts.
The newborn’s bloodstain continues to grow, like a never-ending
rose. The boy in the attic erases the imaginary watch from his
wrist. A woman’s voice breaks the silence with a lullaby: “Not
now, my baby, not now!” The echo of history – the photograph of
several smiling German soldiers of the Third Reich on the international bridge of Hendaya – seen on the pages of a discarded
newspaper, slowly fades. Before it becomes dark again, we catch
a glimpse of the date: Friday, June 28, 1940.”
Víctor Erice
sceneggiatura/screenplay: Víctor Erice
fotografia/photography (35mm, bianco e nero): Ángel Luis Fernández
montaggio/editing: Julia Juaniz
suono/sound: Ivan Marin
scenografia/art direction: Javier Mampaso
interpreti/cast: Ana Sofia Liaño, Pelayo Suarez, Celia Poo,
José Antonio Amieva, Fernando Garcia Toriello, Mari Diaz,
Marian Diego, Vanesa Vega, Ivan Arbildua, Angel Tarano,
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José Maria Guerra, Omar Blanco, Lorena Gonzalez, Fernando Campo, Sergio Ivan Deza, Marta Torre, Manuela Berdial,
Carmen Santos
produttore/producer: Nicholas McClintock, Nigel Thomas
produzione/production: Ruedo Producciones and Nautilus
Films
durata/running time: 10’
origine/country: Germania 2002
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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FUORI PROGRAMMA
Agnès Varda, CineVardaphoto
Daniela Ceselli, … spendo soldi che non ho
Gustav Deutsch, Welt Spiegel Kino
Peter Tscherkassky, Instruction for a Light and Sound Machine
Pasquale Misuraca, Vissi d’arte
Manuele Franceschini, Biopiratas
Khavn, The Family that Eats Soil
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FUORI PROGRAMMA
Daniela Ceselli
… SPENDO SOLDI CHE NON HO
Anna, una giovane traduttrice, si occupa di poesia pur
consapevole che sono altri i testi che ricevono attenzione e
consenso. Tra la sua posta trova una cartolina, sopra vi
sono scritti dei versi, ma non è indirizzata a lei. Decide di
consegnarla alla reale destinataria, una ragazza di nome
Alba, che le confessa di essere stata abbandonata dall’uomo che le ha scritto. Anna è colpita dal suo racconto, ma,
quando incontra l’uomo di cui Alba le ha parlato, scopre
che la realtà è un’altra.
Anna, a young translator, translates poetry even though she
knows that it is other kinds of texts that receive attention and
acclaim. She finds a postcard in her mailbox, with some verses
written on it, which is not, however, addressed to her. She decides
to deliver it to the true recipient, a girl named Alba, who tells
Anna that she was abandoned by the man who wrote the poetry.
Anna is moved by Alba’s story, but when she meets the man
Alba spoke of, she discoveries that the truth lies elsewhere.
“Questo piccolo progetto, realizzato con l’aiuto di pochi
amici e grazie alla generosità di alcuni professionisti, è un
tentativo di avvicinarsi alla complessità e alla casualità dei
rapporti umani, a volte misteriosi, improvvisamente intensi, spesso contraddittori, mai univoci.”
Daniela Ceselli
“This small project is an attempt to approach the complexity and
casualty of relationships, at times mysterious, suddenly intense,
often contradictory, never absolute.”
Daniela Ceselli
Biografia
Nata a Roma nel 1968, si è laureata in Lettere. Diplomata
al CSC, ha ricevuto una menzione al Solinas. E’ stata aiuto
regista per Marco Bellocchio e ha collaborato alle sceneggiature di Sogni infranti, L’Appartamento (Francesca Pirani),
La Balia, Buongiorno, notte e La Spettatrice (Paolo Franchi). ...
spendo soldi che non ho rappresenta il suo esordio alla regia.
Biography
Born in 1968, she graduated in Literature. Graduating also from
the Centro Sperimentale di Cinema, she received Special Mention at the Premio Solinas. She worked as Assistant Director to
Marco Bellocchio and collaborated on the screenplays of Broken
Dreams, The Wet-Nurse, Good Morning, Night, L’Appartamento by Francesca Pirani and The Spectator by Paolo
Franchi. …spendo soldi che non ho is her directing debut.
sceneggiatura/screenplay: Daniela Ceselli
montaggio/editing: Vivì Castagnolo
suono/sound: Francesco Principini
musica/music: Enrico Pesce
scenografia/art direction: Federico Pitzalis
costumi/costumes: Michol Consolazione
interpreti/cast: Barbora Bobulova, Alba Rohrwacher, Alessandro Luci, Marzia Lorenzo
produttore/producer: David Ceselli
durata/running time: 28’
origine/country: Italia 2005
Filmografia
... spendo soldi che non ho (2005, Cm)
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FUORI PROGRAMMA
Gustav Deutsch
WELT SPIEGEL KINO
World Mirror Cinema
(t.l.: Cinema specchio del mondo)
Film in tre episodi: Kinematograf Theater Erdberg, Wien 1912;
Apollo Theater, Surabaya 1929; Cinema São Mamede Infesta,
Porto 1930. Found footage che ci riporta agli albori del cinema. Immagini di un tempo che fu: strade, piazze, persone
“sconosciute”, tre città e tre cinema all’inizio del secolo
scorso. Gli eventi di quegli anni sono evocati e appaiono
come un riflesso: Cinema specchio del mondo. In questo senso, Gustav Deutsch e Hanna Schimek ricostruiscono un’epoca con poche e intense inquadrature dove i protagonisti
sono portati in primo piano e vengono messi in risalto per
poi scomparire e tornare nell’oblio.
A film in three episodes: Kinematograf Theater Erdberg,
Wien 1912; Apollo Theater, Surabaya 1929; Cinema São
Mamede Infesta, Porto 1930. Found footage that takes us back
to the dawn of cinema. Images of a time that was: streets,
squares, “unknown” people, three cities and three cinemas at the
beginning of the last century. The events of those years are
recalled and appear as a reflection: Cinema, mirror of the
world. In this sense, Gustav Deutsch and Hanna Schimek
reconstruct an era with a few, intense images, where the protagonists are brought to the forefront and spotlight, before disappearing and returning to oblivion.
Biografia
Nato nel 1952 in Austria, si divide artisticamente tra disegno, musica, fotografia, architettura, video, film, performance, sin da quando aveva 10 anni. Le sue opere sono
state esposte in Austria, Francia, Germania, Lussemburgo,
Inghilterra, Marocco, Grecia e Turchia.
Biography
Born in Austria in 1952, he has been dividing his artistic time
between design, music, photography, architecture, video, film
and performances since he was ten years old. His works have
been shown in Austria, France, Germany, Luxemburg, England,
Morocco, Greece and Turkey.
sceneggiatura/screenplay: Gustav Deutsch
ricerca/research: Gustav Deutsch, Hanna Schimek
formato/format: 35mm, b/n, found footage
montaggio/editing: Gustav Deutsch
musica/music: Burkhard Stangl, Christian Fennesz, A.O.
produttore/producer: Manfred Neuwirth, Frank Roumen
produzione/production: Loop Media, Nederlands Filmmuseum
distribuzione/distribution: Sixpack Film
durata/running time: 90’
origine/country: Austria 2005
Filmografia
Rituale (1981), Fulkur (1981), Portrait Skizzen (1982), Fulkur (1982), Asuma - Die Wiese ist grün im Garten von Wiltz (1983),
Wossea Mtotom (1984), Prince Albert fährt vorbei (1984), Walzer Nr. 18 (1988), Non, Je ne regrette rien (1988, Der Himmel über
Paris), Sa, 29. Juni / Arctic Circle (1990), Adria Urlaubsfilme 1954-68 (Die Schule des Sehens I, 1990/1994), Welt/Zeit 25812 min
(1990), TV-Puzzle. Ein Programm für 42 Monitore und 42 VHS-Player (1992), Augenzeugen der Fremde (1993), And the sphinx
thinks... (1993), Tanz des Lebens (1994), Am laufenden band (1994), Film/Spricht/Viele/Sprachen (1995), Augenzeugen der Fremde
(1996), Taschenkino - Der Katalog, Das Event (1996), Marriage Blanc (1996), Film ist mehr als Film (1996), no comment - minimundus AUSTRIA (1996), Film ist (1998 /2002), Tradition ist die Weitergabe des Feuers und nicht die Anbetung der Asche (1999
), Spectrum (2003), Welt Spiegel Kino (2005)
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FUORI PROGRAMMA
Manuele Franceschini
BIOPIRATAS
Biopirati - Il manifesto di São Luis
Bios, dal greco vita. Pirati, ossia coloro che attraversano i
mari con lo scopo di rubare. Da 500 anni il Brasile (come
tanti altri luoghi di questo mondo iniquo) è terra di conquista dei Biopirati, dei ladri di vita. Il tesoro è rappresentato dalla natura e dagli indigeni, dai segreti che si nascondono in quella terra ricca di vita o nel sangue di uomini e
donne. Oggi sono le multinazionali farmaceutiche e alimentari a lucrare ai danni di intere popolazioni, magari
vendendo sul web per qualche decina di dollari il Dna di
un indigeno, oppure attribuendosi ogni diritto di proprietà su un frutto o su una qualità di riso. La biopirateria è
dunque il furto per uso commerciale delle risorse intellettuali - conoscenze e tecniche curative degli indigeni - e delle risorse biologiche delle regioni ricche in biodiversità.
Ecuador, Bolivia, Brasile, Venezuela, Colombia, Perù, Suriname e Guyana sono i Paesi le cui regioni amazzoniche,
già indebolite per le altre forme di sfruttamento, sono
minacciate da questa nuova forma di aggressione. Il fenomeno della biopirateria viene portato a termine in diversi
modi: i trafficanti, travestiti da turisti, raccolgono funghi,
animali, semi e piante da inviare all’estero, oppure comprano aree di bosco tropicale dove poi realizzano serie di
sperimentazioni con lo scopo di classificare le specie,
oppure usano diverse scuse per accedere alle comunità
indigene e farsi affidare le conoscenze relative a queste
risorse. In seguito fanno brevettare i prodotti all’estero
dove saranno anche elaborati e commercializzati senza che
i veri proprietari, gli indigeni, possano partecipare all’utile derivante. E’ possibile privatizzare la conoscenza e la
natura? E’ legittimo brevettare la vita umana? Biopirati è
un documentario che mostra una realtà inquietante e che
pone seri interrogativi filosofici.
sceneggiatura/screenplay: Manuele Franceschini
fotografia/photography: Luís Abramo, Gustavo Habda
montaggio/editing: Manuele Franceschini, Celia Freitas
produttore/producer: Manuele Franceschini
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Bios, from the Greek, life. Pirates, or those who travel the seas
with the intent to steal. For 500 years, Brazil (like many other
places in this unjust world) has been the conquered land of
Biopirates, stealers of life. The treasure is the indigenous peoples and nature, the secrets hidden in that land teeming with life
or in the blood of the men and women. Today, multi-national
pharmaceutical and food companies make huge profits to the
detriment of entire populations, perhaps selling the DNA of a
native on the web for a few dozen dollars, or else appropriating
all property rights on a type of fruit or rice. Biopirating is thus
theft for the commercial use of intellectual resources – the
natives’ curative knowledge and techniques – and the biological
resources of regions rich in biodiversity. Ecuador, Bolivia, Brazil,
Venezuela, Colombia, Peru, Suriname and Guyana, whose Amazon regions have already been damaged by other forms of
exploitation, are now being threatened by this new form of
aggression as well. The phenomenon of biopirating is carried out
in various ways: the traffickers, disguised as tourists, gather
mushrooms, animals, seeds and plants to send abroad; or else
buy tropical forest areas where they then conduct experiments to
classify the species; or else they use various excuses to access the
indigenous communities and learn everything about their
resources from them. Subsequently, they patent these products
abroad, where they are also processed and commercialized, without, however, giving the real owners, the natives, access to the
beneficial derivatives. It is possible to privatize knowledge and
nature? It is legitimate to patent human life? Biopirates is a
documentary that reveals a disturbing reality that poses serious
philosophical questions.
produzione/production: Zohar International
distribuzione/distribution: Lucky Red
durata/running time: 51’
origine/country: Brasile 2005
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FUORI PROGRAMMA
Pasquale Misuraca
VISSI D’ARTE
LA VIGILIA - LA BATTAGLIA - LA
RELAZIONE
“Vissi d’arte è un trittico digitale itinerante sul tema della
vita d’artista: il ‘prima’ (il desiderio di diventare ciò che si
è, a Santiago del Cile), il ‘durante’ (l’ossessione dell’attività creativa, a Roma), il ‘dopo’ (la nostalgia della vita naturale, a Parigi).”
Pasquale Misuraca
La vigilia
Una giovane cilena, mancata ancora una volta l’ammissione all’Accademia Teatrale di Santiago, decide di morire.
Alla vigilia del gesto scrive il testamento con la videocamera.
La battaglia
Un giovane italiano scultore e cineasta di professione,
combattuto tra la vita d’artista e una vita normale, compone una video-lettera per una grande amica misteriosamente riparata in un Paese lontano.
La relazione
Un giovane scimpanzè della Costa d’Oro sopravvive alla
cattura umana facendo di sé un artista del teatro di varietà. Invitato dai membri di un’Accademia a tenere una relazione sulla propria esperienza, sceglie di registrarla con la
videocamera, inframmezzandola con brevi riprese della
città di Parigi, dove si trova per ragioni di lavoro.
Biografia
Nato nel 1948 a Siderno, ha studiato architettura e sociologia a Roma. Ha svolto attività presso varie università italiane e straniere, ha lavorato per la radio e la televisione.
Collabora alla riviste “L’Astrolabio” e “Il Caffé Illustrato.”
Ha realizzato film di finzione, cortometraggi e numerosi
documentari.
sceneggiatura/screenplay: Pasquale Misuraca
montaggio/editing: Mario Di Chiara (La vigilia), Nefeli Misuraca (La battaglia, La relazione)
musica/music: Claudio Barrìa Mancilla (La vigilia), Tommaso
Costaielo (La battaglia), Gabriele Parrillo (La relazione),
Gabriele Parrillo
scenografia/art direction: Pasquale Misuraca (La vigilia), Ale-
“Vissi d’arte is a traveling digital triptych on the theme of the
artist’s life: the ‘before’ (the desire to become an artist, in Santiago), the ‘during’ (the obsession with creativity, in Rome) and
the ‘after’ (the nostalgia for natural life, in Paris).”
Pasquale Misuraca
The Eve
A young Chilean woman, aftter being once again refused admission to the Santiago Theatre Academy , decides to kill herself.
On the eve of the event, she records her will with a video camera.
The Battle
A young Italian sculptor and filmmaker, torn between living an
artist’s life and a normal life, composes a video-letter for a very
close friend living in a faraway country under mysterious circumstances.
The Seminar
A young chimpanzee from the Ivory Coast escapes being captured by humans by becoming a vaudeville artist. Invited by the
members of the Academy to hold a seminar on his experiences, he
chooses to record it on video camera instead, intersplicing his
speech with short filmed excerpts of Paris, where he is currently
on business.
Biography
Born in 1948 in Sidero, he studied architecture and sociology in
Rome. He worked for various Italian and foreign universities, as
well as in radio and television. He writes for the magazines
L’Astrolabio and Il Caffé Illustrato. He has made features,
short films and numerous documentaries.
xandra Zambà (La battaglia, La relazione)
interpreti/cast: Gayle Li Maxwell Ilabaca (La vigilia), Francesco Guzzo (La battaglia)
produttore/producer: Alexandra Zambà
produzione/production: ALFAZITA
durata/running time: 73’
origine/country: Italia 2004
Filmografia
Angelus Novus (1987), La bobina dell’occhio ferito (1991, Cm), Vita e morte di (1991, Cm), Non ho parole (1993), Le ceneri di Pasolini (1994, doc), Vita all’incontrario di Mimmo Pesce (1994, Mm, doc), Prima di cominciare Roma (1997), Al secolo Totò (1998,
doc), Retrato del Padre Pedro Campos (1999, Mm, doc), Retrato del Padre Esteban Gumucio (1999, Mm, doc), Leonardo Sciascia
Autoritratto (2000, Cm, doc),Vittorio De Sica Autoritratto (2000, Cm, doc), La Vigilia (2001, Cm), Vissi d’arte (2004)
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FUORI PROGRAMMA
Peter Tscherkassky
INSTRUCTIONS FOR A LIGHT
AND SOUND MACHINE
Peter Tscherkassky rilegge in modo sperimentale Il buono,
il brutto e il cattivo di Sergio Leone. Eli Wallach diventa il
protagonista di un nuovo film montato come un vero e
proprio incubo partorito dal regista austriaco con la tecnica del found footage.
Peter Tscherkassky re-interprets Sergio Leone’s The Good, the
Bad and the Ugly in an experimental key. Eli Wallach becomes
the protagonist of a new film edited like a true nightmare, made
by the Austrian director using found footage.
“L’eroe di Instruction for a Light and Sound Machine non è
difficile da identificare. Cammina inconsapevolmente per
la strada e realizza improvvisamente che non è soltanto
soggetto al macabro sentimento da parte di tanti spettatori ma che è anche alla mercé del regista. Si difende eroicamente ma è condannato al patibolo nel quale trova la morte filmica a causa della lacerazione del film stesso. (...)
Instruction for a Light and Sound Machine è il tentativo di trasformare un Western romano in una tragedia greca.”
Peter Tscherkassky
“The hero of Instructions for a Light and Sound Machine is
easy to identify. Walking down the street unknowingly, he suddenly realizes that he is not only subject to the gruesome moods
of several spectators but also at the mercy of the filmmaker. He
defends himself heroically, but is condemned to the gallows,
where he dies a filmic death through a tearing of the film itself....
Instructions for a Light and Sound Machine is an attempt to
transform a Roman Western into a Greek tragedy.”
Peter Tscherkassky
Biografia
Nato a Vienna nel 1958, ha vissuto a Berlino tra il 1979 e il
1984. E‘ uno dei membri fondatori del Sixpack Film. Ha
studiato filosofia e ha scritto una tesi di dottorato dal titolo “Film und Kunst - Zu einer kritischen Ästhetik der
Kinematografie“. Filmaker, ha al suo attivo numerose pubblicazioni riguardanti la storia e la teoria del cinema d’avanguardia. Ha ideato e organizzato diversi festival internazionali di cinema sperimentale. Insegna presso la Hochschule für Gestaltung di Linz e la Hochschule für angewandte Kunst di Vienna. Nel 1993-94 è stato direttore del
“Diagonale” - Festival des Österreichischen Films. Nel
1995 ha scritto un libro su Peter Kubelka.
Biography
Born in Vienna in 1958, he lived in Berlin between 1979 and
1984. He is one of the founding members of Sixpack Film. He
studied philosophy and wrote a doctoral thesis entitled "Film
und Kunst - Zu einer kritischen Ästhetik der Kinematografie."
A filmmaker, he has created printed numerous publications on
the history and theory of avant-garde cinema. He has conceived
and organized various international festivals on experimental
cinema. He teaches at the Hochschule für Gestaltung in Linz
and the Hochschule für angewandte Kunst in Vienna. In 199394, he was director of the "Diagonale" Festival of Austrian Film.
He edited a book about Peter Kubelka in 1995.
formato/format: 35mm, CinemaScope, b/n, found footage
musica/music: Dirk Schaefer
distribuzione/distribution: Sixpack Film
durata/running time: 17’
origine/country: Austria 2005
Filmografia
Kreuzritter (1979/80), Portrait (1980), Rauchopfer (1981), Aderlass (1981), Erotique (1982), Liebesfilm (1982), Sechs ueber Eins
(1982), Ballett Nº3 (1982), Freeze Frame (1983), Partita (1983), Urlaubsfilm (1983), Miniaturen - viele Berliner Künstler in Hoisdorf (1983), Motion Picture (La sortie des Ouvriers de l'Usine LumiÈre à Lyon, 1984), Ballett 16 (1984), Manufraktur (1985),
kelimba (1986), Shot-Countershot (1987), Daniel Paul Schrebers Stimmvisionen und Schizo-Schreber (for Ernst Schmidt jr’s. trilogy
Denkwuerdigkeiten eines Nervenkranken, part 1+2, 1987/1988), Brehms tierisches Leben (1988), tabula rasa (1987-89), a jour
(1988/89), Parallel Space: Inter-View (1992), Parallel Space: Inter-View (1992), Denkwuerdigkeiten eines Nervenkranken (1993),
Happy-End (1996), L'Arrivée (1997-98), Outer Space (1999), Get Ready (1999), Bagatelle (2000)Dream Work (2001), Instruction
for a Light and Sound Machine (2005)
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FUORI PROGRAMMA
Agnès Varda
CINEVARDAPHOTO
YDESSA, THE BEARS and ETC…
Due enormi stanze piene di vecchie fotografie. In ognuna
di queste fotografie possiamo vedere anche un orsacchiotto. Chi ha messo insieme questa collezione e perché?
montaggio/editing: Agnès Varda,Jean-Baptiste Morin
suono/sound: Jens-C. Börner Rob Fletcher And Jason Milligan
musica/music: Isabelle Olivier, Didier Lockwood
Two huge rooms filled with hundreds of old photographs.
In each picture we also see a teddy bear.
Who put together this collection, and why?
produzione/production: Cine-Tamaris
durata/running time: 44’
origine/country: Francia 2004
ULYSSE
In spiaggia, un uomo nudo, un bambino e una capra morta. Da questa fotografia che Agnes realizzò nel 1954 come
punto di partenza, il film esplora il reale e l’immaginario.
fotografia/photography: Jean-Yves Escoffier
montaggio/editing: Marie-Jo Audiard
suono/sound: Jean-Paul Mugel
musica/music: Pierre Barbaud
At the seashore, a naked man, a child and a dead goat. With this
photograph that Agnès took in 1954 as a starting point, the film
explores the real and the imaginary.
produzione/production: Production Garance, Antenne 2, Centre National du Cinéma and Paris-Audiovisuel
durata/running time: 22’
origine/country: Francia 1983
SALUT LES CUBAINS
Quattro anni dopo l’ascesa al potere di Fidel Castro, Agnès
riporta da Cuba 1800 foto e le usa per realizzare un documentario didattico e divertente.
Socialismo cha-cha-cha.
fotografia/photography: J. Marques, CS Olaf
sceneggiatura/screenplay: Agnès Varda
narratore/narrator: Michel Piccoli
montaggio/editing: Janine Verneau
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Four years after Fidel Castro came to power, Agnès brought back
from Cuba 1800 photos and used them to make a didactic and
amusing documentary.
Socialism and cha-cha-cha.
produzione/production: Pathé Cinéma, ICAIC Havana
durata/running time: 30’
origine/country: Francia 1963
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PROGRAMMA SPECIALE
KHAVN
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Mio fratello, il mio boia:
My Brother, My Executioner:
remix di un eroe del Terzo Mondo
3rd World Hero Remix
di Olaf Möller
by Olaf Möller
Quando Khavn de la Cruz – o solo Khavn, come si fa chiamare adesso – venne a Rotterdam prima della proiezione di
uno dei suoi film e annunciò che Sandra den Hamer si era
appena ritirata (per lavorare alla Berlinale al posto di Dieter
Kosslick) e che ora lui era il direttore dell’International Film
Festival Rotterdam (IFFR), solo il gruppo di Ferroni scoppiò
in un fragoroso applauso. Gli altri, invece, non sapevano
cosa pensare di quel punkettaro filippino iperfrenetico dai
capelli rossi, che nell’immaginario collettivo non corrispondeva certo a una persona del Terzo Mondo. Dopo la proiezione, alcuni intellettuali chiesero a Khavn perché il suo
video The Family that Eats Soil (2005) fosse così irriverente e
clamorosamente ridicolo, mentre per lui – aveva dichiarato –
aveva rappresentato una grande sofferenza. Khavn rispose
con una battuta molto saggia sul perché non si dovrebbe giudicare un libro dalla copertina ma dall’indice, che fece nuovamente impazzire tutti gli intellettuali in sala: quella creatura del Terzo Mondo aveva appena deriso l’uomo bianco
socialmente impegnato che vuole solo aiutare un suo “fratello minore” (Albert Schweizer)! Benvenuti in una nuova
epoca. E benvenuti nel mondo di Khavn, poeta e editore,
cantante e cantautore, e ovviamente “burattinaio” dell’underground digitale filippino, nonché uno dei suoi principali
autori.
Le Filippine non sono esattamente il luogo dove i cinefili
internazionali si stanno muovendo alla ricerca di una eleganza e bellezza post-moderna; i paesi da scoprire sono la
Tailandia e la Malesia, che sono anche più interessati all’Occidente e ai suoi mercati, quindi hanno più voglia di mettersi in gioco e aprirsi a nuove possibilità. E fin qui non ci sarebbe nulla di male - il mondo sarebbe peggiore senza Apichatpong Weerasethakul o Amir Muhammad – a parte il fatto
che tutti fingono che queste cose succedano naturalmente e
non siano il risultato di certi processi, come la creazione
accurata di una cinematografia interessante che possa diventare qualcosa di grande. Per quanto riguarda le Filippine, il
caso è diverso: loro non sono interessati. Parlare con le case
di produzione, ad esempio, è sempre angosciante perché i
produttori – un po’ per incredulità, un po’ per sfiducia – non
hanno la minima idea di ciò che gli altri paesi e le altre culture possano trovare interessante nei loro prodotti, che sono
destinati principalmente a un pubblico locale (problemi analoghi, per altro, si potrebbero riscontrare in India o Nigeria);
la stessa cosa vale anche per la scena sperimentale: anche
loro sembrano essere più interessati a un pubblico locale
piuttosto che internazionale.
Anche il passato, probabilmente, ha reso tutti un po’ più
scettici verso l’esterofilia, che si è rivelata inaffidabile. Negli
anni ‘70 e ‘80, le Filippine erano “calde” come adesso lo sono
la Tailandia e la Malesia, ritratte nei lungometraggi di Lino
Brocka, Ishmael Bernal e Mike de Leon, e attraverso il cinema d’avanguardia di Kidlat Tahimik, Raymond Red e Nick
Deocampo. Nei primi anni ‘90 morirono Brocka e Bernal, de
Leon e Tahimik attraversarono una lunga fase di silenzio,
mentre Red e Deocampo sembravano persi in una sorta di
limbo; improvvisamente non si sentì più parlare delle Filip-
When Khavn de la Cruz – or just Khavn, as he calls himself these
days – came onstage in Rotterdam this year, before one of his
screenings, and announced that Sandra den Hamer had just
resigned (to take on the Berlinale because Dieter the K. had some
other shit to do...) and that he was now the IFFR's director, only
the Ferroni Brigade exploded in wild cheers. The rest obviously didn't know what to do with that red-topped Pinoy punk in piss-andvinegar-overdrive who didn't exactly behave like your average
Third World cause. After the screening, some pipe-munching
member of the rest asked Khavn why his 2005 videofilm The Family that Eats Soil was so irreverent and just blatantly pranksterish
when he was, by his own admission, suffering from so much pain,
to which Khavn answered by cracking a wise joke, about how one
shouldn't judge a book by its cover but by its index, which again
made Pipe Man, like, really mad. That Third World creature
laughed at him, the socially concerned white guy who just wants
to help his "little brother" (Albert Schweizer)! Well, welcome to
changing time. And welcome to the world of Khavn, poet and publisher, singer/songwriter and, of course, mover and shaker of the
Philippine's DV-underground as well as one of its main
auteurs.The Philippines isn't exactly the place where the international cinephelia set is currently digging for new discoveries of
(post)modernist intelligence and beauty. Thailand and Malaysia
are the countries to visit (makes one always more believable), or at
least keep an eye on. Well, they're certainly more... interested in the
West, its markets, and therefore quite willing to play the game, to
find out what's possible. And there's little wrong with that – the
world would be a way shittier place without Apichatpong
Weerasethakul or Amir Muhammad – except that, maybe, everybody pretends that these things just happen naturally and are not
the result of certain processes, like carefully building up an interesting cinematography to become the next big thing, and so forth.
Nothing like that with the Philippines: They're simply not...interested. Talking to the suits of the main production companies, for
example, is usually a nightmare because they – half disbelieving,
half distrusting – have no clue about what anybody outside of their
country and cultures might find valuable in their products; also
because they're made mainly with the audience at home in everybody's creative mind. (Comparable problems, by the way, one's
likely to face with India or Nigeria.) The same holds true to some
extent for the experimental scene: They also seem to be more concerned with their home than the world.
Besides that, the past probably made everybody a little anxious
about outside adoration: it's unreliable. In the 70s and 80s, the
Philippines had been 'hot' the same way that Thailand and
Malaysia are now, what with Lino Brocka, Ishmael Bernal and
Mike de Leon in feature films, and Kidlat Tahimik, Raymond Red,
and Nick Deocampo in avant-garde cinema. Then, suddenly, in the
early 90s, Brocka and Bernal died, de Leon and Tahimik went into
periods of silence, while Red and Deocampo seemed to get lost in
someplace in-between, and suddenly nobody gave a flying fuck
about the Philippines anymore, despite the good stuff that got
made: There were other countries to discover, new flavours to taste.
The West might have forgotten about all those names, but the
Philippines haven't. Brocka lives, and if he sometimes seems to be
lost (as suggested by the title of a documentary by Taga Timog...),
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pine, nonostante ci fossero stai dei prodotti validi. C’erano
altri paesi da scoprire, nuovi sapori da provare.
Forse l’Occidente ha dimenticato tutti questi nomi, le Filippine no. Brocka vive e se a volte potrebbe sembrare che si sia
smarrito, loro sanno dove trovarlo: dentro loro stessi. Perché
Brocka era l’espressione più dolorosa della condizione dei
filippini, quindi la più reale.
Khavn è perfettamente consapevole della sua storia e considera il suo lavoro un proseguo contemporaneo del progetto
di suo padre; come Bembol B. è il leader della band The Brockas (di cui recentemente è uscito il primo album intitolato
The Return of The Brockas!). Sostenitore della scrittura automatica, nel 2002 Kahvn ha pubblicato il romanzo di Norman
Wilwayco, “Mondomanila”, un omaggio a velocità trainspottinghiana a Manila in the Claws of Neon (1975) di Brocka,
sulla scia di Manila By Night (1980) di Bernal. In un commento al lungometraggio in video successivo, un altro adattamento di “Mondomanila” dal titolo Mondomanila: How I
Fixed My Hair after a rather Long Journey - una delle storie
principali del libro era già stata adattata nel corto Mondomanila: Institute of Poets (2005) – Kahvn aveva già accennato a
quel tipo di rapporto dichiarando che: “[...] la ‘verità’ non è
‘al di fuori’, dove la collocano gli esperti del mondo esterno,
ma nel giardino di casa propria. E il giardino può scioccare
specialmente chi sta sempre in casa. Credo che il giardino
presentato da Mondomanila sia uno dei più terrificanti della
tradizione dei film girati dal famoso regista filippino Lino
Brocka. Se i film di Brocka avessero parlato dieci anni fa delle ferite di Manila, potrei pensare che Mondomanila appartenga a un nuovo modo di raccontare storie che ci fa sentire
come se avessimo toccato realmente quella ferita…”
Le Filippine erano fuori dalla mappa della cultura cinematografica internazionale, quando Khavn (nato nel 1973) cominciò a fare film presso l’Ateneo de Manila University (una
delle due scuole più elitarie del paese) dove conseguì una
laurea interdisciplinare in cinema, letteratura e studi sullo
sviluppo. Girò il primo film al terzo anno di università, nell’ambito di un corso tenuto da Kidlat Tahimik. Nello stesso
anno pubblicò delle poesie e suonò in una rock band, per cui
le sue opere presentano tracce anche di queste esperienze.
Alcuni dei suoi primi lavori, come la satira grossolana Amen.
A Brown Comedy (1998), in cui un ragazzo perde conoscenza
per essersi imposto troppe volte la mano di un anziano sulla propria fronte in segno di rispetto, erano girati con riprese
un po’ troppo lente rispetto al bisogno di immediatezza di
Khavn. Per quanto Amen. A Brown Comedy possa sembrare
un po’ pomposo, gli ha portato comunque numerosi riconoscimenti e attenzioni. Il video è la cosa più adatta per Khavn:
oltre a essere un mezzo molto economico, che ben si presta
ai sermoni “Crea prima, critica dopo. Attenzione alla quantità. Dio si occuperà della qualità – sempre che tu creda in
Dio.” (“Digital Dekalogo, Xth commandment”) – esprime in
maniera giustamente cruda la sensazione di Terzo Mondo.
Un bambinetto disordinato e un po’ bruttarello che cerca di
dare luce ai colori degli spodestati.
Khavn correva con la sua videocamera e non guardava mai
indietro, girava un video dopo l’altro e a volte intrecciava
diversi pezzi a formare un lungometraggio, a volte creava
un corto da un lungo.
Pugot/Headless (2002), la vivisezione di una relazione che si
conclude con una morte emorragica, esiste in versione breve
e lunga. Pugot è l’esempio più folle di video accelerato: è sta-
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they know where to find him: inside themselves. For Brocka was the
expression of the Pinoy condition at its most pained, therefore real.
Khavn is highly aware of this history and considers his work a contemporary continuation of his forefathers' project.... As Bembol B.,
he's the bandleader of The Brockas (whose recently released first
album is called The Return of The Brockas!). As one of the masterminds behind Automatic Writings, he's the publisher of Norman Wilwayco's 2002-novel Mondomanila, which is a
Trainspotting-sped homage to Brocka's 1975 Manila in the
Claws of Neon (Maynila Sa Mga Kuko ng Liwanag) by way
of Bernal's Manila By Night (1980).
In a comment on his next feature videofilm – another adaptation of
Mondomanila for the time being called Mondomanila: How I
Fixed My Hair After a Rather Long Journey because he already
adapted one key story of the book in the short Mondomanila:
Institute of Poets (Mondomanila: Institutsyon ng Makata,
2005) – he actually argues that relationship when he says: “...the
'truth,' it is not 'out there,' as pundits from the outer realm put it,
but in one's own backyard. And backyards can shock, especially if
one doesn't go out much. I believe that Mondomanila offers one
of the most horrifying backyards in the tradition of films made by
the foremost Filipino directors, Lino Brocka. If Brocka's films a
decade ago talked about the wounds of Manila, I would like to
believe that Mondomanila belongs to a new breed of storytelling
that makes one feel as if one has actually touched that wound.…”
About the time that the Philippines were dropped off the map of
international film culture, Khavn (who was born in 1973) started
to make films, at Ateneo de Manila University (one of the country's two elite schools), where he received an Interdisciplinary
Studies BA in Film, Literature, and Development Studies. To be
more precise, he made his first film in his third year at university,
in a course taught by Kidlat Tahimik. At the same time, he published poetry and played in a rock band. His works sure look and
sound like that.
Some of his earlier efforts, like the slapstick satire Amen. A Brown
Comedy (1998) – about a guy getting hurt out of his senses from
giving too much mano (i.e., putting ones elder's hand to ones forehead as a sign of respectful subjugation) – were still shot on film
stock, which just seemed too slow for Khavn's punkish needs for
immediacy. Amen. A Brown Comedy may feel a little stilted, but
it nevertheless got him quite a lot of attention and awards. Video
was just the thing for Khavn: Not only is it a cheap medium –
always good for somebody preaching: "Create first, criticize later.
Take care of quantity. God will take care of the quality, that is,
assuming you do believe in God." (Digital Dekalogo, Xth commandment) – but this cheapness, used the right, ultra-raw way,
also has a certain Third World feeling to it. A tad tacky, a little
ugly, giving a certain shine to the colors of the dispossessed.
Khavn ran with his video camera and never looked back. He shot
one video after the other, sometimes weaving several pieces into a
feature-length work, sometimes ripping a short out of a feature.
For example, Headless (Pugot, 2002), his vivisection of a relationship's bleeding to death, exists in short and feature-length versions. Headless is also his till-now most insane example of speedy
video-filmmaking. It was shot in a day mainly by its protagonists
– one of them being Lav Diaz in his first starring role as a selfdestructive painter (Pugot is actually Diaz's “nom de rock” with
The Brockas, for whom he plays guitar) – with Khavn directing by
letting others rip to his inspirations' tune. That's one of those
stunts you can only pull with Miles Davis in the back of your mind
("There are no mistakes") and enough experience to know that,
whatever's going to happen, you can shape it because you gave
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to girato in un giorno solo dai protagonisti – uno di loro è
Diaz nel suo primo ruolo da star, che interpreta un pittore
autodistruttivo (in verità Pugot è il nome d’arte di Diaz nella
rock band The Brockas in cui suona la chitarra), con la regia
di Khavn che lascia che gli altri improvvisino dalla sua ispirazione. Questa è cosa che si può fare solo se si pensa a Miles
Davis (“Non esistono errori”) e se si ha abbastanza esperienza per sapere che qualsiasi cosa succederà la possiamo modificare perché l’abbiamo creata noi.
È difficile dire quale sia l’opera più rappresentativa di
Khavn, in verità nessuna. La sciocca improvvisazione Barong
Brothers (2003), o la buffa satira dei pugili-bambini Small Ali
2005), o la vignetta sul calcio dal ritmo e dai movimenti perfetti Lata at tsinelas/Can and Slipper (2005), potrebbero anche
non essere del regista del metafilm sopra le righe, Idol (che
recita come Godard cacciato da Tarantino, che trova rifugio
nascondendosi dal mondo nel buco del suo culo), o la satira
sociale ultraviolenta e spesso oltraggiosa Ang Pamilyang
Kumakain ng Lupa, che di nuovo sembra una visione estremamente trash opposta al delicato realismo quotidiano di
Kamias. Alaala ng Paglimot e Buryong.
L’unico trait-d’union di questo gruppo molto variegato è l’acuta consapevolezza di Khavn del sempre più profondo e
accelerato miasma delle Filippine avvenuto nell’ultimo secolo. Prendiamo ad esempio Lata at tsinelas, un corto di novanta secondi, una lente focale simbolica della sua intera opera:
mentre si viene travolti dal magistrale montaggio di apertura, si rimane sbalorditi quando si capisce che quel calciatore
così forte in verità è un bambino con una gamba sola che
zoppica sulle stampelle; e anche se si resta spiazzati quando
crossa la lattina di Becks come Beckam, rimane la sensazione che tutto ciò sia comunque molto più vicino di quanto
non si voglia ammettere alla amara verità sulla condizione
dei filippini. In effetti Khavn accenna al fatto che i bassifondi dove ha girato le sue opere non sono molto lontani da casa
sua, e che per i poveri è abbastanza comune lasciare deperire un arto dolente perché non hanno i soldi per le cure mediche.
Questo tipo di ferite e questa particolare realtà delle Filippine, quale paese del Terzo Mondo in disperata abnegazione,
sono presenti nell’opera di Khavn in modo sempre spudorato: per la vergogna non c’è più spazio né tempo, la vergogna
uccide. E grazie a questa presenza costante, che è parte della
vita di tutti i giorni, Kahvn può lavorare con questo materiale e fare cantare la cancrena e i colori sgargianti. Le Filippine
di Khavn non hanno bisogno di carità, né dei buoni samaritani bianchi. Chiedono solo una giustizia sociale che però
deve venire dall’interno: le Filippine sono state ostacolate
per decenni nell’attesa del ritorno promesso di McArthur,
per non dire del Secondo Avvento, soggetto del misterioso
The Twelve (2001), con gli apostoli reincarnati che aspettano il
ritorno del maestro, decantando poesie ubriachi fradici e
evocando canzoni come memorie o parabole. Adesso però è
il momento di confrontarsi con se stessi, e se uno è regista
deve prendere la videocamera e cominciare a raccontare le
storie sepolte nel giardino di casa, scavando nell’animo delle persone. Quel punk un po’ mattacchione di Khavn in realtà è anche un prete ribelle. Grande Khavn!
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birth to it.
It's difficult to name one representative work of Khavn’s: Actually,
there isn't any. Most people probably wouldn't expect a sweetnatured work like the goofy improvisation Barong Brothers
(2003), or the hilarious children's boxing spoof Small Ali (2005),
or the rhythm- and motions-wise perfectly pitched soccer-vignette
Can and Slipper (Lata at tsinelas, 2005) from the director of the
over-the-top meta-movie Idol (which plays like Godard being hunted by Tarantino and finding sanctuary while crawling up his own
ass), or the ultra-violent and often just outrageous social satire
Ang Pamilyang Kumakain ng Lupa, which again feels like a
trash-as-trash-can counter-vision to the gentle everyday realism of
Kamias and Buryong.
The only thing that keeps this disparate bunch of misfits together is
Khavn's acute awareness of the miasma the Philippines have
sunken into ever-deeper and at an ever- accelerating speed during
the last century. Take Can and Slipper, a one and a half minute
short and something like a symbolic focal lens for the whole oeuvre.
While one's swept away by the bravura of the opening montage,
stunned by the realisation that this bad-ass kicker is actually a onelegged kid hobbling on crutches, and then just blown away by him
bending the can like Becks despite all that, there's always the feeling that this, for all its joy and playfulness, is much closer to the
ugly truth of the Pinoy condition than one would like to admit.
Khavn actually mentioned that the slum where he shot this work is
not far away from his home, and that it's quite common for the poor
to let an ailing limb just rot away because they can't pay for any
medical care.
This quality of pain, this particular reality of the Philippines as a
Third World country in desperate denial is always present in
Khavn's work, usually in an unashamed way because there's no
space or time for shame anymore, shame kills. And because it is so
much THERE, part of everyday life, that he can actually work with
it, make the gangrene and the garish colors sing. Khavn's Philippines doesn't need any alms or some whiny white guy goodwill:
It's all about the necessity for social justice. And that has to come
from inside. The Philippines have been stymied for decades by waiting for McArthur's promised return, if not the Second Coming
itself – actually the subject of the truly weird The Twelve (2001),
with the reincarnated apostles waiting for the master's return, getting low-down drunk and in the course waxing poetic, all the while
evoking songs like memories or parables.... Now it's time once
again to face things on one’s own, and if one's a filmmaker, one
picks up the camera and starts telling stories grabbed from the
backyard, that way tilling the soil of peoples' souls. Khavn might
look like a prankster punk, yet he's also a rebel priest. Khavn kicks
ass.
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FUORI PROGRAMMA: FOCUS ON KHAVN
ANG PAMILYANG
KUMAKAIN NG LUPA
The Family that Eats Soil
(t.l.: La famiglia che mangia terra)
Tre volte al giorno una famiglia surreale si riunisce per
consumare pasti a base di terra. Mentre fingono di gradire
il pasto vengono inserite scene della vita individuale dei
membri della famiglia con le loro storie da incubo.
Three days a week, a surreal family gets together to eat meals
made of soil. As they pretend to enjoy these meals, scenes from
the individual family members’ lives and their nightmarish stories are inserted into the film.
“La storia opera su vari livelli simbolici. Il concetto di
famiglia, per esempio è integro fino a che rimane l’unità
sacra nella tradizionale società filippina, dove non è raro
trovare i nonni e dozzine di nipoti vivere sotto lo stesso
piccolo e claustrofobico tetto. D’altra parte il simbolo della
terra non puo essere diviso dalla coscienza collettiva filippina. Le Filippine rimangono , alla base, una società agraria, dove la terra ha sempre avuto la singolare valenza
metaforica di essenza e senso delle proprie radici, una fonte di sostentamento e di spirito.The Family That Eats Soil è
un’allegoria per un popolo che ancora cammina e respira
dentro un incubo senza fine.”
Khavn
“The story works on various symbolic levels. The concept of family, for example, is complete as long as it remains the sacred unit
of traditional Filipino society, and it isn’t rare to find grandparents and dozens of grandchildren living under the same small,
claustrophobic roof. On the other hand, the symbol of the soil
cannot be separated from the collective Filipino conscience. The
Philippines is still essentially an agrarian society, where the soil
has always been a unique metaphor for existence and the sense of
one’s roots, a source of support and of the spirit. The Family
That Eats Soil is an allegory for a people who still walk and
breathe in an endless nightmare.”
Khavn
Biografia
Nato a Manila nel 1973, Khavn De La Cruz (nome d’arte
Khavn), è un poeta filippino, narratore, compositore e
film-maker. Dal 2002 dirige il MOV International Digital
Film Festival. Con la sua società di produzione digitale, la
Filmless Films, ha realizzato nove lungometraggi e più di
trenta corti, molti dei quali hanno ricevuti premi in festival
asiatici.
Biography
Born in Manila in 1973, Khavn De La Cruz (who goes by the
"stage name" Khavn) is a Filipino poet, narrator, composer and
filmmaker. Since 2002, he has directed the MOV International
Digital Film Festival. With his digital production company,
Filmless Films, he has made nine feature films and over 30
shorts, many of which have received prizes at Asian festivals.
sceneggiatura/screenpaly: Khavn
fotografia/photography (colore): Albert Banzon
montaggio/editing: Sunshine Matutina
suono/sound: Bobby Macabenta, Lionel Valdellon
musica/music: Khavn De La Cruz
scenografia/art direction: Omar Gerez, Oblax Balignasay, Christian Guzman, Enteng Viray
interpreti/cast: Carlo Catap, Hamid Eton, Elizabeth Marin,
Gil Mendoza, Hazel Magno, Edward Vitto, Gigi Duque,
Christian Guzman, Jocelyn Sibayan, Khavn,Flortecante
Dayao, Ariel Mamburan, Jaymar Valenciano, Cris Villanue-
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va, Kristine Kintana, Maricel Gajasan, Israel "Oblax", Balignasay, Adonis De La Cruz, Tasyo Caubalejo, Eric Jose Pancho, Joy Domingo, Vincent "Enteng" Viray, Pedro San Goku,
Elmo Redrico, Marc Mendoza, Roy Mark "Omar" Gerez,
Marlon Dela Cruz, Merv Espina, Ernesto Garcia, Jessie L.
Liwanag, Mario R. Monte, Salvador C. Ticman Jr., Norman
Wilwayco, Narding De La Cruz,Kelly De La Cruz, Eva
Bagao, Jansen Bagao
produzione/production: Filmless Films
durata/running time: 75’
origine/country: Filippine 2005
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FUORI PROGRAMMA: FOCUS ON KHAVN
PUGOT
Headless
(t.l.: Senza testa)
Scena d’apertura: un uomo si masturba per l’ultima volta
prima di tagliarsi il pene con un coltello. Cosa conduce
quell’uomo a castrarsi?
sceneggiatura/screenpaly: Khavn, Lav Diaz, Banaue Miclat
fotografia/photography (video, colore): Bahaghari, Lav Diaz,
Khavn
montaggio/editing: Gatla Gunawin
scenografia/art direction: Chits Jimenez
musica/music: Jun Lopito
Opening scene: a man masturbates one last time before cutting
off his penis with a knife. What leads this man to castrate himself?
interpreti/cast: Lav Diaz, Banaue Miclat
produttore/producer. Khavn
produzione/production: Filmless Films
durata/running time: 80’
origine/country: Filippine 2002
ALTRI VIDEO IN PROGRAMMA
LATA AT TSINELAS, 2’
5 SHORTS, 10’
SMALL ALÌ, 8’
JOHN CAGE, 2’
IDOL, 70’
I’M NOT BATMAN, 7’
MONDOMANILA: INSTITUSYON NG MAKATA, 15’
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FUORI PROGRAMMA: FOCUS ON KHAVN
Il decalogo di Khavn
Il decalogo di Khavn
Il cinema è morto. E’ morto finché è morta l’economia,finché lo sono il gusto del pubblico e la creatività, finché l’immaginazione delle grandi multinazionali cinematografiche
è morta. Con milioni di pesos per la produzione di un film,
non ci saranno molti giorni felici per il genuino filmmaker,
il vero artista che vuole fare film, non la stupida esibizione
di seni e pistole. Ma la tecnologia ci ha reso liberi. Il cinema digitale con le sue caratteristiche di mobilità, flessibilità, intimità e accessibilità, è il mezzo adatto per un paese
del terzo mondo come le Filippine. Paradossalmente, la
rivoluzione digitale ha ridotto l’enfasi sulla tecnologia e ha
ribadito la centralità del regista, la preponderanza della
condizione umana sui film spazzatura. Il cinema è morto.
Per favore non mandate dei fiori.
Film is dead. It is dead as long as the economy is dead, when public taste and creativity are dead, when the imagination of multinational movie companies is dead. At millions of pesos per film
production, there ars not going to be a lot of happy days for the
genuine filmmaker, the true artist who wants to make movies,
not brainless displays of breasts and gunfire. But technology has
freed us. Digital film, with its qualities of mobility, flexibility,
intimacy, and accessibility, is the apt medium for a Third World
Country like the Philippines. Ironically, the digital revolution
has reduced the emphasis on technology and has reasserted the
centrality of the filmmaker, the importance of the human condition over visual junk food. Film is dead. Please omit flowers.
I - Economia: un minuto di pellicola cinematografica incluso lo sviluppo costa circa 1500 pesos. Un minuto di film
digitale costa circa 3 pesos. Fate i conti. Una galassia di differenza.
II - Il solo modo di fare un film è girarlo. Gira quando
puoi. Non indugiare. Se puoi finire tutto in un giorno, perché non farlo? L’ indolenza è il nemico della musa. Il regista nell’ombra ora non ha più scuse.
III - La tua videocamera digitale non ti trasformerà all’istante in Von Trier, Figgis, o Soderbergh. La tua attitudine
alla regia dovrebbe essere quella di un dilettante: Semiseria, giocosa, leggera, non pesante, perciò senza bagaglio.
Non ci sono errori. L’importante è che impari.
IV - Utilizza tutti gli elementi nelle tue possibilità. Se sei
tagliato per la musica, dirigi la tua colonna sonora. Se sei
bravo a scrivere, fai la tua sceneggiatura. Se hai soldi, investi in apparecchiature. Se non hai nulla di cui sopra, assicurati di avere dei buoni amici.
V - Lavora con un budget, cast, troupe, location e tabelle di
riprese, minime. L’illuminazione artificiale non è necessaria. La storia regna. Tutto il resto segue.
VI - Lavora con ciò che hai. Fai uscire il bricoleur che è in
te. Non sei in ufficio. Accetta la tua attuale condizione.
Comincia da qui.
VII - Dimenticati le celebrità. Fottitene dello star system.
Lavora solo con coloro che vogliono lavorare con te, e coloro che sono devoti al gruppo. Evita i parassiti con agende
nascoste. Usa una macchina della verità se necessario.
VIII - Lavora con gente umile, paziente, appassionata e
coraggiosamente creativa. Ignora quelli che sono l’opposto.
IX - Se sei da solo non preoccuparti. La tecnologia digitale
ha reso la troupe un’opzione, anziché una necessità. Fare
un film da soli ora è possibile. Il passato è morto. Coloro
che non si adegueranno moriranno.
X - Prima crea, poi critica. Preoccupati della quantità. Dio
si preoccuperà della qualità, così è, presumendo che tu creda in Dio. Un regista fa film, punto.
I - Economics: A minute of celluloid film including processing
costs around P1500. A minute of digital film costs around P3.
Do the math. A galaxy of difference.
II - The only way to make a film is to shoot it. Shoot when you
can. Do not delay. If you can finish everything in a day, why
not? Sloth is the enemy of the Muse. The shadow filmmaker has
now run out of excuses.
III - Your digital camera will not turn you into an instant Von
Trier, Figgis, or Soderbergh.Your attitude towards filmmaking
should be that of an amateur: half-serious, playful, light, not
heavy, thus without baggage. There are no mistakes. The important thing is that you learn.
IV - Utilize all elements within your resources. If you have a
knack for music, score your own soundtrack. If you have writing
skills, craft your own screenplay. If you have money, invest in
gear. If you have none of the above, make sure you have good
friends.
V - Work with a minimized budget, cast, crew, location, and
shooting schedule. Artificial lighting is not a necessity. The story is king. Everything else follows.
VI - Work with what you have. Release the bricoleur within.You
are not a studio. Accept your present condition. Start here.
VII. - Forget celebrities. Fuck the star system. Work only with
those who are willing to work with you, and those who are dedicated to the craft. Avoid pretentious hangers-on with hidden
agendas. Use a lie detector if needed.
VIII - Work with humble, patient, passionate, and courageously
creative people. Ignore people who are the opposite.
IX - If you are alone, do not worry. Digital technology has
reduced the crew to an option, rather than a must. Making a film
by yourself is now possible. The past is dead. Those who do not
change will die.
X - Create first, criticize later. Take care of the quantity. God will
take care of the quality - that is, assuming you do believe in God.
A filmmaker makes films, period.
In the name of the revolution,
Khavn
In nome della rivoluzione
Khavn
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PROGETTOVIDEO
Nuovi possibili racconti
New possible stories
di Andrea Di Mario
by Andrea Di Mario
Tutto il mondo della produzione video soffre di una curiosa forma di anomia. Da un lato, c’è un pullulare di prodotti di ogni tipologia e durata, dall’altro una ricezione critica
che spesso non riesce a quantificarne il numero, a descriverne dinamiche, generi e generatrici culturali. Manca persino una terminologia appropriata. Le poche “messe a
punto” riguardano videoasti che hanno ottenuto il numero più alto di presenze nei festival: una situazione potenzialmente simile a quella dell’arte figurativa, senza però
nemmeno la ragione di un mercato! Obiettivo del Progettovideo è quindi di non fare della presentazione di tali opere
un semplice calembour ma tentare di far emergere una
identità di formato attraverso la varietà, presentando programmi di autori consolidati e mostrando opere inedite in
Italia.
Una continuità di temi formali che emerge in maniera evidente dalle Nuove Proposte Video internazionali di quest’anno, è il largo uso della tecnica assimilabile a quella
dello stop motion. Da parenti poveri del film, questi videoracconti prendono a somigliare più a forme di “bricolage
intellettuale”, specialmente laddove compare una narrazione intimista. La tecnica di giustapporre enne fotogrammi digitali, però, ha di nuovo la capacità di focalizzare
diversamente porzioni casuali di realtà, compreso naturalmente il dettaglio del corpo (What I’m Looking For). Contrariamente al racconto visivo tradizionale, il ritmo non è
più dettato dal movimento di macchina: col video si può
guardare una grande città con la stessa frequenza di battiti con la quale si osservano le diverse sezioni di una tomografia. Tali procedure si associano alla voce narrante come
dei veri e propri “correlativi oggettivi”. Di questo procedimento, nella sua versione assolutamente lineare, il francese Jean-Gabriel Périot ha fatto un severo principio (Dies
irae). L’ipervisibilità raggiunta dai media viene prima sbriciolata in migliaia di frammenti omologhi e poi rimontati
per una corsa folle, una ballata on the road, dove il formicaio irrefrenabile del mondo corre fino all’angolo più scuro di una camera a gas ad Auschwitz. Lo scopo del Progettovideo è dunque quello di tenere assieme una serie di coordinate e rendere più definito il gran calderone del mondovideo, con le sue incerte forme di vita: una sorta di nuovo
precinema allettato da una avanguardia senza ismi a cui il
laboratorio dell’animazione è stato sostituito da un desktop.
Così per la sezione Documentando, dove non a caso l’uso
del gerundio sta a significare la contemporaneità e la
modificazione apportata nell’ipotesi di lavoro sulla lettura
del reale. Il ritratto del pittore Leo Mingrone non è già un
ritratto ma una vivida rivendicazione di esistenza da un
qualsiasi angolo verde d’Europa (Oggidunque); la deformazione delle immagini chiaroscurali di una miniera diventa
una memoria pittorica (Mémoire carbone); la descrizione
assolutamente piana quando il paesaggio è distrutto
The entire world of video production suffers from a curious form
of namelessness. On the one hand, there is a swarm of products
of all types and lengths, on the other, a critical reception that
often cannot quantify its numbers or describe its dynamics, genres and cultural generators. Even an appropriate terminology is
lacking. The few “definitions” regard videomakers that have
obtained the highest number of spectators at festivals: a situation
potentially similar to that of the figurative arts, without, however, the existence of a market! Therefore, the aim of Progettovideo is not to create a simple kaleidoscope of these works, but
to attempt to allow a “format identity” to emerge through their
variety, presenting consolidated programs by auteurs, as well as
Italian premieres.
A continuity of formal themes that surfaces in a rather obvious
way from this year’s international Nuove Proposte Video is
the widespread use of a technique resembling stop-motion. Having started out as film’s underprivileged cousins, these video stories begin to resemble forms of an “intellectual do-it-yourself,”
especially there where an intimate narration exists. The technique of juxtaposing x amount of digital frames, however, once
again has the capacity to diversely bring into focus random portions of reality, naturally including details of the body (What
I’m Looking For). As opposed to the traditional visual story,
the rhythm is no longer dictated by the camera’s movement: with
video, one can look at a large city with the same frequency of
beats with which one looks at the different sections of a tomography. These procedures are associated with a narrative voice like
true “objective correlatives.” French videomaker Jean-Gabriel
Périot (Dies irae) has made a strict principle of this procedure,
in its absolutely linear version. The hyper-visibility achieved by
the media is first broken down into thousands of homologous
fragments and then re-edited to create a mad dash, an “on the
road” ballet, where the unstoppable seething of the world runs
over to the darkest corner of a gas chamber in Auschwitz. The
aim of Progettovideo is thus to contain a series of coordinates
and to render more definite the great melting pot of the video
world and its uncertain life forms: a kind of new pre-cinema
enticed by an avant-garde without “isms,” whose animation laboratory was replaced by a desktop.
The same holds true for the Documentando section, where is it
no coincidence that the use of the gerund signifies the contemporaneity and the modification borne of the working hypothesis
of the interpretation of the real. The portrait of painter Leo Mingrone is not yet a portrait but a vivid assertion of existence from
any random patch of green in Europe (Oggidunque); the deformation of the chiaroscuro images of a mine becomes a pictorial
memory (Mémoire carbone); the absolutely flat description
when a landscape is destroyed (Réminiscences d’un voyage
en Palestine); the globe of duo Dan Boord/Valdovino, who propose a bustling to and fro between the States and Mexico,
between models of development and tradition and Cold War
ghosts that become oxymorons of the image (Themes).
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(Réminiscences d’un voyage en Palestine); il mappamondo
del duo Dan Boord/Valdovino, che propongono un andirivieni tra States e Messico, tra modelli di sviluppo e tradizione con i fantasmi della guerra fredda che diventano
ossimori dell’immagine (Themes).
Altro intento di questo portolano è quello di offrire dei
ritratti in fieri di autori mostrati nel mezzo del proprio
lavoro. La scelta è stata volutamente antitetica: la cosmopolita Laura Waddington, “in forze” al collettivo della Sixpack, e l’italiano Carlo Michele Schirinzi. La prima, indagatrice di viaggiatori e viaggi prima interiori, che descrive
come appostata; il secondo concentricamente impegnato a
muovere una marionetta che è lui stesso, in lotta tra pulsioni e ridicolo, da dentro una casa di Acquarica del Capo,
in Puglia, per proiettarsi nell’infinito del volo e del sogno.
Vicende diversissime, ma unificate nel paziente lavoro di
adattamento tra il mezzo video e un dettato arduo: barattare lo stile personale con un riverbero di pixel.
Medesime differenze che corrono tra le Nuove Proposte
Video internazionali e quelle italiane. Nelle prime, nitore
formale ed economicità di stile; fissità, deformazione,
metaforizzazioni larghe, tic e volute forzature nelle seconde (Miserere, Candidato a sette premi Oscar, Mucche), fino
all’autoritratto femminile in interno, quotidiano e pensoso
di Tutto il mio tempo.
Infine, la retrospettiva dedicata al collettivo siciliano di
Cane CapoVolto, che situa tutta la sua produzione sul confine affatto certo del rapporto finzione/mistificazione, così
che l’avanzare del loro lavoro corrisponde allo scoprimento delle origini della monumentale bugia del media-messaggio. Con ironia. Come in questi casi si fa.
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Another intent of this portolano is to offer in fieri portraits of
auteurs presented in the midst of their oeuvre. Our choice was
purposely antithetical: the cosmopolitan Laura Waddington,
part of the Sixpack collective, and Italy’s Carlo Michele Schirinzi. Whereas Waddington is an investigator of travelers and
travels first and foremost interior, which she describes from a
“hiding place,” Schirinzi is concentrically committed to moving
the marionette that is himself, battling between impulses and the
ridiculous, from inside a house in Acquarica del Capo, in Puglia,
to project himself into the infinite of the flight and the dream.
Highly different approaches, but unified in the patient adaptation of their work, between the video medium and an arduous
dictate: bartering their personal style with a reverberation of pixels.
The same differences exist between the international and Italian
Nuove Proposte Video. In the former, formal clarity and economy of style; steadiness, deformation, broad metaphors, tics and
deliberate straining in the latter (Miserere, Candidato a sette
premi Oscar, Mucche), to the intimate, daily and thoughtful
feminine self-portrait in Tutto il mio tempo.
Last, but certainly not least, is the retrospective dedicated to
Sicilian collective Cane CapoVolto, whose entire body of work
resides along the distinct border between fiction and mystification, so that their creative progress corresponds to the witty discovery of the origins of the media message’s monumental lie.
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Giorni e anni viaggio
The Days and Years of My Travels
di Olaf Möller
by Olaf Möller
Laura Waddington ha paura di volare: non prende mai
l’aereo (quasi mai...). Viaggia in pullman, in treno o con la
nave. Quest’ultima, in un certo senso il mezzo di trasporto più antico, è stata l’ambientazione di due video, Zone
(1995) e Cargo (2001). Questi mezzi un po’ fuori moda vengono utilizzati ancora oggi da chi non può concedersi il
lusso del tempo (il treno, tra l’altro, non è mai prima classe, sempre seconda o terza, e per nave si intende una nave
da carico, non da crociera). Così il mondo scorre un po’ a
ritroso e nel passato ritrova una dimensione più naturale.
È il ridosso del XIX secolo, che ben si adatta a un’opera con
un’agenda sociale che alla gente di oggi – la società di
aereo-internet-cellulare – può apparire ormai superata, ma
non lo è per la maggioranza delle persone che popolano il
nostro pianeta, la Terra. Il ritmo lento fa percepire i particolari e le unicità, nulla a che vedere con leggerezze del
tipo “Questo o quel film di Taiwan esprimono perfettamente il disagio economico del Perù” oppure “Questo è il
modo in cui il mondo si guarda da un aeroplano che sfreccia nei cieli annullando confini, persone, culture e dissolvendo tutte le differenze in un unico movimento superficiale”. È la percezione del mercato, della gestione, della
“Globalizorama”.
Laura Waddington, invece, è sempre in un luogo preciso,
attraversa terre e mari, spesso per settimane e mesi, fino a
integrarsi con il momento, con il luogo e con il tempo,
assaporandone il gusto particolare. È un modo di muoversi nel mondo che ci ingloba, spesso negli stessi quartieri,
con la gente che passa e se ne va, senza notarla o comunque dando per scontata la loro presenza. Per avere un’esperienza completa di questi viaggi e dei potenziali che
nascondono, si deve essere sufficientemente aperti e
riuscire ad accettare le proprie necessità occasionali, come
il bisogno di aiuto, di cibo, di protezione, di amore e di
amicizia; non si deve avere paura, ci si deve aprire anche
agli stranieri e comprendere la loro gentilezza.
Tutto ciò non si evince dalle opere, o meglio, è presente ma
non affiora in superficie e diventa chiaro solo attraverso la
conoscenza (quando presenta le sue opere, presto o tardi
Laura Waddington inizia a parlare della sua paura di volare e di come questo problema abbia influenzato il suo
approccio artistico...).
Un altro tipo di approccio, una sorta di traiettoria o di vettore, si trova invece nelle opere stesse, che rappresentano
sempre il punto di partenza migliore. Non è necessario
andare troppo in profondità, è al di fuori di esse, negli spazi aperti, che le opere di Laura Waddington parlano con il
cuore in mano, perché vogliono, hanno bisogno di essere
comprese. Dalla sua opera prima The Visitor (1992) all’ultima, Border (2004) – dopo la quale, ha dichiarato, deve accadere qualcosa di completamente diverso – tutta la sua filmografia descrive una sorta di movimento verso gli spazi
aperti: dai locali chiusi degli ambienti lavorativi e domestici in The Visitor, nasce un desiderio che è (anche) la
necessità di fuggire; quindi si passa a Zone e Cargo e gli
spazi racchiusi dei viaggi in nave in compagnia degli
uomini più disgraziati del mondo, marinai le cui condizioni di lavoro e di vita sono considerevolmente peggiorate
Laura Waddington is afraid of flying: She doesn't board
planes, ever (well, almost never...). Instead, she travels by bus
or train or ship – the latter, the most archaic in a lot of ways,
being the locus of two videos, Zone (1995) and Cargo (2001).
Old-fashioned ways used nowadays mainly by those lacking
the funds for luxuries such as time (by the way: train never
means 1st, buy always 2nd or 3rd class, and ship more often
than not means freighter, not cruiser). The world slows down
this way, while growing back again to an older yet more natural size. It's 19th century redux, befitting an oeuvre with a
social agenda that for so many of the airplane-internet-mobileset (Today's People) may seem passé yet is not for the majority of human beings on this planet, Earth. The slowness makes
one see peculiarities and uniquenesses – no such flippancies
like “This-and-that film from Taiwan perfectly expresses the
economic malaise of Peru,” or “That's the way the world looks
from an airplane hurrying the skies across borders and peoples
and cultures, blurring all differences into a single superficial
movement.” It's the perception market, of management: Globalizorama.
Laura Waddington, instead, is always precisely There, crossing all those land and seascapes, often for weeks and months,
becoming one with the moment, place and time, savouring its
particular flavour. It's a way of moving in the world which
gets one close to – often in the same quarters with – people others simply pass by, without noticing them or simply taking
their presence/service for granted. To fully experience such
journeys, and their potential, one has to be open and willing
enough to accept one’s occasional needs – for help, food, shelter, love and/or friendship – and one also has to be unafraid of
and open towards strangers and their kindness.
One cannot see this in the works themselves. Or rather, it's
there, but not on the surface, it becomes present only when one
knows. (When introducing her works, Waddington more often
than not pretty soon starts talking about her fear of flying and
how that influences her artistic approach/process, so....)
Another approach, actually a kind of trajectory or even vector,
is to be found in the works themselves, always the best place to
start anyway. One doesn't need to look too deep, it's pretty
much out there in the open, for Waddington's works carry
their heart on their sleeve, as they want, need to be understood. Starting with her 'maiden film,' The Visitor (1992),
and ending with Border (2004) – after which, she says, something completely different has to come and happen – the work
“describes” a movement out into the open. From the enclosed
spaces of work and home in The Visitor, breeding desire which
is (also) the need to get away – each fuck another country, and
each desire squashed the go-by-go nobody wants; to Zone and
Cargo and the enclosed spaces of journeys by ship in the company of some of the most wretched human beings on earth, seaman whose working/living conditions have considerably worsened in the last 20, 30 years. A tribe of the working class that
in several ways has no fatherland. More often than not they're
prisoners of their vessels, its flag, as well as their own passports (if they have one); they can't leave when the ship enters
a harbour; and more often than not they have to contain with
looking at yet another country. On to a most symbolic final
destination, the Red Cross-refugee camp at Sangatte in Bor-
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negli ultimi 20, 30 anni, una sorta di classe operaia che sotto molti punti di vista non ha più una patria: spesso sono
prigionieri della loro nave, della loro bandiera e del loro
passaporto (sempre che ne abbiano uno), non possono
andarsene quando la nave entra in un porto e non devono
neppure guardare ad altri paesi con troppo interesse. Con
Border, infine, si approda a una destinazione quasi simbolica, il campo dei rifugiati di Red Cross a Sangatte , dove la
regista è rimasta per mesi insieme ai rifugiati afgani e iracheni, uomini e donne che avevano percorso migliaia di
chilometri per sfuggire alla loro sorte e che stavano cercando di intraprendere una corsa illegale attraverso un
tunnel che porta a un’altra terra promessa, una terra di
gloria e speranza. Questo è l’unico video girato interamente all’aperto con i rifugiati, silhouette che si muovono
nell’oscurità incontro al vento e alla pioggia e attraversano
paesaggi anonimi a vedersi, ma conosciuti per nome dalla
voce narrante, Laura Waddington. Che il suo primo viaggio cinematografico – la sua intera opera è un viaggio verso se stessa – si concluda tra i rifugiati, trova una certa logica nella vita di Laura Waddington: ha vissuto per molti
anni da immigrante illegale negli Stati Uniti e attualmente
vive in Francia non senza problemi. Nella sua vera patria,
l’Inghilterra, non vuole rimanere per ragioni artistiche.
Quindi, in un certo senso, in Border c’è anche Laura Waddington, finalmente capace di guardare in faccia la realtà,
mentre per molto tempo aveva avuto perfino paura di
guardare attraverso la videocamera e di girare da sola le
sue immagini.
Per realizzare The Lost Days (1997) ha chiesto ad amici in
tutto il mondo di girare alcune immagini che lei ha poi
rifilmato fino a ottenere un effetto omogeneo, come di
qualcuno che non sta realmente guardando, ma passa e
registra; Zone, invece, è stato girato con una videocamera
nascosta che sembrava filmare ‘accidentalmente’. In Cargo,
Laura Waddington guarda ancora attraverso il mirino, gira
le immagini, ma non sembra essere molto presente, o
comunque sembra non dimostrare un grande entusiasmo.
Con Border si potrebbe invece dire che abbia finalmente
trovato se stessa: in ogni immagine si respira una compassione eroica di dimensioni quasi kurosawiane, in ogni
movimento una precisione che rappresenta la testimonianza gloriosa della crescita e dell’apprendimento frutto di
tutti questi anni passati sulla strada.
Eppure in quel viaggio qualcosa si è perso: la necessità di
farsi scudo dietro uno strato di finzione. Rispetto alle opere successive, The Lost Days è per molti aspetti un’opera fittizia. La storia della donna che fugge da una relazione che
sta naufragando è fittizia, esisteva già prima delle immagini. E anche nelle immagini c’è finzione, perché sono girate da molte persone ma trasformate da un’unica mano. E
c’è anche un altro strato: non è Laura Waddington a narrare la storia, quindi a autenticare le immagini. Il prologo è
affidato alla voce di Chantal Akerman (che in un certo senso rispecchia il prologo della sua Histories d’Amerique: Food,
Family and Philosophy, 1989) mentre la storia vera e propria
è raccontata da Marusha Gagro. Detto ciò, The Lost Days
resta la storia di una persona estranea a se stessa che gira
il mondo ma vede sempre le stesse cose, un io un po’ indistinto con cui non ci si può confrontare, la propria solitudine, (in The Visitor e The Lost Days l’omosessualità diventa il simbolo dell’emarginazione dei protagonisti, disorien-
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der, where she stayed for months with refugees from
Afghanistan and Iraq, men and women who have crossed
thousands and thousands of miles escaping certain-seeming
doom and who are now trying to catch an illegal ride through
the channel tunnel to yet another promised land, the one of
hope and glory – it's her sole video essentially set only in the
wide open, with refugees, silhouettes in the sheltering darkness, moving in the wind and the rain, crossing landscapes,
anonymous to the eye yet known by name to the narrator, Laura Waddington.
That her first cinematographic journey – for that is what her
oeuvre has been till now, a journey, also into herself – would
end among refugees has a certain logic in Waddington's own
life. She lived for several years as an illegal immigrant in the
USA, and her current life in France is also not without problems; in her fatherland, England, she doesn't want to stay, for
artistic reasons.
So, in a certain way it's also Laura Waddington standing
there in Border, finally being able to face that which is there.
Because for a long time she was afraid of even looking through
a camera, making the images herself. The Lost Days (1997)
was made by asking friends around the world to shoot some
images for her which she then refilmed and refilmed until they
got the unified look of somebody not really looking, just passing and taping. Zone, then, was made with a spy camera filming 'accidentally.' Cargo, it's true, has Waddington again
looking through the viewfinder, making the images, but it
seems that she's still a little reluctant to truly be there – or,
let's say, she's getting back into the motions. With Border she
has, if one might say so, finally found herself: There's a heroic
compassion of quasi-Kurosawian dimensions to each image, a
justness to each movement that in its humbleness speaks gloriously of all the growth and learning done in all those years
on the road.
Also, something got lost on that journey: The need to shield
oneself by a layer of fiction. The Lost Days is, if compared
with Waddington's following works, fictitious on several levels. There's the fiction of the story – a woman running away
from a relation(=)ship wreck, a story that was there before the
images. And there's the fiction of the images made by so many,
yet made over by just one. And then there's another layer:
Waddington doesn't narrate the story herself – and thereby
authenticate the images? (That too.) There's the voice of
Chantal Akerman for the prologue (somewhat mirroring the
prologue of her Histories d’Amerique: Food, Family and
Philosophy, 1989), and there's Marusha Gagro for the story
itself. That said, The Lost Days is actually supposed to be the
story of somebody alien to oneself: Travelling the world but
seeing only the same everywhere that, in the end, is the
blurred self one cannot confront, one’s loneliness (in The Visitor and The Lost Days homosexuality becomes, for the selfcentred/lost protagonists, a symbol of exclusion. Men reject
her in her essence.… Read: The body as prison, a fortress of
solitude). Zone and Cargo both still feature comparable stories of love lost/fled, but in a more muted key and used more
obviously as distancing devices. It ends with Border: There’s
no need anymore to distance oneself – now, there's the need for
contact, to be there.
Finally, there’s something deeply erotic to Waddington’s
works, particularly since The Lost Days, when she stopped –
out of material necessity at the time – working with images
running at normal speed and started using slowed down
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tati e autocentrati. Gli uomini la rifiutano nella sua essenza.… ovvero: il corpo è una prigione, una fortezza di solitudine). Zone e Cargo sono storie di un amore perduto o
abbandonato, raccontate però un po’ più in sordina e utilizzate per prendere una certa distanza. La conclusione
arriva con Border: non è più necessario distanziarsi – adesso è il momento dei contatti, adesso bisogna esserci.
Nelle opere di Laura Waddington c’è anche qualcosa di
profondamente erotico, in particolare in quelle successive
a The Lost Days, quando ha smesso di lavorare con le
immagini a velocità normale e ha cominciato a utilizzare
immagini a rallentatore, rese ancora più passionali dalle
musiche di Simon Fisher Turner. Il viaggio diventa un tutt’uno con l’amore, i momenti interminabili e iperpresenti
diventano memorie quasi afferrate, un modo in cui si cerca di prolungare il flusso e i fugaci attimi di passione. La
differenza tra passione e compassione scompare, i confini
si dissolvono e ogni corpo diventa un vascello di cambiamenti.
moments made more passionate by Simon Fisher Turner’s
soundscapes. Travelling becomes one with loving, the drawnout, hyper-present moments become memories grasped at, the
way one commonly tries to elongate the flow, and the fleeting
moments of passion. The difference between passion and compassion vanishes, borders fall, each body becomes a vessel of
change.
Biografia:
Nata a Londra nel 1970, Laura Waddington ha studiato letteratura all’Università di Cambridge. Quindi, si è trasferita a
New York, dove ha realizzato cortometraggi e video, interessandosi a mezzi di produzione alternativi. In particolare,
ha lavorato con una mini cinepresa nascosta addosso, girando un film con quindici persone via Internet. L’interesse verso la campionatura di immagini e di suoni la porta a collaborare con il compositore inglese Simon Fisher-Turner. Dopo
aver lasciato New York, nel 1998, ha vissuto a Lisbona, Parigi e Barcellona. La sua filmografia comprende: The Visitor
(1992), The Room (1994), Zone (1995), Letters to my mothers (1996), The Lost Days (1999) e Cargo che prefigura l’ultimo lavoro, Border. Le sue opere sono state presentate in numerosi festival internazionali, tra cui New York, Rotterdam, Montreal, Locarno e Pesaro.
Biography:
Born in London in 1970, Laura Waddington studied literature at the University of Cambridge. She later moved to New York, where
she became interested in alternative ways of making short films and videos. In particular, she worked wearing a hidden mini-camera and also shot a film with fifteen people through the Internet. Her interest in sampling images and sounds led to her collaboration with English composer Simon Fisher-Turner. After leaving New York in 1998, she lived in Lisbon, Paris and Barcelona. Her
filmography includes: The Visitor (1992), The Room (1994), Zone (1995), Letters To My Mothers (1996), The Lost Days
(1999) and Cargo, her last project before Border. Her work has been presented at numerous international festivals, including New
York, Rotterdam, Montreal, Locarno and Pesaro.
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Intervista a Laura Waddington
Interview with Laura Waddington
con Olaf Möller
by Olaf Möller
Quando ha incominciato a interessarsi al cinema? E come sono
nati i suoi primi film?
Quando ero ragazzina e vivevo a Londra, per me esistevano soltanto i film di Hollywood. Il mio interesse per il cinema nasce più dalla curiosità verso i registi che verso i film.
Mio padre aveva una galleria d’arte e spesso alcuni dei
suoi clienti ci invitavano alle loro serate. La cena con Sam
Peckinpah è uno dei ricordi più belli della mia infanzia.
Peckinpah raccontò una barzelletta in cinese a uno dei
camerieri, che se ne andò dalla stanza molto adirato. Non
ho mai dimenticato la commistione di sadismo ed estrema
gentilezza negli occhi di Peckinpah e ricordo ancora i suoi
racconti sul deserto e sul set di un film. Già molti anni prima di vedere i suoi film, ero sicura che fossero tra i più belli mai girati. Qualche anno più tardi, Derek Jarman venne
nella nostra scuola. Invece di sedersi dietro la cattedra, si
sedette sopra e dondolando le gambe, parlò con entusiasmo ed estrema semplicità del suo lavoro di regista. Mi
lasciò l’impressione che il cinema non fosse parte di un
macchinario commerciale più complesso, ma che fosse
qualcosa di molto più personale e più libero. Volevo iscrivermi alla scuola di cinema, ma ero ancora troppo giovane
e decisi di studiare letteratura inglese all’università di
Cambridge. Dopo poche settimane smisi di andare a lezione e cominciai a frequentare regolarmente un cinema d’essay locale. In maniera del tutto casuale scoprii Murnau,
Tarkovski, Jack Smith, Vigo, Jean Genet. Trascorsi i tre anni
successivi a guardare film e leggere libri. Decisi che dovevo fare un film il più presto possibile e appena compiuti 21
anni partii per New York. Lavorai a film indipendenti e
girai il mio primo film, The Visitor, con alcuni amici, in una
camera d’albergo, in un solo weekend.
How did you actually get interested in cinema? How did
your first films happen?
When I was growing up in London, I didn’t realise anything
except Hollywood films existed. It was filmmakers who first got
me interested in cinema rather than actual films. My father has
a gallery. He’d sell paintings to all kinds of people and from a
young age I’d go to eat with some of them. One evening we ate
dinner with Sam Peckinpah. It’s one of the strongest memories of
my childhood. Sam Peckinpah made a joke to one of the waiters
in Chinese, which caused the waiter to storm out. I’ve never forgotten the mixture of sadism and extreme gentleness in Peckinpah’s eyes and how he talked of the desert and a film set. It was
years before I got to see his films, which I think are some of the
most beautiful ever made. Later, Derek Jarman came to our
school. Instead of sitting behind the desk, he sat on top of it and,
swinging his legs, talked with such enthusiasm and simplicity
about making films. He created in my mind the idea that cinema
did not have to be part of a huge commercial machinery but that
it could be something personal and free. I wanted to go to film
school but was too young so studied English literature at Cambridge University. After a few weeks, I stopped going to classes.
There was a local art cinema and I started going almost every
day. I randomly discovered Murnau, Tarkovski, Jack Smith,
Vigo, Jean Genet. For the next three years I sat in the cinema and
read books in the library. I decided I should try and make films
as quickly as possible so when I was when 21, I left for New York
and worked on independent films. I shot my first film, The Visitor, with friends in a in a hotel room in a weekend.
Perché ha deciso di passare dai film ai video – oltre all’aspetto
economico (che generalmente è solo un altro modo di dire: la mia
visione non rientra in questo particolare sistema economico...)?
A New York conobbi dei musicisti che producevano e distribuivano musica fuori dai loro appartamenti. Mi impressionò molto il modo in cui cercavano di aggirare le strutture di produzione tradizionali. Ebbi la sensazione che
anche i film si sarebbero potuti muovere in questa direzione e che avrei dovuto cominciare a usare il video. A quel
tempo i video venivano ancora snobbati e non erano considerati un’alternativa credibile ai film. All’inizio ebbi non
poche difficoltà a lavorare con il video, essendo abituata a
utilizzare la pellicola da 16 mm in bianco e nero che crea
immagini più astratte. L’immagine video mi appariva ben
più immediata, come la televisione, ma apprezzavo moltissimo la libertà di poter lavorare da sola con una piccola
videocamera. Scoprii che c’erano molte possibilità e che i
video spesso erano la summa delle loro casualità. In questo senso posso dire che il video ha cambiato totalmente il
mio modo di fare film. Con i miei film raccontavo una storia già scritta, girata in uno spazio chiuso. I video, invece,
sono sperimentali e si evolvono durante la realizzazione.
Ha girato Zone con una telecamera nascosta. Una domanda un
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Why did you change from film to video -- besides economics (which is usually just another way of saying, “My
vision doesn't fit into this particular economic system...”)?
In New York, I met electronic musicians who were producing
and distributing music out of their apartments. They were circumventing the traditional production structures and this really impressed me. I had the feeling film would eventually move in
this direction and that I should start using video. At that time,
there was still a lot of snobbery about video. It wasn’t considered
a credible alternative to film. At first, I found video difficult to
work with, I’d been working with black and white 16mm film,
which abstracts things. The video image felt very immediate, like
television. But I loved the freedom of being able to work alone
with a small camera. I found there was room for chance and that
the videos were often a sum of their accidents. In this sense, I can
say video totally changed my way of filmmaking. With my films,
I was imposing a pre-written story: making fiction and shooting
in enclosed spaces. The videos are experiments and evolve out of
things discovered along the way.
You shot ZONE with a spy cam. Strange question maybe,
but: In how far was your life influenced by the presence of
this tool, did it make you walk ways you wouldn't have
otherwise?
At first, I kept viewing video in terms of film, like a poor relation.
I thought I had to find a way to make it my own. So I made the
decision to film without using my eyes in order to completely
unlearn. I hoped that if I worked in this way when I came back
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po’ insolita: in che misura questo apparecchio ha influenzato la
sua vita e le ha fatto scoprire strade che altrimenti non avrebbe
percorso?
All’inizio continuavo a considerare i video come se fossero un po’ i parenti poveri dei film. Volevo trovare una strada mia, completamente autonoma. Così decisi di filmare
senza usare i miei occhi, per affrancarmi completamente.
Pensavo che se avessi lavorato in questo modo, quando
avrei ricominciato a usare una normale videocamera
sarebbe stato come filmare per la prima volta. Comprai
una spycam e la cucii al posto di uno degli specchietti circolari che adornavano il mio gilè turco, quindi mi imbarcai
su una nave da crociera che attraversava l’Atlantico. Sulla
nave non avevo modo di vedere quello che filmavo e
dovetti imparare a fidarmi del movimento del mio corpo.
Mi accorsi quasi subito che l’angolazione non era buona
perché la videocamera era rivolta troppo verso l’alto, perciò fui costretta ad adottare una andatura molto strana, un
po’ ingobbita.
to using a normal video camera it would be like filming for the
first time. I bought a spy camera and sewed it into a Turkish
waistcoat. The waistcoat was covered in small circular mirrors
and I removed one of the mirrors and put the camera in its place.
Then I boarded a cruise ship, crossing the Atlantic. On the ship
I had no way of seeing what I was filming and had to learn to
trust the movement of my body. After a while I realised the angle
wasn’t good – the camera was sloping upwards, so I had to adopt
a very strange walk, my shoulders hunched over.
Si definirebbe di più una persona che trova o una persona che
cerca qualcosa?
Spesso non capisco cosa sto facendo e dove sto andando.
Quando giro un video, per me è molto difficile spiegare
con le parole le mie intenzioni. Da qui nascono i problemi
per ottenere i fondi per la produzione. Io lavoro in modo
molto istintivo e per me il metodo – incontri, amicizie e
casualità – è importante quanto il risultato. Nel momento
in cui trovo qualcosa, sto già cercando qualcos’altro.
Could you talk a little about the way you created the
images for The Lost Days, and the necessities behind it?
After making ZONE, I wrote The Lost Days, which is a story
about a woman travelling around the world, sending back video
letters to a friend in New York. I was living illegally in the States
so I couldn’t travel. I decided to search for people in 15 countries
over the internet and to ask them to videotape their cities for me,
as if they were the woman in my story. My aim was to refilm and
bring together all these images so that a person watching the
completed video would believe they were watching one person’s
journey. The footage I received was very diverse. Some people
filmed two hours of footage, others ten or fifteen; some had filming experience while others had never used a camera before.
There were also technical constraints: as people had filmed all
over the world, some had recorded in the European system PAL
and others in the American/Japanese video system NTSC. I
bought a lot of old video equipment and set about filming and
refilming the images off TV screens, passing them through
colour correctors, refilming again and again. Finally, the video
reached a point where the images were so broken up that the difference in video system no longer mattered and slowly the
footage began to give the impression it had all been filmed by one
person.
Come sono nate le immagini di The Lost Days e quali sono le
ragioni che si nascondono dietro questo film?
Dopo aver girato Zone, ho scritto The Lost Days, la storia di
una donna che fa il giro del mondo e invia ‘videolettere’ a
un amico di New York. In quel momento vivevo illegalmente negli Stati Uniti, quindi non potevo viaggiare.
Attraverso Internet, cercai gente in quindici paesi e chiesi
loro di filmare per me le loro città, come se fossero la donna della mia storia. Il mio obiettivo era di rifilmare e mettere insieme tutte queste immagini, in modo che chi avesse visto il video avrebbe pensato che fosse il viaggio di una
sola persona. Il materiale raccolto era molto vario. Alcuni
hanno filmato due ore, altri dieci o quindici, alcuni avevano già esperienza, mentre altri usavano la videocamera per
la prima volta. Inoltre mi sono trovata di fronte a non
poche difficoltà tecniche: poiché le riprese provenivano da
tutto il mondo, alcune erano registrate nel sistema europeo
PAL e altre nel sistema americano/giapponese NTSC. Ho
comprato un vecchio equipaggiamento video che spiegava
come filmare e rifilmare le immagini dalla TV, passandole
attraverso i correttori di colori e rifilmandole ancora e
ancora. Alla fine le immagini erano così frammentate che
la differenza del sistema video non era più così grande e il
materiale cominciò lentamente a dare l’impressione di
essere stato filmato da una sola persona.
Se non sbaglio, in alcune occasioni le immagini che si vedono
non sembrano provenire dal luogo suggerito dalla voce...
Esatto. Le immagini non corrispondono sempre ai paesi
mezionati dal narratore. Ad esempio la protagonista racconta della sua infanzia in Argentina su immagini di Milano e Mosca, oppure parla di una visita a La Paz su imma-
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Are you more somebody who finds or somebody who
looks for something?
I often don’t understand what I’m doing or where I’m going.
When I make a video it’s very difficult for me to put into words
what it will be. This creates a problem for getting production
funds. I work instinctively and the process is as important to me
as the result – the meetings, friendships, and accidents that happen along the way. By the time I find something, I’m already
looking for something else.
Am I mistaken that on occasion the images one sees are not
from the location suggested by the voice?
Yes. The images don’t always correspond with the countries the
narrator mentions. For example, she talks of her memories of her
childhood in Argentina over shots of Milan and Moscow, or
speaks of a visit to La Paz over images of China. At one point,
there are faces of men in a bus in Datong, while she talks about
watching Johnny Guitar in a cinema in Paris. I wanted the
countries to merge into one in this way because for me it is a story about a woman who passes through places without really
understanding them. It is my fear about travelling – the idea
that one can end up just imposing one’s preconceptions on a
place, finding only the things one wants to find, not taking the
time to really look. In that sense, the word “lost” in the title also
refers to her.
Did you, in the times of The Lost Days and ZONE when you
were working with 'quasi-aleatorically arrived-at' pictures,
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gini della Cina. A un certo punto si vedono dei volti di
uomini in un bus a Datong, mentre si parla di andare a
vedere Johnny Guitar in un cinema di Parigi. Volevo che
tutti i paesi si fondessero in uno solo perché questa è la storia di una donna che attraversa molti posti senza comprenderli realmente. È la mia paura di viaggiare, l’idea che
si possano imporre i propri pregiudizi su un luogo, trovando solo le cose che si vogliono trovare, senza prendersi il tempo di osservare realmente. In questo senso la parola “lost” (perduti) del titolo si riferisce anche a lei.
Al tempo di The Lost Days e Zone, quando stava lavorando
con immagini ‘arrivate in modo quasi aleatorio’, ha mai pensato
di smettere del tutto di filmare e lavorare esclusivamente sulle
immagini di altre persone?
In quei pochi anni non ho girato nemmeno una sola immagine per me stessa. Ho utilizzato la videocamera soltanto
per un paio di lavori su commissione, come video per
coreografi, moda e artisti, oppure per rifilmare le immagini nel modo che ho descritto per Zone e The Lost Days. L’intero processo di realizzazione di questi film e la mia decisione di non girare altre immagini durante questi anni rappresentano una scelta ben precisa. Quando ho cominciato
a girare i video, li ho sempre paragonati ai film. La mia
speranza era che se non avessi filmato nulla per alcuni
anni, quando avrei ripreso sarebbe stato come filmare per
la prima volta. Speravo così di riuscire a non paragonare i
video ai film e di accettarli per quello che sono. Questo è
quello che è successo quando ho cominciato di nuovo a filmare per Cargo e Border. Sono arrivata ad amare il video
perché rappresenta quasi una forma di scrittura.
Ha trovato una sorta di sicurezza negli sguardi delle altre persone o, al contrario, è stato forse per una percezione del pericolo che
ha cominciato di nuovo a guardare attraverso un mirino?
In verità ero molto frustrata e per me è stato difficile rimanere tutto questo tempo senza filmare. Ma io ho paura di
filmare, perché filmare qualcuno è un’enorme responsabilità. Credo che la videocamera non catturi soltano la superficie, ma vada anche in profondità, in modo molto sensibile e intimistico. Credo che la videocamera possa essere
anche estremamente violenta.
Perché ha sentito la necessità di parlare di amore e desiderio in
tutte le sue opere, ad eccezione di Border?
Mentre giravo Zone e The Lost Days non avevo alcuna idea
di quale sarebbe stata la trama definitiva. Durante la fase
di editing ho cercato di creare una linea guida, una sorta di
movimento attraverso lo spazio. È stato solo dopo aver
trovato questa forma che ho scritto i voice-over. A posteriori, credo che sia stato un errore introdurre gli elementi
d’amore nei voice-over. Le immagini e l’editing sono stati
un esperiento. Nei voice-over ho cercato di inserire una
sorta di idea preconcetta di ciò che ritenevo dovesse essere il cinema, o meglio di quello che speravo potessero essere i miei film. Invece di esplorare quello che avevo di fronte a me, andavo troppo avanti oppure ritornavo sempre
sugli stessi passi. Con Cargo ho cercato di unire il documentario e la fiction. Per me era molto importante che il
pubblico si interrogasse sulla veridicità della narrazione.
Nei voice-over ho incluso di proposito alcune contraddizioni; all’inizio, ad esempio, dico che non ho parlato per
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ever consider to stop shooting at all and work only with
other peoples' images?
During those few years I didn’t shoot any of my own images. The
only time I used a camera was to shoot commissions for people,
for example, videos for choreographers, fashion and art people or
to refilm images in the way I’ve described for ZONE and The
Lost Days. The whole process of making those films and my
decision to not to shoot during those years was a very definite
choice. When I first started shooting video, I was constantly
comparing it to film. My hope was that if I didn’t shoot for a few
years; when I finally started to shoot again it would be like filming for the first time. I hoped that then I’d stop comparing video
to film and accept it for what it is. And that’s what happened
when I started shooting again for CARGO and Border. I came
to love video for being a kind of writing.
Is there maybe a kind of safety in other peoples' gazes, and
was there some kind of sense of danger that made you
look through a viewfinder again?
Actually, it was very frustrating and difficult to not film for so
long. But I am afraid of filming. For me to film someone is an
enormous responsibility. Because I don’t believe a camera just
captures the surface but also something underneath. And that’s
very sensitive and intimate. I think a camera has the potential to
be very violent.
Why did you feel the need to talk about love and desire in
all of your works save for Border?
While I was making ZONE and The Lost Days, I didn’t have
any idea of what the final narrative would be. During the editing process, I just concentrated on creating a sort of line or trajectory, a kind a movement through the space. It was only after
I’d found this form that I wrote the voice-overs. In retrospect, I
feel the love element in the voice-overs was a mistake. The images
and my editing were experiments. In the voice-overs, I think I
was imposing a sort of preconceived idea of what I felt cinema
should be or what I wished my films could be. It feels a bit like a
stepping back or pulling away, instead of exploring what was in
front of me. With CARGO, I wanted to make something between
documentary and fiction. It was very important for me that the
audience question the veracity of the narrative. I purposely
included certain contradictions in the voice-over; for instance at
the beginning I say that I did not speak all summer but later it
becomes obvious that this cannot be true. CARGO is spoken in
the form of a letter to a man in Paris. But during the video this
form becomes almost redundant. In the last lines, I speak of a
phone call I received from one of the sailors. For me, the pull of
the sailor and the people I’d filmed had become stronger than my
interest in writing to that man. At the end, I explain that “I never got round to telling you where I’d been.” After CARGO, I
realised the letter form no longer fit and that I had to find a new
way. Afterwards, with BORDER, I had the constant feeling I
couldn’t communicate what I’d seen in Sangatte. I knew it was
impossible for me to speak from the point of view of the refugees.
All I could do was speak about what it is to come from a society
that allowed this situation to happen. I knew I could only leave
a very small and incomplete trace. I think BORDER is a video
full of loneliness, and one in which I am mistrustful of my own
attempt to speak. In the voice-over, I tried to say very little and
to talk in an understated way, in the hope the audience would
keep in their minds the incompleteness of the picture I gave. In
the last moments of the video, the camera freezes on some car
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tutta l’estate, ma in seguito si capisce che ovviamente non
può essere vero. Cargo è raccontato sotto forma di lettera a
un uomo di Parigi. Durante il video, però, questa forma
diventa troppo ridondante. Nelle ultime righe parlo di una
telefonata che ho ricevuto da uno dei marinai. L’attrazione
per il marinaio e per le persone che ho filmato, per me era
diventata più importante del mio interesse a scrivere a
quell’uomo. Alla fine, spiego, “Non sono riuscita a raccontarti tutti i posti dove sono stata.” Dopo Cargo ho capito
che la forma della lettera non era più adatta e che dovevo
trovare una nuova strada. In seguito, con Border, ho avuto
sempre la sensazione di non riuscire a comunicare quello
che ho visto a Sangatte. Sapevo che per me era impossibile parlare dal punto di vista dei rifugiati e l’unica cosa che
potevo fare era parlare di quello che potrà venire da una
società che permette questa situazione. Sapevo che avrei
potuto lasciare soltanto una traccia piccola e incompleta.
Credo che Border sia un video pieno di solitudine in cui, io
per prima, diffido del mio stesso tentativo di parlare. Nel
voice-over ho cercato di dire il meno possibile e di parlare
in modo comprensibile, nella speranza che il pubblico
potesse ricordare l’incompletezza delle mie immagini.
Negli ultimi istanti del video la telecamera si ferma sui fari
anteriori di alcune macchine, mentre io mi rivolgo direttamente a un rifugiato. Con questo espediente volevo rovesciare la narrazione. Questo stesso rifugiato, infatti, mi
aveva scritto una lettera spiegandomi che quando eravamo a Sangatte era stato costretto a mentirmi sulla sua vita.
Si capiva che le cose erano molto più complicate di quanto io stessa potessi comprendere.
headlights and I address one of the refugees directly. I wanted, by
doing this, to turn the narrative on its head. The refugee who I
address had, in fact, one day written to me to explain that, for
certain reasons, when we were in Sangatte, he had had to lie to
me about his life. There was the feeling that things were much
more complicated than I could comprehend.
Looked at today, there's a very clear sense of progression
in your work. Did it feel like this for you when you made
it, or would you say that this sense of order was something
you were looking for in your life?
I don’t really ever know where I’m going but later, when I look
back at the work, I realise each film or video grew out of the one
before. Somewhere in the making of a previous video, a new one
starts to emerge, even if it takes me a while to recognise that. It
often springs from something very small, a person I meet while
I’m shooting, a face, a story. I can’t really impose it. It’s like with
filming - it’s often just a process of waiting to understand, letting it suggest itself.
Guardando al suo lavoro oggi, si vede un certo progresso. È stato casuale oppure lei cercava davvero di mettere ordine nella sua
vita?
In verità io non so mai dove sto andando realmente, ma se
ripercorro i miei lavori vedo che ogni film o video nasce
dal lavoro precedente. In qualche punto della realizzazione di un video si può capire che nascerà un video nuovo,
anche se io stessa ci metto un po’ a riconoscerlo. Spesso si
tratta di un semplice particolare, una persona che ho
incontrato mentre filmavo, un volto, una storia. Non posso forzarlo. È come quando si filma: spesso è solo questione di attendere che l’idea arrivi da sola.
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LAURA WADDINGTON
ZONE
(t.l.: Zona)
“Un esperimento: filmare senza guardare attraverso il
mirino, con la videocamera attaccata al corpo. L’ho realizzato nel 1994, su una nave che attraversava l’Atlantico,
creando la storia più avanti. Ora ho la sensazione che fosse interessante solo il processo e l’ultima scena di un marinaio filippino che lava il ponte alle 4 del mattino. Quando
nel 2000 il festival di Rotterdam mi ha commissionato un
film ambientato in un porto, questa immagine mi ha spinto a girare Cargo.”
Laura Waddington
sceneggiatura/screenplay: Laura Waddington
fotografia/photography (Beta SP, b/n): Laura Waddington
montaggio/editing: Laura Waddington
“An experiment: filming without looking through a viewfinder,
the camera attached to my body. I filmed it, in 1994, on a ship
crossing the Atlantic, and created the story later on. Now I feel
only the process was of interest and the last shot, a Filipino sailor
cleaning the decks at 4am. When, in 2000, the Rotterdam Film
Festival commissioned me to make a video in a port, this image
led me to make Cargo.”
Laura Waddington
produttore/producer: Laura Waddington
durata/running time: 8’
origine/country: Usa 1995
THE LOST DAYS
(t.l.: I giorni perduti)
“Nel 1996 ho scritto una storia su una donna che viaggia
per il mondo mandando video-lettere a una amica a New
York. Quell’anno ho contattato 15 persone da paesi differenti chiedendo loro di filmare le proprie città (Marrakech,
Jaffa, Lisbona, Milano, Parigi, Mosca, Pechino, Hong
Kong, Taipei…). Con le cassette che mi hanno mandato ho
realizzato The Lost Days.”
Laura Waddington
sceneggiatura/screenplay: Laura Waddington
fotografia/photography (digibeta, colore): 15 persone sparse
nel mondo/15 people around the world
montaggio/editing: Laura Waddington
musica/music: Simon Fisher Turner
voci/voices: Marusha Gagro, Chantal Akerman
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“In 1996, I wrote a story about a woman travelling around the
world, sending back video letters to a friend in New York. That
year, I contacted fifteen people in different countries (Marrakech,
Jaffa, Lisbon, Milan, Paris, Moscow, Beijing, Hong Kong,
Taipei…). I asked them to videotape their cities, as if they were
her. Out of the tapes they sent me, I made The Lost Days.”
Laura Waddington
produttore/producer: Laura Waddington
produzione/production: The Arts Council of England, con la
coperazione del CICV e Phonos Institute Barcelona
durata/running time: 47’
origine/country: Gran Bretagna, Francia, Usa 1999
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LAURA WADDINGTON
CARGO
“Cargo è la storia di un viaggio che ho fatto su una nave
container diretta in Medio Oriente, con a bordo un gruppo
di marinai rumeni e filippini. Sono stata sulla nave sei settimane. Ai marinai non era consentito lasciare la nave, passavano i giorni cantando al karaoke e raccontandomi storie nella saletta della tv. In Siria i porti erano zone militari.
Mi sono nascosta e ho filmato da un oblò la vita sottostante: un uomo che rubava del legno, un soldato cadere da un
sottomarino abbandonato. Più tardi ho fatto una narrazione, a metà tra realtà e finzione. Era un modo di mostrare il
limbo in cui questi uomini vivevano.”
Laura Waddington
sceneggiatura/screenplay: Laura Waddington
fotografia/photography (digibeta, colore): Laura Waddington
montaggio/editing: Laura Waddington
musica/music: Simon Fisher Turner
“Cargo is the story of a journey I made on a container ship with
a group of Rumanian and Filipino sailors who were delivering
cargo to the Middle East. I stayed on the ship six weeks. The
sailors weren’t allowed to leave the boat and they spent their
days waiting, singing karaoke and telling me stories in a small
TV room. In Syria, the ports were military zones. I hid at a porthole and secretly filmed the life below: a man stealing wood, a
soldier fishing off the edge of an abandoned submarine. Later, I
made a narrative, which falls between reality and fiction. It was
a way of showing the limbo these men were living in.”
Laura Waddington
produzione/production: The International Film Festival Rotterdam
durata/running time: 29’
origine/country: Olanda 2001
BORDER
(t.l.: Confine)
“Nel 2002 ho passato dei mesi nei territori attorno il campo della Croce Rossa di Sangatte, con rifugiati afgani ed
irakeni, che provavano ad attraversare il Tunnel della
Manica per l’Inghilterra. Tutte le scene sono state filmate
di notte con una piccola videocamera, non c’era luce nei
campi, le loro figure erano illuminate solo da fanali di
macchine distanti sull’autostrada, così ho aperto l’otturatore al massimo. Border è un personale resoconto della
situazione dei rifugiati e della violenza della polizia che ha
seguito la chiusura del campo.”
Laura Waddington
sceneggiatura/screenplay: Laura Waddington
fotografia/photography (digibeta, colore): Laura Waddington
montaggio/editing: Laura Waddington
musica/music: Simon Fisher Turner
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“In 2002, I spent months in the fields around Sangatte Red
Cross camp with Afghan and Iraqi refugees who were trying to
cross the Channel Tunnel to England. All the scenes were filmed
at night, with a small video camera. There was no light in the
fields, their figures lit only by distant car headlights on the
motorways, so I opened the camera shutter very wide. Border is
a personal account of the refugees’ plight and the police violence
that followed the camp’s closure.”
Laura Waddington
produzione/production: Laura Waddington Films, Love
Streams Productions, Agnes B.
durata/running time: 27’
origine/country: Francia, Gran Bretagna 2004
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
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Carlo Michele Schirinzi
Carlo Michele Schirinzi
di Roberto Nanni
by Roberto Nanni
“A che piano?”
La corsa dell’ascensore inizia verso l’alto. Trascorrono
pochi secondi e la cabina s’arresta. Con me, come compagno di viaggio, un giovane uomo con occhiali da vista dalla montatura sottile. Un ampio specchio alle spalle, rivela
le sue mani intrecciate dietro la schiena. All’inizio dell’attesa, il suo indice destro incomincia ad accarezzare la
superficie, lasciando una traccia, un semicerchio opaco.
La causa dell’interruzione non è un blackout ma una semplice questione meccanica. Spostando il nostro peso, la
cabina riparte con nervosi sussulti, sostando immobile
solo per qualche secondo. Pretende da noi strani esercizi
d’equilibrio. Carlo, così si presenta, non accarezza più lo
specchio.
Su questo, le impronte delle sue mani alla ricerca di un
appoggio, sono sparse e sovrapposte. Raramente siamo a
livello. Affettata in sezioni orizzontali, la struttura si manifesta nella sua interezza. Scorre come una pellicola proiettata fuori quadro. Qualche tempo dopo, colpito ed incuriosito dai film di un giovane salentino, Carlo Michele
Schirinzi, lessi in un catalogo una sua scheda biografica.
Lo riconobbi in quella foto b/n, era lui l’equilibrista con il
quale passai un quarto d’ora senza sosta in quel folle
ascensore.
Per magica introduzione, trovai in quell’episodio una
metafora del suo lavoro. Dalle pareti trasparenti della cabina, l’edificio ci appariva tagliato a strisce. Era come se
avanzassimo a scatti sulla verticale di un tavolo autoptico
o di un obelisco. Appoggiata alle porte, un cumulo di neve
in forma di lenzuola bianche, che sarà sostituito, qualche
piano dopo, da un paio di gambe maschili, incorniciate
all’altezza delle ginocchia. Stranamente sostiamo a lungo
davanti a loro mentre da un televisore provengono dei
suoni di un telefilm americano degli anni ‘60.
“Ciao Zio Bill. Che cos’è?”
“Un acquario, bambini. Questo è un pesce gatto.”
“Guarda Zio Bill, ha i fanalini.”
Carlo cerca di interpretare la realtà, non di rappresentarla.
La sua necessità non è sorretta dalla ricerca di una corretta
e gentile “messa in scena”. Egli persevera nel narrare per
singolari sovrapposizioni, imprendibili da ogni banalità
realistica. Una rara tensione metafisica da preservare e sollecitare. Per me, un merito del suo lavoro è il non riuscire
a definirlo, la sana impossibilità di descriverlo. E’ inutile
cercare di premere qualsiasi pulsante, sarà Carlo con il suo
senso dell’equilibrio, a decidere dove fermarsi.
Buona visione.
“What floor?”
The elevator begins its ascent then stops a few seconds later. My
“travel companion” is a young man with thin-framed glasses. A
large mirror behind him displays his hands crossed behind his
back. At the beginning of our wait, his right index finger begins
caressing the mirror’s surface, leaving a trace, an opaque semicircle.
The cause of the interruption is not a blackout but a simple
mechanical problem. Transferring our weight, the elevator starts
up again with nervous jolts, pausing motionlessly for only a few
seconds. It requires strange balancing acts on our part. Carlo,
that’s how he introduces himself, is no longer caressing the mirror.
Speaking of which, his handprints, as he searches for something
to hold onto, are spread out and superimposed. We are hardly
ever level. Sliced up into horizontal sections, the structure
reveals itself in its entirety. It moves past us like a film projected
out of frame.
A little while later, my interest piqued by the striking films of a
young filmmaker from Puglia’s Salento region, a certain Carlo
Michele Schirinzi, I read a biography of his in a catalogue. I recognized him in that B&W photo: the acrobat with whom I’d
spent fifteen very long minutes in that crazy elevator.
By way of a magical introduction, I found that incident to be a
metaphor for his work. Seen from the elevator’s transparent
walls, the building seemed to us to be cut into strips. It was as if
we were creeping jerkily along the vertical plane of a mortuary
table or an obelisk. Leaning against the doors, a pile of snow in
the form of white sheets, which will be replaced, a few floors later, by the legs of a man, framed at the knee. Strangely enough,
we pause before them for a long time, while from the television
set we can hear the sounds of a 1960s American TV show.
“Hi, Uncle Bill. What is that?”
“An aquarium, kids. This is a catfish.”
“Look, Uncle Bill, it has little taillights.”
Carlo tries to interpret reality, not to represent it. His need is not
backed up by the search for a kind and correct mise-en-scene. He
perseveres in narrating through unique superimpositions that
elude all realistic trivialities. A rare metaphysical tension to preserve and stimulate. I believe that the merit of his work lies in the
inability to define it, the healthy impossibility in describing it.
Trying to push the buttons is useless: Carlo, with his sense of
balance, will be the one deciding where to stop.
Happy viewing.
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Biografia
Carlo Michele Schirinzi (Acquarica del Capo – Le – 1974), artista multimediale e videomaker autarchico convinto sostenitore dell’autoproduzione, nel 2003 inizia la collaborazione col compositore Gabriele Panico la cui ‘suonomateria’ dà
voce alla gravità zero della fotografia dei suoi video. Nel 2000 si classifica primo al festival “Puglia – terra di confine” di
Bari e secondo al “Festival del Cinema Trash” di Torino con £ 3000, nel 2001 partecipa a “(anteprimaannozero) film festival” di Bellaria con Dé-tail e nel 2002 il mediometraggio Astolìte è selezionato al “20° Torino Film Festival”. Nel 2003 Il
nido riceve una menzione speciale al “21° Torino Film Festival” e, successivamente, prende parte alla 12ª edizione di
“Arcipelago” a Roma. Sempre nel 2003 Crisostomo partecipa alla “39ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro” e nel 2004 alla “Biennale Adriatica Arti Nuove” di San Benedetto del Tronto. Nel 2004 All’erta! vince il concorso
“G.A.P. – giovani artisti pugliesi” di Bari e il Premio Shortvillage alla “40ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di
Pesaro” e nel 2005 partecipa al “3° Festival International Signes de Nuit” di Parigi. I suoi lavori fotografici, ribattezzati
“iconoclastie su(al) negativo”, sono esposti in importanti mostre nazionali (Accento Acuto - Pesaro, Quadriennale Anteprima - Napoli, Peludi/Forpleis - Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università “La Sapienza” di Roma,
Crysalis: teoria dell’evoluzione - Bari).
Biography
In 2003, Carlo Michele Schirinzi (Acquarica del Capo, Lecce, 1974), a multi-media artist, independent videomaker and staunch supporter of self-production, began collaborating with composer Gabriele Panico, whose ‘soundmatter’ gave voice to the zero gravity of
the photography of Schirinzi’s videos. In 2000, he won first prize at the “Puglia – terra di confine” Festival in Bari and came in second at the Torino Trash Festival with £ 3000. In 2001, he participated in the (anteprimaannozero) film festival in Bellaria with Détail and in 2002, his medium-length work Astolìte was selected for the 20th Torino Film Festival. In 2003, Il nido received special
mention at the 21st Torino Film Festival and, later that year, was presented at the Arcipelago Film Festival in Rome. Also in 2003,
his Crisostomo was presented at the Pesaro Film Festival and in 2004 at the Biennale Adriatica Arti Nuove at San Benedetto del
Tronto. In 2004, All’erta! won the “G.A.P. – giovani artisti pugliesi” competition in Bari and the Shortvillage Prize at the Pesaro
Film Festival. In 2005, he took part in the 3rd Festival International Signes de Nuit in Paris. His photographic works, entitled iconoclastie su(al) negativo, have been shown at important national exhibits (Accento Acuto in Pesaro; Quadriennale Anteprima in
Naples; Peludi/Forpleis - Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università “La Sapienza” in Rome; and Crysalis: teoria dell’evoluzione in Bari).
Filmografia
Sementi assenti (1999, Cm, in collaborazione con M. Stefàno), L’amanuense (2000, Cm), Amami e baciami (2000,
Cm), Di-nuovo? (2000, Cm), Z/OOO (2000, doc), One step beyond (2000, Cm), La cella del frate (2000, Cm), Juliette. Sussurri di velluto (2000, Cm), Sole (2000, Cm, doc), La fam(e)iglia (2000, Cm), Il sogno (2000, Cm), £ 3.000
(2000, Cm), (A)rota (2000, Cm), Aiôn (2000, Cm, in collaborazione con M. Mangipinto), Il sepolcro (2000, Cm),
W (2000, Cm, in collaborazione con M. Stefàno), Terminale (2000, Cm), L’appuntamento (2000, Cm), Camera con
vista (2000, Cm), Uniforme (2000, Cm), Fondale (2001, Cm), Dè-tail (2001, Cm), Talpe (2001, Cm), Perco(r)(s)so
(2001, Cm), Trappe (2001, Cm), Astrolìte (2002, Mm, in collaborazione con A. Matarazzo), Zulöfen (2002, Cm),
Riesumazione (2002, doc), Che barba! (2002, Cm), Crisostomo (2003, Cm), Il nido (2003, Cm), Il ri(n)tocco (2004,
docufiction), Il grande schermo contro la dispersione (2004, spot), All’erta! (2004, docufiction), A Levante (2004, di
M. Libonati, L. Filotico, C.M. Schirinzi, A. Valenti, S. Chiodini, G. De Blasi, G. Camerino), Macerie dell’Arcobaleno (2004, docufiction, in collaborazione con M. Santoro), Dal Toboso (2005, Cm), Trittico in prova (2005, doc,
Cm), Zittofono. Sonata in blu per Nagg e Nell (duetto in sincrono per monitor bizantino) (2005, Cm)
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Intervista a Carlo Michele Schirinzi
Interview with Carlo Michele Schirinzi
con Tommaso Casini
with Tommaso Casini
Carlo Michele Schirinzi si autodefinisce giustamente artista multimediale. Tra le sue innumerevoli passioni, da
sempre, ci sono Carmelo Bene, Alfred Jarry, la musica di
Verdi, ma anche quella dei Dead Kennedys e dei Madness.
Scrive saggi e si dedica principalmente alla fotografia e al
video. Le sue immagini sono raffinate elaborazioni alchemiche direttamente operate sulla pellicola 35mm con lame
affilate e lenti deformanti. Nel 2000 ha acquistato una telecamera digitale con cui ha cominciato a realizzare film
brevi in una progressione incessante divenendone, oltre
che l’autarchico artefice, anche l’onnipresente e camaleontico interprete, indotto dall’urgenza di archiviare gesti e
azioni “casalinghe”. All’inizio si serviva dell’immediato
montaggio in macchina identificando nella casa il set di
quasi tutti i suoi video: un eremo moderno in cui l’universale comodamente implode nell’intimo (e viceversa).
Al 20° Torino Film Festival - con il “medialista” Antonello
Matarazzo - ha presentato il visionario, aspro e beckettiano mediometraggio Astrolìte in cui recita anche enrico
ghezzi. Il 2003 è la volta de Il nido, scritto in collaborazione
con il poeta Mauro Marino. Video sghembo e poetico, in
bilico tra l’ipercinesi di un curioso cleptomane (lo stesso
regista) e le peregrinazioni evasive di un’eterea fotografaornitologa, in un piccolo centro pugliese abbacinato dal
sole. Il corto fa parte di A Levante, film collettivo salentino
coordinato da Edoardo Winspeare. Nel 2004 realizza
All’erta!, video antimilitarista e antieroico, tra passato reale e presente immaginario.
Schirinzi appartiene a quel poliedrico panorama di artisti
della visualità contemporanea che esplorano con acribìa i
dispositivi dei media tecnologici. Lo fa con grande coerenza, con uno spirito schiettamente e consapevolmente artigianale, mai in forma meramente funzionale ma sempre
acutamente simbolica, utilizzando codici artistici eclettici e
ben radicati nella storia delle arti visive. Riesce cioè a citare sapientemente, in chiave post-moderna, Paolo Uccello e
Piero della Francesca accostandoli al concetto di immagine
obliterata degli iconoclasti - si vedano a questo proposito
le serie fotografiche “iconoclastie su(al) negativo” - o al
nudo pornografico. Una pornografia – secondo le parole di
Schirinzi - intesa come “amplificazione e superamento dell’erotismo”. Tutto ciò spiega anche il suo interesse per il
Barocco che definisce “accelerazione esponenziale che porta all’(auto)annullamento, di visceralità e di schermi di
qualsivoglia natura”.
Al centro della sua pantagruelica passione per le immagini, e per la loro ipertrofica creazione, c’è il gusto liberatorio dello spirito patafisico di Ubu: corporeità, esagerazione, deformazione, attraverso cui la realtà viene demolita e
mostrata in tutta la sua ironica mostruosità. Una lotta che
Schirinzi intraprende avendo al suo fianco, oltre a Ubu,
anche Don Chisciotte, altra sua inesauribile fonte di ispirazione.
Carlo Michele Schirinzi describes himself as a multi-media
artist, and rightfully so. Among his numerous passions, he
counts Carmelo Bene, Alfred Jarry, the music of Verdi as well as
the Dead Kennedys and Madness. He writes essays and dedicates himself mostly to photography and video. His images are
refined alchemic elaborations performed directly on 35mm film
with sharp blades and deformed lenses. In 2000, he bought a digital camera with which he began an incessant production of short
films, not only as an autonomous creator, but also as an
omnipresent and chameleon-like actor, driven by a need to record
“everyday” gestures and actions. In the beginning, he edited his
work directly in the camera, using his house as the set of almost
all his videos: a modern hermit in which the universal comfortably implodes into the intimate (and vice versa).
At the 2002 Torino Film Festival, together with medialista
Antonello Matarazzo, he presented the visionary, bitter and
Beckettian medium-length film, Astrolìte, whose cast also features Enrico Ghezzi. In 2003, he made Il nido, written in collaboration with poet Mauro Marino. An oblique and poetic
video, suspended between the hyperkinesis of a curious kleptomaniac (the director himself) and the elusive pilgrimages of a
waiflike photographer-ornithologist in a small, sun-drenched
town in Puglia. The short was part of A Levante, a collective
film of works by Saletine directors, produced by Edoardo Winspeare. In 2004, he made All’erta!, an anti-militaristic and antiheroic video, somewhere between the real past and an imaginary
present.
Schirinzi belongs within that versatile landscape of contemporary visual artists who meticulously explore the devices of technological media. He does with so with great coherence and the
openly conscious spirit of an artisan; never in a merely functional form but always acutely symbolic, using eclectic artistic
codes deeply rooted in the history of the visual arts. That is to say
that he successfully makes knowing references, in a post-modern
key, to Paolo Uccello and Piero della Francesca, moving them
towards the concept of the effaced image of the iconoclasts – on
the subject of which he created several photographic series entitled iconoclastie su(al) negativo – or to the pornographic
nude. Pornography, says Schirinzi, in the sense of an “extension
and surpassing of eroticism.” This also explains his interest in
the Baroque, which he defines as “the exponential acceleration
that leads to (self) annulment, impulsiveness and screens of any
nature.”
At the heart of his enormous passion for images and for their
hypertrophic creation lies the liberating taste of Ubu’s pataphysical spirit: corporeity, exaggeration, deformation, through which
reality is demolished and exposed in all its ironic monstrosity. A
battle that Schirinzi undertakes not only with Ubu by his side,
but accompanied by other inexhaustible source of inspiration as
well: Don Quixote.
Comincerei dalla tua citazione di Jarry: cosa c’è nella Patafisica
che ti affascina? Com’è nato il tuo incontro con Ubu?
La pratica di operare in casa ricoprendo il ruolo di tutte le
maestranze, e arrangiando set da cantina in ogni stanza, ha
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I’d like to begin with the Jarry quote you cited: what is it
about Pataphysics that fascinates you? How did you first
come across Ubu?
Through the practice of working at home, covering every technical role and turning each room into a set, I created a true apartment movie studio, full of sounds, lights, objects and costumes
gathered from my personal experiences, which cast me among
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generato un vero e proprio condominio di posa saturo di
suoni, luci, oggetti e costumi recuperati dal vissuto personale, che mi ha gettato tra i cigolanti marchingegni delle
trappole di Ubu: al lato della Storia del suo tempo, incosciente della sua destrezza nell’incastonare nuove torture a
parole inventate giustificandole con l’utopia della Patafisica. E’ la geografia del corpo che vince con tutti i suoi bisogni.
Venticinque lavori in soli 5 anni (e non sono tutti): si direbbe
un’iperproduzione, quasi un’urgenza fisiologica.
Il percorso è nato con l’estromissione totale della parola
come significato, in favore del corpo sospeso in uno spazio
piatto teso all’azzeramento gravitazionale capace di
annullare ogni tipo di gerarchia. Il digitale poi, altro non è
che una matematica reinvenzione bizantineggiante (per il
mosaico di pixel) dell’immagine, da qui l’urgenza fisiologica di commettere l’atto impuro dell’immortalare e del
collezionare.
I tuoi lavori hanno un segno molto forte, uno stile che si concilia sempre con la ricerca di una “forma”. Desideri continuamente rileggere temi iconografici e suggestioni letterarie. Perché ami
“svelare” così manifestamente le tue passioni artistiche?
“Svelare” è legato al mistero e ha una forte carica erotica
che io tento di negare a favore di un’analitica “dimostrazione d’abbondanza”: un restauro dell’iconografia nota,
impastato nel riciclo barocco per attorniarmi forse, dell’amato superfluo da cui donchisiottescamente non riesco a
staccarmi.
Video, pellicola, fotografia, tutti mezzi e supporti nei confronti
dei quali hai un approccio artigianale. Come operi?
Le iconoclastie su (al) negativo sono fotografie che partono dalla pellicola negativa 35mm su cui compio una sottrazione scultorea utilizzando lame affilate e lasciando
solo i corpi immersi in un vuoto spermatico che ne sfalda
i contorni, per finire con la stampa. Nei video intacco tutto
ciò che disegna il frame in fase di ripresa, prediligendo la
manualità artigianale agli effetti digitali e concentrandomi
nella post-produzione soprattutto sulla tessitura sonora.
La musica ha un ruolo centrale nei tuoi lavori. Come la scegli e
come collabori alle composizioni originali?
La musica è il motore di tutto. I primi lavori nascevano
dall’impeto di creare una videohit di corpi, più che di storie, percossi dal ritmo anche senza volerlo. Successivamente, grazie all’uso di Final Cut, dal totale riversaggio di
una traccia sono passato all’imbastitura meticolosa del
suono: Macerie dell’Arcobaleno ne è una dimostrazione con
i suoi respiri e scricchiolii ricostruiti in studio e le solenni
musiche di Gabriele Panico, che procede per stratificazioni muovendosi in amniotici campi armonici mai esattamente definiti.
Le tue opere hanno una destinazione varia: festival di cinema,
mostre d’arte contemporanea, mercato dell’arte in generale. Cosa
pensi della condizione che vive oggi un artista “multimediale”
come giustamente ti definisci?
La mia è una multimedialità locale, dove per locale non
intendo folklore ma casa: annegare nella propria camera
gli eventi più disparati, masticarli, digerirli per poi vomi-
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the creaking contraptions of Ubu’s traps: set apart from the history of his time, unaware of his skill for inventing words to
describe new methods of torture, justifying them with the utopia
of Pataphysics. It is the geography of the body with all its needs
that wins .
25 works in just five years (and that’s not counting all of
them)! This could be called hyper-creativity, almost a
physiological need.
The work arose from the total exclusion of the word as meaning,
in favor of the body suspended in a flat space that aims towards
gravitational eradication capable of eliminating all kinds of hierarchy. Furthermore, digital is nothing more than a Byzantinelike mathematical reinvention (for its mosaic of pixels) of the
image. This is where the physiological need to commit the impure
act of immortalizing and collecting comes from.
Your style is highly recognizable and is always connected
to the search for “form.” You continuously go back over
iconographic themes and literary impressions. Why do
you love “revealing” your artistic passions so manifestly?
“Revealing” is tied to mystery and has a strong erotic connotation that I try to reject in favor of an analytical “display of abundance”: a restoration of known iconography, kneaded up in
Baroque reprocessing in order to perhaps surround myself with
the beloved surplus from which I, in true Don Quixotian manner, cannot separate myself.
Video, film, photography: all are mediums towards which
you have an artisan’s approach. How do you work?
The iconoclasms on (to) the negative are photographs that start
off as negative 35mm film, on which I perform a sculptural
extraction, using sharp blades and leaving only the bodies
immersed in a spermatic void that flakes their edges, to arrive at
the print. In the videos, I nick all that which creates the frame
during shooting, preferring manual craftsmanship over digital
effects and concentrating above all on the sound texture in postproduction.
Music plays a central role in your work. How do you
choose it and how do you collaborate on the original compositions?
Music is the engine that drives everything. The first works arose
from the desire to create a videohit of bodies, rather than stories,
involuntarily struck by the rhythm. Later, thanks to Final Cut,
from the total transfer of a track, I began working on the meticulous outlining of the sound: Macerie dell’Arcobaleno is one
such example, with its breaths and creaks reconstructed in the
studio, and Gabriele Panico’s solemn music, which progresses
along stratifications, moving in amniotic, harmonic fields that
are never precisely defined.
Your works have various destinations: film festivals, contemporary art exhibits, and the general art market. What is
your view on the conditions in which a “multi-media”
artist, as you rightfully define yourself, finds him or herself today?
Mine is local multi-media, whereby local does not mean folklore
but home: to flood one’s room with the most disparate events,
ruminate them, digest them and then spit them back out. It’s
very similar to what the Brazilian monks do, shut off in their
monasteries.... The product then travels beyond.
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tarli. E’ molto vicina all’operato dei monaci basiliani rinchiusi nei loro eremi… il prodotto poi viaggia oltre.
Presenti tre inediti, Macerie dell’Arcobaleno, Il ri(n)tocco e
Zittofono. Di che si tratta?
I primi due hanno in comune l’esigenza di tirarsi fuori, di
osservare senza partecipare. Macerie…, da semplice documentario su un cinema abbandonato, si è trasformato in
una muta e intima autopsia in cui immagini e suoni raccontano il dramma del luogo; il secondo è una coreografia
di immagini spiate di mio padre mentre restaura un vecchio divano. Zittofono invece è un lavoro sull’inutilità del
dialogo e la futilità della memoria ispirato a “Finale di partita” di Beckett (la versione per le gallerie d’arte prevede la
proiezione su due schermi adiacenti).
Cosa puoi dire sul progetto Dal Toboso in mostra presso la
GAM di Bologna?
E’ un video appositamente realizzato per quest’occasione
ispirato a Don Chisciotte e alle Battaglie di San Romano di
Paolo Uccello: un avanzo di sacralità dall’arrangiamento
legnoso diviso in quattro capitoli in cui passioni epiche,
belle principesse e prodi cavalieri, sembrano saltar fuori
da un capitello romanico o da una tavola tarlata di Bruegel… attendendo silenziosamente la fiamma nell’ennesimo inno all’impotenza e all’incapacità di fuggire.
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You are presenting three new works: Macerie dell’Arcobaleno, Il ri(n)tocco and Zittofono. What are they about?
The first two share a common need to withdraw, to observe without participating. Macerie… was transformed from a simple
documentary on an abandoned cinema into a mute and intimate
autopsy in which images and sounds relate the drama of the
place. The second work is a choreography of images spied of my
father while he was restoring an old sofa. Zittofono, on the other hand, is a work on the uselessness of dialogue and the futility
of memory, inspired by Beckett’s Endgame (the version for the
art galleries is to be presented on two adjacent screens).
What can you tell us about the Dal Toboso project on exhibit at the GAM in Bologna?
It’s a video created specifically for the occasion, inspired by Don
Quixote and Paolo Uccello’s “Battle of San Romano”: a remnant
of sacredness from a wooden arrangement divided into four
chapters in which epic passions, beautiful princesses and valiant
knights seem to jump out from the capital of a Romanesque column or one of Bruegel’s worm-eaten tablets… silently awaiting
the flame of the umpteenth ode to impotence or the inability to
run away.
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
ONE STEP BEYOND
Un intimo e rudimentale teatrino (della crudeltà?), presenta il ballo di un uomo in un interno di luci colorate atterrate alla ribalta: una cinica dimostrazione di moto, una
vera e propria esibizione d’abbondanza in scatti ripetitivi
e meccanici.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (minidv, b/n, colore): Carlo Michele
Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
An intimate and rudimentary little theatre (of cruelty?) presents
the dance of a man in a space with spinning, colored footlights:
a cynical demonstration of motion, a true display of abundance
in repetitive and mechanical frames.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 1’33”
origine/country: Italia 2000
LA CELLA DEL FRATE
Un frate si ritira nella cella di un improbabile monastero:
devoto alla Maddalena, prega soffocato dal grezzo manto
di juta che lo avvolge… si spoglia e porta a letto la santa.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n, colore): Carlo Michele
Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
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A monk retreats to the cell of an unlikely monastery. Devoted to
Mary Magdalene, he prays, smothered by the coarse jute cloak
enveloping him.... He removes his clothing and takes the saint to
bed with him.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 6’40”
origine/country: Italia 2000
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
SOLE
L’ambiguità del titolo è comodamente seduta nella
matriarcale devozione di questa visione bianconera,
costruita da mani operose e volti pensierosi ed allegri.
Due memorie sbiadite dal tempo o solarizzate dalla luce?
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
interpreti/cast: Rita Botrugno, Giuseppina Seclì
The title’s ambiguity is comfortably seated in the matriarchal devotion of this black and white vision, constructed by hard-working
hands and thoughtful, cheerful faces.
Two memories faded over time or solarized by the light?
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 56”
origine/country: Italia 2000
LA FAM(E)IGLIA
La (s)composizione familiare. Una moglie indaffarata trascura il suo corpo e quello del marito: l’uomo, stanco e
annoiato, la osserva nella speranza di trarre da ciò qualche
stimolo per il suo ‘appetito’… ma il freddo cibo del frigo
sarà la sua unica consolazione.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
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Family (de)composition. A busy wife neglects her body, as well as
her husband’s. The man, tired and bored, watches her in the hopes of
thus gaining some stimulus for his ‘appetite’.... But his only consolation will be the cold food in the fridge.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 1’
origine/country: Italia 2000
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
£ 3.000
Il corpo statico di un’ambigua bambola giace abbandonato all’interno di una bottega-nicchia simile ad una spoglia
cappella di campagna: l’accensione della luce/musica/corpo le fa assumere sempre la stessa posizione censurata dalla sola mascherina di cartone, costringendola a
subire assente, il violento passaggio dei clienti (... violento?).
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
interpreti/cast: Donato Pettinelli, Massimo Pirelli, Carlo
The static body of an ambiguous doll lies abandoned inside a shopniche resembling a bare country chapel: the starting up of the
light/music/body makes her always assume the same position, censored by the only cardboard mask, forcing her to absently suffer the
clients’ violent passing (...violent?).
Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 2’05”
origine/country: Italia 2000
(A)ROTA
Solarizzata visione della ciclicità chiusa della speranza:
cronaca quotidiana grottescamente innestata tra uno spot
pubblicitario, un film di basso livello e un gioco a premi (la
ruota della fortuna?). A proposito delle sature carovane di
uomini che solcano l’Adriatico in cerca di speranze.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n, colore): Carlo Michele
Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
interpreti/cast: Gianni Baglivo, Sergio Del Sole, Emiliano Flo-
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Solarized vision of the cyclical contained within hope: a daily chronicle grotesquely situated between a commercial, a low grade film and
a quiz show (the wheel of fortune?). A propos of the overflowing caravans of men who plough through the Adriatic in search of hope.
rez, Maya, Graziano Raone, Carlo Michele Schirinzi, Massimiliano Stefàno, Giuseppe Suriano, Angelo Verardo
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 3’20”
origine/country: Italia 2000
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IL SEPOLCRO
…forse un sogno…
Il patire d’un uomo – dal ventre intarsiato nell’alveare
metallico – in una piccola dimora dominata da un’icona
protetta da un imponente baldacchino: l’immagine sacra
diventa carne, ma il tintinnio delle offerte e l’odore dei
resti della cena, distraggono il santo che nega il miracolo.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
…perhaps a dream…
A man’s suffering – from the inlaid womb in a metallic apiary – in
a small abode dominated over by an icon protected by an imposing
canopy. The sacred image becomes flesh, but the clatter of the offers
and the smell of the dinner leftovers distract the saint, who denies
the miracle.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi, Salvatore Negro
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 3’26”
origine/country: Italia 2000
W
Una stanza/studiolo fa da culla ad un antico cassone: per
terra fogli sparsi raccolti ed ordinati da un pomposo lettore… un blackout… un doppio martirio.
A room/small study is the cradle for a large, antique chest: on the
ground, scattered leaves, gathered and arranged by a pompous reader… a blackout… a double martyrdom.
co-regia/co-director: Massimiliano Stefàno
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi e Massimiliano Stefàno
fotografia/photography (mini dv, b/n): Carlo Michele Schirinzi
e Massimiliano Stefàno
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi e Massimiliano
Stefàno
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi e Massimiliano Stefàno
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi e Massimiliano Stefàno
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi e Massimiliano Stefàno
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi e Massimiliano
Stefàno
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 5’20”
origine/country: Italia 2000
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TERMINALE
Dallo schermo solarizzato del televisore compare una strana Minnie: incredula, cerca di misurare lo ‘spazio’ mediante salti, esamina il monitor, si osserva attorno e, colta dall’isteria cade. Le sue azioni rallentano nel caldo suono che
ribadisce la sua falsa identità.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, colore): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
From the solarized television screen appears a strange Minnie:
incredulous, she tries to measure the “space” through leaps; she
examines the monitor; she looks around and, caught up in the hysteria, falls. Her actions slow down in the hot sound that confirms her
false identity.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 4’34”
origine/country: Italia 2000
L’APPUNTAMENTO
Un corpo vinto dall’apatia – come se d’impiccato si trattasse o comunque d’uomo al patibolo – mastica ininterrottamente, colorato dalla meccanica cingolata di quest’appuntamento mancato:…un altro effimero giro all’interno
della sua stanza.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n, colore): Carlo Michele
Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
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A body overcome by apathy – as if it were a man hung or, in any
case, at the gallows – chews unremittingly, colored by the mechanical tracking of this missed appointment…. Another ephemeral spin
around his room.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 5’35”
origine/country: Italia 2000
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CAMERA CON VISTA
Un cybercorpo da riciclo (umano? Animale? Meccanico?
Sorto da una discarica differenziata di rifiuti o dall’armadio/tana che lo protegge?) sottopone al faro i suoi sfoghi
da insetto autosufficiente.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, colore): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
A recycled cyberbody (human? animal? mechanical? emanating
from the differentiated waste or the closet/den that protects it?) subjects the lighthouse to its frustrated venting of a self-sufficient
insect.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 3’35”
origine/country: Italia 2000
UNIFORME
Tutto è nel titolo: una corsa senza meta, un gioco visivo,
un’anamorfosi disturbata appiattita dal formicolio amplificato…
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
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Everything is in the title: a race without a destination, a visual
game, a disturbed anamorphosis flattened by the amplified swarm....
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 4’28”
origine/country: Italia 2000
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
FONDALE
…un tuffo barocco, un’illusione sviata dal controluce/lucefrontale, un’iconoclastia incarnata – come lancio
di sasso al sole –, un’Addolorata?
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, colore): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
…a Baroque plunge, an illusion led astray by backlight/frontlight, an iconoclasm personified – like a rock tossed at the sun.
An Our Lady of the Sorrows?
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 2’42”
origine/country: Italia 2001
DÈ-TAIL
Dé-tail è un cerchio (il porno, la discesa, la doccia, l’angelo,
il porno) formato da spazi/loculi in cui sono innestate solitudini impotenti: tre ‘storie’ legate dall’apatica attesa di un
corpo che si in(s)contra con se stesso, animale insofferente
forzato dagli eventi all’interno di un ciclico trascorrere
sempre piatto.
Il video nasce da uno studio sulla geometria rinascimentale e sulla prospettiva pittorica di Paolo Uccello, Piero della
Francesca e Beato Angelico.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Dé-tail is a circle (porn, the descent, the shower, the angel, porn)
formed by spaces/loci onto which impotent solitudes are grafted.
Three ‘stories’ bound by the apathetic wait of a body that confronts
itself, an impatient animal forced by events within an ever-flat cyclical wandering.
The video came about from a study on Renaissance geometry and on
the pictorial perspective of Paolo Uccello, Piero della Francesca and
Beato Angelico.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 6’57”
origine/country: Italia 2001
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
PERCO(R)(S)SO
Un taglio capovolto – dal passato all’impotenza bruciata al
passato – un Caravaggio annegato in una caduta stroncata
dal suo percorso.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (35mm, Betacam, colore): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
An upside down rip – from the past to impotence burned in the past
– a Caravaggio drowned in a fall broken by his journey.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 4’20”
origine/country: Italia 2001
TRAPPE
…botola, trabocchetto, luogorifizio del decervellaggio per
Ubu, insidioso tranello teso dallo scavalcamento di campo,
fondo di caduta allacciato ad altri buchi – la nausea bruciata, l’oscura scivolata, la soggettiva sbiadita dell’esecutore annoiato – che fanno da cavie alla perplessa curiosità…
un rigurgito e un calcio sferrato alla temporanea preda...
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
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…trapdoor, snare, de-braining station for Ubu, insidious trap that
strives for a swooping shot, the bottom of a fall tied to other holes –
burnt nausea, the obscure slide, the faded point of view of the bored
executor – who are the guinea pigs of a perplexed curiosity.... A
regurgitation and a kick delivered to the temporary prey....
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi, Massimo Pirelli
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 8’50”
origine/country: Italia 2001
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
ASTROLÌTE
“In una blasfema sintesi tra il fumetto e Beckett, esistenze
residuali danno vita ad una pantomima sinistra, sedotte e
vessate dalla loro stessa irrealtà. Una miscela di polveri
(astrolìte) è metafora di una polverizzazione di sguardi e
di voci, di uno spazio acustico e visivo scompaginato dall’urto di una percezione anomala.”
A. Matarazzo e C. M. Schirinzi
co-regia/co-director: Antonello Matarazzo
sceneggiatura/screenplay: Antonello Matarazzo e Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n, colore): Marco De Angelis
montaggio/editing: Antonello Matarazzo, Carlo Michele Schirinzi
suono/sound: Francesco Azzini
musica/music: Pasquale Innarella
scenografia/art direction: Antonello Matarazzo e Carlo Miche-
“In a blasphemous synthesis between a comic strip and Beckett,
residual lives create a sinister pantomime, seduced and burdened by
their very unreality. A blend of powders (astrolite) is a metaphor for
the pulverization of gazes and voices, of an acoustic and video space
upset by the collision of an anomalous perception.”
A. Matarazzo and C. M. Schirinzi
le Schirinzi
costumi/costumes: Pina Falconieri
interpreti/cast: Enrico Ghezzi, Gabriele Perretta, Massimo
Borriello, Nunzia Di Somma, Michele de Prisco, Fara Battista, Emilio Grillo, Luigi Cosi
produzione/production: Astrolìte – Associazione Culturale Arti
Audiovisive
contatto/contact: www.astrolite.it
durata/running time: 40’
origine/country: Italia 2002
ZULÖFEN
…ed ancora una volta un disturbo, colorato e palpitante,
spiato da schermi traforati: un’incessante azione di chiusura e cancellatura bagnata dal capovolgimento e colpita
al petto dalle gelose note…
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n, colore): Carlo Michele
Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
…and once again, a disturbance, colored and throbbing, spied
upon by perforated screens: an incessant action of closing and
obliteration, wet from capsizing and struck on the chest by the
jealous notes....
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 5’00”
origine/country: Italia 2002
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
CHE BARBA!
Radersi in bianconero, sporcandosi di vecchia pellicola.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi, Mavi Orlando
Shaving in black and white, dirtying oneself with old film.
produzione/production: Untertosten Film (Produktionen
Autarkiken)
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 2’10”
origine/country: Italia 2002
CRISOSTOMO
Ammorbato dal passaggio/dissolvenza d’icone è costretto
a infliggersi inutili ‘punizioni’ che non placheranno i suoi
affanni.
Dallo studio del Don Chisciotte, un personaggio che per
amore è pronto a tutto: in questo video Crisostomo è un
uomo che tende forse alla perfezione di una corazza e
all’utopia carnale di un amore, ma la sua vita è la sua casa
e il cesso è la palestra in cui i suoi sogni si rincorrono…
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n, colore): Carlo Michele
Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
suono/sound: Carlo Michele Schirinzi
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
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Tainted by the passing/dissolving of icons and forced to inflict
useless ‘punishments’ that will not placate his labors.
From a study on Don Quixote, a character ready to do anything
for love: in this video, Crisostomo is a man who perhaps strives
for the perfection of an armor and the carnal utopia of love, but
his life is his house and the toilet, the gym in which his dreams
chase one another....
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi, Rita Botrugno, Candida Stassin
produttore/producer: Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 7’30”
origine/country: Italia 2003
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
IL NIDO
… due melanconie: una ragazza e un ragazzo cleptomane,
nel loro stare laterali, separati in un quotidiano che non
riconoscono, nella misura di vite vissute nella contemplazione che non ha azione, svolte, ma soltanto sogno, proiezione di idealità e di paure…una caduta nel nido…
sceneggiatura/screenplay: Mauro Marino, Carlo Michele Schirinzi (episodio del film collettivo A Levante
fotografia/photography (mini dv, b/n): Roberta Allegrini
montaggio/editing: Cristian Sabatelli (Geco)
suono/sound: Corrado Azzariti
musica/music: Aldo Bleve con Livio Bleve e Alberto Costantini, Salvatore Negro
scenografia/art direction: Sabrina Balestra
costumi/costumes: Loredana Buscemi
interpreti/cast: Claudia Giannaccari, Carlo Michele Schirinzi,
...two melancholies: a girl and a kleptomaniac boy, in their marginalization, separated in a daily life they do not recognize, insofar as
lives lived in a contemplation that has no action, unfurled (but only
a dream) projections of ideality and fears…a fall into the nest....
Vittoria Orlando, Mauro Marino, Francesco Pettinelli, Rosalia Zippo, Martina Casciaro, Salvatore Negro, Stefano Ciullo, Roberto Greco, Cosimo Monsellato, Salvatore Scarcella,
Giancarlo Schirinzi, Rita Botrugno, Luigi Schirinzi
produzione/production: Provincia di Lecce, Saietta Film s.r.l.,
Carlo Michele Schirinzi
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 13’
origine/country: Italia 2003
IL RI(N)TOCCO
…una mano/talpa, smembrante nel ritocco, spurga la
vegetazione di un corpo ligneo assorbito dall’accecante
oscurità di questo fondale, tra intimi inceppamenti
videomnemonici e ombrosi rigurgiti barocchi implosi sui
consunti schermi… a queste profondità vana è l’attesa del
sole…
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n, colore): Carlo Michele
Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
suono/sound: Carlo Michele Schirinzi
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
…a hand/mole, dismembered in the touch-up, purges a wooden
body of vegetation, absorbed in the blinding darkness of this
depth, among intimate videomnemonic jams and shadowy,
Baroque regurgitations imploded onto consumed screens… at
this depth, waiting for the sun is in vain....
produzione/production: Untertosten Film (Produktionen
Autarkiken)
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 7’20”
origine/country: Italia 2004
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
ALL’ERTA!
La distinzione tra propaganda e storiografia e la censura
operata dagli organi di stato sulle cineriprese militari
destinate al pubblico delle sale, allora come oggi. Il video
alterna momenti pubblici (i discorsi del Duce, le esercitazioni, la partenza al fronte, la guerra) a ‘spazi intimi’ del
nostro soldato. Il materiale d’archivio è ripreso in digitale
da un monitor televisivo, dissezionato, sviscerato, distorto
e rimontato con variazioni di velocità, di cromatismi e di
suoni/musiche.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, b/n, colore): Carlo Michele
Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
suono/sound: Carlo Michele Schirinzi
musica/music: Gabriele Panico
scenografia/art direction: Carlo Michele Schirinzi
The distinction between propaganda and historiography and the
censorship conducted by the state authorities on the military
movie cameras destined for general cinema audiences, then like
now. The video alternates between our soldier’s public moments
(the Duce’s speeches, military maneuvers, departures to the
front, the war) and “intimate spaces.” The archive material is
shot in digital by a television monitor, dissected, disemboweled,
distorted and re-edited with varying speeds, chromatisms and
sounds/music.
costumi/costumes: Carlo Michele Schirinzi
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi
produzione/production: Untertosten Film (Produktionen
Autarkiken)
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 11’37”
origine/country: Italia 2004
MACERIE DELL’ARCOBALENO
Scrutando e annusando gli anfratti e gli orifizi di questo
corpo martirizzato e imploso, si disegna una mappatura, o
meglio un’autopsia di ciò che resta dell’ex-cinema Arcobaleno di Alessano (chiuso nel 1984): una fredda analisi ‘spiata’ di questa carcassa pulsante di vita, in cui il ricordo è reiterato soltanto dal battito lontano di un proiettore.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi, Michela
Santoro
fotografia/photography (mini dv, b/n, colore): Carlo Michele
Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
suono/sound: Carlo Michele Schirinzi
musica/music: Gabriele Panico
interpreti/cast: Lorenzo Alba, Alessandro Bello, Giorgio Cas-
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Scrutinizing and sniffing the crevices and orifices of this martyred and implosive body, a map is designed. Or, rather, an
autopsy of that which remains of the former Arcobaleno movie
theatre in Alessano (shut down in 1984). A cold, ‘spied’ analysis
of this carcass throbbing with life, in which the memory is reiterated only by the distant beating of a projector.
sano, Martina Castrovillari, Michele Negro, Francesco Piccinni, Stefano Torsello, Marcello Torsello
produzione/production: Comune di Alessano, Untertosten
Film (Produktionen Autarkiken)
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 17’
origine/country: Italia 2004
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CARLO MICHELE SCHIRINZI
ZITTOFONO.
SONATA IN BLU PER NAGG E NELL
(DUETTO IN SINCRONO
PER MONITOR BIZANTINO)
Questo video, pensato per doppio monitor come il titolo
suggerisce, è liberamente ispirato a due figure del teatro
beckettiano, Nagg e Nell di “Finale di Partita”: monchi,
chiusi in due bidoni dell’immondizia, rimembrano un passato che forse non è mai stato… inermi nell’impossibilità
di dialogare con la loro stessa esistenza.
sceneggiatura/screenplay: Carlo Michele Schirinzi
fotografia/photography (mini dv, colore): Carlo Michele Schirinzi
montaggio/editing: Carlo Michele Schirinzi
suono/sound: Carlo Michele Schirinzi
musica/music: Gabriele Panico
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
This video, created for two monitors, as the title suggests, was
liberally inspired by two characters from Beckettian theatre:
Nagg and Nell of Endgame. Monks, locked inside two garbage
cans, reminisce about a past that perhaps never was... helpless in
the impossibility of communicating with their own existence.
interpreti/cast: Carlo Michele Schirinzi, Mavi Orlando
produzione/production: Untertosten Film (Produktionen
Autarkiken)
contatto/contact: [email protected]
durata/running time: 5’
origine/country: Italia 2005
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CANE CAPOVOLTO
“L’arte – come la religione – nasce dal desiderio non soddisfatto”
“Art, like religion, arises from an unfulfilled desire.”
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Di alcuni temi
On certain themes
di Massimo Galimberti
by Massimo Galimberti
“L’arte, come la religione, nasce dal desiderio non soddisfatto”.
L’aforisma è per sua natura perentorio, assoluto, rifiuta
ogni apertura verso l’esterno. Un aforisma ha sempre
qualcosa di apodittico, è simile a uno slogan e cerca di
convincere simulando la verità. Non può essere manipolato, trasformato, integrato, è preciso in ogni sua parte, perfettamente calibrato nella forma; è netto, dittatoriale: o lo
si accetta o lo si rifiuta, e nel momento in cui lo si accetta
diventa una verità, patrimonio collettivo, da condividere e
trasferire.
La religione è l’oppio dei popoli, tende a sedare ogni istinto, ad ammansire gli animi rivoltosi. La religione è necessaria al controllo delle masse, permette di accettare il presente in vista di un prodigioso futuro.
L’arte è come la religione, è un sedativo contro le frustrazioni: annichilisce lo spettatore, lo getta in un’estasi che gli
impedisce ogni azione, gli offusca la ragione. L’esperienza
estetica produce “una sospensione, una lontananza nei
confronti della soggettività cosciente impegnata e coinvolta nei bisogni e nelle faccende del mondo.” Sottolineare
questi effetti e agire di conseguenza equivale a un tempo a
una dichiarazione di condotta e a una dichiarazione di
guerra.
L’attività di Cane CapoVolto è sempre stata rivolta alla
cancellazione di ogni istanza poetica, di ogni residuo
romantico di emotività nei processi estetici, il suo lavoro
sembra sempre derivare da una calcolata pratica di pensiero e uniformarsi ad essa, per veicolare idee e non prodotti, per riconoscersi in quelle e non negli strumenti formali utilizzati per traghettarle. Così, se negli anni si attua
uno spostamento sistematico tra radio, cinema, video, è
per non rinchiudersi in schemi previsti, per non caratterizzarsi in un mondo concluso, per testare le potenzialità
comunicative dei mezzi.
La stessa scelta di fare “cinema” sembra derivare più da
una passione o un caso che da una selezione preordinata
degli strumenti espressivi. Quando nel 1996, dopo quattro
anni di produzioni audiovisive, Cane CapoVolto comincerà a realizzare i film acustici si tratterà solo di uno spostamento emissivo, solo della trasformazione della fonte
comunicativa, non della sostanza dell’operazione. Sarà un
cinema in grado di ritrovare le immagini, di cui sembrava
privato, grazie all’azione sinestetica di un suono capace di
evocarle. Ad un tratto della sua storia Cane CapoVolto
rinuncia addirittura all’uso del super 8 (tranne in alcune
sporadiche ma non significative incursioni) perché troppo
connotato esteticamente, troppo legato alle pratiche sperimentali e underground, troppo pericoloso in quanto limite e non più estensione. Così dalla visionarietà dei primi
lavori si indirizza verso l’ideologia delle ultime esperienze
(Impero, 2003; The Pentagon Tv Commercials, 2004; AAron, il
guerriero digitale, 2005) e le operazioni sull’immagine
(Behind Your Eyelids, 1993) diventano operazioni sulla loro
possibile articolazione: un lavoro sul discorso e non più
sulla rappresentazione.
Lentamente ma inesorabilmente Cane CapoVolto sembra
farsi da parte, offrendo gli elementi già formalizzati del
“Art, like religion, arises from an unfulfilled desire.”
The aphorism is by nature peremptory, absolute, and refuses any
opening towards the exterior. An aphorism always has something of the irrefutable, it is similar to a slogan and tries to convince by simulating the truth. It cannot be manipulated, transformed or integrated. It is precise in each of its parts, perfectly
calibrated in its form. It is clear-cut, dictatorial: you either
accept it or reject it, and in the moment that you accept it, it
becomes a truth, part of the collective patrimony, to share and
convey.
Religion is the opiate of the masses: it tends to repress all
instincts, to tame rebellious souls. Religion is necessary in controlling the masses; it allows one to accept the present in light of
a wonderful future.
Art is like religion, it is a sedative against frustrations: it annihilates the spectator, throwing him into a state of ecstasy that
impedes his every action and clouds his reason. The aesthetic
experience produces “a suspension, a distance from the conscious subjectivity that is committed to and involved in the
needs and events of the world.” Calling attention to these effects
and acting upon them is tantamount to a simultaneous declaration of conduct and of war.
Cane CapoVolto have always aimed at canceling every poetic
moment, and any romantic residue of emotion in the aesthetic
processes. Their work seems to derive from a calculated thought
process and to abide by it, in order to transmit ideas and not
products; to be recognized within the ideas and not in the formal
instruments used to convey them. Thus, if over the years they
have moved systematically between radio, cinema and video, it
has been to not shut themselves off in predictable patterns; to not
characterize themselves within a defined world; and to test the
communicative potential of various media.
The very choice of making “films” seems to derive more from
passion, or from chance, than from a preordained selection of
expressive instruments. When, in 1996, after four years of
audiovisual production, Cane CapoVolto began making acoustic
films, it was just a technical move, simply the transformation of
the communication source, not of the substance of the operation.
It was a cinema capable of discovering images, which it seems to
lack, thanks to the synesthetic action of a sound capable of evoking them. Suddenly, at one point, Cane CapoVolto even stopped
working with Super-8 (except during some sporadic though relatively insignificant incursions) because its aesthetic connotation was too well known, too tied to experimental and underground cinema, too dangerous insofar as it is a limit and no
longer an extension. Thus, from the visionary nature of the first
works, they moved towards the ideology of their latest experiences (Impero, 2003; The Pentagon TV Commercials, 2004;
Aaron, il guerriero digitale, 2005). And the operations on the
image (Behind Your Eyelids, 1993) have become operations on
their possible articulation: a work on the subject and no longer
on their representation.
Slowly but surely, Cane CapoVolto seem to move farther to one
side, offering up already formalized elements of the world around
them (films, documentaries, sounds) in their harshness, as if the
suffocation of every lyrical tension did not allow them to act
upon the elements, but only to place them in a series. Already in
1993, with Meatbeat Glamour (remade with a different audio
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mondo circostante (film, documentari, suoni) nella loro
durezza, come se il soffocamento di ogni tensione lirica
non consentisse di agire su di essi ma permettesse unicamente la loro messa in serie. Già nel 1993 con Meatbeat Glamour (rieditato con un audio diverso nel 1996) si era cercato un varco per l’irruzione del reale. Il film è composto dall’alternanza di immagini respingenti e immagini suadenti,
appositamente girate o recuperate da altri film. Era il tentativo di testare la reattività fisica dello spettatore, di riattivare i processi seduttivi o repellenti attraverso la semplice evidenza delle cose, attraverso l’accettazione del mondo
con la sua pericolosa oggettività. Tentando di recuperare
un sentire perturbante, Cane CapoVolto contraddice lo
sguardo addomesticato e recupera un rapporto con lo
spettatore che lentamente rischiava di essere smarrito chiedendo a questi una collaborazione attiva per l’attivazione
del senso. E’ come se si cercasse (e si trovasse) all’interno
di una pratica estetica ormai decostruita e depotenziata, il
senso di una nuova strada per la comunicazione, una strada che tende alla differenza, che procede in “una direzione
opposta alla conciliazione, verso l’esperienza di un conflitto più grande della contraddizione dialettica.” Così non
semplice riproposizione dell’opposto ma la duplicazione e
la riproposizione della stessa materia, del simulacro, unico
strumento per raggiungere la massima opposizione.
E’ quello che nei modi complessi di una struttura compiutamente polisemica avviene dal 1993 con Angeli su due ruote, l’inizio della serie Plagium, e l’apertura verso mondi
codificati che entrano in collisione. Il film non è altro che
un breve montaggio di immagini tratte da un soft porno
cui viene giustapposto l’audio della descrizione di malattie veneree. Il contrasto trasforma le icone di una sessualità plastificata in elementi disturbanti e spiazzanti, nel tramite per una reazione di cui non si percepisce limpidamente il verso. E’ la stessa cosa che avviene ad esempio
con Evil and Pop Culture (1997) in cui le immagini simbolo
della pop music si trasformano, grazie al commento di una
voce off, nei chiari segni di un male generalizzato e pervasivo. O che con forme assai differenti sembra manifestarsi
in Mal d’Africa (1996), in cui ad agire sono addirittura le
parole d’amore tra Lady Diana e il suo amante. I contrasti
generano “incidenti nel corso di apprendimento”, le
immagini alterano la loro portata semantica divenendo
oggetti riconfigurati nella funzione e nella natura. Sono
date nella loro evidenza, senza ulteriori “mediazioni simboliche” , ma gestite da un’istanza esterna che organizza il
discorso, e che alterando le carte, simula, con la perentorietà del proprio gesto, una verità cui non sappiamo se credere. Così la stessa produzione dei falsi documentari (o dei
falsi spot) è possibile solo prevedendo la presupposta verità dell’immagine e la forza persuasiva della forma.
Da questo punto di vista diventa determinante agire direttamente su un universo già codificato, considerare le
immagini e i suoni come elementi della realtà esterna partecipi del mondo come ogni altra forma sensibile, utilizzarli all’interno di strutture modulari in cui ogni parte è
intercambiabile. Non sono ready-made ma parte integrante
di un mondo che attualizza e vivifica le sue componenti
offrendole all’uso e alla vista. Ogni film attinge a un archivio, di immagini e di immaginario, diventando esso stesso
l’archivio per un possibile prelievo, o il contenitore di una
possibile permutazione. Ogni film è il luogo di un perenne
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
track in 1996), they were searching for an opening for the eruption of the real. The film is made up of alternating off-putting
and persuasive images, deliberately shot or gathered from other
films. It was an attempt to test the spectator’s physical responsiveness, to reactivate the seductive or repellant processes
through the simple evidence of things, through acceptance of the
world with its dangerous objectivity. In an attempt to regain a
disturbing sensation, Cane CapoVolto contradict the tamed gaze
and recapture a relationship with the spectator that slowly risked
disappearing, asking of the audience an active collaboration for
the activation of the meaning. It is as if they were seeking (and
finding) a new communicative path within a deconstructed and
weakened aesthetic practice. A path that tends towards differentiation, which proceeds in “a direction opposite from conciliation, towards the experience of a conflict greater than dialectical
contradiction.” Thus, not simply a re-offering of the opposite,
but the duplication and re-offering of the same subject, of the
mock-up, the only tool for achieving maximum opposition.
And this is what came about in 1993, in the complex modes of
an entirely polysemous structure, with Angeli su due ruote,
the beginning of the Plagium series, and an opening towards
codified worlds in collision. The film is nothing more than a
short montage of images from a soft porn film, which is juxtaposed with an audio track of a description of venereal diseases.
The contrast transforms the icons of a plasticized sexuality into
disturbing and destabilizing elements, into a go-between for a
reaction whose direction is not clearly understood. They did the
same, for example, with Evil and Pop Culture (1997), in which
the symbolic images of pop music are transformed, thanks to the
commentary, into obvious signs of a generalized and pervasive
evil. Or that under a completely different form seems to manifest
itself in Mal d’Africa (1996), in which the reacting element is
an amorous exchange between Lady Diana and her lover. The
contrasts generate “accidents during the learning process,” the
images alternate their semantic course, to become objects whose
function and nature are reconfigured. They are presented as they
are, without further “symbolic mediations,” but controlled by an
external need that organizes the discourse, and that, by alternating the cards, simulates, with the peremptoriness of its gesture,
a truth in which we don’t know if we should believe. Hence, the
very creation of fake documentaries (or fake commercials) is possible only by anticipating the presumed truth of the image and
the persuasive power of the form.
From this standpoint, it becomes fundamental to act directly
upon an already codified universe, to consider the images and
sounds as elements of an external reality that participate in the
world like all other sensitive forms, and to use them within modular structures whose every part is interchangeable. They are not
ready-made, but an integral part of a world that contemporizes
and gives life to its components, offering them up for use and
observation. Each film draws from an archive of images and the
imaginary, itself becoming an archive for possible sampling, or
the container for a possible exchange. Each film is the site of a
continuous beginning and of an ever-postponed end. In La septiéme operation (Plagium 13, 1998), they even do away with
the opening and closing credits, to present the material in its
entirety, to not limit it with the inscription of a beginning or
end, allowing it to gravitate in the indistinct flow of images or,
rather, to present it as an object for collective use, denying all
paternity.
Lei è Karl Kraus, vero? (Plagium 7, 1997) is composed of different fragments: films, documentaries, simple photos. Each ele-
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cominciamento e di una fine sempre rimandata. In La septiéme operation (Plagium 13, 1998) si rinuncia persino ai titoli di coda o di testa per offrire il materiale nella sua presenza, per non limitarlo con l’iscrizione di una fine o di un
inizio, permettendogli di gravitare nel flusso indistinto
delle immagini o, meglio, per offrirlo come oggetti all’uso
collettivo negandone una qualsiasi paternità.
Lei è Karl Kraus, vero? (Plagium 7, 1997) è composto da
frammenti differenti: film, documentari, semplici foto.
Ogni elemento ci viene mostrato all’inizio come un reperto trovato per caso, parti di una combinazione di cui bisogna cercare il senso o tracce di una deflagrazione che ha
disgregato dei corpi: una sequenza tratta da Un mostro
(1964, Steno), l’immagine in primo piano di Karl Krauss, la
foto di Elvis Presley sulla poltrona di un treno, una voce su
schermo nero che legge un aforisma. Gli elementi vengono
pian piano composti alla ricerca di un senso mentre le
identità dei personaggi si confondono per lo scontrarsi dei
piani e per un audio spiazzante.
Lei è Karl Kraus, vero? è un film esemplare nella scientifica
teorizzazione della propria struttura, nell’aprire ancora
una volta il senso.
Le immagini improvvise di William Burroughs, tratte da
The Cut-Up (1966, Antony Balch), si sovrappongono alle
mani di un uomo che scrive mentre una voice over dichiara
che, per gioco, a un aforisma di Karl Kraus è stato applicata la teoria delle permutazioni “che secondo William Burroughs permette di moltiplicare parole e frasi fino agli
estremi limiti della matematica.”
L’aforisma di Kraus viene così scomposto e con esso anche
i reperti che precedentemente avevamo visto in sequenza.
Gioco di prestigio ed esperimento, come la dimostrazione
di un teorema per la confutazione e la riarticolazione dei
sistemi codificati di significazione. Ogni elemento assume
un senso nuovo, le permutazioni diventano strumento
ermeneutico, servono a capire e interpretare le immagini
che abbiamo davanti. L’accostamento anche casuale dei
materiali permette una visione più lucida e chiara delle
cose, ha un valore epistemico come se nella casualità vi
fosse una forza magica, metafisica che permette la fuoriuscita del senso. La ricomposizione e il montaggio acquistano la capacità preziosa del disvelamento per cui, dati alcuni elementi non solo in immagini, è possibile interpretarli
attraverso la reazione provocata nel loro infrangersi reciproco.
Le immagini e ogni singolo elemento compositivo sono
dati direttamente come reperti, come le tracce per la ricostruzione della scena di un crimine e come resti di una pratica discorsiva e immaginativa di cui si è perduto il senso.
Sono elementi reificati attraverso i sensi, attualizzati attraverso lo sguardo e l’udito, attraverso l’uso cui sono stati
sottoposti. Non si agisce sul visibile ma sul visto, non su
una potenzialità ma sulla sua stessa attualità. In questa terra di nessuno tra il visibile e il visto, diventa determinante
allora il senso di consunzione che queste immagini portano con sé, il loro essersi logorate nell’uso fisico e metaforico della loro riproposizione pubblica, della loro commercializzazione planetaria. All’inizio della sua storia nel 1992
Cane CapoVolto realizza Scraps Brakhage Stolen, forse niente di più metaforico, di più sintomatico di un presupposto
costitutivo. Si immagina una pellicola già impressa rubata
e ri-lavorata da Brakhage e poi rivenduta: uso, logorio, fur-
158
ment is shown at the beginning, like a find unearthed by chance,
like parts of a combination whose meaning must be sought, or
traces of the deflagration that disintegrated the bodies. A
sequence from Un mostro (1964, Steno), a close-up of Karl
Krauss, a photo of Presley sitting in a train, a voice reading an
aphorism over a black screen. The elements are slowly composed
within the search for a meaning while the identities of the characters are mixed up in the clash of planes and a destabilizing
audio track. Lei è Karl Kraus, vero? is an exemplary film in the
scientific theorization of its own structure, in opening up the
meaning once again.
The unexpected images of William Burroughs, taken from The
Cut-Up (Antony Balch, 1966), are superimposed over the hands
of a man writing as a voice-over states that, as a game, the theory of permutations was applied to an aphorism by Karl Kraus, a
theory that, “according to William Burroughs, allows one to
multiply words and sentences to the extreme limits of mathematics.”
Kraus’s aphorism is thus taken apart and, with it, the same discoveries that we had seen earlier in sequence. A magic trick and
experiment, like the demonstration of a theorem for confuting or
rearticulating codified systems of meaning. Each element takes
on a new meaning, the permutations become a hermeneutic
instrument and serve to understand and interpret the images
before us. The even coincidental approach towards the material
allows for a more lucid and clearer vision of things; it has an
epistemic value as if there were some magic power in its randomness, a metaphysics that allows the meaning to emerge. The
re-composition and editing take on the invaluable capacity to
reveal, for which, given certain elements not only in the images,
it is possible to interpret them through the reaction caused by
their mutual fragmentation.
The images and each of their elements are presented directly as
finds, like clues in the reconstruction of the scene of a crime and
like remains of a conversational and imaginative practice whose
meaning has been lost. They are elements reified through the
senses, made topical through sight and hearing, through the use
to which they are subjected. The visible is not acted upon: rather,
the seen. Not through its potential, but through its very topicality. In this no-man’s land between the visible and the seen, the
sense of consumption that these images bring with them becomes
essential; their being worn-out from physical and metaphorical
use from their public reproduction, their global commercialization. At their very inception in 1992, Cane CapoVolto made
Scraps Brakhage Stolen, perhaps their most metaphorical
work, and most symptomatic of a constitutive supposition. They
imagined that a finished film was stolen, reworked by Brakhage
and then resold: use, wear, theft, commerce, and the protective
wing of one of the fathers of the underground. The signs of this
use are constantly preserved, continuously exalted, at times used
directly as themes of a later work (Behind Your Eyelids). The
scratches, cuts, the film’s imperfections, the rejected frames, its
very own decomposition: they are all integral pats of the construction of the test and its sense (Nickel, 2000). They are the
signs of time on the subject, the traces of a vision that has worn
out its subject, even physically: the spectator’s implicit gaze
becomes, not only metaphorically, the very instrument of the
images’ composition and participates in their creation.
It is clear how, in all of this, ideological controversy becomes
vital; the critique of the socio-cultural system that stresses how
the use and diffusion of images determines an illusory process
that tends to conceal the visible, impeding its perception forever.
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to, commercio, e l’ala protettrice di un padre dell’underground. I segni di questo uso vengano continuamente conservati, continuamente esaltati, a tratti tematizzati direttamene attraverso un lavoro compiuto a posteriori (Behind
Your Eyelids). I graffi, i tagli, le imperfezioni della pellicola,
gli scarti, le sua stessa decomposizione, sono parti integranti nella costruzione del testo e del suo senso (Nickel,
2000). Sono i segni del tempo sulla materia, le tracce di una
visione che ha logorato, anche fisicamente, il proprio
oggetto: lo sguardo implicito degli spettatori diventa, non
solo metaforicamente, lo strumento stesso di costituzione
delle immagini e partecipa della creazione.
E’ chiaro come in tutto questo diventi determinante la
polemica ideologica, la critica al sistema socio-culturale
che sottolinea come l’uso e la diffusione delle immagini
determini un processo illusorio che tende a occultare il
visibile impedendone per sempre la percezione. Non è un
caso che nella sinossi di Evil and Pop Culture si faccia riferimento allo scorpione nascente: Scorpio Rising (1963, Kenneth Anger), certamente, ma anche nascita, trasformazione, qualcosa di vivo che si agita sotto la pelle. E’ il desiderio e la necessità di far uscire dalle immagini “viste” qualcosa che non lo è ancora, per dar loro una vita supplementare che in realtà potenzialmente già possedevano. Così
Impero, non più un Plagium, è ancora la ricodificazione di
elementi preesistenti. “Documentari, film di guerra, fotografie e reperti vari”: la condanna del sistema americano
viene condotta attraverso i suoi simulacri, i suoi idoli
(denaro ed eroi) e il modo in cui sono rappresentati, selezionati. E’ un lavoro che ancora una volta esalta la polisemia delle forme depositate nell’immaginario collettivo sottolineandone l’ambiguità. L’articolazione dei “reperti”
attiene a un criterio di verità soggettiva che mostra la direzione che i vari segni devono seguire per determinare il
senso che si vuole loro conferire. I materiali vengono stravolti nel senso, deviati nella direzione e nella struttura
come se avessero al loro interno dei virus che ne hanno
infettato la natura. Viene riconosciuta una paternità esterna alle cose e alle immagini ma allo stesso tempo la necessità, attraverso un nuovo discorso, di recuperare l’istanza
primaria che le aveva generate verificandone la resistenza
e aprendola a una nuova “verità”.
It is no coincidence that they refer not only to the scorpio rising
in the synopsis of Evil and Pop Culture: Scorpio Rising (Kenneth Anger, 1963), but also to birth, transformation, and something that is alive and simmers under the skin. It the desire and
need to let out from the “seen” images something that does not
yet exist, to give them an additional life that they actually
already possessed. Thus, Impero, no longer a Plagium, is the
re-codification of pre-existing elements. “Documentaries, war
films, photographs and various archival finds”: the condemnation of the American system is carried out through its simulacra,
its idols (money and heroes) and the way in which they are represented and selected. Theirs is a work that once again exalts the
polysemy of the forms deposited in the collective imagination,
stressing their ambiguity. The articulation of the “finds” regards
a criterion of subjective truth that demonstrates the direction
that the various signs have to follow to determine the meaning
that others wish to bestow upon them. The material is twisted in
its meaning, deviated in its direction and structure as if it contained a virus that has infected its nature. An external paternity of things and images is recognized, as is, simultaneously, the
need, through a new discourse, to salvage the primary situation
that generated it, verifying its resistance and opening up for it a
new “truth.”
“Re-using an image or text means exploring, backing up its
soul, the soul of the person who created it. It’s no coincidence
that, in Latin, ‘plagium’ means abduction of the soul.”
“Riutilizzare un’immagine o un testo significa esplorare,
assecondare la sua anima, l’anima delle persone che l’hanno creata. Non a caso plagium significava in latino rapimento di anima.”
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Intervista con Cane CapoVolto
Interview with Cane CapoVolto
con Massimo Galimberti
by Massimo Galimberti
in collaborazone con Tommaso Casini
in collaboration with Tommaso Casini
Da cosa deriva il nome Cane CapoVolto?
Il nome venne trovato per caso. Ma non è un caso che lui
abbia trovato noi. Alla prima riunione del gruppo, presenti due su tre degli attuali membri, più un terzo personaggio poi uscito immediatamente, una figurina con l’immagine di un cane sottosopra con sotto scritto “cane capovolto”, ci apparve alla domanda “…come ci chiameremo?”.
Solo in seguito ci siamo resi conto fino in fondo della verità di quel nome… provate ad esempio a capovolgere la
parolina DOG in inglese …uno dei possibili giochi…
Where does the name Cane CapoVolto [Upside Down
Dog] come from?
We found the name by coincidence, but it was no coincidence
that it found us. At the group’s first meeting, at which two of
the three current members were present, plus a third person
that left immediately, a figurine with the image of an upside
down dog appeared before us when we asked “…what are we
going to call ourselves?”; under which was written “upside
down dog.” Only afterwards did we fully realize the truth of
that name…. Try, for example, to invert the word DOG in
English…that’s just one possibility....
L’utilizzo del nome collettivo tende ad avvicinarvi ad una setta
o, come voi stessi affermate, ad una confraternita. Allo stesso
tempo vi mette in stretta relazione con le Avanguardie del ‘900.
È un modo per negare le proprie individualità nascondendosi in
una responsabilità comune? Oppure è il segno di una volontà di
spersonalizzare il più possibile un’operazione di contestazione
del sistema comunicativo e informativo?
Il senso del nome collettivo consiste nello stratificare le
singole personalità all’interno di un autore totale. È il rifiuto del concetto di autore strettamente connesso alla personalità dell’artista: noi componiamo in nome e per conto del
gruppo. È il “marchio” per il quale lavoriamo, e il prodotto deve essere perfettamente riconoscibile anche se continuamente in evoluzione sia per lo stile che per i contenuti.
L’aspirazione maggiore sarebbe che Cane CapoVolto ci
potesse sopravvivere…
Da cosa è indotta la necessità di riferire ad altri soggetti alcune
vostre dichiarazioni o addirittura l’invenzione totale di fatti e
personaggi di cui testimoniate l’esistenza?
Tale pratica è indotta dal motto “Nulla è vero. Tutto è Permesso”, cioè dagli slittamenti Vero-falso-Vero all’interno
del rito della comunicazione. Basta leggere con attenzione
i messaggi che ci arrivano dai sistemi di comunicazione
per capire quanto questa tecnica sia di norma nei meccanismi dell’informazione.
Nel corso di questi 13 anni di lavoro come si è trasformato il
gruppo?
In senso strettamente fisico ai due membri fondatori dopo
qualche anno si è aggiunto il terzo confratello, è giovane e
ha buone idee. Nel metodo, si può dire che non è cambiato molto, uno scrive, uno gira, uno monta, uno fa le musiche, l’altro rivede, un altro riprende, l’altro non fa il sito,
uno è stanco, l’altro lavora troppo…
Come è organizzato oggi? E in che modo vengono distribuiti i
compiti e le mansioni al suo interno?
Compiti e mansioni vengono scelti in maniera del tutto
libera e volontaria; la scelta di non lavorare tutti a tutti i
lavori e tutti a tutte le fasi dello stesso lavoro assicura un
respiro più ampio e problematico all’intera produzione.
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The use of a collective name tends to resemble a sect or,
as you yourselves say, a fraternity. At the same time, it
creates a direct relationship with the avant-garde of the
20th century. It is a way to deny your individuality, hiding behind a shared responsibility? Or is it a sign of the
desire to de-personalize as much as possible an act of
contention against the systems of communication or
information?
The sense of a collective name lies in the stratification of individual personalities within just one creator. It is a rejection of
the concept of the artist strictly connected to the artist’s personality: we create in the name of and on behalf of the group.
It is the “brand” for which we work, and the product has to be
perfectly recognizable even though its style and content is in
continuous evolution. Our greatest aspiration is that Cane
CapoVolto survive….
Where does the need come from to attribute certain
statements of yours to others, or even to completely
invent facts and characters whose existence you attest
to?
This practice comes from the motto: “Nothing is true. Everything is allowed.” That is, by the True-False-True slips and
slides within the rites of communication. It’s enough that one
reads the messages that arrive from the systems of communication attentively to understand how this technique is the
norm in the mechanisms of information.
How has the group changed over the course of these
thirteen years of working together?
In the strictly physical sense, after a few years, a third fraternity brother joined the two founding members: he’s young and
has good ideas. Essentially, not much has changed in our
method: one of us writes, one shoots, one edits, one composes
the music, the other has a look, yet another one of us doesn’t
design the site, one’s tired, another one works…
How is it organized today? And how are the tasks and
duties distributed within the group?
Tasks and duties are chosen in a completely free and voluntary
manner. The choice to not have everyone work on all of the
projects or on all the stages of a given project ensures a broad-
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Spesso sembra che la vostra sia una struttura modulare e aperta,
per cui, date alcune premesse, chiunque può entrare per collaborare a un progetto. In che modo scegliete e gestite le collaborazioni esterne?
In realtà non esiste una regola precisa riguardo le collaborazioni; naturalmente tendiamo a non omologare la personalità e l’apporto di un collaboratore, sarebbe uno spreco,
però ci sembra importante lavorare con personalità in
qualche modo affini, vuoi per interesse al progetto o per
vicinanza espressiva. È evidente che spesso incrociamo
persone o gruppi con i quali viene spontaneo dirci “facciamo qualcosa assieme!”.
Come definireste il luogo fisico della vostra produzione?
La risposta più banale è in fondo la più vera: il luogo fisico per eccellenza siamo noi stessi. Questo proprio per la
tecnica di lavoro che si è rivelata la più fruttuosa: quella di
trasmetterci le reciproche conoscenze per poi condividerle
e infine elaborarle. Bisogna riconoscere che in fondo siamo
un po’ ossessionati da noi stessi, per cui incontrandoci parliamo quasi esclusivamente dei progetti del gruppo. E
anche se un luogo d’incontro può essere identificato con lo
studio di casa di uno di noi, è anche vero che alcuni dei
progetti più riusciti sono nati ad esempio durante viaggi in
treno o in aereo.
Perché avvertite il bisogno di negare ogni origine geografica nei
vostri lavori?
È la natura stessa dei nostri lavori a essere trans-geografica. Noi trattiamo di “sistemi di informazione”, di “strutture dell’apprendimento”, di “meccanismi della comunicazione” nelle loro componenti di trasmissione orizzontale e
verticale, per cui la scomparsa dell’autore e della sua provenienza geografica dentro l’opera, è molto forte.
Il linguaggio di CCV si è modificato progressivamente. È corretto affermare che siete passati da una fase “estetico-sperimentale”
ad una più “ideologico-politica”? Quali le ragioni di questo passaggio?
In effetti non è propriamente corretto affermarlo in quanto, almeno nelle intenzioni, il nostro lavoro è sempre stato
guidato da una forte connotazione ideologica, ed è questo
che ci ha fatto abbandonare, se non proprio rifiutare, il
primo periodo più estetico sperimentale. È il vecchio problema della scelta tra forma e contenuto che ci siamo posti
fin dall’inizio. Come abbiamo altre volte precisato, nei primi lavori in super-8 la forma estetica aveva preso il
sopravvento soprattutto per la natura stessa del supporto
utilizzato. Più tecnicamente, in seguito, è stato il montaggio, con tutto il suo carico più dichiaratamente politico, ad
essere determinante. Ma la ricerca sulla forma non si è mai
interrotta, perché evidentemente la questione della forma
è sempre una questione politica. Al momento, cortometraggi, radiodrammi e altro, seguono questo doppio binario e anche i lavori meno dichiaratamente “ideologici”
rispondono sempre a un’urgenza politica. Lo studio del
“cinema di propaganda” con tutto il suo carico di “estetizzazione della politica” ha spinto la nostra ricerca verso
una politicizzazione dell’estetica.
Il passaggio dall’uso del super-8 al video attiene quindi anche a
esigenze estetiche oltre che alla duttilità del mezzo?
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er and more well-crafted dynamic within the group.
It often seems that your structure is a modular and open
one, in which, given certain basic principles, anyone can
take part in a project. How do you choose and manage
external collaborations?
Actually, there is no set rule in regards to collaborations. Naturally, we tend not to suppress a collaborator’s personality
and contribution, that would be a waste, which is why it seems
important to us to work with people who are similar to us in
some way, either because they share the same interests or the
same expressiveness. It’s obvious that we often come across
people or groups with whom we spontaneously say, “Let’s do
something together!”
How would describe the physical space in which you
work?
The most trivial answer is essentially the truest one: we are
the physical space par excellence. This is precisely because it is
the most fruitful work method: this is how we pass on our
respective knowledge and skills to one another, which are then
shared and, ultimately, elaborated upon. We have to admit
that we’re a bit obsessed with ourselves, so whenever we meet,
all we talk about are the group’s projects. And even if we were
to identify one of our offices or houses as a meeting place, it’s
also true that some of the most successful projects came about,
for example, during train or plane trips.
Why do you feel the need to deny all geographical origins in your works?
Being trans-geographical is the very nature of our work. We
deal with “information systems,” “learning structures” and
“communication mechanisms” in their horizontal and vertical
components of transmission, for which the disappearance of a
single author or geographical origin within the work is very
prevalent.
CCV’s language has changed progressively. Is it correct
to say that you have passed from an “aesthetic-experimental” phase to a more “ideological-political” one?
What are the reasons behind this transformation?
Actually, that’s not completely correct, insofar as, in our
intentions at least, our work has always been guided by a
strong ideological connotation, and it was this that led us to
abandon, if not completely reject, the initial, more aesthetical
and experimental phase. It’s the old question of choosing
between form and content that we posed for ourselves from the
beginning. As we have stated before, in our first Super-8
films, the aesthetic form got the upper hand, above all because
of the very nature of the medium used. More technically, with
its more openly political burden, the decisive element later
became the editing. But we never ceased our research on form,
because obviously the question of form is always a political
one. Right now, our short films, radio plays and other works
follow these parallel tracks and even the less openly “ideological” works are always products of a political urgency. The
study of “propaganda films,” with all its “the aestheticization
of politics,” drove us towards the politicization of aesthetics.
So the move from Super-8 to video is also in keeping
with aesthetic needs, and not just a reflection of the
medium’s adaptability?
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Continuiamo a usare il super-8 ma siamo consapevoli della sua grande deriva visionaria, della sua capacità di retrodatare tutta la “Realtà” filmata, dei suoi costi, della sua
ormai manifesta “scomodità”.
Da cosa nasce l’atteggiamento di ostilità e a tratti di disprezzo
nei confronti dell’arte?
Quando, qualche anno fa e non certo da soli, abbiamo ribadito il concetto di lotta a tutto campo al sistema dell’arte,
lo abbiamo fatto principalmente su due presupposti: il primo, quello appena detto, di attacco all’arte come “fattore
estetizzante”, cosmetico, consolatorio del sistema sociale e
politico, per dirla alla vecchia maniera come “oppio dei
popoli” e quindi per conseguenza, e in secondo luogo, perché l’arte come la religione inibisce ogni anelito dell’uomo
alla libertà: la creatività è quindi a tutti gli effetti un sentimento di natura religiosa. Ai nostri figli, nelle nostre scuole, si pretende di insegnare la cultura del “bello” e a credere in Dio: è una questione di dinamiche produttive e questioni sociali, ed è una questione di Mercato. Non c’è mai
stato disprezzo da parte nostra nei confronti dell’arte in
quanto espressione e comunicazione, in quanto condivisione e dialogo. Nel frattempo, però, lo scenario si è notevolmente evoluto; ad attaccare il sistema dell’arte oggi ci
sembra veramente, come si dice, di “sparare sulla Croce
Rossa”. Le dinamiche produttive hanno imposto un cambiamento radicale per cui l’Arte, quella con la a maiuscola
che va nelle gallerie è stata definitivamente soppiantata
dall’arte dell’estetica dominante e in continua trasformazione; gli artisti soppiantatti dai cacciatori di tendenze, le
Opere sono esperienze estetiche spalmate generosamente
dai meccanismi di consenso di massa in ogni aspetto e
momento della nostra vita: è la fine conclamata dell’Arte e
dell’artista cosiddetto romantico. È forse una sconfitta o è
un nuovo punto di partenza? Per noi che abbiamo sempre
affermato di non essere artisti non è una gran perdita,
sapevamo di arrivare a questo. Questa coscienza ci ha portato a modificare la nostra produzione, abbandonando
ormai da un paio di anni il filone dei Plagium verso nuove ricerche.
Qual è il vostro rapporto con il rito, il feticismo, la religione, il
mito (F for Fake: the black sun, L’attacco col fuoco)?
Si tratta di fertilizzanti dell’immaginazione, come la “bassa cultura” in genere. Un tema importante come la Religione è stato affrontato nei lavori audio e video che riguardano la guerra (Impero – The Old Testament 3.0 – The Black
Mirror of Democracy – Aaron il Guerriero Digitale e anche
Funerale a Berlino).
Ha ancora un senso per l’arte e in genere per le manifestazioni
estetiche occuparsi di politica e di promuovere posizioni ideologiche?
Esattamente per quello che dicevamo prima la risposta è
senz’altro sì, per noi continua ad avere un senso. Si tratta
di raggiungere i circuiti, apparentemente blindati, come
quello televisivo, dove si costruisce il consenso attraverso
gli strumenti dell’estetica e dell’informazione. È un tentativo che va fatto con gli strumenti appropriati conoscendone le dinamiche.
In voi sembra vi sia una deliberata scelta di congelamento di ogni
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We continue using Super-8 but we’re aware of its great potential to push beyond limits, its capacity to backdate all filmed
“reality,” its costs, and its by now obvious “inconvenience.”
Where does your hostile and at times scornful attitude
towards art come from?
When a few years ago, and certainly not alone, we reaffirmed
the concept of the fight against the art system on all fronts, we
did it chiefly on the basis of two suppositions: the first, which
we just stated, was to attack art as the “aestheticizing,” cosmetic and consolatory factor of the social and political system
and, to put it the old-fashioned way, as “an opiate of the masses;” secondly, because art, like religion, inhibits man’s every
desire for freedom. Creativity is therefore a religious sentiment, in all respects. They claim to teach our children, in our
schools, the culture of “beauty” and of believing in God: it’s a
question of production dynamics and social matters, and it’s a
question of the market. We’ve never disdained art as a form of
expression and communication when it concerns sharing and
dialogue. In the meantime, however, the scenario has evolved
significantly; it seems to us that attacking art today is truly
like, as they say, “shooting at the Red Cross.” Production
dynamics have imposed a radical change and Art, with a capital A that ends up in galleries, was ousted by the art of the
dominant aesthetic in constant transformation. With artists
ousted by trend hunters, artistic works are aesthetic experiences generously smeared with mechanisms of mass consent in
every aspect and moment of our lives: it is clearly the end of
art and the so-called romantic artist. Is it a defeat or a new
starting point? For us, who have always said that we’re not
artists, it’s no big loss, we knew it would come to this. This led
us to modify our work, abandoning the Plagiums several years
back to explore new possibilities.
What is your relationship with rites, fetishism, religion,
myth (F for Fake: The Black Sun, L’attacco col fuoco)?
It’s fodder for the imagination, like “lowbrow culture” in general. An important topic such as religion was dealt with in the
audio and video works on war (Impero, The Old Testament
3.0, The Black Mirror of Democracy, Aaron il Guerriero
Digitale and even Funerale aBerlino).
Does it make sense for art, and aesthetic representations
in general, to still deal with politics and promote ideological positions?
Precisely for the reason we were saying before, the answer is
yes, it continues to make sense to us. It’s a question of reaching apparently impenetrable circuits, such as television, where
consent is manufactured using the tools of aesthetics and
information. It’s an attempt that should be made with appropriate instruments whose dynamics we know.
It seems as if you deliberately choose to block any lyrical
impetus. How much do rationality and calculation
determine your work?
Each work essentially has a rational matrix: each time, there is
something that must be communicated to the outside, and this
is hardly ever “personal.” However, it’s true that we are pretty fascinated with the balance and symmetry of a Renaissance
matrix. Sometimes, the lyrical impulse and the circuitousness
of form have been used to conceal reality behind a pretty face.
Nevertheless, you were right, it’s a question of “blocking”
lyrical impetuses. Who knows; however; whether these lyrical
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istanza lirica. Quanto la razionalità e il calcolo determinano i
vostri lavori?
Ogni lavoro ha in effetti una matrice razionale: c’è ogni
volta qualcosa che deve essere comunicato all’esterno, e
questo non è quasi mai qualcosa di “personale”. Però è
vero che subiamo una certa fascinazione per l’equilibrio e
la simmetria di matrice rinascimentale. Certe volte lo slancio lirico e la voluta della forma sono stati utilizzati per
nascondere la realtà, dietro un bel vuoto. Comunque come
hai detto bene si tratta di “congelamento” delle istanze liriche, chissà che in un certo momento, anche per calcolo,
razionalità o scelta deliberata queste istanze liriche non
vengano fuori. Se utili perché no. Anzi dirò di più, a guardare bene nelle ultime cose ci sono segnali in questo senso
più che chiari.
Per contro, in quale modo si inserisce invece il caso?
Il caso ha una funzione narrativa essenziale che per noi è
stata importantissima anche nei progetti più razionali.
Abbiamo sperimentato il Caso, la perdita di controllo, con
diversi lavori audio progettati per la funzione “random”
del lettore cd (Silvano Agosto – La caduta della Famiglia Reale etc.). Frasi appartenenti a 2 o 3 diversi racconti si
mischiano in maniera imprevista e irripetibile nel corso
dell’ascolto; una storia entra dentro l’altra secondo dinamiche dominate dalla statistica e dal processore del lettore
compact disc.
Quali sono i paradigmi concettuali che caratterizzano le vostre
opere riguardo a brevità, ripetizione, tempo del suono e tempo
delle immagini?
Per noi la ripetizione e la struttura delle immagini e del
suono sono elementi determinanti. È proprio attraverso la
ripetizione che è possibile raggiungere determinate aree
della conoscenza.
Qual è il vostro rapporto con la forma documentaria e i suoi
generi?
Finora ci siamo mossi lungo i confini esterni del documentario con lavori come F for Fake: the Black Sun ed Evil Pop,
“falsi documentari” o “film-saggio”. La formula documentario è sempre pericolosa, perché porta in sé la condanna
della sua etimologia: documento. Non crediamo che oggi
chi fa documentario sia più vicino alla realtà di chi fa finzione. Anzi è proprio una distinzione che sembra essere
saltata del tutto: forse è rimasta come cartellino di catalogazione per i distributori.
Cosa potete dire dell’uso degli speakers storici Federico e Carmelo e adesso di quelli inglesi?
Utilizzando speaker professionisti è possibile costruire
interessanti compromessi tra forma estetica e contenuto. I
falsi spot radiofonici, per quanto devianti o disturbanti
(alcuni reclamizzano armi, psicofarmaci, gadgets per
manager) rimangono pur sempre “spot radiofonici” proprio in virtù della loro forma, di quelle voci abituate a persuadere.
Negli ultimi lavori c’è un grande uso di didascalie e testo. Quale ruolo e importanza assegnate a questo aspetto?
Un impiego omeopatico delle tecniche audiovisive di Propaganda trova un grande apporto nei testi e nelle didasca-
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impulses don’t comoe out in certain (calculated, rational or
deliberately chosen) moments. If they’re useful, why not? I’d
go a step further: if you look closely, there are even clearer signals of this in our last works.
On the other hand, how is chance incorporated?
Chance has an essential narrative function that was very
important to us even in the most rational projects. We experimented with chance, the loss of control, with various audio
works designed for the “random” function of the CD player
(Silvano Agosto – La caduta della Famiglia Reale, etc.).
Phrases belonging to two or three different stories are mixed in
unpredictable and unrepeatable ways throughout; one story
enters another following dynamics dominated by statistics
and the CD player’s processor.
What are the conceptual paradigms that characterize
your work in respect to brevity, repetition, the tempo of
the sound and the images?
For us, repetition and the structure of the images and the
sound are determining elements. It is precisely through repetition that it becomes possible to reach certain areas of consciousness.
What is your relationship with the documentary form
and its genres?
So far, we’ve moved along the external borders of the documentary, with works such as F for Fake: the Black Sun and
Evil Pop, “fake documentaries” or “essay films.” The documentary formula is always dangerous, because it carries within it the condemnation of its etymology: the document. We
don’t believe that those who make documentaries today are
closer to reality than those who make fiction. On the contrary,
it’s a distinction that seems to be entirely disposed of: perhaps
it remains as a catalogue label for distributors.
What can you tell us about the utilization of historical
announcers such as Federico and Carmelo, as well as the
English announcers?
Using professional announcers makes it possible to create
interesting compromises between the aesthetic form and content. The fake radio commercials, even if they’re deviant or disturbing (some of them advertise weapons, psychotropic drugs,
gadgets for managers), are nevertheless “radio commercials”
precisely in virtue of their form, of those voices used to persuading.
In your last works, there is much use of captions and
text. What role and importance do you attribute to this
element?
A homeopathic use of the audiovisual techniques of propaganda finds many sources in the texts and the captions that reinforce and magnificently highlight concepts and ideas. The
filthy processes of persuasion behind everything from “mondo
movies” to contemporary television can become transparent
and implode.
Often in your work there transpires an interest in science
and technique. It this a real interest or simply the result
of an attempt to render the fake documentaries more
credible?
Our inspiration is not lyrical/poetic. The scientific and pseudo-scientific approach and the technical aspect (above all, in
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lie che rafforzano ed evidenziano magnificamente concetti
e idee. I processi persuasivi che dai “mondo movie” alla
Televisione contemporanea sono immondi possono divenire trasparenti e implodere.
Spesso nei vostri lavori traspare un interesse per la scienza e la
tecnica. È un interesse reale o solo il frutto di un tentativo di rendere credibili i falsi-documentari?
La nostra ispirazione non è lirico/poetica; l’approccio
scientifico, pseudo-scientifico e l’aspetto tecnico (soprattutto del montaggio sia audio che video) appartengono
alle inclinazioni naturali. L’interesse per scienza e tecnica è
reale come lo è quello per la religione o per le tecniche di
comunicazione e di informazione, sostanzialmente tutte
quelle materie che contribuiscono a determinare delle trasformazioni culturali e sociali, e che utilizziamo per lo più
in maniera alquanto nozionistica per creare delle commistioni fra “cultura alta” e “cultura bassa.”
Come è cominciata la serie Plagium?
Cominciò per gioco con Angeli su 2 ruote (1993). Rimanemmo colpiti come il montaggio di un video di Penthouse,
con il sonoro di un’audiocassetta sulle malattie veneree,
producesse un inquietante “Sex-scare film”, un film educativo sul sesso.
In che modo organizzate e coordinate la colonna sonora con quella video?
Dipende dai lavori. In genere c’è una grande attenzione
agli effetti psicologici che vedono interagire immagine e
suono, ma abbiamo anche a lungo esplorato le dinamiche
di potere che si stabiliscono tra vista e udito, sia all’interno
della serie dei Plagium con la reiterata ripetizione di
sequenze video su diverse colonne sonore per produrre
accumulazione di errori nelle informazioni, nei processi di
“dissonanza cognitiva”, e anche con lavori, “Delitto e Castigo”, specificatamente studiati per favorire la parità espressiva tra i due sensi.
Come nascono e come sono strutturati i drammi radiofonici?
Che funzione hanno nel processo comunicativo?
I Radiodrammi o “film acustici” o “film senza immagini”
ricadono grosso modo in due categorie principali: i lavori
più sperimentali dal punto di vista della struttura e del
suono e quelli che ripercorrono un’estetica più classica
(magari del Radiodramma storico) che invece lavorano sul
testo, che può essere disturbante e cinico (Fotografia a Colori, Morte a Venezia, La tradizione è l’Anima di un Popolo).
Come procedeva la scelta del materiale d’archivio per la realizzazione dei Plagium?
Il materiale d’archivio che utilizzammo nei Plagium consiste in film di finzione ma, soprattutto, videocassette acquistate in edicola o ordinate per posta. Ogni titolo veniva
scelto in relazione alla possibilità di essere trasformato da
testi e musiche, anch’essi non originali. Ogni sequenza
“plagiabile” porta con sé un carico di immaginario del brodo di coltura nel quale è stata allevata: si possono scegliere sequenze che sembrano essere poco interessanti, ma
hanno come dei batteri al loro interno, che provengono dal
contesto dal quale sono state prelevate; a volte questi batteri sono in grado di contagiare tutto il comunicato audio-
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the audio and video editing) come from natural inclinations.
The interest in science and technique is as real as the interest
in religion or the techniques of communication and information, essentially all those subjects that contribute to determining social and cultural transformations, and that we use,
moreover, in quite a superficial way to create mixtures of
“high” and “low” culture.
How did the Plagium series come about?
It began as a joke with Angeli su 2 ruote (1993). We were
struck by how editing a Penthouse video with the soundtrack
of an audiocassette on venereal diseases created a disturbing
“Sex Scare Film,” an educational film about sex.
How do you organize and coordinate the soundtrack
with the video material?
It depends on the work. Generally, there is much attention
paid to the psychological effects created by the interaction of
image and sound, but we have also long explored the dynamics of power that are established between vision and hearing,
both within the Plagium series – with their reiterated repetition of video sequences with various soundtracks to create an
accumulation of errors in the information, in the processes of
“cognitive dissonance” – and also with works, such as Delitto e Castigo, specifically created to advance the expressive
equality between the two senses.
How did the radio plays come about and how are they
structured? What function do they have in the communication process?
The radio plays, or “acoustic films,” or “image-less films,”
generally fall into two main categories: the more experimental
works, from the standpoint of the structure and sound, and
those that follow a more classical aesthetic sense (perhaps in
the historical radio play) and work on the text, which can be
disturbing and cynical (Fotografia a Colori, Morte a
Venezia, La tradizione è l’Anima di un Popolo).
Come did you work on the choice of archive material for
the creation of the Plagium series?
The archive material that we used for the Plagium series is
made up of fiction films and, above all, videocassettes we
bought at newspaper stands or ordered by mail. Each title was
chosen in respect to the possibility of transforming it with
texts and music, which were also not original. Each “plagiarizable” sequence brings with it the weight of the imaginary
from the cultural medium in which it was cultivated. You can
choose sequences that barely seem interesting, but have some
bacteria within them, which come from the context from which
they were gathered. Sometimes, these bacteria are capable of
contaminating the rest of the audiovisual communication: in
that case, a plagium is formed. It’s a bit like an infection.
The structuring of the films at times seem to follow precise frameworks dictated by actual screenplays, while
other times it seems to follow stimuli that some of the
various images tend to generate. What can you say about
this?
There are no set rules in that the origin of a work is sometimes
the text, other times images, still other times somewhere in
between. The most interesting aspect is that it proceeds along
progressive phases and revisions. The images and sounds are
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visivo: in quel caso si forma un plagium. È un po’ come
un’infezione.
La strutturazione dei film a tratti sembra seguire delle linee precise dettate da vere e proprie sceneggiature, altre invece di volta
in volta sembrano seguire gli stimoli che le varie immagini tendono a generare. Cosa potete dire in proposito?
Non esistono regole, dal momento che l’origine di un lavoro risiede talvolta in un testo, altre volte in immagini, altre
volte in aree intermedie. L’aspetto più interessante è che si
procede per fasi progressive e rimaneggiamenti: si mettono in fila immagini e suoni, poi si spostano, si riducono, si
rallenta o velocizza una clip video, si trasforma l’audio, si
deteriora la qualità delle fonti; poi nuovamente si cambia
con nuove variazioni e proposte. Spesso i membri del
gruppo procedono separatamente: chi arriva dopo, tratta il
lavoro “trovato” come un reperto archeologico, da depurare delle scorie, da comprendere, da ricollocare nel contesto. È un gioco di scambio e condivisione tra noi prima che
con il pubblico.
L’utilizzo di elementi/immagini ricorrenti, è il frutto di un processo di accumulo, è il segno di una continuità assoluta tra i vari
lavori o, ancora, una metafora interna del riciclo e del plagio?
Per lo più è frutto del processo di accumulo di informazioni insito in una stessa sequenza riutilizzata in diversi contesti o accostamenti. Riutilizzare una stessa sequenza a
distanza di tempo in un lavoro diverso deve presupporre
che quella sequenza sia ancora “viva”, abbia capacità di
comunicare ancora. È un procedimento molto stimolante
che potremmo definire di “ecologia delle immagini.”
La produzione di Stereo si indirizza a un ipotetico palinsesto
televisivo: è il tentativo di inserire dei “germi” all’interno del
sistema?
Stereo è il progetto immediatamente successivo ai Plagium
e nasce principalmente dalla coscienza della fine di quel
percorso. Si caratterizza per essere struttura pura, l’affermazione senza compromessi della forma sul contenuto.
Abbiamo elaborato il progetto a partire da alcune riflessioni sul mutato meccanismo di fruizione delle immagini e di
quanto queste pesino nella comunicazione di informazioni. Il concetto di partenza è che a una percezione prospettica lineare verso l’orizzonte si è sostituito uno sguardo
zenitale, non si tratta più di osservare quanto succede
davanti a sé ma sopra. Una trasformazione culturale imposta dalle innovazioni tecnologiche: lo sguardo dei satelliti
ci rimanda le immagini di ogni punto del globo in ogni
istante, alla stessa maniera la rete ci permette di accedere
simultaneamente a informazioni elaborate in ogni angolo
della terra, il sistema di rilevazione delle cellule delle trasmissioni telefoniche permette di individuarci verticalmente in qualsiasi nostro spostamento che avviene con un
telefonino acceso in tasca. Tutto questo a prescindere da un
nostro qualsiasi interlocutore che possa affermare di
vederci, prospetticamente, orizzontalmente in un dato luogo. Insomma la domanda è: io sono più reale della mia
immagine teletrasmessa? La risposta è evidentemente no,
visto che in questo momento pezzi di me sono in rete, in
un sms, in una immagine rubata da echelon ecc., questa
contemporaneità della mia presenza in più luoghi nel suo
insieme rappresenta la mia “Stereo-realtà” che certamente
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placed in a row, then we move them around, reduce them, slow
down or speed up a video clip, transform the audio, deteriorate
the quality of the sources. Then once again we change them
with new variations and ideas. Often, the members of the
group work separately: someone might come on later and treat
the “found” work like an archeological find, to clean off, to
understand, to resituate in the context. It’s a game of exchange
and sharing between us, before we then do the same with the
audience.
Is the use of recurring elements/images the result of a
process of accumulation, the sign of an absolute continuity among your work or an internal metaphor of recycling and plagiarism?
It is above all the result of a process of accumulation of information inherent to the same sequence re-used in different contexts or combinations. Re-using the same sequence later on in
a different work assumes that that sequence is still “alive” and
is still capable of communicating something. It’s a very stimulating process that we could call “the ecology of the image.”
The Stereo series was made as a hypothetical television
program: is it an attempt to introduce some “germs” into
the system?
Stereo is the project that immediately followed the Plagiums
and came about chiefly from the knowledge we had gained at
the end of that previous process. Its main characteristic is that
it is pure structure, the uncompromised affirmation of form
over content. We elaborated the project starting from certain
reflections on the mutated mechanism of the fruition of the
images and how much these influence the communication of
information. The original concept is that a linear perspective
towards the horizon has been replaced by a zenithal gaze. It is
no longer a question of observing what happens before us, but
above. A cultural transformation imposed by technological
innovations: in the same way that the satellites bringsus
images from all parts of the globe at all times, the net allows
us simultaneous access to information elaborated in every corner of the world, the system intercepting telephone transmissions allows one to vertically locate us wherever we may be
with a cell phone turned on in our pockets. On top of which,
any interlocutor of ours can attest to seeing us, in perspective,
horizontally, in any given place. In other words, the question
is: am I more real than my broadcasted image? The answer is
obviously no, seeing as how right now there are pieces of me in
the ether, in a text message, in an image stolen from the echelon etc. This contemporaneousness of my presence in more
places than one overall represents my “Stereo-reality” that
certainly today, with the importance we give to communication, is more representative than my physical presence. This is
the concept behind Stereo, a structure that is easily assembled
and dissembled, made up of 30 very short fragments, powerful
units that in a few seconds relate not something, but their
belonging to more wide-reaching body, definite but divided,
designed to appear in a context in which everything must have
a precise meaning. It seems as if the only television station
that broadcast it has its headquarters in Vilnius. It was duly
rejected by film festivals but well received by art galleries
where, obviously, the idea that images have nothing to say
except for their incapacity to say anything is deeply rooted;
where for some time now, the “gaze” has been replaced by
vision; and where the awareness that the power of images lies
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oggi con l’importanza che diamo alla comunicazione è più
rappresentativa di me di quanto non lo sia la mia presenza fisica. Questo è il concetto di Stereo, una struttura smontabile e disordinabile di 30 brevissimi frammenti, entità
forti che in pochi secondi raccontano non qualcosa, ma la
loro appartenenza a un corpo più ampio, definito ma diviso, progettato per apparire in un contesto in cui tutto deve
avere un senso preciso. Sembra che l’unica Tv che l’ha
messo in onda ha sede a Vilnius. È stato giustamente rifiutato dai festival di cinema ma bene accolto nelle gallerie
d’arte dove, evidentemente, è ormai radicata l’idea che le
immagini non abbiano nulla da raccontare se non la propria incapacità di raccontare, dove ormai da tempo lo
“sguardo” si è sostituito alla visione e dove è ben radicata
la coscienza che la forza delle immagini sta in una loro
integrità ben riposta altrove.
Sempre riguardo a Stereo, considerando anche la vostra collaborazione con realtà musicali defilate e sperimentali, è plausibile
ipotizzare una vicinanza volontaria alle modalità combinatorie
presenti nelle pratiche della club culture come quelle del Vj’ing.
Non ancora. Ma è una realtà interessante. Anche lì c’è un
gioco combinatorio, una ricerca sulla percezione audiovisiva e uno scambio dialettico tra fonti sonore e visive. Stiamo studiando, perché forse non siamo ancora pronti,
anche se un piccolo approccio è stato approntato a Bologna
per “Netmage 03” proprio con Stereo su un concerto di
Massimo, che ci è sembrato ben riuscito.
Cosa vuol dire per voi l’utilizzo di materiali riciclati (anche quelli fotografici per le edizioni cartacee e il sito internet) e in che
modo sentite la necessità di adoperare elementi visivi già “usati”, consumati?
Riutilizzare un’immagine o un testo significa esplorare,
assecondare la sua anima, l’anima delle persone che l’hanno creata. Non a caso “plagium” significava in latino
“rapimento di anima”.
Qual è il rapporto che si costituisce o che tendete a costituire con
materiali extra filmici (sinossi, seminari, ecc.)? E quanto dovrebbero determinare la visione e l’interpretazione dei vostri lavori?
Attualmente portiamo avanti il seminario “Nulla è Vero.
Tutto è Permesso”, che consideriamo una lettura della problematica della coercizione (più o meno didattica) all’interno dei nostri lavori audio e video. Il seminario è il
momento in cui si ha la possibilità di imparare di più:
intendo noi che lo facciamo, non chi lo segue! C’è tanto da
imparare dal pubblico. In realtà, costruire un seminario
permette già in fase di preparazione di chiarire e ordinare
alcuni argomenti nella propria testa, per poi metterli in
gioco nella proposta seminariale. Ma ogni volta che l’abbiamo fatto, ci siamo trovati a riconsiderare anche concetti
che consideravamo ormai consolidati.
Perché nella maggior parte dei casi tendete a specificare l’origine
o la natura del materiale riutilizzato, e non invece a farlo sparire all’interno del film?
Classificare e contrassegnare significa che stai riutilizzando qualcosa che ha già i suoi significati, esprimere qualcosa che attraversa immagini e testi che stai mostrando. È lì
la parte interessante: prima il gioco di prestigio, poi svelare il trucco.
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in an integrity that is to found elsewhere is deeply rooted .
Once again in regards to Stereo, considering your collaboration with defilated and experimental types of music,
is it plausible to conjecture a voluntary similarity to the
combinatorial modalities present in the practices of club
culture such as VJ-ing.
Not yet. But it’s an interesting world. A combinatory game
exists even there, along with research on audiovisual perception and a dialectical exchange between sound and visual
sources. We’re studying, because maybe we’re not ready yet,
even though a small, first attempt was prepared in Bologna for
Netmage 03, with Stereo, on a concert by Massimo, which we
thought went well.
What does the use of recycled material mean to you
(including the photographic material for the print versions and the Internet site) and in what way do you feel
the need to utilize already “used,” worn-out visual elements?
Re-using an image or text means exploring, backing up its
soul, the soul of the person who created it. It’s no coincidence
that, in Latin, “plagium” means “abduction of the soul.”
What is the relationship that is created or that you tend
to create with extra film material (synopses, seminars,
etc.)? And how much should they determine the viewing
and interpretation of your work?
We are currently holding seminars entitled “Nothing is True.
Everything is Allowed,” which we consider an interpretation
on the problem of (more or less didactic) coercion within our
audio and video works. The seminar is an opportunity to learn
something more: I mean for us who are conducting it, not
those listening! There is much to learn from the audience.
Actually, planning a seminar allows us to clarify and order
certain things in our heads already in the preparation phase,
that we then put into play during the seminar. But each time
we held one, we found ourselves reconsidering even those concepts that we considered to be consolidated by now.
Why is it that most of the time you tend to specify the
origin or nature of the material re-used, instead of making it disappear within the film?
Classifying and countermarking means that you’re re-using
something that already has its meanings; expressing something that traverses the images and texts you’re showing.
That’s the most interesting part: first the magic trick, then its
explanation.
What do “cognitive dissonances” mean and how are
they put into practice?
“Cognitive dissonances,” like “Onda 400,” are part of the
neurochemical episodes. When the brain receives incoherent,
discordant information, it keeps on waiting for further data
that is useful to the composition of a context. These discoveries were an important source of inspiration for us. The spectator could become the physical place of the “Spectacle.”
Your relationships with Situationist techniques and the
sense of continuing to carrying out those kinds of actions
nowadays. Neoism.
Certainly, the creation of situations belongs as much to our
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Cosa significano le “dissonanze cognitive” e in che modo vengono poste in essere nella pratica?
La “dissonanza cognitiva” così come l’“Onda 400” rientrano negli episodi neurochimici. Quando il cervello riceve
informazioni incoerenti, discordanti, rimane in attesa di
ulteriori dati utili alla composizione di un contesto. Queste
scoperte rappresentarono per noi una fonte d’ispirazione
importante; lo spettatore poteva divenire il luogo fisico
dello “Spettacolo”.
I vostri rapporti con le tecniche situazioniste e il senso di continuare ad attuare quel tipo di azioni al giorno d’oggi. Il neoismo.
Certamente, la creazione di situazioni appartiene al nostro
modo di lavorare quanto l’assalto al sistema culturale
“alto” dell’arte. Su queste nozioni in buona parte ci siamo
formati. Tra l’altro abbiamo in catalogo un progetto squisitamente situazionista, Nemico Interno, dove riproponiamo
pratiche di psico-geografia urbana in termini ludici ma
molto interessante e, soprattutto, divertente per chi vi ha
partecipato in qualità di pubblico-attore.
Steward Home contestava le rigidità di concetti avanguardisti e
probabilmente l’esistenza stessa di un’avanguardia. Qual è il
vostro rapporto con quel tipo di cinema e in genere con il cinema
sperimentale?
Conosciamo qualcosa del Cinema Sperimentale, personalmente penso che raramente in esso venga realmente alterato l’equilibrio delle cose. In questo senso, tutto il cinema
è sperimentale. Non è come ti collochi tra avanguardia o
retroguardia: se hai qualcosa da dire la dici, cercando il
modo migliore per dirla.
Potete spiegare il rapporto con lo spettatore in considerazione
della natura volutamente sgradevole di alcuni lavori e il suo ruolo di ri-codificatore del messaggio audiovisivo?
Un messaggio disturbante può risultare effettivamente utile solo se non oltrepassa una determinata soglia, una
soglia che metta in relazione in maniera armonica immagini e simboli rassicuranti con tutto ciò che è culturalmente negativo e cattivo. Lo spettatore è l’attore principale di
ogni nostro lavoro, gli si richiede una presenza attiva e la
sua creatività è determinante alla comprensione di ogni
lavoro.
In che modo è possibile sostituire il proprio sguardo a quello che
altri hanno già posto sulle cose, come vi rapportate a questa
duplicazione del punto di vista?
Più che sostituire è per noi interessante confrontarsi. Si
parte sempre dallo sguardo degli altri, prima di proporre
il nostro punto di vista. Poi, come dicevamo prima, le
immagini, i suoni, le sequenze posseggono molto più di
quello che magari hanno dato a un primo osservatore, in
questo senso potremmo dire di credere che le cose abbiano
un’anima e che possano condividerla più volte, per questo
il diritto di proprietà è un delitto che nessun autore ha il
diritto di compiere sulle proprie opere, perché nulla può
più appartenergli una volta che viene condiviso con gli
altri.
Qual è il rapporto con l’immaginario collettivo e la sua ricodificazione?
È difficile rispondere. Si ricercano continuamente le con-
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way of working as does the assault on “highbrow” cultural
system of art. This was one of the main elements to our development. Furthermore, we created an exquisitely Situationist
project, Nemico Interno, in which we re-proposed practices
of urban psycho-geography in logical but highly interesting
and, above all, entertaining terms for those who participated
as actors/spectators.
Steward Home contested the rigidity of avant-garde concepts and probably the very existence of the avant-garde.
What is your connection to that kind of cinema and with
experimental films in general?
We know something about experimental cinema, and I personally think that the balance of things is rarely altered in the
genre. In a sense, all films are experimental. It’s not a question
of how you fit in between the avant-garde and the rearguard:
if you have something to say, you say it, trying to find the best
way to do so.
Can you explain the relationship with the spectator in
respect to the intentionally unpleasant nature of certain
work, and the spectator’s role as the re-codifier of the
audiovisual message?
A disturbing message can be more effectively useful only if it
does not go beyond a certain threshold, a threshold that harmonically connects reassuring images and symbols with all
that is culturally negative or bad. The spectator is the main
character of each of our works: we ask of him an active presence and his creativity is decisive in understanding each of our
works.
In what way is it possible to replace the perspective that
others have assigned to things with your own? How do
you relate to this duplicity ofperspective?
We’re more interested in comparing points of view than
replacing them. We always begin with others’ perspectives,
before introducing our own. Plus, as we were saying before,
the images, sounds and sequences contain much more than
that which they impart to a first-time observer. Thus, we
believe that things have a soul that they can share more than
once, which is why copyrighting is a crime that no artist has
the right to commit against his or her own work, because nothing can belong to him anymore once it’s shared with others.
What is your relationship with the collective imagination
and its re-codification?
That’s a difficult question to answer. We are constantly seeking out linguistic conventions, to try and understand what
determined them, how they were consolidated. Conventions,
above all in visual languages, are like stalactites: they are
formed drop by drop, until they become solid structures.
Sometimes, they’re simply perceptive habits that are backed by
the market. However, in some cases, the market acts aggressively and “spectacular” entertainment for society imposes the
rebellious “society of the Spectacle.” At that point, a linguistic convention becomes a ball and chain, a trap from which we
have to free ourselves. Even with force.
How have you distributed your work over the years?
In 1995, we began distributing our short films by ourselves, in
three home video collections, working through three or four
national distribution companies. Obviously, the economic
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venzioni linguistiche, si prova a capire cosa le abbia determinate, come si siano consolidate. Le convenzioni, soprattutto nei linguaggi visivi, sono come delle stalattiti: si
depositano goccia dopo goccia, fino a diventare delle strutture solide. A volte si tratta solo di abitudini percettive che
vengono assecondate dal Mercato. Ma in certi casi il Mercato opera una vera e propria azione di forza e l’intrattenimento spettacolare per la società impone l’insorgere della
Società dello Spettacolo. A quel punto la convenzione linguistica è una catena alla caviglia, una trappola da cui dobbiamo liberarci. Anche con la forza.
return is minimal.
You’ve published a pamphlet and a book, you have an
Internet site and you make audiovisual anthologies: can
you trace your material relationship with the public?
We think it’s very important to reach a new audience through
bookstores, through those which before becoming films are
“objects.”
Quali sono state negli anni le modalità distributive dei vostri
lavori?
Dal 1995 abbiamo iniziato a organizzare da soli la diffusione dei cortometraggi in tre raccolte per l’home video,
servendoci di tre-quattro distributori nazionali. Chiaramente il riscontro economico è minimo.
Avete pubblicato un pamphlet e un libro, avete un sito internet
e realizzate antologie audiovisive: potete tracciare un filo del
vostro rapporto materiale con il pubblico?
Riteniamo molto importante raggiungere un nuovo pubblico attraverso le librerie, attraverso quelli che prima di
essere film sono “oggetti”.
Biografia
Cane CapoVolto viene fondato a Catania nel 1992 da Alessandro Aiello e Enrico Aresu. Nel 1996 si aggiunge Alessandro
De Filippo. Il gruppo dalla struttura elastica si costituisce sul modello della confraternita filosofica. La linea di ricerca del
gruppo passa attraverso esperienze audio-visive di varia natura che privilegiano la matrice scientifica della comunicazione e la sua risposta nello spettatore. Dopo una prima fase produttiva legata essenzialmente al cortometraggio super8, Cane CapoVolto inizia (anche in reazione all’estetica che il mezzo sembrava imporre) il progetto Video Plagium basato
sul riutilizzo dell'Informazione visiva, letteraria e sonora (coi rispettivi residui di significato) e sulle “dissonanze cognitive.” Tale indagine è stata successivamente estesa al Radiodramma (genere all’interno del quale viene privilegiato l’orientamento di “film-acustico”). In epoca più recente si collocano il progetto STEREO-30 drones for television pensato per
un’ipotetica Televisione via cavo, i falsi spot radiofonici e una linea di prodotti che analizzano la Guerra e il Nuovo Ordine Mondiale. Cane CapoVolto pubblica autonomamente cortometraggi e film-acustici in 2 linee editoriali: “Il Futuro è
Obsoleto” e “Film Acustici.”
“Non possiamo ignorare la funzione repressiva dell’‘Arte’ in una Società che ha un disperato bisogno di astrazione e creatività per sopravvivere. Il nostro lavoro è il prodotto di questa consapevolezza.”
Cane CapoVolto
Biography
Cane CapoVolto was founded in Catania (Sicily) in 1992 by Alessandro Aiello and Enrico Aresu. In 1996, they were joined by Alessandro De Filippo. The elastically-structured group modeled itself after a philosophical fraternity. The group’s line of research included various audiovisual experiences that favored the scientific matrix of communication and its response in the spectator. After an
initial phase devoted almost exclusively to Super-8 filmmaking, and also in reaction to the aesthetic that the medium seemed to impose, Cane CapoVolto began the Video Plagium project, based on the re-utilization of visual, literary and sound information (with its
respective residues of meaning) and on “cognitive dissonance.” That investigation was consequently extended to the radio play (a genre within which they favored the “acoustic film”). More recently, they created the project entitled STEREO-30 drones for television
(intended for an imaginary cable television channel): fake radio commercials and a line of products that analyze war and the new world
order. Cane CapoVolto have independently released their shorts and “acoustic films” in two collections entitled Il Futuro è Obsoleto and Film Acustici.
“We cannot ignore ‘art’s’ repressive function in a society that has a desperate need for abstraction and creativity to survive. Our work
is the product of this awareness.”
Cane CapoVolto
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CANE CAPOVOLTO
SCRAPS BRAKHAGE STOLEN
Filmclip rumorista, colorato e graffiato direttamente su
pellicola super-8. Abbiamo inmmaginato che Stan Brakhage rubasse a noi della pellicola per lavorarla e poi rivendercela.
fotografia/photography (super 8, colore): Alessandro Aiello
montaggio/editing: Alessandro Aiello
A noisy, colorful film with the scratches made directly on the
Super-8 film. We imagined Stan Brakhage stealing some film
from us, reworking it and then selling it back to us.
durata/running time: 5’
origine/country: Italia 1992
BEHIND YOUR EYELIDS
Lavoro su pellicola già esposta. Processione di immagini
fotostatiche e colore. Dietro le tue palpebre.
fotografia/photography (super 8, colore): Alessandro Aiello
montaggio/editing: Alessandro Aiello
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
A work on already exposed film. A series of photostatic images
and color. Behind your eyelids.
durata/running time: 4’
origine/country: Italia 1993
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CANE CAPOVOLTO
ANGELI SU DUE RUOTE/STREET
ANGELS (WITH VIRUS) (PLAGIUM 1)
Primo approccio al Plagiarismo e agli incidenti nel corso
dell’apprendimento. Un’audiocassetta sulle malattie veneree e immagini glamour producono un Educational medico.
formato/format: video, colore
montaggio/editing: Alessandro Aiello
The first endeavor at Plagiarism and the accidents that occur
during the learning process. An audiocassette on venereal diseases mixed with glamorous images creates an educational medical film.
durata/running time: 9’
origine/country: Italia 1993
STORIE DI MONELLI
(FILM SURREALISTA)
Figlio di un sogno: volgarizzare il Surrealismo, praticandolo. Il soggetto trae spunto da un’intervista al filmaker
Joel Haertling e dai retroscena Voodoo del film tedesco
Angelika.
regia/director: Alessandro Aiello, Enrico Aresu
sceneggiatura/screenplay: Alessandro Aiello, Enrico Aresu
fotografia/photography (super 8, colore, b/n): Alessandro Aiello
montaggio/editing: Alessandro Aiello, Enrico Aresu
interpreti/cast: Natale Musarra, Rocco Pennisi, Raffaele Pen-
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Product of a dream: spreading Surrealism by practicing it. The story was inspired by an interview with filmmaker Joel Haertling and
from the behind-the-scenes voodoo of the German film Angelika.
nisi, Jane Sjoberg, Natasha Perkow, Stefania Licciardello,
Elisabeth Bister, Signor Barbarino, Gabriele Parisi, Francesco
Balsamo, Vincesco Schillirò
durata/running time: 11’
origine/country: Italia 1995
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AFRICA ADDIO (PLAGIUM 11)
Tenebrosa filiazione tra 2 reperti di basso profilo morale: la
sequenza di un processo da un film di G. Jacopetti (Africa
Addio) e conversazioni telefoniche recitate tratte da veri
dialoghi tra Lady Diana e il suo amante.
formato/format: video, colore
montaggio/editing: Alessandro Viani
produzione/production: Cane CapoVolto – Coop. Atalanti-
The somber affiliation between two low (moral) profile finds: the
sequence of a trial from a film by Gualtiero Jacopetti (Africa
Addio) and acted phone conversations based on the real dialogue between Lady Diana and her lover.
de/Catania
durata/running time: 4’
origine/country: Italia 1996
RUN HUBBARD LOOP (PLAGIUM 5)
Il testo di Ralph Rummey è illustrato da una sequenza di
undici inquadrature dal film Spione (L’inafferrabile, 1928) di
Fritz Lang.
formato/format: video, b/n, colore
montaggio/editing: Alessandro Viani
voce narrante/narrator: Gaetano Lizzio
produzione/production: Cane CapoVolto – Coop.
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Ralph Rummey’s text is illustrated by a sequence of eleven shots
from Fritz Lang’s 1928 film, The Spy.
Atlantide/Catania
durata/running time: 10’
origine/country: Italia 1996
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CANE CAPOVOLTO
MAL D'AFRICA:
THE RAINBOW STORIES
Fiction in stile Cinema-Verité. E’ uno dei 9 episodi di The
Rainbow Stories progetto collettivo internazionale curato da
Studio Een di Rotterdam. L’occultista Aleister guida una
spedizione scientifica su un isolotto infestato da spiriti
minacciosi e triviali.
formato/format: super 8, b/n
montaggio/editing: Enrica Carfi
musica/music: Tommessa Marletta
interpreti/cast: Filippo Manno, Giuseppe Di Maio
A fictional work made in the cinema verité style. One of the nine
episodes of The Rainbow Stories, an international collective
project coordinated by Studio Een in Rotterdam. Occultist
Aleister leads a scientific expedition on a small island teeming
with threatening and trivial spirits.
produzione/production: Cane Capovolto - Studio Een/R’Dam
durata/running time: 11’
origine/country: Italia 1996
BORGHESI COL VIZIETTO DELL'ARTE
(PLAGIUM 6)
Struggente cortometraggio sul fallimento dell’Arte e sulla
natura controrivoluzionaria del “sentimento creativo”.
formato/format: super 8, b/n
montaggio/editing: Mariella Arena
musica/music: Tommaso Marletta
interpreti/cast: Giuseppe Gisabella, Mario Bonica, Benedetto
Caldarella
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Heartrending short film on the failure of art and on the counterrevolutionary nature of “creative sentiment.”
voce narrante/narrator: Gaetano Lizzio
produzione/production: Cane CapoVolto – Banda Colore/Milano
durata/running time: 4’
origine/country: Italia 1997
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LA PITTURA 'PRESAGISTA'
DI LUIGI BATTISTI (PLAGIUM 6B)
Un artista, tra i migliori 7mila operanti a Roma. Un pretesto per evocare la tragedia dell’Arte Contemporanea:
“L’Arte -come la Religione- nasce dal Desiderio non soddisfatto”.
formato/format: video, b/n
montaggio/editing: Alessandro Viani
musica/music: Tomamso Marletta:
voce narrante/narrator: Nuvola Rinaldi
An artist, among the best of the seven thousand working in
Rome. A pretext for evoking the tragedy of contemporary art:
“Art, like religion, is born from a desire that is not satisfied.”
produzione/production: Cane CapoVolto
durata/running time: 4’
origine/country: Italia 1997
EVIL AND POP CULTURE
(PLAGIUM 10)
Falso-Documentario “fondamentalista” sull’essenza
demoniaca nella musica pop. Take That, Abba ed Elvis
Presley: in 3 loro videoclip il segno dello “Scorpione
Nascente” che corrompe l’interno lasciando intatta la
superficie. Nel 1947 Aleister Crowley scrive: “There is a
level of Pain beyond which Pop Music cannot retain consciousness...”
formato/format: video, colore
montaggio/editing: Alessandro Viani
voce narrante/narratore: Gaetano Lizzio
musica/music: Tommaso Marletta
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
A fake “fundamentalist” documentary on the diabolic essence of pop
music. Take That, Abba and Elvis Presley: in three of their videos,
the sign of Scorpio Rising corrupts the interior, leaving the surface
intact. In 1947, Aleister Crowley wrote: “There is a level of Pain
beyond which Pop Music cannot retain consciousness...”
produzione/production: Cane CapoVolto
durata/running time: 16’
origine/country: Italia 1997
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CANE CAPOVOLTO
UNCLEAN POP (ON STEREO)
(PLAGIUM 10B)
Videoclip apocrifo della canzone “The Descent of Long Satan
and Babylon” di Current 93.
formato/format: super 8, colore
montaggio/editing: Maria Arena
interpreti/cast: Adalgisa Di Salvo, Vincenzo Schilirò
produzione/production: Cane CapoVolto – Banda
Apocryphal video for Current 93’s song, “The Descent of Long
Satan and Babylon.”
Colore/Milano
durata/running time: 3’
origine/country: Italia 1997
F FOR FAKE: THE BLACK SUN
(PLAGIUM 9)
Chiazze gialle di degenerazione retinica, l’assordante battito
dei 5O hertz e il culto del dio Mitra. La storia degli “Assassini
del Sole Nero” tra Mitologia e Scienza.
formato/format: video, colore
montaggio/editing: Alessandro Viani
suono/sound: Tomamso Marletta
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Little yellow spots of retinal degeneration, the deafening beat of
the 5O hertz band and the cult of the god Mithras. A history of
the Black Sun murders between mythology and science.
voce narrante/narrator: Steve Convay
durata/running time: 9’
origine/country: Italia 1997
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CANE CAPOVOLTO
L'ATTACCO COL FUOCO
(PLAGIUM 14)
La violenza della Religione rivelata dall’inconscio della
scrittura: i versi di Derek Jarman morente, le riflessioni di
Bertrand Russell sull’agnosticismo, sequenze da Le Grand
Bleu, Africa Addio, un colombo in un test sull’apprendimento. Il processo della “dissonanza-cognitiva” fa da sfondo al confronto inquietante tra il sentimento religioso e l’anelito dell’uomo all’Arte.
formato/format: video, colore
montaggio/editing: Alessandro Viani
musica/music: Tommaso Marletta, con un intervento di Elio
Martusciello (dal tema “Invasione”)
The violence of religion revealed by writing’s unconscious: Derek
Jarman’s deathbed verses, Bertrand Russell’s reflections on
agnosticism, clips from Le Grand Bleu, Africa Addio and a
dove during a learning experiment. The process of “cognitive
dissonance” offers the backdrop to the disturbing comparison
between religious sentiment and man’s yearning for art.
voce narrante/narrator: Gaetano Lizzio
produzione/production: Cane CapoVolto – Coop.Atlantide
durata/running time: 17’
origine/country: Italia 1997
LEI E' KARL KRAUS, VERO?
(PLAGIUM 15)
Un rudimentale Inferno rende possibile un incontro tra il
pensatore Karl Kraus, Elvis Presley, William Burroughs e
Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Una comunità mistica
nella quale ognuno ha rinunciato all’uso della ragione.
formato/format: video, b/n
montaggio/editing: Enrica Carfì, Alessandro Viani
suono/sound: Tommaso Marletta
voce narrante/narrator: Gaetano Lizzio
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
A rudimentary Inferno renders possible an encounter between
thinker Karl Kraus, Elvis Presley, William Burroughs, Franco
Franchi and Ciccio Ingrassia. A mystic community in which each
person has relinquished the use of reason.
produzione/production: Cane CapoVolto – Coop. Atlantide
durata/running time: 5’
origine/country: Italia 1997
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CANE CAPOVOLTO
LA SEPTIEME OPERATION
(PLAGIUM 13)
Filmato medico didattico acquistato in un mercatino delle
pulci. Muto, con cartelli in francese. Presumibilmente prodotto negli anni ‘70.
formato/format: super 8, b/n
produzione/production: Istitut D’observance Animale 1975
Educational medical film bought at a flea market. A silent film with
French captions. Presumably made in the 1970s.
durata/running time: 6’
origine/country: Italia 1998
LA PAROLA CHE CANCELLA/
THE OBLITERATING WORD
Una singola parola non-compresa può distruggere progressivamente l’edificio del pensiero umano. Una introduzione all’Istituto di Obbedienza Animale. Basato sull’omonimo Cd audio con 14 tracce in “random”.
formato/format: video, colore
montaggio/editing: Uccio Pazienza
suono/sound: Massimiliano Sapienza
voce narrante/narrator: Gaetano Lizzio
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A single, misunderstood word can progressively destroy the edifice
of human thought. An introduction to the Institute of Animal Obedience. Based on the eponymous audio CD, with fourteen “random”
tracks.
produzione/production: Istituto di Obbedienza Animale –
Cane CapoVolto
durata/running time: 8’
origine/country: Italia 1999
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CANE CAPOVOLTO
STEREO#0
(30 DRONES FOR TELEVISION)
STEREO#1: ERASING/
THAT THOU WILL
Progetto seriale studiato per la Televisione via-cavo e
Internet. I Droni (30 secondi ciascuno) sono altrettante scatolette numerate che funzionano sia autonomamente sia in
gruppi tematici. Si tratta di una struttura smontabile e
rimontabile a piacere, all’interno della quale fiction, cinema astratto, found footage, documentari girati in super-8 e
Dv, stabiliscono un mosaico narrativo provvisorio e volutamente disordinato.
formato/format: video, colore
montaggio/editing: Uccio Pazienza, Aldo Kappa
suono/sound: Metaxi, Massimo, Cane CapoVolto
voce off/voice off: John Batty
Serial project created for cable TV and the Internet. The Drones (30
seconds long each) are thirty small, numbered boxes that function
both independently and in thematic groups. It is an easily assembled
and dissembled structure, inside of which fiction, abstract cinema,
found footage, and Super-8 and DV documentaries create a temporary and intentionally disorderly narrative mosaic.
produzione/production: Cane CapoVolto
durata/running time: 8’, 8’
origine/country: Italia 2000, 2002
NICKEL
Solvente su code numerate di pellicola cinematografica
35mm. Fin dall’inizio associato all’omonima composizione
elettronica.
formato/format: 35mm, video
durata/running time: 3’
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Solvent on the numbered leaders of 35mm film. Associated from
its inception with the electronic composition of the same name.
origine/country: Italia 2000
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CANE CAPOVOLTO
LA FORTUNA VERRÀ DA TE
Una sorta di catena di Sant’Antonio in cui si richiede di
leggere e diffondere venti volte una lettera, aspettando che
il nono giorno succeda qualcosa. Da una storia vera.
montaggio/editing: Aldo Kappadona
interpreti/cast: Benedetto Caldarella, Gaetano Lizzio
A chain letter that asks people to read it, send out twenty copies,
then wait for something good to happen to them on the ninth
day. Based on a true story.
durata/running time: 2’
origine/country: Italia
SPECTRUM
Il freddo è il protagonista. Tutti hanno freddo, dato che
esso viene dalle pareti… immagini per un loop sonoro. E’
solo un uccellino in gabbia ma la sua prigione non è quella che possiamo vedere.
formato/format: video
durata/running time: 3’
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Cold is the main character. Everyone feels cold, seeing as how it
comes from the wall.... Images for a sound loop. It’s only a small
bird in a cage, but its prison is not the one we can see.
origine/country: Italia 2002
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CANE CAPOVOLTO
IMPERO – (IN GOD WE TRUST)
Il dopoguerra e il Nuovo Ordine Mondiale raccontati per
mezzo di documentari, film di guerra, fotografie e vari
reperti. Waco, Oklahoma City, l’11 Settembre, la guerra al
terrorismo e le leggi speciali, l’“Altra America” e la distruzione della Costituzione. Nella marcia delle ultime amministrazione presidenziali c’è il desiderio manifesto di
annullarsi nell’infinito, con il consenso di Dio e delle multinazionali.
formato/format: video
montaggio/editing: Aldo Kappadona
musica/music: Cane CapoVolto
voce narrante/narrator: Gaeltano Lizzio, Franco Fortunato,
The post-war condition and the New World Order, as told through
documentaries, war films, photographs and various archive findings. Waco, Oklahoma City, 9/11, the war on terrorism and special
laws, the “other America” and the destruction of the Constitution.
Throughout the march of the last presidential administrations, there
was a blatant desire for annihilation oneself into oblivion, with the
consent of God and the multi-nationals.
Riccardo Maria Tarci
produzione/production: CaneCapoVolto
durata/running time: 31’
origine/country: Italia 2003
THE PENTAGON TV COMMERCIALS
Il seguito-continuazione di Impero ribalta il punto di vista
sostituendo il travestimento alla denuncia. Una casa di
produzione (la Endeath.com) realizza per conto del Pentagono una serie di spot televisivi sui temi di politica estera
e politica interna. Il pensiero militarista del Pentagono, la
soggettiva dell’Impero e dei Neo-Conservatori vengono
esagerate, rimanendo dentro una logica di comunicazione
di Propaganda: Nulla è vero, Tutto è Permesso.
Amen.
formato/format: spot televisivi
durata/running time: 10’
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
The follow-up/continuation of Impero reverses the point of
view, replacing denunciation with disguise. A production company (Endeath.com) makes a series of television commercials on
foreign and national policy for the Pentagon. The Pentagon’s
militaristic philosophy and the point of view of the Empire and
the Neo-Conservatives are exaggerated, remaining within the
logic of propaganda communication: Nothing is True, Everything is Allowed. Amen.
origine/country: Italia 2004
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CANE CAPOVOLTO
AARON, IL GUERRIERO DIGITALE
Il sergente Aaron viene intervistato in un bosco. Aaron è
un ritardato mentale, è stato ferito gravemente nelle due
guerre contro l’Iraq, e interamente ricostruito integrando
carne e circuiti elettronici. Benché la sua mente appaia programmata in maniera controversa (patriottismo infantile e
cinismo estremo vi convivono) ognuna delle 30 risposte è
quella giusta.
montaggio/editing: Aldo Kappadona
suono/sound: Cane CapoVolto
musica/music: Tazio Iacobacci, Carlo Natoli
interpreti/cast: Marco Prato
voce narrante/narrator: Nelson Henricks, Pierre Beaudoin,
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Sergeant Aaron is interviewed in a forest. Aaron is mentally
retarded. He was seriously wounded in the two wars against Iraq
and completely reconstructed integrating flesh with electronic
circuits. Although his mind seems to be programmed in an
extremely controversial manner (infantile patriotism lives side
by side with extreme cynicism) each of his 30 answers are correct.
Massimo Leggio
produzione/production: Cane CapoVolto
durata/running time: 28’
origine/country: Italia 2005
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CANE CAPOVOLTO
INCONTRI E SEMINARI
PRESENTATIONS AND SEMINARS
1) NULLA È VERO TUTTO È PERMESSO
Contributi audio e video sulle nozioni di “vero-simile”,
“Persuasione”, “Propaganda del Nulla”.
Ragionando a freddo su quelle che si sono rivelate le tendenze dominanti all’interno della produzione di Cane
CapoVolto, abbiamo costruito un programma audio e
video che illustri in maniera sufficientemente aperta
urgenze politiche e strategie comunicative adottate, per
renderle il più penetranti, mimetiche e “asimmetriche”
possibile. Forse “nulla è vero” ma è possibile averne
coscienza soltanto dopo che “tutto è stato permesso”, cioè
al termine dello Spettacolo. Il seminario si struttura attraverso sei momenti distinti collegati tra loro.
a) Street Angels with Virus (video, 1993, 9’)
b) Il criminale costituzionale (installazione per 2 televisori, 1995, 50’)
Questa installazione portò alle estreme conseguenze l’applicazione delle teorie sulla persuasione, attraverso processi di “dissonanza cognitiva”. Dinnanzi alla visione contemporanea di 2 diversi documentari che hanno lo stesso
commento in voce narrante, lo spettatore ritiene in alcuni
casi più verosimile e puntuale il documentario associato a
un sonoro non suo.
c) Evil pop (video, 1997, 16’)
d) Falsi spot radiofonici (audio)
Estetica e meccanica del “cavallo di Troia”: un involucro
ammiccante e familiare (lo spot commerciale) accoglie contenuti distorti e in un certo senso “inutili”. La persuasione
in questo caso utilizza Merci (armi, psicofarmaci e terapie)
e aziende inesistenti.
e) The Pentagon tv commercials (video, 18’)
Denunciare l’azione e le strategie del Pentagono per produrre indignazione? Niente affatto. Il corrispettivo del
metodo omeopatico suggerisce al contrario di “essere Il
Pentagono” e riprodurrre, esaltare, esagerare ciò che è
latente.
f) Rock Radio (audio)
Due trasmissioni radiofoniche simulate sul Rock and Roll.
La radio che le trasmette opera uno slittamento “spaziotemporale” diventando a sua volta “Rock Radio”. La stupidità o l’inesorabile bellezza del R&R accelerano uno
scontro con contenuti degeneri, ripercorrendo la rappresentazione di Kenneth Anger dello “Scorpione Nascente.”
1) NOTHING IS TRUE AND EVERYTHING IS
ALLOWED
Audio and video contributions on the notions of “verisimilitude,” “Persuasion” and the “Propaganda of Nothing.”
Taking an objective look at that which have revealed themselves
to be the main tendencies of Cane CapoVolto’s body of work, we
constructed an audio and video program that illustrates, in a
sufficiently open manner, [our] adopted political urgencies and
communicative strategies, to render them as penetrating, mimetic and “asymmetrical” as possible. Perhaps “nothing is true”
but it’s possible to become aware of that only after “everything
has been allowed,” that is, once the spectacle is over. The seminar is structured around six distinct, interconnected segments:
a) Street Angels with Virus (video, 1993, 9’)
b) The constitutionalized criminal (installation for two television sets, 1995, 50’)
This installation led to the extreme consequences of the application of the theories on persuasion, through processes of “cognitive dissonance.” Faced with the simultaneous viewing of two
different documentaries that have the same off-camera commentary, the spectator finds that, in certain cases, a documentary is
more plausible and precise when associated with a different
soundtrack.
c) Evil pop (video, 1997, 16’)
d) Fake radio commercials (audio)
The aesthetics and mechanics of the “Trojan Horse”: an alluring
and familiar packaging (the commercial) welcomes distorted
and, in a way, “useless” content. In this case, persuasion uses
merchandise (weapons, psychotropic drugs and therapy) and
non-existent companies.
e) The Pentagon TV commercials (video, 18’)
Condemn the actions of strategies of the Pentagon to create
indignation? Not at all. The equivalent to the homeopathic
method suggests, on the contrary, “being the Pentagon” and
recreating, exalting and exaggerating that which is latent.
f) Rock Radio (audio)
Two fake radio programs on rock’n’roll. The radio station broadcasting them performs a “time-space” slip to become “Rock
Radio.” The stupidity and inexorable beauty of rock’n’roll speed
up a confrontation with degenerate contents, going over that
which Kenneth Anger depicted in his Scorpio Rising.”
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NUOVE PROPOSTE VIDEO
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NUOVE PROPOSTE VIDEO
Alfred Guzzetti
HISTORY OF THE SEA
(t.l.: Storia del mare)
Il mare è anche il confine della terra.
The sea is the land’s edge also.
Biografia
Nato a Filadelfia, insegna arti visive ad Harvard. Da regista realizza film sperimentali e documentari selezionati in
vari festival internazionali come Berlino, Sundance, Edimburgo. Ha scritto anche un libro sul film Due o tre cose che
so di lei di Godard.
Biography
Born in Philadelphia, he teaches Visual Arts at Harvard. As a
director, he had made experimental films and documentaries that
have been presented at numerous international festivals, including Berlin, Sundance, and Edinburgh. He is also author of the
book Two or Three Things I Know about Her: Analysis of a
film by Godard.
fotografia/photography (dv): Alfred Guzzetti
montaggio/editing: Alfred Guzzetti
suono/sound: Alfred Guzzetti
durata/running time: 14’
origine/country: Usa 2004
Jean-Gabriel Périot
DIES IRAE
... del tuo amore. Ricordati perché in questo giorno io non
sia perduto senza ritorno.
...of your love. Remember that today I am not lost in the fray.
Biografia
Ha realizzato installazioni video, cortometraggi (sia di animazione che sperimentali) e videodanza.
Biography
He has performed videodance and made video installations and
short films, (both animated and experimental).
sceneggiatura/screenplay: Jean-Gabriel Périot
formato/format: video, colore
produzione/production: Envie de Tempête Productions
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durata/running time: 10’
origine/country: Francia 2005
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NUOVE PROPOSTE VIDEO
Vaughan Pilikian
HAMMER AND FLAME
(t.l.: Martello e fiamma)
La visione di un luogo nel quale le navi vengono smontate nel nord dell’India. Un ciclo senza fine nel quale le grandi opere dell’uomo vengono scomposte pezzo dopo pezzo
con gli strumenti più semplici.
A vision into the shipbreaking yards of northern India, where in
an unending cycle the greatest of manmade titans are taken
apart piece by piece with only the simplest of tools.
Biografia
Scrittore, artista e filmmaker, ha studiato a Oxford, Cambridge e Harvard. È il fondatore e il direttore artistico di
“Unruowe”. Ha pubblicato un libro di poesie nel 2002. Tra
i suoi film, Mummers è stato premiato in numerosi festival
internazionali.
Biography
A writer, artist and filmmaker educated at the universities of
Oxford, Cambridge and Harvard, he is the founder and artistic
director of Unruowe. His book of poetry At Eclipse was published in 2002 and his paintings are in private collections in the
U.S. His films, including the award-winning Mummers, have
screened at various film festivals around Europe.
fotografia/photography (colore): S. Nallamuthu
montaggio/editing: Vaughan Pilikian, Justin Meiland
suono/sound: B. Vaidhyanathan, Vaughan Pilikian
produttore/producer: Justin Meiland
produttore/production: Unruowe, Screen South, UK Film
Coucil
distribuzione/distribution: Unruowe
durata/running time: 10’
origine/country: Gran Bretagna 2005
Shelly Silver
WHAT I’M LOOKING FOR
(t.l.: Quello che sto cercando)
Una donna di nazionalità ignota decide di fotografare l’intimità in uno spazio pubblico.
A woman of unknown nationality sets out to photograph intimacy in public space.
Biografia
Nata a New York nel 1957, ha studiato arte alla Cornell
University. Dopo vari progetti artistici, ora insegna alla
Cooper Union e alla Scuola di arti visive, fotografia e
media. La sua opera prima risale al 1980, Here We are.
Biography
Born in New York in 1957, she received a BA and BFA at Cornell University. After having created numerous artistic projects,
she now teaches at The Cooper Union and in the MFA Program
of Photograhy and Related Media at the School of Visual Arts.
She made her debut work, Here We Are, in 1980.
fotografia/photography (video-installazione, Hd, colore):
Shelly Silver
suono/sound: William Seery
narratore/narrator: Katrin Sigudardottir
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produttore/producer: Shelly Silver
produzione/production: House Productions
durata/running time: 15’
origine/country: Usa 2004
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NUOVE PROPOSTE VIDEO DALL’ITALIA
Barbara Faonio
MUCCHE
Le mucche mangiano l’erba? Con ritmo naturale immagini e musica raggiungono disinvolte la violenza. Si avverte
l’odore dell’ingiustizia…
“Il carnefice rovista nella perfezione degli organi interni.”
Flavia Mastrella
Do cows eat grass? With a natural pace, the images and music
non-chalantly arrive at violence. The scent of injustice is detected.... “The executioner rummages through the perfection of
internal organs.”
Flavia Mastrella
Biografia
Vive e lavora tra Teramo e Roma dove si occupa di riprese
e montaggio video. La sua opera prima, Husk, è del 2002.
Biography
She lives and works between Teramo and Rome, where she dedicates most of her time to shooting and editing videos. She made
her first video, Husk, in 2002.
formato/format: mini dv/8mm, colore
interpreti/cast: Marta e Matteo Di Martino
durata/running time: 6’
origine/country: Italia 2004
Gaetano Gentile
FIUMICINO MON AMOUR
Danilo, fissato per il cinema, viene cacciato dal lavoro di
sguattero. Due truffatori con un delirante telegramma lo
invitano a uno strano festival di cortometraggi. Lui si barcamena in mille lavori per comprare telecamera e pellicola
dai truffatori.
Danilo, obsessed with cinema, is fired from his job as a busboy.
Two con artists with a deranged telegram invite him to a strange
festival of short films. He takes on ton of odd jobs in order to buy
a small camera and some film from the con artists.
Biografia
Nato nel 1965, laureato in Storia e Critica del cinema, scrive su diverse riviste. E’ al sesto cortometraggio. Attore per
piccoli ruoli in alcune fiction e film.
Biography
Born in 1965, and gradated in Film History and Criticism, he
writes for a number of film magazines. Fiumicino mon amour is
his sixth short. He has also worked as an actor in serveral films
and TV programs.
sceneggiatura/screenplay: Gaetano Gentile
fotografia/photography (betacam, super vhs, vhs-c, mini dv):
Davide Gallo, Daniele Fragapane, Carmelo Milone
montaggio/editing: Andrea Ciacci
scenografia/art director, costumi/costumes: Fabrizio Colamartino
interpreti/cast: Danilo Barchiesi, Franca Scagnetti, Gerardo
Sperandini, Nico D’Alessandria, Mario Cipriani, Carmelo
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Milone, Pino D’aloja, Ettore Garofolo, Argenide Perissinotto,
Vera Gemma, Franco Citti, Angelo Torraco, Antonio Giordani, Alessandro Morera, Leopoldo Cimino e Gaetano Gentile,
Claudio Di Sciullo, Bernardo Consoli, Gemma Barchiesi,
Fabrizio Colamartino, Daniele Fragapane, Leo La Rosa
durata/running time: 50’
origine/country: Italia 2005
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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NUOVE PROPOSTE VIDEO DALL’ITALIA
Antonello Matarazzo
MISERERE
“In seguito ad un’intervista su Raitre, nella quale venivano mostrati alcuni miei lavori pittorici che avevano come
soggetto persone affette da malformazioni, fui contattato
da un gruppo di ragazzi disabili. Niente mi sembrava più
interessante della ‘realtà’ di questi ragazzi. Ho girato questa sorta di ‘panegirico dell’imprecazione’ senza mediazioni, tra le rovine industriali dell’ex Italsider di Bagnoli
(Napoli) e le pale eoliche di Lacedonia (Avellino). Nei loro
occhi si possono leggere trame di film lunghi una vita.”
Antonello Matarazzo
“Following the interview on Raitre, during which they showed
several of my paintings on people with deformities, I was contacted by a group of handicapped kids. Nothing seemed more
interesting to me than these kids’ ‘situations.’ I shot this ‘eulogy
of imprecation’ without much forethought, among the industrial
ruins of the former Italsider in Bagnoli (Naples) and the windmills of Lacedonia (Avellino). In their eyes, we can read the plots
of films that last a lifetime.”
Antonello Matarazzo
Biografia
Il suo lavoro si colloca nella più recente ricerca tesa ad
annullare le distanze tra i vari media. I suoi video sono stati selezionati in numerosi festival e proiettati nelle università a scopo didattico.
Biography
His work is part of the most recent attempts at removing the distances between the various media. His videos have been selected
by numerous festivals and screened at universities for educational purposes.
sceneggiatura/screenplay: Rincen Caravacci, Antonello Matarazzo
fotografia/photography (dv cam, colore): Marco De Angelis,
Antonello Matarazzo
montaggio/editing, suono/sound, scenografia/art director, produttore/producer: Antonello Matrazzo
musica/music: Canio Loguercio, Fabrizio Castanìa
interpreti/cast: Canio Loguercio, Aurora Staffa, Luigi Tufano,
Sisy Liguori, Armando De Sanctis, Massimo Borriello, Camy
Reza, Barbara Matetich
durata/running time: 19’
origine/country: Italia 2005
Nefeli Misuraca
TUTTO IL MIO TEMPO
Come fa un poeta a scrivere una poesia? Cosa gli dà l’ispirazione per comporre? Attraverso lo sguardo nella vita
intima e quotidiana di una poetessa, scopriamo quali sono
i moti e i modi di composizione di una poesia.
How does a poet write a poem? Where does his or her inspiration
come from? By taking a look at the intimate, daily life of a poetess, we discover the motives and modes for writing a poem.
Biografia
Nata a Roma nel 1972, laureata in Lettere Moderne, ha
lavorato come sceneggiatrice, aiuto regia e segretaria di
edizione. Dal 2002 lavora come montatrice freelance, sceneggiatrice e lettrice di sceneggiature a Roma. Tutto il mio
tempo è il suo primo cortometraggio.
Biography
Born in Rome in 1972, and a graduate in Modern Literature, she
has worked as a screenwriter, assistant director and continuity
girl. Since 2002, she has been working as a freelance editor,
screenwriter and screenplay proofreader in Rome. Tutto il mio
tempo is her first short film.
fotografia/photography: Nefeli Misuraca
montaggio/editing: Nefeli Misuraca
interpreti/cast: Nefeli Misuraca, Noemi Paolini, Emerico Giachery
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
produzione/production: Via Labicana Productions
durata/running time: 14’
origine/country: Italia 2005
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NUOVE PROPOSTE VIDEO DALL’ITALIA
Davide Rinaldi
CANDIDATO A SETTE PREMI OSCAR
(FILM DI SUPERFICIE)
Candidato a sette premi oscar è un insieme di pensieri e miti
contemporanei. Si sviluppa intorno a tre situazioni, più
che a episodi.
Nominated for seven Oscars, the video is a blend of contemporary thoughts and myths. It develops around three situations
rather than episodes.
Biografia
Nato a Napoli nel 1982, frequenta l’università, con indirizzo cinematografico, di Tor Vergata a Roma. Musicista, attore e regista ha inoltre realizzato “esperimenti audiovisivi.”
Biography
Born in Naples in 1982, he studies cinema at the Tor Vergata
University in Rome. A musician, actor and director, he has also
made “audiovisual experiments.”
sceneggiatura/screenplay: Davide Rinaldi
fotografia/photography: Antonio Maini
montaggio/editing: Davide Rinaldi
musica/music: Davide Rinaldi
scenografia/art director: Antonio Maini, Davide Rinaldi
interpreti/cast: Davide Rinaldi, Emanuele Zucchini, Dario
Petriacci, Camilla Lombardi, Renato Zucchini, Luciana
Romani, Martina Loppa, Alessandro Casponi, Chiara Bartoli
costumi/costumes: Luigina Fortini, Manuela Ciuro
produzione/production: kinescarabei
durata/running time: 19’
origine/country: Italia 2005
Salis & Vitangeli
MOURNING STAR 2
Una falena dopo un volo virtuoso sbatte su una grata elettrica e inizia lentamente a bruciare fino al suo totale dissolvimento. Il lavoro vuole essere una metafora della morte in bilico fra terrifico e sublime.
After a virtuoso flight, a moth slams into an electric grate and begins
slowly burning, until it completely dissolves. This work is an
attempted metaphor on death, poised between the terrifying and the
sublime.
Biografia
Giovanna Salis e Massimo Vitangeli insegnano all’Accademia di Belle Arti di Urbino. Lavorano a un progetto che si
pone fra scienza e destino.
Biography
Giovanna Salis and Massimo Vitangeli teach at the Academy of Fine
Arts in Urbino. They are working on a project that lies between science and destiny.
durata/running time: 2’
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origine/country: Italia 204
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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NUOVE PROPOSTE VIDEO: DOCUMENTANDO
Dan Boord & Luis Valdovino
THEMES
(t.l.: Argomenti)
Questa vicenda post guerra fredda suggerisce che la storia
non finisce con il crollo del Muro di Berlino, ma che è stata reinventata in una rappresentazione teatrale di bambini
di Doña Faustina in un luogo dello Yucatan, Messico. È un
nuovo anno, e un nuovo secolo, e Themes è qui a osservare
nostalgicamente che questi bambini non potranno realizzare il proprio futuro così come lo hanno concepito
This post Cold War story proposes that history did not end with
the collapse of the Berlin Wall, but has been reinvented in a children’s theatrical production of Doña Faustina somewhere in
Yucatan, Mexico. It is a new year, and new century, and
Themes is here to nostalgically observe that they do not make
the future the way they used to.
Biografia
Luis Valdovino ha ricevuto un MFA dall’università dell’Illinois nel 1987. Attualmente insegna Lettere presso l’università del Colorado. I suoi lavori sono stati selezionati in
numerose mostre. Ha anche prodotto molti video che hanno ricevuto premi, in collaborazione con Dan Boord.
Dan Boord ha ricevuto un MFA dall’università di San Diego, California, nel 1980. Insegna presso l’università del
Colorado. Come Valdovino, anche i suoi lavori sono stati
esposti in numerose mostre.
Biography
Luis Valdovino received an MFA from the University of Illinois
in 1987. Currently, he is Associate Professor of Art at the University of Colorado. His works have been included in numerous
exhibitions and he has also produced several award-winning
tapes in collaboration with Dan Boord.
Dan Boord received an MFA from the University of California
San Diego in 1980. Currently, he is professor at the University
of Colorado. His work has been exhibited in numerous museums
and festivals and he has collaborated with Luis Valdovino on several award-winning videos.
sceneggiatura/screenplay: Dan Boord, Luis Valdovino
fotografia/photography (video, colore): Dan Boord, Luis Valdovino
montaggio/editing: Dan Boord, Luis Valdovino
scenografia/art direction: Dan Boord, Luis Valdovino
costumi/costumes: Dan Boord, Luis Valdovino
suono/sound: Dan Boord, Luis Valdovino
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
musica/music: Tom Wells, Los de Abajo, Celia Cruz, Flaco
Jimenez, Darius Milhaud, Bob Wills
interpreti/cast: Dan Boord, Angeles Romero, Luis Valdovino
produzione/production: Dan Boord, Luis Valdovino
durata/running time: 28’
origine/country: Usa 2004
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NUOVE PROPOSTE VIDEO: DOCUMENTANDO
Dominique Dubosc
RÉMINISCENCES D’UN VOYAGE
EN PALESTINE
(t.l.: Reminiscenze di un viaggio
in Palestina)
Nel luglio del 2002 l’illustratore Daniel Maja è stato invitato a Ramallah e Gaza per svilluppare un progetto in una
scuola d’arte palestinese. Il filmmaker Dominique Dubosc
ha deciso di accompagnarlo. Il film si basa sui loro due
punti di vista.
In July 2002, illustrator Daniel Maja was invited to Ramallah
and Gaza to develop a project for art schools in Palestine. Filmmaker Dominique Dubosc decided to accompany him. The film
grew out of their two perspectives.
Biografia
Dominique Dubosc, nato in Francia, è attivo nel campo del
cinema sin dal 1968 e ha realizzato più di trenta film. Negli
anni ’70 e ’80 ha realizzato documentari dedicati soprattutto
ad argomenti come l’infanzia, la malattia psichica e la classe
operaia. Negli anni ‘90 ha diretto due film dedicati a Jean
Rouch e Jonas Mekas e poi ha realizzato le riprese di spettacoli
teatrali e performance di attori comici. La questione palestinese era già stata affrontata nel precedente Palestine Palestine
(2001-2002).
Biography
Dominique Dubosc was born in France and has been involved in
cinema since 1968, making over thirty films. During the 1970s
and 80s he concentrated mainly on documentaries about childhood, mental illness and the working class. During the 1990s, he
directed two films dedicated to Jean Rouch and Jonas Mekas and
also filmed theatrical performances and comedians onstage. His
previous film, Palestine Palestine (2001-2002) dealt with the
Palestinian problem.
fotografia/photography: Dominique Dubosc
montaggio/editing: Dominique Dubosc , Bernard Josse
musica/music: Munir Bachir
suono/sound: Dominique Dubosc
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produzione/production: Kinofilm 2004
durata/running time: 38’
origine/country: Francia 2004
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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NUOVE PROPOSTE VIDEO: DOCUMENTANDO
Angiola Janigro
OGGIDUNQUE
E’ il ritratto di un artista visivo contemporaneo, Leo Mingrone, di cui si vuole cogliere l’operare in uno spazio
sospeso tra il segno e il vivere.
A portrait of contemporary visual artist Leo Mingrone that
wishes to capture the artist in a space suspended between painting and living.
Biografia:
Vive e lavora a Roma, alternando l’attività teatrale e cinematografica a quella di scrittrice. Ha conseguito la laurea
in Lettere con indirizzo teatrale e cinematografico e il
diploma di Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Dopo la realizzazione di alcuni cortometraggi, ha debuttato in Olanda nel 1985 come sceneggiatrice e
regista di un lungometraggio, La Porta di casa, scritto e
diretto insieme ad Heddy Honigmann. Il film è stato accolto con grande interesse dal pubblico e dalla critica olandese e apprezzato in tutti i festival internazionali cui ha partecipato in concorso. Nel 1988 ha fondato l’ANJA Film, di
cui è amministratrice unica. Nel 1993 ha prodotto, scritto e
diretto il lungometraggio L’equivoco della luna.
Biography
Angela Janigro graduated in Directing from Rome's Centro
Sperimentale di Cinematografia, works and lives in Rome and
divides her time between theatrical activities, filmmaking and
writing. After completing several short films, she debuted in
Holland in 1985 as a screenwriter and director of the feature film
La Porta di casa, written and directed together with Heddy
Honigmann. The film was was very well received by the Dutch
public and press and won acclaim at all the international film
festivals at which it competed. In 1988, she founded ANJA Film
and, in 1993, she produced, wrote and directed the feature film,
L’equivoco della luna.
sceneggiatura/screenplay: Angiola Janigro, Laura Franceschini,
Leo Mingrone (monologo)
fotografia/photography (colore): Laura Franceschini, Arnold
Schmidt
montaggio/editing: Arnold Schmidt, Angiola Janigro, Laura
Franceschini, Leo Mingrone
suono/sound: Arnold Schmidt, Dominique Contat
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
interpreti/cast: Leo Mingrone, Angiola Janigro, Arnold
Schmidt, Rose Rippert, Léon Rippert, Veronique Barre,
Valentina Cortese, Maria Casarès
produttore/producer: Arnold Schmidt
produzione/production: Laura Franceschini
durata/running time: 27’35”
origine/country: Italia/Francia 2004
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NUOVE PROPOSTE VIDEO: DOCUMENTANDO
Italo Moscati
ADOLESCENTI
Un affresco sull’età dei migranti obbligati: l’adolescenza.
Un romanzo di immagini e musiche dedicato all’avventura dei transiti giovanili, esaltanti e dolorosi, sempre appassionanti, attraverso il Novecento. Nel nome di David
Bowie e dei ritmi che crescono. Ragazzi contadini e ragazzi lavoratori clandestini, figli delle aristocrazie e della ricca borghesia, ragazzi in divisa dai balilla alla hitlerjugend.
E poi, dal monello chapliniano agli sciuscià desichiani, dai
teddy boys e i mods ai gruppi rock, dal mito di Marlon
Brando e di James Dean alle lolite, dalla contestazione studentesca alla stagione del terrorismo e ai teenagers, fino ai
mostri d’innocenza ovvero gli adolescenti vittime o assassini della cronaca nera. Sotto gli occhi delle cineprese e poi
delle telecamere. Un’unica storia dalle molte facce.
A fresco on the age of compulsive migrants: adolescence. A novel of images and music dedicated to the adventures of youth
movements – elated and pained but always impassioned –
throughout the 20th century. In the name of David Bowie and
rythymical beats that grow. Country boys and illegal workers,
children of the aristocracy and the upper middle class, children
in uniforms, from the balilla to the hitlerjugend. In addition:
from the Chaplinesque rascal to De Sica's sciuscià; from teddy
boys and mods to rock groups; from the legends of Marlon Brando and James Dean, to the "Lolitas"; from student demonstrations to the season of terrorism and to teenagers; through to the
monsters of innocence, i.e., adolescent victims or assassins in the
news. Under the watchful eyes of movie cameras and, later, TV
cameras. A single story made up of many faces.
Biografia
Scrittore, regista e sceneggiatore, è nato a Milano. Ha collaborato con Liliana Cavani (scrivendo tra l’altro Il portiere
di notte), Luigi Comencini, Giuliano Montaldo. E’ critico
teatrale e cinematografico per numerosi giornali e riviste,
oltre che per SatCinemaWorld e Hollywood Party. E’ stato
capo dei Servizi sperimentali della Rai-Tv producendo i
primi film di Gianni Amelio, Maurizio Ponzi, Peter Del
Monte, Jean Luc Godard, Glauber Rocha e Marco Ferreri.
Ha scritto dieci commedie messe in scena da Ugo Gregoretti, Piero Maccarinelli e Augusto Zucchi. Ha diretto per
la tv il serial Stelle in fiamme e il film Gioco perverso, oltre a
numerosi documentari e inchieste. Tra i suoi ultimi libri:
“Pasolini e il teorema del sesso”, “Il cattivo Eduardo”,
“1967-Tuoni prima del Maggio”, “1969 - Un anno bomba”,
“1970- Addio Jimi” e “Anna Magnani”.
Biography
A writer, director and screenwriter, Moscati was born in Milan.
He has worked with Liliana Cavani (for whom he wrote The
Night Porter), Luigi Comencini and Giuliano Montaldo. He
works as a theatre and film critic for numerous newspapers and
magazines, as well as for SatCinemaWorld and Hollywood Party. He headed the Servizi sperimentali (Experimental Services)
of RAI TV, during which time he produced the first films by
Gianni Amelio, Maurizio Ponzi, Peter Del Monte, Jean-Luc
Godard, Glauber Rocha and Marco Ferreri. He has written ten
plays, which have been staged by directors such as Ugo Gregoretti, Piero Maccarinelli and Augusto Zucchi. He directed the
series Stelle in fiamme and the film Gioco perverso for television, as well as numerous documentaries and reportages. His
latest books include Pasolini e il teorema del sesso, Il cattivo
Eduardo, 1967-Tuoni prima del Maggio, 1969 - Un anno
bomba, 1970 – Addio Jimi and Anna Magnani.
sceneggiatura/screenplay: Italo Moscati
fotografia/photography (colore): Marco Genone
montaggio/editing: Fabrizio Valverdi
ricerca/research: Enzo Lavagnini, Paola Di Pietro
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narratore/narrator: Luca Scaglia
produzione/production: Vedute d’Insieme per RaiEducational
durata/running time: 60’
origine/country: Italia 2005
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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NUOVE PROPOSTE VIDEO: DOCUMENTANDO
Pierre Villemin
MEMOIRE CARBONE
“Aprile 2004. L’ industria del carbone in Lorraine (Francia)
è diventata storia, con la chiusura della sua ultima miniera, vicino Creutzwald, Moselle. Il museo dell’industria
mineraria mi ha chiesto di filmare la sommità di una cava
e un impianto di pulitura del carbone, poche settimane
prima della loro chiusura. Visto il poco tempo a disposizione , ho deciso di cominciare immediatamente le riprese,
durante la mia prima visita alla cava. Tre ore di corse.... ma
dopo l'ultimo taglio, era ovvio che dovevo tornare là per
registrare le impressioni dei minatori in pensione, cosa che
feci con l’aiuto di un musicista, Philippe Joncquel.”
Pierre Villemin
“April 2004. Coal mining in Lorraine (France) became history,
which led to the closing down of its last mineshaft, near
Creutzwald, Moselle. The museum of the mining industry asked
me to film a pit top and a coal-cleaning plant, a few weeks before
their closure. Considering the short time allotted, I decided to
start filming immediately while visiting the pit top. I came back
with 3-hours worth of rushes...but after the final cut, it became
obvious that I had to go back there to tape the accounts of the
retired pitface workers, which I did with the help of a musician,
Philippe Joncquel.”
Pierre Villemin
Biografia
Nato nel 1963 a Nancy, Pierre Villemin vive e lavora a
Metz e produce film e video dal 1984. Dal 1999 si interessa
della relazione tra testo/voce/immagini. Insegna in una
scuola d’arte a Metz e i suoi video vengono rappresentati
all’interno di svariati festival Europei. Dal 2002 produce
“Video Poesia” con il fratello, Jean Villemin.
Biography
Born in 1963 in Nancy, France, Pierre Villemin lives and works
in Metz and has been making films and videos since 1984. Since
1999, he has been interested in the relationships between
text/voice/images. He teaches at an art school in Metz and his
videos have been presented at several European festivals. Since
2002, he has been making video poetry with his brother, Jean
Villemin.
sceneggiatura/screenplay: Pierre Villemin
fotografia/photography (colore): Pierre Villemin
montaggio/editing: Pierre Villemin
suono/sound: Pierre Villemin
musica/music: Philippe Joncquel
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
produttore/producer: Estelle Fruleux
produzione/production: Musée du Carreau de Wendel, PetiteRosselle
durata/running time: 20’
origine/country: France 2004
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NUOVE PROPOSTE VIDEO: TRANSMEDIALE
TRANSMEDIALE
Selezione video da Berlino
“Trasmediale” è un palcoscenico per l’arte e una riflessione critica sul ruolo delle tecnologie digitali nella società di
oggi. Il festival berlinese mette in comunicazione, tramite
un forum, gli artisti, coloro che lavorano nei media e una
vasta schiera di esperti, offrendo a tutti un ambiente stimolante per la presentazione dei principali progetti digitali dell’anno.
Durante la manifestazione si tiene una conferenza sull'argomento scelto annualmente dal festival, viene allestita
una mostra tematica biennale, mentre il concorso e il club
trasmediale si concentrano sulla musica elettronica e le arti
visive.
Il concorso è alla sua diciottesima edizione e questa continuità e stabilità fanno sì che le opere ormai giungano da
tutto il mondo. Per trasmediale.05 sono stati esaminati
oltre novecento lavori. La selezione si compone di otto
video di rilievo che hanno partecipato al concorso internazionale del festival di Berlino sull’arte "mediale", e rivolge
l'attenzione alla produzione corrente di video artistici. Per
il programma della selezione video di “trasmediale.05”,
abbiamo volutamente scelto lavori che si differenziano fortemente nel modo in cui sono stati prodotti. Di conseguenza, questi video consentono una panoramica della
produzione corrente, in forma e contenuto, dei video artistici.
Transmediale is a platform for artistic presentation and critical
reflection on the role of digital technologies in present-day society. The annual Berlin-based festival provides a forum for communication between artists, those working in the media and a
wide range of experts, offering a stimulating environment for the
presentation of major new projects from digital culture.
Core areas of the festival are the annual conference on the respective festival topic, a biannual thematic exhibition, the open
award competition as well as the associated club transmediale
CTM, focusing on electronic music and related visual art.
The awards competition of transmediale is now in its 18th year.
This continuity of selecting and presenting video art has fostered
the popularity of the festival, and the great quality of the participating works from all over the world. For the transmediale.05
competition in 2004, once again over 900 works were submitted.
The selection consists of eight outstanding video works that participated in this year's international competition of the media art
festival, and gives an insight into current artistic video production. For the video selection programme of transmediale.05, we
deliberately chose works that differ strongly in the way they were
produced. Consequently, these videos give a wide-ranging
insight into the dimensions of current artistic video production
in form and content.
LA SELEZIONE VIDEO
The Catalogue di Chris Oakley, Regno Unito, 2004, 5’
Chrom di Mylicon di en, Italia, 2004, 4’23’’
Living A Beautiful Life di Corinna Schnitt, Germania, 2003, 13’
pdx_01 di NomIg., Canada, 2004, 7’32’’
Reconstruction di Lina Selander, Svezia, 2004, 6’30’’
A Pragmatic Of Links di Juan Romero, Spagna, 2004, 10’30’’
Bic Bac Job di Le Collectif Magique, Francia, 2004, 13’
(ohne titel) di Johann Lurf, Austria, 2003, 3’
Whir di Bull.Miletic, USA, 2002, 12’
Unternehmen Paradies di Volker Sattel, Germania, 2002, 64’
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41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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L’ATTIMO FUGGENTE
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- VIDEO DALL’ACCADEMIA DI URBINO
CONCORSO VIDEO “L’ATTIMO FUGGENTE”
Dal 2000 la Fondazione Pesaro Nuovo Cinema organizza il
Concorso video “L’attimo fuggente”, riservato agli studenti di tutte le scuole (elementari, medie, superiori, università), per la realizzazione di un cortometraggio della durata
massima di 3 minuti realizzato in video, in digitale o in
pellicola. Possono partecipare al concorso cortometraggi
di ogni genere realizzati con qualsiasi tecnica (fiction,
documentari, animazione, sperimentali). La selezione delle opere presentate viene effettuata da una giuria di esperti (composta dalla regista Giuliana Gamba, dal giornalista
Paolo Angeletti de “Il Resto del Carlino”, dal saggista e
docente universitario Gualtiero De Santi e da Fiorangelo
Pucci, direttore del “Fano International Film Festival”), e i
cortometraggi meritevoli vengono presentati nella programmazione video della Mostra. Nel corso della serata
conclusiva della Mostra, in Piazza del Popolo, vengono
proiettati e premiati i cortometraggi vincitori del concorso.
Un apporto fondamentale al Concorso “L’attimo fuggente” è stato dato, nel corso degli anni, dall’Istituto Statale
d’Arte “Scuola del Libro” di Urbino e dall’Accademia di
Belle Arti di Macerata.
Since 2000, the Fondazione Pesaro Nuovo Cinema has organized
the “L’attimo fuggente” Video Competition, reserved for elementary, middle, high school and university students from all
local schools. Participating films can be made using any video,
digital or film technique, of any genre (fiction, documentaries,
animation, experimental films) and must be a maximum of three
minutes long. The competition works are selected by a jury of
experts (made up of director Giuliana Gamba, journalist Paolo
Angeletti of Il Resto del Carlino, essayist and university professor Gualtiero De Santi, and Fiorangelo Pucci, director of the
Fano International Film Festival), and presented as part of the
Pesaro Film Festival's video program. During the closing night
awards ceremony, the winning works are announced and
screened in Pesaro's main square, Piazza del Popolo.
Throughout the years, fundamental support for the “L’attimo
fuggente” Competition has come from the “Scuola del Libro”
State Institute of Art in Urbino and by the Academy of Fine
Arts in Macerata.
organized by Pierpaolo Loffreda
a cura di Pierpaolo Loffreda
VIDEO DALL’ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI URBINO
I video dell’Accademia di Belle Arti di Urbino, presentati
per questa edizione del festival di Pesaro, hanno quasi tutti un carattere eminentemente didattico. Rientrano all’interno di quella sperimentazione che ormai da diversi anni
è un momento irrinunciabile anche all’interno di corsi non
strettamente legati alla realizzazione di “manufatti”.
Molti degli studenti hanno una loro attività e produzione
al di fuori dei corsi e questo permette di mantenere ancora
più viva la ricerca all’interno dell’Accademia.
Sperimentazione e attività individuale sul campo, permettono una maggiore crescita portando l’Accademia verso
una reale apertura con l’esterno e diventando così un luogo di confronto importante.
Almost all of the videos from the Urbino Fine Arts Academy presented at this edition of the Pesaro Film Festival share an eminently didactic trait. They are part of an experimentation that
has been enjoying an indisputable period for several years now,
also within courses not strictly tied to the creation of “handiwork.”
Many of the students have their own production activities outside the classroom, which keeps the Academy's line or research
all that much more alive.
Experimentation and individual activities within the field allow
for greater growth, which lead the Academy to open up towards
the outside world and thus become a place for an important
exchange.
LA SELEZIONE VIDEO
Deja vu di Raffaele Mariotti, Luisa Villi, 2005, 4’38’’
Footsteps di Luca Vagni, Manuel Zanettin, 2005, 2’35’’
Cats & Dogs di Francesca Bonci, 2005, 5’16’’
Landscapes di Raffaele Mariotti, 2005, 9’51’’
Col pensiero nel nulla di Mariangela Malvaso, 2005, 3’
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
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NUOVE PROPOSTE VIDEO: LEMS
VIDEO DAL LEMS
Laboratorio Elettronico per la Musica Sperimentale
Conservatorio di Musica “Gioachino Rossini” di Pesaro
Well[e]s eXperiment - La Guerra dei Mondi
a cura di Eugenio Giordani e Roberto Vecchiarelli
Questo video documento ripropone in forma lineare il
materiale proposto per una installazione video sonora
This video document re-proposes, in a linear form, the material
used for a sound video installation
Un percorso attraverso i giochi caleidoscopici , le anamorfosi, le illusioni e più ancora la frantumazione, la ripetizione, l'eccedenza, il caos, la sovrapposizione .
All'eccedenza degli effetti di realtà prodotti alla radio per
simulare il vero si sostituisce l'eccedenza come svuotamento del contenuto. Un collage infinito di riferimenti
testuali, visivi e sonori.
A journey through kaleidoscopic games, anamorphoses, illusions
and, furthermore, shattering, repetition, excess, chaos and superimposition.
The excess of effects of reality produced on the radio to simulate
the real is replaced by the excess of an emptying of content. An
infinite collage of textual, visual and sound references.
Il Laboratorio Elettronico per la Musica Sperimentale
(LEMS) esiste dal 1971. Si deve la sua attivazione principalmente a Marcello Abbado, allora direttore del conservatorio, e a un gruppo di musicisti e compositori che in
quel periodo era fortemente coinvolto nella sperimentazione musicale. Non possiamo quindi non menzionare i
nomi di Aldo Clementi, Domenico Guaccero, Mario Bertoncini e Walter Branchi, che ha di fatto curato tutto l’allestimento dello studio nella sua forma originale. Si deve poi
al successore di Abbado, Gherardo Macarini Carmignani,
recentemente scomparso, il merito di averne favorito lo
sviluppo e la sua affermazione. Il LEMS è stato quindi
creato per rendere possibile lo studio e la ricerca nel campo dei mezzi elettronici soprattutto nel campo applicativo
della composizione. La struttura, recentemente ricollocata
in una nuova sede all’interno del conservatorio, dispone di
una sezione storica di strumenti analogici completamente
efficienti e funzionanti e una sezione contemporanea
includente sistemi digitali di altissimo livello tecnologico,
particolarmente adatti per il “live electronics”. Attualmente il Laboratorio è diretto da Eugenio Giordani il quale
svolge attività di docente titolare del corso di Musica Elettronica.
The Laboratorio Elettronico per la Musica Sperimentale (LEMS)
has been in existence since 1971. It owes its activation chiefly to
Marcello Abbado, the then director of the conservatory, and a
group of musicians and composers who in that period were very
much involved in musical experimentation. Therefore, we cannot not mention the names of Aldo Clementi, Domenico
Guaccero, Mario Bertoncini and Walter Branchi, who in fact
coordinated the entire arrangement of the study in its original
form. Credit must also be given to Abbado's successor, Gherardo Macarini Carmignani, who recently passed away, for having
fostered the laboratory's development and affirmation. The
LEMS was thus established to render the study and research of
electronic media possible, especially in the field of composition
application. The structure, recently transferred to a new site
within the conservatory, features a historical section of analgoue
instruments that are completely efficient and functional, as well
as a modern section that includes extremely high level digital
systems, particulary adapted to “live electronics.” Currently, the
LEMS is directed by Eugenio Giordani, who also teaches the
Electronic Music course.
concept: Roberto Vecchiarelli
suono/sound: Eugenio Giordani (LEMS)
coordinamento tecnico/technical coordinator(s): Raffaele
Mariotti, Luca Vagni
produzione e realizzazione tecnica/production company and
technical production: Sound d Light - Pesaro
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realizzazione video/video production: Francesca Bonci, Raffaele Mariotti, Luca Vagni, Roberto Vecchiarelli, Luisa Villi
voce/voice: Lucia Ferrati
registrazione voce/voice recording: Luca Marzi
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Indice dei film
(A)Rota, 143
(ohne titel), 194
£ 3.000, 143
… spendo soldi che non ho, 110
5 shorts, 121
A Petal, 50
A Physical Ring, 81
A Pragmatic Of Links, 194
A Soapdealer's Sunday, 86
Aaron, Il guerriero digitale, 180
Adolescenti, 192
Africa addio (Plagium 11), 171
All’erta!, 152
Alumbramiento, 108
Angeli su due ruolte/Street Angels
(With Virus) (Plagium 1), 170
Astrolìte, 149
Behind your Eyelids, 169
Bic Bac Job, 194
Biopiratas, 112
Border, 134
Borghesi col vizietto dell’arte (Plagium
6), 172
Bride of Silence, 18
Brothers, 84
Camel(s), 66
Camera con vista, 146
Candidato a sette premi Oscar (film di
superficie), 188
Capitalist Manifesto: Working Men of
all Countries, Accumulate!, 61
Cargo, 134
Cats & Dogs, 195
Che barba!, 150
Chrom di Mylicon, 194
Cinema on the Road, 49
Cinevardaphoto, 115
Col pensiero nel nulla, 195
Crisostomo, 150
Daf, 71
Dal Segno, 69
Deja vu, 197
Dè-Tail, 147
Dies irae, 184
Digital Search, 71
Digital Short Films by Three Filmmakers 2000 & 2003, 68
El Espíritu de la Colmena, 105
El Sol del Membrillo, 107
El Sur, 106
Evil and Pop Culture (Plagium 10),
173, 181
F For Fake: The Black Sun (Plagium 9),
174
Falsi spot radiofonici, 181
Feathers in the Wind, 25
Fiumicino mon amour, 186
Fondale, 147
Footsteps, 197
Futuro - A New Stance For Tomorrow,
80
Good Girls, 88
Grain in Ear, 30
Hammer and flame, 185
History of the Sea, 184
Horst Buchholz... Mein Papa, 15
I’ll Be Seeing Her, 63
I’m not Batman, 121
Idol, 121
Il criminale costituzionale, 181
Il Nido, 151
Il Ri(n)tocco, 151
Il Sepolcro, 144
Impero – (In God We Trust), 179
Instructions for a Light and Sound
Machine, 114
Iron Island, 24
Jin Xing Files, 70
John Cage, 121
Joves, 26
Kekexili, 23
L’appuntamento, 145
L’attacco col fuoco (Plagium 14), 175
La Balia, 32
La Cella Del Frate, 141
La Fam(e)iglia, 142
La fortuna verrà da te, 178
La Ligne, 27
La parola che cancella/The Obliterating Word, 176
La Pittura ‘Presagista’ di Luigi Battisti
(Plagium 6b), 173
La Septieme Operation (Plagium 13),
176
La Sombra del Caminante, 20
Landscapes, 195
Las Mantenidas sin Sueño, 17
Lata At Tsinelas, 121
Lei è Karl Kraus, vero? (Plagium 15),
175
Levelland, 28
Lies, 52
Like a Desperado Under the Eaves, 70
Living a Beautiful Life, 194
Lost And Found, 86
Lovers in Woomuk-Baemi, 45
Macerie dell’arcobaleno, 152
Mal d’Africa: The Rainbow Stories, 172
Memoire Carbone, 193
Miserere, 187
Mondomanila: Institusyon Ng Makata,
121
Mourning Star, 188
Mucche, 186
My Korean Cinema, 62
Nickel, 177
Nulla è vero tutto è permesso, 181
O Diabo a Quatro, 16
Oggidunque, 191
On Edge, 87
One Step Beyond, 141
Optical Sound, 82
Paradise Girls, 19
Passage to Buddha, 47
pdx _01, 194
Perco(r)(s)so, 148
Pugot/Headless, 121
Reconstruction, 194
41a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema
Réminiscences d’un voyage en Palestine, 190
Repatriation, 60
Resurrection of the Little Match Girl,
53
Robocup´99, 81
Rock Radio, 181
Run Hubbard Loop (Plagium 5), 171
Saving The World, 85
Scraps Brakhage Stolen, 169
Selezione videoclip diretti da Mika
Taanila, 83
Seoul Jesus, 43
Small Alì, 121
So Cute, 54
Sole, 142
Spectrum, 178
Stereo#0 (30 Drones For Television),
177
Stereo#1: Erasing/That Thou Will, 177
Storie di monelli (Film Surrealista), 170
Street Angels with Virus, 181
Ten Ox-Herding Pictures #1 - Going
Out in Search of the Ox, 64
Terminale, 145
Thank You For The Music, 80
The 3 Rooms of Melancholia, 21
The Age of Success, 44
The bliss of travelling this road, 56
The Butterfly, 65
The Catalogue, 194
The Family that Eats Soil, 120
The Forsaken Land, 22
The Future Is Not What It Used To Be,
82
The Idle Ones, 87
The Jang Sun-woo Variations, 55
The Lost Days, 133
The Pentagon Tv Commercials, 179,
181
The Road to the Racetrack, 46
Themes, 189
Timeless, Bottomless, Bad Movie, 51
To You, From Me, 48
Trans-Siberia, 85
Trappe, 148
Tre giorni d’anarchia, 29
Trench Road, 84
Tutto il mio tempo, 187
Unclean Pop (On Stereo) (Plagium
10b), 174
Uniforme, 146
Unternehmen Paradies, 194
Vissi D’arte, 113
W, 144
Welt Spiegel Kino, 111
What I’m Looking For, 185
Whir, 194
www.whitelover.com, 69
Zittofono. sonata in blu per Nagg e
Nell (Duetto in Sincrono per monitor
bizantino), 153
Zone, 133
Zulöfen, 149
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Indice dei registi
Aaltonen Veikko, 84
Aoyama Shinji, 70
Bellocchio Marco, 31-34
Blåfield Maija, 85
Bonci Francesca, 195
Boord Dan, 189
Buchholz Christopher, 15
Bull.Miletic, 194
Cane CapoVolto, 155-181
Cederström Kanerva, 85-86
Ceselli Daniela, 110
Collectif Magique, 194
De Andrade Alice, 16
De Salvo Martín, 17
Deutsch Gustav, 111
Doan Minh Phuong, 18
Doan Thanh Nghia, 18
Dubosc Dominique, 190
en, 194
Erice Víctor, 91-108
Faonio Barbara, 186
Fogwill Vera, 17
Fow Pyng Hu, 19
Franceschini Manuele, 112
Gentile Gaetano, 186
Ghobadi Bahman, 71
Guerra Ciro Alfonso, 20
Guzzetti Alfred, 184
Hacker Sandra, 15
Helke Susanna, 86-87
Hong Hyo-sook, 56
Honkasalo Pirjo, 21
Illi Esa, 84
Jang Sun-woo, 37-56
Janigro Angiola, 191
Jayasundara Vimukthi, 22
JIFF, 68-71
Khavn, 116-122
Kim Dong-won, 60
Kim Gok, 61
Kim Hong-joon, 62
Kim Soo-hyun, 54
Kim So-young, 63
Kim Sun, 61
Kim Yun-tae, 69
Lappalainen Maria, 87
Le Lurf Johann, 194
Lee Ji-sang, 64
Lu Chuan, 23
Malvaso Mariangela, 195
Mariotti Raffaele, 195
Mariotti Raffaele, 195
Matarazzo Antonello, 187
Miettinen Hanna, 88
Misuraca Nefeli, 187
Misuraca Pasquale, 113
Moon Seung-wook, 65
Moscati Italo, 192
NomIg, 194
Oakley Chris, 194
Park Ki-yong, 66, 71
Park Kwang-su, 69
Périot Jean-Gabriel, 184
Pilikian Vaughan, 185
Rasoulof Mohammad, 24
Rayns Tony, 55
Rinaldi Davide, 188
Romero Juan, 194
Salis & Vitangeli, 188
Sattel Volker, 194
Schirinzi Carlo Michele, 135-153
Schnitt Corinna, 194
Selander Lina, 194
Silver Shelly, 185
Song Il-gon, 25
Suutari Virpi, 86-87
Taanila Mika, 76-83
Térmens Ramon, 26
Tillon Darielle, 27
Torras Carles, 26
Tscherkassky Peter, 114
Vagni Luca, 195
Valdovino Luis, 189
Varda Agnès, 115
Villemin Pierre, 193
Villi Luisa, 195
Waddington Laura, 125-134
Walker Clark Lee, 28
Zagarrio Vito, 29
Zanettin Manuel, 195
Zhang Lu, 30
Zhang Yuan, 70
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