Edifici a Grande Luce

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Edifici a Grande Luce
Edifici a Grande Luce
Nuove tecnologie dell’acciaio applicazioni
al campo dell’Architettura e dell’Ingegneria Edile
Atti dei seminari
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POLITECNICO DI TORINO
DISET
SOCIETÀ
DEGLI INGEGNERI E
DEGLI ARCHITETTI
IN TORINO
Con il Patrocinio:
Dottorato ITAC
Innovazione Tecnologica
per l’Ambiente Costruito.
Stazione Lehrter di Berlino
Architetto: gmp Von Gerkan, Marg und Partners
Foto: Marcus Bred
Indice secondo seminario
Edifici a Grande Luce
2.1 L’involucro edilizio: rapporto tra forma e funzione
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Prof. Fabrizio Astrua , Politecnico di Torino – Dipartimento DISET
2.2 Involucro edilizio: rapporto tra struttura ed architettura
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Prof. Vittorio Nascè , Politecnico di Torino – Dipartimento DISTR, SIAT
2.3 Soluzioni strutturali in acciaio per liberare lo spazio:
travi alveolari per grandi luci
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Ing. Tirelli Tommaso, Ing. Mauro Sommavilla – ArcelorMittal
2.4 Il progetto della copertura di grande luce in vetro ed acciaio per la hall
dell’hotel Crowne Plaza in Caserta. Aspetti strutturali, protezione
sismica e metodo di costruzione con varo incrementale.
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Ingg. Gian Carlo e Mario Eugenio Giuliani, Studio Redesco Milano
2.5 L’edificio multifunzionale del Palalsozaki a Torino. Inserimento
ambientale ed aspetti funzionali, costruttivi e compositivi
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Arch. Pier Paolo Maggiora, Studio Archa
2.6 L’edificio multifunzionale del Palalsozaki a Torino.
Aspetti statici e costruttivi
111
Ing. Maurizio Teora, Arup Italia
2.7 Considerazioni sulla sostenibilità ambientale
Prof. Carlo Caldera, Politecnico di Torino – Dipartimento DISET
3
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Edifici a Grande Luce
Prof. Fabrizio Astrua
Politecnico di Torino - Dipartimento DISET
2.1 L’involucro edilizio: rapporto
tra forma e funzione.
Evoluzione della forma e
flessibilità d’uso dell’acciaio
Gli edifici a grande luce in acciaio nascono nell’Ottocento insieme all’avvento della ferrovia, con motivazioni soprattutto funzionali, dal
momento che era necessario risolvere problemi legati alla mobilità dei passeggeri nelle stazioni ferroviarie. Sono nate così in Europa e in
Italia le grandi coperture voltate di queste stazioni, che inizialmente erano realizzate con tralicci lignei. Per questo mio discorso ho preso
come riferimento due esempi molto vicini a noi: le stazioni di Alessandria e Genova Porta Principe, progettate dall’ingegnere Alessandro
Mazzucchetti, e realizzate a metà Ottocento (precisamente negli anni 1854-55 quella di Alessandria e nel 1859 quella di Genova).
Nel primo caso la copertura voltata della zona di sosta dei convogli è composta da centine ad arco di cerchio a sesto ribassato e tralicci lignei
a spinta eliminata. Si può notare la catena all’imposta dell’arco. La stazione di Genova Porta Principe, invece, presentava una volta ad arco di
cerchio ribassato reticolare in metallo a spinta eliminata.
Stazione di Genova Porta Principe 1859
Progettista: Alessandro Mazzucchetti
Stazione di Alessandria 1854/55, Progettista: Alessandro Mazzucchetti
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Nella stazione centrale di Francoforte, invece, opera dell’ingegnere G.P. Eggert, la struttura è realizzata mediante tre archi contigui in
ferro che coprono la luce di circa 55 metri ciascuno. Questo esempio è significativo in quanto può essere considerato il capostipite delle
soluzioni delle stazioni ferroviarie ad arcate contigue, pensate poi anche per la stazione centrale di Milano, realizzata più avanti.
Stazione Centrale di Francoforte
1879/1888
Progettista: G.P.Eggert
Altre applicazioni dell’uso dell’acciaio per queste grandi soluzioni si trovano nelle grandi esposizioni internazionali, nelle grandi serre, nelle
coperture dei mercati oppure nelle grandi opere di ingegneria stradale e/o idraulica. Inoltre, anche se può sembrare una citazione ormai nota
ma doverosa da inserire nel discorso, va detto che una grande opera in acciaio, emblematica, fu progettata per l’esposizione universale di
Parigi del 1889, da Gustave Eiffel insieme ad un architetto ai più sconosciuto, Stephen Sauvestre, ovvero la torre Eiffel. Per non dimenticare la
grande opera di Joseph Paxton a Londra: il Crystal Palace.
Parigi Esposizione universale del 1889.
Progettista: Gustave Eiffel (con Stephen Sauvestre)
Londra Esibizione del 1851.
Crystal Palace ,
Progettista: Joseph Paxton
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Altre applicazioni in quell’epoca erano indirizzate all’ingegneria ferroviaria, stradale e idraulica. Ci sono due esempi, sempre di Eiffel (uno del
1877 e uno del 1890) che meritano la nostra attenzione: il Ponte Maria Pia a Porto in Portogallo, ponte ferroviario con una luce di 160 metri,
e il Pont Canal de Briare, a Briare in Francia, un cassone metallico a tenuta stagna che poggia su quattordici pilastri in pietra, con una luce di
quaranta metri per ogni campata e una lunghezza totale di circa 660 metri. Si tratta di un intervento affascinante per infrastrutture idrauliche
che in Francia è abbastanza facile incontrare.
Ponte Maria Pia,
Porto, Portogallo
Progettista: Gustave Eiffel
Pont Canal de Briare,
Briare, Francia
Progettista: Gustave Eiffel
Nella prima parte del ‘900 assistiamo, in Italia, ad una progressiva diminuzione dell’impiego delle strutture in acciaio per gli edifici a grande luce
(un esempio emblematico è ancora la copertura delle banchine della stazione Centrale di Milano). Dopo gli anni ’50 la diminuzione delle opere
in acciaio continua a favore delle opere in cemento armato. Le motivazioni sono difficili da individuare, però è chiaro che nel dopoguerra trovare
materiali di un certo tipo non era facile e ciò ha influenzato l’architettura. Gli esempi più caratteristici, almeno quelli che io sento più vicini a noi
di opere realizzate in cemento armato in quegli anni sono il Palazzo di Torino Esposizioni di Pierluigi Nervi, ed il palazzo a “vela” di Franco Levi
(realizzato in occasione dei festeggiamenti per il centenario dell’Unità d’Italia), ma molti altri interventi a grandi campate in cemento armato
potrebbero essere qui ricordati.
In Europa ci sono ancora esempi importanti di strutture in acciaio, quali la Neue National Galerie di Mies Van der Rohe, a Berlino (Germania)
importante da ricordare e interessante, anche se opera conosciutissima: realizzata nel 1962, è un edificio su due livelli, con il piano superiore
che ospita una grande sala senza pilastri intermedi destinata alle esposizioni temporanee e un piano inferiore (nel basamento in c.a.) in cui sono
ospitate alcune gallerie con le collezioni permanenti del museo e altri spazi riservati a funzioni di servizio.
Neue Nationalgalerie
Berlino, Germania
Progettista: Mies Van der Rohe
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Neue Nationalgalerie
Berlino, Germania
Progettista: Mies Van der Rohe
Essa poggia su otto pilastri cruciformi leggermente rastremati e collocati sul perimetro, e ha una struttura di copertura a lastra, costituita da
travi in acciaio saldate per formare una griglia ortogonale. Tale copertura fu sollevata con tecniche a fune per essere collocata sulla sommità
dei pilastri come si può osservare dalle immagini del cotiere. Questo edificio rappresenta il culmine della riflessione di Mies sulla struttura e lo
spazio posti in relazione alle esigenze di flessibilità di un luogo espositivo.
Un capitolo a parte però lo merita la sperimentazione di Frei Otto nel campo delle tensostrutture e delle membrane. Egli aprì nel 1957 un
laboratorio specifico sulle strutture leggere e iniziò a sperimentare. Allora non c’erano ancora i computer ed i software di cui disponiamo oggi.
Quello che c’era veniva adattato di volta in volta con algoritmi elaborati “in casa”. Nonostante questo lui sperimenta con tenacia soluzioni
rivoluzionarie e riesce a realizzare coperture leggere e bellissime. Un singolare esempio di ricerca formale di Otto, con il quale si vuole ottenere
uno spazio libero da pilastri centrali, è ravvisabile nella chiesa protestante di San Luca a Brema in Germania (1962-63): è un esempio di
tensostruttura, con due archi compressi in legno “laminare” e rete di cavi-tiranti in acciaio. Un altro esempio molto conosciuto è il modello del
padiglione tedesco all’esposizione di Montreal del 1967.
Chiesa protestante di St.Luke In Bremen-Grolland, Germania
Progettista: Carsten Schock-Frei Otto 1962-63
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Modello del “German Pavilion Expo
1967” Montreal, Canada
Progettista: Frei Otto, Larry Medlin
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Si può dire che il contributo di Frei Otto alle tensostrutture e alle architetture leggere è stato fondamentale. Egli dice: “Io ho cominciato questa
sperimentazione perché nel dopoguerra bisognava cercare di risparmiare, quindi costruire con poco”. Costruire con poco materiale perché il
materiale costava, e da questa considerazione e necessità è dunque partita tutta la sua elaborazione e gli studi sul rapporto con la natura, e i
suoi aspetti biologici portati nell’architettura. Un esempio ne è la struttura olimpica di Monaco di Baviera (Germania, 1972).
Copertura delle strutture olimpiche
Monaco di Baviera, Germania, 1972
Progettista: Otto Frei
Verso la fine del ‘900 accadono due fatti nuovi: da una parte compaiono le nuove tecnologie e, naturalmente, la possibilità di applicare ad
esse sistemi di calcolo e di rappresentazione sofisticati, e dall’altra c’è l’avvento di nuovi materiali come gli acciai a grande resistenza e a
deformazioni controllata, materiali sintetici come il Teflon, il vetro e altri materiali. Questi materiali consentono di concepire e realizzare opere
che impiegano l’acciaio in modo molto flessibile. Di opere riguardanti questo periodo ce ne sono molte, e molti sono gli esempi significativi.
Eccone alcuni: la Waterloo Station di Nicholas Grimshaw realizzata nel 1993 per il nuovo terminale della stazione dei treni ad alta velocità per
il collegamento tra Parigi e Londra, che si affianca alla preesistente stazione nel centro di Londra, accoglie cinque nuovi binari e smista oltre 15
milioni di passeggeri ogni anno. Il terminal è caratterizzato da una affusolata copertura in acciaio e vetro lunga oltre 400 metri.
Waterloo Station
Londra, Inghilterra
Progettista : Nicholas Grimshaw
Essa è stata realizzata mediante una sequenza di portali in acciaio a sezione variabile costruiti con travi reticolari a sezione triangolare, ed è
stata concepita “asimmetrica” per relazionarsi al contesto e assolvere ad esigenze tecniche e funzionali. Per la progettazione di questa opera
l’uso di strumenti informatici è stato fondamentale.
Waterloo Station
Londra, Inghilterra
Progettista : Nicholas Grimshaw
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Un altro esempio interessante è la stazione del treno ad alta velocità TGV dell’aeroporto di Satolas a Lione, realizzata da Santiago Calatrava,
che è ingegnere e architetto, e ha potuto esprimere in tutte le sue opere, almeno credo, il meglio di tutti e due gli indirizzi di studio che ha
seguito. La nuova stazione si attesta sull’area dell’aeroporto ed è costituita da una zona centrale, una hall realizzata con struttura in acciaio
che costituisce il fulcro del progetto, e da una struttura longitudinale in c.a. che ospita la stazione vera e propria dei TGV. Una galleria pedonale
passante consente il collegamento con l’aerostazione passeggeri dell’aeroporto.
La stazione TGV dell’aeroporto di Satolas
Lione, Francia
Progettista: Santiago Calatrava
La stazione viene edificata in trincea e si organizza su due livelli sovrapposti. Al livello più basso sono ubicate due banchine per la sosta dei treni:
esse servono due coppie di binari. In uno spazio separato, realizzato in galleria, si trova la coppia di binari che consente il transito senza fermata
dei treni TGV.
La stazione TGV dell’aeroporto di Satolas
Lione, Francia
Progettista: Santiago Calatrava
Questa parte della stazione è coperta da una volta lunga 400 metri e larga 53 m ed è sostenuta da cavalletti obliqui in cemento armato.
Lo spazio interno della hall è di forma triangolare. La copertura realizzata in acciaio ha una luce di 38 m e poggia su due archi obliqui cavi in
cemento armato. Questi, a loro volta, poggiano su un basamento ai bordi della struttura. Sempre a questo livello è possibile raggiungere,
attraverso una galleria lunga 200 metri e con l’ausilio di tapis-roulant, l’aeroporto oppure accedere a un ampio terrazzo che domina l’atrio e
i treni. In questo progetto esiste un riferimento zoomorfo che in Calatrava diventa un elemento espressivo molto forte. Qui l’espressività si
trova anche nelle strutture in calcestruzzo e nella copertura della grande galleria per i treni.
Un esempio dell’utilizzo molto flessibile dell’acciaio è il padiglione del Portogallo dell’esposizione di Lisbona del 1998 dell’architetto Alvaro Siza.
Padiglione Del Portogallo, Expo Lisbona 1998
Lisbona, Portogallo
Progettista: Alvaro Siza
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I due corpi principali squadrati e simmetricamente ripartiti da alte colonne e setti in calcestruzzo contengono gli ambienti di servizio e spazi
destinati a presentazioni, conferenze, esposizioni.
Padiglione Del Portogallo, Expo Lisbona 1998
Lisbona, Portogallo
Progettista: Alvaro Siza
I due parallelepipedi sono uniti da una grandiosa e spettacolare “vela” di cemento armato, di 20 cm di spessore appesa ai vicini corpi per mezzo
di tiranti in acciaio. È stato impiego un calcestruzzo ad alte prestazioni con una ridotta tendenza alla fessurazione indotta da deformazioni di
origine termica o igrometrica. Tale “vela” consente di avere uno spazio coperto di 3600 metri quadri per manifestazioni e concerti.
Padiglione Del Portogallo, Expo Lisbona 1998
Lisbona, Portogallo
Progettista: Alvaro Siza
Un altro esempio interessante che sembra si possa ricondurre all’esempio precedente è lo stadio di Braga per gli europei di calcio del 2004,
realizzato su progetto dell’architetto Souto De Moura che ha lavorato da Siza, e che ha partecipato anche alla progettazione dell’edificio
precedente. Questa è un’architettura di grande effetto inserita nel paesaggio e aperta su di esso.
Stadio di Braga , europei calcio 2004
Braga, Portogallo
Progettista: Souto De Moura
L’avveniristico stadio è sorto dove un tempo esisteva una cava, nel fianco del monte Castro, la montagna che sovrasta Braga, e si inserisce in
essa come una perla. In un primo tempo la copertura, elemento caratteristico del progetto, doveva essere continua, poi si è scelto di seguire
come riferimento i ponti Incas e liberare la parte centrale, per poter consentire un respiro del campo di calcio, dargli la possibilità di essere
bagnato dalla pioggia.
Stadio di Braga , europei calcio 2004
Braga, Portogallo
Progettista: Souto De Moura
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La copertura in calcestruzzo è stata così realizzata con una struttura fatta di 68 cavi di acciaio lunghi 220 metri, accoppiati a due a due e
ancorati alle estremità superiori degli spalti e copre in maniera integrale solo la zona occupata dagli spettatori, a vantaggio dell’illuminazione e
del mantenimento naturale del manto erboso.
Come già accennato, molto bello è l’inserimento ambientale: è un campo di calcio che non ha le “curve”, ma ha soltanto le tribune, i rettilinei, e
di conseguenza presenta anche un modo diverso di concepire lo spettacolo del calcio.
Un esperimento interessante fatto dal laboratorio di ricerca M&G Polimeri e realizzato in Italia a Pozzilli (Isernia) su progetto di un gruppo di
architetti di Bruxelles, Samyn e Assocìés S.P.R.L.
Il gruppo M&G ha deciso di concentrare le diverse attività di ricerca in un unico luogo, raccogliendo sotto un’unica copertura un’area tecnica
con apparecchiature di pilotaggio per lo sviluppo della produzione e dei processi di lavorazione, ed un settore chimico-fisico con laboratori
per la sintesi e l’analisi dei prodotti finiti. Fu per questo necessario studiare un padiglione il più grande possibile, con ampie luci e spazio al suo
interno, libero da pilastri di sostegno, che offrisse la possibilità di creare piccole unità protette per effettuare ricerche separate.
Scendendo più nel dettaglio della tenda-involucro, essa ha una forma ovale di 85x32 metri, e copre una superficie utilizzabile di 2700 mq.
La struttura portante, leggera, è alta 15 m ed è sorretta da archi a traliccio simmetrici e rinforzati da sei funi poste lungo il perimetro. La
lunghezza ottimale della copertura di membrana, che varia tra i 12 e i 15 metri, ha determinato il numero di archi necessari. Dietro agli archi
formati dalle funi di bordo si trovano gli elementi di facciata vetrati, che seguono la forma dell’arco.
L’edificio è posto come un’isola in un bacino idrico artificiale di forma rettangolare, che viene utilizzato come riserva d’acqua in caso
d’incendio e nello stesso tempo serve per rianimare l’ambiente circostante con l’evaporazione e il riflesso naturale. La ventilazione degli spazi
tra i laboratori e il tendone è garantita da un semplice sistema di aperture, mentre i laboratori godono di un impianto di condizionamento
indipendente.
Anche questo esempio dunque dà la visione di come sia flessibile l’uso dell’acciaio in questo tipo di architettura: quello che emerge ed è
interessante è il sistema della tenda accoppiata ai tralicci reticolari, collegati da elementi d’acciaio che forniscono un controventamento.
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Un altro esempio di uso dell’acciaio per impianti sportivi è quello dello stadio di Sapporo, (Sapporo Dome), progettato da Hiroshi Hara, uno
stadio multifunzionale coperto da un’enorme cupola, caratterizzato da un campo da gioco che si solleva grazie a un sofisticato sistema
pneumatico per ruotare prima su se stesso, di 90 gradi, e poi traslare all’esterno del Dome.
Il progetto di uno stadio coperto deriva dalle condizioni climatiche di Sapporo nei mesi invernali, durante i quali ci sono precipitazioni nevose
anche molto intense. La forma aerodinamica della copertura è scaturita dal bisogno di una copertura che deve resistere e deviare la neve ma
soprattutto coprire uno spazio enorme libero da pilastri. La struttura a guscio della copertura è composta da travature reticolari spaziali che
trasferiscono i loro carichi ad un anello di colonne posto al perimetro dell’edificio.
Stadio Sapporo Dome
Sapporo, Corea del Sud
Progettista: Hiroshi Hara
Lo spazio è caratterizzato da “due arene”, una all’aperto e una al coperto, e in particolare dal campo di calcio sospeso, che, come già detto,
sfrutta il sistema di sollevamento ad aria. Il campo pesa 8300 tonnellate e si libra su un cuscino di aria che riduce il suo peso del 90% e si
muove alla velocità di quattro metri al minuto.
Stadio Sapporo Dome
Sapporo, Corea del Sud
Progettista: Hiroshi Hara
Un esempio molto interessante è costituito dalla cupola del Reichstag di Berlino, di Norman Foster. Una delle caratteristiche principali e più
espressive di questa soluzione è costituita soprattutto dal cono che porta la luce all’interno della sala del Parlamento e dalle rampe elicoidali.
L’elemento centrale del cono, e delle due rampe elicoidali che portano i visitatori alla piattaforma di osservazione posta sopra la sede
dell’Assemblea plenaria, elevandoli simbolicamente sopra le teste dei loro rappresentanti politici, non è altro che la configurazione formale del
cuore di un tifone, del cuore di quell’ uragano che, purtroppo, ha investito e devastato l’Europa negli anni del nazismo.
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La cupola dal punto di vista costruttivo ha un’altezza di 23,5 metri e un diametro di 40 m, pesa 1200 tonnellate a causa della sua struttura
in acciaio rivestita da due strati di vetro interposti da uno strato intermedio di vinile di stagno. La rampa elicoidale prima citata, di larghezza
libera di 1,6 metri, funge da anello di irrigidimento per la cupola. Tutti gli elementi della cupola, compresi la rampa, l’enorme cono centrale e la
piattaforma, sono sorretti dalla struttura esterna.
Cupola del Reichstag
Berlino, Germania
Progettista: Norman Foster
Un altro raffinatissimo esempio è quello della Great Court del British Museum, struttura reticolare molto interessante, realizzata da Foster, che
non è solo un bel progetto di edificio recuperato, ma anche un esempio formidabile di copertura di grande luce, realizzata in acciaio e vetro, e
per questo particolarmente leggera.
Il progetto architettonico è centrato sulla rilettura della grande corte quadrata di circa seimila metri quadrati, cuore del museo londinese. Si
rende praticabile uno spazio distributivo che non era sino ad allora fruibile dai visitatori del British Museum, ampliando la rete dei percorsi senza
farlo a scapito delle aree espositive. Si è così proceduto al recupero degli spazi della corte, mediante l’abbattimento dei corpi dell’archivio e la
Great Court British Museum
Londra, Inghilterra
Progettista: Norman Foster
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loro copertura tramite la struttura in acciaio e vetro prima descritta, scelta per poter sfruttare al massimo l’illuminazione naturale.
La copertura è composta da una superficie ondulata disegnata da una serie di archi tra la sala lettura e i corpi perimetrali, differenti l’uno
dall’altro, in modo da non gravare sulla struttura storica con strutture di supporto. Il telaio metallico della struttura è costituito da una lega
d’acciaio particolarmente duttile, in grado di assorbire le deformazioni dovute agli sbalzi termici, mantenendo stabili gli sforzi sui tasselli
di vetro.
Great Court British Museum
Londra, Inghilterra
Progettista: Norman Foster
Great Court British Museum
Londra, Inghilterra
Progettista: Norman Foster
Un altro esempio recente di copertura di grandi luci in acciaio ,è l’aeroporto di Pechino di Foster, che è caratterizzato dal fatto di avere la più
grande copertura mai realizzata. Anche in questo caso il riferimento formale è molto importante: sembra un po’ un drago depositato sulla
pianura di Pechino, un grande riferimento culturale per i cinesi.
Beijing Airport
Beijing (Pechino), Cina
Progettista: Norman Foster
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Esso è una combinazione di tre volumi che disegna un diagramma simmetrico che si apre a ventaglio in corrispondenza di ciascuna estremità
ed è formato da una serie di livelli fuori terra (cinque, per la precisione). Il terminal ha una struttura flessibile, già predisposta per una ulteriore e
futura espansione, basata su un modulo standard.
Beijing Airport
Beijing (Pechino), Cina
Progettista: Norman Foster
La struttura è in acciaio e vetro con un tetto leggermente inclinato, il cui profilo aerodinamico trae ispirazione dalla poesia del volo. Ampi
lucernari installati sulla copertura curvilinea consentono l’illuminazione naturale degli spazi interni. L’asse centrale è marcato da una serie di
colonne rosse che prosegue lungo il perimetro esterno dell’edificio.
Visti questi esempi consentitemi a questo punto di trarre alcune conclusioni.
Il mio compito in questo seminario non è tanto quello di scendere in dettaglio con il racconto dei progetti, quanto quello di suscitare un
dibattito sulle tematiche delle coperture a grande luce e naturalmente anche sulle tematiche compositive, sulle tematiche espressive
dell’architettura in acciaio.
L’ultimo esempio che vi presento e, sul quale credo ci sia proprio l’occasione per avviare una discussione, è quello del Milwaukee Museum
of Art di Santiago Calatrava. Qui l’architetto-ingegnere interviene su un edificio precedente dell’architetto finlandese Saarinen, un museo
precedente di cui realizza un ampliamento. Già negli anni ’70 un altro architetto aveva realizzato un ampliamento di questo museo, quindi si
può dire che un intervento di “manipolazione” dell’architettura originaria c’era già stato. L’estensione di Calatrava contiene, oltre ai nuovi spazi
espositivi, l’auditorium, il bookshop, la caffetteria, l’ingresso a vetrate e il collegamento con l’edificio principale.
Milwaukee Museum Of Art
Milwaukee (Wisconsin), Stati Uniti
Progettista: Santiago Calatrava
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Questo progetto aumenta la superficie espositiva del Museo del 30% e comprende anche il ponte pedonale di 76 metri che collega il museo
e la riva del lago al centro della città. Santiago Calatrava realizza dunque una grande sala, oltre a dei servizi, e decide di coprire questa sala
con una struttura avveniristica che ricorda le ali di un uccello, composta da 72 nervature metalliche, ed è mobile, così che può servire, quando
chiusa, da frangisole per la sala, mentre quando è aperta consente l’aerazione degli spazi e conferisce una immagine molto forte della sala.
Milwaukee Museum Of Art
Milwaukee (Wisconsin), Stati Uniti
Progettista: Santiago Calatrava
Come possiamo valutare l’intervento “fortemente” espressivo di Calatrava sul preesistente capolavoro di Saarinen?
Con tutti questi progetti, per finire, vorrei sottolineare come il progetto oggi, di qualsiasi edificio, sia diventato un atto molto complesso di
grande responsabilità in cui le personalità professionali si devono non solo trovare sullo stesso tavolo ma devono colloquiare, devono capirsi, e,
in qualche modo, vivere uno per l’altro. E le figure professionali coinvolte sono molte. Ciò è ancora più importante negli interventi di “recupero”.
Vorrei così finire con questa frase di Eladio Dieste, ingegnere uruguaiano del ‘900 celebre per gli studi sulle grandi coperture a doppia calotta
autoportanti in muratura semplice, che ha operato principalmente intorno al 1930 – 1940.
Egli dice: “Mi considero un ingegnere e non un architetto. Partendo dal fatto puramente ingegneristico, strutturale sono arrivato alle
preoccupazioni classiche dell’architettura. Avendo coscienza della complessità dei problemi comuni alle due discipline ho cercato di risolverli, in
modo tale che ora gli architetti mi considerano uno di loro.”
Milwaukee Museum Of Art
Milwaukee (Wisconsin), Stati Uniti
Progettista: Santiago Calatrava
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Eladio Dieste * :
“Mi considero un ingegnere e non un architetto.
Partendo dal fatto puramente ingegneristico, strutturale sono arrivato alle preoccupazioni classiche dell’architettura.
Avendo coscienza della complessità dei problemi comuni alle due discipline ho cercato di risolverli,
in modo tale che ora gli architetti mi considerano uno di loro”
* Ingegnere uruguayano del novecento, celebre per gli studi sulle grandi coperture a doppia calotta autoportanti in muratura povera
Bibliografia
•Atlante delle tensostrutture, Hans-Joachim Schock ; Torino : UTET, 2001
•AA.VV. “ Strade ferrate in Piemonte”, Celid, Torino 1992
•Kenneth Frampton “ Alvaro Siza tutte le opere ”, Electa, Milano 1999
•Alexander Tzonis “ Santiago Calatrava opera completa ”, Rizzoli , 2005
•Santiago Calatrava “Escale Satolas”, Glénat , Grenoble 2005
•D. Jenkins (a cura di), “Norman Foster : Works”, Prestel, Monaco – Berlino – Londra – New York 2000
•Eladio Dieste, Frei Otto, “Esperienze di architettura : generazioni a confronto”, Prestel, Skira, 1996
• El Croquis n° 91, 1998 , p.p. 66-89
• “Eduardo Souto De Moura”, in El Croquis n° 124, 2005 , p.p. 229
•Casabella vol. 62 ,n° 654, 1998 , p.p. 66-85
•Arquitectura viva n° 59, marzo-aprile 1998 , p.p. 40-43
•Tecniques et architecture n° 439 , agosto-settembre1998 , p.p. 40-43
•Detail vol. 44, n° 7-8, luglio-agosto 2004 , p.p. 828-834
•A+U n° 372, settembre 2001 , p.p. 94-101
•Arca n° 167, febbraio 2002 , p.p. 6-15
•Archplus n° 159-160, maggio 2002 , p.p. 100-107
•www.europaconcorsi.com
•www.fosterandpartners.com
•www.calatrava.com
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Edifici a Grande Luce
Prof. Vittorio Nascè
Politecnico di Torino, Dipartimento DISTR - SIAT
2.2 Involucro edilizio:
rapporto tra struttura e architettura
In questo mio intervento tratterò l’argomento del rapporto fra struttura e
architettura, assumendo a riferimento due argomenti: uno è la polivalenza
funzionale dell’edificio sul quale si imposta una copertura di grande luce,
argomento che ha in parte trattato il professor Astrua nel suo intervento,
quando ha parlato di progetti come il Sapporo Dome, ad esempio. L’altro, è
la leggerezza e, di conseguenza, la trasparenza dell’involucro che sono delle
peculiarità tradizionali della costruzione metallica e che si può vedere in progetti
come nell’antica cupola Halle au Blé di Parigi del 1805, dell’architetto Bélanger e
dell’ingegnere Brunet, una costruzione in ghisa.
Questa ambizione alla leggerezza e alla trasparenza ha caratterizzato e continua
a caratterizzare la costruzione metallica. Esiste poi la polivalenza funzionale di
queste strutture, che risponde prima di tutto ad una esigenza di economia, di
qualità e di continuità dell’esercizio di un grande impianto. Ciò richiede costruzioni
che debbono essere utilizzate possibilmente a tempo pieno, per esempio con due
manifestazioni alla settimana e, facendo riferimento alla realtà italiana, vedete
come siamo lontani noi da questo obiettivo, qui a Torino, con le realizzazioni che
sono state fatte per le olimpiadi. Infine, questo tipo di strutture si deve poter
adattare a diverse attività ospitate: spettacoli, attività sportive, eventi teatrali e
musicali, ma anche occasioni diverse come attività fieristiche, grandi assemblee
di pubblico. Questa è una tendenza che ha interessato soprattutto gli impianti
sportivi, i palazzi dello sport e ora, progressivamente, anche gli stadi: per questo
tipo di strutture sono già stati ripetutamente realizzati i sistemi di coperture
mobili, come ad esempio nel Millennium Stadium di Cardiff, nello stadio di
Wembley recentemente ultimato a Londra, o ancora manti erbosi smontabili e
trasferibili, realizzati non solo in Giappone, ma anche in Europa. Per la candidatura
di Stoccolma quale sede delle Olimpiadi 2004, venne bandito un concorso:
Stoccolma non vinse, ma era stato pensato uno stadio di 80.000 spettatori che
poi avrebbe dovuto trasformarsi in un edificio polifunzionale interamente coperto
per una capienza di 20.000 spettatori. Il gruppo di Nicolas Grimshaw, lo stesso
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Halle au Blé, 1805, Parigi, Francia – costruzione in ghisa
Progettisti: Arch. Bélanger e Ing. Brunet
Millennium stadium, Cardiff, Galles
Progettista: HOK Sport
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Millennium stadium, Cardiff, Galles
Progettista: HOK Sport
Progetto per lo stadio di Stoccolma, Olimpiadi 2004
Progettista: Nicolas Grimshaw
che ha progettato la Waterloo Station a Londra propose, allora, l’anello superiore delle gradinate ripiegabile all’interno, come la corolla di un
fiore. È un’utopia, se si pensa alla differenza dei carichi e delle sollecitazioni fra una tribuna e una copertura. Però è un’utopia che è emblematica
di problemi che oggi si pongono e sempre più si porranno in futuro. L’orientamento prevalente, però, se vogliamo rimanere con i piedi per
terra, è quello di mantenere inalterata la struttura nelle diverse utilizzazioni di impianto ma concepirla in modo tale da favorire il più possibile le
diverse e successive trasformazioni.
Palahockey o Palalsozaki, Torino, 2006
Progettisti: Arata Isozaki, Pier Paolo Maggiora, Arup
Palahockey o Palalsozaki, Torino, 2006
Progettisti: Arata Isozaki, Pier Paolo Maggiora, Arup
Quest’orientamento, a mio giudizio, è stato interpretato con molta chiarezza nel progetto del nuovo Palasport olimpico di Torino. La polivalenza
richiede, anzitutto, di poter modificare nel modo più semplice e rapido l’allestimento del parterre, e poi, eventualmente, l’estensione e l’assetto
delle tribune con dei sistemi di tribune mobili. Occorrono grandi spazi di accesso, di movimentazione a terra, di deposito, e questo indirizza
verso strutture di grande luce con appoggi al terreno indipendenti per esempio dalla struttura delle tribune, molto distanziati sul perimetro
della sala o dell’intera costruzione.
La polivalenza, poi, richiede buoni margini di utilizzazione delle strutture di
copertura così come vincoli per nuove attrezzature, per nuovi impianti meccanici,
elettrici, per passerelle aeree di manutenzione, per pareti mobili da appendere.
La forma di intradosso della copertura, il reticolo strutturale, la sua capacità
portante locale debbono essere idonee a questi fini, debbono essere idonei
ad ospitare queste installazioni con realizzazioni di nuovi vincoli e sopportare
localmente le reazioni su interassi non eccessivi. E allora dove si va a parare con
questi concetti? Il concetto è che si va verso la richiesta di strutture di grande
luce, ma di forma, apparentemente, semplice: cioè una soluzione a travi parallele,
ad esempio, oppure a piastra reticolare ad intradosso orizzontale o limitatamente
arcuato. Strutture di perimetro più quadrato che rotondo, a maglia secondaria
relativamente densa, vincolata a terra in pochi punti, comunque indipendenti,
possibilmente perimetrali rispetto all’intera costruzione. Se, allora, ci riferiamo ai
tre sistemi portanti fondamentali dell’ingegneria delle strutture che sono l’arco, la
trave, la fune e le corrispondenti famiglie della volta, della cupola, del graticcio di
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travi, della piastra, della rete di funi e all’ampia tipologia delle tensostrutture, riconosciamo
che tendenzialmente è ancora la famiglia della trave quella che maggiormente si presta
all’obiettivo, a questo primo obiettivo del progetto architettonico, e cioè la polivalenza
funzionale del grande contenitore.
Vengo ora a parlare della ricerca di leggerezza e di trasparenza: qui l’attenzione si sposta,
soprattutto, alle strutture che fanno capo all’arco e alla fune. L’arco e la fune, per loro
capacità di portare carico con la sola sollecitazione di sforzo normale, sono sistemi
concettualmente idonei a strutture reagenti prevalentemente per forma, cioè strutture
la cui distribuzione dei carichi sia sostanzialmente stabile nel tempo e la cui forma sia
funicolare. I carichi di neve e vento possono però essere ricondotti a funi con distribuzione
tipicamente variabile nel tempo, soprattutto per la possibilità di accumulo della neve e
le variazioni di direzione del vento, e quindi proprio nelle strutture leggere neve e vento
Villaggio Olimpico di Monaco, Germania, 1972
rappresentano le azioni di più elevata incidenza e le più insidiose. L’arco snello e la fune
Progettista: Otto Frei
utilizzate in coperture leggere nel loro schema statico elementare, quello, cioè, visto
rappresentato nella stazione di Alessandria, e che c’era nella stazione di Porta Nuova qui
a Torino (progetto di Mazzucchetti del ’67), non erano e non sono strutture adatte a sopportare queste variazioni di carico, ed infatti, non
furono mai fatte a semplice strato, ma realizzate sempre come strutture reticolari. Se fatte a semplice strato, esse sono esposte al rischio di
grandi deformazioni ed oscillazioni dannose in esercizio e possono innescare fenomeni di instabilità, e quindi di collasso.
Il caso dell’Expo di Lisbona, progetto bellissimo di Alvaro Siza, che fa seguito al progetto di Withney e di Saarinen per l’aeroporto di
Washington, è un progetto, praticamente, di struttura zavorrata: 20 centimetri
di calcestruzzo per tenere ferma la fune in semplice comportamento, a fune
libera. La morfologia strutturale delle coperture di grande luce che fanno capo
all’arco e alla fune riflette, dunque, ampiamente questa problematica di stabilità
delle deformazioni, di controllo delle stesse e si articola in una molteplicità di
soluzioni diverse, che sarebbe qui impossibile esaminare in modo esauriente.
Qui, quindi, mi limito a richiamare i principali orientamenti progettuali che
attengono alle soluzioni più raffinate sul piano strutturale di arco e fune, che
sono le tensostrutture e le strutture ad arco a doppia curvatura. A partire dal
progetto di Frei Otto, quello del padiglione tedesco all’Expo di Montreal del 1967
che ebbe grande risonanza, parve agli specialisti che la ricerca di leggerezza e
di trasparenza nelle strutture di copertura avesse raggiunto, con le reti di funi,
un traguardo di straordinaria qualità, insuperabile. Negli anni successivi, e dopo
la copertura dello stadio Olimpico di Monaco, si produsse infatti uno sviluppo
considerevole di tutta la tipologia delle tensostrutture. Fu quasi una moda, perfino
in provincia si trovavano piscine ricoperte con una tensostruttura, con innumerevoli realizzazioni di tensostrutture in funi contrapposte,
oppure reti di funi fino alle membrane fibrorinforzate, comprese le strutture pneumatiche. Alcuni aspetti caratteristici di queste strutture
sono poi apparsi, in molti casi, elementi sfavorevoli e hanno prodotto nel tempo una apprezzabile riduzione nella scala di impiego. La rilevanza
architettonica, ad esempio, e l’ingombro delle strutture di vincolo: pensiamo, ad esempio, alle strutture pneumatiche, lo stadio di Pontiac, 150
metri di dimensione per 200 metri, ma completamente chiuso perimetralmente per ancorare il tendone.
Una considerazione proviene dal fatto che la superficie obbligatoriamente curvilinea, non è favorevole, ad esempio, al primo obiettivo citato
della trasformazione, dell’uso della copertura. E poi devono essere considerate anche la deformabilità generalmente elevata, la sensibilità ai
carichi locali sospesi, la sensibilità agli effetti dinamici del vento e, infine, la specificità e l’onere della manutenzione.
Si può rilevare, ad esempio, che la stagione delle grandi coperture di oltre 100 metri di luce a parabolide iperbolico in reti di funi, vide la
realizzazione di numerosi progetti in successione: il Palazzo dello sport di Milano, lo stadio del ghiaccio di Calgary ed il Palazzo dello Sport di
Palasport, Milano
Progettista: Tommaso Valle
Atene. Questa stagione è, di fatto, tramontata e non c’è prospettiva che questi grandi paraboloidi iperbolici ritornino, per lo meno non con
l’attenzione e l’interesse che avevano allora. Assistiamo, invece, oggi ad un uso crescente di tensostrutture in membrane translucide, realizzate
con particolari materiali di copertura, ma strutturalmente confinate in una scala minore, cioè sono comparti della struttura secondaria, ma non
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delle grandi strutture portanti. Grandi coperture a travi di funi radiali vincolate ad anelli hanno trovato ripetute applicazioni, anche recenti, nelle
tribune degli stadi, ad esempio a Torino, con il solo anello teso interno e ancoraggi multipli esterni; a Roma, con il doppio anello interno teso ed
esterno compresso; ad Abuja in Nigeria, in un sorprendente progetto di Schlaich Bergermann & Partners, dove c’è il doppio anello ma con la
importante imposizione inferiore e l’anello teso interno sdoppiato.
In generale, però, con poche eccezioni è oggi assai più raro l’impiego di una tensostruttura a rete di funi o a funi contrapposte come sistema
Stadio delle Alpi Torino
Progettista: Studio Hutter
Stadio Olimpico Roma
Progettista: Massimo Majoviecki
Stadio Olimpico Roma
Progettista: Massimo Majoviecki
Allianz Arena, Monaco di Baviera, Germania
Progettista: Herzog & De Meuron
portante principale di una grande copertura. È emblematico il caso delle costruzioni olimpioniche di Pechino e prima ancora quelle dei mondiali
di calcio 2006 in Germania, tutte senza tensostrutture. La struttura portante di copertura dell’Allianz Arena, infatti, è di tipo rigido, molto
tradizionale. Ha grandi mensole reticolari che ricordano quelle dei primi hangar costruiti negli anni ’60 a Orly. Un evidente contrasto con la
tensostruttura dello stadio Olimpico di Frei Otto, che proprio a Monaco nel 1972 aveva rappresentato la più importante esperienza fondativa
e divulgativa dell’impiego delle tensostrutture nelle grandi coperture. Peraltro, nella stessa Allianz Arena l’intero rivestimento della costruzione
è realizzato da membrane, cuscini traslucidi in etiliene-tetrafluoroetilene vincolati su telai romboidali, che è stato utilizzato anche in alcune
costruzioni olimpiche di Pechino.
Sullo schema dell’arco, parlando sempre in tema di leggerezza e di trasparenza, si sono realizzate coperture di notevole qualità con strutture a
Allianz Arena, Monaco di Baviera, Germania
Progettista: Herzog & De Meuron
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Allianz Arena, Monaco di Baviera, Germania
Progettista: Herzog & De Meuron
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doppia curvatura con sistemi di archi incrociati. La rigidezza di forma di queste strutture, che eventualmente è incrementata con funi diagonali
presollecitate nei campi quadrilateri definiti dagli archi, ha anche consentito di impiegare lastre di vetro quale materiale di copertura e di
realizzarle a semplice strato, così come membrane o grigliati sottili compressi caratterizzati da una eccezionale trasparenza.
Per rivestire le coperture di vetro occorre però assicurare, oltre ad una sufficiente rigidezza della struttura nei confronti di neve e di vento,
anche la complanarità dei punti di vincolo delle lastre. Trattandosi di superfici a doppia curvatura, una soluzione già adottata è quella delle
superfici di traslazione, ottenute, cioè, traslando parallelamente una curva su un’altra. Le curve sono di forma libera, ma la geometria è
confinata dal processo stesso di generazione della superficie che consente, l’uso di lastre quadrate o rettangolari.
Geometria a doppia curvatura, assolutamente libere come nel caso, stupendo, del British Museum di Londra, si possono ottenere,
evidentemente, solo con triangoli. È dunque il triangolo, come peraltro si può verificare nella realizzazione delle architetture di Gehry, la prima
risposta della costruzione metallica a questa nuova tendenza attualissima nell’architettura dalle forme libere. La costruzione metallica è poi
stata enormemente favorita in questa tendenza verso forme libere, dallo sviluppo delle macchine a controllo numerico, introdotte nelle officine
e dai programmi interfacciati per la generazione geometrica spaziale, il calcolo ed il disegno automatico delle strutture. Così la costruzione
British Museum, Londra, UK
Progettista: Norman Foster
metallica si è svincolata dalle forme regolari e squadrate che la caratterizzavano a partire dal profilato, cioè dal prodotto siderurgico ed è
così possibile oggi progettare strutture di forma complessa la cui rappresentazione, la cui tracciatura dei pezzi in officina sarebbe altrimenti
impossibile.
Basta vedere i dettagli costruttivi di alcuni tra i più significativi progetti complessi del nostro tempo, come per esempio un nodo di carpenteria
tubulare della trave di copertura del nuovo Palaoval di Torino, o un particolare esecutivo del British Museum di Londra. Per quest’ultimo
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British Museum, Londra, UK
Progettista: Norman Foster
progetto, ognuno di questi nodi, e sono migliaia di nodi, è diverso dall’altro. Non c’è un nodo uguale all’altro, non c’è un angolo uguale all’altro,
nella copertura del British Museum.
Un’ultima osservazione importante: esiste un processo di taglio automatico dei nodi fatto su lamiere di grosso spessore con taglio al plasma,
seppure relativa ad un particolare costruttivo che riguarda il vincolo delle lastre di vetro alla copertura.
Un ultimo progetto famoso, la piramide di Pei al Louvre : era intenzione dei progettisti dare la massima trasparenza a questa piramide, obiettivo
che però non sono riusciti a ottenere perché non sono riusciti ad integrare il vetro alla struttura. Quindi hanno fatto una tensostruttura sicché
lo strato inferiore con le diagonali, come si vede, è fatto in barre tonde. A compressione lavora solamente lo strato aderente al vetro e il
Louvre, Parigi, Fracia
Progettista: Pei
puntone. Questa struttura però ha il telaio dei vetri che si sovrappone all’immagine della struttura retrostante e per questo motivo non ottiene
i risultati voluti.
Oggi però il problema sembra superato ed è ancora il British Museum di Foster a Londra che ci offre e ci fa vedere la soluzione più elegante. Il
profilo rettangolare composto saldato riceve direttamente le lastre del vetrocamera, e quindi l’immagine è di sorprendente qualità.
Un’immagine architettonica straordinaria, che forse noi italiani possiamo particolarmente apprezzare considerata la storia dell’architettura del
nostro paese.
Senza voler polemizzare con chi esprime grande apprezzamento per il lavoro di Calatrava, io preferisco questa immagine architettonica,
lontana da certi esibizionismi di muscoli o di tendini, che sinceramente iniziano ad infastidirmi.
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Edifici a Grande Luce
Ing. Mauro Sommavilla - Ing. Tommaso Tirelli
ArcelorMittal
2.3 Soluzioni strutturali in acciaio per
liberare lo spazio: travi alveolari
per grandi luci
Le soluzioni costruttive in acciaio, come noto, consentono di realizzare coperture e strutture di solaio a grande luce, grazie al ridotto peso
del materiale in rapporto alla sua resistenza meccanica. Un sistema che si dimostra particolarmente interessante per la sua leggerezza, anche
visiva, è rappresentato dalle travi metalliche alveolari (o cellulari), ovvero profili a doppio T aperti da ampie forature sull’anima. Certamente non
è un sistema che rappresenta oggi una novità assoluta, dal momento che sistemi metallici analoghi che sfruttano l’alleggerimento dell’anima
della trave per coprire grandi luci sono da tempo utilizzati nelle costruzioni con successo (si pensi ad esempio alle centine della Galleria Vittorio
Emanuele II di Milano, del 1865). Tuttavia, quello che è innovativo oggi è il sistema di fabbricazione ottimizzato di queste soluzioni e la nuova
opportunità per i progettisti di poter dimensionare e personalizzare, tramite degli appositi strumenti informatici freeware di semplice utilizzo, la
trave nella geometria, dimensione e interasse delle aperture. Gli schemi di progetto generati tramite il software di dimensionamento verranno
poi messi in comunicazione con le macchine a controllo numerico dell’officina, consentendo la produzione di elementi prefabbricati con una
precisione millimetrica, il trasporto in cantiere “just in time” e la messa in opera in tempi molto rapidi.
Le travi alveolate hanno dei fori sull’anima di forma circolare, esagonale o allungata a goccia, e offrono una serie di vantaggi rispetto alle travi a sezione piena: oltre al minor peso, il loro punto di forza è la funzionalità, poiché esse permettono il passaggio e l’integrazione degli impianti tecnologici nello spessore della trave stessa. Questo consente di guadagnare spazio nell’altezza libera disponibile ad ogni interpiano negli edifici a più livelli.
Le configurazioni possibili sono molteplici, essendo sistemi molto flessibili. Occorre innanzitutto fare una distinzione tra i due tipi di travi alveolari disponibili. C’è il tipo cosiddetto “Smart Beam”, che si ottiene da un profilo laminato ad H o a I (generalmente di altezza di sezione inferiore
ai 360 mm) che viene “bucato” tramite appositi macchinari sulla sua anima, con fori di forma circolare, quadrata o rettangolare, posti a distanze
reciproche opportune. Si tratta di sistemi prodotti senza particolare complessità presso i centri di prelavorazione delle travi attrezzati, anche in
quantitativi modesti. Sono adatti per coprire luci relativamente piccole, dai 6 ai 10 metri e sopportano carichi di tipo ordinario.
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La galleria Vittorio Emanuele II di Milano
Il sistema più innovativo si chiama invece ACB - ArcelorMittal Cellular Beam (precedentemente noto come sistema “Westok”), messo a punto
dal nostro centro di prelavorazione travi in Lussemburgo. Per realizzare una trave ACB con fori circolari, il profilo laminato a caldo tradizionale viene tagliato longitudinalmente lungo l’anima con due ossitagli ad andamento sinusoidale. I due semielementi a T così ottenuti vengono
sfalsati di mezzo modulo e riaccoppiati, per essere saldati in corrispondenza dei “denti”. Si ottiene, quindi, una trave che ha un’altezza finale
maggiore rispetto a quella del profilo di partenza, generalmente aumentata del 50%, che ha all’incirca lo stesso peso (delle cadute di lavorazione sono sempre presenti, ma di entità modesta), ma un’inerzia maggiore. A parità di luce e carichi agenti sulla trave, si risparmia così in
peso, e risparmio in peso degli elementi in acciaio significa risparmio economico. Un sistema strutturale alleggerito è interessante anche per la
riduzione dei carichi trasmessi, sia in fondazione nel caso in cui il terreno è poco portante, sia ad esempio negli interventi di rinforzo strutturale
per il recupero dell’esistente. Il processo di produzione delle travi ACB è qui più articolato rispetto a quello della Smart Beam precedentemente
descritto, perché prevede, oltre ai tagli, anche delle saldature in linea. Le operazioni d’officina hanno dei costi di manodopera, quindi è importante ottimizzare, a seconda del progetto, la soluzione più adatta.
Sistema “Smart Beam”:
Sistema “Smart Beam”
Consigliato per HE/IPE < 360mm, geometria edificio variabile
Bassi quantitativi
Piccole luci
Carichi ordinari
Profilo laminato HE/IPE successivamente “forato”
Sistema ArcelorMittal
Sistema ArcelorMittal ACB:
Consigliato per HE/IPE > 360mm, geometria edificio “standardizzata”
Grandi quantitativi > 10 tons
Grandi luci
Carichi elevati (travi alte)
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Sistema brevettato
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Minimizzazione degli sprechi del materiale (le aperture costano!)
Aumento di inerzia e rigidezza a parità di peso
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Valutazione dei costi di realizzazione
IPE/HE <360mm
Soluzione “Smart Beam”
con profili standard “forati”
Nota: non è necessario ricorrere a profili saldati !
IPE/HE >360mm
Sistema + economico !
Soluzione ACB con sistema brevettato
La trave alveolare ACB dimostra infatti un vantaggio economico soprattutto per sezioni alte, cioè per profili di partenza maggiori di 360 mm,
e delle luci importanti, a partire da 10-12 metri. Per luci inferiori, la soluzione con trave ad anima piena, o la Smart Beam, è generalmente più
competitiva, se il fattore che guida la scelta progettuale è solamente il costo. L’altezza massima di sezione possibile per una trave alveolare
ACB è 1500mm, che si ottiene a partire da un profilo IPE1000.
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Applicazioni delle ArcelorMittal CELLULAR BEAMS
Strutture metalliche per coperture che permettono di raggiungere grandi luci fino a 50 metri
Diametro massimo: 80% dell’altezza finale della trave
In grado di sopportare carichi elevati su grandi luci, le travi ACB hanno come campi di utilizzo tipici le strutture di copertura e di solaio anche
composte, ma possono essere scelte anche per altre applicazioni, quali montanti di facciata, o elementi di rinforzo nel recupero edilizio. Per
quanto riguarda le coperture, l’utilizzo di queste travi consente di coprire luci fino a 50 metri, in semplice strato. La dimensione del foro può
raggiungere anche l’80% dell’altezza finale della sezione della trave, il che rende, come menzionato sopra, questi sistemi molto leggeri e trasparenti, oltre che conferire una marcata valenza architettonica.
Dipartimento Autostradale del Lussemburgo
Architetti e foto: Bruck + Weckerle Architekten
Strutture metalliche composte per solai che permettono di raggiungere luci fino a 25 metri
Grande liberta’ di disposizione delle tubazioni e condotte attraverso le aperture
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Ma è soprattutto quando impiegate come strutture di solaio che le travi alveolari dimostrano il loro valore aggiunto. E’ infatti possibile integrare nello spessore della soletta il passaggio degli impianti tecnologici, potendo evitare controsoffitti ribassati. Negli edifici multipiano, si riduce
così l’altezza finale dell’edificio ottimizzando lo spessore dell’impalcato, oppure avere più spazio disponibile ad ogni interpiano. Le luci massime
consentite come travi solaio sono i 18-20m. In modo particolare per gli edifici adibiti ad ufficio, avere spazi così ampi liberi da colonne è un
enorme vantaggio, per poter innanzitutto sfuttare al meglio la superficie del piano, e quindi la sua rendita se si ragiona con la mente dell’investitore o del developer immobiliare, e poi per poter trasformare con ampia libertà il layout interno degli spazi a seconda dell’evoluzione delle
esigenze degli occupanti nell’arco del tempo.
Riduzione dell’altezza globale
dell’edificio
Aumento dell’altezza libera
di ogni piano
Proprietà geometriche delle travi ACB
Aperture elongate
Aperture otturate
Rinforzi nelle zone di connessione
Rinforzi di aperture e montanti
Il programma di fabbricazione è ampio: prodotte in lotti minimi di circa 10 tonnellate, le travi alveolari possono essere preparate, oltre che con
fori circolari, con fori allungati o esagonali. Nei punti di maggiore sollecitazione agenti sulla trave (carichi concentrati, sollecitazione al taglio in
corrispondenza degli appoggi) si ottura con piatti saldati il foro, oppure si saldano dei montanti rinforzati o, ancora si rinforzano i fori mediante
cerchiatura interna.
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Travi alveolari asimmetriche per solai composti
Trave composta asimmetrica con connettori saldati e lamiera grecata
Ottimizzazione della sezione con la possibilità
di realizzare anche delle
Travi alveolari asimmetriche
Interasse tra travi principali:
tra 2.5m e 5m utilizzando lamiere grecate senza puntelli
tra 3m e 7m utilizzando lamiere grecate con puntelli
tra 3 e 6m utilizzando le prédalles
Asymmetric ACB®
beamsin the deck application
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Travi alveolari rastremate
Edificio monopiano Wendelstein (G)
Grande flessibilità ed adattabilità alle esigenze del progettista
Centinatura delle acb lungo l’asse
debole della sezione
AirVergiate, recupero dell’ ex-idroscalo S. Anna, Sesto Calende
Architetti e foto: Castiglioni e Nardi
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Alcuni esempi sotto riportati mostrano l’applicazione delle travi alveolari ACB: edifici multipiano ad uso ufficio, con grandi spazi liberi da pilastri,
palestre e centri sportivi, centri commerciali, parcheggi multipiano fuoriterra.
Travi alveolari asimmetriche per solai composti
Parcheggio multipiano aperto
Amershan car park
(UK)
Centinatura delle acb lungo l’asse forte della sezione
Sporting Hall
Limassol Building,
Cipro
Industrial Hall, Luxembourg
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HEA 500 S355, H finale = 715 mm
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Sporting Hall (UK)
Comportamento al fuoco
SAFIR Software
Per il dimensionamento delle travi, i progettisti possono fare affidamento sugli strumenti messi a disposizione da ArcelorMittal: abachi e
software gratuiti di dimensionamento, verificati da una campagna di prove in laboratorio, permettono di ottimizzare il progetto e scegliere la
migliore configurazione delle aperture della trave. E’ stato studiato anche il comportamento al fuoco di questi prodotti, con l’ausilio di software
di modellazione numerica. Per resistere al fuoco, si può ricorrere alle protezioni standard quali vernici intumescenti e spray di malta cementizia.
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Travi alveolari trattate con spray cementizio ignifugo
Affidabilità del software acb“
La nuova trave alveolare Angelina
Ma la ricerca ci ha portato a definire e proporre sul mercato un nuovo tipo di trave alveolare: la trave Angelina, che nasce dalla collaborazione
tra architetti e industria. Il processo di fabbricazione è stato ulteriormente ottimizzato, perché in questo caso non c’è nessun tipo di sfrido di
lavorazione in officina: si effettua infatti lungo l’asse del profilo laminato di base un unico taglio sinusoidale, e si accoppiano i due semielementi a T, dando vita ad una trave con ampie aperture a forma di labbra. Al di là della suggestione estetica delle forme, da cui deriva il nome del
nuovo prodotto, da un punto di vista funzionale si ha ora la possibilità di rendere passanti attraverso l’anima della trave impianti tecnologici di
grandi dimensioni (fino a 40x70 cm) anche con sezione rettangolare. La trave Angelina ha un’altezza di sezione statica superiore rispetto al
profilo di base, da 1,4 a 1,7 volte.
E naturalmente consente di coprire grandi luci, con una nuova dimensione architettonica.
Trave Angelina per la nuova concessionaria Fiat Varese
Architetti: Studio Castiglioni e Nardi
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Angelina TM
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Edifici a Grande Luce
Ingg. Gian Carlo e Mauro Eugenio Giuliani
Studio Redesco Milano
2.4 Il progetto della copertura di grande luce in vetro
ed acciaio per la hall dell’hotel Crowne Plaza in Caserta.
Aspetti strutturali, protezione sismica e metodo di
costruzione con varo incrementale
Nel mio intervento tratterò in particolare il tema della copertura della hall dell’hotel Crowne Plaza a Caserta, una struttura di grande luce in
acciaio e vetro che è stata realizzata in una zona ad elevata sismicità e costruita col varo incrementale.
La pianta della struttura è quadrata ed è impostata su quattro edifici esistenti, gli angoli sono ritagliati per la presenza di corpi scale
preesistenti, le dimensioni sono 60 x 60 metri e 6 metri di altezza in chiave.
La struttura è composta da archi tubulari posti a 4,50 di interasse, tra i quali è ordita una sottostruttura che supporta i vetri. La superficie
della copertura è ottenuta mediante traslazione di una parabola giacente su un piano verticale lungo una identica curva giacente su un piano
verticale ortogonale al primo. Collegando punti situati a distanze costanti parti a 4,238 metri lungo le curve, si sono determinati i vertici di
facce piane che discretizzano la struttura e permettono di ottenere delle lastre di vetro romboidali.
Fig.1 Rendering della copertura:
dimensioni in pianta 60.00 x 60.00 m – altezza 6.00 m
Le curve di cui sopra sono materializzate da un reticolo di archi tubolari in acciaio: ogni campo è suddiviso in nove elementi piani, con vertici alle
distanze di 1.413 m x 1.413 metri, mediante elementi secondari che sostengono le lastre di vetro aventi forma, come già detto, romboidale.
Il nostro supporto di ingegneri è stato richiesto quando ormai i quattro edifici che contornano la piazza centrale erano già stati costruiti e quindi
abbiamo dovuto adattarci ad un supporto già progettato con altri criteri.
Un accenno alla progettazione concettuale di questi edifici: gli spostamenti sismici di progetto alla sommità sono pari a 300 mm, secondo
normativa ed in assenza di analisi dinamica.
Abbiamo dovuto quindi pensare ad una copertura rigidamente collegata ad uno degli edifici e libera di scorrere sugli altri tre.
Un telaio orizzontale di contorno, avente le dimensioni del bordo della copertura, ha la funzione di equilibrare le spinte degli archi e di trasferire i
carichi sulla sommità delle colonne degli edifici esistenti. Questo telaio ha tre lati costituiti da una struttura reticolare in acciaio mentre il quarto
lato, posto sull’edificio di ancoraggio, è in calcestruzzo precompresso.
In questo schema concettuale vi sono degli archi principali orditi in due direzioni ortogonali, così come dei tiranti che congiungono le mediane
dei lati per stabilizzare la struttura.
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É evidente che la trave reticolare deve anche ripartire i carichi determinati dagli archi sui pilastri della struttura sottostante, che non hanno
passo regolare.
Gli spettri di progetto utilizzati per la resistenza al sisma sono illustrati nella figura 3.
Fig. 3 Spettri di progetto
Fig. 2 Sostegno della copertura:
4 edifici esistenti in zona sismica
Gli schemi strutturali evidenziano come la struttura sia vincolata su un lato e scorrevole sugli altri tre; rispetto alle parti fisse si è dovuto
provvedere a sconnessioni di 300 mm per lasciare liberi gli edifici esistenti di oscillare con il sisma.
Negli schemi strutturali adottati per le verifiche, sono indicati gli appoggi scorrevoli; un particolare mostra come è stato realizzato l’appoggio
scorrevole: una piastra superiore bullonata alla struttura reticolare in acciaio, un appoggio in neoprene-acciaio, un disco di PTFE, una
guarnizione antipolvere, un disco in acciaio inossidabile e finalmente il supporto. Gli spostamenti di progetto sono 300 mm. in qualunque
direzione.
Fig.4 Schema concettuale della struttura
Fig. 9
Dettagli di un
appoggio scorrevole
1 – piastra superiore bullonata
alla trave reticolare
2 – appoggio in neoprene-acciaio
3 – disco in PTFE
4 – anello anti polvere
5 – disco in acciaio inossidabile
6 – piastra di supporto su
edificio sottostante
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È stato necessario progettare questo sistema di appoggio ad hoc perché non esistono sul mercato dispositivi che consentono spostamenti così
elevati entro dimensioni contenute.
Il collegamento della struttura in acciaio alla trave in calcestruzzo armato precompresso è effettuato con dei cavi di precompressione
solidarizzati alla struttura in acciaio.
Fig.5 Telaio al contorno con travi
reticolari in acciaio ed in c.a.p.
Fig.6 Reticolo di archi collegati al telaio di contorno
Fig.7 Schema dell’isolamento sismico della copertura
Fig.8 Schema strutturale della copertura collegata ad uno degli edifici
Poiché i tempi di costruzione erano molto ristretti e si doveva operare all’interno di questa grande corte di 60 per 60 m, si è pensato di
implementare un varo incrementale della copertura.
Per questo è stata costruita una piattaforma di lavoro e, sulla zona con la trave in calcestruzzo precompresso, è stata realizzata la parte
terminale della copertura; sono poi stati costruiti gli archi trasversali del primo gruppo con i collegamenti longitudinali. Dopo il varo del primo
gruppo di archi, è stato assemblato un secondo gruppo collegato alla parte posteriore del primo e l’insieme è stato varato procedendo in
questo modo fino a quando si è arrivati a congiungersi con la parte esistente.
Per ottimizzare i tempi sono stati montati i vetri prima del varo, garantendo inoltre agli operai condizioni di sicurezza relativa; gli archi sono
stati pre-assemblati a terra.
Quindi la struttura è stata varata con i vetri montati, come si vede dall’immagine. Il pattino di varo è basato essenzialmente su delle molle a
tazza, dei cuscinetti in neoprene e delle pastiglie di PTFE scorrevoli su acciaio inossidabile.
Alla fine del varo è stata smontata la piattaforma e sono stai realizzati i collegamenti e aggiunti i vincoli finali alla struttura reticolare.
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Ovviamente, in fase di varo, il comportamento della struttura anziché essere bidirezionale è solo monodirezionale in senso trasversale, quindi
sono state aggiunte delle catene presollecitate e degli elementi di stabilizzazione durante il varo, poi rimossi a varo concluso.
Fig.11 Aste e catene temporanee aggiunte per il varo
Fig.10 Ancoraggio del sistema di cavi stabilizzanti
Fig.12 Tensionamento delle catene provvisorie
trasversali
Fig.13 Assemblaggio del primo
gruppo di archi
Fig.14 Assemblaggio del primo gruppo di archi con catene
provvisorie in opera
Fig.15 Parte terminale realizzata su ponteggi
Fig.16 Secondo gruppo di archi assemblato e
collegato al primo già varato
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A seguito del processo di varo, sulla scorta delle differenze tra le quote teoriche e quelle realizzate, è stata elaborata un’analisi della sensibilità
della struttura alle imperfezioni geometriche. È stato così rilevato che non esistono particolari problemi ma si hanno lievi incrementi delle
sollecitazioni.
Posizionamento delle lastre di vetro
Varo in progressione
Varo incrementale in corso
Vista interna della copertura completa
Un altro problema che ci è stato posto dopo il termine della costruzione è stato quello di verificare l’effetto di un eventuale incendio che può
realizzarsi in una camera dell’albergo, quando le fiamme che escono dalle finestre possono andare ad aumentare la temperatura della struttura
della cupola.
È stata creata la mappa dell’incendio con le temperature generate e, a seguito delle analisi strutturali, risulta sollecitato oltre il limite elastico
l’arco di bordo.
La strategia della verifica è stata quella di introdurre in questo arco la rigidezza ridotta e corrispondente alle caratteristiche di resistenza
del materiale alla temperatura prevista e di verificare inoltre gli elementi adiacenti come incernierati alle due estremità, accettando quindi
formazione di cerniere plastiche.
Fig.21 Verifica della sensibilità della struttura
alle imperfezioni di montaggio: differenze di
quota rilevate
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Fig.22 Effetti dell’incendio in un edificio sottostante: temperature calcolate ed azioni strutturali
Fig.23 Dettagli della copertura completa
La collaborazione con l’architetto Gianmaria Beretta si è svolta interpretando al meglio le sue idee: essenzialmente si trattava di ottenere una
grande copertura con struttura reticolare, che pensavamo di poter appoggiare solo su quattro punti, ritenendo che i quattro edifici fossero
rinforzabili, in modo da poter evitare movimenti differenziali.
A fronte della impossibilità di tale intervento abbiamo dovuto modificare la concezione strutturale conforme allo schema illustrato, con un
traliccio orizzontale di bordo, un reticolo principale di archi, ed un reticolo secondario per il sostegno dei vetri.
Un’altra idea era quella di fare una tensostruttura con travi di funi, secondo una tipologia che può dare contributi validi alla soluzione dei
problemi delle grandi luci.
La scelta progettuale finale è stata quella di avere delle strutture principali un po’ più grosse e le secondarie più leggere, il che ha comportato
che questa cupola non ha una completa trasparenza.
Fig.24 Vista interna della ideazione
architettonica della copertura
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I vetri sono appoggiati sugli archi principali e sulla struttura secondaria. In particolare vi sono delle guarnizioni di appoggio in polietilene ad alta
densità, che sono sagomate in modo da raccogliere l’acqua che può penetrare tra un vetro e l’altro, nonostante sia previsto tra le lastre di vetro
un collegamento con silicone strutturale.
I particolari di giunzione e di fermo delle lastre sono costituiti da dischi in acciaio.
Le lastre sono ovviamente stratificate, create con elementi temperati di 6 millimetri posti all’esterno, e un elemento di 4 millimetri non
temperato all’interno, il tutto unito con un foglio di polivinilbutirrale.
Son state eseguite le prove di rottura delle lastre; per il caso del carico distribuito, si ha avuto rottura a poco oltre 4 kN/m2; è interessante
osservare che la lastra che si rompe è quella temperata, mentre quella sottostante si mantiene integra, e che inoltre il solo foglio di
polivinilbutirrale è in grado di reggere per 36 ore abbondanti il carico del peso proprio della lastra senza collassare.
È stato poi eseguito uno studio sulla resistenza della copertura alla grandine.
Contattando l’EMPA di Dubendorf, che ha condotto ricerche estensive sugli effetti della grandine che, occorre sottolineare, può rappresentare
un pericolo in misura diversa nelle varie zone d’Europa, abbiamo appreso che in certe zone della Svizzera, sono stati trovati dei granuli di 14
centimetri di diametro.
Questo Ente è in grado addirittura di realizzare dei chicchi di grandine artificiali con una stratificazione sferica corrispondente a quella
riscontrabile nella grandine vera (la meccanica della frattura è diversa nel caso di stratificazione orizzontale ottenibile con semplice
congelamento sferico in contenitore).
Questo studio sul nostro progetto ci ha consentito di determinare un diametro stimato del chicco di grandine che impatta ad una certa
velocità.
Le prove che sono state fatte nel nostro caso prevedevano il lancio di una sfera di poliammide di 40 mm di diametro sulla lastra di vetro,
determinando così le caratteristiche di rottura (tale procedura è normalizzata per coperture in policarbonato).
La rottura avviene per velocità ben superiori a quelle di progetto e, soprattutto, se la sfera impatta sul bordo libero, mentre la lastra non si
rompe, anche a velocità superiori, se l’impatto avviene sulla parte centrale o ad appena 10-12 mm dal bordo libero
Fig.25 Schema della copertura con tenso-struttura – non realizzabile per assenza di vincoli adeguati
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La costruzione è stata progettata dall’architetto Gianmaria Beretta di Milano, il progetto è degli ingegneri Gian Carlo e Mauro Eugenio Giuliani
consulenti esclusivi della Soc. Redesco Progetti di Milano, ed è stato realizzato da agosto a dicembre 2004. L’impresa è MAEG SpA di Vazzola
(TV) e la proprietà è Progetto Industrie di Caserta.
Alcuni dati: sono stati impiegati 101.000 kg di acciaio strutturale per la cupola e 157.000 kg per il telaio orizzontale (non necessario nel caso
di progettazione integrata della cupola e degli edifici di supporto).
Fig.26 Vista interna della copertura completa
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Edifici a Grande Luce
Arch. Pier Paolo Maggiora
Studio Archa
2.5 L’edificio multifunzionale del Palasport
Olimpico a Torino. Inserimento
ambientale ed aspetti funzionali,
costruttivi e compositivi
E’ piacevole e imbarazzante al tempo stesso, per un architetto, trovarsi oggi in questa sede per illustrare un proprio progetto: piacevole, perché
si può parlare a tutto tondo di architettura con chi ha grandi esperienze di progetto; imbarazzante, perché è qui riunita una tal somma di saperi
specialistici relativamente alle strutture più avanzate, che per un architetto che si accinga a parlare di fronte ad un tale pubblico di professori e
di ingegneri, senza alcun dubbio di lui tanto più sapienti su questi temi, può effettivamente risultare disperante non apparire vago e banale.
Spero quindi in una Vostra benevola comprensione: mi riallaccerei pertanto alle osservazioni che sono state fatte negli interventi che mi hanno
preceduto, l’una dal professor Nascè, l’altra dall’ing. Giuliani, proprio là dove si fa riferimento al rapporto “ingegnere e architetto”.
In entrambe le analisi si è sottolineata una evidente differenza tra la qualità del lavoro di Foster nella hall del British Museum, soluzione definita
“convincente” - e che rispecchia compiutamente il suo sapere “a tutto tondo” - e quell’altro lavoro di Calatrava valutato “contraddittorio” – e
che ha destato più di un dubbio e più di una riserva.
Siffatte affermazioni, peraltro condivisibili nel merito, a me pare possano generare almeno un grande equivoco: parlare in questi casi di
“Foster” e “Calatrava” in assoluto e in quanto tali, quasi quali nuovi e solitari super eroi di un meta-mitologico nostro tempo contemporaneo,
contribuisce ad alimentare quella falsa leggenda dell’architetto “solitario demiurgo onnisciente” (ricordate “l’Inferno di Cristallo”?), che non
giova alla compiuta comprensione generale delle cose, e dell’opera in particolare, né parimenti riconosce in tutta la sua portata quel più ampio
e faticoso lavoro di progetto sviluppato dai Team interdisciplinari, di cui “gli ingegneri”, nelle loro diverse articolazioni specialistiche, sono parte
sostanziale.
A questo proposito mi sovviene ben nitido un ricordo, che può valere come aneddoto illuminante.
Ero a Londra, in Arup, da Gabriele Del Mese: pochi giorni prima c’era stata l’inaugurazione del Millennium Bridge, il segno emblematico che
celebrava il primato inglese del millennio passato e l’avvento di quello futuro. Foster era l’architetto, “l’architetto del ponte”: fino a quel
momento i media internazionali ne avevano celebrato il genio e l’indiscusso primato; il vate più autorevole dell’architettura contemporanea
aveva elargito con generosità al mondo il frutto della sua scienza: un ponte talmente innovativo e impensabile, da congiungere le due sponde
del Tamigi con un solo lievissimo tratto sospeso sull’acqua senza stralli né pilastri di sostegno. Quasi un sogno.
Peccato che, nel bel mezzo delle feste per celebrare la storica inaugurazione, il pubblico - che stava sul ponte per seguire i battelli dei
festeggiamenti - si spostò compatto sul lato opposto, provocando una bella oscillazione trasversale. Panico generale, sospensione dei
festeggiamenti, chiusura del ponte, grande scandalo e ricerca dei colpevoli. Le prime interviste dell’Architetto sono esplicite: del ponte non ha
disegnato che i parapetti e alcuni accessori, per l’idea e il progetto vero rivolgersi agli “ingegneri” (proprio Arup in quel caso).
Per l’Architetto, quello che fino al giorno dell’inaugurazione (“nel bene”) era il “Ponte di Foster”, immediatamente (“nel male”) diventa il “Ponte
di altri”.
Esopo era solito concludere le sue favole con una “morale”. Qui lasciamola ai celebranti acritici dello “star system”.
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Venendo a noi quello che ora posso illustrarvi è lo sviluppo di un progetto le cui paternità, e le cui responsabilità, sono certe e chiare e la cui
“morale finale” è certo più rassicurante.
E’ la storia di un Dialogo progettuale fra architetti (con Isozaki, in questo caso) e fra architetti e ingegneri (con Arup) che si è snodato lungo un
periodo di circa tre anni, realizzazione compresa.
All’interno di questo Dialogo è stata questa del Palahockey Olimpico l’occasione per riflettere sul significato e sul destino di un’opera per un
grande evento quale un’Olimpiade.
Nel bando di gara mancava del tutto un chiaro e organico indirizzo di masterplan generale rivolto al dopo-Olimpiadi.
Ciò si riflette sul progetto per il Palazzo dell’Hockey, una struttura di rilevanti dimensioni e di altro costo: un impianto geometricamente rigido
(campo di gioco 30x60 metri, due ordini di tribune per 12.500 spettatori) di fronte alle urgenze e alle aspettative di una città problematica
e lacerata come Torino. Torino avrebbe dovuto evitare l’errore, tragico e comune al tempo stesso in occasioni di questo tipo, di dotarsi di
strutture sostanzialmente inutili e ingombranti una volta concluso l’evento straordinario.
Risultò pertanto evidente che se realmente quell’obiettivo si voleva conseguire era necessaria, in una qualche misura, una sorta di opera di
supplenza da parte dei progettisti, addossandosi essi stessi un compito non strettamente disciplinare: individuare con precisione per l’oggetto
una funzione utile alla città successiva all’uso olimpico.
In quello stesso periodo era stato definito, di concerto dalle diverse istituzioni e come scelta prioritaria per la città, il potenziamento forte
del suo uso turistico, in quanto volano economico non secondario di sviluppo e di ulteriore opportunità di crescita: in particolare favorendo
quel turismo mirato e consapevole originato dalla grande convegnistica, dalle grandi manifestazioni, dai grandi eventi musicali concertistici
e sportivi, che armonicamente ben si lega alla ormai già ben riconosciuta alta qualità enogastronomica regionale, oltrechè ad una inattesa
altrettanto alta qualità storica e urbana (questa si assai meno conosciuta).
L’occasione offerta della struttura olimpica per l’hockey diventò quindi l’occasione per pensare di dotare Torino di un luogo di eccellenza per
favorire i grandi avvenimenti secondo quella prospettiva: da qui il progetto per il Palazzo dell’Hockey da adattare ad usi futuri proposto dal
bando mutò radicalmente ogni rotta e diventò per noi il progetto per la Fabbrica degli Avvenimenti, che avrebbe fra le altre anche ospitato –
per un breve periodo della sua esistenza, sul nascere – la manifestazione olimpica dell’hockey. Ma già fin dall’inizio avrebbe potuto accogliere,
in configurazioni (fisiche, spaziali, funzionali) completamente diverse anche fra loro e in raccordo con l’attiguo stadio, la cerimonia più rigida
e protocollare dell’inaugurazione e quella più libera e informale della festa di chiusura dei giochi stessi. A partire da quel momento e dal suo
straordinario lancio mediatico, in forza della naturale onda di risonanza determinata dall’avvenimento olimpico, la Fabbrica avrebbe dovuto
assolvere la sua funzione di nuovo non secondario motore dello sviluppo anche economico della città nella prospettiva indicata grazie alla sua
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naturale capacità di accogliere e di esaltare grandi eventi e grandi manifestazioni (convegnistiche, musicali, sportive, circensi, ecc,) da 500 a
oltre 15.000 partecipanti in condizioni funzionali, spaziali, acustiche, visive, illuminotecniche, di sicurezza sempre ottimali. Con questo Torino si
sarebbe collocata con forza e di diritto nella ristrettissima cerchia delle città dotate di strutture capaci di accogliere le grandi convention fino a
15.000 posti (come Chicago e New Orleans) e le grandi manifestazioni al coperto in termini di flessibilità reale: ciò che le avrebbe assicurato un
ruolo di assoluto rilievo nel quadro del grande mercato dei flussi turistici ad elevato contenuto economico.
Ciò comportò la definizione di un progetto che doveva prevedere la possibilità di determinare aree dedicate all’evento (area che nel caso
dell’hockey era fissa:30x60 metri) in termini di campi variabili, dal più piccolo (per la boxe:11x11 metri) ai più ampi (per l’atletica indoor:
60x120 metri, e per le convention e le parate: 60x160 metri): una flessibilità che alla fine si è definita all’interno di un campo di variabilità
relativo alle aree in gioco e alla ottimizzazione delle visibilità compreso fra 1 e 80!
Ma tutto l’organismo doveva essere coinvolto in questa definizione preventiva di flessibilità: si dovettero perciò definire un vero e proprio
sistema di flessibilità a priori determinato, tra gli altri elementi, da pavimenti a tribune mobili, tribune retrattili, sistemi acustici e illuminotecnica
orientabili, variabili di sicurezza in funzione dei diversi assetti.
Tutto ciò nella prospettiva obbligatoria – per conseguire gli obiettivi generali, i risultati economici, le ottimizzazione di gestione – di poter
utilizzare la Fabbrica in configurazioni diverse per almeno 200 giorni l’anno. Anche soltanto alla luce di queste prime sommarie considerazioni
si può intuire facilmente che se non si fosse pensato preventivamente alla destinazione finale (la grande flessibilità insita nello stesso concetto
di Fabbrica degli Avvenimenti) e non si fosse progettato da subito e con esattezza in funzione di essa, si sarebbe realizzato l’ennesimo oggetto
celebrativo dedicato ad una manifestazione specifica, in questo caso l’hockey, con una capacità in realtà solo apparente di adattamento a
generici usi futuri. Di fatto una nuova cattedrale nel deserto si sarebbe aggiunta al lungo corollario degli oggetti generati dai cosiddetti grandi
eventi. Se è vero, come è vero, che esiste un’etica nel progetto, è altrettanto vero che le opere legate ai grandi eventi eccezionali – e questa
è la lezione che deriva da quella esperienza – vanno progettate per l’uso più utile che nel futuro della comunità auspica e propone a se stessa,
pensando all’utilizzo per l’occasione eccezionale come puro incidente, come semplice momento di allestimento volto a risolvere con dignità
queste funzioni e quegli obblighi che il programma dello stesso grande evento impone.
Sotto il profilo più generalmente ambientale, urbanistico e architettonico, il Nuovo Palahockey ha posto innanzitutto un problema di
ridefinizione dello scenario spaziale urbano nel passaggio di questa parte della città della conformazione conseguente ai Mondiali del ’34 a
quella per le Olimpiadi del 2006. Attori di questa trasformazione, unitamente al nuovo Palahockey, sono la Torre Maratona, lo Stadio e i Giardini
delle Olimpiadi, il nuovo sistema ambientale conseguente all’annullamento della cesura, spaziale e funzionale, di corso Sebastopoli e Piazza
d’Armi.
Se i protagonisti della scena immaginata del ’34 erano i volumi (la Torre ritta sul confine di corso Sebastopoli e lo Stadio) chiaramente
perimetrali e isolati nella loro ieraticità della teoria delle biglietterie che punteggiavano la città muraria di confine, nel 2006 il protagonista
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diventa lo spazio urbano al cui interno giocano il ruolo di primiattori i volumi della Torre (che, da periferica che era, passa al centro del
nuovo sistema aperto, affacciandosi proprio sui Giardini delle Olimpiadi e sottolineando questa nuova continuità con il grande spazio
rinnovato antistante attraverso il nastro d’acqua nel quale si rispecchia), del vecchio Stadio (grande testimonianza del passato, restaurato
e rifunzionalizzato secondo le esigenze dei tempi), del Nuovo Palahockey (con la sua connotazione polifunzionale atta ad accogliere e
rappresentare la leggerezza, la flessibilità, il cambiamento proprio dei tempi della nostra società contemporanea) e l’ampia spianata dei Giardini
delle Olimpiadi (totalmente ridisegnata per accompagnare organicamente e per sottolineare l’eccezionalità della rinnovata metamorfosi
urbana).
La metrica è determinata a partire dalle preesistenze: l’elemento emergente rimane la Torre nella sua indiscussa aspirazione al protagonismo
verticale, il vecchio Stadio definisce la linea limite dell’orizzonte costruito (15 metri), al quale si adegua l’impianto volumetrico del Nuovo
Palahockey: vecchio e nuovo attore recitano alla stessa altezza. La forma tondeggiante e sorda (il cemento) dello stadio acquista nuova
vitalità dialettizzandosi con lo squillante (l’inox) e rigoroso parallelepipedo cartesiano, una sorta, quest’ultimo, di fabbrica degli avvenimenti
realmente progettata per una pressoché infinita potenzialità d’uso futura (ghiaccio, sport indoor, concerti, spettacoli, convenitions, congressi,
manifestazioni, grandi eventi, parate, show, raduni religiosi, ecc,), di grande duttilità e di economica gestione con il suo sperimentato corredo
tecnologico di facile manutenzione (tribune mobili, carrelli di trascinamento, impalcato mobile e altre tribune retrattili) già perfettamente
predisposto all’interno del volume: un motore perfettamente funzionante.
12.503
basket 3 campi
13.012
lotta libera
lancio del peso
ginn. artistica
scherma
corpo libero
13.012
Atletica indoor
200 metri
100 metri
salto in lungo
salto in alto
7.660
basket (2 )
pallavolo
pallavolo (2)
volano (2)
11.070
pattinaggio
velocità a rotelle
hockey a rotelle
volano 4 piste
14.472
concerti
spettacoli
campagne
elettorali
14.517
concerti
manifestazioni
12.366
parata militare
eventi religiosi
grandi eventi
6.048
motor show
7.660 posti
lancio del peso
ginn. artistica
scherma
corpo libero
schemi distributivi in fase di concorso
tribune mobili
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tribune
telescopiche
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Come nell’auto solo il motore nascosto nel ventre della carrozzeria è capace di rendere quell’oggetto, attraverso il movimento, fatto
esteticamente compiuto, così solo la reale integrazione – la contemporaneità – di forma, funzioni e corredo tecnologico (il motore,
perfettamente facilmente economicamente funzionante, rendono il Palahockey capace di rappresentare ed essere nella realtà una nuova
incessante “fabbrica degli avvenimenti”, uno strumento sempre pronto per contenere gli eventi che la comunità vorrà accogliere e che ad essa
saranno preposti.
E parte integrante dell’etica progettuale il saper impiegare gli strumenti che l’innovazione tecnologica continuamente predispone ed affina.
Farli propri, questi strumenti, come modalità operativa concreta, significa anche riconoscere il valore etico della ricerca tecnologica nel suo
incessante divenire e il peso della tecnologia nello sviluppo complessivo del progetto.
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Schemi distributivi
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Dettagli della facciata
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Edifici a Grande Luce
Ing. Maurizio Teora
Arup Italia
2.6 L’edificio polifunzionale
del PalaIsozaki a Torino:
aspetti statici e costruttivi
Io appartengo e sono rappresentante per l’Italia di un gruppo di ingegneria, Ove Arup, che è ormai conosciuto in tutto il mondo ed è stato
fondato 61 anni fa da un personaggio abbastanza mitico, Ove Arup, che era un contractor, un imprenditore edile che alla fine della sua carriera
pensò di dedicarsi alla sua passione, quella di progettare strutture. La sua idea, che ha portato il nostro gruppo a diffondersi in tutto il mondo
(con circa 10.000 dipendenti) era creare una società che, di fatto, è posseduta dai propri dipendenti e ha come missione quella di diffondere
l’ingegneria a tutti i livelli nel modo più eccellente possibile, per poter essere diffusa e recepita ed essere al servizio della società per i progetti
dei quali ci occupiamo.
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Arup è presente in Italia con due uffici, uno a Milano e uno a Roma e al momento consta di un organico di 60 persone, prevalentemente
ingegneri ma anche qualche architetto che collabora in modo integrato nei nostri team, che sono generalmente multidisciplinari. Siamo
coinvolti in una moltitudine di attività di ingegneria, ci occupiamo di strutture di impianti come base principale, ma nel nostro organico ci sono
una serie di specialisti di acustica, illuminotecnica e altre discipline che sottolineano l’approccio multidisciplinare proprio dei nostri progetti.
La collaborazione con gli architetti presenti nel team è utile per capire meglio l’importanza di determinati aspetti legati all’architettura,
e che risulta di particolare rilevanza in progetti speciali quali quelli di architettura sportiva, che può essere considerata uno specialismo
dell’architettura che si occupa di concepire un edificio sportivo e come questo debba essere strutturato, e, ancora, come determinate attività
associate, come per esempio quelle commerciali, possano rendere un edificio efficiente anche dal punto di vista finanziario, una volta realizzato.
©PTW
Theatre
© Herzog & De Meuron
Exhibition Centre
Office Building
Footbridge
Il tema centrale degli edifici sportivi è proprio quello del passaggio graduale da essere un edificio prevalentemente pubblico o pronto per un
evento settimanale (come uno stadio) a diventare un edificio prevalentemente privato o a gestione privata per eventi multipli, che rendono
l’edificio redditizio anche da punto di vista dell’investimento. Questi sono probabilmente gli edifici sportivi più costosi da realizzare e se non
vengono bene ideati, progettati e poi gestiti diventano spesso inefficienti.
A questo proposito possono essere citati alcuni esempi, come quello, già citato dall’architetto Maggiora, del Millennium Bridge di Norman
Foster, alla cui inaugurazione ero presente, durante la quale ricordo ancora c’erano alcune persone del nostro team che erano preoccupati
proprio perchè si erano resi conto che c’era qualcosa che non funzionava nella loro progettazione. Per risolvere questo problema con la
consueta professionalità, Arup ha deciso di dedicare al progetto una task force di quaranta persone, affinché potessero “trasformare” questo
progetto che inizialmente non aveva funzionato particolarmente bene per motivi di dinamica strutturale. Ciò ha richiesto circa due mesi di
lavoro e una serie di collaudi operati direttamente da personale Arup, che, per esempio, andava a camminare avanti e indietro sul ponte in
gruppi per capire quali erano le modalità secondo le quali si sviluppava la dinamica di questo ponte.
Si tratta di un ponte con una forma particolare, e probabilmente quella è stata la ragione per cui, in effetti, non ha funzionato perfettamente,
ma infine siamo riusciti a sistemarlo e crediamo sia comunque un grande successo come costruzione, e lo riteniamo un motivo di vanto perchè
siamo riusciti a rigirare quello “spirito” un po’ negativo che era sorto successivamente alla “failure” dell’inaugurazione.
Il progetto che abbiamo seguito insieme a Pier Paolo Maggiora a Torino è stato per tutti un grande sforzo, iniziato con un viaggio iniziale che
abbiamo fatto insieme a Manchester per andare a vedere una serie di progetti che potevano esserci di ispirazione e renderci conto di come
un edificio sportivo doveva in effetti essere realizzato per essere multifunzionale. Una volta tornati, in 5 mesi abbiamo dovuto preparare un
progetto definitivo: i tempi ridotti hanno reso necessario un team ottimale, la cui dimensione è sempre importante affinché la collaborazione
di tante persone possa funzionare. C’è, infatti, un limite, oltre le 30-40 persone, oltre il quale diventa davvero difficile lavorare insieme e in
questo progetto ciò ha comportato uno sforzo molto importante, dal momento che il team di Arup dedicato a questo progetto è arrivato a
totalizzare 31.000 ore di lavoro, che sono state spese da novembre 2001 fino a luglio 2002. La quantità d’acciaio usata è stata enorme, sono
state utilizzate 2600 tonnellate di acciaio.
Il nostro team era multidisciplinare, e in esso non erano presenti soltanto professionisti di ingegneria strutturale e impiantistica, ma anche di
illuminotecnica e acustica attiva e passiva.
Una delle caratteristiche proprie della forma piana di queste coperture a grandi luci é la capacità di controllare, meglio di ogni altra, la
performance acustica, che è poi l’aspetto fondamentale che rende questi edifici davvero multifunzione: questo anche perché l’utilizzo
migliore per un’arena per sport come questa è quello di diventare sede di un concerto e questo edificio in particolare ha dimostrato in più di
un’occasione di essere un ottimo edificio per contenere sia musica rock e concerti per giovani, sia musica classica, aspetto che deve essere
rimarcato.
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Arup - Palahockey
Torino, 2006
© John Fass
La copertura ha un’estensione di 12.000 metri quadrati e un peso medio di 220-230 kg al metro quadrato, che includono le 8 megatorri e
una struttura perimetrale che abbiamo denominato “lean to”, una struttura ad un solo appoggio che viene supportata dalla copertura centrale
e con essa si muove. Questa struttura non ha giunti di dilatazione, così come la struttura principale, mentre quella perimetrale presenta alcuni
giunti di dilatazione posizionati a partire dal piano terra.
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Sequenza costruttiva strutturale
Le megatorri sono alte più di 25 metri e sono strutture costituite da quattro gambe realizzate con profili quadrati di 550 mm per lato, hanno
interasse di 3,20 metri, e sono strutture particolarmente sollecitate a flessione deviata con problemi anche di concentrazione di sforzi in
funzione di determinate posizioni e ciò ha richiesto l’introduzione di un secondo profilo all’interno. In realtà questo profilo doppio è stato
introdotto in una soltanto delle quattro gambe. Le megatorri sono arrivate in cantiere suddivise in tre sezioni e successivamente saldate
in opera, e questo ha richiesto un discreto tempo di realizzazione, mitigato però dal buon risultato ottenuto. Dal punto di vista statico le
megatorri costituiscono il sistema di supporto verticale della copertura e di stabilità dell’intero involucro dell’edificio, e sono dal punto di vista
dello schema strutturale incastrate alla base e supportate al livello -1 e 0.
Struttura - megacolonne
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Struttura - copertura
A livello di dimensione, la campata principale misura circa 92 metri, mentre quella trasversale è di 65 metri circa. Dal punto di vista estetico
l’architetto aveva un’idea chiarissima, l’edificio doveva essere un elemento perfettamente rettangolare e piano e doveva dare una percezione
di elementi dritti, senza possibilità di avere strutture inclinate o diagonali ed è così che l’abbiamo configurato. Nella vista in pianta sono presenti
sia il reticolo di correnti superiori sia il reticolo di correnti inferiori e le diagonali, struttura che ha consentito una pulizia di lettura dall’intradosso
e un’ottima integrazione con i sistemi impiantistici che possono percorrere i vani previsti nella struttura reticolare (in particolare nel triangolo
superiore passano gli impianti meccanici con i condotti di mandata dell’aria e nella parte, invece, del triangolo inferiore sono previsti i passaggi
con le passerelle di percorrenza degli impianti di illuminazione ed elettrico, compreso l’accesso agli oltre 200 altoparlanti previsti come sistema
di rinforzo del suono).
© John Fass
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Sono state studiate diverse combinazioni di carico per questa grande estensione di copertura, per la quale non abbiamo assunto soltanto una
combinazione di neve presente uniformemente su tutta la superficie, ma abbiamo previsto anche che, con un’azione del vento, ci potesse
essere un accumulo di neve su un lato e anche un’eventuale caduta su uno dei due lati della struttura “lean to”. Questo, di fatto, ha creato delle
condizioni aggiuntive rispetto a quello che poteva essere la pura interpretazione della norma.
È stata inoltre condotta un’analisi particolare dettata dall’esigenza di avere di sovraccarico un’inflessione della grande copertura che arriva a
360 mm, dunque in condizioni di stato limite ultimo abbiamo introdotto una forma che è leggermente a capanna sull’estradosso e ancora più
impercettibile nell’intradosso.
Top Boom - Precambered against max. DL+LL Deflection
Bottom Boom - Precambered against quasi permanent
DL+LL Deflection
Precamber
Questa “preformatura” appositamente pensata per una particolare condizione di sovraccarico, ha consentito successivamente alla struttura
di essere ben realizzata, tanto che presenta un’ottima capacità di drenaggio. Non esistono, infatti, punti di raccolta dell’acqua posti al di sopra
della copertura, poiché l’acqua viene convogliata lungo i bordi e da questi riportata sulla copertura inferiore del “lean to”, sulla quale è stato
realizzato un sistema di raccolta di tipo sinfonico: di conseguenza si tratta di un sistema di raccolta non a gravità ma che mette in depressione i
condotti di scarico e consente quindi delle linee di drenaggio orizzontali e non in pendenza.
Pianta
copertura
Sezione longitudinale
Struttura – ottimizzazione
della copertura
Fasi di costruzione della copertura centrale
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La logica della nostra geometria era dettata dalla volontà di avere un profilo con la sezione di una HEB300, e che il più possibile degli elementi
avesse quel tipo di dimensione affinché la lettura della struttura fosse quanto più uniforme, anche se in alcune zone abbiamo rinforzato
leggermente alcuni elementi senza aumentare in modo esagerato, però, la differenza di sezione tra un profilo e quello adiacente. C’è stata
quindi una cura particolare nell’ottimizzare i pesi della struttura cercando di mantenere un’uniformità e una linearità dello sviluppo dei profilati.
La facciata del “lean to” è un elemento abbastanza mobile, perché di fatto è soggetto a carichi che subisce direttamente così come subisce i
movimenti della grande copertura che si inflette.
Struttura – “lean to”
Una delle cure che abbiamo avuto nella progettazione di questo edificio è stata quella di prendere un grande pannello della facciata,
corrispondente a cinque o sei campate di facciata, e metterle in uno stabilimento, misurando e facendo così un’analisi di spostamenti: i pannelli
della facciata, infatti, sono lunghi 5,40 metri, mentre i telai del “lean to” sono posizionati ogni 2,70 metri, quindi quello che si è voluto e dovuto
dimostrare con questa analisi era che gli spostamenti sostanziali del “lean to” non potessero influire sulla stabilità e sulla durabilità del sistema
di facciata. Questo è stato dimostrato grazie al sistema di giunti di questi pannelli in acciaio inossidabile e della struttura retrostante, che
garantiscono tali spostamenti senza alcun tipo di problema.
Struttura – “lean to”
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Fasi di montaggio della facciata
© John Fass
Negli schemi che abbiamo predisposto, il verde corrisponde alle tribune inferiori retrattili, il rosa corrisponde alle tribune permanenti del piano
terra e in azzurro sono le tribune mobili, che si spostano con dei carrelli che si vanno a posizionare al di sotto della tribuna, sollevandola e
spostandola. Nei disegni si può vedere come l’edificio può essere trasformato. Anche se al momento questo tipo di trasformazione non è
ancora possibile, per noi il vero progetto è questo, e continuiamo a presentarlo come edificio “trasformabile”, un edificio che virtualmente
permette di essere predisposto per diverse funzioni e che in meno di due ore può passare dalla configurazione con piano di gioco a -7,50 m a
quella con il piano di gioco a quota zero, utilizzando la piena tecnologia ideata, che permette appunto di sollevare l’impalcato del piano di gioco
attraverso il sistema di martinetti, che nella realtà è stato predisposto ma che non è stato realizzato.
Flessibilità
Negli schemi si vedono inoltre le modalità di funzionamento dei sistemi di tribune retrattili, che utilizzano delle tecnologie a catalogo, che si
trovano ormai in quasi tutti i paesi del mondo e che, spesso e inaspettatamente, per quanto praticamente inutilizzati nel nostro paese sono
prodotti da ditte italiane: per esempio la tecnologia che avevamo ideato per spostare le nostre tribune mobili viene dalla Cometo, una ditta di
Cuneo che progetta e realizza macchine per spostare le navicelle spaziali alla Nasa.
Sequenza movimentazione tribune e impalcato temporaneo
1. Configurazione Olimpica
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2. Arrettramento tribune
retrattili
3. Innalzamento impalcato temporaneo
e spostamento tribune mobili
4. Nuova configurazione
(concerti, esposizioni, …)
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E’ stato inoltre effettuato uno studio per dimostrare in quanto tempo l’edificio poteva essere evacuato in caso di un incendio, con delle
simulazioni di evacuazione, effettuata in modalità di emergenza con un modellatore particolare che simula in quanto tempo, le persone lasciano
l’edificio. Questo tipo di analisi è provata da varie sperimentazioni, che hanno provato come queste siano assolutamente attendibili.
Un’altra simulazione fatta è quella con tecnologia CFD, che simula come un fuoco che può svilupparsi per esempio presso il palcoscenico di
un concerto e quanto e come i fumi vadano verso la copertura, verso gli appositi evacuatori di fumo e possano così riscaldare la struttura in
acciaio. La massa dell’acciaio presente è stata infatti introdotta nel modello e con stimando la temperatura massima raggiungibile dall’acciaio e
l’incremento di temperatura dovuto all’incendio stesso, si è potuto verificare come il tutto assolutamente assorbibile dalla struttura.
dopo 2 minuti
dopo 5 minuti
dopo 8 minuti
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Edifici a Grande Luce
Prof. Carlo Caldera
Politecnico di Torino, Dipartimento DISET
2.7 Considerazioni sulla
sostenibilità ambientale
Il tema della sostenibilità ambientale è un tema trasversale che si configura in questi seminari come un fil rouge, che collega le diverse
tematiche progettuali affrontate.
Il concetto di sviluppo sostenibile coinvolge criteri ecologici, sociali, economici e non solo tecnici, arrivando a coinvolgere anche criteri
cosiddetti “etici”. Sono stati fatti nei diversi interventi cenni ai numerosi sistemi di valutazione della sostenibilità, quasi tutti basati sulle
analisi multicriteriali, ciascuno con obiettivi diversi. Il quadro normativo che ci guida nella valutazione della sostenibilità e nella gestione della
complessità del progetto, che comporta anche l’idea di ecosostenibilità, è piuttosto complicato. Si può riprendere in questo senso il caso
delle ISO 14000 che nel loro complesso, istituiscono il monitoraggio degli impatti ambientali, il marchio ecologico, l’autodichiarazione, la
dichiarazione ambientale di prodotto. Anche in campo normativo nazionale, l’UNI, con gruppi di lavoro appartenenti alla commissione edilizia, si
occupa di questi temi insieme a gruppi di lavoro dell’ISO.
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Il mio intervento affronterà prima di tutto l’aspetto della progettazione verso la sostenibilità, vista come gestione della complessità delle
relazioni e, successivamente, il tema della eco-sostenibilità nel caso particolare dell’acciaio e dei sistemi costruttivi con prevalente impiego di
acciaio.
In questo quadro credo che sia necessario porre a confronto il progetto ed il processo costruttivo, la progettazione e l’organizzazione di
tale processo che vede gli ingegneri e gli architetti come parte attiva in questo confronto. La tecnica supporta questo confronto, e viene
intesa quale utilizzazione della scienza ai fini pratici, con l’obiettivo ambizioso di sostenere lo sviluppo della vita del pianeta attraverso una
approfondita conoscenza delle controverse questioni ambientali e la capacità di condurre azioni conseguenti.
Gli studi che si confrontano con queste problematiche complesse devono essere improntati ad una metodologia basata su una visione
sistemica. Operare secondo una visione sistemica significa saper cogliere connessioni ed intersezioni tra le parti ed il tutto. L’attitudine ad
operare con la complessità è tipica di un metodo di lavoro interdisciplinare e sovradisciplinare, che attinge pienamente alla cultura politecnica
italiana ed europea. Anche l’attività del progettare è un sistema complesso, ed è particolarmente importante, ma anche difficile, gestire le
relazioni, anche umane tra gli attori del progetto e del processo. Oggi chiamiamo questo modo interdisciplinare con visione sistemica una
“progettazione integrale”, o anche “progettazione collaborativa”.
Progettazione ...Verso ... La Sostenibilità
Gestione della complessità delle relazioni
Eco-Sostenibilità
Materiale acciaio
Sistemi costruttivi con prevalente
impiego dell’acciaio
Da ciò scaturisce una forte motivazione ad applicare al progetto edilizio i concetti di ecosostenibilità, grazie anche a una sempre più diffusa
consapevolezza di un mutamento del paradigma scientifico, che a partire da una visione meccanicistica si evolve verso una concezione olistica
ed ecologica che si identifica, appunto, con la teoria sistemica. Un modello di pensiero che, quindi, passa da un paradigma della linearità, dalla
comprensione dei fenomeni secondo leggi di causa-effetto, al paradigma della complessità che è basato sulla imprevedibilità dei fenomeni e
l’interdipendenza tra le parti ed il tutto. Un riferimento, anche se non l’unico possibile, verso la visione sistemica è Fritjof Capra, che da anni
studia e scrive sulla comprensione di questo mutamento di paradigma scientifico. Peraltro, proprio al Politecnico di Torino recentemnte Fritjof
Capra presentò in prima mondiale il suo recente lavoro sulla scienza universale di Leonardo da Vinci, interpretando proprio, per la prima volta in
chiave sistemica, tutto il pensiero di Leonardo. Una metafora tratta proprio da qualche scritto di Capra tra linearità e complessità è il confronto
tra una semplice operazione: il calcio ad una pietra e quello a un essere vivente, in questo caso un cane. Se il comportamento della pietra è
prevedibile in base alle leggi della meccanica newtoniana, per cui si può conoscere massa, direzione e quantità di moto e quant’altro, la reazione
per il calcio ad un cane non è prevedibile, poiché il comportamento del cane non è prevedibile in quanto dipende dal modello di organizzazione
e di comportamento che non è lineare.
La nozione di complessità trova le sue prime articolazioni all’inizio del ‘900 con gli studi di Poincarè, ma a partire dagli anni ’70 del secolo
scorso, la sua teoria ha suscitato interesse anche nei settori delle scienze naturali e sociali concepite, appunto, come sistemi dinamici complessi.
I vari approcci alla complessità hanno avuto origine dall’osservazione che non è sempre possibile ricondurre la spiegazione delle proprietà di un
sistema alla conoscenza delle caratteristiche degli elementi, dei componenti elementari che formano il sistema stesso. Complesso e complicato
sono due concetti diversi: un sistema è complicato quando è programmato dall’esterno e ha sempre un comportamento lineare, prevedibile,
assimilabile ad una macchina anche complicata; un sistema è complesso quando invece è dotato di auto-organizzazione e auto-riproduzione e,
quindi, si comporta con un margine di imprevedibilità tipico dei sistemi viventi.
Veniamo agli aspetti più tecnici: la sostenibilità in edilizia è un tema che può essere affrontato per parti, con l’accorgimento però di non perdere
di vista l’insieme, se si considera che il tutto è più della somma delle parti. Nel progettare è, quindi, necessario porre attenzione sempre più alle
relazioni che all’entità, alle relazioni ed alle retroazioni tra le parti della costruzione e gli elementi della sua organizzazione, più che sulle parti e
sugli elementi stessi. Infine, non possiamo immaginare l’edificio e l’architettura come sistemi complessi ma chiusi: l’edificio si relaziona con il suo
immediato intorno, condizionandolo ed essendone condizionato e crescendo di scala, il sistema edificio si relaziona all’ecosistema. L’edificio,
poi, si relaziona al suo interno con l’uomo, con l’utente e con la sua storia, che diventa anche storia dell’edificio stesso, ancora una volta
condizionandolo ed essendone condizionato, influenzando il suo stile di vita in una sorta di metabolismo che coinvolge altre sfere oltre a quelle
più specificamente tecniche e pratiche, quali quella cognitiva, sociale, economica.
Questa è la visione sistemica con cui la gestione della complessità e la progettazione in ottica di sostenibilità può essere letta. Il Dipartimento di
Ingegneria dei Sistemi di Edilizia Territoriali del Politecnico di Torino si occupa da tempo di questi temi, attraverso attività di ricerca fra cui quella
relativa all’integrazione dei sistemi, quella di valutazione di sostenibilità in supporto alle scelte progettuali, fino ad arrivare ad avere ricadute
sulla didattica prevalentemente volta a formare l’ingegnere in questa visione sistemica e interdisciplinare che mette insieme le parti, aiuta a
gestire la complessità.
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La progettazione responsabile verso la sostenibilità e la progettazione tecnologica si orientano, dunque, verso la gestione di tre aspetti
principali, una “triade” ormai riconosciuta che comprende energia, acqua e materiali, che deve essere letta e filtrata attraverso la valutazione
della riduzione dei bisogni e delle quantità di energia, acqua e materiali, l’ottimizzazione delle risorse, l’impiego di energie e materiali rinnovabili,
e attraverso il concetto di passività, riciclo, riuso. Questo filtro aiuta l’ingegnere e l’architetto.
Esempi di attenzioni, nel progetto
sostenibile, al razionale uso di energia,
acqua e materiali
La progettazione responsabile utilizza anche ambiti di ricerca e discipline tra le quali si annoverano l’architettura ecologica o la bioarchitettura,
ma nel momento in cui è l’energia a guidare queste discipline si può ottenere una concezione dell’edificio interessante e sostenibile: per
esempio, la bioclimatica influisce sulla forma dell’edificio, sulle soluzioni tecnologiche dell’involucro, utilizzano al meglio l’energia rinnovabile tra
cui quella della luce, oltre a quella del sole, che fornisce energia termica.
Sede della Tokyo Gas,
Yokohama, Giappone
Progettista: Nikken Sekkei, 1996
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Quando, invece, sono i materiali a guidarci prevalentemente nelle nostre scelte verso la sostenibilità, il progetto sarà attento in particolare
alla chiusura dei cicli, ovvero ai cicli di vita chiusi, piuttosto che aperti, magari utilizzando i sistemi di valutazione che sono stati citati prima.
Quando, infine, è l’acqua a guidarci, essa ci orienterà verso impianti tecnologici differenziati, che fanno in modo che l’acqua potabile si utilizzi
solo per gli usi alimentari, oppure ci guida a soluzioni tecnologiche per la fitodepurazione. Ammetto che questo, può risultare un quadro un po’
didattico, che in effetti viene utilizzato con gli studenti per affrontare il tema della sostenibilità, componendolo in parti.
Beijing National Aquatics Center - PTW Architects with Arup
and the China State Construction and Engineering Corporation.
Image: courtesy Arup, PTW & CSCEC
Soluzioni tecnologiche di architettura in acciaio con una valenza bioclimatica possono essere ritrovate in alcuni esempi: per esempio, un
edificio di di una decina di anni fa circa, la sede della Tokyo Gas in Giappone, in cui è la geometria dell’edificio a caratterizzare l’architettura con
sistemi di aerazione, di estrazione dell’aria, di camini solari, un esempio emblematico per quella che può essere chiamata “l’architettura delle
frecce” che, da ingegneri, ci piace leggere anche dal punto di vista del dimensionamento di queste frecce, che simulano i flussi energetici, e non
soltanto, quindi, a livello di indicazione qualitativa.
Nel progetto tecnologico, i valori intrinseci dei materiali assumono una sempre maggiore importanza: si tratta di quei valori dalla natura
chimico-fisica dei materiali, dall’utilizzo di materie prime o materie prime secondarie, ovvero quelle che entrano sì per prime nel ciclo
produttivo dei semilavorati, ma sono, a loro volta, l’esito di un recupero e riciclo di materiali estratti per la prima volta. L’analisi del ciclo di vita
dei materiali è un altro tema che vorrei trattare in questa mia conclusione. L’immagine che viene solitamente associata all’analisi del ciclo di vita
può facilmente ricordare un software con il quale è possibile gestire la complessità e costruire il ciclo di vita dei materiali o, anche, dell’intero
edificio. Nel caso dell’acciaio, per esempio, dati rilevabili da un osservatorio tedesco (l’osservatorio dell’edilizia sostenibile, coordinato dal
Ministero Federale per il Traffico di Edilizia in Germania), ci ricordano come la quantità di energia in Mega Joule di energia primaria non
rinnovabile per un kilo di acciaio per costruzioni sia di 24 Mega Joule, integrabile con circa un altro mezzo Mega Joule per l’energia primaria
rinnovabile. Vediamo, però, come lo stesso acciaio possa recuperare circa il 50 % nel caso si usi per la produzione una materia prima secondaria,
cioè un acciaio riciclato. Sappiamo, inoltre, che l’acciaio ha una grande capacità di essere reimpiegato. Nella tabella, in grigio vediamo un
confronto con l’alluminio, per il quale l’energia in gioco per la sua produzione è molto maggiore, circa dieci volte maggiore, anche se, in
proporzione, quella recuperata dal suo reimpiego è più del 50 %. Nella stessa tabella vengono inoltre riportati alcuni valori del conglomerato
cementizio armato, del calcestruzzo, che viene calcolato a metro cubo: occorre, in questo caso, rapportare i dati dei due materiali in maniera
pesata in funzione della quantità di chili o di metri cubi necessari per produrre un oggetto, che abbia le stesse prestazioni e lo stesso impiego,
affinché si possa procedere con la comparazione. Questo è sostanzialmente quello che dovrebbe fare una analisi LCA sull’intero edificio o
sull’intero sistema costruttivo.
I parametri di un bilancio ecologico
“Tavola rotonda dell’edilizia
sostenibile“ coordinata dal Ministero
federale per il traffico, l’edilizia e le
abitazioni (BMVBW), in Germania
(elaborazione softwar GaBi 4)
da ATLANTE DEL MATERIALI - UTET,
2006
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Dagli studi dell’International Iron and Steel Institute, notiamo che l’acciaio è riciclabile un numero infinito di volte, che il 60 % dell’acciaio
utilizzato nel nord America è destinato al riciclo. A livello mondiale, una percentuale di acciaio inviato al riciclo va dal 60 all’85% e nel 2002 il
42 % di acciaio prodotto deriva da rottami, che, quindi, è una materia prima secondaria. Il consumo di energia, inoltre, si recupera ogni volta
che si ricicla e l’acciaio, vista la sua possibilità di essere riciclato numerose volte, tende in questo modo a ridurre ancora di più del 50 % l’energia
per produrlo mediante il reimpiego. Lo stesso International Iron and Steel Institute conferma i valori prima citati provenienti dall’Osservatorio
Tedesco.
Energia estratta dalla terra in relazione al numero di ricicli dell’acciaio
(Fonte : De Meo & al., 1998)
L’acciaio sinora è stato immaginato come un’unica entità, mentre in realtà ve ne sono diversi tipi. In generale, però, l’ordine di grandezza
di un recupero del 50% prima citato considera non solo all’acciaio impiegato nelle costruzioni ma anche quello usato per altri scopi, come
per esempio negli imballaggi. A proposito del riciclo degli imballaggi, quel 42% che abbiamo visto prima nel nostro paese si è portato, si sta
portando al 70% in questi anni, come potete vedere.
Eco-profili a confronto di acciai diversi: consumo di energia totale (fonte: SimaPro 7.1)
Eco-profili a confronto di acciai diversi: emissioni di gas serra (fonte: SimaPro 7.1)
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Questi temi di analisi del ciclo di vita che vi presento sono temi che solitamente il progettista, ed anche il nostro dipartimento, utilizza; in
questo particolare caso sono stati ottenuti anche con l’aiuto di Katia Zavaglia, del Dipartimento di Ingegneria del Territorio, dell’Ambiente
e delle Geotecnologie. Altri utili contributi alla raccolta di dati per questo intervento sono dovuti a Valentina Colaleo e Andrea Cavaleri del
Dipartimento di Ingegneria dei Sistemi Edilizi e Territoriali del Politecnico di Torino.
Per il corretto utilizzo di tali informazioni è necessario favorire il dialogo tra le discipline, consapevoli che, come già detto, il tutto è
maggiore della somma delle parti. Gli aspetti di relazione tra energia, acqua e materiali, come abbiamo visto, sono spesso sottovalutati,
ma in un atteggiamento sistemico invece, assumono maggiore importanza così come i valori intrinseci del progetto quali la smontabilità la
disarticolabilità per parti, la manutenibilità, la riparabilità, la decostruibilità, la integrabilità degli impianti, la ispezionabilità, l’interoperabilità,
l’intercambiabilità, la flessibilità, la reversibilità negli interventi di recupero.
smontabilità, disarticolabilità per parti, manutenibilità, riparabilità,
decostruibilità, integrabilità degli impianti, ispezionabilità, interoperabilità, inter-cambiabilità, flessibilità, reversibilità
Stazione dei Vigili del Fuoco,
Progettisti: arch. Ibos e Vitart,
Nanterre, Francia, 2004
Un esempio interessante è l’esperienza progettuale in cui l’acciaio era il protagonista, un centro servizi per anziani di Ettore Zambelli, professore
del Dipartimento B.E.S.T. Politecnico di Milano, le cui soluzioni tecnologiche andrebbero valutate in particolare sulla base delle loro peculiarità di
essere smontate, decostruite, e così via.
Residenza e Centro servizi per anziani – Brescia –
Progettista: Ettore Zambelli – BEST Politecnico di Milano
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Chiudo con un esempio volutamente in tono minore, dopo aver visto numerosi esempi di alta architettura: l’esempio di un LCA, che qui porto
solo in termini qualitativi ma, in cui ovviamente erano originariamente presenti anche le quantità, sull’uso innovativo di condotte metalliche in
un’edilizia transitoria, una esperienza di ricerca delle colleghe Antonella Lerario e Nicola Maiellaro, dell’Istituto delle Tecnologie della Costruzione
del CNR della sede di Bari, dove è stata fatta un’analisi LCA sull’intero intervento, immaginandone una durata di venti anni e ipotizzandone il
basso impatto ambientale, aspetto che era tra le indicazioni del progetto e confrontando con esso un edificio con le stesse caratteristiche, le
stesse prestazioni, con un ciclo di vita di venti anni realizzato in acciaio (a sinistra) e in calcestruzzo armato (a destra): si può così notare che la
quantità di energia in gioco è molto differente.
USO INNOVATIVO DI CONDOTTE METALLICHE EDILIZIA TRANSITORIA
Antonella Lerario, Nicola Maiellaro ITC-CNR - sede di Bari
Sempre sullo stesso edificio, quando vogliamo valutare e confrontare i costi energetici, gli impatti prodotti nelle diverse fasi di realizzazione e di
costruzione (fase che spesso viene anche un po’ sottovalutata), di utilizzo e di smaltimento. Questo esempio ha portato questi risultati in cui,
nel caso di smaltimenti, esistono anche dei valori negativi proprio per la loro riciclabilità.
Realizzazione tunnel acciaio
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Uso del tunnel acciaio
Scenario smaltimanto tunnel acciaio
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