Nel 1960 un inglese cinquantanovenne vinse la prima regata

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Nel 1960 un inglese cinquantanovenne vinse la prima regata
OSTAR
di Carlo Donisi
“R
20
dello sloop Gipsy Moth
III scapolava la rossa
nave-faro di Ambrose
Cape, all’imboccatura
del Long Island sound,
il braccio di mare che
porta a New York, completando la prima di
queste imprese.
Era una giornata meravigliosa, con cielo sereno, mare calmo e vento giusto: “il sogno di ogni velista”, scriverà lo skipper sul diario di bordo, riportato nel libro “Alone Across the Atlantic”, ma la traversata era stata tutt’altro che idilliaca, con un calvario di una dozzina di burrasche e ben 14 giorni
di nebbia in una navigazione affrontata con equipaggiamento e metodologie che oggi appaiono, ai
lettori di Patrick O’Brian, molto più vicini alla marineria di 200 anni fa che non a quella dei giorni
nostri. In effetti, dal 1960 ad oggi si è ampiamente
realizzato lo scopo dichiarato di quella prima regata transatlantica, ossia la promozione di nuove attrezzature e tecniche in grado di semplificare la
navigazione in solitario, con cui favorire di riflesso
anche lo sviluppo del diporto.
La regata attuale si disputa con tecnologie e barche ormai stellari al confronto di quelle della prima edizione, che sono indubbiamente datate anche se tutt’altro che superate. E questo vale tanto e
specialmente per la tecnica di navigazione, perché
“Il mare è sempre quello”, per citare un libro di Vittorio G. Rossi, quanto per le barche a chiglia continua dai lunghi slanci di prua e poppa, legate ad
un immagine romantica della vela eppure ancora
correntemente costruite nei paesi nordici per armatori che ne apprezzano le qualità “marine”.
Nonostante i progressi, i velisti oceanici odierni
possono ritrovarsi in qualsiasi momento ad affrontare le stesse difficoltà dei naviganti dell’epo-
Nel 1960 un inglese
cinquantanovenne
vinse la prima regata
transatlantica
in solitario
ealizzo un sogno che coltivavo da anni
ma dovranno passarne
molti altri prima di considerare una nuova partecipazione” ha detto Andrea
Mura, trionfatore sul 18
metri Vento di Sardegna
della dura edizione 2013
dell’OSTAR, acronimo
della Original Singlehanded Trans Atlantic Race dove il
primo termine, in origine, significava Observer, dal
nome del quotidiano londinese che aveva sostenuto
e dato visibilità alla regata ideata nel 1957 da H.G.
Blondie Hasler, ex colonnello degli incursori subacquei, appoggiato da Francis Chichester, editore e detentore in gioventù di vari record di transvolate su un
biplano Gypsy Moth, entrambi poi anche concorrenti della regata.
Se per il quarantunenne Andrea Mura una OSTAR
di 17 giorni e 10 ore può bastare (ma non dimentichiamo i suoi successi alla Route de Rhum 2010,
TwoStar 2012 e conseguente Transat Quebec-S.Malo), nel 1960 era stata diametralmente opposta l’opinione dell’allora cinquantanovenne Francis
Chichester; maniacale recordman e vincitore sul
12 metri Gipsy Moth III, dopo 4.005 miglia percorse in 40 giorni e mezzo (su 3.000 miglia di distanza), della prima edizione della regata poi proseguita a cadenza quadriennale, due anni dopo migliorò testardamente il proprio record di 7 giorni in
una autonoma traversata in solitario; nei dieci anni successivi si sarebbe imbarcato in un crescendo
di solitarie, al punto da farci pensare che una simile ossessione possa fare accettare la durezza di traversate come la prima transatlantica in solitario,
che destò grande interesse non solo fra i velisti e
aprì l’epoca della vela moderna.
Alle 17,30 del 21 luglio 1960, l’elegante scafo nero
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Andrea Mura, socio della Lega Navale, trionfatore dell’OSTAR 2013 sul suo Vento di Sardegna, gioisce per la vittoria; in apertura, Sir Francis
Chichester
pea della vela se capita che le moderne diavolerie
tecnologiche smettano di funzionare, per esempio
per un banale guasto dell’impianto elettrico o,
peggio ancora, dell’elettronica di una barca.
Può quindi essere interessante un’occhiata al diario di bordo di quella pionieristica regata di oltre
mezzo secolo fa, per una sorta di rivisitazione storica delle barche a stabilità di peso “di una volta”,
strette, sbandate e scomode ma forse proprio per
questo così affascinanti e amate da quanti le hanno conosciute prima che il boom della nautica imponesse progetti più commerciali.
Antefatto
Nel 1957, con un esperienza velica di soli quattro
anni e di una ventina di regate nella Manica, Chichester era stato irresistibilmente attratto da un
annuncio rivolto a skipper interessati a partecipare ad una regata transatlantica in solitario, esposto
dal colonnello H.G. Hasler nella bacheca del Royal
Ocean Racing Club, e aveva subito commissionato
il progetto di una barca oceanica di 12 metri a Robert Clark, protagonista di primo piano fra i progettisti navali del secolo scorso celebrati da Carlo
Sciarrelli nel libro “Lo yacht”.
La costruzione fu affidata al cantiere di John
Tyrrell, in Irlanda, con chiglia, ordinate e bagli in
quercia, fasciame in mogano, coperta in compensato marino con copertura in gomma, albero, boma e tangoni (cavi) in pino. Purtroppo, per Chichester l’immediato futuro fu foriero di ben altri
pensieri quando i medici gli diagnosticarono un
cancro terminale, con sei mesi di vita se non veniva asportato un polmone, e la prospettiva, come
scrive nel libro nell’unico accenno all’argomento,
che “la prossima traversata potesse svolgersi sullo Stige” sulla barca di Caronte, con la stringata conclusione di essere stato “fra i fortunati che ce l’hanno
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Nella cartina, la rotta seguita dall’OSTAR per la traversata da Plymouth a Newport
fatta” (senza intervento chirurgico ma con una
“dieta” della moglie para-guaritrice: probabilmente s’era trattato di una forte infiammazione mal
diagnosticata).
Dopo il varo di Gipsy Moth III, alla fine dell’estate
del ‘59, e la traversata di trasferimento della nuova
barca dall’Irlanda fino al Solent, con equipaggio,
Chichester provò per la prima volta a destreggiarsi
in solitario soltanto il 6 aprile 1960, trasferendosi
a vivere a bordo per un paio di settimane ed effettuando numerose uscite in mare, anche di notte e
con tempo duro, ripetendo le prove nel mese precedente la regata.
Collaudò e mise a punto, tra l’altro, un timone a
vento che aveva fatto costruire dopo averlo ideato
guardando, nelle domeniche invernali, i modelli
naviganti di barche a vela dei ragazzi nel laghetto
di Kensington Park, quello di Peter Pan, per intenderci… un luogo evidentemente adatto ai voli della fantasia. Alla partenza da Plymouth, venerdì 11
giugno 1960, fu addirittura necessario l’intervento
della Marina per tenere a bada barche e vaporetti
carichi di spettatori.
Paradossalmente, a tanto successo di pubblico e
una cinquantina di pre-iscrizioni faceva da contraltare una improbabile flottiglia che si poteva
contare sulle dita di una mano. Oltre a Chichester,
c’era il co-fondatore Blondie Hasler su Jester, folckboat di 7,5 metri armata con una curiosa vela tipo
giunca, David Lewis su Cardinal Vertue, di 7,8 metri, Val Howells su Eira, di 7,5 metri, mentre man-
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cava il francese Jean Lacombe, che avrebbe preso il
via tre giorni dopo su Cap Horn, di 6,5 metri.
Burrasche
Chichester era partito con il mal di mare, per la
tensione, stanchezza e digiuno degli ultimi preparativi. Le speranze dello skipper di una piacevole
navigazione con vento largo, basate sulle Pilot
Charts di quel periodo dell’anno, furono subito
spazzate via dalla prima di una dozzina di burrasche, che avrebbero continuato ad imperversare
per tutta la traversata con cadenza dai due ai quattro giorni. Messo a dura prova già dalla prima notte, il navigatore solitario si era per giunta fatto piuttosto male al costato poche ore dopo la partenza
urtando violentemente contro spigolosi sportelli
spalancati in cabina dal violento rollio, ma le cose
erano andate anche peggio a David Lewis che aveva disalberato. Quando Chichester lo apprese dalla
BBC, la domenica, non sapeva che Lewis avrebbe
ripreso il mare il giorno dopo, con un nuovo albero
riarmato a tambur battente grazie a un cantiere che
aveva lavorato senza sosta nel fine settimana.
Le prime burrasche furono un vero incubo. Se la
sostituzione dei fiocchi comportava una ragguardevole fatica, la riduzione della randa con l’avvolgimento sul boma era ancora più impegnativa, richiedendo numerosi andirivieni per tesare la base
(nelle navigazioni successive adottò la terzarolatura con borose), ma ciò che risultava oltremodo
spossante era la randa di cappa, che richiedeva
ben tre ore di duro lavoro, con tanto di distacco
dall’albero del boma, lungo 6 metri, per rizzarlo
saldamente in coperta, come da manuale.
Dopo una decina di giorni di questo lavoro, titanico per un uomo solo, stanco, tutt’altro che robusto
e per giunta debilitato dalle contusioni al costato
che lo facevano respirare con difficoltà, smise di
spostare il boma in coperta, limitandosi a bloccarlo
saldamente con numerose ritenute. Appena poteva,
lo skipper stremato si rifugiava in cuccetta, sentendosi in colpa se ad ogni minimo accenno di miglioramento del tempo non trovava la forza per tornare
subito in coperta ad aumentare la velatura.
Miranda, timone a vento
Altra causa di stress era il rudimentale timone a
vento che, per riuscire a contrastare il timone cui
era asservito da cime riportate alla barra, aveva dimensioni tali da apparire quasi una piccola mezzanella al terzo, interamente steccata sulla diagonale
con una soluzione che ne consentiva la riduzione
come una sorta di ventaglio. Bene o male, l’invenzione funzionò nelle andature ardenti anche se,
nelle condizioni di tempo duro, le straorze riuscivano ad averla vinta su “Miranda”, come era stato
battezzato il timone a vento.
Fin dalla prima notte, dopo che per due volte la
barca aveva straorzato e messo il fiocco a collo sotto una serie di duri colpi di mare sul mascone, l’esausto skipper, costretto a saltar giù dalla cuccetta,
aveva scoperto che, mentre infilava la cerata, sorprendentemente la barca lasciata a se stessa effettuava un giro completo di 360° e si riportava sul
bordo giusto: così rimase in cuccetta ad osservare
sulla bussola questo strana giostra, che se non altro gli dava un po’ di tregua per riuscire a riprendere le forze.
Nelle andature portanti, invece, il vento apparente
non era sufficientemente forte per agire sul timone
a vento per cui Chichester rimase mezza giornata al
timone l’unica volta che capitò un buon lasco sulla
rotta giusta. Infine, con il vento in poppa issava i
fiocchi tangonati, con
le scotte riportate alla
barra e randa ammainata, ma anche questo
non era uno scherzo
per un solitario, per il
peso dei tangoni, e soprattutto per i grossi rischi che comportava
in caso di repentino
rinforzo del vento e necessità di ammainare
in fretta i 56 metri quadri dei fiocchi gemelli.
Al confronto, il timone a vento progettato
da Hasler, con pala aerea rigida e pala servotimone in acqua, si dimostrò molto più efficiente e sarebbe diventato il prototipo dei
modelli prodotti negli
anni seguenti.
Francis Chichester fotografato sul Gipsy Moth III, sotto
Miranda, il timone a vento
da lui ideato e realizzato
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Un olio su tela estremamente
realistico, “Doppiando Capo
Horn”, dipinto da Hugh Sawrey per celebrare l’impresa
di Chichester
L’8 luglio, Chichester
fu finalmente alla portata delle stazioni radio
costiere americane e riuscì a far avere proprie
notizie all’Observer tramite Cape Race e a ricevere, all’appuntamento
radio delle 21,00 con
questa stazione, una
frammentaria richiesta
di particolari da parte
del giornale.
Senza luci
Sestante e radiofari
Dopo appena 5 giorni di regata, Gipsy Moth III era
rimasta senza luci e, di notte, si era dovuta segnalare con un lume a paraffina appeso al paterazzo.
A bordo c’erano due lampade di questo tipo, di cui
una di potenza tale da proiettare l’ombra ingigantita dello skipper sul muro di nebbia a prua. Fu però necessario razionare la paraffina, che serviva
per i fornelli della cucina, tenuti a lungo accesi anche per riscaldare la cabina e asciugare un po’ della grande umidità che aveva impregnato tutto.
La rotta, tracciata con l’ausilio delle rette di sole e,
in prossimità della costa, con i rilevamenti dei radiofari, prevedeva il rischioso passaggio nel braccio di mare fra la costa della Nuova Scozia e Sable
Island, una lingua di sabbia lunga quattro chilometri e larga poche centinaia di metri, dove Gipsy
Moth III corse il serio rischio di aggiungersi ai 196
relitti di naufragi riportati sulla mappa di questo
vero e proprio cimitero di navi, non tanto per la
pericolosità delle forti correnti di marea combinate con la nebbia e il mare agitato del basso fondale, quanto per una banale disattenzione dello skipper che da un paio di giorni rilevava le distanze
sulla scala delle latitudini di un’altra carta nautica,
il cui bordo spuntava sotto quella della carta della
costa orientale americana: lo scarto di una trentina di miglia fra il punto stimato e i provvidenziali
rilevamenti del radiofaro dell’isola misero in allarme lo skipper obbligandolo a ripetere più volte
tutti i calcoli, di per se giusti, prima di rendersi
conto della cantonata che avrebbe potuto avere
gravi conseguenze.
La radio
Per le comunicazioni, Gipsy Moth III disponeva di
una radio Homer-Heron a valvole, dotata della sola valvola del canale della frequenza per il diporto
in Gran Bretagna. Fuori dalla portata delle stazioni
radio costiere, l’idea era di comunicare proprie notizie alle navi incontrate ed agli aerei in volo,
preavvertiti. In effetti, Chichester ricevette una
chiamata radio il 18 giugno da un volo Pan Am
ma l’aereo non fu in grado di captare la risposta
della barca.
Non andò meglio neppure con le navi, fra cui il
transatlantico Mauretania, incontrato il 26 giugno
sulla rotta contrapposta, che aveva ricevuto la trasmissione e girato il messaggio in Inghilterra ma la
sua risposta non era stata captata dall’antenna volante dello sloop, un cavo dipolo con due isolatori
in vetro issato di volta in volta lungo l’albero, che
con mure a dritta sfregava sulla randa.
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La stanchezza
Una svista apparentemente incredibile ma segno
evidente di mancanza di lucidità da stanchezza
psico-fisica dopo un mese di cuccette umide e alimentazione sostituita spesso da “un bicchiere di
whisky e due pastiglie per il mal di mare”. Dal menù
di inizio luglio, con salmone, patate al forno e ci-
polle accompagnate
da formaggio, lo skipper si era ridotto negli
ultimi giorni a dover
tagliare spessi strati di
muffa da pane e patate per mettere in forno quel che restava di
apparentemente non
intaccato. L’ultimo
tratto è stato per molti
versi il più difficile per
il solitario ormai esausto, alle prese con condizioni che variavano
in poche ore dai colpi
di vento forza 7, con
pioggia e freddo, alla
bonaccia con nebbia
afosa.
La gloria
All’arrivo, il 21 luglio
1960, Chichester fu
raggiunto al largo da
una pilotina con a
bordo la moglie e l’inviato del principe Filippo di Edimburgo.
Dolce come il miele la
risposta alla domanda
che più gli premeva:
“You are first”.
Fra gli altri, Hasler imL’ormai anziano navigatore solitario a prora del suo Gipsy Moth IV durante il giro del mondo compiegò 48 giorni e mezpiuto nel 1966
zo, dopo essere salito
esageratamente a Nord,
cord lo portò a compiere nientemeno che il giro
seguito da Lewis in 56 giorni, inclusi i due della sodel mondo in solitario, con tappa a Sidney, su
stituzione dell’albero, sulla stessa rotta di Gipsy Moth
Gipsy Moth IV, ketch di 16 metri, che gli valse la
III, mentre gli ultimi due solitari, che avevano cercanomina
a baronetto.
to i venti portanti scendendo fino alle Azzorre, imMai pago, nel 1971, su Gipsy Moth V, ketch di adpiegarono rispettivamente 63 giorni Howell e ben
dirittura 17 metri, stabilì un record di velocità su
75 giorni Lacombe, che si impelagò nella Corrente
4.000 miglia, coperte in 23 giorni e mezzo. Nel
del Golfo.
1972, nonostante un tumore (questa volta fatale)
e l’età, prese il via alla 4ª OSTAR, ma nel giro di
Epilogo
una settimana dovette gettare la spugna ed essere
Nel 1964, alla seconda OSTAR, Chichester coronò
soccorso: triste epilogo, reso ancora più tragico
l’ambizione di attraversare l’Atlantico in meno di
dalla collisione fra un battello meteorologico fran30 giorni ma dovette accontentarsi del secondo
cese e uno yacht americano che accorreva in socposto, dietro al giovane Patric Tabarly, ufficiale
corso, con perdita della vita dei sei membri di
della Marine Nationale francese su Pen Duik III,
equipaggio di quest’ultimo.
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ketch di 15 metri. Nel 1966, l’ossessione per i re-
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