Città e Storia

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Città e Storia
Città &Storia
La cifra della città
Architetture ed economie
in trasformazione
01 06
Città e Storia
Redazione
DONATELLA CALABI, IUAV
CLAUDIA CONFORTI, Università di Roma «Tor Vergata»
ALBERTO GROHMANN, Università di Perugia
DEREK KEENE, University of London
PAOLA LANARO, Università di Venezia
BRIGITTE MARIN, École française de Rome
LUCA MOCARELLI, Università di Milano «Bicocca»
ROBERTA MORELLI, Università di Roma «Tor Vergata»
LUCIA NUTI, Università di Pisa
CARLOS SAMBRICIO, Universidad Politécnica, Madrid
ROSA TAMBORRINO, Politecnico di Torino
CARLO M. TRAVAGLINI, Università «Roma Tre»
GUIDO ZUCCONI, IUAV
Direttore
CARLO M. TRAVAGLINI, Università «Roma Tre»
Segreteria di redazione
ANNA ROSA ANGIÒ-SABINA MITTIGA-CHIARA TRAVAGLINI
Corrispondenti Scientifici
MAURICE AYMARD, EHESS, Paris
JEAN FRANÇOIS CHAUVARD, Université de Strasbourg
MATTHEW DAVIES, Centre for Metropolitan History, London
DIRK DE MEYER, Ghent University
JOSEF EHMER, Universität Wien
DAVID H. FRIEDMAN, MIT, Cambridge (Ma)
BERNARD GAUTHIEZ, Université Lyon-III «Jean Moulin»
ENRICO IACHELLO, Università di Catania
HIDENOBU JINNAI, Hosei University, Tokyo
MIGUEL ANGEL LADERO QUESADA, Univ. Complutense, Madrid
DANIELE MANACORDA, Università «Roma Tre»
ANGELA MARINO, Università de L’Aquila
PAOLA PAVAN, Archivio Storico Capitolino, Roma
WALTER ROSSA FERREIRA DA SILVA, Universidade de Coimbra
ALISON SMITH, Wagner College, New York
EUGENIO SONNINO, Università di Roma «La Sapienza»
PETER STABEL, University of Antwerp
ROSEMARY SWEET, Centre for Urban History, Leicester
PAUL ZANKER, Scuola Normale Superiore, Pisa
Sede Redazione: Laboratorio di Analisi Regionale, Dipartimento di Economia, Università «Roma Tre»,
via Ostiense, n. 139 – 00154 Roma – Tel.+39.06.57374016 Fax+39.06.57374030 - e-mail: [email protected]
Proposte di contributi, manoscritti e pubblicazioni per recensione vanno inviati a Carlo M. Travaglini, CROMA,
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La rivista è pubblicata con il patrocinio e il sostegno di
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e con il patrocinio dell’ASSOCIAZIONE ITALIANA DI STORIA URBANA
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Progetto grafico: Emiliano Martina
I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono
riservati per tutti i Paesi.
«Città e Storia» è in corso di registrazione presso il Tribunale di Roma. Il primo fascicolo esce come supplemento alla rivista «Roma moderna
e contemporanea», 2005, n. 3-4, autorizzazione del Tribunale di Roma n. 668 del 19/12/1992.
«Città e Storia» è stampata dalla tipografia Gimax, Via Valdambrini 22, 00058 Santa Marinella (RM).
Città & Storia
Anno I, n.1
gennaio-giugno 2006
SOMMARIO
Città e Storia: il progetto................................................................................. pag.
3
M. RONCAYOLO, Plaidoyer pour une histoire de l’histoire urbaine......................
7
»
La cifra della città. Architetture ed economie in trasformazione
a cura di Roberta Morelli e Maria Luisa Neri
R. MORELLI - M.L. NERI, Introduzione.....................................................................
pag. 15
S. DIONISI, Confraternite e rendita urbana: il San Salvatore e il Gonfalone di Roma tra
XV e primo XVI secolo..............................................................................................
»
19
I. PUGLIA, Per la storia dei fedecommessi: il «Palazzo di Siena» dei Piccolomini (14501582)..................................................................................................................
»
35
M. VAQUERO PIÑEIRO, Renta y transformación de las viviendas en Roma durante el siglo
XVI.........................................................................................................................
A. ROCA DE AMICIS, L’area di Santa Maria Maggiore all’epoca di Paolo V Borghese: canonici, privati e strategie di riqualificazione urbana....................................................
»
53
»
79
S. SCOGNAMIGLIO, Patrimoni e corporazioni a Napoli tra XVI e XVIII secolo. Proprietà, poteri e profitti nell’economia urbana europea di ancien régime..............................................
»
93
C. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare a Genova in antico regime: un fenomeno urbano
dall’osservatorio dell’Albergo dei poveri (1656-1798)......................................................
» 115
S. CIRANNA, Della «principalissima industria della città di Roma». Case, botteghe, laboratori e studi degli artieri della pietra............................................................................
» 133
D. FELISINI, Forme e tendenze dell’investimento immobiliare nella Roma dell’Ottocento...
» 157
R. CATINI, La nuova forma della Capitale: l’apertura del tunnel del Quirinale e il Palazzo del Drago.........................................................................................................
» 167
A. CIUFFETTI, I Patrimoni immobiliari delle grandi industrie e lo sviluppo urbano. I casi
di Piombino e Terni tra Otto e Novecento...................................................................
» 181
M. SAVORRA La «città delle Generali»: investimenti, strategie e architetture ........................
» 191
A. DAMERI - S. GRON, La committenza della famiglia Borsalino: gli interventi in Alessandria
» 207
M.S. POLETTO, Gli investimenti della società Reale Mutua a Torino. L’ intervento per la
Torre Littoria............................................................................................................
» 229
Note e discussioni
E. SORI, La città del tardo Rinascimento...................................................................
C.M. TRAVAGLINI, A proposito dell’ Ara Pacis............................................................
G. ZUCCONI, I recenti progressi della local history italiana........................................
pag. 249
» 254
» 265
Schede
a cura di: J.-L. ARNAUD, G. BONACCORSO, B. BONOMO, C. CALANDRA, A. CARACAUSI,
S. GREMOLI, K. LELO, F. SALSANO.
si parla di: C. ALTAVISTA, Lucca e Paolo Guinigi (1400-1430): la costruzione di una corte rinascimentale; D. CALABI, Storia della città.L’età contemporanea; M. CARBOGNINE. TURRI-G.M. VARANINI (a cura di), Una rete di città. Verona e l’area metropolitana
Adige-Garda; N. CARDANO (a cura di), Esquilino e Castro Pretorio. Patrimonio storico-artistico e architettonico del Comune di Roma; J.-F. COULAIS-B. MARIN (a cura di),
Rome. 2700 ans d’histoire, CD-Rom; A. KALC-E. NAVARRA (a cura di), Le popolazioni
del mare: porti franchi, città, isole e villaggi costieri tra età moderna e contemporanea;
D. KEENE-A. BURNS-A. SAINT (eds.), St Paul’s: the Cathedral Church of London, 6042004; N. MARCONI, Edificando Roma Barocca; A. L. PALAZZO (a cura di), Campagne
urbane. Paesaggi in trasformazione nell’area romana; B. SECCHI, La città del ventesimo
secolo; C.G. SEVERINO, Roma mosaico urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore; E.
SVALDUZ (a cura di), L’ambizione di essere città. Piccoli, grandi centri nell’Italia rinascimentale; C.M. TRAVAGLINI (a cura di), Un patrimonio urbano tra memoria e progetti. Roma. L’area Ostiense-Testaccio; S. ZAGGIA (a cura di), Fare la città. Salvaguardia
e manutenzione urbana a Venezia in età moderna.
pag. 271
Convegni, seminari, mostre
M. BARBOT - A. CARACAUSI, Andrea Palladio e la villa veneta da Petrarca a Carlo Scarpa
L. NUTI, The 21th International Conference on the History of Cartography.................
G. VERTECCHI, Seminario GIS................................................................................
pag. 285
» 288
» 291
Informazioni
D. CALABI, La Conferenza 2006 della European Association for Urban History...........
G.L. FONTANA, The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage
S. PACE - R. TAMBORRINO, La città e le regole..........................................................
Abstracts
traduzioni a cura di Susan Spafford
Pubblicazioni ricevute
pag. 293
» 295
» 298
CITTÀ E STORIA: IL PROGETTO
L’idea di promuovere una nuova rivista dedicata alla storia urbana nasce dall’esigenza di creare un laboratorio di analisi, di discussione, di progettazione di nuove
ricerche con un riferimento naturalmente privilegiato alla realtà italiana e a quella
europea, e, al tempo stesso, con attenzione all’area del Mediterraneo, nonché, più in
generale, al contesto internazionale, specie in una prospettiva di studi comparativi.
Questa esigenza è maturata attraverso differenti esperienze di ricerca dei componenti della redazione ed è stata favorita, per molti di loro, sia dalla partecipazione
alle attività della European Urban History Association, sia, in modo determinante,
dalla nascita e dalla forte vitalità espressa dall’Associazione Italiana di Storia Urbana,
fondata nel 2001. Decisivo è stato a livello europeo e nazionale l’incontro tra storici dell’architettura e storici dell’economia, storici generali e storici dell’arte, storici
dell’ambiente e della letteratura, geografi e archeologi. La storia urbana, partendo da
un’importante tradizione di studi nella quale metodologie e problemi hanno fatto
privilegiare – a seconda dell’ambito di formazione – la storia delle pietre o quella degli uomini, è andata costruendo nell’ultimo trentennio – grazie anche al contributo
di maestri come Marino Berengo, Alberto Caracciolo e Lucio Gambi e di iniziative
importanti come la pubblicazione delle riviste «Storia Urbana» e «Storia della città»
(quest’ultima spenta nel 1990), significativamente uscite entrambe nel 1976 – un
suo spazio riconoscibile e riconosciuto che non è ancora però quello di un’autonoma
area disciplinare. Si tratta di uno spazio che non può non fondarsi su approcci, metodologie, sensibilità diverse, prevalentemente multidisciplinari. Si sono allargati gli
orizzonti della storia urbana, superando felicemente quella dicotomia tra storia dell’architettura e storia della città medievale che aveva segnato nell’esperienza italiana,
in modo anche assai fruttuoso, tutta una lunga stagione di studi.
«Città e Storia» lavorerà nel cantiere della storia urbana; non sarà una rivista che
propone un modello né tanto meno una «scuola», sarà un’impresa collettiva che si
dovrà contraddistinguere per grande apertura culturale e disponibilità al confronto
tra gli storici urbani e quanti, da diversi punti di vista, studiano la città. Il progetto
della rivista non può quindi che essere orientato su un arco diacronico ampio, dal
Medioevo all’età contemporanea, con una forte attenzione alla stratificazione urbana, alle radici della forma urbis e al ruolo dell’archeologia nello studio di molti centri
urbani contemporanei.
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CITTÀ E STORIA: IL PROGETTO
La scelta del titolo della rivista intende sia richiamare alcuni elementi ispiratori
del progetto – e, in particolare, quello di una ricerca sulla città in tutta la sua affascinante complessità e, in sinergia con questo, quello di una storia a tutto campo, senza
bisogno di aggettivi – sia ricollegarsi ad alcune esperienze maturate negli ultimi 4
anni prima con la pubblicazione dell’omonimo bollettino dell’AISU e poi, nell’estate
del 2004, con l’uscita di una prima prova di stampa – il numero zero – in occasione
del congresso AISU di Roma.
L’attività editoriale sarà fondata su una programmazione di medio-lungo periodo
ed organizzata per la produzione di fascicoli contraddistinti da un nucleo tematico dominante, al fine di proporre temi di ricerca e discussione e di consentire un coinvolgimento non casuale degli autori accogliendo o sollecitando contributi originali. Questo
nucleo tematico costituirà, di regola, la parte caratterizzante di ogni fascicolo e sarà
coordinato da uno o più curatori, anche esterni alla redazione. Questo orientamento è
indispensabile per favorire la vitalità del periodico nel tempo, per valorizzare le competenze specialistiche ed assicurare un serio approccio multidisciplinare ai problemi.
Accanto alla parte tematica vi saranno alcune rubriche: Note e discussioni, destinata ad ospitare rassegne, brevi saggi, interviste, tavole rotonde, discussioni di pubblicazioni e mostre, interventi anche su i problemi della ricerca, i processi formativi, il
patrimonio e le politiche culturali; Istituzioni culturali, per la presentazioni di fonti
per la ricerca e di iniziative culturali; Convegni seminari mostre, per resoconti di iniziative scientifiche e culturali; Informazioni, per offrire anticipazioni su convegni e
seminari nazionali e internazionali in preparazione, su attività in itinere dell’AISU e
di altre associazioni scientifiche, su progetti di ricerca, etc.; Schede, per dare conto in
modo rapido e con un taglio prevalentemente informativo delle pubblicazioni più
recenti (incluse le tesi di dottorato). Le rubriche – non sempre tutte necessariamente
presenti in ogni fascicolo – costituiranno una parte quantitativamente minore ma
ugualmente importante per una rivista che – sia pure con la forte limitazione costituita da una periodicità soltanto semestrale – ambisce ad essere presente nel dibattito
culturale e vuole offrire un adeguato panorama informativo ai lettori.
Infine, contiamo di poter riservare una piccola sezione di «Città e Storia» alla
pubblicazione di saggi, in modo da assicurare uno spazio a nuove ricerche indipendentemente dal nucleo tematico di volta in volta dominante.
La rivista sarà aperta alle più larghe collaborazioni sia per i progetti di sezioni monografiche sia per l’ampia serie delle rubriche, e in questo spirito nonché in coerenza
con le linee generali del progetto ha anche assunto il criterio di pubblicare in lingua
originale i contributi redatti in inglese, francese e spagnolo, come si può verificare già
da questo primo fascicolo.
Abbiamo anche discusso sull’opportunità di realizzare una pubblicazione a stampa o di intraprendere invece senza indugi la via suggestiva dell’editoria elettronica: la
scelta in questo ambito è stata per la tradizione, anche se più costosa e faticosa sotto
CITTÀ E STORIA: IL PROGETTO
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molti profili. È prevalso il desiderio di avere in mano un libro, di poterlo leggere in
quanto tale, di averlo a disposizione per consultarlo, sapendo che almeno il supporto
cartaceo è sicuramente destinato a durare. La rivista sarà comunque disponibile anche su internet e gratuitamente, almeno per il primo anno.
Gli obiettivi che ci siamo prefissati sono assai impegnativi; creare un laboratorio
di ricerca e di discussione, praticare realmente un terreno di collaborazione multidisciplinare, confrontarsi con linguaggi e metodologie diversi costituiscono nell’insieme un percorso per tentare di afferrare l’anima della città e per operare un reale
rinnovamento degli studi.
«Città e Storia» è una rivista scientifica, ma auspichiamo vivamente che possa
essere uno strumento di lavoro o un utile riferimento non solo per gli specialisti,
gli studiosi o quanti si avvicinano a percorsi formativi di storia e di analisi urbana,
ma anche per i tanti ricercatori, funzionari di soprintendenze, tecnici, professionisti
che quotidianamente, in modi e forme diverse, si misurano con la realtà complessa,
contraddittoria, vitale della città contemporanea. La cultura urbana e, soprattutto, il
governo delle città hanno oggi una grande necessità di «conoscere» le città e di valorizzare i saperi che possono esprimere.
***
PLAIDOYER POUR UNE HISTOIRE DE L’HISTOIRE URBAINE
Si vous m’accueillez aujourd’hui, je le dois essentiellement au privilège de l’âge.
C’est en effet en témoin que je m’exprime devant vous sur les rapports de la ville et
du patrimoine. La question dont je pars est donc : est-ce que la ville en tant qu’objet
réel, en tant que notion, en tant que série d’événements situés dans l’histoire, suscitant des interprétations différentes de ses formes, n’est pas un patrimoine, j’allais dire
le patrimoine typique de nos sociétés ? Je fais porter ma réflexion sur l’étude de périodes quelque peu anciennes ; concernant les périodes directement contemporaines,
vous êtes sans nul doute mieux informés que je ne le suis. Si nous voulons considérer
la ville comme un patrimoine, il faudrait aussi tenir compte de l’histoire de l’histoire
urbaine. Les formes de connaissance, les interprétations ne s’effacent pas au coup
par coup comme si l’on perdait toute mémoire ; elles suivent une sorte d’itinéraire
qu’il faut expliciter pour mieux saisir l’ampleur des nouveaux phénomènes qui nous
feraient peut-être remettre en question la ville toute entière en tant que forme d’organisation de l’espace et institution et la reconnaître comme patrimoine vivant.
Je viens de la géographie mais j’avais une vocation d’historien à l’origine. C’est
en entrant à l’École Normale que, sans doute fatigué par l’histoire un peu répétitive
des préparatoires, j’ai décidé de choisir la géographie. Je me suis laissé séduire parce
que la géographie c’était pour moi, à ce moment là, partir de l’actualité. Cette discipline d’autre part était encore relativement neuve quand on s’intéressait à la ville.
La géographie humaine la plus fructueuse était alors celle qui s’occupait du monde
rural. Mon projet était de bénéficier de l’avance acquise en ce domaine et d’ailleurs
aussi chez les historiens. Les deux noms de Marc Bloch et de Roger Dion sont indissociables dans ma pensée. Deux directions ressortaient dans ce contexte intellectuel
portant sur les notions de culture matérielle et de temps.
La notion de «culture matérielle» ou de «civilisation matérielle» (il y avait débat)
m’intéressait moins comme champ particulier de pratiques que comme prise de distance à l’égard de l’action humaine. Il me semblait exister une dimension de l’histoire
dans les objets eux-mêmes qui correspondait quelque peu à l’idée provocatrice de
Durkheim lui-même : «étudier les hommes comme des choses». À travers les objets
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MARCEL RONCAYOLO
urbains et les pratiques qui correspondaient à ces objets, on a l’impression de juger
les hommes d’après leurs œuvres comme le pensent certains théologiens. Mon premier intérêt était d’aboutir à une objectivation de la vie des hommes, témoin de leurs
essais, de leurs actes, de leurs idées, de leurs constructions sociales.
J’ai travaillé d’abord sur le cas de Marseille, ville à peu près contemporaine de
Rome par sa fondation. Contrairement au grand discours qui se tenait à la fin du
XIXe siècle quand on disait «les villes naissent, se développent et meurent», j’avais
l’impression que ces villes étaient diablement plus résistantes que les hommes et
même les sociétés. Le temps m’apparaissait alors au centre de la réflexion ; la ville, je
la concevais comme porteuse d’expériences capables de subir des réinterprétations,
des nouveaux usages, des représentations renouvelées. Le long terme n’était pas pour
moi la reproduction à l’identique d’attitudes et d’objets. C’était en quelque sorte un
long chemin parcouru. Il y a une citation, peut-être excessive dans sa rigueur, qui m’a
toujours touché ; elle est tirée de Tristes tropiques (de Claude Lévi-Strauss) : «Tout
paysage se présente d’abord comme un immense désordre qui laisse libre de choisir
le sens qu’on veut lui donner. Mais, au-delà des spéculations agricoles, des accidents
géographiques, des avatars de l’histoire et de la préhistoire, le sens auguste entre tous
n’est-il pas celui qui précède et, dans une large mesure, explique les autres, cette ligne
pâle et brouillée, cette différence souvent imperceptible dans la forme et la consistance des débris rocheux, témoignent que là où je vis aujourd’hui, un terrain aride,
deux océans se sont jadis succédé.» Mais quels sont alors les commencements et où
se trouvent les sens augustes de la ville ?
On s’est souvent plaint que l’histoire urbaine emprunte trop naïvement les coupures classiques de l’histoire générale et enferme la réflexion sans véritable critique
dans des périodes qui n’avaient peut-être pas beaucoup de sens de son point de vue.
Ma recherche personnelle commence plus modestement au XVIIIe siècle. J’essayais
d’en tirer alors les grandes fluctuations de l’histoire des villes. Je pensais, quitte à
prendre quelques distances à l’égard d’un marxisme trop facile, dépasser les limites
d’une chronologie trop simplifiée des modes de production. Trois thèses traitaient
des rapports du temps et de la ville.
La première valorisait la continuité ; c’était celle de Marcel Poëte. Cette continuité s’inspirait de l’image biologique. Poëte parlait de la jeunesse, de la vie adulte de
Paris. Mais la mort ? Cette analogie était d’autant plus curieuse que Poète était moins
historien de la forme urbaine que de la communauté urbaine. Sa pensée s’inspirait
du vitalisme qui n’était pas de mon goût, sans doute parce que j’ai été formé à la
philosophie au moment où Bergson régnait, et que par précaution je me méfiais de
la mode. Le vitalisme appliqué au monde urbain n’allait pas de soi.
En termes presque polémiques se définissait la position adverse, celle de Francastel,
que les plus anciens parmi vous avaient appréciée. Celui-ci considérait que la ville
était un lieu qui enregistrait toutes les attentes, les désirs, les manques aussi, des
PLAIDOYER POUR UNE HISTOIRE DE L’HISTOIRE URBAINE
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sociétés qui se succédaient. Par conséquent, Paris était formé de villes successives
qui se recouvraient les unes les autres. Il fallait un travail analogue à celui des archéologues pour reconnaître les strates ou les traces d’organisations plus anciennes.
C’était, somme toute, reprendre l’image classique du palimpseste. C’était alors une
conception organique (rapports des formes et de la société) mais loin de la biologie.
Cette formule avait déjà été adoptée par César Daly dans ses écrits de 1840 (Revue
générale d’architecture). Chaque ville devait correspondre à la société dans laquelle elle
était située et par laquelle elle était modelée. Le drame de Daly était, dans une société
industrielle récente, d’attendre les styles urbanistiques et architecturaux qui lui conviendraient. Accordons à cette thèse son mérite essentiel : la fabrication et les usages
de la ville ne sont pas indépendants des autres phénomènes sociaux. Il reste à savoir
si la société peut être lue comme une réalité totalement acquise, évidente, ou comme
un cursus jamais achevé, jamais entièrement synchrone dans ses parties.
La troisième position hésitait entre les deux. Ce n’est pas étonnant dans la mesure où l’homme qui la représente est l’un des plus complexes qu’il m’ait été donné
de lire. L’Italie avait semble-t-il repris sa lecture alors que la France à ce moment là
l’ignorait quelque peu. Pour Maurice Halbwachs il y avait à la fois discontinuité et
tendances plus longues. Par exemple le plan des artistes de Paris, dressé au début de
la Révolution française, n’induisait pas, même s’il y avait des échos et des réutilisations, ce qui s’accomplissait dans un autre contexte sous le Second Empire. En même
temps, dans son livre sur les expropriations (1909), il montrait que ce n’était pas les
fluctuations de la politique ou des mouvements d’idées des architectes, des artistes,
qui faisaient Paris, mais les tendances plus profondes de la ville, y compris dans ses
changements sociaux. L’histoire urbaine n’était pas le résultat de régimes et de politiques qui s’empilaient. L’auteur rappelait que derrière ces phénomènes superficiels
existait une ville qui était Paris. L’ambiguïté subsiste alors sur la notion même de
tendances naturelles.
Voilà quelles étaient mes références de départ. J’ai constitué mes curiosités, j’ai choisi les méthodes que je devais employer, par rapport à ces lectures. La problématique que
l’on construit mérite d’être respectée quand vous faites des analyses concrètes. Changer
de questions, répondre à une épistémologie renouvelée, cela signifie recommencer le
travail de recherche des sources et des informations. En revanche, par rapport à la direction initiale, on peut apprécier les limites des présupposés dont on est parti.
En contrepoint, j’étais très intéressé non seulement par les grandes tendances mais
par le déroulement temporel de la fabrication de la ville. Je passais alors à des temps
plus courts, ceux du déroulement des activités, des projets, des réalisations. On se
trouvait tout à coup devant un jeu de temporalités différentes et de phénomènes qui
n’étaient pas synchrones. Comparer l’haussmannisation parisienne et l’haussmannisation marseillaise me servait alors de terrain d’exercice. Il y a le temps du projet qui
a ses rythmes propres, son incubation, son passage hors du monde purement idéel.
10
MARCEL RONCAYOLO
Il y a le temps du chantier, le temps des financements (se procurer des crédits pour
payer le chantier mais selon un amortissement qui s’étale sur un temps beaucoup
plus long). La ville se construit à travers ces décalages. La réalisation en effet n’est pas
chose simple entre les travaux de préparation et la commercialisation des produits.
On peut considérer que l’haussmannisation n’a pas fait fiasco à Paris, mais si vous
lisez Halbwachs, vous verrez que les terrains ont commencé à se vendre très cher
dans le centre, là où des prédispositions (notamment l’emplacement) accéléraient la
mise en valeur. En revanche, le rendement de l’investissement initial était beaucoup
plus retardé quand il s’agissait de nouveaux quartiers comme par exemple la plaine
Monceau, réellement appréciée vingt ans après le dessin de la trame. Ce qui explique,
en partie, la crise des sociétés immobilières qui avaient participé à l’haussmannisation.
Par conséquent, toute ville, même quand sa transformation exprime les tendances
naturelles de l’époque, est dépendante du temps, souvent inachevée, et faite de ce fait
d’inachèvements successifs. C’est ce qui fait le charme de la ville en fin de compte.
Nous avons affaire à une création qui est en constant mouvement selon des rythmes
variables, à un ensemble hétérogène qui n’est jamais totalement de son temps, ou
plutôt dont seul l’usage fait l’actualité. Cette remise en question de la cohérence ne
concerne pas seulement les formes urbaines, mais la conception même et l’emprise
physique du phénomène urbain. C’est ainsi qu’à l’inverse de Braudel, je réintroduis
la courte durée dans ma réflexion en pensant que la longue durée est parfois le produit de conjonctures courtes et très précises.
Tel est à mon sens ce qui fonde la conscience du patrimoine. C’est-à-dire placer
la ville dans la perspective d’une sorte d’itinéraire (points forts, points faibles, années
d’incubation, d’attente et de bouleversement). L’histoire cyclique telle qu’elle se développe à la fin du XIXe siècle n’est plus celle d’un cycle qui se referme sur lui-même,
de l’éternel retour, mais d’un mécanisme de changement. Après tout, s’il y a rupture
épistémologique, c’est bien celle introduite par Condorcet sur les progrès de l’esprit
humain, même si l’on en saisit aujourd’hui quelques perversités.
Le patrimoine peut être considéré ainsi en tant que mémoire d’étapes, de points
de repères, auxquels il faut trouver un sens aujourd’hui. Ce n’est pas une denrée que
l’on met au frigidaire, c’est quelque chose que nous fabriquons nous-mêmes. Et ce
que nous fabriquons aujourd’hui, quelle qu’en soit la valeur apparente, c’est le patrimoine de demain. Je trouve toujours quelque désordre intellectuel à considérer les
implosions de barres ou de tours, même si cela s’impose pour des raisons sociales,
comme une réussite technique. C’est en réalité une sorte d’exorcisme naïf et dangereux par rapport à la conception de l’itinéraire. Si l’on rasait tout, on perdrait le
sens de notre histoire. A fortiori les habitants d’aujourd’hui perdraient le sens de leur
propre histoire, située dans ces lieux.
Telle est ma position à l’égard du temps ou plutôt des temps qui correspondent
à des échelles très diverses. C’est comme cela que je suis redevenu historien en étant
PLAIDOYER POUR UNE HISTOIRE DE L’HISTOIRE URBAINE
11
géographe. Et peut-être avec quelque provocation je me suis demandé dans un article
des Annales, entre géographie et histoire, quelle était la science du temps, quelle était
la science de l’espace.
Sans doute ces raisons expliquent l’accueil que j’ai reçu des Italiens de la génération d’Argan et d’Aldo Rossi. En France en effet, je n’avais pas été en contact à l’origine avec l’architecture, et l’urbanisme était une discipline qui flottait entre la forme
et les procédures, hésitant dans ses rapports avec les historiens, les géographes ou les
sociologues. L’architecture suivait encore une tradition, celle des Beaux-Arts, c’està-dire dépendant d’une institution qui existait en dehors de l’Université. De même,
les ingénieurs avaient leurs propres cadres. Les tentatives de rencontres étaient parfois
déviées par l’utilitarisme ou l’idéologie.
Des interactions sérieuses se sont néanmoins produites au-delà des traditions nationales. J’en prendrai trois exemples en ce qui concerne les rapports entre sciences
humaines, architecture et urbanisme. La première manifestation, c’est l’importance
accordée à l’archéologie du savoir telle qu’elle était définie notamment par l’œuvre
éclatante de Michel Foucault. La seconde, c’est la lumière nouvellement portée sur
l’habitant avec des notions d’appropriation et de participation. La troisième est liée à
l’attention portée à la micro-histoire.
Il se trouve que Giorgio Piccinato m’avait contacté alors que je faisais partie de la
commission du CNRS pour discuter de la liaison entre recherche scientifique, architecture et urbanisme. J’ai alors insisté sur l’importance que prenait en France la lecture de Michel Foucault. Alors que le marxisme après 68 encaissait quelques coups,
s’imposait le talent considérable de cet auteur nourri de philosophie, de psychanalyse
et d’analyse critique des savoirs. Nos architectes se sont volontiers précipités dans ce
courant qui a renouvelé les références de la réflexion. Vous connaissez en particulier
les travaux de Huet sur les équipements du pouvoir. C’était en effet la notion de
pouvoir qui retenait l’attention autour de ces manifestations : panoptique, contrôle
social, relégation. Simplification peut-être de la pensée de Foucault avec le danger de
trop réduire le savoir à son instrumentalisation sociale. Quel pouvoir d’autre part ?
Le pouvoir médical n’était-il qu’une forme de prise en main des individus ? L’hygiène
se transformait-elle en eugénisme ? L’urbanisme se limitait-il à l’ordre imposé à la
société ? Cette lecture un peu réductrice négligeait une des dimensions de l’œuvre, la
fragmentation des petits pouvoirs entre les hommes eux-mêmes.
On ne pouvait ignorer un autre aspect de cette question : un certain pouvoir de
l’habitant de base de s’approprier l’habitat même s’il n’en avait pas conçu la nature.
C’était là le second thème du moment. C’est une étape dont je trouvais la contrepartie en Italie dans le grand mythe de l’époque qui avait peut-être moins intéressé le milieu des urbanistes français que celui des politiques et des administrateurs, le mythe
de Bologne, et la pensée du «recupero»des espaces et des édifices anciens promis à de
nouveaux usages. À Paris, l’affaire des Halles avait alerté l’opinion. On s’interrogeait
12
MARCEL RONCAYOLO
alors sur la concertation : comment associer ce qui représente des pouvoirs ou des
intérêts organisés et les habitants qui expriment parfois une attente mal identifiée.
La double question de l’appropriation et de la participation au système de décision
du «citoyen» est exprimée alors en France par les recherches de Henri Lefebvre et de
Raymond et renouvelle sérieusement l’approche de la ville.
Troisième point : la micro-histoire. Elle m’intéresse non seulement dans la mesure
où elle a permis d’approfondir l’étude des comportements urbains, des itinéraires
individuels, mais aussi d’atteindre cet habitant qu’on n’arrivait pas à saisir à travers
les grandes vues synthétiques sur les classes et les pouvoirs. La micro-histoire aussi est
importante dans la perspective du projet, elle met l’éclairage sur le jeu des acteurs de
toutes sortes dans la prise de décision et l’exécution. Il s’agissait alors de faire basculer
l’histoire urbaine vers une étude concrète des compétences et des rapports de force, la
diffusion des pratiques, l’accueil des réalisations ; de comprendre ainsi les conditions
réelles, non broyées par l’étude des agrégats, qui concernent les perceptions de la
ville, l’apprentissage et l’anticipation dans la culture du territoire.
Je clôturerai ces remarques sur cette idée que je répète : considérer l’histoire urbaine comme l’histoire d’un parcours, comme le Tour de France ou le Giro, avec des
étapes de plat et des étapes de montagne. C’est dans cette conception du patrimoine
comme élément du parcours que j’établis le lien, qu’il s’agisse à la fois de la place et
du déplacement des habitants dans la ville, de la ville comme collectivité et comme
ensemble de formes, de matérialités, en fin de compte d’effets de l’art.
En ce domaine nous en savons assez peu parce qu’on est parti des grandes idées,
des philosophies, des utopies, en les détachant trop souvent de leur contexte et en
ne voyant pas leurs contractions, leurs côtés impurs, la demande plus pragmatique
qu’elles pouvaient inspirer. Par exemple, la pensée des Fouriéristes et des promoteurs
du phalanstère était héritée d’une réflexion sur les mauvaises conditions de vie des
classes populaires telles qu’elles étaient transmises depuis la fin de l’Ancien Régime,
plus qu’elles n’exprimaient une société industrielle tout à fait installée. Le choléra
était plutôt pré-industriel que post-industriel. Je crois qu’il faut reconstituer les conditions exactes et non pas idéales dans lesquelles sont nées les grandes utopies, analyser leur rapport avec l’histoire réelle. C’est pour cela que la lecture du corpus dirigé
par Daly a été l’un des points de départ de ma réflexion. La lecture de cette revue qui
s’efforçait d’établir un pont entre architectes et ingénieurs traçait elle-même un parcours puisque sa publication commençait en 1840 et finissait au milieu des années
1880. Ainsi affleuraient dans leur succession historique tous les débats. Les principes
perdaient leur a-temporalité. Il conviendrait donc de reconstituer l’histoire des regards sur la ville comme processus. On s’attachait trop à réhabiliter les temps forts
qui semblaient eux-mêmes incertains. On parlait d’Haussmann, de Le Corbusier, et
entre eux peu ou rien. Fort heureusement des équipes se sont intéressées aux phases
intermédiaires et Donatella Calabi en a donné d’excellents exemples.
PLAIDOYER POUR UNE HISTOIRE DE L’HISTOIRE URBAINE
13
Il y a aussi la récupération du temps qui précède l’haussmannisation, incubation
lente en contrepoint des utopies, à partir d’origines variées, d’éléments hétéroclites
dans une société censitaire, où, du moins en France, c’est la bourgeoisie libérale qui
fait la ville. La cassure et la réaffirmation de l’action publique viennent ici moins
d’un changement juridique ou même idéologique que de l’irruption des infrastructures : les chemins de fer en premier s’attaquent aussi bien au tissu urbain qu’aux
représentations traditionnelles de la mobilité. De manière différente selon les pays,
les rapports entre l’État, les collectivités territoriales, les grandes entreprises et le
propriétaire foncier, aux facettes multiples, sont modifiés. Comment se fait alors et
s’instrumentalise la notion d’intérêt public ? Comment s’interprète alors cet objectif
que l’historien Georges Lefebvre attribuait au régime napoléonien «sanctionner le
droit de la propriété, antérieur à la société» et affirmer la légitimité de l’intérêt public
comme seule «limite au droit du propriétaire» ? Un élément parmi d’autres de l’histoire de l’histoire urbaine.
Encore faut-il que cet essai sorte des simples contextes nationaux. L’histoire comparée reste un exercice difficile si l’on se contente de commenter des exemples extérieurs, sorte de bibliographie, et de les mettre en regard de ses propres connaissances
concrètes sur telle ou telle expérience, période ou territoire. Il conviendrait aussi de
tenir compte de l’originalité des regards. Et ceci en dépit du caractère très international du monde de l’urbanisme, lieu de communication et de transfert de modèles.
Formes, représentations, actions, voilà ce qu’il faut atteindre pour rendre compte de la ville et de ses conceptions. D’autant plus que toute transformation, toute
politique, toute vision d’urbanisme est une anticipation. L’éphémère peut évidemment durer longtemps. Mais l’imagination, à court ou à moyen terme, peut errer.
Contrairement à la thèse d’Halbwachs, l’anticipation n’est pas forcément destinée
à réussir et la spéculation encore moins. Ainsi se cumulent des projections qui ne
sont pas nécessairement cohérentes mais qui marquent la ville dans sa longue durée.
Pour en venir au cas très modeste que j’ai étudié, la rue Impériale devenue rue de la
République à Marseille fut construite comme grande voie bourgeoise pour relier le
centre de la ville au nouveau port. Elle ne le fut guère au départ et de moins en moins
jusqu’à aujourd’hui. Pensons aussi à la dérive actuelle des grands ensembles (pas tous)
qui accentue la contradiction entre le projet d’un nouvel urbanisme (même légitimé
par un habitat populaire) et la réalité à laquelle il aboutit. Il faut donc constituer des
corpus plus riches, plus continus, une observation qui scrute les temps plutôt que
faire ressortir tel ou tel choix pour savoir qui avait raison. Ce sont les raisons concurrentes ou successives qu’il faut mettre en chaîne, un parcours qu’il faut reconstituer,
même si le concept de ville semble à son tour nous fuir.
Marcel Roncayolo
La cifra della città. Architetture ed economie in trasformazione
a cura di Roberta Morelli e Maria Luisa Neri
INTRODUZIONE
Questo primo volume della nuova rivista «Città e Storia» ospita alcuni contributi presentati al II Congresso dell’Associazione Italiana di Storia Urbana (AISU),
dedicato a Patrimoni e trasformazioni urbane1. L’iniziativa si è svolta sotto il patrocinio di due università romane – Università Roma Tre e Roma Tor Vergata – e di
altre istituzioni che in questi ultimi anni hanno contribuito al progresso e alla valorizzazione delle conoscenze nel campo della storia urbana: l’Associazione Italiana
di Storia Urbana, l’Archivio Storico Capitolino, l’Ecole Française de Rome. Com’è
nell’intento dell’associazione il congresso nazionale, a scadenza biennale, rappresenta
l’occasione per un confronto allargato tra soci di diversi ambiti disciplinari, portatori
di pensieri e metodologie rivolti allo studio della storia della città.
Si tratta, come già nel I Convegno di Lecce (giugno 2002), di una partecipazione
allargata che vuole lasciare spazio a studiosi di consolidata esperienza e a giovani
che si aprono alla ricerca in questo campo d’indagine. L’occasione romana è stata
preziosa. In essa sono stati proposti molteplici tagli di lettura, originali angolazioni
interpretative, la possibilità di un dialogo diretto tra gli studiosi che hanno nella
città il loro fulcro d’interesse. Soprattutto è stata offerta una variegata messe di fonti,
spesso inedite, che consente alla comunità scientifica di affondare di nuovo il dente
dell’aratro in terreni non certo vergini alla riflessione storiografica. L’accesso a nuove
fonti è, infatti, utile per tentare ancora una volta, forse con sempre più matura consapevolezza, di tessere singoli episodi del divenire urbano sul doppio ordito della struttura economica e della sua restituzione in termini fisici (strade, architetture, decoro
urbano). Solo un’ottica che tiene conto delle relazioni tra il substrato economico e il
farsi della città può soddisfare un’aggiornata visione d’insieme.
Le tre dense giornate di lavori sono state scandite sul doppio registro di sessioni di
carattere generale e sessioni di approfondimento su aspetti particolari o realtà circoscritte. Così come suggerito da parte del comitato scientifico dell’AISU, programmaticamente i primi due numeri di questa rivista accolgono contributi provenienti dalle
due tipologie. Il primo volume ospita i contributi delle due sessioni: Negoziazioni
ed attori, coordinata da Mario Ascheri e Roberta Morelli, e Patrimoni immobiliari,
rendite e trasformazioni urbane, coordinata da Maria Luisa Neri.
16
ROBERTA MORELLI - MARIA LUISA NERI
Dai diversi saggi, ampiamente rivisti rispetto alla versione allora presentata, scaturisce uno scenario complesso, in cui interagiscono protagonisti individuali o collettivi che, in un gioco di scambi, acquisizioni e alienazioni, costruiscono, demoliscono,
alterano e propongono nuove forme della città, nei suoi quartieri, nelle sue strade,
nei suoi edifici. Difficile trovare una separazione netta fra diversi campi d’interesse,
fra economia e architettura, fra investimenti e rendite, fra proprietà e usi. Far economia e trasformare fisicamente sono le voci di un dialogo perpetuo e imprescindibile,
in cui è impossibile porre una netta linea di demarcazione. La pista da seguire per
lo storico tout court è collocare l’incipit del fenomeno e testimoniare le singole tappe
di un processo spesso secolare, in cui lo scavo documentario si affianca alla lettura
del testo costruito. È quanto ci siamo proposte nel raccogliere un materiale apparentemente disomogeneo, per area geografica, per collocazione temporale, per metodo
d’indagine, per approccio espositivo.
L’organizzazione proposta rispetta una sequenza esclusivamente cronologica. A
nostro avviso, la narrazione che ne scaturisce non dovrebbe costituire per il lettore un
limite obbligato, ma piuttosto favorire una riflessione ampia e diacronica. Vantaggi
ci sembrano venire proprio dal lasciare spazio a una visione ad ampio spettro, che
permetta comparazioni e trovi similitudini o differenze, che valorizzi appieno l’originalità delle fonti proposte. Un modo plausibile di affrontare lo studio della città, un
gene costitutivo di interpretazione del tema, che per la sua complessità richiede di
spaziare liberamente in molteplici ambiti di studio.
Il percorso si snoda dal tardo medioevo alla piena contemporaneità, con una
casistica che ripropone, in contesti e in formule diverse, meccanismi di stretto colloquio fra istituzioni e territorio, fra ceti dominanti e realizzazioni urbane, fra vicende
familiari e realtà costruita. Sono evidenti gli intrecci fra competenze diverse, volti a
mettere in luce le onde lunghe dell’economia che guidano la gestione del territorio
e ne provocano le scelte, inducendo cambiamenti nell’aspetto fisico, nelle presenze
architettoniche, nel conseguente corredo di linguaggi e simboli.
L’azione di enti, confraternite, corporazioni, banche, società, industrie, famiglie e imprese coinvolte nello sviluppo urbano costituisce un nodo critico fondamentale, ancora
poco esplorato, nelle vicende della costruzione fisica delle città, non solo italiane. I processi
attraverso i quali è avvenuto il controllo degli spazi e si è attuata la gestione delle modalità
di sviluppo delle città non è, come noto, quasi mai ascrivibile alle istituzioni pubbliche
preposte a tali interventi. Nella prassi edilizia e urbanistica di molte città, la proprietà o
l’acquisizione di vasti patrimoni immobiliari da parte di privati ha rappresentato, infatti,
una storia parallela a quella pubblica, ad essa fortemente intrecciata ma spesso più incisiva
in termini quantitativi e qualitativi. Nel corso della storia il colore dominante dell’affresco
che fuoriesce dalla realtà italiana, nelle sue varie componenti, è costituito dalla predominante presenza dell’azione del privato che muove le pedine dello scacchiere urbano.
Questa interpretazione dei saggi scaturisce con forza e chiarezza da una prospet-
INTRODUZIONE
17
tiva di lettura in cui particolare attenzione è stata posta, dai vari autori, alla ricostruzione dei processi trasformativi della consistenza edilizia di diversi patrimoni immobiliari. A questi si sono aggiunte riflessioni critiche sui modelli comportamentali
in campo immobiliare, sulle prassi costruttive e imprenditoriali, sulle forme e sugli
aspetti figurativi delle architetture.
Lo sfondo delineato suggerisce ulteriori questioni come quelle della costruzione
e/o delle proposte progettuali di nuovi servizi e innovativi modelli abitativi, alternativi a una tradizione consolidata. Essi sono legati talvolta a esperimenti di riforma
sociale talaltra a necessità di riformularne le condizioni in termini di economia e
convenienza, di opportunità e interessi.
Le ricerche che si presentano – alcune concentrate su pochi anni significativi,
altre su tempi di lunga durata – sono articolate in un vasto arco temporale e affrontano tutte il ruolo svolto dai detentori di patrimoni immobiliari nello sviluppo e nella
trasformazione delle città italiane; ruolo interpretato non solo in termini economici o di rendita. I diversi contributi fanno interagire questi ultimi con variabili più
prettamente politico-economiche, politico-sociali, culturali, speculative o di natura
diversa, come quelle assistenziali o rappresentative. Tutto questo rende assai più complesso il quadro di riferimento nel quale inserire la questione, anche in relazione al
gioco delle parti svolto dai singoli attori con altri poteri che hanno agito nelle città.
Città differenti, grandi, medie e piccole del territorio centro-settentrionale italiano sono l’oggetto dei tredici saggi proposti: Napoli, Roma, Torino, Genova,
Alessandria, Terni e Piombino. A queste possiamo aggiungere la città immaginaria
delle Assicurazioni Generali, una città che ne contiene molte altre, estesa com’è in
una più vasta geografia di territori e luoghi. Il volume ha in sé la potenzialità di stabilire confronti fra queste diverse aree geografiche italiane, fra micro-realtà urbane
e metropoli, fra i molteplici attori di un processo trasformativo delle città che non
solo ha innescato elementi determinanti del loro sviluppo fisico, ma anche prototipi
architettonici e sociali ricchi di spunti per costruzioni future.
Cinque parole chiave – negoziazioni, attori, patrimoni immobiliari, rendite, trasformazioni urbane – otto città, più figure presenti in una scena complessa e multidisciplinare che intreccia protagonisti, personaggi di secondo piano, comparse e ruoli
di apparente passività, oltre che fattori di natura extraeconomica. Tante piccole tessere da ricomporre in un mosaico unitario. Problema di non facile soluzione, poiché
le figure di cui si parla non sempre sono tra loro congruenti: confraternite, proprietà
fondiarie, artigiani, famiglie nobiliari, nel caso di Roma; corporazioni a Napoli; una
magistratura legata a dinastie cittadine, nel caso genovese; industrie di Stato, a Terni
e Piombino; una società di assicurazioni, a Torino; un’impresa privata, ad Alessandria
e un istituto finanziario per la città immaginaria di origine triestina.
Attori diversi per ruolo istituzionale, tempi difformi, storie e realtà urbane che
non sempre risultano omogenee: diversità che comportano conseguenze apparente-
18
ROBERTA MORELLI - MARIA LUISA NERI
mente poco confrontabili, non solo in termini di rendita ma anche in quelli più specifici della configurazione delle trasformazioni fisiche delle città. Motivi e forme delle
diverse strategie d’investimento, come della gestione del patrimonio immobiliare,
sono comunque uniti da una stessa capacità: quella che dimostrano i diversi attori di
sapersi inserire nelle maglie di un’endemica fragilità di governo delle amministrazioni
locali. Una debolezza che ha consentito loro di proporsi sotto molteplici maschere.
A Roma, la maschera è nel perpetuo dialogo tra città laica e centro religioso,
e assume connotati particolari in relazione al flusso disomogeneo degli andamenti
demografici e alla continuità nel suo ruolo di polo attrattivo. A Napoli si evidenzia
la maschera della capacità innovativa di una capitale europea di antico regime in
costante trasformazione; a Genova assume le vesti della camera di compensazione
per sottrarre i beni all’erario pubblico; a Piombino e Terni, dove fa proprio anche il
controllo dei suoli nella crescita urbana, è capace di polarizzare un confronto diretto
con le amministrazioni locali. A Torino applica intenti più rappresentativi, in un
forte intreccio fra rendita, forma e linguaggio; ad Alessandria, invece, ha la forma
di un sostanziale equilibrio fra città, impresa e progettisti di valore, che consente di
realizzare opere pubbliche e assistenziali di grado elevato, mentre più complessa è la
vicenda della Città delle Generali, per la quale il capitale finanziario sembra essere
usato come elemento coesivo della classe borghese.
Logiche assistenziali, tornaconti aziendali, procedimenti amministrativi, prassi
operative consolidate, molteplici interessi economici, incapacità delle amministrazioni comunali: tutte questioni che sostengono il legame fra negoziazioni e attori,
fra patrimoni immobiliari, rendite e trasformazioni urbane. È evidente che, pur nelle
molteplici vicende che hanno connotato i singoli insediamenti urbani, gli enti, gli
istituti o le singole figure hanno tutti costituito un efficace volano per innescare, e
spesso per condurre da protagonisti, la trasformazione delle città.
Alla luce di tutto questo, non si può non aderire ad un alto richiamo che ci viene
da uno dei primi studiosi di storia urbana – Alberto Caracciolo – che nella celebre
introduzione al volume collettaneo Dalla città industriale alla città del capitalismo
(1975) poneva un memento che suona ancora oggi di grande attualità: «Il rischio
maggiore è quello di costruire una specie di storia su misura, in cui il fenomeno urbano viene quasi isolato e studiato per se stesso, senza relazione col mutare delle condizioni generali dello sviluppo storico e con le varie formazioni economico-sociali».
Roberta Morelli - Maria Luisa Neri
1
Il Congresso AISU si è tenuto a Roma il 24-26 giugno 2004 nell’Università Roma Tre, Aula Magna Rettorato - Facoltà di Economia.
CONFRATERNITE E RENDITA URBANA: IL SAN SALVATORE E IL
GONFALONE DI ROMA TRA XV E PRIMO XVI SECOLO*
Il risveglio del mercato immobiliare urbano nel primo Quattrocento: note introduttive
All’inizio del XV secolo, il tessuto urbano di Roma era caratterizzato da alcuni nuclei
urbanizzati, disposti in maniera discontinua all’interno dell’ampio circuito murario, e
da silenziose lande disabitate segnate da rovine architettoniche, memoria degli antichi
fasti. «Sembra che nei luoghi più popolosi manchi la salute alla gente. Ciò accade tanto
a Campo de’ Fiori che al Campidoglio, entrambi grandi quartieri, ma anche in Piazza
Giudea che è un grande borgo. Il resto della città è costituito da case sparse»1 osservava
lo spagnolo Pero Tafur negli anni Trenta del secolo. Questa descrizione rifletteva una
situazione cristallizzata da tempo2, ma alcuni superstiti documenti dell’epoca lasciano
trapelare, al contrario, un certo movimento di popolazione e di capitali interno all’abitato, effetto di un nuovo modo di rapportarsi con lo spazio urbano.
I primi impulsi per una messa in valore delle aree intramurali vennero da alcuni
dinamici istituti religiosi. Lo evidenziano alcune ben note transazioni: nel 1423 la
chiesa di S. Maria Nova, tra i principali attori dell’urbanizzazione duecentesca3, intuendo il valore degli investimenti urbani, decise di permutare con la nobile famiglia
Astalli, ancora fortemente proiettata verso la campagna, la metà di un casale con
tre case nel rione Ponte; ad una decisione analoga pervenne nel 1425 il capitolo di
S. Giovanni che investì 2500 fiorini4, frutto della vendita di una parte del casale di
Frascati, nell’acquisto di alcune case nei rioni Parione e Arenula5. I due enti avevano
adottato una strategia moderna e rivoluzionaria per due ordini di motivi: 1) il fatto
di aver indirizzato i propri investimenti non più verso la campagna ma verso lo spazio
urbano; 2) la novità di aver selezionato, in anticipo rispetto alla creazione della nuova
città rinascimentale, i luoghi migliori dove investire: i rioni del commercio e della
finanza (Ponte, Parione e Arenula). Una altrettanto scrupolosa attenzione alle sollecitazioni offerte dal mercato degli immobili urbani dimostrarono le confraternite e gli
ospedali6 cittadini, nelle cui fila sono presenti alcuni di quei mercanti-bovattieri che
nel corso del Trecento si erano distinti tra gli elementi più attivi del sistema economico locale7. Se in un primo momento alcuni di questi enti si limitarono ad operare
un numero crescente di investimenti nelle contrade cittadine, con il procedere del
Quattrocento, essi predisposero una lenta ma progressiva scelta dei rioni verso cui
20
SILVIA DIONISI
destinare le risorse. All’epoca del visitatore spagnolo l’entità di queste trasformazioni
non aveva ancora adeguata visibilità, ma nel corso del cinquantennio successivo,
grazie al crescente moto di migrazione interna, in senso prima centripeto poi centrifugo, e all’aumento della popolazione e della domanda di alloggio nelle contrade
centrali, lo spazio intra muros poteva essere rappresentato con una serie di cerchi concentrici, progressivamente meno popolati procedendo dal centro verso la periferia8.
L’intensificarsi di tali operazioni giunse a disegnare uno squilibrio zonale che fu la
causa dello sviluppo di alcune aree e dell’arretratezza di altre.
Alla fine del XV secolo la gerarchia rionale risultava così composta: i rioni Monti,
Trevi, Campitelli, Ripa e Trastevere (il primo e l’ultimo con delle eccezioni)9 conservarono una fisionomia tradizionale nella conformazione degli edifici, nella distribuzione degli assi viari, così come nei valori demografici e nell’assetto sociale; i rioni
Campomarzio, Colonna, Pigna, Sant’Eustachio e S. Angelo si configurarono come
zone di transizione con forte possibilità di sviluppo per l’immediata vicinanza dei
rioni Ponte, Parione e Arenula, i principali poli commerciali10 e politico-amministrativi, ove si concentrarono le aspettative di rendita di vecchi e nuovi ricchi. Altri
due risultati vanno considerati a corollario del modello gerarchico ipotizzato: 1) la
distinzione tra la Roma dei proprietari e quella degli affittuari; 2) la netta separazione
tra la città dei romani e quella degli stranieri benestanti. Nei rioni più prossimi alle
mura gli immobili erano ceduti in affitto a condizioni ancora vantaggiose, ma erano
troppo distanti dal cuore degli affari cittadini e pertanto poco attraenti per la maggioranza dei potenziali affittuari; al contrario, proprio in considerazione della loro
centralità, le unità immobiliari dell’ansa del Tevere erano immesse in un circuito di
transazioni di alto livello. Abitare nei rioni centrali dovette essere piuttosto funzionale per quel variegato gruppo di immigrati che andò ad accrescere la popolazione
di Roma di metà Quattrocento: segnatamente quei funzionari curiali, diplomatici e
uomini di legge, operatori economici e finanziari di alto profilo che erano in grado
di sostenere la domanda di immobili di pregio, di unità abitative da acquistare11 o
abitare limitatamente al periodo di permanenza. Diversamente, la gran parte della
popolazione locale, o dei forenses divenuti stanziali12, si preoccupò di possedere almeno un immobile in città, centrale o periferico a seconda degli interessi particolari e
delle reali possibilità d’acquisto13.
In questo contesto l’offerta di case in affitto si andò strutturando e potenziando, in
risposta alla domanda di alloggio sempre più pressante e alle velleità di arricchimento
dei singoli proprietari che, attraverso un progressivo affinamento delle condizioni
contrattuali (tipico il passaggio dai contratti di lunga durata, a basso costo, a quelli
di breve durata, di maggior valore), furono in grado di accrescere progressivamente il margine di rendita. Tale fenomeno si intensificò intorno agli anni Novanta del
Quattrocento; la densità del costruito nelle aree centrali della città impose ai proprietari, di immobili e di suoli liberi, di optare per soluzioni ancora più innovative. Bisognava
CONFRATERNITE E RENDITA URBANA
21
espandersi altrove, innalzare gli edifici che insistevano sulle strutture preesistenti, oppure valorizzare il costruito e quindi ristrutturare, frazionare, ripensare gli spazi interni14.
I proprietari si adoperarono da un lato nella creazione di strutture sempre più adeguate
a una domanda di alloggio fortemente diversificata, dall’altro nella conquista di aree
vieppiù marginali, da inserire nella fascia urbana a più alta aspettativa di rendita15. Le
conseguenze principali furono: 1) una verticalizzazione del costruito, il «passaggio dal
blocco monofamiliare all’appartamento»16, l’accettazione del subaffitto17; 2) la messa
in valore degli spazi semiperiferici con la costruzione di nuovi edifici nell’anello immediatamente circostante il saturo centro cittadino, in linea con le campagne edilizie
pubbliche. Tale situazione si consolida in apertura del nuovo secolo.
* * *
La storiografia tradizionale ha rivolto scarsa attenzione alle dinamiche del
mercato immobiliare romano di quegli anni; maggiore interesse ha suscitato il
dibattito sulla trasformazione edilizia della città, sull’apertura dei grandi cantieri rinascimentali (dibattito animato soprattutto dagli storici dell’architettura)18;
è stata data voce alla legislazione in materia edilizia e di decoro urbano nonché
all’organizzazione ottimale dello spazio intramuraneo funzionale all’esercizio di
attività produttive o all’affermazione ideologica dei gruppi sociali più influenti e
delle nationes ospiti. Solo a titolo di sondaggio, e per periodi limitati, sono apparse
notazioni sul mercato delle compravendite e sull’andamento degli affitti.
Per l’età medievale rimangono esemplari le analisi di Étienne Hubert sui patrimoni ecclesistici; sollecitano riflessioni accurate gli interrogativi di Jean-Claude
Maire Viguer così come le ricerche di Robert Montel a margine degli studi sui casali romani19. Si riconosce a Luciano Palermo il merito di aver fornito delle coordinate teoriche per affrontare la questione immobiliare: individuando una gerarchia
di valori nello spazio urbano, egli enuclea i principi essenziali per la formazione
della rendita cittadina20. Sono generalmente più numerosi gli studi per la piena
età moderna, ove la documentazione si arricchisce quantitativamente e qualitativamente. Manuel Vaquero Piñeiro ha compiutamente realizzato la prima monografia dedicata alle strategie immobiliari urbane, studiando il ricco archivio del S.
Giacomo degli Spagnoli nel Cinquecento21; ma la documentazione superstite negli
archivi romani spinge in qualche caso a retrodatare sino al Quattrocento la presa
di coscienza da parte dei romani del valore della rendita immobiliare, fenomeno
anticipato dal clima di fiducia che la città tornò a vivere in seguito al rientro della
curia pontificia da Avignone.
Le prime tappe di tale processo trovano eco, per esempio, nel vissuto di due
compagnie laicali, il S. Salvatore ad Sancta Sanctorum e il Gonfalone, che insieme
ad alcuni enti religiosi proposero un nuovo modo di concepire e sfruttare lo spazio
e gli edifici cittadini.
22
SILVIA DIONISI
Confraternite e rendita urbana: le fonti
Il San Salvatore ad Sancta Sanctorum e il Gonfalone si imposero nella Roma tardo
medievale – ciascuno con le proprie caratteristiche – come grandi proprietari di immobili, in grado addirittura di prevedere i diversi spostamenti del baricentro cittadino. I
due enti, per composizione sociale, possono considerarsi piuttosto rappresentativi della
diffusa volontà dei romani abbienti di potenziare il mercato degli immobili urbani: al
loro interno, infatti, al di là delle mere motivazioni devozionali e assistenziali, erano
espressi gli interessi politico-economici di gran parte della società civile.
Se la classe dirigente municipale si confondeva tra gli immatricolati del San Salvatore,
il nuovo dinamico ceto artigianale22, anche di recente immigrazione, rappresentava la percentuale più ampia degli iscritti al Gonfalone23. Grazie alle ricche beneficenze di cui erano
state sempre destinatarie, alle offerte pro anima e alle attente campagne di compravendita
operate tra la fine del Trecento e il primo Quattrocento, le confraternite si trovarono ad
essere proprietarie di un gran numero di unità immobiliari, dell’ordine di almeno un
centinaio di unità. Tali istituzioni dimostrarono inoltre una notevole abilità nella messa a
punto di efficienti uffici camerali, finalizzati alla gestione e al controllo dei movimenti di
denaro in entrata ed uscita, capaci di produrre strumenti amministrativi progressivamente perfezionati, atti alla continua verifica della gestione finanziaria (dai primi inventari
finalizzati alla visualizzazione quantitativa dei possedimenti ai libri catastali, ai libri di
entrata e uscita, ai libri mastri)24. Per poter constatare il valore acquisito dalla rendita
immobiliare urbana per i due enti è necessario spingersi fino al primo Quattrocento; la
crescente mole documentaria, di natura seriale, di quegli anni consente un approccio
sistematico alla questione, indispensabile per un analisi di lungo periodo25.
L’archivio del San Salvatore conserva documentazione catastale dal 1410 fino alla
metà del XVI secolo, con iati temporali compresi tra i cinque e i dieci anni. L’apparente
discontinuità della documentazione non deve apparire come limite: i registri venivano
puntualmente aggiornati e un sistema di rimandi interni consentiva di non perdere
di vista alcun immobile; inoltre, le lacune cronologiche vengono in parte sanate con i
protocolli notarili dei contratti di compravendita e di locazione e con le deliberazioni
societarie, che forniscono preziosi dettagli anche sulle motivazioni che condussero alle
scelte patrimoniali dei primi anni del Quattrocento e che talvolta trovano riscontro nei
sintetici registri di contabilità. Con l’inizio del XVI secolo, quando la documentazione
contabile si infittisce, diventa più facile sia avere una visione d’insieme dell’assetto patrimoniale nella sua globalità, sia ripercorrere la ‘storia’ di ogni singolo immobile.
L’archivio del Gonfalone fornisce documentazione seriale più tarda rispetto alla precedente; la maggior parte di essa è disponibile dagli anni Cinquanta del XV secolo e
si moltiplica in seguito alla fusione delle sei confraternite (1486) che diedero vita alla
societas di fine Quattrocento. Anche se le fonti assumono importanza seriale soltanto
dalla fine degli anni Ottanta, la natura della documentazione evidenzia immediatamente il funzionamento di un settore contabile molto ben organizzato e razionale, pro-
CONFRATERNITE E RENDITA URBANA
23
va del valore attribuito alla gestione dei propri beni e del proprio capitale e testimonianza della crescente consapevolezza dei proprietari del valore da attribuire al bene-casa.
L’arciconfraternita aveva beneficiato delle singole esperienze maturate da ogni gruppo
associato e le aveva rielaborate in maniera compiuta. Nello statuto del 1495 gli obiettivi
del gruppo dirigente appaiono chiaramente esplicitati: «Volendo con ogni diligentia
non solo mantenere ma etiam augumentare le entrate della nostra compagnia […]
per bono governo di tutte nostre entrate e robe», si stabilì che i possedimenti fossero
enumerati secondo un rigoroso ordinamento «per alphabeto et numeri o regioni»26.
D’altra parte, le due serie di libri di introitus et exitus, da una parte, e di libri catastali,
dall’altra, rivelano dalla fine degli anni Ottanta una perfetta corrispondenza cronologica, che prosegue ininterrottamente fino al 1530 e oltre. Anche nel caso del Gonfalone
gli strumenti notarili intervengono a chiarire l’atteggiamento societario nei primi anni
di attività e ad integrare i dati della documentazione contabile.
L’evidente sfasamento temporale fra i due archivi confraternali costituisce un limite apparente allo svolgimento dell’analisi. Il dispiegarsi delle fonti contribuisce a delineare l’andamento del mercato immobiliare tra il primo ventennio del Quattrocento
e il primo trentennio del Cinquecento, oscillante tra antiche abitudini e nuovi obiettivi; al tempo stesso le fonti consentono di visualizzare sia le condizioni della realtà
materiale cittadina sia il suo dinamismo interno, e di testare l’attenzione prestata alla
realtà extraurbana. In questa ottica si è rivelato piuttosto utile ampliare l’indagine
ai due anni successivi al sacco di Roma del 1527; nei registri contabili, ove trovano
posto anche le amare considerazioni degli ufficiali della compagnia, si percepisce il
disastro subito dalla città, che trova immediato riflesso nel crollo congiunturale del
livello di rendita. È elemento comune la riduzione drastica degli affitti (1527-1528)
e la vendita di numerose unità immobiliari (dal 1529).
Strategie patrimoniali a confronto
Entrambe le confraternite contribuirono attivamente alla strutturazione del mercato immobiliare urbano quattrocentesco e all’euforia edilizia del primo Cinquecento.
Il San Salvatore rappresenta in maniera stringente l’approccio della vecchia classe dirigente locale alla questione immobiliare. Nel lungo periodo si coglie il passaggio da
un istituto volto a fornire accoglienza e assistenza fisica e morale alle categorie più deboli, poste sotto l’egida del gruppo dirigente municipale romano, a uno dei più ricchi
e dinamici enti cittadini, impegnato su più fronti, politicamente influente. Rispetto
ad un patrimonio immobiliare originario disposto in ordine sparso entro tutta l’area
urbanizzata, frutto del forte legame ideologico intessuto con la città, procedendo
nel corso del Quattrocento la societas si affermò soprattutto nei rioni Monti, Ponte e
Parione, privilegiando da un lato l’area prossima al suo centro operativo e all’ospedale maggiore in Laterano, dall’altro rafforzandosi nella zona dell’ansa del Tevere. Tale
consolidamento divenne ancora più evidente sul finire del secolo. Come principale
24
SILVIA DIONISI
referente delle alte schiere ecclesiastiche, il San Salvatore, senza spezzare il vincolo
con la tradizione locale, fu in grado di rinnovarsi e di aprirsi alle esigenze della nuova
Roma. Cardinali, vescovi, ambasciatori, letterati, uomini di legge si rivolgevano alla
nota compagnia, per trovare alloggio negli ambiti rioni centrali, nei pressi dei palazzi
pontifici, o nelle nascenti aree residenziali di Campo Marzio e Colonna. Dimore
cardinalizie, fondachi, oltre a taverne e locande, creavano aspettative di rendita decisamente superiori rispetto alla media, dell’ordine di qualche centinaio di ducati
annui. Non era azzardato pertanto vendere gli immobili meno fruttuosi per investire
sulla qualità e la funzionalità degli edifici di pregio. Il flusso ininterrotto di donativi e
lasciti testamentari giungeva a sostenere tali manovre e a fornire capitale sufficiente da
destinare anche al mercato extraurbano. Nella diversificazione degli investimenti tra
ricche dimore, sedi finanziarie e casali extraurbani, il San Salvatore si distingue come
ente centrale/periferico esemplare, rappresentativo di quei gruppi economici in grado
di fronteggiare l’avanzare della modernità.
Il Gonfalone, rimasto a margine delle dinamiche politiche cittadine, si dimostrò
più innovativo nella definizione della propria strategia immobiliare: in linea con le
esigenze interne e con gli obiettivi di arricchimento già ricordati, la nuova societas indirizzò immediatamente i suoi interessi immobiliari nei rioni Ponte, Parione
e Arenula, potenziando nel contempo l’influenza degli originari insediamenti ospedalieri nei rioni Colonna e Trastevere, in vista di un ulteriore espansione del centro
cittadino. A differenza del San Salvatore, che con gli anni limitò i diritti di immatricolazione, il Gonfalone si aprì a tutti gli immigrati: agli artigiani e ai professionisti
chiamati a prestare la loro opera nelle sue fabricae religiose e nella manutenzione
degli edifici in possesso della compagnia, che ricevevano in cambio il diritto d’alloggio nel cuore della città commerciale; ai dotti umanisti e agli uomini di lettere, il cui
sodalizio con la societas ampliava il consenso intorno alle attività promosse dai suoi
membri. Le diverse anime confluite nella compagnia erano rimaste estranee alla corsa
verso i casali extraurbani, pertanto disegnarono un organismo prettamente cittadino
che lavorava nella città e per la città, che si procurava i beni primari attraverso normali vie di rifornimento o puntando ad un rapporto privilegiato con alcuni operatori
commerciali. Un discorso analogo valeva per i beni non agricoli; il continuo dialogo
intessuto con alcune categorie di produttori artigianali rendeva abbastanza agevole
ed immediato il processo di acquisizione dei prodotti. Macellai, fornai, tavernieri contribuirono più di altri al consolidamento delle ricchezze societarie; muratori,
falegnami, sarti e calzolai garantivano continuità nella manutenzione del parco immobiliare, nella fornitura di suppellettili e accessori alle strutture ospedaliere; speziali
e orefici garantivano il diritto di poter usufruire in qualsiasi momento di denaro
contante. Questa vocazione tutta cittadina si tradusse nell’intenso impegno profuso
nell’organizzazione delle grandi manifestazioni cittadine e si concretizzò nel privilegiare gli investimenti nelle affollate aree centrali. Societas rappresentativa della forza
CONFRATERNITE E RENDITA URBANA
25
lavoro operante a Roma, il Gonfalone investì gran parte delle sue risorse sugli immobili destinati all’accoglienza e all’approvvigionamento alimentare, ceduti a prezzi di
favore o riscattabili dietro prestazione d’opera.
La gestione del comparto immobiliare nei rioni centrali e nei rioni periferici: alcuni esempi
Nel lungo periodo, pur nella diversità degli obiettivi, le curve della rendita immobiliare urbana che rappresentano le strategie di locazione delle due confraternite
sono assimilabili tra loro. Tali curve riflettono d’altra parte l’andamento del sistema
economico cittadino, registrando un’accelerazione del processo espansivo tra gli anni
Sessanta del XV secolo fino al primo quindicennio del successivo, nonostante alcune
cadute congiunturali, per attestarsi in una condizione di stabilità verso gli anni Venti
del Cinquecento. Analogamente nel mercato immobiliare, dopo una fase segnata
dalla rapida crescita nel numero e nel valore delle compravendite27, corrispondente
alla presa di coscienza dell’importanza degli investimenti urbani, intorno agli anni
Settanta-Ottanta si verifica una corsa agli affitti che ha il suo apice tra il decennio
Novanta e il primo quindicennio del Cinquecento, quando si assiste ad un consistente aumento del saggio di rendita. Negli anni Venti si registra una stasi, un momento
di stanchezza del mercato. Giunge il sacco di Roma a dimezzare la popolazione (si
passa dai 60.000 ai 30.000 abitanti in meno di cinquanta anni), a frenare il processo
espansivo già rallentato e a creare i presupposti per una successiva risalita dei valori.
Già in apertura del Quattrocento il San Salvatore dimostrò di avere una discreta
consapevolezza delle potenzialità insite nel patrimonio immobiliare urbano. Negli
anni Dieci del secolo la società dichiarava di possedere 70 su 170 immobili nei rioni
dell’ansa del Tevere dove si potevano trovare laboratori artigianali e postazioni commerciali28. Seguendo l’andamento della rendita urbana nel rione Ponte si possono
leggere al meglio i risultati di tali investimenti (v. grafico 1).
Sin dal primo Quattrocento la societas richiedeva affitti significativi per le botteghe e i banchi siti al pianterreno degli edifici del rione Ponte, in special modo per
quelli della testata di Ponte e prospicienti il fiume. In un trentennio i dirigenti misero
in atto un progetto specifico di insediamento nelle aree suscettibili di espansione in
considerazione della vicinanza con il polo Vaticano. Tra gli anni Trenta e Quaranta
circa 1/3 degli immobili societari si concentrava in quelle contrade; l’incertezza politica e il persistente stato di abbandono di alcune aree mantenevano su livelli contenuti i prezzi d’affitto del rione, ma sempre in evidenza rispetto al resto della città.
D’altra parte il rione Ponte comprendeva la zona desolata di Borgo – ultra pontem29
– che incideva negativamente sulle entrate globali che pervenivano dagli immobili
di zona. Già dagli inizi del secolo, tuttavia, il San Salvatore poteva vantare una serie
di edifici che erano garanzia di entrate cospicue; in particolare il complesso di Tor di
Nona: una «domus sive turrim cum orto et claustro»30 sita «in platea Castelli», donata da Giovanni Orsini nel 1395 e da allora affittata alla Camera Apostolica – per
26
SILVIA DIONISI
farne la «prigione del Papa» (prigione apostolica) – per 24 ducati annui31. La quarta
parte del fondaco – il «maior fundicus» di Ponte32 – e del banco ad essa annesso,
affittata al fiorentino Guidetto de Monaldis, sita di fronte al canale di S. Pietro, e condivisa con la basilica di S. Pietro e con gli eredi di Blasio de Calvis, nel 1435 fruttava
25 ducati d’oro a ciascun proprietario.
Grafico 1 - Introiti degli immobili ceduti in locazione dal San Salvatore e dal Gonfalone nel rione
Ponte (1435-1525)
2000
1800
Affitti in ducati
1600
San Salvatore
1400
1200
100
800
Gonfalone
600
400
200
0
1435
1452 1475
1485
1495 1505
500
Anni
1509
1513
1517 1525
L’affitto rimase invariato fino agli anni Cinquanta33 per il banchiere fiorentino
Antonio della Casa che dal 1438 ne aveva fatto la sede del banco omonimo, dopo aver
gestito per tre anni la filiale romana del Banco Medici34. Al pianterreno di questo stabile altri locali erano affittati ad artigiani toscani (calzolai, pellicciai, sarti) dapprima
per 6 ducati annui35, poi per 20 ducati. Al passaggio dagli anni Cinquanta e Sessanta
l’affitto dello stabile tenuto dai della Casa aumentò del 50%36. Rispetto alle attese,
motivate anche dall’indizione del giubileo del 1475, il livello di crescita negli anni
Settanta fu contenuto. Il rione risentì fortemente della campagna di risanamento della testata di Ponte avviata da Sisto IV nel periodo 1475-1480. Passato il giubileo, il
dissesto causato dai cantieri aperti determinò un’immediata caduta dei prezzi, tanto
che nel 1480 i dirigenti della società lamentavano la «penuria temporum»37, aggravata dalla dispersione delle risorse per lo sgombero delle strade e la regolarizzazione
degli edifici, oneri spettanti ai proprietari frontisti, insieme con le ordinarie spese di
manutenzione edilizia. Nel 1482 una bottega rimase sfitta «propter reparationem in
eam factam de mandato magistrorum»38. Passato questo periodo il rione assunse una
fisionomia degna di una città capitale. L’assetto delle strade del grande commercio
e della finanza venne reso più funzionale rispetto alle esigenze dei palazzi apostolici.
Liberata la testata di Ponte dal tradizionale affollamento di botteghe e banchi che ne
ostacolavano la viabilità, i nuovi fondachi e botteghe potevano aprirsi direttamente
sul fiume. I frazionamenti e gli accorpamenti di più particelle all’interno delle unità
CONFRATERNITE E RENDITA URBANA
27
immobiliari ne migliorarono l’abitabilità, giustificandone l’aumento del valore di
mercato. Esemplare è la vicenda della «domus dello Lione», sita nei pressi di Tor di
Nona, per metà appartenente alla compagnia del Salvatore e adattata ad osteria39.
La bresciana Cecilia e Cozone suo marito, affittuari tra il 1481 e il primo semestre
del 1489, pagavano 13 ducati annui, ma già dal secondo semestre di quell’anno il
nuovo conduttore, Giovanni di Napoli, tornò a pagare gli originari 30 ducati, con
la promessa di versarne altri 100 per le spese di manutenzione ordinaria40. Nel 1491
per affittare l’osteria servivano ormai 40 ducati annui, nonostante si trattasse di un
contratto di lunga durata, che di norma prevedeva una contrazione del prezzo pari
almeno al 20% rispetto ai contratti a breve termine. La stessa Camera Apostolica
arrivò a versare 34 ducati annui per il complesso di Tor di Nona. Negli anni Novanta
il livello della rendita crebbe ovunque a ritmo ininterrotto; anche le botteghe della
via Retta di Ponte passarono da 22 a 32 ducati41nel giro di due anni42 (1491-1493).
Procedendo verso il Cinquecento la zona rafforzò il suo carattere finanziario: andati via
i della Casa ed effettuate ulteriori modifiche strutturali, nel 1508 il fondaco «posto tra
due strade una che va alla Cancelleria e l’altra a Monte Giordano» venne affittato alla
società formata da Arrigo Foccari e compagni «zecchieri». Costoro non erano altro che
i banchieri Fugger di Augusta che per il primo piano dell’immobile dove dal 1505 «se
fa la zecca»43 pagavano 56 ducati annui. Il momento critico coincise con gli anni Venti
del secolo: nel 1523 messer Angelo Sauli, banchiere genovese, garantì una rivalutazione
dell’edificio della Zecca offrendo 62 ducati e mezzo annui per un quindicennio44. Per
alcune case lungo le vie Retta, Panico e Tor Sanguigna alcune cortigiane arrivarono a
pagare tra 50 e 80 ducati annui, a seconda delle dimensioni e della tipologia dell’immobile45. Il cardinale de’ Grassi, uditore del tribunale della Sacra Rota, abitante in uno
dei nuovi palazzi di pregio costruiti al margine settentrionale del rione Ponte, al confine
con Campomarzio e Colonna, pagava 1000 ducati annui46. Questi risultati furono la
prova del successo della strategia della societas del S. Salvatore: riduzione della quantità
degli immobili di proprietà a vantaggio di una migliore cura delle dimore residenziali e
della possibilità di costruire nelle aree di nuova espansione.
Il Gonfalone si insediò nel rione Ponte qualche anno più tardi rispetto al S. Salvatore
e godette immediatamente del risanamento sistino, conquistando quasi il monopolio
delle taverne e delle osterie della zona. Una «casa acta ad taverna con contina, porticale e
solaro» sita in contrada Panico fruttava 24 ducati già nel 1486, nel 1502 venne affittata
a Bartolomeo alias Celluzzo «tavernaro» per 25 ducati47, a condizione che vi realizzasse
le dovute riparazioni e un pozzo entro tre anni48; mediamente, le taverne e i macelli siti
sulla stessa strada valevano 20 ducati annui. Ancora prima del Salvatore, il Gonfalone
indirizzò la sua attenzione a Tor Sanguigna, verso il lato settentrionale di piazza Navona.
Una domus a più piani sita presso il Bagno di S. Apollinare, nonostante il costo ancora
contenuto, passò dai 4 ducati annui pagati da donna Sabella nel 1487 ai 10 richiesti a
donna Brigida di Matteo barbiere nel 1491, con contratto alla terza generazione49. Era
28
SILVIA DIONISI
sicuramente un prezzo di favore quello fatto ad Antonio, muratore fiorentino, che per
una casa a Tor Sanguigna pagava 8 ducati annui, passati a 27 nel 1509, parallelamente
alla valorizzazione dell’area. Il Cinquecento coincise con una vera e propria ‘euforia’ del
mercato dei locali commerciali in rione Ponte. Nel 1514, un macello con casa attigua e
«con un pezzo de scoperto de reto» in Panico venne ceduto per 65 ducati annui a due
fratelli viterbesi, che affittarono per 21 ducati anche una casa e una stalla adiacente50.
Con i lavori cinquecenteschi e la conquista delle aree semicentrali si enfatizzarono
le già evidenti differenze con i rioni marginali (diversa densità di popolazione, diverse
condizioni contrattuali, differenti aspettative di rendita, differenti tipologie di edificio);
la situazione si riflette sul livello della rendita relativa al rione Ripa (v. grafico 2), il cui
gettito totale si distanzia in maniera decisa da quello del rione Ponte.
Grafico 2 - Introiti degli immobili ceduti in locazione dal San Salvatore e dal Gonfalone nel rione
Ripa (1435-1525)
80
Affitti in ducati
70
60
San Salvatore
50
40
Gonfalone
30
20
10
0
1435 1452
1475
1485
1495 1505
1500
Anni
1509
1515
1517 1525
Rispetto al 1435 quando la società del San Salvatore possedeva 12 immobili in
rione Ripa, soprattutto spazi adibiti a macello e centri di ospitalità, all’inizio del
Cinquecento ne rimasero 2. La riduzione del parco immobiliare in zona si giustifica
con la posizione periferica di quegli edifici rispetto al centro cittadino. All’inizio
del Quattrocento l’identità rionale era dettata dalla posizione più defilata rispetto al
nucleo abitato ma in stretto contatto con il fiume e con il mercato del Campidoglio.
Divenuta luogo per eccellenza della lavorazione e della conservazione di prodotti
alimentari, questa parte della città consentì al San Salvatore di garantirsi la propria
autosufficienza. Nei macelli in particolare si concludeva il processo produttivo iniziato nei numerosi casali extraurbani di cui la società era proprietaria. Negli anni
Trenta la «domus seu macellum cum grypta», collocata nel macello grande di Ripa,
e l’hospitium nei pressi erano affittati per un costo addirittura superiore agli edifici
del centro51, fino alla vendita avvenuta nel 145952. Con lo spostamento del mercato
29
CONFRATERNITE E RENDITA URBANA
in piazza Navona (1477), quell’area rimase più isolata ed enfatizzò la sua posizione
periferica compromettendo il suo valore di mercato. Il caso del rione Ripa può in
qualche modo esemplificare il mutamento di prospettiva nelle strategie patrimoniali
del San Salvatore: da un iniziale legame con la campagna, la società sposta il suo
baricentro verso le contrade centrali spezzando temporaneamente il vincolo con le
strutture produttive più tradizionali.
Il Gonfalone ereditò dall’ospedale e dalla chiesa dell’Annunziata della via Oratoria,
il più periferico complesso confluito nell’arciconfraternita, i 4 immobili siti nel rione Ripa53. Nel 1457 costavano 8 ducati annui i due pianterreni contigui adibiti a
macello54, che nel 1493 vennero permutati con una casa affittata per 35 carlini (3
ducati e mezzo) a Michele Corso. Per 7 ducati d’oro annui era affittata una domus
adibita a bottega «in quactro capora», che negli anni andò incontro a una riduzione
di prezzo55. Gli investimenti del Gonfalone di fine secolo non toccarono in alcun
modo questa parte della città che agli inizi del Cinquecento iniziò progressivamente
a sparire dai catasti societari.
Grafico 3 - La rendita immobiliare urbana del San Salvatore e del Gonfalone (1480-1529)
Rendita in bolognini
250000
200000
San Salvatore
150000
Gonfalone
100000
50000
0
1480
1485
1490
1495
1500
1505 1510
1515 1520
Anni
1517
1525
1529
Cicli della rendita a confronto
Dal confronto sistematico dei dati delle due compagnie per gli anni 1480-1529
si profila – in breve – la seguente dinamica (v. grafico 3):
1) Dopo una fase espansiva che non conosce soluzione di continuità, l’età di Sisto
IV segna una contrazione negli introiti complessivi del San Salvatore, che si era già
distinto per la fattiva campagna di acquisizione di immobili nel primo Quattrocento;
segue una fase di incertezza che prosegue fino ai primi anni Novanta del XV secolo.
L’arciconfraternita del Gonfalone, all’indomani della sua costituzione, può già contare
sulla messa in valore delle contrade centrali e avvia in questi anni la sua affermazione.
2) Tra i secondi anni Novanta e il primo decennio del Cinquecento i proprietari
in questione beneficiano del rinnovato assetto urbano, ridefinendo spazi, tempi e
modi del mercato delle locazioni: si apre una fase di decollo.
30
SILVIA DIONISI
3) Nel periodo 1509-1523 il mercato subisce un’ulteriore accelerazione ed è contrassegnato da un’euforia che lascia presupporre l’inizio di una fase critica.
4) Il quadro si conclude con una fase di ripiegamento che anticipa e segue il sacco
di Roma del 1527.
Quali erano i vantaggi immediati di tali operazioni immobiliari? Da un approccio più analitico ai documenti emerge che la rendita delle due confraternite non
si immobilizzava; entrambe utilizzavano le risorse in primo luogo per il mantenimento delle rispettive strutture e per l’esercizio delle attività assistenziali ed ospedaliere. L’incremento degli interventi di natura sociale contribuiva d’altra parte a
tenere alto il livello dei finanziamenti e delle donazioni, permettendo una rapida
circolazione di denaro e il mantenimento in attivo delle casse societarie. Questo
meccanismo positivo si traduceva in un circolo virtuoso che coinvolgeva l’intera società cittadina ed equivaleva alla promozione generalizzata dello sviluppo urbano. Se
il Gonfalone investiva i propri proventi in attività sociali di ampia risonanza e nell’organizzazione di grandi manifestazioni devozionali che avevano ampia eco all’interno
della città (la maggior parte delle voci di spesa si riferisce all’organizzazione delle sacre
rappresentazioni al Colosseo), anche il San Salvatore si distingueva per forza associativa
e capacità organizzativa pur rimanendo legato ai possedimenti rurali, fonte primaria di
sostentamento per la compagnia e per il suo ospedale. Entrambe le confraternite convogliavano la rimanente percentuale delle risorse a sostegno del patrimonio immobiliare, investendo laddove ci si aspettava di ricavare introiti con più facilità, provvedendo
ad alienare, al contrario, i beni meno redditizi.
I casi esaminati non pretendono di avere valore generale e di assurgere a modelli, ma possono valere come termine di confronto all’interno di una ampia casistica
di situazioni da esaminare. In generale, tutti gli istituti religiosi e le solidarietà laicali si distinsero per l’entità del patrimonio immobiliare, e uno studio dettagliato
della loro contabilità interna può costituire un punto di partenza essenziale per
la ricostruzione del variegato assetto urbano e per fare luce sulla complessa realtà
della Roma del primo Rinascimento.
Silvia Dionisi
* Il lavoro propone parte dei risultati della tesi di dottorato in Storia e Teoria dello Sviluppo
Economico, discussa il 19 marzo 2003, presso la facoltà di Economia della LUISS di Roma, dal titolo:
Sviluppo economico e rendita urbana. Il caso delle confraternite laicali romane del San Salvatore ad Sancta
Sanctorum e del Gonfalone (1410-1529).
1
«Cosa singolare»: Roma nelle Andanças e viajes por diversas partes del mundo avidos di Pero Tafur, in M.
VAQUERO PIÑEIRO, Viaggiatori spagnoli a Roma nel Rinascimento, Bologna, Patron, 2001, pp. 19-49: 35.
2
Sulla Roma tardo medievale, cfr. Alle origini della nuova Roma. Martino V, a cura di M. Chiabò,
CONFRATERNITE E RENDITA URBANA
31
G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri, Roma, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, 1992; Roma
capitale (1447-1527), Atti del Seminario del Centro Internazionale di Studi sulla civiltà del Tardo
Medioevo (San Miniato, 27-31 ottobre 1992) a cura di S. Gensini, Pisa, Pacini Editore, 1994; Roma
medievale, a cura di A. Vauchez, Roma-Bari, Laterza, 2001; Roma del Rinascimento, a cura di A. Pinelli,
Roma-Bari, Laterza, 2001.
3
Sull’urbanizzazione medievale, cfr. É. HUBERT, Espace urbain et habitat à Rome du Xe et à la fin du
XIIIe siècles, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1990.
4
Nel primo Quattrocento il fiorino era l’unità di conto dominante corrispondente a 2,7 libbre di denari provisini, il fiorino di conio corrispondeva a 45, poi a 47 soldi (sin dal 1426). Contemporaneamente
entrò in circolazione il fiorino o ducato d’oro di Camera (100 pezzi per libbra d’oro) valutato ben 50
soldi ideali. Il ducato di Camera era diviso in bolognini romani (divisi a loro volta in 16 denari): 70 fino
al 1447, poi 72 e 75, forse già dal 1475. Si faceva contemporaneamente riferimento a ducati “a 72 bolognini” e “a 75 bolognini”. Nella documentazione consultata dagli anni Novanta del XV secolo i ducati a
72 bolognini erano detti legieri, quelli a 75 erano detti largi. Il ducato papale o ducato corrente (96 pezzi
per libbra) equivalente a 67 poi a 71 bolognini per ducato è meno menzionato nelle fonti esaminate.
Nel primo ventennio del Cinquecento il fiorino valeva circa la metà del ducato; il mercato immobiliare
di maggior pregio assiste all’affermazione del ducato di Camera d’oro in oro, equivalente a 10 carlini
correnti o 10 carlini d’oro in oro. Il carlino corrente era equivalente al grosso, pari a 5 baiocchi (o 5
bolognini), l’altro, detto de papa equivaleva a 7,5 bolognini. Nel 1490 il ducato d’oro di Camera venne
scambiato con 12 carlini e nel 1503 un ducato papale largo valeva 1 ducato leggero e 25 bolognini. Nel
1504 papa Giulio II ripristinò il vecchio rapporto di 1:10, frenando la tendenza inflativa. Da allora il
ducato venne detto scudo e il carlino giulio. Il mercato riconobbe la circolazione una moneta buona
o corrente e una moneta cosiddetta vecchia, nominalmente equivalenti, di fatto con valore intrinseco
leggermente diverso in termini di metallo prezioso. Si ricordano gli importanti repertori: G. GARAMPI,
Saggi di osservazioni sul valore delle antiche monete pontificie, Roma, Pagliarini, 1776; E. MARTINORI, La
moneta, vocabolario generale, Roma, Istituto italiano di Numismatica, 1915. Le rimanenti notazioni si
basano sulla contabilità ordinaria delle confraternite esaminate.
5
H. BROISE-J.-C. MAIRE VIGUEUR, Strutture famigliari, spazio domestico e architettura civile a Roma
alla fine del Medioevo, in Storia dell’Arte Italiana, Momenti di architettura, XII, a cura di F. Zeri, Torino,
Einaudi, 1983, pp. 97-160: 113.
6
Ospedali e città. L’Italia del Centro-Nord, XIII-XVII secolo, a cura di A. J. Grieco e L. Sandri, Atti
del Convegno Internazionale di studio tenuto dall’Istituto degli Innocenti e Villa I Tatti (Firenze, 27-28
aprile 1995), Firenze, Le lettere, 1998.
7
A. ESPOSITO, Men and woman in Roman confraternities in the fifteenth and sixteenth centuries:
roles, functions, expectations, in The politics of ritual kinship, edited by N. Terpstra, Cambridge,
Cambridge University Press, 2000, pp. 82-97.
8
Sulla gerarchia degli spazi urbani, cfr. L. PALERMO, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi
urbani a Roma nel primo Cinquecento, in Spazio urbano e organizzazione economica nell’Europa medioevale, Atti della Session C23, Eleventh International Economic History Congress (Milano 12-16
settembre 1994), a cura di A. Grohmann, Napoli, ESI, 1994.
9
Il rione Monti beneficiava della presenza di un grande polo attrattivo quale era la basilica di S.
Giovanni in Laterano; Trastevere godeva della vicinanza con il fiume e della contiguità con il Vaticano.
10
A. MODIGLIANI, Mercati, botteghe e spazi di commercio a Roma tra Medioevo ed Età Moderna,
Roma, Roma nel Rinascimento, 1998.
11
D. STRANGIO-M. VAQUERO PIÑEIRO, Spazio urbano e dinamiche immobiliari a Roma nel Quattrocento:
«la gabella dei contratti», in Roma. Le trasformazioni urbane nel Quattrocento, II: Funzioni urbane e tipologie
edilizie, Olschki, Firenze, 2004, pp. 3-28, in particolare il paragrafo dedicato ai protagonisti.
12
Lo statuto di Roma stabiliva che per acquisire la cittadinanza gli stranieri dovessero possedere una
casa e una vigna (C. RE, Statuti della città di Roma, Tipografia della Pace, Roma, 1880-1883, p. 274).
13
Sull’identità dei romani, cfr. I. LORI SANFILIPPO, La Roma dei Romani, Roma, Pubblicazioni degli
Archivi di Stato, 2001.
14
A. M. CORBO, I contratti di locazione e il restauro delle case a Roma nei primi anni del secolo XV,
32
SILVIA DIONISI
«Commentari», XVIII, 1967, 4, pp. 340-343.
15
Le precedenti ipotesi si spiegano alla luce della teoria della rendita differenziale enunciata da
David Ricardo nei Principi di economia politica e dell’imposta (1817): la progressiva espansione verso terreni progressivamente marginali crea le condizioni per la formazione della rendita sui terreni inframarginali. Analogamente, nelle città il valore crescente delle aree centrali era conseguenza dell’urbanizzazione
di quelle periferiche: il livello della rendita aumentava nelle prime proprio perché iniziava a formarsi
rendita anche nelle aree progressivamente liberate dalla condizione di marginalità (semiperiferiche o
semicentrali). Sulle leggi ricardiane della rendita, E. SCREPANTI- S. ZAMAGNI, Profilo di storia del pensiero
economico, Roma, NIS, 1992, pp. 96-98. Per la lettura del testo ricardiano, D. RICARDO, Principi di
economia politica e dell’imposta, in ID., Opere, a cura di P. L. Porta, 2 voll. Torino, Utet, 1986.
16
M. VAQUERO PIÑEIRO, Il patrimonio immobiliare di S. Giacomo degli Spagnoli tra la fine del ‘400 4 la
seconda metà del ‘500, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CXII, 1989, pp. 269-293: 278.
17
G. CURCIO, I processi di trasformazione edilizia, in Un pontificato e una città: Sisto IV (1471-1484),
Atti del Convegno (Roma, 3-7 dicembre 1984), Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1986,
pp. 706-732.
18
V. FRANCHETTI PARDO, Storia dell’urbanistica dal Trecento al Quattrocento, Bari, Laterza, 1982; M.
TAFURI, Roma instaurata. Strategie urbane e politiche pontificie nella Roma del primo ‘500, in Raffaello
architetto, a cura di C. L. Frommel, S. Ray, M. Tafuri, Milano, Electa, 1984, pp. 59-106.
19
É. HUBERT, Economie de la propriété immobiliére: les établissements religieux et leurs patrimoines
au XIVe siècle, in Roma nei secoli XIII-XIV. Cinque saggi, a cura di E. Hubert, Roma, Viella, 1993, pp.
177-230. J.-C. MAIRE VIGUER, Introduction, in D’une ville à l’autre. Structures matérielles et organisation
de l’espace urbain dans les villes européennes (XIIIe-XIVe siècle), a cura di J.-C. Maire Viguer, Roma, Ecole
Française de Rome, 1989, pp. 1-14. R. MONTEL, Le “casale” de Boccea, d’apres les archives du chapitre
de Saint-Pierre (fin XIVe-fin XVI siècle), in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Age-Temps
Modernes», XCI, 1979, 2, pp. 593-617; ID., Le “casale” de Boccea, d’apres les archives du chapitre de
Saint-Pierre (fin XIVe-fin XVI siècle), in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Age-Temps
Modernes», XCVII, 1985, 2, pp. 605-726.
20
L. PALERMO, Sviluppo economico e organizzazione degli spazi urbani, cit.
21
È interessante ricordare il contributo degli storici dell’architettura anche per ciò che concerne
la valorizzazione della documentazione archivistica di età moderna, cfr. R. FREGNA-S. POLITO, Fonti
d’archivio per la storia edilizia di Roma. I libri delle case dal ‘500 al ‘700: forma ed esperienza della città,
«Controspazio», III, 1971, 9, pp. 2-20 e IV, 1972, 7, pp. 2-28; R. FREGNA, La pietrificazione del denaro.
Studi sulla proprietà urbana tra XVI e XVII secolo, Bologna, CLUEB, 1990. Studi approfonditi dedicati
ad un singolo ente si devono a M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de
Santiago de los Españoles de Roma entre los siglos XV y XVII, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1999. Una
recente sintesi densa di dati quantitativi, M. VAQUERO PIÑEIRO, Auge urbano y renta inmobiliaria. El
patrimonio de las iglesias españolas de Roma en el siglo XVI, in Fortuna y negocios: formación y gestión de
los grandes patrimonios (siglos XVI-XX), a cura di H. Casado Alonso-R. Robledo-Hernández, Valladolid,
Universidad de Valladolid, 2002, pp. 21-43.
22
P. PAVAN, Gli Statuti della società dei Raccomandati del Salvatore ad Sancta Snctorum, in «Archivio
della Società Romana di Storia Patria», CI, 1978, pp. 35-96.
23
A. ESPOSITO, Le “confraternite” del Gonfalone, in Le confraternite romane: esperienza religiosa, società,
committenza artistica, a cura di L. Fiorani, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1984, pp. 91-126.
24
ID., Amministrare la devozione. Note dai libri sociali delle confraternite romane (secc. XV-XVI), in Il
buon fedele. Le confraternite tra medioevo e prima età moderna, «Quaderni di Storia religiosa», 1998, 5,
Verona, Cierre edizioni, pp. 194-223.
25
Per la Roma del tempo, la questione delle fonti è di centrale importanza; alcune considerazioni
si trovano in M. VAQUERO PIÑEIRO, A proposito del reddito immobiliare urbano a Roma (1500-1527).
Alcune considerazioni sulle fonti e primi approcci, «Archivio della Società Romana di Storia Patria»,
CXIII, 1990, pp. 189-207.
26
«De lo cathasto de le possessione de la compagnia», Cap. LXI, in A. ESPOSITO, Le confraternite del
Gonfalone, cit., p. 133.
CONFRATERNITE E RENDITA URBANA
33
D. STRANGIO-M. VAQUERO PIÑEIRO, Spazio urbano e dinamiche immobiliari, cit.
ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, Ospedale SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, reg. 381.
29
Ivi, reg. 1007, c. 76r.
30
Ivi, reg. 375, c. 92r.
31
Ivi, reg. 1007, c. 76r.; la somma era pari a circa 1730 bolognini.
32
Ivi, reg. 375, c. 94r.
33
Ivi, reg. 1007, c. 77r. La somma era al 10% del valore di una casa.
34
M. CASSANDRO, Il libro Giallo di Ginevra della Compagnia fiorentina di Antonio della Casa e
Simone Guadagni (1453-1454), Prato, Istituto di Storia economica “F. Datini”, 1976, p. 22.
35
Ivi, reg. 1007, c. 77r.
36
Ivi, reg. 378, c. 30r.
37
Ivi, reg. 382, c. 160.
38
Ivi, reg. 382, c. 148r. Particolarmente incisivo fu l’intervento dei maestri delle strade, magistratura ripristinata da Martino V nel 1525; C. SCACCIA SCARAFONI, L’antico statuto dei ‘magistri stratarum’ e
altri documenti relativi a quella magistratura, «Archivio della Regia Società Romana di Storia Patria», L,
1927, pp. 239-308; O. VERDI, Maestri di edifici e maestri di strade a Roma nel secolo XV. Fonti e problemi,
Roma, Roma nel Rinascimento, 1997.
39
L’altra metà apparteneva alla chiesa di S. Agostino (ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, Ospedale SS.
Salvatore ad Sancta Sanctorum, reg. 933, c. 56).
40
Ivi, reg. 382, c. 160.
41
Ivi, reg. 382, c. 146v.
42
Ivi, reg. 382, c. 147r.
43
Ivi, reg. 979, c. 48v-49r.
44
Ivi, reg. 936, cc. 40, 282.
45
Così dagli anni Novanta del XV secolo, Ivi, reg. 934, cc. 25, 78, 127.
46
Ivi, reg. 935, cc. 63, 228.
47
ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Arciconfr. Gonfalone, reg. 735, cc. 49v-50r.
48
Ivi, reg. 17, c. 26.
49
Ivi, reg. 735, cc. 57v-58r.
50
Ivi, reg. 742, cc. 15v-16r.
51
Ivi, reg. 1007, c. 105r.
52
Ivi, reg. 375, c. 138r.
53
Ivi, reg. 701, c.8r.
54
Ivi, reg. 1196, cc. 9r e 4v.
55
Ivi, reg. 735, cc. 108v-109r.
27
28
PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI
IL «PALAZZO DI SIENA» DEI PICCOLOMINI (1450-1582)
Introduzione
Nel XVI secolo le trasformazioni urbane e le negoziazioni immobiliari furono
profondamente influenzate dalle scelte delle grandi famiglie feudali che, mosse dall’obiettivo primario di conservare intatto o di accrescere il proprio patrimonio nel
corso delle generazioni successive, posero in essere strategie e vincoli che spesso finirono col dare un’impronta specifica al tessuto urbanistico ed influirono largamente
sull’andamento del mercato immobiliare cittadino. Nell’ambito di tali strategie, fu
in particolare il «fedecommesso» a condurre ad un pressocché totale «congelamento»
delle negoziazioni immobiliari.
Il fedecommesso era un particolare istituto giuridico utilizzato diffusamente nel
Cinquecento soprattutto dalle famiglie nobili, ma le cui origini risalivano al diritto
romano. Esso consisteva in una clausola testamentaria attraverso la quale il testatore
indicava rigidamente i passaggi successori di un bene fino ad una determinata generazione o in perpetuum, dichiarando tale bene inalienabile1. Il testante, in pratica,
disponeva la trasmissione di un bene – o di un complesso di beni – ad un erede
(fedecommissario), con l’obbligo, per quest’ultimo, al momento della propria morte, di «restituire» invariato lo stesso bene ad un altro fedecommissario, previamente
individuato, con il divieto di alienarlo2.
I diversi fedecommissari erano indicati minuziosamente per molte generazioni, «anche a distanza di cent’anni e più»3: fino al verificarsi della condizione che avrebbe aperto la
strada alla sostituzione fedecommissaria, ciascuno di essi diventava proprietario del bene
in questione, ma poiché, insieme al bene fedecommissato, ereditava anche il vincolo del
fedecommesso, ciascuno di essi era «gravato» della restituzione del bene ai fedecommissari
successivi – «che il primo disponente, il de cuius, aveva voluto indicare»4 –, con il divieto
di alienarlo. Ciò che contava era solo la volontà del fondatore del fedecommesso: gli eredi
rappresentavano dei semplici usufruttuari di un bene che erano obbligati a restituire al
passaggio successivo senza averlo minimamente modificato5.
Dal momento che accadeva spesso che gli aristocratici costituissero fedecommes-
36
ILARIA PUGLIA
so sui palazzi di famiglia, appare evidente che il conseguente vincolo di inalienabilità,
che veniva a gravare su tali palazzi, ne condizionasse la negoziazione.
L’istituto del fedecommesso sopravvisse, nell’Europa occidentale, fino alla metà
dell’Ottocento e, in molte zone dell’Europa orientale e meridionale, addirittura fino
agli ultimi decenni del XX secolo, nonostante le forti limitazioni cui fu sottoposto,
durante il Settecento, da parte dei governi. I motivi del persistere tanto a lungo di
questa istituzione sono da ricercare nella straordinaria flessibilità grazie alla quale
l’istituto, adattandosi perfettamente alle trasformazioni economiche e sociali verificatesi nel corso del tempo, assunse, a partire dal XVI secolo, caratteri e finalità
profondamente diversi rispetto all’originario fedecommesso romano.
Il fedecommesso nell’ambito del diritto romano
Nell’ambito del diritto romano il fedecommesso non si presentava come un vero
e proprio atto giuridico, ma piuttosto come «una preghiera rivolta all’erede o ad altro
beneficiario mortis causa di fare, ad un terzo, una prestazione di carattere patrimoniale a nome del de cuius, prestazione traducentesi nell’obbligo di restituire ad altri ciò
che si era ricevuto dal testatore»6: il disponente si rimetteva alla fides, cioè alla lealtà
e alla coscienza del rogatus (da qui il nome di fidei commissum), che aveva però solamente un’obbligazione morale7. Si trattava, in particolare, di «un espediente creato
dal bisogno dell’opera di una terza persona tra il disponente e il successore»8: non a
caso, le prime manifestazioni di fedecommesso si ebbero a favore degli «incapaci»,
ovvero di quei soggetti che erano sforniti della testamentifactio passiva9.
Non costituendo un vero e proprio atto giuridico, il fedecommesso non ne presentava neanche i caratteri formali: esso poteva sussistere in un testamento scritto,
in un codicillo, in un «testamento orale fatto avanti a cinque testimoni, o preghiera
rivolta segretamente all’amico»10 e, in caso di malattia grave del testante, persino «un
semplice cenno poteva considerarsi come espediente adatto a far conoscere la propria
volontà od il proprio desiderio»11. Il vincolo fedecommissario, inoltre, poteva avere
qualunque contenuto e qualunque oggetto: «cose singole o intero patrimonio o quote parti di esso»12, cose appartenenti al testatore, all’erede o a qualsiasi altro fiduciario,
«anco ‘fatti’ del fiduciario»13. La sua straordinaria diffusione fu dovuta proprio all’assenza di vincoli di forma e di contenuto.
A partire dall’età augustea il fedecommesso cominciò ad acquisire tratti più
propriamente giuridici. Spesso il fiduciario veniva meno al suo obbligo morale,
violando il vincolo fedecommissario – «evitando di chiamare all’eredità i beneficiari del fedecommesso»14 –, perciò Augusto fu costretto a interporre l’autorità dei
consoli per costringere il fiduciario, in via amministrativa, all’impegno assunto.
Tale intervento divenne a poco a poco normale, fino ad arrivare alla creazione,
a tale scopo, di uno speciale magistrato imperiale, il praetor fideicommissarius15:
con la creazione di un magistrato permanente, il preesistente dovere morale venne
PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI
37
trasformato in obbligo giuridico e ricevette, dunque, tutela legale. Veniva in tal
modo a decadere l’originaria finalità del fedecommesso come strumento a tutela
degli incapaci: non potendo costituire parte integrante di un atto giuridico, costoro risultavano esclusi in via definitiva dal fedecommesso nel momento in cui esso
acquisiva caratteri legali.
In epoca successiva, l’istituto subì alcune modifiche soprattutto con Vespasiano
e Giustiniano e, nel corso dei secoli, adattò il suo mutamento ai lenti ma profondi
cambiamenti che si verificarono nell’economia e nella società europea16: in particolare, di pari passo con il carattere sempre più feudale che andava acquistando la
famiglia, anche il vecchio fedecommesso romano finì «per assimilare aspetti per
l’appunto ‘feudali’»17.
L’evoluzione del fedecommesso in età moderna
In età moderna, in particolare, alla fattispecie classica di fedecommesso – il cui scopo originario, come ho detto, era conservare un bene a beneficio di coloro che al tempo
della morte del testatore si fossero trovati in condizioni di indisponibilità a riceverlo – si
aggiunse sempre più frequentemente l’imposizione dell’obbligo, all’erede, «di conservare i beni soggetti a fedecommesso in modo che, integri, passassero ai suoi discendenti
secondo un ordine previsto dal testatore»18.
Risulta subito evidente il diverso ruolo del fedecommissario nel fedecommesso di
diritto romano e in quello cinquecentesco: nel primo caso, il fedecommissario era un
semplice tramite, nel secondo era un erede vincolato alla conservazione dell’eredità19.
La trasformazione dell’istituto avvenne attraverso una complessa opera di interpretazione delle fonti «nel quadro del modello giuridico mutuato dal diritto romano»20. Per secoli l’istituto aveva avuto una formulazione solo consuetudinaria, ovvero
non sancita da norme scritte, da costituzioni o da provvedimenti sovrani: la «nascita»
del nuovo fedecommesso fu il risultato dell’incontro tra queste consuetudini e l’applicazione pratica data ad esse dai notai negli atti di successione21.
La diffusione del fedecommesso fu infatti dovuta alla crescente importanza acquisita dall’istituto nell’ambito delle strategie testamentarie poste in essere dai nobili,
nel tentativo di trasmettere intatto il loro patrimonio alle generazioni successive, in
modo da conservare «la potenza e il decoro»22.
Nel suo lavoro sulle famiglie nobili del XVI secolo, Nino Tamassia affermava che
«dicendo famiglia o Casa, si dice[va] anche patrimonio»23 ed infatti, in Italia – come
del resto in tutta Europa –, la famiglia aristocratica era tenuta insieme dal fatto
di condividere posizione economica e interessi politici: i suoi elementi coesivi non
erano tanto i legami affettivi, quanto i reciproci interessi economici24. La famiglia
nobile era «un’organizzazione sociale ed economica che agiva come tale soprattutto
in occasione di matrimoni e di morti»25, ovvero di quelli che erano, a quei tempi, i
due eventi fondamentali dell’esistenza di un individuo: come il matrimonio si confi-
38
ILARIA PUGLIA
gurava come «il frutto della strategia economica e sociale di due gruppi familiari diversi»26, così la morte rappresentava «il momento in cui un’organizzazione familiare
si frantumava per lasciare il passo a un nuovo tipo di aggregato domestico fondato su
nuovi equilibri economici»27.
Un tentativo di sistemazione giuridica del fedecommesso fu quello di Giovanni
Battista De Luca28 che, alla fine del Seicento, analizzò l’istituto alla luce di duecento
casi processuali raccolti sull’argomento.
De Luca riconosceva nel fedecommesso una particolare tipologia di sostituzione
ereditaria che definiva «obliqua», dal momento che i beneficiari dell’eredità non la
ricevevano direttamente dal testatore, ma se la vedevano consegnare, ossia «restituire», dal fedecommissario precedente29. De Luca distingueva tra fedecommesso puro
e condizionale. Il primo, risalente al diritto romano, era ormai desueto, mentre il fedecommesso condizionale rappresentava la forma più applicata nella prassi: esso era
sottoposto alle condizioni indicate nel testamento per la restituzione dell’eredità30.
Alla famiglia del fedecommesso condizionale appartenevano anche le primogeniture e i maggioraschi, che, solitamente usati come sinonimi del fedecommesso,
se ne distinguevano però nettamente. Nell’ordine di successione primogeniturale si
manifestava la preferenza per la linea primogenita, mentre il maggiorasco prevedeva il raggiungimento della maggiore età da parte dell’erede designato. Entrambi gli
istituti venivano usati per le successioni nei feudi iure francorum, cioè indivisibili
(individui), distinti da quelli iure longobardorum che erano invece divisibili (dividui)
tra più eredi, per esempio tra più fratelli31.
Le primogeniture e i maggioraschi si distinguevano dai fedecommessi perché in
questi ultimi poteva non essere esplicita la preferenza primogeniturale o della maggiore età e l’ordine delle successioni poteva non essere così rigidamente prestabilito,
ma variare secondo la volontà del testatore32.
Nel corso del XVI secolo il sistema della primogenitura cominciò a diffondersi
anche nei feudi iure longobardorum soprattutto perché, «essendo al feudo collegato
un potere politico, il frazionamento conseguente alla divisione per successione avrebbe finito col rendere non esercitabile tale potere»33. L’indivisibilità diventò perciò
principio fondamentale della successione.
Per mantenere intatta la ricchezza immobiliare della famiglia occorreva prevedere
l’inalienabilità dei beni feudali e un meccanismo successorio che ne impedisse la divisione. Si ricorse, perciò, al fedecommesso, vincolando «con atto volontario ciò che
prima era vincolato per consuetudine»34.
Ecco, dunque, il substrato feudale del fedecommesso cinquecentesco e il motivo
per cui esso si diffuse soprattutto tra le famiglie nobili: ciò che veniva disposto attraverso i fedecommessi, e ancora di più attraverso primogeniture e maggioraschi, non
era altro che la riproposizione delle regole del diritto successorio feudale35.
I tre obiettivi della pianificazione familiare aristocratica erano: la continuità della
PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI
39
linea maschile, l’integrità della proprietà ereditata e l’acquisizione di ulteriori proprietà o di utili alleanze politiche. Tali obiettivi erano comuni alle nobiltà di tutta
Europa e, infatti, nonostante i diversi contesti sociali, politici e geografici, le élites
nobiliari adottarono tutte, nella stessa epoca, con flessibilità, nel quadro dei loro
costumi e delle loro tradizioni locali, pratiche identiche, che rispettarono poi in maniera rigorosa e che comprendevano, appunto, la costituzione di un lignaggio patrilineare, l’inalienabilità del patrimonio e l’accesso al matrimonio per un solo figlio (di
norma il primogenito), con un particolare favore accordato ai matrimoni con famiglie ricche ed influenti. Lo sforzo che si imponeva era, ovunque, di inventare regole
nuove o adattare le regole giuridiche esistenti al fine di evitare lo spezzettamento e la
dispersione del patrimonio.
In Italia non esistevano istituti finalizzati specificamente alla costituzione del patrimonio familiare inalienabile e, quindi, si fece ricorso ad una serie di meccanismi
giuridici che, modificati dalla prassi, conseguivano il medesimo obiettivo finale di
creare un patrimonio di famiglia intoccabile, inalienabile e, «almeno nella mente di
chi lo costitui[va], eterno»36. L’originario fedecommesso romano venne in tal modo
a trasformarsi nel «fedecommesso di famiglia», i cui caratteri distintivi erano: l’istituzione di più eredi possibili in relazione allo stesso bene; l’indicazione di un evento
– la morte dell’erede – al verificarsi del quale veniva subordinata la sostituzione di un
altro erede; la definizione di un ordine di successione previsto dal testatore, in base
al quale ciascun erede doveva trasmettere il bene agli eredi successivi; l’obbligo, per
ciascuno di essi, della conservazione del bene in vista del verificarsi della condizione
per la restituzione; l’inalienabilità del bene stesso, dettata dalla volontà di conservarlo
nell’ambito della famiglia o della sua discendenza37.
L’aspetto più originale del fedecommesso cinquecentesco e la sua differenza principale rispetto al fedecommesso romano era proprio la generalizzazione del divieto di
alienare. Mentre, in origine, tale divieto era stato posto solo sporadicamente, qualora
fossero sussistite determinate circostanze di famiglia per cui il testatore sentiva il bisogno di «conservare i parenti in uno stato di benessere economico, di assicurare ad essi
il frutto delle sue fatiche, di perpetuare l’unità giuridica ed economica delle proprie
sostanze»38, adesso l’imposizione di tale divieto diventava prassi generalizzata. Ciò
dimostra che l’istituto era ormai diventato lo strumento privilegiato di «conservazione» per coloro che, più degli altri, avvertivano il desiderio di far sentire il peso della
propria volontà oltre la morte39, ovvero gli esponenti delle famiglie nobili.
La condizione di inalienabilità si concretizzava nel divieto di vendere, donare,
dare in pegno, obbligarsi, «locare ultra XXX annos, d’istituire eredi extra familiam, e
di compiere qualsiasi atto capace di produrre una translatio dominii»40. Le eccezioni a
tale divieto erano pochissime e limitate al caso in cui bisognasse costituire una dote,
soddisfare una legittima, pagare debiti ereditari o fare una donatio propter nuptias41.
Sviluppatosi come strategia testamentaria nobiliare, il fedecommesso si diffuse
40
ILARIA PUGLIA
anche nei ceti non nobili in concomitanza, soprattutto, con la crescente importanza
acquisita dalla proprietà immobiliare nell’economia italiana del tempo.
La proprietà immobiliare, e i redditi che da essa derivavano, incidevano profondamente sullo status delle persone che ne godevano42. Così, mossi dal desiderio di
aggiungere, ai vantaggi derivanti dalla loro posizione economica, gli attributi della nobiltà43, gli strati superiori delle classi mercantili diedero avvio ad un cospicuo
disinvestimento nell’industria e nel commercio e all’immobilizzazione dei capitali
ricavati nella proprietà fondiaria44: «l’imitazione di comportamenti nobiliari – come
testare con fedecommesso –[era] il primo passo verso una percezione soggettiva di
appartenenza alla nobiltà, prima ancora d’aver ottenuto riconoscimenti formali e
patenti ufficiali»45.
Nell’ambito della proprietà immobiliare, era soprattutto il palazzo di famiglia a
rappresentare la consacrazione più visibile dell’ascesa sociale. Ciò era tanto più vero
per l’aristocrazia che, non a caso, nel XVI secolo, istituì fedecommessi soprattutto
sui palazzi. Ciò dimostra che l’istituto aveva una valenza economica non solo economica, ma soprattutto culturale: «[era] il passato degli avi e il prestigio della famiglia
prima che il valore economico che il palazzo rappresenta[va] che bisogna[va] tramandare»46. Attraverso l’istituzione del fedecommesso, i nobili avevano la possibilità
di conservare intatto un bene, quale appunto il palazzo, che era il primo indicatore
della loro dignità sociale e, soprattutto, della loro coesione familiare: la sua vendita
avrebbe comportato un’interruzione drastica della continuità e, quindi, il fallimento
della strategia familiare47.
La costruzione dei palazzi da parte delle famiglie nobili influiva notevolmente
sulla fisionomia urbana: portava con sé la distruzione degli edifici fatiscenti e una
sorta di bonifica del territorio circostante; rinnovava interi quartieri diffondendo un
benefico influsso e migliorando l’urbanistica della città.
La distribuzione delle famiglie nel tessuto cittadino attraverso la costruzione dei
palazzi non era casuale: gli aristocratici erigevano i loro palazzi in luoghi centrali, di
facile accesso e ben visibili allo sguardo ammirato del pubblico. Attraverso la costruzione dei palazzi ciascun nucleo familiare si costituiva un territorio perfettamente delimitato, i cui confini erano rappresentati dalle costruzioni satellite quasi obbligate,
come chiese e cappelle. Si trattava di una scelta soprattutto politica, tesa a legittimare
la presenza di una famiglia all’interno di un determinato quartiere.
Porre fedecommesso su un palazzo e renderlo inalienabile significava, soprattutto,
renderne immobile la negoziazione e, con essa, la destinazione urbana.
Il fedecommesso dei Piccolomini sul «Palazzo di Siena»
Nel tentativo di confermare la veridicità dei dati storiografici esistenti sull’argomento, ho rivolto la mia attenzione ad un esempio particolare di fedecommesso, avente ad
oggetto una residenza nobiliare: quello posto dalla famiglia Piccolomini, una delle più
PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI
41
cospicue Case feudali del XVI secolo, sul palazzo di famiglia sito in Roma («Palazzo di
Siena»). Attraverso l’analisi dei documenti manoscritti appartenuti alla famiglia, conservati presso l’Archivio di Stato di Siena48, ho potuto ricostruire le vicende di tale
Palazzo nel corso di circa un secolo, ritrovandovi gli aspetti più caratteristici del fedecommesso cinquecentesco e, in particolare, la finalità «conservativa» implicita nella
proibizione di alienare, oltre che le frequenti violazioni di tale divieto.
Originaria di Siena, nel XII secolo la famiglia Piccolomini, in un primo tempo,
aveva costituito una discreta ricchezza attraverso le attività commerciali e bancarie
e, successivamente, aveva orientato i suoi interessi verso la proprietà fondiaria, affermandosi come una delle principali famiglie senesi dell’epoca. L’espansione successiva
delle sue attività e il conseguente arricchimento furono favoriti dall’ascesa al soglio
pontificio, nel 1458, di Enea Silvio Piccolomini (Pio II): se fino a quella data, il referente dei Piccolomini era stata soprattutto la città di Siena ed il territorio circostante,
adesso la fortuna della famiglia cominciò ad essere legata ad altri poteri – la Chiesa
– ed a strategie di affermazione diverse da quelle tradizionali, che si concretizzarono
soprattutto in accorte unioni matrimoniali, attraverso le quali i Piccolomini si imparentarono con le principali famiglie nobili dell’epoca, dando origine a ramificazioni
in quasi tutta la penisola e accumulando un patrimonio abbastanza cospicuo da inserire la famiglia, a pieno titolo, tra le maggiori Case feudali del tempo.
Il Palazzo che i Piccolomini possedevano a Roma si trovava nel centralissimo
rione di Sant’Eustachio, uno dei più antichi della città49: una lunga e stretta striscia
di territorio compresa tra i rioni Pigna, Sant’Angelo, Regola, Parione, Ponte, Campo
Marzio e Colonna50. Le strade che ne segnavano i confini erano corso Rinascimento,
piazza delle Cinque Lune, via del Pantheon, largo di Torre Argentina e le attuali piazza Sant’Andrea della Valle e piazza Madama51. Per questa sua centralità, moltissime
famiglie nobili vi eressero i loro palazzi: Della Valle, Caffarelli, Medici, Lante, Cenci,
Aldobrandini, Giustiniani e, appunto, Piccolomini. Non solo, nel rione esercitavano i loro affari diverse corporazioni di artigiani: Pianellari, Giubbonari, Canestrari,
Chiavari, Sediari, Barbieri, Chiodaioli e Falegnami52.
Il Palazzo dei Piccolomini era posto nella piazza che grazie alla loro presenza
fu chiamata piazza di Siena, oggi piazza Sant’Andrea della Valle: da qui il nome di
«Palazzo di Siena». Esso era stato fatto costruire, tra il 1470 ed il 1472, dal cardinale
di Siena Francesco Tedeschini Piccolomini (papa Pio III)53, «tra la via pontificia ed il
teatro di Pompeo»54, accanto alla chiesa di San Sebastiano55.
Sono scarsissime le notizie che riguardano il Palazzo56: si trattava di un «turrito
edificio»57 di forma quadrata, con un cortile nella parte posteriore, «in mezzo ad un
portico tripartito e colonnato»58.
Nel 1476 Francesco donò il «Palazzo di Siena» ai fratelli, Giacomo e Andrea, i quali
se lo divisero in parti uguali. Su entrambe le metà del Palazzo fu posto fedecommesso:
in entrambi i casi, esso si estendeva prima ai successori diretti, poi a rami collaterali del-
42
ILARIA PUGLIA
la famiglia e poi all’intera Casa Piccolomini. Le scelte testamentarie dei membri delle
grandi famiglie erano, infatti, influenzate da un’ampia concezione della parentela, per
cui gli interessi patrimoniali in gioco non erano mai esclusivamente quelli della propria
discendenza immediata, ma gli interessi della Casa nel suo complesso. Poiché ogni testamento poteva far sorgere situazioni conflittuali, le strategie successorie erano efficaci
nella misura in cui riuscivano a realizzare un equilibrio tra le esigenze dei diversi rami
di un Casato59: occorreva, dunque, prevedere la successione dei rami collaterali nel caso
in cui si estinguesse il ramo primogeniturale, oppure la successione dell’intera Casa o
anche, a volte, quella di famiglie alleate (generalmente attraverso il matrimonio delle
figlie femmine), nel caso in cui si estinguessero tutti i rami maschili60.
Nel capitolo numero 72 del suo testamento, rogato il 21 settembre 1507 dal notaio
Bartolomeo Alfio da Monte Bondio61, Giacomo istituì un fedecommesso sulla metà
del palazzo di sua appartenenza a favore dei figli, Silvio ed Enea e, qualora questi fossero morti senza discendenti legittimi o naturali, ai maschi primogeniti di suo fratello,
Antonio Piccolomini, del ramo dei duchi di Amalfi e ancora, qualora Antonio non
avesse avuto figli maschi, ad totam Domum et Progeniem Piccolomineam per lineam
masculinam62, con il divieto espresso di alienare63.
Per quanto riguarda, invece, la metà del Palazzo spettante ad Andrea, suo figlio Pierfrancesco, nel suo testamento, rogato l’8 settembre 1521 dal notaio senese
Alessandro Pini64, istituì fedecommesso a favore dei fratelli Alessandro e Giovanni, e, in
mancanza loro, a favore dei discendenti di Giacomo, già beneficiari dell’altra metà65.
Nonostante il divieto di alienare posto da Giacomo sulla sua metà del Palazzo
di Siena, suo figlio Enea la vendette, nel 1531, al cugino Giovanni, cardinale66. Le
violazioni al vincolo dell’inalienabilità erano, in realtà, piuttosto frequenti: fino al
momento in cui avrebbe dovuto restituire ad altri il bene oggetto di fedecommesso,
ciascun erede poteva teoricamente disporne liberamente. I successivi fedecommissari
non potevano rivendicare gli atti di disposizione, anche se implicavano l’uscita del
bene dal patrimonio ereditario, poiché essi non vantavano un diritto vero e proprio
ma soltanto una spes haereditatis67: le vertenze si sarebbero potute aprire soltanto con
l’ulteriore passaggio successorio.
Il fedecommesso, in effetti, provocava un’altissima litigiosità tra parenti, aprendo
«la via giudiziale a una serie senza fine di questioni interpretative dei testamenti, su
quel che il testatore aveva veramente voluto dire, questioni alla fine riconducibili al
punto se si era voluto veramente istituire un fedecommesso oppure no»68.
Nell’ambito di queste vertenze non esistevano regole generali e quindi veniva lasciato ampio spazio alle diverse interpretazioni della giurisprudenza e della dottrina.
Era il giudice che, di volta in volta, caso per caso, era chiamato a scegliere la via per
dirimere la controversia in esame. Se il giudice decideva di avere maggior riguardo
verso l’erede, riconoscendo che l’onere di cui costui si trovava gravato gli inibiva la
libera e piena disponibilità dei beni ereditati, allora procedeva a derogare al divieto
PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI
43
di alienare, ratificando gli atti di disposizione posti in essere dal fedecommissario. Al
contrario, se desiderava proteggere la famiglia, riconoscendo il ruolo di questa come
portatrice di un interesse superiore rispetto a quello del singolo erede, allora il giudice
estendeva la portata del fedecommesso, fino a ritenere nulli gli atti di disposizione del
fedecommissario69. Nel caso del Palazzo di Siena, la vertenza apertasi in seguito alla
vendita effettuata da Enea Piccolomini si concluse con la sentenza del cardinale di
Carpi, del 23 marzo 154370, che decretava il suo annullamento e il ritorno della metà
del Palazzo nell’originaria linea ereditaria, quella del primo testatore, Giacomo: essa
spettò, così, al figlio di Enea, AntonMaria.
Le vicende successive del Palazzo si complicarono dopo la morte di Pierfrancesco,
di Alessandro e del cardinale Giovanni, poiché AntonMaria pretese tutta l’eredità del
cardinale, senza alcuna distinzione tra i beni che erano appartenuti a Pierfrancesco,
quelli che erano appartenuti ad Alessandro e i beni che erano stati dello stesso cardinale e, con essi, pretese tutto il Palazzo di Siena, vale a dire anche la metà che era
appartenuta ad Andrea, poiché Pierfrancesco, nel suo fedecommesso, aveva previsto
che, in mancanza dei fratelli, Giovanni e Alessandro, subentrassero nel vincolo i figli
e i discendenti di Giacomo71.
A questo punto si aprì una lite sull’eredità: da un lato, le sorelle del cardinale,
Caterina, Vittoria e Montanina, insieme ai loro figli, pretendevano l’eredità del
fratello e, dall’altro, Silvia Piccolomini, figlia di Pierfrancesco, chiedeva il supplemento della legittima nei beni di suo padre72.
Con il compromesso di Paolo III – e la successiva sentenza del 1544, rogata dal
notaio Giacomo Carrà73 – il Palazzo fu diviso in diciotto parti: si stabilì che le nove
parti che costituivano la metà di Giacomo dovessero passare ai suoi eredi, mentre le
altre nove, comprese nella metà di Andrea, dovessero essere divise tra AntonMaria
(3 parti) – per essere stato sostituito e poi istituito erede di Pierfrancesco −, Silvia
(1 parte e ½), Caterina (1 parte e ½), Montanina (1 parte e ½), Vittoria (1 parte e
½) e i loro figli – in quanto eredi del cardinale Giovanni e di Alessandro, entrambi
fratelli di Pierfrancesco74.
Con atto rogato il 9 dicembre 1544 dal notaio senese Ventura Cioni75, però, le sorelle del cardinale, Caterina, Vittoria, Montanina, e i rispettivi figli donarono a Silvia
le parti del Palazzo di Roma in loro possesso, con la condizione che Silvia pagasse il
debito esistente su esse. Silvia, dunque, si trovò con sei parti del Palazzo di Roma,
mentre le altre dodici restavano di AntonMaria.
Intanto, AntonMaria aveva accumulato dei debiti con Silvia, per l’amministrazione dell’eredità di Pierfrancesco76: egli pensò di estinguerli cedendo la sua parte del
Palazzo77 a Silvia, a suo marito Innico Piccolomini d’Aragona del ramo dei duchi di
Amalfi e ai loro figli maschi, e, in mancanza loro, ai figli e discendenti maschi in infinito del fratello di Innico, Giovanni, con la condizione che il Palazzo restasse nella
linea dei primogeniti e che Innico pagasse 2.000 ducati in beni stabili provenientibus
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ILARIA PUGLIA
dictae Illustrissimae dominae Silviae da hereditate Illustrissimi Petri Francisci vigore suae
legittimae78 e, infine, con la condizione che restasse valido il fedecommesso posto da
Giacomo79. L’intero Palazzo di Roma perveniva, così, dopo tante vicissitudini, nelle
mani di Innico e Silvia. Il suo valore complessivo era di 18.666 ducati80.
Costanza, la loro unica figlia, lo ereditò per intero come erede universale. Priva di
discendenza e oppressa dai debiti familiari, Costanza si fece monaca nel monastero
della Sapienza di Napoli, distribuendo il suo patrimonio tra privati, enti ecclesiastici e
luoghi pii. Il 6 giugno 1582, la duchessa di Amalfi donò il «Palazzo di Siena» ai Padri
Teatini di San Silvestro di Roma, con il vincolo che questi, nonostante l’esistenza del
fedecommesso, vi fabbricassero il collegio e la chiesa81. Il fedecommesso doveva comunque essere ben noto a Costanza: nello strumento di donazione ai Teatini si diceva
infatti che, dal momento che alcuni Piccolomini pretendevano una parte del palazzo
come fedecommissata a loro favore, Costanza, in caso di evitione e in caso fosse stato
dichiarato che il Palazzo era fedecommissato, «cedeva a varie sue ragioni e faceva varie
obbligazioni»82, che però non sono ulteriormente specificate.
Estintasi la linea di Giacomo e quella dei duchi di Amalfi, la famiglia Piccolomini
tentò per anni di recuperare il fedecommesso sul Palazzo. In particolare, i figli di
AntonMaria − Scipione e Giacomo − provarono a fare annullare la donazione fatta dal
padre ad Innico, adducendo come motivo che il fedecommesso ordinato da Giacomo
proibiva qualsiasi tipo di alienazione e, quindi, l’accordo era viziato in partenza.
Si è reperita, in particolare, una dettagliata esposizione dei fatti stilata dai
Piccolomini e indirizzata al loro legale rappresentante, al cui «più savio e purgato
sentimento per la verità» la famiglia dichiarava «voler omnimamente dipendere», nel
ricevere un parere sulla possibilità o meno di intraprendere una causa in materia83.
In essa, i Piccolomini sottolineavano, soprattutto, che Giacomo «avesse sopra il detto palazzo una speciale predilezione e che ne volesse la perpetua conservazione per
lustro e decoro delle famiglie invitate»84, a riprova dell’importanza simbolica delle
residenze nobiliari e della loro funzione rappresentativa.
I Piccolomini, tuttavia, non poterono provare nulla con documenti autentici,
perché possedevano solo «un antico foglio scritto non si sa da chi»85.
Con la riorganizzazione urbanistica avvenuta sotto il pontificato di Sisto V86, nel
1590 il Palazzo di Siena fu abbattuto per allargare la via Papale e al suo posto, nel
1591, unendo anche le chiese di San Sebastiano e di San Ludovico, i Teatini cominciarono ad edificare la chiesa di Sant’Andrea, in onore del protettore di Amalfi87. A
partire da quel momento, la piazza di Siena divenne piazza Sant’Andrea della Valle,
anche con riguardo al maestoso Palazzo Della Valle, fatto costruire tra il 1517 ed il
1523 dal cardinale Andrea Della Valle.
Da quanto detto finora, emerge un quadro del sistema dei fedecommessi di famiglia molto meno rigido e immobile di quanto ci abbiano tramandato i suoi critici
settecenteschi: le soluzioni relative all’inalienabilità non erano univoche ma lasciate
PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI
45
all’esame dei tribunali, che valutavano, caso per caso, se concedere o meno deroghe
e dispense a tale vincolo. Le eventuali deroghe erano comunque «sempre accuratamente vagliate e controllate»88 e non si procedeva alla loro concessione o negazione
se prima non erano stati «compiutamente esposti in narrativa i fatti e le cause della
domanda»89 ed ascoltati «tutti i possibili ulteriori chiamati alla sostituzione fedecommissaria»90, che erano tenuti a prestare il loro assenso.
I palazzi venivano a trovarsi immobilizzati e, con loro, la geografia urbana, per diversi anni, anche qualora uscissero dal fedecommesso familiare, proprio perché i tempi
per le decisioni dei tribunali erano molto lunghi. Era però solo la negoziazione ad essere
immobile poiché la storia dei palazzi appare, al contrario, molto movimentata e condizionata soprattutto dai comportamenti dell’aristocrazia. Le dimore venivano abbandonate, rioccupate, vendute, acquistate, abitate, abbandonate di nuovo e ricostruite. Tra il
1476 ed il 1582, il Palazzo di Siena cambiò 12 proprietari, alcuni dei quali tornati più
volte e a distanza di anni, ma tutti della famiglia Piccolomini. Non era la vita dei palazzi
e la loro storia, dunque, ad essere immobile, ciò che restava immobile erano i nomi dei
proprietari: rami della stessa famiglia si susseguivano tra loro, evitando così l’alienazione del palazzo e dettando un ritmo serrato negli avvicendamenti, ma la negoziazione
immobiliare e la geografia urbana restavano di fatto immutate per anni.
Le critiche settecentesche e l’abolizione del fedecommesso
L’inserimento definitivo del fedecommesso, in età moderna, tra gli istituti giuridici
più adatti a garantire la conservazione del patrimonio familiare ha scatenato un ampio
dibattito tra i giuristi. La dottrina prevalente ritiene che tale consacrazione sia avvenuta
proprio a partire dal XV secolo, perché fu solo allora che in Italia si diffusero le idee e
le pratiche giuridiche proprie della Spagna e che, prima di allora, l’istituto fosse, da noi,
del tutto sconosciuto91. Altri giuristi, guidati dal Trifone, sostengono, invece, lo sviluppo
autonomo del fedecommesso in Italia sin dal Medio Evo, sottolineando che, essendo
riuscito ad «assorbire dall’ambiente giuridico tutti gli elementi capaci di produrre l’inalienabilità del patrimonio, la conservazione e la trasmissione dei beni attraverso la linea
agnatizia maschile»92, esso aveva raggiunto «una costruzione logica ed un organismo corrispondente alla sua funzione economica e sociale e vi era riuscito senza che nessuna forza
estranea e nuova fosse intervenuta ad accelerare la sua trasformazione»93.
Alla luce di quanto emerso dalla lettura dei documenti relativi al fedecommesso
dei Piccolomini sembrerebbe, in effetti, che la trasformazione dell’istituto nel corso
del Cinquecento sia avvenuta in maniera piuttosto naturale, e che, più che da influenze esterne, essa fu condizionata dalle finalità dei soggetti che più degli altri vi
facevano ricorso, ovvero i nobili, in linea, quindi, con quanto affermato da Trifone. Il
fedecommesso si configura come un’innovazione tipica dell’età moderna, nata dalla
rielaborazione, da parte della prassi notarile, di consuetudini successorie feudali che
non avevano più nulla dell’antica legislazione romana.
46
ILARIA PUGLIA
Una cosa è certa. La diffusione del fedecommesso nel XVI secolo fu dovuta soprattutto al fatto che l’istituto rappresentava una forma efficace di immobilizzazione
e conservazione del patrimonio (e in particolare dei beni immobili) e costituiva,
dunque, uno strumento giuridico a protezione dei valori socio-culturali prevalenti
in quel momento storico, ovvero il prestigio sociale e la ricchezza immobiliare che
ne era alla base94. Non a caso il fedecommesso si diffuse proprio quando cominciò a
manifestarsi la decadenza delle famiglie feudali: agli ingenti debiti accumulati già durante il Cinquecento, si aggiunsero nel Seicento gli effetti dell’inflazione. Alla crescita
vertiginosa delle spese si contrapponeva irrimediabilmente la stabilità delle rendite: il
motivo della tenacia con cui si cominciò ad applicare un vincolo così stretto sui beni
di famiglia fu il pericolo, per i nobili, di cadere in rovina.
Quando, nel corso del Settecento, cominciarono a circolare nuove idee in campo
economico e sociale, il fedecommesso divenne oggetto di aspre critiche da parte degli
economisti riformatori. Il pensiero degli illuministi circa i fedecommessi meriterebbe
una trattazione a parte, data l’abbondanza di materiale e di spunti di riflessione: in
questa sede mi limiterò ad evidenziare le considerazioni che furono alla base della
loro unanime condanna dell’istituto95. In primo luogo, nel fedecommesso si vedeva
un ostacolo alla commerciabilità dei beni. L’enorme diffusione del suo utilizzo aveva
comportato infatti, ad un certo punto, che la maggior parte degli immobili – ma anche delle terre feudali – si era trovata sottoposta a vincolo fedecommissario, e poiché
tali immobili erano inalienabili e indivisibili, si era verificato un enorme danno per
la circolazione dei beni e per la pubblica economia, danno aggravato dal fatto che gli
istituiti, non avendo alcun interesse diretto all’eredità, non facevano nulla per apportare migliorie ai beni loro affidati96. Il fedecommesso, inoltre, costituiva un danno
anche per gli eventuali creditori degli istituiti che, «per il fatto, da essi ignorato, che
tali beni erano sottoposti a un vincolo rigidissimo»97, non potevano agire sui beni
stessi. L’istituto era poi fonte di ingiustizie all’interno della stessa famiglia: essendo la
trasmissione ordinata a vantaggio di uno solo dei membri della famiglia, si arrecava
danno agli altri componenti della stessa, specialmente alle donne, sempre escluse
da tali disposizioni.Infine, posto che, per essere forte, uno Stato necessitava di una
«giusta popolazione»98, identificata con il «massimo possibile numero di cittadini»99,
i fedecommessi rappresentavano una causa di diminuzione della popolazione poiché
obbligavano i secondogeniti «privi di proprietà»100 a rimanere celibi: le primogeniture ed i fedecommessi, dunque, erano additati come «istituzioni fatte espressamente
per diminuire nell’Europa il numero de’ proprietari e degli uomini»101.
Più delle critiche degli economisti, fu l’intervento del potere statale a limitare la
diffusione dei fedecommessi: l’azione di consolidamento del potere centrale si scontrava inevitabilmente con la libertà di istituzione e regolamentazione dei fedecommessi, principale manifestazione dell’autonomia decisionale delle famiglie aristocratiche nei confronti del potere statale. Fu per questo motivo che i principi illuminati
PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI
47
si diedero da fare per limitarne l’uso il più possibile.
In Toscana, con una legge del 22 giugno 1747, Francesco I di Lorena restrinse
l’efficacia dei fedecommessi già esistenti a quattro gradi di successione e sottopose a diverse condizioni l’istituzione di nuovi102, mentre, nel 1789, Pietro Leopoldo
sciolse i fedecommessi esistenti e proibì del tutto l’istituzione di nuovi vincoli103.
In Lombardia, nello stesso anno, Maria Teresa stabilì «l’invalidità futura dei vincoli
fedecommissari, restringendo l’efficacia di quelli in essere a due soli passaggi»104. Più
blandi furono i provvedimenti adottati nel Regno di Napoli: nel 1666 il vicerè ridusse a quattro gradi i fedecommessi istituiti prima del 1598105, ma non pose alcun
limite all’istituzione di nuove clausole fedecommissarie.
Nel Regno di Sardegna, le Costituzioni sarde del 7 aprile 1770 restrinsero la validità
dei fedecommessi a quattro gradi106, mentre nel 1797, Carlo Emanuele IV proibì l’istituzione di fedecommessi, limitando l’efficacia di quelli già esistenti a due soli gradi. In
Piemonte, nel 1796, Giuseppe II «impose lo svincolo di tutti i beni soggetti a fedecommesso, e la loro conversione in capitali da depositare in pubbliche banche»107.
L’Italia non si trovò dunque impreparata di fronte alla straordinaria spinta verso
la modernizzazione della Rivoluzione francese che, nel 1792, decretò l’annullamento
di tutti i fedecommessi esistenti108.
L’abolizione del fedecommesso, come istituto giuridico, fu confermata dall’art.
896 del Codice Napoleonico, anche se, quando, nel 1806, l’Imperatore francese «ripristinò il diritto di primogenitura per ducati e feudi ereditari»109, nello stesso Codice
venne inserita una norma che prevedeva la possibilità di stabilire fedecommessi.
L’istituto tornò in vita con la Restaurazione: nel Lombardo-Veneto il Codice Civile
Austriaco lo ammise «come modo ordinario di disposizione»110; nel Regno di Sardegna
l’editto del 18 novembre 1814 eliminò la proibizione di istituire fedecommessi111;
il Codice Albertino del 20 giugno 1837 consentì l’istituzione di maggioraschi112.
Rimasero alcuni limiti solo nel Regno delle Due Sicilie, dove l’istituto «fu ammesso
per il primo grado, mentre venne richiesta l’autorizzazione sovrana per l’istituzione dei
maggioraschi»113, che potevano essere disposti solo dalle famiglie nobili114.
Dopo l’unificazione, il Codice Italiano del 1865, all’art. 899, vietò qualunque
disposizione con la quale l’erede o il legatario fosse gravato «con qualsivoglia espressione di conservare e restituire ad una terza persona»115.
L’abolizione del fedecommesso era destinata a pesare gravemente sui destini futuri dei patrimoni nobiliari. Se è vero, infatti, che esso aveva costituito un limite alla
negoziazione immobiliare, è anche vero che era stato un argine più o meno solido
alla perdita delle proprietà familiari: nel momento in cui i nuovi eredi diventavano
proprietari a pieno titolo, non esisteva più alcuna tutela giuridica all’alienabilità dei
beni e si apriva la strada alla dispersione dei patrimoni.
Ilaria Puglia
48
ILARIA PUGLIA
1
M.A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità. I comportamenti aristocratici a Napoli in Età Moderna,
Napoli, Guida, 1988, p. 45, nota 76.
2
M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni. Fedecommessi e primogeniture a Roma nei secoli XVII e XVIII,
Roma, Viella, 1999, p. 6.
3
Ibidem.
4
M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio: riflessioni sull’uso del fedecommesso in Lombardia
tra Cinque e Seicento, «Archivio Storico Lombardo», CXV, 1989, VI, pp. 91-148: 103.
5
Il fedecommissario ha «una relazione solo transitoria e comunque precaria con i beni che in realtà
non può tenere», Ivi, p. 132.
6
Ibidem.
7
M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, Roma, Imperium, s.d., p. 13.
8
R. TRIFONE, Il fedecommesso. Storia dell’Istituto in Italia, Napoli, Jovene, 1914, p. 1.
9
Ivi, p. 2.
10
Ivi, p. 14.
11
Ibidem.
12
C. FERRINI, Teoria generale dei legati e dei fedecommessi secondo il diritto romano con riguardo all’attuale giurisprudenza, Milano, Hoepli, 1889, p. 38.
13
Ibidem.
14
L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale del fedecommesso familiare, «La nuova critica», VII serie,
1971, quaderno 27-28, fascc. III-IV, pp. 143-176: 145.
15
M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., pp. 12-13. Nelle province,
al contrario di quanto avvenne a Roma, la giurisdizione rimase di carattere amministrativo, senza mai
assumere la forma giudiziaria, Ivi, p. 15.
16
N. LA MARCA, Primogeniture e fidecommissi, cit., p. 147.
17
Ibidem.
18
L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 146.
19
Ivi, p. 147.
20
Ibidem.
21
M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 75. Al fine di comprendere i caratteri e le cause
di tale evoluzione si sono consultati, tra gli altri, i seguenti testi: M. AMELOTTI, Il testamento romano
attraverso la prassi documentale, vol. I: Le forme classiche di testamento, Firenze, Le Monnier, 1966; G.
BENEDETTI, Delle sostituzioni, in Commentario al diritto italiano della famiglia, vol. V, a cura di G.
Cian e A. Trabucchi, Padova, Cedam, 1992, pp. 206-248; B. BIONDI, Successione testamentaria e donazioni, Milano, Giuffrè, 1955; B. BRUGI, Fedecommesso, in Digesto Italiano, vol. XI/I, Torino, Utet,
1895, pp. 598-600; ID., Istituzioni di diritto romano. Diritto privato giustinianeo, Torino, Utet, 1926;
F. CICCAGLIONE, Il diritto successorio nella storia del diritto italiano, Torino, Utet, 1891; ID., Successione.
Diritto intermedio, in Digesto italiano, vol. XXII/3, Torino, Utet, 1889-1897, pp. 371-382; F. CORTESE,
Divieto di alienazione. Diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, vol. XIII, Milano, Giuffrè, 1964,
pp. 386-401; T. CUTURI, Dei fedecommessi e delle sostituzioni nel diritto civile italiano, Città di Castello,
Lapi, 1889; L. DESANTI, La sostituzione fedecommissoria. Per un corso di esegesi delle fonti del diritto romano, Torino, Giappichelli, 1999; ID., Restitutionis post mortem onus. Il fedecommesso da restituirsi dopo la
morte dell’onerato, Milano, Giuffrè, 2003; F. MILONE, Il fedecommesso romano nel suo svolgimento storico,
Napoli, Trani, 1896; A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione, Torino, Utet, 1893; A. PADOA SCHIOPPA, Sul fedecommesso nella Lombardia Teresiana, in Economia,
istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa, a cura di A. De Maddalena, E. Rotelli, G.
Barbarisi, vol. III: Istituzioni e società, Bologna, Il Mulino, 1982, pp. 807-826; L. RICCA, Fedecommesso,
in Enciclopedia del diritto, vol. XVII, Milano, Giuffrè, 1986; L. TRIA, Il fedecommesso nella legislazione
e nella dottrina dal XVI secolo ai giorni nostri, Milano, Giuffrè, 1945; G. VISMARA, L’unità della famiglia
nella storia del diritto in Italia, in EAD., Scritti di storia giuridica, vol. V: La famiglia, Milano, Giuffrè,
1988, pp. 3-44; P. VOCI, Diritto ereditario romano, Milano, Giuffrè, 1963.
22
M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., p. 25.
23
N. TAMASSIA, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Milano-Palermo-Napoli,
PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI
49
Sandron, 1910, p. 108.
24
L. STONE, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Torino, Einaudi,
1983, p. 125.
25
A. VILLONE, Contratti matrimoniali e testamenti in una zona di latifondo: Eboli a metà ‘600, «Mélanges
de l’École Française de Rome. Moyen Age - Temps Modernes», XCV, 1983, 1, pp. 225-298: 231.
26
Ivi, p. 230.
27
Ibidem.
28
G.B. DE LUCA, Theatrum veritatis et iustitiae, liber decimus de fideicommissis, primogenituris et
maioratibus, Roma, Corbelletti, 1670.
29
M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 100.
30
Ivi, p. 101.
31
Ivi, p. 103.
32
Ivi, p. 102.
33
L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 149.
34
Ivi, p. 150.
35
M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 103.
36
M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio, cit., p. 103.
37
Ivi, p. 104.
38
R. TRIFONE, Il fedecommesso, cit., p. 7.
39
Ivi, pp. 8-9.
40
Ivi, p. 85.
41
Ibidem. La donatio propter nuptias era un particolare accordo con cui il marito riservava una parte
del suo patrimonio alla donna qualora questa fosse rimasta vedova o in caso di divorzio.
42
L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 158.
43
Ivi, p. 154.
44
Ibidem.
45
M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 9.
46
M.A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità, cit., p. 46.
47
L. STONE-J.C. FAWTIER STONE, Una élite aperta? L’Inghilterra fra 1540 e 1880, Bologna, Il Mulino,
1989, p. 63.
48
Il fondo più interessante e utile ai fini della ricerca si è rivelato la Consorteria Piccolomini, di cui
sono stati consultati 47 dei complessivi 202 volumi, selezionati perché contenenti tutti documenti riferiti agli anni che si considerano. Si tratta per lo più di testamenti, inventari e atti notarili. Le consorterie
erano dei consorzi attraverso cui le grandi famiglie cittadine che derivavano dallo stesso ceppo gestivano
il patrimonio comune e indivisibile (palazzi, castelli, patronati su chiese e cappelle). La Consorteria
Piccolomini fu istituita da Pio II nel 1459.
49
I rioni rappresentano, ancora oggi, la suddivisione del centro storico romano. Fu Augusto a decretare la ripartizione in 14 regiones (rioni) ciascuna dotata di propri poteri amministrativi, giuridici e militari.
I 14 rioni storici erano: Monti, Trevi, Colonna, Campo Marzio, Ponte, Parione, Regola, Sant’Eustachio,
Pigna, Campitelli, Sant’Angelo, Ripa, Trastevere e Borgo. Attualmente i rioni sono 22. Ai 14 originari si
sono aggiunti: Esquilino, Ludovisi, Sallustiano, Castro Pretorio, Celio, Testaccio, San Saba e Prati.
50
I rioni e i quartieri di Roma, vol. III: Sant’Eustachio, Pigna e Campitelli, Roma, Newton &
Compton, 1989, p. 579.
51
Ibidem.
52
Ibidem.
53
ARCHIVIO DI STATO DI SIENA (d’ora in poi ASS), Consorteria Piccolomini, b. 36, 6, c. 4r.
54
P. ADINOLFI, La via sacra o del Papa tra’l cerchio di Alessandro ed il teatro di Pompeo, Roma,
Tipografia Monaldi, 1865, p. 67.
55
A. PROIA-P. ROMANO, Il rione S. Eustachio, Roma, Libreria Internazionale «Modernissima»,
1937, p. 94.
56
Sui rioni e i palazzi di Roma cfr. tra gli altri: P. ADINOLFI, Roma nell’età di mezzo. Rione Campo
Marzio. Rione S. Eustachio, Firenze, Le lettere-Licosa, 1938; G. BARACCONI, I rioni di Roma, Roma,
50
ILARIA PUGLIA
Edizioni del Gattopardo, 1971; L. CALLARI, I palazzi di Roma e le case di importanza storica e artistica,
Roma, Apollon, 1944; G. CARPANETO, I palazzi di Roma, Roma, Newton & Compton, 1991; Roma e
lo studium urbis. Spazio urbano e cultura dal Quattro al Seicento, a cura di P. Cherubini, Roma, Quasar,
1989; D. GAVALLOTTI CAVALLERO, Palazzi di Roma: dal 14° al 20° secolo, Roma, Ner, 1989; V. GOLZIO,
Palazzi romani dalla rinascita al neoclassico, Bologna, Cappelli, 1971; I. INSOLERA, Le città nella storia
d’Italia: Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 1985; R. LANCIANI, Storia
degli scavi di Roma e notizie intorno alle collezioni romane di antichità, vol. IV: Dalla elezione di Pio V
alla morte di Clemente VIII (7 gennaio 1566-3 marzo 1605), Roma, Loescher & Co., 1912; M. LUGLI,
Urbanistica di Roma. Trenta planimetrie per trenta secoli di storia, Roma, Barali, 1998; Guide rionali
di Roma, Rione VIII: S. Eustachio, parte I, a cura di C. Pericoli Ridolfini, Roma, Palombi, 1977; C.
RENDINA, I palazzi di Roma: le principesche dimore, le splendide case e i pubblici edifici che hanno fatto
da scenario alla vita della Città Eterna dal Medioevo ad oggi: un affascinante itinerario di arte e storia tra
curiosità e misteri, nobili famiglie e famosi personaggi, vol. I, Roma, Periodici locali Newton, 1992-1993;
P. TOMEI, L’architettura a Roma nel Quattrocento, Roma, Palombi, 1942; G. TORSELLI, Palazzi di Roma,
Milano, Ceschina, 1965; G. VASI, Palazzi di Roma, Milano, Il Polifilo, 1993; C. VINCENTI MONTANARO,
Palazzi e ville di Roma, Venezia, Arsenale, 1999; J.J. WINCKELMANN, Ville e palazzi di Roma, Roma,
Quasar, 2000; L. ZEPPEGNO, I rioni di Roma, Roma, Newton & Compton, 1978.
57
A. PROIA-P. ROMANO, Il rione S. Eustachio, cit., p. 94.
58
P. ADINOLFI, La via sacra, cit., p. 68.
59
M.A. VISCEGLIA, Linee per uno studio unitario dei testamenti e dei contratti matrimoniali dell’aristocrazia feudale napoletana tra fine Quattrocento e Settecento, «Mélanges de l’École Française de Rome.
Moyen Age - Temps Modernes», XCV, 1983, 1, pp. 393-470: 410.
60
M.A. VISCEGLIA, Il bisogno di eternità, cit., p. 13.
61
ASS, Consorteria Piccolomini, b. 24, 6, cc. 1r-17v.
62
Ivi, c. 8r.
63
Cum prohibitione non possint dictam domum vendere, hypothecare, neque quocumque alio quesito
colore alienare, Ivi, c. 7v.
64
ASS, Notarile Antecosimiano, b. 1487, 527, cc. 1r-21v.
65
Ivi, cc. 13v/14r.
66
ASS, Consorteria Piccolomini, b. 36, 6, c. 4v.
67
M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio, cit., p. 138.
68
M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 94.
69
M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio, cit., p. 138.
70
ASS, Consorteria Piccolomini, b. 35, 7, c. 1v.
71
Ivi, b. 36, 6, cc. 5r-5v.
72
Ibidem.
73
Ivi, c. 6r.
74
Ivi, cc. 1v-2r.
75
Ivi, b. 37, cc. 6r-14r.
76
Ivi, b. 21, 1, c. 1r.
77
Con strumento rogato il 30 marzo 1544 dal notaio senese Giovanni Sersenese, Ivi, b. 36, 6, cc. 1r-11r.
78
Ivi, c. 5v.
79
Ibidem.
80
ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Monasteri Soppressi, b. 3208, 118, f. 1v.
81
ASS, Consorteria Piccolomini, b. 35, 10, cc. 10r-16v. Già la madre di Costanza, Silvia, in un codicillo rogato dal notaio napoletano Annibale Battinelli, aveva stabilito un legato di 3.000 scudi a favore
dei Padri Teatini, Ivi, b. 36, 6, c. 3r.
82
Ivi, c. 8v.
83
Ivi, 1, cc. 1r-24r.
84
Ivi, f. 21r.
85
Ivi, 6, c. 9v.
86
Sisto V (Felice Peretti) fu papa dal 1585 al 1590.
PER LA STORIA DEI FEDECOMMESSI
51
87
La costruzione della chiesa fu iniziata dal cardinale Alfonso Gesualdo su disegno di Pietro Paolo
Olivieri e, dopo mutamenti e indecisioni, «seguitata dal cardinale Alessandro Montalto e poi terminata
dal cardinale Francesco Peretti suo nipote» su disegno di Carlo Maderno (G. VASI, Indice istorico del gran
prospetto di Roma, Napoli, Reale Stamperia, 1770, p. 193).
88
M.C. ZORZOLI, Della famiglia e del suo patrimonio, cit., p. 142.
89
Ibidem.
90
Ibidem.
91
M. CARAVALE, Fedecommesso. Diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, vol. XVII, Milano,
Giuffrè, 1968, p. 114, nota 42.
92
R. TRIFONE, Il fedecommesso, cit., p. 155.
93
Ibidem.
94
L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 159.
95
Tutti i maggiori esponenti del pensiero settecentesco − Muratori, Galanti, Genovesi, Filangieri,
Beccaria − furono impegnati nella critica al fedecommesso. Il primo ad occuparsene fu Lodovico Antonio
Muratori, nel trattato Dei difetti della giurisprudenza, pubblicato nel 1742.
96
Dai beni affidati «il possessore temporaneo attende solo a spremere quel sugo che se ne può, senza
mai spendere un ducato in migliorie», G.M. GALANTI, Della descrizione geografica delle Sicilie, edizione a
cura di F. Assante e D. Demarco, vol. II, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969, vol. II, p. 153.
97
M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., p. 34.
98
A. GENOVESI, Lezioni di economia civile, Torino, Pomba, 1852, p. 29.
99
Ivi, p. 311.
100
G. FILANGIERI, La Scienza della Legislazione, Libro II: Delle leggi politiche ed economiche, Napoli,
Stamperia Raimondiana, 1784, p. 50.
101
Ivi, p. 52.
102
In particolare li riservò ai soli nobili, cfr. M. PICCIALUTI, L’immortalità dei beni, cit., p. 262.
103
R. TRIFONE, Fedecommesso. Diritto intermedio, in Novissimo Digesto Italiano, vol. VII, Torino,
Utet, 1961, p. 205.
104
M. CARAVALE, Fedecommesso, cit., p. 114.
105
R. TRIFONE, Fedecommesso. Diritto intermedio, cit., p. 204.
106
L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 165.
107
R. TRIFONE, Fedecommesso. Diritto intermedio, cit., p. 204.
108
Con provvedimento dell’Assemblea legislativa del 25 agosto 1792 e poi della Convenzione il 14
novembre 1792, cfr. M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., p. 34.
109
Ibidem.
110
Ibidem.
111
L. GAMBINO, Il substrato socio-culturale, cit., p. 168.
112
M.B.A. COMMENO-F. ANGOTTI, La sostituzione fidecommissoria, cit., p. 34.
113
Ibidem.
114
N. LA MARCA, Primogeniture e fidecommissi, cit., p. 161, nota 37.
115
R. TRIFONE, Fedecommesso. Diritto intermedio, cit., p. 205.
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
DURANTE EL SIGLO XVI
Abordar el estudio de la renta inmobiliaria en la Roma moderna1 supone
adentrarse en un terreno historiográfico casi completamente intacto y esto porque
la investigación histórica se ha ocupado muy de soslayo del tema del uso económico
de las viviendas urbanas en las ciudades preindustriales2. Innegable las implicaciones
artísticas implícitas a muchas construcciones, sobre todo las suntuosas residencias
financiadas por los sectores sociales más acomodados3, pero al mismo tiempo no es
menos evidente que todos los edificios, desde los elegantes palacios aristocráticos
hasta las más humildes viviendas populares, podían adquirir un determinado valor
de mercado, ora como riqueza productora de renta, ora como bien comercializable4.
En el contexto de las ciudades europeas de la Edad Moderna5, caracterizadas por
una tendencia demográfica ascendente6, el masivo arrendamiento de alojamientos de
hecho llegó a ser un importante factor de distribución de la riqueza detrás del cual,
en muchas ocasiones, subyacía un rígido control del suelo urbano para transformar
éste en un decisivo factor de creación de beneficios.
Aunque pocos numerosos, los trabajos dedicados al examen de los arrendamientos
urbanos7 han subrayado la magnitud de un fenómeno que, sin distinción alguna,
involucró a una gran parte de las ciudades europeas del Antiguo Régimen8. Desde
esta perspectiva, no resulta incongruente decir que uno de los rasgos típicos de las
ciudades modernas fue la generalización de los alquileres hasta el punto que éstos
llegaron a ser un medio eficaz para la obtención de renta de matriz capitalista9. Un
instrumento, en esencia, de acumulación de riqueza10 anclado en el medio urbano,
subordinado, sin duda, a las tendencias generales de fondo11 pero al mismo tiempo,
con un comportamiento diacrónico que funcionaba a modo de puntual indicador
de las energías y capacidades propulsivas del sistema urbano12. A partir del siglo
XV y con mayor intensidad durante el crecimiento demográfico del siglo XVI,
en torno a la arquitectura civil se desplegó un amplio abanico de intereses13 y las
viviendas generaron un intenso movimiento de dinero por medio de compraventas,
54
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
alquileres, préstamos y en medida no inferior, obras de restauración. Sin embargo y
pese al reconocimiento unánime de la importancia de esta amplia serie de factores,
constituye un dato cierto la lentitud con la cual esta ramificada realidad socioeconómica va siendo englobada en las síntesis propuestas para explicar las dinámicas
de crecimiento de la economía europea entre la Baja Edad Media y la primera Edad
Moderna. Esta paradójica situación ya ha sido motivo de comentario y aunque se
hayan sugerido diferentes pautas interpretativas capaces de superar una injustificada
exclusión14, de hecho todo lo concerniente con los patrimonios inmobiliarios y el
papel que éstos, como expresión de un determinado uso del suelo urbano, jugaron
en el ciclo económico preindustrial siguen constituyendo un aspecto historiográfico
que tarda en hallar una adecuada respuesta.
Para analizar algunos de los temas apenas indicados, en esta sede nos fijaremos
en el caso concreto del patrimonio inmobiliario de la iglesia-hospital Santiago y San
Ildefonso de los Españoles. Fundada a mediados del siglo XV en la central «piazza
Navona» para asistir a los súbditos del reino de Castilla que llegaban o residían en
Roma15, el establecimiento español a lo largo de los siglos XVI y XVII llegó a ser una de
las instituciones religiosas más ricas y prestigiosas de la ciudad16 y ello gracias a la rigurosa
explotación de una no muy extensa pero sí muy rentable base patrimonial compuesta
a comienzos del siglo XVII por 79 casas y 39 tiendas17. Desde un primer momento, la
actividad artística, social y asistencial de la iglesia-hospital fue la directa consecuencia
de una política patrimonial capaz de garantizar continuas y saneanadas entradas por
medio de un lucrativo uso de los arrendamientos18. Sin apoyos financieros por parte
de los monarcas españoles y con un aporte de las donaciones o limosnas muy bajo, el
destino de la iglesia-hospital castellana en Roma quedó supeditado a la capacidad de
adaptar la gestión patrimonial a las condiciones que imponía el entorno ciudadano. Sin
tardar, se creó un esquema presupuestario por el cual los administradores de Santiago
de los Españoles destinaban parte de la renta inmobiliaria al gasto o al ahorro, pero al
mismo tiempo no descuidaban la necesidad de mejorar la condición arquitectónica
de los edificios, su principal y única fuente de entradas19. El resultado, puntualmente
reflejado en los balances finales, es una trayectoria financiera ascendente durante el
«largo siglo XVI», tendencia en larga parte consecuencia directa de dos pautas de gestión
que veremos a continuación: la inversión en obras para aumentar el valor económico
de los inmuebles y la búsqueda en todo momento de una oferta de alojamientos capaz
de satisfacer una demanda de bienes de consumo –viviendas inclusive –cada vez más
refinada. Aunque pueda parecer banal indicarlo, al ser una entidad religiosa subordinada
al comportamiento de la renta inmobiliaria, entre la iglesia-hospital de Santiago de los
Españoles y el contexto urbano cuajó una compleja compenetración y sincronía de
movimientos. Por lo tanto, el patrimonio de esta institución constituye un excelente
instrumento para sondear algunas de las características de fondo de la trayectoria socioeconómica de Roma entre los siglos XVI y XVII.
55
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
La restauración de las viviendas : gastos y alquileres
El primer libro de cuentas de Santiago de los Españoles20 en el que entre las
voces que componían el gasto total figuran los «reparos de casas y materiales» es el
correspondiente al 1571. A partir de este año su presencia será constante. Hasta
esta fecha los gastos derivados de la conservación de los edificios aparecen incluidos
entre los egresos generales, sin una específica separación o distinción. De ahí que el
cambio en la forma de presentar las cuentas finales no se debe tanto a una simple
cuestión de mera forma administrativa, sino que en realidad refleja la exigencia
de tener que controlar con bastante eficacia el dinero destinado a financiar un
premeditado y bien estudiado programa de recualificación inmobiliaria21. Por lo
tanto siguiendo las pautas de conducta y las medidas adoptadas por los dirigentes
de la institución castellana durante el último cuarto del siglo XVI es posible
observar la estrecha relación existente entre la evolución de la renta patrimonial
y la transformación del tejido urbano de Roma. Sin embargo antes de ilustrar
algunos casos específicos de gran interés para nuestro tema de estudio conviene
detenerse, aunque sea por un momento, a analizar el comportamiento diacrónico
de los gastos ocasionados por las obras en las casas.
Como testimonian el cuadro y el gráfico 1 desde 1571 hasta 1609 el descargo
de las construcciones realizado por Santiago de los Españoles ascendió a un total de
38.652 escudos de moneda, es decir el 14,70% de los gastos globales acumulados
durante este periodo y el 21,34% del volumen de los alquileres obtenidos. Si pasamos
de las cifras absolutas al promedio anual, vemos que la congregación ibérica destinaba
cada año algo más de 1000 escudos para mejorar la condición material de su riqueza
inmobiliaria. La visita apostólica de 162422 refleja una situación en movimiento ya
que si por un lado las reparaciones y la compra de materiales siguen absorbiendo el
13% del gasto anual, por otro los ingresos inmobiliarios destinados a este capítulo
disminuyen al 13,3%.
Gráfico 1- Evolución del gasto en obras: porcentaje sobre el gasto total
50
45
40
35
30
25
20
15
10
1608
1606
1604
1602
1600
1598
1596
1594
1592
1590
1588
1586
1584
1582
1580
1578
1576
0
1574
5
1572
%
56
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
Cuadro 1- Evolución del gasto en obras en las casas de Santiago de los Españoles (1571-1609)
Año
1571
1572
1573
1574
1575
1576
1577
1578
1579
1580
1581
1582
1583
1584
1585
1586
1587
1588
1589
1590
1591
1592
1593
1594
1595
1596
1597
1598
1599
1600
1601
1602
1603
1604
1605
1606
1607
1608
1609
A
3463
3291
--5169
-6101
5456
4968
4901
7407
6193
6713
5733
5548
7117
6165
5572
6328
6859
6268
7052
5649
5437
7180
8526
5521
11443
9000
11248
8656
8896
9297
8921
8749
8099
-14139
8386
B
1436
983
--1393
-2361
2403
558
1109
2972
1628
939
510
2268
995
866
295
584
590
776
374
770
378
334
495
339
1878
3075
1226
1438
1591
1149
828
629
377
-656
449
C
41,46
29,86
--26,95
-38,69
44,04
11,23
22,62
40,12
26,28
13,98
8,89
40,88
13,98
14,04
5,29
9,22
8,61
12,38
5,31
13,63
6,95
4,65
5,81
6,14
16,41
34,16
10,89
16,61
17,88
12,35
9,28
7,18
4,65
-4,63
5,35
D
44,25
30,03
--40,06
-62,32
55,12
12,75
25,54
69,61
35,59
19,45
10,51
47,13
19,77
16,76
5,61
10,95
11,12
14,91
6,89
14,42
7,04
6,13
9,08
6,17
33,38
53,24
21,09
24,68
27,67
18,65
12,71
9,67
5,75
-9,93
7,05
Fuente: M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., pp. 133-134.
A) Gasto total anual en escudos de moneda; B) Gasto anual en obras anual en escudos de moneda; C) % entre el
gasto total y el gasto de obras; D) % entre el gasto de obras y los alquileres.
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
57
Es decir si hacia los años setenta del siglo XVI una gran parte de los beneficios
provenientes de los alquileres de las casas se utilizaba directamente para financiar
las obras de conservación arquitectónica ordinaria y extraordinaria, a comienzos del
siglo XVII un porcentaje cada vez más consistente de la renta proveniente de los
alquileres se reserva a otras formas más rentables y seguras de utilizar el dinero, sobre
todo la compra de títulos de deuda pública del estado. Se comprende de esta forma
un vistoso descenso que nos permite comprender algunos de los cambios que se
estaban produciendo en el mercado inmobiliario romano entre ambos siglos, un
mercado que lentamente se estaba encaminando a vivir durante casi todo el siglo
XVII una prolongada fase de inmovilismo23.
Como todas las medias aritméticas, las que se acaban de presentar disimulan
realidades muy dispares entre sí. De esta forma destacan las puntas máximas del periodo
1571-1585 y 1598-1603, frente a un evidente descenso para los años 1586-1597 y
1604-1609. Aun a costa de forzar los datos apenas indicados, semejante disparidad
consiente distinguir dos fases de claro signo contrario: la primera correspondiente a
grandes líneas con el pontificado de Gregorio XIII (1571-1585) caracterizada por
considerables inversiones en el sector de la arquitectura civil y otra, de enfriamiento
a medida que las restricciones presupuestarias y una mayor cautela administrativa se
impusieron en la política patrimonial de Santiago de los Españoles. Si exceptuamos
los picos de 1598-1603, cuando la celebración del Año Santo implicó un vistoso
aumento de todas las voces que componían el gasto general, no es casual que los
miembros de la congregación general del 25 de junio de 1606 deliberasen sobre la
conveniencia de utilizar el dinero proveniente de la venta de un grupo de casas para
comprar «lugares de montes no vacables de los mejores y mas seguros por no tener
tanta hazienda en casas que se gasta mucho en reparos»24.
Sin poder entrar en detalles, veamos cómo algunas grandes obras se sucedieron
en el tiempo. Si a comienzos de 1576 se arregló parcialmente la casa de la «via della
Scrofa», mucho mayor fue el esfuerzo presupuestario al hilo de la ampliación de
los inmuebles localizados en «via del Pellegrino» durante el bienio 1577-1578: una
inversión de más de 2000 escudos de moneda gracias a los cuales se fabricaron cinco
nuevos alojamientos25. Las obras en las casas de la iglesia de Santiago de los Españoles
de «via del Pellegrino» constituye uno de los ejemplos más claros de la estrecha relación
existente entre evolución de la renta inmobiliaria y transformación física de la ciudad.
La casa en la que vivía Agostino de Ferrara fue demolida y en su lugar se edificaron
tres residencias unifamiliares verticales compuestas por una tienda en la planta baja
y tres pisos de altura26. Para concluir este ambicioso proyecto de recomposición fue
imprescindible utilizar algunas de las habitaciones de la casa colindante ocupada por
los herederos de César de Alza quienes, pasados algunos meses abandonaron el resto
del edificio y los administradores castellanos ya sin ningún tipo de impedimento
se apresuraron a dividir en cuatro el espacio disponible. Tipológicamente las casas
58
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
obtenidas al final de estas obras seguían siendo profundas y de planta estrecha, pero
aun así la intensiva y atenta programada ocupación del suelo urbano no tardó en dar
los resultados esperados. Si hasta 1577 Santiago de los Españoles en el cruce entre
la «piazza dei Cappellari» y la «via del Pellegrino» poseía 14 inmuebles equivalentes
a una renta máxima de 760 escudos de moneda, desde 1578 el patrimonio en esta
zona de la ciudad, desde siempre caracterizada por su vocación comercial y artesanal,
ascendió a 19 propiedades con una renta mínima de 1207 escudos, un incremento
bruto de un 60% en apenas dos años demostrando hasta que punto la acuciante
necesidad de alojamiento por parte de los numerosos inmigrantes que llegaban a
la ciudad estimulaba y garantizaba el éxito de tales operaciones inmobiliarias.
Asimismo cuando en 1578 Juan Vélez, canónigo de la iglesia de Toledo, dejó libre
la casa que ocupaba en la «piazza dei Satiri», la planta baja del edificio se dividió
en tres tiendas independientes. Lo mismo ocurrió entre 1581 y 1584 cuando se
separaron dos unidades de residencia de la «piazza Navona» para abrir cinco locales
destinados a artesanos o comerciantes. En todos estas circunstancias, Santiago de
los Españoles, multiplicando la oferta residencial, creaba las condiciones necesarias
para capitalizar las inversiones patrimoniales realizadas y desde este punto de vista,
no sólo se desprende el interés por salvaguardar la condición material de las fincas,
sino que se miraba a incrementar la plusvalía del edificio, aunque ello comportase
afrontar desembolsos de una cierta cuantía. Así, por ejemplo, en 1585 se sacaron de
la caja donde guardaba el dinero líquido 2000 escudos para restaurar la casa de Juan
de Solano localizada en la «piazza Navona»; antes de las obras, la casa producía una
renta de 66 escudos de moneda, una vez ultimadas las mejoras, el alquiler pasó a 170
escudos de moneda, es decir un aumento nominal de casi 158% y la seguridad de
cubrir los gastos realizados en el plazo de 12 años.
Concluyen este ciclo de incisivas transformaciones impulsadas y subvencionadas
por la institución castellana las construcciones de los años 1596-1599. En 1596
se empezaron a fabricar tres tiendas en el patio de la casa grande de la «piazza di
Santa Chiara»; al final y aunque se había previsto utilizar 300 ó 400, el gasto fue de
1200 escudos de moneda. Los ejemplos hasta ahora propuestos se refieren al último
cuarto del siglo XVI pero también a comienzos de la centuria se aprecia el mismo
deseo de mejorar arquitectónicamente los edificios como requisito imprescindible
para exigir alquileres mucho más altos. El 10 de octubre de 1525 los administradores
de la iglesia-hospital concedieron a Cesare di Alexis, clérigo romano, doctor en
ambos derechos y caballero de la Orden de San Pedro, una casa en el rione «Campo
Marzio»27. El contrato prevé una cesión vitalicia y el pago de un alquiler anual de
apenas siete ducados de oro, además de un gasto de otros 60 en obras de restauración.
En la escritura de arrendamiento se describe con particular riqueza de detalles el
pésimo estado de conservación del inmueble y como se indica en el documento,
su irremediable destino a transformarse en pajar o en un montón de escombros si
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
59
no se realizaba una urgente reforma. Sin embargo, dos meses más tarde, el clérigo
romano con su familia ya vivía en dicha casa y las inversiones efectuadas, por encima
de los 100 ducados, habían cambiado drásticamente la pésima situación inicial. El
inquilino, utilizando su propio dinero, había construido una gran puerta de madera
e hierro con peldaños en «peperino», había pavimentado las habitaciones internas,
había arreglado las escaleras de madera y ladrillo ad usum modernum reduxit cum
armariis et aliis commoditatibus, había instalado desagües para recoger la lluvia y
las aguas residuales, había pintado y encalado varios cuartos, en definitiva, había
demostrado tanto esmero y buen gusto en la tarea de rehabilitación que los
administradores de la iglesia castellana, cuando realizaron una visita para verificar
que se habían respetado las condiciones del contrato, no pudieron dejar de reconocer
que la vivienda, gracias al tipo y la calidad de las mejoras introducidas, era a partir
de ese momento idónea para cualquier curial. El encomio de los oficiales no se limita
sólo a resaltar los detalles arquitectónicos de la operación, sino que conlleva un juicio
también de carácter económico pues se calcula que los futuros inquilinos en vez de
pagar un alquiler anual de apenas 7 ducado de oro, tendrían que desembolsar 26
taliter fiat meliorata. Aunque el caso de Cesare de Alexis constituya un buen ejemplo
de un comportamiento muy difundido, no es el único que demuestra hasta que
punto la transformación del caserío urbano también dependía de la voluntad de
los inquilinos, sobre todo los de mayor poder adquisitivo, de ocupar viviendas cuya
superficie fuese cada vez mayor.
Desde este punto de vista otro episodio bastante elocuente es el protagonizado
por Juan Bejel de Almansa, clérigo de Jaén y escritor de breves apostólicos. El 9 de
septiembre de 1574 alquiló una casa y tres tiendas de la «via della Pace» por el precio
de una renta anual de 80 escudos de moneda28. Sin embargo dos años más tarde
solicitó a la congregación religiosa el permiso para realizar determinados trabajos y
los oficiales de Santiago, oída la propuesta, aceptaron que el clérigo había tomado
los cuatro inmuebles para vivir con mayor holgura puesto que la casa en cuestión
«no sería para ser habitada de otro que de artesanos como primero era por su vejez
e incomodidad». A causa de esta situación, el inquilino «en beneficio de la yglesia y
comodidad suya» suguiere modificar completamente el inmueble para emparejarlo
con los colindantes y de esta forma construir «una buena habitacion comoda a
qualquier persona y de mucho provecho de lo que agora es». Los trabajos ascendieron
a 500 escudos de moneda a cargo enteramente del inquilino. A finales del siglo XVI
cuando se volvió a alquiler la propiedad de la «via della Pace», el arrendamiento ya
ascendía a 100 escudos, un aumento del 20% respecto al imperante en 1574.
Si ahora nos trasladamos a la cercana «piazza Navona» tampoco aquí el modo
de razonar y de entender la gestión patrimonial cambia. Más bien se observa todo
lo contrario, es decir se realiza una intensa actividad de transformación física
de los edificios, a veces para aumentar el número de unidades de renta, en otras
60
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
circunstancias para obtener unidades de renta más espaciosas y por lo tanto más
caras. Desde este punto de vista, cabe destacar como entre 1604 y 1614 varias casas
de tradición medieval, largas y estrechas, fueron fundidas en un único cuerpo y la
fachada principal fue elevada hasta alcanzar la altura de las demás casas de la iglesia.
El resultado es una arquitectura civil homogénea a través de la cual la plaza adquiere
su inconfundible semblante barroco. El ejemplo más elocuente de lo que se está
diciendo es el del procurador Baltasar Bonadies29 quien el 3 de diciembre de 1599
pidió a la congregación que le fuese cedida la casa contigua al edificio religioso que
ocupaba Fernando de Pesquera; de esta forma, uniéndola a la suya, podía construir
otra de mucha mayor mole arquitectónica, casi un pequeño palacio en el corazón de
la ciudad. La idea fue aceptada y el 13 de febrero de 1600 se firmó un acuerdo por
el cual el nuevo inquilino, tras haber recibido el derecho de uso de dos casas y cuatro
tiendas, se comprometía a pagar cada año una renta de 485 escudos de moneda y a
desembolsar otros 1500 en obras.
Al cabo de esta secuencia de construcciones de nueva planta, de restauraciones y
de mejoras completas, muchas de ellas de no poca importancia presupuestaria, se debe
admitir que el patrimonio inmobiliario de Santiago de los Españoles representa una
fiel testimonianza del hondo movimiento de renovación y expansión que caracterizó
Roma durante todo el siglo XVI. En ciertas ocasiones, el esfuerzo financiero no
fue nada desdeñable, pero existía la certeza de que la presión demográfica y por
siguiente la escasez relativa de alojamientos incrementarían el valor de los solares
y actualizarían sin excesiva dificultad las entradas, sin excluir por ello la necesidad
de adoptar una gestión de claro carácter especulativo y de practicar una agresiva
política patrimonial incluso desembolsando gruesas sumas de dinero para cancelar
en anticipo los contratos de larga duración30. Del análisis de los datos, emerge con
fuerza la tendencia alcista del alquiler inmobiliario expresado en valores nominales.
Sin embargo, detrás de esta afirmación que de por sí sintetiza la evolución de toda la
capital del Estado de la Iglesia, se esconden procesos no perfectamente convergentes
o que en función de la distinta velocidad de crecimiento, al final se tradujeron en
un espacio urbano compartimentado en zonas de gran empuje y otras que, si bien al
principio punteras, a la larga rezagaron y se distanciaron pasando a ser la parte arcaica
del patrimonio. A finales del siglo XV si se exceptúan las casas del rione «Ponte», los
alquileres más altos se localizaban en la «via del Pellegrino» y la alta concentración
patrimonial en esta zona ocasionaba que fuera la zona que garantizaba una renta más
abultada. Un siglo después la situación ya no es la misma pues el alquiler de la «via
del Pellegrino» es igual o ligeramente inferior al de las plazas Navona y Santa Chiara.
Se perfila pues a lo largo del Quinientos una distinta evolución por la cual el alquiler
en las casas de la «via del Pellegrino», incluso siendo alto, creció a un ritmo mucho
más lento que el de las viviendas de la «piazza Navona». Esta es la causa que explica
por qué el crecimiento porcentual de toda la centuria alterò las posiciones de partida
61
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
y en razón de ello se delinee un mapa de la ciudad del que se desprende una neta
e insalvable fractura entre el núcleo patrimonial de origen medieval en la «via del
Pellegrino» y la más moderna barroca «piazza Navona».
Cuadro 2 - La renta inmobilaria de Santiago de los Españoles (1500-1609)
Año
Baiocchi
Indice móvil
Indice fijo
1500-09
72540
100%
100%
1510-19
89030
23%
23%
1520-29
104380
17%
44%
1530-39
111240
6%
53%
1540-49
178620
60%
146%
1550-59
226910
27%
213%
1560-69
266860
17%
268%
1570-79
366060
37%
405%
1580-89
487010
33%
572%
1590-99
533260
9%
636%
1600-09
628990
18%
768%
Fuente: M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., p. 46.
Sin embargo apenas concluido el primer cuarto del siglo XVII comenzaron a
aflorar los problemas. El patrimonio inmobiliario dejó de crecer; las casas deshabitadas
– come testimonian los viajeros del tiempo – eran cada vez más numerosas, y
los inquilinos se demostraban reacios a emplear grandes sumas de dinero en la
conservación arquitectónica de los edificios. Para la institución castellana, vinculada
económicamente al flujo de las rentas inmobiliarias, se acercaban tiempos menos
floridos. Así lo testimonia un informe de la segunda mitad del siglo XVII en el
cual se reconoce que la institución religiosa carecía de recursos holgados y que
había «otras necesidades más precisas en que emplear el dinero»; además se añade,
demostrando una posición mucho más prudente, que una gran construcción «dava
ocasion a presumir que estava la iglesia muy rica que la potencia, curiosidad o codicia
podian entrar a examinar las rentas» y que el «fabricar siempre se comiença por
poco y acava con doblados los gastos de los que dicen los architectos». Aunque se
trata de un texto que refleja una actitud mucho más cauta resultan muy interesantes
los argumentos que se barajan a la hora de indicar lo inoportuno de construir sin
tener la adecuada cobertura financiera. ¿Hasta dónde la trayectoria del patrimonio de
62
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
Santiago de los Españoles constituye un caso aislado? Si bien falten estudios similares
para otras grandes instituciones religiosas romanas31, es innegable que las decisiones
adoptadas por los oficiales de la iglesia-hospital demuestran la palmaria y premeditada
implicación en el proceso de expansión y de modernización urbana vivida por Roma
entre los siglos XVI y XVII.
Gráfico 2 - Renta inmobiliaria de Santiago de los Españoles (100 = 1500-1509)
900%
900%
800%
800%
700%
700%
600%
600%
500%
500%
400%
400%
300%
300%
200%
200%
100%
100%
0%
0%
1500-09
1510-19
1500-09
1510-19
1520-29
1520-29
1530-39
1530-39
1540-49
1540-49
1550-59
1550-59
1560-69
1560-69
1570-79
1570-79
1580-89
1580-89
1590-99
1590-99
1600-09
1600-09
Al margen del clásico modelo de rentistas absentista, Santiago de los Españoles
no se limitó a aceptar pasivamente los beneficios que producía la coyuntura alcista, al
contrario demostrando ser un propietario atento y responsable utilizó los instrumentos
a su disposición – entre ellos los contratos de arrendamiento – para mantener y cuando
era posible aumentar el margen de beneficio derivado de su patrimonio inmobiliario32.
En tal sentido, además de utilizar los fondos ordinarios poseídos por la institución
y de aplicar contratos que dejaban la responsabilidad de la realización de las obras a
los inquilinos, la congregación castellana tampoco excluyó la eventualidad de solicitar
préstamos para sufragar los gastos derivados de la conservación de los edificios. De esta
forma, durante el último cuarto del siglo XVI se estipularon varios contratos gracias a
los cuales la iglesia-hospital logró el dinero suficiente para cubrir presupuestariamente
el arreglo o la edificación de nuevas casas. El método de crédito era el corriente en
estas circunstancias, es decir el censo consignativo o hipotecario. El interés medio de
los préstamos ad reparandum ronda el 7% y sumados todos los capitales obtenidos por
esta vía, se alcanzó un tercio de los gastos constructivos acumulados durante el periodo
1571-1609. En definitiva, una gran parte de los préstamos solicitados por la institución
religiosa no sirvieron para cancelar deudas y tanto menos para el embellecimiento
del edificio religioso como mero gasto suntuario, más bien, todos los recursos, tanto
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
63
ordinarios como extraordinarios, se destinaron a dinamizar la marcha ascendente de la
renta inmobiliaria.
La explotación de la riqueza inmobiliaria urbana, gracias a la cual la institución
gozó de una absoluta estabilidad financiera hasta el momento de su disolución a
mediados del siglo XIX33, monopolizaba gran parte de la actividad de los oficiales de
la iglesia castellana cuyo norte era, en todo momento, aumentar el rendimiento del
patrimonio para asegurar de esta forma unos recursos capaces de sostener y preservar
la fama que la institución religiosa tenía en la sociedad romana. Una meta económica
racional que trascendía de la pasiva postura de amasar bienes raíces provenientes
de donaciones y legados o a lo sumo, conformarse con la amortización de alguna
propiedad para luego inmovilizarla en improductivas cesiones vitalicias. A lo largo
de todo el siglo XVI Santiago de los Españoles se demostró extraordinariamente
permeable a los impulsos provenientes del contexto urbano para acomodar sin
bruscas oscilaciones o reveses la marcha de su riqueza patrimonial a la situación
económica general. Esta serie de factores implica que la gestión patrimonial de la
institución española desembocó en una política intervencionista con ribetes de activo
espíritu especulativo, sobre todo, por cuanto concierne la continua revisión de los
importes de los alquileres y la reducción de la superficie de las parcelas para aumentar
el número de unidades de renta disponibles.
Focalicemos este dinámico comportamiento en un periodo de tiempo bien
delimitado. Si con anterioridad al 1500 el crecimiento de las entradas se debió a la
adquisición de un gran numero de casas, en el primer cuarto del siglo XVI, con un
patrimonio ya consolidado, el modo de acceder al grueso de las rentas implicó un
comportamiento diferente. Si en 1499 los ingresos inmobiliarios nominales ascendían
a 776 ducados de carlinos, en 1527 eran de 1469 ducados. Durante el primer cuarto
de siglo del Quinientos, Santiago de los Españolas compró poco más o menos de
10 unidades de renta que en 1527 producían una renta de 263 ducados. Los 1206
restantes provenían de las propiedades existentes ya en el inventario de finales del
XV. En otras palabras, de los 1469 ducados de carlinos de 1527, el 18% dependía de
las viviendas incorporadas entre 1500 y 1525, el 82% restante se debía al aumento
de los alquileres de las propiedades ya poseídas a finales del siglo XV. Una actitud en
pos del máximo beneficio que mucho dependía de la continua transformación de las
características arquitectónicas de las viviendas, aspecto éste que en el caso específico
de Santiago de los Españoles puede ser estudiado en detalle gracias a la existencia de
una rica serie di visitas o inspecciones realizadas a lo largo del siglo XVI.
Tipología y características arquitectónicas de las viviendas
Si la documentación notarial medieval34 proporciona noticias bastante desilvanadas
para un correcto conocimiento de la estructura interior y exterior de las casas, en
1530 los administradores Juan de Madrigal y Francisco del Rincón realizaron una
64
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
inspección de las casas que en dicho año poseía la iglesia castellana de Roma35. En
total fueron visitadas 52 viviendas y de cada una de ella se realizó una pequeña
descripción. Parece lógico pensar que la Visita de las casas de 1530 se efectuó para
conocer el estado de conservación de los inmuebles tras el saqueo de 1527 y la riada
del 1530, una de las peores sufridas por la ciudad. Aunque la masa de información no
sea elevada, si la comparamos con las lacónicas anotaciones que los notarios incluían
en los contratos de compraventa o arriendo, la inspección de 1530 constituye sin
duda una fuente de gran interés para conocer el estudio de la arquitectura civil de
Roma entre la Edad Media y el Renacimiento.
Los inmuebles reciben el nombre de domus o domuscula, pero un tipo de
alojamiento muy difundido es la domus cum apoteca (el 38% de las fincas), sobre
todo en las zonas de la ciudad de mayor tradición comercial y artesanal (via del
Pellegrino, piazza Navona, piazza dei Satiri). Según la fuente, el 42,8% de las
viviendas recorridas posee dos pisos por encima de la planta baja; el 21,4% un
solo piso; el 16,6% exclusivamente la planta terrena y el 14,3% tres pisos además
de la planta baja. Los edificios más altos se localizan en la «piazza Navona» (dos o
tres pisos), por su parte en la «via del Pellegrino», el otro gran núcleo patrimonial
castellano en la ciudad, predominan las viviendas de un único nivel por encima de
la planta baja. Superada la puerta de ingreso, el primer ambiente que se encuentra
en la planta baja es el atrio donde normalmente está localizado el pozo y la pila para
el agua; al fondo del solar suele haber un pequeño espacio descubierto, un huerto
o algún local de servicio (establos, cocinas, pajares). A través de las escaleras se sube
a la planta principal en la que destaca la existencia de una «sala» o de una «sala con
camara» pero tampoco faltan viviendas con una «sala» y dos o más habitaciones.
Estas pueden ir de una en las viviendas más modestas del rione «Campo Marzio» a
las cinco o seis de las espaciosas casas de «piazza Navona». Un inmueble de la «via
del Pellegrino», ocupado por un artesano, consta de una tienda en la planta baja y
de dos habitaciones en el piso superior; a pocos metros de distancia, en la misma
calle, otro menestral disponía de una sala y cuatro habitaciones. Por lo tanto si en la
planta noble la fórmula más corriente es la de una sala y una habitación, en los pisos
altos se tiende a reproducir este esquema con mucha mayor flexibilidad, el resultado
es un espacio vertical mucho más dividido. Rematan las viviendas azoteas o terrazas
descubiertas. En lo referente a los sistemas de conexión en horizontal, además del
zaguán y el patio, hay sólo esporádicas menciones a corredores (anditi) que, a juzgar
por los comentarios de los administradores, debían de ser espacios de circulación
estrechos y poco iluminados.
La siguiente visita, la de 155536, incluye una importante novedad que demuestra
una creciente sensibilidad hacia la dimensión material de los edificios. En esta
circunstancia las viviendas descritas son 72 y de cada una de ellas se indican las
medidas del solar. Si éste conserva todavía la regularidad del lote medieval (largo
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
65
y estrecho) se incluyen el largo y el ancho, pero si el edificio en planta presenta un
perfil catastral irregular, es decir, con entrantes y salientes, entonces se especifican las
dimensiones de todos los ambientes que componían la planta baja. Por esta y otras
razones, se puede considerar el texto de 1555 un instrumento administrativo maduro
que refleja un criterio rigurosamente racional a la hora de abordar el control de la
dimensión arquitectónica del patrimonio inmobiliario.
Realizando un cálculo medio, la superficie de los solares de la casas de Santiago
de los Españoles es de 20,84 canne cuadradas, es decir 104,02 metros cuadrados37.
Innecesario subrayar las abismales diferencias que se esconden detrás de este dato.
Las dos viviendas más amplias, entre la «via dei Chiavari» y la «via del Crocefisso»,
ocupan respectivamente 146 y 137 canne cuadradas, pero en ambos casos se trata de
fincas con amplios jardines traseros. Un poco por debajo se coloca el elegante palacio
de la «piazza di San Luigi dei Francesi» (124 canne cuadradas) y en el extremo opuesto
tenemos algunas pequeñas tiendas de la «via del Pellegrino» y de la «piazza di San
Martinello» (3-4 canne cuadradas). Desde un punto de vista estadístico predominan
las viviendas por debajo de las 20 canne cuadradas (el 70%); las que ocupaban entre
20 y 30 canne cuadradas son el 16,6%, mientras que las que están por encima de
las 30 canne cuadradas son apenas el 10%. Desde un punto de vista topográfico, las
casas de la «piazza Navona» miden 22,13 canne cuadradas (110,46 m2), las del rione
«Ponte» 17,68 canne cuadradas (88,25 m2), las de la «via del Pellegrino» 11,48 canne
cuadradas (57,30 m2) y las del rione «Campo Marzio» 11 canne cuadradas (54,65
m2). Si se considera que en la Roma medieval38 el lote gótico alcanzaba y superaba
con facilidad los 100 m2, a tenor de los datos extrapolados se observan, en el tamaño
del parcelario, los efectos de una llamativa densificación de la población en ciertos
puntos neurálgicos del llamado «Barrio Renacentista».
Al lado de parcelas regulares con muros medianeros rectilíneos perfectamente
escuadrados y con una única sección longitudinal y transversal (figg. 1-2), hay
otras con contornos perimetrales irregulares resultado de la yuxtaposición axial de
habitaciones o espacios de desigual anchura que crean una planimetría quebrada con
un continuo juego de encastres con los inmuebles colindantes. Es lo que sucede, por
citar el caso más elocuente, en las casas de la «via del Pellegrino» cuyo desarrollo en
profundidad se complica a medida que se alcanza el centro de la manzana. Aunque la
tienda a la cabecera del lote imprima una notable dosis de uniformidad a la fachada
principal, en realidad cada cédula de residencia practica una zonificación que no
siempre se ajusta a los márgenes parcelarios primitivos pues los bordes de los solares
se ensanchan o se estrechan según las necesidades de cada alojamiento y según la
posibilidad de estirarse hasta ocupar los huecos libres existentes en el centro de la
manzana (figg. 3-4) 39. El resultado es una saturación del suelo urbano que en las plantas
altas conlleva un cada vez mayor «desorden» residencial40. De hecho, el concepto de
bloque vertical, en las calles donde más alta era la densidad demográfica se fragmenta
66
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
Fig. 1. Casa de Santiago de los Españoles en via Tor di Nona (año 1680)
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
Fig. 2. Casa de Santiago de los Españoles en via dei Coronari (año 1680)
67
68
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
Fig. 3. Casa de Santiago de los Españoles en via del Pellegrino (año 1680)
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
Fig. 4. Casa de Santiago de los Españoles en via del Pellegrino (año 1680)
69
70
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
pues por la continua superposición de habitaciones ocupadas por diferentes núcleos
familiares. Todavía no es correcto hablar de división de la propiedad en apartamentos
pero el arrendamiento de un local comercial con una trastienda o un pequeño altillo
desgajado de los pisos superiores comienza a erosionar la tradicional identificación
entre parcela y núcleo familiar41. Desde este momento, los alojamientos altos ya no
siempre coinciden con los inferiores en una única célula residencial y en las plantas
bajas se encajan ambientes pertenecientes a las casas adyacentes. Nace de esta forma
un hábitat urbano abigarrado, muy poco adecuado para las exigencias de la personas,
sin embargo de extrema rentabilidad para el propietario que lo explota y lo ordena
en función de sus específicos intereses.
El segundo aspecto que destaca de la visita de 1555, también como consecuencia
de la presión demográfica, es observar como los edificios han crecido en altura. Si
en 1530 lo normal eran los edificios de uno o dos pisos por encima de la planta baja
(el 74%), a mediados del siglo XVI la nota dominante la constituyen los edificios
de dos y de tres pisos (el 72%). Donde mejor se aprecia este importante cambio
es en la «via del Pellegrino» cuyas casas en el plazo de apenas veinte años pasan
de ser de planta baja o de un solo piso (el 72,7%) a tener de dos a tres pisos por
encima de la planta baja (el 73,3%). Una ciudad, cabe deducir a la luz de la visita
de los administradores de Santiago de los Españoles, que ocupa todos los rincones
posibles para fabricar una nueva habitación o un nuevo piso, en realidad para los
propietarios inmobiliarios cualquier solución era válida, lo que contaba era adquirir
nuevos inquilinos y rentabilizar al máximo el control del suelo edificado.
Si desde un punto exterior la situación aparece en plena evolución, también por lo que
se refiere a la división de los espacios interiores los cambios se comienzan a entrever. Lo
usual sigue siendo la «sala cum camera», cuando una sala contiene más de tres habitaciones
suele recibir el apelativo de «sala magna» o «sala amplia». Un aspecto que comienza a
asomarse a mediados del siglo XVI es el aumento de los espacios de circulación y de
las zonas de paso dentro de la vivienda. Las viviendas, desde este momento, adquieren
mucha mayor intimidad y de aquí la proliferación de los pasillos.
Las sucesivas inspecciones, tanto la de 1576 como la de 158142, se limitan a copiar
la de 1555 anotando, si es necesario, los cambios realizados durante estos años. Por
este motivo hay que remitirse a la visita realizada entre 1609 y 161043 la cual, por rigor
y riqueza de detalles, ocupa un puesto destacado entre las fuentes archivísticas útiles
para el estudio de las características de la arquitectura civil de Roma entre los siglos
XVI y XVII. El códice contiene la descripción de 80 inmuebles pero esta cifra no da fe
de la efectiva consistencia de la riqueza patrimonial de la iglesia castellana porque los
numerosos locales comerciales situados en las plazas Navona, Santa Barbara, de la Pace
no reciben una numeración propia. Es decir, aunque se alquilaban por su cuenta, las
tiendas de las plantas bajas (denominadas de todas formas «membro di questa casa»)
no fueron inventariadas como unidades de residencia independientes. Por esta razón,
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
71
sumando las tiendas el patrimonio de Santiago de los Españoles a comienzos del siglo
XVII ascendía a unas 120 unidades de renta.
En el curso de su realización los administradores del ente religioso tomaron cumplida
nota de todo lo que veían y no quedó cuarto o ambiente que no fuera escrupulosamente
medido. Se afinan las noticias sobre los sistema de iluminación y de calefacción; sobre
los materiales y la forma de los techos, los suelos y las paredes; sobre las cocinas y las
habitaciones. En definitiva un prolijo material que proporciona, creando no pocos
problemas para un adecuado manejo, una cascada de cifras y de detalles.
Los cambios más significativos se aprecian en las viviendas de la «piazza Navona»
las cuales, concentradas en torno al edificio religioso, constituyen un válido ejemplo
del consolidamiento de un tejido urbano de prestigio. Destinadas al alojamiento de
cortesanos y funcionarios de la corte papal, las casas estaban emplazadas sobre grandes
superficies y en general se abrían al espacio público de la plaza por medio de un frente
de notables dimensiones que englobaba dos o más parcelas precedentes (figg. 5-6).
Santiago de los Españoles al ser el propietario de casi toda la manzana podía planificar
y realizar semejantes operaciones inmobiliarias sin ningún tipo de problemas, no debía,
como a menudo sucedía en otras partes de la ciudad, entablar largos y costosos pleitos
con los propietarios de las casas colindantes. De todas formas la integración parcelaria
realizada en la «piazza Navona» posee evidentes y claras implicaciones sociales, lo que
se trataba de hacer, favoreciendo la construcción de espaciosas viviendas era atraer a
inquilinos con un alto poder adquisitivo; por su parte, en la cercana «via del Pellegrino»,
zona de alojamiento y trabajo para mucho artesanos, se prefirió mantener la estructura
de las viviendas (profundas y estrechas), por esto ambos ejemplos demuestran hasta
donde la renovación o conservación de la parte edificada de la ciudad dependían de
los márgenes de beneficio que se querían crear; a este principio quedaban supeditados
tanto el tipo como la función de los edificios. Es decir la trayectoria de Santiago de los
Españoles demuestra como el tipo de vivienda cambia cuando su propietario, si las
destinaba al alquiler, vislumbraba la posibilidad de exigir una renta más alta, en caso
contrario no era imprescindible modificar la situación reinante.
A este punto y una vez vista la evolución de la estructura arquitectónica en
función de las posibilidades de obtener un mayor alquiler, un tema que no resulta
tan fácil de resolver es aclarar la relación que existe entre el número de individuos
que componen los núcleos familiares y la superficie de las viviendas que ocupan.
Por lo que podemos conjeturar a partir de la información suministrada por los
«Stati delle anime» de la parroquia de «San Lorenzo in Damaso», en cuyo caso se
ha comenzado a conservar esta importante documentación de tipo demográfico a
partir de finales del siglo XVI44, en 1595 había unos 10,7 habitantes en cada casa que
Santiago de los Españoles tenía en la «via del Pellegrino», cuatro años después la cifra
descendió a 7,07, reducción, que si bien tendría que ser adecuadamente explicada,
en este caso específico consiente hipotizar que los inquilinos de los siglos XVI-XVII
72
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
Fig. 5. Casa de Santiago de los Españoles en Piazza Navona (año 1680)
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
Fig. 6. Casa de Santiago de los Españoles en Piazza Navona (año 1680)
73
74
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
tenían muchos menos problemas de espacio que los más reducidos núcleos familiares
del siglo XVIII45. Las casas, incluso después de la realización de las obras, siguieron
siendo cedidas en alquiler a una única familia, a lo sumo a dos cuando en la planta
baja había una tienda, en contra, por ejemplo, de lo que ocurría en Florencia en
donde, a finales del siglo XVI, muchas de las viviendas pertenecientes al hospital de
«Santa Maria Nuova» poseían más de una cocina para así poderlas dividir por pisos
entre varios inquilinos46.
En Madrid a mediados del siglo XVII se llegó a tocar la cifra de 12,97 habitantes
por vivienda47, dato que en Roma se alcanza sólo dos siglos más tarde48, lo que
demuestra aun mejor que a finales del Quinientos y pese haber sido un periodo de
intenso crecimiento de la población la situación en la capital del estado pontificio
no se caracterizaba precisamente ni por el hacinamiento doméstico ni por la falta
de espacio49, tanto si lo que se pretendía era construir nuevas casas como restaurar
las ya existentes. Como acabamos de ver Santiago de los Españoles lo hizo con
buenos resultados económicos en algunas de las zonas de mayor valor comercial de
la ciudad, pero al mismo tiempo otros grandes propietarios religiosos promovieron
una intensa labor de parcelización y edificación de las áreas libres al interno del
perímetro amurallado50. En ambas circunstancias son instituciones eclesiásticas a
pilotar el proceso de transformación física del tejido urbano, pero si en el caso de la
iglesia castellana son directamente sus administradores a controlar todo el proceso
(desde el proyecto hasta la realización material de las obras), en otras circunstancias,
las menos arriesgadas, se opta por ceder los terrenos mediante contratos enfitéuticos a
arquitectos y artesanos de la construcción los cuales gracias al pago de un censo cada
vez más depreciado acceden al control de una buena parte del parque inmobiliario
que luego proceden a vender o alquilar.
Manuel Vaquero Piñeiro
1
En 1708 el 38,88 por ciento de las casas de alquiler existentes en Roma pertenecían a instituciones
religiosas, C.M. TRAVAGLINI, La proprietà immobiliare a Roma agli inizi del Settecento, en Roma nel primo
Settecento. Case, proprietari, strade, toponimi, «Archivi e Cultura», XXVIII, 1995, pp. 33-61.
2
El tema de los arrendamientos y de la renta urbana ha sido materia de estudio para la época
contemporánea, cfr. Città e proprietà immobiliare in Italia negli ultimi due secoli, Milano, F. Angeli,
1981. Para la Edad Moderna es de reciente publicación, Proprietari e inquilini, a cura de F. Benfante, A.
Savelli, «Quaderni Storici», XXXVIII, 2003, 2.
3
R.A. GOLDTHWAITE, La costruzione della Firenze rinascimentale. Una storia economica e sociale,
Bologna, Il Mulino, 1984; ID., Il contesto economico del palazzo fiorentino nel Rinascimento. Investimento,
cantiere, consumi, «Annali di architettura», II, 1990, pp. 53-58.
4
R. CURTO, Da un’idea convenzionale di valore al valore di rendimento: estimi e significati della
proprietà urbana a Torino, 1850-1914, en Proprietà immobiliaria urbana fra Settecento e Ottocento:
Torino, Genova, Lione, «Storia Urbana», XIX, 1995, 2, pp. 67-87.
5
M. BERENGO, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età moderna,
Torino, Einaudi, 1999.
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
75
J. DE VRIES, European Urbanization 1500-1800, London, Methuen and Co., 1984.
E. POLEGGI-L. GROSSI BIANCHI, Dinamica della proprietà fondiaria e immobiliare a Genova fra ‘200
e ‘300, en Investimenti e civiltà urbana. Secoli XIII-XVIII, a cura de A. Guarducci, Firenze, Le Monnier,
1989, pp. 743-770; A. MONTI, Alle origini della borghesia urbana. La proprietà immobiliare a Bologna
1797-1810, Bologna, Il Mulino, 1985; ID., Investimenti edilizi e rete urbana in Italia fra Medioevo e
antico regime: il caso di Bologna e della regione emiliana, en Persistenze feudali e autonomie comunicative in
stati padani fra Cinque e Settecento, Bologna, CLUEB, 1985; M. FORNASARI, Uno spazio urbano d’Antico
Regime: Bologna nel Cinquecento, «Storia Urbana», XIV, 1990, 1, pp. 3-31.
8
El 14% de las escrituras notariles romanas del siglo XVII se refieren a contratos de alquiler, R.
AGO, Di cosa si può fare commercio: mercato e norme sociali nella Roma barocca, «Quaderni storici», XXXI,
1996, 1, pp. 113-134: 116. En el mismo siglo, en Milán sólo un 7-13% de la población era propietaria
de la casa en la que vivía, S. D’AMICO, Le contrade e la città. Sistema produttivo e spazio urbano a Milano
fra Cinque e Seicento, Milano, F. Angeli, 1994, p. 44; el porcentaje se reduce drásticamene en Madrid
donde, en 1751, sólo el «3 por ciento de los vecinos tenía vivienda en propiedad, mientras que el 97 por
ciento restante estaba integrado por inquilinos que no poseían un solo ladrillo», J.M. LOPEZ GARCIA, El
henchimiento de Madrid. La capital de la Monarquía hispánica en los siglos XVII y XVIII, en Capitales y
corte en la historia de España, Valladolid, Universidad de Valladolid, 2003, pp. 47-104 : 76.
9
L. MUMFORD, La città nella storia, 3 voll., Milano, Bompiani, 1991, pp. 517-523. No sería del
todo correcto sostener que en la Europa preindustrial el alquiler de las viviendas estaba al margen de los
mecanismos de mercado y que la necesidad de alojamientos se resolvía mediante vínculos de parentela
o de solidariedad, P.H. HOBENBERG-L. HOLLEN LEES, La città europea dal Medioevo ad oggi, Roma-Bari,
Laterza, 1987, p. 313.
10
W. SOMBART, Il capitalismo moderno, Firenze, Vallecchi, 1925, pp. 187-194; A. ROSSI, L’architettura
della città, Padova, Marsilio, 1966, p. 41.
11
S. ROUX, La casa nella storia, Roma, Viella, 1982, pp. 22-25 y 38-41.
12
L. PALERMO, Sviluppo economico e società preindustriali. Cicli, strutture e congiunture in Europa
dal medioevo alla prima età moderna, Roma, 1998, pp. 404-408; ID., Espansione demografica e sviluppo
economico a Roma nel Rinascimento, en Popolazione e società a Roma dal medioevo all’età contemporanea, a
cura de E. Sonnino, Roma, Il Calamo, 1998, pp. 299-326.
13
Tra rendita e investimenti. Formazione e gestione dei patrimoni in Italia in età moderna e
contemporanea, Atti del III Convegno Nazionale della Società Italiana degli Storici dell’Economia, (Bari,
22-23 novembre 1996), Bari, Cacucci, 1998.
14
A. DE MADDALENA, L’immobilizzazione della ricchezza nella Milano spagnola: moventi, esperienze,
interpretazioni, «Annali di Storia Economica e Sociale», VI, 1965, pp. 39-72: 39.
15
J. FERNÁNDEZ ALONSO, Las Iglesias nacionales de España en Roma. Sus orígenes, «Anthologica
Annua», IV, 1956, pp. 9-96; ID., Santiago de los Españoles de Roma en el siglo XVI, «Anthologica Annua»,
VI, 1958, pp. 9-122; M. VAQUERO PIÑEIRO, L’ospedale della nazione castigliana in Roma tra Medioevo e
età moderna, «Roma moderna e contemporanea», I, 1993, 1, pp. 57-82.
16
Según la visita apostólica realizada en 1624 las entradas de Santiago de los Españoles ascendían a
11.019 escudos, la más alta de todas las instituciones religiosas extranjeras existentes en Roma, A. SERRA,
Problemi dei beni ecclesiastici nella società preindustriale. Le confraternite di Roma moderna, Roma, Istituto
Nazionale di Studi Romani, 1983, p. 150. Para las ceremonias organizadas por Santiago de los Españolas
en la piazza Navona, M.A. VISCEGLIA, La città rituale. Roma e le sue cerimonie in età moderna, Roma,
Viella, 2002, pp. 209-212.
17
Cuando en 1708 las autoridades pontificias decidieron el pago de un impuesto proporcial a las
casas alquiladas, Santiago de los Españoles ocupó el tercer puesto (575,84 escudos) sólo por detrás del
Ospizio Apostolico dei Poveri Infermi y de la Arciconfraternita della Annunziata, C.M. TRAVAGLINI, La
proprietà immobiliare, cit., p. 59.
18
M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas. El patrimonio inmobiliario de Santiago de los Españoles
de Roma entre los siglos XV y XVII, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1999; ID., Auge urbano y renta
inmobiliaria. El patrimonio de las iglesias españolas de Roma en el siglo XVI, en Fortuna y negocios. Formación
y gestión de los grandes patrimonios (siglos XVI-XX), a cura de H. Casado Alonso, R. Robledo Hernández,
6
7
76
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
Valladolid, Universidad de Valladolid, 2002, pp. 21-43.
19
La única propiedad rural que poseía Santiago de los Españoles era una viña.
20
Para la documentación contable conservada en el actual archivo de los Establecimientos Españoles
de Roma, VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., pp. 4-7.
21
Sobre el caso del hospital de San Giacomo degli Incurabili durante el siglo XVIII, E. PAPERETTI,
Oneri e profitti di un patrimonio immobiliare: l’Arciospedale di San Giacomo degli Incurabili, en L’angelo
e la città. La città nel Settecento, Roma, Palombi, 1988, pp. 87-94: 92-93.
22
A. SERRA, Problemi dei beni ecclesiastici nella società preindustriale, cit., Roma, 1983, pp. 174-175.
23
P. SCAVIZZI, Considerazioni sull’attività edilizia a Roma nella prima metà del XVII secolo, «Studi
Storici», IX, 1968, 1, pp. 171-192.
24
M. VAQUERO PIÑEIRO, Las rentas y las casas, cit., p. 135. Parálisis en los gastos para la conservación
material de las casas documentada también en la propiedad laica, M. BEVILACQUA, Il Monte dei Cenci. Una
famiglia romana e il suo insediamento urbano tra medioevo ed età barocca, Roma, Gangemi, 1988, p. 78.
25
M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., p. 135.
26
Una de las principales características de la arquitectura doméstica era la enorme maleabilidad
funcional de las viviendas y de las partes que la componían, E. CONCINA, Venezia nell’età moderna.
Struttura e funzioni, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 186-187.
27
M. VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., p. 122.
28
Ivi, p. 123.
29
Ivi, pp. 124-125.
30
M. VAQUERO PIÑEIRO, Coyuntura urbana y gestión inmobiliaria en Roma a mediados del siglo XVI,
en Le sol et l’immeuble. Les formes dissociées de propriété immobilière dans le villes de France et d’Italie (XIIeXIXe siècles), Rome, Ecole Française de Rome, 1995, pp. 227-251: 247-251.
31
El caso de los patrimonios del hospital de San Giacomo degli Incurabili o del convento de San
Silvestro in Capite confirma el fuerte crecimiento del último cuarto del siglo XVI y la brusca caída a
partir de los años veinte del siglo XVII, R. FREGNA, La pietrificazione del denaro. Studi sulla proprietà
urbana tra XVI e XVII secolo, Bologna, CLUEB, 1990, pp. 42-47.
32
Otras instituciones religiosas propietarias de patrimonios inmobiliarios mucho más numerosos
no demostraron igual dinamismo de gestión, R. MONTEL, Le “casale” de Boccea d’après les archives du
Chapitre de Saint-Pierre (fin XIVe-fin XVIe siècle), «Mélanges de l’Ecole Française de Rome. Moyen Age
- Temps Modernes», XCI, 1979, 2, pp. 593-617.
33
Para una comparación con la situación predominante en otras ciudades italianas, A. PASTORE, Usi
ed abusi nella gestione delle risorse (secoli XVI-XVII), en L’uso del denaro. Patrimoni e amministrazione nei
luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia (secoli XV-XVIII), a cura de A. Pastore, M. Garbellotti, Annali
dell’Istituto storico italo-germanico in Trento, «Quaderni», 55, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 17-40.
34
G. CURCIO, I processi di trasformazione edilizia, en Il rione Parione durante il pontificato di sistino:
analisi di un’area campione, en Un pontificato ed una città: Sisto IV (1471-1484), Città del Vaticano,
Scuola vaticana di paleografia, diplomatica e archivistica, 1986, pp. 706-732; E. HUBERT, Espace urbain
et habitat à Rome. Du X siècle au XIII siècle, Ecole Française de Rome, Roma, 1990.
35
ARCHIVO ESTABLECIMIENTOS ESPAÑOLES EN ROMA (desde ahora AEER), n°72, pp. 26-29. También,
VAQUERO PIÑEIRO, La renta y las casas, cit., pp. 100-102.
36
AEER, n°1645.
37
Una canna cuadrada romana son 100 palmos cuadrados equivalentes a 4,991730 metros cuadrados;
para las medidas usadas en Roma C.P. SCAVIZZI, Edilizia nei secoli XVII e XVIII a Roma. Ricerca per una
storia delle tecniche, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1983, pp. 19-27.
38
E. HUBERT, Espace urbain, cit., p. 153; R. KRAUTHEIMER, Roma. Profilo di una città, 312-1308,
Roma, Edizioni dell’Eleante, 1980, p. 153.
39
El libro con las plantas de las casas fue realizado en 1680 por el arquitecto Giovanni Antonio de
Rossi, AEER, n°190.
40
La política fiscal pontificia introducida en el siglo XVIII aceleró el proceso, E. PAPERETTI,I L’uso
della casa: la dinamica dei tipi, en L’angelo e la città, cit., pp. 119-123.
41
También la documentación parroquial del siglo XVII refleja la progresiva disfunción entre núcleo
RENTA Y TRANSFORMACIÓN DE LAS VIVIENDAS EN ROMA
77
familiar y bloque edificado, S. PASSIGLI, Gli stati delle anime: un contributo allo studio del tessuto urbano
di Roma, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», CXII, 1989, pp. 293-340.
42
AEER, n°1327b y 1644.
43
AEER, n°68. Para esto muy útil también el «Libro de las rentas y azienda de casas, censos y
montes desta Iglesia (1617-1617)», Ivi, n°66.
44
Fonti per la storia della popolazione, vol. 1: Le fonti parrocchiali di Roma e del territorio vicariale,
Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1990, p. 53, (Quaderni della Rassegna degli Archivi
di Stato, 59).
45
H. GROSS, Roma nel Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 74.
46
F. BENFANTE, Le proprietà urbane dell’ospedale di Santa Maria Nuova (Firenze, XVI-XVIII secolo),
en Proprietari e Inquilini, cit., pp. 325-344: 329.
47
J.M. LOPEZ GARCIA, El henchimiento, cit., p. 50.
48
D. FELISINI, La mania del mattone. Investimenti immobiliari nella Roma dell’Ottocento, «Città e
storia», 2004, numero speciale per il Congresso AISU, pp. 131-139.
49
Es cierto que sabemos muy poco sobre el subalquiler y de ahí que resulte imposible calcular
cuantas de las habitaciones y locales en teoría alquilados a una única familia después eran cedidos por
alquileres reales mucho más altos, R. FREGNA, La pietrificazione, cit., pp. 136-137. Hasta ahora podemos
sólo formular conjeturas de un fenómeno muy difundido el cual, a causa del recurso a acuerdos orales,
resulta muy difícil interceptar en las fuentes, R. AGO, Economia barocca. Mercato e istituzioni nella Roma
del Seicento, Roma, Donzelli, 1998, pp. 169-171 y pp. 178-180.
50
R. FREGNA, La pietrificazione, cit., pp. 130-133.
L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI
PAOLO V BORGHESE: CANONICI, PRIVATI E STRATEGIE
DI RIQUALIFICAZIONE URBANA*
Come è noto, l’area attorno alla basilica di Santa Maria Maggiore è profondamente segnata dai lavori voluti da papa Sisto V (1585-1590) e realizzati da Domenico
Fontana. L’obelisco e la cappella Sistina, la riconfigurazione del lato nord della piazza, con l’abbattimento di antiche chiese e irregolari isolati in funzione del nuovo
perimetro della villa papale, il sistema di rettifili a completamento di via Merulana
realizzata sotto Gregorio XIII, la «messa in isola» del complesso basilicale, con l’abbattimento di un’ala dell’antico Patriarchio liberiano, e gli ingenti sbancamenti di
terreno determinarono in pochi anni un energico riassetto ancor oggi leggibile, nonostante i radicali mutamenti successivi all’unità d’Italia. Gli interventi dell’epoca di
Paolo V Borghese (1605-1621), che pure tanto ha contribuito alla riqualificazione
della basilica (fig. 1), non appaiono invece con altrettanta evidenza; tuttavia, ciò non
è tanto imputabile al minore peso delle proposte, quanto a differenti modi operativi
e finalità, che si rispecchiano anche nel maggiore coinvolgimento dei soggetti privati
e istituzionali rispetto alle autocratiche scelte sistine.
Certo, ci sono iniziative che si muovono per alcuni aspetti in continuità e con
spirito di emulazione nei confronti dell’operato di Sisto V. Ad esempio, alcune fonti
ci informano sulle intenzioni di Paolo V di realizzare altri grandi rettifili, anche se, al
posto delle basiliche maggiori, le mete prescelte hanno una connotazione più legata
alle esigenze pratiche della corte papale. Nel 1610 si parla della possibilità di collegare direttamente la basilica liberiana con il Quirinale e nel 1613 si ha notizia di un
eventuale rettifilo, intermedio fra le vie Merulana e Felice, in direzione di Porta San
Giovanni1. Se i due tratti stradali fossero stati realizzati, si sarebbe ottenuto un sistema in grado di collegare il nuovo palazzo papale alla volta dell’Appia e quindi delle
residenze tuscolane: tuttavia tali idee erano destinate a restare sulla carta e le concrete
scelte avrebbero seguito altri criteri.
Anche un altro intervento sembra situarsi in una prospettiva di continuità. Per
completare la regolarizzazione del lato nord di piazza Santa Maria Maggiore, iniziata
80
AUGUSTO ROCA DE AMICIS
da Sisto V, viene abbattuto nel 1612 il lungo isolato di modeste abitazioni (fig. 2),
in parte di proprietà dei canonici liberiani e in parte dei chierici e beneficiati, posto di fronte alla chiesa e all’ospedale di Sant’Antonio Abate2. Ma tale demolizione
va anche considerata come complementare alla realizzazione del corpo di fabbrica
a destra del portico della basilica, destinato alle sagrestie e agli ambienti per i canonici3. Si inaugura così un nuovo modo di operare, che verrà concluso solo alla
metà del Settecento, dove residenze e spazi funzionali, prima decentrati nell’attiguo
e frammentario aggregato suburbano, vengono riassorbiti nel blocco della rinnovata
basilica posta in isola, oppure dislocati lungo il perimetro della piazza riconfigurata,
in modo da unificare gli episodi eterogenei e le smagliature lasciate aperte dalle demolizioni sistine4. Il complesso di Sant’Antonio Abate, liberato dall’isolato antistante, si espande poi, lungo il nuovo filo della piazza, con una serie di case da affittare
a fianco dell’ospedale. La veduta di Greuter, del 1618, registra con precisione tale
fase costruttiva, all’epoca non ancora portata a compimento (fig. 1). Le «case nuove
fabricate sopra la piazza di santa Maria Maggiore» risultano completate per l’Anno
Santo 16255, con quattro botteghe, e le vedute della seconda metà del Seicento (fig.
3) mostrano che le abitazioni, adibite anche a granai, avevano subito una rifusione e
si presentavano come un blocco unitario che connotava con forza il lato nord della
piazza in prossimità della basilica.
Se in questo episodio è quindi lecito leggere una maggiore attenzione a contemperare le differenti istanze di più parti in causa, tanto più rilevante è il peso dei soggetti privati nel definire l’area a sud della basilica, dove un ruolo determinante viene
assunto dal canonico liberiano Odoardo Santarelli da Sassoferrato. Rappresentativa
figura di un ceto ecclesiastico dalle solide competenze in fatto di pubblica amministrazione, Santarelli si era distinto nell’organizzare gli aiuti in occasione della grave
piena del Tevere nel 1591, e all’epoca di Paolo V era divenuto segretario della congregazione De bono redimine, oltre ad avere un ruolo centrale nelle congregazioni
sopra le acque di Romagna e sopra il Tevere6. Come canonico liberiano egli dette
impulso alla realizzazione della cappella Paolina7, e più in generale si distinse, col suo
spiccato senso pratico, nell’assicurare beni e rendite per la basilica. In uno scritto a lui
attribuibile8, Santarelli, nell’evidenziare il particolare legame con Paolo V, elogia concisamente le benemerenze di papa Borghese per la basilica ricordando tre imprese.
Anzitutto, com’è ovvio, egli menziona la costruzione della cappella Paolina e la colonna dedicata alla Vergine antistante la facciata. Va notata, a tale riguardo, la diversa
incidenza urbana di questi episodi rispetto agli analoghi precedenti sistini: mentre la
cappella di Domenico Fontana è un ‘a solo’ centrico e ben distinto, la Paolina, con i
suoi annessi, fa corpo con il blocco basilicale e pone le premesse di una concezione
unitaria dei prospetti laterali. Inoltre, mentre l’obelisco sistino è il traguardo assiale di
Strada Felice, con il monumento mariano Maderno, secondo una più sottile strategia
di «sorprese» visive, sperimenta un rapporto più concluso tra facciata e largo anti-
L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE
81
Fig. 1. L’area di Santa Maria Maggiore all’epoca di Paolo V nella veduta di Matteo Greuter (1618)
Fig. 2. Santa Maria Maggiore all’epoca di Sisto V in un affresco del Salone Sistino della Biblioteca
Vaticana: a destra è visibile l’isolato di case appartenenti ai canonici e ai chierici della basilica, a sinistra
il Patriarchio liberiano (da Santa Maria Maggiore a Roma, a cura di C. Pietrangeli, Firenze, Nardini
Editore, 1988)
82
AUGUSTO ROCA DE AMICIS
stante, ubicando la colonna proveniente dal Templum Pacis – una volta accantonata
l’idea di farne la meta dell’irrealizzato rettifilo verso porta San Giovanni – in modo
da non farla fuoriuscire dal filo sud della strada per Santa Croce. Di problematica
interpretazione, ma rivelatoria di una particolare attenzione, è però la terza e ultima
impresa paolina ricordata da Santarelli: l’acqua «condotta da lui in buona copia su
questo Colle Esquilino […] per la commodità pubblica e per la privata di molti, che
hanno preso animo di riempire la vicinanza delle case nuove, che da vent’anni in qua
vi sono cresciute»9. È ben noto che l’Acqua Felice venne condotta in questa zona da
Sisto V, eppure, nonostante l’indubbia forzatura encomiastica, anche questa affermazione è fondata. Sappiamo infatti che negli anni di Sisto V i lavori per l’acquedotto
erano stati condotti con una fretta che aveva causato vari contrattempi, tra i quali
una portata inferiore alle aspettative. Sin dal 1606 risulta che Girolamo Rainaldi venne incaricato, prima, di individuare «donde provvene il mancamento» dell’acqua, poi
di realizzare una pianta dell’acquedotto «per sapere perpetuamente come camini», e
infine, nel 1609, di procedere a vari accomodamenti, seguendo il nuovo rilievo10.
Dopo questi lavori, alla fine del 1614 venne realizzata una nuova conduttura che, dal
«Condotto Maestro» presso porta San Lorenzo, portò l’acqua alla fontana presso la
colonna della Vergine11; una destinazione pubblica in grado di servire meglio l’urbanizzazione nelle vicinanze della basilica. Monsignor Lelio Biscia venne incaricato nel
novembre del 1615 di provvedere alle concessioni ai privati del «ritorno» dell’acqua,
immagazzinata in un’apposita «botticella nel piedestallo della colonna»12.
Come ci riferisce in un’opera stampata il cugino Antonio Maria13, l’ingegno di
Odoardo Santarelli è messo alla prova soprattutto dalla questione dell’antico Palazzo
Patriarcale che, una volta distrutta da Sisto V l’ala di raccordo con la basilica, occupava, pur se in condizioni di estremo abbandono, il fronte sud della piazza girando per via dell’Olmata (fig. 2). Il palazzo venne acquisito dal cardinale Filippo
Boncompagni, nipote di Gregorio XIII e arciprete della basilica, con l’impegno di
restaurarlo e ospitarvi la Cappella musicale liberiana, assieme ad altre funzioni. Alla
morte di Boncompagni divenne arciprete il cardinale Domenico Pinelli, che però,
entrando in possesso del palazzo, non si ritenne vincolato dagli obblighi contratti
dal predecessore, e così il Patriarchio continuò a fruttare un modesto introito quale
deposito di granaglie, più le rendite dell’ampio orto, mentre il capitolo era tenuto
a pagare le pigioni a «cantori, putti soprani e loro Maestri». Da qui una causa di
Rota tra capitolo e arciprete, che si concluse il 15 marzo 1604 a favore dei canonici.
Pinelli, non volendosi impegnare in spese eccessive, donò il palazzo a papa Clemente
VIII, che alla fine lo restituì al capitolo. Una volta chiusa la complessa vertenza,
restava il problema di come utilizzare un immobile di scarsa redditività e in condizioni degradate, ma per arrivare alla soluzione definitiva si dovette attendere fino
al 1615, quando Santarelli pensò di dare in enfiteusi singole parti del palazzo per
ristrutturarle, realizzandovi confortevoli abitazioni. Egli stesso dette l’esempio per
L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE
83
primo, prendendo due stanze del palazzo, da cielo a terra, per ricavarne un palazzetto
con giardino e fontana per conto di Aurelio Ridolfi, un orfano minorenne divenuto suo pupillo: la struttura rigorosamente modulare del Patriarchio favoriva questa
singolare suddivisione ‘a fette’. A questo contratto ne seguirono altri consimili per
il gentiluomo Ridolfo Roncalli e i canonici liberiani Lorenzo Amatorio e Pompeo
Pasqualini. Gli spazi residenziali per i canonici, non sufficientemente garantiti dalle
costruzioni annesse alla basilica, vengono così assicurati con questa innovativa forma
di semiprivatizzazione. L’intero palazzo venne presto ridotto «in diverse habitationi
con giardinetti e comodità bonissime da famiglia»; in questa fase iniziale le residenze
appaiono di livello medio-alto, seguendo la tipologia del palazzetto e non della casa
a schiera per artigiani (fig. 4).
Ma perché, per arrivare a tale soluzione, dopo l’acquisizione del palazzo nel
1604, si dovettero aspettare ben dodici anni? L’autore della cronaca, Antonio Maria
Santarelli, riferisce una causa non secondaria, ossia la scelta inequivocabile di Paolo V
di eleggere il palazzo del Quirinale a effettiva residenza papale, spostando decisamente il baricentro della vita di corte, cosicché i curiali si vedono «quasi disloggiare dalle
habitationi di Borgo, et altre parti simili estreme della città contrapposte à Monte
Cavallo, per avvicinarsi quanto più si poteva alla Corte». Inoltre bisogna anche considerare gli effetti indotti dal migliorato servizio idrico. Nel 1615, come si è detto,
il papa dispone, tramite monsignor Biscia, preposto agli acquedotti, di concedere il
«ritorno» dell’acqua della fontana da poco ultimata ai residenti; e, difatti, l’anno successivo Santarelli ne ottiene un’oncia per la sua nuova abitazione, con una singolare
modalità di pagamento: egli si era infatti impegnato a finanziare in cambio i lavori
di sterro, eseguiti dall’architetto Gaspare De Vecchi, per regolarizzare la piazza fra la
colonna e la chiesa di Sant’Antonio14.
Ma bisogna aggiungere che la valorizzazione dell’area del Patriarchio liberiano,
nella sua ritrovata vicinanza rispetto al palazzo papale, si inserisce in un fenomeno
ancora più ampio di urbanizzazione del rione Monti avvenuta proprio in quegli anni,
in un clima di stabilità economica e di crescita demografica. Un’urbanizzazione che,
connettendosi all’area dei Pantani e attestandosi presso via Madonna dei Monti (l’Argiletum romano), popolata già per tutto il Medioevo, si avvicinava rapidamente all’altura della basilica liberiana. Nel 1610 viene aperta via Baccina, che procede parallelamente a via Madonna dei Monti. Intorno al 1614, entro un vasto appezzamento
di terreno compreso tra via dei Serpenti e il Vico Patrizio, vengono tracciate via delle
Carrette, via del Boschetto e via Cimarra; infine via Paradisi viene aperta nel 1615.
Sono operazioni finalizzate all’immediata costruzione di case, dove gli interessi dei
privati vengono mediati dai Maestri e Sottomaestri di strade che regolano i nuovi assi
viari, e dove si verificano operazioni speculative di ridotta portata, con i proprietari
che costruiscono piccoli quartieri di case da dare in affitto15. Ora, tutta l’operazione
del capitolo liberiano è molto vicina a tale impostazione, e lo stesso Antonio Maria
84
AUGUSTO ROCA DE AMICIS
Fig. 3. La piazza antistante alla basilica con
le case di Sant’Antonio Abate nella veduta
di Lievin Cruyl (particolare, Roma, Palazzo
Braschi; da Santa Maria Maggiore, cit.)
Fig. 4. Le case ricavate dal Patriarchio ristrutturato nella veduta di Lievin Cruyl
(particolare, Roma, Palazzo Braschi; da Santa Maria Maggiore, cit.)
L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE
85
Santarelli ne accenna, sia pure con una certa riluttanza, quando indica che Odoardo
avrebbe badato solo ad aumentare le rendite della basilica, «se ben poi tutto questo augmento di case et habitationi hà portato secondariamente al Signor Giovanni
Santarelli fratello di detto Monsignore anco utile di consideratione per lo smaltimento de’ siti propri contigui»16. Sappiamo che Giovanni era stato dapprima avviato alla
carriera ecclesiastica assieme a Odoardo, poiché i Santarelli avevano pensato, secondo
un consolidato schema di affermazione familiare, di affidare la continuità della discendenza a un terzo fratello, Paris, ma l’inaspettata morte di quest’ultimo aveva fatto
tornare Giovanni allo stato laicale17.
Nonostante l’excusatio di Antonio Maria, la documentazione indica che l’urbanizzazione nell’area del palazzo patriarcale è frutto dell’intesa tra esponenti ecclesiastici e secolari della famiglia Santarelli e dell’appoggio di Paolo V. Un’operazione
dove corposi utili e interessi privati si contemperano con l’esigenza di dare maggiori
rendite alla basilica e – fine non ultimo – di collegare senza più discontinuità il
complesso liberiano all’abitato (fig. 5). Giovanni Santarelli risulta, almeno a partire
dal 1608, possessore di un’ampia area compresa tra l’antico rettifilo del Vico Patrizio
e via Suburra: le proprietà confinavano, verso il primo lato, con quelle di Santa
Maria Maggiore e, verso il secondo, con quelle di Santa Prassede18. Ora, per quanto
alcuni documenti, reperiti da Klaus Schwager, indichino che l’idea di ristrutturare
il Patriarchio per farne abitazioni risaliva almeno al 1610 e che i primi lavori in tal
senso erano stati realizzati tra il 1613 e il 161419, l’impressione è che la situazione
si sblocchi e trovi una rapida accelerazione solo nel quadro di un più vasto disegno
urbano, che vede il concorso dei proprietari vicini, sancito in un breve papale emesso
il 6 aprile 161520. Da questo documento apprendiamo che l’intera zona viene pianificata unitariamente al fine di suddividere le proprietà del capitolo, pronte ad essere
lottizzate, mediante due rettifili: il primo, in asse con la grande targa celebrativa
all’esterno della cappella borghesiana, è la «strada dell’inscrittione», ovvero l’attuale
via Paolina; il secondo, che stabilisce il confine tra l’area del capitolo e quella di
Giovanni Santarelli, è via dei Quattro Cantoni, che istituiva un collegamento diretto
fra il tratto conclusivo di via Panisperna e via Suburra. Anche due proprietari minori
chiedono di poter acquisire alcune aree confinanti al fine di potervi costruire, in applicazione della bolla di Gregorio XIII Quae publice utilia; ma le loro richieste non
vengono approvate, in quanto la collocazione dei loro terreni non consentiva di formare una chiara intelaiatura stradale21. L’apertura delle strade non comportò rilevanti
demolizioni, ma l’occasione tornò utile per demolire un granaio all’incrocio fra via
dei Quattro Cantoni e via Panisperna che aggettava rispetto al rettifilo sistino22.
I nuovi tracciati implicano una suddivisione più razionale delle proprietà, e infatti il capitolo permuta una sua vigna vicina a San Lorenzo in Fonte, ossia presso le
tenute di Giovanni Santarelli, con una vigna di quest’ultimo «contigua nell’horto di
Palazzo Vecchio»23. Inoltre, a est di via dei Quattro Cantoni si apre, in quegli stessi
Fig. 5. L’area di Santa Maria Maggiore all’epoca di Paolo V: A - via Graziosa; B - via dei Quattro Cantoni; C - via Paolina; D - via dell’Olmata; 1 - villa di
Domenico Fedini, primo nucleo di villa Sforza; 2 - residenze di privati e canonici liberiani ricavate nelle strutture dell’antico Patriarchio; 3 - casa di Pietro
Bernini; 4 - palazzo di Cesareo Montano e case d’affitto su via Paolina; 5 - prospetto esterno della Cappella Paolina di Santa Maria Maggiore; 6 - fontana
e colonna mariana (in evidenza gli allineamenti della colonna); 7 - sagrestie e ambienti per i canonici aggiunti alla basilica; 8 - isolato dei canonici, chierici
e beneficiati demolito; 9 - case nuove di Sant’Alberto all’Esquilino
86
AUGUSTO ROCA DE AMICIS
L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE
87
anni, il tratto iniziale di via Graziosa, toponimo forse da ricondurre a una «Gratiosa
di Raffaello» che compare come proprietaria di una casa nei terreni di Giovanni24.
Va poi notato che con il sistema stradale di via Paolina e di via dei Quattro Cantoni
risulta ammortizzato quel forte dislivello che non era stato preso in considerazione
all’epoca di Sisto V nell’aprire via Panisperna, dove lo scosceso tratto in prossimità di
Santa Maria Maggiore non favoriva la costruzione di abitazioni. Tra le prime licenze
per costruire nelle pertinenze della basilica troviamo, il 14 ottobre 1614, quella per la
casa di Pietro Bernini «scultore fiorentino», all’angolo con via Panisperna; anch’egli,
nel 1620, avrebbe beneficiato dell’acqua condotta a Santa Maria Maggiore da Paolo
V, ottenendone la concessione con l’obbligo di realizzare a proprie spese una fontanella pubblica25. Nel maggio del 1616 compare la prima licenza per costruire nella
«strada che si è aperta di nuovo rincontro al palazzo del Sig. Ottavio Costa», ossia via
dei Quattro Cantoni26. Infine, nel 1617 è documentata la realizzazione di alcune case
che proseguono il filo del Patriarchio lungo via dell’Olmata, strada regolarizzata nel
1604, quando ai padri di Santa Prassede venne concesso di occupare suolo pubblico
per recingere il proprio giardino lasciando 60 palmi di larghezza stradale27.
L’operazione, considerata ora nella sua globalità, comporta quindi diversificate
modalità di intervento da parte dei privati. Tornando nell’area dell’antico palazzo
patriarcale troviamo, infatti, oltre ai contratti stipulati dagli stessi canonici, l’interessamento di un personaggio facoltoso, Cesareo Montano, segretario di alcuni Monti
camerali e forse non estraneo alla “svolta” sancita dal breve del 1615. Questi prende
in enfiteusi dapprima una parte dell’orto, poi altre zone, e realizza, in quello stesso
1615, un palazzo per sé accanto a quello di Pietro Bernini28; egli completa inoltre la
sua iniziativa costruendo, a partire dal 1618, una serie di case adiacenti al palazzo,
lungo via Paolina, da dare in affitto. Nota Antonio Maria Santarelli riguardo questa
operazione che, nel quadro generale di accelerata crescita edilizia, Montano poté
godere ben presto dei suoi immobili, realizzati «quasi a guisa di una Colonia di
questa Basilica, perché insomma dove corre il denaro, si trova strada di camminar
le fabbriche prosperamente nella Città di Roma»29. Il termine «colonia» non è tanto
differente da quello usato, pochi anni prima, per una consimile operazione condotta dall’architetto Carlo Lambardi nelle vicinanze della Basilica di Massenzio, dove,
come riporta il Baglione, «fabricò alcune case, e Contea le addimandava […] e ne ritraheva buona rendita»30. Nel complesso, i contratti di enfiteusi stipulati garantirono
al capitolo liberiano 700 scudi annui al posto dei 50 riscossi in precedenza.
Una licenza del 6 ottobre 1620 a un altro canonico liberiano, Domenico Fedini,
nelle proprietà di Giovanni Santarelli, conclude idealmente questa prima fase di riqualificazione della zona, poiché si riferisce al primo nucleo della futura villa Sforza,
voluta, come testimonia anche Fioravante Martinelli, da questo erudito ecclesiastico
«intendentissimo» di architettura31 e posta a chiudere come meta visiva il rinnovato
asse di via dell’Olmata. Va notato come la limitata scala di interventi qualificanti
88
AUGUSTO ROCA DE AMICIS
Fig. 6. Via Paolina e la cappella papale oggi
L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE
89
come questo – ma si pensi anche al sorvegliato rapporto tra il breve rettifilo di via
Paolina e il fronte dell’omonima cappella papale (fig. 6) – introduca un nuovo tono
rappresentativo, che non si riscontra nei prolungati cannocchiali prospettici sistini;
un rapporto di reciproca commensurabilità tra ambiente urbano e monumento che,
pur con altri esiti, si sarebbe rivelato un prezioso retaggio per le più mature realizzazioni della Roma barocca.
In conclusione, con questa accorta politica di mediazioni, intese e interventi, le
istituzioni e i privati agiscono entro una dimensione rappresentativa di scala più ridotta
rispetto all’impatto impositivo del disegno sistino, ma molto più elastica e pratica.
Inoltre, bisogna considerare che, mentre i rettifili di Sisto V restarono a lungo scarsamente costruiti, è solo ora e proprio con questo differente approccio che l’area della
basilica liberiana viene saldata con l’abitato del rione Monti, e quindi col centro della
città, in un continuum costruito; viene portata così a compimento quella secolare indicazione di strategia urbana che era stata perseguita, con sgravi ed esenzioni fiscali ma
senza risultati tangibili, sin dalla lontana epoca di Nicolò V32. Ed è solo grazie a tale
modo di procedere, poco appariscente quanto incisivo, che l’affermazione di Paolo
V, nel suo breve del 1615 – «desideramus ut totus Mons […] et precipue loca d.ae
Basilicae adiacentia, et viciniora habitationibus et habitatoribus quanto citius possibile
frequententur» –, non è restata, come in precedenza, lettera morta.
Augusto Roca De Amicis
*
Il presente saggio si inserisce in un progetto di ricerca, coordinato da chi scrive, sullo sviluppo
urbano nella Roma di Paolo V Borghese. Ringrazio Fabrizio Di Marco e Marisa Tabarrini per le indicazioni documentarie, pertinenti alla ricerca, qui anticipate.
J.A.F. ORBAAN, Documenti sul Barocco in Roma, «Società Romana di Storia Patria», 1920, p. 182
(25 dicembre 1610) per l’idea di un collegamento diretto tra la basilica e il Quirinale, e p. 230 (17
dicembre 1614) per una strada fra la colonna mariana e porta San Giovanni.
2
ARCHIVIO LIBERIANO, b. 413, int. 4, 3 giugno 1612. I chierici e beneficiati ricevono 550 scudi di indennizzo dal capitolo per «adempire il gettito già principiato con la demolitione delle case del Capitolo
de S.ri Canonici di d.a Chiesa nell’Isola di case vicina al Portone dell’Ill.mo S. Card.le Montalto e
dell’Hospedale di S. Antonio e per seguire la demolitione ancora delle case in essa isola spettanti alla
Massa di dd.i Beneficiati e Chierici».
3
K. SCHWAGER, Die Architektonische Erneuerung von S. Maria Maggiore unter Paul V. Bauprogramm,
Baugeschichte, Baugestalt und ihre Vorausszetungen, «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 20,
1983, pp. 241-311.
4
Per un’efficace sintesi, anche grafica, delle vicende della piazza vedi H. SCHLIMME, e La facciata
d’ingresso di Santa Maria Maggiore da Gregorio XIII a Ferdinando Fuga, in Architettura: processualità e
trasformazione, a cura di M. Caperna e G. Spagnesi (Atti del convegno internazionale di studi, Roma
1999), Roma, Bonsignori Editore, 2002, pp. 483-488.
5
Per le notizie su queste case cfr. ARCHIVIO DEGLI ANTONIANI DI ROMA, presso la Pontificia Accademia
Ecclesiastica, vol. 22, ff. 55r-62.
1
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AUGUSTO ROCA DE AMICIS
6
A.M. SANTARELLI, Memorie notabili della Basilica di Santa Maria Maggiore e di alcuni suoi Canonici nelli
Pontificati di Clemente VIII. Leone XI. Paolo V. e Gregorio XV. SS. Mem., Roma, Francesco Cavalli, 1647.
7
Cfr. S. OSTROW, L’arte dei papi. La politica delle immagini nella Roma della Controriforma, Roma,
Carocci, 2002, pp. 132-133.
8
A. FASCINA, Memorie de’ Benefattori antichi e moderni della Basilica di S. Maria Maggiore di Roma,
Roma, Francesco Corbelletti, 1634. L’attribuzione del testo a Odoardo Santarelli è in A.M. SANTARELLI,
Memorie, cit., pp. 13-14: Fascina avrebbe svolto solo un ruolo di prestanome.
9
A. FASCINA, Memorie, cit., p. 10.
10
ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (d’ora in poi ASR), Congregazione super viis, pontibus et fontibus, vol.
2, ff. 116v, 142v, 143v, 145v, 147r, 148r, 178r.
11
ASR, Notai del Tribunale Acque e Strade, vol. 44, ff. 783-784: «Adi 27 novembre 1614. Capitoli
e patti da osservarsi dalli sottoscritti capomastri muratori per l’opera di muro del Condotto da farsi
che cominciarà dal Condotto Maestro dell’Acqua felice et portarà l’acqua nella piazza di S.ta Maria
Maggiore da farsi di tutta spesa robba et fattura delli Maestri per il prezzo che qui sotto sarà dichiarato
secondo che da Architetto e Ministri deputati sopra di ciò gli sarà ordinato. Si caverà il fosso per d.o
condotto nella strada che va a d.a porta di S. Lorenzo vicino al muro della vigna dell’Ill.mo S.re Card.
le Montalto o in qualsivoglia altro luogo, che gli sarà ordinato».
12
ASR, Presidenza delle Strade, Instrumenti, vol. 29, f. 72r. Per la fontana vedi C. D’ONOFRIO, Le
fontane di Roma, Roma, Romana Società Editrice, 1986, pp. 337-338, con bibliografia precedente.
L’importanza della riserva d’acqua sotto la colonna è notata anche da L. ALLACCI, Romanae aedificationes
curatae a Laelio Biscia S.R.E. Cardinale, a Leone Allatio conscriptae, Padova, Sardi, 1644, trascrizione
in E. TARAMELLI, R. ALBERTAZZI, A. DRAGHI, Un documento sulla Roma di Paolo V, «Ricerche di Storia
dell’Arte», 1976, 1-2, Il Seicento / documenti e interpretazioni, pp. 129-148: 135.
13
A.M. SANTARELLI, Memorie, cit. Per le notizie qui di seguito riportate cfr. pp. 46-61. Il rapporto di
parentela tra l’autore del libro e il monsignore si è dedotto dalle evidenze interne al testo. L’autore afferma di raccontare le azioni dei canonici degli anni di Paolo V che gli «sono venute a memoria» (p. 110), e
questo fa supporre che sia coetaneo di Odoardo. In tal caso, quando troviamo scritto che il monsignore,
per recarsi a Città della Pieve e in Romagna, chiede di lasciare la reggenza di alcune Congregazioni al
«Dottor Antonio Maria Santarelli suo cugino assai bene istruito e praticato in simili affari» (pp. 37-38),
potremmo pensare a un’allusione autobiografica.
14
Cfr. ASR, Presidenza delle Strade, vol. 29, f. 72; e ASR, Notai del Tribunale Acque e Strade, vol.
47, f. 268, 4 febbraio 1616: «Prometto io Odoardo Santarelli … di far levare dalla piazza superiore di
S.ta Maria Maggiore tra la colonna eretta da N. S.re et il sito di S.to Antonio sessanta canne di terra
secondo sarà disegnato dal S.r Gasparo de Vecchi Architetto dep.o da Mons.r R.mo Biscia p. tutto il
p.nte mese di febraro e q.ta promessa fu in pagamento di un’oncia di fontana fatta modernam.te in d.a
piazza promettendo e p. la misura e per li livelli che doveran darsi in d.a Piazza in cavar d.a terra di
starmene al d.o S.r Gaspare de Vecchi».
15
Vedi al riguardo A. ROCA DE AMICIS, I Pantani e La Suburra: forme della crescita a Roma tra XVI
e XVII secolo, in Inediti di storia dell’urbanistica, a cura di M. Coppa, Roma, Gangemi Editore, 1993,
pp. 101-145.
16
A.M. SANTARELLI, Memorie, cit., p. 24.
17
Ivi, p. 61.
18
A. ROCA DE AMICIS, I Pantani, cit., pp. 134-135.
19
K. SCHWAGER, Die Architektonische Erneuerung, cit., p. 264 e nota 126.
20
ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Segreteria dei Brevi, vol. 523, f. 80 sgg.
21
Ivi, f. 77.
22
ASR, Presidenza delle Strade, Verbali delle Congregazioni, vol 8, f. 11v, 4 maggio 1616.
23
Ibidem. Cfr. anche ARCHIVIO LIBERIANO, b. 413 int. 3: se non si arriva al pareggio nella permuta,
Santarelli deve pagare 15 scudi la canna. Il breve di Paolo V del 1615 viene inteso come valido anche per
altre consimili operazioni; per cui «i canonici hanno fatto molte altre emfiteusi con utile grande della
chiesa per l’augumento dell’entrate, et con ampliat.ne di fabriche, che con la frequenza degl’habitatori,
et conseguentem.te della Chiesa porta la salubrità dell’aere».
L’AREA DI SANTA MARIA MAGGIORE ALL’EPOCA DI PAOLO V BORGHESE
91
24
R. LANCIANI, Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità. V.
Dall’elezione di Paolo V alla morte di Innocenzo XII (16 maggio 1605-27 settembre 1700), Roma, Quasar,
1994, p. 79 per una licenza di scavo del marzo 1608 presso una casa di Giovanni Santarelli a via In Selci;
cfr. per altri documenti A. ROCA DE AMICIS, I Pantani, cit., p. 136.
25
Vedi per questo episodio C. D’ONOFRIO, Roma vista da Roma, Roma, Liber, 1967, p. 122. Per la
licenza edilizia concessa a Bernini vedi H. HIBBARD, Di alcune licenze rilasciate dai Maestri di Strade per
opere di edificazione a Roma, «Bollettino d’Arte», LII, 1967, 2, pp. 99-117: 108 n. 74.
26
ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO (d’ora in poi ASC), Licenze dei Maestri di Strada, cred. IV, vol. 85, f.
158v. La documentazione indica che la residenza di Ottavio Costa, il facoltoso mercante e banchiere genovese
noto anche per essere stato committente di Caravaggio, era contigua alla chiesa di Santa Lucia in Selci.
27
ASC, Licenze dei Maestri di Strada, cred. IV, vol. 83, f. 103v per la regolarizzazione di via dell’Olmata. La veduta di Greuter, che presenta a questa altezza un muro obliquo e una recinzione più avanzata
può riferirsi proprio a tale riallineamento.
28
ASC, Licenze dei Maestri di Strada, cred. IV, vol. 85, f. 126r, licenza di edificare del primo ottobre 1615. Per le vicende successive del palazzo di Montano vedi C. PIETRANGELI, Il Palazzo Rospigliosi
all’Esquilino, «Capitolium», 1966, 12, pp. 610-616. La contiguità tra il palazzo e la casa di Bernini è
chiarita in C. D’ONOFRIO, Roma vista da Roma, cit., pp. 122-123; le case d’affitto sono indicate da A.M.
SANTARELLI, Memorie, cit., p. 60.
29
Ibidem.
30
G. BAGLIONE, Le vite de’ pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII sino a tutto
quello d’Urbano VIII (Roma, Edizione Manelsi, 1649), a cura di C. Gradara Pesci, Velletri, G. Zampetti,
1924, p. 166. P.L. TUCCI, L’area del Templum Pacis all’inizio del Seicento: dall’orto della Torre dei Conti
alla “Contea”, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 124, 2001, pp. 211-276.
31
ASC, Licenze dei Maestri di Strada, cred. IV, vol. 86, f. 159r; il passo di Fioravante Martinelli su
Fedini è in C. D’ONOFRIO, Roma nel Seicento, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 29-30.
32
Vedi C. BURROUGHS, From Signs to Design. Environmental Process and Reform in Early Renaissance
Rome, Cambridge (Mass.)-London, The Mit Press, 1990, pp. 160-171.
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII
SECOLO. PROPRIETÀ, POTERI E PROFITTI NELL’ECONOMIA
URBANA EUROPEA DI ANCIEN RÉGIME
La storiografia sul sistema corporativo partenopeo ha da tempo messo in rilievo la
netta chiusura delle corporazioni all’introduzione di forme di produzione più evolute. I regolamenti che disciplinavano minuziosamente l’attività produttiva aspiravano
a ostacolare l’intraprendenza di quei mercanti-imprenditori che tentavano di organizzare la produzione al di fuori del rigido vincolismo corporativo1.
Questo lavoro si propone di mostrare, invece, come in un altro settore della
loro attività economica le organizzazioni corporative abbiano adottato un modus
operandi di segno opposto, rivelando una inconsueta sensibilità imprenditoriale.
Nell’amministrazione del loro patrimonio immobiliare prediligevano, infatti, delle
strategie che, parafrasando Christian Topalov, assunsero sempre più i caratteri di una
gestione capitalistica della proprietà2. Molteplici testimonianze metteranno in rilievo
le politiche d’investimento seguite dai gruppi dirigenti delle corporazioni, politiche
pianificate e lungimiranti, come quelle adottate dai principali operatori economici
di antico regime.
I gruppi professionali miravano infatti a incrementare, conservare e trasmettere il
proprio patrimonio e ad avere rendite sufficienti per finanziare le attività corporative.
Investivano così i propri capitali sul mercato immobiliare consapevoli che si trattava
di un investimento anticiclico, poiché non risentiva, se non in modo marginale, delle
congiunture negative; un investimento che dava l’opportunità di accedere facilmente
al credito nei momenti di crisi, assicurava minori margini di rischio del mercato
finanziario e offriva una rendita crescente.
Le organizzazioni corporative avevano, dunque, ben compreso il valore del giro
d’affari che ruotava attorno al mercato immobiliare partenopeo e, in diversi casi, gli
investimenti fondiari divennero il core business della loro attività. D’altra parte l’esperienza napoletana non è molto lontana da quella di altri centri urbani europei, come
Londra, Parigi e Venezia, dove il mercato immobiliare era altrettanto dinamico.
Il confronto con altre realtà metropolitane è particolarmente utile non solo per
94
SONIA SCOGNAMIGLIO
comparare i comportamenti economici dei gruppi professionali, ma anche per comprendere appieno la capacità attrattiva del mercato immobiliare urbano di ancien
régime. Si è così scelto di sviluppare questo lavoro su due livelli. Il primo metterà in
luce i motivi che determinarono lo sviluppo del mercato immobiliare nelle maggiori
metropoli europee; il secondo livello d’indagine focalizzerà invece l’attenzione sull’esperienza napoletana e sulle strategie d’investimento di alcune tra le corporazioni
più importanti della città.
Gli immobili urbani: da alloggi a beni capitali
L’importanza degli investimenti immobiliari nelle economie urbane dell’Europa
moderna ha progressivamente attirato l’attenzione degli studiosi rendendo questo filone di ricerca uno dei campi d’indagine più interessanti e produttivi della storia urbana3.
Fino agli anni Cinquanta del Novecento la maggior parte della storiografia aveva privilegiato l’analisi del mercato immobiliare contemporaneo. È infatti in epoca industriale
che il valore e il numero delle transazioni e delle speculazioni immobiliari è cresciuto
con un’intensità e una rilevanza senza precedenti4. A partire dagli anni Sessanta, invece,
gli studiosi hanno mostrato un interesse crescente nel ricostruire la genesi di questo
fenomeno, mettendo in luce quel «long processus de dissolution des rapports sociaux
qui tenaient le logement à l’écart du marché a progressivament transformé ce bien
en une marchandise et en un capital»5. Le indagini più recenti hanno rilevato che il
processo di trasformazione degli immobili da semplici alloggi a beni capitali ha origini
molto antiche. Esso inizia con la rinascita delle città mercantili dell’Europa medievale
e si sviluppa parallelamente al passaggio dall’economia feudale al capitalismo, trovando
il suo definitivo compimento nel XIX secolo.
Nella definizione delle origini e dell’evoluzione di questa importante fase di transizione della storia urbana europea, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, lo studioso francese di origini bulgare, Topalov, ha individuato due momenti storici cruciali.
Il primo si è sviluppato a partire dal tardo medioevo e coincide appunto con la formazione della propriètà urbana a seguito della lenta e progressiva dissoluzione della proprietà fondiaria feudale nei centri urbani. La graduale perdita dei diritti di occupazione
gratuiti legati ai rapporti di dipendenza o di produzione feudale permise di disporre
sempre più liberamente della proprietà urbana. In questa fase i terreni e gli immobili
si trasformarono in beni relativamente commerciabili. Le grandi proprietà fondiarie
scomparivano, i terreni venivano parcellizzati, venduti ed edificati e gli immobili erano
modificati e dati in locazione. Fino a quel momento il trasferimento del diritto di proprietà era limitato alle forme tipiche del diritto feudale e di conseguenza la proprietà
non era gestita, se non in qualche eccezionale caso, secondo una logica di profitto.
Il secondo momento di rottura si verificò alla fine del XIV secolo, quando nei
centri urbani più attivi e popolosi del vecchio continente i patrimoni urbani iniziarono a dare vita a rapporti capitalistici di proprietà. Tra questi il più importante è
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
95
stato l’affitto a breve termine, la cui diffusione rappresenterebbe, infatti, il passaggio
ad un sistema di rentiers nel quale gli immobili venivano utilizzati come beni capitali. Le attività edilizie e immobiliari divennero così forme sempre più vantaggiose
d’investimento e di affari, nonché fonti sicure e redditizie di profitto; rappresentarono, quindi, uno strumento essenziale per la realizzazione delle strategie patrimoniali
degli operatori economici di antico regime, contribuendo ad affinare le strutture
giuridiche e sociali delle economie urbane6.
Il recente ampliamento degli orizzonti storiografici ha dimostrato che non è
semplice collocare in una precisa epoca il processo di trasformazione descritto da
Topalov7. Esso varia da regione a regione e segue le fasi dello sviluppo socio-economico dei singoli centri urbani. Alcune recenti indagini hanno rilevato, infatti, che
il ricorso all’affitto a breve termine era relativamente diffuso in numerosi centri del
nord Europa già nel X secolo8.
I documenti delle epoche successive offrono informazioni ancora più ricche e
interessanti. Nella Firenze del XIV secolo, ad esempio, i mercanti più facoltosi erano soliti acquistare immobili e dare in fitto botteghe e abitazioni agli artigiani. Le
locazioni erano effettuate oralmente e in genere duravano un anno, nel corso del
quale il proprietario non poteva né procedere allo sfratto del locatario né modificare
i termini dell’accordo. Nel contratto il proprietario e il locatario stabilivano che le
spese straordinarie di riparazione dell’immobile erano a carico del primo, mentre
quelle di manutenzione ordinaria restavano a carico del secondo9. Oltralpe, nell’attiva cittadina francese di Caen, a cavallo tra il XIV e il XV secolo, l’affitto di boutiques,
ateliers, case e camere era all’ordine del giorno e solitamente durava fino a tre anni. Il
mercato immobiliare era talmente sviluppato che i giuristi dell’epoca distinguevano
chiaramente la rendita perpetua garantita dall’immobile e l’affitto che rappresentava
il prezzo della locazione e variava secondo l’andamento del mercato10.
A partire dal XVI secolo, in parallelo alla fase di espansione della popolazione urbana, il mercato immobiliare iniziò a mostrare un maggiore dinamismo e ad espandersi considerevolmente soprattutto nelle grandi capitali europee.
Urbanizzazione e mercato immobiliare nelle capitali europee
Nel 1682, Alexandre Le Maître pubblicò ad Amsterdam un trattato intitolato
Métropolitée, ou de l’établissement des Villes capitales nel quale metteva in rilievo l’importanza del concetto di «popolazione» nello sviluppo urbano europeo. Egli individuò le
tre funzioni essenziali delle capitali: essere la sede dell’autorità politica, il pivot di tutti
gli scambi e, sul piano simbolico, rappresentare il valore e la forza dello Stato11.
Com’è noto, il forte potere di attrazione esercitato dal carattere polifunzionale delle
capitali indusse un’eccezionale concentrazione demografica. Tra il XVI e il XVIII secolo, Parigi, Napoli e Londra divennero le metropoli più grandi dell’Europa occidentale.
L’accentramento politico ed economico e l’inarrestabile sviluppo demografico delle ca-
96
SONIA SCOGNAMIGLIO
pitali fece emergere il problema dell’estensione smisurata dello spazio urbano12.
Nel XVI secolo la popolazione parigina raggiunse i 250.000 abitanti13. Una delle
conseguenze del continuo aumento della pressione demografica fu la crescita della
domanda di immobili per uso residenziale e commerciale: una tendenza che dette
luogo a un processo di parcellizzazione delle unità abitative. Gli appartamenti vennero suddivisi in piccole pièces di 22 metri quadrati. Sollecitati dalla incessante richiesta
di abitazioni, i proprietari dei fondi urbani iniziarono a costruire gli immuebles de
rapport, fabbricati pressoché identici agli immobili tradizionali, che erano costruiti in
blocco, alti dai 4 ai 6 piani e locati per camera o, più raramente, per piani.
Nel XVIII secolo si scatenò un silenzioso conflitto tra l’autorità politica e la lobby
dei costruttori. L’amministrazione reale temeva infatti che l’allargamento dei confini
della capitale e la continua edificazione dei suoli urbani potesse compromettere il
controllo del territorio14. Tuttavia la maggior parte dei provvedimenti presi per limitare l’attività edilizia non ostacolò, se non marginalmente, lo sviluppo del redditizio
giro d’affari che si era creato attorno al mercato immobiliare15.
Tra il XVII e il XVIII secolo nella capitale francese si registrò un aumento considerevole del prezzo delle locazioni. Alcune indagini hanno rivelato che, tenuto conto
della svalutazione monetaria, l’incremento dei fitti fu circa del 300 %. L’aumento dei
canoni di affitto non era, però, accompagnato da un incremento proporzionale del
potere di acquisto dei parigini. Esso, al contrario, si associava alla stagnazione o alla
diminuzione del salario reale con evidenti conseguenze sulla qualità della vita delle
fasce più modeste della popolazione16.
Al di là della Manica, la situazione era molto simile. L’esplosione demografica londinese, che si verificò un po’ dopo quella parigina, a partire dalla fine del XVII continuando per tutto il XVIII secolo e oltre, non tardò a riverberarsi sulla domanda di alloggi17. I terreni venivano divisi in plots, erano venduti, edificati e, una volta terminati,
i relativi fabbricati erano suddivisi in unità abitative più piccole e date in fitto.
Se si osserva sul lungo periodo la variazione del valore dei fitti delle unità immobiliari nella zona centrale di Cheapside ci si accorge di un notevole aumento delle
pigioni a partire dalla seconda metà del XVI secolo fino al Great Fire del 166618. A
partire dal 1536 il panorama urbano cambiò completamente: in quell’anno Enrico
VIII sciolse tutte le congregazioni ecclesiastiche, le quali rappresentavano i maggiori
possidenti dei suoli urbani. La commercializzazione dei fondi ecclesiastici e la progressiva accumulazione di capitali, a seguito dell’espansione del commercio inglese,
attivarono un ricco circuito d’affari attorno al mercato immobiliare della capitale19.
Napoli: politica, edilizia e caos metropolitano
Tra il XVI e il XVII secolo Napoli era, dopo Parigi, la città più popolosa d’Europa
e la seconda metropoli del Mediterraneo, dopo Istanbul20. Anche se la prima numerazione dei fuochi della città di Napoli risale al 1505, la ricostruzione dello sviluppo delle
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
97
cinta murarie suggerisce che dal XIV secolo ci sia stata una notevole estensione del perimetro urbano, che lascia intendere un già consistente sviluppo demografico. A partire
dalla prima metà del XVI secolo la capitale aveva più di 200.000 abitanti. Nonostante
le cicliche crisi demografiche che riequilibravano temporaneamente il rapporto tra popolazione e risorse e, quindi, quello tra popolazione e spazio urbano, Napoli cresceva
disordinatamente all’interno della cinta muraria21. Così nel 1533, il vicerè Don Pedro
da Toledo ordinò un nuovo ampliamento delle mura verso nord-ovest22.
Il vicerè spagnolo incluse nel corpo della città due nuovi quartieri situati nella
parte occidentale del Porto: Santo Spirito e San Giuseppe. La via Toledo divenne il
centro del progetto di allargamento e di abbellimento della città. Tale strada collegava la parte più antica della capitale con il nuovo centro che gravitava intorno a Castel
Nuovo, al Porto e al Palazzo del Vicerè − dove attualmente si trova il Palazzo Reale.
Le zone di Sant’Elmo, di Santa Teresa, di Pizzofalcone e di via Toledo, comprese nei
nuovi quartieri, furono scelte come residenza dalla nobiltà feudale che dalle province
si trasferiva nella capitale, ormai il centro rappresentativo, politico e militare del
Regno23. L’aristocrazia avviò cosi la costruzione di grandi e lussuosi palazzi, dei veri e
propri monumenti che rappresentavano il prestigio e la potenza delle casate24.
Le zone più antiche della città, quelle che sorgevano a oriente e dietro il Porto,
vennero progressivamente occupate da numerosi ordini religiosi, la cui presenza a
Napoli, a partire dal XVI secolo, si fece sempre più massiccia. La proliferazione delle
«fabbriche religiose» alterò il tessuto edilizio urbano soffocando l’edilizia civile. Alla
fine del Cinquecento si contavano più di 300 chiese e oltre 120 conventi: una vera e
propria «cittadella sacra»25.
Gli ordini religiosi più facoltosi tendevano ad accrescere il loro patrimonio fondiario e immobiliare: acquistavano terreni e palazzi, costruivano e ampliavano chiese
e monasteri; edificavano imponenti complessi conventuali grazie al diritto di fare
insula, un privilegio che permetteva loro di acquistare a basso prezzo gli edifici adiacenti ai conventi fino a realizzare un’isola delimitata da quattro strade. Uno dei complessi conventuali più estesi era quello dei gesuiti a San Severino, dove oggi si trova
la chiesa del Gesù Nuovo. Il facoltoso ordine religioso acquisì un’area vastissima nel
cuore della città. Il complesso aveva come confini Port’Alba, da un lato, e via San
Sebastiano e via Cisterna dell’Olio, dall’altro26.
Alla continua espansione urbana corrispose la graduale scomparsa degli appezzamenti rurali. Gli splendidi giardini e i variopinti orti che per lungo tempo avevano
caratterizzato il paesaggio metropolitano vennero ridimensionati e rinchiusi nei nuovi edifici. Piccoli e luminosi giardini segreti incastonati nei cortili dei palazzi nobili e
dei conventi si affacciavano nei vicoli più bui e stretti della città: una scenografia che
ancora oggi non lascia indifferente lo sguardo dell’attento osservatore di passaggio.
Nella seconda metà del Cinquecento l’equilibrio urbano della capitale cominciò
a vacillare. Il progetto di allargamento e di abbellimento della città voluto da Don
98
SONIA SCOGNAMIGLIO
Pedro da Toledo, aveva tralasciato importanti questioni urbanistiche. Gli interventi
sull’assetto stradale e sulle attrezzature portuali non erano stati limitati che a qualche
opera di abbellimento. E la spinosa questione della carenza di alloggi popolari era
rimasta sostanzialmente irrisolta.
Come a Parigi, la veloce e caotica espansione urbana iniziò a preoccupare le maggiori magistrature del Regno. Il Consiglio Collaterale temé che la capitale potesse diventare militarmente e politicamente incontrollabile. La mancanza di controllo della
città avrebbe potuto compromettere non solo l’equilibrio socioeconomico urbano,
ma trascinare con sé anche l’assetto politico dell’intero Regno.
Le costruzioni fuori le mura indebolivano la capacità difensiva della città. Inoltre,
la disordinata crescita interna avrebbe potuto rendere più difficile il controllo del
territorio favorendo disordini popolari. Dal 1555 si assiste allora alla emanazione
di numerose «prammatiche» volte a limitare la tumultuosa espansione spontanea
della città. Questi provvedimenti imposero una serie di restrizioni che in pochi anni
culminarono nel divieto di costruire da 30 canne dentro a 200 canne fuori le mura27,
salvo una specifica autorizzazione rilasciata dall’autorità pubblica28.
In realtà, la rigida politica vicereale non riuscì nel suo intento: nessun provvedimento intervenne sulla causa principale dell’accrescimento della città e cioè sul
continuo flusso d’immigrati che affollava la capitale. La popolazione delle province
si affollava sempre più nella metropoli per sfuggire alle angherie baronali e nella speranza di trovare un’occupazione che offrisse migliori condizioni lavorative. A Napoli
era, inoltre, assicurato il privilegio di esenzione dal pagamento delle imposte dirette,
accordato alla città da Carlo V29.
Così, alla vigilia della peste del Seicento, la capitale era diventata, dopo Parigi, la più
popolosa metropoli d’Europa, accogliendo circa 300.000 abitanti, ossia intorno al 10 %
della popolazione dell’intero Regno. A causa dei divieti di costruzione, la città fu bloccata
nel suo sviluppo spontaneo e cominciò così a espandersi verso l’alto, risolvendo verticalmente la strozzatura tra spazio urbano e popolazione. I palazzi di Napoli divennero i più
alti del Vecchio Continente raggiungendo facilmente i cinque o sei piani.
Il mercato immobiliare partenopeo tra espansioni e crisi
L’asfissia del mercato immobiliare rappresentò un ulteriore grave problema della
città. Una parte consistente della popolazione non riusciva a trovare un’abitazione
adeguata al proprio reddito. La precaria situazione era nota alle principali istituzioni cittadine. Il Parlamento napoletano chiese più volte al Consiglio Collaterale di
abolire il blocco delle costruzioni, denunciando come buona parte del popolo, pur
avendo un lavoro, fosse costretta a vivere in alloggi di fortuna. La popolazione che
viveva senza fissa dimora divenne ben presto «un elemento del paesaggio urbano di
Napoli». Alla fine del Cinquecento, nella sola piazza del Mercato si contavano più di
150 baracche che di giorno fungevano da botteghe e di notte da giaciglio30.
99
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
Legato alla carenza di alloggi di modeste dimensioni era il problema dell’aumento dei canoni di affitto. Fino alla vigilia della violenta ondata di pestilenza del XVII
secolo, nella capitale si registrò un progressivo incremento delle pigioni31. Gli affitti
dei bassi − che erano le abitazioni più modeste formate da misere stanze poste al pianterreno o negli scantinati dei palazzi − non costavano meno di 9 ducati all’anno, sia
nella zona della Duchesca sia a San Giacomo degli Spagnoli, nella parte opposta della
città (grafico 1)32. La domanda di questo tipo di alloggio proveniva soprattutto da
piccoli artigiani e commercianti al dettaglio, poiché i bassi, avendo la porta d’ingresso
sul livello strada, potevano essere utilizzati anche come punto vendita.
Spesso i guadagni dei locatari erano talmente modesti da non consentire il pagamento di canoni così elevati. Nel 1601, ad esempio, un falegname percepiva un salario
di 2 carlini al giorno. Con retribuzioni così esigue era difficile potersi permettere l’affitto di un alloggio confortevole e dignitoso o di una bottega di ampia quadratura.
Grafico 1- Andamento dei canoni di alcuni bassi per uso abitazione situati in diverse zone di
Napoli, tra XVII e XVIII, valori annuali medi in ducati e grana
12
10
8
6
4
2
Basso alla Duchessa
Basso a San Giacomo agli spagnoli
Basso a Santa Maria di Loreto
Basso alla conceria del mercato
1800
1794
1789
1783
1777
1771
1765
1759
1753
1747
1741
1735
1716
1710
1704
1698
1692
1625
1619
1613
0
Fonte: Elaborazione delle rilevazioni compiute da E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 100105, tavole 1, 2, 3 e 4.
L’osservazione dell’andamento dei canoni delle botteghe tra il 1640 e il 1805 permette di verificare da vicino la tendenza di lungo periodo del mercato immobiliare
e, in particolare, delle residenze a uso commerciale (grafico 2). Le tre botteghe prese
in esame erano situate alla Vicaria, nella zona più centrale della città, ed erano composte da un ambiente unico, posto sul fronte strada, e da una stanza separata o da un
mezzanino (un piccolo soppalco) che potevano servire da magazzino o da giaciglio
per la notte33. Nel decennio antecedente la crisi demografica il canone di locazione
di queste botteghe era piuttosto alto, si aggirava infatti tra i 40 e i 50 ducati all’anno.
100
SONIA SCOGNAMIGLIO
Le botteghe risultavano affittate ad alcuni rappresentanti facoltosi dei gruppi professionali più importanti della città: notai, sarti e barbieri.
Grafico 2 - Andamento del canone di tre botteghe con camera o mezzanino, situate alla Vicaria,
tra XVII e XVIII, valori in ducati
60
50
40
30
20
10
0
1640 1650 1660 1670 1680 1690 1700 1710 1720 1730. 1740 1750 1760 1770 1780 1790 1799
Bottega A
Bottega C
Bottega B
Fonte: Elaborazione delle rilevazioni compiute da E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp.
126-129, tavola 28.
Negli anni Cinquanta del XVII secolo, si registrarono le drammatiche conseguenze della pestilenza del 1656, che, com’è noto, provocò circa 150.000 vittime
dimezzando la popolazione della capitale. Due delle tre botteghe rimasero a lungo
sfitte: è facile immaginare l’interruzione delle attività commerciali o, peggio, la morte
dei conduttori o dei locatari. L’impressionante crollo demografico riequilibrò il rapporto tra la popolazione e lo spazio urbano, ridimensionando anche i livelli dei fitti.
Si raggiunse però un equilibrio temporaneo, destinato ben presto a sparire.
Nei due decenni successivi si registrò una graduale ripresa che continuò con maggiore intensità per tutto il Settecento. Terminata la peste, infatti, il flusso d’immigrati
riprese con maggiore intensità. Quando già il recupero demografico era iniziato, nel
1707, la popolazione raggiunse nuovamente i 200.000 abitanti e solo quattro lustri
dopo, nel 1742, superò le 315.000 unità34.
La nuova espansione demografica della capitale indusse il governo austriaco, che
nel frattempo si era instaurato sottraendo agli spagnoli il Regno di Napoli, ad avviare
una più attenta politica urbanistica. Furono emessi diversi provvedimenti che limitarono l’espansione dell’edilizia ecclesiastica, e fu abrogato il blocco sulle costruzioni.
Tuttavia, neppure la politica austriaca riuscì a risolvere il problema dell’edilizia popolare. I fitti di case e botteghe continuarono, infatti, a crescere incidendo sempre più
sui bilanci familiari (grafici 1, 2 e 3).
Nel 1742, per paura di tumulti popolari, Carlo di Borbone sollecitò il tribunale
della Vicaria affinché emanasse un provvedimento di blocco dei fitti. Quest’ultimo
fu poi rinnovato continuamente per tutto il secolo, ma fu spesso ignorato dall’ingordigia dei padroni di case35. Nel corso del Settecento le pigioni delle abitazioni più
101
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
modeste, come i bassi e quelle composte da una camera e da una camera con cucina,
aumentarono costantemente.
�
x
1 Camera a San Giovanni a Carbonara
2 Camere con cucina alla Conceria al mercato
0
1805
1801
1797
1793
1789
1785
1781
1777
1773
1769
1765
1761
1757
1753
1749
1745
1741
1737
1733
1729
1725
18
17
16
15
14
13
12
11
10
9
8
7
6
5
1721
Grafico 3 - Andamento dei canoni di alcuni appartamenti di varia grandezza, situati in diverse
zone di Napoli, tra XVII e XVIII, valori annuali medi in ducati
1 Camera con cucina al Mercato grande
3 Camere con cucina a Porta Capuana
Fonte: Elaborazione delle rilevazioni compiute da E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 100105, tavole 1, 2, 3 e 4.
Attori, negoziatori e management dei patrimoni immobiliari
Il progressivo aumento dei fitti, dovuto alla continua crescita della domanda di
alloggi e botteghe, attirò l’interesse degli operatori economici più attivi della capitale.
I gruppi sociali interessati alle attività edilizie o immobiliari ricoprivano i posti più
alti della gerarchia socio-economica della città: gli ordini religiosi, le famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, i grandi enti di assistenza, le organizzazioni corporative
e i banchi pubblici. Proprio questi ultimi divennero i maggiori attori del mercato.
I banchi napoletani furono fondati quasi tutti verso la fine del XVI secolo, quando alcuni tra i più antichi enti di assistenza e di beneficenza pubblica, dopo aver
accumulato ingenti capitali, dettero vita a istituti di credito ad essi collegati. Si formarono così vere e proprie holding finanziarie, centri di potere inseriti attivamente
nel circuito economico, finanziario e commerciale del Regno36.
I banchi investivano i propri capitali nell’acquisto di titoli del debito pubblico,
come le partite di arrendamento e di fiscali. Inizialmente il loro interesse verso il
settore immobiliare fu piuttosto raro e casuale. Le prime acquisizioni di edifici avvennero verso la fine del XVI secolo, per lo più attraverso il recupero dei crediti di
debitori insolventi. Nel Seicento i banchi iniziarono a compiere i primi investimenti
immobiliari, ma fu solo tra gli anni Trenta e Quaranta del Settecento che intensificarono l’attività di acquisto di immobili, dando vita a un nuovo campo d’investimento.
102
SONIA SCOGNAMIGLIO
Alla fine del secolo il loro patrimonio immobiliare divenne assai cospicuo. Il Banco
dei Poveri e quello della Pietà furono gli istituti di credito più attivi: il valore delle
proprietà del primo corrispondeva a non meno di 50.000 ducati, mentre quello del
secondo era addirittura il doppio37.
Nella stessa epoca, la corporazione dei «giudecchieri» − la corporazione dei rivenditori di abiti usati − aveva accumulato un patrimonio immobiliare valutato quasi
50.000 ducati, e la gestione delle 69 proprietà divenne il core business delle sue attività. Il confronto tra il valore del patrimonio immobiliare della corporazione napoletana con quello dei banchi pubblici mette in luce l’importanza economico-finanziaria
dell’organizzazione associativa. Quello dell’arte dei «giudecchieri» non era un caso
isolato. Le testimonianze raccolte consentono, infatti, di disegnare un quadro piuttosto completo della consistenza e della gestione del patrimonio immobiliare di alcune
tra le più importanti organizzazioni corporative napoletane.
Anche se la storiografia è ancora piuttosto esigua su questo specifico tema, diverse
testimonianze confermano come in diverse regioni d’Europa le corporazioni avessero
importanti interessi economici nel settore immobiliare. A Londra, ad esempio, nel
XVII secolo la corporazione dei sarti possedeva numerose proprietà immobiliari, e
fu proprio grazie ad alcune speculazioni immobiliari che diversi gruppi professionali
londinesi riuscirono a mantenere il proprio prestigio sociale ed economico anche
quando nel corso del XVIII secolo le strutture corporative avevano perduto autorità38. Alla fine del Settecento circa il 25 % delle entrate delle corporazioni censite nel
Regno di Sardegna era assicurato da «beni stabili»39. Nella stessa epoca, a Venezia le
attività immobiliari della corporazione della seta avevano lo scopo di assicurare l’alloggio agli adepti che non potevano permettersi di pagare il canone di affitto40.
L’origine dei patrimoni: la corporazione dei «giudecchieri»
Al contrario di quanto accadeva a Venezia, a Napoli gli interessi immobiliari delle
corporazioni non avevano fini assistenziali, ma servivano esclusivamente ad accrescere le entrate. Inoltre, raramente le corporazioni compravano fondi da edificare o
finanziavano la costruzione di immobili nuovi. Di solito si limitavano all’acquisto
di edifici già esistenti, sui quali, poi, facevano periodicamente interventi di manutenzione, di ristrutturazione o di ampliamento. D’altra parte, come si è detto, la
struttura del mercato fondiario e immobiliare partenopeo non lasciava ampia libertà
di costruire nuovi fabbricati.
Anche se per una città come Napoli è piuttosto difficile risalire ai proprietari originari dei suoli urbani, si può affermare che tra il Medioevo e la prima Età moderna
i fondi appartenevano per lo più all’aristocrazia e alle istituzioni religiose41. Con
la progressiva dissoluzione della proprietà feudale urbana, sul mercato s’inserirono
nuove categorie d’investitori, come i banchi pubblici e le corporazioni. La maggior
parte dei gruppi professionali ottenne il regio assenso solo alla fine del XVI secolo.
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
103
Nei primi decenni della loro esistenza, le corporazioni non possedevano somme tali
da poter investire in beni immobili, quindi impiegavano il denaro nell’acquisto di
partite del debito pubblico. Il contatto con il mercato immobiliare avvenne fortuitamente grazie ad alcune acquisizioni ereditarie. Successivamente, sperimentati i
vantaggi economico-finanziari offerti dalla gestione degli immobili, le organizzazioni
corporative avviarono una vera e propria strategia d’investimento immobiliare.
Quella dell’«arte dei giudecchieri» è una delle testimonianze più complete del
processo formativo del patrimonio immobiliare delle corporazioni napoletane. Dalla
fine del Cinquecento al momento dell’abolizione del sistema corporativo, avvenuto
nel 1821, i «giudecchieri» acquisirono un patrimonio formato da 9 palazzi che valeva
circa 50.000 ducati, e le 60 unità immobiliari in cui esso era diviso garantivano una
rendita annuale pari a quasi 1.500 ducati42.
La corporazione dei «giudecchieri» nel 1585 ottenne il regio assenso per esercitare
l’attività di compravendita di «robbe vecchie e nuove di seta lana e lino». Nel XVII
secolo, poi, si assicurò il permesso di poter scucire, rimodellare e cucire gli abiti
usati. I «giudecchieri» inventarono, così, l’abito prêt a porter e monopolizzarono le
crescenti quote di mercato che esprimevano una domanda medio-bassa43. A cavallo
tra il Seicento e il Settecento, l’espansione del mercato dell’abbigliamento di seconda
mano permise a questi piccoli commercianti di diventare facoltosi mercanti e, di
conseguenza, arricchì le finanze della corporazione.
I «giudecchieri» iniziarono a investire una parte consistente dei proventi del commercio nell’acquisto di immobili. Capitava poi che i mercanti che non avevano discendenti decidessero di donare o lasciare in eredità i propri beni alla corporazione.
Si trattava di una consuetudine piuttosto diffusa: l’organizzazione corporativa era
infatti il centro della vita professionale degl’individui e il perno attorno al quale
ruotava tutta la loro esistenza. Non è un caso, quindi, che il 50 % del patrimonio
immobiliare dell’arte fu acquisito grazie alle donazioni e alle eredità ricevute nel
Seicento; mentre l’altro 50 % fu comprato con i capitali della corporazione per lo
più nel Settecento (tabella 1).
La prima proprietà fu acquisita nel 1618 per 6.330 ducati da Don Girolamo
Gionta con un contratto di compravendita sottoscritto dal notaio Lanzillo di Napoli.
Il palazzo era situato nel vico detto «della giudichella». Era un piccolo edificio di quattro piani ciascuno dei quali composto da una stanza e una cucina. Al piano terra del
palazzo vi erano due botteghe di pertinenza dell’edificio. Il vicolo della «giudichella»
era il centro della Giudecca o Giudeca, che – come in numerose città della penisola
– era il ghetto degli ebrei. Questi ultimi già durante il Medioevo a Napoli avevano
monopolizzato il mercato dell’usato44. A seguito della loro definitiva espulsione nel
1539, gli spazi commerciali lasciati vuoti dagli ebrei vennero occupati da altrettanto
scaltri mercanti napoletani − i «giudecchieri» appunto − la maggior parte dei quali si
specializzò nel commercio di abiti usati formando l’omonima corporazione.
104
SONIA SCOGNAMIGLIO
Tra il 1619 e il 1626, entrarono nel patrimonio della corporazione tre palazzi e due
botteghe grazie alle disposizioni testamentarie di alcuni adepti. Le botteghe si trovavano vicino alla chiesa sede della corporazione in vico San Giovanni in Corte, e furono
lasciate in eredità nel 1619 dal maestro Aniello Mazziotti. L’anno successivo il maestro
Marcello di Menna lasciò un palazzo di quattro piani in vico Sant’Agata nella zona
degli Orefici. L’edificio era costituito da 8 appartamenti di varia grandezza e da una
bottega «ad uso di forno» posta al pian terreno dello stabile. Il lascito più generoso
fu compiuto nel 1626 dal maestro Giovanni Ettore Ferrara che donò un palazzo e ne
lasciò in eredità un secondo qualche anno dopo.
Tab. 1- Prospetto della proprietà immobiliare della corporazione dei giudecchieri, secoli XVII- XVIII
Modalità di
acquisizione
Tipo d’immobile
Caratteristiche delle
unità immobiliari
Rendita in
ducati
(nel 1820)
XVII secolo
Eredità d’Anzillo
Palazzo di 4 piani
1 bottega
4 appartamenti
1 basso
136
XVII secolo
Contratto di acquisto
Palazzo di 4 piani
4 appartamenti
80
1618
Contratto di acquisto
Palazzo di 4 piani
2 botteghe
4 appartamenti
114
1619
Eredità Maziotti
Singole unità
2 botteghe
82
1620
Eredità di Manna
Palazzo di 4 piani
1 basso
8 appartamenti
1 mezzanino
173
1626
Eredità Ferrara
Palazzo di 5 piani
7 appartamenti
1 magazzino
255
1717
Contratto di acquisto
2 palazzi di 4
piani
4 botteghe
7 appartamenti
237
1768
Contratto di acquisto
Palazzo di 3 piani
1 basso
14 appartamenti
256
Anno
Fonte: ASNa, Ministero degli Interni, inv. II, F. 5197, fasc. 10, «Mappa dimostrativa de’ beni immobili,
scritture, arredi sacri, suppellettili, et altri oggetti di pertinenza dell’abolita arte de’ giudecchieri, la cui
delegazione era affidata alla sezione di Montecalvario», in «Atti dell’amministrazione stralci riuniti delle
abolite Cappelle di arti e di mestieri, Relazione dell’intendente della provincia di Napoli del 1840».
Le acquisizioni s’interruppero per circa un secolo proprio a cavallo della lunga crisi
del Seicento, ma nel XVIII secolo ripresero in modo significativo. La corporazione,
infatti, in poco più di cinquant’anni spese quasi 12.000 ducati nell’acquisto di beni
immobili. Nel 1717 comprò dai fratelli Peccerillo quattro botteghe, di cui due situate
nella centralissima strada di San Biagio ai Taffettari che si trovava di fronte al vicolo
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
105
della «giudicchella», dove si trovavano le altre due botteghe dell’arte. Nello stesso vicolo
furono poi acquistati altri sette appartamenti di diversa grandezza. La politica d’investimento continuò nel 1768, quando la corporazione acquistò ben 15 unità immobiliari
nella zona degli Orefici, composte da bassi e da appartamenti di diversa grandezza.
Con l’emanazione dei decreti di abolizione delle strutture corporative (1820-1821),
i «giudecchieri» si resero conto che avrebbero perso l’ingente patrimonio che da diversi
secoli apparteneva al loro gruppo professionale. Portarono, così, la questione dinanzi
alle istituzioni cittadine avviando un intenso carteggio lungo circa vent’anni, dal 1822
al 1840. A conclusione della querelle, l’Intendente della provincia di Napoli decise che
«Gli stessi individui riassumano la gestione [del patrimonio immobiliare] tenuta, provvisoriamente e, quasi, per esperimento, colla aggiunzione però d’un Sovrintendente in
persona di Don Gaetano Navarro, per l’andamento regolare degli affari»45.
La gestione del rischio: investimenti immobiliari e investimenti finanziari
Le testimonianze offerte dalla corporazione dei «giudecchieri» lasciano intuire
l’importanza del patrimonio immobiliare nella vita delle corporazioni, ma non permettono di confrontare il peso di questo investimento rispetto all’altra forma più
diffusa d’impiego dei capitali in età moderna: l’acquisto di quote del debito pubblico. La scelta delle strategie patrimoniali è uno degli aspetti più interessanti poiché
consente di comprendere la logica che animava i comportamenti delle corporazioni.
Si è detto che quello immobiliare era un investimento a basso rischio e offriva al
contempo numerosi vantaggi: da quello di accedere più facilmente al credito bancario, a quello di ottenere una rendita piuttosto elevata e crescente. Un ulteriore elemento che contribuì a rendere più attraente questo tipo di investimento era l’assenza
di una politica fiscale che colpisse le case o le pigioni.
Sembrerebbe infatti che solo in alcuni momenti storici il settore fosse colpito da
imposte e ciò rese ancora più appetibile questa forma d’investimento. Alla fine del
Settecento si fece però vivo il dibattito sul risanamento della finanza pubblica e, di conseguenza, fu presa in considerazione l’eventualità di creare un’imposta sulle case. Così,
nel 1796, la decima colpì le rendite di qualsiasi natura, comprese quelle delle case, nella
misura del 10 %46. A parte l’emergere alla fine del XVIII sec. di un’incidenza fiscale,
l’unico disincentivo all’investimento immobiliare era rappresentato dalla necessità di
possedere capitali piuttosto consistenti. L’investimento finanziario, pur presentando
maggiori margini di rischio, permetteva, invece, di impiegare anche piccoli capitali47.
Il primo elemento per risalire alle strategie finanziarie delle corporazioni napoletane è la ricostruzione delle loro relazioni con i banchi pubblici. Sin dalla fine del
XVI secolo, esse stabilirono un rapporto di fiducia con gli istituti di credito. I primi
regolamenti delle corporazioni imposero ai consoli di accendere un conto presso
uno dei banchi, di solito quello la cui sede era più vicina alla corporazione. Essi
avevano l’obbligo di depositare sul conto i contributi imposti agli adepti e riscossi
106
SONIA SCOGNAMIGLIO
settimanalmente dai consoli. Raggiunta una certa cifra, di solito 100 ducati, i consoli
erano autorizzati «a far di compere» in modo da non tenere i capitali improduttivi48.
Chiaramente, con cifre così limitate, era possibile solamente acquistare quote di arrendamenti o di fiscali.
Col passare del tempo, e probabilmente grazie alla progressiva accumulazione di
cospicui capitali, le corporazioni iniziarono a preferire l’investimento immobiliare,
rivolgendosi al mercato finanziario solo in via residuale. Questa tendenza è testimoniata dai documenti contabili di alcune corporazioni. L’analisi delle entrate della
corporazione della lana mostra che a metà Settecento meno del 15 % delle rendite
derivava da investimenti effettuati sul mercato mobiliare, mentre più dell’80 % proveniva dalle pigioni. I lanaioli possedevano, infatti, ben 75 unità immobiliari, che nel
1759 resero più di 1.500 ducati49.
La propensione all’investimento immobiliare è confermata anche dalla politica
adottata dalla piccola corporazione dei «coltrari di seta». I «coltrari» erano specializzati nella produzione di preziosi copriletto imbottiti di «bambace» e di tessuti utilizzati per rivestire le pareti degli appartamenti più lussuosi. In origine facevano parte
della «nobil arte della seta», poi, nel corso del XVII secolo, con la progressiva divisione del lavoro e la decadenza della produzione serica, numerosi artigiani si specializzarono in particolari segmenti di mercato tessile. Si formarono così le corporazioni
dei «banderari di seta», dei «tessitori di trine e passamaneria di seta» e dei «coltrari».
Nel Settecento gli adepti della corporazione dei «coltrari» erano circa 80, e grazie alle
loro contribuzioni la corporazione poté formare un piccolo patrimonio immobiliare.
Le fonti riportano che nel 1755 l’arte era proprietaria di una bottega e di 4 appartamenti, le cui rendite assicuravano circa 50 ducati all’anno.
In verità, non tutte le corporazioni sceglievano di investire i propri capitali nell’acquisto di beni immobili. La corporazione dei «pelletteri e degli scamosciatori» −
gli artigiani che si occupavano di pulire e preparare le pelli da vendere ai calzolai e ai
guantai − scelse di diversificare la propria politica d’investimento, dando la preferenza all’investimento finanziario.
L’analisi del bilancio del 1744 mostra la netta prevalenza delle rendite derivanti
da investimenti mobiliari (circa l’80 %). I consoli della corporazione decisero di affidare circa 1.000 ducati a specialisti del settore, rivolgendosi ai fratelli Coppola e ai
reverendi padri Camaldolesi di Torre del Greco che abitualmente operavano sul mercato mobiliare. La scelta era giustificata dal fatto che i consoli avevano un rapporto
personale e fiduciario con i loro intermediari50.
I consoli non rinunciarono, però, a effettuare investimenti meno rischiosi. Così,
nello stesso anno, acquistarono un appartamento e un forno con diritto di panificazione. Si trattò di un investimento di circa 1.000 ducati che assicurava una rendita
di 84 ducati all’anno51.
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
107
Rendite e costi di gestione del patrimonio immobiliare: la corporazione dei falegnami tra
il 1762 e il 1772
I bilanci della corporazione dei falegnami costituiscono una delle fonti più ricche
d’informazioni sulle attività corporative. I documenti contabili consentono, infatti,
di verificare l’andamento delle entrate e delle uscite e, in particolare, di ricostruire
i flussi relativi alla gestione degli immobili nel decennio compreso tra il 1762 e il
1772. Le fonti permettono, inoltre, di calcolare l’incidenza delle rendite immobiliari
sul totale delle entrate e quella delle spese per la manutenzione degli immobili sul
totale delle uscite52.
La corporazione dei falegnami ottenne il regio assenso nel 1596 e divenne ben
presto uno dei gruppi professionali più numerosi della città. Nel Settecento contava
più di 600 immatricolati, specializzati nei vari segmenti dell’ampio mercato della
lavorazione e del commercio del legno. Nella corporazione erano infatti compresi: i
mestieri di «terra», dei «cassieri di noce», dei «trabaccari», degli «scrignari», dei «tornieri», dei «bottari», dei «baugliari», dei carrozzieri e degli ebanisti53.
Tra il XVII e il XVIII secolo la corporazione divenne una delle più facoltose della
città: le sue entrate si aggiravano, infatti, intorno ai 10.000 ducati all’anno. Nel biennio compreso tra il 1762 e il 1764, circa il 60 % delle entrate della corporazione era
rappresentato da fitti; un investimento che assicurò ben 6.544 degli 11.090 ducati
che rappresentavano il totale delle entrate54. Nel decennio successivo la corporazione
registrò un aumento del 15 % delle rendite immobiliari. Le entrate passarono, infatti, da 6.544 ducati, nel 1762, a 7.485, nel 1772. In quell’anno il peso delle entrate
derivanti dalle pigioni raggiunse l’80 % delle entrate della corporazione (grafico 4)55.
Il settore immobiliare divenne così il core business della corporazione.
Grafico 4 - Rendite della corporazione dei falegnami tra il 1761 e il 1772, valori in ducati
12000
11000
10000
9000
8000
7000
6000
1762-64
1764-66
Totale entrate
1766-68
1768-70
1770-72
di cui derivanti da locazioni
Fonte: ASNa, Tribunale Misto, Processi, F. 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore
contabile, anni 1672-1772».
108
SONIA SCOGNAMIGLIO
L’evoluzione delle entrate offre anche l’opportunità di verificare la tenuta degli
investimenti immobiliari durante un periodo di crisi. Il 1764 fu infatti un anno
particolarmente difficile, a causa della carestia che colpì la capitale compromettendo
l’equilibrio socioeconomico urbano56. Tra il 1762 e il 1766, anche se le entrate totali
subirono una temporanea contrazione, l’andamento delle entrate derivanti dai fitti
continuò a crescere (grafico 4).
L’analisi delle spese della corporazione rivela alcuni interessanti aspetti della gestione delle proprietà immobiliari. Se è vero che le proprietà garantivano alla corporazione cospicue rendite, è pur vero che necessitavano di interventi ordinari e
straordinari di mantenimento e di ristrutturazione.
Oltre alle spese ordinarie, che ammontavano a circa 500 ducati all’anno, vi erano
quelle straordinarie che impegnavano maggiormente le finanze dell’arte (grafico 5).
Tra queste ultime, particolarmente rilevante è quella compiuta nel 1764 quando l’arte investì ben 950 ducati per la ristrutturazione del palazzo situato a «Porta grande».
A distanza di qualche anno, tra il 1770 e il 1772, la corporazione spese altri 2.500
ducati per la manutenzione e l’abbellimento della chiesa di San Giuseppe Maggiore
dove aveva sede l’arte (grafico 5)57.
Grafico 5 - Spese effettuate dall’arte dei falegnami dal 1662 al 1772
12000
11000
10000
9000
8000
7000
6000
5000
4000
3000
2000
1000
0
1762-64
1764-66
1766-68
di cui spese ordinarie di fabbrica
1768-70
1770-72
Totale spese
di cui spese straordinarie per il mantenimento degli immobili
Fonte: ASNa, Tribunale Misto, Processi, F. 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore
contabile, anni 1672-1772».
Il costo per la ristrutturazione e l’abbellimento della chiesa fu particolarmente elevato e, dal momento che la chiesa non produceva alcuna rendita, era chiaro che la
logica di questo tipo d’investimento era profondamente diversa da quella che abbiamo
incontrato fino adesso.
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
109
In genere, le spese sostenute per il mantenimento degli immobili seguivano una
logica di profitto: accrescevano il valore dei beni riverberandosi positivamente sui livelli
dei canoni d’affitto e, quindi, sulle rendite della corporazione.
La chiesa, invece, non era di proprietà della corporazione. Pertanto, i capitali spesi
per il mantenimento, la ristrutturazione e la decorazione dell’edificio sacro non incrementavano il valore del patrimonio dell’arte. La logica di questi investimenti rispondeva, quindi, più a un criterio di prestigio. Le chiese costituivano le sedi delle corporazioni ed erano l’espressione della loro posizione nella gerarchia dei gruppi professionali.
La chiesa rappresentava, dunque, il monumento della corporazione; proprio come il
palazzo residenziale dell’aristocrazia rappresentava il prestigio e la potenza della casata58. Non a caso le corporazioni più importanti cercavano di assicurarsi la propria sede
nelle principali chiese della città. Ottenuta la sede più adeguata, esse non si esimevano
dall’ingaggiare i migliori artigiani d’Europa. Un esercito di pittori, scultori, fabbri, intarsiatori, maestri d’ascia, «organai» e «apparatori» lavorava senza sosta per realizzare le
migliori creazioni artistiche e donare alla chiesa uno splendore ineguagliabile.
Struttura e topografia delle proprietà
La chiesa della corporazione non solo rappresentava l’importanza del gruppo professionale, ma era anche il centro attorno al quale si distribuiva la rete delle proprietà
immobiliari. La politica di acquisizione degli immobili privilegiava, infatti, i fabbricati
che sorgevano accanto alla sede della corporazione, dove venivano ubicati gli enti di
assistenza. Nel 1754, ad esempio, la corporazione dei calzolai acquistò l’immobile attiguo alla chiesa intitolata ai Santi protettori dell’arte, i santi Crispino e Crispiniano.
Lo stabile venne ristrutturato e trasformato in conservatorio per accogliere e istruire le
figlie dei maestri immatricolati che desideravano entrare in convento59.
Le proprietà delle corporazioni si concentravano soprattutto nell’area più antica
della città, che si sviluppava dietro il Porto e nella zona meridionale, dove si svolgeva
la parte più rilevante dei traffici commerciali60. Grazie a questa politica di acquisizione, le corporazioni s’inserivano nel segmento di mercato più redditizio della città,
rappresentato proprio dagli alloggi di piccole dimensioni che si trovavano nel cuore
del centro urbano, e si assicuravano, inoltre, una presenza costante e ben radicata nel
tessuto cittadino, accrescendo la loro autorità sul territorio.
Dunque, non era un caso che più del 40 % delle proprietà della corporazione della lana fossero concentrate nella strada di San Biagio ai Taffettari, dove anche la corporazione dei «giudecchieri» aveva diverse proprietà. In quella strada, com’è noto, si
svolgeva infatti gran parte del commercio dei tessuti. Nelle aree limitrofe si trovavano
la chiesa, il conservatorio, il tribunale dell’arte e lo stabile che custodiva l’archivio
della corporazione. Nella zona circostante San Biagio, poi, l’arte possedeva anche 8
botteghe di varia grandezza e ben 21 appartamenti. Uno di questi − composto da due
camere e una cucina − era dato gratuitamente in uso al portinaio del conservatorio.
110
SONIA SCOGNAMIGLIO
Un’altra consistente parte del patrimonio era concentrata nella strada del Lavinaro,
dove si trovavano 11 bassi e 14 appartamenti. Le altre proprietà erano nella strada degli
Armieri, dove la corporazione possedeva 3 botteghe e 3 appartamenti che rendevano
64 ducati all’anno, e nella strada di Santa Maria delle Grazie «all’orto del conte», dove
aveva un basso e 5 appartamenti affittati per 67 ducati all’anno61. A Portanuova l’arte
della lana possedeva un grande stabile utilizzato come carcere che di solito dava in affitto al tribunale della Vicaria, l’istituzione giudiziaria più importante della città.
La parte più consistente degli investimenti riguardava l’acquisizione di appartamenti, bassi, botteghe e magazzini da dare in affitto. La corporazione della lana
possedeva 75 unità immobiliari, 11 botteghe e 64 appartamenti. Il 15 % delle proprietà della corporazione dei «giudecchieri» era rappresentato da botteghe, mentre
la restante e maggiore parte degli immobili era destinata ad uso residenziale. Gli
appartamenti avevano grandezza diversa, ma non superavano mai le tre camere e
cucina. La preferenza per le case più modeste, la cui domanda era composta prevalentemente da artigiani, rivela un altro importante aspetto della gestione patrimoniale
corporativa. Le associazioni di mestiere avevano infatti individuato il settore più redditizio del mercato immobiliare partenopeo, quello appunto dell’edilizia popolare.
L’acquisizione e la locazione di appartamenti di piccole dimensioni agevolava soprattutto il ceto artigiano e mercantile della città sempre in cerca di alloggi e botteghe.
I conflitti: inquilini, e giurisdizioni corporative
Un’ultima riflessione riguarda le strategie adottate dalle corporazioni nella scelta
degli inquilini e la gestione delle controversie tra questi e le corporazioni. A questo
proposito, però, i documenti a nostra disposizione sono ancora estremamente lacunosi.
La maggior parte delle informazioni sugli inquilini si trovano nei contratti di locazione
raccolti nei protocolli dei notai incaricati di redigerli. Quella notarile è una fonte ricchissima, ma ancora poco utilizzata, sia per le difficoltà d’individuare il notaio estensore
dei contratti, sia per le note difficoltà di accesso e di lavoro negli archivi napoletani. Allo
stato della ricerca, è, dunque, possibile solamente proporre qualche considerazione.
La testimonianza più interessante sulla natura dei rapporti tra proprietari e inquilini
è offerta dalla corporazione dei «coirari d’arte piccola della zabatteria»: gli artigiani che
si occupavano di rifinire i cuoi accomodati dai «coirari d’arte grossa» e di confezionare
i prodotti necessari per la realizzazione delle scarpe e di altri generi di abbigliamento. Si
trattava di una corporazione piccola, ma che grazie alle proprie disponibilità economiche riuscì ad acquistare diversi immobili, tutti situati nella zona del mercato grande o
nella strada della Zabatteria, dove si concentrava appunto l’attività degli adepti.
Nella seconda metà del XVII secolo, Giuseppe Notarianno fu per circa un decennio il notaio del comparto conciario. Egli si occupava di redigere gli atti degli acquisti
dei cuoi necessari alle numerose corporazioni coinvolte nell’attività della concia a
Napoli. I suoi protocolli notarili offrono infatti un ampio ventaglio di notizie, tanto
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
111
sull’attività commerciale delle corporazioni, quanto sulle relazioni private e familiari
degli artigiani. Negli ultimi decenni del XVII sec., il Notaio lasciò la gestione degli
affari dei conciatori napoletani dedicandosi a quella del patrimonio immobiliare del
Banco di S. Eligio.
Notarianno redasse così diversi contratti di locazione per conto della corporazione dei conciatori di arte piccola. D’accordo con il tesoriere che rappresentava la
corporazione, il notaio, tra il 1680 e il 1683, stipulò 5 contratti di locazione. Gli inquilini erano adepti della corporazione o, comunque, maestri del comparto conciario
e corrispondevano un canone estremamente elevato, pari a 20 ducati all’anno62.
Ciò conferma la mancanza di un intento assistenziale nella gestione del patrimonio edilizio, effetto del dinamismo del mercato immobiliare napoletano che conferiva a tali investimenti una matrice affaristica e speculativa. In questo caso è, infatti,
possibile escludere che le corporazioni concedessero gratuitamente le case ai maestri
più poveri della corporazione, come, invece, accadeva in altre realtà urbane63.
La locazione degli immobili agli artigiani del settore conciario risolveva alcuni
importanti problemi. La corporazione poteva raccogliere con facilità le informazioni
necessarie per la scelta dell’inquilino. La solvibilità dei conduttori era, infatti, l’anello
debole dell’investimento immobiliare. Con fitti così elevati e salari che tendevano a
essere stabili o a diminuire, spesso gli inquilini non riuscivano a pagare la pigione.
Questa dinamica peggiorò nel corso del Settecento, quando i proprietari iniziarono
ad aumentare anno dopo anno il prezzo delle locazioni. Il caos che si creava per le
strade della città nei giorni intorno al 4 maggio, quando terminavano i contratti di
locazione, era impressionante. Fra traslochi improvvisi, occupazioni abusive e sgomberi forzati, intere famiglie rimanevano senza casa e si stabilivano per strada. Il disagio sociale era diffusissimo e non di rado creava pericolosi disordini urbani64.
Nel 1742, il tribunale della Vicaria emanò un bando nel tentativo di arginare il malessere popolare frenando «l’ingordigia dei proprietari». Questi ultimi non potevano sfrattare gli inquilini che erano in regola e neppure aumentare loro il canone nel corso del
contratto. Il divieto riguardava non solo le case, ma anche le botteghe o le camere adoperate per l’attività professionale del conduttore. Tuttavia, l’applicazione del blocco dei fitti,
confermata anno dopo anno nel corso del secolo, non fu rigorosa. Inoltre, essa limitava
l’aumento dei fitti esclusivamente durante il contratto. Ciò voleva dire che i proprietari
potevano aumentare il canone alla fine di ogni contratto e cioè ogni anno65.
Se di norma nei rapporti tra inquilini e proprietari l’intervento della magistratura
poteva garantire la tutela degli interessi delle parti più deboli, quando i proprietari
erano le corporazioni la situazione si faceva più difficile. Com’è noto, le corporazioni
avevano un proprio tribunale, così quando si creavano conflitti con gli inquilini esse
istruivano le cause dinanzi alla propria autorità giudiziaria. In teoria le corporazioni
non avrebbero potuto farlo: il tribunale domestico poteva infatti occuparsi solamente
delle questioni interne, quelle in cui le parti coinvolte nella controversia erano iscritte
112
SONIA SCOGNAMIGLIO
alla corporazione. Derogando questa regola e approfittando del caos amministrativo
che regnava nelle istituzioni giudiziarie ordinarie, le corporazioni si arrogavano il
diritto di celebrare i processi contro gli inquilini anche quando questi ultimi non
appartenevano alla corporazione. Così gli inquilini erano costretti a subire le angherie delle corporazioni, che sempre più spesso approfittavano della loro funzione
giurisdizionale. Non a caso nel 1750, l’«eletto della Piazza del Popolo» − uno dei sette
eletti che presiedevano il Tribunale di San Lorenzo che si occupava dell’approvvigionamento annonario − denunciò al re la situazione e ottenne che al tribunale della
Vicaria fossero assegnate tutte le cause riguardanti gli affitti e gli sfratti pendenti
presso i tribunali delle corporazioni66.
Sonia Scognamiglio
Un ducato = 10 carlini = 100 grana. Cfr. A. MARTINI, Manuale di metrologia: ossia misure, pesi e
monete in uso attualmente e anticamente presso tutti i popoli, Roma, ERS, 1883, p. 399 e A.P. FAVARO
Metrologia o sia trattato generale delle misure, de’ pesi e delle monete, Napoli, Gabinetto bibliografico e
tipografico, 1826, p. 269.
2
Cfr. C. TOPALOV, Le logement en France, Histoire d’une merchandise impossible, Paris, Presses de
la Fondation Nationale des Sciences Politiques de Paris, 1987, pp. 1-100. Sulla gestione capitalistica
della proprietà cfr. anche i numerosi contributi contenuti nel volume Power, Profit and Urban land.
Landownership in Medieval and early Modern Northen European Towns, E. Finn-Einar-G.A. Ersland
(eds.), Aldershot, Scolar Press, 1996.
3
Cfr. E. FINN-EINAR-G.A. ERSLAND, Introduction, in Power, profit and urban land, cit., pp. 1-14.
4
Cfr. D. KEENE, Landlords, the property Market and Urban Development in Medieval England, in
Power, profit and urban land, cit., pp. 93-119.
5
Cfr. C. TOPALOV, Le logement en France, cit., p. 35.
6
Ivi, pp. 29 e 65-100.
7
Cfr. E. FINN-EINAR-G.A. ERSLAND, Introduction, in Power, profit and urban land, cit., pp. 9-10.
8
Cfr. Tra gli altri D. KEENE, Landlords, the property Market and Urban Development in Medieval
England, in Power, profit and urban land, cit., pp. 93-111; G.A. ERSLAND, The evolution of Land Rent in
Late Medieval Bergen, in Power, profit and urban land, cit., pp. 61-69; R. RODGER, Feuding “Farming”
and Scottish Urban Formi, c. 1600-1900, in Power, profit and urban land, cit., pp. 120-140; R. SANDBERG,
Urban Landownership in Early Modern Sweden, in Power, profit and urban land, cit., pp. 179-193; S.
HOOD, Throught the Gates: Power and Profit in an Irish Estate Town, in Power, profit and urban land,
cit., pp. 244-269.
9
Cfr. A. SAPORI, Compagnie e mercanti di Firenze antica, Firenze, Giunti Barbera, 1955, pp. 305-352.
10
Cfr. C. TOPALOV, Le logement en France, cit., p. 67.
11
A. LE MAÎTRE, Métropolitée, ou de l’ètablissement des Villes capitales, de leur utilité passive et active, Amsterdam, 1682, document elettronique, Bibliotheque Nationale de France, Paris, reproduction
NUMM, 6561.
12
Cfr. Histoire de l’Europe urbaine, vol. I: De l’Antiquité au XVIII siècle, genèse des villes européennes,
a cura di J.L. Pinol, Paris, Seuil, 2003, pp. 602-603.
13
Cfr. R. MOUSNIER, Paris capitale au temps de Richelieu et de Mazarin, Paris, Pedone, 1978, [trad.
it. Parigi capitale nell’epoca di Richelieu e Mazzarino, Bologna, Il Mulino, 1983].
14
Cfr. D. ROCHE, Le Peuple de Paris. Essai sur la culture populaire au XVIII siècle, Paris, Aubier
Montaigne, 1981, [trad. it. Il popolo di Parigi: cultura popolare e civiltà materiale alla vigilia della rivoluzione, Bologna, Il Mulino, 1986]; M. LE MOEL, L’architecture privée à Paris au Grand Siècle, Paris,
Service des travaux historiques de la ville de Paris, 1990; J.P. BABELON, Demeures parisiennes sous Henri
1
PATRIMONI E CORPORAZIONI A NAPOLI TRA XVI E XVIII SECOLO
113
IV et Louis XIII, Paris, Le temps, 1965.
15
Cfr. Histoire de l’Europe urbaine, vol. I: De l’Antiquité au XVIII siècle, cit., pp. 668-670.
16
C. TOPALOV, Le logement en France, cit., pp. 66-69.
17
M. REED, London and its Hinterland 1600-1800: the View from de Provinces, in Capital cities and
their Hinterlands in Early Modern Europe, Aldershot, Scolar Press, 1996, pp. 51-86.
18
Cfr. D. KEENE, Landlords, the property Market and Urban Development in Medieval England, cit.
19
Lo sviluppo delle attività immobiliari in Inghilterra era poi favorito dall’impossibilità di investire i capitali nell’acquisto di quote del debito pubblico, al contrario di quanto accadeva nell’Europa continentale.
20
Cfr. tra tutti C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 al ‘800. Problemi di storia sociale e demografica,
Napoli, Guida, 1974; G. GALASSO, Una Capitale dell’Impero, in Alla periferia dell’impero. Il Regno di
Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI e XVII), Torino, Einaudi, 1994 e ID., Napoli Capitale. Identità
politica e identità cittadina (1266-1860), Napoli, Electa, 1998; F. VENTURI, Napoli capitale nel pensiero
dei riformatori illuministi, in Storia di Napoli, 10 voll., vol. VIII, Napoli, ESI, 1971, pp. 1-73. Sul rapporto tra la capitale e i centri urbani delle province cfr. Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, a cura
di A. Musi, Napoli, ESI, 2000.
21
Cfr. P. LOPEZ, Napoli e la peste, 1464-1558, politica, istituzioni, problemi sanitari, Napoli,
Jovane, 1989.
22
C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 al ‘800. Problemi di storia sociale e demografica, cit., pp. 3-4.
23
Cfr. G. PANE, Lo sviluppo urbanistico di Napoli nel Cinquecento, in Gli inizi della circolazione della
cartamoneta e i banchi pubblici napoletani, a cura di L. De Rosa, Napoli, Fondazione Banco di Napoli,
2002, pp. 231-264.
24
Cfr. C. DE SETA, Cartografia della città di Napoli. Lineamenti dell’evoluzione urbana di Napoli, 3
voll., Napoli, ESI, 1969, vol. I, pp. 136-140; G. LABROT, Baroni in città. Residenze e comportamenti dell’aristocrazia napoletana. 1530-1734, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1979; ID., Palazzi Napoletani
. Storie di nobili e cortigiani 1520-1750, Napoli, Electa, 1993; R. DE FUSCO, L’architettuta privata e pubblica a Napoli nel Cinquecento, in Gli inizi della circolazione della cartamoneta, cit., pp. 265-288.
25
Cfr. G. BRANCACCIO, Il Trono, la fede e l’altare. Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa nel
Mezziogiorno Moderno, Napoli, ESI, 1996.
26
F. STRAZZULLO, Edilizia e Urbanistica a Napoli, dal ‘500 al ‘700, Napoli, Arturo Berisio, 1968,
pp. 187-198.
27
La canna corrisponde a circa 2 metri.
28
C. DE SETA, Cartografia della città di Napoli, cit., pp. 145 sgg.
29
Cfr. C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 al ‘800. Problemi di storia sociale e demografica, cit., pp.
50-51 e 111-115.
30
Cfr. C. DE SETA, Cartografia della città di Napoli, cit., p. 166.
31
Cfr. F. STRAZZULLO, La peste del 1656 a Napoli, Il Fuidoro, 1957, pp. 7-16.
32
Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli nei secoli XVII e XVIII, Napoli, Droz, 1977, p. 86.
33
Ivi, pp. 127-130.
34
Cfr. C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 al ‘800. Problemi di storia sociale e demografica, cit., p. 133.
35
Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 92-99.
36
Cfr. tra gli altri L. DE ROSA, Gli inizi della circolazione della cartamoneta e i banchi pubblici napoletani, in Gli inizi della circolazione della cartamoneta, cit., pp. 437-459 e ID., Banchi pubblici, banchi
privati e Monti di pietà a Napoli nei secoli XVI-XVIII, in Banchi pubblici, banchi privati e Monti di Pietà
nell’Europa Preindustriale, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 1991, pp. 497-512; E. DE SIMONE,
Il Banco della Pietà di Napoli 1734-1806, Napoli, ISTOB, 1974.
37
Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 77-79.
38
Cfr. D. KEENE, Landlords, the property Market and Urban Development in Medieval England, cit.
39
Cfr. G. DONEDDU, Il sistema delle corporazioni nella Sardegna della seconda età moderna, in
Corporazioni e gruppi professionali nell’italia moderna, a cura di A. Guenzi, P. Massa, A.Moioli, Milano,
Franco Angeli, 1999, pp. 201-216.
40
Cfr. M. DELLA VALENTINA, I tessitori di seta a Venezia nel Settecento, «Quaderni storici», 2003, 2,
pp. 399-418.
114
SONIA SCOGNAMIGLIO
41
Sul tema dei proprietari originali dei suoli urbani cfr. le interessanti riflessioni di B.J. GRAHAM,
The processes of Urban Improvement in Provincial Ireland e S. HOOD, Through the Gates: Power and Profit
in an Irish Estate Town, in Power, profit and urban land, cit, pp. 218-270.
42
ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI (d’ora in poi ASNa), Ministero degli Interni, II inv., Fascio 5197,
fasc. 10, «Atti dell’amministrazione stralci riuniti delle Abolite cappelle d’arti e di mestieri. Relazione
dell’Intendente della provincia di Napoli del 1840».
43
ASNa, Ministero degli Interni, II inv., Fascio 5197, fasc. 54, «Capitoli dell’arte di comprare,
accomodare e vendere robbe vecchie e nuove, di seta lana e tela del 1589». Questo fascicolo è stato
erroneamente inserito in quello che raccoglie le capitolazioni dell’arte della lana.
44
G. DORIA, Le strade di Napoli. Saggio di toponomastica storica, Napoli, R. Ricciardi, 1979, p. 235.
45
ASNa, Ministero degli Interni, II inv., Fascio 5197, fasc. 10, «Atti dell’amministrazione stralci
riuniti delle Abolite cappelle d’arti e di mestieri. Relazione dell’Intendente della provincia di Napoli del
1840. Lettera del presidente del Consiglio generale degli ospizi cui competeva la gestione degli stralci
riuniti delle cappelle abolite di arti e di mestieri».
46
Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 80-81.
47
Cfr. L. DE ROSA, Studi sugli arrendamenti del regno di Napoli. Aspetti della distribuzione della ricchezza mobiliare nel mezzogiorno continentale (1649-1806), Napoli, L’Arte Tipografica, 1958.
48
G. MUTO, Forme e contenuti economici dell’assistenza nel Mezzogiorno moderno: il caso di Napoli, in
Timore e carità. I poveri nell’Italia moderna, a cura di G. Politi, M. Rosa, F. Della Peruta, «Annali delle
Biblioteca statale e Libreria Civica di Cremona», 1982, pp. 237-258.
49
ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 25, fasc. IX, «Stato generale delle rendite della Chiesa di
Santa Maria delle Grazie di Miroballo del 1759».
50
ASNa, Cappellano Maggiore, Statuti di corporazioni, Fascio 1185, fasc. 10, «Relazione sulle entrate
e sugli esiti dell’arte dei pelletteri e scamosciatori del 1744».
51
Ibidem.
52
ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore
contabile, anni 1762-1772».
53
L. MASCILLI MIGLIORINI, Il sistema delle arti, Napoli, Guida, 1992, pag. 108.
54
ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore
contabile, anni 1672-1772».
55
Ibidem.
56
cfr. E. ALIFANO, Il grano, il pane e la politica annonaria a Napoli nel Settecento, Napoli, ESI, 1996,
pp. 177-200.
57
ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 25, «Chiesa S. Giuseppe Maggiore. Relazione del Revisore
contabile, anni 1672-1772».
58
Cfr. tutti i numerosi contributi raccolti in Tra rendita e investimenti, formazione e gestione dei grandi patrimoni in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di A. Vittorio e J.A. Davis, Bari, Cacucci
editore, 1996, pp. 3-287; su questo specifico tema cfr. L. MOCARELLI, Ascesa sociale e investimenti immobiliari: la famiglia Clerici nella Milano del Sei-Settecento, «Quaderni storici», 2003, 2, pp. 419-436.
59
ASNa, Tribunale Misto, Processi, Fascio 14, fasc. I, «Chiesa dei Santi Crispino e Crispiniano
del 1754».
60
C. PETRACCONE, Napoli dal ‘500 all’800, cit.
61
ASNa, Tribunale Misto, Processi, F. 25, fasc. IX, «Stato generale delle rendite della Chiesa di Santa
Maria delle Grazie di Miroballo del 1759».
62
ASNa, Sezione Militare, Notai del Seicento, Giuseppe Notarianno, 554, voll. 3-7-11, anni 16781683, «locatio domy, apotheca e camera».
63
Cfr. M. DELLA VALENTINA, I tessitori di seta a Venezia nel Settecento, cit.
64
Cfr. E. DE SIMONE, Case e Botteghe a Napoli, cit., pp. 94-95.
65
Ibidem.
66
Ibidem.
LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME
UN FENOMENO URBANO DALL’OSSERVATORIO DELL’ALBERGO
DEI POVERI (1656-1798)*
Descrivere la gestione immobiliare di un’istituzione caritativa come l’Ufficio (o
Magistrato) dei poveri di Genova tra Sei e Settecento significa delineare i comportamenti patrimoniali e le strategie insediative delle famiglie che ne erano tutrici, e
definire con chiarezza la condizione urbana e abitativa della capitale in quegli anni.
Lo studio sistematico delle unità edilizie possedute e amministrate da un ente dall’attività poliedrica quale fu l’Ufficio dei poveri – sorto con intenti assistenziali, ma
salito alla ribalta della scena nazionale e internazionale grazie alla versatilità dei propri interessi finanziari – ha contribuito, infatti, a tracciare un quadro indicativo della
complessa realtà dell’epoca, e ha creato l’occasione per rilevare alcuni aspetti ancora
in ombra della cultura immobiliare genovese in Antico Regime.
La storiografia impegnata nell’analisi urbana di Genova si è dedicata episodicamente al periodo qui preso in esame, trattando solo gli eventi ritenuti emblematici1.
Questo contributo si colloca, dunque, come uno dei primi tentativi di indagine sistematica delle operazioni edilizie su grandi proprietà in funzione dello sviluppo urbano
e architettonico coevo, e assume, nella sua configurazione, il carattere di un inventario di usi e valori, indicando i percorsi privilegiati da seguire in un’analisi futura2. Lo
spaccato sulla proprietà urbana genovese che qui si offre contribuisce solo in parte
a interpretare un modus vivendi appannaggio esclusivo delle classi al potere e delle
istituzioni che in qualche modo le rappresentarono, alludendo ai temi che hanno
maggiormente influenzato la mutevolezza immutabile di una città in crescita.
Le trasformazioni urbane a Genova tra Sei e Settecento attraverso la documentazione
prodotta dall’Ufficio dei poveri
Nella vita collettiva europea il XVII secolo segnò una profonda crisi che, nella penisola italiana, si manifestò con la «rivoluzione dei prezzi» e con il depauperamento dei
ceti a reddito fisso, facendo sentire i suoi effetti più immediati sulle diverse compagini
sociali, già vittime del flagello delle epidemie di peste degli anni precedenti. Nelle aree
direttamente legate al declino politico ed economico della Spagna (la Repubblica di
116
CLARA ALTAVISTA
Genova sopra tutte) la situazione divenne instabile, fino a raggiungere l’immobilità di
ogni forma di investimento con il ritiro dei capitali dalla partecipazione attiva sui mercati. Le bancarotte spagnole, tuttavia, non sollecitarono Genova ad uno sganciamento
politico dal sistema di alleanze con la penisola iberica – al cui interno rimasero impiegati la maggior parte dei capitali genovesi – almeno fino al 1684, quando Luigi XIV di
Francia ordinò il bombardamento navale della città e delle Riviere3. La distruzione fu
imponente ed estesa, a tal punto che le fonti scritte del secolo successivo continuarono
a rievocarne il ricordo in numerose transazioni immobiliari o nelle suppliche rivolte al
Governo da parte di indigenti in cerca di sostegno economico4. L’area urbana maggiormente colpita fu quella corrispondente grosso modo al primo nucleo fortificato del IX
secolo, già da tempo sovrappopolato (fig. 1).
In questo clima tragico si aprì, in un moto di diffuso orgoglio patriottico, una
stagione di grandi opere pubbliche, che qualificarono, sino alle soglie dell’età contemporanea, il paesaggio e l’immagine internazionale di Genova. Tra di esse vi sono la cinta
muraria e i bastioni (1626-1632), il molo nuovo (1638-1644), i magazzini dell’Abbondanza e del Sale (1606- 1656), la Chiappa dell’olio con la Reba dei grani (1602-1638)
e, non ultimo, l’Albergo dei poveri (1656-1698)5. Nell’arco di pochi decenni, la capitale riuscì ad organizzare le proprie strutture difensive e di approvvigionamento, ma la
mole e la diffusa localizzazione di queste infrastrutture avrebbero ulteriormente ridotto
l’elasticità interna della città, sulla quale gravavano ancora numerosi problemi di riqualificazione edilizia e urbana, tra cui quello di una più rapida circolazione stradale.
La struttura viaria cittadina, infatti, si reggeva sugli antichi percorsi medievali, articolandosi lungo gli assi di penetrazione interna (via di San Bernardo, salita del Prione) e
litoranea, l’antico carrubeus rectus (attuale via San Luca).
In una città oppressa dalle piaghe dell’inurbamento, dove era ancora netto il
contrasto tra i quartieri della nobiltà e quelli popolari, la parte più antica non fu la
sola a soffrire per la mancata presenza di un sistema viario funzionale6. Escludendo
i noti episodi delle strade Nuova (ante 1551-1562) e Balbi (1602-1610) – le uniche in cui coincisero l’idea di organizzazione urbana e la progettazione architettonica7 –, le soluzioni adottate fino ad allora in materia non giunsero a definire,
nel loro complesso, una nuova forma di città (il cui ampliamento non oltrepassò
mai la cinta muraria del XII secolo), risultando del tutto inadeguate rispetto all’aggravarsi dei problemi derivanti dall’inurbamento. I provvedimenti presi avevano avuto un’estensione limitata, consistendo essenzialmente nell’apertura e nella
risistemazione di qualche piazza – più eccezionalmente nel tracciamento di una
strada –, e l’esito di queste trasformazioni sull’articolazione interna del manufatto urbano − gestite dall’autorità in funzione del pubblico interesse − non aveva
fatto altro che ingolfare gli antichi assi preferenziali. Nell’insieme degli interventi
frammentari che avevano interessato il Cinquecento genovese solo alcuni avevano
assunto un significato concreto, come il risanamento del tessuto viario convergente
LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME
117
Fig.1. Modello o sia pianta di Genova, 1656, Genova, Collezione Topografica del Comune, inv. n. 210.
Fig. 2. David Roberts, Town and Harbour of Genoa, 1822, Londra, British Museum, Department of
Prints, 1948.2.5.4. A destra, in alto, la mole architettonica dell’Albergo dei poveri (da E. Poleggi, Paesaggio e Immagine di Genova, Genova 1982, p. 121)
118
CLARA ALTAVISTA
verso Porta Soprana, con l’abbattimento di un’intera cortina edificata a Ponticello, o
l’ampliamento dell’asse stradale di Soziglia, che univa, attraverso Luccoli, il Portello
di accesso alla città dalla valle Scrivia al cuore economico di Banchi (1548-1596),
o ancora il proseguimento, con il raddrizzamento del tratto già esistente, di via di
Scurreria (in prossimità della cattedrale), con la volontà precisa, in questo più che in
altri casi, di superare fisicamente i limiti posti dall’intricato assetto urbano medioevale. Si portarono avanti, inoltre, alcune interessanti proposte per l’aumento delle
unità residenziali destinate alla popolazione di medio e basso reddito, che affollava
gli edifici già fatiscenti del Mandraccio (presso il porto) e di Ponticello (ai piedi della
collina di Castello). Tali propositi furono ripresi nella seconda metà del Seicento
e coinvolsero la zona a monte di strada Nuova, compresa tra il baluardo di Santa
Caterina e il Castelletto (1666), ma per diverse ragioni furono scartate o rinviate sine
die (cfr. fig. 2).
Nel corso del XVII secolo furono sviluppati ed eseguiti a Genova alcuni interessanti
progetti di viabilità, come l’apertura di una carrettiera che dalla chiesa di San Domenico
(demolita nell’Ottocento)8 congiungesse la città antica alla collina di Albaro; il tracciamento di una strada di collegamento tra palazzo Ducale e piazza Sarzano, per servire ai
corsi ed alle processioni religiose (stradone di Sant’Agostino, 1687); l’unione delle strade Nuova e Balbi (avvenuta però solo a fine Settecento, via Nuovissima oggi Cairoli,
1778-1786). Tutti interventi che, alla luce di quanto era stato fatto precedentemente,
si possono leggere come il tentativo di rendere concretamente unitario un programma
viabilistico di più ampio respiro. Programma che proprio per la sua mancata unità
continuava ad essere ancora del tutto teorico (cfr. fig 2).
Già dalla fine del Cinquecento in sede di governo erano stati discussi interessanti
progetti sul nuovo assetto urbano e architettonico della capitale, dibattiti che, nel corso
del XVII e del XVIII secolo, si fecero via via più serrati. Le interpellanze non produssero però alcun esito significativo, lasciando, di fatto, Genova incapace di sopportare
gli oneri di una metropoli di oltre 70.000 abitanti. Gli interventi pubblici seicenteschi avevano soprattutto l’obiettivo di rendere maggiormente fluido l’attraversamento
interno della città murata del XII secolo, ma i pochi progetti realizzati si rivelarono
incerti e frammentari soprattutto nella loro fase di attuazione. Nel tentativo di rendere
più organico il quadro d’insieme, dalla seconda metà del Settecento si procedette alla
definizione della struttura urbana, ma, paradossalmente, ancora attraverso interventi
episodici. Vanno ricordati il completamento di strada Giulia, la carrettiera che consentiva la comunicazione con il Levante cittadino (1755, attuale via XX Settembre), la sistemazione ad anfiteatro della piazza dell’Acquaverde a chiusura di strada Balbi (1761),
il rinnovo definitivo di alcune importanti infrastrutture come il Portofranco (1756 ca.),
l’ampliamento del monumentale Ospedale di Pammatone (1758) e lo spostamento dei
forni pubblici a Castelletto (1772, sopra strada Nuova).
In questa inedita stagione di rinnovo, le grandi opere pubbliche sembrarono ac-
LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME
119
quistare significato sopra ogni altra cosa, rappresentando il settore più attivo dell’edilizia cittadina; tuttavia, non meno ricchi apparvero i numerosi interventi privati. In
un moto di diffuso adeguamento alle moderne esigenze residenziali, le nobili famiglie
genovesi modificarono le proprie dimore, assoggettandole a nuove spazialità interne
– spesso contenute entro lo stretto perimetro dei lotti medievali –, sull’onda di quei
rinnovamenti che altrove stavano caratterizzando le maggiori capitali europee9.
Lo spirito imprenditoriale che caratterizzò la società genovese tra Sei e Settecento
fu definito da una politica edilizia disarticolata, finalizzata alla riqualificazione del patrimonio immobiliare esistente e a un parziale riordino del sistema viario. Il disegno
di città che ne derivò non aggiunse nuovi elementi significativi alla complessa articolazione interna, evidenziando una dinamica urbana dai consolidati elementi strutturali, ma dalla incompiuta definizione generale. Il lento processo di trasformazione
non impedì alle dinastie cittadine consolidate di ottenere proprio dall’attività edilizia
un certo margine di profitto. Queste transazioni immobiliari, presupposto indispensabile di un possibile e concreto (decisamente nuovo) sviluppo urbano, coinvolsero
le aree del cosiddetto «quadrilatero dorato» – fra la Ripa occidentale, verso il litorale
cittadino; Vallechiara e strada Nuova (nelle aree di «espansione» cinquecentesca);
palazzo Ducale e piazza Banchi (in ambiti urbani ormai del tutto consolidati) – e
investirono in maniera meno tangibile le zone intorno alle quali aveva preso forma e
si era sviluppata la stessa capitale, Sarzano e Castello su tutte10 (cfr. fig 2).
Le residenze di prestigio
Dal cuore economico di Banchi alla cattedrale di San Lorenzo si avviò una inesorabile opera di trasformazione interna, che, tuttavia, non riuscì a intaccare profondamente le dimore cittadine più rappresentative. Le modifiche furono meno traumatiche per i complessi architettonici il cui impianto planimetrico costituiva un
blocco geometricamente definito all’interno del lotto urbano, e non coinvolsero gli
edifici eretti ex novo nelle zone di recente urbanizzazione (come le strade Nuova e
Balbi), o quelle residenze che, nonostante fossero già parte integrante dell’irregolare
trama edilizia medievale, erano riuscite, non senza difficoltà, a conservare ancora un
carattere autonomo rispetto al contesto (palazzi Sauli in piazza San Genesio e Spinola
dei Marmi al Fonte Amoroso)11. A risentire maggiormente di questo processo di
stratificazione interna furono soprattutto quelle residenze che, sorte accanto alle più
celebri dimore nobiliari, avevano tentato con discreto successo di emularne i fasti o
di assimilarne gli stili.
L’impianto distributivo del palazzo genovese rese inoltre concretamente attuabile
il frazionamento interno in appartamenti, nei quali poter accogliere anche coloro che
non ne erano proprietari. L’alternanza di camere d’uso privato a stanze di vita collettiva, ripartite in tutti i piani maggiori, costituì una solida piattaforma di partenza per
questo tipo di operazioni, le quali, avviate già a partire dalla prima metà del Seicento,
120
CLARA ALTAVISTA
si palesarono in tutta la loro problematica soprattutto nel corso del secolo successivo12. Tale iniziativa non fu affatto disdegnata da coloro le cui dimore difficilmente si
prestavano a una distinzione così netta!
Inizialmente i contratti di locazione di questi appartamenti furono stipulati tra
membri appartenenti al medesimo casato, come testimoniano le vicende delle celebri
residenze degli Spinola Di Negro in Soziglia, Spinola in Vallechiara o Lomellini all’Annunziata13; e si giunse addirittura a definire una strategia insediativa anomala (o invece
sintomatica dell’evolversi di una nuova realtà urbana?), che vide esponenti di illustri
dinastie cittadine prendere in affitto appartamenti – o interi stabili – di proprietà altrui
pur disponendo di un ingente e pregevole patrimonio edilizio (Cipriano Pallavicino
affittò abitualmente il palazzo avito di Fossatello, così come Stefano Balbi cedette la
sua celebre dimora posta lungo la strada omonima)14. È una circostanza, questa, dagli
aspetti ancora insondati, che segnò l’avvio di un nuovo costume cittadino e rappresentò, senza ombra di dubbio, l’elemento unificatore nel passaggio dalla dinamica insediativa legata ai clan familiari degli antichi «alberghi» nobiliari all’organizzazione urbana
basata sul valore fondiario e sulle rendite immobiliari15. L’apporto della classe media nel
settore edilizio, oltre a favorire un nuovo regime economico – di cui la redazione del
primo catasto urbano avrebbe costituito la legittimazione16–, contribuì ulteriormente
all’esasperazione della parcellazione proprietaria e portò agli eccessi il criterio di ripartizione dello spazio urbano nel quale si organizzò17. La crisi economica, inoltre, se da
un lato contribuì a scrivere l’ultimo capitolo della grande stagione edilizia genovese,
dall’altro coincise con l’assottigliamento di numerosi patrimoni immobiliari. Nei secoli
precedenti, infatti, l’oligarchia cittadina aveva definito la consistenza edilizia e la sua
articolazione sul territorio, rallentando qualsiasi iniziativa di trasformazione radicale
dell’assetto proprietario18. Questo immobilismo – che esternamente definì il manufatto
urbano entro un perimetro storicamente determinato fino alle soglie dell’Ottocento
– subì, già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, progressive accelerazioni nel
modo di fruire gli spazi all’interno di un medesimo edificio. Analogamente a quanto
accadde per le classi meno abbienti, anche i casati più prestigiosi si adattarono a una
diversa organizzazione distributiva della propria residenza. Costretti inizialmente ad
accogliere i cosiddetti «membri poveri» del proprio casato – offrendo loro parte delle
proprie dimore a un canone di affitto simbolico –, i proprietari di questi stabili apprezzarono ben presto i vantaggi che la loro locazione (maggiorata) avrebbe procurato in un
momento di congiuntura economica sfavorevole. Il passaggio da un legame familiare a
un sodalizio finanziario – prima tra membri della stessa casta, poi anche tra esponenti
di classi sociali diverse – caratterizzò gli ultimi anni del XVII secolo e si fece più intenso
soprattutto in quello successivo. La presenza di un gruppo non omogeneo di proprietari e di una strutturazione articolata del patrimonio immobiliare diedero luogo a un
sistema diversificato di contrattazioni, la forma più interessante delle quali è certamente
quella della locazione perpetua.
LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME
121
Applicata in Genova almeno dalla seconda metà del XII secolo, soprattutto da
parte degli ordini monastici o dalle congregazioni religiose, l’enfiteusi fu originariamente intesa come un rapporto in forza al quale la proprietà del suolo era separata
da quella dell’edificazione. Tale pratica, che consentiva al titolare dell’usufrutto enfiteutico (trasmissibile ereditariamente) il pieno godimento del fondo altrui a vita,
a seconda, a terza generazione, in perpetuo, quasi sempre con l’obbligo di miglioramenti, nel corso del Seicento fu progressivamente assimilata a un normale contratto
di vendita19. Questo sistema di locazione, caratterizzato dall’esiguo ammontare dei
canoni corrisposti e spesso dal precario stato di conservazione degli immobili, non
determinò per i proprietari immobiliari che lo adottarono – in un’epoca di grandi
trasformazioni quale fu il Seicento genovese – la crescita della loro ricchezza finanziaria, anche se era applicato a residenze di proporzioni straordinarie collocate in ambiti
urbani a dir poco prestigiosi.
Il problema delle abitazioni per i ceti popolari
Il fenomeno dell’inurbamento causò a Genova non pochi problemi, soprattutto
nelle zone popolari del Molo e di Ponticello, dove il rapporto tra gli spazi costruiti
e i vuoti urbani andava via via risolvendosi in favore dei primi. Questo processo
di stratificazione, avviato nel corso del XVI secolo, ricevette ulteriori incentivi dal
bombardamento francese, ma, nonostante la disponibilità di nuove aree – a seguito
dei numerosi crolli registrati – aprisse nuovi orizzonti all’edificazione di residenze
popolari, lasciò del tutto inalterate le condizioni delle classi meno abbienti. Queste,
infatti, continuarono a vivere in condizioni malsane all’interno di veri e propri tuguri, negli angiporti del molo vecchio e della Ripa o immediatamente a ridosso di
quelle che erano state alcune tra le residenze più rappresentative della città e che
progressivamente erano state lasciate dagli antichi abitanti, i quali avevano preferito
il fasto e l’agiatezza delle residenze collocate lungo le «strade nuove»20.
Gli edifici destinati ad accogliere numerosi «fuochi»21 erano modeste case collettive (casamenti), articolate su diversi livelli, o piccole casupole dal precario equilibrio
statico. Le prime, in prevalenza proprietà di enti religiosi o assistenziali, subirono modifiche di parcellazione e sopraelevazione tali da renderle, nel corso di pochi decenni,
ingenti fonti di reddito; le seconde, piccole proprietà di altrettanto piccoli commercianti, furono date in locazione a una nuova classe di cittadini salariati, conservando
nella destinazione d’uso del basamento quelle attività artigianali che avevano contribuito non poco a comporre l’ossatura portante dell’economia interna della città22.
Se i «casamenti» erano collocati soprattutto nei «quartieri» della Malapaga, presso
il Mandraccio, e di Castello, le abitazioni monofamiliari erano disseminate un po’
ovunque all’interno della città murata: dai margini delle infrastrutture portuali – tra
i macelli delle Grazie e il Portofranco – al Borgo dei lanaioli (raso al suolo in epoca
fascista, cfr. fig 2)23. Queste unità immobiliari già a partire dal XIV secolo avevano
122
CLARA ALTAVISTA
iniziato ad ospitare più di un «fuoco», ma il processo di stratificazione si manifestò
in tutta la sua drammaticità soprattutto tra Cinque e Seicento, allorquando il flusso
della popolazione profuga dall’entroterra si fece più intenso e meno controllato. Il
fenomeno, già di per sé devastante, fu tacitamente favorito da un articolato sistema
contrattuale, che – tra le numerose clausole – consentiva al conduttore di subaffittare
a sua completa discrezione l’intera unità immobiliare o parte di essa. Se da un lato,
quindi, il proprietario tendeva a trarre il massimo profitto dal proprio patrimonio
edilizio, parcellizzando quegli stabili che – per collocazione topografica o stato di
conservazione – intendeva appigionare, dall’altro, l’affittuario dava in locazione alcune stanze della propria residenza, esasperando il processo di frazionamento24. Questo
fenomeno si manifestò soprattutto nelle aree in cui il ricordo degli eventi bellici era
reso più vivo dalla presenza di edifici fatiscenti, trasformati in dormitori o in ritrovi
abituali per gli emarginati, spesso dati in locazione dagli stessi proprietari che, incuranti delle pressioni esercitate dal Magistrato dei Padri del Comune25, rinviavano
l’esecuzione degli interventi di manutenzione più immediati. Accadde, pertanto, che
i conduttori delle unità immobiliari contigue a queste abitazioni ne annettessero indiscriminatamente i resti, accelerando il dissesto statico già pericolosamente in atto
e senza preoccuparsi di avvertire le autorità competenti né i legittimi possessori26. In
materia di canoni di locazione, inoltre, non vigeva una precisa regolamentazione,
cosicché la determinazione dei prezzi di queste residenze fatiscenti fu affidata all’arbitrio dei singoli proprietari. È probabile, tuttavia, che esistesse un tacito accordo tra
i possessori di fondi stabili appartenenti a medesime aree urbane, perché la differenziazione dei costi non era sostanziale tra le diverse tipologie edilizie. Sebbene per oltre
un secolo (1680-1785) il livello delle pigioni non subì rincari significativi, l’incremento di oltre il 25% dei canoni di locazione registrato nei primi anni Novanta del
Seicento destabilizzò sensibilmente il budget di coloro il cui salario non consentiva
il benché minimo squilibrio27. La scarsità di residenze per il ceto medio-basso aveva
indotto gli imprenditori ad aumentare i canoni di locazione senza che la Repubblica
potesse in alcun modo porvi un limite28. La questione, acuitasi a partire dalla seconda
metà del Settecento, venne affrontata in sede dibattimentale da numerosi esponenti
del governo cittadino, che avanzarono a riguardo interessanti proposizioni. Una di
queste fu quella di annettere alla città gli antichi borghi di Levante: soluzione che
non avrebbe completamente risolto il problema della scarsità degli alloggi, ma che
avrebbe garantito un considerevole flusso di denaro nelle casse dello Stato grazie alle
tasse esatte ai futuri nuovi cittadini29. L’iniziativa venne però usata solo come l’ennesimo pretesto per criticare l’inadeguatezza urbana di Genova e, come tale, non fu
presa in seria considerazione. Una reale alternativa all’annessione dei suburbi levantini apparve, piuttosto, l’utilizzazione dei grandi complessi conventuali. Sfruttando
uno stato di fatto – i grandi monasteri si stavano progressivamente spopolando – e
sull’onda di quelle idee filo-francesi che in materia di manomorta si diffusero rapida-
LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME
123
mente, alcuni Magnifici cittadini rilevarono la presenza di un numero considerevole
di conventi pressoché disabitati, per i quali era possibile un sistematico processo di
trasformazione architettonica in ricoveri per mendicanti e malati (in casi estremi in
abitazioni per la popolazione indigente), attraverso un minimo investimento economico. Nonostante la soluzione venne accolta con entusiasmo, alcuni esponenti
del governo paventarono le conseguenze politiche di questa operazione, rilevando
i danni che l’impasse diplomatico con la Santa Sede avrebbe potuto procurare alla
Repubblica. Il progetto si concluse pertanto con un nulla di fatto – così come d’altronde era avvenuto per le altre proposte che lo avevano preceduto –, ma in merito
alla questione ancora a lungo si discusse in Senato, dove si giunse a suggerire l’emanazione di una legge che imponesse una tassa sui beni immobili di coloro i quali – per
libera scelta o costrizione – vivevano fuori Genova, lasciando disabitate le proprie
dimore30. L’istanza rimase sulla carta, ma se attuata avrebbe avuto il solo vantaggio di
dare nuovo impulso ad un mercato immobiliare che non aveva bisogno di ulteriori
incentivi, poiché trattava esclusivamente complessi architettonici gentilizi.
In questo clima di programmazione urbana caotico e flessibile, apparvero una concreta soluzione al problema solo quei piccoli interventi che, celati dietro la bandiera
del decoro e del risanamento pubblico, nascondevano ancora una volta questioni di
interesse economico privato. Tra gli anni Novanta del XVII secolo ed i primi decenni
di quello successivo, si avviò un lento – ma costante – processo di riqualificazione
edilizia31. Il fenomeno si estese in misura diversa nell’aggregato urbano, saldandosi in
quella linea di continuità con il passato che aveva visto l’affermarsi di alcuni sestieri
a scapito di altri. L’impegno maggiore, infatti, non si rivolse a quelle operazioni urbane che, se realizzate su vasta scala, avrebbero consentito un’omogeneità spaziale e
un’oggettiva risposta all’esigenza di nuove abitazioni. Non sorprende, quindi, se questo nuovo risveglio dell’iniziativa privata non riuscì a porre le basi di un sistematico
riassetto del tessuto urbano laddove esso appariva maggiormente congestionato. Le
suppliche rivolte al Senato della Repubblica (o, come delegato, all’Ufficio dei Poveri)
e al Magistrato dei Padri del Comune riguardarono per lo più la ristrutturazione di
alcune residenze di elevata rendita posizionale, che il bombardamento francese aveva
mutilato e il cui stato fisico, se fosse rimasto tale, avrebbe pregiudicato l’immagine
stessa della capitale. Non per questo, però, bisogna ritenere che la ricostruzione avesse investito solo le unità immobiliari più rappresentative, perché la maggior parte
di queste dimore era collocata in zone densamente abitate: tra i rettilinei di strada
Nuova e della sottostante via della Maddalena; all’interno del tessuto urbano più
antico che dal Molo saliva, lungo la «Platealonga» (attuali via di San Bernardo e salita
del Prione), verso la porta urbica di Sant’Andrea (o Soprana); presso la Precettoria
di San Giovanni di Pré e nel fitto insediamento sviluppatosi intorno ai Trogoli di
Santa Brigida (sopra via Balbi). La mancanza di un’autorità centrale, che controllasse
le operazioni edilizie con sistematicità e fermezza, permise, da un lato, che molte di
124
CLARA ALTAVISTA
queste residenze venissero trasformate radicalmente e, dall’altro, che alcune di loro
serbassero solo all’interno del proprio perimetro i segni del cambiamento, conservando nei prospetti ancora un’immagine deturpata.
Quest’opera di risanamento avvenne soprattutto attraverso la ricomposizione dei
setti murari crollati, l’apertura di nuove comunicazioni tra i diversi ambienti, il cambiamento della destinazione d’uso di alcune stanze in locali di servizio. La natura
degli interventi, che furono più frequenti nei vicoli di comunicazione interna a ridosso delle celebri dimore di strada Nuova (o di Luccoli), cambiò sostanzialmente
se le unità immobiliari in oggetto erano collocate presso il Molo o alle pendici della
collina di Castello. In queste aree la ricostruzione, avvenendo quasi senza soluzione
di continuità, testimoniò più che altrove la partecipazione attiva della classe dirigente
genovese ai processi di trasformazione edilizia su vasta scala. Fu proprio per questi
ambiti urbani, infatti, che la Repubblica predispose un preciso programma di risanamento capillare, ma, nel corso del Seicento – come d’altronde per tutto il secolo
successivo –, nessuno degli interventi pubblici promossi fu in grado di assolvere a un
così oneroso impegno. Le modalità stesse di queste operazioni (che presupponevano
ingenti lavori di sistematica demolizione) non poterono certo costituire un deterrente al fenomeno del sovraffollamento delle zone più antiche, e favorirono, ancora
una volta, le classi di governo. L’interesse dell’iniziativa privata in materia di edilizia
popolare, quindi, si rivolse principalmente ad interventi finalizzati ad incrementare
in altezza le unità immobiliari già esistenti ed alla costruzione di nuovi edifici per
abitazioni comuni. Queste operazioni coinvolsero in una minima percentuale anche
quegli esponenti della piccola classe artigiana che inizialmente furono in grado di
disporre delle somme necessarie alla ricostruzione, ma, appena questi non riuscirono
più a sopportarne gli oneri, espletate le procedure protocollari, i Padri del Comune
ne alienarono forzatamente gli immobili senza possibilità di proroghe32.
Nei cantieri di ricostruzione il ricorso ad operatori capaci di organizzare le diverse
fabbriche apparve sporadico. Negli ultimi decenni del XVII secolo la prassi di edificare previo consenso del Magistrato dei Padri del Comune sembrava essere caduta in
disuso o, quanto meno, poco applicata33. Ancora alla fine del Settecento si registrarono crolli dovuti alla scorretta posa in opera dell’edificio, per la mancata presenza di
un «capo d’opera» o di un architetto che fosse in grado di controllarne l’esecuzione e
di prevedere gli squilibri statici in grado di compromettere non solo la stabilità dell’edificio in questione, ma anche quella degli edifici contigui. Frequenti furono i ricorsi di indennizzo avanzati da coloro che, risiedendo in prossimità di questi cantieri
edilizi, ebbero le proprie abitazioni danneggiate34. Queste istanze – intensificatesi soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Seicento – disegnano un’esatta mappa delle
aree urbane più sensibili al fenomeno: i sestieri popolari non furono le sole vittime
designate di questo processo di decadimento edilizio, perché queste manifestazioni
comparvero anche in zone residenziali e l’eco delle cause giudiziarie che le vedevano
LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME
125
in oggetto si fece tanto più prolungato quanto più gli interventi di ricostruzione si
avvicinarono alle proprietà dei maggiori clan cittadini.
Le richieste di ristrutturazione degli stabili, mai fini a loro stesse, incentivarono
proprio quei processi di trasformazione urbana, che – in forma eclatante oppure
dimessa – caratterizzarono l’intera attività edilizia genovese tra i secoli XVII e XVIII.
Solo negli antichi sestieri del Molo e della Maddalena la natura di questi interventi fu
ancora legata a vere e proprie istanze di risanamento35. L’entità di queste operazioni
fu spesso misurata dalla quantità degli «zetti» e dei «gettiti» che il cantiere depositò
nell’immediato contesto e non provvide tempestivamente a rimuovere, contravvenendo a quanto disposto dalle leggi della Repubblica36. Tale abitudine, ancora viva
alla fine del Settecento, si rivelò la causa principale dell’innalzamento dei fondali dello specchio d’acqua portuale, creando non pochi danni alle infrastrutture marittime
ed alle attività commerciali a esse collegate; essa, inoltre, costituì un vero e proprio
stimolo per coloro che, non potendo disporre di denaro sufficiente, si servirono di
questi materiali da riporto per ristrutturare la propria dimora37.
Le grandi opere pubbliche del XVII secolo, così come quelle private – meno appariscenti ma non meno significative –, non rappresentarono una stagione di risanamento
tout court. Le soluzioni adottate si rivelarono una fonte di occasioni economiche appetibili soprattutto per coloro che, per discendenza o calcolo, possedevano le aree in cui le ricostruzioni costituivano un investimento sicuro. Questo diverso dinamismo immobiliare
appare per lo più condizionato dai disegni che gli imprenditori cittadini ed alcune magistrature locali intesero tracciare, contribuendo in pochi anni a definire nuove consistenti
entità patrimoniali e ad orientare lo stesso sviluppo urbano. Le trasformazioni urbane
furono gestite essenzialmente dal Magistrato dei Padri del Comune, spesso in sinergia
con il Senato e con l’Ufficio dei Poveri (istituito nel 1539)38. I membri di questi uffici
furono quegli stessi attori che animarono la scena urbana e, come tali, non poterono delineare, attraverso il proprio atteggiamento pubblico, orientamenti dissimili da quelli che
furono loro propri. Poiché gli ordinamenti di queste magistrature erano complessi solo
in materia di gestione interna – sovente nemmeno in quella – i loro funzionari furono
quasi sempre liberi di esprimere nel corso della loro carica il proprio personale giudizio,
obbedendo quasi esclusivamente alle imposizioni che la logica e la morale (più spesso le
sole ragioni dell’economia) del momento di volta in volta dettavano.
L’attività esercitata dagli organismi dediti alla pubblica assistenza riuscì a collocarli direttamente in una posizione intermedia tra il governo della Repubblica e i
privati cittadini, tra la «legittimità» collettiva ed il «libero arbitrio» individuale. Nel
caso dell’Ufficio dei poveri, che ricoprì una posizione di primissimo piano, l’organo
direttivo fu composto in prevalenza da membri dell’aristocrazia nel pieno dell’età
matura, in attesa di essere trasferiti presso altre istituzioni cittadine (Magistrato del
Sale, Coadiutori Camerali, Senato) o di essere inviati oltre i confini del Dominio per
seguire la carriera diplomatica o militare39.
126
CLARA ALTAVISTA
L’Ufficio dei poveri di Genova: attività e interessi di un ente a servizio della comunità
In un contesto sociale così articolato quale fu quello genovese di fine Seicento, la
costruzione di un complesso architettonico che accogliesse i disadattati sociali rappresentò un episodio eccezionale. L’Albergo dei poveri di Genova, fondato per ferma
volontà di Gio. Francesco Granello, ma soprattutto grazie all’impegno e ai copiosi
finanziamenti di Emanuele Brignole40, fu il primo edificio del genere in Italia a essere
eretto ex novo; esso aveva i propri referenti stilistici nei coevi Hospice de Nôtre Dame
de la Charité di Lione (1614-1616) e Hôtel Dieu di Parigi (1656)41. Sorto a baluardo
di una sofferta quanto lunga riforma assistenziale, il poderoso corpo di fabbrica – articolato in quattro grandi corpi longitudinali dominati al centro da una chiesa a croce
allungata – per la sua collocazione extra muros, sulle alture della valletta di Carbonara
sopra strada Balbi, si costituì quale riferimento geografico cittadino per eccellenza:
una posizione urbana di rilievo, così come tale fu il ruolo dell’istituzione che lo amministrò (fig. 3). Assistenza e politica ebbero nell’architettura dell’edificio un solido
punto di confluenza, tanto che i genovesi non distinsero mai l’edificio dell’Albergo
dall’istituzione repubblicana che in esso vi ebbe sede, l’Ufficio dei poveri42.
Come delegato del Senato della Repubblica, il Magistrato dei poveri fu spesso
chiamato a dirimere questioni inerenti il possesso di edifici anche di alto pregio architettonico e per questo assunse il ruolo di importante testa di ponte in numerose
transazioni immobiliari. Questa sua funzione evidenzia in che modo l’attività urbana
dell’Ufficio – più di quella di qualsiasi altra istituzione filantropica, come a esempio
il Magistrato di Misericordia – fosse più determinante per la conservazione e lo sviluppo del patrimonio cittadino che non per il suo funzionamento. In quest’ottica
occorre inquadrare alcune delle vertenze che dal Seicento in avanti interessarono
gran parte della città e nelle quali prese parte attiva la stessa istituzione. Attraverso il
suo intervento, infatti, l’Ufficio dei poveri contribuì a definire l’assetto proprietario,
e fors’anche l’organizzazione spaziale, di alcuni tra i più celebri complessi architettonici cittadini di strada Nuova, quali il palazzo di Pantaleo Spinola (1564, opera di
Bernardo Spazio, ora proprietà del Banco di Chiavari e della Riviera Ligure), il palazzo di Giambattista Spinola (1563, su disegno di Bernardino Cantone, ora Doria)
e l’isola edilizia di Portanuova, in seguito annessa al più illustre palazzo Rosso (1671,
su progetto dell’architetto Pietro Antonio Corradi), ma originariamente proprietà,
per una parte, di Anton Giulio Brignole Sale (diplomatico e letterato di chiara fama)
e, per la restante, dello scrittore-tipografo Gio. Domenico Peri, noto agli studiosi di
economia per il suo celebre trattato43.
Il demanio immobiliare
La ricerca sulla conformazione degli stabili lasciati al Magistrato dei poveri ha evidenziato come, accanto alle rendite degli edifici di appartenenza – giunti per lo più
attraverso legati testamentari o donazioni vere e proprie –, assunse progressivamente
LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME
127
Fig. 3. Interventi urbani (secc. XVII-XVIII) sulla base del Modello del 1656 (elaborazione grafica C.
Altavista)
128
CLARA ALTAVISTA
Fig. 4. Movimento edilizio presso il Magistrato dei poveri (secc. XVII-XVIII) sulla base del Modello
del 1656 (elaborazione grafica C. Altavista)
LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME
129
valore l’entità degli interessi maturati sulle rendite degli immobili, di cui l’istituzione
si occupò soprattutto come intermediaria negli arbitrati44.
Dai registri ufficiali emerge che il Magistrato non possedette mai più di un centinaio di unità edilizie, riferibili a una gamma ben più ampia di oltre 400 edifici amministrati45. È stato infatti possibile stabilire che il numero delle proprietà attribuite all’Ufficio corrispondeva a quello delle unità immobiliari contraddistinte «dall’impronto»
(marchio con il quale erano individuati anche i reclusi dell’Albergo!)46 e riconoscere,
nei restanti edifici, le residenze che furono date all’istituzione come vitalizio per procacciarsi il ricovero presso il «rifugio» di Carbonara o quelle che, oggetto di contenzioso tra privati cittadini, furono amministrate dalla magistratura per tutto il periodo
dell’arbitrato. Il nucleo patrimoniale originario, costituito per lo più da unità minime
prive di pregio architettonico, si strutturava in tre diversi agglomerati, individuabili
orientativamente nelle aree comprese tra la collina di Castello e la cattedrale di San
Lorenzo, tra la chiesa di San Siro (prossima a via San Luca) e strada Nuova, e immediatamente a ridosso dell’asse di via Balbi. Le acquisizioni successive contribuirono a
definire quest’articolazione, confermando, nelle strategie imprenditoriali dei donatori,
una maggiore propensione a devolvere edifici posti in ambiti urbani «decentrati» rispetto all’attività edilizia di più ampio respiro (fig. 4). Molti complessi architettonici
giunti all’istituzione si collocavano, infatti, in aree marginali. Si trattò spesso di intere
insulæ nobiliari, le cui unità edilizie avrebbero potuto costituire sia la fonte di cospicue
rendite sia la possibilità di espansione per gli edifici più prestigiosi che ne erano parte
integrante; spesso furono veri e propri stralci di tessuto urbano che, posti al limite tra le
aree delle realizzazioni concrete e quelle delle possibili attuazioni, contenevano in nuce
il loro stesso ampliamento. L’identità tra espansione urbana e speculazione immobiliare
su vasta scala fu in questi ambiti cittadini, tuttavia, scarsamente applicata, perché le
realizzazioni edilizie di maggior esito economico avvennero proprio nelle aree dalle potenzialità di crescita già pienamente espresse. Quasi che la città fosse strutturata secondo due settori distinti, ma dai confini labili e imponderabili: quello della speculazione
edilizia e quello della rappresentatività architettonica.
L’amministrazione dell’Ufficio arricchì di significati nuovi le operazioni immobiliari nelle quali fu coinvolta, facendo intravedere in alcune residenze, apparentemente
poco rilevanti, un efficacie strumento per il controllo e la gestione dello stesso sviluppo
cittadino: si pensi, a esempio, alle trasformazioni del settore nord-occidentale avvenute
nel corso del XIX secolo47.
Il capitale edilizio amministrato
Il corpus degli edifici giunti al Magistrato dei poveri era composto in prevalenza da
edifici modesti, ma anche da residenze prestigiose, alcune delle quali poste nel novero
delle dimore precettate per l’ospitalità ufficiale della Repubblica48. Questa diversità di
tipi restituisce di riflesso lo spirito imprenditoriale di una classe cittadina attenta alle
130
CLARA ALTAVISTA
potenzialità dell’attività edilizia in termini di sviluppo urbano. La collocazione degli stabili all’interno della capitale ha evidenziato come, entro la città murata, non esistessero
aree subordinate rispetto ad altre. È altresì emerso come la comparsa di alcuni fenomeni (cessioni pro tempore) si espresse negli ambiti urbani in cui il processo di espansione
era ancora in via di sviluppo (i borghi di Ponticello, San Tommaso e Santo Stefano) e
in tessuti edilizi già consolidati (Molo e Castello). In queste aree il decentramento dalla
politica urbana della capitale non escluse un’attività di tipo speculativo, mentre nelle
zone concentrate a ovest (Campo, Fossatello, Soziglia, Portanuova e Luccoli) la pratica
edilizia seguì una logica diversificata (cfr. fig. 4).
L’individuazione di una dozzina di celebri palazzi cittadini, giunti come «donazione» o sotto fedecommesso (troppo presto alienati), ha rivelato chiaramente una
realtà immobiliare non solo legata alle vicende individuali dei singoli proprietari, ma
estensibile all’intera condizione urbana. L’uso dell’istituzione quale «camera di compensazione», entro cui custodire il proprio bene per sottrarlo all’Erario pubblico o a
complesse vertenze giudiziarie, indusse molti nobili genovesi a «devolvere» all’Ufficio
dei poveri alcune prestigiose residenze. Grazie al ruolo di commissario straordinario
nella gestione di questi ingenti patrimoni immobiliari, il Magistrato «possedette»,
anche se per breve tempo, dimore come il palazzo di Babilano e Cipriano Pallavicino
sulla piazza Fossatello (emulo di palazzo Caprini a Roma) e quello di Gio. Domenico
Spinola in Vallechiara, presso l’odierna piazza della Nunziata (del quale si era persa
memoria perché annesso al contiguo palazzo Lomellini Patrone)49: residenze site in
ambiti urbani altamente rappresentativi, ma che ben presto divennero esterne alle
nuove linee di sviluppo urbano dirette verso il settore orientale della capitale50.
Clara Altavista
*
Parte di questo scritto è già stata pubblicata nel saggio L’Albergo dei poveri a Genova: proprietà
immobiliare e sviluppo urbano in Antico Regime (1656-1798), «Atti della Società Ligure di Storia Patria»,
n. s., XXXIX (CXIII), 1999, I, pp. 493-529. In questa sede è stato dato maggiore spazio all’analisi di
quella documentazione che, rinvenuta presso l’Albergo dei poveri e integrata con quella reperita in
altri fondi cittadini (Archivio Doria e Fondo Famiglie dell’Archivio di Stato), ha consentito di tracciare
un quadro generale della situazione urbana tra XVII e XVIII secolo. Per quanto attiene direttamente
l’istituzione caritativa e la gestione del suo patrimonio immobiliare si rinvia alla lettura dello studio
sopra menzionato.Abbreviazioni: Archivio di Stato di Genova = ASG; Archivio Storico del Comune di
Genova = ASCG.
1
Tra gli studi generali resta ancora insuperato il lavoro di L. GROSSI BIANCHI - E. POLEGGI, Una
città portuale del medioevo. Genova nei secoli X-XVI, Genova, Sagep, 1979; tra i pochi studi monografici
si ricorda il bel volume di C. DI BIASE, Strada Balbi a Genova. Residenza aristocratica e città, Genova,
Sagep, 1993.
2
Cfr. E. POLEGGI, Genova (Napoli e Roma). Case, piazze, botteghe, in Fabbriche, piazze, mercati. La
città italiana nel Rinascimento, a cura di D. Calabi, Roma, Officina, 1997, p. 57.
LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE A GENOVA IN ANTICO REGIME
131
C. COSTANTINI, La Repubblica di Genova, Torino, UTET, 1986, pp. 267 sgg.
E. POLEGGI, Carte francesi e porti italiani del Seicento, Genova, Sagep, 1991, p. 54.
5
E. POLEGGI, Genova. Ritratto di una città, Genova, Sagep, 1990, pp. 107 sgg.
6
Cfr. E. POLEGGI - F. CARACENI, Genova e Strada Nuova, in Storia dell’arte italiana, Momenti di
architettura, XII, a cura di F. Zeri, Torino, Einaudi, 1983, pp. 301-361: 301-309.
7
E. POLEGGI, Strada Nuova. Una lottizzazione del ’500 a Genova, Genova, Sagep, 1968 e DI BIASE,
Strada Balbi a Genova, cit.
8
Al suo posto sorgono ora i complessi architettonici del teatro Carlo Felice e dell’Accademia
Ligustica di Belle Arti.
9
E. DE NEGRI, La repubblica di Genova, in Storia dell’architettura italiana. Il Seicento, a cura di A.
Scotti Tosini, Milano, Electa, 2003, pp. 496-509.
10
Per l’edilizia residenziale si rinvia a C. ALTAVISTA, Genealogie proprietarie e sistemi risidenziali,
in Una reggia repubblicana. Atlante dei palazzi di Genova 1576-1664, a cura di E. Poleggi, Torino,
Allemandi, 1998, pp. 41-45.
11
C. ALTAVISTA, Peter Paul Rubens’s Palazzi di Genova: built Architecture and drawn Reality, in The
reception of P.P. Rubens’s Palazzi di Genova during the 17th Century in Europe: Questions and problems, P.
Lombaerde (ed.), Turnhaut, Brepols, 2002, pp. 37-50.
12
E. POLEGGI, Un documento di cultura abitativa, in Rubens e Genova, catalogo della mostra, (Genova,
palazzo Ducale, 18 dicembre 1977-12 febbraio 1978), a cura di G. Biavati, I.M. Botto, G. Doria et al.,
Genova, Sagep, 1977, pp. 85-122 e C. ALTAVISTA, Ricerca del barocco a Genova. Il palazzo di Gerolamo de
Marini in un capitolato inedito di Bartolomeo Bianco, «Arte Lombarda», n.s., 144, 2005, 2, pp. 54-63.
13
ARCHIVIO DELL’ALBERGO DEI POVERI, Eredità Maria Giovanna Spinola di Negro Rocca, filza unica,
documenti relativi al periodo 1640-1673. Per le vicende di palazzo Spinola in Vallechiara si veda C.
ALTAVISTA, La proprietà immobiliare a Genova in Antico Regime. Un fenomeno urbano dall’osservatorio
dell’Albergo dei poveri, Tesi di laurea (Università di Genova), 1996, pp. 184-191; per quelle di palazzo
Lomellini cfr. Palazzo Lomellini Patrone, a cura di E. Poleggi, Genova, Tormena, 1995.
14
G. PASSADORE - V. MORTOLA, Il sistema dei rolli a Genova. Il palazzo di Babilano Pallavicini e la
piazza di Fossatello, Tesi di laurea (Università di Genova), 1995; per le vicende inedite cfr. C. ALTAVISTA,
La proprietà immobiliare, cit., pp. 208-220.
15
Sugli «alberghi» nobiliari cfr. E. GRENDI, Profilo storico degli alberghi genovesi, in ID., La repubblica
aristocratica dei genovesi, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 49-102.
16
Cfr. R. ZANGHERI, Catasti e storia della proprietà terriera, Torino, Einaudi, 1980 e S. TINTORI,
Piano e pianificatori dall’età napoleonica ad oggi, Milano, Franco Angeli, 1989.
17
A. MONTI, Alle origini della borghesia urbana. La proprietà immobiliare a Bologna 1797-1810,
Bologna, Il Mulino, 1985, p. 39.
18
G. DORIA, L’opulenza ostentata nel declino di una città, in ID., Nobiltà e investimenti a Genova in
Età moderna, Genova, Istituto di Storia Economica, 1995, pp. 287-298.
19
Cfr. R. FREGNA, La pietrificazione del denaro. Studi sulla proprietà urbana tra XVI e XVII secolo,
Bologna, Clueb, 1990.
20
ASG, Archivio Segreto, Ricordi del Minor Consiglio, filza 1646, intervento di Giorgio Doria
(9.II.1795).
21
G. FELLONI, Popolazioni e case nel 1531-35, «Atti della Società Ligure di Storia Patria», IV, 1964,
pp. 303-324.
22
ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause, Atti diversi e Instrumentorum (secc. XVII e XVIII).
23
Ibidem.
24
Ibidem.
25
L’ex istituzione medioevale dei Salvatores portus et Moduli (1270), magistratura che curava la
formazione e il rispetto delle norme in materia edilizia.
26
ASCG, Magistrato dei poveri, Atti di cause (secc. XVII-XIX).
27
G. GIACCHERO, Economia e società del Settecento genovese, Genova, Sagep, 1981, p. 387.
28
ASG, Archivio Segreto, Ricordi del Minor Consiglio, filza 1646, interventi di Niccolò de Mari (13.
VII.1791) e Gio. Batta Brignole (11.XII.1792).
3
4
132
CLARA ALTAVISTA
Ivi, intervento di Domenico Invrea (12.VI.1771).
Ivi, interventi di Stefano Lomellini q. Carlo (12.VI.1747) e di Giulio Spinola (10.III.1788).
31
ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause e Atti diversi (secc. XVII-XIX).
32
Cfr. E. POLEGGI - P. CEVINI, Le città nella storia d’Italia. Genova, Roma-Bari, Laterza, 1989.
33
ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause (secc. XVII-XIX).
34
ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause e Instrumentorum (secc. XVII e XVIII).
35
Quanto accadde nell’area di Castello è ben documentato in N. DE MARI, Edilizia da reddito a
Genova dopo il 1684: l’area di Castello e il ruolo dei Ricca nella ricostruzione della città (1690 ca.-1740
ca.), «Palladio», VIII, 1995, 15, pp. 77-90.
36
Dal luglio del 1531, con ricorrenza periodica, il Magistrato dei Padri del Comune emanò decreti
regolamentanti l’attività edile attraverso la precisazione delle modalità di prelievo, di trasporto e di scarico dei detriti. Cfr. A. BOATO, Leggi e decreti edili, in Argomenti di architettura genovese tra XVI e XVII
secolo, a cura di F. D’Angelo, Genova, Istituto di progettazione architettonica, 1995, pp. 45-51.
37
ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause, filza 17, doc. senza numero del 6 agosto 1697 e filza
22, doc. 81 del maggio 1723, dai quali si evince che tali fenomeni furono spesso all’origine di diverbi
tra le parti interessate.
38
Istituzione voluta per iniziativa del senatore Leonardo Cattaneo, cfr. G. BANCHERO, Genova e le
due Riviere, Genova, Pellas, 1846, p. 247.
39
G. DE FERRARI, Storia della nobiltà di Genova, estratto dal «Giornale Araldico», XXV, 2-7, 1898.
40
Cfr. E. PARMA ARMANI, Genesi e realizzazione di un reclusorio seicentesco. L’Albergo dei poveri a
Genova, «Studi di storia delle arti», Genova, Istituto di Storia dell’Arte, 1978.
41
E. MOLTENI, L’Albergo dei poveri di Genova, in A. GUERRA - E. MOLTENI - P. NICOLOSO, Il trionfo
della miseria. Gli Alberghi dei poveri di Genova, Palermo, Napoli, Milano, Electa, 1995, pp. 17-77.
42
E. PARMA ARMANI, Pauperismo e beneficenza a Genova: documenti per l’Albergo dei Poveri, «Quaderni
Franzoniani», I, 1988, 2, pp. 69-180.
43
C. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare, cit., pp. 245-254 (palazzo di Giambattista Spinola); pp.
255-268 (palazzo di Pantaleo Spinola) e C. ALTAVISTA, Le case di Gio. Domenico Peri nell’ampliamento
di palazzo Rosso a Genova: un esempio di pianificazione urbana di lunga durata, Genova, POLIS, 1999.
Sul ruolo di Brignole Sale si veda Anton Giulio Brignole Sale. I due anelli simili, a cura di R. Gallo
Tommasinelli, Genova, Sagep, 1980 e bibliografia citata; su Peri cfr. M. MAIRA, Gio. Domenico Peri,
scrittore, tipografo, uomo d’affari nella Genova del Seicento, «La Berio», XXVI, 1986, 3, pp. 3-71.
44
ASCG, Magistrato dei Poveri, Atti di Cause, Atti diversi e Instrumentorum (secc. XVII e XVIII).
45
La ricerca ha individuato un corpus di 429 unità immobiliari pervenute all’Ufficio (o Magistrato)
dei Poveri sotto diverse forme (donativo, fedecommesso, «pro tempore»…), cfr. ASCG, Magistrato dei
Poveri, Atti di Cause, Atti diversi e Instrumentorum (secc. XVII e XVIII).
46
Nonostante un’accurata ricerca, non è stato possibile venire a conoscenza della reale composizione
figurativa dell’«impronto». È ragionevole ipotizzare che, per quanto riguarda gli edifici, il marchio coincidesse con il numero progressivo attraverso il quale furono registrate le unità immobiliari di proprietà
dell’Ufficio dei Poveri.
47
E. POLEGGI - P. CEVINI, Le città nella storia, cit., p. 142.
48
C. ALTAVISTA, Genealogie proprietarie, cit., pp. 41-45.
49
La consultazione del materiale prodotto dall’Ufficio dei poveri di Genova ha consentito di riscrivere alcune pagine importanti della storia proprietaria ed architettonica di numerose residenze nobiliari
cittadine, capitoli finora rimasti incompleti o in alcuni casi sconosciuti, cfr. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare, cit., pp. 208-220 (palazzo di Babilano e Cipriano Pallavicino); pp. 195-207 (palazzo di Gio.
Domenico Spinola); per l’annessione a palazzo Lomellini Patrone si veda Palazzo Lomellini, cit.
50
Cfr. C. ALTAVISTA, La proprietà immobiliare, cit., pp. 85-116.
29
30
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
CASE, BOTTEGHE, LABORATORI E STUDI
DEGLI ARTIERI DELLA PIETRA
In quella sorta di vademecum «di tutti i pittori, scultori, architetti, miniatori, incisori in gemme e in rame, scultori in metallo e mosaicisti aggiunti agli scalpellini pietrari
perlari ed altri artefici e finalmente i negozi di antichità e di stampe esistenti in Roma»,
compilato da Enrico De Keller, membro dell’Accademia Romana di Archeologia, e
pubblicato nel 1824 e nel 18301, l’autore precisò di aver inserito nella sua guida
per una maggiore comodità de’ Viaggiatori, anche una lista delle Arti inferiori, e dei
negozj, che hanno qualche relazione coll’Arte del Disegno, e da cui ordinariamente i
Forestieri si provvedono di quegli oggetti, che come memorie portano ai paesi loro: dir
voglio Statue, Bassirilievi, Colonne, Urne, Vasi Figurine, e Lampade di bronzo, di marmo
e di terra fatte alla foggia delle antiche, o copiate dalle medesime in belle pietre di ogni
specie, Paste, Impronte, Medaglie, e simili, come anche le cose antiche.
Pochi anni dopo, il marchese Giuseppe Melchiorri, nella Nuova guida metodica di
Roma e suoi contorni, pubblicata a Roma nel 1834, sottolineò l’aspetto economico di
quelle «arti» propriamente romane rivolte ai forestieri, facendo notare ai suoi lettori «come
la parte principalissima dell’industria della città consiste nei lavori di oggetti di belle arti,
cioè nelle forme plastiche, scajole, musaici, lavori in bronzo, camei in conchiglia, lavori di
pietre e marmi di ogni genere nelli quali generi sorpassa qualunque altra città»2.
Tale imprenscindibile risorsa economica, documentata già dagli Études statistiques sur
Rome3 del prefetto della Roma napoleonica Camille de Tournon, risulta, poi, periodicamente certificata dallo stesso ministero del Commercio, Belle Arti, Industria, Agricoltura
e Lavori Pubblici che, ancora nel 1860, comunicò nel «Giornale di Roma» di aver
compilato uno specchio dimostrativo delle licenze da esso rilasciate durante l’anno 1859
per l’estrazione dalla città di Roma di oggetti di belle arti antichi e moderni, a seconda
delle stime fattane dagli assessori della Pittura e della Scultura. Da questo specchio risulta
che nel testè decorso anno si è fatto luogo ad estrazione di pitture antiche per la somma
di scudi 15.136,50 e moderne per la somma di scudi 133.588,95 e di sculture antiche
per l’ammontare di scudi 1.690 e moderne per scudi 229.955. La totalità delle somme è
pertanto di scudi 380.370,45, nel che si ha una splendida prova del molto lavoro che ai
nostri artisti fu commesso dagli stranieri e dall’ingente vantaggio che da questo solo ramo
di commercio ritrae annualmente la nostra capitale4.
134
SIMONETTA CIRANNA
La licenza di esportazione all’estero degli «oggetti di belle arti antichi e moderni»
costituiva, attraverso il dazio imposto sul valore economico del pezzo, una fonte di
introito vitale per lo Stato pontificio; per tale ragione, la determinazione del prezzo
del bene da parte degli «assessori» era oggetto di controversie e, anche, di «sconti»
e deroghe concessi dallo stesso ministro del commercio. Esplicativa, in tal senso, è
la documentazione intercorsa tra il commissario di antichità Pietro Ercole Visconti e
lo scrittore Pietro Sterbini, ministro del Commercio e dei Lavori Pubblici negli anni
della Repubblica romana (1848-1849). Nel gennaio 1849, Visconti, nell’esprimere al
ministro il suo parere circa il trasferimento all’estero di due colonne di marmo africano
lunghe palmi 14 e del diametro di palmi 2, dichiarò che esse benché «non di primo
ordine, essendo fra le rare e concorrendovi la mole, potrebbe forse convenire al governo l’acquisto»5. Tale suggerimento non ebbe, però, successo. Infatti, pochi giorni
dopo, esattamente il 20 gennaio 1849, Visconti firmò la relazione della Commissione
Consultiva, costituita da Luigi Canina e dallo scultore Giuseppe Fabris, stilata dopo
aver visto, presso la bottega dello scalpellino Giuseppe Leonardi6, le colonne di breccia
africana che dovevano essere trasferite all’estero dai signori Plowden e Cholmely. La
commissione benché concordasse con la stima di Visconti pari a scudi 600, ridusse il
valore a quello della sola pietra antica, cioè a scudi 300, poiché la lavorazione era «opera
moderna». Su tale cifra andava applicato il dazio pari al 20%7.
La riduzione del prezzo stimato non soddisfò, tuttavia, Leonardi, lo scalpellino che
aveva lavorato e venduto le colonne ai due stranieri, il quale, per controbattere il prezzo
giudicato da Visconti e quindi l’oneroso dazio, il 28 marzo 1849 scrisse al ministro:
Giuseppe Leonardi dovendo spedire all’Estero di [sic! due] colonnette di marmo Africano
deve pagare il dazio assegnato per l’estrazione dei marmi antichi. Ordinata la stima di
questa dal Ministero dei pubblici lavori, molto più del merito reale. Ed è perciò che l’oratore rimette a Voi Cittadino Ministro una stima delle colonne suddette fatta da persona
conosciuta per onestà, e che si è moltissimo applicato allo Studio dei marmi antichi, e
moderni onde vogliate prenderla in considerazione cosicché riconosciuta giusta vogliate
su questa basare il Dazio di sopra indicato8.
La perizia cui si riferisce Leonardi fu compilata dall’architetto Fortunato Desantis,
il quale sottoscrisse una valutazione dei due fusti pari a scudi 86 come «giusto prezzo
che possa assegnarsi alli due massi di affricano ridotti a colonne»9. La replica pignola del
commissario Visconti a tale controperizia appare assolutamente eloquente; Visconti,
dopo aver riassunto l’intera vicenda al ministro, ribadì la sua stima finale di scudi 300,
aggiungendo però che «se il Ministro, onde favorire questa specie d’industria e di commercio nazionale, inclinasse in via di grazia a limitare anche dopo tale mia stima il dazio
da pagarsi, può usare la via di grazia, come altre volte si è fatto in eguali circostanze;
potrebbe ridurre la percezione del dazio medesimo sui due terzi dell’estimo, cioè su scudi duecento. Tale è il mio sentimento»10. Ed infatti a tale agevolazione si ricorse, come
conferma l’appunto sul retro dello stesso documento che riporta in data 20 agosto: «si
ammette il pagamento di soli scudi trenta in via di grazia».
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
135
I meccanismi connessi a «questa specie d’industria e di commercio nazionale»
rimangono sostanzialmente immutati nelle temperie politiche, che coinvolsero il governo di Roma nella prima metà dell’Ottocento. Anzi, le ripetute crisi economiche
in cui si vennero a trovare la città e lo Stato Pontificio, a partire dall’occupazione
napoleonica, contribuirono a stabilizzare topograficamente tale «sistema produttivo»
nei luoghi in cui questa sorta di variegato mercato delle pietre e dell’antico e i diversi
attori che vi partecipavano si erano storicamente insediati.
Precisamente, la liquidazione del debito pubblico imposta da Napoleone, con decreto imperiale emesso dal palazzo di Trianon il 5 agosto 1810, e la conseguente messa
all’incanto dei beni di proprietà degli enti religiosi soppressi, nonché, successivamente,
la vendita dei patrimoni di enti ecclesiastici e luoghi pii agli affittuari ed enfiteuti, varata il 16 agosto 1832 da Gregorio XVI e reiterata da Pio IX il 9 marzo 1848, accrebbero
il mercato immobiliare romano e consentirono ai locatari o enfiteuti un accesso privilegiato all’acquisto. In particolare, gli scalpellini, i petrari, gli scultori e gli antiquari,
stabilmente insediati in alcune aree specifiche della città, poterono acquistare, anche
grazie alla già accertata disponibilità economica garantita dal loro mestiere, gli immobili dove risiedevano o gli studi e le botteghe dove esercitavano la loro professione.
Paradigmatico, in tal senso, appare l’andamento delle proprietà immobiliari nella
zona compresa tra piazza di Spagna, il Tevere e piazza del Popolo, sempre più caratterizzata nel corso del Settecento e dell’Ottocento, almeno fino alla Roma di Pio IX,
dalla presenza di botteghe, studi e laboratori di scultori, artisti, artigiani e antiquari,
specializzati in larga parte nella lavorazione delle pietre e dei marmi, nonché nella
loro commercializzazione.
Circa la concentrazione in tale zona, della «principalissima industria della città»,
nella già citata Nuova guida Melchiorri raccomandava
a chiunque amatore le collezioni di antichità ed arti del sig. Ignazio Vescovali (piazza di
Spagna) e del sig. Capranesi (a San Carlo al Corso), delle quali la prima particolarmente
è così ricca d’ogni genere d’oggetti antichi in marmo, bronzi, pietre, terre cotte, gemme,
medaglie, ecc. da poter essa sola formare un nobile museo per qualunque città. Oltre a ciò
la facilità ed onestà di trovarsi presso quest’onesto negoziante, rendono il suo studio il più
frequentato di tutti. Sono del pari da notarsi i studi delle impronte delle gemme in smalto
d’ogni colore o scaiola. La bella imitazione delle gemme antiche e moderne, rendono più
piacevole così lo studio degl’intagli. Le più notabili fabbriche sono quelle dei Dies (uno in
via della Croce, l’altro in via Condotti) quella di Tommaso Cades (via del Corso num. 456)
e quella di Bartolom. Paoletti (piazza di Spagna n. 49). Oltre di queste lavorazioni è ancora
stimabile quella che si fà da Francesco Sibilio (piazza di Spagna num. 92) dove si fanno dei
lavori di commesso con li vetri o paste antiche, che riescono di sommo pregio e bellezza11.
«L’utilissimo libretto del Keller», come suggerito da Melchiorri stesso, rappresenta una fonte più dettagliata che conferma la specificità della comunità residente
e operante nel quartiere di Campo Marzio. In effetti, anche un riscontro rapido dei
nomi degli artisti, artigiani e antiquari registrati nella guida di Keller, integrato, solo
parzialmente, da quelli apparsi negli almanacchi12 romani o, occasionalmente, nel
136
SIMONETTA CIRANNA
«Giornale di Roma», fornisce un elenco importante di mosaicisti, pietrari, scalpellini, negozi di pietre e belle arti come pure di scultori13 distribuiti lungo le vie del
Babuino, della Frezza, Condotti, della Croce, del Clementino, dei Greci, del Corso
e piazza di Spagna, per citare i toponimi più ricorrenti.
Il presente studio14 prende in esame le condizioni di possesso e di uso, le caratteristiche tipologiche e le trasformazioni architettoniche, di alcuni locali, compresi in
detta area, legati al lavoro e alla residenza di tre diverse categorie di lavoratori della
pietra: quella del «pietraro», cioè di politor di pietre preziose15, nella figura di Francesco Sibilio (1784-1859), quella dello scultore, nella persona di Filippo Albacini
(1777-1858), figlio del più famoso Carlo, e quella dello scalpellino, nella persona di
Tommaso Della Moda (?-1854).
Per ricostruire le condizioni di possesso dei rispettivi locali a uso residenziale, di
laboratorio o studio e di bottega atta alla vendita, una fonte archivistica importante è
rappresentata dai testamenti e dagli inventari redatti alla morte dei tre artisti; attraverso
di essi è, infatti, possibile percorrere a ritroso le vicende legate alle proprietà immobiliari. Tali documenti, sempre accompagnati da stime redatte con precisione scrupolosa
dai periti prescelti dai curatori testamentari, rappresentano, poi, delle fonti generose di
notizie, in grado di fornire, nel caso specifico, alcuni indirizzi utili per nuovi approfondimenti sulla cultura artistica romana della prima metà dell’Ottocento.
Francesco Sibilio. La casa, la bottega e il laboratorio di pietraro
La precisa e prolungata descrizione, nella guida di Melchiorri del 1834, del negozio e dell’attività di Francesco Sibilio in piazza di Spagna 92 testimonia l’accertata
notorietà, negli anni Trenta, dell’abile pietraro16 nella zona e fuori di essa. Melchiorri
si sofferma, in particolar modo, sulla notevole maestria dei «lavori di commesso con
li vetri o paste antiche» esposti da Sibilio.
Quasi certamente, fu proprio l’eccezionale perizia nel lavorare le pietre a far guadagnare celebrità all’artigiano e a rendere famoso il suo negozio in piazza di Spagna.
Già nel 1810, anno in cui per la prima volta risulta attestata la sua attività e la sua
residenza nella piazza, egli ottenne una medaglia d’argento al concorso ed «esposizione generale di tutti i prodotti delle arti, del disegno e dell’industria de’ romani dipartimenti», organizzati dalla Consulta straordinaria in occasione dei festeggiamenti
per l’onomastico dell’imperatore Napoleone17. A portarlo all’ambito riconoscimento
contribuì, proprio, la marcata preziosità delle lavorazioni dei pezzi da lui esibiti, descritti come: «una tazza, e piattino di serpentino condotto da esso per il primo ad una
sottigliezza, che li rende diafani, ed eguali al tempo stesso a prova di compasso. Tre
scattole di porporino sottilissime a prova come sopra. Tre agorai di porporino a figure
diverse. Due fili di malachite per collana di donne. Uno baccellato orizzontalmente
di nuova maniera, e l’altro tondo. Ordegno di ferro da esso perfezionato per eseguire
lo smidollamento, e il sottosquadro dei piccoli vasi di pietra»18.
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
137
L’ammirazione per la tecnica squisita di Sibilio si divulgò ulteriormente, nel 1830,
attraverso le pagine introduttive della popolare guida di Keller, il quale, tra gli «oggetti degni di considerazione», descrisse con ammirazione l’esposizione nel negozio
del pietraro romano di «quattro colonne di 12 palmi per il defunto Commendatore
Demidoff, nelle quali gareggiava il valore della materia col pregio della esecuzione.
Erano queste di malachita composte i fusti con tale artificio, che sembravano affatto
saldi, ed intieri, come di un sol masso, coi capitelli, e le basi di bronzo dorato, e facevano la più vaga, e magnifica comparsa»19.
La bottega e la casa di piazza di Spagna 92, occupate da Sibilio fino alla sua morte
nel 1859, non erano di sua proprietà. I due ambienti, illustrati nell’inventario20 solo in
funzione degli oggetti stimati21, erano intimamente connessi tra di loro da una scaletta
interna: al piano terreno era ubicato il negozio con un retrobottega e una cantina sottostante; al piano mezzanino una camera, con una sola finestra sulla piazza di Spagna,
una retrocamera e un sottoscala. Sempre dall’inventario, si apprende che, dal 1854 al
1857, Sibilio pagò per tali locali un affitto annuo pari a scudi 120 a Enrico Serny, proprietario anche dell’immobile prospiciente, posto sempre sulla piazza e confinante con
il fabbricato di proprietà dello scultore Filippo Albacini22. Fino al 1811, il palazzo ove
ricadevano il negozio e la casa dell’artigiano era appartenuto al monastero di San Silvestro in Capite, nel cui catasto del 1725 risultano raffigurati sia il fronte dell’edificio, in
cui sono incluse le due unità, sia la pianta della bottega23.
Il 30 aprile del 1811 l’intero immobile, posto ai numeri civici 92-99 di piazza di
Spagna e 1-4 di via della Croce, allora composto di due piani, magazzini e sette botteghe, venne aggiudicato al pubblico incanto per 51.000 franchi al senatore Alessandro
Bonaccorsi24. Il fabbricato era stato espropriato al monastero di San Silvestro in conseguenza del decreto dell’imperatore Napoleone del 5 agosto 1810. In tale provvedimento Napoleone stabilì, tra l’altro, le norme dirette a regolare la liquidazione del debito
pubblico degli Stati romani aggregati all’Impero, ponendo all’incanto immobili provenienti dalle corporazioni religiose. È questo il primo atto che consentirà la graduale
conquista, nella zona di Roma esaminata, degli spazi della residenza e del lavoro da
parte degli artigiani, a vario grado e titolo, delle pietre antiche, moderne e preziose.
È probabile che il senatore Bonaccorsi, per far fronte all’impegnativa spesa, abbia
costituito una società con il conte Giuseppe Archinto25, il quale fino al 1824 risulta
proprietario, assieme ai fratelli Carlo e Pietro Torti, della porzione del palazzo corrispondente ai civici 92 e 93, costituita di dodici vani al primo piano, quattordici al
secondo e undici al terzo26. Al 1824 risale l’acquisto di tale porzione immobiliare da
parte di Antonio Serny, sicuro antenato di Enrico, committente delle «migliorie» all’architettura del fabbricato progettate dall’architetto Pelucchi27. Enrico stesso, tra il 1863
ed il 1865, pochi anni dopo la morte di Sibilio, ampliò e restaurò ulteriormente l’intero
caseggiato (dal civico 92 al 99), con un progetto approvato dall’architetto Luigi Poletti
dell’Accademia di San Luca28.
138
SIMONETTA CIRANNA
Fig. 1. Particolare di piazza di Spagna tratto dalla pianta prospettica di Giovanni Maggi (1625) edita
da Paolo Maupin e Carlo Losi nel 1774, dove sono raffigurati i due fabbricati successivamente occupati
da Sibilio e da Albacini
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
139
Fig. 2. Pianta del piano terreno del fabbricato di piazza di Spagna 92 nel 1725. Il locale, poi occupato
dalla bottega di Sibilio, è quello rappresentato a sinistra dell’androne (ASR, Clarisse S. Silvestro in Capite, Catasti, b. 5049/4)
140
SIMONETTA CIRANNA
Almeno dall’età di 26 anni, quindi, Sibilio occupava una posizione strategica
nella città di Roma per l’esercizio del suo mestiere. La collocazione vantaggiosa del
negozio sulla piazza doveva compensare, evidentemente, la modestia dell’alloggio
soprastante, nel quale Sibilio continuò a risiedere anche dopo l’acquisto del vicino
palazzetto in via della Croce 13 e 14, avvenuto nel 182929. È certo, inoltre, che nel
1824, con il passaggio ad Antonio Serny della proprietà, Sibilio aveva rischiato di
essere sfrattato, come conferma la lettera inviata dal pietraro alla residenza fiorentina
del suo influente mecenate russo Nikolaj Nikiti Demidoff (S. Pietroburgo 1773 - Firenze 1828)30. Scriveva l’artigiano al suo protettore nel novembre del 1824:
Eccellenza, obbligato di provedermi di una nuova abitazione volendo il Padrone della casa
che abito disporne altrimenti, ho preso in affitto un appartamentino nel Palazzo Poniatoski; ma siccome a motivo dell’anno Santo posso ancora restare nella vecchia abitazione
tutto il prossimo anno così sono stato consigliato di amobiliare il detto Appartamentino
per uso di forestieri. Questo appartamentino composto di sei camere di una piccola cucina, decentemente ammobiliato, con comodo di rimessa quasi tutto esposto a mezzo
giorno lo pongo sotto la valida Protezione di Vostra Eccellenza acciò si voglia degnare
d’indirizzarmi qualche forestiere di sua conoscenza, e liberarmi così dal pericolo di soccombere sotto l’onerosa spesa di scudi 170 per la pigione oltre la forte spesa incontrata
per ammobigliarlo31.
Sibilio, poi, riuscì a conservare il suo alloggio grazie al blocco dei fitti e degli sfratti decretato da Leone XII, in prospettiva del notevole afflusso di pellegrini previsto
per il Giubileo del 1825 e in considerazione di una offerta di abitazioni onerosa oltreché carente in qualità e quantità; blocco che venne prorogato più volte negli anni
successivi sempre in conseguenza della bassa offerta di nuovi alloggi32. D’altra parte,
anche le migliorie condotte sul fabbricato prima da Antonio e più tardi da Enrico
Serny si avvalsero di esenzioni fiscali emanate dai pontefici proprio per stimolare la
crescita dell’edilizia privata33.
Benché dall’epistolario tra Sibilio e Demidoff emerga più volte il problema dell’onere dell’affitto34, è certo che negli anni Venti l’artigiano poteva fruire di un’apprezzabile liquidità, dato che, oltre la spesa di acquisto del palazzo di via della Croce,
pari a scudi 1.200, egli sostenne una radicale e onerosa ristrutturazione dell’edificio,
prevista e stimata già al momento della vendita, e realizzata nei mesi successivi35.
Come l’edificio di piazza di Spagna dove aveva sede il negozio e la casa di Sibilio,
anche questo palazzetto, composto di tre piani, bottega, cantina e cortile con vasche e
acqua perenne, era stato di proprietà del monastero di San Silvestro in Capite fino al
1811 allorché, in virtù del citato decreto napoleonico, fu aggiudicata al signor Lelio
Rospigliosi per franchi 10.755,7936.
In tale fabbricato, a pochi passi dal suo negozio, Sibilio installò al piano terreno,
con affaccio su via della Croce al civico 13, e in parte del primo piano, la sua bottegalaboratorio, dove gli spazi, oltreché per le diverse lavorazioni e relativi arnesi, erano
pure occupati da una notevole quantità di pietre, come ben appare nell’inventario dei
marmi affidato all’esperto scalpellino Giuseppe Leonardi37. La descrizione, la stima38 e
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
141
le planimetrie allegate all’inventario chiariscono l’articolazione degli spazi del lavoro,
disposti su un lotto lungo e stretto con un solo fronte sulla strada e due piccoli cortiletti
interni. Una configurazione che risulta tuttora sostanzialmente invariata.
Circa gli appartamenti posti ai tre piani superiori, accessibili dal portone al civico 14,
da quello del primo piano Sibilio continuò a riscuotere un affitto fino al 185939, mentre
quelli posti al secondo e terzo livello egli li destinò a dote delle due giovani figlie40.
A due anni dalla morte di Sibilio, il «Giornale di Roma» del 4 aprile 1861 ancora
reclamizzava: «nella officina di Pietre antiche rarissime del Negozio Francesco Sibilio
in via della Croce n. 13, si vendono le famose stampe in più fogli della magnifica
Roma incise dal Vasi, e le stampe che esprimono la grande piazza del Vaticano, la
facciata della Basilica e il di lei interno. Questa opera che da per se si raccomanda per
lo intrinseco di lei merito non ha bisogno di elogio. Già in Roma ebbero un grande
esito. La Roma si paga scudi quattro, e scudi tre le stampe del Vaticano»41.
Filippo Albacini. La casa e gli studi di scultura
Nel «Giornale di Roma» del 5 marzo 1859 apparve l’avviso per «li signori amatori
di belle arti» relativo alla
prima vendita particolare volontaria alla pubblica auzione degli effetti ereditari appartenenti alla bona memoria professore Filippo Cav. Albacini, da eseguirsi giovedì 10 marzo
1859 alle ore 11 antimeridiane nei locali terreni della casa in piazza di Spagna n. 14. Detta
vendita comprenderà oggetti di scultura antichi e moderni, cioè busti, statue, torsi gruppi, bassorilievi, urne cinerarie e frammenti, non che rocci di colonna in pietre colorate,
lastre massicce ed impellicciate di varie pietre ancora orientali antiche, quattro rarissime
colonnette di alabastro violetto fiorito, le quali sono uniche per pregio e bellezza, mostre
da caminetto di ricercato disegno ed esecuzione e tutt’altro come meglio verrà descritto
nel catalogo a stampa che sarà distribuito al pubblico a principiare da lunedì 7 mese suddetto dal perito Giovanni Martinetti nel suo negozio di mobilia sulla piazza di S. Agostino n. 13, il tutto da rilasciarsi al migliore offerente, ed a pronti contanti con l’osservanza
de’ consueti regolamenti42.
Filippo, nato il 14 febbraio 1777, era figlio del più celebre scultore Carlo, dal
quale aveva appreso l’arte dello scolpire praticandola, tuttavia, in tono minore forse
in ragione, come suggerisce il necrologio43, della ricchezza ereditata dal padre stesso.
Filippo muore il 17 febbraio 1858, e nel suo testamento44 nomina erede universale
del suo ingente patrimonio l’Accademia di San Luca, di cui egli era stato orgogliosamente membro sin dalla primavera del 181145. In tale patrimonio ricadevano, anche,
«tutti gli oggetti d’arte esistenti nei studi e magazzini e consistenti in statue, marmi,
la statua dell’Achille da me eseguita e non ultimata, gessi, ed altro meno gli stigli, dei
quali ho di sopra disposto a favore del mio pronipote Achille, verranno inventariati,
e come la mia Erede li anderà vendendo ne rinvestirà le somme ritratte per erogarne
la rendita [...] al vantaggio della Gioventù Romana Artista di Scultura»46.
I marmi indicati nell’avviso di vendita pubblicato nel «Giornale di Roma» provenivano, quindi, dagli studi di scultura che Filippo aveva in affitto al vicolo dei Greci,
142
SIMONETTA CIRANNA
Figg. 3-4. Piante del piano terreno e del primo piano del fabbricato di Sibilio in via della Croce 13-14
(ASR, Trenta Notai Capitolini, Uff. 32, dicembre 1859, allegato alla Lett. Q)
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
Fig. 5. L’edificio di via della Croce (foto dell’autrice, 2005)
143
144
SIMONETTA CIRANNA
mentre il locale dove vennero traslocati per essere esposti e liquidati ricadeva nel fabbricato di piazza di Spagna di proprietà dello scultore stesso. A chiarire il perché di questo
spostamento, nonché a raffigurare un quadro vivace dell’interesse suscitato dalla vendita dei marmi e dell’atmosfera che circondava culturalmente e «fisicamente» i luoghi
di tale esercizio, è la relazione del 10 agosto 1861 inviata ad Antonio Sarti, presidente
dell’Accademia di San Luca, dall’economo Ferdinando Cavalleri47.
Cavalleri, nel presentare per la prima volta all’Accademia l’andamento di una
gestione di tre anni (1858-1860) dell’eredità Albacini, descrisse, tra le altre cose,
l’evoluzione positiva delle vendite dei marmi e delle pietre di proprietà dello scultore.
In particolare egli scrisse:
ognuno sa che il Locale di proprietà del Collegio Greco ove presso che tutti si contenevano i nominati oggetti doveva essersi tolto ad epoca vicinissima, fu quindi giudicato necessario per quanto noi si pregasse onde ottenere maggior proroga dell’affitto già pressoché
esaurito dall’Albacini, di sgombrare tali ambienti, e non avendone altri in pronto, come
ancora per risparmio delle spese enormi di trasporto si giudicò di venire tosto ad una vendita particolare il che però ebbe luogo senza la pubblicità degli annunzi, ciò nonostante
appena si seppe l’essersi posto da noi mano ad una tal vendita i cui prezzi si disse non so
con qual fondamento essere favolosamente minimi, che una turba di acquirenti accorse
per farne l’acquisto o la scelta, in tale congiuntura che da Massaio mi viddi subitamente
trasformato in bottegaio. Confesso che tutt’altro che piacevoli furono le mie riflessioni, e
seduto talvolta sopra una di quelli antichi frammenti posto in quel vasto magazzino per
vendersi, mi sembrò di rappresentare Mario assiso sulle rovine di Cartagine. Ma lasciando
a parte le tristi riflessioni consoliamoci nel vedere che questi furono i giorni più proficui
alla Amministrazione accademica poiché i compratori ed amatori affluivano, la nostra
bottega aveva preso buon avviamento, ed io non ebbi poco da fare col sol ausilio che mi
venne accordato dal bidello Fallani di regolare la distribuzione degl’oggetti secondo la
stima più alta desunta dall’inventario, e di riportarne l’incasso e la nota in registri improvvisati al momento e come meglio si poteva48.
Come il padre Carlo, Filippo esercitò la sua professione in parte di quei locali,
prossimi alla chiesa di Sant’Atanasio sulla via del Babuino, appartenenti alla più ampia proprietà del Collegio Greco, che usava affittarli proprio agli scultori49.
Dall’inventario50 dei beni ereditari di Filippo, si desume che egli occupava con
i suoi marmi e attrezzi di scultore tre immobili di proprietà del Collegio Greco. Il
primo viene descritto come studio di scultura, o magazzino, sito in via dei Greci n. 3
e composto: di 3 ambienti, cantine sottostanti, aventi l’ingresso dal Vicolo dei Greci
n. 4, e giardino annesso con entrata dal civico 46. Da questo giardino si poteva accedere anche agli altri due atelier di scultore, sempre di proprietà del Collegio Greco,
aventi l’ingresso principale sulla via degli Incurabili al civico 7. Questi ultimi erano
costituiti da uno studio grande e da un secondo laboratorio contiguo al precedente,
tenuto in subaffitto dallo scultore Giovanni Battista Lombardi.
Circa l’entità degli affitti corrisposti da Filippo al Collegio alcune indicazioni possono trarsi, ancora una volta, dall’inventario, dove il loro ammontare risulta registrato tra le passività ereditarie: «dovuti al Collegio Greco per pigioni di Studj dal Primo
Gennaro a tutto il 17 Febraro prossimo passato scudi trè, e Baj. novantaquattro e
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
145
mezzo (e) dovuti come sopra per pigione dei magazzeni posti al Vicolo de’ Greci N°3
dal Primo Gennaro a tutto il diciasette Febraro sudetto scudi trè, e Baj. Dieci»51.
Non è certo che Filippo occupasse proprio gli stessi locali che, circa 40 anni prima, il padre Carlo locava dallo stesso collegio. La descrizione degli studi di Carlo,
inserita nella perizia redatta dall’architetto Tommaso Zappati, allegata all’atto di divisione52 delle sue proprietà tra i figli Nicola e Filippo Albacini del 30 luglio 1814,
lascia piuttosto ipotizzare che Filippo conservasse solo una parte dei locali utilizzati
dal padre, oppure, che il suo studio fosse solo confinante con quello paterno53.
Scrisse Zappati:
recatomi finalmente nelli due studi di scultura, spettanti al Venerabile Collegio Greco, e
ritenuti in affitto dal ridetto defunto [Carlo] ho trovato questi sebbene fra loro divisi uniti
bensì da una interna communicazione in oggi socchiusa da muro. Ambedue restano dai
lati della Venerabile Chiesa di S. Atanasio, annesse al Collegio suddetto, il primo ha la
porta d’ingresso dalla parte dell’Arco dé Greci, l’altro tanto dalla parte del ridetto vicolo
dell’Arco, che verso il vicolo dell’Orsoline [S. Cecilia]. Il primo viene segnato nelli due
ingressi colli num.ri 47 e 48, ed è composto di un sito da strada suddiviso da tramezzo,
che ne forma due, un Cortiletto con un altro studiolo, ed un tetto che ne copre una porzione di detto Cortile, e sua fontana con acqua perenne, il tutto in buono stato con buoni
tetti, muri maestri, e sufficienti finestroni […] L’altro studio, poi, che ha il suo ingresso
principale dal Vicolo delle Orsoline, resta sotto li numeri 5 e 6, contiene un Ingresso per il
passo de’ sassi grossi, un Cortile, ove resta il passo dal Vicolo dell’Arco, e n. 4 stanze a tetto
per comodo di studio di buona forma, buoni materiali, ed ottima luce, essendovi ancora
la fontana nel Cortile, ove esiste il Casotto per il Luogo commodo, ed uno stanzino per li
ferri, ed attrezzi necessari alla Professione54.
La continuità dell’esercizio dell’arte scultorea tra Carlo e Filippo Albacini, nei
locali del Collegio Greco prossimi a via del Babuino, così ricostruita, si riscontra
egualmente per l’alloggio utilizzato dai due scultori come proprio domicilio.
Nel 1858, anno della morte, Filippo risiedeva al terzo piano dell’edificio sito al civico 13 di piazza di Spagna, di fronte alla bottega e alla casa di Francesco Sibilio, nella
qualità di proprietario dell’intero stabile. Il fabbricato era formato da: un piano terreno,
due piani superiori con rispettivi appartamenti dati in locazione, un terzo e un quarto
piano (occupato dalle soffitte e forse in parte abitabile) dove viveva lo scultore con la
moglie Rosa Gigli; quest’ultima, alla morte del coniuge, continuò a risiedervi in qualità
di usufruttuaria. Circa le condizioni in cui versava l’edificio nel 1858, lo stesso Filippo
segnala nel suo testamento: «la mia casa in piazza di Spagna segnata col numero tredici,
essendo mancante di solidi fondamenti dalla parte della piazza, giacché dalla parte di
S. Bastianello sono stati ben rinforzati in anni indietro, qualora non si pensava da me
non vedendone bisogno per ora, li rinforzerà la mia Erede qualora a parere dei Periti ne
conoscerà la necessità ed a questo oggetto nei sotterranei della medesima casa troverà
già preveduti dei materiali a questo fine»55. La necessità di intervenire sulle fondamenta
dell’edificio era, quasi certamente, legata alle continue trasformazioni e sopraelevazioni
subite dal fabbricato sin dall’adolescenza di Filippo.
Infatti, egli viveva in quella casa dall’età di sette anni, ovvero dal 1784, allorché
146
SIMONETTA CIRANNA
«volendo il Venerabile Monastero di Santa Maria Maddalena delle Convertite [al
Corso] dare in enfiteusi una casa di sua proprietà situata in piazza di Spagna, si presentò ad acquistarne il dominio utile un Carlo Albacini, lavoratore di marmi, onesto
padre di famiglia, e che avendo tratto dà suoi lavori qualche capitale di denaro, cercava collocarlo in uno di tali rinvestimenti sicuri e vantaggiosi»56.
Gli economi del monastero, allora proprietario, malgrado il tentativo di Carlo di
garantirsi la casa in enfiteusi perpetua e transitoria ad quoscumque, avevano rigidamente
rispettato la regola di accordarla in enfiteusi alla terza generazione mascolina a un canone annuo di scudi 150. Nell’atto enfiteutico, stipulato il 16 agosto 178457, il fabbricato
risulta composto da un piano terreno e da due piani superiori, e precisamente da «due
Appartamenti [ciascuno su un piano], bottega ad uso di Barbiere, con mezzanini superiori, tre stanze terrene con stalla, rimessa ed altri annessi, [...] fa angolo nella strada che
porta a S. Sebastianello confinante da un lato con i Beni del medesimo Ven. Monastero
delle Convertite, dall’altro la Piazza, e da altri due lati li beni del Ven. Conservatorio
della SS. Trinità nel Monte Pincio, salvi altri».
L’affermazione professionale di Carlo, la possibilità di un lungo possesso, nonché
l’obbligo alla manutenzione dell’edificio, spinsero lo scultore a risanare le condizioni
complessive del palazzo e a soprelevarlo di un piano. Proprio in questo terzo piano
aggiunto egli fissò la sua dimora, concentrando su di esso il massimo impegno economico con l’introduzione di finiture di maggior pregio.
La riprova dell’introduzione di tali migliorie è data dalla descrizione di tutte le
unità componenti l’edificio inserita nella stima, redatta dal perito architetto Zappati
alla morte di Carlo (1813), e nell’atto di divisione58 delle proprietà del valente scultore, datato 30 luglio 1814.
La fabbrica resta di cantone al vicolo detto di S. Bastianello, ed è composta di un Piano
terreno con Cantine sotto, tre Piani superiori ed un sotto tetto parte del quale abitabile.
Il Piano terreno è di una Bottega ad uso di Barbiere sul cantone con piccolo Coridore
addietro il tutto a volta sotto il n. 12 al num. 13 vi è l’Ingresso principale, al n. 14 una
stalletta con piccolo Cortile, ov’è il Pozzo commune a tutti li Piani, al n. 15 una Rimessa,
ambedue annessa al primo Piano, e sotto il num. 16 altra Rimessa ritenuta dal defunto.
Nel Coridore d’ingresso alla sinistra esiste una Porta con scala che discende nella Cantina,
la prima delle quali con Lavatore commune a tutti li Piani con acqua vergine di trevi, una
tinozza murata e la fornacella per la bugata. Appresso la medesima Porta vi è la scala, e
quindi un sottoscala a commodo del secondo Piano, e d’incontro altri due siti, che vanno
uniti al terzo Piano dove abitava il defunto. Il primo piano è composto di una Scala, la
quale mediante una Porta, e mignano59 mette in Cucina e per mezzo di altra Porta passa a
n. 5 stanze in facciata con telari, lastre, e Persiane alle finestre, e quindi ad un Coridore, e
stanza addietro tramezzata ed alla Cucina. Il secondo Piano è consimile a quello di sotto.
Il terzo parimenti è lo stesso, ma con tutte Ringhiere alle finestre in facciata e nella retrostanza prossimi alla Cucina vi è un mignano tutto coperto ov’esiste il luogo e di fianco la
Porta d’ingresso vi sono due piccoli Camerini per Dispenza. Al di sopra vi è il Sottotetto,
la di cui parte anteriore verso la Piazza è di varie soffitte pratticabili, e nella parte posteriore vi sono tre Camere abitabili, con scala di legno chiusa che serve alla Loggia coperta.
La scala che ascende a tutti li piani è con scalini di peperino di buona forma, e commodo.
Lo stato di essa Casa in genere è buono, ma bisognoso di vari acconcimi, come sono il
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
147
Piattamento de Credenzimi del Barbiere, la muratura di alcune crepaccie al primo Piano,
il Ristauro delli telari delle finestre, e Persiane in detto, e nel secondo Piano con altri
piccoli acconcimi, a riserva del terzo Piano, il quale è meritato in maniera, che non ha
bisogno di alcuna cosa avendo buoni telari, Persiane, mattonati di quadri, soglie di marmo alle Porte, Pila di marmo allo sciacquatore di Cucina, Solari, e Soffitti di tela dipinti
il tutto in ottimo stato.
Nel 1814 l’immobile di piazza di Spagna, goduto in enfiteusi da Carlo, andò in eredità a Filippo, il quale provvide, negli anni immediatamente successivi, a eseguire una
radicale e costosa ristrutturazione, cioè: «dispose l’edificio a tutte quelle comodità della
vita che l’uso delle moderne abitazioni richiede; lo ridusse quale il vediamo al presente
[1819], uno dei bei casamenti che adornano la bellissima piazza di Spagna, con una
fronte su la piazza medesima, con l’altra rivolta su la via che mena a S. Bastianello»60.
Tenuto conto della consistenza delle spese sostenute, Filippo richiese al monastero delle
agostiniane di San Giacomo e Santa Maria Maddalena delle Convertite alla Longara,
allora proprietario, una forma di rimborso, che venne a concretizzarsi, con atto stipulato il 23 novembre 1819, nella conversione del titolo di Filippo sul fabbricato da enfiteusi a terza generazione a enfiteusi perpetua transitoria ad quoscumque, con l’aumento
del canone di soli scudi 5 annui61.
L’ottenimento della piena proprietà del fabbricato da parte di Filippo fu una conseguenza del chirografo pontificio emanato da Gregorio XVI il 28 luglio 1832. La gravità
del bilancio dello stato, acuita anche dai moti del 1831, indusse il papa a procedere a
un’espropriazione di rendite degli enti religiosi «ai quali per antica tradizione il Papa
era uso rivolgersi per sovvenire a necessità di liquidità urgenti, quando le circostanze
politiche rendevano improponibile l’introduzione di nuove forme di tassazione»62; più
esattamente: «persistendo tuttora il bisogno di occorrere con istraordinarie risorse, allo
sbilancio, che presentano le spese dello Stato, e della conservazione dell’ordine pubblico dopo di avere maturamente ponderato le varie proposizioni che nella sua saviezza ci
ha presentato la congregazione di revisione ci siamo indotti a prescrivere, ed ordinare di
nostro moto proprio, e colla pienezza di nostra autorità, siccome colla presente cedola
a voi prescriviamo, ed ordiniamo la vendita, e alienazione di Fondi Rustici ed Urbani
spettanti alla nostra Camera, come altresì l’Affrancazione de Canoni alla stessa nostra
Camera appartenenti [...] l’Affrancazione dè Canoni e Livelli de Luoghi Pii e Pubblici
Stabilimenti debba essere come vogliamo che sia limitata e ristretta ai Luoghi Pii e
Publici Stabilimenti di Roma e sua Comarca»63.
Il chirografo e il successivo regolamento del 12 agosto 1832, quindi, autorizzavano il Commissario generale della Reverenda Camera Apostolica, Angelo Maria
Vannini, il quale esercitava le funzioni di Tesoriere, a «ricevere le istanze dei debitori
di Canoni, e Livelli spettanti ai Luoghi Pii, e Pubblici stabilimenti di Roma, e sua
Comarca che bramassero procedere all’affrancazione dei medesimi, per esserne erogato il prezzo a vantaggio della Reverenda Camera Apostolica»64.
Filippo, e come lui altri artisti e scalpellini collocati nella stessa area, non si lasciò
148
SIMONETTA CIRANNA
sfuggire l’occasione propizia di arricchire il proprio patrimonio con un immobile
dalla posizione urbana così pregevole e funzionale alla sua attività. Nell’atto65 stipulato l’11 gennaio del 1833, secondo una modulistica prestampata, il valore dell’immobile risulta stimato sulla base del canone annuo perpetuo, fino allora corrisposto
da Filippo al monastero, uguale a scudi 155; cioè, più esattamente, «alla ragione di
Scudi 100 per ogni Scudi Cinque di rendita annua che forma la somma complessiva di Scudi Tremila Cento cui uniti Centocinquantacinque, che costituiscono la
Vigesima di esso Capitale a riguardo del Laudemio66, e del diretto dominio altri
Scudi Venticinque spontaneamente aumentati dal sudetto sig. Filippo Albacini formano in tutto il prezzo convenuto per l’affrancazione del ripetuto Canone ed acquisto di diretto dominio in Scudi Tremiladuecento’ottanta».
Tommaso Della Moda. La casa e la bottega di scalpellino
Lo scalpellino Tommaso Della Moda, al momento della sua morte, avvenuta il
26 giugno 1854, aveva la sua abitazione al secondo piano del fabbricato di via delle
Colonnette n. 20, di cui era interamente proprietario, e la bottega-magazzino, in
affitto, alla Passeggiata nuova di Ripetta n. 13. Negli anni Quaranta egli conduceva
un negozio di belle arti in via della Croce n. 25, dove era infatti segnalato come «pietraro» nell’Almanacco67 del 1842, e nel Manuale68 del 1845.
Che Della Moda unisse alla professione di scalpellino quella di esperto conoscitore di marmi e pietre antichi risulta confermato dall’incarico, ricevuto dalla
Confraternita di San Lorenzo in Lucina nel 1834, di stimare ai fini di vendita «una
Colonnetta di Pietra così detta Occhio di Pavone, ossia Lumachella, che era piantata
al ridosso di un angolo della gradinata dell’Oratorio in via Belsiana per difesa dei
gradini dagli urti dei Carri»69. Oltre a ciò, egli doveva possedere una notevole abilità
nella lavorazione dei marmi e delle pietre, sia nella scala architettonica, cioè come
scalpellino, sia nella piccola scala, ossia come «pietraro», nella creazione di oggetti in
mosaico e pietre dure e tenere. Circa la prima, e principale, attività di scalpellino, a
confermare la particolare precisione di Della Moda è la sua presenza in uno dei più
importanti cantieri romani della prima metà dell’Ottocento, quello della ricostruzione della basilica di San Paolo fuori le Mura, nei cui documenti il suo nome compare
più volte citato nell’esecuzione di pavimenti e, in particolare, nella delicatissima operazione di impellicciatura delle colonne70.
L’attività di Della Moda quale squisito esecutore di oggetti di arredo e di piccoli
gingilli, realizzati per essere venduti ai turisti più o meno facoltosi, appare, invece,
avvalorata dal lunghissimo elenco di tali manufatti, conservati nella casa e nel laboratorio, contenuto nell’inventario, compilato con acribia per la stima dal mastro
scalpellino Alessandro Banchini, avente negozio in via Vittoria 24. Fra i più diversi
articoli eseguiti in variegate e lucenti materie preziose, in mosaico, micromosaico, in
conchiglia, spiccano numerosi dejuner, cioè piccoli tavoli tondi o rettangolari con in-
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
149
seriti nei piani mosaici o «campionari» di pietre antiche e moderne, sopracarte, bracciali, tabacchiere, spille e riproduzioni in piccolo di monumenti romani; tra queste
ultime ne compare una probabilmente identica al «delizioso modellino della tomba
degli Scipioni in rosso antico», sorteggiato da Mery Berry nella festa a sorpresa organizzata, il 5 febbraio 1822, da Madame Thérèse d’Appony, moglie dell’ambasciatore
austriaco Anton Rudolf Appony (1782-1852), nella sua casa a palazzo di Venezia71.
Della Moda mantenne il suo negozio in via della Croce, cioè a pochi passi dal
laboratorio di Sibilio al civico 13, almeno sino alla fine del 1851; infatti, nel suo testamento, datato al 2 novembre di tale anno, egli dispose di donare allo scalpellino e
nipote Camillo Scagnoli, figlio della sorella Maria, tutti gli oggetti d’arte presenti in
tale bottega «ossia il Magazzeno che tengo in affitto in via della Croce n. 25»72. È probabile, tuttavia, che, già in quell’anno, lo scalpellino stesse valutando di lasciare tale
attività prevedendo, sempre nel testamento, che, se al momento della sua morte egli
avesse già chiuso il suo negozio, al nipote sarebbero andati in eredità scudi 2000. In
effetti, tra i primi mesi del 1852 e gli inizi del 1854, come conferma l’inventario dei
suoi beni, Della Moda cedette il negozio in via della Croce, trasferendo il suo laboratorio-magazzino nella bottega, composta da un «locale interno, laboratorio, cortile
e locali annessi», posta al civico 13 della Passeggiata nuova di Ripetta, probabilmente
d’angolo con via della Penna 1373. Forse, proprio a causa di questo trasferimento, al
momento della stesura dell’inventario Della Moda aveva esposte in via del Babuino
n. 134 nel negozio di Luigi Moglia, uno dei più celebri artisti del mosaico, diverse
sue creazioni, tra le quali «una cornice dorata con mosaico sul fondo di lavagna lunga
palmo 1 1/6 colla veduta della Piazza di S. Pietro in Vaticano [...] altro quadro simile
con mosaico rappresentante il Foro Romano [...] altro mosaico simile con veduta del
Colosseo [...] altro simile con veduta del Pantheon»; e, assieme a questi, numerosi
«intagli in conchiglia di diverse forme e grandezze con argomenti sagri e profani».
Se Della Moda non giunse mai a diventare proprietario di una sua bottega, egli,
però, riuscì ad acquistare, nel 1848, il fabbricato di via delle Colonnette 19-20 (a
pochi metri da quello che era stato lo studio di Canova), al cui secondo piano, sin dal
1838, aveva stabilito la sua dimora.
Dal 1838, esattamente dal 21 dicembre, e per circa 10 anni lo scalpellino aveva
usufruito della casa in enfiteusi a terza generazione, per l’annuo canone di scudi
31, in virtù di un atto stipulato con le Monache Dame Francesi del Sagro Cuore
di Gesù a Monte Pincio, allora proprietarie74. Dall’atto enfiteutico si apprende che
le monache non erano interessate a tenere l’abitazione «a proprio conto in vista dei
forti ristauri, di cui la medesima abbisogna» e che, per tale ragione, «divisarono di
formarne rinuovamente un contratto di enfiteusi, al quale effetto dietro le ricerche,
e diligenze fatte all’oggetto, rinvennero il Signor Tommaso Della Moda, il quale
si esibì pronto di prendere detta casa in enfiteusi, a terza generazione mascolina, e
femminina di pagare i canoni arretrati, e l’annuo perpetuo canone di scudi trentuno
150
SIMONETTA CIRANNA
libero da qualunque peso, o ritenzione, di farsi in esso fondo tanti miglioramenti, e
ristauri non minori di scudi trecento».
Della Moda, allora domiciliato al civico 23 della stessa via, per ottenere la casa,
«composta di due piani, di due camere, e cucina per cadauno, di due camere nel
Pianterreno, e cantina, confinante da un lato con i Beni della Casa D’Este, dall’altro
con i Beni delli signori eredi Antonelli via pubblica», si era pertanto impegnato: a
lasciare il bene dopo la terza generazione mascolina o femminina; a realizzare «entro
il termine di anni due, tanti miglioramenti ed acconcimi non minori del valore di
scudi trecento a tutte sue spese, senza poter pretenderne buonifico, o defalco di sorte
alcuna», e, ancora, a mantenere «in buono stato durante la terza generazione chiamata in detta concessione, con farvi tutti quei ristauri, riparazioni ed acconcimi, di cui
detta casa abbisogna»75.
Nel 1848 Della Moda riuscì a convertire il contratto enfiteutico in piena proprietà grazie al provvedimento di espropriazione voluto da Pio IX, sul modello di quello
emanato da Gregorio XVI il 28 luglio 1832, di cui aveva beneficiato, tra gli altri,
Filippo Albacini nell’acquisto del fabbricato di piazza di Spagna. Il provvedimento
di Pio IX, notificato dal tesoriere generale in data 9 marzo 1848, oltre alla necessità
di sopperire a una concreta carenza finanziaria dell’erario, intendeva colpire la persistenza della manomorta ecclesiastica nello Stato Pontificio.
Il processo verbale di affrancazione del canone e vendita della casa all’enfiteuta, Tommaso
Della Moda, venne redatto dal Ministero delle Finanze il 14 ottobre del 184876.
Una stima e una descrizione rigorosa del fabbricato vennero eseguite pochi mesi
dopo, esattamente nel febbraio del 1849, dall’architetto Virginio Vespignani, il quale
indicò l’edificio come formato da un piano terreno con ingresso dal civico 19, composto di due camere e una cantina sottostante, e da due piani superiori, serviti da
un corpo scala con accesso dal civico 20. Il primo piano consisteva di due camere,
una cucina e due ingressi; il secondo piano di due camere, una cucina, una camera
al terzo piano e una soffitta. A quest’ultimo appartamento erano pure annessi un
locale terreno con cortiletto e una cantina. Il tutto si trovava in un buono stato di
manutenzione e la valutazione complessiva fu calcolata da Vespignani pari a scudi
2.386 e baj 8077.
Proprio nel secondo, e più ampio, appartamento Della Moda fissò la sua abitazione, la quale comprendeva pure altre tre camere, tenute in affitto, poste al civico
23 della stessa via, forse le stesse dove lo scalpellino aveva vissuto prima di trasferirsi
nel vicino fabbricato78.
Le diverse modalità con cui i tre maestri - Sibilio, Albacini e Della Moda -, appartenenti a categorie professionali contigue della lavorazione del marmo e, più in
generale, delle pietre, riuscirono a impiantare e, via via, a consolidare le loro attività e
residenze nell’area compresa tra piazza di Spagna, piazza del Popolo e il Tevere, restituiscono un campionario significativo di un processo di qualificazione di una zona di
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
151
Roma, sempre più ambita e privilegiata dagli artieri della pietra, sia per la presenza di
artisti e viaggiatori forestieri, che entravano nella città dalla Porta del Popolo bramosi
di conoscere o acquistare opere antiche e moderne, più o meno costose e raffinate,
sia per la facilità di approvvigionamento della materia prima, data la vicinanza del
Tevere e del porto di Ripetta.
Simonetta Ciranna
1
E. DE KELLER, Elenco di tutti i pittori, scultori, architetti, miniatori, incisori in gemme e in rame,
scultori in metallo e mosaicisti aggiunti agli scalpellini pietrari perlari ed altri artefici e finalmente i negozi
di antichità e di stampe esistenti in Roma l’anno 1824, Roma, Francesco Bourlie, 1824, edizione riveduta
Roma, Mercurj e Robaglia, 1830, in particolare pp. 45-50.
2
G. MELCHIORRI, Nuova guida metodica di Roma e suoi contorni, Roma, 1834, p. 661. Sucessivamente,
lo stesso autore pubblicherà in collaborazione G. MELCHIORRI-F. MERCURJ, Guida metodica di Roma e
suoi contorni opera arricchita di quattro grandi piante e quaranta tavole incise in rame rappresentanti i
principali monumenti della città, Roma, Tipografia Tiberina, 1856.
3
P.C. DE TOURNON, Études statistiques sur Rome et la partie occidentale des états romains, III voll.,
Paris, Librairie de Firmin Didot frères, 1855.
4
Nel «Giornale di Roma», 1860, n. 4, 5 Gennaio, p. 13.
5
ARCHIVIO DI STATO DI ROMA (ASR), Camerlengato, parte 2°, b. 292, f. 16. Lettera del 17
gennaio 1849.
6
S. CIRANNA, Francesco Sibilio un petrajo dell’Ottocento. La bottega, la casa, l’attività e l’inventario
del 1859, in Studi Romani I, «Antologia di Belle Arti»,, n.s., nn. 67-70, 2004 (ma 2005), pp. 146-167
(in memoria di Maurizio Fagiolo Dell’Arco e Stefano Susinno)
7
ASR, Camerlengato, parte 2°, b. 292, f. 16. Relazione del 20 gennaio 1849 e modulo di licenza.
8
Ivi, lettera del 28 marzo 1849 firmata dallo scalpellino Leopardi.
9
Ivi, perizia dell’architetto Fortunato Desantis del 26 marzo 1849.
10
Ivi. La lettera è dell’11 aprile 1849. La licenza è spedita il 20 agosto.
11
G. MELCHIORRI, Nuova guida, cit., p. 661. Circa le personalità citate da questo autore: su Ignazio
Vescovali, che aveva il suo negozio al civico 20 di piazza di Spagna, cfr. T. CECCARINI, A. UNCINI, Antiquari a Roma nel primo Ottocento: Ignazio e Luigi Vescovali, «Bollettino Monumenti, Musei e gallerie
pontificie», X, 1990, pp. 115-144; su Capranesi, sicuramente Francesco, cfr. S. BRUSINI, Francesco Capranesi e il mercato antiquario a Roma nella prima metà dell’Ottocento, «Bollettino D’Arte», 108, 1999,
pp. 89-106; sulle lavorazioni in cammeo, pietre dure e tenere cfr. L. PIRZIO BIROLI STEFANELLI, Del
cammeo e dell’incisione in pietre dure e tenere nella Roma del XIX secolo, in Arte e artigianato nella Roma
di Belli, a cura di L. Biancini e F. Onorati, Roma, Editore Colombo, 1998, pp. 13-24; su Sibilio cfr. S.
CIRANNA, Francesco Sibilio un petrajo, cit.
12
In particolare si fa riferimento a: Almanacco letterario, scientifico, giudiziario, commerciale, teatrale
ecc. ecc. ossia grande raccolta di circa 10000 indirizzi, ed altre interessanti notizie dell’interno di Roma,
Roma, Tipografia de’ Classici, 1842; Almanacco Romano ossia Raccolta dei primari dignitari e funzionari
della corte romana d’indirizzi e notizie di pubblici e privati stabilimenti, dei professori di scienze, lettere ed
arti, dei commercianti, artisti ecc. ecc. pel 1855, anno I, Roma, tipografia Chiassi, 1855.
13
Cfr. C. PIVA, La casa-bottega di Bartolomeo Cavaceppi: un laboratorio di restauro delle antichità che
voleva diventare un’accademia, «Ricerche di Storia dell’Arte», 70, 2000, pp. 5-20.
14
S. CIRANNA, Marmi antichi colorati nell’architettura romana dell’Ottocento. Dallo scavo al cantiere,
in «Materiali e Strutture. Problemi di conservazione», n.s., a. II, nn. 3-4, 2005, pp. 6-2915 F. CORSI,
Delle Pietre Antiche, Roma, tipografia di Gaetano Puccinelli, 18453, p. 58.
16
Con il termine pietraro, scrive Keller, «si chiama chi pulisce e lavora pietre preziose per anelli e
152
SIMONETTA CIRANNA
collane, taglia e abbozza i massi, onde renderli atti alla lavorazione degli Incisori per camei o intagli,
e dà l’ultima mano al pulimento delle così dette paste, lavora scatole di marmi teneri e duri, di lave,
di porporina e venturina. Questi sono due smalti, il primo di colore sanguigno rosso, l’altro di colore
bruno punteggiato densamente di scagliette d’oro, il che lo rende vago e pregievole. Il Pietraro vuota
ancora l’interno de’ vasi in pietre durissime come il diaspro ed altri». E. DE KELLER, Elenco di tutti i
pittori, cit., pp. 47-48.
17
Il decreto venne pubblicato nel «Giornale del Campidoglio», 1810, n. 96, 21 Luglio, p. 383. L’elenco
dei premiati apparve, invece, nel «Giornale del Campidoglio» del 3 settembre dello stesso anno.
18
Catalogo de’ prodotti delle arti belle, e di tutte le arti, e manifatture di necessità, di comodo, e di lusso
degli Stati Romani esposti in Roma nel Palazzo Maggiore del Campidoglio in occasione del giorno onomastico di Napoleone I Imperatore de’ Francesi, Re d’Italia, e Protettore della Confederazione del Reno, ec.ec.
ec., Roma, presso Luigi Perego Salvioni, piazza di Sant’Ignazio n. 153, s.d., ma l’esposizione fu tenuta
nel 1810. Va rilevato che in questo opuscolo la posizione di Sibilio è al civico 91 di piazza di Spagna,
anziché 92 come risulterà sempre riportato negli anni e nei documenti successivi.
19
E. DE KELLER, Elenco di tutti i pittori, cit., pp. 16-17.
20
ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO (ASC), Atti Urbani, sez. XL, tomo 207, Notaio Filippo
Maria Ciccolini.
21
La trascrizione dell’inventario è riportata in S. CIRANNA, Francesco Sibilio, cit., Appendice.
22
Nell’inventario di Filippo la casa di piazza di Spagna 13 e 14 viene indicata come «confinante da
più parti con i fratelli Serny». Cfr. n. 50.
23
ASR, Clarisse S. Silvestro in Capite, Catasti, b. 5049/4, Catasto di tutte le Case del Ven. Monastero
e Monache di San Silvestro in Capite sua chiesa e fondazione obblighi pesi e privilegj che godono le
medesime composto da Giuseppe Bianchi Archivista L’Anno MDCCXXV. La bottega-casa del civico
92 corrisponde a una parte della casa descritta al n. X. Nella pianta del piano terreno, alla sinistra
del portone, è rappresentata la bottega con scaletta interna e la stanza retrostante (probabilmente il
retrobottega). La didascalia della figura cita, poi, la cantina sottostante e il mezzanino superiore, di cui
mancano le planimetrie.
24
ASR, Debito Pubblico, vol. 489, p. 62. Processo verbale n. 28 congresso del 1° maggio 1811
aggiudicazione del 30 aprile.
25
Ivi, p. 69.
26
ASR, Cancelleria del Censo di Roma, Serie II Catasto Urbano Catastini fabbricati 1824, reg. 1, p. 120.
27
ASR, Disegni e Piante, coll. I, c. 81, n. 314, 24 agosto 1824. I disegni sono due: il primo riproduce il «Prospetto attuale della Casa posta sulla Piazza di Spagna già spettante alla famiglia Archinto ed
acquistata da Giovanni Dies firmato dall’Architetto Pelucchj»; il secondo riguarda il «Prospetto della
Casa posta a Piazza di Spagna, e suoi miglioramenti da farsi nella medesima da Antonio Serny afferente
all’acquisto a forma della bolla di Gregorio XIII firmato dall’architetto Pelucchj». Quest’ultimo è riprodotto in L. SALERNO, Piazza di Spagna, Napoli, 1967, fig. 221.
28
ASC, Titolo 54, Piazza di Spagna 92-99 prot. 4393, anno 1863. Il fascicolo contiene due disegni
corrispondenti solo ai prospetti prima e dopo i lavori previsti.
29
ASC, Atti Urbani, sez. X, prot. 110, notaio Filippo Apolloni successore di Filippo Pellegrini,
atto del 3 gennaio 1829. Lo stesso atto è in ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 11, gennaio 1829. In
realtà, il fabbricato di via della Croce fu acquistato, da Clemenza e Francesca Rospigliosi, da Giuseppe
Salviucci, fratello di Anna seconda moglie di Sibilio. Il 7 agosto del 1829, però, lo stesso notaio stipulò
una «ricognizione di buona fede fatta dall’Illustrissimo Signor Giuseppe Salviucci a favore del signor
Francesco Sibilio» attestante che «l’acquisto sebbene fatto dal signor Salviucci in di lui proprio e particolar nome, la verità peraltro fu ed è che il medesimo spetta e liberamente appartiene al signor Francesco
Sibilio, evendone il medesimo signor Sibilio sborsato il denaro al detto signor Salviucci», in ASC, Atti
Urbani, sez. X, prot. 111.
30
Sui Demidoff cfr. da ultimo I Demidoff a Firenze e in Toscana, a cura di L. Tonini, Atti Convegno
Pratolino (14-15 giugno 1991), Firenze, Olschki, 1996. Sul rapporto tra il mecenate e Sibilio e sul
citato carteggio vedi S. CIRANNA, Francesco Sibilio, cit.
31
In ARCHIVIO DI STATO RUSSO PER GLI ATTI ANTICHI DI MOSCA (Russkij Gosudarstvennyj Archiv
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
153
Drevnych Aktov, RGADA), fondo 1267, filza 2, fascicolo 400, cc. 8-9.
32
Cfr. D. FELISINI, La mania del mattone. Investimenti immobiliari nella Roma dell’Ottocento, «Citta
e Storia», 2004, numero speciale per il congresso AISU di Roma, pp. 131-139, in particolare p. 136.
33
Cfr. M.L. NERI, Abitare a Roma. Intervento statale e iniziativa privata nell’edilizia residenziale
(1826-1846), in Roma fra la Restaurazione e l’elezione di Pio IX. Amministrazione, economia, società e
cultura, a cura di A.L. Bonella, A. Pompeo, M.I. Venzo, Atti del Convegno di Studi dell’Archivio di
Stato di Roma - CROMA (Roma, 30 novembre-2 dicembre 1995), Roma-Freiburg-Wien, Herder,
1997, pp. 293-327.
34
Cfr. S. CIRANNA, Gli spazi del lavoro, cit., pp. 126-127.
35
Nel gennaio del 1829, il costo dei restauri era stato stimato dall’architetto Giacomo Palazzi per
un valore di scudi 590. L’intervento di ristrutturazione eseguito da Sibilio è ricordato nell’atto del 23
settembre 1835, di assegnazione di dote a una delle sue due figlie, dove si riporta «possiede il Signor
Sibilio qui in Roma una casa da lui stesso rifabbricata posta in via della Croce n. 13 e 14 di tre piani,
oltre il piano terreno, stabile acquistato e rifabbricato». In ASC, Atti Urbani, sez. XL, prot. 158, cit.
36
ASR, Debito Pubblico, vol. 489 (Processi verbali, 1811). Processo verbale n. 55, Congresso del 20
giugno 1811, aggiudicazioni del 19 giugno 1811, pp. 181-185. A p. 182 «7°. Casa nel Rione Campo
Marzo, Via della Croce N. 13 e 14, composta di 3 Piani e Bottega, proveniente dal Monastero di S.
Silvestro in Capite, posta all’incanto ex officio per fr. 3.521,20, prodotti come sopra, la quale, estinta la
12° candela, è stata aggiudicata al Sig. Lelio Rospigliosi per fr. 10.755,79».
37
Leonardi assunse l’incarico appena conclusa la complessa stima dei marmi dell’eredità dello scultore Filippo Albacini, cfr. S. CIRANNA, Francesco Sibilio, cit.
38
Stima eseguita dall’architetto camerale del ministero delle Finanze il romano Sigismondo Ferretti,
domiciliato in via delle Stimmate 24.
39
Dalla descrizione nell’inventario del 1859, l’appartamento del primo piano risulta locato da
Leodato Minelli, a eccezione dell’ultimo ambiente, collegato al sottostante laboratorio di Sibilio tramite
una piccola scala a chiocciola.
40
Le due figlie Maria Luisa e Mariangela erano nate dal primo matrimonio di Sibilio con Clementina
Bancalari. Nel 1831 Maria Luisa sposò il dottore fisico Andrea Bancalari, e ricevette in dote il secondo piano
del fabbricato. Nel 1835 Maria Angela sposò il mosaicista Costantino Rinaldi, figlio di Gioacchino, e ottenne
in dote il terzo piano e le soffitte. In ASC, Atti Urbani, sez. XL, prot. 158, notaio Filippo Ciccolini.
41
«Giornale di Roma», 1861, n. 76, 4 aprile, p. 304.
42
«Giornale di Roma», 1859, n. 52, 5 marzo, p. 208.
43
ARCHIVIO ACCADEMIA DI SAN LUCA (AASL), Registro delle Congregazioni di Belle Arti, vol. 118, n.
49, Congregazione generale del 26 febbraio 1858.
44
Copia del testamento è conservato in ASC, Atti Urbani, sez. XXI, prot. 208, Notaio Domenico
Bartoli, 17 febbraio 1858 apertura di testamento di Filippo Albacini morto il 17 febbraio 1858. Il testamento era stato consegnato il 26 dicembre 1857.
45
Interessante è la lettera del mosaicista Vincenzo Raffaelli inviata il 1° maggio 1851 da San
Pietroburgo, dove questi aveva realizzato uno stabilimento di mosaici, al suo amico Filippo (chiamato
affettuosamente Pippo) per dissuaderlo dal proposito, evidentemente già maturato, di lasciare la sua
eredità all’Accademia di San Luca anziché ai suoi nipoti, AASL, Registro delle Congregazioni di Belle
Arti, vol. 165, n. 3.
46
Per volontà testamentaria di Filippo, le rendite provenienti dall’eredità dovevano sostenere l’istituzione del concorso triennale di scultura intitolato «Concorso Albacini» riservato ai soli scultori romani di genitori romani, e (in deficienza di questi) italiani.
47
Ivi, vol. 121, fasc. 66.
48
Ibidem.
49
Cfr. ad esempio The Artistical Directory or Guide to the Studios of the Italian and Foreign Painters
and Sculptors Resident in Roma to which are added the principal Mosaicists and Shell-engravers, Rome,
ed. Bonfigli, 1856; G. BRANCADORO, Notizie riguardanti le accademie di scienze ed arti esistenti a Roma.
Coll’elenco dei Pittori, Scultori, Architetti compilata ad uso degli Stranieri, e degli amatori delle Belle Arti,
Roma, s.i.t., 1834; C. PIVA, La casa-bottega di Bartolomeo Cavaceppi, cit.
154
SIMONETTA CIRANNA
50
ASC, Atti Urbani, sez. XXI, vol. 208, Notaio Domenico Bartoli, Inventario iniziato il 27 febbraio
e chiuso il 15 maggio 1858.
51
Ibidem. Tra le passività sono anche registrate le somme consegnate anticipatamente a Filippo dai
signori Lombardi e Bravo per il subaffitto di alcuni locali degli studi stessi, e precisamente «dall’Inquilino
dello Studio nel vicolo degli Incurabili N° 7 Sig.r Bombardi [sic!, Lombardi] per subaffitto del detto
Studio dal Diciotto Febraro sudetto a tutto Giugno prossimo, scudi venticinque, e Bajocchi Ottantasei, e
mezzo [e] Id. dal Sig.e Cav.r Bravo per pigione anticipata dell’altro Studio posto nel sudetto vicolo N° 6
scudi due e Bajocchi cinquantatrè, e mezzo».
52
ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 15, luglio 1814, f. 89r e sgg.
53
La mancanza di planimetrie allegate alle descrizioni e le successive trasformazioni degli isolati interessati rendono difficile un preciso riscontro.
54
ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 15, luglio 1814, cit.
55
ASC, Atti Urbani, sez. XXI, vol. 208, apertura di testamento in data 17 febbraio 1858.
56
AASL, Registro delle Congregazioni di Belle Arti, busta 176, n. 6, fascicolo inerente la causa
«Eccellentissimo Tribunale Civile di Roma. Secondo Turno. Romana di enfiteusi per la Insigne Pontificia
Accademia di S. Luca quale erede della ch. Mem. Filippo Albacini contro i Sig. Alfredo ed Achille Albacini,
e Silvia Basilico ved. Albacini qual di loro madre tutrice e curatrice, ed altri consorti della lite, Roma
1858». Il fabbricato era pervenuto al monastero dall’eredità del fu Ponzio Boratello a seguito di testamento
rogato per gli atti del notaio capitolino Trucca il 9 luglio 1591.
57
Notaio Silvestro Monti.
58
ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 15, luglio 1814, f. 89r e sgg.
59
Con questo nome si chiamavano a Roma i balconi esterni delle abitazioni e, in particolare, quelli
che davano verso il cortile.
60
La descrizione, successiva alla morte di Filippo, è tratta da AASL, Registro delle Congregazioni di
Belle Arti, busta 176, n. 6, causa tra l’Accademia di San Luca e gli eredi di Filippo Albacini.
61
Ivi. L’atto è del notaio capitolino Poggioli.
62
L’amministrazione del debito pubblico nelle province romane (1830-1880). Inventario, a cura di
M.G. Pastura Ruggiero, Roma, Tipografia L’Economica, 1991, p. 27.
63
ASR, Camerale I, Chirografi Pontifici, serie C, b. 288, ff. 48r-51v, e ff. 190r-200r, il notaio è
Filippo Apollonj Segretario di Camera dal 1831 al 1832.
64
Questa formula è tratta dall’atto stipulato da Filippo Albacini, vedi infra.
65
ASR, Notai della Reverenda Camera Apostolica, vol. 105 (1833), ff. 346r-353v.
66
Il termine, di origine medievale, indica la tassa di rinnovamento di tutte le concessioni di fondi
a lunga durata.
67
Cfr. Almanacco letterario, cit., p. 327.
68
Manuale artistico e archeologico ossia raccolta di notizie ed indirizzi riguardanti i stabilimenti, professori d’ogni genere, artisti e negozianti residenti in Roma, Roma, Tipografia A. Monaldi, 1845, p. 81. In
Almanacco Romano, cit., Tommaso (morto nel 1854) è riportato tra gli scalpellini a Ripa del Fiume 15.
69
ASR, Camerlengato, parte II, titolo IV, b. 209, fasc. 1342. Cfr. inoltre S. CIRANNA, Marmi
antichi colorati, cit.
70
O. NOËL - E. PALLOTTINO, Luigi Poletti, in Maestà di Roma da Napoleone all’Unità d’Italia, Catalogo della mostra (Roma 7 marzo-29 giugno), Milano, Electa, 2003, scheda X.3.9, p. 494; E. PALLOTTINO,
Luigi Poletti, Ivi, scheda X.3.10, pp. 494-495. Dall’inventario dei beni ereditari redatto alla morte di
Tommaso Della Moda, si evince che, ancora dopo la sua scomparsa, pagamenti per l’attività da lui
svolta come scalpellino nella basilica di San Paolo e per i Sacri Palazzi Apostolici furono eseguiti a favore
della figlia Marianna. Essi riguardavano «archi di marmo nella Basilica di S. Paolo da pagarsi da quella
Commissione. Verifica di tutte le colonne e pilastri di granito della medesima Basilica da pagarsi come
sopra. Restauro di una bagnarola di porta santa pel Museo Vaticano, dai SS. Palazzi Apostolici. Altri
piccoli lavori pei Musei Vaticani, e Lateranense da pagarsi come sopra. Lavori incominciati prima della
morte, e continuati dall’Eredità. N. Venti sgabbelloni di marmo e loro zoccoli di bardiglio pel Laterano
da pagarsi dai SS. Palazzi Apostolici. Restauro di quattro colonnette di pavonazzetto pure pel Laterano
da pagarsi dai SS. Palazzi Apostolici. Restauro della grande bagnarola di alabastro per Museo Vaticano,
DELLA «PRINCIPALISSIMA INDUSTRIA DELLA CITTÀ DI ROMA»
155
da pagarsi come sopra». In ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio I, giugno 1854, Filippo Bacchetti
Notaro, l’inventario è ai ff. 237r-417v.
71
Mary Berry un’inglese in Italia. Diari e corrispondenza dal 1783 al 1823. Arte, personagi e società, a
cura di B. Riccio, Roma, Ugo Bonzi Editore s.r.l., 2000, pp. 271-272.
72
ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio I, giugno 1854, Filippo Bacchetti Notaro. Il testamento è
allegato ai ff. 132r-142v.
73
Nell’inventario lo studio appare infatti riferito anche a questo secondo indirizzo.
74
ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 33, Notaio Antonio Sartorj atto del 21 dicembre 1838, ff.
557r-567v. La via dove ricade l’immobile è riportata come via delle Colonnelle anziché Colonnette.
75
Ibidem.
76
Tra i documenti allegati all’inventario risulta infatti riportata al n. 9: «Copia autentica del Processo
Verbale di Affrancazione del Canone gravante la suddetta Casa redatto dal Ministero delle Finanze nel
giorno 14 Ottobre 1848 a cui rimangono uniti gli atti preparatori riguardanti l’affrancazione». L’entità
del campione è inoltre confermata in ASR, Fondo Debito Pubblico, pacco 2859, «Registro d’iscrizione
delle partite per i canoni di congregazioni e luoghi pii liquidati a norma della notificazione 9 marzo
1848», n. 141 Monastero del Sagro Cuore alla Trinità dei Monti «Rendita annua di 32:93.7 che 31
derivante dall’affrancazione del canone già dovuto da Tommaso Della Moda sopra la casa in via delle
Colonnette N. 19 e 20, e 1:93.7 per accessori. Registro degli aumenti».
77
ASR, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 1, atto del 13 febbraio 1849, Notaio Filippo Bacchetti.
78
Le tre camere appartenevano alla famiglia D’Este. Questo appartamento, per volontà testamentaria, fu lasciato in uso da Della Moda alla moglie Casilde Moreschi, compreso delle 3 camere
in affitto. Per tali ambienti gli eredi universali, cioè i nipoti Alessandro e Tito Monachesi figli di
Marianna Della Moda, dovevano continuare a pagare l’affitto, tenuto conto che «a pagare la suddetta
corrisposta non solo bastano, ma sopravanzano le pigioni del primo piano della Casa, che a me appartiene, e perciò agli eredi miei non può essere pesante questa mia disposizione», cfr. l’inventario di
Tommaso Della Moda citato a n. 70.
FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE
NELLA ROMA DELL’OTTOCENTO
Nel 1836 il milanese Carlo Cattaneo scriveva: «le dovizie raccolte fra le incertezze e
le cure della vita industriosa [tendono] a riposarsi nella sicurezza e nella spensieratezza
della proprietà fondiaria»1. Settant’anni dopo, all’inizio del nuovo secolo, in un’Italia
ormai unificata, Francesco Saverio Nitti rilevava a sua volta «la grande scarsezza di
valori mobiliari in tutta Italia […] In nessuna regione italiana i valori mobiliari sorpassano gli immobiliari, quando viceversa li sorpassano in tutti i paesi ricchi»2. Con
lucido scoraggiamento l’uomo politico lucano sottolineava la preponderanza dei valori
immobiliari nella composizione dei patrimoni della borghesia italiana e la sua limitata
propensione al rischio. Tali elementi, secondo Nitti, erano alla base del ritardo dell’economia nazionale rispetto alle tendenze in atto nei maggiori Paesi europei.
Da punti di vista molto diversi, dunque, i due uomini politici mettevano in luce
una caratteristica tuttora riconoscibile dei ceti possidenti italiani, ossia la marcata e
durevole preferenza per l’investimento immobiliare, indipendentemente dall’origine
e dalla localizzazione territoriale dei capitali presi in esame. La tabella seguente −
composta sulla base di dati ricavati da atti successori del primo ventennio post-unitario3 − mostra infatti una tendenza sostanzialmente omogenea a livello nazionale, sia
pure con qualche significativa peculiarità:
Tab. 1 - Composizione percentuale dei patrimoni in otto città italiane 1862-82
Città
Immobili
urbani
Proprietà
fondiarie
Collocamenti
finanziari
Altro
Totale
Torino 1862-73
20
51
23
6
100
Milano 1871
14
48
31
7
100
Piacenza 1876-1879
12
69
15
4
100
Lucca 1876-79
18
57
22
3
100
Firenze 1862-82
17
44
28
11
100
Napoli 1876
38
26
28
8
100
Benevento 1876-79
15
40
31
14
100
Catanzaro 1876-79
24
51
19
6
100
158
DANIELA FELISINI
Taluni dati sono di immediata leggibilità, pur senza volersi addentrare nella storia dei singoli centri: le percentuali di Torino, ad esempio, si riferiscono alla fase di
incertezza e di crisi economica che colpisce la città piemontese dopo la perdita dello
status di capitale e prima della sua trasformazione in polo industriale4. A Napoli la
proporzione fra i beni fondiari urbani e quelli cosiddetti’rustici’ appare inversa rispetto a quella di altri grandi centri italiani, e questa si presenta come una caratteristica
ricorrente nella storia della città, anche prima del boom edilizio legato alla legge per
il «Risanamento» del 18845.
Nel complesso, al di là di queste notazioni specifiche, la tabella conferma l’elemento
comune alle osservazioni di Cattaneo e di Nitti: in essa spicca infatti la quota preponderante dei valori immobiliari sui patrimoni esaminati e, all’interno di questo dato, si
distingue la consistente percentuale rappresentata dalle proprietà urbane.
La casa dunque non solo si abita, ma si possiede. È un bene, e come tale si acquista,
si vende, si trasmette, si affitta. Tutte queste azioni danno consistenza e spessore ad un
mercato regolato da leggi economiche e da istituti giuridici, ma anche delle consuetudini dei gruppi sociali che compongono la popolazione cittadina e da aspirazioni e proiezioni individuali. L’insieme di questi fattori determina le pratiche di funzionamento
proprie del mercato stesso.
Ma come si configura questo mercato nella Roma dell’Ottocento? Quali ne sono gli
andamenti più rilevanti e le modalità distintive?
In questo articolo si vuole offrire qualche spunto di riflessione sugli elementi che
contribuirono a determinare forme e tendenze dell’investimento immobiliare nella
Roma pontificia, tenendo ben presente la coesistenza e l’intreccio talvolta inscindibile
di fattori di natura economica ed extraeconomica. Ci si soffermerà sugli andamenti demografici, su alcune fondamentali trasformazioni istituzionali e sulle loro conseguenze;
si farà cenno alle strategie sociali dei gruppi dirigenti cittadini; infine, si approfondiranno i fattori di natura più squisitamente economica.
Negli anni fra il 1810 e il 1870 la popolazione di Roma aumenta continuamente,
come mostra il grafico 16. Le statistiche asseverano la realtà di una Roma’attrattiva’,
polo di immigrazione per tutto il secolo, con la persistenza di un flusso migratorio prevalentemente maschile, a conferma di tendenze già rilevate in periodi precedenti7.
Il censimento del 1853 registrava 168.367 abitanti, distribuiti in 38.167 famiglie,
a fronte di 14.684 case (non era specificato il numero dei vani). Dai calcoli risultavano
dunque in media 2,6 famiglie per ogni casa e 4,6 abitanti per famiglia e ciò significava
circa 12 abitanti per casa. Sul totale censito, inoltre, poco più di 30.000 persone provenivano da altre province dello Stato pontificio e quasi 17.000 erano gli stranieri, vale
a dire che circa il 28% della popolazione non era stabile8. Il numero degli «artisti forestieri» presenti a Roma, ad esempio, continuò a crescere sino alla metà dell’Ottocento,
pur in una fase di ridimensionamento delle valenze del Grand Tour d’Italie9.
159
FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE
300.000
3.000
250.000
2.000
1.000
200.000
0
150.000
-1.000
100.000
-2.000
50.000
-
-3.000
1800 1805 1810 1815 1820 1825 1830 1835 1840 1845 1850 1855 1860 1865 1870 1875
ABITANTI SALDO NATURALE
ABITANTI
Grafico 1 – Popolazione di Roma 1800-1875
-4.000
ANNI
Si tratta di poche cifre, ma sufficienti a darci l’idea di una domanda di alloggi
sostenuta dall’aumento della popolazione, con un turnover reso più intenso dalla
consistente quota di abitanti non stabilmente residenti nella Capitale. Questi alimentavano un vivace regime dell’affitto e del subaffitto di appartamenti e locali ammobiliati, di porzioni di grandi dimore frazionate in abitazioni più modeste, che in
molti casi costitutiva la principale fonte di reddito per i ceti medi cittadini10. Come
vedremo, gli affitti, dagli anni Venti sottoposti ad una regolamentazione che ne vincolava l’entità, divennero ben presto oggetto di transazioni in deroga, alimentando
un sostanzioso mercato che oggi si definirebbe sommerso.
Ma dove abitavano le circa 37.000 famiglie che vivevano a Roma nei decenni centrali dell’Ottocento? Nel 1869-70 si calcolava vi fossero nella città circa 163.000 ambienti abitabili11. Una rilevazione statistica ci offre dati dettagliati, sulla base dei quali
abbiamo calcolato densità edilizie ed abitative, presentate nella seguente tabella 212.
Accanto agli andamenti demografici, importantissime nella movimentazione del
mercato immobiliare furono le trasformazioni politico-istituzionali e le loro conseguenze. Un primo esempio si può cogliere negli anni di presenza francese nella
Capitale: tra il 1798 e il 1814 le vendite delle proprietà dei luoghi pii portarono
ad una notevole mobilitazione di risorse verso il settore immobiliare. Anche se tali
transazioni furono in parte annullate nella prima e nella seconda restaurazione, esse
aprirono la strada ad importanti iniziative edilizie, e giunsero a condizionare alcune
direttrici di sviluppo urbanistico.
Ancora più visibili furono gli effetti sul mercato immobiliare degli avvenimenti
del 1870, non solo dopo la proclamazione di Roma come capitale del nuovo Regno
ma anche durante la fase di «attesa», si può dire di lunga preparazione di tale evento.
Si è parlato di Roma come di «una città che si muove»: ebbene il movimento ricevet-
160
DANIELA FELISINI
te un deciso impulso proprio dalle prospettive di mutamento politico-istituzionale
aperte dal processo di unificazione italiana. Durante l’ultimo decennio dello Stato
Pontificio, negli anni 1862-1871, a Roma si registrarono, infatti, oltre 1.700 transazioni immobiliari, per un valore nominale di circa 50 milioni di lire dell’epoca13.
Tab. 2 - Popolazione e densità abitativa dei rioni di Roma, 1871
Distribuzione
popolaz. per
rioni
%
Densità
rione
Densità
fabbricati
Famiglie
1846
ab./1000
mq
ab./1000
mq
n.
Superficie
totale
Superficie
fabbricata
Sup.
fabb.
/sup.
tot.
Abitanti
mq.
mq.
%
n.
4.318.490
838.400
19,4
35.940
13,5
16,3
8,3
42,9
5.961
Trevi
720.340
233.570
32,5
14.751
8,6
6,7
20,5
63,1
3.504
Colonna
597.940
231.710
38,8
13.569
7,1
6,2
22,7
58,6
2.096
Campo
Marzio
817.300
422.050
51,7
24.729
12,1
11,3
30,3
58,6
4.621
Ponte
335.290
189.600
56,7
23.504
9,5
10,7
70,1
124,0
4.271
Parione
186.970
129.930
69,5
14.125
6,2
6,4
75,5
108,7
2.432
Regola
312.700
175.380
55,9
16.360
6,8
7,4
52,3
93,3
4.525
S. Eustachio
179.210
137.940
77,1
8.687
4,3
3,9
48,5
63,0
1.760
Pigna
212.920
153.690
72,3
7.071
4,1
3,2
33,2
46,0
1.282
1.318.930
241.870
18,3
8.934
5,1
4,1
6,8
36,9
1.833
117.850
81.810
69,5
8.282
2,0
3,8
70,2
101,2
605
Ripa
2.529.960
140.800
5,6
5.221
2,9
2,4
2,1
37,1
1.513
Trastevere
1.851.790
556.270
30,0
26.025
11,9
11,8
14,1
46,8
5.306
Borgo
613.640
296.560
48,4
12.410
5,9
5,8
20,2
41,8
2.806
Totale
14.113.150
3.829.580
27,1
219.608
100
100
15,6
57,3
42.515
Rioni
Monti
Campitelli
S. Angelo
1871
Questo importo costituiva ben più della metà dell’estimo urbano nominale complessivo, di 86 milioni di lire, che elevava (secondo il ragguaglio tra valore nominale
e valore reale calcolato in 408 lire per ogni 100) il patrimonio immobiliare romano
ad una consistenza effettiva di circa 350 milioni di lire14. Ciò significava che una
porzione assai significativa dei 4.500 proprietari di immobili censiti a Roma nel
decennio aveva ritenuto opportuno proporsi sul mercato immobiliare, per cogliere le
FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE
161
opportunità che sembravano profilarsi nello scenario cittadino.
In questa fase di dinamismo intervennero istituti di credito e finanziari: per la
Cassa di Risparmio di Roma la partecipazione ad una società per l’edilizia popolare
sorta nel 1868 si presentava come il fiore all’occhiello di un ben più vasto reticolo di
impieghi, legati all’attesa di una Roma italiana. Pure Alessandro Torlonia, dopo aver
liquidato il suo Banco nel 1863, si dedicò, oltre che all’impresa del Fucino, a nuovi investimenti, estendendo la sua azione nel settore immobiliare15. Nuove società
immobiliari si costituirono, mentre si animava il dibattito sulle direzioni dell’espansione urbana e su le modalità e gli ambiti di intervento delle autorità16. Evidente era
pure la convergenza dei capitali stranieri verso il settore dei servizi collettivi urbani,
destinato ad un prevedibile, notevole sviluppo17.
Dopo il 1870 il mercato immobiliare di Roma e del suo circondario fu influenzato in misura decisiva da provvedimenti come l’alienazione dei beni ecclesiastici, le
modifiche degli istituti giuridici che regolavano le successioni, le revisioni dei catasti
ed il nuovo regime fiscale adottato nei confronti della proprietà urbana. Si trattava
di novità fondamentali, che avrebbero avuto effetti durevoli sul mercato immobiliare
romano, meritevoli di studi sistematici.
Un breve cenno si può riservare, in questa sede, alle considerazioni di natura sociale, che nelle transazioni riguardanti la casa sono embricate a criteri di valutazione
prettamente individuali. Nella conoscenza del mercato immobiliare, infatti, non può
essere d’aiuto la categoria paretiana dell’ophelos, ossia «l’indipendenza da ogni considerazione sul piacere psichico conesso all’acquisto»18. Come è stato posto in luce in
studi autorevoli, i soggetti implicati nelle transazioni sono immessi in costruzioni simboliche che ‘fanno’ il valore della casa; i postulati classici della domanda e dell’offerta
diventano un’astrazione illusoria di fronte ad un mercato che è il prodotto di una
costruzione sociale19. Le dinamiche della Roma ottocentesca mostrano, ad esempio,
tutta l’importanza delle scelte di imparentamento, con cui si intendono non solo le
alleanze matrimoniali delle casate maggiori, ma anche i più modesti patti nuziali tra
famiglie delle classi medie, del cosiddetto «generone». La storiografia più attenta ci ha
messi in guardia dallo stabilire troppo rigide e fuorvianti demarcazioni fra ceti e gruppi
per quanto riguarda le strategie sociali20. In tal senso una fonte particolarmente utile è
rappresentata dai fondi notarili, che consentono di conoscere i dettagli di transazioni di
diversa entità, visualizzando il mercato immobiliare come una rete di scambi.
Un fattore importante nel determinare l’afflusso di capitali in direzione delle costruzioni o ristrutturazioni di edifici era anche la valenza annessa alla visibilità sociale
della casata ed alle sue scelte di auto-rappresentazione21. Questa valeva soprattutto
per grandi acquisti e costruzioni di palazzi, ville, etc., si trattava cioè di un mercato di nicchia, ma in cui le transazioni erano relativamente frequenti soprattutto in
periodi di intensa trasformazione, come la già descritta fase di presenza francese a
Roma. In quegli anni, oltre che dalle alienazioni dei patrimoni fondiari ecclesiastici e
162
DANIELA FELISINI
doganali di cui si è detto, le necessità finanziarie spingono molti grandi famiglie del
patriziato − colpite da imposizioni straordinarie, dal calo delle rendite e dalla perdita
di valore dei titoli pubblici − a porre in vendita le loro proprietà urbane, mettendo
in moto un mercato di beni di grande valore. Le proprietà sarebbero state oggetto di
ristrutturazioni e cambi di destinazione, anche in connessione con una progressiva
modifica delle condizioni abitative urbane «strettamente legata ai valori d’uso e di
riconoscibilità di una residenza borghese […] plurifamiliare»22. Come vedremo poco
oltre, infatti, la domanda di alloggi oltre ad aumentare si andava diversificando.
Da ultimo si vogliono richiamare i criteri di natura più squisitamente economica, come quelli legati alla redditività dell’investimento e al margine di rischio ad
esso associato. Dopo il periodo francese a Roma − così come in altre città italiane,
ad esempio Milano − gli affitti erano notevolmente aumentati, tanto che una delle
istanze popolari più frequenti era quella per il ribasso «de’ quella porca de’ piggione»,
secondo la colorita espressione di Giuseppe Gioachino Belli23.
Nel 1824, in una situazione di notevole pressione, caratterizzata da offerta insufficiente, da inadeguatezza sia quantitativa sia qualitativa delle abitazioni e dalla previsione del grande afflusso di visitatori attesi per il Giubileo dell’anno seguente, Leone XII
cercò di contenerne gli effetti più negativi e stabilì il blocco dei fitti e degli sfratti. Negli
anni successivi il provvedimento venne più volte prorogato (nel 1826, 1829, 1832,
1835, 1837, 1838, 1842), poiché si constatatò che la domanda di alloggi non trovava
equilibrata risposta a causa della stasi edilizia24. Nella Roma affollata e immutabile di
Stendhal25 si costruiva poco, e ciò rafforzava una delle distorsioni tipiche del mercato
immobiliare, e in generale di tutti i mercati sottoposti ad una molteplicità di preferenze
di natura extraeconomica, ossia il difficile incontro fra domanda e offerta.
Il governo romano cercò dunque di stimolare l’edilizia privata e stabilì ampie
esenzioni fiscali per chi procedeva a nuove costruzioni o alla manutenzione straordinaria e «migliorativa» di quelle esistenti, accrescendo il numero di vani disponibili.
I dati rilevati mostrano che tale misura fu ampiamente utilizzata dagli operatori: un
esempio fra tutti è l’intervento effettuato sin dalla seconda metà degli anni Trenta
da Marino Torlonia nell’area fra via Condotti, via Borgognona, via Mario de’ Fiori e
via Bocca di Leone, che si inseriva nelle norme di riqualificazione urbana prescritte
nel 1824-182626. Nel 1837 Marino acquistò Palazzo Nuñez, progettato nel 1659
da Giovanni Antonio De Rossi, passato dai Nuñez a Luciano Bonaparte, principe
di Canino, e da questi al fratello minore Gerolamo, già re di Westfalia, il quale lo
cedette, insieme ad una serie di casamenti contigui, per la somma complessiva di
94.000 scudi (di cui 70.000 circa per il palazzo, 10.000 per gli oggetti d’arte ed il
mobilio in esso contenuti e 14.000 per gli altri edifici)27. L’architetto Antonio Sarti
procedette ad un’opera di abbellimento degli interni del palazzo, eletto a residenza
di quel ramo della famiglia Torlonia, e venne quindi incaricato della progettazione
e ristrutturazione dell’intero isolato in via Borgognona, composto di case a due e
FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE
163
tre piani destinate alla locazione. L’area sottoposta a risistemazione fu ampliata con
successivi acquisti, e l’intervento avrebbe rappresentato «un vero e proprio modello
di edilizia residenziale d’affitto […] imitato per tutto l’Ottocento»28. Le operazioni
immobiliari effettuate da Marino Torlonia negli anni Trenta si rivelarono, dunque,
investimenti assai fruttuosi con rendimenti elevatissimi, perché andavano incontro
alla crescente domanda di alloggi espressa in quegli anni dalla società romana ed ai
suoi mutamenti qualitativi.
Malgrado simili vantaggiose operazioni, le nuove costruzioni erano comunque
insufficienti a ridare fiato al mercato immobiliare, caratterizzato da una peristente
asimmetria tra domanda e offerta e turbato dai pesanti effetti del regime degli affitti
«bloccati». Quest’ultimo comportava, peraltro, numerose eccezioni e veniva largamente eluso, tanto che nel 1835 si ritenne necessario sollecitare «corporazioni ecclesiastiche, luoghi pii, e possidenti di case» affinché non apportassero ulteriori aumenti
alle pigioni «giunte da qualche tempo ad un saggio molto elevato». Pochi anni dopo,
nel 1838 un provvedimento escluse dal blocco gli affitti superiori ai 40 scudi annui.
In una simile situazione, caratterizzata da forti pressioni quantitative e da mutamenti qualitativi sul fronte della domanda, di un’offerta che stentava ad adeguarsi,
di contraddittori interventi normativi, l’investimento immobiliare poteva dunque
avere una redditività consistente, non solo in caso di rivendita del bene, ma anche
dal punto di vista degli affitti. Di ciò abbiamo conferma indiretta nel «Regolamento
operativo del Banco Torlonia» del 183429, che prevedeva l’erogazione di credito a
fronte della cessione da parte del cliente di «Fitti rustici ed urbani» di cui era titolare.
Questi figuravano, infatti, al primo posto fra le garanzie richieste per la concessione
di anticipazioni, la cui durata era limitata a tre anni, con precise indicazioni contrattuali: «la descrizione dei singoli stabili, dei quali ne vengono cedute le corrisposte, le
annate di fitto anticipatamente pagate, l’interesse pattuito sull’anticipazione, l’epoca
in cui scade la cessione». Tali dati potrebbero risultare preziosi per ricerche di storia
urbana, ma in proposito le fonti conservate non sono dettagliate come si vorrebbe.
La documentazione disponibile ci dice comunque che negli anni Venti-Quaranta del
secolo il reddito annuo per un proprietario, ufficialmente fissato ad un dodicesimo
dell’estimo catastale dell’immobile (8,3%), oscillava in realtà da poco più del 2% ad
oltre il 10% del valore di mercato dello stesso, sempre consistentemente superiore al
primo, ancor più per le botteghe che per gli stabili d’abitazione30.
Un confronto con i rendimenti medi di altre tipologie di impiego dei capitali,
come i depositi fruttiferi presso istituti bancari, quale la Cassa di Risparmio di Roma,
oppure i titoli pubblici, va tutto a vantaggio dell’investimento immobiliare, che aveva caratteristiche assai differenti, ma presentava contenuti di rischio comparabili. Ciò
vale a maggior ragione se consideriamo gli interessi sui titoli emessi sui mercati europei: mai superiori al 5-6% nella prima metà dell’Ottocento, questi infatti andarono
calando nel corso del secolo, mentre gli affitti a Roma ebbero una sostenuta tendenza
164
DANIELA FELISINI
al rialzo per tutto il ventennio 1850-1870 (addirittura raddoppiati o triplicati nel
caso delle botteghe), con una vera e propria impennata dopo il 187131.
Questi dati ci consentono di confermare la convenienza economica dell’investimento immobiliare, in un mercato in grado di adattarsi agli effetti distorsivi
di misure, come quella del blocco degli affitti o la cessione in enfiteusi perpetua
anziché in proprietà, tese a tutelare le fasce più deboli della popolazione cittadina,
sia pur con esiti contraddittori.
Questi spunti possono essere utili per individuare la pluralità di motivazioni,
embricate fra di loro e non facilmente distinguibili, che muovevano il mercato immobiliare romano nell’Ottocento. L’osservazione di quest’ultimo porta a riflettere
sulla complessità di un’istituzione − quella del mercato − a lungo considerata oggetto
di meccanismi automatici di regolazione, mentre le più recenti ricerche storiche e
teorizzazioni economiche guardano piuttosto al ruolo degli «attori», alle specificità
locali, alla molteplicità dei fattori che contribuiscono a modellarlo nel tempo.
Daniela Felisini
1
C. CATTANEO, Interdizioni israelitiche, Milano, 1836, edizione curata da L. Ambrosoli, Torino,
Einaudi, 1987, p. 72.
2
F.S. NITTI, La ricchezza dell’Italia, «Atti del Regio Istituto d’Incoraggiamento di Napoli», serie
IV, vol. I, Napoli, Società cooperativa tipografica, 1904, pp. 105-268.
3
La tabella è frutto della rielaborazione dei dati presentati da A.M. BANTI, Storia della borghesia
italiana. L’età liberale, Roma, Donzelli, 1996, p. 67, il quale ha a sua volta utilizzato i dati degli studi
di A.L. Cardoza, S. Licini, R. Romanelli, P. Macry, A. D’Argenio, D.L. Caglioti.
4
Sull’argomento vedi: V. COMOLI MANDRACCI, Torino, Roma-Bari, Laterza, 1989; La capitale per
uno Stato: Torino, studi di storia urbanistica, a cura di V. Comoli Mandracci, Torino, Ceud, 1983.
5
Sull’argomento vedi: C. DE SETA, Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1986; G. ALISIO, Napoli e il
risanamento: recupero di una struttura urbana, Napoli, Banco di Napoli, 1980; Napoli: contributo
allo studio della città, a cura della Società pel Risanamento di Napoli nel settantesimo anno della sua
fondazione, 3 voll., Napoli, L’arte tipografica, 1960.
6
Il grafico è stato elaborato sulla base dei dati riportati da P. CASTIGLIONI, Della popolazione di
Roma dalle origini ai nostri tempi, Roma, Tip. Elzeviriana, 1878.
7
Sull’argomento vedi: Popolazione e società. Roma dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di E.
Sonnino, Roma, Il Calamo, 1999.
8
MINISTERO DI AGRICOLTURA E COMMERCIO. DIREZIONE CENTRALE DELLA STATISTICA, Statistica
della popolazione dello Stato Pontificio nell’anno 1853, Roma, Tipografia della R.C.A., 1857.
9
Sul tema vedi: E. GARMS-J. GARMS, Mito e realtà di Roma nella cultura europea. Viaggi e idea,
immagine e immaginazione, in Storia d’Italia, Annali, 5, Il Paesaggio, a cura di C. De Seta, Torino,
Einaudi, 1982, pp. 561-662: pp. 624 sgg.
10
F. BARTOCCINI, Roma nell’Ottocento, Bologna, Cappelli, 1988, pp. 208-210.
11
Il dato è riportato da P. DELLA SETA-R. DELLA SETA, I suoli di Roma, Roma, Editori Riuniti,
1988, p. 15.
FORME E TENDENZE DELL’INVESTIMENTO IMMOBILIARE
165
12
La tabella è stata costruita elaborando i dati riportati in DIREZIONE GENERALE DELLA STATISTICA,
Notizie sulle condizioni edilizie e demografiche della città di Roma e di alcune altre grandi città italiane
ed estere nel 1871, Roma, Tip. Eredi Botta, 1889, e i dati contenuti negli «Stati delle Anime» citati da
G. FRIZ, La popolazione di Roma dal 1770 al 1900, «Archivio Economico dell’Unificazione Italiana»,
Roma, Edindustria, 1974.
13
L’importo era pari a circa 9,3 milioni di scudi, secondo il cambio 1 scudo pontificio = 5,37 lire
nuove d’Italia.
14
REGNO D’ITALIA, Statistica finanziaria pel 1871. Prospetti e tavole grafiche, Roma, 1872, pp. 112113 e 118-119.
15
Su questa fase devo rinviare a D. FELISINI, Il denaro di S. Pietro. Finanze pubbliche e finanze private
nello Stato Pontificio dell’ultimo decennio, in Lo Stato del Lazio 1860-1870, a cura di F. Bartoccini-D.
Strangio, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1997, pp.189-229.
16
Una ricostruzione del dibattito si trova in A. CARACCIOLO, Roma capitale, Roma, Editori Riuniti,
1984, pp. 75-104. Spunti interessanti per uno studio con approccio comparativo possono venire dalla
ricerca di M. LESCURE, Les banques, l’Etat et le marché immobilier en France à l’époque contemporaine
1820-1940, Paris, Ehess, 1982.
17
Sulle trasformazioni edilizie legate ai servizi, in particolare a quelli di trasporto, vedi I. INSOLERA,
Roma. Immagini e realtà dal X al XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 381-386.
18
V. Pareto (1848-1923) propose tale concetto nel Corso di economia politica (seguito nel 1906 dal
Manuale di economia politica) pubblicato nel 1897-98, frutto delle lezioni svolte a Losanna, dove dal
1894 era stato chiamato da Leon Walras a succedergli nella cattedra di economia politica.
19
P. BOURDIEU, Les structures sociales de l’économie, Paris, Seuil, 2000, pp. 18 sgg.
20
Vedi, ad esempio, in tal senso C. CAPRA, Nobili, notabili, élites: dal’modello’ francese al caso italiano,
«Quaderni Storici», XXXVII, 1978, 1, pp. 12-42.
21
Questa complessa relazione è ben messa in luce da G. NENCI nel saggio Aristocrazia romana tra
‘800 ‘900. I Rospigliosi, Quaderni di «Proposte e Ricerche», n. 30, Ancona, 2004.
22
M.L. NERI, Abitare a Roma. Intervento statale e iniziativa privata nell’edilizia residenziale
(1826-1846), con appendice curata da I. Salvagni, in Roma fra la Restaurazione e l’elezione di Pio IX.
Amministrazione, economia, società e cultura, Atti del convegno di studi ASR - CROMA (Roma, 30
novembre-2 dicembre 1995), a cura di A.L. Bonella-A. Pompeo-M.I. Venzo, Roma-Wien, Herder,
1997, pp. 293-327: 314.
23
Sulle vicende residenziali del poeta, in quanto esponente del ceto medio romano, vedi S.
REBECCHINI, G.G. Belli e le sue dimore, Roma, Palombi, 1970.
24
Il provvedimento del 1829 recitava espressamente che «non si è potuto ottenere ancora quella
moltiplicazione di luoghi abitabili, e di botteghe che è necessaria per equilibrarne il numero al preciso
bisogno degli abitanti, specialmente de’ poveri», vedi Notificazione del Segretario di Stato del 28 aprile
1829, ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, Collezione Bandi, b. 196.
25
Numerosi sono i riferimenti che in tal senso troviamo nelle sue Promenades dans Rome, éditions
établie et annotée par V. Del Litto, Paris, Gallimard, 1997.
26
Per poter godere dell’esenzione fiscale i proprietari erano tenuti a far approvare i progetti di costruzione, ristrutturazione o sopraelevazione da parte di tre architetti a loro scelta fra gli Accademici di
San Luca. Ciò si prestò a committenze e sodalizi, come pure ad accordi e frodi, vedi M.L. NERI, Abitare
a Roma, cit., pp. 293-327.
27
ARCHIVIO DI STATO DI ROMA, Trenta Notai Capitolini, Ufficio 4, notaio Calvaresi, 1837, vol. 646.
28
M.L. NERI, Abitare, cit., p. 306.
29
Vedi il «Regolamento amministrativo dell’azienda bancaria», 1834, ARCHIVIO CENTRALE DELLO
STATO, Archivio Torlonia, b. 266, s. fasc. 5.
30
Contratti con clienti, Ivi.
31
Vedi i dati riportati in Appendice da G. FRIZ, Consumi, tenore di vita e prezzi a Roma dal 1770 al
1900, «Archivio Economico dell’Unificazione Italiana», Roma, Edindustria, 1980, p. 471.
LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE: L’APERTURA DEL TUNNEL
DEL QUIRINALE E IL PALAZZO DEL DRAGO
Questo studio si è avvalso del materiale documentario e iconografico ancora inedito del Fondo Ufficio V-Piano Regolatore dell’Archivio Storico Capitolino riguardante il prolungamento della via dei Due Macelli, la realizzazione del tunnel e l’assetto degli spazi urbani antistanti. Si è ritenuto di trattare alcuni aspetti e questioni
inerenti la sistemazione dell’accesso Nord del traforo, ed in particolare il palazzo del
Drago, subito interessato da una parziale demolizione a seguito dei lavori; le vicende
relative alla sua ridefinizione, strettamente connessa a quella, incerta e dibattuta, del
proprio intorno urbano, offrono in tal senso uno strumento di lettura non privo di
interesse, anche in relazione alle controversie tra le parti che un tale stato di cose ebbe
inevitabilmente a causare.
*****
La direttrice di espansione verso Est è stata fatta risalire ad un orientamento antagonista «a tratti risorgente nella lunga vicenda urbana di Roma, e carico, fin dall’alto
medioevo di un preciso significato ideologico»1. Dagli interventi urbani posti in essere da Sisto V alle operazioni fondiarie di mons. Francesco Saverio de Merode, la
scelta di indirizzare l’espansione urbana lungo l’asse Esquilino-Viminale trova ulteriore attuazione nella collocazione della stazione ferroviaria di Termini. Con l’avvento
del governo sabaudo, sarà Quintino Sella a proporre per la nuova Roma un’analoga
ipotesi di sviluppo in direzione opposta al Vaticano2.
La necessità di collegare agevolmente il centro urbano ai nuovi quartieri, alla quale
in generale si fece fronte con una strategia urbana basata essenzialmente sul ricorso
agli sventramenti e sul conseguente «adeguamento» dell’esistente, impose una scelta
di tipo diverso per ciò che riguardava il tracciato viario che, in prolungamento della
via dei Due Macelli, avrebbe dovuto connettere la città storica con la via Nazionale
e quindi con gli insediamenti di piazza Vittorio e dell’Esquilino. La principale difficoltà stava nella particolare conformazione altimetrica dei suoli: «La via del Babuino»,
affermava Alessandro Viviani nella relazione descrittiva che accompagnava il Piano
168
RAFFAELLA CATINI
Regolatore del 1873, «giunta alla via traversa del Tritone è giocoforza devii dal suo
andamento e salga con pendenze sensibili e lunghe, se si voglion raggiungere i nuovi
quartieri e la stazione»3. In quest’ottica, la realizzazione di un tunnel al di sotto dei
giardini del Quirinale avrebbe costituito una soluzione costruttiva realmente efficace
ed economicamente vantaggiosa, senza contare il carattere di modernità dell’opera,
all’avanguardia dal punto di vista tecnologico e strutturale e dunque tanto più degna
di una capitale. Di ciò appare assolutamente persuaso il Viviani, il quale si fa promotore del tunnel in quella stessa relazione, portando l’esempio della galleria realizzata
da Adam Clark sotto la collina della Fortezza a Buda4, evidenziandone i vantaggi e i
costi contenuti:
Si prolunghi […] in linea perfettamente retta, e si trafori per soli duecento metri il colle
Quirinale al disotto del giardino reale, e si raggiungerà quasi in piano la valle del Viminale
e la via Nazionale, e poco più oltre il prolungamento della via Strozzi. Il rettifilo di due
chilometri che ne risulterebbe sarebbe la più felice soluzione di quante ne siano state
immaginate per collegare nel modo più diretto e più breve la parte più nobile della vecchia città colla nuova e colla stazione. Né deve spaventare l’idea di un breve tunnel, che
l’esempio non ha pregio o difetto di novità, e la spesa ne sarebbe mite assai più che non
si pensi. I tunnels in condizioni più difficili e col loro rivestimento murario costano circa
1000 lire a metro corrente; si raddoppi pure questa spesa per più ampia sezione, per lusso
di prospetti e di interna costruzione, non spenderemo forse che quattrocento mila lire;
mezzo milione nel pessimo dei casi5.
Il risparmio sulle opere da eseguirsi sarebbe stato considerevole, concludeva
Viviani, anche qualora si fosse voluto dotare il tunnel di «ampi lucernari nel sovrapposto giardino»6.
Nonostante non avessero avuto seguito in termini attuativi7, gli indirizzi dettati
dal piano del 1873 costituirono un riferimento imprescindibile, in una situazione
di vacatio legis, sia per le iniziative dei privati sia per quelle dello stesso Comune: il
tunnel sotto il Quirinale fu riproposto tra le grandi opere pubbliche di più urgente
attuazione dal piano del 1883.
Presentato dal Viviani con notevole ritardo rispetto alla scadenza indicata dalla
convenzione tra lo Stato ed il Comune di Roma del 14 novembre 1880 − poi divenuta legge n. 209 del 14 aprile 1881 −, il primo Piano Regolatore di Roma capitale
prevedeva infatti sia lo sventramento della via del Tritone, limitatamente al tratto
superiore da piazza Barberini all’incrocio con la via dei Due Macelli, sia il prolungamento di quest’ultima ed il traforo: veniva evidentemente ritenuto opportuno privilegiare per le ragioni sopra citate, per ciò che riguarda i tempi di attuazione, non
tanto il collegamento con piazza Colonna, quanto quello con la via Nazionale e i
nuovi insediamenti di piazza Vittorio e dell’Esquilino.
Caratteristica di quest’opera fortemente voluta dall’amministrazione comunale
fu una palese mancanza di attenzione nei confronti dell’intorno urbano, tant’è che il
problema della sistemazione degli accessi del traforo, ed in specie dell’imbocco Nord,
si pose in tutta la sua gravità ed urgenza ad opera compiuta: un’arteria pensata per
LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE
169
convogliare un traffico veicolare e pedonale intenso, inserita in un contesto urbano a
scala differente e, di fatto, ancora impreparato in termini strutturali e funzionali.
L’area interessata dalla costruzione del tunnel relativamente all’ingresso Nord è
delimitata da via dei Giardini – già del Giardino Papale – , via in Arcione e via
Rasella, «che salendo agiatamente conduce al grandioso palazzo Barberini» ed era
«adorna di graziose case»8. Il palazzo del Drago, già Gentili, era situato dirimpetto
alla chiesa di San Nicola in Arcione, nella quale si custodivano le spoglie di Ridolfino
Venuti, demolita tra il 1907 e il 1908 ancora nell’ambito dei lavori di sistemazione
della zona. Nel 1872 il piano nobile del palazzo aveva ospitato la sede del famoso
Circolo nazionale, inaugurato nel mese di febbraio di quello stesso anno, «brillante
centro di attività ricreative (per lo più balli e concerti) che fu oggetto di grandi consensi nella Roma postunitaria e si trasferì in seguito nel palazzo dei Sabini in via delle
Muratte, e poi in piazza Colonna, sopra il portico di Veio»9.
Il decreto prefettizio di espropriazione della porzione del palazzo interessata dai
lavori porta la data del 27 aprile 1900 (fig. 1); la presa in possesso dei beni avvenne
il successivo 21 maggio. Nel verbale redatto in quell’occasione è contenuta una dettagliata descrizione dello stabile espropriato, dalla quale è possibile evincere che il
pianterreno era stato adibito a rimessa ed esposizione di vetture di tal Coccia Nicola
e che al secondo piano mons. Pietro Crostarosa aveva istituito una scuola privata
femminile. Il palazzo non costituiva la residenza del principe, il quale dimorava nella
residenza al numero 20 di via delle Quattro Fontane. Cesare Rebecchini, procuratore
comunale, rendeva noto all’Ufficio legale l’avvenuta asportazione di infissi ed altri
oggetti10: la cosa appare significativa alla luce dei rapporti mai idilliaci tra Filippo del
Drago e l’amministrazione capitolina.
La demolizione ebbe termine entro la prima metà dell’agosto del 1900: in una
lettera del 14 del mese indirizzata al sindaco di Roma, Filippo del Drago chiedeva
che l’area ormai libera venisse esplorata, considerata «la grande probabilità di rinvenimento di oggetti d’importanza artistica e archeologica, che ho fondata fiducia potersi
rinvenire in quella località»11. L’amministrazione glissò sulla richiesta del principe,
ravvisando nelle sue parole un tentativo di vendere «il sol d’agosto»; di lì a poco acconsentì, peraltro, a restituirgli un relitto d’area già espropriata per rendere possibile
l’allineamento del prospetto sulla nuova arteria ricostruendo «una fronte decorosa».
Riconsegna che non sarebbe evidentemente potuta avvenire in tempi brevi poiché
l’area era di fatto occupata dal cantiere del tunnel.
Avendo avuto rassicurazioni dall’assessore Antonio Teso riguardo ai tempi ormai
imminenti dello smantellamento del cantiere − il traforo, intitolato ad Umberto I, fu
inaugurato nel settembre 1901 −, il 26 di settembre 1901 Filippo del Drago sottoscrisse un atto di conciliazione col Comune di Roma, nel quale però, a motivo dell’assenza dell’assessore, non veniva fissato il termine per la restituzione del terreno.
Trascorso inutilmente il mese di ottobre, alla lettera di sollecito di Filippo del Drago
170
RAFFAELLA CATINI
del 12 novembre12 seguì una seccatissima nota di risposta da parte del sindaco, nella
quale quest’ultimo ricordava che soltanto in fine di settembre era stato stipulato il contratto per la conciliazione dell’indennità di espropriazione parziale del suo palazzo in
via in Arcione: «Ella parimenti non deve aver dimenticato che all’art. 2 fu stabilito, che
la zona d’area, lungo il confine della residua sua proprietà, le sarà consegnata in epoca
da fissarsi d’accordo fra il Comune e la S.V.»13. Non solo: alla replica del principe che
rammentava i precisi accordi presi con l’assessore Teso, questo rispose negando di aver
mai indicato alcun termine preciso in merito alla consegna14.
Nel novembre 1901 il principe decise di inoltrare comunque una richiesta di
licenza: il progetto, redatto da Giovanni Battista Giovenale, consisteva nel completamento dell’edificio «mediante la costruzione di due nuovi prospetti: uno sul prolungamento di via Due Macelli e l’altro sulla via dei Giardini»15. L’altezza del fabbricato
sarebbe rimasta invariata sulla via in Arcione, eccetto che per il cornicione esistente
posto al di sotto dell’attico, da ricostruirsi a coronamento dell’edificio. L’istanza venne approvata, salvo la medesima condizione riportata nell’atto di conciliazione, e cioè
che la licenza non sarebbe potuta essere rilasciata «fino a quando non sia stabilita fra
il Comune ed il Principe l’epoca nella quale si potrà consegnare una lista di terreno
in prolungamento di via Due Macelli per fare il prospetto sulla nuova strada»16.
Nel mese di febbraio 1902, all’ennesima richiesta − con tanto di minaccia di
ricorrere in giudizio − da parte del principe in ordine alla restituzione del relitto
d’area, il sindaco Prospero Colonna rispose di aver già informato Giovanni Battista
Giovenale di aver dato disposizioni all’impresa Spadari al fine di effettuare lo sgombero entro un mese
da scadere al 20 marzo prossimo; e ciò perché egli possa compiere i lavori necessari all’accesso dei suoi carri e dei materiali fra la via del Tritone e l’ingresso del tunnel. Unica
riserva convenuta col predetto sig. Giovenale che vale per l’E.V. e per l’impresario, è stata
quella di tollerare qualche breve indugio alla consegna della zona di terreno su indicata,
se le piogge fossero così persistenti da occasionare qualche interruzione nell’eseguire i su
indicati lavori17.
Trascorso anche questo termine, Filippo del Drago ricorse, come promesso, alle vie
legali con una citazione, cui il Comune, dopo alcune perplessità, rispose dichiarando la
propria disponibilità ad un accordo per una risoluzione bonaria della vicenda18.
Le ragioni di una simile titubanza da parte dell’amministrazione erano evidentemente connesse alla grande incertezza riguardo alla sistemazione degli accessi del
traforo, divenuta, a lavori compiuti, una questione indifferibile. E l’incertezza era
tale che, mentre proseguivano le trattative per definire la vertenza col principe del
Drago, l’Ufficio tecnico comunale andava redigendo un nuovo progetto di sistemazione dell’accesso Nord del traforo nel quale erano previste nuove espropriazioni,
tra cui quella di un’ulteriore porzione del palazzo del Drago: in luogo della piazza a
forma di imbuto del primo progetto, sulla scorta del quale si era peraltro dato luogo
agli sventramenti, la nuova ipotesi di sistemazione prevedeva uno spazio rettangolare
LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE
171
Fig. 1. Secondo la prima stesura del progetto,
sulla scorta della quale si era dato inizio alle
demolizioni, il prolungamento della via dei
Due Macelli prevedeva la realizzazione di una
piazza trapezoidale antistante l’accesso Nord
del traforo. La planimetria mostra in sovrapposizione il nuovo tracciato viario e gli edifici
da demolirsi (ASCR, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47 fasc. 1)
Fig. 2. La sistemazione dell’ingresso Nord
secondo il successivo progetto, approvato
nel dicembre 1902 (ASCR, Ufficio V, Piano
Regolatore, pos. 47 fasc. 1)
172
RAFFAELLA CATINI
della larghezza di trentasei metri, delimitato sulla sinistra dal fronte del noto palazzo
− ulteriormente modificato in ragione delle nuove demolizioni e ricostruito con sette
campate di portici per uso pubblico al pianterreno − e sul lato opposto da un nuovo
edificio del tutto simmetrico.
La 182a proposta presentata nel corso della seduta segreta del Consiglio comunale
del 5 dicembre 1902 aveva per argomento la messa a punto di un programma per
l’esecuzione di alcune opere di Piano Regolatore, in conformità delle leggi 20 luglio
1890 e 7 luglio 1902, tra le quali la sistemazione dell’accesso Nord al traforo:
Punto di partenza per la determinazione di siffatto programma era necessariamente il
bisogno di provvedere a che importanti e costose opere pubbliche, già eseguite o prossime
a compiersi, fossero poste a contatto del maggior traffico e avessero accessi facili e degni,
sia per evitare pericolosi agglomeramenti di veicoli e pedoni in vie ristrette e tortuose, sia
perché non avessero a rimanere in deplorevole e dannoso isolamento.
Quindi, il bisogno immediato di provvedere innanzitutto agli accessi del traforo Umberto
I dal lato settentrionale. L’avvenuto ravvicinamento, per mezzo del Traforo stesso, delle
vallate del Campo Marzio con le alture del Viminale, del Quirinale e dell’Esquilino renderà
talmente intenso il traffico che non solo ragioni di estetica edilizia, ma stringenti esigenze
d’ordine pubblico impongono fin d’ora di provvedere a che le provenienze ascendenti e
discendenti del quadrivio si raccolgano in un conveniente centro, che prospetta appunto
l’ingresso del traforo.Ciò non basta, però. Per la piazza Barberini scendono dai quartieri
Sallustiano, Ludovisi e Castro Pretorio all’ingresso del traforo alcune vie, la maggiore delle
quali, quella cioè che a tutt’oggi ha rappresentato la principale arteria del movimento, è la
parte superiore di via del Tritone, stretta, disagiata, insufficiente. […] Soccorrono altre vie
minori, quali quelle degli Avignonesi, Rasella, dei Giardini, in pessime condizioni edilizie
sotto tutti i rapporti. Lo sbocco di queste vie minori sul piazzale che si dovrebbe formare
all’ingresso del traforo, offrirebbe, come offre al presente, tanto indecente spettacolo, che
la dignità della città non lo può permettere […] mentre è nel tempo stesso una assoluta
necessità dare sfogo alle correnti dei passanti per altra arteria di maggiore importanza, che
non sia il troppo modesto tratto superiore di via del Tritone. Si affaccia naturale il pensiero d’ampliare il predetto tratto superiore di via del Tritone sino all’incontro del piazzale
da costruirsi per l’ingresso al traforo Umberto I. Il nuovo tratto, costituito in ampiezza
capace di sostenere il traffico delle provenienze discendenti dai quartieri alti, e moderato
nelle sue pendenze, sarebbe il necessario complemento dell’opera pubblica tanto attesa
dalla cittadinanza e tanto degnamente riuscita19.
Il progetto, redatto dall’Ufficio tecnico municipale e approvato nel corso di
quella stessa seduta consiliare, prevedeva l’allargamento fino a venti metri di sezione del tratto superiore della via del Tritone, da piazza Barberini fino all’intersezione col prolungamento della via Due Macelli, così che la strada veniva a perdere
ogni continuità assiale con la via dell’Angelo Custode che discendeva verso piazza
Colonna. La nuova via dei Serviti, larga diciotto metri, sarebbe stata invece traslata
parallelamente al proprio asse al di sopra di un isolato perché potesse collegarsi
direttamente all’invaso della piazza antistante il tunnel (fig. 2).
Null’altro appariva trapelare riguardo alla definizione di quello spazio architettonico: nel gennaio 1903, a pochi giorni dall’approvazione del progetto, l’ingegner
Giulio Ceas, rilevando la evidente mancanza di uno studio per conferire una «dispo-
LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE
173
sizione architettonica» all’insieme «tale da potere ottenere punti di vista e decorazioni
artistiche»20, pubblicò una proposta di sistemazione dell’incrocio di via del Tritone
con la via del Traforo, nella quale, aumentando l’entità delle espropriazioni, veniva
prevista una piazza circolare di cinquantaquattro metri di diametro, delimitata da
edifici dagli angoli stondati e coronati da timpani circolari, nella quale andava a confluire anche la nota via Nuova, più volte proposta, di sezione pari alla rinnovata via
del Tritone, che avrebbe consentito un collegamento diretto con la via del Lavatore
e con la piazza di Trevi. Di per sé «decorosa», la piazza sarebbe potuta risultare, a
giudizio del Ceas, ancor più «imponente ed armoniosa» smussando maggiormente
gli angoli degli edifici e portando il diametro a settanta metri, ciò che avrebbe però
necessariamente implicato un superamento dei limiti di spesa (fig. 3-4).
La proposta del Ceas rimase inascoltata; pur oggettivamente lacunoso, il progetto
elaborato dal Comune vene ritenuto sufficientemente definito nelle sue linee principali da consentire di risolvere la vertenza col principe del Drago.
Nel corso delle trattative, il principe aveva fatto sapere di essere disposto a chiudere la vicenda dietro corresponsione di una rendita pari a duemilaseicentoquarantacinque lire mensili (a decorrere dal mese di marzo 1902 fino alla data della definitiva
consegna dell’area), a titolo di indennizzo per il mancato reddito, computata in base
al guadagno che si sarebbe potuto avere affittando le diciassette camere sulle vie
principali e sulla via dei Giardini «in ragione di 40 lire mensili ciascuna»21. Ritenuto
l’importo assolutamente eccessivo, il Comune nella persona dello stesso Alessandro
Viviani22 diede incarico a Gualtiero Aureli, architetto ingegnere in servizio presso
l’Ufficio V, di effettuare una stima ed elaborare una controproposta.
La valutazione dell’Aureli stabilì che la rendita non potesse stimarsi in alcun caso
superiore alle milleseicento lire mensili23; poiché il principe aveva dichiarato di poter
abbassare «di un solo decimo la sua pretesa»24, il Comune si disse disposto ad arrivare
ad una somma non maggiore di duemila lire mensili. La proposta fu approvata a grande maggioranza dal Consiglio comunale nella seduta del 16 gennaio 1903; il successivo
23 marzo venne stipulato l’atto di liquidazione di danni e interessi tra il Comune di
Roma e don Filippo del Drago, a seguito del quale il principe avrebbe ricevuto un’indennità pari a duemila lire mensili a decorrere dal 20 marzo 1902 «da proseguire fino
alla effettiva e materiale consegna dell’area retroceduta a Sua Eccellenza − oltre il rimborso della differenza d’interesse sopra la somma di £. 29.305 e cent. 75 depositata alla
banca d’Italia a garanzia della ricostruzione sull’area retroceduta»25.
Soddisfatto il principe, non restava al Comune che provvedere tempestivamente
al fine di restituire l’area e porre fine al pagamento di una somma così rilevante.
Nella seduta consiliare del 20 maggio veniva formalmente istituita una commissione,
composta da Marco Ceselli, Vittorio Scialoja, Giovanni Antonio Vanni ed Enrico
Rasponi, «con l’incarico di studiare e sottoporre all’on. Giunta una proposta concreta
per definire la questione del Drago»26.
Fig. 3. G. CEAS, Sistemazione in Roma dell’incrocio di via del Tritone con via del Traforo, via Nuova etc.; planimetria d’insieme, gennaio 1903.
174
RAFFAELLA CATINI
LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE
175
Fig. 4. G. CEAS, Sistemazione in Roma dell’incrocio di via del Tritone con via del Traforo, via Nuova etc., veduta
prospettica.
Fig. 5. Planimetria dell’area di accesso al tunnel. La tinta più scura evidenzia il relitto d’area triangolare
concessa al principe del Drago a seguito della conciliazione sottoscritta col Comune di Roma nel 1905
(ASCR, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1).
176
RAFFAELLA CATINI
Il 13 luglio il Ministero dei Lavori Pubblici, nell’accordare il visto per il pagamento dell’indennità, osservava come sembrassero «eccezionalmente onerose le
condizioni pattuite con la convenzione 23 marzo 1903 fra cotesto Municipio ed il
principe del Drago […]. Credesi perciò opportuno richiamare sulla cosa l’attenzione
di cotesto Onorevole Municipio acciò voglia cercar modo di far cessare al più presto
possibile quell’onere gravosissimo, sia affrettando la consegna dell’area in discorso,
sia sollecitando quegli altri provvedimenti da cui dipendesse la definitiva sistemazione di quella località»27.
In una nota dell’8 di agosto28 l’assessore Vanni dava disposizioni affinché venisse
calcolato con esattezza il corrispettivo di esproprio relativamente al secondo progetto
approvato; chiedeva inoltre di eseguire l’identico calcolo considerando un’ipotetica
rinuncia ai portici ed un restringimento della piazza di accesso. I calcoli dimostrarono che la soluzione meno gravosa sarebbe stata quella di procedere all’esproprio totale del palazzo, tanto più che ai costi dell’operazione sarebbe stato possibile detrarre
il valore dell’area di risulta, di proprietà dell’amministrazione; unico neo una certa
complessità della procedura, a causa della quale il Comune sarebbe stato tenuto a
corrispondere l’indennità ancora per un lungo tempo.
Rilevava lo stesso Vanni in un promemoria per l’ing. Rodolfo Bonfiglietti:
la piccola area per cui tale indennizzo viene corrisposto sarebbe pronta per la riconsegna al
principe; ma tale riconsegna non farebbe che aggravare la posizione del Comune quando
dovesse procedere a nuovi espropri, perché il principe si affretterebbe medio tempore a
ricostruire su la predetta area. Ora essendo un onere di £. 24000 all’anno ben gravoso;
non vedendosi quando potrà cessare se si prosegue l’idea di nuovi progetti che comunque
tocchino ancora il palazzo del Drago; né potendosi permettere la continuazione di tale
anormalissimo stato di cose […] l’unico partito che finanziariamente s’impone è quello
di tornare al primitivo progetto di sistemazione del largo avanti al Traforo, con quelle
secondarie varianti che l’ufficio reputasse opportune29.
Il 19 settembre 1903 ebbe luogo la riconsegna del relitto d’area a Filippo del
Drago; il 28 dello stesso mese il principe presentò una richiesta di autorizzazione
per eseguire il restauro e il completamento del proprio palazzo, «già approvata da
cotesta Amministrazione comunale in data 4 dicembre 1901»30. La licenza gli venne rilasciata «con dichiarazione che il Comune dopo la regolare pubblicazione del
piano di massima, ha richiesto il Regio Decreto per causa di pubblica utilità, e per
conseguenza nella detta futura espropriazione non si terrà conto del maggior valore
derivante da nuove costruzioni a termini dell’art. 43 L. 25.VI.1865 n. 2359»31, ciò
che equivaleva, di fatto, ad interdire al principe la facoltà di portare a compimento
il fronte del palazzo. Il fatto indusse don Filippo a pretendere che l’erogazione dell’indennità in suo favore da parte del Comune dovesse seguitare fino a quando non
gli fosse stato rilasciato un permesso incondizionato di costruire: di conseguenza,
l’amministrazione si sentì in dovere di prendere alfine una decisione riguardo alla
soluzione da adottarsi in merito alla sistemazione dell’area.
LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE
177
Il 28 dicembre 1903 la commissione edilizia e consultiva tenne un sopralluogo presso l’accesso Nord del tunnel, presenti Prospero Colonna, sindaco di Roma,
l’avv. Vanni e l’ing. Ceselli, assessori rispettivamente al Piano Regolatore e all’Ufficio V e già membri della nota commissione, e i consiglieri Augusto Torlonia, Luigi
Boncompagni, Alberto Galli, Francesco Salimei, Archimede Tranzi, Giovanni Battista
Giovenale, Giuseppe Tomassetti, Gaetano Koch, Francesco Settimi, Carlo Tenerani,
Pompeo Coltellacci e l’ing. Rodolfo Bonfiglietti, in seguito a capo dell’Ufficio tecnico capitolino, in qualità di funzionario dell’Ufficio del Piano Regolatore.
Colonna illustrò una nuova ipotesi di sistemazione dell’area, redatta a modifica
del progetto approvato nel 1902, giudicato eccessivamente oneroso anche per la notevole entità delle espropriazioni da effettuarsi,
consistente nella strada in prolungamento della via Due Macelli, colla larghezza di m.
20,00, con una strombatura nel tratto tra la via in Arcione e il frontone del Traforo, e
nella soppressione della via nuova larga m. 18 parallela all’attuale via dei Serviti, sostituita
da questa via allargata a m. 10. Nell’incrocio della via del Tritone colla via Nuova sarà
costituito un largo arrotondando gli angoli dei nuovi isolati. Tutto ciò anche per non
pregiudicare la eventualità dell’allargamento del tronco inferiore della via del Tritone,
che insieme con l’arretramento degli angoli Tritone-Due Macelli e Tritone-Capo le Case,
potrà rimandarsi a tempo migliore32.
Inutile dire che la soluzione progettuale illustrata non prevedeva nuove espropriazioni rispetto alla prima stesura e non interessava in alcun modo il palazzo del Drago.
La commissione lì riunita approvò la proposta, apportandovi delle modifiche non
sostanziali; il 15 gennaio 1904 il Consiglio approvò la variante al progetto del 190233.
La controversia col principe venne definitivamente chiusa con un nuovo atto di
transazione (il terzo), approvato dal Consiglio comunale nel novembre 1905, con il
quale il principe avrebbe ricevuto una somma a corpo di centomila lire a saldo dei
danni, oltre ad una nuova area di 83 metri quadrati «sul nuovo allineamento della
via in prolungamento dei Due Macelli»34, e questa come prezzo per l’espropriazione
di due piccole case, sempre di proprietà del Drago, situate rispettivamente in via del
Macelletto e in via della Palma a Tor di Nona (fig. 5). La transazione stabilì ancora
che il fabbricato da costruirsi sul nuovo allineamento avrebbe avuto un «risvolto» di
diciassette metri sulla via dei Giardini35.
L’8 giugno 1906 Filippo del Drago presentò domanda per il rilascio della licenza
per l’ampliamento e la modifica del proprio palazzo: il progetto allegato comprendeva le sole planimetrie, redatte come di consueto da Giovanni Battista Giovenale,
«restando fermi i prospetti e la sezione del progetto antico già approvato»36.
Successivamente si diede inizio ad una nuova serie di demolizioni per la sistemazione dell’accesso al tunnel, tra le quali, nel 1908, quella della chiesa di San Nicola
in Arcione antistante il palazzo del Drago.
Il Piano Regolatore di Edmondo Sanjust di Teulada (1909) e quello del 1931
non contempleranno interventi di carattere puntuale sull’area, interessata solo mar-
178
RAFFAELLA CATINI
ginalmente dal progetto di sventramento per la realizzazione della trasversale TreviTritone37. Compiuta la nuova via del Tritone, gli edifici dell’hotel Select e dei magazzini Old England, dagli angoli caratteristicamente smussati, andarono a delimitarne
l’intersezione con il segmento viario antistante l’ingresso al traforo.
Raffaella Catini
M. MANIERI ELIA, Roma capitale: strategie urbane e uso delle memorie, in Storia d’Italia. Le regioni
dall’unità a oggi. Il Lazio, a cura di A. Caracciolo, Torino, Einaudi, 1991, pp. 513-557: 516.
2
«Due grandi ministeri, secondo il modello ripreso da Quintino Sella, vengono subito dislocati su
tale direttrice: quello delle Finanze e poi quello della Guerra; inoltre è previsto (ma non sarà realizzato)
l’Archivio di Stato a piazza Vittorio e si attiva un importante concorso per il palazzo delle Esposizioni
a via Nazionale, che sarà vinto da Pio Piacentini; infine, si realizzerà il Teatro dell’Opera; mentre alcuni
ministeri si collocano fuori Porta Pia. Anche se non esiste un progetto complessivo, insomma, ci si sta
orientando – coerentemente con un naturale recupero di valori «alternativi» e dinamizzanti rispetto alla
tradizione conservatrice di stampo curiale – verso un modello direzionale nel quale possano pienamente svilupparsi le tre grandi attività a cui la grande capitale laica deve votarsi: la scienza, la cultura e la
politica». Ibidem.
3
A. VIVIANI, Relazione al Piano Regolatore della città di Roma, Roma, Cecchini, 1873, p. 13.
4
Inaugurato nel 1856, il tunnel, lungo trecentocinquanta metri, va a congiungersi in linea retta col
ponte sul Danubio detto delle Catene che collega i due nuclei urbani di Buda e Pest.
5
A. VIVIANI, Relazione, cit., p. 13.
6
Ivi, p. 14.
7
Pur avendo avuto l’approvazione da parte del Consiglio comunale «con un po’ di emendamenti e
modifiche non sostanziali» (I. INSOLERA, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino, Einaudi,
1971, p. 40), il piano vide bloccare il proprio iter sotto la Giunta Venturi, non fu mai sottoposto al
vaglio del governo e, pertanto, non divenne mai legge.
8
A. RUFINI, Dizionario etimologico-storico delle strade, piazze, borghi e vicoli della città di Roma
compilato da A.R., Roma, Tipografia della R.C.A. presso i Salviucci, 1847, ristampa anastatica, Roma,
Multigrafica, 1977, p. 198.
9
Guide Rionali di Roma. Trevi, parte V, a cura di A. Negro, Roma, Palombi, 1992, p. 185.
10
Lettera di C. Rebecchini all’assessore dell’Ufficio legale del Comune di Roma, 28 maggio 1900.
ARCHIVIO STORICO CAPITOLINO (d’ora in poi ASC), Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1.
11
Lettera di Filippo del Drago al Sindaco di Roma, 14 agosto 1900, ASC, Ivi. Relativamente alle
affermazioni del principe circa l’esistenza di preesistenze archeologiche nel sottosuolo del palazzo, va detto
che pochi anni dopo (1906), nel corso dei lavori per la costruzione di un muro di cinta, «vennero ritrovati
diversi ambienti di un edificio romano orientati verso i giardini del Quirinale, fra cui una stanza con pavimento musivo a disegni geometrici in bianco e nero» (Guide Rionali di Roma. Trevi, cit., p. 22).
12
Lettera di Filippo del Drago al Sindaco di Roma, 12 novembre 1901, ASC, Ufficio V, Piano
Regolatore, pos. 47, fasc. 1.
13
Lettera di Prospero Colonna in risposta a don Filippo del Drago, 23 novembre 1901, Ivi.
14
Cfr. le lettere di Filippo del Drago (26 novembre 1901) e dell’assessore Antonio Teso (7
dicembre 1901), Ivi.
15
ASC, Ispettorato Edilizio, prot. n. 1909 del 4 dicembre 1901.
16
Cfr. il verbale della Commissione edilizia capitolina riunitasi il 4 dicembre 1901, estratto n. 8
(ASC, Verbali della Commissione Edilizia, ad annum).
17
Lettera di Prospero Colonna a don Filippo del Drago, 24 febbraio 1902 (ASC, Ufficio V, Piano
Regolatore, pos. 47, fasc. 1.
18
Cfr. la deliberazione di Giunta n. 53 del 9 luglio 1902 (ASC, Atti della Giunta Municipale, ad annum).
1
LA NUOVA FORMA DELLA CAPITALE
179
19
Cfr. Atti del Consiglio comunale di Roma. Sessione ordinaria autunnale. Verbale della seduta segreta del 5 dicembre 1902, 182a proposta, pp. 381 sgg. (ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1).
20
G. CEAS, Sistemazione in Roma dell’incrocio di via del Tritone, via Nuova, via del Traforo etc. senza
aggravio delle finanze municipali, Roma, Battisti, 1903, p. 2.
21
Cfr. il verbale della Giunta municipale capitolina del 6 agosto 1902 estratto n. 89 (ASC, Ufficio
V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1).
22
Lettera di A. Viviani all’ing. arch. Gualtiero Aureli, 4 luglio 1902. Ivi.
23
Cfr. la relazione del 9 luglio 1902, Ivi.
24
Cfr. il «Promemoria pel Congresso di Giunta» del giorno 6 agosto 1902. Ivi.
25
«Copia autentica liquidazione di danni e interessi fra il Comune di Roma e don Filippo del
Drago», Atto notaio F. Guidi, rep. 21853 del 23 marzo 1903. Ivi.
26
Cfr. il verbale delle deliberazioni di Giunta del 20 maggio 1903, estratto n. 20. Ivi.
27
Cfr. la comunicazione della Direzione generale ponti e strade del Ministero dei Lavori Pubblici,
avente ad oggetto le anticipazioni governative per gli accessi al traforo, 13 luglio 1903. Ivi.
28
Ivi.
29
Promemoria urgentissimo di Giovanni Antonio Vanni per l’ing. Bonfiglietti, s.d. (agosto-settembre 1903). Ivi.
30
Ivi.
31
Ivi.
32
«SPQR. Verbale della commissione edilizia e consultiva tenutasi all’imbocco del tunnel presso la
via in Arcione il 28 dicembre 1903 alle ore 10 1/2». ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 24.
33
Cfr. lo stampato della 336a proposta al Consiglio comunale di Roma nella seduta straordinaria
autunnale del 15 gennaio 1904, avente ad oggetto la modificazione al progetto di sistemazione delle vie
d’accesso all’imbocco Nord del traforo (ASC, Ufficio V, Piano Regolatore, pos. 47, fasc. 1).
34
Transazione col sig. Principe Don Filippo Del Drago per la sistemazione del palazzo in via in Arcione,
e per l’espropriazione della casa ai vicoli del Macelletto e della Palma, in Atti del Consiglio comunale di
Roma, 1905, pp. 187 sgg.
35
Il Regolamento edilizio del Comune di Roma del 1866 consentiva, nel caso di edifici in angolo
tra due concorrenti strade di diversa ampiezza, il cosiddetto «diritto di risvolto» con l’altezza massima
del fabbricato per una lunghezza non maggiore di dieci metri sulla via di minor sezione. Cfr. G.B.
FLORIO, Raccolta completa di regolamenti edilizi e norme di edilità riguardanti la città di Roma dal 1864
ad oggi, Roma, Tipografia S.A.I.G.E., 1931, p. 26.
36
Cfr. la domanda di rilascio di licenza a firma di Filippo del Drago, 8 giugno 1906. ASC, Titolo
54, prot. 55663/1906.
37
È del 1935 un’ipotesi di sistemazione del largo del Tritone redatta da V. Civico e R. Lavagnino,
i quali propongono l’allargamento di via degli Avignonesi sul fronte destro − così da creare uno svaso
che avrebbe consentito una migliore visuale di palazzo Barberini − e di via dei Serviti. Cfr. in proposito
V. CIVICO-R. LAVAGNINO, Per una migliore sistemazione delle zone centrali di Roma. L’allargamento di via
degli Avignonesi e la sistemazione del largo Tritone, «Urbanistica», IV, 1935, 4, pp. 257-263.
I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO
SVILUPPO URBANO. I CASI DI PIOMBINO E TERNI
TRA OTTO E NOVECENTO*
Due centri urbani per un modello di città industriale
I casi di Piombino e di Terni, nell’Italia di fine Ottocento e nell’ambito del sistema urbano nazionale, rappresentano un peculiare modello di sviluppo cittadino.
In queste realtà, le prime trasformazioni si devono direttamente all’insediamento
di grandi complessi industriali, che alterano, nell’immediato, equilibri plurisecolari.
Più in generale, infatti, nel modello di sviluppo urbano italiano, i fattori, che per primi intervengono a modificare gli assetti delle città, non sono riconducibili ai processi
di industrializzazione, bensì ad un contesto più ampio, caratterizzato da situazioni
e fenomeni diversi, che investono sia lo spazio esterno sia quello interno ai tessuti
urbani: la necessità di unificare la penisola dal punto di vista delle infrastrutture (la
rete ferroviaria e stradale, il sistema portuale); l’esigenza di riutilizzare i vecchi edifici
di istituzioni ed enti religiosi per accogliere le nuove funzioni burocratiche, amministrative e militari dei centri urbani; l’urgenza di abbattere le cinte murarie medievali
che limitano l’espansione delle città; l’opportunità di individuare spazi rappresentativi e di varare un’edilizia monumentale a forte carattere simbolico (a Milano la galleria Vittorio Emanuele e il cimitero Monumentale); l’esigenza di innescare i primi
processi di risanamento e di modernizzazione (realizzazione di acquedotti, fognature,
sistemi di illuminazione e di trasporto). In questo quadro dominato dalla presenza
di un fitto reticolo urbano, che negli ultimi decenni dell’Ottocento si presenta ben
strutturato e definito e la cui formazione rimanda ad un percorso di lunga durata dal
carattere plurisecolare, lo sviluppo industriale, nei processi di trasformazione urbana,
interviene soltanto in un secondo momento1.
I casi di Terni e Piombino, nel complesso isolati nel panorama italiano, anche
se le loro vicende sono simili a quelle di La Spezia2, Brescia3, Mestre4 o Sesto San
Giovanni5, si caratterizzano, invece, per due dati. Innanzitutto, in queste località
il processo di industrializzazione, quasi sempre guidato dall’esterno e dall’alto, con
l’intervento diretto dello Stato, rappresenta, in assoluto, il fattore che precocemente
182
AUGUSTO CIUFFETTI
innesca le prime trasformazioni, intervenendo accanto a tutti gli altri agenti del cambiamento. Il secondo dato è la dimensione stessa di questi centri, posti ai margini
del reticolo urbano italiano. Lo sviluppo industriale si realizza, quindi, in piccole
città dal carattere esclusivamente rurale, prive di rilevanti funzioni economiche ed
amministrative. Le conseguenze sono di duplice natura. In primo luogo, l’impatto
prodotto dall’industrializzazione: esso è particolarmente forte, in grado di alterare
profondamente ogni equilibrio, non solo dal punto di vista urbanistico, ma anche
sotto il profilo ambientale e sociale. Il risultato, collocabile all’interno del dibattito
sulle conseguenze e sulle ricadute dei processi di industrializzazione, è il rapido deterioramento delle condizioni igieniche e sanitarie degli spazi cittadini. Per effetto
dell’elevato tasso migratorio, alla saturazione del tessuto urbano esistente, caratterizzato dal sovraffollamento, corrisponde una crescita della città disordinata e priva
di un’effettiva pianificazione. Pur con le dovute differenze, in queste piccole realtà
si riproduce il modello di sviluppo tipico di Manchester: centri che in breve tempo
arrivano a configurarsi come delle vere città, partendo dalla dimensione del villaggio o del borgo. Il secondo dato è il ruolo centrale che in questi processi si trovano
a svolgere, inevitabilmente, le grandi società industriali, con i loro vasti patrimoni
immobiliari. Gli stessi imprenditori sono pronti a guidare e influenzare i percorsi di
crescita e di sviluppo, collocandosi accanto agli amministratori pubblici6.
Scenari e protagonisti dello sviluppo urbano
Il primo dato che accomuna Terni e Piombino è la macroscopica presenza degli
insediamenti industriali, in grado di sovrastare i vecchi centri abitati, ancora chiusi,
alla fine dell’Ottocento, all’interno delle cinte murarie medievali. Lo spazio occupato dal tessuto cittadino è minore rispetto a quello che accoglie il polo produttivo.
Lo sviluppo industriale di Piombino si realizza negli ultimi decenni del secolo, con
l’impianto di stabilimenti siderurgici che sfruttano le materie prime provenienti dalle
miniere di ferro dell’isola d’Elba e della Maremma. Le prime fabbriche e ferriere vengono aperte tra il 1860 e il 1870, ma è soltanto nel 1892 che viene inaugurato uno
dei più importanti stabilimenti della città: la Magona d’Italia. L’azienda raggiunge il
suo assetto definitivo tra il 1903 e il 1926, dopo l’ultimazione degli impianti, avvenuta nel 1909. Nel 1897, invece, viene fondata la Società degli Altiforni e Fonderie
di Piombino, successivamente assorbita dalla Società ILVA, i cui impianti vengono
completati nei primi anni del Novecento7.
Grazie alla sua posizione strategica e all’enorme disponibilità di risorse idriche, il
processo di industrializzazione di Terni viene definitivamente avviato alla fine degli
anni Settanta dell’Ottocento. Nel 1881 inizia la sua attività la Fabbrica d’Armi, mentre tra il 1884 e il 1886 vengono installate ed aperte le acciaierie della Società degli
Alti Forni, Fonderie ed Acciaierie di Terni. Accanto a queste imprese, sorgono altre
importanti aziende, come lo Jutificio Centurini aperto nel 1886, le Officine Bosco
I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO SVILUPPO URBANO
183
inaugurate nel 1890 e il Lanificio Gruber in funzione dal 1870. Nel 1886 viene costituita la Società Valnerina, che gestisce il servizio di pubblica illuminazione, dopo
un breve periodo di attività nel settore metallurgico. Tra il 1896 e il 1901, la Società
Italiana per il Carburo di Calcio, Acetilene ed atri Gas realizza due importanti stabilimenti elettrochimici nei pressi della città (fig. 1). Nuovi stabilimenti sorgono dopo
la Prima Guerra Mondiale, mentre la Società Terni incorpora nel 1922 la Società
Italiana per il Carburo di Calcio, già proprietaria, a sua volta, fin dal 1911, della
Società Valnerina. È l’inizio, in definitiva, di un processo di concentrazione industriale, che consente alla Società Terni di controllare, durante gli anni Trenta, nella
sua dimensione polisettoriale, l’intero apparato produttivo della città8.
L’insediamento di queste industrie determina, nei due centri, un rapido aumento della popolazione, con tassi di crescita ampiamente superiori a quelli registrati
nello stesso periodo in città come Milano e Roma. Sia Terni che Piombino, infatti,
raddoppiano la loro popolazione nell’arco di soli vent’anni, tra il 1881 e il 1901.
Nel primo caso, gli abitanti passano da 15.853 a 30.641; nel secondo da 4.595 a
8.309. Nei successivi dieci anni, la crescita di Piombino è ancor più impetuosa;
nel 1911, infatti, i suoi abitanti raggiungono quota 19.6609. È proprio il rapido
aumento della popolazione, in assenza dei necessari spazi abitativi e delle relative
infrastrutture (ospedali, strade, acquedotti, fognature, illuminazione), a determinare
l’emergere di gravi questioni igieniche e sanitarie. In entrambi i casi, le prime ondate
migratorie vengono accolte all’interno dei vecchi quartieri del centro storico, con
alti tassi di affollamento e con l’immediato degrado dell’intera area urbana. Per ampliare gli spazi abitativi si procede al rialzamento degli stabili già esistenti, mediante
una procedura che contribuisce a danneggiare ulteriormente l’ambiente cittadino.
All’ammassamento delle famiglie operaie in ricoveri di fortuna, o in alloggi fatiscenti
(a Piombino vengono trasformati in abitazioni anche stalle, magazzini e locali posti
sotto il livello stradale), corrisponde, come nel caso di Terni, la nascita di un’edilizia
spontanea e minima nei borghi e nelle aree ubicate tra la città antica e il nuovo polo
industriale. Si tratta di spazi malsani, privi di strade, fognature ed acqua potabile,
posti a ridosso delle fabbriche e attraversati da ferrovie e canali. Le tipologie edilizie
adottate, d’origine rurale, sono molto semplici: abitazioni per una o due famiglie, di
due piani, prive di servizi igienici. Gli affitti, per effetto della speculazione, tendono
a salire, mentre la costruzione di case popolari procede con estrema lentezza.
Il dato che caratterizza sia Piombino sia Terni, infatti, è la sostanziale incapacità
delle amministrazioni comunali di governare la crescita del tessuto cittadino e di
provvedere alla realizzazione dei necessari alloggi operai. Ciò si deve alle scarse risorse
finanziarie a disposizione, già ridotte dal sostegno dato in precedenza, in termini di
infrastrutture e servizi, allo sviluppo economico delle città e all’insediamento delle
stesse industrie. È in questo sostanziale vuoto che si inseriscono, con le loro politiche
e le loro esigenze, le società industriali e gli imprenditori. Un solo dato è sufficiente
184
AUGUSTO CIUFFETTI
Fig. 1. Collocazione dei quartieri operai e degli insediamenti industriali nel tessuto urbano di Terni
(1898). A. Ciuffetti, Condizioni materiali di vita, sanità e malattie in un centro industriale: Terni,
1880-1940, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, pp. 22-23
I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO SVILUPPO URBANO
185
per comprendere il ruolo che si vuole attribuire, nell’immediato, a questi ultimi.
A Terni, all’inizio del Novecento, in un memoriale compilato dai medici condotti
della città si sottolinea, con enfasi, la necessità di un impegno diretto da parte degli
industriali − del resto responsabili di quanto sta avvenendo all’interno dello spazio
urbano − in quanto sono i soli in grado di affrontare e risolvere, dal punto di vista
finanziario, i numerosi problemi igienici, sanitari ed urbanistici, che condizionano
ogni scelta amministrativa10.
A Piombino, per risolvere la grave situazione abitativa della classe operaia, l’amministrazione comunale, nel 1887, decide di cedere tutte le aree edificabili, senza
corrispettivo, a degli speculatori edilizi. Nello stesso tempo, vengono esonerati dal
pagamento delle tasse tutti coloro che sono impegnati nella costruzione di alloggi
popolari. I risultati sono pessimi: tutte le case risultano di modesta qualità, mentre,
a causa delle precarie condizioni igieniche dovute all’affollamento, malattie come il
tifo e la tubercolosi si diffondono sempre di più11. Generalmente, come nel caso del
palazzo operaio di tre piani costruito nel 1888 dallo Stabilimento Metallurgico, si
adotta la tipologia del “palazzone” con ballatoio esterno: agli appartamenti si accede
da una loggia comune, mentre le latrine sono ricavate all’interno dello stesso vano
della cucina. I primi quartieri operai vengono costruiti dal 1907 in poi, oltre le antiche mura cittadine, in direzione degli impianti industriali e verso il porto mercantile.
Questa direttrice di sviluppo viene mantenuta ed accentuata nel periodo compreso
tra le due guerre mondiali. Seppur tra lacune e ritardi, la questione dell’abitazione
operaia conosce, così, significativi interventi, da parte sia del Comune sia delle industrie. L’amministrazione municipale, che nel primo ventennio del Novecento è
gestita dai socialisti, costruisce due importanti blocchi di case popolari tra il 1913 e
il 1915, mentre nel successivo dopoguerra si impegna nella realizzazione di servizi
e attrezzature sociali. Altri alloggi e interi quartieri vengono edificati nel corso degli
anni Venti. Allo stesso modo, la Società ILVA e la Magona d’Italia iniziano a costruire
interi borghi e quartieri o singoli alloggi operai tra il 1908 e il 1910, per continuare
la loro attività durante gli anni Venti12. Le esigenze sono quelle di controllare una
vasta ed eterogenea classe operaia in perenne conflitto e di assicurare alle fabbriche
una costante presenza di manodopera, tendenzialmente pendolare.
Nel caso di Terni, all’incapacità dell’amministrazione di intervenire nel settore
urbanistico, in particolar modo in quello dell’edilizia popolare, si aggiunge la sostanziale attività fallimentare delle cooperative e l’iniziale disinteresse delle maggiori
aziende cittadine nei confronti delle condizioni abitative della classe operaia. Alla
fine dell’Ottocento, l’assenza di specifici interventi in questo settore da parte della
Società degli Alti Forni, Fonderie ed Acciaierie di Terni, sebbene alla sua guida ci sia
un imprenditore come Vincenzo Stefano Breda, si deve alle difficoltà organizzative
e finanziarie che l’azienda incontra nei suoi primi anni di vita. L’unico intervento
degno di nota si deve alla Società Industriale Valnerina, che nel 1888 costruisce un
186
AUGUSTO CIUFFETTI
enorme fabbricato, denominato «palazzone», con 89 appartamenti, utilizzando una
tipologia tipica dell’edilizia popolare ottocentesca, quella del «casermone», in grado
di occupare un intero isolato. Si tratta dello stesso modello (con ballatoio posto nel
cortile interno e con appartamenti di due o tre vani, con servizi igienici all’interno
della cucina), adottato a Piombino dalla Società Metallurgica.
Gli imprenditori tendono a controllare tutte le politiche territoriali del Comune,
per cercare di trarne i maggiori benefici. Non a caso, nel 1911, la redazione del primo
vero piano regolatore e d’ampliamento di Terni viene affidata proprio ad uno dei maggiori industriali della città, l’imprenditore belga Cassian Bon. Figura poliedrica e con
interessi in più settori, egli si presenta, contemporaneamente, come imprenditore, tecnico, speculatore fondiario, realizzatore di infrastrutture e costruttore di case operaie13.
Anziché favorire lo sviluppo dell’edilizia operaia, Cassian Bon preferisce incentivare
quella destinata al ceto medio, sicuramente più redditizia14. Quando la Società Terni
decide di intervenire nella costruzione diretta di alloggi operai, nel corso degli anni
Venti e Trenta del Novecento, lo fa soltanto in base ad un accordo con il Comune.
In cambio della realizzazione di case popolari, l’azienda ottiene il completo controllo
delle risorse energetiche del territorio, rappresentate dal sistema idrico dei fiumi Nera e
Velino, indispensabili per la sua crescita produttiva. Nel complesso, la Terni si impegna
a costruire 1.500 vani, da destinare ad abitazioni per operai ed impiegati. Per tutta l’età
giolittiana, a differenza di quanto accade nelle industrie di Piombino, nella Società
Terni è totalmente assente una precisa politica sociale. Essa fa la sua comparsa soltanto
negli anni del fascismo, per evidenti motivi di carattere ideologico. È soltanto in questo
periodo, nell’ambito di un modello di «fabbrica totale» che contempla un controllo
assoluto sui lavoratori, ispirato ai principi dell’Opera Nazionale Dopolavoro, che la
Società Terni arriva a costruire i primi edifici popolari ed interi villaggi operai. Del resto, sono gli anni in cui Terni si trasforma definitivamente in una company town, in una
città totalmente dominata dalle fabbriche, che impongono, al resto dell’insediamento
urbano, tempi, ritmi e precise politiche territoriali15.
I patrimoni delle società industriali: terreni, opifici e case operaie
In queste città dalla forte configurazione industriale, le grandi aziende non sono
soltanto le uniche in grado di realizzare alloggi operai, oppure di influenzare l’espansione del tessuto urbano: esse controllano, generalmente, anche tutti i suoli disponibili ai
margini degli spazi cittadini, esercitando, così, un potere effettivo e totale sulla configurazione dell’agglomerato urbano e sulle trasformazioni dell’intero paesaggio16. Rispetto
a realtà più ampie e complesse, come Milano e Torino, il rapporto tra città e industria è
più forte ed esclusivo e, comunque, sempre a vantaggio di quest’ultima. L’insieme delle
proprietà industriali, in termini di strutture produttive, opifici, case operaie e semplici
terreni, consente di capire con quale forza gli imprenditori siano in grado di rapportarsi
con le città nel loro complesso, condizionandone ogni sviluppo.
I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO SVILUPPO URBANO
187
A Piombino, nel 1911, la Magona d’Italia risulta proprietaria di 82 alloggi, che
ospitano in totale 411 persone. Quasi tutti questi appartamenti, disposti in edifici
isolati di due piani, si concentrano nel borgo operaio che l’azienda costruisce vicino
ai suoi stabilimenti. La Società ILVA, invece, inizia a costruire delle case operaie, utilizzando la tipologia «a schiera», nel 1908, contribuendo allo sviluppo delle borgate
di Cotone e Poggetto. Il dato che caratterizza questi insediamenti è la loro collocazione periferica rispetto al centro storico della città, dove si concentrano i servizi. Gli
interventi vengono realizzati ai limiti estremi della periferia, sempre in prossimità
delle fabbriche, dove le industrie possiedono i relativi suoli e dove è possibile relegare
gli operai, secondo un criterio di netta separazione sociale, evitando la loro «pericolosa» presenza all’interno del tessuto urbano.
La portata di questi interventi, quindi, è caratterizzata da forti limiti e solo in parte essi riescono ad incidere positivamente sulle condizioni di vita dei lavoratori. Negli
anni Venti, quando si apre una nuova fase di sviluppo edilizio, nessuna azienda prevede la costruzione di grandi villaggi. Si preferiscono interventi isolati e spesso male
coordinati, con quartieri privi delle necessarie strutture di servizio. La Società ILVA
realizza semplici dormitori, collocati all’interno di grandi capannoni, poi riutilizzati
come abitazioni, oppure trasforma in alloggi delle palazzine destinate ad accogliere
gli uffici. Dal 1925 in poi si completa la borgata operaia di Cotone, mentre anche
la Magona d’Italia procede nella costruzione di nuovi blocchi di case. Essi vengono
realizzati nell’area posta tra lo stabilimento industriale e la linea ferroviaria, in una di
quelle zone marginali, cioè, prive di ogni valore e da sempre destinate, in ogni città,
ad accogliere l’edilizia popolare. Il borgo operaio nato prima della guerra viene ultimato con la costruzione di sei nuovi edifici, per un totale di 66 alloggi17 (fig. 2).
Come già evidenziato, a Terni la costruzione di alloggi popolari da parte della
Società Terni assume un certo rilievo soltanto nella seconda metà degli anni Trenta,
quando si procede nella costruzione di due grandi edifici in prossimità delle industrie, per un totale di 120 appartamenti. Si tratta del palazzo Rosa (sei piani)
e del grattacielo (dieci piani), disposti l’uno di fronte all’altro, lungo la strada di
collegamento tra il centro storico e l’insediamento produttivo. Per il primo si adotta la tipologia del palazzo in linea; per il secondo, invece, il modello «a ballatoio».
Contemporaneamente, in vari punti della città, si completano altri interventi intrapresi nei decenni precedenti. Sempre in questa fase, nell’ambito della politica aziendale di controllo sui lavoratori mediante gli strumenti del dopolavoro e dell’assistenza sociale, vengono costruiti due importanti villaggi operai: il villaggio «Italo Balbo»,
alla periferia della città, composto da 41 fabbricati con quattro alloggi ciascuno, e il
villaggio di Nera Montoro, nei pressi di uno stabilimento elettrochimico, con 16 case
d’abitazione, per un totale di 41 alloggi18.
In quest’ultimo insediamento, oltre alle case (disposte secondo una specifica gerarchia degli spazi, che corrisponde a quella aziendale, con la netta separazione tra
188
AUGUSTO CIUFFETTI
Fig. 2. Collocazione dei quartieri operai e degli insediamenti industriali nel tessuto urbano di
Piombino (1925). P. Innocenti, La città di Piombino: studio di geografia industriale, «Rivista
geografica italiana», LXXI, 1964, n. 4, p. 371; C. Cresti e G. Orefice, La resistenza popolare e
operaia a Piombino nel rapporto con lo sviluppo dell’industria siderurgica (1888-1930), «Ricerche storiche», VIII, 1978, n. 1, pp. 216-217 e 219-220.
I PATRIMONI IMMOBILIARI DELLE GRANDI INDUSTRIE E LO SVILUPPO URBANO
189
operai, impiegati e dirigenti), si realizzano anche una scuola, con l’appartamento per
l’insegnante, un edificio con lo spaccio dei generi alimentari, la farmacia e i bagni
pubblici. Successivamente si apre un dopolavoro. Il villaggio «Italo Balbo», invece, si
caratterizza immediatamente per il suo isolamento e per la sua spiccata dimensione
rurale. È privo di servizi e dipende totalmente dalla città19. Contemporaneamente ai
villaggi e ai quartieri operai, in diversi punti della città sorgono anche campi sportivi,
piscine, dopolavoro, ambulatori, colonie, spacci, mense, biblioteche, teatri e cinema.
Strutture che consentono alla Società Terni di gestire e controllare, al tempo stesso,
sia gli operai, sia lo spazio urbano. Del resto, la Terni controlla anche i servizi (acqua,
luce, trasporti) e realizza opere poi donate agli enti pubblici locali20.
Oltre alle case e ai servizi, la Società Terni controlla anche vaste aree edificabili,
poste soprattutto tra il centro storico e il polo produttivo. Nel 1928 l’azienda risulta
proprietaria di otto vasti terreni, per un totale di 141.000 metri quadrati. Ad essi
si devono aggiungere altre aree, poste in vari settori della città, oppure nello spazio
occupato dalle industrie, per un totale di oltre 73.000 metri quadrati di terreno, dove
all’inizio del Novecento e negli anni Venti, senza ottenere concreti risultati, la Terni
aveva predisposto numerosi progetti per la costruzione di alloggi e quartieri operai21.
Se a queste aree si sommano quelle direttamente occupate dagli stabilimenti industriali, nonché le strutture sociali realizzate dall’azienda, il peso esercitato da quest’ultima sugli equilibri e sugli sviluppi della città emerge in tutta la sua evidenza.
Augusto Ciuffetti
* In questo lavoro si riprendono e si ampliano alcune riflessioni presenti in A. CIUFFETTI, Casa e lavoro.
Dal paternalismo aziendale alle “comunità globali”: villaggi e quartieri operai in Italia tra Otto e Novecento,
Perugia, Giada/CRACE, 2004.
1
C. CAROZZI-A. MIONI, L’Italia in formazione. Ricerche e saggi sullo sviluppo urbanistico del territorio
nazionale, Bari, De Donato, 1970; A. MIONI, Le trasformazioni territoriali in Italia nella prima età industriale, Venezia, Marsilio, 1976.
2
A. FARA, La Spezia, Roma-Bari, Laterza, 1983.
3
C. SIMONI, Alle origini di un distretto industriale, Brescia, Grafo, 1996.
4
S. BARIZZA, Storia di Mestre, Padova, Il Poligrafo, 1994.
5
Sesto San Giovanni 1880-1921. Economia e società: la trasformazione, a cura di L. Trezzi, Milano,
Skira, 1997.
6
Per una più completa definizione di questo modello di città nell’ambito del sistema urbano italiano, si veda A. CIUFFETTI, La città industriale. Un percorso storiografico, Perugia, Giada/CRACE, 2002,
pp. 26-41.
7
P. INNOCENTI, La città di Piombino: studio di geografia industriale, «Rivista geografica italiana»,
LXXI, 1964, 4, pp. 317-403; M. LUNGONELLI, Piombino: una città fabbrica nella prima metà del
Novecento, «Annali di storia dell’impresa», XIII, 2002, pp. 189-205.
8
G. GALLO, Ill.mo Signor Direttore… Grande industria e società a Terni fra Otto e Novecento, Foligno,
Editoriale Umbra, 1983.
9
A. CIUFFETTI, Condizioni materiali di vita, sanità e malattie in un centro industriale: Terni,
190
AUGUSTO CIUFFETTI
1880-1940, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, p. 26; R. COVINO-G. GALLO-L. TITTARELLI,
Industrializzazione e immigrazione: il caso di Terni, 1821-1921, in La popolazione italiana nell’Ottocento,
Bologna, Clueb, 1985, p. 409-430: 409.
10
A. CIUFFETTI, Condizioni materiali di vita, cit., pp. 80-85. Più in generale, si veda R. COVINO-G.
GALLO, Terni. Insediamenti industriali e struttura urbana fra Otto e Novecento, «Archeologia industriale»,
I, 1983, 2, pp. 17-24; M.R. PORCARO-P. PENTASUGLIA, Tessuto urbano, equilibri territoriali e industria a
Terni nella seconda metà dell’Ottocento. Schede monografiche sulla città e sul territorio, Terni, Editoriale
Umbra/Provincia di Terni, 1986.
11
S. MERLI, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano, 1880-1890, Firenze, La
Nuova Italia, 1972, p. 455.
12
C. CRESTI-G. OREFICE, La residenza popolare e operaia a Piombino nel rapporto con lo sviluppo
dell’industria siderurgica (1888-1930), «Ricerche storiche», VIII, 1978, 1, pp. 201-239.
13
R. COVINO, Tecnici e imprenditori europei a Terni nell’Ottocento, in L’Umbria e l’Europa nell’Ottocento, a cura di S. Magliani, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 2003, pp. 105-118.
14
A. CIUFFETTI, Sviluppo industriale e tentativi di pianificazione del tessuto urbano: il caso di Terni,
1900-1920, «Storia urbana», XIV, 2, 1990, pp. 99-116.
15
R. COVINO, Terni. Nascita, apogeo e decadenza di una città-fabbrica, «Annali di storia dell’impresa», XIII, 2002, pp. 207-227; A. CIUFFETTI, La questione dell’abitazione operaia a Terni. L’attività edilizia
della Società Terni nel periodo fascista, «Storia urbana», XIII, 1989, 2, pp. 199-203.
16
A. CIUFFETTI-M. GIANSANTI, Le Acciaierie e l’impatto ambientale (1880-1940), in Le Acciaierie di
Terni, a cura di R. Covino e G. Papuli, Milano, Electa/Editori Umbri Associati, 1998, pp. 349-370.
17
C. CRESTI-G. OREFICE, La residenza popolare e operaia a Piombino, cit., pp. 201-239.
18
A. CIUFFETTI, La questione dell’abitazione operaia a Terni, cit., pp. 199-203. Sull’insieme delle case
e dei villaggi operai realizzati a Terni, si veda M. GIORGINI, L’industria dell’acciaio e l’industria della città,
in Le Acciaierie di Terni, cit., pp. 241-273.
19
M.G. FIORITI, I due villaggi Matteotti, in Le Acciaierie di Terni, cit., pp. 275-296.
20
R. COVINO, Terni: nascita, apogeo e decadenza di una città-fabbrica, cit., pp. 207-227.
21
A. CIUFFETTI-M. GIANSANTI, Le acciaierie e l’impatto ambientale, cit., pp. 357-359.
LA «CITTÀ DELLE GENERALI»
INVESTIMENTI, STRATEGIE E ARCHITETTURE*
Sorte a Trieste nel 1831 per iniziativa di una compagine di commercianti triestini
e veneziani, le Assicurazioni Generali sono dotate fin dalla nascita di ingenti mezzi
finanziari1. Da Trieste e Venezia, centri statutari della compagnia, l’attività si irradia
rapidamente in tutti gli Stati italiani e nei territori austriaci dell’Europa danubiana;
da qui, per tappe successive, in quasi tutte le nazioni europee. Con rappresentanze
e sedi ovunque, alla vigilia della Prima Guerra Mondiale il gruppo assicurativo era
considerato come una fra le più importanti e stabili società private. Tanta solidità,
fino ad oggi confermata2, era dovuta in primo luogo a strategiche formule di investimento e alla consistente proprietà immobiliare, posseduta a copertura degli impegni
verso i propri assicurati.
Ma prima ancora di parlare di investimenti, strategie, architetture, si impone
un’osservazione preliminare: non sono molti gli istituti finanziari in Europa che abbiano condizionato la configurazione di complesse identità urbane, e assai più rari
quelli che, come le Assicurazioni Generali, abbiano avuto l’opportunità – sfruttata
in taluni casi, trascurata in altri – di costituire un potente veicolo di diffusione di
pratiche e codificazioni linguistiche.
Questo dato è particolarmente evidente se ci si riferisce alla cospicua entità e
al numero delle operazioni immobiliari promosse e condotte dalla compagnia del
Leone alato. Come emerge dalle fonti consultate, ad un censimento del 1962 risultavano di proprietà del gruppo 350 fabbricati, situati per due terzi in Italia, e nove
tenute, di cui una in Francia: una vera e propria città, già negli anni Trenta definita
la «Città delle Generali».
Al di là del mero dato quantitativo, è possibile dare forma a tale città immaginaria? Come ne hanno mutato i «confini» gli eventi di vario tipo nel corso di circa due
secoli? È possibile definire la molteplicità degli innesti architettonici confluenti in
tale città «dispersa»? E tale molteplicità ha determinato una coesistenza senza contrasti tra città immaginaria e città reali? Con quali meccanismi, infine, si è esercitato
192
MASSIMILIANO SAVORRA
l’effettivo controllo degli spazi edificati? Rispondere a tali interrogativi – beninteso
senza alcuna pretesa di esaustività – sarà l’obiettivo del presente contributo.
Profilo di una «città» complessa
Due fonti aziendali possono utilmente, se opportunamente interrogate, chiarire
questioni e ragionamenti, permettendoci, da un lato, di confrontare alcuni casi-studio e, dall’altro, di mettere a fuoco un quadro più generale di riferimento entro cui
comprendere le culture dei gruppi dirigenti.
Si tratta di due pubblicazioni di natura diversa, ma accomunate dall’esplicito
riferimento all’attività edilizia svolta dalla compagnia assicuratrice. Il primo testo,
Le Assicurazioni Generali nel primo decennio del Regime – apparso nel 1932, ad un
anno dunque dalle celebrazioni per il centenario della società – esponeva le politiche
economiche, in linea con quelle del regime fascista, e spiegava i motivi per cui si rendeva opportuno provvedere alla completa trasformazione dei sistemi finanziari, «con
speciale riguardo alla necessità di amministrare le riserve, seguendo quel frazionamento monetario cui aveva dato luogo la creazione di tanti nuovi stati»3. Dopo aver
spiegato – tra grafici e tabelle – i perfezionamenti delle forme di assicurazione, gli
sveltiti criteri di produzione, i sistemi di penetrazione dell’idea della previdenza nelle
masse popolari, l’accelerazione delle iniziative di espansione all’estero, l’incremento
delle fusioni e collaborazioni con altri istituti assicurativi, l’anonimo redattore del
volume passava in rassegna forme e motivi del contributo dato al rinnovamento edilizio di alcune tra le maggiori città italiane, iniziato nel secolo precedente, ma alacremente ripreso e sviluppato in seguito all’avvento del fascismo. Che si trattasse della
ricostruzione avvenuta negli anni Dieci degli stabili nell’«isola Chiozza» di Trieste4,
vasto complesso di circa 6800 metri quadrati, o della trasformazione di cruciali nodi
urbani milanesi, attraverso architetture realizzate in taluni casi con il contributo delle
affiliate Anonima Infortuni e Anonima Grandine (in particolare si segnalavano la
sede in piazza Cordusio di Luca Beltrami5 e il palazzo all’estremità di piazza Duomo
di Gaetano Moretti6), o ancora della allora recente sistemazione della piacentiniana
piazza della Vittoria a Brescia7, le vicende erano esposte in termini stringati, senza
una visione d’insieme, ma tali da confermare l’espressione, coniata con una efficace
pubblicità nel 1930, di «Città delle Generali», mentre gli investimenti effettuati sembravano essere dettati esclusivamente dal naturale proposito di incrementare il valore
della proprietà immobiliare, nel 1931 pari a 291 milioni di lire.
Il secondo testo, edito nell’ottobre 1963, ci accompagna nel vivo di una vera
e propria strategia messa in atto nel lungo periodo di attività nel settore edilizio.
Pubblicato con un evidente obiettivo celebrativo, oltre che divulgativo, il volume
La proprietà immobiliare urbana e agricola mostrava le mille facce della «Città delle
Generali», ricomposta dopo gli eventi bellici in un arbitrario accostamento di palazzi,
«dove tutti gli stili si fondono e le masse severamente squadrate di alcuni edifici si
LA «CITTÀ DELLE GENERALI»
193
alternano con le aeree eleganze»8. Con un bilancio della proprietà immobiliare, alla
fine del 1962, pari a circa 60 miliardi di lire, si tracciava il profilo di una città dalla
geografia complessa, dalla configurazione stratificata di tempi, luoghi ed eventi, fatta
di moderni edifici e di efficienti aziende agricole, come Ca’ Corniani; una «città,
dunque, raccolta dalla fantasia nei suoi elementi dispersi; ma una città completa,
secondo le esigenze e le inclinazioni del nostro tempo»9.
Cos’è dunque accaduto durante i circa trent’anni trascorsi tra le due pubblicazioni?
I testi appena citati ci permettono di comprendere sia con quale intensità la strategia operata potesse essere messa in atto, sia da quali meccanismi potesse essere controllata. Una strategia che nel secondo volume appare certo non nuova, ma amplificata e riconsiderata alla luce del boom della ricostruzione post-bellica. Comparando
le due fonti con altri documenti, in primo luogo quelli relativi alla materiale costruzione dei manufatti, è possibile inoltre tracciare, almeno per sommi capi, il profilo di
una forma urbana i cui limiti appaiono sfilacciati, e decifrare i processi di innesto, di
volta in volta realizzati, di singoli elementi all’interno di un quadro più ampio.
Un capitale in pietre e cemento
In effetti, l’analisi di quanto accaduto nell’arco temporale su citato, attraverso
l’intreccio di informazioni e materiali documentari di provenienza diversa, non può
che confermare il ruolo svolto dalle Generali nel rimodellare città e territori. Ciò non
basta. Se, come è stato sostenuto, il capitale finanziario costituisce l’«elemento di coesione della classe borghese»10, allora la decodificazione della sua ricaduta in ambito
urbano risulta essenziale per un’interpretazione corretta di fenomeni e strutture, di
cui a partire dal 1920 le Generali risultano significativamente responsabili.
Del resto, con Trieste diventata italiana e i drammatici eventi della Grande Guerra
affrontati con successo, le Generali raggiunsero nei primi decenni del Novecento il
vertice delle aziende assicurative italiane e un posto di rilievo tra quelle europee,
nonostante le difficoltà create dalla legge del 1912 che sanciva la nascita dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni. Il successo crescente dei bilanci e la necessaria
diversificazione degli investimenti della compagnia del Leone alato furono alla base
dello statuto approvato nel 1922 dagli azionisti, che poneva dei vincoli alla politica
degli investimenti patrimoniali delle diverse società appartenenti alle Generali11. In
particolare, le riserve tecniche dei rami Danni e Vita dovevano essere utilizzate sia
per acquistare titoli pubblici, sia per accrescere i beni immobili in Italia12. Edgardo
Morpurgo, presidente dell’azienda per quasi tutto il ventennio, nel 1934 ricordava
orgoglioso le mete raggiunte: la proprietà immobiliare aveva superato il valore di
435 milioni di lire. Nella composizione del patrimonio dell’azienda, i beni immobili
furono confermati come una parte consistente anche durante il drammatico periodo delle leggi razziali, che videro il conte Giuseppe Volpi di Misurata succedere a
Morpurgo nella presidenza, e in seguito negli anni della ricostruzione.
194
MASSIMILIANO SAVORRA
A Roma, ad esempio, ormai lontano il periodo della realizzazione del palazzo
sacconiano in piazza Venezia, nel corso degli anni Trenta e Quaranta fino a tutti
i Cinquanta del Novecento viene aumentata la proprietà immobiliare sempre mediante acquisti e nuove costruzioni, anche se non necessariamente in zone eleganti e
centrali, che sono portati a termine senza sontuose operazioni d’immagine13. In questo modo le Generali arrivano a possedere nei primi anni Sessanta più di cinquanta
immobili, fra cui gli edifici di via Pezzana, via Duse, viale di Villa Massimo, viale
Beethoven nei pressi dell’Eur, soltanto per ricordarne alcuni. Da una fase in cui l’incremento della proprietà era suggerito non solo da criteri di opportuno impiego del
capitale sociale, ma anche e soprattutto dalla tendenza a dotare ogni città di una sede
adeguata al prestigio della compagnia, si passava dunque ad uno stadio successivo, di
investimento allargato.
Luoghi e significati
Per comprendere il senso della forma della «Città delle Generali» bisogna fare un
passo indietro. Va infatti ricordato che tra Otto e Novecento, le Generali – al culmine di una fase sia di sviluppo nei rami Danni, Vita e Incendi sia di crescita a ritmi
sostenuti della consistenza dei fondi di garanzia – avevano operato un rafforzamento
patrimoniale sostenuto da un vasto programma di investimenti immobiliari. Avviata
da Marco Besso14, la politica edilizia delle Generali consisteva nel costruire o acquisire
stabili prestigiosi, con l’obiettivo sia di dotare la compagnia di una degna filiale nel
centro delle principali città sia di dare visibilità alla potenza finanziaria raggiunta15.
In tal senso, vennero realizzati tra il 1871 e il 1909 alcuni degli edifici più prestigiosi:
basti ricordare i palazzi di piazza della Signoria a Firenze (Giuseppe Landi, 1871), della
Direzione centrale di Trieste (Eugenio Gairinger, 1884) e di piazza Solferino a Torino
(Pietro Fenoglio, 1909). Singole architetture da considerare quali «manifesti» di un
fenomeno complesso che investiva strutture e metodi, logiche aziendali e procedimenti
amministrativi. Tuttavia, è nel processo di attribuzione di nuovi significati a quei particolari luoghi della memoria, piazze più o meno nuove, più o meno rinnovate dell’Italia
unita, che vanno rintracciati i segni della visibilità del potere delle Generali.
Valga, per tutti, il caso più eclatante, quello della centralissima piazza Venezia a
Roma, dove Besso, in qualità di rappresentante del Consiglio di amministrazione,
decise di far erigere una sede adatta ad uno spazio carico «di risonanze e di rappresentatività»16. Largamente analizzata17, la vicenda della costruzione del palazzo
(Sacconi, Manassei-Geiringer-Cirilli, 1906) sembra essere dominata dalla decisione
del direttivo del gruppo triestino di aggregarsi alle scelte simboliche del nuovo potere
politico. Le Generali previdero infatti il tentativo dei «nuovi occupanti» di conquistare, grazie ad una serie di «segni» capillarmente disseminati nelle piazze monumentali, l’intero territorio capitolino, ivi compresa la piazzetta antistante palazzo
Venezia. Dagli interventi di demolizione e ampliamento dovuti alla realizzazione del
LA «CITTÀ DELLE GENERALI»
195
Fig. 1. La «Città delle Generali» (AGTV, Le Assicurazioni Generali nel primo decennio .., 1932)
Fig. 2. Assicurazioni Generali Trieste e Venezia (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola... 1963)
196
MASSIMILIANO SAVORRA
Fig. 3. La «Città delle Generali» (AGTV, Generali, tradizione di immagine..., 1993)
Fig. 4. Trieste, La sede centrale della compagnia (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola.., 1963)
LA «CITTÀ DELLE GENERALI»
197
Fig. 5. Roma, Il palazzo delle Generali in piazza Venezia (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e
agricola..., 1963)
Fig. 6. Roma, Edificio in via Nomentana (AGTV, La proprietà immobiliare La proprietà immobiliare
urbana e agricola..., 1963)
198
MASSIMILIANO SAVORRA
Fig. 7. Roma, Edificio in viale Beethoven, angolo viale Europa (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e
agricola..., 1963)
Fig. 8. Firenze, Il palazzo di piazza della Signoria
(AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola..., 1963)
LA «CITTÀ DELLE GENERALI»
199
Fig. 9. Milano, Il palazzo di piazza Cordusio (AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola..., 1951)
Fig. 10. Torino, Il palazzo di piazza Solferino (AGTV,La proprietà immobiliare urbana e agricola.., 1963)
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MASSIMILIANO SAVORRA
Fig. 11. Milano, Il palazzo di piazza Duomo (AGTV, Palazzo di proprietà delle società Assicurazioni
Generali..., s.d.)
Fig. 12. Milano, Quartiere delle «Generali» (AGTV, Nuove iniziative edilizie a Milano.., 1962)
LA «CITTÀ DELLE GENERALI»
201
monumento a Vittorio Emanuele, ai provvedimenti più generali di trasformazione
ispirati da Sacconi, la piazza − ancora prima di essere consacrata «teatro dello stato»18
− diveniva così oggetto di attenzioni da parte della compagnia.
Non è un caso che, allorquando anni prima si era ventilata l’ipotesi di realizzare il
Vittoriano in piazza dell’Esedra secondo il progetto di Paul-Henri Nénot, vincitore
del primo concorso del 188119, le Generali avviarono trattative riservate per acquistare parte dell’area compresa tra via Nazionale e via Torino. Con la dichiarazione
di nullità del concorso, si arrestarono anche le ambizioni della compagnia del Leone
marciano. Soltanto tempo dopo, con l’abbattimento di palazzo Torlonia, Besso –
mediante l’intervento della Società Generale Immobiliare di cui era intanto divenuto
presidente – poté riconsiderare l’ipotesi di far realizzare la sede di rappresentanza
romana di fronte al monumento al Padre della Patria.
E mentre le strategie di affermazione della neonata nazione passavano in principal modo attraverso la qualificazione di spazi pubblici con monumenti ridondanti,
la compagnia – la «Venezia» come era allora nota in Italia20 – mediante una sorta di
captatio benevolentiae, realizzava in questo modo nella città dei papi la propria sede, e
questo nonostante le numerose critiche avanzate circa l’idea, nata dalle richieste della
«Commissione reale pel Monumento a Vittorio Emanuele», di replicare nelle forme
e nello stile il simmetrico palazzo Venezia21.
Rappresentazioni moderne della finanza: «lo stile 4,5%»
Se a Roma l’evidente aspetto strategico e politico rimarcava limiti e conflitti di
operazioni immobiliari dalle complesse implicazioni, a Milano – capitale finanziaria sempre più cosmopolita – l’accento si spostava verso la configurazione di uno
spazio simbolo di un’industria terziaria in piena espansione economica. Inaugurata
pochi anni prima di quella romana, la sede milanese – chiamata anche qui «Palazzo
Venezia» – nella prestigiosa piazza Cordusio (Luca Beltrami, 1902) si propose fin
da subito, in sintonia con le direttive del Piano Regolatore di Beruto22, come fulcro
fondamentale di una forma urbana con ambizioni da metropoli europea.
Approfondito ampiamente in tempi recenti23, l’episodio milanese – considerato
«la prova più impegnativa» di Beltrami – rappresenta la perfetta sintesi di cultura architettonica tardo-ottocentesca ed espressione sociale delle élites dominanti. Ad una
complessità dovuta alla forma del lotto e al suo rapporto con il contesto urbano24,
si affianca difatti una molteplicità di richieste impegnative – non ultima quella di
adottare «uno stile che renda il 4,5%»25 – cui l’architetto è chiamato ad assolvere.
In altri termini, si trattava di realizzare – come ha giustamente sottolineato Ornella
Selvafolta – un «edificio per il terziario, frutto di una corretta interpretazione del
destino di quella parte di città che, di lì a breve, nello slargo ellittico del Cordusio,
riceverà una più precisa definizione»26. Oltre ad essere considerato, da stampa e manualistica, un modello esemplare per la tipologia funzionale e per taluni aspetti co-
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MASSIMILIANO SAVORRA
struttivi27, il palazzo delle Generali, primo ad essere realizzato al Cordusio, diede
effettivamente avvio alla terziarizzazione dell’intera zona, che di lì a poco sarebbe
diventata la city milanese.
Tuttavia, sono le vicende del secondo dopoguerra del capoluogo lombardo ad
aiutarci a rintracciare il filo delle questioni inizialmente poste. In particolare, bisogna
fare riferimento al 1947, quando, all’indomani della guerra, si ha la fusione dell’Anonima Infortuni e dell’Anonima Grandine, società partecipate fondate da Besso alla
fine dell’Ottocento, con le Generali28. Per tale motivo, il palazzo di piazza Cordusio
– uno spazio dunque non più adatto alla accresciuta mole del lavoro – fu destinato
ad essere sostituito da un moderno complesso funzionale da costruirsi presso un’area
del Verziere (largo Augusto), acquistata nel 193829. Incaricato del progetto, Enrico
Agostino Griffini studiò una serie di interessanti soluzioni che non escludevano né
l’aspetto funzionale e al contempo monumentale, né tanto meno il dialogo e l’integrazione con il tessuto urbano circostante. Un primo tentativo di dare inizio al
processo di assimilazione di spazi cruciali all’interno del centro cittadino non più
legato a sole strategie d’immagine, ma prevedendo servizi e attività sociali, oltre che
ovviamente residenziali, in verità era stato il complesso studiato già dieci anni prima,
sempre da Griffini, su una vasta area di proprietà delle Generali situata nei pressi
delle vie Manzoni, Croce Rossa, dei Giardini e Pisoni30.
Ciò nonostante, nel 1953 l’orientamento della compagnia muta a favore della
realizzazione della «Cittadella delle Generali» tra via Tiziano e via Luca della Robbia,
nella zona dell’ex scalo Sempione nei pressi della Fiera di Milano; l’edificio al Verziere
– realizzato poi da Cesare Donini seguendo tutto sommato le linee già tracciate da
Griffini – non ospiterà più la sede principale, ma si tradurrà invece in una delle tante
operazioni di investimento immobiliare, come gli edifici di via Magenta, costruiti a
partire dal 1954 sempre su progetto di Donini.
Il quartiere delle Generali
«La grande ‘Città delle Generali’, che riunisce in una immaginaria sintesi le costruzioni della Compagnia sparse nei più diversi paesi d’Europa e fuori d’Europa, si è
arricchita di tutto un nuovo, moderno rione»31: con tale enfasi nel 1962, esponendo
un bilancio positivo, veniva presentata l’operazione immobiliare della «Cittadella».
Sotto la presidenza di Mario Abbiate, le Generali acquistarono il terreno nel 1952
dai fratelli Bonomi, che già nel 1941 avevano stipulato con il Comune una convenzione in attuazione dei piani urbanistici relativi alla zona, caratterizzata da una forte
presenza di alberature. Con decreto prefettizio di esproprio ed immissione in possesso veniva reso operativo il passaggio di proprietà delle aree già contemplate nei patti
definiti con il Comune: in base a tali accordi la superficie del comprensorio veniva
ridotta da 21 a 17 mila metri quadrati. Con il trasferimento alle Generali dei terreni,
nel maggio 1952, fu necessario stabilire le basi per ulteriori accordi con l’amministra-
LA «CITTÀ DELLE GENERALI»
203
zione civica, dovuti anche alle direttive del nuovo Piano Regolatore.
Prevedendo la nascita di un quartiere di 285 mila metri quadrati a destinazione residenziale di tipo semintensivo, il Piano definitivamente approvato nel maggio dell’anno successivo, per evitare una gravitazione verso il centro, contemplava
la possibilità di realizzare tanto un complesso ben agganciato alla struttura urbana
già esistente, quanto un comprensorio ex novo autosufficiente. Non è ben chiaro se
l’avvicendamento ai vertici dell’azienda avvenuto nel 1953 abbia influenzato le linee
strategiche in materia di investimenti immobiliari. Fatto sta che con la nuova presidenza dell’armatore Mario Tripcovich, le Generali si trovarono ad affrontare, oltre
alle consuete scelte di merito, anche le difficoltà poste dal vincolo di tutela delle bellezze naturali per gli alberi d’alto fusto esistenti, notificato alla compagnia nel 1954.
La riduzione delle originarie aree edificabili fu inevitabile, tuttavia il mantenimento
del verde contribuì non poco all’immagine e alla destinazione finali.
Autore del progetto di lottizzazione della zona e di sistemazione complessiva fu
Cesare Donini, già collaboratore, come abbiamo visto, della società assicuratrice.
Approvato nel maggio 1956, allorquando alla guida del gruppo era a sua volta giunto
Camillo Giussani, il progetto definitivo prevedeva per gli uffici la realizzazione di un
palazzo di rappresentanza articolato su tre corpi di fabbrica, e di dodici stabili ad uso
abitazione raggruppati in tre lotti, più la sistemazione di servizi e di ampie zone verdi.
Va ricordato come già a partire dai primi anni Cinquanta, nella metropoli lombarda
il fenomeno immigratorio fosse in crescita esponenziale, fino a toccare punte massime
nella seconda metà del decennio (basti pensare che – superando del 30% la quota del
1951 – nel 1961 la popolazione milanese aveva raggiunto la cifra di 1.600.000 abitanti), con la conseguente pressione della domanda di abitazioni32. E va altresì ricordato
che, come è noto, in questi anni la politica del «quartiere»33 – considerato quale un
«filtro» fra la popolosa comunità e la città storica – incontrava sempre più il consenso
della cultura urbanistica, oltre che istituzionale, dando l’opportunità agli architetti di
studiare e realizzare proposte di complessi autosufficienti. Tuttavia, all’interno di un
contesto politico assai delineato nei suoi aspetti «sociali», la strategia delle Generali si
discostava dagli interventi tanto di carattere riformista socialdemocratico quanto di
ispirazione cattolica, proponendo un equilibrato rapporto quantitativo tra abitazioni e
verde pubblico, ma senza quelle istanze ideologiche di matrice «collettivista» riscontrabili di contro negli episodi «agricoli» di Portonovo o di Ca’ Corniani34.
La distribuzione dei blocchi residenziali nel quartiere rivelava un tracciato direttivo e compositivo unitario e al contempo articolato, con scelte architettoniche
distanti sia dalla frammentazione in singoli edifici, presente in altri quartieri cittadini
di analoga ispirazione (come il De Angeli Frua), sia da opposti orientamenti (come
nei tanti quartieri di committenza pubblica)35.
Ma al di là dei multiformi aspetti dell’intervento, a renderlo particolarmente degno
di considerazione è il ruolo che tale complesso ebbe per le Generali agli inizi degli anni
204
MASSIMILIANO SAVORRA
Sessanta. Un ruolo che si consolidò parallelamente con il crescente significato dell’istituto assicurativo nel mondo economico e finanziario italiano: un significato che doveva
misurarsi, non più solo all’interno dell’immaginaria «Città delle Generali», universale e
dispersa, ma ora soprattutto all’interno della città reale, nel gioco delle parti con gli altri
poteri in grado di far mutare forma e apparenza a intere porzioni di città. Il fatto, poi,
che scelte ed esiti architettonici fossero diffusi e resi noti con strumenti di propaganda
ad hoc36, utilizzati in passato esclusivamente per operazioni dall’alto «valore aggiunto»,
è sintomatico dell’indiscutibile peso dato all’impresa immobiliare, considerata come
un vero mezzo moderno di espressione visuale. Valutando le politiche e le strategie
delle altre compagnie competitrici37, senza esagerare è certo possibile affermare in conclusione che il quartiere – parte urbana di una città virtuale e al contempo reale – di
fatto concretizzava un rinnovamento delle logiche d’investimento sulla base di principi
etici riconoscibili e condivisi, raggiungendo un livello, che – fatta eccezione per i casi
d’intervento pubblico – non era dato riscontrare altrove.
Massimiliano Savorra
*
I riferimenti indicati nel presente testo si riferiscono per lo più a fonti archivistiche e a stampa
conservate presso la Biblioteca delle Assicurazioni Generali di Trieste (Fondo storico librario), presso
la Fondazione Biblioteca di via Senato (Fondo di storia dell’impresa in Italia dall’unità), e presso la
Biblioteca di storia delle assicurazioni Mansutti di Milano. Altri materiali documentari sono conservati
presso l’Archivio Civico di Milano e presso il Fondo Enrico Agostino Griffini depositato all’Archivio
Progetti di Venezia. Desidero manifestare il mio ringraziamento per la disponibilità e la gentilezza incontrate in tutte le biblioteche e le istituzioni su citate.
Abbreviazioni: ARCHIVIO CIVICO DI MILANO = ACM; ASSICURAZIONI GENERALI DI TRIESTE E
VENEZIA = AGTV.
1
Costituita a Trieste il 26 dicembre 1831, la Compagnia gode fin da subito del favore di numerosi
azionisti e clienti. Tanto che, nel giugno dell’anno seguente, viene creata a Venezia la Direzione per lo
sviluppo del lavoro negli Stati italiani. Cfr. Il centenario delle Assicurazioni Generali 1831-1931, a cura
di G. Stefani, Trieste, Editrice la Compagnia, 1931.
2
Cfr. F. BALLETTA, Capitali, borsa e Assicurazioni Generali nel XX secolo, in ASSOCIAZIONE NAZIONALE
ARCHIVISTICA ITALIANA, Le carte sicure. Gli archivi delle Assicurazioni nella realtà nazionale e locale: le fonti, la ricerca, la gestione e le nuove tecnologie, Atti del convegno, Trieste, Stella, 2001, pp. 239-242. Dello
stesso autore si veda anche Mercato finanziario e Assicurazioni Generali 1920-1961, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane, 1995. Cfr. inoltre C. LINDMER-G. MAZZUCA, Il leone di Trieste. Il romanzo delle
Assicurazioni Generali dalle origini austroungariche all’era Cuccia, Milano, Sperling & Kupfer, 1990.
3
Le Assicurazioni Generali nel primo decennio del Regime, Trieste, Editrice la Compagnia, 1932, p. 7.
4
Sui successivi interventi cfr. D. BARILLARI, Architettura e committenza a Trieste: Piacentini e le
Assicurazioni Generali, «Archeografo Triestino», s. IV, LXIII, 2003, pp. 595-618.
5
Cfr. A. BELLINI, Luca Beltrami architetto restauratore, in Luca Beltrami architetto. Milano tra Ottocento
e Novecento, a cura di L. Baldrighi, catalogo della mostra, Milano, Electa, 1997, pp. 118-120. Si veda anche Il palazzo Venezia in piazza Cordusio a Milano, Trieste, Edizioni Assicurazioni Generali, 2000.
6
Cfr. Palazzo di proprietà delle società Assicurazioni Generali di Trieste e Venezia e l’Anonima Infortuni
di Milano in Milano, Roma-Milano, Bestetti e Tumminelli, s.d.; cfr. inoltre L. RINALDI, Gaetano Moretti,
Milano, Guerini Studio, 1993, pp. 216-217.
LA «CITTÀ DELLE GENERALI»
205
7
Si veda M. LUPANO, Marcello Piacentini, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 82-87; F. ROBECCHI,
Brescia Littoria. Una città modello dell’urbanistica fascista, Brescia, La Compagnia della Stampa, 1998,
pp. 79-173.
8
AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola, Bergamo, Edizioni Assicurazioni Generali,
1963, pp. 11-12.
9
AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola, cit., p. 13.
10
Ibidem.
11
Cfr. F. BALLETTA, Mercato finanziario, cit., pp. 11-13.
12
Le altre forme residue di investimento previste erano: prestiti sopra polizze di assicurazione sulla
vita; depositi presso la Cassa Depositi e Prestiti, gli istituti di emissione e le casse di risparmio; cambiali
scontabili con gli istituti di emissione; prestiti su pegno di titoli pubblici.
13
Cfr. AGTV, Generali, tradizione di immagine. I primi cento anni di comunicazione, Trieste, Edizioni
Assicurazioni Generali, 1993.
14
Cfr. M. BESSO, Autobiografia, Roma, Fondazione Besso Editrice, 1925.
15
Cfr. da ultimo Il tempo del Leone. Il lungo viaggio delle Generali dal 1831 al terzo millennio, Trieste,
Edizioni Assicurazioni Generali, 2002, pp. 34-35.
16
Cfr. I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari,
Laterza, 1997, p. IX.
17
Cfr. Il palazzo delle Generali a piazza Venezia, Roma, Editalia, 1993.
18
Sui significati della piazza cfr. S. BERTELLI, Piazza Venezia. La creazione di uno spazio rituale per un
nuovo Stato-nazione, in La chioma della Vittoria. Scritti sull’identità degli italiani dall’Unità alla seconda
Repubblica, a cura di S. Bertelli, Firenze, Ponte alle Grazie, 1997, pp. 170-205.
19
Cfr. M. SAVORRA, Il monumento a Vittorio Emanuele II: effigi e disegni per una giovane nazione, in
Verso il Vittoriano. L’Italia unita e i concorsi di architettura. I disegni della Biblioteca Nazionale Centrale di
Roma 1881, a cura di M.L. Scalvini, F. Mangone, M. Savorra, Napoli, Electa Napoli, 2002, pp. 42-67.
20
Cfr. A. ZIMOLO, Le Generali a Roma e la vita nel palazzo, in Il palazzo delle Generali a piazza
Venezia, cit., pp. 199-274: 210.
21
Paradossalmente, il «monumentissimo» aveva due palazzi austriaci come sentinelle: il palazzo
Venezia, ambasciata e proprietà austriaca dopo il trattato di Campoformio, e il palazzo delle Generali,
sede di una compagnia avente sede principale a Trieste, dunque austriaca. Cfr. A. ZIMOLO, Le Generali
a Roma, cit., pp. 211-212.
22
Cfr. M. BORIANI-A. ROSSANI, La Milano del Piano Beruto (1884-1889), «Rivsta Milanese di economia», X, 1984, 3, pp. 38-76.
23
Cfr. A. BELLINI, L’edificio di Luca Beltrami, in Il palazzo Venezia in piazza Cordusio a Milano, cit.,
pp. 125-178.
24
Cfr. L. BELTRAMI-L. TENENTI, Il Palazzo«Venezia» sede delle Assicurazioni Generali in Milano,
«Edilizia Moderna», IX, 1900, 5, pp. 33-40.
25
Beltrami chiede «al consiglio di amministrazione della compagnia, tramite il segretario Besso
di quale stile si desideri l’importante edificio. Una scelta dunque che non compete al pur oramai affermatissimo architetto, ma al committente che definisce l’immagine con la quale vuole presentarsi al
pubblico. La risposta è sconcertante: si desidera uno stile«che renda il 4,5%»». A. BELLINI, L’edificio di
Luca Beltrami, cit., p. 149.
26
O. SELVAFOLTA, Gli uffici e gli sviluppi del palazzo, in Il palazzo Venezia in piazza Cordusio a Milano,
cit., pp. 189-208: 194-195.
27
Informazioni sul processo costruttivo Hennebique utilizzato nel palazzo sono in C. COLOMBO,
L’introduzione del cemento armato a Milano tra Otto e Novecento, in Il modo di costruire, Atti del I seminario
internazionale, a cura di M. Casciato, S. Mornati, C.P. Scavizzi, Roma, Edilstampa, 1990, pp. 421-423.
28
Cfr. AGTV, La proprietà immobiliare urbana e agricola, Trieste, Edizioni Assicurazioni
Generali, 1951.
29
Cfr. ACM, prot. gen. 43433/1950 V.
30
Cfr. i documenti e i grafici conservati presso il Fondo Griffini, Archivio Progetti di Venezia. Per
una ricognizione si rimanda alla scheda contenuta nel volume di M. SAVORRA, Enrico Agostino Griffini.
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MASSIMILIANO SAVORRA
La casa, il monumento, la città, Napoli, Electa Napoli, 2000, pp. 194-195.
31
AGTV, Nuove iniziative edilizie a Milano. Il palazzo degli Uffici. Il quartiere residenziale, Trieste,
Edizioni Assicurazioni Generali, 1962, p. 4.
32
Sulla ricostruzione a Milano esiste una vasta letteratura; si rimanda comunque a F. IRACE, Milano,
in Storia dell’architettura italiana. Il secondo Novecento, a cura di F. Dal Co, Milano, Electa, 1997,
pp. 58-81. Si veda inoltre M. GRANDI-A. PRACCHI, Milano. Guida all’architettura moderna, Bologna,
Zanichelli, 1980 e M. BORIANI-C. MORANDI-A. ROSSARI, Milano contemporanea. Itinerari di architettura
e urbanistica, Torino, Designers Riuniti, 1986.
33
Cfr. C. PIGNOLI, Il QT8 e la politica del quartiere, in Milano ricostruisce 1945-1954, a cura di G.
Rumi, A.C. Buratti, A. Cova, Milano, Edizioni Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde, 1990,
pp. 143-171.
34
AGTV, Attività edilizie ed agricole nel 1953, Trieste, Edizioni Assicurazioni Generali, 1954.
35
Cfr. La grande ricostruzione. Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni Cinquanta, a cura di P. Di Biagi,
Roma, Donzelli, 2001.
36
AGTV, Nuove iniziative edilizie a Milano, cit.
37
Per un confronto si veda I settantacinque anni dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, Roma, Ed.
dell’Istituto nazionale delle assicurazioni, 1987, e E. TEDESCHI, Appunti per una storia. RAS: 1838-1988,
Milano, RAS, 1989.
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
GLI INTERVENTI IN ALESSANDRIA*
1. Alessandria e la famiglia Borsalino
Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e la prima metà del secolo successivo ad
Alessandria si costruisce la città contemporanea, moderna, efficiente e forte dei servizi necessari al bene dell’intera cittadinanza. Lo sviluppo urbano è fortemente condizionato, negli stessi anni, dallo smantellamento del circuito fortificato (in ritardo
rispetto ad altre realtà piemontesi), dall’abolizione della cinta daziaria (con legge del
1902) e dall’inserimento nelle zone marginali rispetto al centro storico di una serie
di attività industriali. A questi fattori si somma il ruolo fondamentale interpretato
dalla famiglia Borsalino: il padre Giuseppe e il figlio Teresio a capo del cappellificio
omonimo. Infatti, parallelamente al decollo dello stabilimento (fondato nel 1857),
all’attività produttiva a scala mondiale e al buon andamento degli affari, la famiglia
Borsalino si occupa in maniera assidua del finanziamento di importanti iniziative
socio-assistenziali. Teresio dedica una cura particolare non solo alle vicende del cappellificio, ma anche alla modernizzazione della città, garantendo un ingente apporto
finanziario. L’aver ereditato un florido organismo industriale, ormai proiettato in una
costante crescita, consente al futuro senatore di dispiegare un meritorio impegno a
favore della collettività1.
Nell’ambito delle strategie sottese alla costruzione fisica della città il ruolo interpretato dai Borsalino non è univoco. Alla tenace ricerca di costruire e raffinare l’immagine della famiglia – che si concretizza nella realizzazione delle case private, del
negozio nella via principale della città, della tomba nel cimitero cittadino – si affianca
la volontà di costruire luoghi strettamente legati all’attività produttiva e, quindi, lo
stabilimento industriale, più volte ampliato e rimaneggiato. Alla mera necessità di
creare spazi per il lavoro si accompagna l’esigenza di fornire abitazioni per i dipendenti, operai e impiegati; a ciò seguono ulteriori investimenti per opere di carattere
socio-assistenziale. La famiglia di imprenditori è alla ricerca di una propria affermazione, non solo economica ma anche sociale: ciò li porta a diventare i promulgatori
e i sostenitori della crescita urbana alessandrina nei primi decenni del Novecento. Il
208
ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON
mecenatismo di Teresio si affermerà in particolare dopo la Prima Guerra Mondiale,
parallelamente al rilancio della ditta: grazie ai suoi finanziamenti è avviata la costruzione dell’acquedotto e della rete fognaria urbana.
Le infrastrutture e i servizi socio-assistenziali vanno a definire l’ossatura della città
novecentesca; non secondario appare, tuttavia, il ruolo giocato all’interno del disegno urbano dallo stabilimento, vero fulcro nella parte sud della città. Il cappellificio,
ampliato in fasi successive, nel momento di massima espansione è articolato su due
grandi isolati a cavallo di uno spalto alberato (valicato da una passerella in cemento
armato demolita nel 1984, una volta dismessa l’attività produttiva). Il viale segna
ancora oggi il limite dell’antico circuito fortificato: lo stabilimento Borsalino si sviluppa in un’area intra/extra-moenia. Il grande impianto produttivo fungerà, quindi,
da cerniera tra la città ottocentesca e una nuova area di ampliamento, destinata principalmente a residenza dei lavoratori della fabbrica: il nuovo quartiere Pista troverà
nella vicinanza con il cappellificio un input considerevole, tanto che successivamente
gli edifici residenziali saranno occupati da un ceto medio-alto e non solo dai dipendenti del cappellificio.
2. La città di fine Ottocento
La costruzione e l’ampliamento dello stabilimento Borsalino, oltre che essere indissolubilmente legati all’ascesa sociale della famiglia e ovviamente all’affermazione a
scala mondiale della ditta alessandrina, costituiscono una vicenda parallela e strettamente connessa allo smantellamento della cinta fortificata e alla cessione dei terreni
da parte del Demanio.
Nel 1857, quando viene fondato il cappellificio da Giuseppe e Lazzaro Borsalino,
il nucleo di impianto medievale, fortemente rimaneggiato nel Settecento e nella
prima metà del secolo successivo, è ancora chiuso dalla cinta fortificata potenziata
durante l’occupazione napoleonica. Tra Sette e Ottocento è stata creata una città
moderna e salubre dove l’architettura si è fatta interprete del decoro, dell’ordine
pubblico e dell’ottenuta agiatezza economica. La borghesia imprenditrice ha investito nell’edilizia costruendo palazzi e opere pubbliche; la municipalità ha combattuto
la fatiscenza degli edifici nei quartieri più degradati e ha realizzato vaste aree adibite
a verde pubblico2.
Solo negli anni Sessanta dell’Ottocento sarà avviato lo smantellamento della cinta
bastionata, liberando in questo modo la città da ogni vincolo nella prospettiva di ulteriori ampliamenti. Il centro abitato è lambito dalle acque del canale Carlo Alberto,
realizzato a partire dal 1833 e ultimato solo nel 1846. I territori circostanti e la città
stessa sono attraversati da una rete idrica sfruttata per l’irrigazione delle aree agricole,
oltre che per il mantenimento della pulizia urbana e come forza motrice per il mulino di piazza d’Armi.
Se fin dalla metà del XIX secolo l’area a nord della città, al confine con la cinta
Fig. 1. Lo spostamento dell’alveo del canale Carlo Alberto condiziona la lottizzazione della zona meridionale della città.Ludovico Straneo, Progetto di
trasporto del canale Carlo Alberto e Piano regolatore per l’ampliamento a sud dell’abitato della Città, Alessandria 7 febbraio 1884 (ASAl, ASCAl, serie III,
n. 1643)
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
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ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON
Fig. 2. Lo stabilimento Borsalino in una veduta di fine Ottocento (Collezione privata)
Fig. 3. Pianta di Alessandria 1900 (ASAl, ASCAl, serie IV, n. 2860)
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
211
fortificata, si prefigura quale zona riservata ai servizi e ai luoghi per la «segregazione»
del male, inteso nel senso più ampio del termine (qui si costruiscono l’ospedale, il
manicomio, il penitenziario e più lontano il cimitero; e successivamente il dispensario antitubercolare e il sanatorio ad opera di Ignazio Gardella), nella zona a sud,
grazie al passaggio delle acque del canale Carlo Alberto, già negli anni Cinquanta
dell’Ottocento vanno a collocarsi le prime industrie alessandrine, tra le quali subito
emerge per importanza il cappellificio Borsalino. Nelle vicinanze del canale ben presto, grazie alla possibilità di sfruttare l’acqua, si insediano il mulino, il nuovo macello
municipale e un opificio; lo stesso cappellificio Borsalino verrà qui appositamente
trasferito (la prima sede, di dimensioni limitate, è localizzata all’interno del nucleo
abitato). L’abbattimento delle fortificazioni e lo spostamento dell’alveo del canale
condizioneranno il disegno urbano di intere porzioni di città; sui terreni liberati
verranno disegnati corsi e spalti alberati che si porranno quali cerniere tra la città
preesistente e le nuove aree di espansione.
Tuttavia, contrariamente a quanto accade nella maggior parte delle città europee,
mentre altrove si demoliscono le cinte fortificate (in alcuni casi l’abbattimento è già
stato completato), a ribadire il ruolo rimasto inalterato per Alessandria di centro
della difesa sabauda, fra il 1856 e il 1859 è costruito il campo trincerato3, una cinta
urbana con mezzelune antistanti e tre opere esterne a tracciato poligonale. Il perdurare del ruolo strategico-militare condiziona pesantemente scelte urbanistiche e
possibili piani di ampliamento della città. Con la costruzione del campo trincerato
quanto rimane della fortificazione napoleonica cade definitivamente in disuso. Nel
corso del secolo le fortificazioni sono state smantellate in alcuni punti per il passaggio
del canale Carlo Alberto o per l’arrivo della ferrovia; ancora negli ultimi decenni dell’Ottocento rimangono grandi cumuli di materiali mai livellati in maniera definitiva,
in quanto l’operazione richiede un grande dispendio di energie e una non meno
consistente spesa economica. Il perdurare della cinta fortificata permette, inoltre, il
controllo del pagamento del dazio che si effettua solo in prossimità delle porte urbane, dove a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento la municipalità ha fatto costruire
i casotti daziari e i pesi pubblici4.
Nel 1883 è chiamato a dirigere l’Ufficio Lavori Pubblici l’ingegnere Ludovico
Straneo, già professore di costruzioni all’Istituto Tecnico, consigliere comunale e assessore ai Lavori Pubblici5. Sono anni complessi per l’urbanistica alessandrina, anni in
cui si pongono le premesse della città contemporanea: forte di un’economia non più
esclusivamente basata sull’agricoltura e sul commercio, la borghesia si è affermata a
livello imprenditoriale e industriale. Le comunicazioni ferroviarie e i migliorati mezzi
di trasporto fanno sì che Alessandria si trovi al centro di traffici nazionali e internazionali. Straneo, a capo dell’Ufficio d’Arte, si impegna a far approvare dal governo
centrale e dal Consiglio comunale lo smantellamento definitivo delle fortificazioni:
opera di non facile risoluzione in quanto si vanno a intaccare gli interessi statali, mu-
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ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON
nicipali e dei molti privati che hanno in uso le aree prossime ai bastioni. Sul sedime
delle demolite fortificazioni sono tracciati i viali alberati, che mantengono ancora
oggi l’antica denominazione e ricordano i quattro borghi medievali da cui è nata
Alessandria: spalto Borgoglio, spalto Marengo, spalto Gamondio, spalto Rovereto.
Straneo progetta un anello alberato di sei chilometri con due strade laterali e un viale
centrale: «piano piano se ne colmarono i terrapieni che stringevano da vicino le ultime case, infondendo un senso di generale tristezza, se ne abbatterono le mura, e dove
essi sorgevano se ne costrussero strade di circonvallazione facendo in esse sboccare
tutte le vie della città»6. Gli spalti diverranno nei disegni dell’ingegnere municipale
gli assi dai quali si irradieranno le direttrici dei quartieri di nuovo impianto7.
Nel 1871 il cavalier Giuseppe Borsalino trasferisce il cappellificio sulla sponda
nord del canale Carlo Alberto: quattro edifici e sei cortili in mezzo agli appezzamenti
di prato che si estendono da via dell’Orto, oggi via Tripoli, sino all’antica strada di
circonvallazione8. Lo stabilimento, la cui localizzazione è fortemente condizionata
dalla prossimità del canale, si prefigura come polo di attrazione per lo sviluppo delle
infrastrutture cittadine e per la lottizzazione di vaste aree urbane.
Negli anni Ottanta la crisi agricola che colpisce l’intero Piemonte spinge la popolazione rurale a cercare lavoro nelle fabbriche in città. Nell’ambito del più complesso
progetto di sistemazione dell’area meridionale, si rende necessario prefigurare un ampliamento per Alessandria. In un primo momento la municipalità propone di spostare l’alveo del canale Carlo Alberto dal sedime dell’attuale corso Cento Cannoni9
all’attuale corso Teresio Borsalino e di abbattere la polveriera della Maddalena rendendo edificabile una vasta area della città ancora chiusa a sud dalle fortificazioni10:
qui verranno costruiti il nuovo cappellificio Borsalino e la caserma di artiglieria11. Gli
edifici sono racchiusi tra il nuovo corso e il canale Carlo Alberto, che scorre affiancato da un viale alberato e dalla strada di circonvallazione12.
3. Dalla fabbrica alla città
Nel decennio intercorso tra la proclamazione del regno d’Italia e il completamento dell’unità nazionale, all’interno di un lento processo di sviluppo economico che
coinvolge l’intera nazione, ad Alessandria, come in altri capoluoghi di provincia, il
proletariato trova occupazione nelle fabbriche. La città vede progressivamente alterare
il suo storico ruolo di centro del commercio agricolo e di piazzaforte militare. Negli
anni Sessanta la classe operaia lavora nelle prime fabbriche: i cappellifici di Giuseppe
Borsalino e di Sebastiano Camagna, il mobilificio Savio, le filande Montel e Ceriana,
la fonderia Thedy13. Lo stesso Giuseppe Borsalino, prima di diventare imprenditore
e, quindi, a sua volta creare nuovi posti di lavoro per i propri concittadini, ha avuto
modo di imparare il mestiere lavorando presso il cappellificio Camagna. Di umili
origini, il giovane Giuseppe compie forse una scelta casuale, ma fortunata, visto che
dopo l’apprendistato compiuto in Alessandria partirà per la Francia dove avrà modo
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
213
di conoscere tecniche di produzione per quei tempi all’avanguardia14. E proprio la
continua volontà di perfezionarsi nella lavorazione dei cappelli lo porterà dapprima a
Marsiglia e poi a Aix-en-Provence e a Bordeaux; da qui, dopo un quinquennio, torna
a Alessandria padrone di un ricco bagaglio tecnico. È con queste basi che Giuseppe,
con il fratello Lazzaro, fonda nel 1857 una follatura che trova sede in modesti locali
nel centro storico. Agli esordi graduali seguono successi entusiasmanti dovuti al continuo miglioramento delle fasi di lavorazione; già nel 1861 sono prodotti 60 cappelli
giornalmente. Una lunga serie di riconoscimenti e menzioni alle esposizioni di Parigi
(1867, 1875, 1900), Torino (1868, 1884), Barcellona (1888), Guatemala (1897)
accompagnano la crescita costante della Borsalino, costretta a ripensare già dopo
un decennio all’ubicazione dei locali in un sito maggiormente decentrato che possa
offrire ulteriori e indispensabili ampliamenti.
Nel 1871 la fabbrica (130 operai con una produzione giornaliera di 300 cappelli)
viene trasferita nell’attuale via Tripoli, sempre all’interno del centro storico, ma in
un’area di circa 3.500 metri quadrati a ridosso della circonvallazione e del canale
Carlo Alberto, oltre il quale si estende una vasta porzione di terreni demaniali sui
quali sarebbe sorto negli anni successivi il nuovo stabilimento15.
La cura costante dimostrata da Giuseppe nei confronti dell’addestramento delle
maestranze, della selezione delle materie prime (pelo di coniglio selvatico, castoro, nutria, lepre) e della lavorazione, sempre eseguita a mano, sono alla base dei
traguardi raggiunti dal cappellificio: l’esperienza lavorativa maturata in Francia si
rivela una risorsa fondamentale per meglio rispondere alle richieste del mercato
nazionale e internazionale.
Nel 1880 è acquistata un’ampia porzione di terreno demaniale (circa 18.000 metri
quadrati) oltre il canale. Il sedime delle antiche fortificazioni, ormai completamente
smantellate, è ribadito all’interno del disegno urbano dal circuito degli spalti alberati; i terreni limitrofi di proprietà demaniale, sia verso il centro abitato sia verso la
campagna, sono immessi sul mercato immobiliare. La lottizzazione si innesca immediatamente nelle zone di saldatura con il tessuto preesistente: la nuova area progettata
come ampliamento meridionale della città vede nella grande piazza porticata (attuale
piazza Garibaldi), nei giardini pubblici e nell’asse del canale interrato gli elementi di
cerniera tra tessuto storico e nuove lottizzazioni. I grandi isolati della caserma Valfrè e
del cappellificio Borsalino (la superficie di quest’ultimo è oltre il doppio di un isolato
ad uso residenziale) segnano il limite della città costruita.
Il nuovo canale Carlo Alberto scorre parallelo al sedime del primo, a distanza di
circa centocinquanta metri, e affiancato da un piccolo canale, detto la «canalina», destinato a far funzionare la prima turbina idraulica che costituisce la base della meccanicizzazione e della elettrificazione del nuovo stabilimento Borsalino16.
Il decollo dell’azienda e la definitiva affermazione sui mercati nazionali e internazionali avviene nell’ultimo ventennio del secolo: senza pregiudicare la qualità, Giuseppe
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ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON
riesce a meccanizzare le fasi di lavorazione aumentando considerevolmente il numero
dei cappelli prodotti. La discesa in campo negli importanti mercati inglesi, francesi, ma anche russi, sudamericani e australiani (spodestando qui il monopolio inglese)
costituisce la componente più dinamica del fatturato. «E fu appunto la crescita delle
esportazioni a trainare la brusca accelerazione della Borsalino a cavallo tra l’Ottocento
e il Novecento, determinando la sua definitiva ascesa nell’olimpo industriale con 1.250
addetti e 750.000 cappelli prodotti, per circa due terzi esportati»17.
A un costante e solerte impegno a sostegno dei propri dipendenti, Giuseppe
Borsalino unisce interesse e attenzione per l’intera comunità locale. L’inaugurazione
dell’Educatorio, poco prima della sua morte, giunge dopo un’ininterrotta partecipazione dimostrata con sottoscrizioni e donazioni a favore dei feriti della terza guerra
d’Indipendenza, dei caduti d’Africa, dell’ospedaletto infantile, o con la creazione di
un sussidio per i lavoratori inabili. Lo stretto rapporto tra la famiglia e Alessandria,
che culminerà con l’attività del figlio Teresio impegnato nella costruzione anche fisica
della città, trova, quindi, le sue basi nell’attività del padre Giuseppe, attento, inoltre, ad ottenere, attraverso lo scambio politico-sindacale, una situazione moderata e
controllabile tra i lavoratori in fabbrica18; Giuseppe finanzia anche la realizzazione di
case operaie per i propri dipendenti. La costruzione dell’Educatorio è uno degli ultimi atti della sua attività filantropica19: l’obiettivo perseguito è quello di ospitare gli
alunni di entrambi i sessi dopo l’orario di chiusura delle scuole pubbliche, assistiti da
insegnanti nei compiti e nella ginnastica. La scelta dell’area cade su un terreno non
troppo lontano dalla fabbrica, in affaccio sullo spalto alberato, prossimo alla piazza
Garibaldi20. Il numero dei bambini frequentanti aumenta in maniera considerevole:
300 nel 1906 e 350 nel 1909, grazie anche all’espansione della fabbrica e all’aumento del numero dei dipendenti. Al doposcuola e alla ginnastica si affiancano gite al
mare e a Pecetto, paese natale della famiglia Borsalino; alla domenica è obbligatorio
assistere alla funzione religiosa nella cappella interna all’edificio, cui si accompagna
settimanalmente il catechismo.
«Emergendo da una posizione marginale in fabbrica seppur dopo un lungo tirocinio
nei diversi reparti, e dotato di un grande bagaglio di conoscenze acquisite direttamente
all’estero, Teresio Borsalino assunse nel 1900 il timone della azienda che si apprestava a
vivere una stagione di straordinari successi sui mercati di tutto il mondo»21.
Con la morte di Giuseppe le scelte e le responsabilità economiche e produttive
all’interno del cappellificio vengono assunte dal figlio Teresio. Anch’egli aveva avuto la possibilità di viaggiare in Europa, tra la Svizzera, il Belgio, l’Inghilterra e la
Germania, dove aveva potuto acquisire i fondamenti della tecnica produttiva, oltre
che conoscere gli andamenti dei mercati internazionali. Nel 1902 Teresio entra nel
Consiglio comunale insieme a una nutrita rappresentanza dell’aristocrazia industriale alessandrina: la presenza imprenditoriale all’interno dell’amministrazione locale
coincide, non casualmente, con un programma finalizzato a favorire lo sviluppo delle
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
215
Fig. 4. La fabbrica Borsalino nei primi anni del Novecento (in La ditta Borsalino Giuseppe & Fratello per
l’Esposizione Universale Internazionale di Bruxelles 1910, Milano 1910)
Fig. 5. Nel 1925 Arnaldo Gardella
progetta la palazzina per uffici dello
stabilimento Borsalino.
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ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON
iniziative economiche. «Lo strumento fiscale – rimborsi ed esenzioni di dazi – si
configurò come una forte leva di politica economica locale, impiegata dall’amministrazione in funzione redistributiva a vantaggio dell’industria»22.
Sono anni in cui la municipalità assume un ruolo di rilievo nella politica sociale,
urbanistica e fiscale: in quest’ambito l’alienazione di aree a favore degli insediamenti industriali si prefigura quale fautrice del rafforzamento patrimoniale della famiglia
Borsalino. Nel 1910 viene affittato, per trent’anni, dall’amministrazione demaniale, un
terreno situato oltre il canale Carlo Alberto destinato ad ospitare il nuovo impianto termoelettrico, con una spesa preventivata di circa mezzo milione di lire, per assicurare la
forza motrice necessaria alla crescente attività del cappellificio. La trattativa è contestata
aspramente da Urbano Rattazzi, candidato dai socialisti al Consiglio provinciale, ed è
letta dall’opinione pubblica, o da chi non appoggia il raggruppamento liberal-cattolico,
come un ulteriore tentativo di affermarsi da parte della famiglia Borsalino. A seguito di
questo duro attacco nato sui banchi del Consiglio cittadino, emerge una nuova attenzione per alcune iniziative assistenziali. Sicuramente Teresio ha ereditato dal padre un
atteggiamento filantropico, ma la volontà di recuperare il consenso sociale compromesso dalle polemiche lo sprona a integrare finanziamenti deliberati dal Comune e dalla
Cassa di Risparmio di Alessandria, al fine di attrezzare un reparto tubercolotici presso
l’ospedale cittadino. La donazione di un milione di lire è vincolata ad alcune condizioni imposte da Teresio, che richiede, a parità di gravità della malattia, la precedenza
nell’eventuale ricovero per i dipendenti del cappellificio.
Si apre con questa elargizione un costante impegno da parte della famiglia nei
confronti degli ospedali cittadini e, in particolare, una tenace volontà di combattere,
o almeno di arginare, la tubercolosi. La realizzazione di un apposito padiglione all’interno del complesso ospedaliero alessandrino, avviata nel 1913 grazie a un consistente finanziamento, rimane alla fase progettuale per ostacoli di natura economica;
solo alla fine degli anni Venti l’edificazione del sanatorio, nella zona extra-urbana di
Orti, concretizzerà l’impegno della famiglia.
Dopo la Prima Guerra Mondiale l’apporto finanziario che Borsalino indirizza alla
modernizzazione della città si fa sempre più ingente. Sin dal 1920 Teresio decide di
dotare Pecetto, il paese natale sulle colline dell’alessandrino, di un acquedotto intitolato al padre Giuseppe e ceduto a titolo gratuito al comune. Tra il 1924 e il 1927 è
avviata la costruzione dell’acquedotto di Alessandria con 1.500 allacciamenti iniziali
e l’onere di oltre 5 milioni di lire assunto da Borsalino, innescando la predisposizione
della rete fognaria, già approvata dall’Ufficio Tecnico Municipale, finanziata dall’imprenditore con 2,7 milioni.
Borsalino si assume l’impegno di dotare Alessandria di infrastrutture basilari, senza trascurare le iniziative socio-assistenziali, culminate con la costruzione dell’Ospizio della Divina Provvidenza e con l’ammodernamento e l’ampliamento della casa di
riposo, i cui progetti sono affidati agli ingegneri Arnaldo Gardella e Luigi Martini23.
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
217
È inaugurata in questo modo una stretta collaborazione tra i Borsalino e i Gardella (il
padre Arnaldo e il figlio Ignazio), progettisti chiamati in diverse occasioni (e nell’arco
di vari decenni) a rispondere alle esigenze espresse sia sul fronte privato (ville, studi,
la cappella cimiteriale di famiglia), sia su quello più rappresentativo (negozi, stand,
ampliamento e ricostruzione dello stabilimento, residenza per gli impiegati della fabbrica), che su quello con forti implicazioni socio-assistenziali (Istituto delle Suore
della Divina Provvidenza, Sanatorio Vittorio Emanuele III, ospedale infantile).
Già nel 1927 Teresio Borsalino invia a madre Teresa Michel le chiavi della nuova
Casa della Divina Provvidenza nel quartiere Orti24. Colpito dall’impegno dimostrato
nel soccorrere i più deboli e dall’inadeguatezza dei locali in cui la suora in un primo
momento offriva ricovero e soccorso, Borsalino decide di far costruire un nuovo
ospizio su un terreno messo a disposizione dalla municipalità a ridosso della nuova
piazza d’Armi. La struttura, costata oltre otto milioni di lire, si estende per circa
17.000 metri quadrati dove sono realizzati refettori, dormitori, laboratori, aule, la
chiesa e l’infermeria: un centinaio di locali in grado di ospitare circa cinquecento
persone, suore e degenti, dotati di impianto di riscaldamento con termosifoni, luce
elettrica, acqua potabile e gas.
All’inizio degli anni Trenta Teresio Borsalino promuove la ristrutturazione e l’ampliamento della casa di riposo affacciata su corso Lamarmora. Questo non meno
importante finanziamento è motivato dallo stesso imprenditore anche dalla necessità
di creare nuovi posti di lavoro per arginare una crescente disoccupazione: la crisi dell’economia nazionale non ha risparmiato neanche il cappellificio alessandrino, la cui
produzione ha subito un arresto e molti operai hanno perso il posto di lavoro. «Per
queste ragioni di carità e di civismo mi sono deciso di compiere a mie spesa l’opera benefica di ampliamento della Casa di Riposo che mi costerà qualche sacrificio
pecuniario. Ma lo faccio con lieto animo perché compio un dovere di cristiano e di
cittadino25». Anche in questo caso il progetto per l’ampliamento è affidato allo studio
milanese di Arnaldo Gardella e Luigi Martini, che scelgono un lessico profondamente radicato nella cultura tradizionalista che permea la prima metà del Novecento.
Se nel 1913 il finanziamento predisposto per la costruzione di un nuovo padiglione destinato ai malati di tubercolosi non ha portato a un concreto risultato, è
sempre Teresio a intervenire per realizzare con la necessaria rapidità la costruzione
del Sanatorio Vittorio Emanuele III. Fin dal 1919 ha finanziato l’adattamento e
l’arredamento dei locali dell’ambulatorio provinciale antitubercolare, data anche
l’incidenza non marginale della malattia tra gli operai e in particolare tra le operaie
della fabbrica. E ancora una volta il progetto è affidato a Gardella e Martini26.
Se i Borsalino sono i protagonisti della vita sociale ed economica della prima
metà del secolo e Alessandria è il palcoscenico su cui si muovono, le architetture
volute e tenacemente perseguite da essi prenderanno forma solo tramite i progetti
e le opere firmate dai due Gardella.
218
ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON
L’intreccio tra Alessandria, i Borsalino e i Gardella si fa con gli anni sempre più
stretto. Arnaldo progetta una villa a Santa Margherita Ligure per la famiglia Usuelli
(soci e cugini dei Borsalino), mentre Ignazio sposa nel 1933 Aura Usuelli, nipote
di Teresio. I Gardella accompagnano lo sviluppo della fabbrica siglando progetti
ad essa strettamente legati: Arnaldo progetta nel 1925 l’ingresso principale, i locali
per gli uffici e l’atrio monumentale in cui compiaciuto si autoritrae in un disegno.
Ignazio negli anni Trenta firma il dispensario antitubercolare, l’edificio che lo consacra fra i maestri dell’architettura italiana del Novecento, il cui iter progettuale
travagliato e combattuto ben rappresenta la vicenda architettonica tra la due guerre. Al dispensario contrappone il laboratorio di igiene e profilassi in un’unica elaborazione progettuale con forti componenti urbane, tuttavia gli edifici sono risolti
secondo partiture di facciata e texture di materiali completamente differenti.
Gli anni Trenta, pur segnati da un declino nella produttività della fabbrica, non
vedono un arresto nell’attenzione che Teresio dimostra per la propria città: con un
investimento complessivo di circa cinquanta milioni di lire correnti Alessandria
alle soglie della Seconda Guerra Mondiale ha finalmente una rete fognaria, l’acquedotto comunale, oltre che ospizi per poveri e anziani, un dispensario e un
sanatorio antitubercolare.
Con la morte di Teresio nel 1939 e lo scoppio del conflitto mondiale il legame
tra i Borsalino e la città, tra la fabbrica e il disegno urbano di un’intera area non è
reciso, e Ignazio Gardella continua ad essere l’architetto di riferimento. Nel dopoguerra egli collabora al progetto per la ricostruzione dello stabilimento Borsalino,
gravemente danneggiato durante le incursioni aeree del 1944, mentre tra il 1947 e
il 1973 è impegnato nell’ampliamento dell’ospedale infantile e, in particolare, del
padiglione intitolato a Rosa Borsalino. Lungo lo spalto alberato, nella zona nord
della città antistante l’ospedale e il manicomio, negli anni del dopoguerra Ignazio
Gardella lavora alla costruzione dell’ospedale infantile e dell’Istituto tecnico industriale (1959-1967)27.
Negli stessi anni nell’area a meridione, strettamente connessa alla fabbrica,
Ignazio Gardella procede alla realizzazione della palazzina per la taglieria del pelo
(1949-56), edificio all’epoca incluso nel perimetro della fabbrica e ora, dopo la
demolizione del complesso, rimasto a testimoniare una funzione industriale ormai
scomparsa28. Quasi contemporaneamente la famiglia Borsalino chiede al progettista di concepire in un’area attigua, al di là del corso alberato, un fabbricato destinato alla residenza delle famiglie degli impiegati. Il sedime su cui Gardella realizza
uno dei suoi capolavori è stato concesso al cappellificio dal Comune in permuta
di due lotti situati poco distante, all’interno del quartiere Pista. Gli appezzamenti
erano stati acquistati nel 1945 prevedendo un ulteriore ampliamento dei locali
destinati alla produzione, eventualità mai concretizzatasi.
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
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Fig. 6. Arnaldo Gardella e Luigi Martini. Casa di riposo
Fig. 7. Arnaldo Gardella e Luigi Martini. Istituto di Divina Provvidenza Madre Teresa Michel (1927)
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ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON
4. La presenza nell’assenza
Nella prima metà del Novecento, a una presenza quasi ingombrante della famiglia
Borsalino nella città e anche del suo stabilimento, sovradimensionato rispetto alla tessitura della città ottocentesca, si contrappone, a partire dagli anni Ottanta del secolo,
l’assenza, il vuoto urbano generato dalla quasi totale demolizione del cappellificio.
La localizzazione dello stabilimento ha profondamente segnato le scelte urbanistiche legate alla zona meridionale della città. Come già detto, se a nord nel corso di più
di un secolo si sono localizzati i servizi socio-assistenziali, alcuni dei quali finanziati
totalmente o in parte dai Borsalino (sanatorio, Istituto della Divina Provvidenza,
ospedale infantile), a sud la vicinanza con la fabbrica ha innescato la lottizzazione a
scopi residenziali. In un primo momento è il quartiere Pista di impianto novecentesco ad ospitare case mono e bifamiliari di bassa qualità, alle quali si affiancano, in
casi più isolati, palazzine liberty e art-decò di pregio. Ancora negli anni Cinquanta
Gardella costruisce lungo lo spalto la casa degli impiegati, edificio al quale lui stesso
si dichiara indissolubilmente legato29.
Il crollo delle vendite e le gravi conseguenze economiche che lo stabilimento si
trova ad affrontare portano al trasferimento dei locali destinati alla produzione e,
con i primi anni Ottanta, a una quasi totale demolizione della fabbrica. La scelta
operata è quella di mantenere e restaurare, nell’isolato tangente il centro storico, la
palazzina con ingresso su Cento Cannoni progettata da Arnaldo Gardella nel 1925,
destinandola a sede universitaria. Nell’isolato più periferico, oltre lo spalto alberato,
viene conservata, e solo recentemente ristrutturata, la palazzina della taglieria del
pelo, attualmente sede del Collegio dei costruttori.
La cittadinanza assiste attonita e avvilita alla cancellazione di una parte di città e
di un frammento di storia cittadina: è demolita la quasi totalità del complesso e la
passerella in cemento armato che valicava lo spalto alberato. All’ultimo atto, l’atterramento della ciminiera, che segue a un lungo e aspro dibattito e a molti tentativi di
sospensione, presenzia una folla di persone, tra cui moltissimi ex dipendenti. Il sentimento comune è quello di vedersi privati di un simbolo della città e della cancellazione di un periodo in cui la famiglia Borsalino ha rappresentato l’ascesa economica
di un’intera comunità.
La demolizione libera, in una zona molto prossima al centro, due grandi isolati chiamando gli organi competenti a decidere sulla nuova destinazione e, quindi,
a determinare un nuovo disegno urbano. Sull’area della «Borsalino» demolita ecco
tornare ancora una volta Ignazio Gardella, questa volta affiancato dal figlio Jacopo.
L’obiettivo è quello di costruire un nuovo supermercato Esselunga (marchio con
il quale i Gardella hanno già lungamente collaborato)30 e il complesso Agorà per
residenze e uffici. La volontà è anche quella di creare una ricucitura con l’architettura industriale di Arnaldo, alla quale Ignazio e Jacopo guardano e si ispirano nella
partitura dei prospetti e nel disegno delle finestrature. In un solo isolato si snoda un
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
221
percorso tra diverse generazioni di una stessa famiglia di architetti, chiamati in tempi
successivi a confrontarsi con la presenza (e l’assenza) di uno dei più importanti cappellifici a scala mondiale31.
Al di là del corso alberato, il grande isolato liberato a seguito della demolizione
è destinato a ospitare, anche in questo caso, un grande complesso residenziale, per
il quale viene interpellato alla metà degli anni Ottanta Paolo Portoghesi. Nell’area
antistante la palazzina della taglieria del pelo, improvvisamente liberata anche del
muro di cinta e chiamata forzatamente a colloquiare con un contesto che le è del
tutto estraneo, il Piano Regolatore impone la realizzazione di una zona destinata a
verde pubblico. La mole poco armoniosa del complesso progettato da Portoghesi
si trova a confrontarsi con la massa misurata e compatta della casa degli impiegati
così prossima. Modi differenti di intendere i luoghi dell’abitare all’interno della città
contemporanea hanno costruito un brano di città, andando a riempire vuoti lasciati
dalla cancellazione di complessi industriali e a comunicare in modo differente con il
contesto urbano.
Poco distante dagli interventi di Paolo Portoghesi e di Ignazio e Jacopo Gardella,
impegnati nella ricostruzione di un importante pezzo di città e, ancora una volta,
nella ricucitura di un tessuto lacerato, in seguito a una nuova demolizione di uno
stabilimento industriale dismesso, Alessandria ha assistito, in anni ancora più recenti,
alla definizione di un nuovo progetto sospeso fra l’intervento architettonico e la scala
micro-urbana. Ancora una volta è l’assenza, un vuoto a seguito di una demolizione,
a richiedere l’intervento di un esponente dell’architettura contemporanea. La demolizione dello stabilimento Olva, nel quartiere Pista, crea le premesse per accogliere la
prima opera italiana di Léon Krier. Attraverso la rilettura degli archetipi classici della
storia dell’architettura, sommando stilemi della città di area padana e caratteri maggiormente piemontesi, Krier costruisce il borgo «Città nuova». Qui corti, portici, anditi si susseguono riproponendo scorci e percorsi di un borgo nella città, al contempo
chiuso su se stesso ma in continua disputa con il contesto. La piazza aperta su corso
IV Novembre, dominata dall’edificio della banca, in cui la sproporzionata colonna in
facciata funge da monumento autoreferenziale, sancisce l’accesso al nuovo luogo urbano definendone il limite, ma anche la frons scenica di un nuovo luogo dell’abitare
in una città ancora alla ricerca di una propria identità architettonica.
5. La casa degli impiegati nel dibattito architettonico del dopoguerra
Nel 1948, nel momento in cui la famiglia Borsalino al suo interno discute sulle modalità operativo/funzionali della ricostruzione della fabbrica, a seguito dei consistenti
danni di guerra subiti, Ignazio Gardella è incaricato dalla stessa famiglia di progettare
una residenza di tipo economico per i propri impiegati (in affitto, con possibilità di
riscatto) sul lotto posto a lato della grande fabbrica, lungo il corso Teresio Borsalino.
Gardella all’epoca già collaborava con Franco Albini per la progettazione di case
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ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON
Fig. 8. La portineria del sanatorio intitolato, ora, a Teresio Borsalino
Fig. 9. L’ospizio della Divina Provvidenza (da Giuseppe Borsalino 1834-1934, Milano 1934)
Fig. 10. Veduta dello stabilimento Borsalino (da Giuseppe Borsalino 1834-1934, Milano 1934)
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
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popolari per lo IACP e l’INA-Casa, ma questa di Alessandria è un’occasione di riflessione su come applicare le «moderne» soluzioni adatte per una residenza di tipo
economico, dall’uso della prefabbricazione all’individuazione di assetti distributivi
tipologicamente nuovi. Per la casa degli impiegati Gardella sviluppa anche l’idea di
garantire all’edificio residenziale un proprio «carattere urbano» che, come tale, deve
essere inserito nel contesto con una propria autonomia.
Nel «I° Convegno nazionale per la ricostruzione edilizia», svoltosi a Milano il 1416 dicembre 1945, si avvia il dibattito sul problema della casa e sulle sue modalità di
costruzioni sperimentali; Gardella interviene con la relazione: Necessità di una evoluzione della tecnica edilizia e mezzi atta a favorirla, a cui fanno seguito il suo impegno
sia nella commissione UNI (1946), in qualità di presidente, con la stesura della
Relazione riguardante l’unificazione provvisoria in applicazione sperimentale (1947),
sia nella progettazione di edifici residenziali con Franco Albini (Unità di abitazioni
componibili per l’industria Ansaldo), sia, infine, nei concorsi per i quartieri IACP a
Milano (1945-1946).
Negli argomenti affrontati la posizione di Gardella è al contempo di tipo «tecnico»,
quando emerge il suo essere specialista del costruire, e di tipo «sociale», quando afferma l’utilità dell’architettura quale impegno sociale: egli sostiene che il procedimento
seriale della prefabbricazione totale esclude l’aspetto espressivo dell’architettura. Per
lui la prefabbricazione determina un controllo della quantità (dimensione/standard)
e un controllo delle fasi costruttive e dell’estensione operativa (modalità/costi), elementi considerati essenziali ma non unici, requisiti non determinanti un prodotto
di qualità; egli indica che è necessario continuare a lavorare «sull’architettura» e sulla
sua decorazione, magari contemplando all’interno del processo fasi di lavorazione
artigianale capaci di avvicinare l’opera al luogo dove sorge.
Il dibattito avviato nel 1945 confluisce operativamente nel piano Fanfani del
1948 o Legge INA-Casa, dal titolo: «Provvedimenti per incrementare l’occupazione
operaia agevolando la costruzione di case per lavoratori», nella quale si configura
un solido e rapido intervento da parte delle pubbliche istituzioni, esteso all’intero
territorio nazionale e indirizzato a soddisfare la richiesta immediata di case da parte
dei lavoratori in difficoltà, seguendone tutte le fasi operative, dalla programmazione
(pluriennale) e dal reperimento dei fondi, sino alla realizzazione dei quartieri e alla
consegna degli appartamenti alle singole famiglie.
L’esperienza condotta da Gardella dal 1945 sulle modalità d’intervento (normative e applicative) costituisce una solida competenza che confluirà nei progetti e nelle
realizzazioni del quartiere IACP Mangiagalli a Milano (1950-1952), elaborato con F.
Albini, e del quartiere INA-Casa di Cesate (1951-1963), elaborato in collaborazione
con F. Albini, G. Albricci, L.B. Belgiojoso, E. Peressutti e E.N. Rogers.
La Casa degli Impiegati di Alessandria (1948-1952) si distingue dalle altre esperienze di case economico-popolari, lontano dal ricordo di quei quartieri periferici
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
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mai realmente integrati alla città, per il suo insito carattere urbano: «l’edificio, posto
a diaframma fra la città e la campagna, conserva una sua solenne monumentalità,
una sua forza riassuntiva. Diviene immagine urbana, come pochi edifici moderni
sono in grado di fare»32.
L’edificio, con un affaccio verso strada di quasi quarantasette metri per un’altezza
di otto piani fuori terra, si slancia verso il cielo con una volumetria al tempo stesso
articolata e compatta. L’intera facciata si spezza in piani, identificati per il medesimo
texture (composto da piastrelline in clinker di colore bruno) e simmetria nelle pieghe,
nei risvolti e nelle bucature. Queste ultime, costituite da porte finestre complanari al
rivestimento, tutte uguali nelle dimensioni (m. 1,20 x 3,00) e nei colori e con le ante
esterne scorrevoli, aggiungono gioco e movimento alla staticità degli spigoli netti e
alla riquadratura dell’esile lastra nervata della copertura piana che chiude il volume
con slancio (dato dal lungo aggetto, quasi m. 2,00).
Annalisa Dameri - Silvia Gron
Annalisa Dameri ha redatto i paragrafi 1, 2, 3, 4, mentre Silvia Gron ha redatto il paragrafo 5.
Abbreviazioni: ARCHIVIO DI STATO DI ALESSANDRIA = ASAL; ARCHIVIO STORICO DEL COMUNE DI
ALESSANDRIA = ASCAL
1
Il presente saggio ha le sue basi essenziali nelle ricerche coordinate da Vera Comoli e confluite
in una recente pubblicazione (Alessandria e Borsalino. Città architettura industria, a cura di V. Comoli,
Alessandria, Soged, 2000). Altre ricerche su Alessandria e, in particolare, sulla figura di Ignazio
Gardella, progettista eletto dalla famiglia Borsalino artefice di un’immagine moderna della famiglia
e della città, sono scaturite da un’esperienza didattica per i dottorati di ricerca in Storia e Critica dei
Beni Architettonici e Ambientali e di Teoria e costruzione dell’architettura del Politecnico di Torino,
condotta nel 2003 e nel 2004 con Silvia Gron. Per i riferimenti bibliografici più recenti si rimanda
a S. GUIDARINI, Ignazio Gardella nell’architettura italiana. Opere 1929-1999, Ginevra-Milano, Skira,
2002; Ignazio Gardella. Progettare con, a cura di A. Dameri, S. Gron, Cd rom, Politecnico di Torino,
Dipartimento Casa-Città, Dottorato di Ricerca in Teoria e Costruzione dell’Architettura, 2004, Collana
Strumenti per la Didattica.
2
A. DAMERI, Luoghi e architetture nella città dell’Ottocento, in Alessandria e Borsalino, cit., pp.
105-123; EAD., Leopoldo Valizone architetto in Alessandria. Un architetto per la città negli anni della
Restaurazione, Torino, Celid, 2002.
3
Il campo trincerato va a perfezionare la cinta urbana potenziata durante l’occupazione napoleonica: negli anni della Restaurazione i bastioni sono stati demoliti in alcuni punti per permettere l’ingresso
in città del canale Carlo Alberto. L’arrivo della ferrovia nella zona sud della città e la conseguente costruzione della stazione ne hanno imposto un’ulteriore parziale demolizione e la sistemazione dell’area che
separa il nucleo urbano nella zona prossima alle attuali corso Roma e via San Lorenzo.
4
L. VALIZONE, Piano indicante il preciso perimetro che si destina pel Distretto del dazio Civico della
Città di Alessandria per l’esercizio del Medesimo nell’appalto che deve aver principio col primo prossimo gennaio 1848, Alessandria 6 settembre 1847 (ASAL, ASCAL, serie III, Atti e Contratti, vol. 741, c. 774). Per la
realizzazione dei casotti daziari e dei pesi pubblici cfr. A. DAMERI, Leopoldo Francesco Valizone, cit.
5
Per la figura di Ludovico Straneo cfr. V. Guerci, L’Ing. Ludovico Straneo e l’edilizia Alessandrina di un
*
226
ANNALISA DAMERI - SILVIA GRON
cinquantennio, «Rivista di Storia, Arte e Archeologia per la Provincia di Alessandria», XLIV, 1935, pp. 157171; A. Damer i, Eclettismo nell’architettura funeraria: Lodovico Straneo e il Cimitero di Alessandria, «Rivista
di Storia Arte e Archeologia per le province di Alessandria e Asti», CV, 1996, pp. 291-301.
6
[L. STRANEO], Alessandria nel mezzo secolo dal 1846 al 1896, Milano, Boratto, 1896, p. 12.
7
Gli ultimi decenni dell’Ottocento rappresentano per Alessandria un momento di importante
crescita urbana. Tra i progetti realizzati si ricorda il piano di ingrandimento verso Porta Savona, la
realizzazione della grande piazza porticata (attuale piazza Garibaldi), la costruzione del passage Guerci
e della nuova sinagoga nel centro storico, l’ampliamento del cimitero, il risanamento, avvenuto tramite sventramenti e ricostruzioni, di ampie porzioni di tessuto urbano degradato. Cfr. A. DAMERI,
Luoghi e architetture nella città dell’Ottocento, cit.; C. BOIDO-P. DAVICO, Il disegno delle piazze porticate in
Piemonte. Le nuove «porte» della città ottocentesca, Torino, Celid, 2004.
8
L’antica sede dello stabilimento Borsalino è tutt’ora riconoscibile nel tessuto edilizio cittadino ed è
indicata con il nome comune di cararola, dal termine di origine tardomedievale cararolia.
9
Il lato sud del nuovo corso alberato ospita la caserma di artiglieria, quella dei carabinieri e il grande
isolato del cappellificio Borsalino, mentre per il versante nord è proposto un progetto, poi abbandonato, di lottizzazione a villini con giardini da corso La Marmora sino alla piazza Garibaldi. Municipio di
Alessandria, Ufficio d’Arte, Lavori straordinari. Progetto per costruzione di Villini lungo il fianco nord del
Corso dei Cento Cannoni, senza firma, s.d. (ASAL, ASCAL, serie III, n. 1643).
10
C. BOIDO, Il disegno urbano di Alessandria: le mura dopo le mura. La persistenza del segno della cinta
muraria e delle porte della città nell’Ottocento fra rilievo e progetto, tesi di dottorato di ricerca in Disegno
e Rilievo, Università di Roma «La Sapienza», tutors S. Coppo, G. Novello Massai, 1999.
11
La caserma di artiglieria è progettata tra il 1886 e il 1891 dall’ingegnere militare Trincheri che
nella definizione dei prospetti adotta un lessico neomedievale.
12
Municipio di Alessandria, Ufficio d’Arte, Lavori straordinari. Progetto di ampliamento della strada
della stazione e del nuovo Corso dei Cento Cannoni, senza firma, s.d., (ASAL, ASCAL, serie III, n. 1643).
13
L. LORENZINI-M. NECCHI, Alessandria storia e immagini, Alessandria, Il Quadrante, 1982.
14
Per la vita di Giuseppe e Teresio Borsalino, l’ascesa della fabbrica e una attenta lettura delle vicende economiche si è rivelato essenziale il saggio di G. BARBERIS, La famiglia Borsalino. La fabbrica e le
opere, in Alessandria e Borsalino, cit., pp. 55- 89.
15
Ibidem.
16
Il cappellificio ottiene una concessione di derivazione dell’acqua, risorsa fondamentale nella lavorazione dei cappelli.
17
G. BARBERIS, La famiglia Borsalino, cit., p. 62.
18
Nel 1896 è istituita la Cassa pensioni operai. Nel 1898 è costituita la cassa pensioni tra gli
impiegati stipendiati mensili della Borsalino, con un regolamento che ricalca l’istituto creato per gli
operai. Nel 1901 è istituita la cassa interna di soccorso per le malattie comuni a favore degli impiegati e
degli operai, avente la finalità di accordare un sussidio fisso a ciascun infermo per un periodo di tempo
determinato.
19
Il costo di primo impianto dell’Educatorio risulta di circa 95.000 lire, di cui 13.942 lire per
l’acquisto dell’area (5.500 metri quadrati), 51.800 lire per la costruzione del fabbricato e il rimanente
per gli arredi.
20
L’edificio ospita oggi la sede della Polizia Municipale nell’attuale via Giovanni Lanza.
21
G. BARBERIS, La famiglia Borsalino, cit., p. 65.
22
Ivi, p. 67.
23
Arnaldo Gardella, padre di Ignazio, agli albori del XX secolo apre uno studio di ingegneria a
Milano con Luigi Martini. Insieme affrontano la progettazione di un albergo e degli ospedali di Pavia
(pubblicato su «Architettura Italiana» nel gennaio 1914, n. 4, pp. 37-53, tavv. XIII-XIV) e di Tortona,
oltre all’ampliamento del manicomio e la realizzazione della clinica Crespi ad Alessandria.
24
L’opera di madre Michel, al secolo Teresa Grillo, prende avvio nel 1893 ad Alessandria con una
prima scuola per bambini poveri e portatori di handicap.
25
ARCHIVIO FAMIGLIA BORSALINO, Lettera del 25 luglio 1931 di Teresio Borsalino a monsignor
Giuseppe Bruno.
LA COMMITTENZA DELLA FAMIGLIA BORSALINO
227
26
G. MONTANARI, Il sanatorio Teresio Borsalino di Gardella: dalla costruzione all’attuale recupero, in
Alessandria e Borsalino, cit., pp. 125-143.
27
Nel 1956 Ignazio Gardella cura l’allestimento del negozio Borsalino in corso Roma; nel 1963
progetta gli uffici Usuelli. Tra il 1964 e il 1969 realizza il nuovo istituto per l’infanzia di Alessandria.
Cfr. S. GUIDARINI, Ignazio Gardella, cit.
28
Recentemente l’edificio, restaurato in accordo con la Soprintendenza, ha accolto i locali del
Collegio Costruttori di Alessandria.
29
In un’intervista pochi anni prima della morte, Ignazio Gardella ha dichiarato di sentirsi fortemente legato e ben rappresentato sulla scena della cultura architettonica contemporanea dal dispensario
antitubercolare e dalla casa degli impiegati di Alessandria.
30
S. GUIDARINI, Ignazio Gardella, cit.
31
La storia regala al longevo progettista la possibilità di ridefinire un progetto forzatamente modificato per volere di un gerarca fascista poco aperto al confronto e al dibattito. Il dispensario antitubercolare, ora intitolato «Ignazio Gardella», alla fine degli anni Ottanta è stato oggetto di restauro. In tale
occasione l’autore ha potuto «restaurare se stesso» e apportare delle modifiche al fine di rispecchiare il
progetto originario.
32
Ignazio Gardella 1905-1999. Architectura a través de un siglo, catalogo della mostra, Madrid,
Centro de publicaciones, Segreteria general tecnica, Ministerio de Fomento, 1999, p. 49.
GLI INVESTIMENTI DELLA SOCIETÀ REALE MUTUA A TORINO
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
«E svetta nell’aria la torre littoria che a tutti i torinesi grida: ‘Presente!’».
Con la forza retorica di questa allitterazione nel 1937 Italo Angeloni, nella guida
di Torino edita da Paravia1, descriveva ai cittadini torinesi la dirompenza dell’alto
grattacielo della Società Reale Mutua di Assicurazioni, emblema inequivocabile della
nuova italianità, della forza vigorosa del regime, dell’abile connubio tra sperimentazioni tecniche e tecnologiche e rispetto della tradizione. Una torre del tutto torinese
e internazionale allo stesso tempo, modesta come una città che aveva ormai optato
per una connotazione industriale, ma magniloquente come il simbolo di un potere
che a Torino non era mai riuscito ad essere così persuasivo.
Tra questi opposti capaci di convivere senza contraddizione si muove e si sviluppa
il progetto della torre Littoria, alto edificio multipiano che caratterizza lo skyline della
storica piazza del Castello nel suo imbocco con la via Roma, antico asse rettore della
città barocca, oggetto delle politiche di risanamento urbano degli anni del regime, riconfermato asse rettore di collegamento meridionale, grande cantiere edilizio al quale si
guarda come possibile elemento di ripresa economica in seguito alla crisi del 1929.
Affrontare oggi il tema della torre Littoria significa affrontare il tema del significato di questo edificio o, meglio, che a questo edificio è stato assegnato. Un significato
lontano dalle prime intenzioni dei progettisti e altrettanto lontano dalle forti critiche
sollevate dalla Soprintendenza in fase di cantiere; significato visto come possibilità da
una committenza già interprete delle istanze politiche del regime.
La torre Littoria imbarazza i torinesi: sulle pagine del quotidiano «La Stampa»,
tra il 2000 e il 2001, si sono susseguiti articoli che ne invocavano l’abbattimento,
quasi a voler cancellare la memoria di «quegli anni», considerando inaccettabile che
il segno per eccellenza del regime fascista potesse ancora definire inequivocabilmente
il profilo del centro storico della città.
Il piano di ricostruzione di via Roma
Tra il 1931 e il 1937 a Torino è finalmente realizzato il piano di ricostruzione
di via Roma, asse rettore dell’antica città barocca ideato da Ascanio Vitozzi alla fine
del XVI secolo2.
230
MARIA SANDRA POLETTO
Il progetto, ampliamente indagato dalla storiografia per le sue implicazioni di
carattere ideologico (via Roma è vista come specchio della politica di opere pubbliche del regime fascista), è in realtà il tassello conclusivo di un lungo dibattito che si
sviluppa senza soluzione di continuità dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, quando
la promessa del ruolo di capitale nazionale diventa per Torino motore propulsore di
una serie di opere di abbellimento della città stessa e di dotazione dei servizi funzionali a questo ruolo3.
Lo spostamento della capitale a Firenze e la conseguente crisi economica che
aveva investito la città avevano però portato al momentaneo accantonamento di questo programma, che era stato ripreso in mano dai consiglieri comunali all’inizio del
Novecento, ma senza una chiara volontà progettuale4.
Dopo numerosi tentennamenti e altrettanto numerose crisi di governo municipale, solo la forte politica di opere pubbliche attuata dal regime, per far fronte alla crisi
economica del 1929, riesce a dare inizio all’attuazione del primo tratto della via tra la
piazza Castello e la piazza San Carlo, in seguito all’emanazione del R.D.L. del 19305.
A fronte di un dibattito vivace e ricco, per la realizzazione del progetto, che porta a
un radicale stravolgimento dell’immagine della via6, il regime sottolinea l’importanza
della questione sanitaria (il Comune incarica un medico e un ingegnere di effettuare
una ecografia sanitaria degli stabili). Le motivazioni igieniche, che avevano fortemente caratterizzato l’approccio alla questione urbana nei piani di fine secolo, diventano
nuovamente alibi per realizzare soluzioni discutibili, strumento di appropriazione dei
centri storici da parte delle grandi società finanziarie7.
Il problema del rapporto con la preesistenza, identificata soprattutto nelle piazze
storiche (la cinque-seicentesca piazza Castello, la seicentesca piazza San Carlo e lo
sbocco nell’ottocentesca piazza Carlo Felice), è limitato unicamente alla questione
degli imbocchi stradali, mentre l’attenzione prestata alla legislazione e alle procedure
economiche corrisponde a una progressiva perdita d’importanza del parere degli organi deputati alla tutela − le Soprintendenze e il Ministero dell’Educazione Nazionale − che, seppure interpellati, si limitano a giudicare uno stato di fatto e a compiere
un’azione di vincolo spesso disattesa.
Il lungo processo decisionale e, soprattutto, la sua repentina conclusione sembrano essere la dimostrazione pratica dell’affermazione di Gustavo Giovannoni:
a vedere bene non sono gli ingegneri e gli architetti a dar vita a un piano regolatore, più o
meno ben disegnato; ma le provvidenze amministrative e le combinazioni finanziarie ne
rappresentano il vero elemento dinamico che ne avvia l’attuazione non solo nello spazio,
ma anche nel tempo, tanto è vero che molto spesso i piani regolatori si risolvono in una
dannosa illusione e finiscono per essere attuati solo per varianti sporadiche o secondo
opere isolate che nulla hanno a che vedere con il programma edilizio8.
La politica del regime, d’altra parte, aveva già dimostrato la scelta del centro
storico della città come luogo deputato alla manifestazione del potere delle grandi
società finanziarie e immobiliari, come scenario privilegiato delle grandi opere di
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
231
investimento e di rendita fondiaria. Al tessuto minuto dei piccoli artigiani, dei commercianti, della borghesia di modesto rango, attraverso le opere di risanamento, si
sostituisce una nuova immagine urbana. Analizzando le destinazioni d’uso degli stabili prima e dopo l’intervento di rifacimento della via Roma possiamo comprendere
la natura e la consistenza di questo fenomeno. Nel 1930 la via era caratterizzata da un
utilizzo misto, frutto nello stesso tempo di una stratificazione storica, che ha inizio
dal XVIII secolo, e di un riutilizzo degli spazi centrali da parte della borghesia, tra la
fine del XIX e l’inizio del XX secolo, attraverso la realizzazione di edifici bancari e di
edifici legati allo svago e al commercio. Accanto alle sale cinematografiche, alle gallerie contenenti bar, circoli sportivi, uffici, sale riunioni, negozi, si collocano botteghe,
abitazioni, laboratori (nel retro, sul cortile), alberghi e una casa di tolleranza9.
Dopo l’intervento la geografia dei luoghi cambierà radicalmente: al piano terreno,
sul fronte di via Roma, si affacceranno negozi di alto rango; i piani superiori saranno
occupati da locali uso ufficio legati ai soggetti finanziatori dell’intervento.
Attraverso la stipula di convenzioni con il Comune e il conseguente acquisto
degli stabili espropriati, la Società Reale Mutua di Assicurazioni, l’Istituto Nazionale
Italiano delle Assicurazioni e la Società Anonima Edilizia (dipendente dal gruppo
FIAT) si approprieranno del primo tratto, l’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza
Sociale, la società Assicurazioni Generali, la S.A. Comoglio e un consorzio di proprietari realizzeranno il secondo.
Questa operazione si inserisce nell’importante politica di opere pubbliche promosse dal regime10; negli anni della ricostruzione di via Roma, infatti, nella sola
Torino venivano inaugurati i Mercati Generali, lo stadio Mussolini, la casa del Balilla,
la sede dell’Ufficio d’Igiene e veniva anche abbattuta la cinta daziaria11.
I nuovi soggetti investitori e la politica della Società Reale Mutua di Torino
Il forte impiego di manodopera non specializzata nelle opere pubbliche porta a
un tamponamento del problema edilizio ma non certo a una sua soluzione definitiva.
Degli 8.250 lavoratori impiegati nel settore delle opere pubbliche straordinarie durante tutto il 1933, il cantiere di via Roma assorbe 740 unità12. L’intervento non interessa unicamente la strada, ma consta in un rifacimento totale degli isolati circostanti
e nell’apertura di nuove arterie di traffico. I privati, che secondo il R.D.L. del 1930
avrebbero potuto avvalersi di diritto di prelazione sugli stabili, non parteciperanno
alla ricostruzione della via per mancanza di capitale da investire: ben presto le società
finanziarie, le società di assicurazione, gli istituti di credito invece acquisteranno i
vari isolati, vincolati da condizioni di esproprio per pubblica utilità disciplinate dalla
Legge per Napoli del 188513. I permessi edilizi saranno concessi in fretta, i vincoli
formali riguarderanno unicamente i fronti su strada. La complessità dell’operazione
trova ragione nel fatto che ogni isolato è gestito da una diversa impresa: proprio per
questo, per il primo tratto non possiamo parlare di cantiere tout court. Gli edifici
232
MARIA SANDRA POLETTO
avranno tempi di attuazione diversi, ogni progetto richiederà una discussione particolare all’interno della Commissione Igienico Edilizia. Nelle convenzioni che si
stipulano tra Comune e privati, il primo si occuperà di realizzare le opere di urbanizzazione primaria, senza nessuna contropartita di carattere finanziario. La necessità di
sopperire alla grave crisi degli alloggi porterà alle numerose richieste di deroga o di
modificazione del Piano Regolatore in favore di una maggiorazione dell’altezza degli
edifici e del volume delle aree fabbricabili. Nella quasi totalità dei casi, tali richieste
saranno approvate preliminarmente dall’autorità comunale senza trasmettere alcuna
richiesta di autorizzazione al Ministero dei Lavori Pubblici14.
All’interno dell’intricata maglia di rapporti spesso conflittuali tra protagonisti e
attori della vicenda emerge il ruolo della Società Reale Mutua di Assicurazioni, istituto fondato a Torino nella prima metà del XIX secolo. La SRMA, con la sua azione di
investimenti nel settore edilizio, è considerata dal regime come una componente essenziale per la riuscita della politica economica. Il suo appoggio agli investimenti nel
campo delle opere pubbliche si esplica per mezzo «dell’incremento da essa portato
all’industria edilizia non solo a Torino […] ma anche a Roma, Milano e Bolzano. La
Reale contribuisce con l’erezione di imponenti edifici a risolvere problemi edilizi ed
a fornire lavoro, attraverso l’investimento di decine di milioni, a industrie e operai»15.
I festeggiamenti per il centenario della sua fondazione16 erano stati l’occasione per
realizzare, all’interno dell’antico nucleo urbano torinese, la nuova sede societaria17.
Il repentino inizio dei lavori di ricostruzione di via Roma Nuova e il valore dato a
questa operazione da parte della pubblicistica di regime, convinceva quindi la Società
a partecipare alla ricostruzione di uno degli isolati più degradati della via; il 14 marzo
1932 la Società stipula con il Comune una convenzione per la ricostruzione dell’isolato S. Emanuele, già di proprietà della Società La Rinascente, immotivatamente
estromessa dall’iniziativa18. In tale convenzione la Reale Mutua si impegna a seguire
le restrizioni stabilite dal R.D.L. del 1930, che impongono di non modificare lo storico fronte su piazza Castello, ad attenersi al Regolamento Edilizio e, quindi, a non
far emergere un edificio più alto di cinque piani fuori terra19. Queste clausole, però,
saranno prontamente disattese con il tacito benestare della municipalità20.
In seguito alla stipula della convenzione, sono incaricati della realizzazione del
progetto l’architetto Armando Melis e l’ingegner Giovanni Bernocco, periti della
società stessa e già progettisti della sede torinese21. L’attività professionale dello studio
Melis-Bernocco porta alla realizzazione di numerosissimi progetti architettonici e
urbanistici, che ancora oggi contribuiscono a caratterizzare l’immagine di molte città
piemontesi. Il sodalizio si rivela felice per molteplici aspetti: innanzitutto la militanza di Giovanni Bernocco nelle fila del Partito Nazionale Fascista favorisce l’attività
lavorativa dello studio, inoltre l’attenzione all’innovazione tecnologica e strutturale dovuta al connubio ingegneria-architettura sarà quella che porterà a molte delle
più apprezzate realizzazioni di Melis. Le testimonianze ci rivelano che il ruolo di
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
233
Giovanni Bernocco è soprattutto quello di procacciatore di affari, mentre «l’uomo
dello studio», instancabile lavoratore, è sempre Melis22. Dagli anni Trenta, inoltre,
Melis e Bernocco fanno parte della Commissione Igienico Edilizia del Comune,
funzione che consentirà loro di svolgere il proprio lavoro attraverso canali «privilegiati». Gran parte delle realizzazioni più importanti dello studio Bernocco-Melis sul
territorio piemontese avranno come committente la Società Reale Mutua: già dal
1928 infatti abbiamo la testimonianza della presenza, tra i periti che lavorano per la
Società, dell’ingegner Giovanni Bernocco, che è chiamato a pronunciare il discorso,
come rappresentante della categoria, nella ricorrenza del centenario23, a conferma di
come «nella provincia le relazioni personali e la stima degli amministratori contino
di più delle tessere e delle dichiarazioni di principio»24.
Riferimenti architettonici del primo progetto: la cultura americana, il valore della fotografia
Il progetto approvato dai committenti fa seguito a un lungo percorso di proposte alternative che rivelano una forte incertezza sulla scelta del lessico architettonico da adottare.
La possibilità di consultare i numerosissimi disegni conservati nel Fondo Melis25, infatti, chiarifica un iter progettuale controverso già in fase di ideazione, aperto a soluzioni
del tutto differenti, chiaramente legate ad altrettante differenti interpretazioni del panorama urbano, del rapporto con il costruito, dei modelli di riferimento. Nelle varie idee
l’edificio assume forme che guardano al passato o, alternativamente, che cercano di dar
forma al futuro. Il vincolo di conservare inalterata la facciata sulla storica piazza Castello
porta a cercare un altro fronte principale, individuato nella vicina via Viotti; su quest’asse
i progettisti si liberano dai vincoli formali stabiliti dalla legge, facendo svettare l’alta torre
(molto più bassa nell’idea iniziale, documentata nelle numerose visuali prospettiche conservate nel fondo Melis, testimoni di un iter realizzativo controverso, fig.1).
Le due proposte iniziali divergono in modo sostanziale: alla successione di volumi
loggiati che introducono alla torre si contrappone la scelta di far svettare l’alto edificio da un basso parallelepipedo che riprende il linguaggio architettonico della piazza.
In questa seconda idea, sulla quale i progettisti lavoreranno per ottenere l’esito finale,
il fronte principale non è enfatizzato come nella prima proposta, dove una successione verticale di cornici sottolinea la simmetria della composizione (fig. 2).
La scelta dei committenti è quella di evidenziare la presenza della torre (come nella
seconda proposta) senza rinunciare al ritmo della successione dei volumi degradanti.
Su questa idea progettuale lo studio Melis e Bernocco inizierà a costruire l’immagine
definitiva dell’alto grattacielo, citazione più o meno esplicita di una Manhattan assunta
come modello paradigmatico della città del futuro. Se nell’edificio finale i diversi contributi storiografici hanno visto un chiaro richiamo alla cultura espressionista tedesca26,
la possibilità di studiare in successione le proposte consente di ricostruire un quadro di
riferimenti molto più articolato. La torre Littoria si camuffa di volta in volta in Flatiron
234
MARIA SANDRA POLETTO
Fig. 1. Armando Melis, primo progetto per l’isolato S. Emanuele a Torino [1932] (Laboratorio di Beni
Culturali del Politecnico di Torino, Fondo Melis)
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
235
Fig. 2. Armando Melis, secondo progetto per l’isolato S. Emanuele a Torino [1932] (Laboratorio di
Beni Culturali del Politecnico di Torino, Fondo Melis)
236
MARIA SANDRA POLETTO
Building (grazie alla prospettiva incentrata sullo spigolo che la fa sembrare a pianta triangolare) o nella proposta di Gropius per il concorso del Chicago Tribune27 (fig. 3a-3b).
Quello che Melis e Bernocco ci testimoniano non è la conoscenza delle realizzazioni
d’oltreoceano ma piuttosto la conoscenza della loro iconografia, quasi del loro stereotipo. La pianta della torre Littoria non è triangolare, ma i progettisti la vogliono rappresentare così come in Italia sono giunte le rappresentazioni dell’opera di Burnham28.
L’attenzione non è tanto rivolta al contenuto quanto alla forma di comunicazione di
questo. Tale scelta è testimoniata anche dalle parole della pubblicistica in fase di costruzione. Il cantiere del grattacielo è descritto, infatti, come paradigma di efficientismo
e, allo stesso tempo, come dimostrazione di un’abilità costruttiva del tutto italiana. I
numerosi articoli che appaiono sui quotidiani non fanno altro che descrivere gruppi
di cittadini che, con il naso in su, ammirano gli equilibrismi degli operai più simili ad
acrobati che a manovali. «Adunque, esclama la gente, li abbiamo anche noi gli uomini
vespa, gli uomini che non temono le vertigini di cui le riviste pubblicano le ardite imprese intessendo i colossali gabbioni dei grattacieli americani»29 (fig. 4a-4b).
Il richiamo alla cultura americana, però, è giustificata dai progettisti attraverso un
riferimento alla tradizione italiana. «San Geminiano [sic] visto dall’alto certe mattine di
foschia, osserva l’architetto Melis, con le sue vecchie torri sembra, in scala ridotta, un paesaggio di New York con i suoi moderni grattacieli»30. La campagna fotografica commissionata dalla Società Reale Mutua, inoltre, non può non ricordare le cronache di cantiere
dell’Empire raccontate dall’obbiettivo di Bettmann31. Le fasi costruttive del grattacielo
torinese sono documentate da un amplissimo repertorio fotografico conservato presso
l’Archivio Storico della Città di Torino32, in cui gli operai assumono le pose della ormai
nota iconografia americana: i passi per la costruzione del «mito» sono i medesimi.
Eppure, proprio mentre il binomio torre italiana-grattacielo americano sembra
inscindibile, accade qualcosa che obbliga i committenti a fare un brusco dietro front.
Nell’intricato avvicendarsi di fatti e problemi tra le diverse parti in causa (la municipalità, la Soprintendenza, il Ministero dei Lavori Pubblici e il Ministero dell’Educazione
Nazionale) possiamo rintracciare le motivazioni che portano, ancora oggi, a identificare
irrimediabilmente l’edificio della SRMA con il regime fascista, con una attribuzione di
significato che va ben oltre alle intenzioni dei progettisti.
Ragioni di un iter controverso
L’inizio dei lavori (1932) si contraddistingue immediatamente per il ritmo serrato
del cantiere che non è interrotto neppure nelle ore notturne.
Alla possente struttura metallica della torre corrispondono altissime impalcature
in legno e tecnologie costruttive tradizionali. Nel 1933, però, proprio mentre l’intelaiatura metallica della torre sta per giungere al compimento, il Sovrintendente
ai Monumenti Giovanni Pacchioni richiede una repentina interruzione di lavori.
La torre, infatti, minaccia di ergersi a un livello superiore rispetto alle prescrizioni
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
237
Fig. 3a. Armando Melis, terzo progetto per l’isolato S. Emanuele a Torino [1932] (Laboratorio
di Beni Culturali del Politecnico di Torino, Fondo Melis)
Fig. 3b. New York, Fotografia del Flatiron Building
238
MARIA SANDRA POLETTO
Fig. 4a. L’intelaiatura in acciaio dell’edificio della Società Reale Mutua
[1935] (La ricostruzione dell’isolato
S. Emanuele in Torino, «L’Architettura
italiana», dicembre, 1935)
Fig. 4b. New York, Fotografia
di Bettmann del cantiere del
Rockfeller Center
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
239
regolamentari, turbando l’equilibrio compositivo dell’insieme. A questo problema si
somma la volontà, da parte della committenza, di ricostruire il fronte sulla seicentesca piazza Castello modificando le arcate dello storico porticato33.
Lo sviluppo della vicenda è uno dei punti cruciali per comprendere le profonde
motivazioni di ordine economico che sottendono l’impresa urbanistica.
La richiesta del Comune di realizzare una piccola piazzetta tra la via Viotti −
parallela alla via Roma −, via Pietro Micca − la diagonale ottocentesca − e piazza
Castello, infatti, è vista dalla Società Reale Mutua come un forte danno economico
derivato dalla eliminazione di cubatura, quindi di rendita fondiaria. Per questo i progettisti si sentono legittimati ad aumentare l’altezza della torre prospettante su piazza
Castello. La richiesta da parte del Ministero dell’Educazione Nazionale di studiare,
anche per quella emergenza, un progetto «avente come fine di armonizzare la Torre
che si eleva in via Viotti con l’antico palazzo prospiciente in via Roma mediante la
ricostruzione simmetrica di due avancorpi laterali e conservando in modo rigoroso
le caratteristiche architettoniche della piazza»34 non porta che a una modificazione
dei corpi bassi, lasciando inalterato il profilo del grattacielo; nella prassi il problema
formale è relegato a un ruolo secondario.
Il dibattito tra i vari soggetti in azione si fa sempre più serrato, rendendo problematico anche lo svolgimento del lavoro in cantiere; Comune, Sovrintendenza,
committenza e progettisti, infatti, si muovono con finalità del tutto differenti e non
riescono a trovare un punto di accordo.
Osservando in successione i disegni conservati nel fondo Melis, però, ci possiamo accorgere che alla fine del 1933 è introdotta una variante che può sembrare
insignificante se non letta in parallelo con le decisioni politiche prese dal Governo
centrale. Nello stesso periodo Andrea Gastaldi, segretario del Partito Nazionale
Fascista, annuncia che ogni città deve dotarsi di una torre Littoria costruendola ex
novo o riadattando un edificio esistente. Il Podestà di Torino propone che il grattacielo della Reale Mutua sia adibito a torre Littoria e che alla torre orologio che
avrebbe dovuto coronare l’alto edificio sia sostituita una cella campanaria a ricordo
dei martiri fascisti. Da questo momento tutte le similitudini e i paragoni con la
cultura americana sono banditi, i riferimenti più o meno espliciti a una Manhattan
allo stesso tempo avveniristica e presente sono dimenticati, l’iconografia cambia, le
descrizioni si fanno pompose e retoriche, la torre può essere realizzata senza vincoli
né opposizioni da parte degli istituti preposti alla conservazione35. Le cronache
di settore non fanno altro che ricercare nell’edificio segni di «italianità», termine
confuso che è utilizzato per identificare edifici e stili tra loro diversi, ma assunti a
simbolo dell’opera del regime36.
La torre a quindici piani fuori terra è realizzata e il fronte su piazza Castello è
modificato attraverso l’eliminazione di una campata. Il Ministero dell’Educazione
Nazionale approva il
240
MARIA SANDRA POLETTO
raccordamento del Palazzo settecentesco con la retrostante costruzione moderna, allo sco-
po di mettere in maggiore evidenza, in tutta la sua struttura, sin dal livello stradale, il
grattacielo dell’isolato moderno, e per quanto riguarda il corpo intermedio, più alto di
due piani, inscritto fra il palazzo settecentesco e la torre, esprime il parere che in esso non
vengano ripetuti gli ordini dei quattro piani del palazzo prospiciente piazza Castello, ma
ne sia invece reso più semplice il carattere adottando un tema architettonico che risponda
a funzioni di trapasso fra l’architettura antica e la nuovissima, con un insieme unitario
che giunga sino alla gronda: il complesso edilizio che ne risulterà sarà così costituito da tre
masse distinte ad euritmicamente composte: la fronte monumentale del palazzo, la quinta
semplice e più alta dietro, e la torre altissima in fondo37.
L’architettura moderna e l’edificio storico devono trovare un raccordo nella semplicità dei volumi; in questa operazione l’architettura è spogliata dalle sue decorazioni per
trovare la sua semplice struttura, criterio informatore del progetto razionale.
Il progetto definitivo tra sperimentazione e tradizione
Le intenzioni dei progettisti, dichiarate a più riprese in diversi scritti38, sono quelle
di realizzare nell’isolato S. Emanuele un edificio che tenti di introdurre un linguaggio
architettonico capace di coniugare la tradizione del passato − attraverso la conservazione del fronte su piazza Castello ma anche nell’enfasi data al significato della torre − e le
istanze del moderno. La torre non sarà mai
un grattacielo nel senso comune della parola. Saremo sempre a casa nostra, non andremo
a chiedere nulla in prestito ai forestieri. Sarà una torre, una torre italiana. Già del resto gli
ideatori dell’edificio, l’arch. Melis e l’ing. Bernocco, la chiamano torre, convinti che non
c’è ragione che non abbia a star bene, a fare bella figura. Essi osservano che gli edifici di
piazza Castello presentano delle masse che, eccedendo sul rimanente, danno movimento
e leggiadria: il teatro Regio da una parte, la chiesa di San Lorenzo dall’altra e, più lontano
la cupola della Sindone e il campanile del Duomo39.
L’insieme dei disegni e dei progetti del grande Palazzo d’affitto, che culmina
con la torre Littoria, costituiscono una parte molto consistente del fondo Melis
e ci svelano l’iter progettuale che ha condotto al risultato finale. L’edificio appare
subito come un elemento di rottura con il contesto circostante. Melis, infatti, intende «staccare decisamente le due costruzioni, quella moderna e quella vincolata.
Cosicché la Torre compie da una parte la costruzione a carattere moderno e con la
vetrata della scala crea una soluzione di continuità tra i piani»40.
Dopo le prime difficoltà iniziali, in seguito al chiarimento del suo ruolo nel
panorama urbano, l’edificio è costruito in fretta, tra il 1933 e il 1935. Il Palazzo
presenta notevoli innovazioni: è il primo edificio multipiano con struttura metallica elettrosaldata costruito in Italia.
Nella scelta dei materiali per la costruzione dell’edificio emerge chiaramente
il continuo oscillare tra innovazione e tradizione che caratterizza tutta l’opera di
Melis. Mentre per il rivestimento della facciata viene fatto impiego di materiali
tradizionali, assolutamente innovativa si rivela la scelta del vetrocemento per i balconi, del linoleum per le coperture e del metallo per i serramenti a filo facciata e a
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
241
saliscendi. Tale scelta sarà emblematica per lo sviluppo dell’architettura moderna.
È inoltre da evidenziare l’uso delle strutture in metallo, la cui crescente importanza è inversamente proporzionale alla credibilità che essa riscuote presso i contemporanei (Melis sarà costretto a imbullonare la struttura).
L’uso massiccio delle mattonelle di litoceramica è alternato all’utilizzo delle lastre
di travertino, che assumono la funzione di fascia marcapiano, annullando lo slancio
verticale e sottolineando la dimensione orizzontale della base del palazzo. Le lastre
di travertino, inoltre, sono impiegate nel grattacielo per dare rilievo al corpo scala
principale, nel quale è inserita una serie di finestre in vetrocemento che provoca un
suggestivo contrasto di vuoto su pieno.
Nell’edificio sembrano realizzarsi tutte le teorie di Melis intorno alle caratteristiche di una reale architettura moderna: «gli andamenti complessivi di piani e di linee,
il rapporto di pieni e di vuoti, i valori tonali delle luci e delle ombre, le sensazioni
statiche delle reazioni fra masse inermi e sostegni e quelle geometriche astratte delle
direzioni, delle forze, dei rapporti di grandezza. […] Procedendo ulteriormente si
arriva alla valutazione estetica della lucida nudità, del gioco astratto dei volumi puri
nell’atmosfera»41. Ma è soprattutto la distribuzione interna degli ambienti e delle
funzioni che richiama ai contemporanei il carattere razionalista dell’opera, in quanto
essa «provvede molto bene, cioè razionalmente a ogni necessità, adeguandosi al gusto
della vita moderna. E se convincesse in linea d’arte ed estetica quanto convince in
linea pratica, le si potrebbe aprire dovunque e sempre le braccia»42.
L’utilizzo del cemento armato nelle fondazioni e del metallo nell’intelaiatura è
una scelta che porterà alla eliminazione della necessità di archi e volte, giungendo
a quella «valutazione estetica dei fori rettangolari e degli ambienti cubici»43 tanto
auspicata da Melis nei suoi scritti.
Grande importanza è data inoltre «alle sorgenti luminose che mettono in valore la visione notturna dell’edificio»44 con un singolare exploit dei balconi in vetrocemento: attraverso pavimenti e solette, una serie di corpi luminosi integrali
abbracciano lo spigolo dell’edificio, creando un voluto contrasto con gli antichi
monumenti della piazza (fig. 5).
La negazione dell’importanza dell’angolo, esplicitata attraverso il ricorso alla parete curva, non solo rivela una «tendenza a mettere in evidenza la difficoltà sorpassata affrontando procedimenti più involuti, ma fonti di un godimento estetico più
sottile»45, ma richiama e sottolinea il carattere dinamico dell’edificio, adatto a essere
osservato passando in velocità più che a essere staticamente contemplato.
La torre suscita nei contemporanei un grande entusiasmo. Essa diventa nuovo
simbolo della Torino moderna e fascista, in contrapposizione alla Mole Antonelliana,
specchio del «modernismo del basso ottocento»46.
Il grattacielo torinese − infatti − […] è quanto di più opposto si possa immaginare alla
Mole Antonelliana […]. In esso la meccanica è meccanica, e l’arte riesce a farla dimenti-
242
MARIA SANDRA POLETTO
care come tale nella funzione espressiva. L’architetto […] ha pensato alla struttura che è
già forma, ed è diventato ingegnere senza dimenticare di essere architetto. […] La torre
torinese è un’opera d’arte, un’opera d’arte moderna, intendendo l’aggettivo nel suo valore
spirituale di cosa spiritualmente nuova, e perciò necessaria ed espressiva. […] È interessante vedere come l’architetto ha saputo trarre partito, per far vivere l’opera sua non da
espedienti e trovatine, ma da uno schema di chiarezza semplice e robusto, che si appoggia
sul gioco delle masse e fa collaborare i motivi cromatici di due soli materiali: il mattone e
il travertino. La facciata verso via Viotti è intesa a preparare lo slancio della torre: la fasciatura chiara dei primi dieci piani, che si incurva piena di grazia a modellare l’angolo verso
via Monte di Pietà, si intesta decisa al nascimento della torre, marcato dall’arretramento
degli ultimi piani47.
Per inoltrarsi nella comprensione dell’importanza dell’edificio ci è parso opportuno descriverne le principali caratteristiche. Strumenti essenziali per questo lavoro
sono stati i progetti rinvenuti nel fondo Melis. L’edificio è composto di tre parti che
presentano caratteristiche peculiari molto diverse, apparendo non molto equilibrate
nella loro composizione. La prima parte costituisce il fronte su via Roma, all’imbocco
con piazza Castello: essa è una costruzione a portici (così come richiesto dal R.D.L.),
con ossatura in cemento armato di cinque piani fuori terra più il sesto arretrato; le
colonne sono in diorite lucida del canavese. Il problema che avrebbe potuto causare
la lunghezza della facciata sulla via è stato scongiurato con l’ausilio di una struttura in
cui i ritti sono svincolati dalle piattabande. Tale soluzione permette alla costruzione
di tollerare gli scorrimenti orizzontali causati dalla dilatazione termica e dal ritiro del
cemento armato. Il collegamento ritti-piattabande è stabilito attraverso cuscinetti di
piombo e per mezzo di un bolzone di piombo.
La seconda parte è quella che si affaccia sulla storica piazza Castello la cui facciata
seicentesca è interamente conservata solo come cortina scenografica, anche se elevata
di due piani arretrati. Nel punto di immissione di via Viotti sulla piazza è stata creata
una piazzetta per mezzo della demolizione del preesistente. Ciò rende migliore l’imbocco delle tre vie e consente un gioco di masse che «facciano da collegamento tra la
parte vecchia e quella nuova e presentare più suggestivamente lo spigolo della Torre,
che dalla piazzetta si innalza ininterrottamente per quasi 90 m.»48.
La terza parte è quella del tutto moderna, il fronte su via Viotti. Essa si innalza
per la parte più larga a dieci piani fuori terra, slanciandosi nella torre a venti piani per
72,30 metri di altezza. La torre è sovrastata dalla torretta contenente la cella campanaria, nella quale è riposta una campana di piombo dedicata ai caduti fascisti.
Sulla torretta, infine, svetta l’asta della bandiera che si conclude, a 100 metri di altezza, con un fanale a luce intermittente per la navigazione aerea notturna. Il piano tipo
della torre comprende un alloggio o un ufficio composto di sei vani, ingresso e servizi.
La copertura è interamente a terrazzi, con cassette per i fiori e pergolati per
l’estate, quasi a sottolineare la necessità di «un miglioramento dell’aspetto dell’edificio visto dall’alto, quale apporto allo sviluppo del volo, alla cui visione si vorrebbero offrire panorami di terrazze fiorite più che disordinate distese di comignoli e
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
243
Fig. 5. La torre Littoria illuminata [1935] (La ricostruzione dell’isolato S. Emanuele in Torino, «L’Architettura italiana», dicembre, 1935)
244
MARIA SANDRA POLETTO
Fig. 6. Vista della torre Littoria e della torre del Palazzo Madama [marzo 2000]
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
245
abbaini»49. In essa si legge infatti un «ritorno alle case torri della tradizione italiana»50.
L’uso del contrasto tra il rosso vibrante delle ceramiche in litocemento e il
bianco delle lastre di travertino, che di notte viene riproposto dal contrasto tra le
finestre e i balconi illuminati e la parete buia, ricorda alcune forme dell’espressionismo tedesco di Mendelsohn.
A lavori conclusi alla torre sono attribuiti significati che esulano, come abbiamo visto, dalle intenzioni iniziali dei progettisti; le istanze del regime sono viste dalla Società
Reale Mutua come strumento per l’affermazione dei propri interessi. In questo senso il
rapporto con la tradizione è reinterpretato secondo il filtro dell’ideologia fascista.
«Piazza Castello è di per sé stessa immagine, simbolo di Torino. Tra il Palazzo de
Re e quello Madama, con d’attorno i tradizionali portici, aperta sulla via che conduce
al più gran fiume d’Italia e sull’altra che, bellamente rinnovata, s’intitola degnamente
alla capitale del Regno […]. La torre Littoria accomunerà simbolicamente l’antico
e il nuovo, la tradizione veneranda e la modernità che crea altre immagini e segna
novelle audaci, la storia di ieri e quella non scritto»51 (fig. 6).
Maria Sandra Poletto
I.M. ANGELONI, Torino, Torino, Paravia, 1937, p. 65.
Sulla formazione della via nuova, attuale via Roma, in periodo moderno si segnalano i testi: V.
COMOLI, Torino, Roma-Bari, Laterza, 1983 (2002); A. SCOTTI, Ascanio Vitozzi, ingegnere ducale a Torino,
Firenze, La Nuova Italia, 1969; A. BARGHINI, Inediti per l’architettura da Ascanio Vitozzi agli architetti del
primo Settecento, in Antologia di ritrovamenti per l’architettura in Piemonte fra Cinquecento, Sei e Settecento,
a cura di Vera Comoli Mandracchi, «Studi Piemontesi», XIX, 1990, 1, pp. 57-64; Storia di Torino, vol. III:
Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato (1536-1630), a cura di G. Ricuperati, Torino,
Einaudi, 2002. Inoltre Ascanio Vitozzi: ingegnere militare, urbanista, architetto (1539-1615), a cura di M.
Viglino, Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto, 2003. Inoltre, per quanto riguarda il progetto di risanamento realizzato negli anni tra le due guerre si citano: L. RE-G. SESSA, La formazione e l’uso
di via Roma Nuova a Torino, in Torino tra le due guerre, Torino, Città di Torino, 1978, pp. 142-167; Via
Roma. Cinquant’anni di storia e immagini, testi di L. Re e G. Sessa, fotografie di David Vicario, Milano,
Mondadori, 1987; G. SESSA, Via Roma Nuova a Torino, in Guida all’architettura moderna di Torino, a
cura di A. Magnaghi, M. Monge, L. Re, Torino, Lindau, 1995, pp. 507-517; M. ROSSO, La crescita della
città, in Storia di Torino, vol. VIII: Dalla grande guerra alla liberazione, a cura di N. Tranfaglia, Torino,
Einaudi, 1998, pp. 427-473; M.S. POLETTO, Via Roma 1861-1937: dai progetti di abbellimento al piano di
ricostruzione urbanistica, tesi di dottorato di ricerca in Storia e Critica dei Beni architettonici e ambientali
(XII ciclo), tutors prof. Vera Comoli e prof. Rosa Tamborrino, Torino 2000; EAD., Le altre via Roma, in
Progettare la città, a cura di V. Comoli, R. Roccia, Torino, Archivio Storico della Città di Torino, 2001,
pp. 355-370; EAD., La torre Littoria di Torino, in POLITECNICO DI TORINO, DIPARTIMENTO CASA-CITTÀ, De
Venustate et Firmitate. Scritti per Mario Dalla Costa, Torino, Celid, 2002, pp. 544-552.
3
Sul dibattito ottocentesco che porta alla realizzazione di via Roma cfr. in particolare M.S. POLETTO,
Le altre via Roma, cit.
4
M.S. POLETTO, Via Roma nuova a Torino. Dalle proposte di abbellimento al piano di ristrutturazione
urbanistica (1861-1937), in L’architettura nelle città italiane del XX secolo. Dagli anni Venti agli anni
1
2
246
MARIA SANDRA POLETTO
Ottanta, Atti del Convegno Internazionale (Roma, 20-24 febbraio 2001), a cura di V. Franchetti Pardo,
Milano, Jaca Book, 2004, pp. 45-54.
5
R.D.L., 3 luglio 1930, n. 976.
6
L’antica via vitozziana si presentava come una via militaris di una larghezza di circa 10 m., non
porticata, con facciate uniformi e gli edifici di 3-4 piani fuori terra.
7
V. CASTRONOVO, Potere economico e fascismo, in Storia d’Italia, vol. IV, tomo I, Torino, Einaudi,
1975, pp. 148-194.
8
G. GIOVANNONI, Questioni urbanistiche, «L’Ingenere», II, 1928, 1, pp. 6-10: 6.
9
I cinema erano il salone Ghersi e il Vittoria, le due gallerie erano la Galleria Nazionale e la Galleria
Natta. Tra gli alberghi ricordiamo l’albergo del Caval Grigio, della Zecca, Trombetta. ARCHIVIO STORICO
DELLA CITTÀ DI TORINO (d’ora in poi ASCT), Affari Lavori Pubblici. Via Roma e adiacenze, cartella 4, f. 8.
10
Per far fronte alla crisi economica del sistema bancario il Governo crea le due società finanziarie
dell’IMI (1931) e dell’IRI (1933). Attraverso questa operazione si tenta di assorbire gli immobilizzi del
sistema bancario in seguito al crollo di Wall Street. La partecipazione ai pacchetti azionari di vastissimi
settori industriali, però, fa si che l’opera di salvataggio si trasformi in realtà in una azione di controllo
e di direzione dell’economia nazionale. V. ZAMAGNI, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita dell’economia dell’Italia 1861-1990, Bologna, Il Mulino, 1990, cfr. in particolare il capitolo V: Industria e
banca (1923-1943): dalla fratellanza siamese alla separazione, pp. 349-407.
11
L. RE, Problemi e fatti urbani dal 1920 al 1936, in Torino città viva: da capitale a metropoli 18801980, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1980, pp. 271-333 e G. MONTANARI, Architetture pubbliche in
Piemonte negli anni del regime, Torino, Celid, 1983.
12
S. MUSSO, La società industriale nel ventennio fascista, in Storia di Torino, vol. VIII: Dalla Grande
Guerra alla liberazione, a cura di N. Tranfaglia, Torino, Einaudi 1998, pp. 380-389.
13
L’indennizzo ai proprietari stabilito dalla legge per Napoli veniva maggiorato del 2-3%. Un’analisi
approfondita dello stato di fatto avrebbe deciso per quali edifici si sarebbe potuta applicare la legge per
Napoli. Il Regio decreto, inoltre, stabiliva il diritto di prelazione di proprietari o di consorzi di proprietari; nel caso questi non avessero mostrato di voler presentare alcuna richiesta non avrebbero avuto
diritto ad alcun indennizzo. Il Ministero dei Lavori Pubblici si era mostrato molto perplesso riguardo
all’inserimento di questa clausola. Per questo motivo aveva richiesto che si compisse una inchiesta sul
danno recato ai proprietari per l’arretramento del filo stradale e l’inserimento del portico, elementi a
detrimento della superficie fabbricabile. Il Municipio si era dimostrato fermamente convinto, invece,
che i proprietari non avrebbero conseguito alcun danno, in quanto il nuovo movimento portato dalla
riqualificazione dell’arteria avrebbe certamente agevolato la loro attività e portato un notevole aumento
di valore degli stabili ricostruiti. ASCT, Affari Lavori Pubblici, Via Roma e adiacenze, 1919-1937.
14
Le lettere sono conservate in ASCT, Affari lavori pubblici, via Roma e adiacenze e Ordinati
1931-1935.
15
FEDERAZIONE DEI FASCI DI COMBATTIMENTO, Torino e l’autarchia, Torino, s.i.t., 1938, p. 108.
16
SOCIETÀ REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI, La Società Reale Mutua di Assicurazioni ed i suoi cento
anni di vita, Torino, s.i.t., 1929.
17
La dimora della Reale Mutua in Torino, esperienza di restauro del “moderno”, a cura di P.G. Bardelli,
Firenze, Octavo, 1999.
18
ASCT, Deliberazioni del Podestà, seduta del 14 marzo 1932.
19
Il Regio Decreto sancisce i provvedimenti per l’allargamento di via Roma e per il risanamento dei
quartieri adiacenti, definendo le caratteristiche essenziali della nuova via quali: larghezza della via m.
14,80; portici da entrambi i lati larghi m. 5,80 ed alti non meno di m. 7,50; gli isolati non adiacenti a
piazza San Carlo di 5 piani fuori terra e non superiori a 21 m. di altezza.
20
Tutto l’iter di realizzazione dell’isolato è accompagnato da un fitto carteggio tra Podestà e Presidente
della Società Reale Mutua; molte di queste lettere non sono a oggi ancora pervenute ma ad esse si fa esplicito richiamo all’interno dei documenti conservati in ASCT, Affari Lavori Pubblici, via Roma e adiacenze.
21
La figura di Armando Melis, in particolare, ricopre un ruolo determinante all’interno del dibattito su architettura e città negli anni che precedono e seguono la seconda guerra mondiale. La storiografia in materia, pur non avendo affrontato in maniera sistematica e monografica lo studio dell’autore,
L’INTERVENTO PER LA TORRE LITTORIA
247
sottolinea il suo impegno nel campo della formazione della disciplina urbanistica come architetto e
teorico (è co-fondatore della rivista «Urbanistica» e partecipa attivamente alla formazione dell’INU).
Rimarchevole è il suo ruolo nella formalizzazione della disciplina dei caratteri distributivi degli edifici e
il suo apporto nella ricerca sperimentale nel campo delle tecniche costruttive e nell’uso dei materiali. La
sua militanza nel Partito Nazionale Fascista e alcune sue realizzazioni architettoniche ritenute controverse, però, portano la critica storiografica postbellica a sottovalutare l’apporto di Melis, sottolineandone il
suo essere fascista come elemento di giudizio anche degli esiti teorici e architettonici in campo urbanistico e architettonico. Solo ultimamente, uno sguardo più «distanziato» e critico consente di affrontare
lo studio di architetti reputati «minori» o meno importanti, considerati però elemento chiave per comprendere esiti e sviluppi della città contemporanea. M. GUERRISI, Architetture di Armando Melis, Milano,
Lattes, 1936; M.F. ROGGERO, Armando Melis de Villa, Torino, Politecnico, 1961; G. ASTENGO, In memoria di Armando Melis, XXXIV, «Urbanistica», 1961, pp. 3-7; M.S. POLETTO, Armando Melis de Villa
architetto e urbanista. La figura professionale attraverso l’archivio, tesi di laurea, facoltà di Architettura del
Politecnico di Torino, rel. Vera Comoli, a.a. 1995-1996; A. PERRI, Armando Melis de Villa architetto e
urbanista. La figura professionale attraverso l’archivio, tesi di laurea, facoltà di Architettura del Politecnico
di Torino, rel. Vera Comoli, a.a. 1996-1997; La dimora della Reale, cit. (in particolare il saggio critico di
Carlo Ostorero); M.S. POLETTO, La torre Littoria di Torino, cit., pp. 544-552.
22
Cfr. intervista al prof. Roggero Mario Federico, collaboratore di Melis negli ultimi anni del suo
operato [febbraio 1996], pubblicata in A. PERRI, Armando Melis de Villa, pp. 107-114.
23
SOCIETÀ REALE MUTUA DI ASSICURAZIONI, La Società Reale Mutua di Assicurazioni e i suoi cent’anni
di vita, cit., p. 268.
24
G. MONTANARI, Architetture pubbliche, cit., p. 11.
25
Nel dicembre 1994 il Dipartimento Casa-Città del Politecnico di Torino ha acquisito il fondo
Melis, costituito da 2637 disegni che comprendono quasi interamente la produzione dell’architetto dagli anni Venti sino agli ultimi anni della sua attività, negli anni Cinquanta. I disegni sono stati oggetto di
una schedatura informatizzata che consente, attraverso opzioni di ricerca, di individuare committenti,
collaboratori, impresari insieme con luoghi, tipi edilizi, manufatti. Il fondo è attualmente conservato
presso il Laboratorio Beni Culturali del Dipartimento Casa-Città del Politecnico di Torino.
26
L. RE-G. SESSA, Torino, via Roma, Torino, Lindau, 1992, p. 55.
27
Si fa riferimento alle vedute prospettiche conservate al’interno del fondo Melis del Politecnico di
Torino. In particolare, inoltre, i vari progetti presentati al concorso per il Chicago Tribune (1922) sono
pubblicati in Italia sulla rivista «Architettura e arti decorative». Cfr. M. PIACENTINI, In tema di grattacieli,
«Architettura e arti decorative», VIII, 1923, pp. 311-317.
28
Si fa riferimento ai numerosi articoli riguardanti i «grattanuvole» di New York che appaiono sulle
riviste di settore. Si vedano in particolare gli articoli di M. Piacentini sulla rivista «Architettura e arti
decorative». Cfr. nota precedente e M. PIACENTINI, Il momento architettonico all’estero, «Architettura e
arti decorative», 1921, 1, pp. 32-76.
29
Un grattacielo a Torino, «La Stampa», 20 ottobre 1932.
30
La torre e il torro, «La Stampa», 13 novembre 1932.
31
Per uno studio sull’attività di fotografo di Bettmann si rimanda al recente studio del CENTRO
INTERNAZIONALE DI FOTOGRAFIA SCAVI SCALIGERI, I giorni e la storia. Le migliori immagini dell’archivio
Bettmann, catalogo della mostra (Verona, Scavi Scaligeri, 30 ottobre 2004-9 gennaio 2005), Verona,
Controverso, 2004.
32
ASCT, Fototeca, album via Roma anni Trenta.
33
ASCT, Affari Lavori Pubblici, via Roma e adiacenze, cartella 4, fasc. 2, visita del Soprintendente
al cantiere, agosto 1933.
34
Atto di cessione alla Società Reale Mutua di Assicurazioni, 14 luglio 1932, ASCT, Affari Lavori Pubblici,
via Roma e adiacenze, cartella 4, fasc. 3; Lettera del Podestà alla Sovrintendenza, 18 ottobre 1933, Ivi.
35
ASCT, Affari Lavori Pubblici, via Roma e adiacenze, cartella 4.
36
Su questo tema cfr. G. CIUCCI, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città, 1922-1944, Torino,
Einaudi, 1989, in particolare il cap. VI Architettura, arte di stato, pp. 108-128.
37
ASCT, Affari Lavori Pubblici, via Roma e adiacenze, Lettera della R. Sovrintendenza all’Arte
248
MARIA SANDRA POLETTO
Medievale e Moderna all’On. Signor Podestà di Torino, 3 febbraio 1934, cartella 4, fasc. 3.
38
Ci si riferisce in particolare all’articolo di A. Melis apparso sulla rivista «L’Architettura italiana»
e al testo-diario dello stesso pubblicato durante la realizzazione del primo tratto di via Roma. Cfr. A.
MELIS, La ricostruzione dell’isolato S. Emanuele in via Roma a Torino, «L’Architettura italiana», 1934, 7,
pp. 220-254 e ID., La ricostruzione dell’isolato S. Emanuele in Torino, «Domus», 1935, 12, pp. 405-426
e ID., Architettura, scritti vari, Torino, Rattero, 1938.
39
«La Stampa», 6 settembre 1932.
40
A. MELIS, La ricostruzione dell’isolato S. Emanuele in Torino, «L’Architettura italiana», 1935,
12, pp. 11-35.
41
A. MELIS, Architettura, cit., pp. 147-148.
42
A. MELIS La ricostruzione dell’isolato, cit., pp. 11-35.
43
A. MELIS, Architettura, cit., p. 148.
44
«La Stampa», 6 settembre 1932.
45
Ivi, p. 149.
46
M. GUERRISI, Architetture di Armando Melis, cit., p. 150.
47
Ibidem.
48
A. MELIS, La ricostruzione dell’isolato, cit., p. 33.
49
A. MELIS, Architettura, cit., p. 151.
50
A. MELIS, La ricostruzione dell’isolato, cit., p. 35.
51
La torre Littoria in piazza Castello, «La Stampa», 28 marzo 1934.
Note e Discussioni
LA CITTÀ DEL TARDO RINASCIMENTO
1. Una periodizzazione e un campione di città
Che cos’è il tardo Rinascimento? Cronologicamente, nella periodizzazione proposta da Claudia Conforti (La città del tardo Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 2005,
collana «Storia della città», pp. 161, euro 14,00), è la settantina d’anni che vanno
dall’apertura del Concilio di Trento (1545) al pieno manifestarsi dell’età barocca,
vale a dire il 1622, data simbolo che coincide con le celebrazioni romane per la canonizzazione dei campioni della Controriforma: Ignazio di Loyola, Francesco Saverio,
Teresa d’Avila, Filippo Neri.
Si tratta, dunque, di un pezzo importante di quello che Kamen ha chiamato
il «secolo di ferro» (1550-1660). Per caratterizzarlo con i fenomeni più significativi è necessario compilare un lungo elenco: Controriforma; formazione dello Stato
moderno a larga base territoriale; assolutismo; polarizzazione sociale; espansione
dell’Europa oltreoceano; mercantilismo; ulteriore innovazione nell’arte della guerra; divaricazione economica tra Europa mediterranea ed Europa Nord-Occidentale;
crescita (’500) e inversione (’600) demografica; crisi energetica; prime avvisaglie di
rivoluzione scientifica; stallo nel confronto tra cristianità e Islam, due mondi entrambi in crisi in area mediterranea.
Tutto ciò ha una profonda influenza sulla città, anzi, su alcune città che l’autrice
seleziona accuratamente e con un certo criterio: la città grande, rappresentativa, quasi sempre capitale di uno Stato consolidato o in formazione.
2. La città moderna
Il libro ha due grandi ed essenziali meriti. Innanzi tutto riesce ad allineare, in poche
pagine e in questi settant’anni, un impressionante numero di elementi fondanti della
città moderna, per tanti versi opposta alla città ideale del Rinascimento. Il secondo
merito consiste nel non essere una storia dell’architettura o dell’urbanistica, ma una
storia urbana à part entière, nella quale le trasformazioni fisiche della città si specchiano sempre su altri piani fenomenici: istituzioni politiche e amministrative, economia,
tecniche, cultura, società. Questa, d’altra parte, è la filosofia culturale ed editoriale della
collana diretta da Donatella Calabi, collana che intende dare, con una ben congegnata
periodizzazione, suggestioni esatte sull’intera storia della città dall’antichità a oggi.
250
NOTE E DISCUSSIONI
Molte cose cambiano in questa settantina d’anni. Cambia l’idea di città.
Dall’ordine astratto e formale del Rinascimento, si passa alle esigenze funzionali e
strumentali, ivi inclusa quella rappresentativa e celebrativa. Dall’armonia del disegno
geometrico, l’attenzione si sposta sulla peculiarità del sito geografico e topografico
(fiume, aria, retroterra agricolo, difendibilità). Da una proposta totalizzante di rinnovo, si passa ad una più pragmatica pratica di trasformazione per parti.
L’autrice ricorda che, in tre scritti emblematici di Guicciardini, Tolomei e Botero,
la città non è più forma urbis, ma «sistema composito di funzioni diverse, innervato sulla convergenza di molteplici fattori: demografici, geografici, meteorologici,
igienici, economici, commerciali e, naturalmente, politico-istituzionali, cioè a dire
religiosi, militari, giuridici e amministrativi».
Cambia la società urbana, sottoposta a incipienti fenomeni di separazione di ceto,
cioè di aristocratizzazione e chiusura delle classi dominanti. Ma si tratta di élites urbane disposte anche ad aperture in grado aumentare il potere della città: incentivi
al popolamento, all’installazione di stranieri, di ebrei e di quanto può accrescere
la competitività del milieu cittadino. La competizione globale (fisica, economica,
sociale, culturale, istituzionale) tra città e tra territori, oltre che tra Stati, tipica del
mercantilismo, è un’idea molto moderna. Dopo l’oblio deduttivo e marginalistico
dell’economia politica classica e neo-classica, è un’idea che sta guadagnando forza
proprio oggi, in epoca di neo-mercantilismo globalizzante (si pensi ai grattacieli e alle
grandi opere in grado di alimentare il capitale simbolico delle metropoli mondiali).
Cambia la dimensione delle città, con i primi fenomeni di gigantismo (per l’epoca): tra 1550 e 1650 Londra passa da 80mila a 400mila abitanti; Amsterdam da
30mila a 175mila; Anversa, tra 1500 e gli anni del tracollo (1576-85), da 40mila
a 110mila; Parigi da 130mila a 430mila; Roma da 45mila a 124mila; Madrid da
30mila a 130mila. Tra 1500 e 1600 Napoli passa da 150mila a 281mila; Lisbona da
30mila a 100mila; Siviglia da 25mila a 90mila. È una crescita selettiva, che riguarda
le capitali degli Stati a larga base territoriale e i porti, soprattutto quelli affacciati
sull’Atlantico e sul Mare del Nord.
La crescita crea nuove sfide e contraddizioni difficili da risolvere. L’edilizia tende
a debordare extra moenia, che occorre allargare e adeguare agli standard del «secolo
di ferro» e delle sue artiglierie. Una funzione continua di crescita (popolazione) entra
in attrito con una funzione discreta (ampliamento del recinto murario). Ma le nuove
(o adattate) opere di difesa sono molto costose e le città, nell’attesa, aumentano le
densità fondiarie, anche in verticale, accrescendo le latenti contraddizioni ecologiche
dell’agglomeramento urbano e producendo vistosi fenomeni di rendita.
Il consolidarsi di alcuni Stati nazionali e delle loro strategie militari sta sdrammatizzando il problema della difesa della singola città, trasferendolo ai confini dello
stato in forma di città-piazzeforti. Nell’ampia rassegna fatta dall’autrice, colpisce il
ruolo chiave che in questa materia svolgono gli architetti militari italiani.
NOTE E DISCUSSIONI
251
Sorgono le prime perplessità sulla sostenibilità e sui limiti dello sviluppo urbano,
insidiato dai problemi di approvvigionamento alimentare ed energetico. Dalla seconda metà del ’500 prende avvio una sorta di malthusianesimo urbanistico che vieta
di accrescere la città entro e soprattutto oltre le mura. Provvedimenti per il blocco
della crescita della superficie urbanizzata vengono tentati a Parigi (1560), a Londra
(ripetutamente tra 1580 e 1625), a Napoli (1566). È, naturalmente, una battaglia
perduta contro le forze inarrestabili che sospingono l’espansione dell’area urbana.
Comunque, dimensioni demografiche e accresciute funzioni richiedono interventi
urgenti su parti e funzioni della città.
Interventi sui «vuoti», cioè su strade, piazze, porte e ponti. È un lavorio di lima e
piccone sulla densità e «confusione» che la città medievale ha lasciato in eredità alla
morfologia urbana: lastricatura, larghezza, rettifica lineare delle strade ed eliminazione delle superfetazioni in aggetto che intralciano la mobilità; gerarchizzazione dei
percorsi e dei siti (piazze reali; la Strada Nuova di Genova). Lo richiedono le carrozze,
i flussi crescenti di prodotti e materiali (derrate, materiali edili), i percorsi istituzionalmente o socialmente privilegiati.
Interventi sui «pieni», cioè sugli isolati. Occorre risolvere il problema della edificazione in aderenza tra lotti di proprietari diversi, onde eliminare i maleodoranti
«chiassi», che pestilenze e teorie miasmatiche del contagio epidemico mettono sotto
accusa. Bisogna anche accorpare e riedificare blocchi di edilizia preesistente, con innovative norme di esproprio e di incentivazione alla riqualificazione del patrimonio
edilizio, particolarmente a favore di complessi religiosi e dimore aristocratiche. Si
afferma, tuttavia, anche l’intervento in senso contrario, volto a limitare strapoteri
religiosi o consuetudini giuridiche, come i fedecommessi, che tutelano l’integrità dei
grandi patrimoni e che risultano ora troppo vincolanti per chi voglia mettere mano
ad una riforma della città.
Interventi si rendono necessari per aumentare l’efficienza della «macchina» urbana e
diminuirne le esternalità negative, le non desiderabili interferenze che le varie funzioni
esercitano l’una nei confronti dell’altra. Prosegue così una specializzazione funzionale
delle parti di città, una sorta di «zoning» che sviluppa tendenze già presenti nella normativa statutaria medievale. Scala dimensionale, decoro, salubrità e bisogni in via di
espansione richiedono, inoltre, migliori servizi, come acquedotti e sistemi fognari.
Nelle città capitali, in particolare, nasce una nuova governance urbana, nella quale la
Corona limita ed espropria i poteri municipali, signorili e religiosi. Le capitali fungono
così da laboratorio normativo, i cui esiti verranno poi estesi, in tutto o in parte, anche
alle città di rango inferiore. Ma nasce anche un settore e degli operatori definibili come
imprenditoria immobiliare, che investe in crescita edilizia e domanda di abitazioni ed
è ormai assuefatta all’idea di profitto, di rendita, di uscita dallo stato stazionario. Si dà
il caso, persino, di una iniziativa pubblica in favore di edilizia popolare (a Parigi, nel
contratto del 1598 tra un ingegnere-imprenditore ed Enrico IV).
252
NOTE E DISCUSSIONI
Il volumetto, infine, è letteralmente pieno di acute notazioni, non proprio consuete negli studi di storia dell’architettura e dell’urbanistica. Si pensi, ad esempio, al
nesso tra la crisi del legno, la scomparsa dei sistemi costruttivi a traliccio e il trionfo
della pietra e del laterizio. Abbondano poi le pagine di grande apertura disciplinare,
come quelle contenute nel capitolo sulla cultura della città e dedicate alla comparsa
di un genere letterario «urbanologico», non più o non solo encomiastico, ma analitico e attento alla dimensione multiforme del fenomeno urbano. Oppure le pagine che
descrivono la nascita di un dinamico settore grafico di vedute di città, usato commercialmente e politicamente quasi come strumento di marketing territoriale.
3. Alcune perplessità
Come accade in tutte le opere importanti, restano alcuni punti da chiarire. Il campione di città esaminato dalla Conforti è trattato come un insieme omogeneo, che risponde ad analoghe sollecitazioni. Eppure i contesti nazionali e territoriali non sono affatto omogenei. Ci sono nazioni e territori in forte espansione economica (Inghilterra,
Province Unite Meridionali fino alla seconda metà del ’500, poi Province Unite
Settentrionali), ma nel campione compare solo Anversa, non Londra e Amsterdam.
Ci sono nazioni e territori che proprio in questo arco di tempo subiscono una brusca inversione di tendenza (Spagna, Portogallo). Altri che vedono accumularsi sintomi
di crisi e decadenza (Penisola italiana). La Francia, con Parigi, e soprattutto altri casi
(Torino, Praga) sembrano rispondere a una dinamica tutta istituzionale.
Viene da domandarsi se per caso non esistano diversi tipi di crescita e rinnovo
urbano: uno da sviluppo economico e uno sostitutivo di un mancato sviluppo economico (cfr. l’accenno, a pag. 46, della estraneità dell’Italia al moto funzionalista e
mercantilista dell’Europa del Nord). Si può, dunque, parlare di una urbanizzazione
«parassitaria» a Napoli, Roma, Madrid?
I porti mediterranei si rinnovano più che per esigenze mercantili «attive», per
inedite esigenze strategiche e come scali «passivi». È il caso di Livorno, la Gioia
Tauro del Sei-Settecento, che nasce e cresce in un’ottica di ripiegamento dell’Italia
e del mondo mediterraneo, sempre più dominato dal commercio e dalle marinerie
del Nord Europa.
Qualche messa a punto sulle tendenze demografiche e territoriali sembra opportuna. Le città crescono sì per immigrazione rurale, ma sembra eccessivo dire che esse
«prosciugano le campagne» e che queste ultime siano afflitte da una «languente agricoltura» che sta passando «inesorabilmente dall’aumento di produttività all’estensione delle colture». Non è sempre così, ad esempio (e ancora) in Olanda e Inghilterra. Oppure
che la peste del 1348 si porti via metà della popolazione europea; oppure, ancora, che
i «ricorrenti tracolli demografici [...] decimano anche nel Cinquecento la popolazione
europea, non particolarmente copiosa». Il XVI è secolo, in realtà, e un periodo di sicura
crescita demografica, almeno fino agli anni ‘80.
NOTE E DISCUSSIONI
253
Un’ultima perplessità. La nascita della città moderna, nel volume, appare come un
moto progressivo e razionale più che un parto punteggiato da doglie e contraddizioni. Essa, tra le altre cose, implica una crescente pressione fiscale sulle campagne, con
conseguenti rivolte contadine e pauperismo dilagante. La città moderna cerca anche
di cavalcare l’onda di crescenti contraddizioni ecologiche. Il poemetto di Alessandro
Tassoni su Modena (pag. 21), ad esempio, più che uno sberleffo, sembra descrivere
fedelmente la condizione ambientale della città, ove le «contrate corron di fango e
merda a mezza estate». E’ interessante il tema delle «comandate» e ci si può chiedere
quanto esse siano prossime alle corvées medievali, oppure siano strumenti eccezionali
per far fronte ad opere pubbliche urgenti in situazione di crisi fiscale.
Ercole Sori
254
NOTE E DISCUSSIONI
A PROPOSITO DELL’ARA PACIS
La nuova sistemazione dell’Ara Pacis potrà essere valutata più approfonditamente
nel merito – e forse con maggiore distacco e serenità – nei prossimi mesi, dopo il
completamento di tutti i lavori ed alla luce di un’informazione più precisa anche sui
costi complessivi, diretti e indiretti, dell’opera. Tuttavia è a mio avviso maturo il tempo
per avviare, a partire da questo caso “importante”, una discussione seria e costruttiva
sulle politiche di indirizzo e di gestione in materia di patrimonio culturale. Infatti, la
lunga e contrastata vicenda dell’Ara Pacis – segnata talvolta da polemiche politiche
inappropriate e strumentali – ha evidenziato alcuni problemi di metodo e delle fragilità istituzionali sui quali occorre riflettere per individuare criteri e pratiche affidabili e
largamente condivisi, traendo la giusta lezione dalle vicende passate. Un ragionamento
sul caso dell’Ara Pacis è essenziale non solo perché si è trattato di un intervento culturalmente e finanziariamente significativo nel cuore della capitale, ma perché dall’analisi
delle procedure adottate nascono delle considerazioni che non possono essere lasciate
cadere in tema di politiche culturali ed urbanistiche nei centri storici.
Va innanzitutto rilevato che nel caso dell’Ara Pacis vi era l’urgente necessità di un
intervento da parte dell’amministrazione comunale, che riguardava la stessa sfera privilegiata della conservazione del bene, e sono del pari fuori discussione le buone intenzioni
degli attori principali della vicenda, specie per quanto concerne l’obiettivo di recuperare
una centralità per un’opera d’arte di elevato valore simbolico.
Del resto è ben noto che l’area intorno al nodo storicamente nevralgico per la città
del Porto di Ripetta (fig. 1) – tanto celebrato nell’iconografia di Sette-Ottocento – venne
sconvolta nel periodo post-unitario dalla nuova regimentazione del Tevere e dalla realizzazione dei muraglioni e dei lungotevere. Inoltre tutto il complesso tessuto urbano
stratificatosi nel tempo nell’area del Mausoleo di Augusto e intorno all’asse di via Ripetta
(figg. 2-3) venne radicalmente cancellato dalle vaste demolizioni e dalle nuove edificazioni realizzate dal Governatorato alla fine degli anni Trenta nel quadro delle celebrazioni
e delle rappresentazioni dei fasti e delle ambizioni imperiali (fig. 4). Nell’ambito di tali
imponenti interventi si realizzò la traslazione dell’Ara Pacis dalla zona del suo rinvenimento a San Lorenzo in Lucina nella “teca” di Vittorio Ballio Morpurgo, posta a ideale
completamento del nuovo assetto urbanistico dell’area dell’Augusteo (fig. 5). Nel secondo dopoguerra l’area di piazza Augusto Imperatore, persi i legami con il tessuto storico
della città e, al tempo stesso, gli elementi simbolici che aveva inteso attribuirle il regime
fascista, divenne un luogo marginale che, in relazione agli sviluppi della motorizzazione a
partire dagli anni Sessanta, assunse la funzione di un grande parcheggio all’aperto (fig. 6).
Sorte analoga toccò alla “teca” di Morpurgo, assediata dalle auto e posta a contatto di un
asse viario di grande scorrimento: un monumento al di fuori di ogni percorso e visitato
esclusivamente da turisti colti ed appassionati di antichità.
NOTE E DISCUSSIONI
255
Questo sommario excursus è indispensabile per riepilogare i grandi sconvolgimenti
subiti dall’area nel corso di un secolo e precisare in quale contesto si è venuta a collocare
nel 1996 la decisione di affidare ad un architetto di fama internazionale – Richard Meier
– il progetto di creare un nuovo “contenitore” per garantire una corretta conservazione ed
una migliore fruibilità dell’Ara Pacis. Le vicende progettuali e realizzative sono state assai
travagliate e certamente non solo per problemi burocratici o politici. Vi erano – e vi sono
– delle questioni culturali e di metodo in merito alle quali è importante, a mio avviso,
ritrovare degli elementi sostanziali di larga convergenza per il buongoverno della città.
Non sembra che si possa assumere il caso Ara Pacis come un modello per futuri
interventi riguardanti il patrimonio culturale della città. Infatti, l’opera di Meier potrà
legittimamente piacere o non piacere, essere considerata sgraziata e inutilmente ingombrante dall’esterno e magari gradevole all’interno, oppure ancora si potrà rimanere
colpiti dai giochi di luce che produce; su tutto questo le discussioni si protrarranno a
lungo ed è naturale che si manifestino posizioni diverse.
Certo è che si tratta di un’opera architettonica importante: Meier ha costruito un
tempio per conservare l’altare e ha voluto imprimere un segno forte ed invasivo rispetto
al tessuto urbano e al contesto ambientale. Si tratta di una considerazione oggettiva,
riscontrabile da qualsiasi osservatore del sito (figg. 7-8), e che non entra nel merito e
nell’apprezzamento dell’opera come chiarito in premessa; del resto è comprensibile che
un autore voglia dare un’impronta preminente alla sua creazione. Quello che invece
sorprende è che un’opera di queste dimensioni, che è passata al vaglio di vari organi
tecnici e di tutela, si sia potuta deliberare e realizzare in assenza di una seria analisi
e valutazione preventiva dei suoi rapporti con il contesto urbano e storico-culturale.
Credo che anche un non specialista, leggendo la guida rossa del Touring, esaminando
una piantina dell’area ed osservando direttamente il sito, si sarebbe agevolmente reso
conto che esistevano almeno quattro problemi da tenere ben presenti nell’elaborazione
e nella valutazione del progetto: il rapporto con il lungotevere e, più in particolare, con
il fiume; la prospettiva di via di Ripetta; il rapporto con piazza Augusto Imperatore;
il rapporto con le chiese di San Girolamo e, soprattutto, di San Rocco. Revisioni e
ridimensionamento del progetto originario di Meier hanno dato un’insoddisfacente risposta ad uno dei problemi, mentre solo recentemente si è parlato della necessità di un
progetto urbano per piazza Augusto Imperatore e le aree adiacenti e solo oggi, a fronte
dell’evidenza indiscutibile di migliaia di veicoli che sfrecciano a 3 metri dalle vetrate
dell’Ara Pacis (fig. 9), si è ipotizzato di realizzare un sottopasso che avrà notevoli implicazioni tecnico-scientifiche e comporterà consistenti oneri a carico della collettività.
La definizione preliminare di un vero progetto risulta dunque la strada maestra da
seguire in futuro, perché è quella che consente di stimare in modo realistico gli oneri
complessivi, di ridurre i margini di errore e di evitare di perdere tempo e denari per
ripensamenti in corso d’opera dovuti ad insufficienze del progetto originario.
Alla luce di queste considerazioni appare fuori luogo il quesito se interventi innovativi
256
NOTE E DISCUSSIONI
Fig. 1. Alessandro Specchi, Prospetto del nuovo navale di Ripetta, [1702], Fondazione Besso
NOTE E DISCUSSIONI
257
258
NOTE E DISCUSSIONI
Fig. 2. Il Porto di Ripetta, l’Augusteo e l’area del Tridente, anno 1748. Particolare tratto dalla
carta vettorializzata della Pianta di G.B. Nolli redatta a cura di Keti Lelo
Fig. 3. L’Augusteo prima delle demolizioni del 1936 quando era ancora utilizzato come anfiteatro, ICCD-Aerofototeca, 5° Reparto dello S.M. Aeronautica
NOTE E DISCUSSIONI
259
Fig. 4. Lavori di sistemazione di piazza Augusto Imperatore, 1937, ICCD-Aerofototeca,
Aeronautica Militare
Fig. 5. La nuova sistemazione dell’Ara Pacis, 1938-1940, ICCD-Aerofototeca, 5° Reparto
dello S.M. Aeronautica
260
NOTE E DISCUSSIONI
Fig. 6. L’Ara Pacis e piazza Augusto Imperatore nel secondo dopoguerra, ICCD-Aerofototeca,
Aeronautica Militare
Fig. 7. Il nuovo museo dell’Ara Pacis in fase di completamento visto da Sud e le chiese di San
Girolamo e di San Rocco, aprile 2006 (foto di Noemi Travaglini)
NOTE E DISCUSSIONI
261
Fig. 8. Il nuovo museo dell’Ara Pacis (lato prospiciente su via di Ripetta e piazza Augusto
Imperatore), aprile 2006 (foto di Noemi Travaglini)
Fig. 9. Il nuovo museo dell’Ara Pacis (lato prospiciente sul lungotevere, particolare), aprile 2006 (foto di Noemi Travaglini)
262
NOTE E DISCUSSIONI
NOTE E DISCUSSIONI
263
si possano realizzare nell’ambito del centro storico: il problema è un altro e su quello occorre confrontarsi. Infatti, la città è per sua natura un oggetto vivo in perenne evoluzione
e sarebbe del tutto illogica la pretesa di cristallizzarla in un museo, anche limitatamente
al perimetro della città storica; ma è al tempo stesso altrettanto ovvio che interventi nel
centro di Roma dovrebbero essere preceduti da un’istruttoria tecnico-scientifica adeguata
e dalla precisa definizione di obiettivi e contenuti, specie oggi che le nuove tecnologie
edilizie possono tanto fare miracoli quanto facilmente creare delle mostruosità. Del resto
un qualsiasi committente – e specie una pubblica amministrazione – ha il dovere di esplicitare obiettivi, esigenze funzionali e vincoli che dovrebbero riguardare anche gli aspetti
economici e quelli gestionali dell’opera finita. Occorre poi sottolineare con schiettezza
che se vi è un interesse di professionisti più o meno noti ad operare nei centri storici, perché lavori in questi ambiti garantiscono comunque – a parità di condizioni – una maggiore visibilità ai progettisti, questo certamente non si deve tradurre in una deprecabile
sovraesposizione di molti centri storici di grandi e di piccole città a millantate politiche
di riqualificazione urbana o di arredo urbano, che finiscono talvolta per deturpare piazze
e strade con l’aggravante di un inutile spreco di pubblico denaro. Infine, i segni forti di
innovazione – sempre coordinati con i contesti – dovrebbero probabilmente riguardare in
primis le aree semi-centrali e le periferie, soprattutto quelle che, in base alla pianificazione
urbana, devono costituire poli di nuove centralità.
Se è assolutamente condivisibile, e va sollecitato, un impegno più forte – anche in
termini di investimenti – di soggetti pubblici e privati sul terreno della qualità architettonica, ciò non significa affatto che tale impegno – specie nei centri storici – si possa ridurre
all’affidamento ad personam ad un architetto di riconosciuta reputazione nazionale e internazionale dell’incarico di elaborare e realizzare un progetto.
La città, specie la città storica, è un organismo straordinariamente complesso e stratificato e la sua conoscenza, che è poi il presupposto indispensabile di qualsiasi serio progetto
di innovazione, non si può esaurire in una singola competenza, per quanto versatile; tale
conoscenza richiede invece il concorso di una molteplicità di saperi specialistici ed una
collegialità di analisi. È questo a mio avviso un punto cruciale che ha a che vedere con la
questione del rapporto tra «città delle pietre» e «città degli uomini» e che sollecita una forte cultura di governo delle città, che si può esprimere in modo efficace solo coniugando
memoria e progetto. La città è un organismo vivo in continua trasformazione, ma trae la
sua forza e il suo carattere distintivo da una sedimentazione di esperienze e da un’accumulazione di saperi che ne fanno un luogo privilegiato di cultura, scambi, innovazioni,
interazioni, identità, conflitti.
Da queste riflessioni scaturiscono già oggi alcune indicazioni di politica culturale
su cui è possibile intervenire, delineando una più coerente azione di governo dei processi di trasformazione ed innovazione urbana. Per i grandi progetti, specie per quelli
che incidono nel vivo della città storica, sono necessari studi preliminari e chiarezza
di obiettivi, larghe consultazioni, procedure concorsuali e assoluta trasparenza, perché
264
NOTE E DISCUSSIONI
sono in gioco la nostra storia e la nostra cultura e sono pure implicati – non va sottaciuto questo aspetto – interessi professionali ed imprenditoriali corposi. Ma tutto questo
non è sufficiente, poiché è emersa in modo oggettivo un’inadeguatezza dell’attività di
organi tecnici e di tutela – che prescinde dalla qualità delle singole persone – ed evidenzia l’urgenza di una riforma istituzionale. La tutela e la valorizzazione del patrimonio
culturale in una città come Roma non possono essere affidati alle decisioni esclusive di
organi monocratici: occorre dar vita ad un organo consultivo collegiale indipendente,
basato su larghe competenze disciplinari e prevalentemente elettivo (invertendo perverse tendenze centralistiche e di asservimento dei tecnici al potere politico), in modo
da coinvolgere e responsabilizzare i saperi presenti nel mondo scientifico romano. Vi
è una sostanziale unitarietà tra tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio
culturale, e il presupposto indispensabile per una più efficace azione a tutti i livelli è
costituito dallo sviluppo della conoscenza e della ricerca.
È poi importante, sul piano del metodo, programmare gli interventi e fissare delle
priorità – l’elenco delle urgenze è assai fitto, direi imbarazzante – secondo criteri di
valori. Tale pianificazione è tanto più essenziale in tempi di risorse scarse, anche sul
piano della voce investimenti, e rappresenta l’unica strada per proporre degli obiettivi di alto profilo nella consapevolezza che l’investimento sul terreno del patrimonio
culturale può costituire una leva potente di sviluppo economico e civile, come hanno
testimoniato recenti analisi sulle tendenze dell’economia romana.
Inoltre, si avverte la necessità di una maggiore collaborazione tra Stato, Comune,
Regione (finora peraltro scarsamente presente e priva di progettualità) e le istituzioni
scientifiche che operano in vario modo nel campo del patrimonio culturale, a partire
dalle università; di questa esigenza si dovrà tener conto nel costruire il nuovo modello
autonomistico di Roma capitale.
In questo quadro, che esige un accrescimento di efficienza operativa, occorre ragionare anche per il patrimonio culturale in termini di reti e di sistemi, e diventa
altresì irrinunciabile un impegno per estendere le sinergie tra istituzioni pubbliche
ai vari livelli; sotto questo profilo Roma potrebbe costituire un caso sperimentale di
straordinario interesse. Si pensi, ad esempio, al ruolo che potrebbe svolgere un’istituzione «Museo della città», intesa come laboratorio multidisciplinare e luogo di dialogo con la città. Il sindaco Walter Veltroni ed il ministro Francesco Rutelli, due personalità che in tempi e modi diversi hanno già dato un contributo importante ad una
rivitalizzazione culturale della capitale, possono concertare quelle misure strutturali
che oggi si richiedono. Il patrimonio culturale – inteso nella sua accezione più ampia
– non è una delle questioni per il buongoverno della città; è la questione, perché in
esso si sostanziano la storia, la cultura, l’identità della comunità e perché costituisce
per Roma la radice profonda della sua egemonia e la principale fonte di ricchezza.
Carlo M. Travaglini
NOTE E DISCUSSIONI
265
I RECENTI PROGRESSI DELLA LOCAL HISTORY ITALIANA
Nelle righe che seguono userò il termine local history. Non lo farò per anglofilia
o per sfoggiare una mediocre conoscenza della lingua inglese, ma per indicare una
diversa prospettiva di ricerca.
Ci sarebbe l’italiano storia locale ma a molti di noi, a cominciare dal sottoscritto,
quell’espressione evoca scenari non esaltanti. Ecco comparire davanti ai nostri occhi
l’immagine del parroco con l’hobby della storia, dell’insegnante di lettere in pensione
o comunque del solitario ramazzatore di carte d’archivio, impegnato su argomenti
che a noi oggi appaiono futili o marginali: la storia del gonfalone, della patente regia,
dello stemma e di quant’altro possa servire a dimostrare o a legittimare la dignità
urbana di un centro piccolo e periferico.
Al di là delle battute, la nozione di storia locale sembra appartenere ad una tradizione di eruditi che, soprattutto nell’Italia dei comuni medievali, ha avuto una
robusta ed interrotta tradizione di studi durata fino al secondo dopoguerra. Una tradizione che ha avuto grandi meriti, ma che oggi appare esaurita, nonostante le molte
sacche di resistenza sparse per la penisola.
A confronto con la storia urbana, la local history registra oggi in Italia incoraggianti
progressi: si tratta come vedremo del prodotto di studiosi i quali sono solidamente inseriti entro circuiti di ricerca nazionali e internazionali. E qui rimarchiamo una prima
evidente differenza con una tradizione di storia locale che, alle nostre latitudini, si è quasi sempre associata all’idea di un dilettante o di uno specialista che opera en solitaire.
Non si tratta di un’annotazione statistica o sociologica sul profilo del nuovo studioso, ma di un dato iniziale che poi si riflette sulla qualità del lavoro: emerge infatti
un’attenzione al confronto tra diversi casi di studio, una vocazione alla storia comparata che genera un sensibile distacco dalla tradizione erudita.
Mi riferisco, per cominciare, ad un nuovo filone di studi che ha preso il nome di
«quasi-città», a partire da una serie di concetti formulati da Giorgio Chittolini in un
articolo del 19901: vi si accennava a centri di modeste dimensioni, privi del titolo di
città ma che, tuttavia, possiederebbero molti connotati per essere definiti come tali.
In primo piano c’è l’aspirazione a divenire città. Le pressioni prodotte in questa
direzione provengono soprattutto dalle élite locali e ci rivelano che cosa si intendesse,
di volta in volta, per civitas: non solo un insediamento legittimato nel suo rango
dalla presenza di un vescovo e di un caposaldo politico-amministrativo, ma un’entità
legata a tutta una serie di funzioni assai più complesse.
Anna Bellavitis ne dà una definizione precisa: «L’espressione quasi-città (…) in-
266
NOTE E DISCUSSIONI
dica quei centri minori che pur avendo raggiunto, tra epoca medievale e moderna,
un’organizzazione di tipo urbano e un peso demografico che, in altri contesti, permetterebbero di attribuire loro la qualifica di città ne sono sprovviste perché non
sono sedi diocesane»2.
Oggi, su questo fronte di studio troviamo impegnato un gruppo di giovani studiosi
che provengono da diverse aree disciplinari: dalla storia dell’architettura come Elena
Svalduz, Stefano Zaggia e Francesco Ceccarelli, dalla storia moderna come Marco Folin
e la stessa Anna Bellavitis, dalla storia medievale come Manuela Ghizzoni3.
Il punto di partenza è stato offerto dai piccoli centri dell’Emilia e della Romagna,
capoluoghi di principato: Carpi, Imola, Guastalla. Tutti situati a sud del Po, questo
tipo d’insediamento ha offerto indicazioni anche a chi intendeva affrontare casi di
studio situati fuori dalla Cispadania: nella Lombardia, nel Veneto, nelle Marche e
persino fuori dall’area della civiltà comunale.
Le quasi-città presentavano aspetti confrontabili ed insieme caratteri specifici;
a questo proposito, Elena Svalduz ha parlato della storia locale e della storia comparata come «due momenti necessari e complementari per chi studia una città,
piccola o grande che sia»4.
Come dire che la storia urbana ha bisogno dei centri minori per costruire una solida
prospettiva di tipo comparato, perché a questa scala i problemi appaiono più facilmente
controllabili. Da qui una serie di indicazioni metodologiche che poi saranno applicabili
allo studio delle città più grandi: con bella espressione, ha indicato nei «giochi di scala»
una possibile strategia di ricerca che riguarda la storia urbana nel suo complesso.
Nell’esprimere il suo interesse per i centri minori, ed in particolare per le sedi dei
principati emiliani, Lucio Gambi5 aveva indicato trenta anni fa un cammino di ricerca
che non è stato poi percorso tanto dai geografi storici, quanto dagli storici moderni e
dagli studiosi di architettura. I tre volumi offerti ai soci del Touring Club Italiano avevano rappresentato a metà degli anni settanta un’interessante finestra divulgativa.
A differenza delle quasi-città, i centri minori rappresentavano una specie di entità urbana in sedicesimo: il lettore/escursionista era invitato ad andare al di là della dimensione
modesta, per riconoscervi gli elementi tipici di una civitas perfettamente compiuta.
L’attenzione per la città in sedicesimo ha trovato poi ampio spazio nella nuova generazione della Guida d’Italia, le cosiddette «guide rosse» ciascuna delle quali dedicata ad
una singola regione: all’interno di questa collana, con la consulenza dello stesso Gambi,
dopo il 1980, ha preso il via una strategia dell’attenzione verso i piccoli centri che ha
trovato ampio spazio nelle ultime edizioni aggiornate.
In questo caso, il procedimento andava dalla grande alla piccola città, da un’attrezzatura urbana di tipo completo fino alla sua miniaturizzazione alla scala locale.
Nella prospettiva offerta dai nuovi, come abbiamo visto, il percorso sembra invertirsi: la local history si offre oggi come maturo campo di sperimentazione che può
diventare utile – per non dire indispensabile – all’analisi di città più grandi e più
NOTE E DISCUSSIONI
267
complesse. La dimensione ben più controllabile dei casi di studio consente infatti il
confronto e le conferisce perciò una sorta di primato nell’ambito di una storia che
non può non essere comparata.
L’indagine su casi locali si incrocia poi con ricerche sui diversi tipi di centri e sul
loro assetto statutario: alla vecchia schematica divisione tra città e centri minori fa seguito ora una ben più sofisticata diversificazione gerarchica. A questo Marco Folin ha
dedicato un saggio molto interessante che analizza una serie articolata di definizioni
(villa, terra, castello, villaggio…)6.
Anche in Francia, ricerche come quella sui mots de la ville7, vanno inevitabilmente
a intersecare questo tipo di argomenti: cité, ville, bourg, village sono solo alcuni tra
i termini che traggono senso anche da un confronto interlinguistico tra parole solo
apparentemente assonanti (come villa, vila e ville). Prova ne sia il fatto che l’articolo
di Folin è stato tradotto e che ha suscitato interesse oltre le Alpi soprattutto là dove,
a mio avviso, egli cerca di stabilire dei criteri oggettivi per la classificazione degli insediamenti urbani e di definire un’unità minima che possa dirsi tale.
Questo aspetto lo pone in diretta relazione con l’opera straordinaria di Bernard
Lepetit e con i suoi sforzi per individuare una «soglia minima urbana», soprattutto nel
passaggio tra Ancien Régime ed età contemporanea: più che sulla quantità, la definizione appare legata alla presenza di funzioni amministrative e/o economiche (mercato,
porto). Queste ricerche combaciavano con un generale interesse fiorito per petites villes
e small towns, fiorito, tra gli anni Ottanta e Novanta, sulle due sponde della Manica8.
Anche in Italia, come abbiamo visto, lo studio delle piccole città ha fatto grandi
progressi. Lo dimostra molto bene l’ultimo volume pubblicato a più mani dal gruppo di storici della quasi-città, coordinati da Elena Svalduz: secondo una serie di parametri, in gran parte condivisi, sono passati al vaglio alcuni centri piccolo-medi della
pianura emiliani (Carpi, Guastalla, Brescello, Correggio, San Secondo Parmense) cui
si aggiungono osservazioni e descrizioni riguardanti casi della terraferma veneta e dei
domini papali (romagnoli e marchigiani).
In primo piano vi sono le trasformazioni dello spazio fisico, lette in un lungo
periodo che va dal Trecento al Seicento; il tutto è posto in relazione con le modifiche
degli ordinamenti politici e statutari, con le strategie di dominio e di consolidamento
territoriale. In questa ottica, grande attenzione è dedicata alla forma urbis, specie nei
casi di grandi addizioni e di città di fondazione.
Un occhio di riguardo è però riservato alle aree centrali ove più si manifesta l’epifania del potere signorile e delle istituzioni ad esso legate. In particolare piazze, palazzi e castelli-diventati-palazzi appaiono, come nel caso di Carpi, snodi decisivi per
verificare alcune linee di tendenza: i luoghi del potere si dimostrano efficaci sensori
per misurare quella ambizione di essere città che dà il titolo alla raccolta di saggi.
La storia locale, o local history, sembra dunque uscita da quel ghetto in cui la immaginiamo relegata. I suoi progressi si misurano anche su di un terreno di ricerca apparen-
268
NOTE E DISCUSSIONI
temente immutato nella sua scala: la monografia urbana riferita a centri di media dimensione. È il caso, ad esempio, del volume che Salvo Adorno ha recentemente dedicato a
Siracusa limitandola ad una precisa unità di tempo: il post-unitario9.
Già nel titolo, La produzione dello spazio urbano, l’autore indica un’attenzione
particolare alla dimensione fisica della città, analizzata in questo caso nella fase in cui
impellenti ragioni di crescita la costringono ad «uscire dall’isola» e a re-inventarsi una
nuova forma urbis.
Il lavoro di Adorno è condotto su livelli diversi, ma contigui: l’analisi delle fonti
documentarie (in primis gli atti del Consiglio comunale), la lettura del materiale cartografico e fotografico, l’indagine sistematica dei registri catastali riferita ad un caso
di studio scelto come emblematico (il rione Santa Lucia). Qui, insieme agli attori
politici ed economici, interagiscono alcuni fattori specifici: un piano disegnato da un
ingegnere nel 1885, un particolare regime fondiario (l’enfiteusi) ed infine una certa
ambizione riformistico-filantropica. Il tutto è posto strettamente in relazione con la
storia degli accadimenti politico-amministrativi.
Un plauso particolare va all’autore che non si è fermato al piano disegnato, come
spesso fa chi proviene da un background architettonico, né si è limitato a restituirci
la sola vicenda sociale e istituzionale, come spesso fanno gli storici contemporanei.
Alla fine, lavorando su questo doppio registro, Adorno è riuscito a mettere in campo
quanto di meglio è stato recentemente prodotto nei due rispettivi ambiti e che solitamente presenta gravi problemi di scambio/interrelazione.
Per quanto ben caratterizzata, la vicenda siracusana – precisa molto bene l’autore
– non è soltanto alimenta da fattori specifici ma si colloca entro una più generale
storia della città italiana post-unitaria, per non dire all’interno di un quadro ancora
più ampio: ovvero quello che fa capo alla città occidentale posta di fronte a problemi
di ampliamento e di modernizzazione.
Su questo terreno registriamo un bel passo in avanti rispetto ad una certa tradizione che amava indugiare sul colore locale, e concedersi alla retorica meridionalista
di destra o di sinistra.
Nel libro di Salvo Adorno, la storia locale è invece diventata parte di una storia
più generale declinata secondo un tempo e uno spazio specifici.
Sono certo di avere tralasciato una serie di importanti contributi pubblicati di
recente nel settore della local history ; me ne scuso precisando, tuttavia, che quanto
qui descritto vuole avere un valore esemplificativo di una tendenza nuova e incoraggiante. Aspettiamo segnalazioni e contributi da tutti coloro che, in Italia, si sono
recentemente impegnati su questo stesso fronte.
Guido Zucconi
NOTE E DISCUSSIONI
269
1
G. CHITTOLINI, «Quasi-città». Borghi e territori in area lombarda nel tardo Medioevo, «Società e
Storia», XIII, 1990, pp.7-30.
2
A. BELLAVITIS, Quasi-città e terre murate in area veneta: un bilancio per l’età moderna, in L’ambizione di
essere città. Piccoli, grandi centri nell’Italia rinascimentale, a cura di E. Svalduz,Venezia, Istituto Veneto
di Scienze, Lettere ed Arti, 2004, pp. 97-119: 97.
3
Cfr. L’ambizione di essere città, cit., ed anche S. ZAGGIA, Una piazza per la città del Principe. Strategie
urbane e architettura a Imola durante la signoria di Girolamo Riario (1473-1488), Roma, Officina
Edizioni, 1999.
4
L’ambizione di essere città, cit, p. 38.
5
L. GAMBI-A. MIONI e altri, Capire l’Italia. Le città, Milano,Touring Club Italiano, 1978.
6
M. FOLIN, Sui criteri di classificazione degli insediamenti urbani nell’Italia centro-settentrionale, secoli XIV-XVIII, «Storia Urbana», XXIV, 2000, n. 92, p. 5 (trad. franc. Hiérarchies urbaines/ Hiérarchies
sociales. Les noms de villes dans l’Italie moderne, «Genèses», 2003, n.51, pp. 4-25).
7
CSU-UMR-CNRS, Le Trésor de mots de la ville: une maquette au 1/5e, rapporto a cura del
Secrétariat administratif LAU-UPR, Paris, 2005.
8
B. LEPETIT, In search of the small towns in early nineteenth century France, in Small towns in early modern Europe, a cura di P. Clark, Cambridge, Cambridge University Press 1995, pp. 166-183; ID., Les villes
dans la France moderne (1740-1840), Paris, Albin Michel, 1988.
9
S. ADORNO, La produzione dello spazio urbano. Siracusa tra Otto e Novecento, Venezia, Marsilio, 2004.
Schede
CLARA ALTAVISTA, Lucca e Paolo Guinigi (1400-1430): la costruzione di una corte rinascimentale.
Città, architettura, arte, Pisa, ETS, 2005 (collana Saggi e Ricerche dell’Accademia Lucchese di
Scienze, Lettere e Arti), pp. 258, euro 18,00.
L’autrice propone un’indagine delle trasformazioni culturali, urbane e architettoniche che
caratterizzarono la Signoria di Paolo Guinigi su Lucca, descrivendo come gli interventi patrocinati dal «novo» prìncipe ben segnarono le tappe di un percorso verso la formazione di quella
che, a ragione, può annoverarsi tra le prime corti rinascimentali italiane. Grandi e piccole
opere, che appaiono profetiche per la storia urbana e architettonica di Lucca, e che troveranno realizzazione soprattutto nei successivi rinnovamenti cinquecenteschi, assai più noti.
Nel volume sono rilevate le relazioni intercorse tra la corte guinigiana – dottamente celebrata dal cronista e novelliere Giovanni Sercambi e abilmente consigliata dal segretario di stato
Guido Manfredi da Pietrasanta – ed alcuni tra gli esponenti più autorevoli del mondo politico,
culturale ed artistico dell’epoca appartenenti in prevalenza alle aree lombardo-veneta e fiorentina, come Niccolò da Uzzano, Palla di Nofri Strozzi, lo scultore Jacopo della Quercia, l’ebanista
Arduino da Baìso e l’architetto-scultore Pietro Lamberti. Attraverso provati legami tra Guinigi
e il signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti, e meno documentati contatti tra il principe di
Lucca e Giovanni di Averardo de’ Medici, l’autrice propone nuove riflessioni, che vanno a illustrare le strette analogie sul modo di concepire e realizzare lo spazio urbano e i modelli attraverso
i quali costruire quello architettonico: comparazioni che finiscono sempre con il riconoscere
come appannaggio del signore di Lucca un indubbio primato cronologico nella realizzazione
dei progetti. Tra essi figura il grande piano di ampliamento della città nell’area dei Borghi di
Levante collegato all’erezione della nuova residenza ufficiale del principe, secondo un modus
operandi che sarà analogo a quello adottato dai Medici, e da Lorenzo il Magnifico in particolare,
nell’ampliamento e urbanizzazione dell’area fiorentina denominata Cafaggio.
Frutto di un’ampia rielaborazione di precedenti ricerche coordinate da Donatella Calabi
nell’ambito del dottorato in storia dell’architettura e dell’urbanistica dell’Istituto IUAV di
Venezia, il volume si correda di numerose illustrazioni e tavole sinottiche, proponendo una
ricca appendice documentaria ed una aggiornata bibliografia.
***
DONATELLA CALABI, Storia della città. L’età contemporanea, Venezia, Marsilio 2005, pp. 397+
ill., euro 29,00.
Questo è il secondo volume di una storia della città europea e riguarda l’Otto e il Novecento
(dopo un primo libro della stessa autrice dedicato all’età moderna). È un’ampia indagine, scandita
in quattro sezioni ordinate cronologicamente, tra le destinazioni d’uso degli spazi urbani, le forme
architettoniche che li occupano e il frammentarsi dell’urbanizzazione sul territorio. Protagonisti
del racconto sono i cambiamenti nella distribuzione degli insediamenti, l’abbellimento e l’arte
civica, la ricostruzione post-bellica, un’identità urbana meno identificabile che per il passato nei
confini della superficie abitata e nella distribuzione delle attrezzature fino ai giorni nostri.
Il testo si sviluppa su due registri di lettura tra loro complementari e paralleli: uno introduttivo che presenta il contesto storico, politico e sociale nel quale prendono forma gli elementi
272
SCHEDE
materiali di cui è costituita la città come aggregato fisico durante i secoli XIX e XX – le strade,
le piazze, le case, le attrezzature –, l’altro più analitico nel quale sono approfonditi, attraverso
esempi significativi, gli aspetti essenziali dei cambiamenti in corso. Sono così stati descritti e illustrati casi di città o complessi urbani particolarmente capaci di riassumere la questione trattata.
Ciò che contraddistingue la città contemporanea è la rapidità con la quale essa vede modificarsi la sua fisionomia e il suo rapporto con il territorio circostante. L’obiettivo del libro è
quello di cogliere i momenti di cambiamento e le differenze negli strumenti e nelle procedure
di trasformazione dell’assetto insediativo: la distribuzione dei nuclei abitati, le iniziative volte
all’abbellimento e all’arte civica, la guerra e la ricostruzione post-bellica con il suo stato d’animo positivo nei confronti dell’edificazione, lo sfrangiarsi dell’identità urbana negli ultimi
decenni del Novecento.
Il libro propone un grande mosaico costruito per tasselli che insieme compongono il quadro delle trasformazioni, degli assetti fisici, delle rilevanze architettoniche che contraddistinguono in una fase di grandi rivolgimenti un’area ampia quanto l’intera Europa, consapevole
tuttavia che la sua stessa unità geografica, nel periodo considerato non può non alludere a
contesti e situazioni economiche, politiche e culturali extraeuropee.
Attraverso casi emergenti, perché esemplari o innovativi, si viene così delineando non
tanto una storia «evolutiva» quanto un’articolata visione d’insieme di come si modifica il
paesaggio urbano.
***
MAURIZIO CARBOGNIN-EUGENIO TURRI-GIAN MARIA VARANINI (a cura di), Una rete di città.
Verona e l’area metropolitana Adige-Garda, Verona-Sommacampagna, Cierre Edizioni, 2003,
pp. 334, euro 24,00.
Il volume rappresenta un riuscito tentativo di far dialogare assieme demografi, economisti,
sociologi e storici sull’esistenza o meno di una «rete» di città medie, relativamente all’area compresa
tra il lago di Garda e la valle dell’Adige e alle realtà urbane di Verona, Brescia, Trento, Vicenza e
Mantova. Il tema trae spunto dal dibattito sorto negli ultimi anni in sede politica, per verificare
se l’eventuale esistenza di un sistema di relazioni fra queste città si fondi, o meno, su radici geografiche, storiche, culturali, economiche e sociali. Premessa quest’ultima a dir poco necessaria
per progettare politiche efficaci che stimolino la competizione fra «aree-sistema» (come le reti di
città), terreno sul quale si giocheranno i miglioramenti del livello di vita e lo sviluppo economico
futuro.
La prima parte del volume ripercorre la storia dell’area presa in esame, mettendo in luce le radici lontane su cui si fondano quelle reti di relazione che oggi sembrano a noi così evidenti. Pur in un
quadro di notevoli trasformazioni, elementi di forte continuità caratterizzano i rapporti fra Verona
e il territorio circostante. In un saggio iniziale, Eugenio Turri mostra come la città atesina sia stata
in grado di legarsi alle correnti di traffico del mondo alpino e dell’Europa mediterranea in modo
del tutto autonomo rispetto al resto del Veneto, tessendo di conseguenza significative relazioni
con la Lombardia orientale e il Trentino. Come ci ricordano ancora Gian Maria Varanini e Paola
Lanaro, infatti, dal basso medioevo fino agli inizi dell’Ottocento, saranno proprio determinati fattori geo-morfologici (alta pianura sfavorevole all’agricoltura, scarsa disponibilità di risorse d’acqua
ad usi industriali se non in città, necessità di interventi di bonifica nelle campagne meridionali) a
spingere Verona verso un’indiscussa egemonia sul territorio. Fra i vari settori vogliamo sottolineare
in particolare il ruolo svolto dal commercio: a partire dal XII secolo, la città si fa punto d’incontro
degli scambi sull’asse nord-sud, da Bolzano alla Romagna ma fino alle coste marchigiane, attraendo a sé gli operatori delle limitrofe città di Vicenza e Brescia.
SCHEDE
273
Nonostante i grandi cambiamenti provocati dall’industrializzazione, queste profonde caratteristiche permasero durante il periodo contemporaneo, oggetto dell’analisi di Giovanni
Zalin ed Eugenio Turri. Certo, il passaggio dal trasporto fluviale a quello su rotaia, la nuova
dislocazione degli impianti produttivi e la realizzazione di bonifiche mutarono di molto il
paesaggio e la struttura urbanistica dell’area, ma furono compiuti su un territorio che ben si
adattava a queste opere e da ceti dirigenti non estranei ad affrontare tali ordini di problemi.
A ben vedere, anche alcune fra le importanti iniziative degli ultimi decenni (l’Università e il
polo fieristico) e del secolo scorso (la creazione di un moderno sistema finanziaro) furono il
frutto di quel settore terziario da sempre fondamentale per l’economia urbana.
I tre saggi centrali (ad opera di Paolo Perulli, Luigi Burroni, Alberto Magnaghi e Anna
Marson) si soffermano sui modelli di reti di città presenti in Europa, soprattutto in relazione ai
casi più vicini alla realtà nella quale è inserita Verona. La definizione della loro natura e dei loro
obiettivi (forme di sviluppo, modelli di governance, orientamenti e competenze dei singoli attori
politici), offre numerosi spunti alla riflessione sugli aspetti più propriamente socio-economici
dei nostri giorni, analizzati nell’ultima parte del volume. I saggi dedicati alla realtà attuale, ovvero alle dinamiche del popolamento (Dario Olivieri) all’economia (Fabio Arcangeli, Giorgio
Padrin), alle forme di governo (Maurizio Carbognin) e alla struttura urbanistico-territoriale
(Roberto Pasini) evidenziano i caratteri distintivi dell’area, ma sottolineano a loro volta la necessità di un’intesa politica fra i diversi comuni posti all’interno della rete. Ilvo Diamanti, infine, ci
ricorda come l’estraneità di Verona al «tradizionale» modello «Nord-Est» (piccola impresa manifatturiera, forte appartenenza al territorio), possa, e debba, spingere la città – ora più che mai
di frontiera – ad agire verso un allargamento del modello stesso, sfruttando la sua propensione
agli scambi, sia economici che culturali.
Conclude il volume una postfazione di Romano Prodi, per sottolineare l’importanza dello
sviluppo dei trasporti all’interno dell’Unione Europea in generale, condizione necessaria per
stimolare la crescita economica.
Verona e l’area metropolitana Adige-Garda, destinate ad essere, in un futuro quanto mai
prossimo, snodo di transito di rilevanza internazionale tra Est ed Ovest (sulla linea LioneTorino-Venezia-Trieste-Capodistria) e tra Nord e Mediterraneo (sulla linea Berlino-VeronaBologna-Napoli), hanno tutte le premesse necessarie per divenire un centro economico europeo di primaria importanza.
Andrea Caracausi
NICOLETTA CARDANO (a cura di), Esquilino e Castro Pretorio. Patrimonio storico-artistico e
architettonico del Comune di Roma, Roma, Artemide, 2005, pp. 288, ill. 204 in b.n. e 27 a
colori, euro 30,00.
I rioni Esquilino e Castro Pretorio richiamano, da sempre, il costante interesse di studiosi,
amministratori e semplici curiosi. Non giunge perciò casuale la meritoria iniziativa della
Sovraintendenza ai Beni Culturali – Monumenti Medioevali e Moderni del Comune di Roma,
che ha promosso la realizzazione di un catalogo dei beni storico-artistici e architettonici di
sua competenza.
Il fulcro del volume curato da Nicoletta Cardano è costituito dalle dettagliate schede di
catalogazione, corredate di relative illustrazioni, che descrivono con eloquenza la preziosità
di un variegato patrimonio da tutelare, composto non solo di edicole sacre, lapidi, fontane
e stemmi pontifici, ma anche di edifici residenziali, teatri, scuole, caserme e reperti di
archeologia industriale.
L’importanza del censimento non è limitata al suo essere funzionale all’opera di
274
SCHEDE
salvaguardia e manutenzione dei monumenti, né al semplice soddisfacimento di una naturale
curiosità dei lettori. Il catalogo fornisce soprattutto uno strumento utile ad una migliore
comprensione della realtà urbana della zona, evidenziando le tracce lasciate dal succedersi
dei regimi politici, dai cambiamenti sociali e culturali, dalle trasformazioni urbanistiche e dal
controverso sviluppo di un’area, il cui carattere complessivo è tuttora in via di definizione.
La modalità di procedere accostando frammenti eterogenei in una griglia ordinatoria,
come sottolinea la stessa curatrice, sembra rimandare al carattere di discontinuità che ha
segnato l’evoluzione storica del territorio e che si è accentuato negli ultimi venti anni, da
quando l’Esquilino è diventato il luogo privilegiato dell’insediamento di nuovi soggetti
sociali, provenienti da altri paesi e portatori di diverse culture.
Il volume è inoltre arricchito da una serie di saggi e contributi. Francesco Meschini,
ricostruendo il succedersi delle presenze religiose, evidenzia come, nonostante l’adiacenza al
centro cittadino, la zona sia sempre stata un luogo di «complessa marginalità», sede naturale
della contaminazione tra differenti situazioni storiche e culturali.
Antonio Parisella, commentando il censimento delle lapidi, dei monumenti e degli altri
manufatti commemorativi, ripercorre l’evoluzione dei «riti celebrativi della nazione» nelle
memorie urbane dell’Esquilino e del Castro Pretorio. La stazione Termini, il più imponente
fabbricato dell’area, elemento allo stesso tempo unificatore e separatore, è l’argomento del
saggio di Dell’Ariccia e Robino Rizzet. Ceccaroni e Capalbi ricostruiscono le vicende dello
sviluppo storico-urbanistico dall’età antica al XX secolo, mentre Strinati, Tiberia, Di Paola
e Bruno descrivono i recenti interventi di restauro e recupero urbano. Chiude il volume lo
spoglio dei periodici romani tra le due guerre, che fornisce interessanti spunti per lo studio
della vita sociale nei due rioni.
Un saggio dedicato ai cambiamenti nella composizione degli abitanti, e alle loro relazioni
con il territorio, non avrebbe guastato, ma i tempi necessari ad una ricerca di questo tipo
hanno probabilmente indotto a non allargare troppo il campo d’indagine. Resta in ogni caso
auspicabile che la lettura del volume sia presto di stimolo anche per lo studio di tali temi.
Fernando Salsano
JEAN-FRANÇOIS COULAIS-BRIGITTE MARIN (a cura di), Rome. 2700 ans d’histoire. CD-Rom , realizzato in collaborazione con la Bibliothèque nationale de France, l’Ecole française de Rome, il
Centro per lo Studio di Roma-Croma (Università degli Studi Roma Tre) e Spot Image, Parigi,
Belin, 2003. Autori: S. Adina Meyer, J.-F. Bernard, M. Bevilacqua, D. Bocquet, M. Boiteux,
G. Bonaccorso, J.-Y. Boriaud, S. Bourdin, C. Brice, S. Cortesini, J.-F. Coulais, H. Dessales, J.
Dubouloz, M. Ghilardi, C. Goddard, C. Hagège, E. Hubert, A. Imbellone, V. Jolivet, B. Marin,
G. Montègre, D. Palombi, A. Romano, C. Vallat, J.-P. Vallat, A. Vauchez, S. Verger.
Il lavoro che viene qui recensito è un CD-ROM, il quinto di una collana (Terre des villes)
dedicata alle grandi città del mondo. Coordinati da J.-F. Coulais e B. Marin, i contributi dei
venticinque autori che vi hanno collaborato sono stati concepiti ed organizzati secondo due
assi principali. Una prima parte fatta di immagini animate e commentate (per una durata
complessiva di 50 minuti circa), articolate in quattro aree tematiche, è indirizzata a dar conto
della storia di Roma, delle sue relazioni con le città limitrofe e delle modalità attraverso le
quali sono avvenute, in rapporto al potere politico, le sue trasformazioni. Ad una maggiore
completezza informativa provvede la seconda parte che, avvalendosi di una abbondante documentazione iconografica e testuale, offre diverse possibilità di navigazione.
Le sequenze d’immagini animate sono composte in sessioni indipendenti, navigabili at-
SCHEDE
275
traverso una serie di segnalibro e di indici. Un Sorvolo consente al lettore-utente di imbarcarsi
in un viaggio, dall’antichità ai giorni nostri, alla scoperta di Roma e delle sue principali trasformazioni. Questa prima presentazione viene ad essere completata dalla sequenza Paesaggi.
Strutturata anch’essa per temi, la sezione illustra, per tutto il periodo considerato, il processo
di urbanizzazione, la conquista della valle del Tevere, l’organizzazione dei sistemi alimentari
su vie d’acqua e quella delle vie di comunicazione. Le Ricostruzioni poi, presentano in sette
tempi le principali mutazioni dello spazio urbano. Esse chiariscono bene i differenti periodi nel corso dei quali – sempre sullo stesso sito e secondo orientamenti variabili – si sono
succeduti processi di espansione, recessione, riconquista. Questa sedimentazione è attestata
dall’ultima sequenza di immagini che presenta, a partire da alcuni esempi, le modalità attraverso cui, in più di venti secoli, la città si è ricostruita su se stessa. Una posizione del tutto
particolare occupa in questo percorso la Crypta Balbi, odierna sede del Museo nazionale
romano e polo medievale.
Queste quattro sezioni hanno in comune una serie di materiali cartografici inediti i quali,
oltre a dar conto della consistenza del lavoro svolto, sono a tutti gli effetti innovativi. Infatti,
queste sequenze audiovisive utilizzano delle ricostruzioni tridimensionali dello spazio urbano,
elaborate per sette momenti diversi della storia dell’urbanizzazione dal periodo arcaico e la
fine del XX secolo. Si lamenterà, piuttosto, che la debolezza della risoluzione delle immagini
lasci solo supporre la massa documentaria mobilitata per poter restituire la complessità delle
differenti sezioni nel corso del tempo. Questa terza dimensione rivela il suo maggior interesse
nelle vedute dettagliate, efficaci nell’illustrare l’evoluzione dei luoghi più importanti attraverso una serie di rappresentazioni di uno stesso sito a momenti diversi. In questi documenti, la
raffigurazione del volume degli edifici rende possibile leggere le trasformazioni intervenute in
maniera notevolmente più chiara di quanto consentito da altri modi di rappresentazione.
Mentre la prima parte può essere considerata un prodotto «pronto all’uso», la seconda
offre strumenti più interattivi. Essi permettono sia di richiamare sequenze della prima parte,
sia di accedere ad una documentazione che, attraverso dei testi, delle riproduzioni di documenti iconografici antichi o di restituzione, offra testimonianza di circa duecento cinquanta
temi ed ambienti. Per questa parte, l’interfaccia non è esattamente all’altezza dei contenuti e
la molteplicità degli schermi di navigazione non sempre facilita le ricerche.
Il CD-Rom resta, in ogni caso, un documento di indubbia utilità pedagogica e – ad un
tempo – uno stimolo alla lettura (grazie ad una bibliografia che completa la seconda parte), al
viaggio ed alla scoperta di due millenni di storia della megalopoli romana.
Jean-Luc Arnaud
ALEKSEI KALC-ELISABETTA NAVARRA (a cura di), Le popolazioni del mare: porti franchi, città, isole e
villaggi costieri tra età moderna e contemporanea, Udine, Forum, 2003, pp. 128, euro 15,00.
Il volume raccoglie gli interventi presentati nella sessione Le popolazioni del mare: realtà
demografica e sociale di porti e comunità del Mediterraneo, svoltasi all’interno del Convegno
organizzato nel novembre 2000 a Bologna dalla Società Italiana di Demografia Storica.
Obiettivo principale, enunciato nell’Introduzione dai curatori, è quello di mettere in luce il legame esistente fra la nascita e lo sviluppo di alcune realtà portuali del Mediterraneo (Ancona,
Livorno e Trieste in primis) e i diversi aspetti politici, economici ed urbanistici ad esso legati.
L’attenzione degli autori si concentra quindi sul contributo che l’istituzione porto-franco diede
alla crescita demografica, soffermandosi in particolare sul processo di urbanizzazione, sulle
politiche urbane e sull’integrazione di società e culture eterogenee.
Primo caso di studio è Ancona (E. Sori). Sebbene all’interno di un’area sempre più mar-
276
SCHEDE
ginale del Mediterraneo, la città registrò, fra basso medioevo e fine Settecento, un andamento
demografico tutt’altro che lineare, caratterizzato da un forte incremento soprattutto in seguito alla nascita della franchigia commerciale. Politiche di accoglienza si alternarono a momenti
di rifiuto, motivati da problemi di ordine igienico-sanitario o religioso, anche se nel lungo
periodo prevalse tuttavia la prima linea. Per certi aspetti emblematica è invece la vicenda di
Trieste (A. Kalc). L’istituzione del porto franco (1719) giocò un ruolo chiave per lo sviluppo
di un vero centro urbano. La costruzione della città fu accompagnata da un fenomeno migratorio di matrice sia locale (Contea di Gorizia e Gradisca, Carniola e Istria), che europea
(Boemia, Moravia e Ungheria). Fra le misure più significative prese dall’amministrazione
pubblica ricordiamo un piano per la divisione e la distribuzione dei lotti fabbricabili e l’inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro, soprattutto nell’edilizia e nei servizi.
Più breve (poco più di un decennio, fra la fine del Cinquecento e gli inizi del Sei),
ma non meno denso di trasformazioni importanti, è l’arco temporale preso in esame per
Livorno (L. Frattarelli Fischer), le cui vicende evidenziano appieno il nesso esistente fra
popolamento, potere politico e costruzione di una realtà urbana. Nonostante la negativa
congiuntura, il granduca Ferdinando I promosse lo sviluppo di un’impresa commerciale di
primo piano, facendo della città, allora piccolo borgo di quasi 500 abitanti, uno dei centri
più importanti dell’area mediterranea. Anche in questo caso si favorì l’immigrazione di
artigiani e mercanti, senza però perdere di vista i problemi urbanistici, igienici e sociali,
dovuti ad una così veloce crescita.
Gli ultimi tre casi di studio riguardano delle piccole realtà portuali: Capodistria, Biserta
e l’isola di Tabarka. Per quanto riguarda il borgo istriano, gli Autori (D. Darovec, D.
Kmrac, E. Podovsovnik) individuano, sul finire del Cinquecento, i diversi movimenti migratori, evidenziando in particolare i legami che rimasero fra la città e le aree di provenienza
dei nuovi arrivati. Biserta (L. Zaouali), invece, situata lungo la costa nord-occidentanle
tunisina, rappresenta il caso di una città costruita governo turco che regolò costantemente
durante l’età moderna i flussi migratori provenienti dal mare e dall’entroterra per questioni
di ordine sanitario e di decoro pubblico. Ancor più significativo è il caso di Tabarka, un
insediamento cristiano promosso dal mondo islamico. Pur in mancanza di dati ufficiali,
la cronachistica coeva e l’iconografia mettono in luce lo sviluppo di una struttura urbana
tripartita (la fortezza, l’area destinata ai soldati di guarnigione e quella dei musulmani) e un
movimento migratorio proveniente non solo dall’immediato retroterra, ma legato anche al
mondo dei commerci e, in particolare, del corallo.
Andrea Caracausi
DEREK KEENE-ARTHUR BURNS-ANDREW SAINT (eds.), St Paul’s: the Cathedral Church of London,
604-2004 (New Haven and London: Yale University Press, 2004), pp. xvi+538, 390 ill. £ 65.
The recent spate of English cathedral histories began with the appearance of a fine
volume on York Minster in 1977. So far, comprehensive accounts of nine major cathedrals
have appeared, along with numerous specialised studies of many more. Perhaps the fall-off
in worship has promoted this re-examination of our Christian past. Certainly, developing
interests in the history of the arts (including building, painting, sculpture, music and drama), new historical thinking on religion and society, and the role of the iconic monument
in tourism (not least as a source of income for its maintenance) have contributed to a lively
field of enquiry and debate. Moreover, cathedrals are by far the oldest of our distinctively
urban institutions and in that role continue to shape regional and national culture.
Despite not being been the seat of an archbishop (although attempts have been made to
SCHEDE
277
elevate to that status), St Paul’s is in many ways the most significant of English cathedrals on
account of its association with London. As the largest and wealthiest English city, London has
made St Paul’s both a focus for the people of the metropolitan region and a critical site for meetings and confrontations between the state and its subjects. The cathedral’s history is notably
dramatic. Twice abolished twice and at least three times totally destroyed by fire, in the 1940s
it became a symbol of the city’s survival through total war. Several times it has been a focus of
political and religious revolutions. Since the twelfth century it has been one of the most impressive architectural structures in England, if not in Europe. St Paul’s was the subject of the first
of the English cathedral histories, published in 1658 at a time it seemed to have no future as a
cathedral. Yet within a few years, following the Great Fire of 1666, it was being rebuilt in the
form which we know today and which for many, as the chief work of Christopher Wren, is its
principal claim to significance.
In this book, forty two authors address this complex history. Architecture and the extraordinary decoration of the present cathedral get their due, but the overall aim is to explore the wider
role of the cathedral through a series of thematic studies, including covering liturgy and cults,
music, learning, commemoration, the cathedral’s impact as the patron of churches and owner of
landed estates in the city and surrounding region, and the interaction between the cathedral and
the highly commercial and politicised city which surrounded it. A series of overview chapters
provides a narrative which links these and other themes and charts the changing fortunes and
reputation of St Paul’s.
The Dean and Chapter of St Paul’s enthusiastically sponsored the project, which appeared in the fourteen-hundredth year of the present diocese of London and coincided with
the completion of a major restoration of the cathedral.
***
NICOLETTA MARCONI, Edificando Roma barocca. Macchine, apparati, maestranze e cantieri tra
XVI e XVIII secolo, Città di Castello, Edimond, 2004, pp. 348 + 78 ill. f.t., euro 42,00.
«Siché l’ambasciadore passò per la piazza di san Pietro, dove parendogli di vedere uno
esercito di lavoranti in una selva di macchine e di ordigni, si fermò a due mosse de gli argani
e disse di ammirar Roma risorgente per mano di Sisto». Questa testimonianza, contenuta nel
seicentesco libro sulle Vite de’ pittori, scultori e architetti moderni di Giovanni Battista Bellori,
si presta bene a introdurre lo studio di Nicoletta Marconi pubblicato nella collana «Ricerche,
fonti e testi per la storia di Roma» coordinata dal Croma – Università Roma Tre. L’autrice
analizza i caratteri tecnici e organizzativi del cantiere romano tra XVI e XVIII secolo, desunti
dalla ricca documentazione sulla costruzione della nuova basilica di San Pietro, custodita
presso l’Archivio Generale della Fabbrica, ma anche dai resoconti dei lavori effettuati in altri
cantieri romani, differenziati per caratteristiche e tipologia. Nel ripercorrere il graduale perfezionamento della pianificazione del lavoro, autentico motore del cantiere barocco, lo studio
traccia le linee evolutive delle tecniche costruttive e della tecnologia edilizia pre-industriale,
mettendone in luce meccanismi gestionali e caratteri operativi ricorrenti.
Fino alle soglie del XX secolo, infatti, materiali, tecnologia, macchine da costruzione,
gestione economica, gestione tecnica e organizzazione delle maestranze nell’edilizia romana
risultano piuttosto omogenei. Frutto della sperimentazione e delle applicazioni cinquecentesche, tali elementi si perfezionano nel corso del Seicento approdando a un’efficace economizzazione del processo edilizio. Oltre ai progressi compiuti dalla tecnica edilizia, l’indagine sincronica e diacronica condotta sulle fabbriche seicentesche disegna in filigrana l’organizzazione
delle maestranze, strutturata per squadre autonome e altamente qualificate che consentono
278
SCHEDE
di contrarre notevolmente i tempi di esecuzione, oltre che di ottimizzare l’uso di materiali e
macchine. In tale contesto, emerge il determinante contributo della Fabbrica di San Pietro, al
contempo laboratorio sperimentale e sede privilegiata per la formazione di lavoranti specializzati di indiscussa professionalità. Grazie a un ingegnoso meccanismo di noleggio e vendita
di macchine, materiali e attrezzature ai cantieri «minori» romani, documentato tra XVI e XIX
secolo, la Fabbrica svolge un ruolo decisivo per lo sviluppo edilizio romano, oltre che per la
diffusione e il progresso delle conoscenze tecniche.
I vantaggi di tale cooperazione si fanno più evidenti nel settore della tecnologia e in tutte
quelle operazioni dai complicati risvolti tecnici, per la cui risoluzione i cantieri esterni ricorrono all’esperienza di capomastri, fattori e soprastanti sampietrini e al decisivo contributo
delle fornitissime munizioni vaticane. Con esse si intendono attrezzi da lavoro, macchine,
funi e strumenti metallici custoditi nelle cosiddette «stanze delle munizioni», i depositi e
luoghi di stoccaggio disseminati nel labirintico spazio basilicale e all’esterno della crociera, nei
pressi delle chiese di Santo Stefano dei Mori e di Santa Marta e dello Studio del Mosaico. La
pratica del noleggio consente alla Fabbrica di ammortizzare parte dei poderosi investimenti
sostenuti nella costruzione del nuovo San Pietro e di partecipare attivamente alla costruzione
della Roma moderna fino ai primi decenni del XIX secolo. Solo per fare un esempio, i documenti custoditi nell’Archivio della Fabbrica riferiscono sull’entrata e uscita dai depositi di San
Pietro delle poderose traglie metalliche a sei girelle fatte forgiare da Domenico Fontana nel
1585 per l’erezione dell’obelisco Vaticano, richieste e impiegate ancora tra il 1783 e il 1790
dall’architetto Giovani Antinori (1743-1792) per l’installazione degli obelischi del Quirinale,
di Trinità dei Monti e di Montecitorio, operata per conto di Pio VI Braschi (1775-1799).
Lo scambio di materiali e attrezzature tra la Fabbrica di San Pietro e gli altri cantieri romani diviene addirittura indispensabile per il trasporto dei materiali da costruzione. Questo
si avvale di un efficiente servizio fluviale allestito lungo i corsi del Tevere e dell’Aniene, con
approdi disseminati lungo il tratto urbano del Tevere la cui funzionalità si deve proprio alla
Reverenda Fabbrica. Infatti, nonostante disponga dell’approdo della Traspontina a esclusivo
suo uso, grazie a una sorta di accordo istituzionale con la Presidenza delle Strade, la Fabbrica
presta assistenza a manovali e barcaioli, fornendo loro attrezzature e macchine necessarie alla
movimentazione dei grandi carichi o al recupero delle imbarcazioni affondate.
Il segreto della velocità esecutiva barocca risiede pertanto nel vantaggioso scambio di
materiali, attrezzature, risorse umane e conoscenze operative che si viene a instaurare tra i
diversi cantieri romani, tanto più efficace se coniugato all’affinamento della tecnica esecutiva
e alla parcellare specializzazione del lavoro. Con il contributo decisivo della Fabbrica petriana,
dunque, prassi operativa, tecniche costruttive e tecnologia si adattano alla specificità di Roma
e all’ingombrante presenza dell’antico, trasformando ogni cantiere in un fecondo laboratorio
di ricerca edilizia.
Giuseppe Bonaccorso
ANNA LAURA PALAZZO (a cura di), Campagne urbane. Paesaggi in trasformazione nell’area romana. Roma, Gangemi, 2005, pp. 254, ill. b/n e colore, euro 30,00.
Più dell’80% della popolazione italiana risiede in comuni che hanno oltrepassato la soglia
dei 5000 abitanti. Questo vivere in città tende tuttavia ad assumere nuove fisionomie, delineando una condizione ibrida, di «campagna urbana»: la frontiera periurbana si estende progressivamente in relazione ad una propensione sempre più diffusa nei riguardi dell’habitat a bassa densità. Si tratta di processi analoghi a quelli che interessano da tempo ampie regioni metropolitane
del Centro-Europa, dove i territori periurbani, anche in seguito ad una contrazione delle aree
SCHEDE
279
agricole, si avviano oggi a svolgere una importante funzione di ricarica ricreativa ed ecologica.
La stessa area romana partecipa di tale condizione, ma la competizione tra usi del suolo
nel mercato legale o informale continua a vedere la prevalenza dell’urbano. Richiami e incentivi diretti al sostegno di una agricoltura di qualità, se non a obiettivi di eccellenza agricola,
non bastano a controbilanciare le tendenze alla marginalizzazione del settore, esposto nel
prossimo futuro a nuove trasformazioni strutturali per effetto di una riduzione delle disponibilità finanziarie attivate dalle politiche comunitarie.
I saggi raccolti nel volume curato da Anna Laura Palazzo Campagne urbane. Paesaggi in
trasformazione nell’area romana, hanno osservato sotto differenti punti di vista il territorio
di Roma e la prima fascia di comuni le cui sorti appaiono fortemente condizionate dalla
presenza della metropoli. Le diverse storie e geografie che ne emergono si cimentano con le
differenti percezioni del territorio aperto nell’arco del secolo appena trascorso e si soffermano
su alcuni passaggi dell’evoluzione urbana e sulle retoriche che di volta in volta ne hanno sostenuto principi e modelli insediativi.
Una approfondita rassegna delle politiche istituzionali e delle pratiche sociali evidenzia il
progressivo incrinarsi delle prospettive di un univoco limite tra città e campagna affidato ad
una possente cerchiatura infrastrutturale, limite peraltro negato ab origine da dispositivi di
regolazione degli incrementi edilizi fuori piano a vario titolo emanati. L’excursus storico ha
peraltro consentito di collocare la prima «competizione» tra città e campagna agli anni della
ideazione della Zona industriale tra Roma e il mare, nel primo Novecento: una competizione
tra destinazioni urbane per quello che si immaginava il grande quadrante di espansione proteso tra Roma e il mare, e destinazioni agricole insistenti sulle medesime aree nell’ambito dei
reiterati provvedimenti di risanamento agrario, che rinvia ad una sistematica opposizione di
fase tra Comune di Roma e Governo centrale.
Con riferimento a casi di studio significativi è poi emerso come l’infrastrutturazione di
appoggio a quelle stesse bonifiche, realizzate nella prima metà del Novecento a carico prevalente dello Stato, e la Riforma agraria, avviata nel secondo dopoguerra, abbiano costituito
potenti premesse per una valorizzazione in chiave urbana.
Per quanto riguarda il trentennio appena trascorso, in cui le dinamiche di erosione dei
suoli agricoli hanno subito un’impressionante accelerazione, l’interpretazione si è avvalsa di
elaborazioni a partire da immagini satellitari a media risoluzione (LandSat), da tempo sperimentate e di largo impiego in altri contesti, ma innovative con riferimento all’area romana,
integrate con fonti aggiuntive legate a informazioni qualitative e quantitative ottenute attraverso la conoscenza diretta di alcuni luoghi considerati rappresentativi. Sono stati evidenziati
i meccanismi di inglobamento e cancellazione dei pattern rurali, e segnalate varie forme di
discontinuità urbana, in una lettura per «generazioni» delle dinamiche di espansione, entro
e tra le maglie del costruito, che invita a riformulare l’opposizione chiuso-aperto nei termini
di compatto-disperso.
Con riferimento al «punto di vista della campagna», laddove la chiave storica ne ha
sottolineato l’inerzia e la passività come fattore di produzione, si avvertono i segnali di un
possibile cambiamento nella prospettiva del governo del territorio: Roma dispone oggi di una
disciplina specifica per i parchi e le riserve naturali, e di un nuovo Piano regolatore, chiamato
a dare adeguato trattamento alla dimensione dei «paesaggi del quotidiano», nell’accezione
data dalla Convenzione Europea. La riflessione effettuata sulle politiche e pratiche in corso nell’area romana ha posto dunque in chiave problematica la risignificazione dello spazio
periurbano ed extraurbano di fronte a diversificate domande di paesaggio, ed ha provato a
riposizionare i principali interrogativi legati ai temi della sostenibilità.
L’economia dell’Agro deve dimostrare una capacità competitiva con altre destinazioni dei
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SCHEDE
suoli e con le rendite di attesa generate dalla macchina urbana che pongono a dura prova le
forme tradizionali di regolamentazione. Si tratta di far sì che lo spazio agricolo e forestale, da
sempre trascurato dalle politiche pubbliche, entri realmente nella categoria delle «infrastrutture pubbliche di natura», a dimostrazione del fatto che la convivenza tra città e campagna
può essere non solo pacifica ma anche reciprocamente vantaggiosa.
Sabrina Gremoli
BERNARDO SECCHI, La città del ventesimo secolo, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 210, euro 14,00.
Perchè un gruppo di storici di professione chiede a qualcuno, che storico non è, di scrivere un libro di storia della città? È la domanda che Secchi ammette di essersi posto prima
di iniziare la stesura di questo nuovo tassello della collana di «Storia della città», edita da
Laterza e diretta da Donatella Calabi. L’autore tiene tuttavia a precisare che il libro «non è
una breve storia della città nel ventesimo secolo [...] ma piuttosto l’esposizione di alcune
ipotesi maturate osservando un archivio di fatti e racconti vasto quanto consente un’esperienza personale».
Pagina dopo pagina, gli studi e le letture, le formulazioni teoriche precedenti, ma anche
le esperienze professionali dell’autore vanno ad alimentare costantemente la sua capacità di
osservare e analizzare con lucidità e perizia il fenomeno urbano in tutte le sue molteplici
sfaccettature e il suo essere, in fondo, inguaribilmente «urbanista».
Il libro comprende sei capitoli distribuiti su 176 pagine, corredati da un importante
apparato iconografico (quasi «un testo a sè», secondo la definizione dell’autore), da un indice dei luoghi e da una bibliografia ricchissima dove, incuranti delle tradizionali frontiere
disciplinari, oltre 300 titoli si offrono al lettore.
Il primo capitolo introduce i tre «racconti», che forniranno la materia ai capitoli successivi: crescita e dissoluzione della città (secondo capitolo); la fine della città moderna (terzo
capitolo); città, individuo e società (quarto capitolo). Ognuno di questi tre capitoli centrali
è accompagnato da una scheda, in cui gli esempi citati sembrano presi non tanto ad emblema quanto piuttosto a pretesto per poter parlare poi anche di altro: la città storica (Siena),
un grand ensemble (Les Hauts de Rouen), una new town inglese (Milton Keynes).
Nel quinto capitolo, «Eventi, processi, periodi», l’autore parla di quegli «eventi» che
hanno segnato la scena economica, sociale, politica e istituzionale del secolo scorso e le cui
conseguenze si leggono anche sul territorio e sulla città. Una città che però cambia anche
seguendo un percorso proprio, sulla base di eventi locali o di processi più ampi e lenti.
L’argomento della scheda di questo capitolo è la NWMA (North-Western Metropolitan
Area), cioè quella parte di Europa compresa tra Amsterdam, Rotterdam, Anversa e Bruxelles,
dove sta nascendo una nuova forma di città, priva di centro ma dotata della stessa importanza delle maggiori metropoli europee.
Il capitolo conclusivo è «Raccontare il presente», in cui l’autore traccia un bilancio che
sembra voler andare al di là di questa sua recente esperienza editoriale.
Nei ringraziamenti Secchi dice, tra l’altro, grazie anche alla sua biblioteca. Da parte
nostra, noi diciamo grazie a Secchi per esser stato guida esperta in questo intenso viaggio,
fatto di racconti, esempi e immagini, attraverso la «città europea nel ventesimo secolo».
Carmen Calandra
SCHEDE
281
CARMELO G. SEVERINO, Roma mosaico urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore, Roma, Gangemi,
2005, pp. 240, euro 30,00.
Il volume ricostruisce il lungo processo di formazione e l’evoluzione storica del
Pigneto-Prenestino, quartiere romano della prima periferia orientale extra moenia, il cui
territorio si estende fuori Porta Maggiore tra le linee ferroviarie per Sulmona e Napoli e
via dell’Acqua Bullicante.
Coprendo l’intero arco cronologico della Roma contemporanea, dal 1870 ai giorni nostri,
l’autore illustra la progressiva trasformazione dell’area da rurale ad urbana, dando conto delle
dinamiche di formazione di un tessuto insediativo eterogeneo, frutto di successive fasi di
sviluppo e consolidamento.
Sin dai primi anni post-unitari, il territorio fuori Porta Maggiore è interessato dall’impianto
di importanti attività produttive, operanti soprattutto nei settori alimentare (Pantanella),
chimico-farmaceutico (Serono), metalmeccanico (Officine Tabanelli) e dei servizi cittadini
(Srt-o, Nettezza urbana). È un processo localizzativo spontaneo, che avviene al di fuori
di qualsiasi pianificazione industriale, e che culmina negli anni Venti del Novecento con
l’apertura del grande stabilimento della Viscosa sulla via Prenestina.
L’edificazione residenziale viene invece avviata all’inizio del ventesimo secolo, con le
lottizzazioni delle tenute agricole e lo sviluppo di forme di autopromozione edilizia privata e
cooperativa. Anche in questo caso si tratta di processi spontanei: le singole iniziative procedono
senza il coordinamento e il controllo necessari a definire un disegno unitario ed organico, e
lo sviluppo del quartiere è a lungo segnato dalla carenza di opere di urbanizzazione e servizi
pubblici. Nel corso del tempo si viene così stratificando un tessuto insediativo discontinuo ed
eterogeneo, al cui interno convivono realtà diverse come la «città-giardino» della cooperativa
Termini, i baraccamenti di fortuna, i fabbricati intensivi delle case convenzionate, le «borgate
rapidissime» del Governatorato, la Casa dei ferrovieri e quella dei tranvieri sulla Prenestina, fino
ai complessi residenziali realizzati dalla Società generale immobiliare negli anni Sessanta.
Grazie al dettagliato spoglio di un’ampia e variegata documentazione d’archivio, Severino
ricostruisce con grande accuratezza le dinamiche di sviluppo e la composizione sociale del
quartiere, offrendo un’efficace rappresentazione delle trasformazioni vissute da questo pezzo
di città nel corso di quasi un secolo e mezzo di storia.
Architetto presso il Comune di Roma e responsabile del Programma di riqualificazione
urbana del Pigneto in corso di attuazione, l’autore non manca di segnalare i rischi di
snaturamento dell’originario tessuto sociale popolare e piccolo-borghese e di perdita di
identità insiti nel recente processo di gentrification del quartiere.
Corredato da un ricco apparato iconografico, il volume – nonostante l’assenza di un
indice analitico e un periodare piuttosto ampio che a tratti affatica il lettore – costituisce
un tassello di primaria importanza per la ricostruzione del complesso mosaico rappresentato
dalle trasformazioni urbane di Roma in età contemporanea.
Bruno Bonomo
ELENA SVALDUZ (a cura di), L’ambizione di essere città. Piccoli, grandi centri nell’Italia rinascimentale, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2004 (Collana: «Memorie»,
Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti, Volume CVII), pp. 402, euro 54,00.
Come classificare un centro abitato? Secondo quali connotati una città può essere definita
tale? Ed è sempre vero che un agglomerato al di sotto di questa soglia, in mancanza cioè di un
certo tipo di requisiti, debba essere definito una «quasi-città»?
282
SCHEDE
Da questi e altri interrogativi, discussi nell’ambito di una serie di incontri di studio (tra cui il
I convegno nazionale di storia urbana AISU, tenutosi a Lecce nel 2002), prende le mosse il volume curato da Elena Svalduz sulle piccole città rinascimentali della Penisola. Un questionario
scientifico-culturale sta alla base del ragionamento comparativo che affronta una serie di temi:
dal concetto di limite, all’articolazione degli spazi, alla geografia di immobili e di funzioni degli
insediamenti studiati, fino a toccare dinamiche sociali, meccanismi competitivi ed emulativi tra
piccoli e grandi centri.
Il libro «a tema» è composto da dodici saggi: alcuni su casi-studio specifici (Carpi, Correggio,
Guastalla, Brescello, San Secondo, Scandiano e Cervia), altri che assumono invece una prospettiva comparativa, all’interno di una serie omogenea di esempi (le terre murate in area veneta,
Senigallia, Loreto e Giulianova, i piccoli stati italiani del Rinascimento). Dopo quello introduttivo di Elena Svalduz, che illustra gli obiettivi della ricerca e il significato della pubblicazione, i
saggi sono firmati da giovani studiosi che hanno risposto all’invito della curatrice, attendendosi alle linee-guida generali: Marco Folin, Anna Bellavitis, Manuela Ghizzoni, Manuela Rossi,
Gabriele Fabbrici, Mario Bevilacqua, Nicola Soldini, Francesco Ceccarelli, Maria Cristina
Basteri, Diego Cuoghi, Giuseppe Bonaccorso.
Il titolo è giocato su tre elementi: l’ambizione; il piccolo e il grande, ovvero l’oscillazione
tra la piccola e la grande scala. Un dato che è possibile tradurre sul piano metodologico,
distinguendo tra due momenti entrambi necessari per la la storia della città: il particolare,
ovvero l’approfondimento del caso singolo, e il generale, cioè le linee di tendenza più ampie. È nel rapporto tra storia locale e storia comparata che possiamo ricomporre queste due
fasi, come spiega Donatella Calabi nella prefazione al volume. Ed è per questo che al centro
del libro troviamo i giochi di scala: una rete di rapporti che scalza la gerarchia tra piccolo e
grande, facendo emergere quella ricca intelaiatura di «quasi-città» che testimonia la capillare
penetrazione di un particolare modello di cultura urbana.
Il volume, in definitiva, può essere letto sia come un momento di riflessione generale sul
tema dei centri minori, accomunati dalla volontà di emergere con propri connotati urbani,
sia come l’esito di un confronto tra studiosi che, pur provenendo da settori disciplinari differenti, adottano analoghe griglie interpretative. Un confronto che oggi, più che mai, appare
aperto a nuove possibilità di ricerca.
***
CARLO M. TRAVAGLINI (a cura di), Un patrimonio urbano tra memoria e progetti. Roma. L’area
Ostiense-Testaccio, Roma-Città di Castello,Croma-Università Roma Tre / Edimond, 2004,
pp. 251, euro 30,00.
Il volume raccoglie le immagini esposte nella mostra fotografica organizzata dal CROMA
presso l’Istituto Superiore Antincendi, dal 26 giugno al 15 ottobre 2004.
La storia della prima area industriale della città di Roma –l’Ostiense-Testaccio – è raccontata attraverso immagini fotografiche, anche inedite, raccolte presso fondi pubblici e privati.
In una successione dapprima cronologica, che va dalla seconda metà dell’Ottocento fino ai
giorni nostri, e poi tematica, vengono illustrate le trasformazioni fisiche, gli eventi, i personaggi chiave, e la vita sociale di un’area che attualmente rappresenta un riuscito esempio di
recupero e di riqualificazione urbana e sociale.
Territorio del suburbio coltivato a vigneti a sud del centro storico, affacciato sul Tevere
e ricco di presenze archeologiche e monumentali, l’area Ostiense-Testaccio vide la sua sorte
cambiare quando il primo Piano Regolatore post unitario del 1873 pose qui l’allora unica
zona industriale di Roma. Il misto funzionale che derivò dall’insediamento di stabilimenti
SCHEDE
283
industriali, infrastrutture ed edilizia residenziale, conferì al territorio una discontinuità fisica
tipica delle periferie di grandi città. Ciò nonostante, in aree come il Testaccio o la Garbatella
è ancora possibile incontrare il fascino caratteristico dei quartieri popolari del primo quarto
del Novecento. L’inizio della costruzione dell’E42 come passo intermedio dell’espansione di
Roma verso il mare, avviò la trasformazione residenziale dell’area. Nel dopoguerra il declino
delle attività produttive, la speculazione edilizia e l’incremento demografico determinarono
la progressiva dismissione delle strutture industriali, che oggi, inserite in un vasto programma
di ripristino, ospitano in gran parte nuove funzioni del settore terziario legate soprattutto
all’università e alla cultura.
Grazie ad un paziente ed accurato spoglio di numerosi fondi fotografici presso archivi,
biblioteche, musei, fondazioni, istituti e soprintendenze, supportato da una campagna fotografica promossa dal CROMA, il gruppo di lavoro della mostra è riuscito a raccontare con
sensibilità quasi un secolo e mezzo di vita di questo pezzo della città.
Un aspetto interessante è costituito dalla presenza nel volume di immagini pervenute
grazie alla partecipazione dei cittadini, e in particolare dei giovani, nella realizzazione della
mostra. Il concorso fotografico indetto dall’Università Roma Tre, dedicato sia alle foto contemporanee che alle immagini storiche ha consentito di raccogliere più di 700 immagini. Il
coinvolgimento degli abitanti del quartiere nella ricostruzione di quella che Carlo Travaglini
definisce nella sua introduzione al volume «la memoria collettiva dell’area Ostiense -Testaccio»
rappresenta un importante punto di riferimento per future iniziative di questo genere.
I saggi di Maria Filomena Boemi e Paola Calligari, le schede di Sonia Amadio, Carla
Mazzarelli, Giuseppe Stemperini, nonché l’articolata cronologia e bibliografia, completano il
racconto fotografico, ripercorrendo le trasformazioni salienti, fino ai giorni nostri.
Keti Lelo
STEFANO ZAGGIA (a cura di), Fare la città. Salvaguardia e manutenzione urbana a Venezia in età
moderna, Milano, Bruno Mondadori, 2006, pp. 154, 45 ill., euro 16,00.
Il libro affronta un nodo tematico di complessa definizione: quello che vede intrecciate tra
di loro la progettazione, il controllo e la manutenzione del suolo pubblico urbano a Venezia
fra la seconda metà del XV e la fine del XVIII secolo. Nei secoli presi in esame, il tessuto della
città viene sottoposto a un’assidua attività di regolamentazione e, soprattutto, diviene oggetto di una quotidiana sorveglianza da parte dei principali uffici pubblici preposti alla tutela
dello spazio collettivo. Gli elementi della viabilità cittadina (calli, canali, campi, ponti) e dei
servizi fondamentali di approvvigionamento idrico (pozzi e cisterne) entrano di prepotenza
nella sfera di attività di chi è incaricato di delineare la struttura funzionale e formale della
città. La complessa realtà urbana impone, così, il ricorso a competenze operative e giudiziarie
specifiche circa i lavori condotti fra terra e acqua. Tali competenze sono state costruite in un
lungo periodo con strumenti messi a punto nella realizzazione di opere pubbliche, ma anche
nel sistematico escavo dei canali, o nella costruzione di imbarcazioni.
Partendo dall’analisi delle concrete azioni compiute dalle magistrature urbane – Giudici
del piovego, Provveditori di comun, Savi ed Esecutori alle acque, Patroni all’Arsenale –, i
cinque saggi che compongono il volume, redatti da A. Brucculeri, S. Moretti, E. Svalduz, G.
Vertecchi, S. Zaggia e preceduti dall’introduzione di Donatella Calabi, delineano un quadro
dei complessi e intricati modi di sviluppo e «condensazione» del paesaggio urbano di Venezia
in epoca moderna. In tutti i casi presi in esame sembra emergere con forza che le condizioni
284
SCHEDE
specifiche dell’ambiente umido lagunare da un lato, le esigenze della costruzione dei mezzi
di trasporto acqueo dall’altro, abbiano influenzato non poco anche l’organizzazione e il trasferimento dei saperi e delle mansioni all’interno degli uffici interessati alla manutenzione di
strade e «campi», oltre che alla concessione di permessi di costruzione. Al di là di discontinuità, ritardi e accelerazioni, inoltre, appare nitida la consapevolezza propria di coloro che
furono coinvolti nelle funzioni di governo, circa la consistenza dell’agglomerato urbano e
delle sue particolarità ambientali. Da questa cognizione conseguì l’impegno generalizzato
nei confronti di quella capillare azione di costruzione della realtà urbana che un teorico del
tempo definiva come «far la città».
***
Le schede contrassegnate con *** sono state predisposte a cura della redazione.
Convegni, seminari, mostre
ANDREA PALLADIO E LA VILLA VENETA
DA PETRARCA A CARLO SCARPA
Dal 5 marzo al 3 luglio 2005, presso le sale del palazzo Barbaran da Porto a
Vicenza, sede del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, si
è tenuta una mostra dedicata alla Villa veneta, osservata in tutta la complessità e la
multiformità dei suoi aspetti architettonici, sociali, culturali ed economici.
Dalla campagna vicentina a quella trevigiana, fin alle soglie del Friuli, la Villa costituisce una presenza architettonica inconfondibile del paesaggio della Serenissima,
emblema di una peculiare cultura del vivere e del produrre che, in svariati suoi elementi, è giunta, di fatto, sino ai nostri giorni.
È proprio una simile cultura, colta nelle sue molteplici sfaccettature e nelle sue
tante diramazioni, che l’esposizione vicentina ha portato alla luce con grande suggestione ed efficacia.
Come si viveva in villa, cosa si produceva, com’erano organizzati i lavori agricoli e
manifatturieri che si praticavano al suo interno: sono questi i principali interrogativi
posti al centro dell’itinerario elaborato dai curatori della mostra.
I disegni, i dipinti, i documenti e i manoscritti esposti nelle stanze del palladiano
palazzo Barbaran hanno ben messo in evidenza come il concetto di villa, attraverso i
secoli, abbia conosciuto un susseguirsi di continuità e discontinuità. Dallo sfarzoso
palazzo di Villa Madama alla più semplice Casa del Petrarca, la villa sfuggiva – e
sfugge tuttora – ad ogni tentativo di ferrea sistematizzazione. È un concetto, in ogni
caso, che parte da lontano (così come da lontano partiva la mostra), e precisamente
da quell’età romana in cui la villa richiamava una cultura particolare, intrisa di amore
per la vita agreste, in un tutt’uno con la amena visione del paesaggio, fatto di alberi,
prati e colture. Nell’età imperiale la villa divenne poi ideale di sontuosa proprietà, situata sia sulle coste marittime sia in campagna, con strutture architettoniche disperse
in modo non codificato, ancora causale e irregolare, dove il paesaggio e le attività
ricreative la distinguevano dai negotia cittadini.
286
CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE
Una grande frattura arriverà, in pieno Cinquecento, con la figura di Andrea
Palladio. Egli, infatti, giungerà ad operare una forte sistematizzazione del concetto di
villa: dal suo significato, dal sito in cui doveva essere edificata, dalle sue funzioni, sino
alle singole parti che andavano a comporla. Dopo Palladio vi sarà un aumento ancor
maggiore di magnificenza e di fasto: dal trionfo del parco, alle grandi passeggiate,
alla sontuosità delle sale interne dell’edificio. Infine, sarà Carlo Scarpa che nel secolo
appena trascorso ridefinirà gli spazi a partire dall’interno, dettato da una ricerca di
maggiore equilibrio delle forme, adattando le dimensioni difficilmente proponibili
della Villa cinquecentesca alle mutate condizioni della committenza veneta.
Molti erano dunque gli elementi di riflessione proposti dalla mostra, sviluppatasi
con un occhio sempre attento allo scenario più generale. L’esposizione poteva inoltre essere seguita seguendo un unico o più fili conduttori, quali l’evoluzione delle
strutture architettoniche, i giardini, l’agricoltura, i dipinti e le decorazioni interne,
la committenza e, non ultime, le funzioni economiche e sociali della villa. In questo
contesto si inserivano i manufatti, le piante, i disegni, i manoscritti e i documenti
proposti, sino ad arrivare ai suggestivi modelli lignei della Villa Pisani a Strà.
Le immagini del paesaggio, della vita e del lavoro in villa sono state infine raccontate sia dal punto di vista dei signori – i loro ideali, le loro attività, i loro svaghi
– sia dalla prospettiva dei contadini, rappresentati attraverso i curiosi dipinti della
religiosità popolare.
Un tema, quello eletto a protagonista della mostra vicentina, indubbiamente di
grande rilevanza, poiché la villa, lungi dal costituire l’espressione di una cultura “altra” rispetto a quella cittadina, era profondamente permeata degli ideali e dei valori
che informavano l’universo urbano. Sotto questo profilo, il palazzo di città e la dimora di campagna, anziché contrapporsi, rappresentavano, piuttosto, due elementi
inscindibili ed intimamente legati, frutto di una “urbanizzazione diluita” che, sotto
la guida sapiente e potente delle élites aristocratiche, si espandeva e si diffondeva ben
oltre i limiti urbani.
Quest’intima connessione fra città e campagna, fra comfort e produzione, emerge, in tutta la sua evidenza, nel modello architettonico della villa palladiana, sintesi
perfetta di magnificenza e funzionalità: una residenza signorile recante in sé i segni
architettonici del tempio classico, con spazi interni ispirati alle mura romane, e, nel
medesimo tempo, un’azienda ad alta produttività, provvista di ambienti deputati al
ricovero degli attrezzi agricoli, alla trasformazione e alla conservazione dei prodotti
dei campi, alla realizzazione di svariate attività manifatturiere. Lungi dal dedicarsi
all’oziosa vita da rentiers, i nobiluomini veneti, con grande spirito imprenditoriale,
profittavano quindi dei loro soggiorni in villa per seguire i lavori nei campi non
meno che la trattura della seta.
L’itinerario proposto dai curatori della mostra ha consentito, così, di sfatare diversi
miti storiografici: su tutti, l’idea che la villa fosse il luogo per eccellenza deputato agli
CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE
287
otia, al riposo e all’inattività. Il viaggio all’interno del mondo delle ville venete, per contro, ha mostrato come queste residenze, per quanto sontuose e confortevoli, brulicassero di ogni sorta di attività: dalla lavorazione delle fibre “industriali” all’organizzazione
di fiere e mercati per la commercializzazione dei prodotti agricoli e manifatturieri.
Un ricco Catalogo, edito da Marsilio, consente, a tutti coloro che non avessero potuto partecipare alla Mostra, di osservare le numerose opere esposte nelle sue sale. Una
serie di saggi offrono poi la possibilità di approfondire i temi ad essa legati: il significato
e l’evoluzione del concetto di villa (J.S. Ackerman, C.L. Frommel, L. Puppi), sull’architettura di villa nel Veneto (G.M. Varanini, G. Beltramini, H. Burns, P. Marini,
A. Hopkins, G. Romanelli, V. Zanchettin) e sul contesto, politico, economico e ambientale in cui le ville erano inserite (P. Lanaro, M. Knapton, S. Ciriacono, M.L. De
Gregorio, G. Marcadella, F. Cavazzana Romanelli, M. Azzi Visentini, L. Puppi).
Nel vivere in villa, dunque, l’utile e il dilettevole andavano spesso e volentieri di
pari passo.
Michela Barbot - Andrea Caracausi
288
CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE
THE 21TH INTERNATIONAL CONFERENCE
ON THE HISTORY OF CARTOGRAPHY
Si è svolta dal 17 al 22 luglio 2005 a Budapest la ventunesima International Conference
on the History of Cartography, organizzata dalla Eötvös Loránd University di Budapest,
coordinatore dr. Zsolt Török, e dalla rivista «Imago Mundi». L’appuntamento biennale, che segue quello di Boston del 2003 e precede quello di Berna, previsto per il luglio
2007, ha raccolto circa 230 adesioni. Nonostante i costi di iscrizione decisamente elevati di questi convegni biennali, la partecipazione è stata alta, in virtù del momento di
grande popolarità che sta vivendo la storia della cartografia.
La composizione delle presenze conferma purtroppo una tendenza ormai consolidata, che vede una decisa predominanza della rappresentanza anglosassone accanto
all’area geografica del paese di volta in volta ospitante; molto ridotta la pattuglia
italiana, ancora di più quelle di Francia, Spagna, e Portogallo; assente che tutto la
Grecia che aveva ospitato il convegno nel 1999. Lo squilibrio che ne risulta, al di là
delle ragioni che lo hanno determinato, non giova sicuramente alla circolazione delle
idee, e neppure riflette la reale situazione degli studi sull’argomento.
L’ottima organizzazione ha offerto ai convegnisti molte facilitazioni, occasioni
d’incontro e eventi paralleli. In contemporanea sono state allestite tre mostre principali in aggiunta ad altre più piccole: Margaritae Cartographicae; Earth and Sky:
Astronomy and Geography at the University; The History of Military Mapping in
Hungary from the 16th to the 20th century. Il tema dominante individuato per l’edizione ungherese è stato «Changing borders»: una scelta determinata dalla considerazione che l’Europa centrale è stata caratterizzata nel corso dei secoli da un continuo e
spesso drammatico cambiamento di confini, l’ultimo dei quali determinato proprio
dal recente ingresso dell’Ungheria nella Comunità Europea. La cartografia storica
dell’area ha puntualmente rappresentato questa singolare vicenda di separazione e
definizione di entità diverse, di paesi, popoli ma anche culture e tecnologie.
Dopo il tema principale venivano indicati nell’ordine:
-la cartografia dell’impero asburgico;
-la storia della cartografia militare;
-Vecchio Mondo/Nuovi Mondi;
-ogni altro aspetto di Storia della Cartografia;.
Delle oltre centocinquanta proposte presentate solo sessantadue sono state selezionate e suddivise in ventuno sessioni, di cui sei organizzate, mentre le rimanenti
sono state formate dalla commissione sulla base della vicinanza tematica dei soggetti.
CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE
289
Tre sessioni rivestivano un carattere particolare:quella dedicata al progetto editoriale
della History of Cartography, la Tavola rotonda sull’uso della cartografia storica nelle
scuole, ed infine quella dedicata alla memoria di David Woodward, la cui prematura
scomparsa è profondamente e sinceramente compianta da tutti coloro che lo hanno
personalmente conosciuto o letto i suoi contributi.
Alle sessioni di relazioni vanno aggiunti due workshops Early Map Printing e
Plane Table Topographic Survey, ed una sessione di Posters, dove sono stati ospitati i
contributi, circa quaranta, che focalizzavano una singola carta, o soggetto, o regione
e che si prestavano ad una presentazione essenzialmente grafica.
Ai temi particolari, vicini agli interessi del paese ospitante, si sono affiancati temi che
ricorrono frequentemente negli appuntamenti biennali, anche se con prospettive ogni
volta leggermente diverse: la cartografia tematica, la cartografia coloniale, strumenti e
metodologie di rilevamento, rapporti tra testo e immagini e cartografia urbana.
Quest’anno tre contributi erano ospitati nella sessione Towns and cities: uno illustrava un documento specifico, un atlante di fortezze portoghesi in India conservato
alla Biblioteca Nacional di Rio de Janeiro, e la sua importanza per la comprensione
della qualità delle architetture militari e dell’urbanizzazione dell’area (Andréa Doré,
The Habsbourgs Plans of the Portuguese Fortifications in India: A Cartography with
Military and Urbanistic Interest). Gli altri due si muovevano in ambito europeo,
ma attorno a temi già ampiamente percorsi dalla letteratura esistente (Peter van der
Krogt, Joan Blaeu and his Town Atlases; Kory Olson, Trasforming Paris ans Mapping
the Republic: Atlas des travaux de Paris 1789-1889).
Due altri contributi di interesse per la storia urbana erano ospitati altrove:il primo nella sessione Maps of the Holy Land, tema anch’esso ricorrente, ed analizzava le
vicende, il contesto e le fonti di un modello tridimensionale di Gerusalemme esibito
all’Esposizione Universale di Vienna del 1873, poi perduto e infine ritrovato a Ginevra.
Grazie alla sua profonda conoscenza della città l’autore aveva potuto ricostruire nel dettaglio ogni piò minuto edificio, comprese le finestre, i portici e perfino le bandiere dei
consolati (Rehav Rubin, Sthephan Illes and his 3D Map of Jerusalem ). L’altro, collocato
nella sessione Asia mapped, presentava la collezione di cartografia giapponese dell’Università di Berkeley, segnalando la possibilità di analizzare attraverso le tecniche
GIS la cartografia storica di Edo, oggi Tokyo (Caverlee Cary, Exploring Edo : Urban
Dynamics and GIS in Japanese Historic Maps).
Anche alcuni posters rivestivano particolare interesse per la cartografia urbana e il
territorio italiano :quello di Maria Luisa Sturani (Cartography as a Tool for Fixing Borders
at Local and National Scale:A Durieu, Cadastral and Border Maps in 18th century Savoy )
documentava l’attività di Antoine Durieu, noto topografo alla corte sabauda e assistente alla realizzazione del Catasto del 1728, nella definizione dei confini settentrionale
fra lo Stato Sabaudo e la Francia. Le numerose fonti relative a quest’operazione hanno
permesso di esplorare il ruolo svolto dalla cartografia come strumento per la definizione
290
CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE
dei confini, sia all’interno dello Stato, per sottoporre a controllo la rete delle comunità,
sia all’esterno nella normalizzazione dei territori dei diversi Stati europei.
Michael F. Davie and Mitia Frumin (Veni, vidi delineavi: Beirut Cityscape in the
late 18th Century through Russian Navy Maps) hanno visualizzato un percorso che
ha preso le mosse da due carte manoscritte prodotte durante i due assedi settecenteschi di Beirut da parte dei Russi e conservate negli archivi statali della Marina di S.
Pietroburgo. Attraverso le informazioni ricavate da fonti successive un gran numero di
oggetti significativi della città e del suo entroterra sono stati identificati e georeferenziati. L’applicazione di tecniche GIS ha permesso agli autori di sperimentare un tentativo
di ricostruzione del paesaggio urbano di Beirut nel tardo Settecento.
Infine il poster di Regine Gerhardt (Henry IV in the Cartography of his Capital.
Paris as the Projection screen of the King) ha illustrato l’azione di Enrico II nella forte committenza di architetture urbane. Il ruolo centrale di Parigi come schermo
di proiezione del suo programma politico è stato evidenziato in particolare in due
rappresentazioni cartografiche dei primi anni del Seicento, interpretabili come formidabile strumento di propaganda politica. L’alto numero di relazioni, unito alla
diversità degli approcci, degli ambiti disciplinari di provenienza e diverso livello di
specializzazione dei presentatori rende impossibile ed inutile un discorso di sintesi. E’
evidente testimonianza di un fermento culturale che si è creato attorno ai materiali
cartografici, anche in seguito all’impulso verso la comunicazione visuale che stiamo
vivendo negli ultimi anni con la creazione e moltiplicazione di forme multimediali.
Nella convergenza di interessi verso il mondo delle carte c’è sicuramente un’area di
confusione e improvvisazione, in cui ambiziose e velleitarie intenzioni non sufficientemente supportate da una chiarezza metodologica o un’adeguata attività di ricerca
naufragano in risultati deludenti. Coloro che si considerano storici della cartografia in
senso pieno tendono a diffidare dei nuovi arrivati e a considerare questa varietà piuttosto dispersione che ricchezza. Ma certo, proprio alla luce delle prospettive derivanti
dall’apertura delle frontiere a nuovi apporti, appaiono altrettanto e sterili i contributi
di stretta osservanza storico-cartografica, che non valicano i limiti della geografia
della carta. Spunti di riflessione interessanti provengono proprio da contributi che
hanno esplorato la qualità e la forza del linguaggio cartografico in aree marginali
della cartografia storica, come quelli della sessione Map Tales :su carte usate in documenti legali come linguaggio vernacolare diretto a chi non conosceva la scrittura
(Rose Mitchell, The case of the Crafty Prior and other Tales from Early English Legal
Maps ); su carte che non ci sono più, oppure che non ci sono mai state, e pure hanno
esercitato un ruolo nella evoluzione del sapere (Evelyn Edson, The case of Missing
Maps: Reconstruction and Recreation of Lost Maps);o infine su carte non sono considerate come tali, stradari, cartoline o cartelloni pubblicitari, e relegate nel rango di
cartografia effimera (Dennis Reinhartz, Ephemeral Cartography? )
Lucia Nuti
CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE
291
SEMINARIO GIS
Il 24 giugno 2005 ha avuto luogo a Venezia, presso la sede della Fondazione
Scuola Studi Avanzati nell’isola di San Servolo, il seminario dal titolo «I GIS come
strumento di analisi per la storia della città. La gestione della cartografia storica e
delle fonti d’archivio attraverso lo studio di tre esempi: Lione, Roma e Venezia»,
organizzato da Giulia Vertecchi nell’ambito del Dottorato in Storia dell’Architettura
e della Città, Scienze delle Arti, Restauro, coordinato da Donatella Calabi.
Hanno partecipato all’iniziativa: Alessandra Ferrighi, Bernard Gauthiez, Keti
Lelo, Mario Piana, Carlo Travaglini e Giulia Vertecchi. Ha introdotto i lavori del
seminario Donatella Calabi.
Obiettivo del seminario è stato quello di mostrare le potenzialità dell’applicazione
dei Sistemi Informativi Geografici per lo studio della storia della città e del suo tessuto
urbano. Infatti a fronte dell’enorme sviluppo che negli ultimi anni ha avuto l’utilizzazione del GIS e della cartografia storica in vari campi disciplinari, non si è registrata,
se non episodicamente, un’adeguata riconsiderazione delle possibilità e dei limiti entro
cui tali strumenti possano essere applicati nella maniera più corretta e proficua.
È stato svolto il seguente programma di interventi:
Bernard Gauthiez, SIG et autorisations de construire à Lyon (XVII-XVIII), ha illustrato come sia possibile analizzare la città attraverso un processo di decomposizione
del tessuto urbano in unità spaziali. Queste unità hanno un significato diverso da
quelle generalmente utilizzate, quali edificio, tipologia, parcella: infatti sono le fonti
d’archivio, e, nel caso specifico, la serie degli atti di allineamento concessi a Lione tra
il 1617 e il 1763, che consentono di definire e identificare spazialmente le unità e di
costruire quindi la geometria del GIS.
Carlo Travaglini e Keti Lelo, La costruzione di un sistema informativo geografico per
Roma, hanno presentato la metodologia e il lavoro condotto per la costruzione dell’atlante storico della città di Roma. La ricostruzione dell’evoluzione della città è resa
possibile dall’eleborazione e dall’analisi congiunta di fonti quantitative e di cartografia storica. La georeferenziazione delle diverse fonti cartografiche e l’integrazione dei
layer cartografici con le informazioni tematiche desunte dal lavoro d’archivio hanno
consentito di mostrare la dinamica delle trasformazioni della forma fisica della città.
Mario Piana, Alessandra Ferrighi, Strumenti e dati per il WEB-GIS degli intonaci
esterni del centro storico di Venezia, hanno illustrato il sistema di censimento e l’informatizzazione dei dati di circa 15.000 unità edilizie del centro storico di Venezia.
La georeferenziazione degli intonaci è stata concepita non solo in relazione alle unità
292
CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE
edilizie, ma anche sui fronti di ciascun edificio, con la messa a punto di un’apposita
geometria. Per rendere la banca dati più facilmente accessibile hanno predisposto il
sistema di trascrizione delle informazioni contenute nel GIS su piattaforma WEB.
Giulia Vertecchi, Problemi e metodo nella costruzione del GIS e nelle indagini archivistiche: il caso di Venezia, ha messo in luce la metodologia e il percorso di ricerca
adottati – dalla costruzione della banca dati alla georeferenziazione dei documenti
– per rendere le informazioni archivistiche fruibili dal sistema GIS. Il limite di tale
sistema è costituito dal supporto cartografico di riferimento, che, rappresentando
la città attuale, non consente di localizzare e quindi di analizzare spazialmente una
parte dei documenti. Al momento il sistema è in grado di fornire comunque alle
amministrazioni comunali o alle soprintendenze una conoscenza più profonda del
tessuto edilizio.
Giulia Vertecchi
Informazioni
LA CONFERENZA 2006 DELLA EUROPEAN ASSOCIATION
FOR URBAN HISTORY
L’ottava conferenza della «European Association for Urban History», il cui tema è Urban
Europe in Comparative Perspective, avrà luogo a Stoccolma fra il 30 agosto e il 2 settembre
2006. Attuale presidente dell’associazione e organizzatore dell’evento è il prof. Lars Nilsson
che nella preparazione è stato affiancato dal comitato direttivo internazionale e da un comitato locale, oltre che dall’Institute of Urban History dell’Università di Stoccolma, uno dei primi
centri europei specificatamente dedito alla storia urbana.
Come è noto, dal 1989 (anno di fondazione) l’EAUH organizza i propri incontri ogni
due anni: si tratta di un grande forum multidisciplinare che si rivolge a storici, sociologi,
geografi, antropologi, storici dell’arte e dell’architettura, economisti, ecologisti, pianificatori
e a tutti coloro che lavorano su diversi aspetti della storia urbana; esso richiama ogni volta un
gran numero di ricercatori europei ed extra-europei interessati a conoscere i lavori in corso e
a discutere tra loro delle tendenze in atto nell’ambito del proprio ambito di studi.
A latere, saranno organizzate visite ai principali musei di Stoccolma, agli archivi, alla
città storica, all’arcipelago e alla miniera d’argento di Sala; saranno disponibili informazioni
bibliografiche sulle pubblicazioni recenti: alcuni editori specializzati organizzeranno un loro
stand in cui venderanno e prenderanno prenotazioni per l’acquisto dei loro ultimi libri (in
generale a prezzi scontati).
Il congresso di quest’anno prevede circa 60 sessioni relative alla storia urbana europea medioevale, moderna e contemporanea, considerata da diverse punti di vista in una prospettiva
di comparazione.
Saranno discussi temi molto nuovi e questioni che tradizionalmente afferiscono a questo campo di studi: dalla cultura materiale ai grandi cantieri, dalla violenza nello spazio urbano a questioni
di frontiere e identità, dai sistemi informativi all’ambiente urbano, dagli scambi tra città alle dinastie familiari, dalle città cosmopolite alla religione, dalla città socialista, alla politica della casa. In
tutto oltre 400 partecipanti saranno coinvolti attivamente presentando una loro comunicazione in
una delle 16 sessioni maggiori, o in una delle 44 specialistiche o ancora nelle due tavole rotonde,
rispettivamente relative alla città medioevale e moderna e alla città contemporanea.
È attualmente aperto l’appello alla registrazione sul sito: http://www.eauh.org, sul quale
anche si troveranno tutte le notizie circa la conferenza e il programma articolato dell’iniziativa, nonché alcune indicazioni logistiche.
294
INFORMAZIONI
Tutte le comunicazioni (di massimo 6 pagine) dovranno essere inviate per e-mail agli
organizzatori al seguente indirizzo: mailto:[email protected], così da poter essere
pubblicate sul sito sopra menzionato.
Per richieste particolari si può contattare il segretario: Bo Eriksson Janbrink, Department of
History, Stockholm University, S-106 91 Stockholm, Sweden. E-mail: urbanhistory@historia.
su.se. Phone: +46 8 674 71 18, Fax: +46 8 16 75 48.
Donatella Calabi
INFORMAZIONI
295
THE INTERNATIONAL COMMITTEE FOR THE CONSERVATION
OF THE INDUSTRIAL HERITAGE
La sola rete mondiale di specialisti del patrimonio industriale fondata nel 1978 a
Stoccolma dedicherà il suo XIII Congresso Internazionale a «Industrial Heritage and Urban
Transformation» (tema A) e a «Productive territories and industrial landascape» (tema B)
Dopo Londra e Mosca, sedi delle ultime edizioni il Congresso si svolgerà per la prima
volta in Italia, a Terni e Roma, dal 14 al 18 settembre 2006 e sarà seguito da due tour postcongressuali: quello breve, dal 18 pomeriggio al 20 settembre, che prevede la visita ai più
importanti siti industriali e museali di Napoli, alla manifattura di San Leucio e alla penisola di
Amalfi-Sorrento; quello lungo, dal 18 pomeriggio al 23 settembre, che si svolgerà secondo un
itinerario comprendente i maggiori centri industriali e le città d’arte del centro-nord. Durante
lo svolgimento della parte scientifica del Congresso (da giovedì 14 a lunedì 18 settembre 2006)
vi sarà una giornata dedicata ad incontri ufficiali e visite all’area Ostiense e Testaccio di Roma.
I lavori congressuali saranno articolati in due sessioni plenarie dedicate ai temi A e B e in 16
workshops dedicati ai seguenti temi: la conoscenza: i censimenti e la catalogazione; la tutela: gli
strumenti giuridici e legislativi; il progetto: restauro, riuso e trasformazione; la conservazione e
gestione: fondazioni, archivi, musei, ecomusei; comunicare l’industria e la sua identità storica;
la fruizione: turismo culturale e turismo industriale; nuovi saperi progettuali e formazione degli
operatori; valorizzazione del patrimonio e strategie di sviluppo «multiscala»; mestieri, saperi
e produzioni tradizionali; gli archivi tecnici; il patrimonio dell’industria agro-alimentare;
il patrimonio industriale del tessile-abbigliamento; il patrimonio dell’industria siderurgica e
meccanica; il patrimonio minerario; il patrimonio industriale nel settore chimico; ponti, vie di
comunicazione, reti energetiche ed infrastrutture industriali.
Il Congresso sarà preceduto, accompagnato e seguito da numerose iniziative volte
anch’esse alla conoscenza, allo studio e alla valorizzazione del patrimonio industriale italiano.
Preliminarmente al Congresso si svolgeranno infatti tre conferenze preparatorie dedicate ad
altrettanti temi: la prima relativa al patrimonio minerario si terrà in Sardegna in maggio, la
seconda sul patrimonio agroalimentare sarà organizzata a giugno in Puglia, la terza si svolgerà
in Piemonte nel mese di luglio e sarà dedicata al paesaggio industriale. Durante il Congresso
saranno poi visitabili, nella stessa sede, due importanti mostre sul patrimonio industriale: una
dedicata alle regioni italiane, curata dalle 20 sezioni regionali AIPAI, che illustrerà esperienze,
risultati e percorsi di studio e valorizzazione del patrimonio industriale italiano e un’altra,
realizzata con il progetto «Cultura 2000», che darà conto di alcune delle più significative
esperienze europee. Contemporaneamente, presso la sua sede delle ex Officine Bosco, il
centro multimediale di Terni allestirà una exhibition sul tema «L’acqua come fonte di energia
e come elemento caratterizzante il paesaggio industriale» realizzata nell’ambito del progetto
pilota «Nuove tecnologie di comunicazione audiovisiva applicate agli spazi» (finanziato dal
progetto Comunicatio Mediauvis, programma Interreg III Medoc).
296
INFORMAZIONI
La sede congressuale dell’ex SIRI ospiterà invece anche un’importante fiera del Turismo
industriale durante la quale gli operatori del settore potranno presentare le proprie iniziative,
o progetti e i percorsi diretti ad incontrare e a stimolare la domanda di turismo archeo
industriale. Durante il Congresso particolare attenzione sarà dedicata alle visite di studio per
consentire ai partecipanti una conoscenza diretta dei luoghi e dei monumenti della civiltà
industriale del ternano e dell’ area Ostiense di Roma. Nel corso dei lavori sono infatti previste
visite di studio ai siti e aree industriali di Terni (Cascata delle Marmore, Lago di Piediluco,
Acciaieria del Gruppo Thyssenkrupp, centrali idroelettriche di Galletto e Monte Sant’Angelo
del gruppo Endesa, quartieri operai) dimesse o riutilizzate ad altri scopi (Stabilimento
elettrochimico di Papigno, stabilimento SIRI, Museo della Fabbrica d’armi); inoltre, a
Roma, si visiterà il quartiere ex industriale dell’Ostiense, caratterizzato dalla presenza di ex
siti produttivi riutilizzati come contenitori culturali (Università Roma Tre, Museo Centrale
Termoelettrica «Montemartini», area Italgas ENI, Magazzini Generali, Mattatoio, Mercati
Generali).
Ancora ad oltre quattro mesi dal suo svolgimento il Congresso ha ottenuto una massiccia
adesione (circa 400 iscritti) da oltre 40 paesi di tutti i continenti; circa 250 sono le proposte
di papers fino ad ora presentate.
Informazioni dettagliate su tutto il programma si possono reperire sul website del
Congresso www.ticcihcongress2006.net o scrivendo a: Segreteria del Congresso TICCIH
2006 ICSIM via I° Maggio, 23 05100 Terni (Italia).
L’organizzazione del Congresso è opera congiunta dell’TICCIH, dell’AIPAI (Associazione
Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale) e dell’ICSIM (Istituto per la Cultura e la
Storia d’Impresa «Franco Momigliano»).
Il TICCIH, formalmente costituito nel 1978 dopo le due conferenze internazionali ad
Ironbridge (1973) e Bochum (1975) è l’organizzazione mondiale del patrimonio industriale
che ha per obiettivo di promuovere la comparazione internazionale tra individui e istituzione,
al conservazione, la ricerca, la documentazione, l’interpretazione e la formazione nel campo
dell’Industrial Heritage in tutto il mondo. Attualmente è presieduto dall’Ingegner Eusebi
Casanelles , direttore del Museu de la Ciencia i de la Tecnica de Catalunya.
Organismo altamente rappresentativo e dalle competenze molto diversificate, il TICCIH
dalla fine degli anni Ottanta è riconosciuto dal World Heritage Committee dell’ICOMOS
(International Council for Monuments and Sites), riconoscimento confermato da una
convenzione sottoscritta nel 2000 che lo costituisce come sezione consulente dell’UNESCO per
la selezione dei monumenti, siti e paesaggi dell’industria da includere nella lista del Patrimonio
Mondiale dell’Umanità. TICCIH, oltre al suo sito internet www.museu.mNACTEC.com/
TICCIH, produce una newsletter di periodicità trimestrale e partecipa alla pubblicazione
della rivista semestrale «Patrimoine de l’Industrie/Industrial Patrimony». I membri del
TICCIH sono singoli individui o istituzioni. L’organizzazione è articolata in sezioni nazionali
che eleggono il loro rappresentante nell’assemblea dei delegati nazionali che, a sua volta,
elegge i membri del board del TICCIH. L’assegnazione del XIII Congresso Internazionale del
TICCIH all’Italia costituisce anche un’importante riconoscimento al ruolo assunto sul piano
internazionale dell’AIPAI (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale),
l’unica associazione operante nel settore del patrimonio archeologico-industriale, fondata nel
1997 da un gruppo di specialisti del patrimonio industriale e da alcune tra le più importanti
INFORMAZIONI
297
istituzioni del settore nel Paese. L’Associazione conta oggi circa 300 soci ed interagisce
proficuamente con università, centri di ricerca, fondazioni, musei, organi centrali e periferici
dello Stato (Ministeri, Soprintendenze, Regioni, Province, Comuni, Comunità Montane,
Agenzie di promozione turistica e per lo sviluppo locale, ecc..). Al suo interno è costituita
la sezione italiana del TICCIH; la cui attività si è sviluppata in sinergia ed integrazione con
quella dell’AIPAI, dispiegandosi soprattutto nelle aree della formazione, della ricerca e della
divulgazione; dell’inventariazione e catalogazione; della promozione, sensibilizzazione e
valorizzazione dei beni della civiltà industriale.
L’AIPAI, infatti, in collaborazione con una molteplicità di enti ed istituzioni, fin dalla
sua costituzione, ha promosso, coordinato e svolto attività di ricerca avvalendosi di diverse
competenze disciplinari con l’obiettivo di analizzare il patrimonio archeologico industriale nelle
sue molteplici connessioni con il sistema dei bei culturali ed ambientali e con la cultura del
lavoro, in una prospettiva di lungo periodo.
Tra i fini dell’AIPAI vi è la promozione di un più elevato livello di collaborazione
operativa e scientifica tra enti pubblici e privati (musei, ministeri, università, soprintendenze,
enti locali ed istituzioni private) per la catalogazione, la conservazione e la valorizzazione del
patrimonio industriale, per la salvaguardia degli archivi, macchine e altre testimonianze della
civiltà industriale e del lavoro, per la formazione degli operatori e la promozione del turismo
industriale. A tale scopo, grazie anche all’organizzazione dell’AIPAI in sezioni regionali,
sono state stipulate convenzioni con Comuni, Province e Regioni per il censimento dei beni
archeologico-industriali. Indagini ed iniziative hanno riguardato i manufatti architettonici,
l’ambiente, il paesaggio e le infrastrutture, le fonti documentarie e archivistiche, i macchinari
e le attrezzature, i saperi produttivi e importanti aspetti della storia tecnica, sociale ed
economica più direttamente collegati alle vicende del patrimonio industriale.
I materiali relativi ad alcune iniziative promosse dall’AIPAI sono stati pubblicati nel primo
«Quaderno» di Patrimonio Industriale «Industrial Heritage» uscito nel 2005 con il titolo di
«Archeologia Industriale in Italia. Temi, progetti, esperienze». La nuova rivista semestrale
«Patrimonio Industriale/Industrial Heritage», organo dell’Associazione ed unica rivista di
settore presente in Italia, uscirà in occasione del Congresso. Nel frattempo l’Associazione
e i suoi membri hanno concorso sia finanziariamente che con contributi scientifici alla
pubblicazione della rivista del TICCIH «Patrimoine de l’Industrie/Industrial Patrimony».
Per il potenziamento degli strumenti di comunicazione interna e con l’esterno l’Associazione
si è dotata di una newsletter, che ora avrà una nuova veste grafica e sarà disponibile anche
on-line, e del portale www.patrimonioindustriale.it.
Giovanni Luigi Fontana
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INFORMAZIONI
LA CITTÀ E LE REGOLE
Il terzo Congresso dell’Associazione Italiana di Storia Urbana (AISU) è consacrato a discutere un tema che ha sollecitato grande interesse e partecipazione tra i soci dell’associazione
e nel mondo della cultura in generale: La città e le regole. Il convegno è ospitato dalla I e dalla
II Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino e si svolgerà nei giorni 15,16 e 17 giugno a
Torino al Castello del Valentino. Il Comitato scientifico è composto da Livio Antonielli (Università di Milano), Donatella Calabi (IUAV, Venezia), Vera Comoli (Politecnico di Torino),
Costanza Roggero (Politecnico di Torino), Paola Lanaro (Università di Ca’ Foscari, Venezia),
Luca Mocarelli (Università di Milano Bicocca), Roberta Morelli (Università di Roma Tor
Vergata), Carlo Olmo (Politecnico di Torino), Sergio Pace (Politecnico di Torino), Ercole Sori
(Università di Ancona), Rosa Tamborrino (Politecnico di Torino), Carlo Travaglini (Università Roma Tre) e Guido Zucconi (IUAV, Venezia).
L’ampiezza delle questioni, che possono essere ricondotte al tema lanciato dal call for
paper, ha permesso d’individuare una serie di aree tematiche, destinate a coordinare tutte le
proposte pervenute. Tali aree interpretano l’universo delle norme e delle regole per la città,
sulla base della finalità e delle funzioni cui possono essere ricondotte: amministrare e delimitare, abitare e utilizzare, costruire e abbellire, produrre e commerciare, accogliere e sorvegliare, circolare e smaltire.
Un ulteriore contributo interpretativo è stato, inoltre, lasciato ai partecipanti, che hanno
implicitamente articolato i temi attraverso le proposte inviate a ogni sessione. Sono state
così definite una serie di subsessioni che, svolte in parte in parallelo, metteranno in rilievo le
questioni di maggiore importanza, ponendo a confronto casi studio, approcci metodologici,
tipologia di fonti, luoghi e tempi delle ricerche. Il convegno, in particolare, intende recepire
quella tradizione degli studi italiani di storia urbana che si manifesta come attenzione particolare allo spazio fisico: un’attenzione evidente anche nell’associazione, a partire dal numero
di iscritti provenienti dalle facoltà di architettura, con temi che vanno dalla costruzione della
città alle infrastrutture, alle opere di architettura.
La città, tema unificante le diverse aree disciplinari che si riconoscono nell’associazione,
nasce e si sviluppa secondo un sistema di regole. Il convegno intende indagarne principalmente e diacronicamente quelle che più la definiscono e la identificano: le norme imposte
dall’autorità pubblica, dunque, quelle che individuano le forme istituzionali e di governo,
i regimi di gestione e amministrazione di uomini e risorse, prodotti e merci, cittadini e forestieri. Al centro dell’interesse è la città come bene comune, patrimonio pubblico, campo
d’azione in cui si incrociano interessi generali e particolari, pubblico e privato, da cui emerge
un’attitudine normativa intesa a prevenire i conflitti e ad armonizzare i contrasti. D’altra
parte, è necessario tener presente pure l’attrito che si produce al momento della sua messa in
opera, che produce scontri, reticenze, veri e propri soprusi, insieme al prevalere di consuetudini nuove o antiche.
INFORMAZIONI
299
Lanciato nel 2004 e sollecitato dalla discussione generale dell’assemblea dei soci durante
il II Congresso di Roma, il tema della città e delle sue regole non è soltanto un oggetto di
studio storico, ma rimane necessariamente di grande attualità nel dibattito civile e politico
della società italiana.
In questo senso Giancarlo Caselli, procuratore generale di Torino, insigne giurista ma
anche personaggio emblematico in Italia quando si pensa alle relazioni tra vita civile e applicazione della norma, sarà chiamato a svolgere la relazione introduttiva al convegno. Alle sue
conoscenze ed esperienze sarà affidata una lettura del tema secondo un’inflessione interpretativa meno consueta, fuori dai confini disciplinari ma indispensabile per ricondurre gli studi a
una dimensione attuale, per ritrovare il filo rosso che unisce la pratica della ricerca storica alla
vita quotidiana d’una comunità di cittadini.
Sergio Pace - Rosa Tamborrino
300
INFORMAZIONI
LA CITTÀ E LE REGOLE
III Congresso dell’Associazione Italiana di Storia Urbana
Politecnico di Torino, Facoltà di Architettura I e II
Castello del Valentino 15-17 giugno 2006
giovedì 15 giugno
9.00 Registrazione
10.00 Salone d’onore. Apertura lavori
11.00 Relazione introduttiva, Giancarlo Caselli
(procuratore generale di Torino)
14.00-18.30 Sessioni parallele: 1. Amministrare e
Delimitare e 4. Produrre e Commerciare
Aula Audiovisivi. Sessione 1. Amministrare
e Delimitare coordinatori Paola Lanaro e Rosa
Tamborrino
14.00-14.30 Introduzione dei coordinatori
14.30-16.00 Sub-sessioni 1 - parte I.
Aula 8. Cittadinanze, partizioni e circoscrizioni
coordinatore Gianmaria Varanini
relazioni: Gianmaria Varanini, Michela Barbot,
Fausto Cozzetto, Silvia Beltramo, Valeria Tomasi,
Carlo Tosco; poster: Irene Maddalena, Cristina
Natoli, Rosa Ciacco, Rossana Sicilia, Donatella
Ronchetta-Paolo Mighetto
Aula 6. Censimenti, catasti e competenze coordinatori Carlos Sambricio e Rosa Tamborrino
relazioni: Pierre Pinon, Giovanni Favero, Maria
Luisa Ferrari, Carlos Sambricio, Rocco Curto Gemma Sirchia
Aula 4. Tutelare coordinatore Micaela Viglino
relazioni: Gabriele Corsani, Mario Dalla Costa,
Roberto Dulio, Alessandro Martini, Massimiliano
Savorra, Francesca Torello; poster: Barbara Galli,
Olimpia Niglio
16.00-17.30 Sub-sessioni 1 - parte II
Aula 8. Municipalità: le regole per il governo delle
città italiane nel XIX sec. coordinatori Salvatore
Adorno e Filippo De Pieri
relazioni: Salvatore Adorno, Denis Bocquet,
Elisabetta Colombo, Filippo De Pieri, Alberto
Ferraboschi, Federico Lucarini;
Aula 6. Censimenti, competenze e istituzioni di
controllo coordinatore Aldo Castellano
relazioni: Pasquali Aloscari, Aleksander Panjek,
Silvia Paoli, Raimondo Pinna, Francesco
Quinterio; poster: Tommaso Zampagni, Giulia
Mezzalama, Alessandra Buoso
17.30-18.30. Aula Audiovisivi. Discussione sessione 1
Aula 1. Sessione 4. Produrre e Commerciare
coordinatori Luca Mocarelli e Sergio Pace
14.00-14.30 Introduzione dei coordinatori
14.30-16.00 Subsessioni 4 parte I.
Aula 10. Annona e grani in età moderna coordinatore Luca Mocarelli
relazioni: Brigitte Marin, Simona LaudaniValentina Vigiano, Ida Fazio, Cristina Ciancio,
Renzo Corritore, Donatella Strangio
Aula 11. Statuti corporativi e manifatture urbane
coordinatore Sergio Pace
relazioni: Giovanni Rossi, Sonia Scognamiglio,
Roberto Livraghi, Marina Romani, Andrea
Caracausi, Luisa Dolza-Maitte; poster: Laura
Sabrina Pellissetti, Nadia Ostorero-Maria Vittoria
Cattaneo
16.00-17.30 Subsessioni 4 parte II
Aula10. Altri prodotti e annona ’800-’900 coordinatore Luca Mocarelli
relazioni: Renato Sansa, Manuel Vaquero Piñeiro,
Lavinia Parziale, Giuseppe Stemperini,
Aula 11. Norme, commercio e mestieri coordinatore Sergio Pace
relazioni: Emanuele Romeo, Carmen Calandra,
Lavinia Gazzè, Eleonora Canepari, Simonetta
Ciranna, Monica Parola; poster: Alessio Re,
Alessia Bellone
17.30-18.30. Aula Audiovisivi. Discussione sessione 4
18.30-19.00 Salone d’onore. Riflessioni e spunti sui temi discussi durante i lavori della giornata
coordinatore Georges Vigarello
venerdì 16 giugno
8.30-13.00 Sessioni parallele: 3. Costruire e Abbellire e 5. Accogliere e Sorvegliare
Aula Audiovisivi. Sessione 3. Costruire e
Abbellire coordinatori Vera Comoli e Carlo M.
Travaglini
8.30-9.00 Aula Audiovisivi, Introduzione dei
coordinatori
9.00-10.30 Sub-sessioni 3 - parte I
Aula 8. Piani per la città e il territorio coordinatore
Laura Marcucci
relazioni: Maria Luisa Neri, Gerardo Doti,
Giuseppina Lonero, Ettore Sessa, Federica Zampa;
poster: Denise Ulivieri, Filippo Masino, Giorgio
Sobrà, Giovanni Maria Lupo, Giusi Lo Tennero,
Claudia Lamberti, Maria Vitiello
Aula 6. Ornato coordinatore Angela Marino
relazioni: Alfredo Buccaro, Gabriella Orefice,
Giuseppina Carla Romby, Maria Antonietta Rovida
INFORMAZIONI
Aula 4. Norme edilizie e regime dei suoli coordinatori Brigitte Marin e Carlo M. Travaglini
relazioni: Keti Lelo-Carlo M. Travaglini-Orietta
Verdi, Mariagrazia D’Amelio, Albane Cogné,
François Dumasy; poster: Antonella Manfredi,
Federica Carboni-Gilda Nicolai, Tiziana
Malandrino
10.30-12.00 Sub-sessioni 3 - parte II
Aula 6. Piani per la città e il territorio, coordinatore Giorgio Simoncini
relazioni: Giuseppe Pignatelli, Marco Folin,
Andrea Longhi, Eliana Mauro, Enrico Lusso; poster: Francesco Menchetti, Luigi Imparato
Aula 4. Piani per la città e il territorio Il verde
nelle teorie urbanistiche e nei piani regolatori tra
Otto e Novecento coordinatori Elena Accati e Vera
Comoli
relazioni: A. Iolanda Lima, Francesca Bagliani,
Paolo Cornaglia, Franco Panzini, Bianca Rinaldi;
poster: Vittorio Defabiani, Angela Farruggia,
12.00-13.00. Aula Audiovisivi. Discussione sessione 3
Sessione 5 Accogliere e Sorvegliare, coordinatori
Livio Antonielli e Donatella Calabi
8.30-9.00 Introduzione dei coordinatori
9.00-10.30 Sub-sessioni 5 - parte I
Aula 11. Garanzie di sicurezza coordinatore Livio
Antonielli e Donatella Calabi
relazioni: Marco Frati, Claudia Bonardi, Laura
Luzi, Aurora Savelli; poster: Monica Calzolari
-Elvira Grantaliano-Chiara Lucrezio MonticelliLuisa Salvatori
Aula 12. Emergenza e divisioni nella città coordinatore Aurora Scotti
relazioni: Giuseppe Bonaccorso, Ilaria Forno,
Elena Svalduz, Teresa Colletta-Cristina Iterar
10.30-12.00 Sub-sessioni 5 - parte II
Aula 11. Conflitti e convivenze coordinatore
Lucia Nuti
relazioni: Matteo Dominioni, Anna GiannettiGiosi Amirante, Moreno Farina
Aula 12. Controllo igienico coordinatore Donatella
Calabi
relazioni: Vilma Fasoli, Serenella Nonnis
Vigilante, Diego Caltana; poster: Aulo Guagnini,
Chiara Devoti
12.00-13.00. Aula 1. Discussione sessione 5
14.00-15.00 Seminario sui Poster discussant
Derek Keene
15.30 Partenza in pullman per Mondovì. Visita
del Santuario di Vicoforte
18.30 Politecnico di Torino. Sede di Mondovì.
Assemblea dell’AISU
sabato 17 giugno
8.30-13.00 Sessioni parallele 2. Abitare e Utilizzare
e 6. Circolare e Smaltire
Aula Audiovisivi. Sessione 2. Abitare e Utilizzare,
coordinatori Roberta Morelli e Costanza Roggero
8.30-13.00 Aula Audiovisivi. Introduzione dei
coordinatori
301
9.00-10.30 Subsessioni 2 parte I
Aula 6. Proprietari e inquilini coordinatore
Maurice Aymard
relazioni: Carmelo G. Severino, Gaetano
Pellecchia, Alison Smith, Augusto Ciuffetti,
Barbara Bettoni, Massimo Galtarossa; poster:
Francesca Quartini, Elisabetta Chiodi, Elena
Gianasso, Cecilia Castiglioni
Aula 8. Regimi e consuetudini coordinatore
Roberta Morelli e Costanza Roggero
video di Federico Cesali Visalberghi
relazioni: Laura Palmucci, Gianmario Guidarelli,
Ileana Tozzi, Fernando Salsano, Paolo Tachella,
Federica Masè, Laura Guardamagna; poster:
Elena Manzo, Francesca Castanò-Ornella
Cirillo, Piera Ferrara, Beatrice Calandri, Silvia
Haia Antonucci-Claudio Procaccia-Giancarlo
Spizzichino, Irene Caltabiano-Francesca De
Filippi, Roberta Ingaramo, Riccardo Balbo,
Mariangela Brendolan
Aula Audiovisivi. Strategie e modelli per l’edilizia
abitativa: Roma e Milano nel secondo dopoguerra
coordinatore Vittorio Vidotto
relazioni: Francesco Bartolini, Bruno Bonomo,
Alice Sotgia, Vittorio Vidotto,
video di John Foot
12.00-13.00. Aula Audiovisivi. Discussione sessione 2
Sessione 6. Circolare e Smaltire coordinatori
Ercole Sori e Guido Zucconi
8.30-13.00 Introduzione dei coordinatori
9.00-12.30 Subsessioni 6 parte I
Aula 11. La città residuale: controllo e smaltimento dei rifiuti coordinatore Ercole Sori
relazioni: Grazia Pagnotta, Elisa Tosi Brandi,
Roberta Variale, Stefano Sorteni, Germana
Albertani
Aula 4. Strade e transiti territoriali, un confronto
di lungo periodo coordinatore Guido Zucconi
relazioni: Ippolita Checcoli,Cristina Cuneo, Rosa
Savarino, Marco Cocchieri, Federico Paolini
10.30-12.00 Subsessioni 6 parte II
Aula 4. Il controllo sulle acque urbane, un confronto di lungo periodo, coordinatori Annalisa
Dameri e Elena Dellapiana
relazioni: Konstantinos Chatzis, Elena Dellapiana,
Elisa Panero, Annalisa Dameri
Aula 11. Canali e città tra Otto e Novecento coordinatore Michela Morgante
relazioni: Ruben Baiocco-Stefano Munarin,
Michela Rossi, Lucia Frattarelli Fischer, Michela
Morgante
Aula 12. Controllo e trasformazione dello spazio
urbano coordinatore Guido Zucconi
relazioni: Niall Atkinson, Mauro Volpiano, Giulia
Vertecchi, Sandra Poletto, Beatrice Fracchia
12.00-13.00. Aula 1. Discussione sessione 6
14.30-16.30 Tavola rotonda conclusiva
16.30 Visita ai siti olimpici
Abstracts
SILVIA DIONISI
BROTHERHOODS AND URBAN REVENUE: «SAN SALVATORE»
AND THE «GONFALONE» IN ROME BETWEEN THE FIFTEENTH AND EARLY
SIXTEENTH CENTURY
The study analyses the progress of the real estate market in Rome between the fifteenth and sixteenth century by means of the documentation of the Brotherhood of «San Salvatore» ad sancta sanctorum and that of the «Gonfalone». In keeping with some of the most powerful ecclesiastic institutions,
the two brotherhoods were among the first to invest in the development of urban real estate, anticipating, each in its own way, the up-turn in the city’s economics. The buying and selling of houses and
land for construction as well as for the rental market became part of the variables capable of recording
Rome’s new economic vitality during the Renaissance. These were the years of the pontiffs’ return after
the parenthesis in Avignon; it was the period of the humanist popes who favored Rome’s material and
intellectual rebirth; it was also the moment of the city’s great demographic growth and its affirmation as
an important multiethnic center. This was reflected not only in the increase of the number of transactions but also in the improvement and development of property, in view of an increase of revenue, thus
establishing areas of potentially high income and others of lower potential.
ILARIA PUGLIA
FOR THE HISTORY OF THE «FEDECOMMESSO»: THE PICCOLOMINI FAMILY’S
«PALAZZO DI SIENA» (1450-1582)
«Palazzo di Siena», which the house of Piccolomini had constructed in Rome in 1450, was the object of a «fedecommesso» that enabled its preservation within the noble family for more than a century.
The author, using unpublished manuscript documents, reconstructs the history of the palace highlighting the transformations undergone by the trust company over the centuries. Dating back to Roman law,
the «fedecommesso» consisted in a clause of will by which the testator stated inflexibly and meticulously
the succeeding passages of a property until a given generation or in perpetuity, declaring it inalienable.
In the sixteenth century the institute became noble families’ preferred means for maintaining their
heritage intact, most especially the family «palazzo», considered the asset which most contributed to the
recognition of the social status.
MANUEL VAQUERO PIÑEIRO
REVENUE AND TRANSFORMATION OF HOUSING IN ROME DURING THE
SIXTEENTH CENTURY
During the sixteenth century demographic growth fostered the city’s physical transformation. The
increase in population and wealth sparked a great demand for housing and work places and, consequently, a significant mutation in the urban fabric: new areas were built and those pre-existing became
more densely populated. Within this process of architectural transformation, particularly dynamic in
the States’ capitals, the principal land and real estate owners, the ecclesiastic institutions, played a primary role. They were forced to recognize and adapt to the process of urbanization. An example of this
can be seen in the church of San Giacomo degli Spagnoli’s choice to make a large financial commitment
for restoration work intended as an investment capable of increasing income as a response to the growing value of the Roman real estate market.
304
ABSTRACTS
AUGUSTO ROCA DE AMICIS
THE AREA OF «SANTA MARIA MAGGIORE AT THE TIME OF PAUL V BORGHESE:
CANONS, PRIVATE CITIZENS AND STRATEGIES FOR URBAN IMPROVEMENT
The essay concentrates on the analyses of the urban transformation around the basilica of «Santa
Maria Maggiore» during the years of its renewal by Paul V Borghese (1605-1621) and particularly on
the creation of Via Paolina. Such a project was the result of convergent interests: the desire of the pontiff
to build a residential zone to join the basilica and the existing populated area towards the Suburra and
the plans of the Santarelli family, with Liberian canon Odoardo and his brother Giovanni, owner of the
adjacent land, aimed at turning the property into a profitable building project. Also involved were other
private parties and the restoration of the fifteenth century residence of the Liberian patriarch. Thus a
series of interconnected interests worked effectively, highlighting the difference in strategy of those years
compared to the choices imposed by Sixtus V.
SONIA SCOGNAMIGLIO
PROPERTY AND GUILDS IN NAPLES BETWEEN THE SEVENTEENTH AND
EIGHTEENTH CENTURY. INSTITUTIONS, OWNERSHIP AND PROFITS IN THE
EUROPEAN URBAN ECONOMY DURING THE ANCIEN REGIME
The historiography of the Neapolitan guild system has emphasized the complete opposition on
the part of the guilds to the introduction of more developed forms of production and toward the
initiatives of those merchant-entrepreneurs who tried to organize production outside the guild-imposed restrictions. This article wishes to show that, instead, in another sector of the their economic
activity, the guilds adopted the opposite behavior, revealing an unusual entrepreneurial feeling. In the
administration of their real estate they actually showed a preference for strategies that increasingly assumed the characteristics of capitalistic management. Between the fifteenth and eighteenth century, the
Neapolitan professional groups aimed at extending, preserving and passing on their own property and
at having sufficient income to finance social welfare. They were well aware that income property was
a stable investment; an investment that guaranteed a narrower margin of risk than that of the financial
market and, in a growing city like Naples, offered increasing income.
CLARA ALTAVISTA
REAL ESTATE IN GENOA IN THE ANCIEN REGIME: AN URBAN PHENONEMNON
FROM THE VIEW OF THE «ALBERGO DEI POVERI» (1656-1798)
This study of real estate property in Genoa, from the second half of the seventeenth to the end of
the eighteenth century, deals with the real estate strategies of the those years in relation to the physical
transformation of the city: a period of Genoa’s urban history which has received little attention in its
overall characteristics. The varied strategies of the «Albergo dei poveri di Carbonara» aimed at the «petrification» of the funds, made it possible to draw a convincing picture of what the city was like and in
addition, to evaluate more clearly the real estate fortunes of a number of noble and bourgeois families,
which had devolved a part of their wealth or their entire estates to the charitable organization. The
modus operandi of the Institution and of the Genoese elites is outlined, including the factors behind it.
One, connected with the «capital’s» contemporary and future transformations, was the topographical
position of the various real estate properties. Another influencing element was each property’s «individual history», seen as the direct result of the modus vivendi of the families it was or had been associated
with. Thus a factor strictly dependant on the tight links established over time by the ancient geography
of the alberghi nobiliari, which had actively blocked Genoa’s urban development.
ABSTRACTS
305
SIMONETTA CIRANNA
THE «VERY MOST IMPORTANT INDUSTRY IN THE CITY OF ROME»: HOUSES,
SHOPS, WORKSHOPS AND STUDIOS OF ARTISANS IN STONE
The study analyses the conditions of ownership and of use, the typological characteristics and the
architectural transformation of a number of premises to be used for work, for commerce and for housing by three different artisans in stone. Francesco Sibillo (1784-1859), «pietraro» stone cutter, Filippo
Albacini (1777-1858), sculptor and Tommaso Della Moda (?-1854), stone mason. The circumstances
under which the three were, during the nineteenth century, to consolidate their activities in the area
between piazza di Spagna, piazza del Popolo and the Tiber tell the story of the increasing artisan specialization of this part of Rome; an area favored both by the presence of many artists and foreign travelers
entering the city through the Porta del Popolo and by the easy access to suppolies by means of the Tiber
and the Port of Ripetta.
DANIELA FELISINI
PROCEDURES AND TRENDS IN REAL ESTATE INVESTMENT IN NINETEENTH
CENTURY ROME
The essay analyses the nature of real estate investments in papal Rome and points out the tight
interconnection between economical and non-economical factors.It examines the effects of the demographic trends on the population’s distribution and density in the different districts of the city; it summarizes the principal public interventions on rental regulations; it takes note of the consequences of the
most significant political-institutional events; profits and real estate investment risks are compared to
alternative uses of capital. The essay also presents some examples of investments in constructions based
on a demand for lodgings tightly linked to the social transformations of the urban classes as well as to
the presence of numerous foreign colonies.What emerges is the picture of a complex market, one that
escapes the usual law of supply and demand, and is strongly conditioned by financial considerations,
juridical-institutional dispositions and by crucial symbolic values.
RAFFAELLA CATINI
THE NEW CONFIGURATION OF THE CAPITAL: THE OPENING OF THE TUNNEL OF
THE TRITONE AND PALAZZO GENTILE DEL DRAGO
This study reconstructs the events relative to the area in front of the north entrance of the tunnel by
means of the controversy that arose with prince Filippo del Drago, owner of the palace of the same name.
It does so on the basis of documentary and iconographic sources from the Capitoline Historic Archives
which have only recently been catalogued. Expropriated and partially demolished following the boring
of the Quirinale hill, the palazzo remained unfinished for a number of years due to the administration’s
uncertainty concerning the use of that city space. Forced to compensate the prince as long as he was denied
permission to reconstruct the front of his palazzo, the city of Rome preferred to resolve the question by
adopting the only solution that would permit the immediate cessation of the payments.
AUGUSTO CIUFFETTI
BIG INDUSTRY REAL ESTATE AND URBAN DEVELOPMENT: THE EXAMPLES OF
PIOMBINO AND TERNI BETWEEN THE NINETEENTH AND TWENTIETH CENTURY
The cities of Piombino and Terni represent a distinctive model of city development in the Italian
urban system at the end of the nineteenth century. In these particular cases the first transformations were
produced by the arrival of the large industrial complexes which were able to alter the equilibrium of centuries. In these cities, with their industrial configurations, the companies are not only the only to provide
lodgings, workers’ quarters and villages, or to influence the city administrations and the expansion of the
urban fabric, they also control all the available land on the edges of the city space, exerting complete power
over the configuration of the built up area and the transformation of the entire landscape.
306
ABSTRACTS
MASSIMILIANO SAVORRA
THE «CITY OF THE GENERALI»: INVESTMENTS, STRATEGIES, ARCHITECTURE
In 1833, a group of merchants from Venice and Trieste formed the «Assicurazioni Generali in
Trieste». From the beginning, the Assicurazioni enjoyed consistent financial means. From Trieste and
Venice it rapidly spread throughout all the Italian States and the Austrian territories of Europe’s Danube
basin and from here in successive steps, to almost all the European countries. By the eve of the First
World War, the insurance group was regarded among the most important and stable financial institutions. This degree of stability was given largely by strategic investment formulas and by relevant real
estate holdings: in a 1962 census it was shown to possess 350 buildings, two thirds of which located
in Italy, and nine estates, of which one in France: a veritable city, already referred to as the «City of the
Generali» in 1930.Is it possible to attribute a shape to an imaginary city?
How have the events of various types mutated its «boundaries» during approximately two centuries? Is it possible to define the variety of grafts and converging elements in such a «scattered» city? Has
this plurality permitted a co-existence without contrasts? Finally, what mechanisms have exercised the
actual control of the built spaces? The study attempts to answer these questions by comparing several
case studies on one hand and on the other, by outlining a general reference framework within which the
culture of the management groups may be understood.
ANNALISA DAMERI
THE CLIENTS OF THE BORSALINO FAMILY: THE PROJECTS FOR ALESSANDRIA
Between the final decades of the nineteenth and the first half of the following century a contemporary «new city» was built in Alessandria. The demolition of the fortified city walls (recent if compared
with other cities in Piedmont), the abolition of the customs boundaries (1922 law) and the introduction of a series of industrial enterprises within the area surrounding the historic center were all factors
that influenced the urban development. In particular, a fundamental role was played by the Borsalino
family (the father Giuseppe and his son Teresio were the heads of the hat factory by the same name).
Parallel to the take-off of the factory (founded in 1857), its production on a world wide scale and the
financial success of the enterprise, the Borsalino family increased their welfare activities. Teresio dedicated particular attention not only to running the hat factory, but also to the modernization of the city,
making a large financial contribution. Having inherited a flourishing manufacturing business with the
concrete prospect of continuing growth, allowed the future senator to dedicate a praiseworthy effort in
favor of the community of Alessandria.
SANDRA POLETTO
THE INVESTMENTS OF THE «SOCIETA REALE MUTUA» IN TURIN:
THE «LITTORIA» TOWER
The tall, multi-floored building rising in the historic «Piazza del Castello» is now an integral part
of the city skyline. The «Torre Littoria», built in the 1930’s by the architect Armando Melis and the
engineer Ciovanni Bernocco is considered an historic symbol of the regime, memento of years of conflict that were also especially significant for the shaping of Turin’s present image. The study of this
«fragment», a part of the urban reform programs for the historic center during the Regime years, makes
it possible to outline the coordinates of a discussion on the city, on those architectural symbols tied to
the regime, on the importance of the planned and built space. In particular, the building belonging
to the «Societa Reale Mutua di Assicurazioni» must be seen within the logic that brought about the
reconstruction of «Via Roma», an undertaking which was carried out only thanks to the great financial
investment in public works that followed the crisis of 1929. The article proposes to review the steps of
the debate that resulted in construction of the building as the result of the attempt to reconcile a plurality of at times contradictory requests, also highlighting the inspiration in Melis and Bernocco’s design
and their relationship with the historic context in which they worked.
Pubblicazioni ricevute
Alberto Caracciolo, Uno storico europeo, a cura C. CONFORTI, La città del tardo Rinascimento,
di G. Nenci, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 155, euro
14,00.
210, euro 15,00.
L’ambizione di essere città. Piccoli, grandi centri Domus et splendida palatia. Residenze papali e
nell’Italia rinascimentale, a cura di E. Svalduz, cardinalizie a Roma fra XII e XV secolo, a cura
Venezia, pp. 402, euro 54,00.
di A. Monciatti, Pisa, Edizioni della Normale, 2006, pp. 303, euro 35,00.
C. ALTAVISTA, Lucca e Paolo Guinigi (1400Esquilino e Castro Pretorio. Patrimonio storico1430): la costruzione di una corte rinascimentaartistico e architettonico del Comune di Roma,
le. Città, architettura, arte, Pisa, ETS, 2005 pp.
a cura di N. Cardano, Roma, Artemide,
258, euro 18,00.
2005, pp. 288, ill. 204 in b.n. e 27 a colori,
J.-L. ARNAUD, Damas. Urbanisme et archi- euro 30,00.
tecture 1860-1925, Arles, Actes Sud Sinbad,
Fare la città. Salvaguardia e manutenzione
2006, pp. 355, s.i.p.
urbana a Venezia in età moderna, a cura di S.
M. BALDASSARRI, Bande giovanili e «vizio ne- Zaggia, Milano, Bruno Mondadori, 2006,
fando». Violenza e sessualità nella Roma baroc- pp. 154, 45 ill., euro 16,00.
ca, Roma, Viella, 2005, pp. 174, euro 18,00.
St Paul’s: the Cathedral Church of London,
E. BELFIORE, Il verde e la città. Idee e progetti 604-2004, D. Keene-A. Burns-A. Saint (eds.)
dal Settecento ad oggi, Roma, Gangemi edito- (New Haven and London: Yale University
re, 2005, pp. 254, euro 45,00.
Press, 2004), pp. 538+390 ill., £ 65.
D. CALABI, Storia della città. L’età contempo- Living in the city (14th– 20th centuries), Atti
ranea, Venezia, Marsilio 2005, pp. 397+ ill., del Convegno (Roma, 27-29 settembre
euro 29,00.
1999), a cura di E. Sonnino, Roma, Casa
Editrice Università «La Sapienza», 2004, pp.
Campagne urbane. Paesaggi in trasformazio662, euro 36,00.
ne nell’area romana, a cura di A. L. Palazzo,
Roma, Gangemi, 2005, pp. 254, ill. b/n e R. MAMMUCCARI, Settecento romano. Storia,
colore, euro 30,00.
Muse, Viaggiatori, Artisti, Città di Castello,
Edimond, 2005, pp. 379, euro 55,00.
Città e ambiente tra storia e progetto, a cura
di V. Bulgarelli, Milano, FrancoAngeli, 2004, N. MARCONI, Edificando Roma Barocca. Macchine, apparati, maestranze e cantieri tra XVI
pp. 303, s.i.p.
e XVIII secolo, Città di Castello, Edimond,
La città eventuale. Pratiche sociali e spazio urba2004, pp. 348+78 ill., euro 42,00.
no dell’immigrazione a Roma, a cura dell’Università degli Studi “Roma Tre”-Dipartimento R. MASINI, Il Debito Pubblico Pontificio a fine
di Studi Urbani (DipSU)-Dottorato in Seicento. I Monti Camerali, Città di Castello,
Politiche Territoriali e Progetto Locale, Roma, Edimond, 2005, pp. 237, euro 24,00.
Quodlibet, 2005, pp. 163, euro 20,00.
308
PUBBLICAZIONI RICEVUTE
La mostra d’Oltremare. Un patrimonio stori- Santa Giulia. Un Museo per la Città, a cura di
co-architettonico del XX a Napoli, a cura di F. M. Castagnara Codeluppi, Milano, Edizioni
Lucarelli, Napoli, Electa Napoli, 2005, pp. Lybra Immagine, 2005, pp. 143, euro 25,00.
207, euro 30,00.
B. SECCHI, La città del ventesimo secolo, RomaH. OBERMAIR, Bozen Süd-Bolzano Nord, vol. Bari, Laterza, 2005, pp. 210, euro 14,00.
1, Bolzano, Città di Bolzano, 2005, pp. 472,
Statue di Campidoglio. Diario di Alessandro
s.i.p.
Capponi (1733-1746), a cura di M. FrancePer un Atlante Storico Ambientale Urbano, a schini e V. Vernesi, Città di Castello, Edicura di C. Mazzeri, Carpi, APM edizioni, mond, 2005, pp. 152+28 tavv. f.t., euro
2004, pp. 211, s.i.p.
24,00.
Le popolazioni del mare: porti franchi, città, isole Teaching urban history in Europe, a cura di
e villaggi costieri tra età moderna e contempo- R. Rodger-D. Menjot, Leicester, Centre of
ranea, a cura di A. Kalc-E. Navarra, Udine, Urban History, 2006, pp. 142, s.i.p..
Forum, 2003, pp. 128, euro 15,00.
Un patrimonio urbano tra memoria e progetti.
«Quaderni di Patrimonio Industriale. Roma. L’area Ostiense-Testaccio, a cura di C. M.
Industrial heritage. Archeologia industriale in Travaglini, Roma-Città di Castello, CromaItalia», I, 2005, 1, pp. 340, euro 20,00.
Università Roma Tre /Edimond, 2004, pp.
251, euro 30,00.
C.G. SEVERINO, Roma mosaico urbano, il
Una rete di città. Verona e l’area metropolitana
Pigneto fuori Porta Maggiore, Roma, Gangemi
Adige-Garda, a cura di M.Carbognin-E. Turrieditore, 2005, pp. 239, euro 30,00.
G. M. Varanini, Verona-Sommacampagna,
Retailers and consumer changes in Early Cierre Edizioni, 2003, pp. 334, euro 24,00.
Modern Europe. England, France, Italy
Villa Doria Pamphilj, a cura di C. Benocci,
and the Low Countries, Actes de la session
Roma, Municipio Roma XVI, 2005, pp. 319,
«Retailers and consumers changes» au sein
s.i.p. (collana dell’Archivio Storico Culturale
de la 7 Conférence internationale d’histoire
del Municipio Roma XVI).
urbaine «European city in comparative perspective» (Athènes–Le Pirée, 27-30 ottobre
2004), sous la direction de B. Blondé-E.
Briot-N. Coquery-L.Van Aert, Tour, Presses
Universitaires François-Rabelais, 2005, pp.
261, euro 30,00.
Roma Capitale nel XXI secolo. La città metropolitana policentrica, a cura di P. Salvagni,
Roma, Palombi Editori, 2005, pp. 207, euro
26,00.
Rome. 2700 ans d’histoire, a cura di J.-F.
Coulais-B. Marin, CD-Rom , realizzato in
collaborazione con la Bibliothèque nationale
de France, l’Ecole française de Rome, il Centro
per lo Studio di Roma-Croma (Università
degli Studi Roma Tre) e Spot Image, Parigi,
Belin, 2003.
NORME REDAZIONALI
1. TESTO
a) il file va inviato per e.mail ([email protected]) o
per posta su cd-rom al Croma (piazza Campitelli, 3 - 00186
Roma) in qualsiasi versione di Word (indifferentemente per
PC o per Macintosh). Si raccomanda vivamente di evitare
qualsiasi formattazione del testo, anche nell’andata a capo. Il
file avrà la denominazione: “cognome autore.testo”
b) insieme al testo dell’articolo dovrà essere inviato l’abstract
(in italiano e, possibilmente, in inglese) di max 1.000 caratteri o 190 parole; il file avrà la denominazione: “cognome
autore.abstract”
c) l’articolo dovrà riportare l’indicazione del numero di telefono, eventuale fax, e-mail e indirizzo postale dell’Autore;
l’Autore deve indicare l’eventuale ente di appartenenza.
2. IMMAGINI, TABELLE, GRAFICI
L’autore dovrà dichiarare che le immagini sono esenti da diritti ovvero dovrà segnalare le autorizzazioni ottenute per la
riproduzione. Le immagini devono essere fornite esclusivamente su cd-rom, in formato tiff o jpg, con una risoluzione
di almeno 300 dpi riferita alla dimensione cm 20x30. Vanno
contraddistinte da un numero progressivo (Fig. 1, Fig. 2, ...)
e associate a una didascalia con indicazione di autore, soggetto, datazione e fonte. Il file contenente le didascalie avrà la
denominazione: “cognome autore.dida”.
Le tabelle avranno una loro numerazione ed intestazione (in
corsivo); si raccomanda di evitare formattazioni.
I grafici avranno una loro numerazione ed intestazione (in
corsivo); per essi, inoltre, l’A. dovrà fornire non solo l’immagine ma anche la base dati in excel in modo da consentire una
corretta impaginazione.
3. CITAZIONI
a) le citazioni brevi (2-3 righe) vanno tra virgolette caporali («
») con il rinvio alla fonte; le citazioni più lunghe (infratesto)
vanno separate dal testo, in corpo minore e senza virgolette;
b) eventuali citazioni contenute in detti brani vanno contraddistinte con virgolette doppie in alto (“ ”); c) eventuali
omissioni vanno indicate con tre puntini tra parentesi quadre
[…]; d) per facilitare la lettura è preferibile sciogliere le abbreviazioni contenute nei brani riportati nonché modificare la
punteggiatura e l’accentazione secondo l’uso moderno.
4. MAIUSCOLE
Le maiuscole vanno usate il meno possibile attenendosi alla
massima uniformità in tutto il contributo: a) vanno lasciate
quando una denominazione fa corpo con il nome proprio
cui si accompagna (nel caso di Istituto e di toponimo); b)
Santo, San, Santi vanno maiuscoli solo nella denominazione
di chiese, basiliche, ecc., e vanno comunque citati sempre per
esteso; c) le denominazioni di magistrature, enti, fondazioni,
istituzioni, accademie, ecc. vanno maiuscole, in tondo anche
se straniere, in tutte le iniziali delle parole che le compongono; d) le sigle vanno maiuscole e senza punto (BNL, INPS,
CEE, ecc.); e) le parole: chiesa, basilica, monastero, tempio,
porta, ecc. vanno minuscole (ad eccezione di: Porta Pia, Basilica Vaticana, Acquedotto Felice, ecc.); f ) Vanno maiuscoli:
Paesi nel senso di nazionalità, Stato e Chiesa intesi come istituzione, Regione, Provincia, Comune intesi come autorità;
così pure Codice e Raccolta, quando sono seguiti da nome
proprio; Seminario, Convegno, Colloquio, ecc. quando sono
seguiti dal titolo; i secoli come Cinquecento, Ottocento, ecc.,
e anni Venti, anni Quaranta, ecc..
5. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
a) nome puntato e cognome dell’autore in tondo seguito da
virgola (nel caso di più autori, i nomi vanno separati da un
trattino); b) titolo dell’opera o dell’articolo per intero, in corsivo, seguito da virgola (nel caso di titolo in una lingua straniera, diversa dal francese, inglese, spagnolo e tedesco, si darà
la traduzione in lingua italiana tra parentesi quadre); c) luogo
di pubblicazione; nome dell’editore e per le edizioni antiche
del tipografo; data di pubblicazione; rinvio alla pagina (p.) o
alle pagine (pp.).
Per le opere in più volumi, dopo il titolo si indicherà il numero dei volumi (in numeri arabi), seguiranno il luogo, l’editore, l’anno (o gli anni) di pubblicazione, l’indicazione specifica
del volume (in numeri romani) e delle pagine cui si intende
fare riferimento. Con l’eccezione di dizionari, enciclopedie,
ecc. per i quali si darà solo l’indicazione bibliografica del volume citato.
Per le opere anonime e per le opere collettive si darà indicazione del solo titolo come sopra (non preceduto da “AA.
VV.”), seguito dall’indicazione dell’eventuale curatore (in
tondo, con la sola iniziale del nome); per le opere straniere
è preferibile dare l’indicazione “a cura di” nella lingua originale, come compare nel frontespizio; per gli atti di convegni
seguirà, in tondo e preceduta da una virgola, l’indicazione:
Atti del convegno … (luogo, data).
Per gli articoli di riviste indicare, come sopra, nome dell’autore (in tondo) e titolo dell’articolo (in corsivo), quindi segue
il titolo del periodico tra virgolette caporali («Città e Storia»,
non preceduto da “in”), l’indicazione dell’annata in numeri
romani, dell’anno solare, del fascicolo dell’anno (non preceduto da “n.” né da “fasc.”), delle pagine complessive e, se
del caso, della/e pagina/e cui ci si intende specificatamente
riferire (le pagine estreme vanno indicate per esteso: pp. 235254); ad esempio: G. Giarrizzo, Intellettuali e Mezzogiorno
nel secondo dopoguerra, «Studi Storici», XX, 1979, 1, pp. 91110: 93.
Per contributi in opere collettive o in raccolte miscellanee
si indicherà autore e titolo del contributo come sopra aggiungendo altresì (preceduti da “in”) i riferimenti completi
dell’opera collettiva in cui è contenuto, inclusa la specificazione delle pagine relative all’insieme del contributo, seguirà
l’eventuale specificazione di particolari pagine cui ci si intende riferire.
Quando si ripete a distanza la citazione da uno stesso libro o
articolo si indicherà, come di consueto, l’autore e, invece, in
forma abbreviata (limitata alle due o tre parole iniziali) il titolo, seguito dalla virgola e dall’espressione “cit.” (in tondo); seguirà l’indicazione della pagina/e. Non si daranno altre indicazioni di luogo e di data. Quando la seconda citazione segue
immediatamente la prima si userà l’abbreviazione “Ibidem”
in corsivo senza indicazione di pagina se ci si riferisce ad altra
riga dello stesso luogo, ovvero l’abbreviazione “Ivi” in corsivo
con indicazione di pagina se ci si riferisce ad altro luogo.
6. PER LE CITAZIONI DI DOCUMENTI D’ARCHIVIO E DI MANOSCRITTI
a) successivamente agli eventuali riferimenti relativi allo specifico documento, si darà indicazione dell’archivio (in tondo),
del fondo e di eventuali serie (in corsivo), della busta o registro e, infine, eventualmente, della carta con specificazione
recto o verso; b) qualora le citazioni di documenti d’archivio
si ripetano più volte, occorrerà premettere alle note un’avvertenza non numerata, e collegata con asterisco al titolo, nella
quale si darà l’elenco delle abbreviazioni usate, es.: ASR =
Archivio di Stato di Roma; BAV = Biblioteca Apostolica Vaticana; c) il titolo di documenti manoscritti andrà citato in
tondo tra virgolette caporali; d) per i rinvii alle pagine di un
manoscritto si useranno le seguenti abbreviazioni: c. = carta;
cc. = carte; r = recto; v = verso.
Infine, si raccomanda in particolare di indicare sempre nella citazione di volumi: l’editore; nella citazione di articoli:
gli estremi completi della rivista (annata, anno, fascicolo,
pagine entro le quali è compreso il testo completo dell’articolo). Si prega infine di evitare qualsiasi formattazione/tabulazione del testo.
a cura di Roberta Morelli e Maria Luisa Neri
con saggi di:
C. ALTAVISTA, R. CATINI, S. CIRANNA, A. CIUFFETTI, A. DAMERI, S. DIONISI, D. FELISINI, M.S.
POLETTO, I. PUGLIA, A. ROCA DE AMICIS, M. SAVORRA, S. SCOGNAMIGLIO, M. VAQUERO PIÑEIRO
Città & Storia
La cifra della città
Architetture ed economie in trasformazione
01
06
Città e Storia: il progetto
M. RONCAYOLO, Plaidoyer pour une histoire de l’histoire urbaine
NOTE E DISCUSSIONI
contributi di:
E. SORI – C. M. TRAVAGLINI – G. ZUCCONI
CONVEGNI, SEMINARI, MOSTRE, INFORMAZIONI
contributi di:
M. BARBOT – D. CALABI – A. CARACAUSI – G. L. FONTANA – L. NUTI – S. PACE – R. TAMBORRINO – G. VERTECCHI
Prezzo del volume € 25,00
Semestrale - Sped. in A. P. - Art. 2, comma 20/c - Legge 662/96 - Filiale di Roma
ISSN 1828-6364