Le architetture per l`acqua nel Parco di Caserta

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Le architetture per l`acqua nel Parco di Caserta
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Desidero ringraziare quanti, durante questi anni trascorsi dalla discussione della tesi di dottorato, mi hanno accompagnato nella redazione del presente volume. In primo luogo i miei familiari e mia moglie Fiamma, costante presenza al
mio fianco, che mi hanno sostenuto con entusiasmo e incrollabile fiducia. Il Prof. Cesare Cundari, sicuro orientamento
e prezioso sostegno in ogni passo della mia ricerca. La Prof.ssa Laura Carnevali, per gli opportuni consigli. I colleghi
di dottorato e di dipartimento e gli amici che mi hanno aiutato nell’affrontare e risolvere difficoltà piccole e grandi.
Infine Alessandra, che ha creduto in questa pubblicazione.
Giovanni Maria Bagordo
Le architetture per l’acqua
nel Parco di Caserta
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28-07-2009
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senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: luglio 2009
a Marcello e Maddalena
a Fiamma
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INDICE
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PRESENTAZIONE
INTRODUZIONE
1. ALLA SORGENTE. PRESUPPOSTI DEL PARCO DELLA REGGIA DI CASERTA
Il giardino francese
La figura e l’opera di André Le Nôtre
La frattura con il passato: Vaux-le-Vicomte
La Reggia di Versailles e la sua simbologia
Influenze dei giardini italiani
La diffusione del giardino francese in Europa
La figura del committente: Carlo di Borbone
Il sito della Reggia di Caserta
2. LA LUNGA STRADA DELL’ACQUA. PROBLEMATICHE E SOLUZIONI
DELL’APPROVVIGIONAMENTO IDRICO DA VERSAILLES A CASERTA
L’approvvigionamento idrico di Versailles
Gobert e Picard: il sistema di collegamento degli Stagni limitrofi all’area di Versailles;
l’acquedotto di Buc
Riquet, La Hire e Vauban: la deviazione della Loira e dell’Eure; l’acquedotto di Maintenon
De Ville e Sualem: la Macchina di Marly; l’acquedotto di Louveciennes
L’Acquedotto Carolino
3. DI FONTANA IN FONTANA.
IL RACCONTO DELL’ACQUA NEL PARCO DI CASERTA
Analisi del primo progetto per il Parco
La simbologia sottesa al primo progetto del Parco: ipotesi e suggestioni
Il Parco realizzato: analogie e differenze con il progetto della Dichiarazione
L’asse centrale del parco
Il disegno unitario delle fontane dell’asse centrale
Prospettive vichiane. Una lettura dell’asse centrale come asse della Storia
La ricomposizione in unità del progetto e della realizzazione
4. PER GIOCO E PER PIACERE.
LA MOLTEPLICE FRUIZIONE DELLE ARCHITETTURE PER L’ACQUA
Il piacere e il gioco nel Parco di Caserta
Dalla Peschiera alla Castelluccia
Il piacere dei sensi: il Giardino Inglese
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
INDICE DEI NOMI
INDICE DEI LUOGHI
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
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PRESENTAZIONE
Questo volume dell’arch. Giovanni Maria Bagordo costituisce un importante contributo alla
conoscenza di Luigi Vanvitelli , una personalità difficilmente inseribile all’interno di una schematicità
dettata da una suddivisione in stili o correnti artistiche: né ancora totalmente barocco, né del tutto già
neoclassico. Figura di transizione in una società dai profondi cambiamenti – caratterizzata soprattutto
dal passaggio da un concezione di monarchia assoluta, l’Ancien Régime, ad una di monarchia illuminata – Vanvitelli ne rispecchia pienamente le contraddizioni, riassumendole ed integrandole nella sua
figura. Architetto, certamente, la cui attività è sempre basata su un attento studio delle opere antiche
e di quelle a lui contemporanee, nel costante rispetto della triade vitruviana di firmitas, utilitas e venustas; pittore, come amava definirsi egli stesso – sicuramente grazie anche alla sua formazione dovuta, in primo luogo, al padre Gaspar – e membro dell’Accademia di S.Luca, ma anche ingegnere
esperto in idraulica (se volessimo utilizzare una distinzione in figure professionali tipica dell’età contemporanea) la cui perizia, formatasi negli interventi effettuati nei dintorni di Roma – ad esempio
l’acquedotto di Vermicino – raggiunge il suo apice nel grandioso Acquedotto Carolino. Ma anche
abile scenografo – emblematiche le soluzioni per lo scalone del Palazzo Reale; non va, però, dimenticato l’estro dimostrato per le varie mostre d’acqua allestite nel corso dei lavori dell’acquedotto – e
maestro nell’arte dei giardini.
Vanvitelli è, in una parola, un artista a tutto tondo, erede delle esperienze del passato ed espressione
dell’ambiente culturale e scientifico della sua epoca, ma anche promotore di nuove soluzioni
architettoniche valide per il futuro; la sua fama è legata in modo particolare alla Reggia di Caserta,
l’opera alla quale consacrò lunghi anni di attività alla corte dei Borbone, dal 1752 sino alla morte avvenuta nel 1773, nella cui ideazione e realizzazione Vanvitelli trovò occasione per le necessarie sintesi
culturali e progettuali.
È utile ricordare che, negli anni recenti, ho curato sia l’attività di rilievo del Palazzo Reale di Caserta,
che quella del rilievo parziale dell’annesso parco; tra le due merita di essere segnalata, in particolare,
la prima per il folto numero di giovani studiosi (tra i quali lo stesso arch. Bagordo) e collaboratori
(alcune decine) che vi sono stati coinvolti, mentre entrambe hanno evidenziato la poliedricità tecnica
del Vanvitelli, capace di governare con eguale abilità i vari problemi che in quell’epoca si presentavano
sia nella costruzione del Palazzo Reale che nel governo del territorio per la realizzazione del grandioso
acquedotto.
Lo studio condotto dall’arch. Bagordo permette di approfondire la conoscenza su questo artista, anche
attraverso il confronto diretto con le sue parole, tratte dalle lettere indirizzate al fratello Urbano (la cui
raccolta e pubblicazione si deve a D. Franco Strazzullo), e con peculiare, particolare riferimento ad
una parte della sua opera di grande importanza, l’Acquedotto Carolino. In effetti nella realizzazione
della nuova Città dei Ministeri (questo avrebbe dovuto essere nei disegni originari la nuova Reggia
Borbonica) particolare importanza dové essere riservata all’approvvigionamento idrico necessario ad
alimentare i nuovi giardini di corte, ma anche per integrare le risorse d’acqua già disponibili per la capitale del regno. Le opere che furono progettate e realizzate, per quanto nate con carattere di servizio
rispetto al programma edificatorio della grande reggia, non sono tuttavia di minor rilevanza, ma ne rappresentano, con propri caratteri architettonici, il necessario completamento.
Dallo studio svolto – sulla base di una conoscenza approfondita e di una esposizione colta e al tempo
stesso chiara ed avvincente – emerge così, in modo indiscutibile, innanzitutto la necessità di riaffermare
l’unicità del complesso costituito dal Palazzo Reale, dai giardini e dall’Acquedotto Carolino, ricor9
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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dando che l’opera vanvitelliana si estende sul territorio per una profondità di oltre circa 40 chilometri.
Un secondo carattere significativo di questo volume dell’arch. Bagordo riguarda l’analisi delle architetture presenti nel Parco, restituendo il giusto valore ad una parte dell’opera non sempre pienamente
compresa, anche perché parzialmente realizzata; la trattazione proposta integra quelli che, il più delle
volte, sono semplici elenchi delle fontane – a partire dalla Platea del Cavalier Sancio – così da permettere di riaprire il dibattito culturale anche su questo particolare aspetto dell’attività di Vanvitelli.
Un contributo significativo ed originale, quindi, questo dell’arch. Bagordo che, attingendo tra l’altro
all’esperienza direttamente e lungamente maturata nel rilievo della stessa fabbrica vanvitelliana, si
pone decisamente in prosecuzione con gli studi già pubblicati sul Palazzo Reale.
Cesare Cundari
Professore Ordinario di Disegno dell’Architettura
“Sapienza” Univesità di Roma
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INTRODUZIONE
Com’è possibile che l’acqua mantenga sempre la
sua struttura, anche se cambia in continuazione? 1
Acqua ed architettura costituiscono da sempre un
binomio indissolubile di elementi che all’apparenza possono sembrare estranei ma che, in realtà, risultano interdipendenti l’uno dall’altro.
Come l’acqua, intimamente legata alla vita in
tutte le sue manifestazioni ed elemento trasparente, proteiforme e mobile per eccellenza, non
può essere utilizzata dall’uomo se non con un’architettura di supporto che la contenga e la incanali, così l’architettura nata a servizio dell’acqua
ne assume le molteplici forme e si differenzia in
molteplici funzioni. Grazie alla sapiente combinazione con la fantasia ed il genio creativo dei
progettisti, l’elemento liquido è riuscito a manifestarsi, nel corso dei secoli, al massimo delle
proprie potenzialità.
Acquedotti, serbatoi, cisterne, architetture nate
per rispondere ai bisogni fondamentali legati all’approvvigionamento ed all’accumulo di risorse
idriche, si sono progressivamente trasformate in
peschiere, vasche decorative, bacini di raccolta, e,
soprattutto, fontane dedicate allo svago, al divertimento, al piacere dei sensi.
A volte le forme dell’architettura sono ridotte alla
pura struttura esibita, come nel caso degli acquedotti; altre volte, invece, la struttura è celata per
far emergere principalmente le valenze estetiche.
In ogni caso, in uno scambio reciproco, l’acqua,
incanalata in impianti dagli studiati percorsi sotterranei, quando emerge alla luce è costretta ad
assumere le forme dettate dall’architettura nata
per il suo servizio, divenendone, a sua volta, il
principale completamento. Questo felice connubio è espresso, in modo ancor più puntuale e pregevole, nel campo dell’arte dei giardini.
È il giardino stesso che lo richiede, necessitando,
in primo luogo per la sua sopravvivenza, di abbondanti quantità di acqua per l’irrigazione.
Villa Adriana a Tivoli può essere considerato il prototipo dei giardini formali. Nel Canopo, architettura, scultura ed elementi
naturali - in primo luogo l’acqua - risultano interdipendenti e complementari.
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Ma la trasformazione del giardino in luogo di delizie, a cominciare dai pairi-daëza2 dei Gran Re
iranici, comporta l’aggiunta di valenze estetiche
– quali il riflesso della luce sulla superficie mobile dei canali o il suo rifrangersi tra le infinite
gocce delle fontane – sensoriali – il suono dello
scorrere di un ruscello contrapposto allo scrosciare di una cascata – e ludiche.
Fin dal principio, infatti, il giardino è visto come
riproduzione dell’eden perduto o come tentativo
di ricreare un luogo in cui, come nella mitica età
dell’oro, regni un’eterna primavera che renda
sempre disponibili fiori e frutti per l’uomo.
Fin dal principio, perciò, l’acqua risulta addomesticata, incanalata e inserita nell’armonia della
composizione generale.
Accanto alle riserve ed ai sistemi di irrigazione,
i giochi d’acqua erano già presenti nei giardini
delle case romane. Nel medioevo i chiostri monastici ed i giardini islamici sono caratterizzati da
una simile struttura, quadripartita tramite sentieri
Parco di Versailles. Jean-Baptiste Jouvenet, Temperamento
sanguigno, 1675-1680.
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o canali d’acqua, che, nel secondo caso, costituisce un’eredità della cultura persiana, mentre nel
primo è un diretto riferimento ai quattro fiumi del
Paradiso terrestre.
Il Rinascimento vede, a partire dai due grandi
centri culturali di Roma e Firenze, l’affermazione
e il diffondersi dei giardini signorili. È la nascita
del “giardino formale”, dai caratteri accuratamente codificati, in cui lo spazio circostante la
dimora signorile diviene immagine dell’universo
ed universo esso stesso.
Il giardino, all’origine mera estensione del palazzo, ne diviene quindi il necessario ampliamento nelle belle giornate di sole, la prosecuzione ed
il completamento degli spazi di rappresentanza,
sostituendo, alla successione di stanze, quella dei
viali e, a partire dal Seicento, dei parterres e dei
boschetti. Come accade per le sale dell’edificio,
anche gli spazi esterni sono caratterizzati ognuno
da un tema originale e peculiare.
In un richiamo continuo tra interno ed esterno, le
pareti si trasformano in abbracci di fronde, la luce
del sole si frammenta in mille riflessi che scivolano sui vetri delle finestre come sulle superfici di
pietra o di bronzo ed il tintinnio dei cristalli si
contrappone al suono argentino delle fontane.
Tra realtà e illusione il giardino ed il palazzo sono
palcoscenico per la rappresentazione del proprietario, la sua celebrazione ed esaltazione e l’ostentazione della sua potenza economica, politica,
intellettuale.
I viali, i sentieri, gli spiazzi, sono modellati in
forme geometriche e accuratamente delimitati da
altrettanto geometriche architetture vegetali fatte
di aiuole, siepi, filari di alberi. Tra esse, nel
mezzo degli spazi aperti come all’interno dei boschetti nascosti, lungo i viali ed i bacini, ma soprattutto nei punti nodali di intersezione tra gli
assi dei rigidi impianti ortogonali, fiorisce un universo di statue e, laddove queste si uniscono all’acqua, di fontane, secondo un modello che trae
origine dalla villa di Adriano a Tivoli.
Le statue rendono vivo il giardino, costituendone
il completamento non solo decorativo, ma anche
semantico, poiché narrano storie nel verde e lo
animano con la grazia delle loro forme, con la
luce che scivola sulle superfici, con l’acqua che
gioca sulla pietra e sul metallo e, addirittura,
Introduzione
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anche con la neve che, in inverno, contribuisce a
sottolinearne i tratti principali.
La presenza della statuaria è fondamentale, nel
desiderio di far rivivere il mondo antico. Ma poiché ogni parte del giardino formale ha soprattutto
funzioni celebrative del committente, la statuaria
corrisponde sempre ad un programma ideologico
ed iconografico ben preciso e non ad una gratuità
decorativa legata all’estro ed al capriccio.
Letterati e umanisti, riuscendo nella sintesi tra
mitologia pagana e pensiero cristiano, hanno consentito il riutilizzo di vecchi miti al fine di illustrare nuove idee. Le statue delle divinità,
ufficialmente morte da più di un millennio, non
sono più immagini di sé stesse, ma rappresentano
una “mitologia” propria del committente e legata
alla sua peculiare storia.
Un intero popolo di dei, eroi, mostri, animali reali
o immaginari, personificazioni di fiumi, allegorie
di elementi e stagioni, trasforma i giardini in percorsi ermetici per i quali è necessario conoscere
perfettamente i miti antichi al fine di comprendere anche la nuova simbologia.
In questi percorsi l’acqua svolge sempre un ruolo
da protagonista, divenendo filo conduttore di un
racconto che si snoda tra le varie parti del giardino,
animando e completando la narrazione con la propria presenza, trasformando la propria essenza
nell’essenza degli oggetti a cui dona voce. Ad
esempio in Villa Lante a Bagnaia l’acqua diviene
fuoco nella Fontana dei Lumini, in cui il riflesso
della luce sulle gocce sembra accendere la fiamma
di decine di candele. A Versailles, invece, nella
Fontana di Encelado, l’acqua materializza, in un
getto alto più di 30 metri, il grido lanciato dal gigante travolto dai macigni lanciati da Zeus.
Il giardino formale assume, così, nel periodo tra il
XVI ed il XVIII secolo, aspetti volti sempre più alla
magnificenza e all’opulenza, legati, nella trasformazione del giardino italiano in quello francese, all’affermazione del potere Reale dell’Ancien
Régime.
Al contrario, nel Settecento, con l’affrancarsi dal
rigore delle forme proprio degli impianti geometrici, si determina sempre più il rifiuto del predominio degli elementi architettonici nel giardino,
che divengono complementari, accessori e non
più caratterizzanti.
Parco di Versailles. Fontana di Encelado. Il gigante lancia un ultimo grido verso il cielo.
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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È il paesaggio – inteso come unione di elementi
naturali ed antropici – ad assumere un ruolo predominante, in relazione agli effetti pittorici prodotti ed all’impatto emotivo generato, sulla scorta
delle più recenti rappresentazioni di Claude Lorrain o di Nicolas Poussin. Tale assunto, che consente un predominio – solo apparente – della
natura sull’arte, in contrapposizione alla manifesta artificiosità dei secoli precedenti, vede tuttavia, ancora una volta, la necessità di una profonda
interazione tra architettura ed acqua, sebbene con
forme proprie e del tutto innovative.
Nel giardino paesistico, infatti, orografia, idrografia e vegetazione non sono lasciati nel loro
stato, ma vengono modificati artificialmente per
assumere un aspetto “naturale”, spontaneo e piacevole, confacente allo stato d’animo che si vuole
abbia chi osserva quel paesaggio.
Di conseguenza anche l’acqua, sia che si presenti
sotto forma di ruscello, sia che assuma l’aspetto
di lago o di cascata, rifiuta il suo legame con l’architettura – anche se in realtà è manipolata ed inserita all’interno di un paesaggio costruito
“architettonicamente” – in funzione dei particolari sentimenti di gioia, di serenità o di malinconia che si vogliono suscitare.
Pertanto, la scelta di analizzare le architetture per
l’acqua, presenti all’interno del Parco della Reggia di Caserta, assume una particolare rilevanza e
si dimostra alquanto felice sotto molteplici
aspetti.
In primo luogo tale scelta permette di osservare,
da un anomalo, ma fondamentale, punto di vista
Reggia di Caserta. Prospetto principale.
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ravvicinato, quello che può essere considerato
l’ultimo esempio di quella felice unione tra acqua
ed architettura, nell’accezione fin qui espressa, in
un organismo architettonico dalle forti valenze
storiche e culturali. La costruzione della Reggia
di Caserta, concepita da Carlo di Borbone3,
asceso al trono nel 1734, per essere il nucleo di
una nuova capitale4 e non in contrapposizione a
Napoli5, è, infatti, emblema del periodo di transizione dall’Ancien Régime all’Illuminismo, del
passaggio dall’affermazione del potere assoluto
del re a quella di un assolutismo illuminato, di cui
il Regno di Napoli6 costituisce «il teatro del
primo grande esperimento del Settecento riformatore italiano»7.
In secondo luogo, ripercorrere le fasi di realizzazione del progetto vanvitelliano del Parco, permette di soffermarsi sui momenti significativi della
costante evoluzione dal giardino formale italiano a
quello francese. È, a tal proposito, utile ricordare
che, per quanto da molta critica, soprattutto estera,
il Parco di Caserta venga definito ultimo episodio
di quella reiterazione del modello di Versailles avvenuta presso le corti europee tra XVII e XVIII secolo, è lo stesso Vanvitelli a ribadire la derivazione
di qualunque giardino, compreso il Parco di Versailles, dai modelli italiani di Villa Lante a Bagnaia
e Villa Aldobrandini a Frascati.
Infine, è fondamentale tener presente che il progetto del Parco di Caserta è inscindibile dalla costruzione del Palazzo Reale. L’analisi delle
architetture per l’acqua presenti nel Parco – intendendo con questo termine anche l’acquedotto
Introduzione
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a cui è strettamente collegato – consente di comprendere meglio e definire i molteplici aspetti
dell’opera di Luigi Vanvitelli – e della sua personalità – con riferimento al particolare periodo storico in cui avvenne tale realizzazione.
La storia dell’edificazione della Reggia riflette,
infatti, le inquietudini e le incertezze del periodo
storico a cui appartiene. Ad esse si aggiungono le
continue oscillazioni dovute ad eventi contingenti, tra cui spicca, come motivo principe, la
partenza del re Carlo da Napoli per salire al trono
di Spagna. Il cambiamento dei rapporti tra committente ed architetto, in particolare la perdita di
quella comunione di intenti che permetteva a
Vanvitelli maggiore libertà di azione, è all’origine
dell’incompiutezza di numerose parti dell’opera
e di numerosi rallentamenti nei lavori, dovuti soprattutto a motivi economici. Inoltre il nuovo re,
Ferdinando, non dimostrò mai un vero interesse
nel proseguire l’opera paterna, preferendo, appena possibile, dedicarsi alla realizzazione del
nuovo sito di S.Leucio.
Ovviamente anche il Parco ha risentito delle difficoltà economiche incontrate nonché della mutevolezza del gusto estetico dell’epoca. Alla morte
di Vanvitelli, avvenuta nel 1773, gran parte dell’asse centrale non era ancora terminato, mentre
l’affermarsi del gusto paesistico portò al progressivo disinteresse per il giardino formale ed alla
realizzazione, da parte del figlio Carlo, di un
Giardino Inglese in un’area limitrofa a quella prevista dal padre.
Ancora aperto risulta, perciò, il dibattito culturale
attorno a questo monumento che, al giorno
d’oggi, porta impresso il segno evidente di tutte
le oscillazioni di gusto e pensiero che furono alla
sua origine8. In maniera più equilibrata si potrebbero assumere le posizioni di Rudolf Wittkower,
che riconosce nella logica stringente e nell’amore
per la forma geometrica assoluta le «caratteristiche che hanno una lunga genealogia in Italia e rivelano, allo stesso tempo, il razionalismo e il
classicismo del Vanvitelli»9. Allo stesso tempo,
però, osserva sempre Wittkower, «il modo scenografico di progettare e di vedere lega saldamente il Vanvitelli al tardo barocco, ed è sotto
questa luce che il suo classicismo assume un sapore particolare»10.
Il presente contributo, pur non volendo entrare
nel merito della questione, si propone, perciò, di
cogliere gli elementi caratterizzanti dell’opera di
Vanvitelli – anche in relazione agli aspetti maggiormente inerenti il campo dell’ingegneria
idraulica – senza, per questo, iscrivere la sua figura nei rigidi canoni di una determinata corrente
artistica, al fine di fornire gli strumenti necessari
per una sua interpretazione che ne palesi pienamente il valore.
___________________
NOTE
1. Andrew CRUMEY, Pfitz o la ricerca della Città Perfetta,
Ponte alle Grazie, Milano, 2002, p. 93.
2. Pairi-daëza vuol dire, in persiano, “parco reale di caccia e di piacere”, da cui i termini pardës in ebraico e
parádeisos in greco, fino all’italiano “paradiso”. Cfr.
Franco CARDINI, Massimo MIGLIO, Il giardino delle delizie, in «Medioevo», VI, n. 4, 2002, p. 43.
3. «Carlo di Borbone, figlio di Filippo V ed Elisabetta
Farnese, resta sul trono di Napoli fino al 1759, quando,
per la morte senza eredi di Ferdinando VI, assume la
corona spagnola. Nel tempo eroico della dinastia, sostenuto dal suo ministro di Grazia e Giustizia, il toscano Bernardo Tanucci, re Carlo promuove la riforma
dei tribunali, fondata sui controlli e le limitazioni delle
giurisdizioni feudali, l’avvio di un progetto di codificazione del diritto; crea nel 1739 il Supremo Magistrato
di Commercio; mette in atto il primo serio tentativo di
riforma fiscale globale, attraverso l’istituzione del catasto onciario. L’azione riformatrice prosegue, forse
con minore efficacia, nel periodo della Reggenza, dominato dalla figura di Bernardo Tanucci, diventato
primo ministro, che affronta per la prima volta questioni forse mai sistematicamente affrontate nel governo del Mezzogiorno: la riforma delle finanze
comunali, il rafforzamento delle magistrature periferiche del Regno di Napoli». Aurelio MUSI, Assolutismo,
riforme, rivoluzione, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, Salerno Editrice,
Roma, 1998, vol. VI, p. 30.
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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4. A tale proposito è da osservare come la regina Maria
Amalia avesse espressamente richiesto a Vanvitelli regole precise anche per le abitazioni che si sarebbero
costruite attorno al palazzo Reale.
5.
La nascita della Reggia di Caserta è completamente
diversa da quella di Versailles, considerata da Luigi
XIV come luogo in cui fuggire da Parigi. Il Palazzo
vanvitelliano è, invece, idealmente e materialmente
collegato alla capitale partenopea attraverso il lungo
stradone di accesso.
6. Tuttavia ricorda Saverio Ricci: «Quanto potesse essere
difficile, a Napoli, per cultura dei Lumi, filtrare attraverso le pareti della reggia e influenzare la politica del
Regno dice con impietosa crudezza uno dei più
notevoli despoti illuminati del secondo Settecento,
Giuseppe d’Asburgo, che, inviato nel 1769 dall’imperatrice Maria Teresa presso la corte di Ferdinando IV di
Borbone a studiare la situazione in cui si trovava la
figlia Maria Carolina, sposa da qualche tempo con l’indolente e bislacco figlio ed erede di Carlo III, ne scrisse
una relazione stupefacente quanto arrendevole, conclusa con le sconsolate parole: “in quel paese non vi è
assolutamente nulla da fare, neanche dare consigli…
che si arrangino da soli”. L’atmosfera rilassata e gaudente che qualche decennio più tardi avrebbe incantato
Goethe, facendogli scoprire che il re di Napoli se la
spassa tanto e come l’ultimo lazzarone, scandalizzò
l’austero figlio di Maria Teresa, che, una volta sul trono
imperiale, avrebbe incarnato più di ogni altro sovrano
europeo l’ideale di una monarchia profondamente impegnata nella promozione del bene comune, rischiarata
dalla scienza e dalla filosofia. Giuseppe trovò che suo
cognato, il re di Napoli, “non solo detesta leggere, ma
quasi più ancora quelli che lo fanno”, e impedisce alla
regina di dedicarsi a questo istruttivo impegno; Ferdinando dimostra “una tale inerzia di spirito […] che oso
dire quasi con certezza che quest’uomo in vita sua non
ha mai riflettuto né su se stesso, sulla sua esistenza
fisica e morale, né sulla sua situazione, i suoi interessi,
il suo paese […]”. Nella relazione di Giuseppe d’Asburgo l’unico uomo di senno e abilità che si incontra è
l’onnipotente ministro Bernardo Tanucci (1698-1783),
reputato però troppo ingiustamente “un Tartuffe, umile
in apparenza […] un furbastro”, che tiene padre e
figlio, Carlo III re di Spagna e Ferdinando IV re di Napoli, “nell’inerzia a lui necessaria, rimuove la verità e
la gente onesta da tutt’e due, infine non pensa che a se
stesso e impiega per il suo benessere tutti i mezzi leciti
ed illeciti”. In realtà, sconfitta e arretrata di molti passi,
nel corso degli anni Quaranta, l’azione riformatrice avviata da Carlo di Borbone all’inizio del suo regno, a
causa della durissima resistenza del clero e della feudalità, Tanucci – questo assai dotato giurista toscano
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cui Carlo aveva affidato il figlio e la Corona napoletana, andando a cingere quella spagnola – rappresentò
tutto il riformismo di cui Napoli poteva esser capace
in quella fase, e con un nuovo re così poco incline a
occuparsi degli affari di Stato». Saverio RICCI, Vita e
cultura in Italia nell’età dell’Illuminismo, in Storia
della letteratura italiana, cit., vol. VI, pp. 168-169.
7. Aurelio MUSI, op. cit., vol. VI, p. 30.
8.
Si riportano, a titolo esemplificativo, alcune delle numerose opinioni espresse sull’opera Vanvitelliana.
Secondo Corrado Maltese: «Il carattere neoclassico
che si è voluto rivendicarle è nettamente smentito dagli
effetti pittorici e scenografici degli archi, delle volte,
delle scalinate, delle colonne, paraste, mensole, cornici
e nicchie innumerevoli, e infine dagli schizzi preparatori, tutti volti a creare effetti pittorici di luci e ombre,
movimento e profondità di masse e piani. (…) Quella
composta simmetria sembrerebbe, certo, giustificare la
patente neoclassica assegnata al Vanvitelli. Eppure,
proprio per un simile ritorno a uno schema classicista
(…) la pianta chiusa di Caserta non tocca, e tanto meno
preannuncia, in nessun modo il mondo neoclassico: si
asserraglia entro le sue pesanti muraglie defilandosi
dalla scenografia dei giochi d’acqua che rimbalzano
giù dai colli, ne nega il nesso più profondo con la vita
interna della reggia, trasformandola in fastosa appendice». Corrado MALTESE, Storia dell’Arte in Italia
1785-1943, Einaudi, Torino, 1960-1992, pp. 22-23.
A questa tesi si contrappone quella di Renato Bonelli:
«Negli anni intorno alla metà del Settecento, quando
Vanvitelli progetta la Reggia, la parentesi storica del
Barocco era ormai superata,e l’architettura francese
degli hôtels (anch’essa chiamata impropriamente Rococò) era giunta a mostrare la necessità di una radicale
diversificazione degli interni, ornati da una frivola e
sofisticata decorazione, dall’architettura degli esterni,
contenuta in forme semplici e sobrie, con partiture sintetiche e superfici piane, ma pur sempre composte da
elementi classici. Dopo l’ “incidente” barocco, e dopo
il trapasso del grand-gôut, la strada scelta era ancora
quella di un nuovo e diverso ampliamento del linguaggio classico». Renato BONELLI, Vanvitelli e la cultura
europea: proposta per una lettura europeista della
Reggia di Caserta, in Luigi Vanvitelli e il ‘700
europeo, Atti del Congresso Internazionale di Studi,
Napoli-Caserta, 5-10 novembre 1973, Istituto di Storia
dell’Architettura – Università di Napoli, Napoli, 1979,
vol. I, p. 145.
9. Rudolf WITTKOVER, Arte e architettura in Italia. 16001750, Einaudi, Torino, 1993, p. 340.
10. Ivi, p. 341.
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1. ALLA SORGENTE.
PRESUPPOSTI DEL PARCO DELLA REGGIA DI CASERTA
L’opera di Le Nostre dovette essere a lui di guida nel
trasferire su una scala maggiore quelli che erano stati i
tradizionali modi del giardino italiano.1
Il Parco della Reggia di Caserta viene generalmente considerato come l’ennesimo esempio di
giardino formale – e, per le particolari circostanze
storiche, anche l’ultimo2 – basato sul modello di
quello di Versailles. Se questa affermazione può
essere vera in parte, relativamente, cioè, ai motivi
ispiratori della progettazione della Reggia e del
giardino – la creazione di una nuova sede per la
corte che fungesse da “nuova capitale” del regno
– non può essere così pedissequamente applicata
alle scelte progettuali adottate da Luigi Vanvitelli.
Nella progettazione del Parco, pensato in intima
unione con la Reggia, Vanvitelli si mostra, infatti,
non solo particolarmente attento a cogliere e a riprodurre gli aspetti fondamentali dell’arte dei
giardini così come teorizzata nella sua epoca, ma
è ancor più «pronto ad accettare tutti i suggeri-
menti formali che gli derivano sia dalla natura
che dalle preesistenze»3.
Di tale molteplicità di aspetti, assimilabili a vere
e proprie “sorgenti” del Parco, alcuni sono palesemente evidenti – come, ad esempio, il forte legame con la tradizione del giardino francese,
inteso come repertorio delle forme più adatte alla
celebrazione della grandeur del sovrano – mentre
altri risultano più nascosti, sebbene non di minore
rilevanza rispetto all’iter progettuale e agli esiti
raggiunti.
Prima di procedere con la descrizione delle architetture per l’acqua presenti nel Parco, si vogliono,
pertanto, analizzare di seguito quali possono essere state le molteplici fonti ispiratrici dell’opera
vanvitelliana, cominciando proprio con la più
evidente di queste.
Parco di Caserta. L’asse centrale con le fontane.
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Il giardino francese
Il giardino francese è partecipe della rivoluzione
culturale propria del XVII secolo, che vede nella
struttura dell’universo proposta da Galileo ed approfondita da Newton la sua espressione maggiormente rappresentativa. L’uomo, che perde la
propria centralità, si trova ad interagire con una
realtà circostante rispetto alla quale sperimenta la
propria finitezza, confrontandosi con uno spazio
divenuto, tutto ad un tratto, immenso.
Di fronte a tale vastità l’uomo è, improvvisamente solo, ma, acquisendo la conoscenza delle
leggi che regolano questo “nuovo” spazio, può
riappropriarsi di un ruolo dominante, uscire dai
limiti imposti ed accrescere il proprio potere.
In particolare il giardino francese diviene uno dei
mezzi principali per percorrere questa strada, poiché fa propria la nuova spazialità acquisita, superando i limiti e le chiusure imposte dal giardino
rinascimentale.
Il giardino diviene, pertanto, l’elemento ordinatore del territorio circostante, irrompendo nel
paesaggio con le sue regole e le sue leggi e giun-
gendo fino all’orizzonte, nella realtà, e all’infinito, nella sua percezione visiva.
Facendo propria la concezione barocca del
cosmo, il giardino diviene inoltre il luogo dell’illusione e della rappresentazione. La teatralità, la
meraviglia, l’incanto dei sensi sembrano esserne
gli elementi costituenti che ne fanno un luogo
fuori dal tempo e dallo spazio, in cui il tempo e lo
spazio, manipolati dall’arte, sono piegati ai desideri del committente.
Inevitabile, pertanto, che il giardino del Seicento, vero e proprio palcoscenico del mondo, assurga al ruolo di luogo di rappresentanza del
potere assoluto del sovrano, trovando in Versailles la perfetta corrispondenza con la forte personalità e con la concezione politica del Re Sole.
L’ambiente, manipolato da generazioni di architetti e di maestri giardinieri e fontanieri, realizza
in Versailles la sua compiutezza, raggiungendo
proporzioni mai viste sia per le dimensioni, sia
per la complessità dell’impianto e la ricchezza
dell’apparato decorativo.
Il giardino francese – ormai divenuto il “modello
di Versailles” – sarà necessariamente esportato,
Pierre Le Pautre, Planimetria di Versailles, 1717.
Sono evidenti i viali che, oltrepassando i limiti del giardino, segnano la geometria del territorio.
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Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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nel corso del XVII secolo, presso tutte le principali corti europee, che vorranno, attraverso la reiterazione di elementi, se non la loro diretta
replica, sfacciatamente paragonarsi e confrontarsi
con l’assolutismo di Luigi XIV.
Tale replica di un modello è facilitata anche dalla
codifica degli elementi costituenti il giardino
francese, operata nel corso dei secoli da numerosi
trattatisti.
La morfologia del sito è il primo elemento da
prendere in considerazione, poiché costituisce la
struttura su cui il giardino può modellare le sue
forme. Mentre in Italia le improvvise pendenze
di una morfologia accidentata e fortemente montuosa permettevano scenografie più appariscenti,
in Francia, soprattutto nella Francia centrale e nei
dintorni di Parigi, il terreno pressoché pianeggiante o dagli scarsissimi dislivelli non consentiva effetti altrettanto spettacolari se non dopo
un’accurata manipolazione del luogo.
Il giardino francese, perciò, preferisce stupire con
le grandi distese aperte, amplificate anche grazie
ai sapienti effetti visivi che dilatano lo spazio fino
all’orizzonte. Il terreno, costantemente modellato, è trasformato in terrazzamenti che si susseguono e, nel passaggio dall’uno all’altro,
nascondono ed esibiscono, secondo un ordine
prestabilito, le principali zone.
Già nel Traité du jardinage selon les raisons de la
nature et de l’art, pubblicato postumo nel 1638,
Jacques Boyceau de la Barauderie4 espone chiaramente, tra i fondamenti teorici ed artistici dell’arte dei giardini del XVII secolo, la necessità di
parterres – che ipotizza senza divisioni – posti a
livelli differenti per poter essere meglio visti
dall’alto delle varie terrazze. Si tratta ancora
di composizioni monumentali, omogenee e ben
proporzionate, in cui le varie parti sono subordinate al disegno ed alla logica dell’impianto generale e soltanto in seguito ogni composizione
acquisirà caratteri propri.
Il giardino francese propriamente detto, infatti,
non potendo contare sulla visione a colpo d’occhio di un’immagine eloquente – come accadeva,
ad esempio, ai viaggiatori che si trovavano di
fronte all’ingresso di Villa d’Este a Tivoli – si rivela soltanto a chi lo percorre, per poi tornare a
nascondersi e, infine, a disvelare i propri segreti:
scalinate, fontane, ninfei, statue, balaustrate che,
come vere e proprie sorprese visive, scandiscono
il ritmo del cammino e accompagnano nel percorso.
L’assialità dell’impianto è ripresa dai giardini italiani, come elemento guida, percorso principale
e visione privilegiata, ma, nella nuova visone del
mondo, i viali si moltiplicano, al di fuori di maglie rigidamente ortogonali, divenendo segni geometrici che penetrano nell’ambiente, lo
trasformano e raggiungono ulteriori punti nodali
da cui altri itinerari si diramano a raggiera, in un
processo reiterabile all’infinito che genera infiniti
modi di partecipazione alla natura del luogo.
L’asse longitudinale, in genere asse di simmetria
della composizione, risulta molto accentuato, sottolineato dalla successione di elementi singolari,
veri centri propulsivi da cui si dipartono gli assi
– trasversali, a raggiera o a patte d’oie – che penetrano nei boschetti circostanti, visivamente incentrati su altri manufatti. In maniera illusoria
non soltanto il giardino si estende spazialmente
fino all’orizzonte, ma anche la sua percorrenza
potrebbe non avere mai termine, nel continuo rimando – da un viale all’altro e da un elemento all’altro – che genera il senso di infinito nella
dimensione temporale.
Il culmine dell’asse, che è materializzato sul terreno da un viale o da un canale d’acqua, è percettivamente costituito da un punto predeterminato,
statua o fontana, a partire dal quale l’occhio è libero di spaziare all’infinito, essendo impossibile
raggiungere visivamente i limiti fisici del parco.
L’acqua diviene il principale elemento costituente, prestandosi alle numerose manipolazioni
richieste dalle molteplici esigenze pratiche e sim-
Versailles. L’asse centrale si allontana verso l’infinito.
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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boliche: bacini che si sostituiscono a parterres
verdi, vasche, fontane, peschiere, grotte che celano automi azionati dalla forza idraulica, giochi
e scherzi per sorprendere e bagnare i visitatori,
cascate dalle dimensioni a volte colossali, teatri
d’acqua creati per feste e divertimenti dalle atmosfere particolari.
Il giardino francese fiorisce nella presenza dell’acqua, ma pur acquisendo tutti gli elementi dai
giardini italiani, si distacca da questi, distinguendosi per la presenza di un vasto canale che, come
avviene nel Canopo di Villa Adriana a Tivoli,
concorre ad accentuare l’impressione di vastità
delle superfici, attraverso gli effetti legati alla riflessione delle immagini.
Indispensabile perciò, per l’impianto del giardino, è un sito in cui l’abbondante presenza d’acqua garantisca una corretta alimentazione delle
fontane, dei bacini e dei canali. Ad esso si associa
l’esperienza di tecnici5 in grado di dimensionare
percorsi e condutture lunghi chilometri, con tubazioni in piombo o ferro – ma a volte anche in
cuoio e legno – installate sotto i parterres e gli
ampi viali.
Necessariamente il giardino è il trionfo della vegetazione, un trionfo dai molteplici aspetti, voluto
ed organizzato dall’uomo attraverso la selezione e
la modellazione delle specie che preferisce, rese
espressione e funzione del proprio gusto e dei propri bisogni. Il giardino viene così suddiviso in parterres dalle infinite geometrie, frazionato da siepi
di altezze variabili, delimitato da palizzate e pareti
di verde, ordinato da arbusti di bosso o di agrifoglio che sono sagomati, secondo i dettami dell’arte
topiaria, in forme geometriche o fantastiche e posti
a punteggiare la percorrenza dei viali.
Vaux-le-Vicomte. L’arte topiaria decora i viali del parco.
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In prossimità del castello, perché siano ben visibili dalle sue finestre e dalle terrazze, si trovano
generalmente i parterres de broderies, caratterizzati dal contrasto tra i fiori ed i motivi ornamentali creati da piante aromatiche, erba o bosso,
secondo quanto già descritto nel trattato di Boyceau de la Barauderie. Nei parterres de broderies,
i parterres ricamati, le piante di bosso sono sagomate in modo da riprodurre complessi motivi
ornamentali, veri e propri ricami vegetali. Al loro
interno, contrapponendosi al verde delle linee di
contorno, si trovano aiuole fiorite, costantemente
rinnovate nel corso dell’anno, che esibiscono varietà di tulipani, anemoni, ranuncoli e tuberose,
dai colori accostati in maniera accurata. In assenza di fiori, sono semplicemente i riquadri, colorati con il nero del carbone, il rosso dei mattoni
frantumati, il bianco della ghiaia ed il giallo della
sabbia, a fornire la varietà cromatica richiesta.
Più lontano dal castello è il luogo dei parterres
de gazon, tappeti erbosi con la funzione di estendere e dilatare percettivamente lo spazio, nelle
due possibili varianti dei boulingrins, dalla leggera pendenza, e dei vertugadins, dal dislivello
maggiore. In genere intorno ad essi si sviluppa
una zona boscosa, di contorno e delimitazione,
preferibilmente naturale, ma, in assenza di un
bosco già esistente, non si hanno scrupoli a trapiantare alberi già adulti, per ottenere l’effetto desiderato nel minor tempo possibile. Conifere,
come pini silvestri e larici, ma anche querce, carpini, faggi e castagni, contribuiscono, con i loro
reciproci contrasti di forme e di colore del fogliame, a variegare, nel trascorrere delle stagioni,
la profondità delle zone boschive.
Ma l’elemento più caratteristico e più innovativo
del giardino francese è sicuramente il bosquet6,
nascosto alla vista da grigliati e palizzate che
creano un ricercato e piacevole effetto sorpresa.
Come piccole foreste in miniatura, i boschetti
rappresentano episodi particolari all’interno del
giardino, luoghi dell’incanto e dell’incantesimo,
a metà strada tra l’orrido ed il piacevole, forse riproduzione del “bosco sacro”, tappe di un percorso iniziatico in cui l’eroe deve affrontare
differenti prove. All’interno dell’ordine e del rigore dettato dalla geometria dei viali, il giardino
gioca con il mondo della fantasia disposto in ma-
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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niera asimmetrica nella composizione generale;
dentro i boschetti, il disegno, l’architettura, le
sculture ed i giochi d’acqua offrono molteplici
motivi di meraviglia ed allontanano l’eventuale
senso di monotonia del percorso, inducendo ad
una scoperta continua dei nuovi spazi presenti.
Impossibile determinare una tipologia ricorrente
di boschetto e, tanto meno, stabilirne un numero;
di molti di essi si conosce l’aspetto soltanto attraverso le immagini riprodotte in stampe ed incisioni, poiché a causa delle difficili
manutenzioni, ma soprattutto del cambiamento
del gusto e della moda, la maggior parte è stata
distrutta, a volte soltanto pochi anni dopo la realizzazione, per essere sostituita da altri boschetti
di differente carattere7.
La codifica degli elementi costituenti il giardino
francese ha origine nel XVII secolo e prosegue
per tutto il XVIII. Alla già citata opera di Boyceau
de la Barauderie seguono altri trattati più tecnici,
destinati ad un pubblico di specialisti del settore.
Tra questi si ricordano il Théâtre des plans et jardinages, di Claude Mollet8, pubblicato postumo
dal figlio André9 nel 1652 proprio ad uso dei giardinieri – in cui sono descritte, tra l’altro, le modalità pratiche per il disegno di alcune tipologie di
parterres – o le Instructions pour les jardins fruitiers et potagers avec un traité des orangers di
Jean de La Quintinie10 – opera anch’essa pubblicata postuma nel 1690 – dedicata principalmente
alla coltivazione degli alberi da frutto.
Ma è in particolare grazie ad un’altra opera che il
giardino francese, ancor prima dei fondamentali
interventi di André Le Nôtre, riuscì ad essere conosciuto ed apprezzato e a diffondersi fuori dai
confini nazionali. Si tratta de Le jardin de plaisir,
di André Mollet, edita a Stoccolma nel 1651, in
francese, tedesco e svedese e, successivamente,
tradotta in inglese nel 1670. Per la prima volta
Mollet descrive planimetrie generali per organizzare l’impianto di un giardino, con particolare attenzione al rapporto di questo con la dimora
padronale, anziché limitarsi esclusivamente a
considerare singolarmente i parterres.
Nel testo viene esposta, inoltre, una suddivisione
gerarchica degli spazi – distinti ed organizzati in
aperti e coperti, intendendo con questo termine
le zone boscose – e dei parterres, a partire dai più
Vaux-le-Vicomte. Parterres de broderie.
elaborati fino ai più semplici, a seconda che siano
più o meno distanti dall’abitazione o dall’asse
principale.
Inserendosi nella scia di Mollet, Antoine-Joseph
Dézallier d’Argenville11 pubblica nel 1709 La
théorie et la pratique du jardinage, manuale indirizzato sia ai giardinieri, sia agli architetti, sia ai
proprietari terrieri. L’opera, che per la prima volta
è organizzata come un trattato di architettura, di
cui rispetta la struttura e la successione dei capitoli, prende in considerazione questioni formali
– relative al tracciamento degli assi e dei parterres rispetto alla conformazione del sito ed alla posizione della dimora – insieme ad aspetti più
tecnici – tra cui la realizzazione di terrazzamenti,
l’impianto degli alberi e, fondamentalmente, gli
aspetti idraulici.
A Dézallier d’Argenville si devono, ad esempio,
alcuni rapidi elenchi delle principali forme assunte dall’acqua nelle fontane e nei giochi d’acqua durante il Settecento, elenchi che forniscono
anche un’indicazione sulle innovazioni introdotte
nel gusto estetico.
Il y a de plusieurs sortes d’Ajutages ou Ajoutoirs,
comme des Gerbes, des Pluïes, Soleils, Eventails, &
de quantité d’autres formes que l’on donne à l’Eau;
mais, les plus ordinaires Ajoutoirs, pour former un Jet,
sont élevés en Cone & n’ont qu’une seule sortie (…).
Les Cascades sont composées de Nappes, de Buffets,
de Masques ou Dégueuleux, de Bouillons, de Champignons, de Gerbes, de Jets, Moutons, Chandeliers,
Grilles, Cierges, Lames, Croisées, & Berceaux
d’Eau12.
L’opera, estremamente chiara, ebbe notevole
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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fama e, grazie alle sue tredici edizioni in francese,
inglese e tedesco, divenne il principale strumento
per la diffusione del modello francese in Europa,
durante tutto il XVIII secolo. Ma da solo il trattato di Dézallier d’Argenville non giustificherebbe il successo raggiunto dal modello francese
in tutta Europa se quanto teorizzato non avesse
avuto un riscontro oggettivo nell’opera di un altro
artista che ha contribuito all’innovazione del giardino francese con il proprio talento personale,
portandolo alla sua espressione più matura e rendendolo riflesso dell’assolutismo monarchico.
La figura e l’opera di André Le Nôtre
I giardini delle Tuileries, di Fontainebleau, di
Saint Germain e Saint Cloud, di Medoun, Sceaux,
Chantilly, ma soprattutto Vaux-le-Vicomte e Versailles sono i più fulgidi esempi dell’arte di André
Le Nôtre. «La forma e le mete del suo genio», si
legge nel suo epitaffio, «lo misero in una posizione così eminente nell’arte del giardinaggio da
dover essere considerato come l’inventore dei più
begli artifici di quest’arte, portando inoltre tutti
gli altri alla massima perfezione (…) Non soltanto
la Francia trasse profitto dalla sua operosità, ma
tutti i prìncipi d’Europa cercarono i suoi discepoli.
Nessun rivale poteva essergli comparato»13.
André Le Nôtre è indiscutibilmente il principale
artefice della trasformazione e dell’affermazione
del giardino francese nel corso del XVII secolo.
Nato a Parigi nel marzo del 1613 da una famiglia
di giardinieri che vantava una lunga tradizione14,
André si formò attraverso lo studio della geometria e dell’aritmetica, così come dell’architettura
e del disegno presso l’atelier del pittore Simon
Vouet. A 22 anni acquisì già la carica di primo
giardiniere del duca d’Orléans, il fratello del re
Luigi XIII; nel 1637 divenne giardiniere delle
Tuileries, ricoprendo il medesimo ruolo del
nonno Pierre e del padre Jean; nel 1645 intervenne a Fontainbleau. L’incarico determinante
per la sua carriera arrivò, però, nel 1656, quando
il sovrintendente alle finanze di Francia, Nicolas
Fouquet, lo chiamò per partecipare alla realizzazione della propria residenza: è la nascita di
Vaux-le-Vicomte, il primo dei suoi capolavori.
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Nella sua attività Le Nôtre rielabora e fa propri i
precetti dei trattatisti dell’epoca, dall’agronomo
Olivier de Serres – che esortava i proprietari terrieri a condurre il più lontano possibile i viali
delle proprie abitazioni, costituendo una serie di
allineamenti rettilinei – a Boyceau de la Barauderie – che rimarcava la necessità di lunghi viali e
filari di alberi tra i campi. Ai loro precetti, Le
Nôtre unisce un gusto personale per gli effetti
grandiosi e in grado di generare stupore, assimilato, molto probabilmente, durante la frequentazione dell’atelier di Simon Vouet.
Per raggiungere gli effetti desiderati Le Nôtre utilizza metodi e strumenti propri dell’arte militare e
della progettazione di fortificazioni, poiché condivide, con entrambe le discipline, la necessità di
avere visuali aperte e assi ben definiti. A tal proposito egli è agevolato dal progressivo perfezionamento degli apparecchi topografici, che
permettono tracciamenti accurati, in grado di riprodurre sul terreno i progetti più arditi, preventivamente immaginati su carta, e di materializzare
così, con estrema precisione, salti di quota, terrazzamenti, assi longitudinali che tendono all’infinito. Fondamentale diviene allora, nella sua opera,
l’uso della prospettiva. Al posto del frazionamento
in parterres isolati e giustapposti, Le Nôtre propende per una composizione unitaria che riunisca
insieme, in maniera indissociabile dalla dimora
padronale, lo scorrere dell’acqua, le meraviglie
dei boschetti , gli spazi nascosti e decorati delle
grotte, le mille forme delle siepi di bosso.
La sua arte non consiste nel realizzare oggetti artificiali nel paesaggio, ma nel trasformare il paesaggio «fin dove arriva lo sguardo di un
osservatore fermo o in movimento lungo un percorso studiato», nel realizzare, con gli elementi a
sua disposizione, «la stessa coerenza d’insieme
che si esige in un quadro ben riuscito»15.
La prospettiva si trasforma allora da metodo di
rappresentazione a metodo progettuale, in cui è
possibile ravvisare elementi derivanti dai coevi
studi del padre minimo Jean-François Niceron.
La rappresentazione della natura acquisisce maggiore rilevanza rispetto alla sua essenza, in
quanto la prospettiva permette di operare sulla realtà e trasformarla al fine di ricomporre, nell’occhio dell’osservatore, l’immagine voluta e
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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pre-costituita dall’artista. Di fronte al giardino
l’uomo assume una posizione dominante non
solo perché la natura è manipolata secondo il suo
volere, ma anche perché è adattata alle esigenze
della visione e, come accade in un dipinto, tutti
gli elementi si trovano ad occupare un posto specifico stabilito dal progettista.
Nell’opera di Le Nôtre risultano perciò accuratamente stabiliti i punti di vista, che consentono le
vedute prestabilite in fase progettuale, e attentamente calcolati gli effetti della percezione sull’osservatore. La matrice scientifica della sua opera è
ancora perfettamente leggibile nell’uso di forme
geometriche semplici, che si deformano matematicamente, secondo le regole della prospettiva,
creando anamorfosi acquatiche e vegetali che giocano con il paesaggio. Sono elementi standard, ripetitivi, che si ritrovano pressoché immutati in
tutti i progetti, ma che hanno la capacità di essere
scomposti e ricomposti infinite volte, producendo
esiti sempre diversi nell’incontro con la realtà del
sito. Anzi, Le Nôtre riesce a sfruttare tutte le potenzialità della morfologia dei luoghi in cui interviene,
anche
quando
questa
sembra
particolarmente sfavorevole, con il fine di ottenere
effetti scenografici grandiosi, tesi ad esaltare la dimora padronale e, di conseguenza, il proprio committente.
Numerosi sono gli esempi in tal senso. A Versailles il Grand Canal vede i suoi bracci allungarsi in
maniera asimmetrica, sia lungo l’asse centrale,
sia, in senso ortogonale, sull’asse secondario che
si imposta sul Trianon. Allo stesso modo, nel
Parterre Sud, lo Specchio d’Acqua degli Svizzeri
si deforma in lunghezza per compensare lo scorcio prospettico generato dalla visione che si ha
dalle finestre della reggia e dalla terrazza sovrastante l’Orangerie. A Sceaux sono ancora le
estremità del Grand Canal ad essere deformate
affinché, per quanto di dimensioni differenti in
pianta, siano tra loro più simili nella visione prospettica.
A Saint-Cloud l’asse principale, quello che dal
castello tende verso la foresta, è governato dalla
prospettiva che determina le dimensioni dei vari
elementi, ingrandendoli a mano a mano che questi si allontanano dall’edificio. A tal proposito è
esemplificativo dell’intero processo progettuale
quanto accade alla piccola ed alla grande Gerbe,
medesimo elemento riprodotto in due dimensioni
differenti, che torna ad essere identico nella visione prospettica.
A Meudon, per creare un effetto sorpresa, viene
realizzato un magnifico viale d’accesso contrassegnato da fontane e bacini, della lunghezza di
circa un chilometro, al termine del quale si apre
Versailles. Il Parterre Sud con, in secodo piano, lo Specchio d’acqua degli Svizzeri.
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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una terrazza panoramica, di 450 metri per 136,
che permette allo sguardo di spaziare su Parigi e
sulla Senna. Fu questa caratteristica, più di ogni
altra, che colpì il re Luigi XIV quando, al principio del 1685 vi si recò in visita.
A Saint-Cloud, sito in cui la maggiore difficoltà
progettuale derivò da un terreno montuoso e
pieno di scarpate, l’idea vincente risultò quella di
realizzare una terrazza panoramica su Parigi al
termine di un asse parallelo al corso della Senna
che, adattandosi alla morfologia, ascende verso
il cielo in direzione nord-sud attraverso il Viale
della Balaustrata.
Anche a Sceaux è la morfologia che detta le regole della composizione. Utilizzando le particolarità di un territorio disagevole, caratterizzato da
un rilievo molto accentuato e da un vasto stagno
paludoso – il lago Morto – al termine di una ripida pendenza sul lato sud, Le Nôtre riesce, con
un radicale intervento, a trasformare il lago in un
grandioso bacino ottagonale e a sfruttare la ripida
pendenza per ospitare una spettacolare scala d’acqua che diventa uno degli assi principali della
composizione.
Ma non solo la morfologia è sfruttata da Le
Nôtre; anche l’idrografia è piegata alle proprie
esigenze progettuali laddove può servire a creare
effetti scenografici. Corsi d’acqua naturali sono
così regolarizzati in forme geometriche e trasformati in canali e bacini inseriti all’interno di una
più ampia composizione.
A Vaux-le-Vicomte il Grand Canal è costituito
dal fiume Anqueil che, sebbene opportunamente
rettificato nei suoi argini, mantiene il proprio letto
nella vallata che attraversa il parco. A Chantilly è
invece il ruscello Nonette ad essere stato derivato, piegato e trasformato in un canale costituito
da due bracci tra loro ortogonali, la cosiddetta
Manche, sui quali domina la mole del castello.
A Versailles, in maniera analoga a Sceaux, lo stagno Puant, opportunamente trasformato, è diventato lo Specchio d’Acqua degli Svizzeri, il vasto
bacino per la cui realizzazione fu impiegato un intero reggimento di guardie, da cui derivò il nome.
Fondamentale, poi, in termini compositivi, risultano essere l’ubicazione del castello ed il rapporto
che questo assume con l’asse principale del giardino. Il legame tra architettura e giardino è molto
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forte per cui non è possibile pensare ad un giardino di Le Nôtre separato dall’edificio per il
quale è stato realizzato.
L’edificio diviene la cesura tra lo spazio pubblico
e quello privato, il filtro attraverso cui deve necessariamente passare chi proviene dal mondo
esterno, prima di accedere al mondo del padrone
di casa, mondo costituito dall’inscindibile unione
di abitazione e giardino. La successione tripartita
di “area di ingresso-edificio-area del giardino”
diviene costante nelle realizzazioni di Le Nôtre,
al punto che Dézallier d’Argenville, nel suo trattato, la rende modello di riferimento per ogni successiva progettazione.
A Sceaux il castello è situato all’incrocio di due
assi ortogonali: il primo, che si estende da est a
ovest – la cosiddetta Spianata delle Quattro Statue – ha origine dalla facciata occidentale del castello e costituisce il prolungamento, non solo
ideale, del viale d’accesso dalla strada principale;
il secondo, orientato invece da nord a sud, è il già
citato asse che, attraverso la scala d’acqua,
giunge al bacino dell’Ottagono.
Un impianto simile è presente anche a Marly-leroi, dove l’edificio principale, il Padiglione del
Sole, si trova nell’intersezione tra l’asse nord-sud,
che va dalla Grande Cascata all’Aubrevoir, e
quello est-ovest, dalla Grille Royale, sulla strada
di Versailles, fino al Gran Parco, attraverso il
Belvedere. Prototipo di tale organizzazione planimetrica sembra essere proprio il castello di Versailles, posto anch’esso all’incrocio tra l’asse
nord-sud e quello est-ovest, a sottolineare, in questo caso, la complessa simbologia legata al mito
di Apollo-Sole. Anche a Versailles, inoltre, l’asse
principale del giardino è il prolungamento ideale
del viale di accesso all’area, riproponendo, a sua
volta, lo schema planimetrico sperimentato per
Vaux-le-Vicomte.
Dalla facciata del castello ha origine, in genere,
l’asse principale della composizione, l’asse centrale, sottolineato dalla successione di statue, fontane e bacini. Ad esempio, nelle Tuileries
l’edificio, che può essere ammirato nella sua interezza grazie alla presenza di una vasta spianata
che lo circonda, si trova all’origine di un maestoso viale che, dal padiglione centrale, corre fino
all’estremo opposto del parco.
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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Ma sulle facciate del castello terminano anche innumerevoli altri percorsi secondari che si sviluppano nel parco, percorsi che possono essere
semplicemente visivi oppure essere costituiti da
viali di dimensioni minori o ancora, come nel
caso di Saint-Cloud, da un ruscello punteggiato
da cascatelle, l’Allée des Goulottes.
Il percorso principale, inoltrandosi nel giardino,
viene intersecato, ad intervalli non regolari, da
assi trasversali, anch’essi in forma di percorsi, di
bacini e canali d’acqua o di collegamenti visuali
tramite improvvise aperture nella foresta o nelle
recinzioni. È la costante volontà di eliminare qualunque senso di monotonia, perché il giardino
non è il luogo della noia, ma dello stupore e della
meraviglia. Esemplificativo, in tal senso, è il
semplice intervento compiuto a Saint-Germain in
seguito al crollo del muro di sostegno della vecchia terrazza: in aperto contrasto con quanto proposto da Le Vau, Le Nôtre fece ricostruire il muro
crollato mantenendo una frattura intermedia e
creando volutamente un elemento diversivo nel
lungo tracciato rettilineo.
Ma eliminare la monotonia vuol dire anche invitare costantemente alla percorrenza, attraverso lo
svelarsi progressivo di innumerevoli sorprese celate da salti di quota e terrazzamenti disposti su
più livelli. Se il fine ultimo è la celebrazione della
potenza del committente, ciò deve avvenire facendo vivere al visitatore un’esperienza unica ed
indimenticabile una volta che questi è stato introdotto nel giardino. Il resto è solo fantasia espressa
nelle mille forme dei parterres e dei bosquets che
completano il progetto.
L’ordine, la chiarezza degli elementi, la simmetria
delle parti, l’ampiezza dei luoghi e delle visuali,
sono dunque gli ingredienti utilizzati da Le Nôtre
per la creazione dei suoi giardini, ingredienti che
ne hanno determinato il successo immediato in
Francia ed in tutta Europa.
Sembra pertanto utile soffermarsi ancora su alcuni
aspetti della sua opera, per comprendere a fondo
l’effetto dirompente delle sue idee sull’evoluzione
dell’architettura dei giardini. In particolare è interessante rivolgere l’attenzione a due opere che,
per motivi diversi, possono essere considerate cardini nella sua attività: Vaux-le-Vicomte, in cui in
piccolo si ritrovano già tutti i principi della sua
arte, e Versailles, la reggia a cui tutta Europa ha
guardato nel disperato tentativo di emulazione.
La frattura con il passato:Vaux-le-Vicomte
Ecco come Jean de La Fontaine esprimeva, nel
1659, la sua opinione17 sulla residenza di Vauxle-Vicomte, realizzata dal suo protettore ed amico
Nicolas Fouquet, sovrintendente alle Finanze di
Francia dal 1653, per incarico del cardinale Mazarino.
Il me fit voir en songe un palais magnifique
Des grottes, des canaux, un superbe portique
Des lieux que pour leurs beautés
J’aurai pu croire enchantés
Si Vaux n’était point au monde;
Ils étaient tels qu’au soleil
Ne s’offre au sortir de l’onde
Rien que Vaux qui soit pareil16.
La planimetria di Vaux-le-Vicomte in un disegno attribuito
ad André Le Nôtre.
25
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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L’immensa fortuna accumulata nel corso della sua
attività, aveva permesso a Fouquet di intraprendere, a partire dal 1655, lavori di trasformazione
di un possedimento di scarsa rilevanza acquistato
dal padre. Da principio Fouquet ampliò l’area in
suo possesso acquistando i terreni limitrofi ed
espropriando i due villaggi vicini ed ottenne circa
500 ettari di bosco, di valloni, di pascoli, dai quali
venne cancellata ogni costruzione esistente, compreso il castello feudale, per permettere l’edificazione ex novo di una sontuosa residenza.
Ad un gruppo di artisti, formatisi nell’atelier di
Simon Vouet, fu affidato l’incarico dei lavori. Tra
loro spiccano i nomi di Louis Le Vau per l’architettura, di Charles Le Brun per la decorazione pittorica e di André Le Nôtre per la progettazione
del giardino.
Tuttavia, come osserva Leonardo Benevolo, dietro questa équipe si può ravvisare la presenza di
Nicolas Poussin che, da Roma, inviava i cartoni
per le statue del parco. Ed è proprio la «maniera
magnifica» di Poussin, sostiene Benevolo, a divenire, in Vaux, «una metodologia per coprire tutte
le scale di lavoro, dall’allestimento paesistico alle
rifiniture, e per dividere il lavoro fra un gruppo di
specialisti numerosi e differenziati»18.
La realizzazione di Vaux-le-Vicomte ha chiari intenti celebrativi ed encomiastici nei confronti del
committente; la stessa opera di La Fontaine derivava da un incarico personale di Fouquet, e solo
l’arresto del sovrintendente nel 1661 ne provocò
l’interruzione. La descrizione di Vaux avviene in
una dimensione onirica, l’unica consentita, secondo il poeta, per poter dare un’immagine più
piacevole del giardino che all’epoca era stato appena impiantato.
Vaux-le-Vicomte. Facciata principale.
26
Recatosi dal Sommeil, personificazione del
Sonno, Acante, alter ego dello stesso La Fontaine,
lo implora di poter vedere l’immagine di Vaux:
immediatamente i sogni al suo servizio assumono
le sembianze di colonne di marmo, capitelli, piedistalli, statue e ovviamente di fiori ed alberi ombrosi, confondendo la realtà con la visione. È
ovviamente un artificio poetico, che permette a
La Fontaine di descrivere un sito appena impiantato come se fosse già nel suo aspetto finale.
Comme les jardins de Vaux étaient tout nouveau plantés, je ne le pouvais décrire en cet état, à moins que je
n’en donnasse une idée peu agréable, et qui, au bout
de vingt ans, aurait été sans doute peu ressemblante.
Il fallait donc prévenir le temps. Cela ne se pouvait
faire que par trois moyens: l’enchantement, la prophétie, et le songe. Les deux premiers ne me plaisaient
pas; car pour les amener avec quelque grâce, je me
serais engagé dans un dessein de trop d’étendue: l’accessoire aurait été plus considérable que le principal.
D’ailleurs il ne faut avoir recours au miracle que
quand la nature est impuissante pour nous servir. Ce
n’est pas qu’un songe soit si suivi, ni même si long
que le mien sera; mais il est permis de passer le cours
ordinaire dans ces rencontres; et j’avais pour me défendre, outre le Roman de la Rose, Le Songe de Poliphile, et celui même de Scipion.
Je feins donc qu’en une nuit du printemps m’étant endormi, je m’imagine que je vais trouver le Sommeil,
et le prie que par son moyen je puisse voir Vaux en
songe: il commande aussitôt à ses ministres de me le
montrer. Voilà le sujet du premier fragment.
A peine les Songes ont commencé de me représenter
Vaux que tout ce qui s’offre à mes sens me semble
réel; j’oublie le dieu du sommeil, et les démons qui
l’entourent; j’oublie enfin que je songe19.
È interessante trarre, dal racconto di La Fontane,
alcune considerazioni che, nel particolare, possono rivelarsi utili nell’analisi del sito, mentre, a
carattere più generale, possono aiutare a comprendere dove risiede il valore intrinseco di Vauxle-Vicomte e perché la sua realizzazione può
essere considerata termine di frattura con il precedente metodo adottato nella progettazione dei
giardini. Vaux è un luogo incantato, la cui realizzazione non può essere frutto dell’attività umana;
l’opera dei tre artisti è andata oltre tutti gli
schemi, fornendo un prodotto fino ad allora sco-
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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nosciuto. Perciò La Fontaine immagina che la costruzione e l’abbellimento di Vaux-le-Vicomte
siano frutto di una gara tra le principali fate del
regno, chiamate per dimostrare, ognuna attraverso la sua arte, la propria superiorità.
Ma al bando emanato da Oronte, pseudonimo
sotto cui si cela proprio Fouquet, hanno risposto
solo in quattro: Palatiane, rappresentante l’architettura, Apéllanire, per la pittura, Hortésie, preposta all’arte dei giardini, e Calliopée, fata della
poesia. La metafora è chiara: alle quattro fate corrispondono i quattro artisti, Le Vau, Le Brun, Le
Nôtre e lo stesso La Fontaine, che sembra quasi
attribuirsi il ruolo principale celebrando la propria attività attraverso l’ultima replica di Calliopée, la Poesia, a Palatiane, l’Architettura
Sans moi tant d’œuvres fameux,
Ignorés de nos neveux,
Périraient sous la poussière.
Au Parnasse seulement
On emploie une matière
Qui dure éternellement.
Si l’on conserve les noms,
Ce doit être par mes sons,
Et non point par vos machines:
Un jour, un jour l’Univers
Cherchera sous vos ruines
Ceux qui vivront dans mes vers20.
Al termine della gara verbale, però, i giudici chiamati ad esprimere la propria opinione, tra cui lo
stesso Oronte-Fouquet, non riescono a stabilire una
vincitrice e richiedono un’ulteriore sfida sul campo.
Purtroppo l’interruzione del Songe non permette
di conoscere gli ulteriori sviluppi del pensiero di
La Fontaine, ma il messaggio è comunque chiaro:
il valore di Vaux risiede nel concorso di tutte le
arti e non nella predominanza di una di esse.
Il giardino non nasce, perciò, a completamento
dell’architettura, ma si sviluppa con essa in
quanto necessario a trasmettere il medesimo messaggio presente nell’edificio e nella decorazione
degli interni. Tale valore, che in modo analogo si
ritrova in Versailles, è il medesimo che si riscontra nel progetto della Reggia di Caserta, pensata
come un organismo unitario in cui palazzo e giardino risultano in costante dialogo21.
È vero che, a differenza di Vaux e di Versailles,
Caserta è nata da un’unica mente ideatrice, in
grado di controllare e gestire le varie problematiche dell’architettura, dell’idraulica, dell’arte dei
giardini, mantenendo contemporaneamente la visione complessiva del risultato. Tuttavia a partire
dal 1657 André Le Nôtre, ottenendo una delle tre
cariche di controllore generale della costruzione
ed estendendo il proprio ruolo da quello di semplice realizzatore del giardino, divenne il principale coordinatore delle attività e riuscì a garantire
quell’armonia generale tra le varie parti del complesso – edificate e vegetali – che ne sono la caratteristica più affascinante.Vaux-le-Vicomte è la
prima grande opera di Le Nôtre, «la prima realizzazione paesistica in grande scala – quasi una
prova generale del nuovo ciclo di esperienze»22,
in cui può elaborare e sperimentare con successo
le teorie che determineranno la sua fama.
Tout ce qu’ont fait dans Vaux les Le Bruns, les Le Nôtre
Jets, cascades, canaux, et plafonds si charmants,
Tout cela tient de moi ses plus beaux ornements.
Contempler les efforts de quelque main savante,
Juger d’une peinture, ou muette, ou parlante,
Admirer d’Apollon les pinceaux ou la voix,
Errer dans un jardin, s’égarer dans un bois,
Se coucher sur des fleurs, respirer leur haleine,
Ecouter en rêvant le bruit d’une fontaine,
Ou celui d’un ruisseau roulant sur des cailloux,
Tout cela, je l’avoue, a des charmes bien doux23.
Il permanere, all’interno della planimetria, della
successione giardino-canale-parco, proprio della
prima metà del XVII secolo, non implica la ripetizione pedissequa degli schemi già utilizzati
nella tradizione francese. In particolare viene su-
Vaux-le-Vicomte. Facciata sul giardino.
27
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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perato il concetto della sequenza di elementi indipendenti, progettati ed accostati senza alcun legame; Le Nôtre interagisce con il sito,
organizzando l’impianto su di una serie di terrazze e di parterres collegati percettivamente, generando una serie di legami ottici che
con-fondono le varie parti della composizione.
Osserva Gianni Venturi, a proposito del giardino
francese, che questo «manipola il tempo sull’asse
sincronico, offrendo alla vista tutto (e subito)
l’impianto e la struttura del giardino»24. In Vaux
è vero che, all’affacciarsi dalla terrazza principale, l’osservatore vede dispiegata un’immagine
completa nelle sue parti, manifestazione degli
elementi presenti nel giardino, tuttavia questa è
un’illusione. L’osservatore viene convinto che
quella sia la vera immagine, decisamente piacevole ed affascinante, e non si rende conto della
divergenza e del contrasto con l’effettiva conformazione del terreno: la sostanza si scontra con
l’apparenza ed il risultato è un impareggiabile effetto sorpresa.
Vaux-le Vicomte contiene in potenzialità la maggior parte dei temi che Le Nôtre svilupperà a partire dal 1661, quando sarà chiamato a Versailles:
l’organizzazione dell’area in una prospettiva unitaria e la presenza di terrazzamenti, parterres e
bacini d’acqua, agevolata dai rilievi dolci ma non
uguali, in grado di rendere un effetto simmetrico,
di equilibrio e di continuità tra le parti. Tuttavia la
composizione non è simmetrica, nell’accezione
comunemente utilizzata di perfetta corrispondenza tra gli elementi. Per Le Nôtre la simmetria
implica un equilibrio tra gli episodi disposti attorno all’asse centrale, ma non una loro identità
inflessibile: così ciò che si trova ad est può essere,
come in questo caso, più esteso di quanto si trova
ad ovest, permettendo di moltiplicare la varietas
dei particolari senza abbandonare l’unità generale.
L’origine della struttura del giardino si deve alla
presenza naturale di un corso d’acqua, il Monceaux o Anqueil, che, rettificato in una sezione del
suo percorso, è divenuto il Grand Canal lungo
circa 800 metri. L’area occupata è una vasta radura aperta in un territorio boscoso, comprendente i due versanti della valle attraversata dal
piccolo ruscello. È un grande rettangolo di dimensioni ragguardevoli, circa 1.500 metri di lun28
ghezza e di larghezza in media sei volte minore,
suddiviso in tre parti: la strada di accesso alla proprietà delimita a nord la prima, il Grand Canal
separa a sud la seconda dalla terza.
Queste tre parti, pur disuguali, acquistano importanza dal loro rapporto reciproco: lo spazio del
giardino propriamente detto è situato nella zona
mediana, segue allo spazio di ingresso e precede
il parco superiore. Il castello si presenta come una
piccola isola circondata da alberi d’alto fusto.
Nonostante si trovi collocato ad una estremità del
lotto rettangolare, ha la proprietà di dominare
l’insieme, pur mutando nei suoi elementi percepibili a seconda del punto da cui lo si osserva: è
la stasi separatrice tra le prime due zone del giardino; è il punto di partenza dell’asse prospettico
reso materiale dal largo viale orientato in direzione nord-sud, che tende verso l’ampia foresta ai
limiti della proprietà; è a sua volta punto di fuga
della prospettiva che si genera in chi, percorso il
viale, ruota su se stesso per tornare indietro. «Il
castello (…) perde da maggior distanza la sua
evidenza volumetrica, e si trasforma in una macchia più fortemente cromatizzata: la semisfera
della cupola diventa un punto di luce»25. È infine
il simbolo stesso del potere del padrone di casa
reso materiale: la cupola si gonfia nell’aria catturando la luce e divenendo elemento accentratore
dello sguardo, regnante su tutto lo spazio circostante.
Dal castello il potere si estende all’intorno attraverso la piacevole illusione di abbracciare l’insieme in un solo colpo d’occhio. Sembra, infatti,
all’osservatore che l’estremità del giardino visibile dalla terrazza principale, segnata dalle Grotte
a partire dalle quali il terreno risale verso l’orizzonte, sia a qualche minuto di cammino. È un invito alla percorrenza, senza la quale non sarebbe
possibile scoprire la realtà: più ci si addentra nel
percorso più le Grotte si allontanano, indietreggiano, lasciando lentamente percepire la presenza
del Grand Canal trasversale nascosto ad un livello inferiore.
La presenza delle Grotte e la loro “magica” illusione sono forse gli elementi più affascinanti
della composizione; l’eco della loro fama si avverte nell’opera di La Fontaine, in un breve racconto-divertissement, le Avventure di un salmone
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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e di uno storione. I due pesci sono ben felici di
essere stati catturati e vivere nel canale che bagna
le grotte di Vaux, di cui, quando ancora si trovavano presso la corte del re del mare, avevano
ascoltano la descrizione fatta da alcuni naufraghi
Monarque de l’eau salée
Dans une région de ces flots reculée
Est un lieu nommé Vaux, gloire de l’Univers
Son nom vole déjà dans cent climats divers:
Oronte y fait bâtir un palais magnifique,
Où règne l’ordre ionique
Avec beaucoup d’agrément
On a placé justement
Vis-à-vis du bâtiment
Deux grottes, dont la structure
Est de telle architecture
Qu’elle plait sans ornement26.
Il percorso verso le Grotte, già preannunciato sul
fronte principale dal ponte che conduce all’ingresso dell’edificio, è una successione di terrazze
e specchi d’acqua, in cui gli elementi di distrazione, in grado di de-vertere dalla monotonia
della passeggiata, sono tutti collocati secondo
assi perpendicolari al cammino.
In primo luogo dal castello si scende una larga
scalinata e si fiancheggiano due grandi aiuole ornamentali, due parterres del tipo a “tappeto
orientaleggiante”, in cui disegni in arabesco di
bosso sagomato sono colorati con sabbia, mattone pestato e carbone. Ad est e a ovest, due zone,
simmetriche per posizione ma non per costituzione, formano un primo elemento trasversale, di
sosta e di novità.
In seguito due file ornamentali di bosso portano
ad un asse trasversale, primo indizio della presenza del Grand Canal, costituito da due bacini
d’acqua rettangolari disposti attorno ad una larga
vasca circolare. Ad est e ad ovest ancora due zone
distraggono dall’asse principale: la visuale si
estende oltre l’immediato perimetro e, a partire
dai due bacini rettangolari, termina rispettivamente nelle zone dei Cancelli d’Acqua e dei Cancelli dell’Orto.
La passeggiata non è giunta ancora al termine. Si
prosegue, tra due tappeti erbosi con vasche decorate da Tritoni, fino ad incontrare un grande specchio d’acqua, una peschiera apparentemente
Vaux-le-Vicomte. Il percorso verso le Grotte e l’immagine finale che si ha volgendosi indietro.
29
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Vaux-le-Vicomte. Il fiume Anqueil.
alimentata dall’acqua sgorgante dalle sette grotte
situate in secondo piano, le stesse che costituiscono la meta, apparentemente irraggiungibile,
del percorso.
Avvicinandosi, la prospettiva svela i suoi trucchi:
le sette grotte non hanno niente in comune con la
peschiera, ma si scoprono essere al di là della
valle del Grand Canal, la cui presenza, fino a
questo momento non avvertita, costituisce la vera
sorpresa della composizione.
È sicuramente questo il principale merito di Le
Nôtre: l’aver cambiato, in modo radicale e definitivo, le regole della composizione dei giardini.
L’impianto di Vaux è infatti originato da un elemento, il canale d’acqua, che rimane nascosto
fino all’ultimo istante; il giardino barocco ha necessità di essere percorso e vissuto.
La rigida assialità che aveva guidato il cammino
viene abbandonata a causa della peschiera, che
costringe a girarle intorno facendo scoprire la
presenza di due nuove scalinate che conducono
Vaux-le-Vicomte. Il lato orientale dell’Anqueil.
30
nella vallata del Monceaux-Anqueil: è l’ingresso
in un nuovo mondo, l’unico luogo in cui non è
possibile avvertire la presenza dominante del castello. Sulla pendenza a nord si trovano fontane
decorate da elementi naturali, le Piccole Cascate;
dal lato opposto del canale, le sette grotte fiancheggiate dalle statue di due divinità fluviali,
l’Anqueil e il Tevere.
Da questa vasta zona rettangolare «il luccichio
dell’acqua illuminata dal sole radente (…) guida
l’occhio in un percorso di inconsueta lunghezza»27; natura e artificio si incontrano e si fondono nella prospettiva ortogonale all’asse
principale28. L’incantesimo dura solo qualche attimo. Oltre il vasto bacino d’acqua, il terreno e la
vista già risalgono rapidamente al di sopra delle
grotte e un ultimo tappeto erboso, un boulingrin
fortemente in pendenza, conclude la prospettiva
iniziale nel suo punto di fuga, la statua di Ercole.
Si è a circa un chilometro dalla facciata del castello. Illusi dalla facilità del percorso e mai annoiati dalla presenza di elementi eterogenei, ci si
è inoltrati per una distanza tale che, se conosciuta
in anticipo, forse non si sarebbe percorsa.
Un’ulteriore sorpresa premia i più temerari: rivolgendosi verso il punto di partenza si scopre
che il castello si è raddoppiato, perfettamente riflesso dalla peschiera ed in essa contenuto come
in una cornice.
Le Nôtre è riuscito a collegare visivamente zone
in realtà molto distanti e differenti fra loro, costituendo un tutt’uno armonico e armonioso.
La conoscenza delle leggi della prospettiva e
l’uso dell’anamorfosi, la progressiva deformazione delle dimensioni di parterres e bacini, per
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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compensare lo scorcio che si crea naturalmente
man mano che questi si allontanano dal punto di
vista, hanno permesso al progettista di estendere
alla scala territoriale quello che fino ad allora era
stato preannunciato e sperimentato in maniera
empirica solo riguardo al singolo parterre.
Sebbene le parti siano legate al punto di vista
della prospettiva, il giardino non è un quadro da
ammirare staticamente; l’invito al percorso è costante, grazie alla sapiente disposizione delle terrazze che nascondono, rivelano, incuriosiscono,
producono emozione nel visitatore chiamato ad
interagire con l’ambiente circostante. Senza la
presenza dell’osservatore il giardino di Le Nôtre
perderebbe il proprio significato.
Come già accennato, l’esperienza di Vaux-leVicomte si concluse nel 1661, in seguito all’arresto di Fouquet e alla sua condanna a morte.
Il potere del sovrintendente, manifestato dallo
sfarzo della sfolgorante festa del 17 agosto, era
parso eccessivo al sovrano, a cui non era sfuggito
il significato sotteso all’opera.
Tuttavia i tre artisti, Le Nôtre, Le Vau e Le Brun,
furono particolarmente apprezzati dallo stesso Re
Sole, che li incaricò di ripetere l’esperienza collaborativa, al fine di esaltare la sua figura attraverso la propria opera. Le Nôtre poté così
proseguire nello sviluppo delle proprie idee, applicandole nelle numerose residenze di cui ottenne l’incarico.
Il primo di questi interventi fu proprio la reggia di
Versailles; ma per quanto i giardini, realizzati per
il Sovrano, siano necessariamente più grandi e ricchi di particolari, difficilmente riescono a raggiungere l’armonia e la chiarezza riscontrabili in Vaux.
Vaux-le-Vicomte. Il fiume Tevere.
La Reggia di Versailles e la sua simbologia
Versailles rappresenta l’espressione più solenne
e spettacolare dei giardini alla francese, esaltazione della figura del sovrano committente in cui
il dominio totale sulla natura, trasformata e piegata alle esigenze del progetto, diviene metafora
del dominio sui sudditi ovvero su tutta la Francia.
Allo stesso modo lo splendore della corte di Luigi
XIV è manifestato dalla vastità dell’area, circa
6.000 ettari, e dalla varietà delle soluzioni adottate, governate dall’iconografia del mito di
Apollo, dio del sole ed emblema del Re.
On choisit pour corps le soleil, qui, dans les règles de
cet art, est le plus noble de tous, et qui, par la qualité
d’unique, par l’éclat qui l’environne, par la lumière
qu’il communique aux autres astres qui lui composent
comme une espèce de cour, par le partage égal et juste
qu’il fait de cette même lumière à tous les divers climats du monde, par le bien qu’il fait en tous lieux,
Vaux-le-Vicomte. Il lato occidentale dell’Anqueil.
31
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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produisant sans cesse de tous côtés la vie, la joie et
l’action, par son mouvement sans relâche où il paraît
néanmoins toujours tranquille, par cette course
constante et invariable dont il ne s’écarte jamais, est
assurément la plus vive et la plus belle image d’un
monarque29.
Il sito di Versailles vedeva, già dall’XI secolo, la
presenza di un piccolo castello, progressivamente
caduto in rovina e all’epoca di Luigi XIII poco
più di un rudere inserito all’interno di un’area
particolarmente selvaggia; ma proprio questa particolare atmosfera era molto apprezzata dal re,
che amava trascorrere il suo tempo in lunghe battute di caccia, assieme ai nobili della corte, e dormire disteso su un letto di paglia nella vecchia
dimora. Nel 1623 Luigi XIII decise di far costruire un nuovo padiglione di caccia, un edificio
in mattoni e pietra dal tetto di ardesia, parzialmente ancora visibile sul fondo dell’attuale Cortile di Marmo. L’edificio di Philibert Le Roy, non
ancora una vera reggia, conservò per molto
tempo un carattere tipicamente venatorio, tanto
che dal luogo fu bandita ogni presenza femminile. Quasi contemporaneamente, tra il 1631 e il
1636, Jacques Menours tracciò il primo parco.
Il primo contatto tra Luigi XIV e Versailles avvenne nel 1651, ancora per una battuta di caccia.
Negli anni seguenti, tuttavia, ispirato dall’esempio delle dimore realizzate a Rueil e a Vaux-leVicomte, rispettivamente per Richelieu e per
Fouquet, il re cominciò a considerare l’idea di
una residenza che fosse manifestazione tangibile
della sua potenza. L’incarico fu perciò affidato
nel 1661 agli stessi artisti che avevano realizzato
Vaux-le-Vicomte: Le Vau, sostituito alla sua
morte da Mansart, Le Brun e Le Nôtre.
L’edificazione del castello fu estremamente lunga.
Trascorsero oltre 40 anni per terminare la maggior
parte delle costruzioni e fino a 60 per concludere
anche la cappella reale; ma senza attendere il trasferimento ufficiale della corte, avvenuto solo nel
1682, una serie di feste, ambientate nei giardini,
inaugurarono progressivamente le varie parti destando meraviglia nella nobiltà riunita: nel 1664 i
Piaceri dell’Isola Incantata inaugurarono alcuni
Pierre Patel, Vista del castello e dei giardini di Versailles, 1668.
32
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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boschetti del parco; poi il Gran Divertimento del
Re, del 1668, e ancora un Gran Divertimento, nel
1674, sono tra gli eventi più famosi.
Nonostante la vastità dell’area, mente ordinatrice
dell’impianto generale si può considerare il solo
André Le Nôtre, cosicché il disegno risulta estremamente armonico e unitario. Il castello costituisce il centro simbolico che divide l’area della
città, governata dal tridente di viali, da quella del
parco, il cui impianto è essenzialmente costituito
da due grandi assi. Il principale, da est a ovest, è
il cosiddetto asse del sole; un secondo asse, ortogonale, formato dalla congiungente i Parterres
Nord e Sud, risulta tangente alla facciata dell’edificio. Attorno ad entrambi, parterres, boschetti,
sculture e numerosi motivi d’acqua si dispiegano
senza soluzione di continuità.
Il parco sembra assumere quindi una conformazione tripartita, sebbene resa unitaria dalla simbologia solare che permea l’intero complesso.
Il Parterre Nord, attribuibile sicuramente a Le
Nôtre per quanto attiene l’impianto sul pendio
naturale, la prospettiva che governa le parti e la
successione dei bacini, è il regno dell’acqua,
espressa in ogni sua manifestazione sia dalle fontane, sia dalla ricca decorazione interamente dedicata a divinità fluviali e marine30. È il mondo
del silenzio, della notte, di Teti, la regina del mare
che al tramonto ospita nella sua grotta il riposo
del Sole. Un boschetto poco distante, nell’area attualmente occupata dalla cappella reale, rappresentava il mito in una grotta artificiale a tre arcate
che «disponeva all’interno di un’abbondante decorazione a rocailles, di un organo idraulico, di
scherzi d’acqua, ed era ornata da importanti sculture tra le quali figurava Apollo servito dalle
Ninfe del Girardon»31.
Situato, da progetto, sotto le finestre dell’appartamento del re, prima che questo fosse trasferito
accanto alla Corte di Marmo, il parterre è suddiviso in due rettangoli di uguali dimensioni, due
tappeti erbosi cinti da bosso sagomato a delimitare le aiuole fiorite, con due vasche decorate da
figure di sirene, tritoni, delfini e gamberi. Al centro, il cosiddetto Viale dell’Acqua, asse principale
della composizione, scende lungo il pendio a partire da una fontana “a piramide”, realizzata da Girardon secondo una tipologia descritta dai
trattatisti dell’epoca, che sembra riproporre gli
esempi di Villa d’Este a Tivoli o dell’antica Meta
Sudans di Roma.
All’altra estremità del percorso il Bacino del
Drago riconduce ai tanti tesori nascosti nella
terra, di cui il drago è custode, primo fra tutti proprio l’acqua tanto necessaria a Versailles; ma ricorda anche l’uccisione del serpente Delfine da
parte di Apollo, metafora estremamente chiara
della sicura punizione dei nemici del re.
La corte marina al completo conclude il Parterre.
Il Bacino di Nettuno, con Nettuno e Anfitrite,
coppia regnante, accompagnata dalle figure di
Oceano e Proteo, le più antiche divinità del mare,
è la rappresentazione della sovranità universale,
del potere reale esteso iperbolicamente su un territorio grande quanto l’oceano. E il gruppo scultoreo della Fama del Re, poco distante, sembra
sottolineare il messaggio con la celebrazione
dell’immagine di Luigi XIV.
Si contrappone, all’altra estremità, il mondo
diurno del Parterre Sud, il luogo più illuminato –
e più riscaldato – dal sole, esaltazione della terra
che, sapientemente coltivata, offre agli uomini i
suoi principali doni: rigogliosi fiori e frutti saporiti. L’area non presenta pendii naturali, ma tre
terrazzamenti in successione, ognuno dal carattere ben definito. Il primo è un parterre de broderies in cui i molteplici fiori e due semplici vasche
circolari sono l’unica decorazione che si mostra
alle finestre dell’appartamento della Regina.
Immediatamente al di sotto l’Orangerie propone
uno degli elementi fondamentali nei giardini del
XVII secolo, sinonimo stesso di lusso e di fasto,
soprattutto in Francia dove, a causa del clima, era
particolarmente laboriosa la coltivazione degli alberi di agrumi32. Infine, al terzo livello, si estende
lo Specchio d’Acqua degli Svizzeri. La creazione
di questo bacino ha consentito di svolgere una
duplice funzione, drenare il terreno paludoso di
questa zona del parco, occupata in precedenza
dallo stagno Puant, e fornire all’Orangerie un importante elemento termoregolatore.
Le dimensioni dello Specchio d’Acqua, la cui
forma particolarmente allungata è soggetta alle
regole dell’anamorfosi che ha il suo punto di vista
situato nella prima terrazza del Parterre, due livelli più in alto, sono infatti tali da farlo somi33
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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gliare ad un piccolo lago in grado di interagire
con il microclima del sito.
La Reggia si colloca esattamente al centro della
dicotomia di opposti Parterre Nord-Parterre Sud,
notte-giorno, oceano (percorso del sole dal tramonto all’alba)-terra (percorso del sole dall’alba
al tramonto), secondo la concezione più classica
del mito33. Dalla Reggia ha quindi origine l’asse
centrale del Parco, percorso privilegiato dall’inevitabile orientamento in direzione est-ovest.
Versailles, alcune delle statue del Parterre d’Eau.
Dall’alto: il Rodano, la Senna, la Dordogna.
34
L’asse del sole, regno di Apollo e della luce,
nasce dal Parterre d’Eau, o più precisamente dall’appartamento del re posto immediatamente alle
sue spalle, e si prolunga verso l’orizzonte senza
che sia possibile scorgerne il termine ultimo.
L’acqua è di nuovo il costituente principale di
questo parterre, presente nel duplice aspetto di
elemento liquido, contenuto all’interno di due
grandi vasche, e nell’allegoria delle statue bronzee dei fiumi di Francia e dei loro affluenti, morbidamente adagiate lungo il perimetro di
marmo34. La loro presenza è metafora di tutto il
Regno di Francia, la cui caratteristica principale
è data proprio dall’abbondanza, per quantità e
portata, dei corsi d’acqua35.
Le statue divengono allora testimonianza della
ricchezza del regno di Luigi XIV, dovuta sia all’estensione geografica, sia alle risorse idriche,
sia all’abbondanza di altre risorse a cui le numerose figure di putti sembrano alludere.
A partire dalla terrazza del Parterre d’Eau, lo
sguardo raggiunge l’orizzonte e, a mano a mano
che si allontana, indugia sugli altri parterres,
scende nei boschetti, segue il Grand Canal tra i
cespugli del parco, risalendo dolcemente verso la
campagna e il cielo. Il percorso assiale si estende
dall’ambiente architettonico a quello naturale attraverso una natura addomesticata in forme geometriche, il cui limite estremo è impossibile da
percepire. «Tutto è ampio, lineare, semplice, formale, forte e spazioso, un pattern che parla di potere: potere sulla natura e sugli uomini. [Le
Nôtre] utilizza forme geometriche finite per portarci sull’orlo dell’infinito»36.
L’asse del sole è disseminato di elementi riconducibili al mito di Apollo; innanzi tutto, appena superato il primo dislivello, il Bacino di Latona
parla dell’infanzia del dio. È questa una storia
tratta dalle Metamorfosi di Ovidio37. Latona, la
madre dei divini gemelli Apollo e Diana, assetata
chiede da bere ad alcuni contadini della Licia;
schernita da questi, che le impediscono di bere
acqua limpida, sporcandola con il fango sollevato
dai loro piedi, la dea invoca una punizione, chiedendo che siano trasformati negli animali a cui le
loro azioni li hanno resi simili: le rane ed i rospi
che vivono negli stagni. La metamorfosi avviene
sotto i nostri occhi, in un tripudio di zampilli e
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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getti d’acqua che, in parte fuoriuscendo dalle gole
aperte delle rane-contadini, materializzano le
grida e accentuano l’illusione del momento. Il
coinvolgimento nella scena è totale: una parte del
giardino, trasformata nella regione della Licia,
circonda il visitatore che, stupefatto e timoroso, si
muove tra la vasca principale, origine del prodigio, ed i bacini laterali, in cui coppie di contadini
si stanno ancora trasformando negli animali acquatici.
Evidente l’importanza che questa fontana assume
nel messaggio propagandistico del sovrano: guai
a chi offende Apollo, anche se attraverso sua
madre, con chiaro riferimento agli eventi della
Fronda del 164838.
Di seguito, l’Allée Royale conduce al Bacino di
Apollo, luogo dalla medesima partecipazione
emotiva: il dio del sole è infatti rappresentato nel
momento più emblematico, il sorgere dalle acque
per iniziare la corsa nel cielo, simbolo dell’alba di
un regno promettente. L’acqua è di nuovo creatrice di illusioni: il movimento del carro, a causa
dei getti che si sollevano a partire dalle ruote e si
diramano in varie direzioni; il suono delle conchiglie in cui i Tritoni soffiano per annunciare il
passaggio dell’astro nascente. Sembra così che il
carro del sole sorga realmente dall’acqua dopo
aver già percorso un lungo tratto prima di innalzarsi in cielo: i 1.650 metri del Grand Canal che,
alle sue spalle, prolunga l’assialità verso l’orizzonte. Come già nella tradizione islamica, il percorso d’acqua è la strada della divinità, non
percorribile dal piede umano, il Bacino di Apollo
diviene il luogo di incontro tra i due percorsi,
quello terreno, del visitatore che proviene dalla
reggia, e quello celeste del carro solare. Di fronte
al Bacino non resta altro che tributare, ammirati,
il giusto omaggio al dio e al sovrano, e, impossibilitati nel proseguire sulla stessa strada, rivolgersi verso altri luoghi.
Singolare è, però, che l’orientamento del gruppo
statuario sia contrario alle leggi della natura e che
il carro del sole nascente, avanzando verso l’osservatore, proceda in direzione ovest-est: il potere
assoluto di Luigi XIV è stato in grado di piegare
anche il corso del sole al suo volere, affinché si rivolgesse, nel suo cammino, verso la facciata della
Reggia. Il Parterre d’Eau, verso cui il carro sem-
bra dirigersi, assume allora la funzione di termine
del percorso, riacquisendo la simbologia del mare
che accoglie il sole al tramonto, di ingresso alla
vicina Grotta di Teti, in una ciclicità che ogni
giorno si rinnova.
Lontano dal viale centrale si entra nel mondo
della fantasia più sfrenata, dell’incanto, della meraviglia: sono le parti boscose, i bosquets, le
stanze verdi in ognuna delle quali il visitatore
vive un’esperienza unica e particolare.
Versailles, alcune delle statue del Parterre d’Eau.
Dall’alto: la Loira, la Saone, la Garonna.
35
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Lo schema ordinatore prevede una maglia regolare di viali, di cui i più considerevoli per dimensioni si intersecano ad angolo retto; in tali punti
le fontane delle quattro stagioni, rappresentate
ognuna dal proprio nume tutelare, ricordano che
il dio del sole non governa solo il corso del
giorno, ma anche il variare dell’anno. Il ciclo stagionale è reso evidente dai collegamenti prospettici che si generano tra le quattro fontane e che
permettono, da ciascuna, di scorgere quella pre-
cedente e proiettarsi in quella immediatamente
successiva: da Flora, la Primavera, all’Estate di
Cerere; da Bacco, l’Autunno, all’Inverno, a Saturno simbolo del tempo che incessantemente trascorre divorando i giorni e rigenerando il nuovo
anno.
I quattro bacini, sebbene distanti tra loro, rappresentano un elemento di serialità nel variegato
mondo dei boschetti, essendo simili sia per forma
– circolare per Flora e Saturno, quadrata per Cerere e Bacco – sia per materiale – il bronzo – sia
per composizione. In ogni gruppo scultoreo, collocato su un’isoletta al centro della vasca, al
nume tutelare si affiancano figure di amorini –
trasformate in piccoli satiri attorno a Bacco – che
giocano con gli elementi propri della stagione:
fiori, spighe di grano, grappoli d’uva e, in maniera anomala per l’inverno, conchiglie marine.
Il risultato è di garantire quattro punti fissi, necessari a mantenere l’orientamento nel variegato
percorso dentro e fuori i bosquets.
Dalle fontane delle stagioni, viali più piccoli e
senza più alcun riferimento con la maglia ortogonale penetrano all’interno dei boschetti veri e propri. Volontà del Re e di Le Nôtre era di creare una
vera e propria architettura vegetale, dalle massicce pareti geometriche alte fino a 15 metri, a
simboleggiare l’evidente opposizione tra il rigore
esterno e la fantasia interna.
Inattese, le sale contenute nei boschetti, oggi
come allora, sorprendono il visitatore con giochi
d’acqua, decorazioni in pietra, statue, pergole o
elementi architettonici, ciascuno secondo un tema
prestabilito. Per il loro carattere ludico, i bo-
Versailles, Bacino di Latona. In alto la dea con i figli, in basso alcuni contadini trasformati in rane per intervento divino.
36
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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Versailles. Il Bacino di Apollo.
schetti rappresentano il mondo dell’effimero, il
più soggetto perciò ai cambiamenti secondo il variare del gusto e della moda.
Dei boschetti progettati da Le Nôtre rimane ben
poco ed una idea della loro immagine si può
avere, ad esempio, dai dipinti di Jean Cotelle. La
Sala da Ballo, o boschetto delle Rocailles, che
deve il suo nome alla ricca decorazione di pietre
e conchiglie marine provenienti dal Madagascar,
è forse l’unico che ha mantenuto le caratteristiche
volute dal suo creatore e che ci illumina sulle sue
intenzioni progettuali: una giusta combinazione
di elementi naturali ed artificiali. Significativa, a
tal proposito, risulta la risposta di Le Nôtre al re
che lo invitava ad esprimere il proprio parere
sulla Colonnata39, realizzata negli stessi anni dal
suo collega e rivale Jules-Hardouin Mansart:
«Sire, avete fatto di un muratore un giardiniere
ed egli ha creato un’opera degna della sua vera
professione»40.
Entusiasta del lavoro di Le Nôtre, Luigi XIV
scrisse, a partire dal 1690, un trattato che fungesse da guida per il visitatore41: la Manière de
montrer les jardins de Versailles42. Il desiderio del
Re era che si potesse visitare il parco in ogni sua
parte, senza perdersi nel dedalo di viali e boschetti, prestando attenzione al significato simbolico assunto dal percorso, dalle fontane e dalle
statue.
Il giardino era una delle espressioni dell’immagine del re, non solo una sua proprietà: chi meglio
del Sovrano in persona avrebbe potuto, quindi,
assolvere il compito di descrivere, in modo chiaro
e completo, il giusto itinerario da seguire?
Passo dopo passo l’ipotetico visitatore è condotto
lungo un percorso attentamente studiato, giusto
Versailles. La corsa di Apollo sul carro del sole.
37
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Versailles. I Bacini delle Quattro Stagioni.
Dall’alto: Primavera-Flora, Estate-Cerere, Autunno-Bacco,
Inverno-Saturno.
38
compendio alla creazione di Le Nôtre ed elemento di propaganda politica. Laddove il simbolo
sotteso, di cui il giardino è permeato, fosse risultato troppo oscuro, l’attenta descrizione di momenti di stasi e percorrenza avrebbe rivelato gli
elementi principali su cui riflettere, ammonendo,
implicitamente, gli avversari.
A partire dal castello la prima sosta raccomandata
è sulla terrazza principale, «pour considérer la situation des parterres des pièces d’eau et les fontaines des Cabinets». Fin dall’inizio, dunque,
l’attenzione è rivolta al quadro d’insieme; come
già osservato, in tutta l’opera di Le Nôtre assume
particolare importanza la qualità percettiva dell’immagine, l’effetto stabilito dalle regole della
prospettiva. Diverse volte, quindi, nella descrizione, sono segnalati i «points de veüe», i punti
da cui è possibile godere di particolari, studiate,
visuali. Il cammino è indirizzato subito verso
l’asse principale e la sua spiccata simbologia solare: Latona circondata dalle rane, le statue43 collocate sulle rampe di scale, l’allée royale, il
Bacino di Apollo con il canale sullo sfondo. In
seguito, girando su se stessi, appaiono di nuovo il
parterre ed il castello.
È la prima immagine che il re vuole offrire al suo
popolo, ma soprattutto alla nutrita folla di visitatori, nobili e ambasciatori, provenienti dai vari
paesi stranieri. Versailles vuole essere specchio
della Francia, e la Francia di Luigi XIV è, nei
suoi parterres, tutta rappresentata, a cominciare
proprio dalla terrazza del castello, da quel Parterre d’Eau allusivo delle innumerevoli ricchezze
del territorio.
La visita vera e propria comincia dal Parterre
Sud e dall’Orangerie, per poi introdursi nei vari
boschetti e avvicinarsi, seguendo un percorso laterale, al Bacino di Apollo, il fulcro di tutta la
composizione. Si entra e si esce in continuazione
dai boschetti, per poterne ammirare la varietà e
le peculiarità, ritornando di tanto in tanto sull’asse centrale ad osservare le variazioni dovute
al cambiamento del punto di vista. Giunti al Bacino di Apollo si ha la facoltà di dirigersi verso il
Trianon, situato ad una delle estremità del Grand
Canal, o scegliere di rimandare tale visita, risalendo, attraverso i boschetti del lato nord, verso il
castello. In questo caso il percorso non si diffe-
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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renzia, nelle modalità, da quello descritto per il
lato sud; colpisce, tuttavia, la poca attenzione dedicata alla statua di Encelado, protagonista del
boschetto omonimo: «On passera par Lancellade, où l’on ne fera qu’un demy-tour, et après
l’avoir considéré, on en sortira par en bas».
Encelado, il capo dei Giganti che si ribellò contro
Zeus e, per attaccare l’Olimpo, sovrappose più
montagne, è il monito scolpito del pericolo che
corrono gli imprudenti ad affrontare il potere
reale: folgorato dal re degli dei, il gigante cadde
sepolto sotto le rocce ed il suo grido di rabbia e di
dolore viene tuttora materializzato dal potente
zampillo che fuoriesce dalla sua bocca. Probabilmente l’allusione doveva essere, anche per Luigi
XIV, così eloquente da consigliare al visitatore
soltanto un fugace colpo d’occhio.
Al termine della descrizione viene considerata
l’ipotesi di visita alla Ménagerie ed al Trianon
Quand on voudra voir le mesme jour la Ménagerie et
Trianon, après avoir fait la pause auprès d’Apollon,
on ira s’embarquer pour aller à la Ménagerie. (…)
Après on se rembarquera pour aller à Trianon44.
Viene così evidenziata un’ulteriore valenza del
Grand Canal: la possibilità di fruizione come via
di comunicazione tra le parti più distanti del
parco. Le chaloupes, le barche dal comodo padiglione centrale, riccamente decorato da damaschi
e tappeti, erano le imbarcazioni più agevoli e
adatte a tale scopo, per il re ed il suo seguito; ma
una flotta eterogenea di vascelli45 solcava il percorso navigabile. Si trattava della riproduzione,
a scala ridotta, dei modelli di spicco della flotta
francese, di cui la Galera Reale, dai colori borbonici, blu e oro, lunga circa 20 metri e condotta da
42 rematori, era l’elemento più rappresentativo.
A conclusione del programma propagandistico,
l’esibizione della flotta serviva, dunque, da manifestazione della potenza marittima, commerciale
e militare, raggiunta dalla Francia.
Prima ancora di essere una residenza, Versailles
era, insomma, un efficace strumento politico al
servizio di Luigi XIV, il suo manifesto personale,
legato, nell’immaginario collettivo, allo splendore ed alla spettacolarità del giardino.
Ben presto ogni corte europea volle riprodurre
una favilla di tale splendore, agevolata, in questo,
dalla codifica, effettuata da numerosi trattati
sull’argomento, delle innovative soluzioni compositive.
Versailles divenne, dunque, un modello esportabile ovunque – almeno all’apparenza – sebbene la
semplice riproduzione di un repertorio formale
codificato non abbia sempre permesso di ottenere
esiti comparabili all’armonia tra idea e immagine
presente nella Reggia francese.
Non era, infatti, possibile raggiungere un risultato
simile a quello di Le Nôtre accostando semplicemente tra loro una serie di elementi, per quanto
ciascuno fosse valido nella sua compiutezza.
Anche se i numerosi giardini presenti in tutta Europa testimoniano risultati esteticamente piacevoli, soltanto comprendendo a fondo il modello –
e andando oltre i limiti che questo necessariamente imponeva – era possibile realizzare
un’opera di pari valore.
Le Nôtre aveva superato il problema dettato
dall’accostamento di aiuole e parterres col rivisitare la tradizione propria del suo tempo; in modo
analogo, occorreva che anche la “nuova” tradizione fosse smontata e ricomposta in forme che
assumessero nuovi significati.
Ma, perché ciò fosse possibile, era necessario tornare a comprendere che il giardino formale non
era nato in Francia nel Seicento.
Influenze dei giardini italiani
Pur essendo espressione del giardino francese
nella sua forma più matura, in realtà il Parco di
Versailles si pone al termine di un lungo percorso
che vede la sua origine nel rinascimento italiano
e, più precisamente, nella realizzazione del giardino del Belvedere da parte di Bramante. È, infatti, questo il termine ante quem non è possibile
parlare di giardino formale in contrapposizione
alla concezione spaziale del giardino – hortus,
chiostro – medioevale o in alternativa al giardino
paesistico inglese.
Racchiuso tra le sue mura – prototipo della chiusura propria dei giardini italiani del Cinquecento
– il Belvedere si configura come unità autonoma
in cui sostare come in un luogo ideale, in cui eser39
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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citare l’otium alla maniera degli antichi. La sua
triplice ripartizione richiama la contrapposizione
tra corpo e spirito, facendo coincidere il primo
con il livello più basso, dedicato a feste e tornei,
ed il secondo con il più alto, riservato all’arte46.
La disposizione su terrazze sovrapposte, necessaria per superare il dislivello esistente tra la residenza papale e la villa del Belvedere, diviene
così metafora di un percorso ascensionale che
dalla materialità porta alla spiritualità. Al centro,
l’indeterminatezza del livello intermedio si colloca come elemento di mediazione – ma anche di
separazione – tra corpo e spirito, caratteristica accentuata anche dalla presenza di scale che enfatizzano la dinamica ascensionale della struttura.
Infine, durante tutto il percorso, costante è la presenza dell’acqua come elemento che accompagna
nella salita al piano dell’arte, la cui presenza è
sempre dichiarata in elementi disposti sull’asse
centrale di simmetria della composizione. Dapprima l’acqua cattura l’attenzione al livello intermedio, nella fontana della nicchia centrale della
duplice rampa; poi accompagna l’ascesa con una
serie di fontanelle incassate nel muro di rivestimento della stessa rampa; infine accoglie, al livello superiore, in una grande fontana, isolata al
centro del giardino, che, primo termine del percorso, costituisce la sosta prima di raggiungere il
vero scopo della salita.
Giunti al centro del livello superiore, infatti, si
comprende che il percorso non è concluso: una
nuova nicchia, di dimensioni colossali rispetto
alla precedente, si apre alla vista e, nel suo centro,
una scalinata concavo-convessa, vera e propria
“cascata” marmorea, invita alla prosecuzione. Significativo è che anche questo elemento, nella realtà mai realizzato, fosse identificato dalla
presenza di una fontana, seppure muta: quella
pigna di bronzo, rinvenuta presso le terme di
Agrippa e già adoperata, con medesima funzione
di fontana, nell’atrio di ingresso dell’antica basilica di San Pietro.
Purtroppo la conformazione attuale del Belvedere
– in particolar modo dovuta al taglio operato nel
1587 con la costruzione della Biblioteca Vaticana47 che, di fatto, ha eliminato il livello intermedio – impedisce di comprendere pienamente
il valore del progetto bramantesco, percorrendo
40
il percorso ascensionale assiale fin qui descritto.
Tuttavia analogo percorso è possibile ravvisare
in un’altra villa coeva, che dell’abbondanza
dell’acqua ha sempre fatto un segno distintivo.
Si tratta della residenza voluta dal cardinale Ippolito d’Este costruita a Tivoli a partire dal 1550 e
che, dal 1560 vede delineare in maniera pressoché definitiva il proprio programma iconografico.
Ideatore del progetto è Pirro Ligorio, artefice, tra
l’altro, del completamento del Belvedere bramantesco – sua è, ad esempio, la conformazione attuale del nicchione con la Pigna – giardino da cui
può aver mediato alcune soluzioni compositive.
Ancora una volta il giardino è formato da tre
parti: in basso una zona pianeggiante, di accesso;
in alto la villa. Tra questi due elementi una serie
di terrazze di raccordo che ricordano la particolare morfologia scoscesa del sito.
L’antico ingresso – situato, a differenza di quanto
accade oggi, al piano inferiore – avveniva attraverso un portale affiancato da fontane che immetteva in un Giardino dei Semplici quadripartito da
due viali pergolati.
È, come nel Belvedere, il livello della corporeità
contrapposto alla spiritualità rappresentata dall’edificio. Il percorso diviene perciò, ancora una
volta, un’ascesa che non è soltanto materiale, ma
metaforica. I pergolati impediscono, una volta entrati, di percepire la presenza della villa, sebbene,
prima dell’ingresso, l’impianto, rigidamente simmetrico, fosse chiaramente visibile a chiunque.
Se, nella ricerca della strada, si devia dall’asse
centrale, ovvero ci si allontana da una volontà ordinatrice, si entra in quattro labirinti – nella realtà
ne furono realizzati soltanto due – che ulteriormente aumentano il senso di smarrimento. Al limite del giardino, pergolati indifferenziati
concludono questo concetto, mostrando che
nell’allontanarsi ulteriormente dalla via “verso
l’alto” è molto facile per l’individualità perdersi
nelle indifferenti forme del molteplice.
Proseguendo nella salita, laddove nel Belvedere
di Bramante si incontrava un livello indifferenziato, in quanto mediazione e separazione tra
corpo e spirito, in Villa d’Este si materializza
l’idea che la vita autentica si realizzi soltanto nell’unione di corpo e spirito. Tale unione è rappresentata in modo emblematico dall’acqua che,
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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nelle molteplici forme delle fontane, può richiamare, di volta in volta, l’idea di una maggiore
corporeità – come nella pesantezza delle masse
dei bacini dell’asse trasversale – o di una maggiore spiritualità-tensione verso l’alto, grazie al
dinamismo ed ai getti di fontane e giochi idraulici
presenti in ogni parte del giardino. Nella salita
alla villa, insomma, si è distratti costantemente
dall’asse centrale così come, nella vita reale, lo
si è dalla retta via di ascesa allo spirito. Ma, in
fondo, è in questo girovagare nel giardino, alla
scoperta delle numerose sorprese celate, che si
realizza compiutamente la vita, né soltanto corpo,
né pura spiritualità.
Chiuso all’interno del suo perimetro, il giardino
di Villa d’Este – ma la stessa cosa potrebbe essere
detta anche per il Belvedere – si configura così
come un organismo autonomo ed autosufficiente,
per il quale è ininfluente dialogare con il mondo
esterno dal momento che il mondo, come metafora dell’esistenza, può benissimo essere contenuto tutto all’interno delle sue mura.
Uno dei problemi principali di Vanvitelli era perciò, secondo Giuseppe Ghigiotti, quello di riuscire a trasferire ad un episodio di scala
territoriale quei caratteri di isolamento e di chiusura verso l’esterno che erano propri dei microorganismi rinascimentali italiani.
Nel compiere tale operazione a Caserta, spiega
Ghigiotti, Vanvitelli «approfitta anche del suggerimento della continuazione del vialone al di là del
palazzo reale per creare un macro-microcosmo, i
cui estremi compositivi dovevano essere Napoli e
la cascata, per dare al parco quella accentuata assialità, già esperimentata da Le Nostre, ma della quale
Vanvitelli conosceva benissimo le origini»48.
E queste origini Vanvitelli mostra di conoscerle
molto bene in una lettera indirizzata al fratello:
Etienne Dupérac, Villa d’Este a Tivoli, 1575.
41
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Quantunque io mi ricordi benissimo il bellissimo
Maestro Giardino di Bagnaja, tutta volta averò piacere
che il Signore Carlo me ne mandi uno schizzetto.
Questo Giardino, quel di Tivoli e quello di Frascati
Aldobrandini e Lodovisi sono li maestri Giardini di
Versaglies et reliquis49.
Vanvitelli utilizza perciò, come elemento unificante del cosmo del proprio giardino, quell’assialità sempre presente come linea guida nel
giardino formale. Tale assialità, che, ad una prima
lettura, sembra essere il principale elemento di legame con il giardino francese, risulta essere, invece, «il principio informatore dei principali
giardini italiani»50. Tuttavia sarebbe ingiusto dire
che Vanvitelli recupera modelli italiani dimenticando l’evoluzione dello stile e del gusto. Egli,
infatti, non rifiuta l’arte propria del suo tempo,
ma fonde insieme elementi di tradizione francese
con quelli di chiara matrice italiana, con il risultato di ottenere un’ulteriore evoluzione dell’idea
di giardino rispetto a quella codificata nel Seicento.
Il Parco di Caserta si colloca, insomma, come ultimo anello di quella “catena d’acqua” che da Villa
Lante in poi ha segnato profondamente l’arte dei
giardini tra il XVI ed il XVIII secolo. Se dunque si
può parlare di Caserta come ultimo esempio di
giardino formale, non dovrà essere intesa tale definizione nel senso di ultimo esempio di giardino alla
francese, ma come ultimo livello nella scala di evoluzione dell’arte dei giardini prima che il cambiamento di gusto aprisse le porte al completamente
diverso giardino paesistico.
In tal senso le citate parole di Vanvitelli sembrano
piuttosto esplicite, ed è possibile riconoscere in
esse un intento fondativo. Vanvitelli prende le distanze rispetto all’uso delle corti europee di reiterare le soluzioni della reggia francese, per
ricollegarsi al canone artistico che di quella ne
costituisce l’exemplum. Nel confronto diretto –
ed è quasi uno scontro con Versailles – Villa
Lante a Bagnaia, Villa d’Este a Tivoli e le ville
tuscolane Aldobrandini e Ludovisi risultano essere i «maestri Giardini». Il ritorno al modello
consente di riconoscere in queste ville, a cui ci
sembra opportuno aggiungere anche il Palazzo
Farnese di Caprarola, la matrice comune di tutte
le opere del XVII e XVIII secolo, alla cui origine
si trova una copiosa presenza idrica che, in mille
forme, permea di vita il giardino. In particolar
modo tale abbondanza trova compimento in un
particolare aspetto: la catena d’acqua, intesa, in
questo caso, non in senso metaforico, ma come
elemento dalla forte ed inequivocabile caratterizzazione formale.
La catena d’acqua del palazzo Farnese di Caprarola.
La catena d’acqua di Villa Lante a Bagnaia.
42
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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Giustificata dalla particolare morfologia del territorio, la catena d’acqua è infatti l’elemento che
meglio identifica il giardino italiano, sia che si
tratti di un singolo episodio architettonico – una
vera e propria successione di vasche concatenate
in un’unica fontana, come a Bagnaia o a Caprarola – sia che venga costituita da una serie di fontane disposte su uno stesso asse e collegate
secondo una triplice modalità: idraulica, percettiva e semantica51. Come ricorda Vanvitelli, è in
Villa Lante a Bagnaia che si trova l’esempio più
compiuto di questo nuovo elemento che rende
l’acqua protagonista indiscussa.
Nella Villa costruita nel 1573 per il cardinale
Giovan Francesco Gambara la catena d’acqua
non è soltanto un elemento architettonico autonomo, ma è espressione dello stretto legame che
nasce tra una fontana e l’altra, così da renderle
indissolubilmente collegate. A partire dalla Fontana del Diluvio, posta sulla sommità della collina su cui è adagiata la villa – o meglio le ville,
dal momento che si tratta di due casini identici ai
due lati dell’asse centrale – si sviluppa un percorso simbolico che sottolinea il passaggio dal
“selvatico”, rappresentato dal bosco, al cosmos,
cioè all’ordine e all’ordinato.
Il Diluvio è l’elemento di separazione tra un
prima, in cui, in una mitica età dell’oro, l’uomo
viveva in armonia con la natura, e un dopo, età
della ragione o di Giove52, nel quale l’uomo si
trova a lottare con le proprie forze per dominare
quella natura stessa.
Passando attraverso i due edifici – le case delle
Muse, ovvero le due sommità del monte Parnaso
dove sbarcarono Deucalione e Pirra – l’acqua zampilla nella Fontana dei Delfini per poi scendere attraverso la vera e propria catena d’acqua, formata
dall’avvolgersi delle chele di un gambero – chiara
allusione al nome del committente53 – e giungere
alla Fontana dei Giganti, in cui le due “colossali”
statue sono le personificazioni dei fiumi Arno e Tevere. A partire da questa fontana l’acqua si acquieta
momentaneamente e diventa “tovaglia trasparente”
sulla Tavola del Cardinale, ma si tratta di una tranquillità soltanto fugace. Subito dopo l’acqua torna
a scorrere vivacemente fino a concludere la sua
corsa nell’ampio bacino suddiviso da quattro ponti
che si ricollegano ad un isolotto centrale.
Luigi Vanvitelli, disegno di Villa Lante a Bagnaia.
La richiesta, da parte di Vanvitelli, di uno «schizzetto» di Villa Lante, villa che, peraltro, l’architetto afferma di ricordare benissimo54, appare
dunque significativa della necessità di guardare
direttamente al modello da cui hanno avuto origine infinite rielaborazioni55 e suggerisce la volontà di realizzare una nuova tipologia di giardino
che attinga direttamente alla fonte senza ripetere
forme e idee presenti in qualunque altra reggia
europea ispirata a Versailles.
Appare, in questo modo, il desiderio di celebrare
degnamente il sovrano attraverso un’opera che
sia “innovativa”, pur nel rispetto di una tradizione
consolidata56.
Ma nonostante ne prenda le distanze, inevitabilmente anche Vanvitelli si trova a doversi confrontare costantemente con Versailles.
In un’altra sua lettera al fratello, si legge:
Il Giardino di Versaglies è longho incontro al palazzo
col Canale e Parco tese numero 1550, che sono palmi
romani numero 13150, cioè palmi numero 183 meno
di due miglia. Il Giardino di Caserta fino alla cima
della Collina, ove è il Casino, è longho due miglia e
340 palmi, fino al fine del parco dietro al Casino circa
un 3° miglio bono bono, onde il discorso è breve; (…)
Per la larghezza del parco ancora non è destinata, ma
si puol fare assai più di quello; la larghezza e la longhezza del Giardino delle Delizie, cioè fontane e boschetti, il nostro è di pochi palmi maggiore, questo è
quanto57.
E se dal confronto dimensionale il Parco di Caserta esce vincitore, nell’elaborazione delle forme
43
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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che il nuovo giardino avrebbe dovuto assumere,
l’architetto non può esimersi dall’utilizzare le regole sintattiche di quella “grammatica” che, proposta da Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville,
era ormai affermata in tutta Europa.
Per quanto Vanvitelli dichiari, più di una volta, di
volersi allontanare dall’idea di realizzare l’ennesima copia di Versailles, in realtà è quasi obbligato ad utilizzare forme che, ad un secolo dalla
loro nascita, sembravano le uniche adatte ad
esprimere il fasto, la magnificenza ed il decoro
propri di un palazzo reale.
La diffusione del giardino francese in Europa
La fama di Le Nôtre aveva valicato, già tra i suoi
contemporanei, le frontiere di Francia 58. A partire
dalla fine del XVII secolo sembra che buona
parte dei giardini di tutta Europa sia a lui attribuibile o sia stata realizzata sotto la sua diretta influenza59 e per buona parte del Settecento, nota
Christian Norberg-Schulz, «altre potenze europee, grandi e piccole, vollero imitare la soluzione
simbolica di Luigi XIV» ottenendo «specie in
Austria, in Germania e in Russia, una proliferazione di spazi organizzati attorno a un asse centrale»60.
Uno dei primi giardini europei, realizzati sul modello di Versailles, fu quello tedesco di Herrenhausen, iniziato nel 1680 e proseguito per oltre un
decennio. Il giardino nacque dalla volontà di Sofia,
moglie di Ernst, Elettore di Hannover, che in
Olanda, suo paese natale, aveva conosciuto l’opera
di Martin Charbonnier, il progettista francese a cui
si rivolse per la realizzazione dell’opera.
Il Grosser Garten di Hannover presenta quindi
elementi d’influenza francese insieme a quelli di
derivazione olandese, anche se il tutto è impostato su di un rigoroso impianto di matrice tedesca. A causa dell’assenza di canali nella parte
principale del giardino, l’acqua non assume un
carattere dominante nella composizione, ma assolve comunque un’importante funzione connettiva nel raccordare le varie parti disposte
simmetricamente rispetto al viale centrale.
A Herrenhausen infatti l’uso dell’acqua è limitato
esclusivamente a poche fontane, che creano i
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punti nodali tra gli assi di collegamento dei singoli parterres. I canali, secondo un uso che rispecchia l’influenza olandese, sono invece
disposti, affiancati da file di alberi, a racchiudere
completamente la vasta area rettangolare. Il giardino, che ricopre circa cinquanta ettari, risulta tuttavia poco organico, mostrando nella planimetria
quasi la giustapposizione di due parti piuttosto
che una loro reale integrazione.
Nella zona più vicina al palazzo, un complesso
gioco di parterres si sviluppa attorno ad un singolo bacino circolare; nella seconda metà, invece,
un vasto boschetto a quinquonce presenta le fontane collocate esattamente nei suoi nodi principali: al centro la fontana più importante,
caratterizzata dall’enorme getto, ai quattro angoli
altre quattro vasche, più piccole, ciascuna con singoli getti centrali.
Al contrario di quanto accade a Herrenhausen,
nelle residenze dell’Elettore di Baviera Max Emanuel, Nymphenburg e Schleissheim, il ruolo dell’acqua torna ad essere predominante, divenendo
addirittura l’elemento di unione tra i due giardini.
Tra Nymphenburg e Schleissheim si viene infatti
a costituire un sistema ad anello che trae origine,
ad ovest, dal fiume Würm da cui si diramano i
due canali di adduzione destinati ai due palazzi,
e si conclude, ad est, con un complesso di canali
artificiali che collegano direttamente i parchi
delle due residenze. Entrambi gli interventi, voluti da Max Emanuel che, nel periodo in cui era
governatore dei Paesi Bassi Spagnoli, era entrato
in contatto con Dominique Girard, allievo di Le
Nôtre, vennero effettuati a partire dal 1715 per
riadattare, secondo il nuovo gusto imperante,
strutture già esistenti.
A Schleissheim61, dove già nel 1684 Enrico Zuccali aveva fissato la struttura di base del parco
con i canali, Girard realizzò, fra il 1715 e il 1726,
nello spazio antistante il Castello Nuovo, un
ampio parterre con aiuole, sculture e giochi d’acqua. In particolare venne riorganizzata la composizione comprendendo anche il Lustheim, che ne
divenne il punto visivo conclusivo, venne ampliato, anche percettivamente, l’asse principale –
su cui attualmente si trova un largo canale, probabilmente, però, successivo al suo intervento – e
venne realizzata la cascata.
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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L’intero spazio del giardino è poi racchiuso da canali secondari, tra cui, in modo inusuale ma notevole, si segnala il canale semicircolare che
circonda il Lustheim ed il suo parterre rendendolo raggiungibile, all’epoca, soltanto in barca.
A Nymphenburg, residenza che già nel 1701 Max
Emanuel aveva iniziato ad ampliare insieme al
giardino, Girard si trovò a proseguire nell’opera
iniziata da un altro allievo di Le Nôtre, Charles
Carbonet, il probabile ideatore del canale, tracciato proprio a partire dal 1701 attraverso il bosco
esistente, per l’adduzione dell’acqua dal fiume
Würm, distante circa 2 chilometri. Sempre dopo
il 1715, Girard, coadiuvato nell’intervento dall’architetto della corte bavarese Joseph Effner, si
occupò di completare il sistema dei canali, oltre
a realizzare la gran quantità e varietà di vasche e
bacini e le necessarie opere idrauliche. Inoltre,
sempre a loro si devono le opere di finitura dei
parterres e la sistemazione complessiva del
parco.
Anche in questo caso il lungo canale centrale è
certamente l’elemento più significativo: da un
lato svolge la duplice funzione di asse di simmetria del parterre e di elemento di adduzione dell’acqua, dall’altro si collega ad una serie di canali
secondari, che in parte circondano il palazzo, donando l’impressione che l’edificio ed il giardino
si trovino su di un’isola, ad imitazione di quanto
avviene a Chantilly. Infine, come già osservato,
l’insieme di canali prosegue oltre il palazzo, ricollegandosi al più vasto sistema che mette in comunicazione i parchi di Nymphenburg e di
Schleissheim.
Alla fine del regno di Max Emanuel, nel 1726, a
Nymphenburg si poteva ammirare una piccola ri-
produzione di Versailles. Il giardino, simmetrico
rispetto all’asse centrale, che emergeva dalla facciata ovest del palazzo, era progettato attorno ad
una serie di diciannove fontane. Nelle zone più
vicine al palazzo, le quattro sezioni del Large
Parterre erano decorate da ornamenti floreali,
veri e propri parterres de broderie che circondavano la vasca con la Fontana di Flora, in marmo
bianco, collocata nell’intersezione degli assi.
Oltre il parterre, i boschetti erano organizzati in
una lunga serie di stanze vegetali, attrezzate per
i passatempi della corte. Attorno a quest’area del
giardino, un’estesa zona era realizzata all’interno
del bosco preesistente. Due gruppi di sei viali rettilinei, ognuno dei quali originato radialmente a
partire da un nodo centrale, si inoltravano nel
parco, fino a raggiungere, in alcuni casi, l’estremità del canale, ai limiti occidentali, segnata dalla
cascata progettata da Effner. Per caratterizzare
ciascun nodo, Effner costruì due padiglioni, a
nord il Pagodenburg, a sud il Badenburg, circondati entrambi da giardini formali con vasche e
fontane.
Nella seconda metà del XVIII secolo, il cambiamento di gusto e la propensione verso il giardino
paesistico di derivazione inglese, determinarono
la trasformazione di Nymphenburg da parte di
Friedrich Ludwig von Sckell. Incaricato di modificare l’intero impianto geometrico barocco, von
Sckell non poté, tuttavia, intervenire sulla struttura
portante, costituita dal parterre e dal canale terminante nella cascata, limitandosi a sostituire
l’originario sistema laterale, di viali ed assi geometrici, con un disegno di elementi più naturali.
Occorre segnalare, infine, tra i giardini tedeschi
direttamente connessi a Versailles, anche quello
Il Parterre d’Acqua di Herrenchiemsee, a sinistra, a confronto con quello di Versailles, a destra.
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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di Herrenchiemsee, voluto dal re di Baviera, Ludovico II, a espressa imitazione della reggia francese62.
Il progetto del sito fu incentrato soprattutto sull’area che si sarebbe vista dalle stanze centrali
della facciata principale del palazzo, la Stanza del
Re e la Sala degli Specchi, e comprese, ad ovest,
il parterre principale, suddiviso in moduli geometrici, ed il canale che conduce al vicino lago.
Numerose fontane decorano l’intero impianto, tra
le quali sono da ricordare, per la loro sfacciata
derivazione dal modello francese, quelle di Latona, della Fama e della Fortuna, nonché il Parterre d’Acqua.
In Russia, il fascino delle fontane di Versailles, e
delle altre dimore reali francesi, esercitò un sentimento d’emulazione in Pietro il Grande, che
volle proporre le medesime suggestioni nella sua
nuova residenza estiva del Peterhof, vicino a San
Pietroburgo. Il progettista incaricato della trasformazione del sito, in cui i lavori erano iniziati già
dal 1714 ad opera di numerosi architetti, tra cui
l’italiano Nicola Michetti, fu ancora una volta
uno dei probabili allievi di Le Nôtre, Jean-Baptiste Alexandre Le Blond63, autore, tra l’altro, di alcune tavole illustrative del trattato di Dézallier
d’Argenville e attivo in Francia fino al 1716,
anno in cui lasciò la patria per lavorare presso
l’imperatore di Russia.
Come accadde per Versailles, anche la realizzazione del Peterhof, grazie al suo sistema di fontane, divenne strumento di propaganda politica,
opera tesa a proclamare la ricchezza delle risorse
e la potenza raggiunte dalla nuova Russia dello
zar Pietro il Grande. Il successo dell’impresa
venne garantito proprio dalla considerevole presenza d’acqua, fatta giungere dalle colline limitrofe grazie all’acquedotto opera dell’ingegnere
idraulico Vasily Tuvolkov, artefice anche dell’intero sistema di distribuzione. In questo legame
con l’acqua Peterhof si relaziona anche all’altra
importante realizzazione di Pietro il Grande, San
Pietroburgo, la città dai numerosi canali, costruita
sul mare. E come in San Pietroburgo, anche a Peterhof era possibile giungere via mare, attraverso
il canale, lungo circa 600 metri, che congiunge la
residenza al Golfo di Finlandia.
Il giardino è suddiviso in due zone, il Parco Su46
periore, con 5 fontane, completato da Bartolomeo
Rastrelli, e il Parco Inferiore con un ricchissimo
complesso di fontane. L’acqua, attraverso un acquedotto lungo circa 20 chilometri, giunge nei
bacini del Parco Superiore, che svolgono la funzione di serbatoi idrici, e in seguito è incanalata
verso il palazzo, oltrepassato il quale riemerge
dalla terrazza balaustrata, scaturendo alla sommità della cascata che richiama quella altrettanto
celebre di Saint-Cloud. La Grande Cascata di Peterhof è il vero manifesto della grandezza dello
zar Pietro. In essa sono infatti presenti tutti gli
elementi propri della tradizione dei giardini formali, derivanti dai modelli francesi ed italiani:
statue bronzee di divinità ed eroi, che, alternate
ad urne, accompagnano e sottolineano la discesa
dell’acqua, secondo uno schema ravvisabile
nell’Allée Royale di Versailles; sculture decorative e bassorilievi; due scalinate d’acqua dai gradini di marmo bianco; una grotta, la Grotta
Maggiore, che funge da basamento decorativo
del palazzo e da cui sgorga la cascata. Dalla sommità della cascata l’acqua si getta in un bacino
semicircolare e prosegue, lungo l’asse centrale,
nel canale marittimo che, affiancato da due file
di piccole vasche circolari dai singoli zampilli,
era utilizzato, con uno spettacolare effetto scenografico, per gli ingressi cerimoniali al palazzo.
Al centro del bacino semicircolare è presente una
statua di Sansone64 raffigurato nell’atto di divaricare la bocca di un leone, che ben rappresenta lo
spirito di potenza che l’opera dello zar voleva
esprimere. Dalle fauci del leone fuoriesce infatti
un getto d’acqua di circa 21 metri, a competere,
quasi, con il getto dell’Encelado di Versailles.
Numerose altre fontane, infine, si susseguono nel
resto del parco. Tra queste altre due scale d’acqua
alle due estremità del Parco Inferiore: ad est la
Cascata della Scacchiera o dei Draghi, ad ovest
quella della Collina d’Oro. Nell’intersezione dei
viali principali le due Fontane di Adamo ed Eva
sottolineano i punti nodali, mentre numerose altre
fontane sono di pertinenza dei vari boschetti, tra
cui la Piramide – ancora di derivazione francese
– formata da 505 getti d’acqua distribuiti su sette
livelli, e la Fontana del Sole, dove un disco, rotante su di un pilastro, fornisce l’immagine dell’astro attraverso la rifrazione di numerosi spruzzi
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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Peterhof. La Grande Cascata.
d’acqua. Infine c’è una notevole serie di fontane
con scherzi d’acqua che vengono attivati quando
si entra nel loro campo d’azione.
Come preferito per i giardini francesi, quelli fin qui
descritti sono tutti situati su territori pressoché pianeggianti, idonei, cioè, ad una successione elaborata di parterres, fontane e canali. Alcune volte,
però, si cercò di andare oltre le difficoltà proprie
del luogo, legate in particolar modo alla morfologia, cercando di adattare gli schemi propri del giardino francese a realtà territoriali profondamente
diverse da quelle previste e decisamente meno favorevoli. È, ad esempio, il caso dei giardini della
Granja di San Ildefonso, vicino a Segovia, fortemente voluti da Filippo V, nipote del Re Sole.
Divenuto re di Spagna, Filippo V, cresciuto in
Francia come Duca di Anjou, volle emulare la
grandeur del suo avo, facendo realizzare un giardino degno di Versailles. Numerosi artisti, che
avevano lavorato nella reggia francese, sotto la
direzione di Le Brun, vennero chiamati per creare
le ventisei fontane e le innumerevoli statue che
punteggiano i viali65. A causa della morfologia del
sito, fortemente montuoso, il carattere del giardino oltre a riprendere elementi di gusto francese
deve necessariamente acquisire uno stile più italiano, quest’ultimo introdotto in Spagna anche
grazie alla seconda moglie di Filippo, Elisabetta
Farnese. Come nella tradizione italiana l’elemento principale diviene allora l’imponente mostra d’acqua, che si sviluppa lungo le pendici del
monte che si innalza di fronte al Palazzo Reale.
L’asse principale, che ha origine dalla facciata,
congiunge gli appartamenti di Filippo con la cascata, alla cui sommità si trova un padiglione costruito, in analogia con il palazzo, in granito rosa
di Segovia e marmo bianco.
L’acqua, che proviene direttamente dalle montagne circostanti, è raccolta nel grande lago-serbatoio, il cosiddetto Mar, e nel più piccolo Stagno
Quadrato. Da qui, partendo dalla Fontana delle
Tre Grazie, si origina la “catena d’acqua” che termina nella Fontana di Anfitrite. Ai lati, come già
osservato nel Peterhof, ci sono urne alternate a
statue, di nuovo un richiamo immediato a Versailles, non soltanto, in questo caso, per la disposizione delle statue, ma anche per la scelta dei
soggetti allegorici che sembrano riprendere quelli
della Grande Commande del 1674.
Tra le numerose fontane del giardino alcune ri47
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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specchiano chiaramente quelle di Versailles,
come si è osservato anche a proposito di Herrenchiemsee. In questo caso la Fontana delle Rane,
che trae origine dalla simile Fontana di Latona;
la Plazuela de los Ochos Calles66, che ricorda nell’impianto la Colonnade di Mansart, la Fontana
della Fama67, ispirata al Bosquet des Dômes, la
Fontana di Nettuno, che nella sua immagine riprende la corsa di Apollo sul Grand Canal.
Altre fontane sono invece interessanti perché sviluppano soggetti che circa un quarto di secolo
dopo è possibile ritrovare anche a Caserta, sia
nella Dichiarazione di Luigi Vanvitelli, sia nel
parco realizzato. Si tratta della Fontana di Andromeda, della Fontana di Eolo e dello spettacolare
Bagno di Diana68, fontana, quest’ultima, non particolarmente apprezzata da Filippo V che, sottolineando l’enorme spesa sostenuta, commentò:
«Mi è costata tre milioni e mi ha divertito solo tre
minuti».
In realtà in Italia non si ebbe una grande diffusione dei modelli francesi, se non nell’area piemontese che, geograficamente e politicamente
era la più legata al regno d’oltralpe69. Dal prototipo francese viene ripreso, soprattutto, l’estendersi delle assialità fino all’orizzonte ed il
disegno radiocentrico di numerosi viali che si intersecano disegnando complesse geometrie sul
territorio, come si riscontra, ad esempio, nella residenza sabauda di Stupinigi, iniziata nel 1729 su
progetto di Filippo Juvarra e fonte ispiratrice di
alcune parti dell’opera vanvitelliana70.
La Granja di San Ildefonso. Fontana di Anfitrite.
48
Ma l’influenza di Juvarra sull’intera opera di
Vanvitelli è di rilievo anche più profondo.
A Juvarra, riconosciuto dalla critica come uno dei
suoi maestri, Vanvitelli deve soprattutto l’idea di
una concezione spaziale propria della teatralità
barocca, attraverso cui sia lo spazio architettonico,
sia quello naturale, possono essere rappresentati
in maniera scenografica. È questa una concezione
fortemente pittorica dell’architettura, originata,
probabilmente, anche dalla formazione ricevuta
dal padre Gaspar71, dall’iscrizione all’Accademia
di S. Luca, che vedeva nel basilare esercizio del
disegno il fondamento di tutte le arti, e dall’ammirata osservazione delle illusionistiche prospettive72
realizzate da Pier Leone Ghezzi e Giovanni Paolo
Pannini nelle ville tuscolane.
Sembra perciò del tutto naturale che Vanvitelli,
prima pictor73 e poi architectus, come si definisce
nel ritratto ufficiale conservato proprio presso
l’Accademia di San Luca, rimanesse affascinato
dalle potenzialità scenografiche espresse dall’uso
della prospettiva, così come, un secolo prima di
lui, André Le Nôtre, con il quale condivideva la
formazione nel disegno, nella pittura e nell’architettura. L’adozione dell’asse centrale, nel giardino di Caserta, non è, quindi, la semplice
ripetizione di un motivo derivato dall’opera del
predecessore francese, come dimostra la sua rielaborazione ed integrazione con l’italiana catena
d’acqua, ma è anche acquisizione di un elemento
dalla forte connotazione scenografica, impiegato
al massimo delle sue potenzialità sul territorio.
Se infatti nell’opera di Le Nôtre l’asse principale
tende all’infinito, giungendo, all’orizzonte, ai confini del giardino, in Caserta l’asse è teatralmente
ed apertamente esibito attraverso il suo arrampicarsi lungo le pendici del Monte Briano, così da
divenire esso stesso termine ultimo della visione
e, attraverso l’esibizione della cascata, primo motore dello scorrere dell’acqua nel giardino.
Occorre, a questo punto, analizzare un altro degli
aspetti che, in filigrana, è possibile leggere nella
Reggia di Caserta e che testimonia la rilevanza
primaria dell’idea ad innervare l’esistenza di un
progetto, così da produrre risultati di livello eccelso. Ancora una volta si tratta di un aspetto già
osservato, seppur con altre modalità, in Versailles: è il rapporto intercorrente tra committente e
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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artista, che, nel caso della Reggia francese, si risolse in un felice connubio tra Luigi XIV ed
André Le Nôtre74. Allo stesso modo, nel caso
della Reggia di Caserta, inscindibile è il legame,
tra espressione artistica e concetto performativo,
derivante dalla profonda comunione d’intenti esistente tra il re, Carlo III, ed il suo architetto, Luigi
Vanvitelli.
La figura del committente: Carlo di Borbone
Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e
di Elisabetta Farnese, nacque a Madrid il 20 gennaio 1716. In seguito al trattato detto della
Quadruplice Alleanza, stipulato a Londra nel
1718 e ratificato nelle sanzioni stabilite dalla pace
dell’Aja del 1720, fu deciso che, in mancanza di
eredi diretti dei Farnese, i ducati italiani di loro
pertinenza sarebbero passati ai figli di Elisabetta.
In tal modo Carlo divenne duca di Parma e Piacenza nell’ottobre del 1732. Nel corso della sua
permanenza in Emilia, durata fino al gennaio
1734, il giovane duca ebbe modo di apprezzare
particolarmente i luoghi degli antenati materni,
abitando soprattutto nelle residenze extraurbane
di Colorno e di Sala Baganza, dove amava dedicarsi alla sua grande passione, la caccia.
«Da Parma [il giovane Carlo] scrisse ai genitori
che Colorno era molto più bella del loro nuovo
palazzo di San Idelfonso, e che le pianure parmigiane gli piacevano più delle colline toscane»75.
È significativo questo confronto tra Colorno ed
il palazzo della Granja di San Ildefonso: mentre
quest’ultimo fu voluto da Filippo V con la dichiarata intenzione di riprodurre i fasti della Reggia di
Luigi XIV, Colorno76, come successivamente Caserta, risulta essere invece il prodotto dell’unione
di elementi italiani e francesi che ne fecero, all’epoca, uno dei più celebri edifici in Italia, considerato, anch’esso, come un’altra piccola
Versailles. Il giardino, di circa 4 km, risultava
suddiviso «nel giardino dei fiori, nel giardino
campestre e nel Real serraglio (detto anche il
bosco della caccia). In particolare, nella prima
parte erano stati disposti berceaux inseriti in più
ordinati “sieponi” semicircolari di carpini collegati da viali di ippocastani, tigli, olmi, pioppi che
si alternavano a vasi, statue e fontane: l’acqua era
un elemento importantissimo, che usciva dal
suolo con alti spruzzi e cascate, vitalizzando le
grandi scenografie formate da piante e fiori»77.
Ricorda inoltre Luigi Zangheri che :
L’elemento centrale di questo giardino era determinato dall’ellisse dell’Aranceria formante l’ultimo elemento del terrazzamento superiore, dove cinque fila
di vasi di agrumi costituivano una sorta di anfiteatro
su cui era impostata la focale dalla quale si aprivano
le due prospettive dell’asse principale. La prima prospettiva verso il palazzo iniziava con il disegno dei
grandi parterre e veniva sottolineata da un doppio colonnato di marmo e dal volume formato da alte pareti
di verzura. La seconda prospettiva era invece rivolta
verso il bosco di Mezzaluna con un tridente di viali
che vi si inoltravano per più di quattro chilometri ininterrotti se non trasversalmente da percorsi secondari78.
È possibile che la frequentazione di tale ambiente
abbia influito nella progettazione delle proprie residenze da parte del futuro re di Napoli79.
A tal proposito sembra interessante notare che
uno degli elementi più caratteristici della Reggia
di Caserta, il Vestibolo di ingresso, ha alcuni elementi in comune con l’atrio d’ingresso al Giardino del Palazzo Ducale di Colorno, raffigurato
in un’incisione del 1726. Nell’immagine è infatti
rappresentato un semiottagono al centro del quale
si apre il viale che conduce nel giardino, mentre
ai lati si nota lo scalone, a doppia rampa, che
porta al piano superiore.
È quindi possibile che il sovrano abbia descritto
al suo architetto alcuni ricordi di un ambiente che
tanto gli era rimasto nel cuore, le cui caratteristiche principali – forma ottagonale, apertura sul
giardino, rampa dello scalone – sono state poi
riprese nella realizzazione dell’opera casertana.
Un’eco del soggiorno a Parma si può riscontrare,
infatti, anche nel tentativo di riprodurre all’interno del parco di Capodimonte80, realizzato da
Angelo Carasale a partire dal 1735, un impianto
simile a quello della residenza di Sala Baganza.
Sala Baganza era una sede caratterizzata da una
spiccata destinazione venatoria, voluta da Antonio
Farnese nel corso della ristrutturazione eseguita
tra il 1723 e il 1726 e caratterizzata da un impianto
a patte d’oie di chiara derivazione francese81.
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Come negli impianti di oltralpe, anche il disegno
del nuovo parco di Sala Baganza «presentava un
impianto stellare con viali convergenti in un piazzale centrale quale luogo di incontro dei cacciatori.
Altri percorsi secondari intersecavano la viabilità
principale e consentivano di seguire la selvaggina
fino alla sua cattura o al suo abbattimento»82.
Il parco di Capodimonte – per il cui progetto
dopo il Carasale furono incaricati prima Giovanni
Antonio Medrano e Antonio Canevari83, successivamente Ferdinando Sanfelice84 ed infine Ferdinando Fuga85 – disponeva di un ingresso
monumentale in cui la cancellata, a ridosso della
via pubblica, si apriva in un vasto spazio ellittico
da cui partivano radialmente sei grandi viali.
Mentre quelli laterali terminavano dopo un breve
tratto, i viali centrali si inoltravano sulla collina
adattandosi alla pendenza del terreno; in particolare il viale centrale si prolungava per oltre un
chilometro e mezzo fino a raggiungere una gigan-
tesca statua di Ercole, situata al centro di una
piazzola panoramica circolare86. Ai viali principali si intersecavano, trasversalmente, percorsi
più piccoli provenienti da boschetti a stella.
Questo Parco fu particolarmente amato da Carlo
III per le numerose battute di caccia ed è pertanto
possibile supporre che, in modo analogo a quanto
ipotizzato per il rapporto Sala Baganza-Capodimonte, il ricordo della bellezza di Colorno possa
essere stato ricercato anche nel Parco della nuova
Reggia voluta per trasferire la corte da Napoli in
un luogo più sicuro.
Caserta ebbe, quindi, sin dalle origini, la vocazione, l’aspirazione ed il destino di divenire il
corrispondente italiano di Versailles87. Tuttavia
prima di condurre un’analisi sulle architetture per
l’acqua presenti nel Parco, in rapporto anche al
corrispettivo francese, è interessante ricordare e
valutare anche il ruolo delle preesistenze sul sito
ed il loro rapporto con l’intervento vanvitelliano.
Musicanti nell’atrio all’ingresso del Giardino del Palazzo Ducale di Colorno, da Delizia Farnesiana in Colorno, 1726.
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Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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Il sito della Reggia di Caserta
È sempre Giuseppe Ghigiotti a ricordare che Vanvitelli «adagia la sua chiara e razionale composizione su un terreno estremamente vario e ricco di
suggerimenti (…) dando origine ad una incredibile unità tra parco e paesaggio, ben lungi dalle
assolutistiche realizzazioni francesi, concepite in
un’incuria totale di ciò che vi era intorno»88.
L’amenità del luogo, l’assenza di imbarazzanti
preesistenze storiche che togliessero lustro al
messaggio Borbonico e la giusta distanza dalla
città di Napoli, come ricorda Anna Giannetti,
sono le tre caratteristiche che da sole spiegano il
successo del progetto per la Reggia di Caserta.
La zona casertana è infatti situata al centro dell’area denominata Campania Felix, una terra
estremamente fertile in cui la centuriazione romana dell’ager publicus, effettuata probabilmente intorno al 165 a.C. ed ancora
perfettamente leggibile nel territorio, è la prima
diretta testimonianza della vocazione agricola di
quest’area che deve proprio alla terra la sua fonte
di ricchezza. Ma accanto alla fertilissima campagna bisogna ricordare gli altri elementi che hanno
concorso nei secoli a conferire al sito il carattere
di un locus amoenus: la natura rigogliosa dei
monti, il clima mite, la presenza del sole per molti
giorni durante l’anno, la vicinanza del mare. Elementi già esaltati da Boccaccio nell’Elegia di
Madonna Fiammetta, ricordo del suo soggiorno
napoletano, e la cui armonia, parecchi secoli
dopo, sembra catturare anche Goethe recatosi in
visita alla Reggia vanvitelliana in costruzione89.
Nella «più lussureggiante piana del mondo»,
come afferma il poeta tedesco, Vanvitelli è riuscito ad armonizzare i caratteri del nuovo Parco
con quelli del territorio circostante, rendendolo
ancor più locus amoenus per eccellenza.
Sembra dunque impossibile che in un luogo di
siffatta bellezza la costruzione borbonica si inserisca in un terreno alieno da preesistenze. È lo
stesso Vanvitelli a generare l’equivoco, come evidenzia sempre Anna Giannetti
Nella dedica ai sovrani che precedeva l’illustrazione
del progetto, l’architetto, infatti, ricordava «il sito
vantaggioso destinatomi per fabbricarvi uno spazioso
Eccelso Palazzo, con i materiali più preziosi» prodotti
dal regno e per «piantarvi un ampio Giardino, che ai
più rinomati non ceda» e quali fossero i vantaggi era
spiegato nelle successive pagine della Descrizione: la
vicinanza alla metropoli del regno, «l’ampiezza delle
vedute», e la «vaga disposizione delle colline»,la salubrità dell’aria e la ricchezza d’acqua. Compiuto il
dovuto omaggio a quella amena campagna «ch’ebbe
per eccellenza il nome di Campania, e il cognome di
Felice», Vanvitelli ne ripercorreva gli antichi splendori per soffermarsi sul tempio di Diana Tifatina e
sulle rovine dell’acquedotto dell’acqua Giulia, le due
«fastose reliquie» che dall’alto vegliavano sulla vasta
piana dove sorgeva la città di Caserta «opera tumultuariamente fatta da Longobardi, in rozzi e poveri
tempi», concludendo che «finalmente la prima destinazione di così ameno e piacevole sito per uso di deliziose magnificenze» era quella voluta dai sovrani e
da lui disegnata90.
Vanvitelli non sembra dunque considerare nient’altro che un importante passato – ricordato per
la chiara matrice romana, rappresentata simbolicamente dalle due «fastose reliquie» del tempio
di Diana Tifatina e dell’acquedotto dell’acqua
Giulia – e la città di Caserta, citata per le sue origini longobarde avvenute «in rozzi e poveri
tempi»91. È evidente l’intento celebrativo, se non
adulatorio: a partire dai rozzi tempi medioevali
niente e nessuno è riuscito a riportare la zona alla
grandezza raggiunta in epoca romana, fino all’intervento voluto dai sovrani Borbone e progettato
dall’architetto stesso92.
La storia di Casa Hirta è in realtà ben più complessa di quanto Vanvitelli stesso ricordi o voglia
far credere. La città vanta infatti un passato prestigioso: da castrum militare e dimora feudale, a
Civitas Normanna dell’XI secolo, sede comitale
e vescovile.L’avvicendarsi degli Svevi e degli
Angioini comporta per il feudo numerosi passaggi di proprietà e la storia dell’area su cui sorgerà la Reggia Borbonica ha origine proprio in
questo periodo.
Agli inizi del Trecento Roberto d’Angiò concesse
il feudo al catalano Diego di Lahart93 giunto in
Italia al seguito di Donna Violante di Aragona; la
sua famiglia, con il nome italianizzato di Della
Ratta, rimase feudataria per circa due secoli della
contea e vi trasferì la propria abitazione da
51
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Caserta Vecchia stabilendosi in una torre posseduta nella pianura, costituendo il primo nucleo attorno al quale si svilupperà l’odierna città di
Caserta. L’area limitrofa all’abitazione acquisì
subito carattere di hortus conclusus, come testimonia un documento notarile del 1327:
Item Jardenum parvum constructum in ipsis domibus
de Turri cum aranciis, limonibus, cedris, & aliis arboris fructiferis, & pede uno de rosa, & Jardenum ipsum
est muro circundatum. Item Jardenum unum aliud magnum constructum in ipsis domibus, & circundatum
muris cum arboribus fructiferis, & aranciis94.
La destinazione d’uso di quest’area affonda
quindi le sue radici nel passato, sebbene non si
possa attribuire a questo primo nucleo medioevale
nessun rapporto diretto con la trasformazione settecentesca, se non quello di attestare la costante
presenza di un giardino attraverso i secoli.
Il passaggio di proprietà generato dal matrimonio
di Caterina Della Ratta, sposa nel 1486 di Cesare
d’Aragona ed in seconde nozze di Andrea Matteo
Acquaviva d’Aragona, introduce elementi che la-
sceranno la propria impronta significativa.
La famiglia Acquaviva aveva in Andrea Matteo95
un esponente estremamente potente e ricco che,
come ricorda Scipione Ammirato, «per nobiltà di
sangue, per le immense ricchezze, per le vastissime signorie, con magnificenza reale sopra ogni
altro Barone d’Italia splendidamente vivea»96.
Sotto il suo dominio, il territorio di Caserta subì
una progressiva duplice bonifica ad opera dei
Vicerè, sia nei confronti dei banditi che imperversavano nella zona, sia nei confronti delle zone
paludose, permettendo al villaggio, sorto attorno
alla residenza, di ampliarsi e divenire un insediamento stabile in pianura, denominato Torre.
L’antenato del giardino vanvitelliano si deve,
però, a Giulio Antonio Acquaviva, Principe dello
Stato di Caserta dal 1578. Erede della tradizione
umanista e strettamente collegato all’ambiente
romano, Giulio Antonio attuò grandiosi lavori di
restauro, ristrutturazione e ampliamento, che vennero proseguiti e completati dal figlio Andrea
Matteo a partire dal 1594. Il complesso comprendeva tre giardini ed un bosco che si estendeva
fino alla montagna di San Leucio, occupando,
circa il medesimo territorio dell’attuale parco
borbonico.
Il primo era un giardino pensile, cui si accedeva dalla
galleria dell’Appartamento Grande, «di fiori murato
con i suoi finestroni et archi, piantato compartito con
due quadri e guide intorno, con piedi di agrumi piccoli
et con diverse sorti di fiori dentro con partimento di
mattoni e due spallere nelle mura», chiuso agli occhi
indiscreti, alla calura e al gelo della piana, sorta di
serra nel cuore del piano nobile. Gli altri due, più
ampi, si trovavano rispettivamente sulla destra del
cortile del palazzo e ad una quota inferiore collegata
«per altra grada scoverta» che girava dietro di esso:
uno era «compartito con 4 strade, nel mezzo vi è una
fontana a forma di ottangolo» e verso l’ingresso al
parco aveva «una cisterna con due nicchie e statue con
altra fontana con due statue di marmo sopra la porta
che corrisponde col giardino di fiori con loggia piantata e coverta»; l’altro era un giardino «di fiori»97.
Giovanni Antonio Nigrone, fontana realizzata per il Principe di Avellino.
52
Ma l’elemento ancor più interessante è la presenza, anche nel bosco, di statue e fontane che
rendevano il luogo degno di meraviglia, come attestato dagli “Apprezzi” effettuati tra il 1635 ed il
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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1636 da Pietro De Marino e da Francesco Guerra
al fine di descrivere, in modo estremamente
accurato, le rendite e le tipologie dei beni
presenti alla morte di Andrea Matteo: «larghe
strade nel principio, et nel mezzo, et per traverso,
per le quali da un solo luogo si vedono tre strade
per le quali nel mezzo in testa et nel fine sono bellissime fontane, quali fanno bellissima prospettiva di lontananza»98. A tale caratteristica fa
riferimento anche il poeta napoletano Giulio Cesare Cortese nella sua opera Viaggio di Parnaso,
quando il protagonista, giunto alla dimora di
Apollo, ne descrive accuratamente il giardino.
Èie lo parco no bello ciardino:
Che Pardo, che Ranciuose de Castiglia?
Che starza de Caserta e d’Avellino,
Dove besogna fare arco le ciglia?
Che, becino Sciorenza, Pratolino
Che la natura fa ghire a la striglia?
Tutte chisse so’ niente a pietto a chisto,
Ma no’ lo credarrà chi no’ l’ha bisto99.
La citazione di Caserta da parte del Cortese è emblematica della bellezza del giardino degli Acquaviva, considerato, dal poeta, degno termine di
paragone per il giardino di Apollo sul Parnaso,
anche se quest’ultimo è, ovviamente, ancora più
spettacolare per vastità ed amenità dei luoghi.
La citazione offre alcuni importanti spunti di riflessione: innanzi tutto l’uso del termine starza,
cioè vasto podere, è attestazione proprio della trasformazione totale del sito, che non si era limitata
alla villa vera e propria, ma si era estesa anche al
territorio nel suo complesso.
In secondo luogo l’associazione del giardino di
Caserta con quello dei Principi di Avellino, e in
seguito con la villa di Pratolino, vicino Firenze
(Sciorenza), indica quale sia stata la particolarità
del luogo, di fronte al quale, dice Cortese, bisogna inarcare le sopracciglia per lo stupore: la presenza, tra le altre, di fontane animate da automi
azionati idraulicamente.
Giulio Antonio si era, infatti, avvalso dell’opera
di Giovanni Antonio Nigrone, esperto fontaniere
attivo tra Napoli e Roma, artefice, nell’aprile del
1606, della costruzione di un’elaborata fontana
per il Principe di Avellino, raffigurante un pae-
saggio urbano in cui tutti i personaggi erano in
grado di muoversi.
Nigrone utilizzò a Caserta temi già sperimentati
in ambiente romano, quasi a testimoniare ancora
i legami tra la famiglia Acquaviva e la città
papale: una fontana, già realizzata a Trinità dei
Monti per il cardinale de’ Medici, con quattro
barche sovrapposte, decorate da delfini e sileni;
altre due datate 1587, la prima dal classico tema
di Orfeo circondato da animali, la seconda con
tre vasche polilobate sovrapposte e decorate da
immagini di uccelli, costruita anch’essa a Roma,
alla salita di Sisto V.
Di altre fontane si conosce solo il progetto: una
vasca al cui centro si ergeva un monte scavato da
grotte, identificabile forse con il Parnaso; un’altra
in cui dalle grotte uscivano salamandre fiammeggianti, mentre draghi erano raffigurati sulla
cupola del tempietto rotondo posto al centro.
L’intervento di Andrea Matteo fu mirato ad ingrandire i giardini paterni e ad aggiungere i palazzi “del Boschetto” e “del Belvedere” sotto San
Leucio, entrambi attorniati dai loro giardini di
pertinenza.
Giovanni Antonio Nigrone, fontana realizzata per il
giardino di Giulio Antonio Acquaviva.
53
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Il primo si prolungava nella complessa struttura realizzata «dentro del Boschetto», il nemus cui si accedeva da una porta ornata da «un Sileno et una sirena
piccola», mentre una Flora era nella nicchia sulla
«strade per l’uccelleria» e un Ercole in quella «all’entrata del parco al pontone». Era stato creato anche un
teatro (…) nel quale «sono otto statue poste in sopra
(…) un Ermafrodito, la dea Salute, Ercole, Cerere,
Batto, Diana, Esculapio et Adone», nella nicchia vicina vi era una «venere ignuda».La presenza di due
«camera di bascio» lascia pensare a ninfei sotterranei,
mentre il «puttino marino» sulla fontana posta «nel
mezzo del giardino» potrebbe essere quello realizzato
sempre da Nigrone «al nuovo giardino» insieme ad
una composizione di tre vasche con Perseo, Andromeda e il mostro100.
Gli Acquaviva trasformarono, quindi, una residenza di campagna in una villa rinascimentale
con giardini all’italiana secondo il gusto più alla
moda, completi di fontane, statue e giochi d’acqua, «che superava per amenità, per lusso ed eleganza le ville tuscolane romane»101.
Quale fosse l’aspetto complessivo del giardino
degli Acquaviva è tuttavia difficile conoscere; gli
affreschi presenti nella stanza di Adamo ed Eva,
all’interno del Palazzo al Boschetto, ne possono
forse dare un’immagine parziale, se si intendono
gli scorci delle ville rappresentate non come semplice frutto della creazione artistica, ma come riproposizione di frammenti della realtà circostante
l’edificio:
una sequenza di giardini di fiori, agrumeti, labirinti,
giochi d’acqua, fontane e peschiere, fino al bosco,
dove tra altri giardini di agrumi e di fiori si trovavano
nove fontane di stucco e marmo, un teatro, un’uccelleria con la delicata rete in ottone, una peschiera e il
casino a pianta quadrata della Pernesta102.
Un’immagine estremamente simile a quella che
doveva avere il giardino rinascimentale degli Acquaviva può essere data, ad esempio, da un raffronto con villa Barbarigo a Valsanzibio, sebbene
numerose circostanze non abbiano permesso la
completa realizzazione del progetto.
In questa villa veneta, infatti, era previsto uno
spazio rettangolare suddiviso in moduli quadrati
di 40 metri di lato, ognuno dei quali avrebbe dovuto ospitare un episodio particolare del giardino,
secondo un ordine prestabilito.
Giovanni Antonio Nigrone, fontane realizzate nel 1587 per Giulio Antonio Acquaviva.
54
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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All’interno dei lotti di terreno, suddivisi da viali
di diversa ampiezza, si ritrovano quasi tutti gli
elementi citati in riferimento alla descrizione
della villa casertana: un giardino di agrumi, un
giardino ricamato – ovvero un parterre de broderie di derivazione francese – un boschetto racchiuso da reti per trattenere fagiani ed altri
uccelli, un teatro con scene di verde, una garenna
per conigli – riconducibile ai leporari delle antiche ville romane – un serraglio per animali, due
peschiere, un labirinto, nonché numerose fontane
e giochi d’acqua.
Il luogo dell’intervento di Vanvitelli era quindi
fortemente connotato da un carattere ameno e piacevole, destinato già da alcuni secoli ad «uso di
deliziose magnificenze». Sebbene l’area fosse
caduta in stato di abbandono a partire dal 1687, in
seguito alla scomparsa del principe Filippo
Gaetani, marito di Anna Acquaviva, ultima
discendente della famiglia, al momento dell’acquisto da parte dei Borboni l’impianto del parco
era ancora perfettamente leggibile nella sua
struttura delineata dagli imponenti alberi e dai
manufatti artistici, e l’architetto si trovò ad intervenire su una preesistenza non trascurabile.
Il progetto di Vanvitelli non escluse totalmente le
permanenze degli Acquaviva, ma cercò costantemente una loro integrazione nel nuovo disegno
dell’impianto del parco. In particolare le due zone
ad est e ad ovest del palazzo reale, rispettivamente i tre giardini ed il frutteto collegati alla residenza degli Acquaviva, e le aree del Palazzo del
Boschetto e del Bosco Vecchio, vennero inserite
all’interno della nuova maglia geometrica pur
mantenendo le proprie irregolarità. Inoltre Vanvitelli cercò fin dal principio di recuperare l’impianto idrico esistente, seppure fossero necessarie
ingenti spese per ripristinare la funzionalità delle
tubature.
L’antico impianto captava, infatti, le acque della
sorgente di Casolla in quantità sufficiente da permettere il funzionamento delle fontane presenti
nei giardini e nel parco ed in seguito approvvigionare anche il villaggio Torre. Il ripristino di
tale acquedotto, denominato convenzionalmente
Condotto Vecchio, avrebbe potuto garantire,
quindi, il corretto funzionamento delle fontane
ancora esistenti e recuperate, anche se sarebbe
stato decisamente insufficiente per le nuove esigenze.
Autore ignoto, dipinto raffigurante il progetto del giardino di Villa Barbarigo a Valsanzibio, 1619-1626 circa.
55
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Dell’acqua che vi è non se ne puol fare altro capitale
che per fare un grandissimo serbatoio, da cui in occasione di feste publiche si puotranno derivare le acque
per fare giocare tutte le fonti insieme, come si fa a
Versaglies. Ho ritrovato che scavano in un condotto
antico, dove sperano di ritrovare l’acqua, ma tutti l’indicativi mi dicano che saranno stillicidii di vene capillari, sufficienti per riempire pozzi, ma non già scorrere
rivi, come esigerebbero le fonti del Giardino Reale103.
Il rinvenimento di due altre sorgenti «una detta
di Giove, alta palmi 39 dal condotto antico, l’altra
detta di Fontanelle alta palmi 138»104, che integravano la quantità d’acqua del Condotto Vecchio, permise invece di costruire una rete minore
per l’approvvigionamento idrico del cantiere
della Reggia105.
In particolare
Una sorgente detta le Fontanelle distante circa due
miglia e un terzo dal condotto antico è la migliore et
è la sicura; la quale presentemente darà circa 6 o 8
oncie di acqua di nostra misura, et ancora si puotrà ripulire ed aquistare qualche altra quantità, di modo che
con questa, e con qualche altro aquisto di acqua per la
strada e vene piccole e stillicidii, si puotrà avere una
sufficiente quantità ma non già rivi, come noi siamo
avvezzi ad avere in Roma. Per la condottura di que-
st’acqua si dovrà spendere della polvere per fare saltare sassi vivi, anzi selci, il che sarà un poco faticoso,
ma tutto si fa massimamente quando un monarca
vuole106.
Gli avvenimenti occorsi durante la realizzazione
dell’opera, specialmente la partenza di Carlo di
Borbone da Napoli nel 1759 e la morte di Vanvitelli nel 1773, non permisero la perfetta aderenza
al progetto, provocando un ridimensionamento
del Parco in termini di impianto ed apparato decorativo. Alcune delle preesistenze degli Acquaviva sono andate perdute, soprattutto i famosi
giardini dei quali non rimane alcuna traccia; altre
non risultano completamente inserite nell’opera
realizzata, come accade per il Palazzo del Boschetto. Attualmente l’unica zona presente nel
Parco, riconducibile all’antica famiglia feudale
napoletana, è l’area del Bosco Vecchio, sebbene
al suo interno interventi sette-ottocenteschi abbiano contribuito a modificare l’identità del sito.
Esemplificativo è quanto accaduto alla cinquecentesca torre detta Pernesta, dal nome della seconda moglie di Andrea Matteo Acquaviva,
Francesca di Pernstein: sopraelevata e dotata di
bastioni e fossato, per renderla più simile ad una
fortezza, è stata ribattezzata Castelluccia.
Parco di Caserta, Giardino inglese. Statua di pastore e statua di Atlante dal Parco dei Principi Acquaviva.
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Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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Caserta, Museo dell’Opera. Bassorilievo proveniente dal Parco dei Principi Acquaviva, 1496.
Per quanto riguarda l’apparato decorativo, scomparse le fontane, solo alcune statue cinque-seicentesche sono state recuperate ed inserite come
elementi pittoreschi all’interno del Giardino
Inglese: una sfinge, una statua di Atlante, un pastore che suona il flauto – forse il Batto107 citato
da Anna Giannetti, anche se, per analogia con una
simile statua di Villa Barbarigo a Valsanzibio, potrebbe trattarsi di Ermes, divinità protagonista
dello stesso racconto mitologico – dal cui strumento si origina il ruscello che alimenta il lago
posto più a valle.
Ma per quanto la dimora dei Principi di Caserta
non esista più, le parole dettate dal gesuita
Giovan Battista d’Orsi, per l’epigrafe incisa sul
portone del palazzo Acquaviva, sono ancora applicabili al sito che, nonostante le trasformazioni
subite, non ha perso le proprie caratteristiche:
«Campaniae Felicis Ocellum: Natura loci, solertia artis, Feracitate Solis, salubritate Coeli Perennitate Fontium, varietate Florum: Elegantia
Villae, descriptione viarum Umbra, Sole, fruge,
fructibus Laetum Inchoavit, absolvit, Andrea
Matteus Acquivivus Princeps, Casertae»108.
La sostituzione del nome di Vanvitelli, o per meglio
dire di Carlo di Borbone, a quello di Andrea Matteo
Acquaviva, non comporterebbe modifiche sostanziali alla descrizione delle proprietà del luogo.
La sovrapposizione dei giardini, quello settecentesco su quello di impianto rinascimentale, attuata
in continuità piuttosto che in contrapposizione, ha
anzi garantito che l’essenza stessa del sito, identificabile nella copiosa presenza d’acqua, esaltata
dalle numerose fontane, fosse rispettata e conservata. Il nemus su cui vegliava Diana Tifatina si è
trasformato in locus amoenus, ma non per questo
ha perso la sua sacralità.
«HUI NIMPHA LOCI SACRI CUSTODIA FONTIS DORMIO DUM BLANDE SENCIO
MURMU AQU- AT TU QUISQUIS LOCA CONCAVA FONTIS TANGIS SIVE BIBAS SIVE LAVARE TAC-»109, recita l’iscrizione posta su una
lastra di marmo statuario datata 1496.
È il reperto più antico appartenente al giardino
degli Acquaviva, e, per un gioco di parole, forse
rappresentativo della famiglia stessa. Su di esso
la Ninfa dormiente, secondo un topos ampiamente diffuso nel Quattrocento110, si propone
come genius loci, custode della fonte e, per estensione, nume tutelare dell’intera area. Vanvitelli
ha saputo cogliere il significato di entrambe le figure: la dea e la ninfa si fondono in un unicum
alla base della cascata. Diana, divenuta custode
delle acque, punisce duramente chiunque le rechi
disturbo, ovvero chiunque violi il sito; e per l’imprudente Atteone non esiste via di scampo.
57
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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NOTE
1. Giuseppe GHIGIOTTI, Luigi Vanvitelli, mediatore di due
istanze culturali nella progettazione del parco di Caserta, in Luigi Vanvitelli e il ‘700 europeo, cit., vol. II,
p. 63.
2.
Nella seconda metà del XVIII secolo, con il progressivo avvento del giardino di paesaggio, legato ad un
gusto più romantico, e con la definitiva caduta dell’Ancien Régime, avviene il radicale mutamento che porta
alla fine del giardino formale. Paradossalmente proprio
in Caserta è presente uno dei primi giardini inglesi nati
sul suolo italiano, cosicché, a pochi metri di distanza e
pressoché negli stessi anni, la Reggia è testimone dell’affermarsi del nuovo gusto e del definitivo declino
del precedente.
3. Giuseppe GHIGIOTTI, op. cit., vol. II, p. 63.
4. Jacques Boyceau de la Barauderie (1560-1633) fu curatore dei giardini sotto il regno di Luigi XIII, occupandosi del primo giardino di Versailles, insieme al
nipote Jacques de Menours, dei giardini del Lussemburgo, delle Tuileries e di Saint-Germain-en-Laye.
5. Si distingue nel settore l’opera della famiglia Francini,
dinastia di idraulici fontanieri di origine italiana. Tommaso, chiamato nel 1599 da Enrico IV, è il costruttore
dei meccanismi idraulici delle grotte del castello di
Saint-Germain e di sei grandi fontane a Fontainebleau;
il figlio Francesco è invece l’artefice del complesso
impianto di Versailles, compresi i necessari serbatoi e
i più spettacolari effetti idraulici dei boschetti.
6. Sembra che i primi boschetti realizzati in Francia siano
stati quelli dello scomparso castello di Saint-Germainle-Neuf, costruito nel 1600 sotto la direzione di architetti italiani, ma è dal 1650 che i bosquets diventano
parte integrante dei giardini, proposti anche nei precetti
teorici di Claude Mollet e Boyceau de la Barauderie.
7. Attualmente il più grande insieme sopravvissuto, di sistemazioni à bosquets, è il parco di Versailles: i boschetti di Encelado, delle Sorgenti, des Dômes, de
l’Obélisque, de l’Etoile, des Rocailles, de la Reine, des
Bains d’Apollon; e ancora l’Arc de Triomphe, le Tre
Fontane, il Berceau d’Eau, la Colonnade, il Marais,
l’Isola Reale, la salle des Marroniers sono solo alcune
delle installazioni realizzate all’interno del Parco nel
corso della sua esistenza. In parte ancora presenti, in
parte modificati, distrutti, sostituiti appena costruiti, i
boschetti di Versailles parlano dell’estrema libertà
compositiva, della fantasia e dell’estro creativo
espressi nella realizzazione di queste opere. Tra le numerose perdite, significativa dell’esistenza effimera di
queste installazioni è quella del Labirinto, magico percorso tra le favole di Esopo, ideato nel 1669 da Charles
58
Perrault. La fragilità del decoro delle 39 statue di
piombo dipinto, unita alla decisione di rinnovare l’impianto del giardino, ne determinò la distruzione e la sostituzione nel 1775 con il più alla moda, e meno
affascinante, Bosquet de la Reine.
8. Claude Mollet (1563-1650) è membro di una dinastia
di giardinieri che lavorarono per numerosi re francesi,
da Enrico II a Luigi XV. In qualità di primo giardiniere
del re sono da ricordare i suoi interventi a Fontainebleau e a Saint-Germain e, soprattutto, l’organizzazione del primo giardino di Versailles, al seguito di
Boyceau de la Baraudière, e delle Tuileries insieme a
Jean Le Nôtre, padre del più celebre André.
9. André Mollet (?-1665), figlio di Claude ed erede della
lunga tradizione familiare, fu attivo soprattutto oltre i
confini francesi, progettando giardini, per la regina
d’Inghilterra e per la famiglia d’Orange nei Paesi
Bassi, e divenendo responsabile dei giardini della Serenissima Regina di Svezia.
10. Jean de La Quintinie (1626-1688), avvocato, fu il supervisore degli orti e dei frutteti di Vaux, Chantilly e
Sceaux; nominato in seguito direttore dei frutteti e
degli orti della Casa Reale, progettò tra il 1678 e il
1683 il Potager de Versailles, destinato all’approvvigionamento di frutta e ortaggi per la tavola del re.
11. Avvocato in Parlamento e segretario del re, Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville (1680-1765) fu soprattutto
un grande amante dei giardini. Di sua mano, oltre all’opera La théorie et la pratique du jardinage, vanno
ricordati i numerosi articoli sull’argomento scritti per
l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert.
12. Antoine-Joseph DÉZALLIER D’ARGENVILLE, La théorie
et la pratique du jardinage, 1739, pp. 345, 361.
13. Le parole dell’epitaffio autografo di André Le Nôtre
sono tratte da Luigi ZANGHERI, Storia del giardino e
del paesaggio, Leo S. Olschki, Firenze, 2003, p. 111.
14. Il nonno Pierre aveva partecipato alla realizzazione
delle Tuileries fin dal 1572.
15. Leonardo BENEVOLO, La cattura dell’infinito, Laterza,
Roma-Bari, 1991, p. 48.
16. Jean de LA FONTAINE, Le Songe de Vaux, capitolo I, in
ID., Oeuvres diverses, testo stabilito e commentato da
Pierre Clarac, Gallimard, Paris, 1958, p. 82.
17. Nel leggere le descrizioni di La Fontaine relative a
Vaux bisogna tuttavia ricordare che, come osserva
Pierre Clarac, il 12 settembre 1663 il poeta così scriveva alla moglie: «vous savez mon ignorance en matière d’architecture, et que je n’ai rien dit de Vaux que
sur des mémoires». Ivi, p. 816.
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
________________________________________________________________________________________________
18. Leonardo BENEVOLO, op. cit., p. 38.
31. Luigi ZANGHERI, Storia del giardino..., cit., p. 340.
19. Jean de LA FONTAINE, Le Songe de Vaux, Avvertimento
ai lettori, in ID., op. cit., pp. 78-79.
32. I frutti prodotti dalle piante non erano commestibili,
però l’aspetto decorativo ed il profumo dei fiori bastavano a destare meraviglia e stupore nei contemporanei.
Per ottenere questo si svilupparono varie tecniche a
partire dal Quattrocento, ma fu soltanto con il trattato
di Jean de La Quintinie che si arrivò a codificare tutto
ciò che è necessario, nei climi più freddi, per la sopravvivenza degli alberi di agrumi. L’unico modo per ottenere quanto richiesto – terra ricca, molta luce,
annaffiature abbondanti, aria aperta quando la temperatura lo consente – fu di creare artificialmente dei luoghi per la coltivazione di questi alberi. Il XVII secolo
è il momento di maggior sviluppo di tale tipo di edifici
– le Orangeries – di cui quello di Versailles costituisce
un esempio tra i più riusciti, essendo collocato su di
una terrazza esposta a sud, ed avendo mura solide e
parzialmente interrate al di sotto del castello stesso.
20. Discorso di Calliopée. Ivi, p. 93.
21. È qui forse necessario ricordare che la Reggia di Caserta, così come si presenta oggi, è un’opera incompiuta. Osservando, perciò, soltanto le parti realizzate,
risulta maggiormente difficile riuscire a leggere l’unità
ricercata nel progetto vanvitelliano.
22. Leonardo BENEVOLO, op. cit., p. 38.
23. Jean de LA FONTAINE, Le Songe de Vaux, Discorso di
Palatiane, in ID., op. cit., p. 86.
24. Gianni VENTURI, Genius Loci: il giardino, la memoria,
gli eroi, in Il giardino e la memoria del mondo, a cura
di Giuliana Baldan Zenoni Politeo e Antonella Pietrogrande, Leo S. Olschki, Firenze, 2002, p. 112.
25. Leonardo BENEVOLO, op. cit., p. 41.
26. Jean de LA FONTAINE, Le Songe de Vaux, Avventure di
un salmone e di uno storione, in ID., op. cit., p. 98.
27. Leonardo BENEVOLO, op. cit., p. 41.
28. «Nella storia della progettazione di giardini, Vaux-leVicomte occupa un posto molto importante, perché testimonia di un atteggiamento profondamente
rivoluzionario: qui per la prima volta, il giardino pattern – precedentemente tagliato fuori dall’ostile mondo
grazie a un confine chiaro e preciso – attraversa il confine e invade la natura. A Vaux, il canale è posto perpendicolarmente all’asse e quindi esce dal giardino ben
curato per entrare in quella natura selvaggia, incontrollata e a lungo considerata sgradita, che, nel baldanzoso
XVII secolo, parve pronta per essere affrontata dall’uomo». Charles W. MOORE, William J. MITCHELL,
William TURNBULL Jr., Poetica dei giardini, Franco
Muzio editore, Padova, 1991, pp. 244-245.
29. Le parole di Luigi XIV sono riportate da Simone HOOG,
Jardins à Versailles, Art Lys, Parigi, 2001, p. 8.
30. L’attuale immagine del Parterre Nord è, tuttavia, frutto
del completamento della decorazione attuato sotto il
regno di Luigi XV. Nel suo trattato, Dézallier d’Argenville così descrive la decorazione più appropriata
per i bacini in cui si riscontra la presenza di cascate
d’acqua: «On les accompagne d’ornemens maritimes
convenables aux Eaux, comme de glaçons, de rocailles,
de congélations, petrifications, coquillages, feuilles
d’eau, joncs & roseaux imitant le naturel, qui servent à
revêtir le parements des murs & bordures des Bassins.
On les orne de figures; dont le naturel est d’être dans
l’Eau, comme de Fleuves, de Naïades ou Nymphes des
Eaux, de Tritons, de Serpens, Chevaux marins, Dragons, Dauphins, Grifons, Grenouilles, ausquels on fait
lancer & vomir des traits & torrens d’eau». Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville, op. cit., 1739, p. 361.
33. Károly Kerény è di aiuto per comprendere la dinamica
del viaggio notturno del Sole: «Si raccontava che il dio
del Sole, all’ora del tramonto, saliva in una grande
coppa d’oro (…). Questa coppa portava il dio – così ci
è stato descritto – attraverso le onde, come un piacevole giaciglio concavo che Efesto aveva forgiato con
oro prezioso e aveva fornito di ali. Questo veicolo portava ad una velocità vertiginosa il dio addormentato
sulla superficie dell’acqua e lo conduceva dai luoghi
delle Esperidi al paese degli Etiopi, dove erano pronti
per lui il carro veloce e i destrieri, quando si avvicinava
la dea dell’Aurora, Eos, la precocemente nata». Károly
KERÉNY, Gli dei e gli eroi della Grecia, vol. I, Garzanti,
Milano, 1984, p. 178.
34. La disposizione di queste statue segue la volontà dello
stesso Le Nôtre, che richiedeva l’impiego di sculture di
pietra, di marmo, di piombo o di bronzo, per porre l’accento sulle linee principali del giardino.
35. A tal proposito si ricorda che ancora oggi le varie regioni francesi vengono denominate attraverso il principale corso d’acqua che le attraversa.
36. Charles W. MOORE, William J. MITCHELL, William
TURNBULl Jr., op. cit., p. 247.
37. «Giunta nel territorio di Licia, che è patria della Chimera, quando il sole bruciava aspramente i campi, la
dea, sfinita dalle lunghe fatiche, ebbe sete per la calura:
i figli le avevano avidamente succhiato le poppe. Per
caso vide in fondo a una valle un piccolo lago, dove i
contadini raccoglievano vimini assieme ai giunchi e
alle alghe che nascono nelle paludi. La figlia del Titano
si accostò e pose il ginocchio a terra per attingere l’acqua freschissima e berla, ma glielo impedì la massa dei
contadini e la dea disse loro: “Perché mi volete togliere
l’acqua? È comune l’uso dell’acqua: né il sole né l’aria
né le acque la natura li ha fatti privati; vengo a un bene
pubblico, eppure vi supplico di darmelo come un dono.
59
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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(…) Ma loro si ostinano a respingere la sua preghiera,
e aggiungono insulti e minacce se non se ne va; e ancora non basta: con piedi e mani intorbidano il lago, e
con salti maligni smuovono dal fondo qua e là il molle
fango. L’ira caccia la sete, e infatti la figlia di Ceo non
supplica più, non vuol più rivolgere a quegli uomini
indegni parole che non sono all’altezza di un dio e, alzando le mani al cielo disse: “vivete dunque per sempre in questo stagno!”. Si realizza il suo desiderio:
quelli (…) mutati in rane, sguazzano nell’acqua fangosa». OVIDIO, Le Metamorfosi, trad. it. di Guido Paduano, I Classici Collezione, Arnoldo Mondadori
editore, Milano, 2007, VI, vv. 339-352; 361-370; 381.
38. La Fronda è il movimento di rivolta scoppiato in Francia dal 1648 al 1653 contro il potere acquisito da Mazarino, nel vano tentativo di contrastare l’assolutismo
monarchico. Alla morte di Luigi XIII, avvenuta nel
1643, era infatti salito al trono un Luigi XIV bambino
di appena cinque anni, in vece del quale la reggenza
era tenuta dalla madre, Anna d’Austria, legata a Mazarino da forti vincoli di fiducia e collaborazione.
39. Il boschetto della Colonnata è costituito da un peristilio
perfettamente circolare di 32 metri di diametro, con 32
colonne ioniche di marmo accoppiate a 32 pilastri ed
alternate a 32 fontane circolari. Al di sopra delle arcate
e della cornice, 32 urne completano la composizione.
40. La frase è riportata da Béatrix SAULE, Daniel MEYER,
Versailles, Art Lys, Versailles, 2003, p. 82. Probabilmente Le Nôtre, oltre a non gradire la totale assenza di
elementi vegetali, non aveva particolarmente apprezzato la sostituzione del suo boschetto delle Sorgenti,
in cui piccoli viali tortuosi erano fiancheggiati da numerosi ruscelli, con questa colonnata interamente in
marmo.
41. Oltre ai cortigiani che avevano diritto di accesso permanente e che, secondo il loro rango, potevano accedere ai luoghi più prestigiosi, una folla, la più disparata,
andava a Versailles per ammirare un luogo già celebre
nell’Europa intera. I giardini erano, infatti, aperti al
pubblico, anche se con modalità che cambiavano molto
frequentemente.
42. La Manière de montrer les Jardins de Versailles è correntemente datata al 1705, ma, grazie a Mme de Maintenon, è noto che il re aveva iniziato la stesura a partire
dal 1690. Di tale trattato esistono sei versioni, conservate nella Biblioteca Nazionale di Francia, alcune autografe, altre scritte da un segretario e corrette dal re.
Le numerose versioni, prima della redazione definitiva,
sono evidentemente dovute alla progressione dei lavori
in corso.
43. La Grande Commande del 1674 aveva come oggetto
una serie di statue che avrebbero completato la decorazione dei parterres con le allegorie previste da Le
Brun, ispirate all’Iconologia di Cesare Ripa, rappre-
60
sentanti gli elementi soggetti all’influenza del sole.
Ogni aspetto della vita vi era compreso: i quattro elementi, le quattro parti del mondo, le quattro ore del
giorno, le quattro stagioni, i quattro tipi di poema ed i
quattro temperamenti dell’uomo. Impossibile, dunque,
sottrarsi alla presenza dell’astro, ovvero impossibile
sottrarsi alla figura del re.
44. Richard Roudaut, Le Nôtre. L’art des jardins à la française, Parangon, Paris, 2000, p. 32.
45. Singolarmente, oltre ai vascelli, era possibile trovare
alcune gondole donate dalla Repubblica di Venezia;
per la conduzione di queste tipiche imbarcazioni un
gruppo di marinai veneziani, a partire dal 1674, si stabilì lungo le sponde della via d’acqua, aggiungendosi
alla numerosa folla di addetti alla manutenzione dei
battelli.
46. La villa del Belvedere nasce, infatti, come luogo di
esposizione della collezione scultorea del papa.
47. È del 1587 la decisione di Sisto V di costruire una
nuova e più ampia sede per ospitare l’enorme quantità
di libri e manoscritti raccolti nella Biblioteca Vaticana.
Del progetto fu incaricato Domenico Fontana.
48. Giuseppe GHIGIOTTI, op. cit., vol. II, p. 63.
49. Luigi Vanvitelli, lettera del 9 marzo 1754 al fratello Urbano, in Franco STRAZZULLO, Le lettere di Luigi Vanvitelli della Biblioteca Palatina di Caserta, Congedo
Editore, Galatina, 1976, vol.I, p. 314.
50. Giuseppe GHIGIOTTI, op. cit., vol. II, p. 64.
51. Ad esempio nella Villa di Pratolino «il parco, immaginato secondo un orientamento nord-sud che passava
per il cuore stesso della villa, aveva nel vertice superiore del sistema la fonte di Giove, la quale presentava
la scultura del sovrano dell’Olimpo raffigurata con
l’aquila al fianco e con il fulmine aureo nella destra
sprizzante acqua, l’elemento generatore e l’assoluto
protagonista simbolico del parco. Seguendo la traiettoria dell’elemento trasparente verso valle si incontrava
un labirinto di alloro e un prato ottagonale con una
grande pergola metallica per, poi, giungere al colosso
dell’Appennino. (…) Come un genius loci tutore dei
luoghi l’Appennino schiacciava la testa ad un mostro,
e dava nuovo vigore all’acqua che scaturiva nella
grande vasca ai suoi piedi. Nella residenza di Francesco I, situata davanti al grande prato dell’Appennino,
l’acqua vivificava una sequenza inimitabile di stanze
segrete e di meraviglie meccaniche». Luigi ZANGHERI,
Pratolino. La grande macchina del cosmo, in Il giardino e la memoria del mondo, cit., pp. 44-45.
52. «Il cosmo di Zeus presuppone il progetto di un mondo
umano: i paesaggi comprensivi di uomini e templi. In
questo mondo – come dimostrano gli Inni omerici –
agisce la prima scissione tra la natura vergine, selvaggia, simbolizzata da Artemide, e il paesaggio, natura
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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addomesticata dall’uomo e/o dagli dei, patrocinata dal
gemello Apollo, portavoce di Zeus e costruttore di
Delfi, primo grande giardino-paesaggio. Il dio demiurgo innalza un tempio vicino alla “fonte dalle belle
acque”, probabilmente la ninfa Kastalia, in una zona
ricca di sorgenti, quasi a ribadire l’importanza vitale
dell’acqua per un paesaggio, contenitore di opere
dell’uomo (erga) contemplabili, appunto, dal tempio».
Massimo VENTURI FERRIOLO, L’acqua nel paesaggio
tra mito e storia, in Atti del Convegno – Terme di Comano, 29-30 settembre 2000, p. 10.
53. Non lontano da Viterbo, luogo favorito per la residenza
estiva dai vescovi di questa città, la proprietà di Bgnaia
si configura, alla fine del XV secolo, come un barco,
cioè un territorio recintato per la caccia, appartenente
al cardinale Raffaele Riario, nipote di Sisto IV. Nel
1523 Niccolò Ridolfi fa costruire un primo casino di
caccia e l’acquedotto, opera di Tommaso Ghinucci; ma
è solo dal 1566, con il vescovato del cardinale Giovan
Francesco Gambara, segretario del papa Giulio III ed
amico di Alessandro Farnese, che ha inizio la trasformazione della residenza e del giardino. Per il progetto
si cita il nome di Jacopo Barozzi da Vignola, impegnato nello stesso periodo nel palazzo dei Farnese a
Caprarola, anche se non si è ancora potuta precisare la
portata effettiva del suo intervento.
54. È interessante notare l’attribuzione, fatta da Antonella
Pampalone a Luigi Vanvitelli quindicenne, di una Veduta di Villa Lante a Bagnaia. Tale disegno autografo
coglie già pienamente gli elementi costituenti il giardino – l’asse centrale, il verde sagomato e le fontane –
quegli stessi elementi che, ad una scala diversa, saranno riproposti in Caserta. Cfr. Claudio MARINELLI,
in Caserta e la sua Reggia. Il Museo dell’Opera,
Electa Napoli, 1993, p. 43.
55. Si veda, ad esempio, la cascata realizzata da André Le
Nôtre per il parco di Marly.
56. Occorre ricordare che gli elementi costituenti i giardini
delle ville italiane del Cinquecento vennero esportati
in tutte le corti europee dalle maestranze che avevano
contribuito alla loro costruzione.
57. Luigi Vanvitelli, lettera del Primo gennaio 1754 al
fratello Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I,
p. 297.
58. Volontà dei sovrani europei era di circondarsi di artisti
adeguatamente preparati riguardo al nuovo stile.
Alcuni di essi inviarono quindi, in Francia, propri artisti, affinché si formassero direttamente presso Le
Nôtre; tra questi l’architetto Nicolas Tessin che, per
conto del re di Svezia, si recò numerose volte a Versailles. Durante i suoi soggiorni Tessin realizzò numerosi rilievi delle opere e riuscì a creare un legame di
amicizia con le Nôtre, che gli fece dono di alcuni suoi
disegni. L’insieme di tali documenti, conservati presso
il Museo Nazionale di Stoccolma, testimonia l’influenza diretta di Le Nôtre su alcune realizzazioni svedesi. In particolare Tessin, dal 1680, mise in opera
alcuni dei modelli osservati, realizzando i giardini reali
di Drottningholm, in cui è possibile ravvisare un influsso di Chantilly e di alcune parti di Vaux-leVicomte.
59. In realtà occorre svincolare ciò che deriva direttamente
dall’invenzione di Le Nôtre da ciò che risulta essere
espressione della volontà, da parte di committenti ed
esecutori, di ispirarsi agli esempi francesi, in particolar
modo a Versailles. Lettere e disegni attestano che Le
Nôtre fu più volte sollecitato dai sovrani stranieri, ai
quali inviò consigli e progetti. Esiste anche una planimetria di sua mano per il giardino di Greenwich, ed il
suo nome è citato per i giardini di Saint-James e di
Hampton Court, dove lavorò il francese Daniel Marot.
Si parla anche di progetti che Le Nôtre avrebbe prodotto al termine del suo viaggio a Roma, quando Papa
Innocenzo XI l’avrebbe consultato per il giardino di
Casigliano. Il suo nome viene legato, infine, al giardino
di Charlottenbourg a Berlino, realizzato dal giardiniere
francese Siméon Godeau. In ogni caso queste restano
tutte congetture e sembra che nessuno dei suoi progetti,
per committenti al di fuori della Francia, sia mai stato
realizzato.
60. Chiristian Norberg-Schulz, Architettura Tardobarocca,
trad. it. a cura di Michele Lo Buono, Electa, Milano,
1980, p. 10.
61. Il castello di Schleissheim è in realtà costituito da tre
palazzi: il Castello Vecchio, iniziato nel 1598 e modificato tra il 1617 ed il 1623; il Castello Nuovo, costruito fra il 1701 ed il 1704 da Enrico Zuccali; il
Castello Lustheim, già costruito, fra il 1684 ed il 1688,
in occasione delle nozze del principe Max Emanuel
con la figlia dell’imperatore, Maria Antonia.
62. Singolare è che il palazzo di Herrenchiemsee si riferisca a Versailles non solo nell’impianto, ma anche nella
toponomastica.
63. In seguito alla morte di Le Blond, avvenuta nel 1719,
Michetti proseguì lo sviluppo del Parco Superiore e del
Parco Inferiore, tentando di conservare lo stile dell’architetto francese. Successivamente i lavori furono proseguiti da Bartolomeo Rastrelli.
64. La statua commemora la vittoria della Russia sulle armate di Carlo XII di Svezia – nazione nel cui stemma
è il simbolo del leone – avvenuta nella battaglia della
Poltava, in Ucraina, il 27 giugno 1709, giorno dedicato
a S. Sansone. Tale data è fondamentale anche per la nascita della stessa residenza di Peterhof, poiché, in seguito alla vittoria, lo zar decise la costruzione di una
Versailles sul mare.
65. I giardini formali derivano dalla collaborazione tra lo
scultore René Carlier, il giardiniere Esteban Boutelou
61
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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e l’ingegnere militare Esteban Marchand. Tra gli scultori che lavorarono anche presso la corte di Luigi XIV
sono da ricordare i nomi di René Frémin e Jean
Thierry.
66. In questa piazzetta convergono otto strade, con otto
fonti dedicate ad otto divinità: Nettuno, la Vittoria,
Marte, Cibele, Saturno, Minerva, Ercole e Cerere. Il
punto di convergenza è caratterizzato dal gruppo di
Mercurio che solleva una figura, liberamente interpretata come Psiche che fugge dagli Inferi o come Pandora.
67. Grazie al suo getto alto circa 50 metri, all’epoca il più
alto d’Europa, la Fontana della Fama permette di leggere il dislivello presente tra la vasca ed il serbatoio
del Mar.
68. Sembra interessante notare, a questo proposito, come
entrambe le fontane, di Eolo e del Bagno di Diana, costituiscano anche due degli elementi predominanti
nella successione delle vasche in Villa Barbarigo a Valsanzibio, di circa un secolo precedente alla residenza di
Filippo V, evidenziando un carattere comune nella
scelta dei temi decorativi per le fontane.
69. In Piemonte sembrerebbero attribuibili direttamente a
Le Nôtre gli impianti di Racconigi e del palazzo reale
di Torino, realizzati tra il 1670 ed il 1674.
70. Da essa Vanvitelli riprese, ad esempio, l’idea dei due
filari di olmi che avrebbero costituito le quinte del percorso principale di ingresso al palazzo, accentuando
l’asse prospettico che culmina sul Monte Briano.
71. Gaspar Van Wittel (Amesfoort, 1653 – Roma, 1736),
pittore olandese, è considerato il fondatore del genere
della veduta, che ebbe particolare fortuna nel Settecento. Trasferitosi in Italia a soli ventidue anni, Van
Wittel realizzò la propria opera soprattutto tra Roma e
Napoli, non senza risentire, tuttavia, delle suggestioni
tipiche di un gusto nordico, attento a visioni paesaggistiche nitide, dettagliate, oggettive, diverse dal «paesaggio ideale» della pittura di bolognesi e francesi che
operavano a Roma. Carattere peculiare delle creazioni
di Van Wittel è infatti proprio l’interesse per il vero,
della natura come delle architetture, ispirato anche alle
vedute di Amsterdam di Van der Heyden, ma volto ad
esiti del tutto nuovi. L’Italia centro-meridionale offriva,
in effetti, al suo talento di scenografo creatore di panorami, lo straordinario connubio tra arte e natura, immagini illuminate dal sole e dal fascino dell’antichità.
L’eccezionale capacità di concepire spazi molto vasti si
univa, nella sua arte, ad una tecnica di disegno molto
accurata nel riprodurre il vero di una realtà che diventa
racconto, animato dagli elementi naturali, come dalle
figure di uomini e di animali e dai mezzi di trasporto.
A Van Wittel, seguito dal Canaletto, il merito di aver
inaugurato il nuovo genere pittorico della veduta, di
enorme successo anche nei secoli seguenti al XVIII.
62
Proprio dal padre dunque, Luigi sembra aver ereditato
l’indagine accurata dello spazio inteso come felice
unione di realtà naturale ed invenzione architettonica,
nonché l’idea di un disegno nitido della realtà, nel
quale ogni dettaglio partecipa alla creazione di un
mondo armonioso, in cui il mito presta il suo linguaggio a precisi intendimenti. Si veda, a tale proposito, il
commento di Claudio MARINELLI, in Caserta e la sua
Reggia..., cit., pp. 42-43.
72. Scrive Antonella Pampalone: «La suggestione di questa illusoria rappresentazione dipinta, che dava senso di
verità all’architettura simulata, può essere stata sufficientemente determinante per il futuro di Vanvitelli architetto. Egli riversò il suo bagaglio culturale di
scenografo sulla carta (…) nella realizzazione di opere
concrete e, con la sua straordinaria esperienza, ne riconsentì il travaso nelle arti decorative». Ivi, p. 43.
73. «Non si può essere buon architetto senza essere buon
pittore». Così si esprimeva l’amico Porzio Lionardi in
una lettera indirizzata a Luigi Vanvitelli. Ivi, p. 42.
74. Sempre nell’epitaffio di André Le Nôtre si ricorda che
« l’eccellenza del suo lavoro va unita alla grandezza e
alla magnificenza del monarca che egli servì e dal
quale fu coperto di beneficenze». Luigi ZANGHERI, Storia del giardino..., cit., p. 111.
75. Ivi, p. 135.
76. La residenza di Colorno fu ristrutturata una prima volta
nel 1668 per volere di Ranuccio II, al fine di creare un
terrazzamento attorno al palazzo. La presenza di un terrazzamento deriva dal Palazzo di Versailles e, a tal proposito, si noti come anche la Reggia di Caserta avrebbe
dovuto essere dotata di un terrazzamento rialzato di alcuni gradini rispetto al parco, come risulta dalla Planimetria dei disegni della Dichiarazione; tale struttura
non venne tuttavia mai realizzata. Nel corso dell’intervento di Ranuccio II il giardino di Colorno venne
anche dotato, come ricorda Luigi Zangheri, «di una
‘Torre delle Acque’, sul canale del Naviglio, necessaria
per alimentare le fontane, gli scherzi d’acqua e gli automi». In seguito, con Francesco Farnese, nuovi interventi furono eseguiti da Ferdinando Galli Bibiena, tra
il 1699 e il 1709, Giuliano Monzani, a partire dal 1711,
e Jean de Baillou, che dal 1718 si occupò dell’impianto
idraulico. Ibidem.
77. Le informazioni sono tratte dal sito dell’Amministrazione Provinciale di Parma, www2.provincia.parma.it,
aggiornato al 31 agosto 2005.
78. Luigi ZANGHERI, Storia del giardino..., cit., p. 136.
79. Sembra, infatti, che Carlo sia rimasto sempre legato ai
territori della famiglia materna. Quando, allo scoppio
della guerra di secessione in Polonia, Filippo ed Elisabetta spinsero il figlio alla conquista delle Due Sicilie,
Carlo, abbandonati i due ducati, partì da Firenze il 24
Alla sorgente. Presupposti del Parco della Reggia di Caserta
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febbraio 1734 ed entrò trionfalmente a Napoli il 10
marzo dello stesso anno. Nello spostarsi al sud, Carlo
volle portare con sé l’eco e la memoria delle residenze
parmensi, trasferendo a Napoli tutto quello che era
stato raccolto e collezionato dai Farnese nei secoli precedenti e che poteva essere trasportato: gli arredi, i
circa quattrocento dipinti e sculture, gli oltre 13.000
volumi della Biblioteca Ducale, compreso il preziosissimo Archivio. La spoliazione delle residenze parmensi
fu tale che gli storici dell’epoca raccontano, sicuramente esagerando, che «perfino i chiodi» sarebbero
stati smontati e portati via.
80. Si riprende l’ipotesi formulata da Luigi ZANGHERI in
Storia del giardino..., cit., p. 138.
81. Antonio Farnese era stato in gioventù a Parigi, dove
era rimasto colpito dai parchi di Versailles e di Marly
ed aveva potuto osservare l’impianto del Bois de Boulogne, destinato alle cacce reali. L’accesso al Bois, dall’abbazia di Longschamps, avveniva proprio attraverso
una patte d’oie, in cui cinque viali radiali convergevano in una piazza semiellittica. Del resto, poiché la
caccia era considerata attività propedeutica all’attività
militare dei sovrani, caratteristica dei parchi venatori
era quella di assumere un impianto analogo ad un
campo di battaglia, con un andamento radiocentrico
dei viali. Sistemi a patte d’oie sono riconoscibili, inoltre, in quasi tutte le sistemazioni urbane e paesaggistiche avvenute sotto il regno di Luigi XIV.
82. Luigi ZANGHERI, Storia del giardino..., cit., p. 136.
83. Giovanni Antonio Medrano e Antonio Canevari furono
incaricati del progetto del nuovo palazzo reale, che
venne approvato il 7 febbraio 1737. Il nuovo palazzo fu
voluto da Carlo III anche per poter ospitare le collezioni d’arte provenienti dalle proprietà dei Farnese.
84. La presenza di Ferdinando Sanfelice è registrata a Capodimonte a partire dal 1742. I suoi interventi al giardino non sembrano aver modificato sostanzialmente
l’assetto del parco ideato dal Medrano e dal Canevari.
85. I lavori al parco furono controllati da Ferdinando Fuga
tra il 1763 e il 1766.
86. La presenza di una statua di Ercole, del tipo Farnese,
al termine di un lungo asse prospettico, è riscontrabile
anche in Vaux-le-Vicomte e nel Karlsberg di Kassel.
87. È da ricordare che anche la Reggia francese è nata con
la volontà di trasferire la corte da Parigi; tuttavia l’intento di Luigi XIV era soprattutto quello di tenere sotto
controllo, in un unico luogo, l’intera classe dei nobili.
88. Giuseppe GHIGIOTTI, op. cit., vol. II, p. 64.
89. «La posizione è di eccezionale bellezza, nella più lussureggiante piana del mondo, ma con estesi giardini
che si prolungano fin sulle colline; un acquedotto v’induce un intero fiume, che abbevera il palazzo e le sue
adiacenze, e questa massa acquea si può trasformare,
riversandola su rocce artificiali, in una meravigliosa
cascata. I giardini sono belli e armonizzano assai con
questa contrada che è un solo giardino». Johann W.
GOETHE, Viaggio in Italia, trad. it. a cura di Emilio Castellani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 200310,
pp. 228-229.
90. Anna GIANNETTI, Dai Romani ai Borbone: il parco
della Reggia di Caserta tra memoria e vestigia, in
Luigi Vanvitelli e la sua cerchia, a cura di Cesare de
Seta, Electa Napoli, 2001, pp. 134-136.
91. In realtà le testimonianze archeologiche attestano una
continua occupazione del sito a partire dal IX secolo
a.C. da parte degli Etruschi, la cui città di Capua era
capitale della dodecapoli campana, e ai quali seguirono
Sanniti e Romani. La zona, particolarmente vivace e
piena di attrattive, era attraversata da una fitta rete viaria, la cui principale strada, la via Appia, collegava
Roma con Capua, prima di prolungarsi verso Brindisi.
Di notevole importanza, per la storia dell’area casertana, risultano essere due eventi: la distruzione dell’antica città di Capua, operata dai saraceni nel IX secolo,
e la contemporanea fondazione ex novo, o probabilmente su un precedente villaggio tifatino, di Casa
Hirta, il primo nucleo dell’attuale Caserta Vecchia.
92. «La sconfinata, splendida pianura, con la sua eccellente
disposizione naturale, non aveva che una gloriosa antichità e un luminoso futuro, tra i due un vuoto secolare, che ancora fino a pochi anni fa aveva divorato
anche il ricordo del paradiso “quasi reggio” dei principi
di Caserta». Anna GIANNETTI, Dai Romani ai Borbone..., cit., p. 136.
93. Di Diego di Lahart, capitano delle milizie catalane inviate dagli Angioini a Firenze nel 1318, parla anche
Boccaccio nel Decamerone, rendendolo protagonista,
non onorato, della III novella della VI giornata.
94. La citazione è in Claudio MARINELLI, Da Casa Hirta
a Caserta, in Caserta e la sua Reggia..., cit., p. 19.
95. Andrea Matteo Acquaviva d’Aragona incarna l’ideale
dell’uomo quattrocentesco: fine umanista, autore di numerosi testi, iscritto e sostenitore economico dell’Accademia del Pontano, editore di numerose opere,
possedeva una biblioteca ricca di codici miniati e di
testi di Platone, Cicerone, Plinio, Apuleio e di numerosi altri autori classici.
96. La citazione è riportata da Claudio MARINELLI, op. cit.,
p. 20.
97. Anna GIANNETTI, Il giardino napoletano, dal Quattrocento al Settecento, Electa Napoli, 1994, p. 76.
98. Pietro DE MARINO, Copia Appretii, ARCe, vol. 403 c.
229-300.
99. Giulio Cesare CORTESE, Viaggio di Parnaso, in ID.,
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Opere poetiche, a cura di Enrico Malato, Edizioni
dell’Ateneo, Roma, 1967, II, 7. L’opera del Cortese fu
data alle stampe nel 1621.
100. Anna GIANNETTI, Il giardino napoletano…, cit., p. 76.
101. Così si esprimeva Celestino Guicciardini nel 1667.
La citazione è riportata da Claudio MARINELLI, op. cit.,
p. 29.
102. La felice descrizione è tratta da Anna GIANNETTI, Dai
Romani ai Borbone…, cit., p. 138.
103. Luigi Vanvitelli, lettera del 12 giugno 1751 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 34.
104. Luigi Vanvitelli, lettera del 19 giugno 1751 al fratello
Urbano. Ivi, vol. I, p. 36.
105. Sull’argomento si veda Anna GIANNETTI, Dai Romani
ai Borbone…, cit., p. 138.
106. Luigi Vanvitelli, lettera del 12 giugno 1751 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 34.
107. Batto è, nella mitologia greca, un pastore a cui Ermes
chiede di non rivelare il nascondiglio delle giovenche
rubate al fratello Apollo. Il pastore, che aveva giurato
di esser muto come un pietra, messo alla prova dal dio
stesso, rompe il giuramento ed è quindi trasformato,
da Ermes, in una roccia.
64
108. La citazione è ripresa da Claudio MARINELLI in Caserta e la sua Reggia…, cit., p. 21.
109. «Qui io, ninfa del luogo sacro, riposo a custodia della
fonte fintanto che dolcemente sento il mormorio dell’acqua; ma tu, chiunque tu sia, che tocchi le profondità
della fonte, sia che tu beva sia che tu ti lavi, rimani in
silenzio». L’immagine della ninfa sembra riprendere
l’antica scultura collocata nel giardino dell’umanista
Angelo Colocci al Pincio, su cui una scritta recitava,
in modo estremamente simile: HUIUS NYNPHA
LOSI SACRI CUSTODIA FONTIS / DORMIO DUM
BLANDAE SENTIO MURMUR AQUAE / PARCE
MEUM QUISQUIS TANGIS CAVA MARMORA
SOMNU / RUMPERTE SIVE BIBAS SIVE LAVERE
TACE.
110. Si confronti l’immagine della Ninfa con la raffigurazione della Primavera di Lucas Cranach, dipinta nel
1518. Alle spalle della giovane distesa sul prato,
un’iscrizione, posta su una vasca, ne svela la reale natura: Fontis nimpha sacri somnum ne rumpe quiesco.
In un’altra versione, La ninfa della sorgente, posteriore
al 1537, Cranach associa, alla figura della giovane
donna, gli attributi propri di Diana: l’arco e le frecce.
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2. LA LUNGA STRADA DELL’ACQUA.
PROBLEMATICHE E SOLUZIONI DELL’APPROVVIGIONAMENTO
IDRICO DA VERSAILLES A CASERTA
Ductus autem aquae fiunt generibus tribus: rivis per canales structiles, aut fistulis plumbeis, seu tubulis fictilibus.1
Uno degli aspetti fondamentali legati alla progettazione dei giardini è quello relativo all’approvvigionamento idrico. Come si è già visto, senza
acqua il giardino non può esistere, non solo perché ad essa è legata la sopravvivenza delle varie
specie vegetali presenti, ma anche perché l’acqua
svolge – in particolar modo nel giardino formale
– quelle fondamentali funzioni di complemento,
legate allo svago, e di guida nella comprensione
del pensiero ideativo alla base della composizione.
Di conseguenza, prima di impiantare un nuovo
giardino – o di ampliarne uno esistente – è stato
sempre necessario che gli architetti potessero disporre di quantità d’acqua abbondanti e costanti.
Soltanto in questo modo – con un’abbondanza di
acqua tale da non determinare limitazioni al suo
uso ed una costanza di apporto idrico tale da non
generare carenze nell’arco della giornata – era,
infatti, possibile provvedere a tutte le necessità
del giardino, da quelle strettamente funzionali a
quelle ludiche.
Per raggiungere lo scopo prefissato, i committenti
non hanno mai esitato a spendere somme anche
molto consistenti per interventi complessi e, a
volte, particolarmente arditi che, comunque,
avrebbero reso maggiormente evidente il loro
prestigio. Emblematico, in tal senso, è il caso di
Villa d’Este a Tivoli, che il cardinale Ippolito
volle fortemente su un terreno impervio e, originariamente, arido.
Il primo intervento per assicurare un adeguato rifornimento idrico, consistette, tra il 1560 ed il
1561, nel prolungamento dell’Acquedotto Rivellese, che a partire dal monte Sant’Angelo, alle
spalle del complesso, già riforniva la fonte pubblica situata nella piazza antistante la chiesa di S.
Maria Maggiore.
Il cardinale non esitò ad utilizzare l’opera pubblica, facendo collegare l’acquedotto con il cortile del palazzo: da un’antica statua di Venere
reclinata, l’acqua, proveniente dalla piazza pubblica, si riversava in un sarcofago-vasca, prima
di immettersi nel giardino.
Ben presto, tuttavia, l’acqua si rivelò insufficiente
per le numerose fontane ipotizzate. Fu necessario, quindi, un secondo intervento, molto più impegnativo del precedente, tra il 1564 ed il 15652.
Il nuovo condotto attingeva l’acqua direttamente
dal fiume Aniene e raggiungeva il giardino, nella
fontana della Sibilla Tiburtina, dopo un percorso
in gran parte sotterraneo, scavato anche sotto il
centro abitato.
Tra i numerosi artisti che concorsero al successo
dell’opera – tra i quali il già nominato Pirro Ligorio, ideatore del complesso – occorre ricordare la
figura di Curzio Maccarone, artefice delle due
fontane più importanti nella ricca simbologia del
giardino, quelle rappresentanti le città di Tivoli e
di Roma3.
L’adduzione delle acque in Villa d’Este – con un
acquedotto proprio ed un traforo sotto la città – richiama come primo termine di paragone la sapienza costruttiva idraulica degli antichi romani.
Per numerosi secoli, infatti, i precetti vitruviani
costituirono il principale punto di riferimento
nella progettazione dei sistemi di approvvigionamento idrico4.
Ancora nel Cinquecento, sul modello degli acquedotti romani, il condotto di adduzione veniva
costruito con gallerie ispezionabili coperte a
volta, un pavimento impermeabile e, soprattutto,
con una pendenza costante, tale da garantire un
flusso delle acque che non erodesse la struttura,
ma neanche facilitasse l’accumulo dei detriti.
Come ricorda Luigi Zangheri, simili soluzioni
65
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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erano adottate anche in tutti i giardini medicei,
poiché «consentivano non solo il passaggio delle
acque nella cunetta della platea delle gallerie, ma
anche la posa in opera di tubi di piombo o laterizio. (…) Le stesse tecniche furono adottate, successivamente, per gli acquedotti di Saint Germain
en Laye e di Retz»5.
Erano inoltre seguite le prescrizioni fornite da
Leon Battista Alberti che richiedeva la presenza
di serbatoi – nella descrizione, in realtà, sembrano
avere una funzione simile alle vasche di decantazione piuttosto che alle conserve d’acqua – «a distanza di cento cubiti uno dall’altro» per
consentire che «la terra che si è mescolata all’acqua perché trascinata dall’impeto della corrente,
trovi un luogo in cui arrestarsi e subito depositarsi; per modo che le acque siano immesse più
pure nel canale»6.
In seguito, però, si preferì concentrare tali vasche
o in prossimità delle sorgenti, prima dell’immissione nell’acquedotto, o «dopo che l’acqua era
stata impiegata in una fontana o in un gioco d’acqua, e prima di essere utilizzata di nuovo»7. Il percorso dell’acqua venne, perciò, regolato con l’uso
di conserve e peschiere o, come nei giardini francesi, di grandi bacini che consentivano sia l’accumulo idrico sia la sua depurazione attraverso la
sedimentazione dei detriti.
Esempi di tubazioni fittili.
66
Luigi Zangheri ricorda molto bene alcuni di questi aspetti funzionali:
Le conserve costituivano grandi depositi d’acqua, interrati e coperti a volta, utili all’immagazzinamento
delle acque e alla loro erogazione, che doveva essere
necessariamente costante e misurata. Le acque vi
giungevano attraverso i condotti, e vi erano immesse
dall’alto. La platea della conserva era ben pavimentata
con lastre di pietra, e le pareti erano costruite in muratura impermeabilizzata, così da evitare la dispersione del liquido ivi contenuto. Per impedire
l’evacuazione di acque miste a belletta o fanghi, sul
fondo e ad una certa altezza dal margine inferiore, venivano aperti orifizi ben dimensionati per l’erogazione dell’acqua. Analoga funzione a quella prevista
per le conserve l’assolvevano le peschiere, che si presentavano come vasche ornamentali spesso arricchite
da sculture. Le peschiere erano grandi, capaci e profonde «acciò le acque nel verno non si agghiaccino e
nel tempo della state si mantengano fresche» come
consigliava lo Scamozzi. Come le conserve, anche le
peschiere costituivano un deposito di liquido ma a
cielo aperto; formavano il bacino di raccolta delle
acque dopo che queste erano state impiegate nei giochi delle fontane, e consentivano il deposito dei fanghi
qui arricchiti dalla macerazione delle foglie e dagli
escrementi dei pesci. Generalmente legati alle peschiere erano i ‘risciacquatoi’, che assolvevano a funzioni di ‘troppopieno’ (…) ed erano impiegati per la
dispersione del liquido quando nelle peschiere l’acqua
aveva superato il livello massimo previsto8.
In tal senso, perciò, la successione di vasche, presente lungo l’asse centrale del Parco di Caserta,
oltre ad avere un’importante funzione estetica,
assume il medesimo ruolo svolto dai grandi bacini francesi: la regolamentazione del flusso
idrico e, contemporaneamente, la purificazione
dell’acqua prima della sua immissione nel Palazzo Reale9.
Ai precetti vitruviani, riguardanti soprattutto la
corretta conduzione delle acque, erano inoltre associati anche quelli, riguardanti il funzionamento
di automi azionati idraulicamente, che, a partire
dal Quattrocento, si erano sviluppati sulla base
della riscoperta dei testi di Archimede e della
Pneumatica di Erone di Alessandria10. Proprio nei
giardini italiani – nelle grotte e nei ninfei, ma
anche nelle singole fontane, come già ricordato a
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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proposito del giardino degli Acquaviva e del
parco del Principe di Avellino – fu possibile sperimentare un gran numero di possibilità e di soluzioni idrauliche e meccaniche.
Proprio grazie alla perizia raggiunta nella progettazione di congegni idraulici, una nutrita schiera
di tecnici, dopo aver operato a Boboli e a Pratolino, esportò in tutta Europa le conoscenze acquisite. Primi fra tutti Tommaso ed Alessandro
Francini11, invitati da Maria de’ Medici ad occuparsi del grande giardino di Saint Germain-enLaye. Ai Francini sembra sia da attribuire, inoltre,
l’uso, come condutture, di tubazioni di ferro,
dalla maggiore durata e dal costo inferiore rispetto a quelle di piombo12.
Giovanni Gargiolli13 fu chiamato, invece, a Praga,
alla corte di Rodolfo II dove sviluppò « nuove tipologie nel disegno dei bacini idrici: “da regolari,
circoscritti architettonicamente – con parapetto
di pietra piano o a balaustra, che moltiplicava gli
effetti di luce – fino alla forma “naturale” di vivaio”»14. In Spagna giunsero, invece, Cosimo
Lotti ed il suo assistente, Pietro Francesco Gandolfi, accompagnati da due giardinieri di Boboli.
Il Lotti, che si era distinto nell’invenzione di numerosi
automi a Pratolino, presentò al re [Filippo IV] il progetto di un meccanismo che avrebbe dovuto essere
posto all’ingresso di un giardino reale: «alla porta di
questo giardino voleva che, col toccarsi di un bilico,
comparisse una finta bellissima femmina, pomposamente vestita, ad incontrare il forestiero, e con bella
grazia gli porgesse la mano: quindi accompagnandolo
per alcuni passi, lo dovesse condurre in un luogo,
dove dovevano essere altre figure, che da per se stesse
a varie azioni si movessero». Successivamente
«un’altra finta femmina, la quale col bel gesto l’invitasse a bere dell’acqua di una fontana quivi vicina, accomodata con tale artifizio, che subito che egli vi
avesse pressate le labbra, cessasse di gettare acqua, e
in quel cambio mandasse fuori preziosissimo vino; e
subito spiccata la bocca dalla fonte, tornasse a dare
acqua»15.
Infine Salomon de Caus, anch’egli collaboratore
di Buontalenti a Pratolino, dopo un’intensa attività presso le corti di Bruxelles, Londra16 e Heidelberg, riassunse le esperienze condotte nel
campo della progettazione idraulica, descrivendo
i progressi compiuti e le innovazioni prodotte tra
Cinquecento e Seicento. Il suo trattato, Les Raisons des forces mouvantes, avec diverses Machines tant utiles que plaisantes auxquelles sont
adjointes plusieurs desseins de Grotes & Fontaines, edito a Francoforte nel 1615, costituisce la
necessaria teorizzazione delle problematiche inerenti il settore dell’idraulica, legandosi inevitabilmente a quella razionalizzazione delle
conoscenze, avvenuta nel Seicento a causa dello
sviluppo di tutti gli ambiti scientifici.
All’interno del testo, de Caus illustrava, anche
graficamente, vari modi per sollevare l’acqua,
progetti di pompe, ruote di mulino, automatismi
Esempi di impermeabilizzazione di una vasca con argilla,
in alto, o con lastre di piombo, in basso.
67
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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azionati idraulicamente ed ispirati all’opera di
Erone, organi idraulici, grotte e fontane.
Al suo trattato è, inoltre, da associare quello del
fratello Isaac, la Nouvelle invention de lever
l’eau17, pubblicato nel 164418, summa delle conoscenze idrauliche dell’epoca.
Allo stesso modo l’Utilissimo trattato dell’acque
correnti di Carlo Fontana, pubblicato nel 1696,
costituiva un manuale per la risoluzione delle più
comuni problematiche inerenti l’approvvigionamento idrico e la progettazione di fontane. Con
l’ausilio di numerose tavole illustrative, Fontana
esamina vari aspetti della progettazione idraulica,
dalle opere di captazione, alle modalità di conduzione attraverso acquedotti, fino alla descrizione
delle proprietà assunte dall’acqua contenuta all’interno delle tubazioni. Luigi Vanvitelli, in una
lettera al fratello Urbano, si mostra tuttavia critico
nei riguardi dell’opera del collega19, della quale
ritiene che l’aspetto più rilevante sia soltanto
quello riguardante le fistole, ovvero il dimensionamento delle tubazioni.
L’atteggiamento di Vanvitelli è tuttavia indice della
rilevanza data a questo particolare aspetto della progettazione idraulica, che, come ricorda ancora Luigi
Zangheri, nel Settecento portò ad un particolare
sviluppo proprio della «’foronomia’, che appunto
descriveva le relazioni intercorrenti fra carico
idraulico e la velocità e portata uscente in funzione
della forma e della dimensione di un orifizio»20.
Sebbene Vanvitelli non lo abbia ritenuto valido
per i propri scopi, è, però, interessante leggere
quanto descritto da Fontana nel caso in cui un acquedotto si trovi ad attraversare una valle, al fine
di comprendere le conoscenze dell’epoca e confrontarle con quanto realizzato nella valle di
Maddaloni:
Salomon de Caus, modo per aumentare la forza di una
fontana, in Les raisons des forces mouvantes,1615.
Lo sviluppo dei giardini francesi comportò una
radicale trasformazione anche nella trattatistica.
68
Accaderà, che per proseguire il camino degl’Acquedotti, si dovrà passare diametralmente frà le Valli, ò
pure nelle circonferenze dell’appendici de’ Monti.
Certo è, che la propria fermezza, e solidità dell’acquedotto ogni volta, che il giro permette il declivio, sarà
sempre meglio il giro, che diametralmente, ed anche
si può avventurare l’acquisto dell’Acque, che sempre
sogliono scaturire in simili luoghi, il valore delle quali
possa contrapporre alla spesa dell’Opera. E perché nel
giro del viaggio sogliono fare varii angoli, come quelli
notati D, nelli quali, come luogo più esposto alla vista,
devesi fare i suoi Torrini come Pozzi D, quali servono
per sfoghi, ed indizio del viaggio. Contiguo li medesimi sogliono esser le Valli, le quali ammettono la situazione de’ sfogatori, ed introiti nelli accennati
condotti, per le spurgazioni, che si dovranno fare per
le puliture di essi. E quando la necessità del declivio
causasse l’introdursi sotterraneamente stante l’eminenze de’ Colli E, similmente in ogni angolo dovranno essere i suoi Pozzi, e Torrini D, per la
medesima indicazione del suo giro. Succedendo l’interposizione delle Valli, che necessitasse a sostenere
l’Acquedotto per via d’Archi B, dovranno essere le
loro situazioni in luoghi più sicuri, e meno soggetti
all’inondazioni, che accadono dalli torrenti, ed acque
accidentali in quelle Valli, li quali archi dovranno
esser fabbricati, e costruzione a una sola linea retta,
ma con varie piegature d’ottusi angoli, ed a ciascheduno de’ quali si farà il suo foro per l’esalo de’ venti,
che in questi luoghi terminano, portati dalla corrente,
e natura dell’acqua, il tutto come si scorge negl’antichi Condotti dell’Acqua Paola verso il Lago Alfeatino, e dell’Acqua Marzia nella strada Valeria, cioè
Valle di Subiaco21.
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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L’acqua era proposta sotto nuove forme, per le
quali non bastavano più le descrizioni del passato. Inoltre, l’uso delle pompe idrauliche – che
avevano progressivamente sostituito il sistema
del sifone – ed in particolare l’avvento delle macchine idrauliche – prima fra tutte la Macchina di
Marly – determinò la necessità di aggiungere, nei
trattati, i progressi compiuti alle soglie del Settecento22. Ad Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville va il merito di aver saputo organizzare in
modo organico le conoscenze dell’epoca, da Vitruvio fino alle scoperte più recenti.
Nel presentare la parte dedicata all’idraulica,
nella terza edizione della sua opera, così scrive:
L’importante Matière des Eaux, qu’elle tratoit,
m’avoit paru, dès le commencement, mériter plus
d’éxactitude & plus d’étenduë. Dans cette pensée, je
fis travailler. Mais la matière avoit si fort grossi sous
la plume de l’Auteur auquel je m’étois addressé, que
je me déterminai, en publiant le seconde Edition, d’y
ajoûter un second Volume, qui devoit traiter à fond
des Eaux, & des Fontaines, sujet curieux, dont il n’y
avoit jusques alors aucun bon Traité. Plusieurs raisons
m’ont cependant fait abanonner ce dessein. (…) On
pourra donc chercher dans cette quatrième partie les
principaux signes que les Anciens & les Modernes ont
donnés pour la découverte des Sources: Les proportions qu’il y a entre la chûte des eaux & leur montée:
La description de quelques machines pour élever les
eaux dans un Païs unis: Des règles pour déterminer le
rapport qu’il doit y avoir entre l’ouverture des
Tuyaux, & leur épaisseur: quelques embéllissements
pour les Fontaines. On y trouvera la manière de faire
un Horloge avec le cours d’une Fontaine artificielle,
de contrefaire la voix des petits Oiseaux, par le moïen
de l’air & de l’eau, d’élever l’eau dormante par le
moïen du Soleil, de donner du mouvement à une Galatée qui sera trainée par deux Dauphins, & à un Neptune qui tourne circulairement avec quelques Tritons,
& de faire jouër un jeu d’orgues & un flageolet. Le
tout est accompagné des figures nécessaires pour la
pleine intelligence du Sujet23.
Ed in seguito, nel trattare propriamente di questioni idrauliche, fa esplicito riferimento ad alcune importanti innovazioni:
Carlo Fontana, illustrazioni riguardanti la conduzione delle acque, in Utilissimo trattato dell’acque correnti, 1696.
69
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Comme la necessité d’avoir de l’Eau dans les jardins
est indispensable (…) il ne sera pas hors de propos
d’en parler dans ce Traité, le plus succintement que le
peut permettre une matiere aussi ample, & qui demanderoit seule un Traité particulier. Les Eaux des Fontaines & des Bassins viennent, ou de sources
naturelles, ou de machines qui élevent les Eaux (…).
Les Eaux naturelles ne se pouvant trouver dans un
Païs plat & sec, on a recours aux Machines Hidrauliques, qui élevent les Eaux des Rivieres, des Etangs,
des Ruisseaux, comme aussi celles des puits & cîternes, dans des Reservoirs & lieux élevés, pour les
descendre ensuite dans les Jardins.
Ces Machines sont presentement fort en usage, &
beaucoup de Gens les preferent aux Eaux naturelles,
par raport à la uqantité d’Eau qu’elles fournissent, à la
proximité des Reservoirs, & au peu de longueur des
conduits (…).
On peut élever l’Eau par differentes Machines. Premierement, par la force des Pompes à bras & à cheval.
Secondement, en se servant des deux Elements, de
l’Air & de l’Eau pour faire tourner des Moulins24.
Inevitabile il riferimento alla Machine de Marly
e la descrizione del principio alla base del suo
funzionamento:
On se sert ordinairement de la force des Rivieres où
l’on place cette machine, pour la faire jouër par le
moyen d’une Rouë (…) dont les ailes trempant en partie dans l’eau sont poussées par la force de la même
eau, laquelle en cette façon fait tourner la rouë, qui fait
tourner la piece de fer recourbée (…) qui s’apuye sur
les deux points fixes (…) qui tournant sur ces points
(…) s’aproche successivement des ouvertures (…) des
deux corps de pompe (…) & ainsi fait hausser & baisser les pistons l’un après l’autre, avec leurs verges (…)
qui sont attacchées à la piéce de fer recourbée (…).
Aulieu d’une semblable piece recourbée, on se sert
dans les grandes machines de quelques leviers, qui en
allant & venant, de haut en bas, & de bas en haut, servent à faire hausser & baisser les pistons, comme l’on
peut voir à la grande Machine de Marly, proche de
Paris, qu éleve l’eau de la Riviere de la Seine sur un
grand aqueduc qui va jusqu’à Versailles25.
Il trattato di Dézallier d’Argenville propone,
quindi, un’esauriente descrizione delle metodologie più usate all’epoca per l’approvvigionamento idrico. Tuttavia, nel discorso, viene
precisata l’impossibilità di poter descrivere tutte
le invenzioni prodotte per il sollevamento e la
conduzione dell’acqua:
On n’auroit jamais fait, s’il falloit expliquer toutes les
machines qui ont été inventées pour la conduite &
pour l’élévation des eaux: ainsi, nous parlerons seulement de celles qui sont les plus utiles, & qui conviennent le mieux à notre sujet26.
La Macchina di Marly in una tavola dell’Encyclopédie di
Diderot e d’Alembert, 1762-1772.
70
Infine, come già accennato, un rapido elenco
delle principali forme assunte dall’acqua nelle
fontane del Settecento, la cui descrizione si ritrova anche nell’Architecture Hydraulique, ou
l’Art de conduire, d’élever, et de menager les
Eaux pour les différents besoins de la Vie di Bernard Forest de Bélidor27.
Si tratta dei jets d’eau, i più comuni – e a volte
più spettacolari – getti verticali, in cui l’acqua è
lanciata verso l’alto a partire da una superficie
orizzontale; i berceaux, flussi di acqua inclinata
ovvero archi d’acqua che cambiano al variare
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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della pressione e della direzione; le nappes, flussi
d’acqua, estesi come lenzuola, che abbracciano
morbidamente la superficie su cui cadono; le cascades, ovvero l’acqua agitata, caratterizzata da
spruzzi e schiuma, che cade, tratto dopo tratto, su
molteplici scalini o, in un singolo salto, come un
muro d’acqua; i bassins, i bacini e le vasche utilizzate per raccogliere e contenere l’acqua che
esce da getti, nappes e cascate.
Si passa, poi, agli effetti più fantasiosi: le gerbes,
piramidi d’acqua formate dalla combinazione di
piccoli getti a diverse altezze; gli arbres d’eau,
le caratteristiche fontane ad albero dai cui rami,
come foglie, fuoriescono getti d’acqua; le grilles,
file di piccoli rivoli d’acqua che tendono verso il
basso; gli champignons, i getti più bassi che sembrano spuntare come funghi dal terreno. Infine le
composizioni più grandiose, in cui i vari giochi
d’acqua si combinano a più livelli: buffets, montagnes d’eau e théatres d’eau.
In campo idraulico Luigi Vanvitelli mostra una
perfetta padronanza della materia ed una approfondita conoscenza dei progressi compiuti dai
suoi contemporanei, aggiornandosi costantemente attraverso un’attenta lettura della trattatistica coeva. Nelle lettere spedite al fratello
Urbano cita il trattato di Bélidor28 e l’Architettura
delle acque di Giovanni Battista Barattieri. Si informa, poi, per acquistare l’opera di Domenico
Guglielmini, Della natura de’ fiumi trattato fisico-matematico, etc, pubblicata a Bologna, nel
1739, nella nuova edizione con le annotazioni di
Eustacchio Manfredi. Si è già accennato, infine,
alle critiche mosse al testo di Carlo Fontana.
Inoltre, come ricorda Aldo Aveta, a Roma sono
almeno tre gli acquedotti a cui si può ricondurre
un suo apporto. Si tratta di quelli «del Vermicino,
dell’acqua di Trevi e dell’acqua Felice»29.
In particolar modo è da valutare, come altamente
formativa, proprio la collaborazione, tra il 1747
ed il 1751, con Nicola Salvi – «Architetto dell’Acqua Vergine del Salone e suoi acquedotti e
fontane» – progettista della Fontana di Trevi,
quando questi, nei suoi ultimi anni di vita, era
gravemente infermo. «Tenendo presente il periodo nel quale Vanvitelli operò agli acquedotti
del Vermicino e di Trevi», prosegue Aveta, « si
può esser certi che questi incarichi contribuirono
notevolmente alla sua formazione di tecnico, e gli
fornirono quel bagaglio di esperienze necessario
per affrontare la più importante ed impegnativa
impresa, costituita dall’acquedotto carolino»30.
Bernard Forest de Bélidor, funzionamento della Macchina di Marly, in Architecture Hydraulique, ou l’Art de conduire,
d’élever, et de menager les Eaux pour les différents besoins de la Vie, 1737-1753.
71
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Pierre-Denis Martin, La Macchina di Marly, 1724. In alto si nota l’Acquedotto di Louveciennes.
L’approvvigionamento idrico della Reggia di Caserta venne perciò studiato con estrema cura e con
meticolosa precisione, caratteristiche, queste, che
sono comuni ad ogni opera progettata dall’architetto napoletano. Vanvitelli possedeva, infatti,
anche le competenze proprie di un ingegnere idraulico, le quali gli permisero di ideare e realizzare
un’opera che già tra i suoi contemporanei fu paragonata, per la lunghezza del percorso e l’imponenza delle strutture, a quelle romane31.
Prima di analizzare l’iter progettuale e la storia
della costruzione dell’Acquedotto Carolino, sembra tuttavia utile ripercorrere i principali momenti
che riguardano la realizzazione di un altro grande
sistema di approvvigionamento idrico, anch’esso a
carattere territoriale, realizzato poco più di un secolo prima dell’opera vanvitelliana: quello della
Reggia di Versailles.
Nonostante le due opere non possano essere confrontate, se non relativamente alle dimensioni dell’intervento, l’analisi di quanto accaduto a
Versailles è utile per comprendere il differente atteggiamento di committenti, progettisti ed utilizzatori nei confronti di due opere eccezionali ed uniche
nel loro genere.
72
L’Approvvigionamento idrico di Versailles
«Cette machine, la plus belle et la plus extraordinaire dont on ait entendu parler jusqu’à présent, est située sur un bras de la rivière Seine»32.
Questa espressione di Jean-Aimar Piganiol de la
Force sintetizza l’ammirazione che numerosi
scrittori contemporanei ebbero per la Macchina
di Marly, la più grande macchina idraulica per il
sollevamento delle acque mai costruita fino al
1684. In tale anno l’imprenditoria del barone di
Liegi Arnold de Ville e l’ingegno di Rennequin
Sualem, carpentiere e suo concittadino, riuscirono a realizzare quanto fino ad allora era stato
soltanto immaginato.
La Macchina di Marly è sicuramente l’emblema
degli sforzi compiuti per garantire l’approvvigionamento idrico del Parco di Versailles e allo
stesso tempo è la misura dei progressi compiuti in
campo idraulico nella Francia del Re Sole. Per la
complessità dei suoi meccanismi e per il movimento perpetuo delle sue pale si arrivò a considerarla una delle meraviglie dell’epoca.
Prima di giungere alla costruzione della Macchina di Marly, però, numerosi erano stati i pro-
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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getti presentati per risolvere adeguatamente – e
in maniera definitiva – il problema di garantire al
Parco di Versailles un approvvigionamento idrico
in grado di sostenere l’abbondante portata richiesta dai bacini e dalle numerose fontane presenti.
Il problema non era irrilevante, tanto che, ai nostri giorni, il Parco soffre ancora per la scarsità
d’acqua che impone limitazioni orarie al pieno
funzionamento di tutti i bacini33. Non sembra, tuttavia, che le fontane di Versailles abbiano mai
funzionato a pieno regime, anche quando fu disponibile una considerevole quantità d’acqua,
proveniente dalle sorgenti limitrofe alla zona.
L’utilizzo delle fontane del Parco venne sempre
razionalizzato e, di norma, solo i bacini più vicini
al Castello furono usati ogni giorno, dalle otto del
mattino alle otto di sera.
Le Grandi Acque, ovvero il complesso di tutte le
fontane, erano invece a pieno regime solo in occasioni speciali, come ad esempio le feste o le visite di un ambasciatore, ma anche in questo caso
per non più di tre ore ogni volta34.
A tale proposito un’ordinanza emanata nel 1672
prescriveva:
Quando Sua Maestà arriverà per la strada dello stagno, il maestro fontaniere avrà cura di mettere l’acqua
nella Piramide, nella Allée d’eau, nel Dragone, e pren-
derà le sue misure in modo che queste fontane raggiungano la loro perfezione quando Sua Maestà sarà
nel punto di vista all’estremità della strada. Siccome
la fontana del Pavillon non può funzionare se non fermando la Piramide, l’inserviente fontaniere incaricato
di queste due fontane baderà di non fermare la Piramide se non quando Sua Maestà sarà entrato nel piccolo viale del Pavillon, e subito metterà l’acqua nel
Pavillon, sicché funzioni prima che Sua Maestà la
possa vedere. Quando Sua Maestà non sarà più nel
piccolo parco, si fermerà tutto. Quando Sua Maestà
sarà sul canale, la fontana di Apollo funzionerà sempre, ma i getti ai piedi dei cavalli saranno fermati finché Sua Maestà non rientri nel piccolo parco35.
La volontà del re era invece un’altra. A Versailles
le fontane non avrebbero dovuto mai tacere, né
di giorno né di notte, similmente a quanto accadeva – ad una scala più ridotta – nel parco del
Principe di Condé, a Chantilly36.
Numerosi ingegneri e matematici, tra i più celebri
dell’epoca, furono quindi incaricati di trovare una
soluzione al problema.
Nel 1675 Luigi XIV, che per tutta la vita non abbandonò mai la speranza di trovare le idonee risorse idriche, interessò alla questione anche il
primo ministro Colbert, affidandogli l’incarico di
emanare bandi pubblici in tutto il regno, per trovare tecnici in grado di soddisfare la sua idea.
Jacques Rigaud, Veduta di Versailles dallo Stagno di Clagny, 1720 circa. Lo Stagno di Clagny, attualmente non più esistente, costituiva uno dei principali serbatoi di accumulo idrico per il castello.
73
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Conseguenza di questa ricerca incessante promossa
dal sovrano fu l’avvio, quasi in contemporanea, di
tre grandi opere: la prima consisteva nella realizzazione di una rete idrica di collegamento fra gli
stagni limitrofi all’area di Versailles, per la raccolta
delle acque piovane provenienti dai rilievi circostanti; la seconda mirava alla deviazione di un
corso d’acqua che garantisse al Parco la portata necessaria; la terza doveva ottenere il sollevamento
artificiale dell’acqua della Senna per permetterle di
raggiungere il più vicino acquedotto collegato con
Versailles. Ciascuno di questi interventi fu pensato,
in principio, come soluzione unica ed autonomamente sufficiente; tuttavia nel corso del tempo, la
lunghezza della durata dei lavori e le difficoltà incontrate, per la realizzazione di ciascun progetto,
hanno prodotto un sistema idrico integrato con numerosi elementi interdipendenti.
Analizzando più nel dettaglio le attività intraprese,
è interessante, anche ai fini della comprensione dell’intero impianto, soffermarsi prima di tutto sull’intervento progettato da Thomas Gobert con il
supporto di Jean Picard37, poiché tale sistema è direttamente collegato a quello precedentemente utilizzato per l’approvvigionamento e la distribuzione
dell’acqua nel castello di Versailles.
Gobert e Picard: il sistema di collegamento
degli Stagni limitrofi all’area di Versailles;
l’acquedotto di Buc
Ancor prima dell’intervento di Le Nôtre, all’epoca di Luigi XIII, si era iniziato ad utilizzare
l’acqua proveniente dallo Stagno di Clagny – situato in un’area limitrofa all’attuale Bacino di
Nettuno nel Parterre Nord – per alimentare il fabbisogno del castello. L’acqua era prelevata per
mezzo di una pompa idraulica costruita da Denis
Jolly all’estremità del parco. L’installazione comprendeva quattro pompe azionate da cavalli, integrate in seguito da tre mulini a vento fatti
costruire da Le Vau più a nord dello specchio
d’acqua. Nel 1667, alle opere precedenti venne
aggiunta la “Grande Pompa”, sempre su progetto
di Le Vau, costituita da un corpo centrale, che
conteneva le pompe aspiranti, e due serbatoi a
pianta circolare38.
L’acqua era tuttavia insufficiente alle necessità del
sito. Per aumentare l’apporto dello stagno di Clagny vennero allora drenati i limitrofi comuni di
Chesnay, Vaucresson e La Celle-Saint-Cloud attraverso acquedotti sotterranei. Nello stesso tempo
l’acqua dello stagno di Val de Bièvre veniva spinta
Il sistema idrico della Val de Bièvre dopo l’intervento di Gobert e Picard.
74
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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da quattro mulini a vento fino alla sommità del
plateau di Satory, dove, tramite una condotta in
ghisa, era incanalata verso il serbatoio di Satory39.
Il mulino di Launay completò queste prime installazioni, permettendo la creazione dei numerosi
giochi d’acqua che costituirono una delle principali attrazioni nella grande festa data da Luigi XIV
il 18 luglio 1668. L’alimentazione d’acqua dei bacini del Parco era effettuata per gravità; un sistema
di ricircolo, basato sull’azione di un mulino, permetteva inoltre di rinviare l’acqua dai bacini allo
Stagno di Clagny, consentendo minori dispersioni.
Tuttavia la maggiore richiesta idrica, derivante dal
progredire dei lavori di Le Nôtre, portò alla ricerca
di soluzioni alternative che integrassero l’apporto
dello Stagno di Clagny e garantissero il funzionamento ininterrotto delle fontane.
A partire dal 1675 Thomas Gobert, intendente
degli edifici del re, studiò e realizzò i cosiddetti
serbatoi degli Stagni Inferiori; il suo lavoro fu
agevolato anche dai progressi dei contemporanei
studi dell’abate Picard su un nuovo tipo di livello
ottico a cannocchiale, che permise di procedere
più agevolmente nella livellazione delle acque.
L’insieme dei nuovi serbatoi era composto da una
rete di canali che conducevano l’acqua agli Stagni di Saclay – Stagni Vecchi – di Orsigny e di
Trou Salé. Per garantire il flusso idrico furono
realizzate numerose opere, tra le quali sono da ricordare gli acquedotti sotterranei, che si ricollegavano con il serbatoio di Satory, ed il ponte che
si può ammirare nel comune di Buc, costruito per
superare il fiume Bièvre40.
Nel 1685 vennero collegati anche lo Stagno di
Villiers e lo Stagno Nuovo di Saclay a completamento della rete idrica.
A partire dal 1684, contemporaneamente a quello
degli Stagni Inferiori, situato più a nord, nacque
anche il sistema degli Stagni Superiori. Tale sistema è costituito dai serbatoi di Mesnil-SaintDenis, dalla catena formata da Saint-Hubert,
Pourras, Corbet, Bourgneuf e Hollande, dallo stagno di La Tour, a sud est di Rambouillet, e dallo
stagno di Perray, attivato nel 1685. Gli Stagni Superiori permettevano il flusso dell’acqua fino al
Carré de Trappes, al di sotto degli stagni realizzati da Gobert, e potevano alimentare, per gravità, i serbatoi di Montbauron, realizzati nel 1685
per ordine del ministro Louvois, in cui venne
fatta confluire anche l’acqua della Senna pompata dalla Macchina di Marly. Il risultato dell’intero lavoro fu, quindi, che tredici stagni o serbatoi
potevano stoccare circa otto milioni di metri cubi
d’acqua e che circa duecento chilometri di canalizzazioni – di cui venticinque in acquedotti sotterranei – permettevano la raccolta delle piogge
cadute su più di tredicimila ettari.
Si creò così, tra Rambouillet e Versailles, una
vasta rete idrica che permetteva il drenaggio e lo
scolo dell’intero plateau, per una superficie compresa in un diametro di circa 34 Km: la disposizione idrografica naturale fu, all’epoca, a tal
punto modificata che, attualmente, sarebbe rischioso intervenire ulteriormente senza sconvolgere gli equilibri costituiti41.
Riquet, La Hire e Vauban: la deviazione della
Loira e dell’Eure; l’acquedotto di Maintenon
L’utilizzo del sistema degli Stagni, a partire da
quello di Clagny, presentava però l’inconveniente
di dipendere dalla piovosità, non riuscendo,
quindi, ad essere soddisfacente né per l’irregolarità del funzionamento né per la fornitura di
acqua potabile. Al sistema degli Stagni di Gobert
venne quindi associata un’altra ipotesi: l’adduzione delle acque del fiume Eure. L’idea derivava
da quella proposta da Pierre-Paul Riquet42, il ma-
L’acquedotto di Buc in Val de Bièvre.
75
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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tematico distintosi per la progettazione e la realizzazione del Canal du Midi che aveva permesso il
collegamento tra il Mediterraneo e l’Atlantico43.
Riquet aveva proposto di captare le acque della
Loira a circa 200 chilometri di distanza, ma i calcoli precisi avevano dimostrato l’irrealizzabilità
del progetto. Tuttavia l’idea originale di Riquet
non venne mai completamente abbandonata.
La progressiva estensione della rete dei serbatoi
di Gobert fino alle vicinanze di Maintenon, infatti, suggeriva la possibilità di deviare, in alternativa alla Loira, almeno le acque del fiume Eure,
seppure, ancora una volta, con notevoli costi e
mezzi per riuscire nell’operazione. Nel 1684 Philippe de La Hire44, incaricato di studiare la fattibilità del progetto, aveva comunque confermato la
possibilità di riuscita.
Il ministro Louvois si rivolse quindi ad uno dei
più abili ingegneri dell’epoca, Sébastien Le Prestre de Vauban45, fino a quel momento occupato
nella progettazione delle numerose fortificazioni
richieste dalla crescente espansione delle frontiere francesi. Nel 1685 Luigi XIV conferì ufficialmente a Vauban l’incarico di provvedere
all’approvvigionamento idrico di Versailles utilizzando le acque del fiume Eure. Tra i lavori previsti e pianificati si iniziò subito la costruzione
del tratto da Berchères a Maintenon – quello più
spettacolare – consistente in una grande struttura,
alta sessanta piedi, che doveva scavalcare il canale situato all’interno del parco di Maintenon46.
L’acquedotto di Maintenon nel parco del castello omonimo.
76
L’opera di Vauban fu immediatamente considerata di estrema importanza, suscitando nell’ambiente culturale dell’epoca una crescente attesa
per il suo completamento ed un’elevata aspettativa in relazione al suo funzionamento.
A titolo esemplificativo è da considerare la raffigurazione dell’acquedotto di Maintenon alle
spalle della Ninfa di Versailles, colta nell’atto di
mostrare il palazzo reale, in uno dei bassorilievi
circolari scolpiti per la decorazione di Place des
Victoires e tesi ad esaltare le imprese del Re Sole.
Tale raffigurazione è tanto più interessante se si
considera che all’epoca l’acquedotto risultava incompiuto e che, del resto, non venne mai completato47. Tuttavia la fiducia e la speranza riposte
nell’opera erano tali che, per quanto non compiuto, l’acquedotto venne considerato non solo
tra le più grandi realizzazioni del Re Sole, ma
anche come emblema dell’intero sistema di approvvigionamento idrico del sito di Versailles.
De Ville e Sualem: la Macchina di Marly; l’acquedotto di Louveciennes
Ai lavori di costruzione del progetto di Vauban –
che, se completato, si sarebbe sviluppato per una
lunghezza complessiva di circa 80 chilometri –
sono intrecciati cronologicamente quelli per la
Macchina di Marly, come se il secondo dei due
interventi dovesse sopperire al primo e viceversa.
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Rispondendo, infatti, al bando di Colbert, del
1675, il barone Arnold de Ville aveva presentato
a Luigi XIV un progetto per condurre le acque
della Senna a Versailles, facendole risalire fino
alla sommità dell’acquedotto di Louveciennes attraverso una gigantesca pompa. De Ville, influente membro della città di Liegi, si era rivolto
al giovane concittadino Rennequin Sualem, carpentiere ed idraulico, che aveva già costruito una
macchina per alimentare d’acqua il castello del
conte De Marchin, costruito su un’alta sporgenza
rocciosa. De Ville e Sualem furono incaricati, nel
1678, di studiare il problema e di costruire una
macchina sperimentale. Fu realizzato un modello,
il cui funzionamento fu mostrato, alla presenza
del Sovrano, nel corso di una dimostrazione a
piccola scala organizzata al mulino di Palfour, ai
piedi del Couteau di Saint-Germain, verso la fine
del 1680. Il macchinario riusciva a portare, in
tempi successivi, l’acqua al livello della terrazza
di Saint-Germain, a circa cinquanta metri di altezza. La riuscita dell’esperimento decretò il successo del progetto di Arnold de Ville, che,
ottenuti i favori di Luigi XIV, poté procedere alla
costruzione della Macchina di Marly.
De Ville ebbe il ruolo di imprenditore, occupandosi delle forniture di materiale; Rennequin Sualem, successivamente ricompensato per la sua
opera dal re, che lo nominò Primo Ingegnere e gli
conferì un titolo nobiliare, si occupò invece del
progetto meccanico, disegnato dal concittadino
Siane Du Pont. La macchina fu installata lungo
la Senna, vicino a Bougival, a circa sette chilometri di distanza dai giardini di Versailles.
Il suo scopo era di sollevare l’acqua fino alla
sommità della collina di Louveciennes, a 162
metri di altezza rispetto al livello del fiume, da
dove un acquedotto sotterraneo di 6 chilometri
avrebbe condotto l’acqua a Versailles per gravità,
sfruttando i 37 metri di dislivello con i bacini
della terrazza del castello.
La costruzione della Macchina iniziò nel 1681.
La scelta del sito di Marly fu dettata anche dal
fatto che la Senna, in quel punto, si divideva in
due rami separati da isole e la conformazione del
luogo permetteva, quindi, di non interrompere la
navigazione fluviale. Per creare un dislivello sufficiente a contenere le ruote idrauliche, tutte le
Pierre Le Nègre, Jean Regnaud, Il Palazzo di Versailles, 16801690. Bassorilievo per la decorazione di Place des Victoires.
isole della Senna, da Bezons fino a Pecq, furono
unite tra loro, delimitando un canale di servizio e
di pertinenza della Macchina, a sinistra, mentre
a destra rimase un passaggio riservato alla navigazione, resa tuttavia molto difficoltosa a causa
della corrente48. Il ramo di pertinenza della Macchina fu, quindi, isolato con dighe, per poter infiggere sul letto del fiume i pali di fondazione
della piattaforma di base.
Quattordici – il numero simbolicamente identificativo del re – erano le ruote idrauliche, ognuna
delle quali, di 12 metri di diametro, era azionata
dalla caduta dell’acqua nel dislivello di circa due
metri. A loro volta le ruote idrauliche attivavano
numerose serie di pompe idrauliche, di cui le
prime 64 attingevano direttamente l’acqua dal
fiume e la conducevano ai serbatoi intermedi situati sul pendio della collina, il primo dei quali a
circa 48,50 metri al di sopra della Senna49.
In un primo momento Sualem aveva pensato di
far giungere l’acqua alla sommità della collina
con un solo sistema di pompe, ma le condutture
in ghisa e, soprattutto, gli elementi di giunzione
non avrebbero sopportato l’elevata pressione a
cui sarebbero stati sottoposti. Si decise allora di
far risalire l’acqua in tre tappe, ciascuna tra i 50
ed i 60 metri di dislivello, intervallando il percorso con serbatoi secondari. Da ogni livello una
77
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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serie di rinvii meccanici azionava altre pompe di
collegamento tra i vari serbatoi, fino a raggiungere l’acquedotto di Louveciennes a 1.200 metri
di distanza dal fiume.
Il movimento fornito da ogni ruota era quindi trasmesso a due sistemi indipendenti: l’uno serviva
a far funzionare il primo livello delle pompe, l’altro trasmetteva il movimento a quelle dei livelli
superiori. In totale si contavano tre livelli di
pompe: il primo dalla Senna al serbatoio di
Mezza Costa; il secondo dal serbatoio di Mezza
Costa al serbatoio superiore, situato di fronte alla
residenza di Arnold de Ville; l’ultimo dal serbatoio superiore fino alla sommità dell’acquedotto
di Louveciennes. I serbatoi intermedi permettevano, inoltre, di regolare il debito dei differenti
livelli.
La trasmissione del movimento avveniva tramite
barre di ferro, chiamate catene, fissate testa a
testa per mezzo di rivetti. Le barre, lunghe 6 m,
larghe 7 cm e spesse 3 cm, erano collegate fra
loro da una serie di bilancieri oscillanti che mantenevano il loro scartamento ad un’altezza di 3,60
metri. Questi bilancieri erano a loro volta fissati
su una passerella continua di legno sostenuta da
cavalletti; le catene erano quindi distinte in catene dei piccoli cavalletti e catene dei grandi cavalletti. In ragione del numero di pompe azionate
nei due livelli intermedi, la lunghezza totale delle
catene era di 22 chilometri.
Il movimento circolare delle ruote era, perciò,
quello che permetteva il funzionamento di tutti i
meccanismi della Macchina, ma occorreva che
tale moto circolare fosse trasformato in movimento alternato attraverso una serie di bielle e
manovelle, secondo lo stesso principio applicato,
in seguito, sulle ruote delle locomotive. Il movimento alternato orizzontale azionava quindi un
bilanciere a cui, alle due estremità, erano attaccate le catene che salivano verso i livelli intermedi dei serbatoi. Il cambiamento di direzione
del movimento, da parallelo al corso della Senna
a perpendicolare ad esso, era assicurato da un
varlet, un particolare pezzo dalla forma a squadra, che, ruotando attorno ad un asse verticale,
riusciva a fornire il movimento alternato alle catene di barre che salivano lungo la costa. Infine,
un altro bilanciere, oscillante attorno al proprio
78
asse orizzontale, azionava, in modo alternato, le
due catene di barre fissate alle sue estremità, permettendo il movimento delle singole pompe.
Complessivamente le ruote attivavano tra le 200
e le 250 pompe verticali, aspiranti e rigettanti,
composte da un pistone, munito di valvola, che
saliva e scendeva, con una corsa di 1,30 metri, all’interno del corpo cilindrico della pompa, dal
diametro compreso tra i 10 ed i 15 cm. L’intero
meccanismo era chiuso da un’ulteriore valvola
nella parte superiore. Le pompe, immerse in
pozzi, alimentati d’acqua dai serbatoi intermedi,
erano azionate, a gruppi di tre, dal movimento alternato orizzontale delle catene trasformato nuovamente in alternato verticale da un varlet
interposto. L’acqua pompata era inviata in un collettore che permetteva la risalita fino al livello superiore.
Tra il 13 ed il 16 giugno 1684 la Macchina fu provata al cospetto del re. L’acqua pompata dalla
Senna, passando attraverso una galleria sotto il
castello di Voisins, arrivava alla sommità della
Torre di Levante, l’estremità nord dell’acquedotto di Louveciennes, progettato da Mansart e
formato da trentasei archi per una lunghezza
complessiva di 643 metri. All’altra estremità, la
Torre Sud, aveva origine una galleria rivestita di
piombo, di 2 metri di altezza per 1 di larghezza,
che conduceva le acque verso i serbatoi di Louveciennes, di Trou d’Enfer e verso quelli denominati le «Due Porte» a Marly, dalla capacità
complessiva di circa 700.000 m3.
A sua volta un altro acquedotto sotterraneo conduceva l’acqua da Louveciennes ai serbatoi della
Piccardia e in seguito fino a quelli già citati di
Montbauron, utilizzando allo scopo il Mur de
Montreuil, alto 23 metri e lungo più di un chilometro50. Alla fine del 1685 l’acqua della Senna
riuscì finalmente ad arrivare a Versailles, permettendo appena di soddisfare i fabbisogni del Parco.
Poco dopo, però, a causa dell’arrivo dell’acqua
proveniente dagli Stagni di Gobert e del crescente
bisogno d’acqua per il nuovo Parco di Marly,
venne ridotto l’apporto idrico dovuto alla Macchina, che fu limitato al solo territorio circostante51.
La costruzione della Macchina comportò ingenti
opere e spese; la sua complessità, dovuta all’in-
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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sieme delle canalizzazioni, delle pompe e dei loro
meccanismi, necessitava di un personale numeroso e specializzato, cosicché furono circa 1.800
gli operai impiegati, tra cui non meno di venti
carpentieri, quattordici fabbri, quindici manovratori, quattro posatori di tubazioni, tre segatori di
assi e numerosi idraulici, fonditori, catramatori,
ingrassatori, fontanieri.
Anche riguardo ai materiali le cifre sono ingenti:
800 tonnellate di piombo, altrettante di acciaio,
17.000 tonnellate di ferro e circa 100.000 tonnellate di legno. L’usura dei pezzi era considerevole,
sia perché questi erano sottoposti a numerosi
colpi nel corso del normale funzionamento, sia a
causa delle variazioni di livello della Senna e
della complessità delle installazioni. Inoltre, i livelli di pressione erano al limite delle possibilità
offerte dai materiali utilizzati – le canalizzazioni
erano in ghisa o in piombo, con elementi flangiati
di 1 metro di lunghezza – e all’epoca non si conoscevano che il cuoio e il piombo per assicurare
i giunti tra i tubi o attorno alle valvole delle
pompe. Tuttavia la concezione dell’opera, che
comprendeva la ripetizione di numerosi elementi
identici – le ruote, le barre, le pompe – permetteva che alcuni di essi potessero arrestarsi senza
interrompere il funzionamento complessivo della
Macchina.
Numerosi furono, inoltre, gli edifici costruiti, a
supporto sia del personale impiegato sia delle necessità dovute alla costante manutenzione.
Tra questi è opportuno indicare l’abitazione di
Arnold de Ville, che vi risiedette dal 1684 al 1708
– edificio trasformato in seguito nel castello di
Madame du Barry – gli uffici dell’amministrazione, i magazzini, le scuderie e gli alloggi d’abitazione – alcuni dei quali ancora oggi esistenti –
gli edifici ospitanti le pompe – situati a mezza
costa e oggi demoliti – la fucina in legno – ora
denominata Fattoria di mezza costa – la fonderia,
per i ricambi delle tubazioni e delle catene dei cavalletti.
Tutti gli edifici al servizio della Macchina erano
circondati da uno spesso muro di cinta dotato di
alte porte, di cui due sono ancora visibili ai bordi
della strada statale n° 13.
Un percorso in pavé molto inclinato – a volte oltre
il 20% di pendenza – denominato percorso di
Liévin Gruyl, La Macchina di Marly, particolare, 1688.
79
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Nicholas de Fer, La Macchina di Marly, in Beautés de la France, 1705-1724.
mezza costa, era la via di servizio che collegava
le differenti installazioni lungo il colle e consentiva la circolazione del personale e dei carri necessari; i grossi sassi posati a denti di sega,
permettevano, infatti, di trattenere gli zoccoli dei
muli che trasportavano i carichi. Nella parte mediana, il parapetto in muratura mostra ancora i sigilli di ferro che lo abbellivano.
La Macchina di Marly permise di produrre circa
5000 m3 di acqua al giorno, pari a 34 m3 ogni ora.
Il costo totale fu tra i tre e i quattro milioni di livres, ma ad esso è da aggiungere il costo per la
manutenzione annuale, poiché, come annotò Nicodemus Tessin, la macchina di Marly era
un’opera da rifare costantemente. L’usura delle
catene richiedeva una fornitura costante di pezzi
di ricambio, causando una perdita di efficienza
della macchina stessa, così come l’enorme spreco
di energia dovuto agli attriti dei meccanismi.
Per recuperare le numerose perdite di carico, oltre
alla presenza di un certo numero di pozzi intermedi, alcune pompe servivano a convogliare le
acque delle sorgenti che sgorgavano dal colle
stesso dopo aver attraversato i banchi calcarei.
80
Tra queste è ancora presente la sorgente denominata Ru de la Princesse52, che inizialmente si
espande a costituire un piccolo bacino, poi è parzialmente canalizzata mentre un altro ramo affiora nei giardini limitrofi all’area.
Inoltre la Macchina era tutta in legno, soggetta
quindi ad ampie variazioni dimensionali in funzione dell’umidità relativa. Infine ai numerosi
problemi tecnici è da aggiungere anche il rumore
assordante ed insopportabile, determinato dallo
sfregamento delle numerose parti metalliche –
prime fra tutte le catene dei cavalletti – che risuonava intorno divenendo fonte considerevole di disturbo53.
Pertanto la Contessa Du Barry, quando scelse Louveciennes come luogo di residenza, dal 1769 al
1793, decise di farvi costruire un Padiglione della
Musica, sperando che potesse soffocare i rumori
provenienti dalle installazioni della Macchina.
L’opera di de Ville e Sualem funzionò ininterrottamente per centotrentatre anni.
Tuttavia il problema dell’alimentazione idrica di
Versailles permaneva e risultava necessario trovare un’ulteriore soluzione. Il 25 agosto 1817
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Luigi XVIII decretò l’ordine di demolizione della
Macchina, a causa della sua vetustà ed insufficienza, in termini di spreco di energia idraulica;
venivano prodotti, infatti, appena 200 m3 d’acqua.
Numerosi erano stati coloro che a più riprese si
erano già cimentati nel tentativo di sostituire la
Macchina o di dotarla di innovazioni tecnologiche. Già nel 1751, ad esempio, il signor Nicolas
Focq, imprenditore des machines a feu de Charleroy & de Cond aveva proposto – ed effettuato –
la sostituzione dei cilindri costruiti in metallo colato, costituenti i corpi delle pompe, con altri in
ferro battuto, più precisi e resistenti.
Nel 1807 l’ingegner Périer aveva, invece, ideato
un sistema di pompe azionate da due macchine a
vapore, prevedendo, nel suo progetto, lo scavo di
un tunnel lungo un chilometro e di un pozzo profondo cento metri.
I lavori vennero iniziati nel 1808, ma furono fermati dopo tre anni a causa dei costi insostenibili
e delle numerose perplessità sul funzionamento.
Vennero chiamati allora i costruttori Cecile e
Martin che, tra il 1811 e il 1827, si occuparono
di studiare la questione. La causa dell’enorme
spreco di energia venne individuata nell’assenza
di sincronismo tra le pompe che, creando continuamente pressioni e depressioni, rendeva inco-
stante il flusso dell’acqua.
Cecile e Martin ripristinarono due ruote dell’antico impianto, ciascuna azionante quattro pompe
sincronizzate, riuscendo a pompare 1.000 m3
d’acqua al giorno, una quantità considerevole rispetto a quanto prodotto negli ultimi anni dalla
precedente macchina. In seguito si dedicarono
alla costruzione di una nuova macchina, azionata
a vapore, che raggiunse la portata quotidiana di
2.500 m3.
L’impianto a vapore fu ospitato all’interno di un
nuovo edificio costruito sulla riva della Senna, il
Padiglione Carlo X. Il successo fu però di breve
durata, poiché il costo della materia prima, che
doveva essere bruciata per la produzione del vapore, non compensava i risultati. Inoltre erano aumentare le richieste d’acqua, poiché oltre ai
giardini di Versailles l’acquedotto avrebbe dovuto
servire anche il castello di Saint-Cloud ed una
ventina di comuni limitrofi.
Con l’avallo degli studiosi dell’Accademia delle
Scienze, si pensò di abbandonare l’energia fornita
dalle macchine a vapore in favore di un ritorno
al precedente sistema delle ruote idrauliche, sebbene agevolato dai progressi compiuti dalla tecnica. L’ingegner Dufrayer progettò quindi una
macchina costituita da sei ruote idrauliche, di 12
Macchina di Marly. Particolari del sistema di trasmissione del movimento dalle ruote alle catene dei cavalletti.
81
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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metri di diametro e 4,50 di larghezza, ciascuna
azionante quattro pompe che aspiravano l’acqua
e la sospingevano all’interno di due condotte in
ghisa, le quali resero progressivamente inutile il
precedente acquedotto di Louveciennes. La pressione dell’acqua veniva stabilizzata tramite alcuni
serbatoi di aria compressa proveniente da una
fabbrica annessa all’impianto. Inaugurata nel
1859, la macchina di Dufrayer aveva una portata
teorica di 18.000 m3 al giorno, ma in realtà raggiunse soltanto quella di 7.000 m3.
Questa macchina rimase in funzione fino al 20
giugno del 1963 – rimanendo l’unica a funzionamento idraulico a rifornire d’acqua la regione di
Versailles anche dopo la diffusione dei motori
elettrici – e fu demolita nel 1968. Contemporaneamente venne costruita una diga, sul braccio
della Senna di pertinenza della Macchina, per
compensare il salto di livello, creato tre secoli
prima, in funzione della caduta d’acqua che azionava le ruote a pale. Attualmente, all’interno del
padiglione Carlo X, sono installate turbine elettriche, che sollevano l’acqua e la conducono, attraverso canalizzazioni sotterranee, che hanno
sostituito quelle in ghisa dell’epoca di Napoleone
III, verso i moderni impianti di Louveciennes,
da cui è distribuita a più di 300.000 abitanti. Nato
per i sogni ed i desideri di un Re, il sistema della
Macchina di Marly ha finito per servire alle necessità dei Francesi, seguendo quasi la stessa parabola tracciata a partire dal 1789.
Il padiglione Carlo X in un’incisione del 1869.
82
Di tutte le opere fin qui descritte la maggior parte
esiste ancora; alcune sono ormai abbandonate,
altre, invece, rimangono oggi in uso54, a più di trecento anni di distanza dalla loro creazione, sebbene non sempre impiegate negli stessi modi e
per gli stessi scopi per cui erano state previste. In
particolare, per l’approvvigionamento idrico del
parco di Versailles, esistono ancora i serbatoi di
Montbauron, i serbatoi del Nord e di Piccardia ed
il serbatoio del Trèfle, nell’area del Trianon. Sono
inoltre da considerare, tra le riserve d’acqua, lo
Specchio d’Acqua degli Svizzeri, che raccoglie le
acque provenienti dal plateau di Satory, ed il
Grand Canal.
Resta, tuttavia, non senza amarezza, la constatazione di un’immensa perdita culturale, storica e
tecnologica, poiché, nel corso del tempo, non
sempre si è riusciti a riconoscere e a tutelare la
grandezza e l’audacia di un tale sistema di infrastrutture, autentica espressione dell’ingegno di
uomini che hanno modificato la natura impiegando le sue stesse leggi.
La mancata tutela di tutte le opere descritte,
frutto, nel passato, di una scarsa ed erronea attribuzione di valore, ha prodotto non soltanto il perpetuarsi della questione dell’insufficienza idrica
del Parco di Versailles55, ma anche l’attuale frammentarietà materiale di un sistema idrico che, nel
suo funzionamento complessivo, è possibile conoscere soltanto attraverso le descrizioni, le parole ed i ricordi.
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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L’Acquedotto Carolino
Di ben altro tenore è la storia della progettazione,
della realizzazione e dell’utilizzo dell’Acquedotto Carolino, forse l’opera che meglio di ogni
altra esprime lo stretto legame tra Luigi Vanvitelli, l’architetto, e Carlo di Borbone, il re committente. Ricorda Antonio Sancio, nel 1826
Il Reale Acquedotto Carolino è una delle opere più
singolari che esistono in Europa. Noi ne andiamo debitori al Re Carlo III, che la intraprese e la condusse
quasi a fine. Né possiamo frodare di una giusta lode
l’Architetto Vanvitelli che con un genio sublime ed
ardimentoso superò tutti gli ostacoli, e fece vedere
realizzate le idee del gran principe56.
Parole che ribadiscono quelle della regina Maria
Amalia, in visita al traforo del Garzano, il 2 aprile
1759: «Se non avesti avuto il Re non averesti potuto fare queste belle cose magnifiche, né il Re
senza di te le puoteva né imaginare per fare»57. È
l’approvazione per un’opera grandiosa e l’ammirazione ufficiale per il suo ideatore e costruttore58.
Fin dal principio fu chiaro che l’Acquedotto Carolino sarebbe stata un’opera dal carattere eccezionale, non una semplice appendice di servizio
al Palazzo Reale. Volontà del re – e di Vanvitelli
– era che il flusso idrico fosse costante, ma, a differenza di Versailles, questo non costituiva un
semplice capriccio dettato dal sovrano per esibire
il proprio potere, quanto la consapevolezza che
alla nuova Reggia sarebbe stato necessario un altrettanto magniloquente giardino, senza limitazioni nel numero delle fontane e nel loro
funzionamento59.
Il dispendio e le difficoltà non ebbero nel Re Carlo efficacia perché propostosi di conseguire un vantaggio
nella sua ideata impresa volle tentarla. Egli previdde
che senza numerose fontane, mancato sarebbe il comodo, e la più deliziosa parte alla vaghezza del real
Palazzo e Giardini, perciò comandò la ricerca delle
acque, le quali trovatesi molto lontano, non sbigottiron
punto la di lui magnanimità, anzi immediatamente ne
affrettò la derivazione. Può veramente asserirsi che in
questa opera abbia l’arte combattuto colla natura, ma
perché pugnavasi sotto gli auspici di cotanto invitto e
fortunato Re, fu questa da quella vinta e superata60.
Ulteriore distinzione dagli interventi compiuti per
Versailles è data anche dall’atteggiamento, incredibilmente attivo, del sovrano. Costantemente
informato sul progredire dei lavori, il re amava
particolarmente compiere di persona alcuni sopralluoghi e fornire indicazioni utili per la ricerca
delle sorgenti61; era inoltre anche intenzionato a
presenziare alle attività di livellazione insieme
con il suo architetto62.
La differenza principale con la reggia francese è
data, però, dal carattere di pubblica utilità che
avrebbe rivestito l’Acquedotto Carolino. Desiderio del re era, infatti, prolungare il condotto fino
a Napoli, dopo aver servito il giardino ed il palazzo, per migliorare il rifornimento idrico della
città, sostituendo, per portata e qualità, l’acqua
potabile fornita dall’Acquedotto Carmignano63:
In tanto d’ordine Reale si è lavorato allo scavo della
forma per raccogliere le acque che si vogliono, che a
Napoli non sono mai andate, come l’acqua del
bronzo, la qiale con 12 mila scudi o altro prezzo si
dovrà conseguire con le altre che avanzano (…). Nel
fare il sudetto scavo sonosi manifestate nuove sorgenti e così copiose, senza deterioramento delle altre,
che formeranno un corpo nuovo di acque di circa 500
once almeno. (…)
Ciò risaputasi da Sua Maestà, che vuole essere informato di tutte le minuzzie, mi ha ordinato che io formi
un acquedotto capace, non solo per condurre quelle
sorgenti, ma anche di molto più, cioè per tutte le altre
acque pulite che vengono verso Napoli da quel luogo,
perché ogni danno che succedere possa alli particolari,
che se ne servono per la strada, egli ne pagherà ad essi
con entrate fisse la perdita, e dopo che se ne sarà Sua
Maestà servite alla vista nelli suoi giardini, intere le
vuole rimettere nel acquedotto (…) che le conduce
verso Napoli64.
Tra le ipotesi considerate c’era anche quella di
condurre l’acqua fino a Capodimonte «e poi precipitarla per la valle, ove [il re] vuoleva fare molini et adacquare Napoli nella parte superiore, ove
non vi è una goccia di acqua»65. Infine era fondamentale che il nuovo acquedotto garantisse anche
il costante approvvigionamento idrico della nascente nuova capitale che era prevista attorno al
Palazzo Reale.
Era necessaria, quindi, un’acqua abbondante, ma
allo stesso tempo limpida e salubre. Dopo alcuni
83
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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sopralluoghi risultò immediatamente chiaro che
non era possibile ricostituire il vecchio condotto
utilizzato nel giardino dei principi Acquaviva, sia
perché ormai fatiscente, sia perché le sorgenti da
cui traeva origine sarebbero state insufficienti per
le nuove esigenze.
Vanvitelli svolse, perciò, tra il 1751 ed il 1752,
un lungo e laborioso lavoro di ricerca delle sorgenti più adatte, rivolgendosi, inizialmente, al territorio dei monti Tifatini:
Ieri sono andato al monte per ordine del Re a misurare
l’acqua, la quale dicevasi 18 carlini, ma in fatti sono
3 oncie e mezza scarse; ho poi veduta una bellissima
sorgente, detta d’atalena, la quale è limpida come un
christallo, e sono a presso a cinque libre di acqua, ma
sta dietro il monte, onde non so se si puotrà condurre
senza forarlo; basta livellare e si riconoscerà il tutto.
Indi andiedi ad un’altra sorgente, che è quella che veniva anticamente al boschetto di Caserta; qua ò ritrovato circa 5 oncie di aqua, che unita alle 3 e mezza
saranno da 8 in 9 oncie; vederemo poi se si puotà acquistare dell’altra, in tanto però in questi giorni anderò
sul monte di nuovo con il Cavalier Neroni a visitare
certa altra acqua, e condurrò Mastro Pietro e li due
Giovani a livellare quella acqua delle 5 libre66.
Numerose livellazioni furono effettuate, nel corso
del tempo, per determinare con precisione le
quote67. In tale compito Vanvitelli fu aiutato dai
collaboratori Pietro Bernasconi – nelle lettere nominato come «Mastro Pietro» – Marcello Fonton
e Franceso Collecini – «li due Giovani» – cui,
poi, si aggiunsero i suoi due figli Carlo e Pietro
che, dal 1757, si occuparono di rilevare la pianta
dell’Acquedotto68. Il problema era costituito
dall’altezza del sito destinato al Parco «così elevato, che sembrava togliere ogni speranza di produrvi copiosa acqua». La ricerca delle sorgenti fu
quindi estesa al territorio circostante «di là di
Monti Tifata, verso le montagne alte, che sole poteano somministrare di quella, che sì alto livello
soffrivano»69.
Ieri andiedi a S.Agata de Goti nelle montagne, 12 miglia di qua distante; ivi ho riconosciuto circa mille
oncie di acqua da condottare in altezza cospicua, ma
vi sono delli imbrogli rispetto alcuni molini, che devo
voltare. Io però penso che allora quando saprò di che
altezza ha rispetto il luogo di Caserta, allora si puotrà
determinare. Si anderà dopo la venuta del Re a visitare altre acque e quindi prendere quelle che più tornerà al proposito70.
Il percorso dell’Acquedotto Carolino, dal monte Longano alla Reggia.
84
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Da alcuni riferimenti presenti nelle opere di Velleio Patercolo71 e Dione Cassio72, Vanvitelli era,
inoltre, venuto a conoscenza dell’antica presenza
di un acquedotto, l’Acqua Giulia73, fatto costruire
da Giulio Cesare per servire la città di Capua.
Confortato da tale notizia l’architetto si spinse
sempre più lontano da Caserta, alla ricerca delle
stesse sorgenti anticamente utilizzate.
Giunse, così, sul monte Taburno, le cui «vastissime spalle abbondanti raccolgono il tuono delle
nevi e delle piogge» ed il cui «essere in gran parte
di grosse pietre vive disgiunte e di ghiaia composto, fa che l’acqua, che ne trapela, sia della più
soave, ed isquisita»; inoltre «la base del suo
fianco meridionale prodiga di acque ritrovasi, che
quantunque in una amena pianura si manifestino,
è però questa pianura sollevata tanto, che pareggia le cime di alcuni monti di Caserta»74.
Insomma, le sorgenti del monte Taburno sembravano possedere tutte le caratteristiche desiderate
e ricercate.
Che l’antica acqua Giulia da queste medesime fonti
derivasse, non era che ragionevole congettura, ma divenne subito certezza, allorché scavandosi tutto sotterraneo il condotto in un terreno di brecciuola, così
tenacemente conglutinato, che solido muro arte fatto
sembrava, si scoperse appresso la sorgente di Molinise l’acquedotto fabbricato da i Romani per incanalare l’acqua Giulia verso Capua, ed avvenne che
s’incontrasse della dimensione istessa, che era stata
prescritta nel nuovo, in guisacché, quando l’antico
non fosse stato quasi disfatto, avrebbe risparmiato, per
qualche spazio, la costruzione del moderno75.
L’incontro con i resti dell’antica opera romana,
circa delle medesime dimensioni, sette palmi per
tre, di quella che si stava costruendo, è testimonianza della perizia idraulica di Vanvitelli; ma il
proseguire dei lavori, garantì di poter affermare la
superiorità della sua opera sulla precedente.
Nei pressi della collina denominata Prato, infatti,
si incontrò di nuovo l’acquedotto romano
più alto però di livello del presente, dal che vi si rende
palese, che dai Romani altrettanta quantità di acqua
non si raccogliesse, anzi a buona ragione credere si
può, che, a riserva delle primiere più alte sorgenti
somministrate dal Taburno, tutte le altre acque, che
adunate sono nel Regio acquedotto, non siano state
mai comprese nell’acqua Giulia, ma pari a quella
nella perfezione, sin ora da vergini sorgive state scoperte, ed incanalate76.
Il percorso dell’Acquedotto Carolino, dalle sorgenti al monte Longano.
85
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Laboriose furono le pratiche per l’acquisto delle
sorgenti più idonee. Tra queste è da ricordare
l’acquisto del Mulino e delle sorgenti del Fizzo,
di proprietà della Mensa arcivescovile di Benevento, fortemente voluto dal re. Per la cessione,
avvenuta nel marzo 1753, l’arcivescovo Francesco Pacca ricevette novemila ducati. Il mulino, in
prossimità di due grandi vasche, era composto da
un ampio ambiente destinato alle macine, da cinque vani più piccoli e da due stanzini di servizio;
tuttavia, a causa della posizione troppo vicina alle
vasche, le macine non ricevevano una spinta sufficiente. Venne realizzato, allora, un nuovo fabbricato più a valle, dove le macine furono
alimentate da un apposito canale in muratura proveniente dalle vasche superiori. L’acqua, dopo
aver azionato il mulino, veniva di nuovo incanalata in altre due vasche sottoposte77. Vennero donate nel 1757, invece, le fonti presenti nei territori
del duca di Airola, don Bartolomeo di Capua. Si
tratta delle sorgenti Molinise, Fontana del Duca,
e Matarano. Probabilmente il duca sperava di accattivarsi il favore del re, il quale accettò con
estremo piacere l’inaspettato dono.
In realtà né Carlo di Borbone, né il figlio Ferdinando ricambiarono mai la sua generosità ed il
duca, in quanto donatore, fu l’unico a non guadagnare nulla dalla cessione delle proprie sorgenti.
Probabilmente per il timore di eccessive perdite,
o di non avere acqua a sufficienza per tutte le esigenze, Vanvitelli immise, nel nuovo condotto,
anche tutte le sorgenti incontrate lungo il percorso dal monte Taburno al monte Briano. In una
relazione al sovrano, di cui lo stesso architetto dà
notizia in una lettera del 6 giugno 1752, «28 sorgenti di acque limpidissime» furono segnate in
una «Carta Geografica», insieme all’«andamento
del condotto fino a Caserta»78. Le principali fonti
d’acqua sono proprio quelle del monte Taburno:
La prima e maggiore di tutti si nomina lo Sfizzo. Questa subito ravvolge l’un doppo l’altro 2 molini, li quali
ànno la ruota orizzontale, dalla quale ricevono il
moto. (…)
La 2.a si nomina di Mango, perché nel territorio di
persona di quel nome della terra d’Airola nasce l’aqua
di cui si parla.
La 3.a del Fico, perché di quest’alberi abonda il luogo.
La 4.a Molinile, perché puotrebbe questa ravvolgere
un molino a ruota verticale.
La 5.a di Marano, perché nasce nel territorio di padrone che avea anticamente quel nome.
La 6.a del Rapillo, perché sorge nel mezzo di un terreno di questa materia composto.
La 7.a dell’Olmo. Denominazione presa da un albero
prossimo.
L’8.a della Peschiera, così nominata per esservene una
nel giardino rustico prossimo a detto sito, ove si conservano buone trote, che appartiene al prencipe d’Airola. Quivi sono varie sorgenti unite, le quali formano
un coppieno volume di aque.
La 9.a è della Fontana dei Cavoli.
La 10.a di S.Sebastiano.
L’11.a del Bollore.
Nel cavare quindi il terreno per immergere l’Aquedotto si sono scuoperte varie picciole sorgenti, che
unite insieme costituiscono un corpo di aqua fluente
di oncie Romane riquadrate numero 31079.
Lo stesso gruppo di sorgenti è, invece, così denominato nella Platea del Cavalier Sancio:
Mulino in località Fizzo, Airola.
86
Molto fra di loro vicine quivi dieci sorgenti si rinvennero, nomate volgarmente, il Fizzo, la Noce, il Fico,
Molinise, Matarano, Sambuco, S.Sebastiano, la Vella,
Rapillo, e la Peschiera del Principe, la quale sorgendo
sul tenimento del Duca di Airola D.Bartolomeo di
Capua, Principe della Riccia gli ….. l’onore fortunato
di farne, con tutte le altre, che si trovassero, un giusto
dono al Re.
Nel fabbricare l’acquedotto altre fontanelle si scoprirono, che insieme raccolte, somministrarono la quantità di trecento settantacinque once di acqua;
naturalmente senza pressione fluente80.
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Alcune planimetrie delle livellazioni eseguite. A. R. Ce.
87
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Le due versioni, al di là di alcune incongruenze,
testimoniano l’abbondanza d’acqua della zona
del Taburno ed il nucleo principale delle sorgenti
«dell’acqua grande in Airola»81. Ad esse sono da
aggiungere le numerose sorgenti incontrate nel
percorso – tra cui quelle non comprese nell’Acqua Giulia e quelle costituenti «l’acqua piccola»
sul monte Tifata, «sopra Caserta» – tra le quali si
segnalano quelle di Fontanelle, di Atalena82 e di
Giove. La presenza di due nuclei principali di
sorgenti, acque «grandi» e «piccole», aiutò l’architetto a risolvere il problema dell’approvvigionamento idrico del cantiere della Reggia83
fintanto che l’Acquedotto proveniente dal Taburno non veniva completato.
Vanvitelli suddivise infatti la costruzione dell’opera in tre parti84: dal Fizzo al monte Ciesco,
dal Ciesco al monte Garzano, dal Garzano alla
Reggia. Tale divisione comportò la presenza di
più squadre di operai che contemporaneamente
realizzavano diverse parti dell’Acquedotto sotto
la stretta supervisione dell’architetto e dei suoi
collaboratori. Una relazione sullo stato dei lavori
– non datata, ma inserita da Franco Strazzullo al
termine delle lettere dell’anno 1753 – attesta la
Planimetria delle sorgenti del Fizzo. A. R. Ce.
88
contemporanea presenza di operai al «cavo della
sorgente maggiore detta dello Sfizzo», alla sorgente di Fontanelle e al «secondo Monte che si
trafora» – probabilmente il Ciesco – in cui «già si
sono fatti tutti li pozzi» e « resta solo d’incontrarsi la grotta da una parte e l’altra».
Cantieri attivi erano anche alla «conduttura dell’acque nelli Piani di Airola (…) a ragione di escir
fuori dalle allacciature e fabricare li piloni di un
ponte», alla «Valle di Madalona, dove si fa l’arcata» e sul fiume Faenza, dove si erano «già fatti
due piloni (…) di longhezza da punta a punta di
palmi trentaquattro largo palmi 14 2/3 e alto palmi
20».
Infine:
l’altro travaglio de’ Minatori sopra a Caserta vecchia
parimente è avanzato molto, si è traforato un Monticello a longhezza di palmi trecento e si sono fatti due
fossi profondi palmi 52 e già si è murato la grotta e
fatta altra quantità di forma murata, che sono due sorgive, che si uniranno assieme, ma restano distanti una
dall’altra, e questa conduttura di acqua sarebbe già a
buon porto se non fosse un altro monticello che si
deve traforare in magior longhezza e profondità, ma
già si sono fatti delli fossi e si principierà a sgrottare,
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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e quest’acqua verrà sopra al Monte di Briano incontro
il palazzo Reale due miglia distante e servirà per la
fabrica fino a tanto che non si è condotta la grande85.
Dalle descrizioni fornite, si evince chiaramente
la compresenza di cantieri in cui gli operai non
erano al corrente del risultato complessivo dell’opera, ma seguivano le precise indicazioni fornite. In una lettera del 1762 è lo stesso Vanvitelli
ad illustrarci in un dettagliato resoconto – e quasi
incredulo della riuscita – il metodo seguito nell’avanzamento dei lavori.
Sia tutto lode a Dio. Sappiate che quando dall’acquedotto si leva l’acqua tutto rimane asciutto e scola intieramente, cosa che non succede in nessuno delli 3
acquedotti che sono in Roma presentemente, onde
non solamente è stato ben livellato, ma è stato diligentemente livellato e lavorato, che benché da tante
diverse mani, le quali avevano li punti fissi di dover
andar dritti in piano dall’uno all’altro, perché vi erano
stati fissati i picchetti col numero, sotto de quali erasi
stabilita al tavolino la pendenza, questi tutti lavoravano bene, senza che sapessero se male o bene facessero, soltanto quando avevano lavorato un miglio, o
più o meno, vi facevano entrare un poco di acqua e
questa scorreva verso il camino, con la quale si verificava l’opera e servivale per comodo della fabrica86.
Tutto ciò è ulteriore testimonianza della maestria
di Vanvitelli, in grado di dirigere diverse squadre
di operai ottenendo, al termine dei lavori, un risultato omogeneo in ogni parte. È inoltre prova della
sua abilità e competenza, oltre che dei suoi collaboratori, in grado di eseguire, sin dal principio, livellazioni molto precise ed accurate, indicando in ogni
luogo l’esatta pendenza stabilita «al tavolino»87.
Tuttavia, per l’alto grado di precisione richiesto,
il procedere della costruzione, dal 1752 al 1770,
fu lento e laborioso, non tanto per le dimensioni
colossali dell’intervento88, quanto, soprattutto, per
i numerosi ostacoli incontrati in corso d’opera.
Per una migliore comprensione del percorso
dell’Acquedotto si ritiene utile, nella descrizione
delle varie parti, seguire l’itinerario dalla sorgente
alla cascata del Parco, in analogia al testo riportato nella Platea del Cavalier Sancio, piuttosto
che il semplice ordine cronologico.
Dopo un primo tratto, piuttosto agevole, alle sor-
Alcuni torrini di ispezione in località Fizzo, Airola.
genti del Fizzo – circa «palmi duemila settecento
cinquanta» con «il condotto da cinque a dieci
palmi sotterra» - numerose furono le difficoltà incontrate a causa dei diversi terreni su cui l’Acquedotto si trovò a passare. In primo luogo
bisognò fronteggiare una palude «che tutto ingoiava»89.
Fu per tanto di mestieri stabilire un cammino sicuro
alle acque, fitte piantando ed alte palizzate per l’estensione di palmi settecento in circa.
Terminata la palude, si ritrovò un suolo tutto composto di minuto lapillo, per la larghezza di 1100 palmi ed
in questo luogo, a fine di raccogliere copia maggiore
di sorgive basse, si abbassò obbliquamente per nove
palmi l’acquedotto, e si dilatò fin a quattro palmi, allorché si pervenne ove dicesi la Peschiera del principe, sebbene vi si ritrovasse un terreno, che a ragione
di essere imbevuto dall’acque sorgenti, trema da pertutto, e perciò chiamasi Tremolo; nascondendo le
acque in sotto le radici di copiose piante ed arbuscelli,
che di molto ancora si nutriscono.
Mulino nei pressi di Bucciano.
89
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Ben più malagevole che nella prima palude fu l’edificarsi su di […] palizzate il condotto, largo presso a
cinquecento sessanta palmi, con il quale, dopo aver
raccolto le molte sorgenti di acque intorno la detta Peschiera, per lo spazio di circa cinquecento palmi, continuassi l’acquedotto in una terra Tufacea, dalla quale
stessa picciole sorgenti si raccolsero, e quindi per lo
tratto di palmi tre mila, un arenoso terreno, ma solido
come tenace tufo è incontro90.
In seguito fu necessario superare il primo dei due
corsi d’acqua incontrati: il fiume Faenza, attualmente denominato Isclero. L’architetto stabilì, allora, di costruire un ponte su quattro arcate, di
circa 150 palmi di lunghezza. L’arcata centrale,
sotto cui passa il fiume, «che in tempo di Inverno
calando le nevi dalle Montagne circonvicine
mena torrenti grossissimi, è di luce palmi 26 e li
altri sono di palmi 20»91.
Il Ponte Nuovo sul fiume Faenza fu la prima affermazione pubblica della riuscita del lavoro di
Vanvitelli, sebbene, in seguito, sarebbero stati ancora numerosi i suoi detrattori.
In occasione di una visita dei sovrani, l’architetto
organizzò una scenografica mostra dell’acqua al
fine di esibire al meglio la propria opera e, forse
non casualmente, lasciò scoperta e perfettamente
leggibile l’iscrizione celebrativa apposta sull’arco
centrale.
Lo condussi [il re] al Ponte Nuovo sul fiume Faenza,
dove tutta l’acqua feci cadere a caduta nel fiume
istesso, ma sopra un arco laterale a quello di mezzo,
sotto di cui il fiume passa. Restarono molto piacevolmente ammirati della quantità dell’acqua, come anche
della costruzione del Ponte, sopra cui, benché non ancora terminato del tutto, vi avevo fatta inalzare la di
loro inscrizione: Carolus et Amalia utr. Sic. Et Hier.
Reg. Anno Domini MDCCLIII.
Il tempo, la vista et ogni altro conferì a cotesto di loro
piacere, che fu di mia somma consolazione. Indi le
loro Maestà si avvicinavano, si allontanavano per godersi del bellissimo butto di acqua, e la Regina si avvicinò tanto che n’ebbe qualche leggiero spruzzo. La
quantità dell’acqua è consimile a quella di S.Pietro in
Montorio. Vollero poi vederla correre nel cunicolo, e
la puoterono vedere perché una porzione ivi prossima
rimaneva senza la volta sopra. Indi si portarono a riconoscere le sorgenti per vederle imbocare dentro; il
tutto riuscì con plauso e molti della Corte si disingan90
narono delle tante diverse ciarle, e fra questi non
mancò qualchuno che dubitasse della durata dell’acqua, ma in vano, perché essendo le vene ancora
magre, l’acqua in vece di scemare anderà a crescere
quando viene la Primavera e l’Estate e soltanto cala
nelli mesi di Decembre fino a tutto Febraro92.
A partire dal ponte sul fiume Faenza «di Real comando si dilatò l’acquedotto fin a palmi quattro
e tre quarti, per renderlo capace di ricevere, qualora vi si volesse introdurre, trentadue altre sorgenti limpidissime»93. È il secondo ampliamento
subito dall’Acquedotto Carolino, che vede la sua
sezione, di «palmi sette e mezzo alto, e largo
palmi tre e mezzo»94 alle sorgenti del Fizzo, già
dilatata in palmi quattro alla Peschiera del principe. Altre indicazioni sulle dimensioni dell’Acquedotto e sulla sua portata ci sono fornite nella
già citata lettera del 14 luglio 1754:
Or per quanto ho potuto mi sono studiato a raccogliere
le aque grandi, medie e picciole, le quali adunate dentro l’unico aquedotto, che l’ho costruito di palmi 4½
di larghezza e palmi 7½ di altezza sotto la volta, che
riviene alla nostra Romana Architettonica misura
palmi 5¼ e palmi 4¾. Ne feci la prova e vi scorrea
con velocità naturale il volume delle aque in altezza di
palmi 3½ di Napoli, cioè palmi 4 1/12 di Roma, di
modo che formavansi oncie romane di passetto 30 e 7
riquadrate fluenti.
Non intendo con questa misura dare il calcolo adeguato che si deve ricavare della quantità dell’aqua,
che puole scaricare in un dato tempo, come il nostro
P. Grandi saviamente e sicuramente c’insegnò il
primo, ma soltanto, come dissi, un’aqua fluente di naturale velocità apparente all’occhio. Per altro, con un
galleggiante ne voglio fare la prova, allorché sarà ridotto il corpo dell’aqua a poter fluire interamente per
il condotto, e ne manderò a V.S. l’esatta notizia, perché desidero sentire il parere degl’Amici Eruditi per
assegnarne esattamente la giusta quantità95.
Superato il fiume Faenza, il condotto prosegue di
nuovo sottoterra all’interno di una collina di tufo,
il monte Prato, per una profondità massima di novanta palmi ed una lunghezza di circa settemiladuecento palmi, pari a circa due chilometri.
Una nuova sorgente «di ottantacinque once di
quell’acqua squisitissima, e per freschezza commensabile, e per leggerezza, quale dal tufo sperar
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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si devea»96, venne trovata nel monte, costituendo
inizialmente un intralcio agli operai e andando,
in seguito, ad integrare la portata dell’acquedotto.
In particolare tale sorgente fu adoperata per i fabbisogni del cantiere finché non fu completato il
tratto fino al ponte di Durazzano, contribuendo,
con il suo scorrere nel condotto, a verificare la
buona esecuzione dell’opera97. In altri novecento
palmi sottoterra vennero rinvenuti invece, come
già detto, i resti dell’antico acquedotto romano.
Seguì poi il traforo del monte Ciesco, di «sasso
vivo (…) per la cospicua estensione di palmi settemila ottanta in profondità (…) sempre però dai
venticinque ai cinquanta palmi», che fu completato solo nel 1755.
Di seguito il cosiddetto vallone «del molino di
Mastro Marco», in cui l’acquedotto costeggia il
fiume Faenza, «sottoposto di livello al R°. acque-
dotto di palmi dugento sedici»98, e le strutture costruite per convogliare le acque nel condotto del
Carmignano. A partire da questo luogo, per circa
40.250 palmi, il percorso prosegue attraverso
«l’erte, petrose sassose balze dè monti»99, appendici del Taburno, quali il Castrone, l’Acquavivola, la Sagrestia, la Stella maggiore, il Fiero ed
il Fano.
La conduzione dell’acqua attraverso monti di
dura roccia è forse la parte più faticosa e complessa dei lavori, obbligando l’architetto a procedere con estrema lentezza; di questo si lamenta
anche in un’altra lettera del 1754:
L’acqua Felice, in tempo di Sisto V, fu condottata in
Roma in 28 mesi, ma si attaccò foco per tutta l’estenzione; io non lo posso fare, per ragione dell’assegnamento regolare che il Re à fatto. Io devo caminare
Luigi Vanvitelli, Veduta del ponte sul fiume Faenza.
91
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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sempre per monti di pietra e soltanto per ora ne traverso uno di tufo; la strada è più lunga e devo traversarne uno vicino coperto tutto di pietra viva; la cosa si
dice con facilità, ma è molto difficile nell’eseguirlo e
vi vuole del tempo per fare saltare all’aria il sasso100.
Al termine della catena montuosa si giunge nella
valle di Durazzano dove, sotto la Chiesa della
Madonna di Costantinopoli, l’acquedotto raccoglie nuove sorgenti. Quello della valle di Durazzano è il secondo ponte che si incontra nel
percorso. Realizzato per superare il torrente Maiorano, ovvero Martorano, il ponte è composto di
cinque arcate, per una lunghezza di 240 palmi ed
un’altezza, al centro, di 70, circa 18,50 metri.
I lavori per la sua costruzione durarono dall’aprile al settembre del 1760101.
All’altra estremità del ponte di Durazzano ha origine il monte Longano, con terreni di qualità più
scadente, soprattutto creta, per superare il quale si
scelse di seguirne il perimetro, cosicché
Il ponte sul fiume Martorano, nella valle di Durazzano.
92
sembra retrocedere il cammino lungo la valle stessa
per circondarla nell’estensione di palmi 11000; s’incontra in appresso nell’acquosa costa del colle (…) e
passa in questo luogo sotterra più di cento palmi, mediante un traforo lungo palmi 1500.
(…) Prosiegue costeggiando nell’estensione di palmi
140000 fin sopra il …. nomato Bagnoli, e quindi il
condotto, immerso sempre nelle asprezze del sassoso
monte di Longano, pelle medesime pendici si distende
altri palmi 16000102.
Il lavoro risultò estremamente difficile e dispendioso proprio a causa dei «siti acquosi, per dove
si fa il taglio da incassare la forma, che si trova
gran quantità di acqua circa tredici e quattordici
palmi sotto terra (…) et è un terreno che alla gagliarda si lassa»103. Non è un caso che gli unici
cedimenti subiti dall’Acquedotto siano stati registrati proprio in questa zona. Il primo nel 1763,
quando circa 400 palmi di acquedotto «quantunque incassato nel sasso vivo, insieme con quello
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Il percorso dell’Acquedotto lungo la costa dei monti circostanti S.Agata dei Goti.
si è mosso giù per una gran slamatura mossa di
sotto, dalla quale slamatura in molta distanza al
basso scola della molta acqua»104.
Il danno fu ingente e complessa fu la sua riparazione, anche perché costrinse l’architetto a trovare una soluzione valida che evitasse il ripetersi
dell’evento dannoso. Inoltre la carenza dei fondi
messi a disposizione dalla nuova amministrazione fece sì che nel 1766 dovesse ancora essere
completato il ripristino della struttura105.
In seguito, nel 1787, sul sito denominato Riello,
si produsse un altro cedimento.
L’acquedotto benchè fosse stato ivi garantito da forti
barbacani, e da altre opere di tal natura, spinto dalle
screpolature del monte, cui era appoggiato, fu rotto in
due parti. Dopo maturo consiglio si credè doversi abbandonare quel cammino, e far correre il condotto
nelle viscere del monte istesso. Costò quest’opera
circa Dti. 92000, ma vi rimase sempre dubbio della
sua stabilità, atteso la materia cretosa di cui è composto l’indicato monte106.
Il traforo di circa 1500 palmi del monte Croce,
divenuti in seguito 1900107, fu particolarmente
ostacolato dalle numerose esalazioni venefiche108
provenienti dal sottosuolo e dalla natura cedevole
del terreno, che costringeva a scavare soltanto per
due o tre palmi e subito a «fabricare», cioè puntellare e consolidare ogni parte prima di proseguire109.
Nonostante le numerose indicazioni di cautela
date da Vanvitelli, non si riuscì purtroppo ad evitare un incidente mortale occorso ad uno dei mastri che aveva contribuito anche al successo dei
Ponti della Valle, Giovan Battista Fontana, sebbene la causa sia da imputare alla sua imprudenza
che lo spinse a scavare per sei palmi prima di cominciare a realizzare i necessari sostegni.
L’episodio è tuttavia indicativo dell’estrema cautela con cui bisognava procedere in questa parte
dell’opera e della conseguente lentezza, che determinò il protrarsi dei lavori dal 1759 al 1761.
Altri incidenti avvennero, poi, a causa delle esalazioni venefiche110 e, in seguito ad una frana, fu
necessario un secondo cambio di percorso:
Il passaggio del monte della Croce si riduce a una passione, quantunque per accedere al pozzo fatale della
mufeta, da una parte alla grotta manca 9 palmi e dall’altra 13, ma siccome è stato tanto tempo senza essere murata la creta, questa si è slamata nell’interno ed
à fatto come una pappa fra creta e acqua, onde una
porzione di sotto dei muri del pozzo sono anche slamati, sicché ò dovuto ordinare un altro pozzo più
93
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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volessero passare le spese di quel lavoro mi avesse
data la nota che io co miei danari gli l’averei pagata.
Di questa tinta ogni giorno vengono intoppi che ritardano e mi avvelenano, anche con danno di mia salute112.
Torrino di ispezione nei pressi di S.Agata dei Goti.
grande per contenere il pozzo antico A e la slamatura
della gotta B, o almeno quando sarò vicino ne puotrò
fare un altro nel sito B ed accrescere con fabrica la
sodezza alla fragilità del terreno; il primo pozzo A è di
diametro 7 palmi, l’altro novo B à di diametro palmi
20; questa fabrica porterà via del tempo, ma ci vuole
pazienza, purché s’ottenga l’intento111.
Finalmente il 14 aprile 1761 Vanvitelli poteva
scrivere in Spagna che il traforo del Monte della
Croce era terminato ed era stata fatta «la prova
dell’acqua per il corso di 14 miglia, la quale felicemente scorre».
Eppure fino all’ultimo sembrò che gli ostacoli
non dovessero terminare. Emersero, infatti, anche
problemi di natura burocratica, come si legge
nella stessa lettera:
Aperto che fu il traforo, ordinai alli due Capi Mastri
che ogn’un dalla sua parte in quel punto ponessero le
mani a fabricare in quel breve tratto di traforo li muri
e la volta, né lasciassero mai il travaglio per tutta la
notte, affine di assicurare la grotta perché non slamasse, stantecché essendo il monte composto tutto di
creta e acqua in quel sito, risentendo l’aria puotea distaccarsi e perdere l’opera fatta, con dilungamento di
tempo, spesa e pericolo agl’operarii. Quel buon Comissario mi replicò che il Razionale, il Fiscale, il Governatore aveanli dato ordine che non facesse mai
lavorar di notte. Confesso che la bile mi montò, ma
riflettendo non averne colpa il Comissario, replicai il
medesimo ordine agl’operarii, e soggiunsi che se il
Fiscale, Razionale, Governatore e chiunque altro non
94
In seguito alla conclusione del traforo del Monte
della Croce, i lavori proseguirono per terminare il
collegamento con i Ponti della Valle. Questi si
trovano sull’altro versante del monte Longano,
dove un profondo vallone, chiamato per antonomasia la Valle, ne costituisce la separazione dal
monte Garzano, propaggine dei monti Tifatini su
cui si trova Caserta Vecchia. La profondità della
Valle, circa 280 palmi, aveva impedito di procedere scendendo lungo le pendici del monte, rendendo necessaria la costruzione di un ponte per il
collegamento dei due fianchi e la conduzione in
quota dell’acqua.
I Ponti della Valle, realizzati tra il 1753 ed il 1759,
costituiscono l’opera più affascinante e più ammirata dell’intero percorso dell’Acquedotto Carolino.
Il loro modello, a tre ordini di arcate sovrapposte,
è il Pont du Gard a Nîmes; è lo stesso Vanvitelli a
dichiarare apertamente il suo debito con l’opera
idraulica realizzata dagli antichi romani:
[l’acqua] averà da passare una valle vicino Matalona,
nella quale vi farà bisogno inalzare almeno 200 palmi
di acquedotto, in piccolo tratto però, il quale dovrà essere come qui esprimo; figuratevi il ponte di Civita
Castellana, due volte più lungo.
L’opera sarà Reale; vi farò gli ornati corispondenti
alla grande in stile de Romani antichi, perché l’opera
la comporta et è assai onorevole e cospicua per il Re
e per me ancora.
Fra li disegni della buona memoria di Nostro Padre vi
deve essere una stampa di Perelle di una veduta del
Pont du Gard in Provenza, fatto per condotto d’acqua
in unione di due monti, come il caso qua porta, con la
differenza che sotto non vi passerà fiume ma unicamente la strada113.
I Ponti della Valle costituiscono l’emblema
dell’Acquedotto e svolgono una funzione celebrativa dell’intera opera114. Su entrambi i lati interni del portale vennero poste le due iscrizioni
ideate dal migliore letterato di Napoli, il canonico
Alessandro Simmaco Mazzocchi:
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Verso l’Abruzzo
QUA MAGNO REIPUBLICAE BONO
ANNO MDCCXXXIV
CAROLUS INFANS HISPANIARUM
IN EXPEDITIONEM NEAPOLI
TANAM PROFECTIS
TRANSDUXERAT VICTOREM EXERCITUM
MOX POTITUS REGNIS UTRIUSQUE SICILIAE
REBUS PUBLICIS ORDINATIS
NON HEIC FORNICES TROPAEIS ONUSTOS
SICUT DECUISSET EREXIT
SED PER QUOS AQUAM IU
LIAM CELEBRATISSIMAM
QUAM QUONDAM IN USUM COLO
NIAE CAPUAE
AUGUSTUS CAESAR DEDUXERAT
POSTEA DISIECTAM AC DISSIPATAM
IN DOMUS AUGUSTAE OBLECTAMENTUM
SUAEQUE CAMPANIAE COMMODUM
MOLIMINE INGENTI REDUCERET
ANNO MDCCLIV
SUB CURA LUDOVICI VANVITELLI
REG. PRIM. ARCH.
Verso Napoli
CAROLO UTRIUSQUE SICILIAE REGE
PIO FELICE AUGUSTO
ET AMALIA REGINA
PARENTE SPEI MAXIMAE PRINCIPUM
AQUAE IULIAE REVOCANDAE OPUS
ANNO MDCCLIII INCOEPTUM
ANNO MDCCLVI CONSUMMATUM
A PONTE IPSO PER MILLIA PASSUUM XXVI
QUA RIVO SUBTERRANEO
INTERDUM ETIAM CUNICULIS
PER TRANSVERSAS E SOLIDO SA
XO RUPES ACTIS
QUA AMNE TRAIECTO
ET ARCUATIONE MULTIPLICI
SPECUBUS IN LONGITUDINEM TAN
TAM SUSPENSIS
AQUA IULIA ILLIMIS ET SALUBERRIMA
AD PRAETORIUM CASERTANUM PERDUCTA
PRINCIPUM ET POPULORUM DELI
CIIS SERVITURA
Nella celebrazione dell’Acquedotto Carolino116,
che deve il suo nome al sovrano che fece condurre
l’acqua a Caserta con «tanta spesa»117, era impossibile trascurare il suo progettista, di cui i Ponti
della Valle rappresentano il culmine dell’opera:
2.000 palmi di lunghezza, cioè 529 metri, per
un’altezza di 220 palmi, circa 96 metri, «in piccolo
tratto però», come specifica Vanvitelli, ossia al
centro là dove maggiore è la distanza dai fianchi
delle montagne. Tre ordini sovrapposti di archi, il
primo di 19, il secondo di 27 ed il terzo di 43, sostengono in quota il condotto, ma conservano «la
caduta dell’acqua dell’acquedotto in palmi 60 in
circa, affine di servirsi di quella altezza per adattarvi l’un sotto l’altro degli edifizii a comodo
pubblico»118. Prima di giungere al Ponte, infatti, le
acque compiono un salto di circa 19 metri, per
sfruttare il quale, nel 1795, fu costruito un mulino
per volontà di Ferdinando IV. L’abbondanza d’acqua fece sì che in seguito lo stesso sovrano stabilì
la costruzione di una raffineria di ferro119 sotto il
mulino, ipotizzando anche l’impianto di una fabbrica per la lavorazione del rame. Il progetto non
fu però portato a termine a causa dei moti scoppiati nel 1799 nel Regno di Napoli.
La struttura dei Ponti della Valle è costituita da
grandi piloni rettangolari, spessi 18 palmi, ed arcate in successione e risulta formata da un paramento esterno di blocchi di tufo squadrati
alternati a triplici ricorsi di mattoni, mentre all’interno un misto di tufo e «sasso vivo» contribuisce alla solidità della struttura. Informazioni
sulle fasi costruttive ci sono date dalla già citata
relazione del 1753.
sono stati già riempiti tre piloni et un altro è quasi alla
metà, e tre altri presentemente si cavano; di quelli
riempiti uno è andato profondo palmi 103, un altro
96, e due palmi 80 e più, e di mano in mano sono
meno profondi almeno così si spera per esser più vicini alli Monti, la longhezza uno sì e uno no con li
speroni, questi sono di palmi 46 e larghi 20, e li altri
longhi palmi 30 e si riempono a mano calando abasso
li materiali120.
SUB CURA LUDOVICI VANVITELLI
REG. PRIM. ARCH.115
Interessante notare come, ancora una volta, re e
architetto siano legati assieme.
La diversa profondità delle fondazioni testimonia
l’estrema cura con cui si andò, volta per volta, a
ricercare lo strato di dura roccia per garantire la
stabilità dei piloni.
95
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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I Ponti della Valle, nella valle di Maddaloni.
Il Cavalier Sancio riporta, a tal proposito, un interessante aneddoto relativo a quanto accaduto
durante i lavori. Mentre si procedeva con lo scavo
delle fondazioni del «pilone dell’arco maggiore
sulla strada verso il monte, d’onde l’acqua all’arcata viene»121, una volta giunti alla profondità di
oltre 100 palmi, al livello di un tufo reputato solido, ci si accorse che il «suolo percosso rendea
un rimbombo, bastevole a far sospettare che sotto
ancora vi si nascondesse del vuoto; fattosi perciò
scavare lateralmente un pozzo, vi si trovò sotto
trenta palmi di più una larga grotta in rovina,
piena di quasi inceneriti cadaveri, laonde si profondò altri 40 palmi, finché lasciato lo strato del
tufo, quello del sasso vivo si rinvenne, né si trascurò in appresso di provedere al vicino già fondato pilone»122.
Pur nella sua semplicità compositiva, l’intera
opera dimostra un’estrema cura nei suoi dettagli.
Ad ogni livello di arcate, infatti, Vanvitelli previde la percorribilità della struttura anche ai fini
della sua manutenzione. In ogni pilone furono
aperti archetti minori trasversali, alti 9 palmi e
larghi 4 ½ «in guisachè agiatamente vi si cammina, e per dentro qualunque di loro si passa»123
ed «essendo queste porte consecutive fanno una
occhiata meravigliosa»124.
96
L’immagine complessiva del ponte risulta essere
estremamente imponente. La sua grandezza non
è soltanto dovuta alle dimensioni degli elementi
geometrici reiterati più volte – i piloni rettangolari e gli archi – né nasce dall’apposizione di particolari ornamenti, avendo come unica
concessione l’uso di speroni che, da entrambi i
lati, fungono da contrafforti rastremando verso
l’alto e che sottolineano, con la propria ombra, le
linee principali della struttura.
Fedele ai principi vitruviani di firmitas, utilitas, e
venustas, Vanvitelli raggiunge con quest’opera
l’apice della sua creazione. È la funzione acquedotto a determinare l’uso della struttura ad archi,
la quale, a sua volta, si carica di particolari ed inconfondibili valenze estetiche.
Il prendere a modello il Pont du Gard non rappresenta, allora, il semplice riproporre una soluzione
già adottata in condizioni analoghe, con la sostituzione di una strada al fiume. È, come già osservato trattando dell’impianto del giardino e del
parco, il volersi rifare direttamente al modello, in
questo caso l’acquedotto romano, senza dover ripetere forme utilizzate in altre realtà similari.
Ad esempio il ponte di Maintenon, progettato ed
in parte realizzato da Sebastien Le Prestre de
Vauban, costituisce il pressoché coevo termine di
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Luigi Vanvitelli, I Ponti della Valle. tavole inserite nella terza edizione della Dichiarazione.
97
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Il Pont du Gard a Nîmes
confronto con l’architettura vanvitelliana, ma entrambe le opere testimoniano la discendenza da
un’origine comune piuttosto che una diretta interdipendenza.
Anche l’opera di Vauban è costituita, infatti, da
tre ordini di arcate sovrapposte, ma l’imponenza
e l’aulicità espresse con vigore dai Ponti della
Valle non si ritrovano nella monotona successione di archi che si aprono nelle sue pareti. L’alternanza degli speroni dona, infatti, all’opera di
Vanvitelli un ritmo sintattico che dinamizza la
struttura e ne rende più agevole la sua lettura
compositiva. Se l’acquedotto di Maintenon
avrebbe potuto essere, dimensionalmente, una
grande opera, l’Acquedotto Carolino diviene
un’opera assoluta.
Il monte Garzano costituisce l’altra estremità dei
Ponti della Valle. A causa della roccia durissima,
per lungo tempo si fu indecisi tra il proseguire attraversando il monte o compiere un giro più
lungo attorno alle sue pendici: si scelse la prima
soluzione in quanto la seconda avrebbe comportato un allungamento del percorso di almeno sette
miglia125.
Due squadre di operai furono impiegate contemporaneamente alle due estremità del monte.
98
Ieri ritornai solo al monte di Garzano per segnare la
linea del gran Traforo, ove non sono li pozzi, e misurai tutte le Grotte fatte da pozzo a pozzo fin’ad ora; ho
ritrovato che le Compagnie di Minatori hanno fatto
palmi 150 e la Compagnia delli Muratori e contadini
palmi 321. In tutto palmi 471. Vi è una emulazione
grandissima fra l’uno e gli altri, ma questo giova
molto all’avanzamento del lavoro, il quale tutto insieme sono palmi 3400, cioè sopra mezzo miglio, e
palmi 1770 in un tratto senza pozzi, né è possibile farvene, attesa la grande altezza della montagna, la quale
è tutta di pietra viva126.
Come testimoniano le parole di Vanvitelli, per garantire l’aria all’interno della galleria furono scavati pozzi in maniera perpendicolare alla
superficie esterna del monte, i più alti dei quali
raggiunsero l’altezza di 300 palmi; ma, proprio
al centro, l’altezza della montagna impedì di
aprire queste prese d’aria per una distanza di oltre
1000 palmi.
La durezza della roccia e la mancanza d’aria resero molto faticoso il lavoro necessario per il traforo dell’ultimo tratto della montagna,
prolungando le opere, iniziate nel 1755, fino al
1759. Ancora nel 1758, infatti, Vanvitelli così
scriveva al fratello:
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Il traforo del monte nel pieno dall’ingresso all’esito è
lungo palmi Napolitani, che è il 6° più grande del Romano, numero 3480, che sono palmi Romani numero
4060, vale a dire quasi due terzi di miglio, ovvero 384
palmi Romani; per terminarlo vi mancano palmi Napolitani 560, cioè palmi Romani 653 1/3 . Questo lavoro lo spero dentro di un anno compito o
prossimissimo a compire; è vero però che siamo arrivati nel core del monte; in una settimana passata, da
una parte lavorando notte e giorno si è fatto due palmi
e mezzo, e parimente dalla parte opposta, ma forsi ritornerà ad essere più pratticabile la pietra viva, essendosene di questa durezza ritrovati molti pezzi e poi
ànno cessato; non è sperabile cosa tenera, ma sol tanto
dalla durissima selce pervenire ad una pietra meno
dura un poco127.
Tuttavia l’estrema perizia delle livellazioni permise alle due squadre di incontrarsi nelle viscere
del monte come se gli operai avessero lavorato
all’aria aperta, potendosi osservare nel cammino128. Grande festa provocò la caduta dell’ultimo diaframma di roccia.
Per seguire le ultime fasi dei lavori Vanvitelli trascorse due giorni all’interno della montagna per
dirigere la compagnia dei minatori, mentre dal-
L’acquedotto di Maintenon secondo il progetto di Vauban.
l’altro lato Bernasconi e Collecini facevano altrettanto con l’altra squadra. Sotto la direzione
dell’architetto vennero collocate mine «longhe ed
orizontali», dalla forma particolare ideata esclusivamente per non far saltare molta pietra, ma per
incrinare anche la roccia più dura.
Finalmente, una di queste riuscì ad aprire una
breccia.
Io vi passai il bastone a traverso; si fece lavorare tutta
la notte del Giovedì, onde il Giovedì mattina passai
io stesso per il buco, non ancora allargato sufficientemente per passarvi con comodo. (…) Ora si sta allargando per rendere comodo il passaggio alle loro
Maestà. La Regina è impaziente di passarvi; mi disse
ieri: Se ci siete passato voi, perché non ci posso passare io? Addussi, come è vero, essere il traforo un aggregato di macerie, le quali si devono sbarazzare. Il
Re replicò: Or via quando sarà tutto all’ordine me lo
dirai, che ci verremo129.
Ancora una volta il re partecipò attivamente ai
sopralluoghi: pochi giorni dopo l’apertura del traforo, l’intera famiglia reale si recò ad osservare la
riuscita del lavoro. Per l’occasione Vanvitelli fece
«ritrovare tutta la Grotta, dall’ingresso del monte
Valle di Maddaloni (CE), i Ponti della Valle.
99
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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fin’agl’Archi, illuminata con 600 lumi di cera
dentro altretanti lanternoni»130. In seguito anche
il re Ferdinando si recò a visitare l’opera, ma
«vidde, come può vedere una creatura di 9 anni;
entrò un poco nella grotta del Traforo, che era
stata illuminata per metà, poi ritornò indietro;
così era l’istruzzione»131.
Ben diversa cerimonia avvenne nel 1762 in occasione della conclusione del tratto di acquedotto
fino al Garzano e dell’arrivo dell’acqua a Caserta;
ancora sei anni dovevano passare per giungere al
monte Briano, ma era il primo riconoscimento ufficiale del successo dell’impresa cominciata da
Vanvitelli un decennio prima. Per l’occasione
l’architetto fece preparare una mostra d’acqua,
altrettanto grandiosa di quella che avrebbe in seguito realizzato nel Parco.
La mostra dell’acqua conviene farla secondo porta il
sito, e sarà una discesa di palmi 35, nella pendice del
sasso vivo del monte, in lunghezza di palmi 70 romani, la larghezza della gradinata sarà di palmi 19, il
tutto fabricato con legnami e tavoloni, perché nel
breve tempo non è possibile che la fabrica di muro
Luigi Vanvitelli, Veduta dei Ponti della Valle.
100
possa fare presa sufficiente, onde l’acqua se la portarebbe via assolutamente; vi saranno tre scivoloni e tre
gradini alti palmi 7; li scivoloni saranno scabri con
dei riporti di legname, affinché l’acqua saltelli e faccia
spuma bianca. Abbenché questo cassone, si può dire,
sia così liscio per impotenza di tempo, non ostante il
rivestimento dell’acqua lo renderà vaghissimo, e formerà un gran strepito per il rumore, e per essere cosa
nova. (…) Saranno alle 23 miglia di condotto, ove si
farà la mostra; ne mancano ancora 4 miglia e mezzo
per finire la conduzzione132.
Forte della sua formazione teatrale e scenografica,
Vanvitelli allestì una rappresentazione in cui il
ruolo del primo attore fu attribuito all’acqua.
È interessante notare che, sebbene fosse solo una
mostra provvisoria, l’architetto utilizzò le stesse
forme che divennero una caratteristica dell’asse
centrale del Parco: quella successione di cascatelle che si ritrova nelle Fontane di Venere e di Cerere. Allo stesso modo di quanto ricercato
successivamente nelle due fontane, anche in questa mostra l’effetto desiderato fu quello di un’acqua che «saltelli e faccia spuma»; a tale scopo
anche le tavole di legno, come il successivo pro-
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Valle di Maddaloni (CE), i Ponti della Valle. Particolari del portale, a sinistra, e di uno dei passaggi aperto tra i piloni.
filo della Fontana di Cerere, vennero posizionate
«con le scaglie di pesce alla rovescia», cosicché
«l’acqua diveniva come neve e cadeva per le cascate copiosamente»133.
Ad aumentare l’effetto scenografico, a causa
dell’abbondanza di acqua, la gradinata fu allargata da 19 a 30 palmi romani e furono aggiunte
altre due gradinate ai lati, tutte coperte di erba,
cosicché in queste l’acqua cadeva «a specchio»,
mentre in quella centrale, più grande, l’acqua
scendeva lungo un piano inclinato. Il fratello Urbano gli consigliò, inoltre, di far aspettare al re
l’arrivo dell’acqua, piuttosto che questa arrivasse
«prima di lui, lo che sarebbe meno piacevole per
esso, perché il vederla venire alla prima è cosa
gustosa; vederla venuta non viene considerata
niente»134.
Accurati furono la preparazione ed il calcolo dei
tempi necessari: per prima cosa fece giungere
l’acqua fino ai Ponti della Valle, dove fece aprire
una saracinesca per il deflusso dell’acqua in eccesso135. Per il tragitto dalle sorgenti l’acqua impiegò undici ore e, al suo arrivo, era «di color
inchiostro, stanteché lava 22 miglia d’acquedotto
sporco di tutto»136.
In seguito furono provati i tempi di percorrenza
del traforo del Garzano:
Avevo fatto misurare la distanza dalla mostra allo scaricatore degl’archi, e quella feci segnare sulla strada
verso Caserta. Quando io sono passato dal loco, si è
sparato un mortaretto e consecutivamente anche
dagl’altri, fino allo scaricatore che si chiuse ed aprì
l’altro per far scorrere l’acqua pel condotto verso la
mostra; e dopo 18 minuti arrivò l’acqua. Il tempo non
è molto, ma farò fare il segno qualche passo più
avanti137.
La cerimonia fu, ovviamente, un successo e
segnò l’affermazione personale di Vanvitelli sui
numerosi detrattori138. Come ricompensa furono
consegnati all’architetto mille ducati, ma paradossalmente vennero ridotti gli stipendi dei suoi
collaboratori in quanto la parte più complessa del
lavoro era stata compiuta.
Magnanimamente fu Vanvitelli a distribuire ad
ognuno di loro una quota della ricompensa ricevuta. In realtà i lavori non erano ancora terminati
e si arrivò fino al 1768 per poter vedere sgorgare
l’acqua dal monte Briano. Dopo il traforo del
Garzano, infatti, l’acquedotto percorre ancora una
lunga strada.
Ritornato all’aperto l’acquedotto / incavato però nel
sasso vivo / costeggia le radici di Monte Calvo, e nella
foggia stessa passa sopra i Casali di Garzano, Tora,
101
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Sezione longitudinale esemplificativa del Parco di Caserta, dalla cascata alla Fontana dei Delfini.
102
FONTANA DEI DELFINI
FONTANA DI VENERE
FONTANA DI DIANA
Nel corso degli ultimi anni ritornò prepotente
anche l’idea del prolungamento dell’acquedotto
fino a Napoli140, sogno di Vanvitelli e di re Carlo,
ma non completamente condiviso dall’amministrazione del ministro Tanucci. Nonostante l’au-
FONTANA DI EOLO
Sª. Barbara e Casolla, fin al territorio della Badia di S.
Pietro pel tortuoso cammino di palmi 21000.
Presso la Chiesa della Badia, che già fu il tempio di
Giove Tifatino, s’introduce novamente il condotto nel
monte di duro macigno, traforandolo a traverso per lo
tratto di palmi 1740, e dopo essersi arricchito di alcune sorgenti, prosiegue l’iregolare cammino intorno
le dure pendici dè Tifata, nell’estensione di palmi
17000, ove giunge alla montagna di Briano, che torreggia al Settentrione del Real palazzo nuovo, difendendolo da què venti infasti139.
FONTANA DI CERERE
Disegno autografo di Luigi Vanvitelli per la mostra provvisoria sul monte Garzano, dalla lettera al fratello Urbano del
20 aprile 1762.
torizzazione a redigere il progetto, l’architetto si
mostrò sempre piuttosto scettico sulla reale volontà di compiere anche questa parte dell’opera.
E infatti il progetto rimase solo sulla carta e fu
stabilito, invece, che, dopo aver svolto la loro
funzione, le acque portate dall’Acquedotto Carolino arrivassero a Napoli tramite il vicino Acquedotto Carmignano.
Il 1° dicembre 1767 Vanvitelli poté finalmente
scrivere al fratello: «L’acquedotto è terminato
fino al monte, e quello dello scarico dal monte fin
vicino al Palazzo Reale». Tutto l’impianto era, insomma, pressoché finito. Ad accelerare l’ultimazione dei lavori fu il desiderio del re di veder
fluire l’acqua dal monte Briano in occasione dei
festeggiamenti per le sue nozze con Maria Carolina d’Asburgo.
Ancora una volta Vanvitelli si preoccupò di organizzare una cerimonia degna dell’occasione, nonostante le ristrettezze finanziarie, creando un
adeguato spiazzo da cui la coppia sovrana
avrebbe potuto ammirare lo spettacolo della mostra d’acqua141. Il 20 maggio 1768 Ferdinando IV
poté così riprovare le medesime emozioni vissute
sei anni prima.
Dopo un percorso di circa 38 chilometri l’acqua
irrompe sul monte Briano a circa 203,50 metri di
altezza sul livello del mare. Rispetto alla quota
delle sorgenti, 254 metri sul livello del mare, il
dislivello molto piccolo attesta una pendenza
media del condotto di circa 1,5 millimetri per
ogni metro di percorso, confermando le già citate
parole di Vanvitelli che ricordano come gli operai, nel lavoro, avessero dei punti fissi per andare
in piano dall’uno all’altro.
Dall’alto del monte l’acqua, con un salto di circa
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
________________________________________________________________________________________________
Schema delle livellazioni eseguite nell’ultimo tratto del giardino, fino al Palazzo Reale. A.R.Ce.
luogo di allevamento delle api per la produzione
di miele, da cui deriva l’attuale nome di Aperia.
In seguito, nel 1826, durante il regno di Francesco II, fu trasformata in serra e vi fu collocata la
statua di Flora, opera realizzata da Tommaso Solari nel 1760, ancora presente in situ.
Relativamente all’asse centrale del parco, dalla
vasca di Diana ha origine la tubazione principale
che, tramite derivazioni, fornisce d’acqua tutte le
fontane successive.
Tale sistema determina l’indipendenza di ogni fontana dalle altre, nonostante in apparenza sembri
che il flusso idrico scorra ininterrottamente dall’una all’altra; in questo modo è possibile, all’occorrenza, chiudere ogni singola fontana senza
interferire sulle altre, rendendo ancora più agevoli
i lavori di manutenzione.
L’ultima delle fontane, quella dei Delfini, costituisce un ulteriore bacino di accumulo per la zona
sottostante del Parco e per la zona del Bosco Vecchio, con le quali è collegato da tre diramazioni.
Una di queste, il condotto di scarico, con funzioni
FONTANA MARGHERITA
FONTANA DEI DELFINI
80 metri, cade nella sottostante vasca di Diana e
Atteone. Tale fontana costituisce un primo importante bacino di accumulo che serve allo smistamento dell’acqua attraverso condutture che
raggiungono le diverse zone del Parco.
Dalla vasca di Diana hanno, infatti, origine le
varie tubazioni che convogliano l’acqua verso il
vicino centro di San Leucio, voluto da Ferdinando IV, il Giardino Inglese, le fontane dell’asse
centrale e il Palazzo Reale, quest’ultimo collegato direttamente tramite una conduttura che
giungeva all’angolo nord-est per salire fino ai serbatoi collocati nel sottotetto142.
Come ulteriore riserva d’acqua per eventuali carenze, Vanvitelli previde di costruire anche una
cisterna sul monte Briano143, a lato della cascata,
servita da una diramazione dell’Acquedotto.
Di tale cisterna, incompiuta, sopravvivono attualmente le murature di sostruzione, situate all’interno del Giardino Inglese. Abbandonata la
funzione per cui avrebbe dovuto essere costruita,
la struttura venne adibita, in epoca francese, a
Sezione longitudinale esemplificativa del Parco di Caserta, dalla Fontana dei Delfini alla Reggia.
Il dislivello esistente consente all’acqua di giungere, per gravità, fino al sottotetto del Palazzo Reale.
103
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Il sito dell’Aperia sul monte Briano, a lato della cascata.
anche di troppo-pieno, corre parallelamente alle
fontane dell’asse centrale144 e corrisponde al condotto nominato da Vanvitelli nella già citata lettera del 1° dicembre 1767.
Nel corso della sua costruzione si registrano le rimostranze dei vicini villaggi di Casanova e Casapulla, che soffrivano
l’incomodo del temporaneo passaggio delle acque
provenienti dalla gran Peschiera; ciò per tanto devo a
V.E. rappresentare, che già da molto tempo addietro,
prima ancora si pensasse alla edificazione della detta
peschiera, avevo fatto edificare e condurre avanti il
Real Novo Palazzo, sotto il piano della strada, che
chiamano la Santella, il formale principale ricevitore
di tutte le acque provenienti dal Real acquedotto; non
solo quelle della cima della gradinata dal monte
Briano dovran discendere; ma ancora quelle che discese passeranno giocosamente per tutte le fontane da
farsi nelle delizie de’ Reali Giardini, fra le quali rimane inclusa la Gran peschiera dalla quale per mancanza di tempo non si è potuto costruire il braccio di
formale per unire le acque di quella al formale ricevitore precedentemente costruito. Sicché per non disturbare il Reale ne’ Reali Giardini nella presente
campagna, quando sarà partita la Corte, immediatamente si porrà le mani al detto braccio formale, e
verrà tolta la cagione del ricorso145.
104
Purtroppo le condutture rappresentarono subito
uno dei punti più deboli dell’opera. Vanvitelli
considerò tubazioni «di cinque specie; il condotto
più grosso è di diametro un palmo e mezzo; gli
altri minori fino a mezzo palmo»146, tutte interrate
e protette da spezzoni di tufo. Il re Carlo aveva
dato la massima disponibilità dei materiali147, eppure, come ricorda Arnaldo Venditti, alla morte
dell’architetto, oltre ai lavori da completare, era
rimasto al figlio Carlo il problema «dell’acquedotto carolino, che subiva guasti periodici», per il
quale «vanno ricordate spese di rilievo a partire
dal 1787, in seguito a perdite di acqua e deterioramento delle tubazioni, che imposero restauri
durati sino al 1805148.
Ancora il 10 aprile 1837, però, il fontaniere Pasquale de Luca, incaricato della manutenzione della
canna di piombo che dalla cascata portava l’acqua
alle fontane ed al Palazzo, informava «che il tratto
di detta canna dal ponte di Ercole a quello di Sala
è tutta marcita»149. La fatiscenza delle condutture
obbligava, infatti, ancora a numerosi interventi di
manutenzione, non risolutivi, poiché la tubazione
non sosteneva più la pressione dell’acqua.
L’architetto Gaetano de Lillo, incaricato della perizia, fornisce il 30 giugno dello stesso anno
un’accurata relazione sullo stato in cui si trovavano le tubature, su come erano state costruite,
su quali interventi fosse opportuno fare:
La canna non è in sì cattivo stato che merita di esser
cambiata, ma la difficoltà che offre nel modo come la
medesima trovasi situata allorché devesi accomodare fa
sì che spesso e per più giorni vedesi l’acqua mancare in
questo real Palazzo; dappoiché in questo tratto fin dalla
sua costruzione fu messa in un piccolo formaletto di
fabbrica coverto con spaccatini e colmato di terra.
Il formaletto intero trovasi stabilito nella spalliera destra del bosco salendo verso la cascata, e vedesi ora da
tratto in tratto scoverto, dacché essendosi manifestato
il bisogno di fare delle pruove per accommodare la
canna, si sono le medesme rimaste aperte, onde avere
la facilità di meglio conoscere i guasti e accorrere subito e ripararli; ciò che non puote praticarsi poi nei
siti ove la canna esiste ancora coverta, per cui in tali
siti devesi andare a tentoni facendo delle pruove per
rinvenire le rotture che nella canna si manifestano ed
è questo che porta il disguido di vedere alle volte per
molti giorni mancare l’acqua nell’uso destinato.
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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Per evitare quindi un tale inconveniente non sarebbe
a farsi altro che scovrire le rimanenti porzioni del formaletto anzi detto, mettere la canna intieramente a
giorno, pulire l’interro dell’intiero tratto di canaletta e
fare dei piccoli accomodi150.
Lo stato delle tubazioni sembra, perciò, vanificare tutte le cautele adottate, durante la costruzione, perché l’Acquedotto Carolino, in quanto
realizzato per l’approvvigionamento di acqua potabile, fosse esente da ogni inquinamento.
Affinché cotesta limpidissima acqua nulla perdesse
della natia purità, con la più esatta diligenza tutto l’interno del condotto si è fabbricato ed intonacato col
forte glutinoso, composto di calcina, lapillo, e pozzolana. Meritava in vero altrettanta cautela un’acqua,
che ha tute le divise di perfettissima. Priva di ogni colore, e di ogni sapore, limpida e trasparente, non macchia i pannolini, né lascia fecce dopo avere bollito,
perlochè questo prezioso corpo di acqua, dopo avere
abbondantemente provveduto al palazzo Reale, ed
alle delizie, se ne avvanza ancora copia bastevole per
arricchire la Metropoli151.
Lo stesso Vanvitelli aveva evidenziato quali attività
fossero compatibili, con un corretto utilizzo dell’Acquedotto, e quali sarebbe stato preferibile evitare.
Se invece di Valcherie, tintorie, ed anche cartiere,
nella inclinazione dell’acquidotto nella pendice del
monte Longano, dopo gli archi della Valle, si facessero filatoi di seta, molini, ed anche seghe da tavole,
in questi edificii non caderebbe né perdita, né deturpazione di acqua, che si deve conservare limpida a beneficio publico152.
Inoltre, nel 1786 si badò a proteggere anche l’ambiente attorno alle sorgenti del Fizzo, a seguito di
seri inconvenienti che si erano verificati, in particolare a causa di manomissioni da parte dei vari
proprietari dei terreni a monte delle sorgenti
stesse153. Il bando, pubblicato il 14 novembre
1786, tutelava le zone sovrastanti le sorgenti e
vietava il taglio dei boschi, delle erbe e dei cespugli in una vasta area a sud del monte Taburno,
creando una riserva che suscitò malcontento tra
gli abitanti delle zone limitrofe. Per permettere la
raccolta della legna ed il pascolo del bestiame,
nel 1795 fu allora ridotta l’estensione della ri-
Iscrizione posta all’origine dell’Acquedotto Carolino, in località Fizzo, riportante il divieto di qualunque piantagione ad
una distanza inferiore a quindici metri dal condotto, secondo
un rescritto del re, Francesco I, datato 30 marzo 1828.
serva, pur confermando tutti i divieti del bando
precedente. Nella zona settentrionale del monte
si fece riferimento, invece, ad un editto del 1759
che, più genericamente, proibiva il taglio dei boschi senza preventive autorizzazioni. In seguito
la Riserva del Taburno fu ridotta ancora rispetto
all’estensione stabilita nel 1795.
A differenza di quanto avvenuto a Versailles, pertanto, l’approvvigionamento idrico del Parco di
Caserta è dovuto ad un’unica opera fortemente
caratterizzante la storia e l’immagine del territorio circostante. Forse per questo motivo, più che
nel Parco, i visitatori provenienti da ogni luogo,
trovarono nell’Acquedotto Carolino, ed in particolare neI Ponti della Valle, elementi di grande
suggestione che l’affermarsi della nuova estetica
del sublime mostrò come emblema della vittoria
dell’uomo sulla natura.
Al giorno d’oggi non è possibile considerare l’Acquedotto Carolino soltanto come un’opera di elevata ingegneria idraulica, «la via trionfale della
grande opera idrica e la linfa vitale della nuova
città»154.
È importante altresì, come evidenzia Lorenzo Pagliuca155, riconoscere in essa un’opera d’arte a scala
territoriale, unicum insieme alla Reggia, la cui suddivisione nei confini di differenti comuni non deve
essere motivo di frammentazione per le forti valenze economiche e culturali di cui ciascuno deve
sentirsi responsabile per il futuro.
105
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
NOTE
1.
Migotto, Edizioni Studio Tesi, Pordenone-Padova,
1990, VIII, 6, 1-3
VITRUVIO, De Architectura, VIII, 6, 1.
2. «La galleria era lunga m. 1.190, alta m. 1,80 e larga m.
1,12». Luigi ZANGHERI, Storia del giardino..., cit., p.
313.
5.
Luigi ZANGHERI, Storia del giardino..., cit., p. 313.
6.
Ibidem.
3.
7.
Ibidem.
8.
Ivi, pp. 315-316.
4.
106
Si ricorda che all’interno della simbologia del giardino
di Villa d’Este, le fontane di Tivoli e di Roma volevano
rappresentare il riaffermarsi degli storici collegamenti,
esistenti già dall’epoca romana, tra la Città Eterna e la
cittadina Tiburtina. Tale correlazione, materializzata
inoltre dal viale delle Cento Fontane, asse di collegamento e allusione alle acque dell’Aniene che si gettano
nel Tevere, serviva ad affermare con forza il legame
del cardinale Ippolito con la Curia romana, nonostante
la sua mancata elezione al soglio pontificio.
«Esistono tre tipi di condutture: canali in muratura,
condotte in piombo e tubazioni in terracotta. I criteri
di realizzazione sono i seguenti: nel primo caso la costruzione deve essere eseguita in solida muratura, con
una pendenza compresa tra un quarto e mezzo piede
ogni cento, dotata di una copertura a volta per proteggere l’acqua dal sole. In prossimità delle mura si costruisca un serbatoio comunicante con tre bacini di
immissione per raccogliere l’acqua; nel serbatoio van
disposti tre condotti ugualmente ripartiti fra i tre bacini
di raccolta comunicanti tra loro, in modo che quando
l’acqua stia per traboccare da quelli laterali si riversi
in quello centrale. Nel serbatoio centrale si collochino
delle tubature in grado di portare l’acqua a pozzi e fontane pubbliche; degli altri due l’uno alimenterà i bagni
– motivo per cui viene pagata una tassa annuale – l’altro le abitazioni private, senza che venga sottratto nulla
al fabbisogno pubblico. Infatti potendo usufruire di
proprie condutture collegate alle fonti di approvvigionamento, i privati non sottrarranno quella destinata
all’uso pubblico. Il motivo di tale suddivisione è giustificato dal fatto che chi si farà arrivare l’acqua in casa
pagherà una tassa i cui introiti saranno destinati alla
manutenzione degli acquedotti. Se tra la città e la fonte
di approvvigionamento sorgono delle alture, occorrerà
scavare gallerie sotterranee badando a mantener la pendenza necessaria, come s’è detto dianzi. Se il terreno è
di natura tufacea o roccioso basterà semplicemente
scavare un canale; se invece è terroso o sabbioso si crei
un rivestimento in muratura sul fondo e ai lati, con relativa copertura a volta, dopodiché vi si potrà far scorrere l’acqua. Si creino inoltre dei pozzi d’aerazione a
intervalli di centoventi piedi l’uno dall’altro».
VITRUVIO, De Architectura, trad. it. a cura di Luciano
9. Sembra, tuttavia, che una tubazione collegasse direttamente la prima delle vasche, al di sotto della cascata,
con l’edificio, garantendo una migliore qualità dell’acqua nel Palazzo.
10. Un’applicazione di quanto descritto da Erone nella
Pneumatica si ritrova, ad esempio, in Villa d’Este,
nella Fontana della Civetta e in quella di Artemide Efesia.
11. La famiglia dei Francini, divenuta oltralpe Francine,
proseguì nell’attività di fontaniere per numerose generazioni, aggiornandosi con tecnologie sempre più avanzate e legando la propria opera a numerosi giardini
reali, tra cui i giardini di Fontainebleau, nei quali Tommaso progettò una italianissima Fontana del Tevere, e
quelli del Palais du Luxembourg, per i quali realizzò,
in collaborazione con Salomon de Brosse, l’acquedotto
di Arcueil, alto 24 metri. A Versailles, tra le numerose
realizzazioni dei Francini, è da ricordare la prima sistemazione della Grotta di Teti.
12. Le condutture potevano, inoltre, essere realizzate in laterizio, particolarmente apprezzate per la potabilità dell’acqua, o in legno, utilizzando «tronchi di olmo,
ontano e quercia, messi in opera adeguatamente cerchiati con anelli metallici, e con giunti resi solidali da
pece e resina». Luigi ZANGHERI, Storia del giardino...,
cit., p. 314.
13. Giovanni Gargiolli fu «Architetto Cesareo» dell’Imperatore Rodolfo II, per il quale si occupò della progettazione della nuova residenza nel castello di Praga.
Notevole era, all’epoca, la sua fama per aver ideato un
nuovo strumento per tornire le pietre dure.
14. Luigi ZANGHERI, Storia del giardino..., cit., p. 67.
15. Tuttavia, precisa Zangheri, «la grotta non venne costruita perché troppo costosa». Ivi, p. 85.
16. Nei giardini di Richmond, per Enrico principe di Galles, a de Caus fu affiancato un altro artista italiano, il
fiorentino Costantino de’ Servi, al quale fu richiesto un
gigante dalle dimensioni superiori di quello di Pratolino. L’improvvisa morte del principe, nel 1612, co-
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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strinse, però, de Caus ed il de’ Servi ad abbandonare
l’Inghilterra senza completare l’opera.
17. L’opera fu tradotta nel 1659 con il titolo di Nuove e
rare invenzioni per impianti idraulici.
18. Il 1644 vede anche la pubblicazione dell’Architectura
Curiosa Nova, Die Lustreiche Bau – und Wasserkunst,
di Georg Andreas Böckler, architetto ed ingegnere tedesco. Il libro, illustrato con più di duecento stampe,
servì come documentazione di molte fontane dell’epoca, famose per inventiva e giochi d’acqua. Del
medesimo anno sono anche alcuni studi di Evangelista
Torricelli per determinare l’altezza di un getto d’acqua.
19. «Ho pensato ancora che vi è un certo libro di Carlo
Fontana, il quale tratta delle acque, e l’unica cosa
buona che vi è appunto è quella della misura delle fistole; il resto a nulla serve, essendo cosa che non merita attenzione. Questo libro (…) si potrebbe avere o
pure in prestito, facendo copiare il foglio ove sono le fistole, l’una dentro l’altra in questo modo circa, et ad
ogni circonferenza vi è scritta la quantità». Luigi Vanvitelli, lettera del 15 novembre 1751 al fratello Urbano,
in Franco STRAZZULLO, op.cit., vol. I, p. 60.
20. Luigi ZANGHERI, Storia del giardino..., cit., p. 320.
21. Carlo FONTANA, Utilissimo trattato dell’acque correnti,
Roma, 1696, capitolo X.
22. L’italiano Evangelista Torricelli, nel 1644, e l’ingegnere francese Edme Mariotte, nel 1686, furono tra i
primi ad indicare come determinare l’altezza di un
getto d’acqua. Alcuni risultati degli studi di Mariotte
sono riportati anche nel trattato di Dézallier d’Argenville; cfr. ID., op. cit., p. 325.
23. Ivi, Avviso sulla nuova edizione.
24. Ivi, pp. 314; 331-332.
25. Ivi, p. 336.
26. Ivi, p. 332.
27. Anche l’opera di Bélidor, pubblicata in quattro volumi
dal 1737 al 1752, fornisce numerose informazioni riguardo alle più avanzate teorie idrauliche, al progetto
di canali per fortificazioni, alla canalizzazione ed alla
conduzione dell’acqua, ai modi di costruzione dei serbatoi, alle opere per il sollevamento delle acque, alle
pompe ed ai mulini.
28. «Avendomi promesso il Conte Gazola di provedere un
tomo, uscito ora alla stampa, di Belidor che sarà il 4°,
avendone già gli altri 3, egli desidererebbe avere il Barattieri, Architettura delle acque; questo è in foglio piccolo, diviso in due libri, in un tomo solo; è in lingua
Italiana, stampato in Piacenza nella Stamperia Ducale
di Lealdo Leandro Bazachi, 1699». Luigi Vanvitelli,
lettera del 20 maggio 1752 al fratello Urbano, in
Franco STRAZZULLO, op.cit., vol. I, p. 161.
29. Aldo AVETA, Interventi di Vanvitelli per acquedotti romani, in Luigi Vanvitelli e il ‘700 europeo..., cit., vol.
II, p. 267.
30. Ivi, vol. II, p. 269.
31. Significativo è che, nel cercare un modello per i Ponti
della Valle, Vanvitelli abbia pensato proprio ad
un’opera romana, il Pont du Gard, acquedotto fatto costruire in Provenza nel 19 a.C. da Agrippa. Cfr. la lettera del 2 maggio 1752 al fratello Urbano, in Franco
STRAZZULLO, op.cit., vol. I, p. 149.
32. La frase è tratta da Historique de la Machine de Marly,
Circuit chemin de Mi-Côte à Louveciennes (raccolta
dei pannelli esplicativi posti lungo il percorso della
Ferme de Mi-Côte a cura del comune di Louveciennes), pannello 6.
33. Luigi Zangheri ricorda che «verso la metà dell’Ottocento le ‘grandes eaux’ di Versailles non si mostravano
al pubblico che cinque o sei volte durante l’anno. In
una guida del tempo si avvertiva che i getti sarebbero
stati aperti dalle ore 14 alle ore 17 nella seguente successione: “1° Les bains d’Apollon; 2° le Bassin de Latone; 3° la Salle de Bal; 4° le Bosquet de la Colonnade;
5° le Bosquet des Dômes; 6° l’Encelade ou le Géant; 7°
l’Obélisque ou les Cent Tuyaux; 8° enfin, Neptune”».
Luigi ZANGHERI, Storia del giardino..., cit., p. 321.
34. Informa Jean-François Blondel, nel 1756: «Les eaux
jaillissantes des bosquets de Versailles dépensent un
volume d’eau si considérable lorsqu’elles jouent toutes
ensemble, qu’on se contente ordinairement durant l’été
seulement, de faire jouer depuis dix heures le matin
jusqu’à huit heures du soir, pendant le séjour du Roi à
Versailles, les parterres d’eau et quelques bassins qui
s’aperçoivent du château et des terrasses; en sorte que
les grandes eaux ne jouent publiquement qu’aux Fêtes
de la Pentecôte et de Saint-Louis, ou bien lorsque
quelque Ambassadeur ou quelque étranger de la première considération viennent visiter cette maison
royale. Ce spectacle dure alors deux heures et demie et
consomme la quantité de 35292 muids [environ 9460
m3]». Cfr. Simone HOOG, op. cit., p. 7.
35. Le istruzioni, date dal re il 18 agosto 1672, sono citate
in Leonardo BENEVOLO, op.cit., p. 46.
36. È tuttavia da notare la maggiore ricchezza d’acqua del
territorio di Chantilly rispetto alla penuria registrata
nella zona di Versailles.
37. Jean Picard (La Flèche 21 luglio 1620 - Parigi 12 otto-
107
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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bre 1682) fu membro degli Accademici di Francia. Si
dedicò con successo a numerosi studi di astronomia,
perfezionando alcuni strumenti di osservazione; in seguito, partecipando alle attività dell’Académie, rivolse
la sua attenzione ai problemi di idraulica con particolare riguardo allo studio del rifornimento d’acqua di
Versailles.
38. Le costruzioni di Le Vau furono demolite nel 1684 per
essere sostituite dall’ampliamento dell’ala nord del castello.
39. In seguito alla costruzione delle moderne opere di urbanizzazione, nelle zone limitrofe a Versailles, gran
parte di queste installazioni è stata purtroppo distrutta.
40. Il sistema idraulico del Plateau di Saclay è stato originato esclusivamente per l’alimentazione idrica del
Parco del Castello di Versailles; il sistema ha comportato la costruzione di un insieme di canali destinati a
raccogliere le acque di scolo e di stagni per contenerle,
a partire dai quali l’acqua era condotta per gravità a
Versailles, grazie ad un acquedotto - l’acquedotto di
Saclay - dapprima sotterraneo (la Ligne de Puits) ed
in seguito all’aperto. Arrivando dal plateau di Saclay,
le acque attraversavano il fiume Bièvre grazie ad un
sifone in ghisa; ma ben presto tale sistema divenne incapace di sopportare la notevole pressione a cui era sottoposto. Nel 1682 Gobert, che rivestiva la carica di
Intendente delle Costruzioni del Re, propose a Colbert
un progetto per realizzare un ponte ad arcate di circa
580 metri di lunghezza e 45 di altezza, suddiviso in due
livelli; alla morte di Gobert il suo successore, JulesHarduin Mansart, provvide alla realizzazione del ponte
tra il 1684 ed il 1686. L’acquedotto condusse le acque
di scolo del plateau di Saclay ai serbatoi di Versailles
(lo stagno di Colbert, al di sopra del Grand Canal) fino
al 1939. Dal 1940 la Ligne de Puits non è più utilizzata
e l’insieme delle canalizzazioni della zona est del plateau di Saclay si getta nel bacino dello Stagno Nuovo.
41. Il sistema ha, inoltre, creato una catena indissociabile
di elementi naturali, tecnici ed artistici, che hanno contribuito ad una complessiva bonifica dell’area, permettendo lo sviluppo di colture fino ad allora impossibili
e facendo sparire malattie e febbri endemiche dell’epoca.
42. Gli storici fissano, convenzionalmente, la data di nascita di Pierre-Paul Riquet il 29 giugno 1609. In gioventù si interessò unicamente di scienze e di
matematica, poi, spinto dal padre, procuratore del re e
abilissimo uomo d’affari, divenne esattore delle imposte sul sale, esercitando la sua funzione per 20 anni.
Nominato Barone di Bonrepos nel 1661, divenne giu-
108
dice reale e si stabilì a Tolosa. Da ragazzo, Pierre-Paul
Riquet aveva assistito ad una riunione degli Stati della
Linguadoca (dei quali suo padre era membro) in cui
era stato presentato un progetto per un canale di collegamento tra l’Oceano Atlantico ed il Mar Mediterraneo. Già all’epoca di Ottaviano Augusto e di Nerone
era stata avanzata l’idea di collegare le due sponde.
L’interesse di tale opera era rilevante poiché, collegando i bacini dell’Aude e della Garonna, si sarebbe
evitato il lungo tragitto intorno alla penisola iberica,
con notevole risparmio di tempo e costi. Verso il 1662,
a 53 anni, Riquet, ormai uomo affermato, decise di realizzare il sogno della sua vita, la costruzione del Canale
che avrebbe permesso di collegare il Mediterraneo
all’Atlantico. A tale progetto Riquet dedicò tutto se
stesso; alla sua morte, avvenuta il 1 ottobre 1680 a Tolosa, i lavori erano quasi terminati ed il mare Mediterraneo si trovava a sole poche miglia dall’Atlantico.
Un anno dopo il Canale fu inaugurato dai rappresentanti del Re.
43. Il Canal du Midi fu costruito tra il 1663 ed il 1680.
Numerosi progetti erano stati sottoposti al Re di Francia, tuttavia nessuno era riuscito a risolvere il problema
tecnico legato al cambiamento di versante e all’alimentazione delle acque del futuro canale. La principale difficoltà del progetto consisteva, inoltre, nel dover far
passare battelli molto pesanti dal versante mediterraneo
al versante atlantico e viceversa, superando un dislivello di 190 metri. Soltanto una fornitura regolare d’acqua, a portata costante e distribuita uniformemente fra
le varie chiuse, avrebbe potuto risolvere questa difficoltà, e fu pertanto questo il primo problema a cui Riquet si dedicò. Accompagnato da un radioestesista,
Pierre Campmas, percorse la Montagna Nera, rendendosi conto che l’acqua, in quella regione, era abbondante; raccogliendo le acque della Montagna Nera e
riversandole dal versante mediterraneo al fiume Sor,
che si getta nell’Atlantico, Riquet risolse il problema
dell’alimentazione del Canale, riuscendo nell’impresa,
ritenuta impossibile, di far scorrere l’acqua simultaneamente verso il Mediterraneo e verso l’Oceano. Attualmente il Canale, navigabile nell’intera lunghezza di
496 km, collega l’Atlantico al Mediterraneo ed unisce,
attraversando le colline all’ombra dei Pirenei, le due
regioni dell’Aquitania e della Linguadoca.
44. Philippe de la Hire (Parigi 18 marzo 1640 - Parigi 21
aprile 1718) iniziò la sua formazione in campo artistico, apprendendo le nozioni fondamentali del disegno
e della pittura. In seguito ad un viaggio di studio in Italia si appassionò anche allo studio della geometria, dedicandosi ad approfondire le sue applicazioni nel
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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campo della prospettiva. Tra le sue opere sono da ricordare la Nouvelle méthode en géometrie pour les sections des superficies coniques et cylindriques, del 1673
e le Sectiones conicae, del 1675, in cui riprende alcune
delle teorie di Desargues. Dal 1678 fu membro dell’Académie Royale des Sciences, occupandosi di matematica, architettura, astronomia.
45. Sébastien Le Prestre de Vauban (Saint-Léger-deFoucherest 4 maggio 1633 - Parigi 30 marzo 1707), Ingegnere del Re e Commissario generale delle
fortificazioni. Tra le sue opere è opportuno, in questa
sede, ricordare quelle in ambito idraulico, tra cui, oltre
all’acquedotto di Maintenon, il Canal de la Bruche,
costruito per trasportare a Strasburgo i mattoni necessari per la fortificazione della cittadella e, in Alsazia, il
Canal Vauban, da Pfaffenheim a Neuf-Brisach, anch’esso impiegato per il trasporto del materiale da costruzione necessario per la realizzazione della nuova
città di Brisach. È inoltre da ricordare il suo intervento
migliorativo al Canal du Midi, in seguito ad alcune
problematiche emerse a causa della troppo rapida
messa in funzione del canale stesso.
46. Di questa struttura, al giorno d’oggi, si possono vedere
solo alcuni resti della parte realizzata, ben poca cosa
rispetto ad un’opera che sarebbe stata lunga più di cinque chilometri, alta circa settanta metri e che avrebbe
dovuto avere tre ordini di arcate, sul modello del Pont
du Gard.
47. Nel realizzare il Parco di Maintenon, André Le Nôtre
utilizzò le potenzialità scenografiche delle arcate, ancora incompiute, creando un canale che, passando al
di sotto, permettesse il riflesso della struttura. La costruzione dell’acquedotto di Maintenon fu definitivamente abbandonata nel 1710.
stello Du Barry; dopo l’arresto della prima Macchina
questo fu rimpiazzato da una peschiera.
50. Costruito nel 1685 questo “muro” fu demolito e sostituito da una tubazione in ghisa nel 1736.
51. Dopo la morte di Luigi XIV, inoltre, le fontane pubbliche furono chiuse e le acque potabili deviate nelle
proprietà dei ricchi borghesi. Bisognò attendere il 1736
perché l’acqua della Senna potesse ricomparire a Versailles.
52. Attualmente la sorgente costituisce un piccolo originale
ecosistema formato da concrezioni, dovute ai depositi
salini, e da una vegetazione semi-acquatica di piante e
di alghe.
53. A proposito del rumore insopportabile Madame d’Houdetot così scriveva nel 1778: «Ces efforts redoutables
et ces gémissements / Cet appareil de fer et ces grands
mouvements / Offrent partout aux sens la nature offensée / Elle semble gémir d’avoir été forcée / Et cédant
à regret aux engraves de l’art / Aux caprices des rois
se plaint d’avoir part». Historique de la Machine de
Marly…, cit., pannello 6.
54. Incaricato della sorveglianza e manutenzione di questo
prezioso patrimonio è il Servizio delle Fontane di Versailles, Marly e Saint-Cloud, ribattezzato Servizio delle
Fontane del Castello, che tenta di salvaguardarne lo
stato di funzionamento originale. Lo stato di conservazione delle strutture permette di utilizzare ancora circa
200 chilometri di canali, fossati, acquedotti esistenti
nei dintorni di Versailles, anche se attualmente l’approvvigionamento idrico risulta preoccupante, sia per
la quantità d’acqua, sia per la qualità.
55. L’attuale consumo idrico è stimato in circa 8.000 m3
per le Grandi Acque e 6.000 m3 per le Piccole Acque.
48. Questa disposizione sussiste ancora oggi, ma il canale
navigabile è stato allargato e provvisto di chiuse.
56. Antonio SANCIO, Platea dello Stato di Caserta, 1826,
sezione IV, descrizione preliminare, p. 189.
49. Il serbatoio di Mezza Costa è una grande vasca circondata dagli alberi, largo 20 metri per 140 di lunghezza
e 3,50 di profondità, con una capienza di più di 7.000
m3. Per assicurare la sua tenuta, due pareti in muratura,
spesse circa 80 cm, serravano un muro d’argilla compressa largo 1 cm; dal lato del serbatoio, inoltre, il coronamento del muro interno era costituito da grandi
pietre tagliate. Dopo il suo abbandono, alla fine del secolo scorso, era stato progressivamente ricoperto dalla
vegetazione; attualmente è possibile valutare la sua tecnica di costruzione grazie ad una estremità liberata, che
permette di apprezzare, inoltre, l’ampiezza dell’opera
e la sua struttura. Un serbatoio identico, ma più piccolo, era situato più in alto, nell’attuale parco del Ca-
57. Le parole di Maria Amalia di Sassonia sono contenute nella lettera di Luigi Vanvitelli al fratello Urbano del
2 aprile 1759, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. II,
p. 327.
58. In un’altra occasione la regina si trovò a dire che «considerava più la conduzzione dell’acqua che quasi la fabrica del Palazzo, essendo cosa da antichi Imperatori».
Luigi Vanvitelli, lettera del 15 dicembre 1753 al fratello Urbano. Ivi, vol. I, p. 284.
59. «Ci vuole dell’acqua, e questa in tutti li conti si averà
da portare ove sarà, o sia vicina o sia lontana; lascia
passare la stagione rigorosa e poi anderai a visitare et
esaminare tutto, perché l’acqua deve venire per fare
109
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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questa delizia». Le parole di Carlo di Borbone sono riportate da Luigi Vanvitelli nella lettera del 14 dicembre
1751 al fratello Urbano. Ivi, vol. I, p. 77.
60. Antonio SANCIO, op. cit., p. 1899.
61. Nella lettera di Vanvitelli al fratello Urbano, datata 8
febbraio 1752, si legge: «Ieri mattina (…) subito montai a cavallo et andiedi sul monte di Caserta, per dove
era già partito il Cavaliere Neroni per precedere il Re.
Lo precedei ancor io per 200 passi, e fu bastante perché
io arrivassi ad aspettarlo alla sorgente di Atalena. Egli
dunque con tutta la comitiva vi arrivò, vidde et esaminò l’acqua che è libre 5 limpidissima e perenne
anche l’estate; gli piacque assaissimo, non avendone
veduta la consimile». E ancora: «il Re non solo vuole
condurre quella, ma ancora una grossa quantità che
nasce 112 miglia lontano». Franco STRAZZULLO, op.
cit., vol. I, pp. 110-111.
62. Si confronti, ad esempio, la lettera del giorno 11 dicembre 1751 al fratello Urbano, in cui Vanvitelli riporta alcune parole del re: «Sai, Vanvitelli, che oggi,
riguardando quei monti ove tu vuoi prendere l’acqua a
livello di occhio, credo che puotrai prendere anche
quelle altre acque che mi hai detto, e voglio che un
giorno andiamo insieme per vederle, volendovi io essere presente alla livellazione». Ivi, vol. I, p. 75.
63. Piuttosto ironico, Vanvitelli fornisce una descrizione
del tipo di acqua che giungeva a Napoli: «L’acqua che
si prenderà (…) si è pensato che dopo che averà servito
alli Giardini Reali mediante un fosso si rimanderà
nell’altro fosso che la conduce a Napoli. Non vi stupite
se parlo di fosso, perché presentemente in un fosso
scuoperto che raccoglie l’acqua torbida del fiume, delle
macere delle canape, ogni imondizia, scoli delli campi
e delle vie, come la marana di Roma, se ne va a Napoli
per le fontane e per li formali. E viva la pulizia!». Luigi
Vanvitelli, lettera del 6 maggio 1752 al fratello Urbano.
Ivi , vol. I, p. 153.
verse volte fino a che sia stabilito con molte stazioni
fisse l’andamento dell’Acquedotto. L’operazione è difficile, ma spero in Dio che la farò bene». Ivi, vol. I, p.
160.
68. Il 2 giugno 1758 così Luigi scrive al fratello Urbano:
«In questi giorni, per tirare avanti con tutta la possibile
sollecitudine, Collecini e Carlo facevano la strada livellando; Pietro e Bernasconi con la tavoletta facevano
la strada formando la pianta; il dopo pranzo poi si permutavano li figlioli, facendo l’uno quello che l’altro
faceva la mattina». Ivi, vol. II, p. 224.
69. Antonio SANCIO, op. cit., pp. 189-190.
70. Luigi Vanvitelli, lettera del 30 novembre 1751 al
fratello Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I,
p. 68.
71. VELLEIO PATERCOLO, Historiae Romanae, II, 81, 2.
72. DIONE CASSIO, Historia Romana, XLIX, 14, 5.
73. «Era quest’acqua di tale squisitezza, ch’ebbe il merito
di essere considerata come un singolare modello di salubrità, perché semplicissima, ed ornamento dell’amenità, perché limpidissima. Ma poiché gli Storici,
soltanto per incidenza di quest’acqua favellando, niuno
ne indicò la sorgente, bastevolmente però ce la mostrarono le sparse vestigia del Romano acquedotto, che
dalle vicinanze dell’antica Capua verso il Casale di
Santa Prisca ed in Maddaloni sotto il margine dei
monti Tifata, verso i confini del Sannio c’indrizzano».
Antonio SANCIO, op. cit., p. 190.
74. Ivi, p. 191.
75. Ivi, p. 192.
76. Ivi, p. 194.
77. In seguito le acque dell’Acquedotto Carolino provvidero anche ad azionare un nuovo mulino, costruito nel
1807 tra le sorgenti del Fizzo ed il comune di Bucciano.
64. Luigi Vanvitelli, lettera del 15 agosto 1753 al fratello
Urbano. Ivi, vol. I, p. 253.
78. Luigi Vanvitelli, lettera del 6 giugno 1752 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 168.
65. Luigi Vanvitelli, lettera del 13 maggio 1752 al fratello
Urbano. Ivi, vol. I, p. 157.
79. Luigi Vanvitelli, lettera del 14 luglio 1754. Ivi, vol. I,
p. 338.
66. Luigi Vanvitelli, lettera del 15 novembre 1751 al fratello Urbano. Ivi, vol. I, p. 59.
80. Antonio SANCIO, op. cit., p. 192.
67. Ad esempio, nella lettera di Vanvitelli al fratello Urbano, del 20 maggio 1752, si legge: «Li Giovani lavorano alla livellazione, avendogliela fatta incominciare
dalli Giardini alla sorgente; e già sono arrivati vicino
alla medesima. Lunedì poi, a Dio piacendo, si farà l’altra livellazione dalla sorgente alli Giardini; e così di-
110
81. Vanvitelli definisce «acqua grande» i lavori svolti per
l’Acquedotto a partire dalle sorgenti del Taburno, ed
«acqua piccola» i lavori compiuti sui monti circostanti
la Reggia. Si confronti, ad esempio, la lettera al fratello
Urbano del 4 giugno 1753, da cui è tratta la citazione,
in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 234.
82. Per convogliare le acque della sorgente di Atalena
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
________________________________________________________________________________________________
venne costruito un acquedotto lungo più di tre miglia.
Si veda la lettera di Luigi Vanvitelli al fratello Urbano
del 31 maggio 1763. Ivi, vol. III, p. 56.
83. «Quella delle Fontanelle, che anderà sopra del Monte
Briano incontro la fabrica Reale, e sarà la prima acqua
che si vederà scherzare con tutto che sarà picciola,
nulla di meno farà un bel vederla in una cima di Monte,
e servirà per provigione alla fabrica fino che si condurrà la grande». Relazione non datata e non stilata da
Vanvitelli sullo stato dei lavori in corso nella reggia di
Caserta, nel parco reale e alla conduzione delle acque.
Ivi, vol. I, p. 294.
84. La compresenza di più cantieri è perfettamente riscontrabile nei resoconti che Vanvitelli scrive al fratello Urbano. Nella lettera del 21 maggio 1753, ad esempio, si
legge: «Sabato matina si pose la prima pietra dell’acquedotto alle sorgenti di Airola». Ma notizie sul traforo
del monte Tifata si trovano già il 19 febbraio dello
stesso anno: «Sono stato al monte di Caserta a dirigere
li minatori». Ivi, vol. I, rispettivamente alle pp. 227 e
199.
85. Relazione non datata e non stilata da Vanvitelli sullo
stato dei lavori in corso nella reggia di Caserta, nel
parco reale e alla conduzione delle acque. Ivi, vol. I,
pp. 294-296. Ulteriori testimonianze della compresenza di numerosi cantieri lungo tutto il percorso dell’acquedotto si trovano, ad esempio, nelle lettere del 7
ottobre e del 4 novembre 1760. In particolare in
quest’ultima si legge: «Tre sono i lavori sull’acquedotto, nello spazio di sei miglia, disposti in distanza
eguale; chi prima finisce aiuta il compagno». Ivi, vol.
II, p. 623.
86. Luigi Vanvitelli, lettera del 15 maggio 1762 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, p. 828.
87. Pur non disponendo di strumenti tecnologicamente
avanzati, l’architetto eseguì sempre con assoluta precisione i necessari calcoli. Sembra che, prima di dare inizio ai lavori, Vanvitelli avesse collocato alcune tavole
sul monte Briano, nel punto dove l’Acquedotto, dopo
il lungo cammino, sarebbe dovuto arrivare e che, a
conclusione dei lavori, l’acqua giunse esattamente nel
punto fissato molti anni prima. L’informazione è tratta
da Francesco CANESTRINI, Maria Rosaria IACONO,
L’Acquedotto Carolino, Ministero per i BB.AA.CC.,
Soprintendenza per i BB.A.A.A.S. di Caserta e Benevento, s.d.
88. Vanvitelli aveva a disposizione un numero elevatissimo
di manodopera, che gli permise di accelerare notevolmente i lavori nei tratti più agevoli. Ad esempio tra il
monte Ciesco ed il fiume Faenza si hanno indicazioni
che parlano di circa 600 persone impiegate a «cavare
e murare» in un tratto «già lungo più di palmi 2000 Napolitani». Luigi Vanvitelli, lettera del 28 agosto 1753 al
fratello Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol.
II, p. 258.
89. Antonio SANCIO, op. cit., p. 192.
90. Ivi, pp. 192-193.
91. Si riportano le dimensioni descritte nella relazione non
datata e non stilata da Vanvitelli sullo stato dei lavori
in corso nella reggia di Caserta, nel parco reale e alla
conduzione delle acque, in Franco STRAZZULLO, op.
cit., vol. I, pp. 293-294. Per il medesimo ponte, nella
Platea del Cavalier Sancio si trova scritto: «Si traversò
tutta la valle e fiume con l’inalzamento di un muro e di
un ponte di tre archi / occupandosi lo spazio di circa
settecento palmi». Antonio SANCIO, op. cit., p. 193.
92. Luigi Vanvitelli, lettera del 30 marzo 1754 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 321.
Nella Platea del Cavalier Sancio è riportato, come
anno dell’iscrizione, il MDCCLIV. Antonio SANCIO,
op. cit., p. 193.
93. Antonio SANCIO, op. cit., p. 193.
94. Ivi, p. 192.
95. Luigi Vanvitelli, lettera del 14 luglio 1754, in Franco
STRAZZULLO, op. cit., vol. I, pp. 337-338.
96. Antonio SANCIO, op. cit., p. 194.
97. Si confronti, a tal proposito, la lettera di Luigi Vanvitelli al fratello Urbano del 7 ottobre 1760, in Franco
STRAZZULLO, op. cit., vol. II, pp. 601-602.
98. Antonio SANCIO, op. cit., p. 194.
99. Ivi, p. 195.
100. Luigi Vanvitelli, lettera del 19 luglio 1754 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, pp.
342-343. È facile riconoscere nel monte di tufo il
monte Prato ed in quello vicino il monte Ciesco.
101. Poiché questa era la prima nuova opera da realizzare
al principio del regno di Ferdinando IV, Vanvitelli
avrebbe voluto apporre sui fianchi del ponte, in analogia a quanto fatto sul fiume Faenza, un’iscrizione celebrativa del nuovo sovrano, ma il testo venne
bloccato dal ministro Tanucci e dell’iscrizione non se
ne parlò più. È il primo segno del cambiamento di trattamento nei confronti di Vanvitelli nel passaggio dal
regno di Carlo III al periodo della reggenza.
102. Antonio SANCIO, op. cit., p. 195. Il traforo indicato
dal Sancio è quello del monte Croce.
103. Relazione non datata e non stilata da Vanvitelli sullo
111
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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stato dei lavori in corso nella reggia di Caserta, nel
parco reale e alla conduzione delle acque, in Franco
STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 295.
104. Luigi Vanvitelli, lettera del 11 giugno 1763 al fratello
Urbano. Ivi, vol. III, p. 58.
105. Cfr. la lettera di Luigi Vanvitelli al fratello Urbano del
4 marzo 1766. Ivi, vol. III, p. 258.
106. Antonio SANCIO, op. cit., p. 202.
107. Si confronti la lettera di Luigi Vanvitelli al fratello Urbano del 11 ottobre 1760, in Franco STRAZZULLO, op.
cit., vol. II, p. 604.
108. Il 7 ottobre 1760 così Vanvitelli scriveva al fratello
Urbano: « Al monte della Croce, distante dal Ponte
circa 9000 palmi, delli 1500 palmi di traforo ne mancano soli 160, ma qua nel mezzo del monte è un vero
osso indiavolato, perché a cagione delle mofete, che
levano il respiro, non ci si puol lavorare. Questa notte
io ci faccio provare a lavorare, perché di notte le mofete non tramandano tanto. Insomma per pochi passi
che mancano, si pena molto, ma si supererà alla peggio nel grande Inverno». Ivi, vol. II, p. 602.
109. Si confronti la lettera di Luigi Vanvitelli al fratello Urbano del 12 luglio 1760. Ivi, vol. II, p. 548.
110. «Una mofeta sortita da dentro il traforo del Monte della
Croce à ucciso con l’alito un operario, e poco mancò
che uccidesse il Capo Mastro ed altri quattro, onde Giovedì arrivai a proposito per dare coraggio e tirare avanti,
dopo che avrà svaporato». Luigi Vanvitelli, lettera del
11 ottobre 1760 al fratello Urbano. Ivi, vol. II, p. 604.
111. Luigi Vanvitelli, lettera del 21 marzo 1761 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, pp. 680-681.
112. Luigi Vanvitelli, lettera del 14 aprile 1761 a Don Almerico Pini. Ivi, vol. II, pp. 692-693.
113. Luigi Vanvitelli, lettera del 2 maggio 1752 al fratello
Urbano. Ivi, vol. I, p. 149.
114. Nella Platea del Cavalier Sancio, a tal proposito si
legge: « Mentre le parti dell’acquedotto più dispendiose e difficili a costruirsi rimangono sotterra sepolte,
questa mole magnifica, sola, può dirsi, esposta alla
luce, dovea almeno conservare alla memoria e dei Re
successori e dè beneficati Vassalli, il nome dei magnifici Monarchi, che ne furono gli autori». Antonio SANCIO, op. cit., pp. 196-197.
115. Il testo delle due iscrizioni è ripreso dalla lettera di
Luigi Vanvitelli al fratello Urbano del 15 dicembre
1753, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 284.
Nella Platea del Cavalier Sancio il nome di Vanvitelli
è posto solo su una delle due iscrizioni.
112
116. Per la spiegazione del nome dell’Acquedotto si confronti la lettera di Luigi Vanvitelli al fratello Urbano
del 1° aprile 1760, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol.
II, p. 495.
117. È tuttavia singolare che per un’opera di tali dimensioni
la spesa complessiva sostenuta dalla Reale Amministrazione ammontò a poco più di settecentomila ducati. Una spesa molto contenuta soprattutto se messa
a confronto, ad esempio, con le somme impiegate per
realizzare, a suo tempo, l’acquedotto Claudio.
In un’annotazione, non firmata ma attribuibile a Vanvitelli, si osserva come l’acquedotto Claudio, lungo
38 miglia romane, costò 13.875.000 scudi romani,
mentre quello casertano, lungo 28 miglia romane, costava circa 600.000 ducati di Napoli equivalenti a
450.000 scudi romani. «O le arti, rese più perfette, facilitano i travagli; o l’uso ignoto allora, della polvere
incendiaria, abbrevia le fatighe; o gli antichi scrittori
cercavano di sorprendere la credulità de’ posteri; o
l’oro de’ principi passa ora per mani di direttori più
fedeli». Le parole di Vanvitelli sono riportate da Antonio GIANFROTTA in, Caserta e la sua Reggia..., cit.,
p. 53.
118. Antonio SANCIO, op. cit., p. 196.
119. Anche la ferriera fu trasformata in mulino nel 1822.
120. Relazione non datata e non stilata da Vanvitelli sullo
stato dei lavori in corso nella reggia di Caserta, nel
parco reale e alla conduzione delle acque, in Franco
STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 295.
121. Antonio Sancio, op. cit., p. 196.
122. Ibidem.
123. Ibidem.
124. Luigi Vanvitelli, lettera del 7 aprile 1756 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 533.
125. A tal proposito le parole di Vanvitelli riportate nella
Platea del Cavalier Sancio ci informano che: «quanto
più malagevoli sono le imprese tanto più sogliono invogliare le anime grandi e generose. Avvertito il Re
della difficoltà di forare il monte di Garzano, comandò
subito che si forasse». Antonio SANCIO, op. cit., p. 199.
126. Luigi Vanvitelli, lettera del 11 gennaio 1756 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 505.
127. Luigi Vanvitelli, lettera del 20 marzo 1758 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, p. 193.
128. «Si assalì per tanto dai due opposti lati il duro monte,
e sviscerandolo di qua e di là collo scalpello, e sminuzzandolo colle mine, dopo tre anni d’incessante
La lunga strada dell’acqua. Problematiche e soluzioni dell’approvvigionamento idrico da Versailles a Caserta
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travaglio giorno e notte, finalmente alli 23 di Marzo
del 1759 così direttamente s’incontrarono gli opposti
operai, come se al cielo scoperto lavorato avessero a
scavare il forame, che è lungo, dall’ingresso dopo gli
archi all’uscita di là dal monte, palmi 6250 = un
miglio e palmi 250». Antonio SANCIO, op. cit., p. 199.
129. Luigi Vanvitelli, lettera del 24 marzo 1759 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. II, p. 318.
130. Luigi Vanvitelli, lettera del 2 aprile 1759 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, p. 327.
131. Luigi Vanvitelli, lettera del 23 maggio 1760 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, p. 519.
132. Luigi Vanvitelli, lettera del 20 aprile 1762 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, pp. 814-815.
133. Luigi Vanvitelli, lettera del 11 maggio 1762 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, p. 825.
134. Luigi Vanvitelli, lettera del 4 maggio 1762 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, p. 822.
135. Di tale apertura Vanvitelli pensò di avvalersi anche in
seguito quando qualche personaggio di rango voleva
recarsi in visita all’Acquedotto non ancora terminato.
Si legge nella lettera del 27 marzo 1764: «È pervenuta
notizia che il Duca di Jorck verrà dopo Pasqua. Corre
voce che il Re, nel giorno che lo tratterrà a pranzo a
Caserta, gli voglia dare il divertimento di vedere l’acqua. Se ciò fosse, io proporrò di farla cadere dagl’Archi della Valle, nel sito stesso, ove cadeva, allor
quando poi, alla venuta del Re si mandò, chiudendo
quell’esito a cadere al luogo della mostra. E qui
agl’Archi forma una veduta magnifica, naturale e rustica, perché alla prima cadeva per più di palmi 80,
che sembrava la cascatella di Tivoli, indi poi, per balze
di sassi, in varie guise discendeva spumante fin’al più
basso della strada, vicino l’arco maggiore, ove si nascondeva in un chiavicone e passava a scaricarsi in un
fosso vicino». Ivi, vol. III, p. 135.
136. Luigi Vanvitelli, lettera del 30 aprile 1762 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, p. 821.
137. Luigi Vanvitelli, lettera del 4 maggio 1762 al fratello
Urbano. Ivi, vol. II, p. 822.
138. «Fra le molte minchionerie che dicevano, che l’acqua
ritornava addietro, ve ne era un’altra in campo [e cioè]
che l’acqua non poteva mai passare per il traforo, perché era sbagliato il livello e la compressione dell’aria
ne avrebbe impedito l’effetto, ancora che avesse avuto
pendenza. Oh che filosofastri da comedia! Li esperimenti, che adesso da molti si fanno, credono adattabili
a tutte le cose, ma l’errore è massimo e molti mattematici vanno sbagliando nella maggior parte delle pratti-
che, alle quali sole conviene adattare le teorie della
matematica e studiarvi le ragioni dapoi, cioè dopo l’effetto, e siccome gli effetti sono diversi, a queste diversità non si puole dare il principio certo di una sol
teoria, la quale serve per bel fondamento di discorso,
ma non già di effetto plausibile». Luigi Vanvitelli, lettera del 4 maggio 1762 al fratello Urbano. Ivi, vol. II,
p. 823. Nella lettera del 15 maggio 1762 si legge ancora: «Vi era un frate matematico, che diceva non puoter venir l’acqua. Quando il Re Cattolico promise di
rimandar tutta l’acqua che prendeva al formale della
Città di Napoli, il Consesso Senatorio della Città deputò tre architetti napolitani periti per riconoscere se
poteva fallire questa promessa, per impossibilità. Questi tre, dopo essersi divertiti un giorno, chi sa a che
fare, mal a proposito fecero la perizia, ove scritto e a
voce riferirono che l’acqua da Caserta certamente poteva ritornare nel formale di Napoli, ma certamente
ancora non era possibile che l’acqua puotesse mai e
poi mai venire in Caserta. (…) mi dispiace a me, ché
io, adempiendo quello che dovevo nell’assunto di condur l’acqua, ne sia resultato ad evidenza innegabile all’Eccellentissima Città che li periti loro sono assai
imperiti, onde faranno male giammai in avvenire fidarsi delle loro assertive, perché solo il caso li guida
e non la scienza, che aver dovrebbero delle cose che
ardiscono trattare». Ivi, vol. II, pp. 827-828.
139. Antonio SANCIO, op. cit., pp. 199-200.
140. «Forsi in breve si dovrà fare la livellazione da Caserta
verso Napoli, per stabilire il ritorno dell’acqua». Luigi
Vanvitelli, lettera del 19 marzo 1763 al fratello Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. III, p. 31.
141. «Per la cerimonia della mostra delle acque l’architetto
Francesco Collecini presenta un preventivo di spesa
di 2.000 ducati circa. Vanvitelli anticipa a Neroni l’ordine sovrano di non oltrepassare i 400-500 ducati.
Emerge dal documento la consapevolezza dell’architetto di doversi muovere entro i limiti finanziari alquanto ristretti, ma anche la determinazione a
raggiungere lo scopo prefissato, superando ogni ostacolo. In effetti per i lavori necessari ai piedi del monte
Briano: sradicamento di olivi per la formazione di uno
spiazzo e successiva ricollocazione delle piante, trasporto di 2.000 tavole di legname dal Real palazzo a
Monte Briano, pagamento a falegnami, fabbri e “paratori” per l’allestimento del palco destinato ai sovrani, affitto di calessi utilizzati dal Collecini e dal
capomastro Calo Patturelli per assistere ai lavori, si
spenderanno complessivamente ducati 888.60 7/2». La
citazione è tratta dal commento di Antonio Gianfrotta
alla lettera di Vanvitelli del 24 aprile 1768, in Mano-
113
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
scritti di Luigi Vanvitelli nell’archivio della Reggia di
Caserta 1752-1773, a cura di Antonio Gianfrotta, Ministero BB.AA.CC. ufficio centrale per i beni archivistici, Roma, 2000, p. 182.
142. L’informazione, tratta da Giuseppe Maria Galanti, è
riportata da Ciro ROBOTTI, Francesco STARACE, Il disegno di architettura, l’antico, i giardini, il paesaggio,
Capone editore, Lecce, 1992, p. 141. In realtà le ricognizioni compiute negli ambienti del sottotetto non
hanno rilevato la presenza di strutture atte a sostenere
il carico di una conserva d’acqua.
143. Nella lettera di Luigi Vanvitelli al cavalier Neroni, del
31 ottobre 1768, si legge: «dovendosi proseguire il travaglio sul monte Briano per la conserva delle acque,
nel qual sito si ritrovano alcuni alberi di olivo, converrà quelli trapiantare o recidere, per il travaglio sudetto». Manoscritti di Luigi Vanvitelli..., cit., p. 210.
144. Precisa Antonio Gianfrotta, commentando la lettera di
Vanvitelli del 15 marzo 1770, che tale condotta, si
trova alla sinistra del Palazzo, sotto la strada della
Santella, e da lì prosegue verso S.Benedetto e verso
Napoli. Ivi, p. 235.
145. Luigi Vanvitelli, lettera del 15 marzo 1770 al ministro
Tanucci. Ivi, p. 234.
146. Luigi Vanvitelli, lettera del 28 agosto 1753 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. I, p. 260.
147. «Sappi che io non averò da comprare piombo per li
condotti delle fontane, e né pure il ferro per le canne
delle fontane maggiori; ho aperta una nuova miniera
di piombo che mi rende il 100 per 100, et ho fatto venire da Sassonia li minatori, i quali cavano felicemente». Le parole del re sono citate da Luigi
Vanvitelli nella lettera del 13 maggio 1752 al fratello
Urbano. Ivi, vol. I, p. 156.
148. Arnaldo VENDITTI, Carlo Vanvitelli da collaboratore
ad epigono dell’arte paterna, in Luigi Vanvitelli e il
‘700 europeo..., cit., vol. II, p. 145.
149. A.R.Ce., I.R.A., busta 1891: 505, comunicazione del
10 aprile 1837.
150. Ivi, relazione del 30 giugno 1837.
114
151. Antonio SANCIO, op. cit., pp. 200-201.
152. Luigi Vanvitelli, lettera del 11 giugno 1770 al cavalier
Neroni, in Manoscritti di Luigi Vanvitelli..., cit., p.
253.
153. Alcuni provvedimenti di tutela del percorso degli acquedotti, sia in superficie, sia sotterranei, erano già
parte della legislazione romana. Così vengono descritti da Frontino nella sua opera: «Quod Q. Aelius
Tubero Paulus Fabius Maximus consules verba fecerunt aquarum quae in urbem venirent itinera occupari
monumentis et aedificiis et arboribus conseri, quid facere placeret, de ea re ita censuerunt: cum ad reficiendos rivos specusque per …+… quae et opera publica
corrumpantur, placere circa fontes et fornices et
muros utraque ex parte quinos denos pedes patere et
circa rivos qui sub terra essent et specus intra urbem
et extra urbem continentia aedificia utraque ex parte
quinos pedes vacuos relinqui ita ut neque monumentum in is locis neque aedificium post hoc tempus ponere neque conserere arbores liceret; si quae nunc
essent arbores intra id spatium, exciderentur, praeterquam si quae villae continentes et inclusae aedificiis
essent».
FRONTINO, De aquae ductu, testo stabilito, tradotto e commentato da Pierre Grimal, Les Belles Lettres, Parigi,
1944, CXXVII.
154. Giuseppe GHIGIOTTI, op. cit., vol. II, p. 59.
155. «Il grande parco incide, con la sua dimensione, nella
stessa organizzazione territoriale, riallacciando e coinvolgendo la montagna povera del Tifata, che verrà fortemente caratterizzata dalla successiva realizzazione
di S.Leucio. Il Tifata è arido, e nell’addurre acqua alla
grande cascata ed ai bacini del parco, attraverso l’Acquedotto Carolino si incrementa ulteriormente l’urbanizzazione e l’agricoltura: l’intera concezione
vanvitelliana è interpretabile sotto il profilo urbanistico e territoriale ed è riconducibile alla futura città di
cui non la sola Reggia, ma tutte le opere connesse potrebbero costituire premessa». Lorenzo PAGLIUCA, Caserta ed il territorio, in Luigi Vanvitelli e il ‘700
europeo..., cit., vol. II, pp. 415-416.
________________________________________________________________________________________________
3. DI FONTANA IN FONTANA.
IL RACCONTO DELL’ACQUA NEL PARCO DI CASERTA
L’animus del giardino, la sua specificità è affidata al
Genius Loci i cui templi e le cui statue si erigono immancabilmente nel nuovo giardino.1
Tra le tavole della Dichiarazione, presentata nel
1751 ai sovrani di Napoli, Carlo di Borbone e
Maria Amalia, solo tre disegni – e precisamente
la tav. I, consistente in una planimetria, e le tavv.
XIII e XIV, due vedute a volo d’uccello – documentano le intenzioni di Luigi Vanvitelli riguardo
alla sistemazione dell’area destinata al giardino.
In essi l’architetto si sofferma con particolare attenzione sulla zona limitrofa all’edificio, della
quale fornisce una descrizione minuziosa in ogni
dettaglio. Nonostante l’estrema precisione nella
descrizione del progetto, l’immagine attuale del
Parco è, però, completamente diversa da quella
che sarebbe dovuta essere secondo i disegni pervenutici e la motivazione non sembra essere riconducibile esclusivamente all’incompiutezza
dei lavori.
Alla morte di Vanvitelli, infatti, nessuna delle diciannove fontane progettate era stata realizzata.
Della prosecuzione dei lavori fu incaricato, come
prevedibile, il figlio Carlo, il quale «aveva a suo
favore sia la precisa conoscenza delle idee paterne, sia numerosi disegni, schizzi, modelli ed
appunti lasciatigli dal padre»2. Tuttavia, osserva
Arnaldo Venditti, il compito di Carlo sarebbe
stato più semplice «se egli non avesse dovuto affrontare il duplice problema del rapporto con
l’eredità paterna e dell’indispensabile rinnovamento, impostogli dall’evoluzione del gusto e
della società»3.
Se a questo si aggiungono anche le notevoli difficoltà dovute alla mancanza del sostegno da
parte del nuovo sovrano – con conseguente carenza di fondi destinati all’opera – si comprende
come il Parco realizzato – o, per meglio dire, la
parte realizzata del Parco – non possa esprimere
compiutamente l’idea performativa che era alla
sua base.
Come mai, dunque, si è arrivati alla costruzione
di fontane completamente diverse da quelle inizialmente ipotizzate?
E quale sarebbe stata l’immagine complessiva del
Parco se fosse stato realizzato l’intero progetto?
Per comprendere meglio tale questione occorre
innanzitutto analizzare i disegni della Dichiarazione rivolgendo l’attenzione, in primo luogo,
proprio alla tavola I e alla genesi della planimetria.
Luigi Vanvitelli, Dichiarazione dei Disegni del reale Palazzo di Caserta..., Tav.I, Planimetria, 1756.
115
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Analisi del primo progetto per il Parco
Chiara è, anche a prima vista, l’impronta del progetto dovuta ai modelli francesi, di cui, Vanvitelli,
sembra riproporre lo schema compositivo derivato, molto probabilmente, dall’attenta lettura del
trattato di Dézallier d’Argenville.
Ad una estremità del lotto di terreno è infatti collocato il palazzo reale, mentre, di fronte, un’esedra verde sembra costituire il fondale della
visione ottenuta percorrendo l’asse centrale. Tuttavia l’attenzione alla natura del luogo ed alle
preesistenze – il cui riutilizzo avrebbe comportato
anche notevoli risvolti in termini economici –
non ha prodotto la pedissequa ripetizione di uno
schema attraverso la semplice costruzione di elementi ex-novo. Come già osservato, alcune delle
aree del giardino dei principi Acquaviva, sopravvissute all’incuria del tempo, vennero inserite nel
nuovo impianto ortogonale, pur mantenendo cia-
scuna le proprie peculiarità ed irregolarità. Come
ricorda anche Anna Giannetti, nella Pianta Generale – la tav.I della Dichiarazione – il casino e il
Bosco Vecchio, insieme ai tre piccoli giardini ed
al frutteto che circondavano il vecchio palazzo
baronale, sono disposti simmetricamente rispetto
alla nuova Reggia. A queste preesistenze Vanvitelli «prevedeva di aggiungere un “Salone con
Portico interno di verdura con parterre all’inglese
e due Fonti di Amore e Psiche” e un altro coperto
a pergolato con la fontana di Narciso e di Eco»4,
che avrebbero completato e bilanciato la composizione5. Un indizio della volontà di mantenere le
preesistenze degli Acquaviva sembra emergere
anche dalle istruzioni fornite, nel 1763, al capo
giardiniere Martino Biancourt, per rispettare gli
elementi formali nel momento in cui avrebbe dovuto «intervenire nel Bosco Vecchio» per «risarcire di piante o semenze alcuni siti»6.
Il punto di partenza sembra, pertanto, essere la
Antoine-Joseph Dézallier d’Argenville, Pianta di un magnifico giardino su un unico livello, in La Theorie et la Pratique du jardinage, 1739.
Luigi Vanvitelli, Planimetria della reggia e del parco in un
disegno precedente all’edizione della Dichiarazione del
1756.
116
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Luigi Vanvitelli, Dichiarazione dei Disegni del reale Palazzo di Caserta..., Tav.XIII, Veduta a volo d’uccello della reggia
e del parco, 1756.
volontà di mantenere il più possibile di quanto,
del parco degli Acquaviva, caratterizzava ancora,
evidentemente con forti segni, il territorio circostante la nuova costruzione. Tuttavia risulta limitativo pensare che tutto il Parco fosse già stato
ideato da Vanvitelli all’epoca della Dichiarazione, tantomeno unicamente in termini di riutilizzo e completamento di preesistenze.
Al contrario, da quanto emerge seguendo la cronologia della realizzazione, sembra piuttosto che
Il Parco sia stato progettato in itinere «attraverso
continui incontri con i sovrani», come ricorda
sempre Venditti, ma anche con la scelta di soluzioni alternative in corso d’opera, legate alle necessità del cantiere. Emblematica è, a questo
proposito, la decisione di spostare più in alto, sul
monte Briano, la mostra d’acqua della cascata,
dopo aver scoperto una sorgente al di sopra del
livello che si era ipotizzato.
Inoltre alcune incongruenze, osservabili nelle tavole della Dichiarazione, sembrano proprio indicare una fase di studio ancora attiva al momento
della presentazione dei disegni ai Sovrani.
Nota infatti Laura Carnevali, confrontando la Planimetria della Dichiarazione – che chiama planimetria B – con un disegno di progetto ad essa
precedente – definita planimetria A – che nella
tavola XIII Vanvitelli utilizza elementi presenti
in entrambi. «Infatti una doppia fila di olmi accompagna gli edifici curvi della parte di ellisse
più prossima alla reggia (così come rappresentato
nella planimetria A), mentre i due giardini di
Flora e Zeffiro sono invece conformi alla planimetria B; il parterre centrale chiuso dall’esedra
semicircolare è conforme a quello raffigurato
nella planimetria A, come i due parterres ad esso
laterali»7. Anche nella tavola XIV «occorre osservare che la strada esterna alla piazza ellittica
compare fiancheggiata da edifici, mentre nell’altra veduta ha, sul lato esterno, una doppia fila di
olmi»8. È, dunque, probabile che l’assetto definitivo del parco si sia andato costituendo proprio
nel corso dei lavori, seppur fosse già tracciato,
nelle sue linee principali, nella Dichiarazione, al
fine di fornire al re un’immagine complessiva
dell’opera. Al risultato di tale immagine Vanvi117
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
telli lavorò per tutto il resto della sua vita, cosicché, negli ultimi anni, pur non avendo completato
l’opera, «aveva tracciato tutta la sistemazione dei
viali, disposto le alberature, proceduto allo scavo
dei bacini»9. L’impronta lasciata doveva essere
così forte che, anche se il figlio Carlo fu l’esecutore
materiale delle fontane, tra il 1776 e il 1779, «sia
per la composizione d’insieme (l’efficacissima alternanza di tappeti erbosi e di vasche, saldate otticamente sull’asse fondamentale della reggia,
costituito dalla galleria interna e dalla cascata terminale), sia per i dettagli architettonici, il giovane architetto dovette seguire fedelmente i disegni
lasciatigli dal padre e già approvati dalla corte»10.
Quindi, per quanto una tradizione che ha origine
con Ferdinando Patturelli voglia vedere in Carlo
l’ideatore del complesso sistema di fontane presente sull’asse centrale – dal momento che di
queste fontane non c’è traccia nei disegni della
Dichiarazione – in realtà, spiega sempre Venditti,
la tesi non è accettabile «considerando, appunto,
il fatto che reggia e parco erano stati concepiti da
Luigi Vanvitelli in indissolubile unità» e che «per
quanto la trasposizione dei grafici di progetto alla
fabbrica sia operazione tutt’altro che meccanica,
è pur vero che, nel caso specifico, Carlo aveva
collaborato col padre alla redazione dei disegni
esecutivi, sì da non poter avere incertezze in sede
di realizzazione»11. Di tale stretta aderenza è testimone la Fontana dei Venti, in cui la corrispondenza tra il modello ligneo, presente nella
Reggia, e l’opera realizzata, seppur parzialmente,
«attesta la fedeltà degli esecutori al progetto del
maestro»12.
Tuttavia risulta, ai giorni nostri, quasi impossibile
verificare tale fedeltà, dal momento che non rimane quasi traccia – se si eccettua il sopra citato
modello ligneo – dei progetti inerenti le fontane
dell’asse centrale.
È, anzi, paradossalmente significativo il fatto che
nessuna delle fontane realizzate venga citata nella
pur dettagliata descrizione presente nella legenda
della Planimetria della Reggia e che, al contrario,
nessuna delle fontane rappresentate – intendendo
come fontane quelle con gruppi scultorei ed escludendo, quindi, la peschiera – sia stata costruita.
Per maggiore chiarezza del discorso si riporta, di
seguito, la legenda presente nella tavola I della
118
Dichiarazione, limitandosi a citare esclusivamente le fontane previste e tralasciando gli altri
elementi non oggetto del presente studio:
I Due Giardini de’ fiori colle Fonti di Flora e Zefiro
L Fontana principale delli Fiumi Reali Ibero, Vistola
ed il piccolo Sebeto
1 Quattro Fontane d’accompagnamento
2 Fontana di Perseo
3 Fontana d’Attalanta
4 Fontana di Bacco
5 Fontana d’Ipocrene
6 Fontana d’Ercole
7 Fontana di Pallade
M Prospetto Teatrale di Spagliere con Boschi e Sale
adornate di Statue e Fonti
S Fontana rappresentante la Regia Corte di Nettuno
T Salone con Portico intorno di verdura con perterra
all’Inglese e due Fonti di Amore e Psiche
V Altro Salone con pergolato a Cocchio adornato di
Statue, Sedili e Vasi colla fonte di Narciso e quella di
Eco ivi vicina
X Gran Peschiera con Isola in mezzo adornata di Fontane ed altro
Z Giardino degl’Aranci nel di cui mezzo vi è la fonte
di Venere
b Due nuovi Boschetti in quinconcie per passeggiare
all’ombra con due Sale, e Fontane di Adone e di Endimione
c Fonte di Diana
d Pomario colla Fonte di Pomona
e Orti di coltura colla fonte di Vertunno13
È evidente, dall’elenco sopra citato, che ancora
una volta Vanvitelli segue la tradizione del giardino formale, in cui, come dice Margherita Azzi
Visentini, «le statue antiche, in alcuni casi integrate con altre di moderna fattura, diventano
parte integrante del programma iconografico, che
tende ora a coinvolgere ogni aspetto della composizione, dalla decorazione dipinta a quella plastica, dalla vegetazione all’acqua, dando luogo a
un vero e proprio Gesamtkunstwerk»14.
Ancora una volta, tuttavia, Vanvitelli si distacca
dall’adeguarsi pedissequamente alla tradizione e
inserisce innovazioni proprie della sua personalità. Non sembra riconoscibile, infatti, un unico
programma figurativo, come, ad esempio, si riscontra con l’immagine guida del dio-sole che
permea l’intero Parco di Versailles.
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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4
S
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X
2
3
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Individuazione delle fontane secondo il progetto della Dichiarazione.
119
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Emerge, al contrario, un insieme armonizzato di almeno tre temi iconografici, sovrapposti ed integrati
tra loro, che si offrono a differenti livelli di lettura.
La simbologia sottesa al primo progetto del
Parco: ipotesi e suggestioni
Il primo livello di lettura – quello immediatamente riconoscibile – mostra un programma figurativo ancora fortemente legato a quella ripresa
delle Metamorfosi di Ovidio, la cui diffusione,
nell’ambito delle tematiche decorative del XVII
secolo, vedeva proprio in Napoli, assieme a Genova e Venezia, uno dei principali centri propulsori. Si tratta della sopravvivenza del mito, nelle
immagini e nell’immaginario seicentesco, che diviene strumento di celebrazione della nobiltà.
Ma allo stesso tempo le statue – figure allegoriche dei quattro elementi, delle stagioni e delle
parti del giorno, delle virtù e delle arti, delle divinità dell’Olimpo, degli eroi, delle ninfe e dei
satiri – distribuite nel giardino, ne scandiscono
l’impianto geometrico regolare.
Ecco quindi che, nel progetto della Dichiarazione, le fontane situate nelle zone attorno all’asse centrale ripropongono miti legati al doppio
tema dell’amore e della trasformazione. Ad ovest
le fontane di Venere e di Diana sono disposte alle
estremità del braccio longitudinale di un’ideale
croce, le cui altre estremità sono occupate dalle
fonti di Adone15 e di Endimione16, gli uomini
amati dalle due dee. Ad est si ritrova, invece, la
successione delle coppie Vertumno e Pomona17,
Amore e Psiche18, Narciso e la ninfa Eco19. La definizione di “saloni”, per i due boschetti di Amore
e Psiche e di Narciso ed Eco, suggerisce l’ipotesi
di ambienti particolari, idonei probabilmente ad
uno sviluppo narrativo, in cui il visitatore, una
volta varcata la soglia ed entrato nel mondo del
mito, avrebbe potuto interagire con la storia rappresentata. In particolare questo potrebbe essere
applicato alle figure di Narciso ed Eco «entrambi
illusori, entrambi ambivalenti e densi di sollecitazioni tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento per una triplice sovrapposizione di ordini:
il recupero della poetica classica, la fuga nella
moltiplicazione affabulante della rappresenta-
Luigi Vanvitelli, Dichiarazione dei Disegni del reale Palazzo di Caserta..., Tav.XIV, Veduta a volo d’uccello della reggia
e del parco, 1756.
120
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Jean-Baptiste Boudard, Zefiro e Flora, parco del palazzo ducale di Parma, 1753-1766.
zione barocca, l’esplorazione di presupposti
scientifici nell’area meccanicistica»20. Sembra
plausibile, quindi, un’ambientazione in grado di
esaltare le potenzialità insite nel loro mito: lo
sdoppiamento, a causa della riflessione, del raggio luminoso o dell’onda sonora.
Infine, il palazzo stesso è racchiuso, a oriente e
occidente, dai giardini di pertinenza della coppia
formata da Zefiro e Flora21.
In contrapposizione a quanto previsto per le estremità del giardino, l’asse principale sembra teso
all’esaltazione del potere del sovrano, materializzato nella fontana della Regia Corte di Nettuno.
Il percorso è introdotto dalle raffigurazioni di Ercole e di Pallade, quasi a simboleggiare che la
retta strada da seguire è quella equidistante tra
fortezza e sapienza. Ma la presenza di queste due
divinità potrebbe alludere anche ad alcune implicazioni morali. Ercole, considerato in qualità di
eroe che porta la civiltà, è la divinità prescelta
da Carlo di Borbone, il suo alter ego, così come
Apollo lo era stato per Luigi XIV a Versailles.
La sua presenza all’inizio del percorso, quasi ad
indicare la strada da seguire, richiama la scelta di
Ercole posto di fronte al bivio tra virtù e piacere.
Come nel quadro22 di Annibale Carracci – facente
parte della collezione Farnese e attualmente nel
museo di Capodimonte – la virtù, assimilabile a
Pallade, indica una strada, aspra e faticosa, che
conduce verso un monte sulla cui cima si staglia
Pegaso. Nel caso specifico il monte Briano si
trova esattamente al termine dell’asse centrale,
asse dal quale la ricerca del piacere – quello
stesso piacere a cui alludono le tematiche amorose delle fontane poste alle estremità – costantemente fa deviare. La strada da seguire, sembra
dire Vanvitelli, è dunque quella retta, indicata dal
duplice segnale della virtù-Pallade e di ErcoleCarlo di Borbone. È la strada del re e a confermare tale ipotesi sembra stagliarsi la fontana
posta proprio all’estremità opposta, quella della
Regia Corte di Nettuno.
Ad una prima impressione, la Fontana della
Regia Corte di Nettuno sembrerebbe essere, nel
progetto Vanvitelliano, una diretta citazione di
quella presente nel Parterre Nord del parco di
Versailles23. Situata all’estremità del giardino, nel
punto diametralmente opposto al palazzo reale,
121
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Annibale Carracci, Ercole al bivio, 1596-1598.
la fontana avrebbe costituito un alter ego della
Reggia stessa, facendo corrispondere alla corte di
Carlo III quella del re del mare e alla coppia regnante, la coppia Nettuno e Anfitrite24.
La figura di Nettuno, in qualità di sovrano del
mare, ha una lunga tradizione come metafora tesa
ad esaltare il potere dei committenti.
La Fontana del Nettuno, di Bartolomeo Ammannati, celebrava il successo di Cosimo I dei Medici
attraverso la mostra dell’abbondante acqua portata in città con il nuovo acquedotto.
Così la Fontana dell’Oceano, di Giambologna,
indiscutibilmente simile al Nettuno dell’Ammannati, celebrava la costruzione dell’acquedotto
all’interno del giardino di Boboli, residenza di
Cosimo e sua moglie, Eleonora di Toledo, divenendo continuazione di un messaggio politico
anche in uno scenario privato.
In veste di Oceano venne raffigurato, nel 1594,
Cosimo stesso, con il piede destro sulla testa di
un delfino, in una statua di Pietro Francavilla che
«si ergeva nella piazza dei Cavalieri di Pisa, an122
tistante la sede dei Cavalieri di Santo Stefano, un
ordine creato da Cosimo nel 1561 per ripulire le
acque del Mediterraneo dai corsari turchi»25.
A Bologna, infine, Nettuno, scolpito dal Giambologna per l’omonima fontana, diventa celebrazione del papa Pio IV «il quale con l’emanazione
dei decreti tridentini, dopo la conclusione del
Concilio di Trento, portò l’ordine nel caos e
calmò le acque papali»26.
Tuttavia la stessa definizione, data da Vanvitelli,
di Regia Corte sembra alludere alla presenza di
un gruppo scultoreo in sostituzione della singola
immagine del re del mare.
Non è possibile sapere con certezza come sarebbe
stato questo gruppo scultoreo, ma per avere
un’immagine piuttosto vicina a quella prevista da
Vanvitelli, si possono utilizzare le parole di Giovan Vincenzo Imperiale, poeta del Seicento, che,
nel raccontare del giardino di Apollo sul Parnaso,
descrive in realtà le fontane presenti nella villa di
sua proprietà. Tra queste una ha per oggetto proprio la corte di Nettuno.
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Quì miri poi da cento statue, e cento
E di Protei, e di Glauchi, e di Tritoni,
A le Nereidi misti, e à quanto hà il Mare
Ninfe, e Sirene: e sù la sponda, à fronte
Posta de la gran Quercia, il gran Nettuno
Starsene a Tethi, e ad Anfitrite in mezo;
Versante dal gran scettro del tridente
L’acque dentro à quell’acque in tre zampilli,
Anzi in tre fiumi pure, anzi in tre Mari;
Ma dolci Mari, e Mar tranquilli, e chiari27.
La fontana «principale» del giardino, per usare le
parole di Vanvitelli, non è, però, quella della
Regia Corte di Nettuno, ma la fontana dei Fiumi
Reali Ibero, Vistola ed il piccolo Sebeto. L’unione
dei tre corsi d’acqua non è casuale. L’Ibero, nome
latino del fiume Ebro, è uno dei principali fiumi
spagnoli, il paese d’origine di Carlo III. La Vistola è, invece, il corso d’acqua su cui sorge Varsavia, la capitale della Polonia, terra natale della
regina Maria Amalia28.
Come un novello Ovidio, Vanvitelli opera un’ulteriore, quanto ardita, metamorfosi, per la quale
anche la coppia sovrana viene trasformata nei
fiumi più rappresentativi dei paesi di provenienza. In questo modo, perciò, le figure di Carlo
di Borbone e di Maria Amalia di Sassonia integrano e completano la tematica di amore e trasformazione presente nelle fontane circostanti.
Ma il messaggio della fontana non si limita esclusivamente alla coppia regnante.
Il Sebeto è il mitico corso d’acqua, di cui attualmente si sono perdute le tracce, legato alle leggende della fondazione di Napoli ed in cui la città
stessa viene identificata dai partenopei, insieme
al Vesuvio. Rispetto agli altri due fiumi il Sebeto
è definito «piccolo» e sicuramente, nel confronto,
piccolo lo era per portata d’acqua. Ma, come per
tutte le indicazioni fornite da Vanvitelli – e mai
casuali – è possibile vedere, nell’uso di questo
aggettivo, anche altre accezioni.
Forse un riferimento al regno di Napoli, più piccolo rispetto alle patrie dei due sovrani? O forse
un accenno all’erede al trono, nato proprio nella
città partenopea? È difficile, se non impossibile,
giungere ancora una volta ad una conclusione,
senza avere dati certi sulle intenzioni dell’architetto. Rimane, in ogni caso, molto forte l’impressione che la Fontana dei Fiumi Reali sia
considerata principale, rispetto alle altre, proprio
perché celebrazione non del potere sovrano, ma
della famiglia reale e, a tal proposito, sia giustamente collocata al centro del parco e delle sue innumerevoli prospettive. Di conseguenza, quella
retta strada, sulla quale si sarebbe stati indirizzati
dalla scelta di Ercole, avrebbe avuto come conclusione la celebrazione della figura del re e della
Parco di Versailles. Lambert-Sigisbert Adam, Nettuno e Anfitrite, 1740.
123
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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sua famiglia, rendendo, in modo definitivo, l’asse
centrale come asse regio.
Di più difficile interpretazione risultano, invece,
le quattro fontane disposte simmetricamente ai
lati della Regia Corte di Nettuno: ad ovest due
figli di Giove, Perseo e Bacco, ad est la Fontana
d’Attalanta precede quella d’Ipocrene.
Forse, in questo caso, Vanvitelli aveva previsto il
riutilizzo di alcune figure già presenti nel parco
degli Acquaviva? Come già osservato, Anna
Giannetti cita, nella descrizione del giardino seicentesco, la presenza delle statue di Batto e del
gruppo scultoreo di Perseo, Andromeda ed il mostro, oltre a quelle, già prese in considerazione,
di Diana, Atteone, Ercole e di una Venere ignuda.
È anche vero, però, che in alcuni casi non doveva
trattarsi di semplici statue, ma, come per il
gruppo del Perseo, attribuito a Raffaele Nigrone,
di automi azionati idraulicamente. Sembra pertanto difficile credere che le figure si trovassero
in uno stato di conservazione tale da consentirne
il riutilizzo, anche soltanto per poter usufruire
dell’impianto idrico già esistente.
La Granja di S. Ildefonso. Fontana di Andromeda.
124
Più probabile è, invece, il riapparire, in altre
forme, degli stessi messaggi di cui le sculture seicentesche erano portatrici, forse nel tentativo di
riprendere anche alcune tematiche già presenti
nel giardino della Granja di S.Ildefonso, in cui si
trovano una Fontana di Andromeda ed una Fonte
della Fama sormontata da Pegaso. Con la Fontana di Perseo Vanvitelli avrebbe quindi creato il
giusto compendio all’Andromeda presente nel
giardino di Filippo V, il padre di Carlo III?
Ad una prima lettura sembrerebbe immediata,
poi, l’associazione tra la Fontana d’Ipocrene e
«la sala o sia il largo della fonte delle muse che si
vede ora circondato da tre lati con alte spalliere di
allori e lentaggini unite ad altissime querce e licini»29, anche se, in realtà, quest’ultimo si trovava
inserito nel «Vecchio Real Boschetto di Caserta»
e per la sua sistemazione Vanvitelli forniva indicazioni ben precise30.
Nella Fontana d’Ipocrene, a differenza di quanto
raffigurato nella Fontana della Fama della
Granja – a sua volta citazione dell’omonima fontana di Versailles – sembra perciò esplicito il riferimento al monte delle Muse, inteso come
tematica che richiama la trasposizione terrestre
di un mondo ideale e perfetto.
Così, ad esempio, ancora nelle parole di Giovan
Vincenzo Imperiale, si trova una descrizione di
una fontana simile.
E scorgi, dove il rustico sentiero
Con selvaggia beltà termina il corso,
D’ogni alterezza rustica, selvaggia
Dentro à gran nicchio gran fontana adorna;
Con arte tal, ch’à l’inornata sua,
Roza rusticità cede in bellezza
Ogni più adorna, e più civil vaghezza.
Quì miri in cima ad alto monte, alpestre,
Di ruvidi, scogliosi monticelli
Di gran pomice, et aspra un sovra l’altro
Composti ad arte in ordine incomposto;
L’aligero destrier, che d’Elicona
Da l’insassite viscere non vive,
Con la forte unghia sua, cristalleggiante,
Fè nascer fiume di cristallo puro;
Con l’unghia istessa, percotendo il sasso,
In cui termina il monte, alto sboccarne
In cristalline, et in argentee vene
Divino fiume far novo Hippocrene31.
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Le parole dell’Imperiale testimoniano la diffusione del tema – sempre presente nei giardini a
partire dal Cinquecento32 – e della metafora che
allude agli effetti del buon governo del committente. Tra i meriti di Carlo di Borbone ci sarebbe,
quindi, anche quello di riprodurre il Parnaso sulla
terra, messaggio analogo a quello ribadito nella
volta dello scalone principale.
Si sarebbe trattato, dunque, in tutti questi casi, di
nuovi gruppi scultorei realizzati secondo le indicazioni di Vanvitelli?
È probabile, allora, che, analogamente a quanto
suggerito dalle tradizionali raffigurazioni del
monte da cui sgorga la fonte Ippocrene33, o dall’associazione di Andromeda e del mostro alla figura
di Perseo, anche le fontane di Bacco e di Atalanta
non sarebbero state costituite da figure isolate.
A Bacco avrebbe potuto essere associata Arianna,
in un’ulteriore ripetizione di una coppia celeste,
così come Atalanta avrebbe potuto essere rappresentata durante la gara contro Ippomene, presentando ancora una storia legata ad una tematica
d’amore. Tale ipotesi, suggestiva per quanto al momento non verificabile, sembra tuttavia preludere
ad alcune scelte effettuate dallo stesso Vanvitelli
per le fontane realmente realizzate nel parco.
È interessante osservare, infatti, come ognuna
delle fontane attualmente presenti nel Parco risulti costituita da gruppi scultorei piuttosto che
da singole figure isolate, come se l’architetto prediligesse che fossero rappresentati momenti
estratti da una narrazione più articolata rispetto
alla riproduzione di semplici immagini allegoriche. Tale ipotesi riconduce a quanto già osservato
anche per la Regia Corte di Nettuno.
Infine, il giardino è cosmos, spazio ordinato all’interno del territorio, riflesso, in un microcosmo
dalle aree ben precise e dai confini nettamente segnati, dello stesso regno di Napoli. Ad ognuna
delle zone del giardino corrisponde – perché ad
essa è preposto – un nume tutelare, sulla base di
una corrispondenza di simboli derivata dalla mitologia latina. Ricorda Tagliolini che alle divinità
era «affidato ogni stadio della coltivazione e il
buon esito del raccolto: Saturno presiede alle semine, Flora alla fioritura, Cerere alla maturazione
delle messi, Pomona alla maturazione dei frutti,
Consus e Opis alla loro raccolta e conserva-
zione»34.
In questo terzo livello di lettura, pertanto, ogni
fontana rappresenta il centro del mondo su cui il
nume rappresentato svolge il proprio governo. Se
si considerano, ad esempio, i Giardini di Zefiro e
Flora, si nota che si tratta, giustamente, di parterres de broderies. Dove altro avrebbe potuto
collocare, Vanvitelli, le fontane delle due divinità
primaverili se non al centro dei due parterres fioriti situati, secondo lo schema del giardino francese, sotto le finestre del palazzo?
Posti al centro di ciascuno di essi, Zefiro, il tiepido vento dell’ovest, e Flora, la sua sposa, risultano, ancora una volta, una metafora della coppia
regnante, sotto il cui governo il mondo è soggetto
ad una eterna primavera35.
Un’altra coppia, anch’essa disposta simmetricamente, ma questa volta rispetto ad un asse trasversale, si incontra ad oriente del parco: è quella
costituita da Vertumno e Pomona. Vertumno, è
una divinità agricola il cui nome deriva dal verbo
latino vertĕre, che significa volgere, cambiare36,
con riferimento al ciclo delle stagioni; la fontana
La Granja di S. Ildefonso. Fontana della Fama.
125
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
con la sua immagine è posta, quindi, a presiedere
l’orto, così come quella di Pomona37, sua sposa e
dea legata alla coltivazione, si trova a vigilare sul
frutteto, che da lei prende il nome di pomario.
Dall’altro lato del parco, ad occidente, Venere, in
qualità di dea dei giardini, è posta al centro dell’orangerie38, simbolica raffigurazione del giardino per eccellenza, quello delle Esperidi. A lei
corrispondente, ma più a nord sullo stesso asse,
Diana, dea delle selve, sovrintende all’accesso a
quella parte di bosco delle proprietà Acquaviva
rimasta integra e, perciò, più selvaggia. L’ordine
costituito da Vanvitelli risulta essere, dunque, un
vero cosmos in cui ogni elemento è posto ad occupare la sua esatta posizione.
Il giardino previsto nella Dichiarazione può essere, quindi, interpretato come immagine dell’intero Regno di Napoli sotto il governo di Carlo di
Borbone. Tutta la composizione è disposta, infatti, attorno all’asse centrale – asse regio – che
culmina nel duplice fulcro delle fontane rappresentanti la Regia Corte e la famiglia reale. Da entrambe queste fontane si diramano i viali e gli assi
visivi che conducono nel resto del giardino e che
portano alla scoperta degli effetti del buon governo: l’armonia – legata alle numerose temati-
che d’amore – l’ordine – secondo il quale ogni
nume presiede al proprio ruolo – e la prosperità –
resa evidente dalla beneaugurante presenza delle
numerose divinità agresti.
Il Parco realizzato: analogie e differenze con
il progetto della Dichiarazione
Attualmente la struttura del parco, per quanto riguarda la disposizione dei viali e la suddivisione
in parterres e boschetti, è molto simile, se non
identica, al progetto vanvitelliano; notevolmente
difformi sono invece gli elementi di complemento39.
In particolare il complesso programma iconografico, che prevedeva le diciannove fontane di cui
si è trattato, non venne realizzato, anche a causa
di notevoli difficoltà finanziarie. Tuttavia l’attuale conformazione dell’asse centrale, il cui assetto non era stato così dettagliato da Vanvitelli
nei disegni della Dichiarazione, lascia supporre
piuttosto un approfondimento delle intenzioni
progettuali, approfondimento di cui, purtroppo,
non restano tracce relativamente al momento dell’ideazione.
Jean-Baptiste Boudard, Pomona e Vertumno, parco del palazzo ducale di Parma, 1753-1766.
126
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Il Parco, così come realizzato, risulta quindi suddivisibile in tre macro-aree: l’asse centrale, il
Bosco Vecchio, il Giardino Inglese40.
In ognuna di tali zone l’acqua svolge un ruolo
fondamentale che concorre a differenziare le aree
l’una dall’altra. Se infatti lungo l’asse centrale
l’acqua è movimento, perpetua caduta dalla cascata, incessante discesa nei cinque bacini sottostanti, che si alternano ai tappeti erbosi lungo
1.840 metri di lunghezza, nel Bosco Vecchio l’acqua è stasi, ampio respiro nella Grande Peschiera, barriera ed arresto nel fossato che
circonda la Castelluccia.
Un discorso a parte meriterebbe, invece, il Giardino Inglese, in cui l’acqua diventa l’elemento costituente delle sensazioni e delle emozioni che
derivano dalla percezione del paesaggio.
Nel 1792 Jakob Philipp Hackert dipinse questo
giardino, per lo studiolo di Ferdinando IV, reinterpretandolo ed idealizzandolo proprio sulla base
delle emozioni suscitate: è l’avvento del Romanticismo, il cui gusto ha comportato la progressiva
accentuazione del fascino del Giardino Inglese a
scapito del più rigoroso giardino formale.
A tal proposito si può considerare, ad esempio, la
testimonianza lasciataci dall’inglese Henri Swinburne che, nei suoi travels, osservava già nel
1783: «i giardini sono molto vasti, ma se rimangono secondo il progetto che si è interrotto somiglieranno ai nostri giardini stupidi e uniformi che
non sono altro che larghi viali dove ci si scotta al
sole e dove innumerevoli statue sono disposte su
un’unica fila»41.
Sembra dunque giunto il momento di rivolgere
l’attenzione alla parte di giardino realizzata, per
verificare se le affermazioni di Henri Swinburne
possano ritenersi fondate.
L’asse centrale del Parco
Nonostante le apparenze di geometrica semplicità, l’asse centrale rappresenta un elemento
estremamente complesso ed articolato nel progetto vanvitelliano del Parco. Il tratto di pertinenza del giardino, prosecuzione del lungo viale
proveniente da Napoli42, creato per l’accesso alla
Reggia, si sviluppa per circa tre chilometri, dalla
Il Bosco Vecchio
Il giardino
e l’asse centrale
Il Giardino Inglese
127
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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facciata nord del Palazzo fino alle pendici del
monte Briano. Proprio la presenza del monte, termine naturale del percorso, impedisce l’estendersi dell’asse fino all’orizzonte, come avviene
nella tradizione francese. Al contrario ogni parte
diviene perfettamente visibile, obbligando l’architetto a non trascurare nessun particolare e a
conferire adeguata «magnificenza» ad ogni tratto:
dovete sapere che il mio vialone di mezzo è largo
palmi 175 Romani, di modo che se gli alberi che passeranno sopra le spalliere si produrranno fuori della
linea dentro il vialone palmi 37½ per parte, rimarranno palmi 100 di voto, e s’è ancora di più rimanerà
sempre un larghissimo spazio, di modo che la vista
non rimanerà impedita, e diverrà ochialone solo per la
gran distanza di due miglia, ma sempre farà un effetto
grande e spazioso; in oltre ancora, dove farò le gradinate e li canali di acque fluenti, ivi il vialone si allargarà notabilmente affinché non vi sia angustia, anzi
voglio che la stessa magnificenza sia concordata a
tutte le parti43.
L’asse centrale in rapporto con il Palazzo Reale e con il
territorio circostante.
128
L’incredibile estensione, inoltre, rendeva necessario un attento studio delle numerose interrelazioni presenti tra l’asse e gli elementi eterogenei
che si susseguivano lungo il suo percorso: parterres de broderie, boschetti dal taglio geometrico, frequenti intersezioni con i viali trasversali,
nei cui punti nodali erano previste singole fontane, fino ad arrivare al padiglione-coffee house
previsto sulla cima del monte.
All’asse, dunque, doveva essere attribuito il difficile compito di armonizzare, nel colpo d’occhio
della visione dalla facciata del Palazzo, i differenti elementi presenti nel giardino, riconducendoli alla regola di un unico principio
compositivo.
Proprio dal “cannocchiale”, costituito dal portico
di ingresso alla Reggia, ed in particolare dal centro del vestibolo inferiore, è ancora oggi possibile
apprezzare, in un unico sguardo d’insieme, il
complesso delle fontane, collocate in asse ed alternate a strisce di tappeto erboso. Come André
Le Nôtre, Vanvitelli deforma planimetricamente
i bacini ed i parterres, adattandoli alle pendici del
monte Briano. L’anamorfosi così ottenuta garantisce che ogni elemento sia perfettamente visibile
dal vestibolo di ingresso e che, grazie all’inter-
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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posizione delle strisce di prato, non avvengano
sovrapposizioni di immagine tra le fontane.
Il risultato finale è, come in un quadro, compreso
all’interno della cornice formata dagli archi del
portico, contribuendo a fare del centro del vestibolo, un punto di osservazione privilegiato44.
Di tutto l’asse centrale solo una parte è stata realizzata, seppure terminata postuma ed in modo
non del tutto compiuto.
La presente non è che una gran lista di terra in piano
inclinato di lunghezza palmi 6570 e di larghezza
palmi 400, chiusa da muri laterali, presso di quali
sono due continuati e folti boschetti di querce e delimitati entrambi da viali coverti da una fila di elci isolati, e diramati regolarmente a spalliera e piano sopra.
Nel mezzo dello spazio fra i due descritti viali vi sono
dei gran bacini, ed una successione di vasche sovrapposte a guisa di cascatine, bordate tutte di travertino
scorniciato ed ornate di statue, e getti d’acqua45.
Per quanto concerne la prima fontana che si incontra provenendo dalla Reggia, la Fontana Margherita o del Canestro, risulta difficile una sua
attribuzione alla volontà di Vanvitelli. È questa una
fontana di ispirazione francese46, molto semplice,
costituita da una vasca circolare al cui centro un
basso zampillo fuoriesce da un cesto scolpito.
La presenza della fontana non è, però, segnalata
dal Cavalier Sancio47, né da Ferdinando Patturelli
che così precisa:
Fa mestieri quì avvertire il LETTORE, che innanzi al
primo ponte nella parte Meridionale incontro al Palazzo dovea venire la prima fontana colla statua di
Nettuno, ed una gran vasca (…): ora in questo sito ritrovasi il gran canestro di fabbrica con fiori48.
Tuttavia, in una fotografia del 1891, si vede la
fontana circondata da un prato e recintata da paletti. Potrebbe essere, dunque, un intervento successivo al progetto vanvitelliano, realizzato nel
periodo compreso tra il 1826 – data dell’opera di
Patturelli – ed il 1891, probabilmente consistente
nella riqualificazione dell’intero parterre. Tale intervento, oltre a comportare la trasformazione del
cesto da fiori in fontana, sembra aver portato, infatti, anche all’introduzione delle statue, in forma
di termini, raffiguranti Apollo e le Muse, an-
Vedute progressive dell’asse centrale del Parco dal portico
di ingresso.
129
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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ch’esse assenti dall’accurata e precisa descrizione
fornita dal Cavalier Sancio e non menzionate dal
Patturelli. Si tratta forse delle stesse statue facenti
parte della «sala o sia il largo della fonte delle
muse» cui si riferiva Vanvitelli nel dare precise
prescrizioni per il ripristino delle essenze e per le
nuove piantumazioni? Nella copia del tavolario
sullo Stato di Caserta, redatto nel 1750, si trova
una descrizione di tale boschetto: «Si ha una peschiera sopra la quale si vedono sette statue di
pietra con vari strumenti musicali in mano… dalli
due suoi lati si ha un teatro dove si vedono in
nove nicchi nove statue di pietra in figura delle
nove muse»49.
Il fatto che Vanvitelli avesse previsto, in questa
zona del Parco, la Fontana della Regia corte di
Nettuno, fa tuttavia escludere l’ipotesi che il sito
della «sala delle muse» coincidesse con l’attuale
collocazione delle statue, tanto più che per quel
boschetto Vanvitelli aveva in mente una sistemazione precipua.
L’immagine attuale sembra essere, quindi, frutto
di interventi posteriori e restituisce, a questa zona
del Parco, quella dignità che la mancata esecuzione del progetto della Dichiarazione aveva negato, attraverso la reintroduzione dell’elemento
idrico e la sostituzione del regno di Apollo alla
Regia corte di Nettuno. Ma il tema prescelto non
Parco di Caserta, Fontana Margherita. In alto la vasca, in basso alcuni dei termini raffiguranti Apollo e le Muse.
130
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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risulta in alcun modo correlabile a quanto si osserva nei bacini successivi – né tantomeno, come
si vedrà, inserito nella simbologia generale del
Parco. La Fontana Margherita rimane, perciò, un
episodio isolato.
Di fronte ad essa è tuttavia necessaria una sosta,
che prelude ad una scelta. Il percorso, infatti, si
divide in due rampe semiellittiche, necessarie per
superare il dislivello presente tra il piano del giardino ed il ponte di Ercole, che scavalca la strada
di Aldifreda. Al di sopra ci si ritrova di fronte a
quello che può essere considerato il vero inizio
dell’intervento vanvitelliano: la Fontana dei Delfini. Ancora una volta il cammino si sdoppia, passando necessariamente ai lati della vasca situata
lungo l’asse principale, e da questo momento sarà
sempre più difficile ritornare ad acquisire una perfetta visione centrale, se non in alcuni punti prestabiliti. La condizione non sembra casuale e
ricorda molto da vicino quanto già osservato in
Versailles, dove Apollo-Sole corre incontro al visitatore percorrendo il Grand Canal. Percorso
d’acqua come metafora del percorso della divinità.
Se si accetta questa ipotesi, allora questo potrebbe
essere considerato il primo segnale che anche nelle
fontane realizzate è contenuta una simbologia più
complessa di quanto appaia a prima vista.
La Fontana dei Delfini, o Canalone, è «un lungo
bacino a fior di terra, di palmi 1800 per la larghezza di palmi cento e della profondità di palmi
otto, cosicché contiene circa 51400 botti di
acqua»50. Venne realizzata tra il 1777 ed il 1779
da Carlo Vanvitelli che rielaborò i disegni del
padre. L’acqua fuoriesce da quattro fori, nonché
dalle gole spalancate di tre delfini, opere attribuite a Gaetano Salomone. L’insieme, come osserva Francesco Starace, è caratterizzato da una
serie di contrasti, per cui «Sullo sfondo della parete a bugnato listato, entro un’esedra ad arco, è
stato collocato il basamento naturale, una roccia
che, dai due lati posti a pelo d’acqua, si eleva fino
all’asse centrale». Il risultato è un «intreccio visivo di due piani, arcuati se non semicircolari,
l’uno del tutto geometrico, l’altro roccioso e
quindi naturalistico» in cui «la ragione e “l’ordine” dominano la natura nei due aspetti, terrestre
e animale»51.
Ulteriori complessità si leggono anche nelle molteplici funzioni che questa fontana sembra rivestire.
Posta al termine del percorso dell’Acquedotto
Carolino, prima dell’adduzione dell’acqua alla
Reggia, la fontana, grazie anche alle sue dimensioni particolarmente allungate, circa 475 metri
per 27, acquista il ruolo di serbatoio di accumulo
e vasca di smistamento per le zone più a valle.
Dal vasto bacino si diramano infatti tre condotti:
il primo consente l’adduzione dell’acqua all’area
del Bosco Vecchio (Peschiera e Castelluccia); il
secondo, attraverso la Fontana Margherita, raggiunge il Palazzo; il terzo serve, invece, da sfogo
per il troppo-pieno, permettendo all’acqua in eccesso di convogliarsi in una tubazione che scorre
Parco di Caserta. Fontana dei Delfini.
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Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Parco di Caserta, Fontana dei Delfini. Particolare dei tre “delfini” da cui fuoriesce l’acqua.
parallelamente all’asse centrale. Ciascuna condotta è dotata di serrande, situate al raccordo con
la vasca, che permettono la regolamentazione del
flusso idrico ed il mantenimento di una portata
costante. Inoltre, in quanto serbatoio di accumulo, il bacino consente di garantire il rifornimento idrico delle zone a valle del Parco anche in
caso di momentanea penuria d’acqua52.
Una fontana, dunque, in cui la spiccata vocazione
idrica è esaltata dall’intima unione di forma, funzione e decorazione, secondo quei principi ribaditi, nello stesso periodo, da padre Lodoli, per cui
«la buona Architettura ha da formare, ornare e
mostrare, e che in essa la funzione e la rappresentazione debbono essere una cosa medesima»53.
Una lunga tradizione vede il delfino partecipe
della decorazione delle fontane, prestandosi la
sua immagine ad essere immediatamente associata all’elemento liquido. A tal proposito si ricordano, a Roma, i quattro delfini che, a piazza
Nicosia, sostengono la vasca superiore della fontana progettata nel 1573 da Giacomo Della Porta
e le coppie dalle code intrecciate inserite nel
1575, dallo stesso artista, nella fontana di piazza
Colonna. Allo stesso modo altri quattro delfini,
scolpiti nel 1711 da Filippo Barigioni, versano
acqua ai lati dell’obelisco nella fontana in piazza
132
del Pantheon e ancora otto se ne trovano attorno
ai mascheroni che circondano la vasca. Delfini
sono poi presenti nella fontana di piazza San Pietro e in quella del Moro a piazza Navona. In quest’ultima, il gruppo scultoreo dell’etiope che lotta
con un delfino, sostituì nel 1655, ad opera di Giovanni Antonio Mari, quello della Lumaca, «dove
Bernini aveva raffigurato tre delfini che reggono
una conchiglia marina»54.
Osservando, però, più attentamente le tre figure
dalle cui bocche fuoriesce l’acqua, nella fontana
del Parco di Caserta, potrebbe non essere così immediata l’associazione con tre delfini. In particolare la figura centrale mostra denti aguzzi e
zampe con artigli terrestri. Inoltre, a differenza
delle più tipiche raffigurazioni55, ognuno presenta, tra gli occhi, un disco piatto variamente decorato, come una maschera distintiva.
Si potrebbe, così, far riferimento di nuovo ai versi
del napoletano Giulio Cesare Cortese, con i quali
l’autore descrive un’altra fontana situata nel giardino di Apollo sul Parnaso.
Pe mmiezo no gran frúscio de fontane
Che d’ogne banna l’acqua scorre e bolle;
Una, tra l’autre, nc’è de forza granne,
Che pe tre mascarune l’acqua spanne56.
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Come già osservato anche a proposito di Giovan
Vincenzo Imperiale, molto stretta risulta, infatti,
l’associazione tra letteratura ed architettura
coeva. Se nelle ville è possibile leggere la trasposizione del Parnaso sulla terra, così per la descrizione di quel mondo immaginario, poeti ed
autori, molto frequentemente, hanno utilizzato
immagini tratte dal repertorio dell’architettura a
loro contemporanea, in un continuo scambio tra
realtà e finzione.
In questo caso, dunque, come accade nei versi del
poeta napoletano, l’immagine dei tre mascheronidelfini è forse il simbolo di un passaggio obbligato, all’interno di un percorso iniziatico, per
accedere a livelli superiori?
Vero è che la Fontana dei Delfini non si presta
alla semplice, fugace ammirazione esterna, ma,
attraverso due rampe poste ai lati, invita ad essere
vissuta, conosciuta ed apprezzata in ogni suo recondito recesso.
Una grotta comunica con i marciapiedi che la circondano, sul modello della Fontana dell’Ovato
a Tivoli, anch’essa fontana sibillina57. È un invito
irresistibile ad entrare in cerca di refrigerio, ma
una volta all’interno i sensi subiscono un ribaltamento e, attraverso una spaccatura nella roccia,
si assume il punto di vista dell’acqua che abbondante scorre dalla bocca del mostro-delfino sovrastante. In un virtuale processo di
rigenerazione58, il visitatore viene purificato
prima di tornare alla luce del sole e proseguire
nel suo cammino. In tal senso la Fontana dei Delfini, posta ad una certa distanza dalle altre fontane
– e non direttamente inserita nel loro schema
compositivo – si presta a svolgere la funzione di
porta di accesso alle zone superiori del Parco.
Segue la Fontana di Eolo
La fontana accennata rappresenta i venti sprigionati
da Eolo per far allontanare Enea dall’Italia a preghiera
della Dea Giunone. Quindi la composizione architettonica è bene allusiva, mentre vedesi una lunga grotta
traforata ad archi, a guisa di antri, con graziose scogliere, da cui sortono ventotto venti, simboleggiati da
altrettante statue alate, che buttano acqua dalle bocche
in varie giocose mosse. Le isolette in mezzo del gran
bacino avanti dell’intera grotta servir devono per tanti
getti di acqua per indicazione di promontorj di quei
mari59.
Parco di Caserta, Fontana dei Delfini. La grotta situata dietro la fontana con i sedili a disposizione per la sosta.
Si tratta sicuramente della fontana più scenografica dell’intero Parco, nonostante la sua realizzazione non sia stata portata a termine. Conosciamo
la sua immagine definitiva attraverso il modello
ligneo che lo stesso Vanvitelli ordinò già nel
1759, in previsione di una sua assenza dal cantiere per seguire Carlo III in Spagna, e che venne
costruito nel 1765.
Parco di Caserta, Fontana dei Delfini. La vasca e il Palazzo
Reale attraverso l’apertura nella parete della grotta.
133
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Tale modello assume un duplice valore, fondamentale per la comprensione dell’iter progettuale
seguito in quest’area del giardino: da un lato rappresenta, infatti, una rara testimonianza relativa
alla presenza di un nuovo programma iconografico, dall’altro, la sua perfetta rispondenza all’opera reale dimostra la fedeltà mantenuta alle
idee di Vanvitelli anche dopo la sua morte.
Planimetricamente la fontana è costituita da un
ampio bacino di 160 per 131 palmi e da un’esedra
poligonale retrostante, formata da due rampe per
il superamento del dislivello esistente. Nella parte
bassa l’esedra diviene criptoportico bugnato, con
paraste tuscaniche che separano le aperture, ad
arco e ad architrave, digradanti verso le estremità.
Sulle aperture architravate si trovano quattro bassorilievi, opera di Angelo Brunelli, rappresentanti
la causa prima dell’evento che si svolge nella
vasca antistante: Le nozze di Teti, Giove con le
dee, Il giudizio di Paride e Lo sposalizio di Paride60. Dalla sommità della fontana un velo d’acqua scende nel bacino, fungendo da fondale per la
scena rappresentata nella vasca.
Parco di Caserta. Fontana di Eolo.
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Come in un teatro ci si ritrova completamente immersi nel dramma: si tratta del momento in cui il
dio Eolo, istigato da Giunone, scatena la furia dei
venti contro Enea ed i Troiani.
Allora Giunone supplice gli rivolse queste parole:
«Eolo, poiché il padre degli dei e re degli uomini
ti assegnò di placare i flutti o di alzarli col vento,
una gente a me ostile naviga il mare Tirreno,
portando Ilio in Italia e i vinti Penati:
infondi violenza ai venti e subissa e travolgi le navi,
o incalzali, disperdili, e dissemina i corpi nel mare.
Ho sette e sette Ninfe dal bellissimo corpo,
delle quali la più bella di tutte d’aspetto, Deiopea,
ti unirò in stabile connubio e la consacrerò come tua,
affinché per tali tuoi meriti trascorra con te
l’intera vita e ti renda padre di una bella prole».
(…)
Appena detto ciò, capovolta la lancia, percosse
il cavo monte nel fianco: e i venti, quasi schierati,
per dove s’apre un varco, si slanciano e spazzano la terra
in un turbine. Irrompono sul mare e tutto dalle sedi profonde
insieme l’Euro e il Noto lo sconvolgono e l’Africo denso
di bufere, e rovesciano vasti flutti sulle rive61.
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Parco di Caserta, Fontana di Eolo. Uno degli “zefiri” circondato da simboli marini ed una coppia di “schiavi” che sostiene
una cesta-conchiglia.
Vanvitelli sceglie di rappresentare l’azione nel momento in cui questa sta avvenendo e non di fornire
una semplice raffigurazione del mito, secondo un
principio ancora partecipe di teatralità barocca62.
Ventotto statue di venti – ma dovevano essere
circa il doppio – fuoriescono correndo dalle
grotte collocate sul fondo, scatenando la tempesta
al loro passaggio. L’acqua è utilizzata sfruttando
pienamente le sue capacità illusorie, divenendo
soffio emesso dalle bocche dei venti e, allo stesso
tempo, flutto che emerge dal mare in tempesta, il
mar di Sicilia. Il teatro dell’azione è riprodotto
attraverso il riferimento a tre suoi promontori, il
Peloro, il Pachino ed il Lilibeo, due dei quali presenti nella vasca per servire «per tanti getti d’acqua», ed il terzo non realizzato.
Lo spettatore è coinvolto nella rappresentazione
e invitato ad una partecipazione attiva. Le grotte
sono accessibili, anche in questo caso, tramite
passaggi laterali che permettono di assistere, seduti su alcune panche, attraverso il velo dell’acqua ricadente.
Al di sopra della cascata avrebbe dovuto essere
collocato il gruppo scultoreo principale, costituito
dalle figure di Giunone – sul carro trainato da pavoni e sostenuto da nubi – di Eolo e delle ninfe al
servizio della dea, tra cui la promessa sposa De-
iopea. Ancora una volta possiamo avere un’immagine di come sarebbe potuto apparire il gruppo
scultoreo attraverso un raffronto con una delle
fontane di villa Barbarigo a Valsanzibio – chiamata, non a caso, Peschiera dei Venti – in cui,
posto all’estremità di una vasca rettangolare,
sulla cima di un monte da cui fuoriesce l’acqua,
è rappresentato, seppur con minor abbondanza di
particolari e di sculture, lo stesso episodio di Eolo
e della ninfa Deiopea.
A Caserta, invece, tale gruppo non venne mai posizionato, sebbene il Cavalier Sancio attesti che le
statue di Giunone con le Ninfe «esistono in magazzino insieme con due pavoni»63. Di tali statue
si sono perse quasi completamente le tracce.
Tuttavia è possibile identificare nei due pavoni,
attualmente situati nell’androne della Reggia di
accesso agli uffici della Sovrintendenza, le due
statue che avrebbero adornato il carro di Giunone. Per analogia sembra possibile supporre che
anche la statua centrale, situata nello stesso androne e identificabile forse con Deiopea o con la
regina degli dei, possa appartenere al gruppo
scomparso. Infine è interessante rilevare che, in
epoca umbertina, lo scultore Giulio Monteverde
utilizzò tre statue femminili, provenienti dal
Parco di Caserta, per realizzare la Fontana delle
135
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Bagnanti – detta anche di Caserta – nei giardini
del Quirinale. Sebbene al momento non sia stato
possibile ravvisare alcun diretto collegamento tra tali
statue e le Ninfe della Fontana di Eolo, tuttavia
l’ipotesi che si tratti proprio delle sculture citate dal
Cavalier Sancio risulta affascinante.
«Concorrono alla grandiosità di questa fontana le
balaustrate delle due rampe laterali»64. Queste
presentano una multiforme decorazione scultorea
che accompagna il visitatore nella salita: «diciannove coppie di forze, che sostengono altrettante
grandi conchiglie. Ve ne manca solo una. Le medesime alternano con numero ventidue patere sostenute da gruppi di piccoli delfini, e finalmente
con altre quattordici statue alate, che indicano altrettanti zeffiri»65.
Ancora «zeffiri», dunque, alcuni dei quali sono
presenti anche alla sommità della cascata, nell’atto di aprire gli otri che contengono i venti del
mondo. Compaiono anche altri elementi propri
del mondo marino: vasi sostenuti da coppie di
delfini, le cui code si avvolgono a formarne il piedistallo, nonché conchiglie che, appaiate, costituiscono i pesanti contenitori sorretti da coppie
di schiavi incatenati. Quest’ultima immagine viene
comunemente interpretata come un diretto riferimento, quasi un tributo, alla manodopera di schiavi
musulmani impiegata nella costruzione della Reggia,
schiavi per i quali venne costruito un intero quartiere,
ancora esistente, adiacente al Parco.
Tra i simboli marini e gli innumerevoli zampilli,
che si sarebbero innalzati su entrambi i lati66, la
salita verso il ponte di Sala sarebbe sembrata avvenire in una dimensione sub-acquea a cui anche
gli alati «zeffiri» si sarebbero dovuti sottomettere.
Nell’ascesa l’acqua soppianta l’aria, il potere marino di Nettuno si sostituisce a quello di Eolo, in riferimento alla conclusione del racconto virgiliano.
Frattanto Nettuno sentì, gravemente turbandosi,
sconvolgersi il mare con grande fragore, sfrenata
la tempesta, e rimescolate le acque dal fondo: ed in alto
guardando, levò il placido capo dalla sommità delle onde.
(…)
Affrettate la fuga, e dite così al vostro re:
non toccò in sorte a lui il regno del mare e il terribile
tridente, ma a me. Egli possiede immani
rocce, vostra dimora, Euro; si glorii in quella
reggia, Eolo, e governi nel chiuso carcere dei venti».
Disse, e più rapido della parola placa le tumide acque,
fuga le nubi addensate e riporta il sole67.
Palazzo Reale di Caserta. Statue probabilmente appartenenti al gruppo della Fontana di Eolo.
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Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Al termine della rappresentazione Vanvitelli crea
l’ultima illusione, rendendo lo spettatore partecipe della conclusione del dramma: come Nettuno, anche noi possiamo, nell’ascendere le
rampe laterali, guardare in alto e «levare il capo
dalla sommità delle onde».
Giunti sul ponte di Sala, il cammino deve necessariamente proseguire su uno dei lati della vasca
centrale. Questa costituisce il collegamento tra la
sommità delle Fontana di Eolo e la successiva
Fontana di Cerere.
Salito che si è sul ponte, vedesi una lunga vasca nel
mezzo, bordata da parapetti di travertino scorniciato,
e da marciapiedi a mattoni, e quindi veggonsi altre sei
più piccole insecutive vasche, l’una sovrapposta all’altra, di modo che formano tante cascatine regolari,
parimenti bordate tutte di parapetti di travertino scorniciato, marciapiedi, e piccole scalinate per l’inclinazione del suolo68.
Numerose vasche costituiscono il corpo di questo
lungo bacino69. Il loro numero e la loro disposizione sono dovuti alla necessità di adattarsi al terreno, che in quest’area varia la propria pendenza
aumentandola improvvisamente. Non è una vera
invenzione di Vanvitelli, poiché una soluzione
analoga è suggerita anche da Dézallier d’Argenville, in caso di terreni in accentuata pendenza e
già nella Granja di S. Ildefonso la Fontana di Anfitrite presenta le medesime caratteristiche.
Ma l’architetto napoletano dimostra in varie occasioni di apprezzare le potenzialità offerte da
tale soluzione. Anche per il progetto della mostra
d’acqua provvisoria, da realizzare sul monte Garzano, Vanvitelli aveva previsto un sistema di vasche analogo a quello realizzato nell’asse del
Parco70.
Originale è, invece, l’idea di ripetere due volte la
soluzione delle vasche sovrapposte – nella Fontana di Cerere ed in quella successiva dedicata a
Venere – creando un moto incessante che riprende la monumentale cascata sul Monte Briano
e prosegue nel già osservato velo d’acqua della
Fontana di Eolo.
Originale è, perciò, l’aver introdotto, all’interno
di una planimetria di chiara ispirazione francese
– sottolineata dalla presenza della successione di
bacini, leggibile come alter ego del canale centrale – l’elemento principe della tradizione ita-
Palazzo del Quirinale, Fontana delle Bagnanti. Le statue probabilmente facevano parte della Fontana di Eolo.
137
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Parco di Caserta, Fontana di Cerere.
L’onda della balaustra nel dislivello dei gradini.
liana, quello della catena d’acqua. Tra gli innumerevoli precedenti, si vuole – in questa analisi –
osservare, ancora una volta, una particolare analogia con la successione di vasche presente in
Villa Barbarigo a Valsanzibio.
Nella villa veneta le fontane – collegate in sequenza e disposte su un asse trasversale rispetto
a quello che si origina dalla facciata principale
dell’edificio – costituiscono l’elemento scenografico che accoglie gli ospiti giunti in barca da Venezia ed approdati nel Bagno di Diana, portale di
accesso dalla via d’acqua. La successione di bacini, posti su livelli differenti e con gruppi scultorei situati ad una sola delle estremità, sembra
contenere il primo nucleo dell’idea sviluppata da
Vanvitelli ad una scala maggiore.
Le fontane di Caserta appaiono, dunque, incatenate tra loro secondo una pluralità di modi che va
dalla sequenza lungo lo stesso asse – che permette al flusso dell’acqua di scorrere, apparentemente, dall’una all’altra – all’iterazione, seppur
in forme diverse, di uno stesso motivo, quello
della cascata.
Caduta dal monte, successione di cascatelle, velo
d’acqua risultano essere allora semplici variazioni dello stesso tema, inserite nella più complessa armonia generale.
138
La stessa architettura della vasca di Cerere concorre al raggiungimento dell’effetto desiderato.
La balaustra, dal particolare, morbido profilo, accompagna il corso dell’acqua nella sua discesa.
Vanvitelli ha saputo rendere nella fissità della pietra l’incessante moto dell’elemento liquido.
Il motivo del ricciolo, che serve di raccordo tra i
differenti piani della balaustra, è già presente nello
scalone principale; ma mentre lì era semplice decorazione, nella fontana la sua funzione è amplificata,
a coinvolgere l’intero perimetro del bacino.
Come ruscello, la balaustra scorre attorno alla
vasca, ma nel salto di quota si piega creando la
voluta di un’onda che si infrange sugli scogli, e
come onda precipita nel dislivello esistente, terminando in un’ulteriore, spumeggiante voluta.
Da qui riprende il suo cammino, come l’acqua
dopo il salto dalla cascata, immutata nel suo apparire, per ritornare ad essere onda nel salto di livello successivo. Ad ogni salto, un volto umano,
una maschera caricaturale, compare sull’elemento verticale della balaustra.
Elemento mai uguale a se stesso, seppur reiterato
sei volte, il volto permette di leggere l’insieme delle
vasche come successione di elementi consecutivi e
non come stanca e statica ripetizione seriale.
Ogni salto di quota è sottolineato da infiniti
Parco di Caserta, Fontana di Cerere.
Il profilo a squame nel passaggio tra le vasche.
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
spruzzi, accentuati dal particolare profilo conferito al bordo della vasca lì dove questa si piega
per agevolare la caduta dell’acqua. La superficie,
infatti, non è liscia, ma resa scabra da una serie di
rilievi, quasi squame di un pesce o di un colossale
mostro marino, che impediscono all’acqua di cadere come un’unica massa compatta. Non si tratta
perciò di un semplice elemento decorativo, ma
ancora una volta al lato estetico è associato un
preciso scopo funzionale. La presenza delle
squame, infatti, scompone il flusso in una serie
infinita di rivoli minori «affinché l’acqua saltelli
e faccia spuma bianca»71, secondo un effetto che
si è visto molto caro all’architetto napoletano.
Al termine della vasca, infine, il gruppo scultoreo
da cui l’intero bacino prende il nome.
[Il canale] Presenta nella sua fine la Dea Cerere situata
sopra un piedistallo stringente col braccio una medaglia
coll’impronta della Trinacria circondata da Ninfe, ed a’
piedi due draghi alati, animali a se consegrati, che scherzano con un putto: da ambi i lati vi son pur due figure
sdraiate di differente età rappresentanti due fiumi ancor
della Sicilia cioè Anapo, ed Aretusa con due urne, che
gittano acqua; nel basso finalmente due delfini isolati, e
due gruppi di Tritoni colle loro buccine, che formano
graziosi getti d’acqua. Gittano pure acqua la maschera
posta nel mezzo del piedistallo, e i due draghi72.
Parco di Caserta, Fontana di Cerere.
Il gruppo di Cerere e le Ninfe.
Genesi geometrica della sezione tipo della balaustra delle
Fontane di Cerere e Venere.
Al di là della discordanza interpretativa tra le parole di Patturelli e quelle del Cavalier Sancio73,
riguardo alle due statue rappresentanti i fiumi ai
lati di Cerere, appare evidente come la fontana
sia una chiara allegoria dell’abbondanza della Sicilia. Cerere, dea delle messi, è posta in veste di
personificazione dell’isola, rappresentata simbolicamente dalla Trinacria scolpita nel medaglione
mostrato dalla divinità.
L’allegoria è quindi un chiaro riferimento alla
principale fonte di ricchezza della Sicilia e, per
estensione, dell’intero regno di Carlo III: il grano,
cioè l’agricoltura. E particolarmente ricca doveva
apparire anche la fontana, con spighe di bronzo
poste tra i capelli della dea e tra le mani delle
ninfe, così come di bronzo erano le pale di pertinenza dei due fiumi. In seguito all’occupazione
francese del 1799, ci informa Patturelli, spighe e
pale vennero «rubate, e rovinate le sculture»74, alterandone l’immagine complessiva.
La composizione delle figure, eseguite tra il 1783
e il 1785 da Gaetano Salomone, è assimilabile,
come osserva Francesco Starace75, al frontone di
un tempio classico. Le statue sono disposte su tre
file, parallele tra loro ed ortogonali all’asse principale del giardino: sulla prima, la più breve, si
allineano i delfini; seguono, ad altezza interme139
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
La fontana accennata è preceduta da una continuata
sovrapposizione di undici altre simili vasche a cascatine, come le anzidescritte, per la ragione della medesima inclinazione del suolo. I simili marciapiedi a
scalette, i stradoni, viali coverti, e boschetti ne’ due
laterali non son disgiunti dalle vasche medesime, cosicché si osservi una perfetta simmetria78.
Parco di Caserta. La successione Fontana di Cerere - Fontana di Venere. Sul fondo la cascata.
dia, le due coppie di Tritoni; infine Cerere attorniata dalle Ninfe, con alle estremità le due figure
sdraiate dei fiumi.
La caratteristica principale di questa fontana, sicuramente la più interessante, è, però, quella che
gli ha conferito il soprannome di “Zampilliera”.
Simile, nell’architettura, alla fontana precedente,
lunga poco meno, ma della medesima ampiezza
(66 palmi e ½, cioè circa 17 metri), la Fontana di
Venere comprende dodici vasche suddivisibili in
due gruppi di lunghezza decrescente. Le ultime
cinque vasche sono, infatti, più corte delle sette
precedenti, per adattarsi meglio alle pendici del
monte su cui si addossano, e mantenere, così, costante il numero dei gradini utilizzati per superare
il dislivello. Da notare è che il numero totale delle
vasche, dodici, è difforme sia rispetto a quanto
detto dal Cavalier Sancio, che forse si riferisce ai
salti dell’acqua, sia a quanto descritto da Patturelli79.
Come già osservato, Vanvitelli propone di nuovo
la sovrapposizione delle vasche a formare piccole
cascatelle, ma anche in questo caso non si tratta di
una semplice ripetizione di un motivo già utilizzato. Sebbene il profilo della balaustra sia il me-
Evvi ancora un gioco di acqua a scomparsa ne’ due
marciapiedi della medesima ultima vasca, cioè due
berceaux di piccoli zampilli, che bagnano intieramente quelli che vi si trovano a passeggiare76.
Allegoria dell’abbondanza, la fontana mostra anche
una copiosa presenza di acqua in ogni sua parte.
Oltre ai numerosi getti presenti nella vasca, girando
all’improvviso una chiave nascosta «chi sta a riguardar la scoltura trovasi tutto circondato d’acqua
senza saper come»77. Quello degli scherzi d’acqua è
un motivo ripreso dalle ville italiane della fine del
cinquecento, che, in seguito si diffuse in tutta Europa. Gli scherzi servivano a rallegrare gli animi –
attraverso l’improvvisa comparsa di spruzzi inaspettati – ed, eventualmente, anche a rinfrescare nelle
giornate particolarmente soleggiate, aspetto, questo,
non irrilevante nelle calde giornate estive casertane.
Lasciata la dea Cerere, il cammino prosegue verso
la Fontana di Venere.
140
Parco di Caserta, Fontana di Venere.
La differente onda formata dalla balaustra.
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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desimo della Fontana di Cerere, tuttavia diverso
è il modo con cui questo si piega a formare l’onda
al passaggio di quota. Infatti a causa della diversa
inclinazione del terreno – e non la «medesima»
come ricorda il Cavalier Sancio – Vanvitelli sceglie di utilizzare sei gradini, invece di cinque, per
ogni livello. La fontana ha però, nel complesso,
un carattere più morbido ed elegante, più appropriato alla divinità raffigurata. Anche il motivo
utilizzato per far rifrangere l’acqua è diverso: non
più squame di pesce, ma onde flessuose che si allungano da un lato all’altro della vasca, con un effetto finale meno appariscente ma più armonioso.
Nel tratto verticale della balaustra teste di animali
si sostituiscono ai volti umani, ricordando che ci
stiamo avvicinando ad una parte del Parco più selvaggia e dedicata soprattutto all’attività venatoria,
divertimento prediletto dal sovrano.
Si tratta infatti di selvaggina: cervi, volpi, lupi,
orsi, cinghiali si alternano di vasca in vasca con
la stessa funzione già osservata in precedenza riguardo alla Fontana di Cerere. Sull’ultima vasca
l’ennesima variazione sul tema: la testa di un cane
celebra la fedeltà di questo animale indispensabile
nella caccia e, allo stesso tempo, diviene guardiano di pietra per il gruppo scultoreo collocato
all’estremità80.
Parco di Caserta, Fontana di Venere.
Il profilo a onde nel passaggio tra le vasche.
Parco di Caserta, Fontana di Venere.
Il gruppo scultoreo di Venere e Adone.
Finalmente sormontando una grandiosa scalinata semicircolare di travertino con balaustrate a’ fianchi,
sulle quali sorgono le statue in marmo di diversi cacciatori, e cacciatrici, si giugnerà in un gran ripiano.
In questa posizione di prospetto si mira la gran caduta
delle acque, che precipitandosi dal contiguo monte, e
frangendosi in artifiziosi scogli si versano nella sottoposta gran vasca81.
Finalmente!
Come dice Patturelli, finalmente si giunge al termine dei tre chilometri che separano la Reggia dal
monte82. Finalmente si giunge ai piedi della «gran
caduta delle acque», quella cascata che fin dal vestibolo inferiore del Palazzo aveva attratto la curiosità. Come in Vaux-le-Vicomte, attraverso un
sapiente gioco di elementi in prospettiva, Vanvitelli
ha saputo creare l’illusione che la meta del nostro
cammino fosse sempre ad una distanza inferiore,
spronandoci nel proseguire per raggiungerla.
Ancora oggi lo spettacolo ripaga dalla fatica, sebbene la quantità d’acqua sia notevolmente diminuita e molto si sia perso del grandioso effetto
provocato dalla nuvola di spruzzi sollevata nella
vasca.
Di fronte a noi la cascata si getta dall’alto del
monte Briano; ai suoi lati, nell’ampia vasca ellit141
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
FONTANA DI CERERE
FONTANA DI VENERE
FONTANA DI CERERE
FONTANA DI VENERE
La balaustra della Fontana di Cerere posta a confronto con quella della Fontana di Venere. In alto, confronto tra i due modi
di adattarsi alla morfologia del terreno; in basso, confronto tra le due genesi geometriche.
142
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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tica, un evento prodigioso sta accadendo: Diana,
sorpresa al bagno con le sue Ninfe, sta trasformando l’incauto Atteone in cervo.
La Fontana di Diana e Atteone costituisce il culmine dell’asse centrale. Ancora una volta nelle
parole di Giovan Vincenzo Imperiale si trova una
testimonianza della fortuna di questo tema83 ed
una descrizione di una fontana molto simile alla
realtà casertana.
Nel destro laberinto à l’occhio inalza
Sù bella base, entro marmorea conca,
Di bianco marmo immagine diritta;
Che nel suo capo, già converso in cervo
Finge Atteone; e nel sinistro poi,
In simigliante imagine formata
La cacciatrice e casta Dea lunata
E, con gran vanto di scarpel famoso,
Sì quella, e questa naturale espressa,
Che veramente, e di vergogna, e d’ira
La boscareccia vergine, modesta
Vedi arrossar nel bianco marmo istesso;
Et avventare al cacciatore incauto,
Con l’una man trasformatrice l’onda;
E celar con la manca, ancor tremante,
In atto insieme e vergognoso, e crudo,
Quanto più può del suo bel corpo ignudo.
E vedi il folle, e per soverchio amore,
Soverchio forse temerario amante,
La bagnatrice Dea mirare humile;
Quasi mercè le chieda, e à poco à poco
Dishumanarsi, e trasformarsi in belva;
E dal suo caro can, ch’à lui non lunge
Hà’l vivace scarpello effigiato,
Esser giunto, esser morto, esser sbranato84.
Parco di Caserta. La cascata al termine del percorso.
143
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Pur con le dovute differenze architettoniche,
anche a Caserta, come nella descrizione dell’Imperiale, la scena rappresentata è divisa in due
gruppi scultorei che si fronteggiano.
Un piazzale semiellittico accoglie il visitatore,
creando il giusto spazio di pertinenza per il bacino. Di nuovo è presente una forma curvilinea,
come nella Fontana di Eolo, ma questa volta convessa anziché concava.
Al centro una scalinata permette di salire al livello del bacino; ai lati due rampe svolgono la
medesima funzione seguendo il perimetro del
piazzale, sottolineato da due balaustrate con quattordici statue di cacciatori. È una pluralità di accessi e di punti di vista.
Perfettamente in asse, la scalinata permette una visione frontale ed immediata della cascata. Nella nuvola di gocce d’acqua, i due gruppi scultorei,
collocati nei fuochi dell’ellisse della vasca, appa-
iono ai margini del campo visivo e lo sguardo deve
correre da destra a sinistra, prima sull’uno, poi sull’altro, per poterne apprezzare pienamente le caratteristiche. Ben altro effetto si ha salendo le rampe.
In tal caso la prima percezione è quella di uno dei
due gruppi, a seconda del lato da cui si accede.
Diana è scorta in compagnia delle sue ninfe, ma
intenta in quale occupazione? Viceversa, Atteone
sta fuggendo fra i suoi cani, ma per quale motivo?
Il mito ritorna alla memoria, ciascuno dei due
gruppi richiama l’altro, ma la rivelazione è più
lenta e graduale e richiede una maggiore partecipazione nella ricerca dell’elemento che, pur presente, sembra mancare.
Dalla balaustra i cacciatori – e le cacciatrici –
sembrano suggerire questo secondo approccio all’area, invitando quasi, nei gesti e nelle pose, a
non salire i facili gradini, ma a percorrere lentamente una delle due rampe.
Parco di Caserta, Fontana di Diana. Gruppo scultoreo con Atteone sbranato dai cani.
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Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Ancora una volta, insomma, Vanvitelli rappresenta
l’istante dell’azione e ancora una volta lo spettatore
è chiamato ad interagire. Sotto il monito dei cacciatori, salendo le rampe viene percepito il verificarsi di un evento straordinario. Quando, giunti nel
piazzale, scorgiamo la figura di Diana, è come se
noi stessi assumessimo la parte dello sfortunato
cacciatore, ma il braccio teso della dea ci risolleva
mostrando la soluzione: nella direzione indicata Atteone è già in parte trasformato in cervo ed attaccato dai suoi stessi cani. Possiamo tornare ad essere
soltanto gli spettatori della rappresentazione.
Da ciascun lato della vasca sette rampe conducono dai piedi della cascata fino alla sommità85:
ottantadue metri di dislivello che offrono uno
splendido panorama sullo stesso giardino e sul
territorio circostante. Punti di sosta con sedili
sono predisposti, ad ogni livello della salita, per
permettere il riposo e la vista.
In cima un padiglione rustico, una “Torretta” «fatta
a grotta con loggetta al di sopra ad uso di belvedere»86, sostituisce la coffee house prevista nella
Dichiarazione, che avrebbe riproposto, a scala monumentale, quanto esiste alla sommità della Fontana di Anfitrite nel palazzo della Granja.
Il disegno unitario delle fontane dell’asse centrale
Diana, Venere, Cerere, Giunone.
Quattro dee per quattro fontane che appaiono
molto più interdipendenti di quanto sembri.
A due a due le fontane si richiamano tra loro, secondo uno schema assimilabile a quello di una
quartina poetica: A-B-B-A.
Innanzi tutto, planimetricamente, si è già accennato alla corrispondenza tra la curva della Fontana di Eolo e quella della Fontana di Diana e
Parco di Caserta, Fontana di Diana. Gruppo scultoreo con Diana e le ninfe.
145
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Fontana di Diana
Fontana di Venere
Fontana di Cerere
Fontana di Eolo
Le quattro fontane sicuramente di Luigi Vanvitelli si corrispondono in uno schema a chiasmo.
146
Atteone. Entrambe le curve sono rivolte verso
l’esterno, l’una verso la Reggia e l’altra verso il
monte, ed è per tale motivo che al visitatore proveniente dal Palazzo Reale appaiono l’una concava e l’altra convessa.
All’interno dello spazio così determinato, le due
Fontane di Cerere e di Venere costituiscono
un’unica linea retta, segmentata in tante vasche
susseguenti, secondo uno schema che, come si è
visto, è reiterato per due volte.
Gruppi scultorei sono presenti in tutte le fontane,
ad evidenziare, come si è già osservato, la predilezione di Vanvitelli per le azioni raffigurate nel momento esatto in cui vengono compiute. Si tratta,
però, di gruppi scultorei molto differenti tra loro.
Di fronte alla tempesta scatenata contro Enea o
alla trasformazione di Atteone in cervo, il visitatore assume veramente il ruolo di spettatore di
una rappresentazione teatrale, arrivando quasi a
credere di essere parte della scena a cui assiste87.
L’azione è infatti suddivisa tra i vari attori partecipanti: numerose figure in un caso (Fontana di
Eolo), due protagonisti con i propri comprimari
nell’altro (Fontana di Diana).
Nelle altre due fontane, invece, i gruppi sono collocati, più staticamente, alla sommità dell’ultima
vasca. Il visitatore assiste, ma non partecipa, alle
scene rappresentate, a meno che non gli venga richiesto con improvvisi spruzzi. Tuttavia, il minore coinvolgimento emotivo sembra un effetto
studiato, che serve in un caso (Fontana di Cerere)
a mitigare le forti sensazioni appena provate di
fronte alla tempesta e nell’altro (Fontana di Venere) a predisporre al nuovo evento che è stato
allestito alla base della cascata.
A ciascun gruppo scultoreo, presente in ogni
fontana, si accompagnano figure ornamentali di
completamento, poste sempre sulle balaustre che
circondano le fontane. Si tratta di figure la cui
funzione è quella di sottolineare alcuni aspetti
legati ai soggetti raffigurati.
Ancora una volta, è possibile riscontrare una corrispondenza a chiasmo: figure intere si trovano
sulle balaustre della prima e della quarta fontana
(di Eolo e di Diana), mentre semplici teste,
umane o ferine, si alternano nelle fontane centrali
(di Cerere e di Venere).
Infine, il motivo della caduta d’acqua ricorre in
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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tutte le fontane con caratteristiche che le assimilano, di nuovo, a due a due: cascatelle nella coppia di bacini centrali, cascate – anche il velo
d’acqua è una cascata dovuta all’improvviso salto
di quota – negli altri due.
È perciò leggibile, nell’insieme delle quattro fontane, un principio compositivo, ideato, probabilmente, in un momento successivo alla
presentazione dei disegni ai Sovrani, che tende
ad una loro unificazione in un organismo più
complesso.
In alcune parole dello stesso Vanvitelli si può intravedere un riferimento a tale momento. Nel
1766, in una lettera al fratello Urbano, Luigi dichiara di attendere notizie, dal figlio Pietro, relativamente alla descrizione dei giardini della
Granja di S.Ildefonso88. Sembrerebbe possibile,
quindi, che proprio da tale relazione, attualmente
sconosciuta, Vanvitelli abbia potuto trarre l’idea
per alcuni elementi utilizzati a Caserta, come, ad
esempio, può far supporre la notata somiglianza
tra la Fontana di Anfitrite ed il sistema dei bacini
di Venere e Cerere.
Tuttavia il semplice riferimento al Parco della
Granja appare riduttivo, per quanto possa essere
servito di stimolo all’architetto napoletano per
progettare una composizione ancora più grandiosa del precedente spagnolo. Inoltre, il modello
della Fontana di Eolo è antecedente al 1766, facendo supporre che, a tale data, l’ideazione delle
singole fontane fosse già in corso, essendo dettata
dalle particolari esigenze del sito: la pendenza, il
modo di far scorrere l’acqua o, nel caso specifico,
il brusco salto di quota e la presenza del ponte di
Sala.
Non è da escludere, perciò, che il progetto delle
quattro fontane fosse stato già stabilito e che la
relazione citata nella lettera al fratello Urbano
servisse a Vanvitelli soltanto come ulteriore termine di confronto per la sua opera.
In ogni caso, appare evidente la volontà di collegare insieme le quattro fontane, di riunirle in un
unico tema. Una chiave di lettura può essere data
proprio dalla presenza di un percorso, funzionale
e simbolico, dell’acqua. Ricollegandosi a quanto
già osservato in precedenza, sembra che Vanvitelli voglia riproporre il genius loci del sito di Caserta, che, come osserva Gianni Venturi a
Parco di Caserta. Il percorso ai lati della cascata, dalla base,
in basso, alla sommità..
147
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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proposito delle ville del Seicento, attraverso i
suoi templi e le sue statue «è assunto a guida e
protezione del visitatore»89.
Il giardino di Caserta nasce sotto il patrocinio di
Diana, quella dea dei monti Tifatini il cui santuario era ricordato da Vanvitelli come una delle
opere più illustri, dei tempi antichi, nella zona.
E la potenza della divinità vede proprio nella
copiosa presenza d’acqua il suo tratto peculiare.
Il percorso di avvicinamento a Diana può essere
considerato alla pari di un viaggio iniziatico, che
vede un progressivo inselvatichirsi degli elementi
che caratterizzano il cammino. Si è già visto
come il sostituirsi delle teste di animali ai volti di
uomini, nella Fontana di Venere, è rappresentativo proprio dell’ingresso in una zona del Parco in
cui la selvaggina era libera di vagare per consentire la caccia del re. Ed è Venere stessa che ci invita alla prudenza, mentre prega insistentemente
il suo amato Adone, affinché nel cacciare non insegua belve pericolose. La dea, raffigurata nell’unico episodio in cui, abbandonati i suoi piaceri
tipicamente femminili, si avvicina, per amore, al
mondo venatorio, diventa l’elemento di cerniera
tra il selvatico e l’addomesticato, introducendoci
a quella zona del Parco in cui si fanno più presenti le tematiche appartenenti, per definizione,
al mondo di Diana.
Un secondo percorso, però, opposto a quello appena compiuto, manifesta il carattere sacro che
sembra permeare il cammino.
È quello non percorribile da piede umano, quello
dell’acqua, via della divinità, che scende dal
monte Briano per giungere alla Reggia. È questo
un percorso che parla del progressivo addomesticamento dell’elemento liquido e, per estensione,
della natura stessa.
La raffigurazione della dea vergine, all’inizio del
percorso idrico, è indicativa della simbologia di
un’acqua che arriva pura dalla sorgente. Come
già visto, Diana sembra acquisire quelle caratteristiche simboliche proprie delle ninfe custodi
delle fonti ed in tal senso il suo bacino diviene, a
sua volta, sorgente del nuovo corso d’acqua che
si sviluppa nel Parco.
La sua vitalità selvatica, espressa dalla potenza
della cascata, non può, però, giungere con tutta
la sua forza dirompente all’interno del giardino –
148
microcosmo ove tutto è armonia – senza piegarsi
a precise regole che rispettino l’ordine imposto
dall’architetto. È il predominio dell’opera dell’uomo sulle forze primordiali che viene espresso
dalla Fontana di Venere.
Venere, nella tradizione latina, è la dea dell’amore, secondo la sua identificazione con
l’Afrodite del mondo ellenico, ma è anche la dea
dei giardini. È il suo potere che provvede a creare
il giusto ordine nella natura affinché questa si pieghi al volere dell’uomo, al suo desiderio di bellezza, gioia, equilibrio. L’acqua che scende verso
valle trova nella Fontana di Venere l’elemento di
ordine che le permette di inserirsi, con un ruolo
ben definito, all’interno del disegno del giardino:
all’imponente cascata si sostituisce una pluralità
di cascatelle molto basse, create dal dislivello esistente tra le varie vasche in cui l’intero bacino è
suddiviso.
L’acqua viene, perciò, inserita nella geometria di
un disegno ordinatore molto più complesso, entrando a far parte di un mondo nuovo, comprensivo anche della fontana successiva. In questo
cosmos il giardino sostituisce la selva e ad esso
segue il lotto agricolo, l’appezzamento di terreno
produttivo, il regno di Cerere. L’acqua, opportunamente impiegata, offre – porta in superficie – i
doni racchiusi nel ventre della terra, secondo una
simbologia già osservata nel Parterre Sud di Versailles, dove, però, il ruolo di principio attivo era
svolto dalla luce del sole.
L’azione dell’acqua, però, non avviene spontaneamente: Venere e Cerere, il bello e l’utile, il
giardino e il terreno agricolo, sono frutto dell’attività dell’uomo, della sua opera che, con lavoro
incessante, piega la natura al suo volere.
Lavoro e ingegno. L’uomo è anche pensiero, immaginazione, fantasia. La successiva Fontana di
Eolo mostra allora un’acqua non più utilizzata
per scopi pratici, ma piegata ai capricci dell’arte,
al volere di Giunone.
Quei capricci in grado di creare una cascata all’interno di un’architettura, di trasformare una
vasca in un tratto di mare, di scatenare una tempesta là dove tutto intorno è quiete, di mutare
l’acqua in aria.
È quell’arte, intesa anche come techne, che, non
va dimenticato, è in grado di realizzare una ca-
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Parco di Caserta. L’asse centrale si dispiega dalla sommità della cascata.
149
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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scata sulle pendici di un monte e di renderla “naturale” nella sua artificialità.
La sacralità del sito si manifesta nella fusione di
Arte e Natura, unione in grado di creare un luogo
– per utilizzare sempre le parole dell’Imperiale –
Ove, se miri, con tal arte osservi
L’arte osservata, e l’arte ascosta ad arte,
Ch’à Natura n’ascrivi il don de l’Arte»90.
L’insieme delle fontane può essere, pertanto, interpretato come il progressivo sviluppo dell’uomo –
ovvero dell’intera umanità – guidato da quella ragione che gli è propria e che lo caratterizza.
In tal senso Vanvitelli sembra acquisire le novità
introdotte dalle idee illuministe, che avevano in
Napoli uno dei principali centri di diffusione,
compiendo un radicale passo avanti rispetto al
progetto della Dichiarazione.
Parco di Caserta, la balaustra della Fontana di Diana. In alto, le statue dei cacciatori indicano il percorso.
150
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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Prospettive vichiane. Una lettura dell’asse centrale come asse della Storia
A tal proposito è stato ravvisato91 un collegamento
tra le immagini raffigurate nelle fontane dell’asse
centrale e le idee del principale filosofo napoletano
del Settecento, Giambattista Vico, in particolare
tra quanto espresso nella «Scienza Nuova» e la
successione delle quattro scene rappresentate.
È infatti plausibile che Vanvitelli, giunto nel Regno
di Napoli, possa essere entrato in contatto con
l’ambiente culturale in cui le idee di Vico erano
diffuse e che le abbia riprese come motivo ispiratore nella scelta dei temi iconografici del Parco.
Secondo tale ipotesi, l’asse centrale potrebbe essere inteso come asse storico, luogo in cui viene
rappresentata, sulla base degli episodi maggiormente significativi, la nascita e lo sviluppo dell’umanità. Secondo Vico la storia è, infatti, opera
dell’uomo ed espressione della modificazione
della sua mente, che lo porta a passare dal senso
alla fantasia fino a giungere alla ragione.
Storicamente questo passaggio può essere individuato in tre fasi. La prima è l’età in cui gli uomini «sentono senza avvertire». È l’età ferina,
caratterizzata dal fatto che gli uomini non sono
altro che bestie confuse e stupide, giganti «tutto
orgoglio e fierezza per la fresca origine della li-
bertà bestiale (…) nella somma semplicità e rozzezza di cotal vita, ch’eran contenti de’ frutti
spontanei della natura, dell’acqua delle fontane e
di dormir nelle grotte»92.
Tale principio sarebbe espresso formalmente all’origine dell’asse centrale, nella Fontana di
Diana, in cui l’uomo – Atteone – rivela la propria
ferinità nel contatto con il “mistero” della dea ed
è «sbranato da’ suoi cani», ovvero «da’ rimorsi
della propria coscienza per la religion violata»93.
Diana è, secondo Vico, una delle prime “degnità”
– ovvero principi ritenuti intuitivamente certi –
nate dall’umanità in formazione. È da osservare
come, anche per il filosofo napoletano, sia molto
stretto il rapporto della dea con l’acqua, in particolar modo con le sorgenti, «fontane perenni»
presso cui gli uomini, spinti dalla necessità di
bere, costituirono i primi nuclei familiari.
«Appresso, i giganti pii (…) dovettero risentirsi
del putore che davano i cadaveri de’ lor trapassati,
che marcivano loro da presso sopra la terra; onde
si diedero a seppellirgli»94. Dall’abitudine di seppellire i morti – cioè di in-humare – nasce l’humanitas, l’essenza stessa dell’uomo che, nell’età
della fantasia, è in grado di «avvertire con animo
perturbato e commosso» e di concepire le prime
«favole» intorno agli dei. Tale seconda età sarebbe rappresentata nella Fontana di Venere, in
Parco di Caserta. La balaustra del Ponte di Sala, in alto, posta a confronto con quella del Ponte di Ercole.
151
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
cui la dea è posta in relazione alla figura di
Adone, l’uomo da lei amato al quale, dopo l’improvvisa morte, conferì una sepoltura95. Tuttavia
la prosecuzione dell’interpretazione vichiana per le
altre due fontane sembra essere un po’ forzata. Se la
Fontana di Cerere si può collegare al discorso secondo il quale le prime società erano di stampo agricolo e l’oro – rappresentato successivamente negli
stemmi araldici – era il colore del grano maturo, più
difficile è interpretare la presenza di Enea come un
riferimento alla costituzione delle prime città, nate
anche dall’accoglienza di popoli errabondi.
In quest’ultimo caso, infatti, non solo non c’è alcun
riferimento all’arrivo di Enea nel Lazio e alla sua
accoglienza da parte di Evandro, ma l’episodio
ispiratore della fontana è raffigurato con estrema
fedeltà al testo virgiliano. Considerando la meticolosa accuratezza che Vanvitelli ha applicato sempre
in ogni sua opera, se egli avesse voluto riferirsi ad
un preciso passo dell’Eneide, più direttamente correlabile alle idee vichiane, non ne avrebbe di certo
rappresentato un altro in sostituzione.
L’ipotesi di George L. Hersey non è comunque da
sottovalutare. Il suo principale merito è anzi quello
di aver proposto una lettura alternativa dell’asse
centrale, in cui le fontane non rappresenterebbero
più miti antichi in forme stereotipate e retoriche.
L’aver voluto riconoscere una matrice vichiana
consente, pertanto, di inserire l’opera vanvitelliana pienamente nel secolo dei lumi, attribuendole, automaticamente, un decisivo passo avanti
rispetto alle infinite reiterazioni di tematiche presenti nei giardini formali europei.
La ricomposizione in unità del progetto e della
realizzazione
Abbandonate, dunque, le convenzionali allegorie
barocche, le fontane di Caserta rappresenterebbero miti che non esaltano più, sfacciatamente, la
storia e l’immagine del committente, ma celebrano le imprese relative al progresso di un popolo o, addirittura, dell’intera umanità.
Nel caso specifico del Regno di Napoli, tali progressi sono stati favoriti dall’azione riformatrice
di un sovrano illuminato: Carlo di Borbone.
Ricorda, a tal proposito, Gustavo Costa:
152
Carlo Vanvitelli, Planimetria del Giardino Inglese, 1786
circa. L’asse centrale è nella sua attuale conformazione.
Il nuovo regno di Carlo di Borbone (…) dovette affrontare il compito non agevole di accrescere e incanalare la vitalità e di conferire dignità e identità
“nazionale” a un popolo grande e antico, ma spesso
servo di stranieri; a una “patria” napoletana ancora
spirituale e cetuale, esistente solo in ristrette scelte di
giuristi, funzionari, scienziati e filosofi, che attingono
a dense e multiformi tradizioni culturali96.
È dunque possibile che, pur se non dichiarato, il riferimento al sovrano sia ancora presente nel Parco?
Ed è possibile interpretare la figura di Nettuno, deus
ex machina nella vicenda di Enea, proprio come allegoria di Carlo di Borbone e della sua azione apportatrice di pace in un popolo dalla storia tanto
tormentata, quanto quella dell’eroe troiano? Ancora
una volta sembra impossibile fornire una risposta.
Una prima identificazione tra Nettuno ed il sovrano Borbone è possibile attribuendo a Carlo III
il ruolo di “signore delle acque”, per aver promosso un intervento, quello dell’Acquedotto Carolino, destinato non solo alle amenità del suo Parco,
ma anche al miglioramento delle condizioni igieniche del suo popolo.
È possibile, inoltre, proseguire nell’identificazione con il re del mare anche attraverso il con-
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
fronto tra la Planimetria della Dichiarazione e la
realtà del parco realizzato. Le due soluzioni, apparentemente estranee, non risulterebbero, infatti,
in contrapposizione, ma sembrerebbero costituire
le due parti complementari della stessa idea.
La Fontana della Regia corte di Nettuno, prevista al posto dell’attuale Fontana Margherita, sarebbe stata la cerniera tra i due interventi,
trovandosi immediatamente dopo la lunga vasca
dei Delfini, a cui il tema marino l’avrebbe legata,
e immediatamente prima della fontana «principale» del giardino, quella dei tre Fiumi Reali
Ibero, Vistola ed il piccolo Sebeto.
L’acqua, fatta scatenare dal volere di Giunone, attraverso i Delfini sarebbe giunta nella corte del
dio del mare, dove avrebbe ritrovato la pace, e da
qui, con un riferimento ancora più esplicito a
Carlo III, sarebbe confluita nel simbolo della famiglia regnante. Come per i numerosi viali, che
avrebbero avuto in tale fontana il punto focale,
anche il percorso dell’acqua sarebbe, così, terminato nell’eterna celebrazione del re.
Le due parti del Parco sembrano, perciò, essere il
risultato di due storie progettuali autonome anche
se collegate e consequenziali. Si consideri, infatti,
che la totalità dell’asse centrale è rappresentata,
nella Dichiarazione, unicamente nella Veduta a
volo d’uccello della Tavola XIII, ma il disegno
fornisce soprattutto informazioni sull’immagine
complessiva dell’opera – ad esempio si nota la
presenza di un generico “belvedere” sul monte –
senza definire i singoli elementi presenti.
La planimetria con legenda, disegnata da Vanvitelli, si ferma, invece, proprio alla Fontana di
Nettuno, mentre l’area immediatamente successiva, fino ad arrivare al monte Briano, è rappresentata, al termine dei lavori, dal figlio Carlo nel
1786 circa. La situazione attuale sembra essere,
perciò, il frutto del necessario iter seguito nel procedere dei lavori, ovvero da monte verso valle,
secondo il percorso naturale dell’acqua. La mancanza di fondi per proseguire nelle opere ha comportato, quindi, la brusca interruzione proprio nel
punto in cui sarebbe iniziata la parte di giardino
rappresentata nella Planimetria della Dichiarazione, con il risultato di una faticosa lettura
complessiva del Parco e di una sua difficile comprensione.
L’immagine che avrebbe avuto il Parco se fossero state
completate tutte le sue parti. Sono evidenziate tutte le fontane che sarebbero state presenti secondo le intenzioni di
Vanvitelli
153
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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NOTE
1. Gianni VENTURI, op. cit., p. 109.
2. Arnaldo VENDITTI, Carlo Vanvitelli da collaboratore ad
epigono dell’arte paterna, in Luigi Vanvitelli e il ‘700
europeo..., cit., vol. II, p. 146.
3.
Ibidem.
4. Anna GIANNETTI, Dai Romani ai Borbone…, cit., pp.
138-139.
5. Nel 1768 Vanvitelli indicava i lavori da compiersi per
le nuove sistemazioni verdi in aggiunta a quelle già esistenti: «svellere e diradare i lecci dei boschetti intorno
alla peschiera, eliminare le querce, dare forma ad arco
prima che fosse troppo tardi alle “piante di verdura che
devono servire per i Pilastri del portico arenato intorno
alla nuova Sala” destinata alla fontana di “Amore e
Psyche”, posta di fronte al pomario del Palazzo Vecchio». Ibidem.
6.
Ibidem.
7.
Laura CARNEVALI, L’architettura del paesaggio nella
Dichiarazione dei disegni del Real Palazzo di Caserta
di Luigi Vanvitelli, in Il Disegno di Progetto dalle origini al XVIII secolo, coord. scientifico a cura di Mario
Docci, Gangemi Editore, Roma, 1997, p. 294.
8.
Ibidem.
9. Arnaldo VENDITTI, op. cit., p. 150.
10. Ibidem.
11. Ivi, p. 151.
12. Ibidem.
13. Luigi VANVITELLI, Dichiarazione dei disegni del Real
Palazzo di Caserta..., Napoli, 1756, tav. I.
14. Magherita AZZI VISENTINI, L’Olimpo in villa. Riflessioni sulla statuaria nei giardini veneti tra sei e settecento, in Il giardino e la memoria ..., cit., p. 94.
15. «Mentre il ragazzo con la faretra dà baci alla madre,
senza accorgersene le tocca il petto con una freccia
sporgente; la dea ferita respinse con la mano il figlio,
ma la ferita era più profonda di quanto appariva, e
aveva all’inizio ingannato lei stessa. Conquistata dalla
sua bellezza, non cura più i lidi di Citera, non frequenta
Pafo, cinta dal mare profondo, né Cnido pescosa o
Amatunte, gravida di metalli. Si astiene perfino dal
cielo e preferisce al cielo Adone». OVIDIO, Le Metamorfosi, ed. cit., X, vv. 525-532.
16. «Si raccontava che quando Selene scompariva dietro
la cresta montuosa del Latmo, nell’Asia Minore, an-
154
dava a trovare il suo amato Endimione, che dormiva
colà in una grotta. A Endimione, che in tutte le raffigurazioni appare come un bel giovane pastore o cacciatore, era stato concesso un sonno eterno, in origine
certamente dalla dea lunare stessa, per poterlo sempre
trovare nella grotta e baciarlo». Károly Kerény, op.cit.,
p. 183-184.
17. Vertumno è una divinità italica probabilmente di origine etrusca, in grado di operare cambiamenti ed assumere qualunque forma voglia. La storia del suo amore
per Pomona è narrata nelle Metamorfosi, XIV, vv. 622771. Dice infatti Ovidio che Vertumno, innamoratosi
di Pomona, dea degli alberi da frutto, cercò ripetutamente di corteggiarla assumendo varie sembianze
(mietitore, potatore di viti, bovaro..), ma fu sempre respinto finché, travestitosi da vecchia, riuscì ad avvicinare la ragazza e a lodarne le qualità. Quando, gettato
il travestimento, Vertumno mostrò il suo vero aspetto,
cioè quello di un dio giovane e bellissimo, riuscì a conquistare l’ormai vinta Pomona.
18. La favola di Amore e Psiche, particolarmente amata
nel Cinquecento, è dettagliatamente narrata nell’Asino
d’oro di Lucio Apuleio, IV, 28 - VI, 24.
19. Anche la storia del disperato amore di Eco per Narciso
è raccontata nell’opera di Ovidio: «Disprezzata, si nasconde nel bosco: per vergogna si copre il volto con le
foglie e da allora vive negli antri solitari. (…) Ma tutti
la sentono: è il suono che in lei sopravvive». OVIDIO,
Le Metamorfosi, ed. cit., III, vv. 393-394; 401.
20. Cecilia CAMPA, Figlia dell’aria, riverbero di sé. Eco,
Narciso, il suono e l’immagine, in Metamorfosi del
mito. Pittura barocca tra Napoli, Genova e Venezia, a
cura di Mario Alberto Pavone, Electa, Milano, 2003,
p. 178.
21. «Ora chiamata Flora, ero in realtà Clori: la lettera greca
del mio nome fu guastata dalla pronuncia latina. Ero
Clori, ninfa dei campi felici dove hai udito che in passato ebbero la loro dimora uomini fortunati. Dire quale
sia stata la mia bellezza, sarebbe sconveniente alla mia
modestia: ma fu essa a trovare come genero per mia
madre un dio. Era primavera, vagavo; Zefiro mi vide,
cercai di allontanarmi; m’insegue, fuggo; ma egli fu
più veloce. E Borea, che aveva osato rapire la preda
dalla casa di Eretteo, aveva dato al fratello piena licenza di rapina. Tuttavia fa ammenda della violenza
col darmi il nome di sposa, e nel nostro letto non ho
mai dovuto lamentarmi. Godo d’una eterna primavera;
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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è sempre splendido l’anno, gli alberi hanno sempre le
fronde e sempre ha pascoli il suolo. Possiedo un fiorente giardino nei campi dotali, l’aria lo accarezza, lo
irriga una fonte di limpida acqua: il mio sposo lo ha
riempito di copiose corolle, e ha detto: “Abbi tu, o dea,
piena signoria sui fiori” Spesso io volli contare le loro
specie, ma non vi riuscii: il loro numero superava il
conteggio». OVIDIO, I Fasti, trad. it. a cura di Luca Canali, BUR, Milano, 20064.
22. «Il quadro era il fulcro della decorazione del camerino
di Ercole, il primo degli ambienti da decorare affidato
al pittore nel palazzo Farnese a Roma. Collocato al
centro del soffitto, che fu dipinto a fresco tra il 1595 ed
il 1596, venne rimosso dalla sua sede e sostituito da
una copia quando, nel 1662, i Farnese lasciarono Roma
per recarsi a Parma, dove la tela fu collocata prima nel
Palazzo del Giardino, nella seconda camera detta “di
Venere”, poi a fine secolo nella galleria ducale del palazzo della Pilotta, per essere infine trasferita a Napoli
nel 1734 (è uno dei quadri che fa parte dei primi
invii)». Le informazioni sono tratte dal sito degli Assistenti Tecnici Museali del Museo di Capodimonte.
stenti negli angoli della sala diagonalmente esposti ed
aprirne invece altri due nella metà dei medesimi lati
cioè riguarda il Viale e Peschiera». Ibidem.
31. Giovan Vincenzo IMPERIALE, op. cit., pp. 383-384.
32. Fontane con il monte Parnaso sono presenti anche nei
giardini di Villa d’Este a Tivoli, di Villa Lante a Bagnaia e di Villa Aldobrandini a Frascati.
33. Le raffigurazioni tradizionali delle fontane del Parnaso
prevedevano, infatti, che sul monte fossero presenti
anche le nove figure delle Muse, il cavallo Pegaso ed
eventualmente anche l’immagine di Apollo.
34. Armando TAGLIOLINI, I giardini di Roma, Newton
Compton, Roma, 1992, p. 13, citato in Giuliana BALDAN ZENONI-POLITEO, Utilitas et decor nei giardini di
Roma antica, in Il giardino e la memoria del mondo,
cit., p. 25.
28. Maria Amalia di Sassonia era infatti figlia di Federico
Alberto, elettore di Sassonia, divenuto re di Polonia nel
1733, per volontà della Russia, con il nome di Alberto
III.
35. È il richiamo al mito dell’età dell’oro, così descritta da
Ovidio: «Per prima ci fu la generazione dell’oro, che
spontaneamente, senza leggi e punizioni, coltivava la
lealtà e la giustizia. Non c’erano pene e paure, e non si
leggevano parole minacciose scritte nel bronzo; la folla
supplice non tremava davanti al giudice, e senza bisogno di difensori vivevano al sicuro. Il pino tagliato dai
suoi monti non era sceso nell’acqua per vedere terre
straniere, e i mortali non conoscevano coste oltre le
loro. I fossati scoscesi non circondavano ancora le
città, non c’era la tromba diritta, né il corno ricurvo,
né elmi né spade: senza bisogno di eserciti, i popoli vivevano tranquilli nell’ozio. La terra inviolata, intatta
dai rastrelli, ancora senza le ferite del vomere, produceva ogni cosa da sé, e gli uomini, soddisfatti dei cibi
spontanei, raccoglievano frutti di corbezzolo e fragole
di bosco, corniole e more attaccate ai rovi, e ghiande
cadute dall’ampio albero di Giove. Era sempre primavera, e il tiepido soffio di Zefiro blandiva i fiori nati
senza semi. Subito, senz’essere arata, la terra produceva le messi, e il campo, senz’essere lasciato a riposo,
splendeva di spighe gravide; scorrevano fiumi di latte
e nettare, e dal leccio verde stillava il biondo miele».
OVIDIO, Le Metamorfosi, ed. cit., I, vv. 89-112. All’interno della Reggia tale mito è ricordato anche dalla figura di Astrea nella sala omonima.
29. Da un dispaccio autografo di Luigi Vanvitelli al cav.
Neroni Intendente di Caserta, in ARCe, Dispacci e
relazioni – vol. 1556 f. 239 (6.
36. A causa della sua natura mutevole Vertumno personifica la trasformazione delle forme vegetali da fiore a
frutto e più genericamente il mutare delle stagioni.
30. «Si dovrà lasciare nella stessa figura sua rettangola.
Onde il giardiniero dovrà unicamente piantare o seminare semenze o piante della stessa specie, per risarcire
le dette spalliere, rendendole più grosse e spesse e ciò
facendo, puotrà chiudere li due ingressi irregolari esi-
37. Ovidio così descrive questa divinità: «Già Proca governava il popolo del Palatino; e sotto questo re visse Pomona: nessuna fra le Amadriadi latine coltivava l’orto
con più bravura, nessuna era più appassionata delle
piante da frutto: di qui il suo nome. Non le piacciono
23. Un’altra fontana, raffigurante Nettuno e Anfitrite, si
trova, inoltre, nel giardino del Trianon.
24. L’analogia tra coppia divina e coppia regnante venne
ripresa, successivamente, anche nel soffitto del piccolo
teatrino di corte all’interno del Palazzo Reale di Napoli. L’Allegoria delle nozze di Poseidone e Anfitrite,
affrescata da Antonio Dominici, alludeva in tal caso al
matrimonio tra Ferdinando IV e Maria Carolina d’Austria.
25. La descrizione è in Fontane, giochi d’acqua e spettacolo, a cura di Marilyn Simmes, edizioni Librerie Dedalo, Roma, 1998, p. 78.
26. Ivi, p. 67.
27. Giovan Vincenzo IMPERIALE, Lo Stato Rustico, Genova,
1613, p. 381.
155
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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selve e fiumi, ama la campagna e i rami carichi di
pomi. Non porta nella destra un giavellotto, ma una
falce adunca, con cui controlla la vegetazione, e spunta
i rami che si espandono intorno ovunque, compie gli
innesti incidendo la corteccia e offre la linfa a piante
estranee. Non le lascia soffrire la sete; con rivoli d’acqua irriga le fibre ricurve della radice avida. Qui è tuttala sua passione, dell’amore non ha desiderio».
OVIDIO, Le Metamorfosi, ed. cit., XIV, vv. 622-634.
38. Anche la tradizionale interpretazione della Primavera
di Botticelli, di derivazione vasariana, identifica con
Venere la figura al centro della composizione ambientata in un giardino di alberi di arancio.
39. Relativamente al progetto vanvitelliano realizzato si
confronti quanto espresso dal Cavalier Sancio: «Nella
prima parte di questa delizia vedesi eseguito quasi un
abbozzo di ciò, ch’era ideato dall’Architetto Vanvitelli,
secondo si legge nella Iª. Tª. della dichiarazione di suoi
disegni, relativi al Real Palazzo di Caserta, imperocché
vi mancano le molteplici e varie decorazioni di fontane, statue e sedili». Antonio SANCIO, op. cit., sezione
II, preliminare, p. 107.
40. La realizzazione del Giardino Inglese è tuttavia successiva all’intervento di Luigi Vanvitelli ed è dovuta al
progetto di suo figlio Carlo per conto della nuova regina di Napoli, Maria Carolina.
41. La citazione è in Caserta e la sua Reggia, cit., p. 125.
42. «Un sorprendente, e grandioso viale, medio fra due
altri men ampli, lungo circa un miglio e mezzo, che ha
principio delle prime case del paese detto S. Nicola alla
Strada, a distanza di miglia undici e mezzo da Napoli
annunzia al Forestiere la vicinanza della Reggia Casertana in faccia al quale esso termina». Ferdinando
PATTURELLI, Relazione A.S.E. il signor D. Antonio Sancio, Caserta, 1826, p. 48.
43. Luigi Vanvitelli, lettera del 19 luglio 1754 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op.cit., vol. I, p. 342.
44. «Nel centro del grande Edifizio ritroverà un punto interessante per la veduta e lusinghiero per l’Arte, ove
non potrà fare a meno di arrestare il passo. Quì fermato
mirerà in faccia il bel viale, che mena alle peschiere, ed
alla celebre cascata delle acque nell’opposto Montebriano; rivoltosi alle spalle il magnifico stradone per
cui è venuto da Napoli; e tornando nella prima posizione al dintorno i quattro spaziosi cortili, in cui resta
diviso tutto il Real Palazzo; sulla sinistra la statua
colossale dell’Ercole latino, e sulla dritta la scala Reale
montando la quale più cose andrà osservando degne di
attenzione». Ferdinando PATTURELLI, op. cit., p. 50.
156
45. Antonio SANCIO, op. cit., p. 115.
46. Tale tipologia è, ad esempio, riscontrabile nella Fontana della Corona, presente nel giardino di Vaux-leVicomte.
47. «E perché il livello di questo tratto era superiore al
parco, fu di mestieri accompagnare il ponte da due
rampe semiellittiche, che han dato la forma alla piazza
sottoposta, ov’è il gran cesto da fiori». Antonio SANCIO, op.cit., p. 116.
48. Ferdinando PATTURELLI, op.cit., p. 92.
49. A.R.Ce, serie: I, nota.
50. Antonio SANCIO, op. cit., p. 117.
51. Francesco STARACE in Caserta e la sua Reggia…, cit.,
p. 131.
52. Si ringrazia, a questo proposito, l’arch. Giacomo Varricchio della locale Soprintendenza, per le preziose informazioni fornite.
53. Francesco ALGAROTTI, Saggio sopra l’architettura, in
ID., Opere varie, Giambattista Pasquali, Venezia,
1757, tomo II, p. 194. Nella sua opera l’Algarotti riporta le riflessioni di padre Lodoli, seppur con una connotazione negativa. Sul pensiero del Lodoli cfr. anche
Andrea MEMMO, Elementi dell’architettura lodoliana
o sia l’arte del fabbricare con solidità scientifica e con
eleganza non capricciosa, Paglierini, Roma, 1786.
54. Per la simbologia del delfino cfr. Alfredo CATTABIANI,
Acquario, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2002,
p. 135.
55. Si consideri, ad esempio, la più canonica immagine dei
delfini scolpita nella successiva Fontana di Eolo.
56. Giulio Cesare CORTESE, op.cit., I, 17, vv. 5-8.
57. La Fontana dell’Ovato di Tivoli è dedicata alla Sibilla
Albunea, in cui viene identificata la città Tiburtina.
58. Nella simbologia della rinascita dalla bocca del mostro
marino è ravvisabile anche un riferimento alla biblica
figura di Giona, vissuto per tre giorni nel ventre di una
balena.
59. Antonio SANCIO, op.cit., p.118.
60. Ricorda Károly Kerény, narrando le nozze di Teti e
Peleo: «Tutti gli dei erano convenuti insieme, Zeus li
aveva invitati tutti, eccetto naturalmente (…) Eris, la
dea della discordia. (…) Eris avrebbe dovuto esser presente al banchetto nuziale; non essendovi stata ammessa, aveva gettato in mezzo ai presenti una mela
(…) destinata alla più bella con una parola incisa o
detta soltanto (…). Allora le tre più importanti dee:
Era, Atena e Afrodite, vollero afferrare il dono porta-
Di fontana in fontana. Il racconto dell’acqua nel Parco di Caserta
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tore di disgrazia. Ne sorse una disputa che, decisa da un
mortale, doveva portare all’indebolimento del genere
umano, alla distruzione di Troia e alla fine del regno di
Micene». Károly KERÉNY, op.cit., pp. 324-325.
76. Antonio SANCIO, op. cit., p. 120.
77. Ferdinando PATTURELLI, op. cit., p. 93.
78. Antonio SANCIO, op. cit., pp. 120-121.
61. VIRGILIO, Eneide, a cura di Ettore Paratore, trad. it. di
Luca Canali, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 19882, I, vv. 64-75; 81-86.
79. «Presenta quest’altro canale con tredici vasche la lunghezza di 914 palmi e la larghezza di 66 e ½». Ferdinando PATTURELLI, op. cit., p. 94.
62. Si confronti, ad esempio, l’analoga Peschiera dei venti
di Villa Barbarigo in Valsanzibio. Si tratta in questo
caso di una raffigurazione molto più statica, con le figure di Eolo e Deiopea, e dei due venti Zefiro e Borea,
affiancate su di un’unica fila e non interagenti tra loro.
80. «Su questa scogliera è bella composizione di scoltura
di marmo di varie figure ed animali, rappresentante la
caccia di Adone nelle foreste del Libano, ove per gli
amori di Venere fu sbranato da un irsuto, e grosso cignale, secondo Ovidio. Quindi vedonsi le due statue di
Venere e Adone in buona mossa, ed assistite da due
amorini, da numero tre ninfe, da otto putti con sei cani,
e dall’irsuto cignale che lo divorò». Antonio SANCIO,
op. cit., p. 121.
63. Antonio SANCIO, op.cit., p. 118.
64. Ibidem.
65. Ivi, pp.119-120.
66. Ricorda Patturelli: «Manca ancora tutta la condottura
di piombo (…) anche a quante conchiglie son sostenute
da figure, e delfini sulle balaustrate delle rampe per
mezzo di un getto verticale». Ferdinando PATTURELLI,
op. cit., p. 92. Così anche il Sancio: «Le rampe sono ornate in ambi i lati da balaustrate di travertino con piedistalli e statue, tutte destinate a getti di acqua, che
accompagnano il carattere della fontana sottoposta,
come sopra si è descritta, ma ora per mancanza delle
canne di piombo non sono in attività». Antonio SANCIO, op. cit., p. 119.
67. VIRGILIO, Eneide, ed. cit., I, vv. 124-127; 137-143.
68. Antonio SANCIO, op. cit., p. 120.
69. Le dimensioni della Fontana di Cerere sono di circa
321 metri per 17. Precisa Patturelli: «La lunghezza di
questo canale colle sette vasche è di palmi 1216 per 66
e ½; non già di palmi 1260 per 100, come asserisce
l’Abate SACCO nel suo Dizionario». Ferdinando PATTURELLI, op. cit., p. 92.
70. A tal proposito si confronti la lettera al fratello Urbano
del 20 aprile 1762 in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol.
II, p. 814.
71. Ivi, p. 815.
72. Ferdinando PATTURELLI, op. cit., p. 93.
81. Ferdinando PATTURELLI, op. cit., p. 55.
82. «È da notarsi, che dall’orlo di questa vasca lunga palmi
240 per 350 fino al Palazzo Reale corrono diecimila
palmi di distanza». Ivi, p. 94.
83. Occorre ricordare che una Fontana del bagno di Diana,
con le analoghe figure di Diana e Atteone, è presente
anche nel palazzo spagnolo della Granja. Tuttavia la
composizione risulta più statica, essendo le statue collocate all’interno di un’architettura che serve da fondale.
84. Giovan Vincenzo IMPERIALE, op. cit., pp. 354-355.
85. Aggiunge il Cavalier Sancio: «Trovasi tracciata la continuazione delle cennate rampe nella rimanente falda
del Monte Briano, fino alla sua sommità, che è tenimento della Real delizia detta di S. Silvestro, ove intendevasi fare un padiglione, da cui si hanno stupendi
punti di veduta». Antonio SANCIO, op. cit., p. 122.
86. Ibidem.
87. Non si è certi che nella Fontana di Eolo dovesse essere
rappresentata la flotta di Enea, sebbene questa sia l’oggetto della tempesta fatta scatenare da Giunone. Il visitatore è perciò libero di assumere egli stesso il ruolo
dell’eroe troiano.
88. «Tutti stanno bene in Madrid, e si spera in breve stabilimento per Pietro, il quale dice che nell’entrante mi
manderà la relazione dei Giardini di S. Idelfonso».
Luigi Vanvitelli, lettera del 16 ottobre 1766 al fratello
Urbano, in Franco STRAZZULLO, op. cit., vol. III, p. 354.
73. «In testa all’ultima vasca trovasi un gruppo di statue
rappresentanti l’abbondanza della Sicilia simboleggiata da Cerere con la Trinacria, e dai due principali
fiumi dell’isola Simeto, ed Anapo». Antonio SANCIO,
op. cit., p. 120.
89. Gianni VENTURI, op. cit., p. 109.
74. Ferdinando PATTURELLI, op. cit., 1826, p. 93.
90. Giovan Vincenzo IMPERIALE, op. cit., p. 378.
75. Francesco STARACE in Caserta e la sua Reggia…, cit.,
p. 132.
91. Si fa riferimento – per completezza di informazione e
perché ben si collega con quanto espresso relativa-
157
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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mente alla possibile acquisizione di idee illuministe –
alla lettura proposta da George Leonard Hersey per le
fontane dell’asse centrale. Cfr. George Leonard HERSEY, Architecture, poetry and number in the Royal Palace at Caserta, MIT Press, Cambridge-London, 1983;
ID., Ovid, Vico and the central garden at Caserta, in
Journal of garden history, I, n.1, 1981.
92. Giambattista VICO, La Scienza Nuova, introduzione e note
a cura di Paolo Rossi, BUR, Milano, 20049, pp. 366-367.
158
93. Ivi, p. 373.
94. Ibidem.
95. In ricordo della sepoltura di Adone e della sua “resurrezione”, nell’antichità le donne erano solite piantare,
in piccoli vasi – i cosiddetti “giardini di Adone” – , cereali che, a primavera, sarebbero germogliati.
96. Gustavo COSTA, L’illuminismo meridionale, in Storia
della letteratura italiana, cit., vol. VI, p. 441.
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4. PER GIOCO E PER PIACERE.
LA MOLTEPLICE FRUIZIONE DELLE ARCHITETTURE PER L’ACQUA
La reciproca e fatale attrazione fra giardino e teatro
ha un cuore antico.1
È stato già ampiamente notato come il giardino
formale divenga il palcoscenico teatrale preferito
per la celebrazione del proprietario.
L’attrazione fra teatro e giardino ha, in realtà, un
cuore più antico che è possibile ritrovare anche
nella Roma del periodo classico, ma è nelle corti
italiane del Rinascimento che vengono riscoperte
tutte le potenzialità derivate da tale associazione.
Con la «figuratività manieristica» si giunge all’apice di tale processo che inevitabilmente si
lega alla manifesta teatralità barocca.
Ricorda Antonella Pietrogrande che dal gusto per
l’ambiguità proprio del manierismo «nasce una
contaminazione delle varie tecniche espressive
che caratterizza l’epoca e dà vita a una nuova realtà, basata su un tipo di finzione spesso fantastica e ludica»2.
Nel gioco delle parti «per più di un secolo giardino e teatro (…) si scambiano ruoli, aspetti e immagini: montagne, grotte e boschi, acque, fontane
e isole, pergolati, fiori e frutti, migrano dall’uno
all’altro dei due palcoscenici, suscitando effetti
di sorpresa e meraviglia»3.
In tal senso il giardino formale – soprattutto il
giardino francese del XVII secolo – si rivela la
scenografia ideale per feste in cui l’esibizione diviene uno degli elementi essenziali all’interno di
un rituale ampiamente codificato. I ricchi, i potenti, i nobili legati al Sovrano, utilizzano il giardino per cerimonie il cui fine è la dimostrazione
della propria superiorità. Se il mondo del Seicento vede nel teatro il proprio simbolo, il giardino con le fontane è il palcoscenico più naturale
per raccontare, stupire, incantare, meravigliare,
in un continuo scambio tra finzione e realtà.
Dal 7 al 14 maggio 1664 Luigi XIV offrì, a Versailles, una festa dall’eloquente nome di Piaceri
dell’Isola Incantata, intendendo, con questa de-
nominazione, riferirsi all’ariostesca isola in cui
la maga Alcina trattiene il paladino Ruggero.
Già dal titolo della festa è evidente il richiamo all’incantesimo ed alla magia che, nell’ambientazione all’interno del giardino, avrebbero
trattenuto gli ospiti stupefatti.
In un rovesciamento dei ruoli, tra ambienti interni
ed esterni, tutto l’allestimento della festa avvenne
nel parco, perché nel palazzo – ancora una residenza di campagna non in grado di ospitare i più
di seicento invitati – non c’erano né un salone né
un teatro. Le architetture vegetali – o dipinte per
l’occasione all’interno dei bosquets – ricrearono
gli ambienti in cui furono allestiti i vari eventi
della festa, soprattutto rappresentazioni teatrali,
come, ad esempio, il Tartufo di Molière, messo
in scena per la prima volta. È questa la prima indimenticabile festa tenuta da Luigi XIV nella sua
nuova reggia, che testimonia la volontà di ribadire la propria superiorità rispetto a quanto accaduto il 17 agosto 1661 a Vaux-le-Vicomte e
raccontato nel resoconto di Anatole France:
Il Re, Anna d’Austria, Madame, Monsieur il Principe,
e cioè il grande Condé, Monsieur il Duca, e cioè d’Enghien, i duchi di Beaufort, di Guisa, e tutta la Corte lasciarono Fontainebleau il 17 agosto alle tre del
pomeriggio; faceva molto caldo, e arrivarono a Vaux
alle sei. (…)
«Terminata la cena, fu il momento della commedia»
e corremmo a prendere posto. Le Brun aveva innalzato il teatro a ridosso del viale di pini, al Cancello
d’acqua, dove il famoso Giacomo Torelli, soprannominato ‘il grande stregone’, aveva montato le macchine. (…) Molière comparve (…) e la commedia
iniziò interrotta da balletti; un divertissement la concluse (…). I fuochi d’artificio furono lanciati dall’anfiteatro e ricadendo dal cielo i razzi «composero mille
disegni, formarono dei gigli, marcarono dei nomi e
159
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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rappresentarono delle iniziali», mentre nel canale
avanzava una balena. (…)
Infine tornammo alla villa. Ma «mentre commentavamo di questo e non ci aspettavamo nient’altro, dal
lucernario della cupola un milione di razzi che si ingrandivano e si elevavano coprirono tutto il giardino,
in modo che, ricadendo dal lato opposto, formarono
una volta di fuoco», nella quale il Re avanzava4.
Luci, buffets, fuochi d’artificio, regali, musica e
rappresentazioni teatrali. A Vaux-le-Vicomte la
festa fu così sontuosa – ed arrogante – che vide
l’affermarsi della personalità di Nicolas Fouquet
ed il suo rapido, immediato declino. Al contrario,
le feste del re proseguirono per molto tempo nella
cornice dei giardini che André Le Nôtre continuò
a progettare a Versailles, le cui varie parti venivano inaugurate, nel corso degli anni, da eventi
sempre più fastosi e spettacolari.
Il 18 luglio 1668 il Gran divertimento del Re, per
celebrare la presa di Maastricht, si svolse nel Bosquet de l’Etoile. Nel 1674 il Gran Divertimento
per festeggiare la conquista della Franca Contea
si protrasse da giugno ad agosto, avendo come
palcoscenico differenti luoghi, dal Teatro d’Acqua, ornato da specchi ed alberi da frutto, alla
Grotta di Teti, in cui Molière mise in scena il Ma-
lato Immaginario, all’Orangerie dove, il 18 agosto, venne rappresentata l’Ifigenia di Racine.
Ma non solo Versailles fu teatro di feste.
A Sceaux Colbert offrì, nel luglio 1677, un Gran
Divertimento per il re, culminante con la Fedra
di Racine. Nello stesso giardino suo figlio nel
1685 accolse il sovrano in visita con una grandiosa festa comprensiva di passeggiata in gondola
sul Grand Canal, fuochi d’artificio e musica intorno al bacino dell’Orangerie.
Come è facile osservare, tratto comune a tutti
questi avvenimenti è il ruolo da protagonista
svolto dalle varie architetture per l’acqua che divengono partecipi dei momenti più salienti della
festa e necessario complemento scenografico Tuttavia questa non è una prerogativa del Seicento
francese. Già in Villa d’Este a Tivoli è possibile,
ad esempio, osservare questa concezione di teatro
del mondo, che vede nell’acqua – e nelle architetture ad essa correlate – l’elemento più adatto per
qualunque rappresentazione.
Di Villa d’Este il cardinale Ippolito volle fare un
luogo di ospitalità per i più illustri rappresentanti
dell’arte, della poesia, della scienza, rendendo la
propria residenza un’accademia sede di dispute
filosofiche, cenacolo artistico e culturale.
Giovanni Francesco Venturini, Fontana di Venere in Villa d’Este a Tivoli, in Fontane di Roma, 1691.
160
Per gioco e per piacere. La molteplice fruizione delle architetture per l’acqua
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All’interno del giardino un vero teatro, che aveva
per scena la Fontana di Roma, serviva ad intrattenere gli ospiti con numerose rappresentazioni e
concerti. Ma il tratto distintivo e più interessante
è che il giardino stesso fungeva da teatro, rappresentando agli ospiti, ogni giorno, il complesso
programma iconografico ideato da Pirro Ligorio.
Al suo interno, poi, gli ospiti erano chiamati ad
interagire con i singoli elementi divenendo attori
inconsapevoli di una più ampia rappresentazione
prestabilita. Ad esempio nella Fontana della Civetta un complesso sistema idraulico permetteva
ad un gruppo di uccelli di bronzo di cantare in un
boschetto, finché l’apparizione di una civetta,
spaventandoli, li faceva tacere. Tale azione, come
notò Michel de Montaigne, poteva essere ripetuta
infinite volte, rendendo il visitatore, che si accostava alla fontana, elemento funzionale all’apparizione del rapace meccanico ed al cambiamento
della scena osservata.
Ma lo spettatore poteva essere impegnato in molteplici relazioni con l’ambiente architettonico e naturale circostante ed essere coinvolto anche in una
serie di azioni-reazioni che lo costringevano a gesticolare – ovvero a recitare – suo malgrado. Come
mostra un’incisione del 1691, di Giovanni Francesco Venturini, l’apertura di rubinetti nascosti ad
arte nell’architettura permetteva di sorprendere gli
ospiti con imprevisti scherzi d’acqua che suscitavano movimenti istintivi e incontrollati.
Con analoghe intenzioni, ma a volte con esiti più
crudeli, numerosi scherzi d’acqua vennero nascosti nella maggior parte dei giardini italiani ed europei. Testimonia ancora Giovan Vincenzo
Imperiale, descrivendo una grotta della sua villa
a Sampierdarena:
Poi, nel voltar di non veduta chiave,
E dal suolo, e dal Cielo, e da le mura,
Per mille fori, disserrarsi à un tempo
Vedi improvisa acqua ingegnosa, astuta,
Che, con strepito dolce, e con piè arditi
Di rampolli, e ruscelli, anzi torrenti,
Perseguitando rapida, e aggiungendo,
Ovunque corra, per fuggir da loro,
De i fuggitivi frettoloso il passo,
Gli assorbe in un Mar d’Onde; onde ne cangia,
Con riso universale, in breve noia
Il piacer lungo d’ogni andata gioia5.
L’origine degli scherzi d’acqua sembra risalire
alla grotta realizzata dal Tribolo nel giardino della
villa medicea di Castello, in cui «si vede Orfeo
insieme a un gran numero di animali intorno a
lui, e nessuno, per quanto attento possa stare, può
uscirne senza restare battezzato»6. Così a Pratolino numerose grotte contenevano automi e mentre si era assorti nella loro contemplazione non si
faceva in tempo ad accorgersi che «con un solo
movimento l’intera grotta si riempiva d’acqua e
tutti i sedili schizzavano acqua su per la schiena;
e se si tentava di scappare dalla grotta un migliaio
di getti d’acqua uscivano da ogni gradino di
quella scalinata»7.
Proprio ai giochi d’acqua ed alle grotte di Pratolino si ispirano quelli del giardino di Hellbrunn a
Salisburgo, volti al divertimento del padrone di
casa, l’arcivescovo Marcus Sitticus, alle spalle dei
suoi ospiti. Tra i vari scherzi è da ricordare la statua
del Nettuno, che, nella grotta omonima, per azione
dell’acqua, fa roteare gli occhi e uscire la lingua,
sbeffeggiando l’osservatore che, assorto di fronte
Firenze, Villa di Castello. Grotta degli animali.
161
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Hellbrunn, Salisburgo. La Tavola del Principe.
allo strano spettacolo, viene contemporaneamente
bagnato da improvvisi getti d’acqua fredda.
E ancora improvvisi schizzi bagnavano chi, nella
Grotta del Canto degli Uccelli, ispirata alla Fontana della Civetta di Tivoli, cercava di scorgere
gli uccelli, il cui canto era meccanicamente riprodotto dalla pressione dell’acqua. La Tavola del
Principe era, invece, un esplicito riferimento alla
Tavola del Cardinale presente in Villa Lante a
Bagnaia, tavolo di pietra con, al centro, un canale
per l’acqua che serviva a tenere in fresco le bevande durante il pranzo.
Funzione analoga doveva svolgere anche la Tavola dell’arcivescovo Sitticus, anche se questi,
quando voleva movimentare la festa, con un segnale faceva sì che fossero lanciati getti d’acqua
fredda in ogni direzione. Ai sorpresi ospiti che,
per l’etichetta dell’epoca, non potevano alzarsi
da tavola prima del padrone di casa, non restava
altro che essere bagnati, mentre l’arcivescovo Sitticus si godeva la scena dal suo posto non raggiunto dai giochi d’acqua.
Quello degli scherzi d’acqua è, comunque,
l’aspetto più particolare ed appariscente delle architetture per l’acqua, che nella maggior parte dei
casi permettevano fruizioni molto complesse offrendo, talvolta, esperienze multisensoriali. Sem162
pre in Villa d’Este, ad esempio, uno stretto sentiero bagnato, che corre dietro la cascata semicircolare della Fontana di Tivoli, permette di
sperimentare, mentre si proviene dalla grotta retrostante, l’inusuale sensazione di divenire parte
della fontana stessa. E sorpresa ed emozione
erano suscitate anche in chi, nel salire le scalinate
intorno alla Fontana dei Draghi, poggiava la
mano sulla balaustra, nel cui incavo scorreva
acqua fresca.
Inoltre le peschiere della villa ospitavano vivai
per le specie più pregiate di pesci d’acqua dolce,
che potevano essere pescati, con gran divertimento, dagli stessi ospiti del cardinale Ippolito,
a cui la servitù forniva gli attrezzi necessari. E
ancora divertimento, ma con un piacere più raffinato, poteva essere provato ascoltando la musica
prodotta, per azione idraulica, dalla Fontana
dell’Organo.
Illusione, inganno dei sensi, con-fusione di elementi naturali ed artificiali, come quando, nella
Fontana dei Lumini, di Villa Lante, l’acqua si trasforma in fuoco nello scintillio della “fiamma” di
numerose candele d’argento. Se la teatralità del
giardino produce gioco, piacere, divertimento, le
architetture per l’acqua sembrano esserne gli interpreti principali.
Per gioco e per piacere. La molteplice fruizione delle architetture per l’acqua
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Il piacere e il gioco nel Parco di Caserta
Pochi scherzi d’acqua, ma soprattutto una diffusa
teatralità caratterizzano le fontane dell’asse centrale del Parco di Caserta, che tuttavia non furono
mai utilizzate come scena di una festa se non nel
1781, quando il re Ferdinando I fece illuminare
con lampioni il tratto di giardino compreso tra il
Palazzo e la Fontana dei Delfini.
Volendo riprendere la distinzione vitruviana tra
scena tragica, comica e satiresca, già notata da
Marcello Fagiolo8 per la villa di Pratolino, è possibile riscontrare anche in Caserta la successione
delle tre scene teatrali lungo l’asse centrale.
Dal centro del vestibolo inferiore il giardino si configura, infatti, come scena tragica, inquadrato dalle
colonne e dalle cornici degli archi del portico, mentre altri archi, formati dalla vegetazione, dovevano
essere presenti sullo sfondo, come, ad esempio,
nella sala delle Fontane di Amore e Psiche9.
Addentrandosi lungo il viale la scena cambia, lasciando spazio al comico, a scene di genere –
Fontane di Venere e di Cerere, quest’ultima
anche con scherzi d’acqua – al divertimento. Infine si materializza la scena satiresca, la rusticità
e la selvaticità della montagna, del bosco e della
cascata.
Se le statue sono gli attori – protagonisti e com-
parse, di un dramma che la pietra non riesce a fissare in modo statico, ma che sembra perpetuarsi
di continuo sotto i nostri occhi – la vasca d’acqua
diviene il palcoscenico, il luogo dell’azione. Il
suo perimetro, costituito da balaustre o file di
massi artificiali, è un limite invalicabile solo fisicamente, per impedire allo spettatore di avvicinarsi troppo e scoprire i “trucchi” scenici adottati.
Al contrario il perimetro viene costantemente valicato dall’azione scenica che richiede una partecipazione attiva del visitatore trasformato in
attore inconsapevole. Come accade a teatro, è
questo il limite tra la realtà ed il mondo della fantasia ricreato nell’illusione data dall’acqua.
Nella Fontana di Eolo, apertamente paragonata
da Marcello Fagiolo al Teatro delle Acque di
Villa Aldobrandini a Frascati, numerosi attori recitano la parte loro assegnata.
Ma la tempesta scatenata contro Enea non sorprende l’eroe troiano, incredibilmente assente.
La furia dei venti sembra rivolgersi, invece, proprio contro il visitatore, che si trova nel luogo
verso cui corrono le figure fuoriuscite dalle grotte.
Ma in quelle grotte è anche permesso entrare, seguendo uno studiato percorso. Con un ribaltamento di prospettiva il visitatore si trasforma da
Enea in uno di quei venti che attendono l’ordine
di Eolo per irrompere dal velo d’acqua ricadente.
Parco di Caserta, Fontana di Eolo. L’irrompere dei venti nel mar di Sicilia.
163
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Parco di Caserta, Fontana di Venere. Gli amorini spettatori della scena rappresentata.
Molteplicità di sensazioni possono, quindi, susseguirsi nell’arco di pochi istanti, generando non solo
stupore, di fronte alla bellezza dell’apparato scenico, ma anche vero e proprio divertimento dato
dalla possibilità, come anche in Villa d’Este, di “interpretare” la fontana e viverla dal suo interno.
Allo stesso modo, di fronte alla Fontana di
Diana, è difficile mantenere le distanze dallo
sfortunato Atteone. Provenendo dalle quinte delle
rampe laterali, attraverso i gruppi di cacciatori
posti sulle balaustre, è semplice immedesimarsi
in uno di loro e partecipare alla loro stessa battuta
di caccia. L’improvviso arrivo di fronte alla dea –
e la scoperta dell’orrendo destino del proprio
compagno – fa temere anche per la propria incolumità, dal momento che si è appena percorso il
medesimo tragitto che deve aver compiuto anche
l’incauto Atteone.
Scambio di ruoli e gioco continuo sembrano non
avere fine nello scroscio incessante dell’acqua
che rende superfluo qualunque dialogo.
Infine, come da un palco teatrale, delimitato da
una balaustra in cui pietra e acqua si confondono
l’una nell’altra, si assiste alle altre due rappresen164
tazioni delle Fontane di Cerere e di Venere. L’impossibilità della visione centrale costituisce l’elemento che imprime dinamicità alla visione, più
definita man mano che lo spettatore si avvicina
alla sommità della vasca. Come in Pratolino l’attenzione viene completamente assorbita dalla
progressiva comparsa di particolari sempre nuovi,
come ad esempio le teste presenti sul verticale
della balaustra, impedendo di accorgersi degli improvvisi scherzi d’acqua, mimetizzati nel marciapiede, che si attivano quando è ormai troppo tardi
per fuggire.
Rispetto alla tradizione delle ville italiane, Vanvitelli apporta, anche in questo caso, elementi innovativi. Gli scherzi d’acqua della Fontana di
Cerere non sono più strettamente collegati ad una
grotta, ma avvengono all’aperto, con modalità
che non sono gratuite, ma che si inseriscono nel
tema simbolico rappresentato. La fontana, denominata per questo motivo Zampilliera, trova negli
improvvisi scherzi il giusto completamento della
sua rappresentazione, la celebrazione di quell’abbondanza che vede, non nelle statue, ma nell’acqua, il suo attore principale.
Per gioco e per piacere. La molteplice fruizione delle architetture per l’acqua
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Ovviamente lo scherzo non poteva essere ripetuto
più di una volta e la Fontana di Venere ne è
sprovvista. Ma gli effetti provocati dall’improvvisa doccia, fanno immaginare un visitatore che
si avvicina al nuovo gruppo statuario, in modo
più cauto. Uno stato d’animo che rispecchia esattamente il tema della fontana della dea dell’amore: la prudenza, consigliata da Venere ad
Adone e suggerita al visitatore nella prosecuzione
del cammino nella zona del Parco più selvatica.
Ancora una volta, perciò, il visitatore si trova ad
interpretare una parte già assegnata.
Dalla Peschiera alla Castelluccia
marmo. Per altro, fin dall’epoca dell’acquisto nell’anno 1749, queste fontane erano inattivate per scarsezza di acqua, e per cagione di corsi e tubolature
guaste (…).
In seguito tali giardini e fontane furono distrutti, e si
ridusse tutto ad un bosco, come al presente si ritrova.
Questo bosco è popolato di annose querce, di alti
cerri, di elci secolari e di una prodigiosa quantità di alberi, che lo han reso assai folto. (…)
Da pochi anni in qua si è reso assai più ameno un tale
sito per la buona tenuta delle strade, per la variazione
delle piante esotiche introdottevi, per la quantità delle
statue di marmo, e sedili posti in siti opportuni, e per
essersi reso giocoso e naturale il canale di acqua con
la piccola cascata, proveniente dalla gran peschiera,
onde rendono inaccessibile il Castelluccio, come in
seguito si dirà.
È interessante analizzare la particolare funzione
ludica propria di altre due architetture per l’acqua
presenti nell’area denominata Bosco Vecchio: si
tratta di una peschiera – la Grande Peschiera –
e di un edificio – la Castelluccia – in cui l’acqua
è stata sempre presente rivestendo un particolare
ruolo negli interventi di trasformazione a cui è
stato sottoposto.
Alla sinistra del primo lungo viale del boschetto, vi è
il bosco detto vecchio, perché di antica pertinenza de’
Principi di Caserta. In esso è da osservarsi un intreccio
di lunghi, ed ameni viali, che offrono belle passeggiate all’ombra dei maestosi alberi; un piccolo Castelluccio con altre casette contigue; tutte circondate da
un canale d’acqua, che comincia con una bella cascatina; ed una spaziosissima peschiera con graziosa
isola nel mezzo, che contiene cinque piccole pagliaie10.
Ad ovest dell’asse centrale, si estende l’area più
antica del Parco, denominata, appunto Bosco
Vecchio. Si tratta dell’unica preesistenza della
proprietà Acquaviva sopravvissuta agli interventi
vanvitelliani. Lo stesso Vanvitelli pensò di inserire tale area all’interno del suo progetto, mantenendo inalterati allineamenti ed asimmetrie, pur
se inserite nel nuovo impianto rigidamente ortogonale.
Questo bosco era una delle antiche delizie de’ Principi
di Caserta. Vi erano in esso diversi giardini di agrumi
e fiori, con moltiplicate fontane, e cattive statuette di
Parco di Caserta, Bosco Vecchio. Statua di Marsia.
165
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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Si sono inoltre costrutti in questo sito cinque graziosi
piccoli ponti sul canale in linea di stradoni, due in fabbrica, e tre in legno. Si è pure fabbricata una fontana
gocciolante, ed una nuova grotta con vallone alle
spalle, ed una fonte al naturale presso dell’antico Casino, ed in fine si sono fatte diverse altre variazioni
necessarie nel giardinaggio, secondo il gusto presente11.
Le parole del Cavalier Sancio lasciano supporre
per il Bosco Vecchio una serie di interventi di rinnovamento successivi all’opera di Vanvitelli. Il
riferimento ai pochi anni da cui si è reso più
ameno il sito, così come l’accenno alle variazioni,
«secondo il gusto presente», sembrano mostrare
la necessità di completare un intervento in quest’area del parco, in cui Vanvitelli aveva già intrapreso numerose sistemazioni del verde12.
Per comodità di lettura si ritiene utile seguire il
percorso dell’acqua nell’area, a partire dalla diramazione che, dalla vasca dei Delfini, si collega
alla Grande Peschiera.
Questo gran bacino fu costrutto nel 1769, sotto la direzione dell’Architetto D. Francesco Collecini, ajutante di Vanvitelli, nel momento che questi trovavasi
in Milano per commissioni di S.M.. Si ebbe l’oggetto
di presentare al Re un mezzo da esercitazioni nella
milizia navale con piccioli legni da guerra compatibili
colla capacità del bacino.
L’opera fu eseguita con la medesima celerità, e venne
terminata fra lo spazio di settantacinque giorni. La
medesima è di figura mistilinea, cioè retti i due lati
lunghi, e curvi gli altri due corti, di maniera che la
lunghezza maggiore è di palmi mille, e la larghezza in
palmi 380, esclusi i muri inferiori della grossezza di
palmi 10.
Questa fu tutta scavata dentro terra, fino alla profondità di palmi 14, per quanta altezza di acqua ora vi si
trattiene, equivalente a cento settanta mila botti. La
medesima è circondata da un parapetto di fabbrica con
otto balconcini con ringhiere di ferro, due sbarcatoi
anche guarniti di ringhiere, e due varatoi alle testate
curve, chiusi da panconi di legno.
Nel mezzo vi è isoletta circolare del diametro di palmi
ottanta, circondata parimenti da parapetto di fabbrica.
Nella medesima vi è un boschetto con cinque pagliaie,
una grande nel centro con mediocre mobilio, per riposo delle Persone Reali, e quattro piccole egualmente distribuite, per uso di retret, di reposto, e
piccola cucina13.
166
Tradizionalmente si ritiene questa vasca costruita
ad opera di Franceso Collecini, aiutante di Vanvitelli nella livellazione dell’Acquedotto e nella
realizzazione delle fontane del Parco. In realtà
l’esiguità del tempo impiegato – settantacinque
giorni – rispetto alle dimensioni dell’intervento –
un bacino di 270 per 106 metri circa, profondo
circa 3 metri – fa ritenere l’intervento di Collecini
di completamento di lavori già iniziati in precedenza. Osserva Gino Chierici – che riporta come
dimensioni 300 metri per 120 – che, in realtà, lo
scavo della peschiera era stato già iniziato nel
1762 da schiavi battezzati e da catecumeni e concluso nel 1763.
Si tratterebbe allora, anche in questo caso, di un
intervento eseguito sotto la personale direzione
di Vanvitelli, come lascerebbero supporre anche
alcuni accenni a quest’area contenuti in una lettera del 1768, anteriore cioè all’opera di Collecini, indirizzata al Cavalier Neroni.
Primieramente conviene svellere e diradare li licini
delli Boschetti piantati intorno il sito della peschiera.
E ancora:
queste semenze, oltre quelle che formar devono il
folto inferiore, si dovrebbero ponere ordinatamente a
spalliera immediatamente dietro li carpani del Circondario, affinché crescendo i licini questi, e non quelli
formassero la spalliera, come si è praticato intorno la
Peschiera14.
Per quanto nella lettera non sia citata espressamente la vasca, sembra però impossibile non attribuire a Vanvitelli la paternità di quest’opera,
che, anche nel confronto con le attuali foto aeree,
presenta una perfetta aderenza alla Planimetria
della Dichiarazione.
Del resto, come ricorda ancora Gino Chierici:
è pure inesatto voler far credere che il Collecini stimolasse sottomano il desiderio del giovane Re di aver
sollecitamente questa nuova distrazione, per mettere
in evidenza la sua valentia di costruttore, giacché nel
’69 il Vanvitelli che si trovava a Milano per il progetto
del palazzo arciducale e per la facciata del Duomo,
scriveva lettere su lettere al Marchese Tanucci, al cavaliere Neroni, al suo assistente Collecini con istru-
Per gioco e per piacere. La molteplice fruizione delle architetture per l’acqua
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Parco di Caserta, Grande Peschiera.
zioni per la buona riuscita dell’opera da tempo preparata, la cui sola parte muraria fu realmente quella eseguita nel breve tempo di due mesi e mezzo15.
Probabilmente il compito di Collecini è stato solo
di concludere rapidamente i lavori – completando
la parte muraria che delimita il bordo della vasca
– per fornire al re Ferdinando «un mezzo da esercitazioni nella milizia navale», assecondando
forse una volontà dello stesso sovrano. In tal
senso la Grande Peschiera risulterebbe strettamente collegata alla Castelluccia, l’altro edificio
presente nel Bosco Vecchio, trasformato anch’esso negli stessi anni per permettere le esercitazioni militari del giovane re.
I lavori di completamento della Peschiera comportarono un ingente aumento dei costi, da
43.486 ducati a 197.500 ducati e 45,50 grana così
giustificati dallo stesso Collecini:
Nello scandaglio del solo recipiente della gran peschiera da costruirsi, non furono comprese le susseguenti fabriche, e lavori occorrenti alle ordinazioni
aggiunte dalla Maestà del Rè [sic]. Il parapetto con
regiole e pilastrini di travertino negli angoli, ed aperture. Balconate di ferro, e lastroni di marmo nel pavimento delle medesime; e mattonato rustico del
marciapiè per quanto circonda il detto parapetto. Due
Imbarcatori, e due cordonate nelle linee principali; e
l’Isola nel mezzo in altezza al pari dell’Imbarcatori
sudetti. I tufoli di Portici per introdurre l’acqua; ed il
riporto della terra per appianare i viali attorno dell’accennato parapetto. E nel medesimo tempo non si ebbe
presente la velocità del travaglio per cui occorre una
spesa, che puole comprendersi da chiunque16.
Confronto tra la planimetria della Grande Peschiera nella Dichiarazione, a sinistra, ed una foto aerea dell’area.
167
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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stituivano ambienti di servizio, per permettere,
anche in questo luogo così particolare, di usufruire di alcuni necessari mezzi di conforto: un
retret, cioè un servizio igienico, una cucina ed un
«reposto», probabilmente per gli attrezzi necessari alle esigenze dell’isola.
Pagliaie e imbarcatori, visibili ancora in una foto
del 1917, sono attualmente scomparsi. Negata
ogni possibilità di fruizione, la Grande Peschiera
si presenta al moderno visitatore come un piccolo
lago, immerso nella quiete di una radura, da osservare deviando dal percorso principale. Al suo
centro, un padiglione arboreo sostituisce qualunque architettura sia stata concepita per l’isola, generando un sentimento più simile alla sensibilità
romantica dell’Ottocento che alle intenzioni più
auliche del suo ideatore.
Luigi Vanvitelli, probabile progetto di padiglione per la
Grande Peschiera.
Tuttavia la Peschiera è un’opera incompiuta. Infatti non vennero realizzate le fontane previste
nella vasca, né quelle pensate sull’isoletta centrale, che avrebbero contribuito all’amenità del
sito, rendendolo «uno degli ornamenti più deliziosi del parco»17.
Né fu realizzato il padiglione con la cupola sorretta da otto colonne, che, secondo il primo progetto, si sarebbe innalzato al centro dell’isola, né,
in sua sostituzione, fu creata la sala da ballo richiesta dal re, con camere e gabinetti di riposo,
alla quale sembra che si possano riferire alcuni
disegni autografi di Vanvitelli.
I progetti rimasero sulla carta e le funzioni del
padiglione in muratura vennero svolte da cinque
pagliaie situate sotto la verde cupola arborea.
L’isola era raggiungibile con una piccola flotta di
battelli, così da far tornare alla mente quanto accadeva a Versailles per raggiungere il Trianon attraverso il Grand Canal.
Sull’isola la famiglia reale poteva godere di momenti di svago senza privarsi di alcune comodità.
La principale delle pagliaie, al centro, era arredata per la sosta ed il riposo nella natura, con
sedie di noce, tavolini e sofà – un «mediocre mobilio» secondo quanto riferisce il Cavalier Sancio
– e sembra che fosse presente anche un caminetto
in marmo. Le altre quattro pagliaie, intorno, co168
Veduta aerea del Bosco Vecchio.
In basso è il giardino del Palazzo al Boschetto, nel cerchio
è evidenziata la Castelluccia.
Per gioco e per piacere. La molteplice fruizione delle architetture per l’acqua
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Strettamente collegata alla storia della Grande
Peschiera sembra essere quella della Castelluccia, edificio nato dalla trasformazione della cinquecentesca
torre
chiamata
Pernesta.
L’inserimento di tale struttura nel presente studio
è giustificato dalla sua trasformazione in fortificazione, che lo ha dotato di un fossato collegato
tramite un ruscello, canale di adduzione, alla
grande conserva della Peschiera.
Fin dai tempi dei Principi di Caserta esisteva in questo
sito una torretta denominata Pernesta, circondata da
poca acqua con un giardino da fiori, quantunque tutto
in cattivo stato (…). Ma nella fanciullezza del defunto
Monarca Ferdinando I°. questo luogo fu ridotto a castelluccio, con corrispondenti bastioni, spianata, cavalieri, caserma, ridotti, ed altro relativo ad una piazza
fortificata, ad oggetto di fare istruire nelle armi il piccolo Principe Regnante18.
Una descrizione della Torre Pernesta si ha nelle
relazioni dei due “apprezzi” eseguiti tra il 1635
ed il 1636. In esse la torre è descritta a due piani,
collegati da una «lumaca», una scala a chiocciola,
all’interno di un giardino di fiori e di agrumi «con
fosso attorno a modo di forte (...) dove si passa
con ponte a levatore»19. Attorno all’edificio si trovavano «sedici personaggi di pietra in forma di
contadini colorati e vestiti, et dimostrano vestimenti diversi, usi vari et portamenti differenti» e
poi «quindici puttini di marmo, che in mezzo
quindici conchette fanno altrettante fontanelle» e
infine «in frontespizio in un vano pittato si mirano due statue di marmo in forma di Adamo et
Eva»20. Si trattava, insomma, di un tipico luogo
di delizie all’interno della proprietà Acquaviva.
Dalle descrizioni si deduce che l’impianto precedente alla trasformazione non dovesse essere
troppo dissimile da quello attuale, con la torre circondata da un fossato d’acqua, anche se, probabilmente, di forma diversa, come si osserva nella
pianta inserita nella Dichiarazione. Tuttavia,
all’epoca di Vanvitelli, il fossato doveva essere
caduto in disuso.
Come data della trasformazione in edificio fortificato, Patturelli ricorda il 176921 ed è possibile ipotizzare un collegamento tra i lavori effettuati alla
torre e l’intervento di Collecini per la Peschiera.
Planimetria della Castelluccia. A. R. Ce.
169
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
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La Torre Pernesta, a sinistra, in un dipinto del 1693 circa e, al giorno d’oggi, dopo la trasformazione in Castelluccia.
Prima di tale data non si hanno altre informazioni
relativamente ad un utilizzo nel progetto vanvitelliano della Pernesta, che nella Planimetria della
Dichiarazione sembra inserita in uno schema teso
al mantenimento dello stato di fatto22. Nonostante
la pianta della torre sia accuratamente disegnata
e sia pertanto possibile, ad esempio, vedere due
livelli collegati da rampe di scale, ad essa non è
attribuito alcun indice nella legenda di spiegazione della tavola.
Tale sorte è comune ad altri edifici del Bosco Vecchio, come la cosiddetta Cappella degli Schiavi,
edificio destinato, sotto gli Acquaviva, ai Liparoti
custodi del bosco. La scelta non è forse causale,
mostrando, probabilmente, il fatto che nella Planimetria sono segnalati soprattutto i nuovi interventi e le preesistenze di maggior prestigio
inserite nel progetto, quali, nel Bosco Vecchio, il
palazzo del Boschetto con i giardini di pertinenza23.
È possibile, dunque, che l’interesse per una trasformazione della Pernesta sia derivato proprio
in seguito al desiderio di fornire al giovane re
Ferdinando un luogo di divertimento e contem170
poraneo esercizio nell’arte militare, intervento,
come si è visto, correlabile a quello che vide l’accelerarsi dei lavori della Grande Peschiera.
Anche la trasformazione della Pernesta in Castelluccia fu affidata al Collecini. Al termine dei
lavori l’edificio, dotato di fossato, bastioni e casermette, divenne una piccola torre ottagonale, di
due piani, su cui si innesta un corpo cilindrico più
arretrato.
Al giorno d’oggi la sua destinazione d’uso scompare tra la folta vegetazione che la circonda e che
si riflette nell’acqua del fossato, generando
un’immagine molto più romantica e pittoresca.
Si tratta dell’ulteriore trasformazione subita all’inizio del XIX secolo.
In seguito questo modello di forte fu abbandonato, coverto di spine, e divenne il ricovero di tutti i rettili del
bosco. Nel 1812 per ordine del medesimo defunto
Monarca Ferdinando I°. fu ridotto il sito ad una Flora,
come al presente si trova, situando ne’ parapetti molte
variate ringhiere di ferro, riducendo i cavalieri, uno a
grotticella, e l’altro a belvedere, circondato da ringhiere di legno di diverso gusto, con un gran parasole
di latta a stile orientale: una delle caserme si è inver-
Per gioco e per piacere. La molteplice fruizione delle architetture per l’acqua
________________________________________________________________________________________________
tita ad una deliziosa sala a mangiare: il corpo di guardia si è mutato ad un padiglioncino per caffè. Si sono
fissati de’ sedili di lavagna, e di marmo in varj punti
della piccola Flora; un capolino Cinese, anche di latta,
si è posto nell’angolo, che domina tutto il canale. Si
sono infine fatte tante altre varietà che han resa deliziosissima questa piccola Flora, simile all’intutto al
Trianon di Francia.
La stanza circolare sulla torretta, con i quattro gabinetti in giro, non sono stati del pari trascurati. Si sono
decentemente dipinte le mura, ed incerati i pavimenti;
si son posti otto busti di marmo sopra altrettanti tronchi di colonne; si sono incastrati ne’ muri dodici medaglioni di marmo indicanti i dodici Cesari; si è fatto
un discreto mobilio, in fine tutto è decente per un momentaneo ristoro delle Persone Reali24.
Il piacere dei sensi: il Giardino Inglese
Un’ultima osservazione va dedicata, infine, a
quella parte di giardino che, seppur non presente
nel progetto vanvitelliano, si trova attualmente ad
essere parte integrante del Parco di Caserta: il
Giardino Inglese.
Fortemente voluto dalla regina Maria Carolina,
su suggerimento di Sir William Hamilton, ambasciatore inglese e membro della Royal Society di
Londra, il giardino venne realizzato ad opera di
John Andrew Graefer, che si occupò delle sistemazioni paesaggistiche e botaniche, e di Carlo
Vanvitelli, incaricato della costruzione di tutte le
emergenze architettoniche.
In questa sede, piuttosto che ripercorrere le varie
tappe che hanno segnato la storia di tale zona del
Parco - scelta che richiederebbe una trattazione
specifica ed approfondita - si vuol mettere in evidenza come proprio la presenza dell’Acquedotto
Carolino abbia permesso la nascita di un giardino
dalle forti valenze paesaggistiche, assoluta novità
nel panorama italiano dell’epoca25.
Peculiarità dell’area, di circa 25 ettari, era infatti
l’abbondanza d'acqua garantita proprio dal condotto di approvvigionamento del parco reale, caratteristica, questa, che permise a Graefer di
esprimere al massimo i principi compositivi, nel
pieno rispetto delle regole del movimento paesaggista.
È proprio l’acqua, infatti, a determinare, con il
suo percorso, il disegno del giardino e a guidare
il visitatore nella percorrenza.
Prima di procedere nella scoperta del percorso
dell’acqua, è tuttavia necessaria una precisazione.
Come già osservato, nel giardino di paesaggio è
la stessa natura ad essere trasformata in maniera
“architettonica”, secondo la volontà del progettista, per assumere forme e rappresentare immagini
precostituite. La naturalezza che si osserva è, insomma, frutto di un’accurata trasformazione artificiale del luogo. Così, anche per il Giardino
Inglese di Caserta, non è possibile parlare di architetture per l’acqua nell’accezione fino ad ora
utilizzata - strutture nate a servizio dell’elemento
idrico - a meno che non si riconosca un intervento di tipo architettonico nell’opera di trasformazione del territorio.
Dall’ingresso del giardino, posto a lato della Fontana di Diana, la presenza dell’acqua non risulta
immediatamente percepibile: il visitatore è anzi
invitato a dirigersi sulla sinistra e a percorrere il
viale in salita che costeggia i “ruderi” di un tempio dorico. È in questo tratto che il Giardino Inglese si accosta alle architetture vanvitelliane,
risultando il viale tangente anche alla struttura
dell’Aperia, la cisterna, rimasta incompiuta, prevista da Luigi Vanvitelli per sopperire alle necessità della Reggia in caso di guasti all’acquedotto.
Al termine del viale ci si ritrova in asse con l’ingresso, nel punto segnato dalla Fontana della Piramide, origine del percorso d’acqua - come
segnalato anche dalla planimetria redatta da Nicola Terracciano, botanico e direttore del giardino
tra il 1861 ed il 1890 - sebbene attualmente non
più in funzione. Un gorgoglio avrebbe denunciato, all’epoca, la presenza dell'elemento idrico
che, trasformato nella linearità di un rill, avrebbe
condotto alla successiva scoperta della Fontana
del Pastore, introducendo in modo definitivo all’interno del giardino.
La Fontana del Pastore - con la probabile statua
di Batto o di Ermes, già presente nel giardino dei
principi Acquaviva - è al giorno d’oggi la vera
origine del percorso dell’acqua, che giunge all’interno del Giardino Inglese provenendo dalla vicina Fontana di Diana26.
Ormai introdotti nel nuovo paesaggio - e lasciate
alle spalle le geometrie dell’asse centrale - non
171
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Parco di Caserta, Giardino Inglese. Bagno di Venere.
resta che seguire il flusso idrico che, scendendo
verso valle per gravità, segna inequivocabilmente
i principali elementi. Volontà di Graefer fu che il
ruscello proveniente dalla Fontana del Pastore
dovesse alimentare, con un percorso parzialmente
sotterraneo, un piccolo lago posto nelle immediate vicinanze, affiorando dalle radici di un
Taxus baccata, imponente albero scelto per la sua
eccezionale longevità. Si tratta del cosiddetto
Bagno di Venere, luogo in cui sono maggiormente presenti gli elementi in grado di emozionare l’osservatore.
Il lago in cui si specchia la dea appena uscita
dall’acqua, la fitta vegetazione circostante, i ruderi di un “criptoportico” ricreato ad arte, il piccolo ponte che collega le due sponde sono tutti
elementi che, secondo i dettami del gusto pittoresco, costribuiscono a creare nel visitatore il senso
della meraviglia. Giunti, infatti, ai margini del
lago, ci si rende conto di essere in un luogo potenzialmente incantato, in cui l’improvvisa e inaspettata scoperta della dea, intenta nel suo bagno,
richiama alla memoria quanto appena lasciato alle
spalle nella rappresentazione di Diana e Atteone.
Ma Venere non è Diana, e sembra perfino contenta di lasciarsi ammirare dall’incauto visitatore.
Dal piccolo lago del Bagno di Venere ha, quindi,
origine il fiume che percorre il giardino nel tratto
centrale - non c'è infatti giardino all’inglese che
non sia attraversato da un fiume - giungendo a
172
sud nella parte pianeggiante dove si allarga a formare di nuovo un lago, di dimensioni maggiori
del precedente. Lungo il percorso l'acqua compie
due salti di quota: il primo, una cascata di modeste dimensioni, in prossimità del Bagno di Venere, quasi a completarne l’immagine pittoresca;
l'altro, più deciso, poco prima di giungere nel
lago posto a valle. È quest’ultimo una forma particolare di salto d’acqua, la cateratta, la cui caratteristica è quella di essere repentino e violento,
perché generato da un’improvvisa frattura del terreno. L’effetto è, ancora una volta, quello di stupire il visitatore, posto dinanzi a qualcosa di
totalmente inaspettato e dal forte impatto emotivo.
Due isole, su cui sorgono i “resti” di un tempio ed
altri piccoli edifici di servizio, abbelliscono il
lago che occupa il fondovalle, la maggiore nel
centro, la minore spostata verso est. È anche questo un elemento tipologico piuttosto comune, che
costituisce il termine del percorso, aprendo di
nuovo lo sguardo su una scena dalle caratteristiche emozionali attentamente studiate: spaziando
fino alla fitta vegetazione che delimita il giardino,
l’osservatore subisce l’illusione che la sua vista si
perda nel bosco circostante.
Il piacere, nel Giardino Inglese, assume pertanto
i caratteri innovativi e propri del Romanticismo,
divenendo progressiva scoperta di un personale
viaggio emozionale e di una continua esperienza
sensoriale.
Per gioco e per piacere. La molteplice fruizione delle architetture per l’acqua
________________________________________________________________________________________________
Parco di Caserta, Giardino Inglese. Il lago.
___________________
NOTE
1. Antonella PIETROGRANDE, La teatralizzazione della natura nelle feste e nei giardini italiani del secondo cinquecento, in Il giardino e la memoria del mondo, cit.,
p. 77.
2.
Ivi, p. 78.
3.
Ibidem.
4.
La descrizione della festa di Vaux-le-Vicomte, fatta da
Anatole France, è in Parigi e l’Ile-de-France, Touring
Editore, Milano, 2002, p. 221.
9.
A proposito di tale disposizione vegetale, così scriveva
lo stesso Vanvitelli: «Nella sala grande destinata alle fontane di Amore e Psyche essendo già cresciute le piante di
verdura, che devono servire per i pilastri del portico arenato, intorno della Sala, non si deve più ritardare a piegare li rami per darle la forma di arco; stantecche,
ritardandosi ancora, non potrà più succedere la cultura
per formare il divisato portico». Lettera del 28 ottobre
1768 al Cavalier Neroni, intendente generale di Caserta,
contenuta in Manoscritti di Luigi Vanvitelli..., cit., p. 208.
5. Giovan Vincenzo IMPERIALE, op. cit., p. 377.
10. Ferdinando PATTURELLI, op .cit., p. 54.
6. Le parole del 1627 di Joseph Furttenbach sono riportate
da Luigi ZANGHERI, Storia del giardino, cit., p. 44.
11. Antonio SANCIO, op. cit., pp. 110-111.
7. La frase di Michel de Montaigne è in Fontane, giochi
d’acqua e spettacolo, cit., p. 140.
8.
Si prende a riferimento quanto Marcello Fagiolo ha
applicato alla descrizione della villa di Pratolino, riuscita ad «esibirsi, secondo la fortunata classificazione
vitruviana, come scena tragica (l’acqua e il verde imitano archi, templi, costruzioni di una ideale composizione aulica e prospettica) o scena comica (e persino
farsesca, con rappresentazioni rustiche, scherzi d’acqua, scene di genere) o scena satiresca (il bosco della
villa corrisponde alla scena descritta dal Serlio con ‘arbori, sassi, colli, montagne’)». Luigi ZANGHERI, Storia
del giardino..., cit., p. 263.
12. In una lettera di Vanvitelli del 15 dicembre 1763 è possibile leggere «l’istruzzioni che per mia parte debbonsi
partecipare al Capo Giardiniero Monsieur Martino
Biancourt, quando dovrà risarcire di piante o semenze
alcuni siti del Vecchio Real Boschetto di Caserta».
Manoscritti di Luigi Vanvitelli…, cit., p. 77.
13. Antonio SANCIO, op. cit., p. 113.
14. La lettera del 28 ottobre 1768 è in Manoscritti di Luigi
Vanvitelli…, cit., p. 208.
15. Gino Chierici, La Reggia di Caserta, Roma, Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato, 1984-1999, p. 72.
16. Lettera di Francesco Collecini del 29 luglio 1769, in
Caserta e la sua Reggia…, cit., p. 91.
173
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
17. Gino CHIERICI, op. cit., p. 73.
18. Antonio SANCIO, op. cit., p. 111.
19. Pietro DE MARINO, op. cit., c. 229-300.
20. Francesco GUERRA, Copia revisionis appretii, ARCe,
vol. 403, c. 356- 361.
21. «Nella giovanile età del nostro RE FERDINANDO nell’anno 1769 fu finito con tutte le regole dell’Arte militare per servire di suo Real divertimento negli esercizj
militari, tanto che v’era la consuetudine di far in esso
le salve in ogni Gala di Corte». Ferdinando PATTURELLI, op. cit., pp. 90-91.
22. Un indizio del mantenimento dello stato di fatto, relativamente all’area del Bosco Vecchio, sembra emergere anche nella già citata lettera del 15 dicembre
1763: «La sala o sia largo della fontana detta la Bernestat parimente si lascerà nella sua figura e soltanto il
giardiniero puotrà nettare il sito e piantare delle nuove
piante di licini ove si veggono le mancanti. (…) perfino
174
prossimamente al sito della Bernestat questo si dovrà
tutto o piantare con nuove piante di querce o licini, ovvero seminare con delle ghiande di quella specie. Lasciandosi però tutte le direzioni dei viali ed aperture
come presentamente esistono; questo è quanto per ora
riserbandomi al dippiù in appresso». Manoscritti di
Luigi Vanvitelli…, cit., p. 77.
23. Tale edificio era stato trasformato già dal 1750 in sede
della Reale amministrazione e residenza degli intendenti. La notizia è in Antonio SANCIO, op. cit., p. 85.
24. Ivi, p.112.
25. Il Giardino Inglese di Caserta si contende con il cosiddetto Giardino Romantico di Monza il primato di
primo giardino paesaggistico in Italia.
26. In origine era previsto che l’acqua dovesse provenire
direttamente da una diramazione dell’Acquedotto Carolino.
________________________________________________________________________________________________
CONCLUSIONI
La Reggia di Caserta è un’opera incompiuta.
Per quanto il figlio Carlo abbia proseguito l’attività del padre, alla morte di Luigi Vanvitelli, nel
1773, né il palazzo, né il parco potevano considerarsi ad un punto tale da permettere il loro completamento in pochi anni. A complicare un tale
stato, si sono aggiunte, inoltre, le vicende della
storia: gli eventi legati alla rivoluzione francese;
la fuga dei sovrani da Napoli con l’istituzione
della repubblica napoletana nel 1799; l’arrivo di
Napoleone, che nel 1806 insediò sul trono di Napoli il fratello Giuseppe.
Infine il già ampiamente denunciato cambiamento di gusto, con la predilezione del giardino
paesistico inglese che portò al progressivo disinteresse per il completamento del giardino formale.
Ovviamente questa situazione non ha giovato
all’opera vanvitelliana. Rimanendo nell’ambito
delle architetture per l’acqua, forse proprio a
causa della sua incompiutezza, che difficilmente
permette di coglierne il significato, l’asse centrale
del Parco non ha goduto di un particolare apprezzamento già da parte dei numerosi viaggiatori impegnati nel Grand Tour in Italia. Perfino alla
cascata, intesa come singolo elemento, sono state
riservate numerose critiche, dipendenti, tuttavia,
anche dall’erroneo presupposto di isolare l’elemento “naturale” dal resto della composizione.
Così, oltre al già citato Henri Swinburne, si possono ricordare l’opinione di Alexandre Dumas –
che disse, in relazione alla cascata, «è un risultato
mediocre ottenuto con un lavoro gigantesco»1 – o
le parole di August von Kotzebue:
La cascata di cui si fanno grandi elogi e che si trova
all’estremità del parco, merita a mala pena di essere
visitata; in verità è considerevole la massa d’acqua e
molto alta la roccia dalla quale cade; ma questi due
aspetti positivi non bastano. Il suo effetto è per di più
annullato dalla quantità delle brutte statue e dei meschini ornamenti. La caduta dell’acqua serve da panorama a molte finestre del Palazzo Reale, e a sentir
quelli che ne parlano, sembrerebbe meravigliosa, ma
a tale distanza somiglia solo a un filo bianco2.
Del resto anche il Cavalier Sancio non sembra
apprezzare interamente il progetto vanvitelliano,
quando scrive: «fortunatamente non trovasi eseguito il gran parterre all’Arabesco»3 previsto nei
disegni della Dichiarazione.
Il nuovo orientamento verso i canoni dettati dal
Romanticismo, l’assenza di elementi “pittoreschi” in quella che era vista come una monotona
successione di statue, il confronto con la “sublime” bellezza dei Ponti della Valle sono tutti
fattori che hanno sicuramente influito sul giudizio
negativo attribuito al Parco.
Ma c’è da chiedersi anche quanti di quei viaggiatori si siano interrogati di fronte all’incompiutezza dell’opera e siano andati oltre la lettura
superficiale dell’asse centrale come “tradizionale” successione di fontane.
È, allora, di non trascurabile rilievo richiamare
l’attenzione su quel messaggio più profondo probabilmente contenuto nella Fontana dei Delfini4,
vera porta dell’attuale Parco. Il significato di
quell’invito a bere della sua acqua per non fermarsi alle apparenze, ma per conoscere con la ragione oltre che con i sensi, si palesa, così, in
modo manifesto.
Facendo, però, attenzione, perché le facoltà dell’uomo sono ingannatrici. Come ricorda Pascal
nei Pensieri,
la ragione e i sensi, oltre che mancare ciascuno di sincerità, s’ingannano reciprocamente l’un l’altro. I sensi
175
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
La Fontana dei Delfini, attribuita a Carlo Vanvitelli, rappresenta forse la chiave di lettura per procedere nel Parco
realizzato?
ingannano la ragione con false apparenze; e questo
stesso tranello che essi tendono all’anima, essi lo ricevono da questa a loro volta; essa se ne vendica. Le
passioni dell’anima turbano i sensi e procurano ad essi
false impressioni. Essi mentono e si ingannano a
gara5.
Nella molteplicità degli elementi presenti, dei riferimenti suggeriti, delle sensazioni provate, appare sempre più difficile pervenire ad una
comprensione univoca. I diversi livelli di lettura,
possibili nell’asse centrale del Parco, si prestano
ad una pluralità di interpretazioni che, più che
sciogliere dubbi, moltiplicano le domande e, tuttavia, proprio per questo motivo, accrescono il
suo valore.
Se, dunque, non è possibile considerare il Parco
di Caserta come ultimo esempio di giardino francese, nel senso di ennesima ripetizione del modello di Le Nôtre a Versailles, è tuttavia
fondamentale riconoscerne il valore come ultimo
giardino formale europeo. Il Parco di Caserta si
colloca, infatti, come ideale cerniera tra due
mondi in aperto contrasto tra loro: l’uno, legato
ancora all’Ancien Régime, in inevitabile declino,
l’altro, aperto alle innovazioni illuministe, in
ascesa e proteso verso il futuro. Il merito di Vanvitelli sembra essere quello di aver intuito, nel
passaggio epocale del Settecento, la necessità di
176
cambiamento richiesta dalla società, anche se la
sua cultura, la sua esperienza e la sua formazione
non gli hanno consentito di trovare le forme innovative che tale cambiamento richiedeva, né, tanto
meno, di utilizzare la novità del giardino paesistico.
Ma la sua presa di distanza dalla ripetizione pedissequa degli schemi del giardino francese, il
suo volersi rifare al modello – ovvero di ricollegarsi ad una tradizione che in Italia aveva avuto
origine – lo hanno condotto a delineare una terza
soluzione, in cui il giardino formale diviene non
solo celebrazione del re, ma anche del suo popolo. Implicitamente è anche questa una fine
dell’assolutismo monarchico. Non è possibile conoscere pienamente il percorso mentale seguito
da Vanvitelli, in quanto manca proprio il collegamento tra la zona del Parco accuratamente disegnata nella Dichiarazione e quella realizzata, ma
ancora non progettata compiutamente nel 1751.
In ogni caso non sono da escludere eventuali contatti con le idee illuministe che circolavano a Napoli – e che in parte erano propugnate dallo stesso
sovrano – e con le teorie di Giambattista Vico. Se
anche non fosse stata realizzata nessuna zona del
Parco, la sola costruzione dell’Acquedotto Carolino, opera destinata alle «delizie del re» e, contemporaneamente, al miglioramento delle
condizioni igieniche della popolazione napole-
Conclusioni
________________________________________________________________________________________________
tana, testimonia che erano finiti i tempi in cui
Luigi XIV poteva affermare «lo Stato sono io».
Purtroppo la serie di eventi dettata dalle circostanze storiche già citate, a cui è bene aggiungere
anche la partenza di Carlo di Borbone per la Spagna nel 1759, hanno costretto ad un rallentamento
e, successivamente, ad un arresto dei lavori, che
ha trasformato la strada percorsa da Vanvitelli in
un vicolo cieco.
Soppiantato dal giardino paesistico, il giardino
formale termina la sua storia senza aver potuto
esprimere in modo completo il cambiamento che
si stava concretizzando. Eppure, la pressoché
contemporanea realizzazione del Giardino Inglese testimonia la vocazione della Reggia di Caserta ad essere all’avanguardia rispetto ai tempi e
a recepire i cambiamenti propri dell’epoca.
Se, dunque, all’apparenza, il Parco di Caserta
sembra essere ripetizione di tanti altri giardini
simili in tutta Europa, in realtà l’intera opera
possiede irripetibili caratteri unici ed originali che
solo un’approfondita lettura, in gran parte ancora
aperta, può riuscire ad evidenziare pienamente.
Per tale ragione occorre che l’intero complesso
vanvitelliano – intendendo con questo termine
l’unione di Palazzo Reale, giardini ed Acquedotto
– già considerato dall’Unesco, nelle sue singole
parti, Patrimonio dell’Umanità, non sia disperso
tra una pluralità di amministrazioni.
L’intero organismo monumentale possiede infatti
tutte le potenzialità per divenire polo di sviluppo
per il recupero dell’identità culturale non solo
della regione circostante il Palazzo Reale – ad
esempio i siti di S.Leucio o di Caserta Vecchia –
ma anche per tutti i comuni interessati dal percorso dell’Acquedotto Carolino. Occorre pertanto
estendere all’intera opera vanvitelliana il concetto
di grande attrattore culturale – attualmente di pertinenza della sola Reggia – così da comprendere
in un museo diffuso sul territorio, e dai poliedrici
aspetti, anche l’intero percorso dell’Acquedotto.
Solo attraverso una fruizione integrale del complesso monumentale sarà possibile, infatti, tutelare e trasmettere al futuro le valenze storiche,
artistiche, culturali e paesistiche contenute nell’opera di Vanvitelli.
___________________
NOTE
1
Caserta e la sua Reggia…, cit., p.124.
Ivi, p.132.
3
Antonio Sancio, Op. cit., sezione II, preliminare, p.107.
4
Si ricorda che la Fontana dei Delfini è quella in cui maggiore è stato l’intervento di Carlo Vanvitelli, a cui è attribuito anche il progetto del Giardino Inglese dai probabili
significati massonici. Si pensi, ad esempio, alla presenza
2
di un tempio dorico “in rovina” posto all’ingresso del giardino, alla Fontana della Piramide, alla statua del pastoreMercurio da cui sgorga l’acqua, alla ricca simbologia
nascosta nel Bagno di Venere.
5
Blaise Pascal, Pensieri, a cura di Adriano Bausola, Bompiani, Milano, 2000, p.75.
177
________________________________________________________________________________________________
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Indice dei nomi
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INDICE DEI NOMI
Acquaviva, 53, 54, 56, 56, 57, 66, 84, 116, 124, 126, 169,
170, 171
Andrea Matteo, 53, 56, 57
Anna, 55
Giulio Antonio, 52, 53, 54
Acquaviva d’Aragona, Andrea Matteo, 52, 63
Adam, Lambert-Sigisbert, 123
Adriano, 12
Agrippa, 40, 107
Alberti, Leon Battista, 66
Algarotti, Francesco, 156
Ammannati, Bartolomeo, 122
Ammirato, Scipione, 52
Angiò, Roberto di, 51
Angioini, 51, 63
Apuleio, 63, 154
Aragona,
Cesare di, 52
Violante di, 51
Archimede, 66
Asburgo,
Anna di (Anna d’Austria), 60, 159
Giuseppe di, 16
Maria Antonia di, 61
Maria Carolina di, 16, 102, 155, 156, 171
Maria Teresa di, 16
Rodolfo II di, 106
Avellino, Principe/i di, 52, 53, 67
Aveta, Aldo, 71, 107
Azzi Visentini, Margherita, 118, 154
Baldan Zenoni Politeo, Giuliana, 59, 155
Barattieri, Giovanni Battista, 71, 107
Barigioni, Filippo, 132
Bausola, Adriano, 177
Baviera,
Ludovico II di, 46
Max Emanuel di, 44, 45, 61
Bazachi, Lealdo Leandro, 107
Benevolo, Leonardo, 26, 58, 59, 107
Bernasconi, Pietro, 84, 99, 110
Bernini, Gian Lorenzo, 132
Biancourt, Martino, 116, 173
Blondel, Jean-François, 107
Boccaccio, Giovanni, 51, 63
Böckler, Georg Andreas, 107
Bonaparte,
Giuseppe, 175
Napoleone, 175
Bonelli Renato, 16
Borbone, 51, 63, 64
Carlo (Carlo III) di, 14, 15, 16, 49, 50, 56, 57, 62, 63,
83, 86, 102, 110, 111, 115, 121, 122, 123, 124, 125, 126,
139, 152, 153, 177
Ferdinando IV (Ferdinando I) di, 16, 86, 95, 102, 103,
111, 127, 133, 155, 163, 167, 169, 170, 174
Ferdinando VI di, 15
Filippo V di (Duca d’Anjou), 15, 47, 49, 62, 124
Francesco II, 103
Borboni, 55
Botticelli, Sandro, 156
Boudard, Jean-Baptiste, 121, 126
Boutelou, Esteban, 61
Boyceau de la Barauderie, Jacques, 19, 20, 21, 22, 58
Bramante, 39, 40
Buontalenti, Bernardo, 67
Campa, Cecilia, 154
Canaletto, 62
Canali, Luca, 155, 157
Canestrini, Francesco, 111
Canevari, Antonio, 50, 63
Carasale, Angelo, 49, 50
Carbonet, Charles, 45
Cardini, Franco, 15
Carlier, René, 62
Carlo X, 81, 82, 82
Carlo XII, 61
Carnevali, Laura, 117, 154
Carracci, Annibale, 121, 122
Castellani, Emilio, 63
Cattabiani, Alfredo, 156
Cecile, costruttore, 81
Charbonnier, Martin, 44
Chierici, Gino, 166, 173
Cicerone, 63
Colbert, Jean-Baptiste, 73, 77, 108
Collecini, Francesco, 84, 99, 110, 113, 166, 167, 169, 170,
173
Colocci, Angelo, 64
Condé, Principe di, 73
Cortese, Giulio Cesare, 53, 64, 156
Costa, Gustavo, 152, 158
Cotelle, Jean, 37
Clarac, Pierre, 58
Cranach, Lucas, 64
Crumey, Andrew, 15
d’Alembert, Jean-Baptiste le Rond, 58, 70
de Baillou, Jean, 62
de Brosse, Salomon, 106
de Caus,
Isaac, 68
Salomon, 67, 68, 106, 107
de Fer, Nicholas, 80
de la Hire, Philippe, 76, 108
Della Porta, Giacomo, 132
Della Ratta, 51
Caterina, 52
de Lillo, Gaetano, 104
de Luca, Pasquale, 104
185
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
De Marchin, conte, 77
De Marino, Pietro, 52, 63, 174
de Menours, Jacques, 32
Desargues, Gérard, 109
de Serres, Olivier, 22
de’ Servi, Costantino, 106, 107
de Seta, Cesare, 63
de Ville, Arnold, 72, 76, 77, 78, 79, 80
Dézallier d’Argenville, Antoine-Joseph, 21, 22, 24, 44, 46,
58, 59, 69, 70, 107, 116, 116, 137
di Capua, Bartolomeo, 86
d’Houdetot, Mme, 109
Diderot, Denis, 58, 70
di Lahart, Diego, 51, 63
Dione Cassio, 85, 110
Dominici, Antonio, 155
d’Orsi, Giovan Battista,
du Barry, Mme, 79, 80
Dufrayer, ingegnere, 81
Dumas, Alexandre, 175
Dupérac, Etienne, 41
Du Pont, Siane, 77
Effner, Joseph, 45
Enrico II, 58
Enrico IV,
Erone di Alessandria, 66, 68, 106
Esopo, 58
Este, Ippolito d’, 40, 65, 106, 162
Fagiolo, Marcello, 163, 173
Farnese, 49, 61, 63, 155
Alessandro, 61
Antonio, 49, 63
Elisabetta, 15, 47, 49, 62
Francesco, 62
Ranuccio II, 62
Filippo IV, 67
Focq, Nicolas, 81
Fontana,
Carlo, 68, 69, 71, 107
Domenico, 60
Giovan Battista, 93
Fonton, Marcello, 84
Forest de Bélidor, Bernard, 70, 71, 71, 107
Fouquet, Nicolas, 22, 25, 26, 27, 31, 32
Francavilla, Pietro, 122
France, Anatole, 159, 173
Francesco I, 60
Francini, 58, 67, 106
Alessandro, 66
Francesco, 58
Tommaso, 58, 66, 106
Frémin, René, 62
Frontino, 114
Fuga, Ferdinando, 50, 63
Furttenbach, Joseph, 173
Gaetani, Filippo, 55
186
Galanti, Giuseppe Maria, 114
Galilei, Galileo, 18
Galles. Enrico di, 106
Galli Bibiena, Ferdinando, 62
Gambara, Giovan Francesco, 43, 61
Gandolfi, Pietro Francesco, 67
Gargiolli, Giovanni, 67, 106
Gazola, conte, 107
Giambologna (Jean de Boulogne, detto), 122
Gianfrotta, Antonio, 112, 113, 114
Giannetti, Anna, 51, 63, 64, 116, 124, 154
Girad, Dominique, 44, 45
Girardon, François, 33
Giulio Cesare, 85
Giulio III, 61
Ghezzi, Pier Leone, 48
Ghigiotti, Giuseppe, 41, 51, 58, 60, 63, 114
Ghinucci, Tommaso, 61
Gobert, Thomas, 74, 74, 75, 76, 78, 108
Godeau, Siméon,
Goethe, Wolfang J., 16, 51, 63
Graefer, John Andrew, 171, 172
Grimal, Pierre, 114
Gruyl, Liévin, 79
Guerra, Francesco, 52, 174
Guglielmini, Domenico, 71
Guicciardini, Celestino, 64
Hackert, Jakob Philipp, 127
Hamilton, William, 171
Hannover,
Ernst di, 44
Sofia di, 44
Hersey, George Leonard, 152, 158
Hoog, Simone, 59, 107
Iacono, Maria Rosaria, 111
Imperiale, Giovan Vincenzo, 122, 124, 125, 133, 143, 150,
155, 157, 161, 173
Innocenzo XI, 61
Jolly, Denis, 74
Jork, duca di, 113
Jouvenet, Jean-Baptiste, 12
Juvarra, Filippo, 48
Kerény, Károly, 59, 154, 157
La Fontaine, Jean de, 25, 26, 27, 29, 58, 59
La Quintinie, Jean de, 21, 58, 59
Le Blond, Jean-Baptiste Alexandre, 46, 61
Le Brun, Charles, 26, 27, 31, 32, 47, 60, 159
Le Nègre, Pierre, 77
Le Nôtre,
André, 17, 21, 22, 23, 24, 25, 25, 26, 26, 27, 28, 30, 31,
32, 33, 36, 37, 38, 39, 41, 44, 45, 46, 48, 49, 58, 59, 60,
61, 62, 74, 75, 109, 128, 176
Jean, 22, 58
Pierre, 22, 58
Le Pautre, Pierre, 18,
Le Roy, Philibert, 32
Indice dei nomi
________________________________________________________________________________________________
Le Vau, Louis, 25, 26, 27, 31, 32, 74, 108
Ligorio, Pirro, 40, 65, 161
Lionardi, Porzio, 62
Lo Buono, Michele, 61
Lodoli, Carlo, 132, 156
Longobardi, 51
Lorrain, Claude, 14
Lotti, Cosimo. 67
Louvois, Francesco Michele Le Tellier de, 75, 76
Luigi XIII, 22, 32, 60, 74
Luigi XIV (Re Sole), 16, 19, 24, 31, 32, 34, 35, 37, 38, 39,
44, 49, 59, 60, 62, 63, 72, 73, 75, 76, 77, 109, 121, 159,
177
Luigi XV, 58, 59
Luigi XVIII, 81
Maccarone, Curzio, 65
Maintenon, Mme de, 60
Malato, Enrico, 15, 64
Maltese, Corrado, 16
Manfredi, Eustacchio, 71
Mansart, Jules-Harduin, 32, 37, 78, 108
Marchand, Esteban, 62
Marinelli, Claudio, 61, 62, 63, 64
Mariotte, Edme, 107
Mari, Giovanni Antonio, 132
Marot, Daniel, 61
Martin, costruttore, 81
Mazarino, 25, 60
Medici, 53
Cosimo de’, 122
Maria de’, 67
Medrano, Giovanni Antonio, 50, 63
Memmo, Andrea, 156
Meyer, Daniel, 60
Michetti, Nicola, 46, 61
Miglio, Massimo, 15
Migotto, Luciano, 106
Mitchell, William J., 59
Molière, 159
Mollet,
André, 21, 58
Claude, 21, 58
Montaigne, Michel de, 161, 173
Monteverde, Giulio, 135
Monzani, Giuliano, 62
Moore, Charles W., 59
Musi, Aurelio, 15, 16
Napoleone III, 82
Nerone, 108
Neroni, Lorenzo Maria, 84, 113, 114, 155, 166, 173
Newton, Isaac, 18
Niceron, Jean-François, 22, 23,
Nigrone, Giovanni Antonio, 52, 53, 53, 54, 54, 124
Norberg-Schulz, Christian, 44, 61
Orange, 58
Orléans, duca di, 22
Orsi, Giovan Battista, 57
Ottaviano Augusto, 108
Ovidio, 34, 60, 120, 123, 154, 155, 156, 157, 158
Pacca, Francesco, 86
Paduano, Guido, 60
Pagliuca, Lorenzo, 105, 114
Pampalone, Antonella, 61, 62
Pannini, Giovanni Paolo, 48
Paratore, Ettore, 157
Pascal, Blaise, 175, 177
Pasquali, Giambattista, 156
Patel, Pierre, 32
Patturelli,
Carlo, 113,
Ferdinando, 118, 129, 130, 139, 140, 141, 156, 157, 169,
173, 174
Perelle, 94
Périer, ingegnere, 81
Pernstein, Francesca di, 56
Perrault, Charles, 58
Picard, Jean, 74, 74, 75, 107
Pietrogrande, Antonella, 59, 159, 173
Pietro il Grande, 46
Piganiol de la Force, Jean-Aimar, 72
Pio IV, 122
Platone, 63
Plinio, 63
Poussin, Nicolas, 14, 26
Rastrelli, Bartolomeo, 46, 61
Regnaud, Jean, 77
Riario, Raffaele, 61
Ricci, Saverio, 16
Richelieu, 32
Ridolfi, Niccolò, 61
Rigaud, Jacques, 73
Ripa, Cesare, 60
Riquet, Pierre-Paul, 75, 76, 108
Robotti, Ciro, 114
Rodolfo II, 67
Rossi, Paolo, 158
Roudaut, Richard, 60
Sacco, Francesco, 157
Salomone, Gaetano, 131, 139
Sancio, Antonio, 83, 86, 89, 109, 110, 111, 112, 113, 114,
129, 130, 135, 136, 139, 140, 141, 156, 157, 166, 168,
173, 174, 175, 177
Sanfelice, Ferdinando, 50, 63
Sassonia,
Federico Alberto di (Alberto III), 155
Maria Amalia di, 16, 83, 109, 115, 123, 155
Saule, Béatrix, 60
Scamozzi, Vincenzo, 66
Serlio, Sebastiano, 173
Simmaco Mazzocchi, Alessandro, 94
Simmes, Marilyn, 155
Sisto IV, 61
187
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Sisto V, 53, 60, 91
Sitticus, Marcus, 161, 162
Solari, Tommaso, 103
Starace, Francesco, 114, 131, 139, 156
Strazzullo, Franco, 60, 61, 64, 107, 109, 110, 111, 112, 113,
114, 156, 157
Sualem, Rennequin, 72, 76, 77, 80
Svevi, 51
Swinburne, Henri, 127, 175
S.Sansone, 61
Tagliolini, Armando, 125, 155
Tanucci, Bernardo, 15, 16, 102, 111, 114, 166
Terracciano, Nicola, 171
Tessin, Nicodemus (Nicolas) il giovane, 61, 80
Thierry, Jean, 62
Toledo, Eleonora di, 122
Torelli, Giacomo, 159
Torricelli, Evangelista, 107
Tribolo, Niccolò, 161
Turnbull, William Jr., 59
Tuvolkov, Vasily, 46
Van der Heyden, 62
Vanvitelli,
Carlo, 15, 84, 110, 114, 115, 118, 131, 152, 153, 154,
156, 171, 175, 176, 177
Luigi, 14, 15, 16, 17, 41, 42, 43, 43, 44, 48, 49, 51, 55,
56, 57, 58, 60, 61, 62, 64, 68, 71, 83, 84, 85, 86, 89, 90,
91, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 100, 101, 102, 103,
104, 105, 107, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 115,
116, 116, 117, 117, 118, 120, 122, 123, 124, 125, 126,
128, 129, 130, 133, 135, 137, 138, 140, 141, 145, 146,
147, 148, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 164, 165,
166, 168, 168, 169, 171, 173, 174, 175, 176, 177
Pietro, 84, 110, 147, 157
Urbano, 60, 61, 64, 68, 71, 100, 107, 109, 110, 111, 112,
113, 114, 147, 156, 157
Van Wittel, Gaspar, 48, 62
Varricchio, Giacomo, 156
Vauban, Sébastien Le Prestre de, 76, 96, 98, 99, 109
Velleio Patercolo, 85, 110
Venditti, Aranldo, 104, 114, 115, 117, 118, 154
Venturi, Gianni, 28, 59, 147, 154, 157
Venturi Ferriolo, Massimo, 61
Venturini, Giovanni Francesco, 160, 161
Vico, Giambattista, 151, 158, 176
Vignola, Jacopo Barozzi da, 61
Virgilio, 157
Vitruvio, 106
von Kotzebue, August, 175
von Sckell, Friedrich Ludwig, 45
Vouet, Simon, 22, 26
Wittkover, Rudolf, 15, 16
Zangheri, Luigi, 49, 58, 59, 60, 62, 63, 65, 66, 68, 106, 107,
173
Zuccali, Enrico, 44, 61
188
I nomi biblici, della letteratura e del mito
Acante, 26
Adamo, 54, 169
Adone, 54, 141, 148, 152, 154, 157, 158, 165
Africo, 134
Afrodite, 148, 157
Alcina, 159
Amadriadi, 155
Amore, 120, 154
Anapo, 139, 157
Andromeda, 54, 124, 125
Anfitrite, 33, 122, 123, 123, 155
Apéllanire, 27
Apollo (Sole), 24, 31, 33, 34, 35, 37, 48, 53, 59, 61, 64,
121, 122, 129, 130, 130, 131, 132, 155
Aretusa, 139
Artemide, 61
Astrea, 155
Atalanta, 125
Atena, 157
Atlante, 56, 57
Atteone, 57, 124, 143, 144, 144, 145, 146, 151, 157, 164,
172
Bacco, 36, 38, 124, 125
Batto, 54, 57, 64, 124, 171
Borea, 154, 157
Calliopée, 27, 59
Cerere, 36, 38, 54, 62, 125, 138, 139, 140, 145, 148, 157
Chimera, 59
Cibele, 62
Clori, 154
Consus, 125
Deiopea, 134, 135, 157
Delfine, 33
Deucalione, 43
Diana, 34, 51, 54, 57, 64, 124, 126, 143, 144, 145, 145,
148, 151, 157, 172
Eco, 120, 154
Efesto, 59
Encelado, 13, 13, 39, 46
Endimione, 154
Enea, 133, 146, 152, 157, 163
Eolo, 134, 135, 136, 157, 163
Eos (Aurora), 59
Era, 157
Ercole, 30, 54, 62, 63, 121, 122, 123, 124, 155, 156
Eretteo, 154
Eris, 156
Ermafrodito, 54
Ermes, 57, 64, 171
Esculapio, 54
Esperidi, 59, 126
Etiopi, 59
Euro, 134, 136
Eva, 54, 169
Evandro, 152
Indice dei nomi
________________________________________________________________________________________________
Flora, 36, 38, 54, 103, 121, 121, 125, 154
Giona, 156
Giove, 43, 60, 124, 134, 155
Giunone, 133, 134, 135, 145, 148, 153, 157
Hortésie, 27
Ippocrene, 125
Ippomene, 125
Kastalia, 61
Latona, 38,
Marsia, 165
Marte, 62
Mercurio, 62, 177
Minerva, 62
Muse, 124, 129, 130, 155
Narciso, 120, 154
Nettuno, 33, 62, 122, 123, 123, 129, 136, 137, 152, 155,
161
Ninfe, 135, 136, 139, 140, 143, 145
Noto, 134
Oceano, 33, 122
Opis, 125
Orfeo, 53, 161
Oronte, 27
Palatiane, 27
Pallade, 121
Pandora, 62
Paride, 134
Pegaso, 121, 124, 155
Peleo, 156
Perseo, 54, 124, 125
Pirra, 43
Pomona, 120, 125, 126, 126, 154, 155
Poseidone, 155
Proca, 155
Proteo, 33
Psiche, 62, 120, 154
Ruggero, 159
Salute, 54
Sansone, 46
Saturno, 36, 38, 62, 125
Selene, 154
Sibilla Albunea / Tiburtina, 65, 156
Sileno, 54
Simeto, 157
Sommeil (il Sonno), 26
Teti, 32, 123, 134, 156
Titano, 59
Tritoni, 140
Venere, 65, 124, 126, 137, 141, 145, 148, 155, 156, 157,
165, 172
Vertumno, 120, 125, 126, 154, 155
Vittoria, 62
Zefiro, 121, 121, 125, 154, 155, 157
Zeus, 13, 39, 60, 61, 156
189
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
INDICE DEI LUOGHI
Abruzzo, 95
Acquavivola (monte), 91
Airola, 88, 89, 111
Aldifreda (strada), 131
Alfeatino (lago), 68
Alsazia, 109
Amatunte, 154
Amesfoort, 62
Amsterdam,
Aniene (fiume), 65, 106
Anqueil (fiume), 24, 28, 30, 30, 31
Appia (via), 63
Aquitania, 108
Aranjuez, 53
Asia Minore, 154
Atlantico (oceano), 76, 108
Aude, 108
Austria, 44
Avellino, 53
Badia di S. Pietro, 102
Bagnaia, 13, 14, 42, 42, 43, 43, 61, 155, 162
Bagnoli, 92
Benevento, 111
Berchères, 76
Berlino,
Bezons, 77
Bièvre (fiume), 75
Bologna, 122
Bougival, 77
Bourgneuf, 75
Briano (monte), 48, 86, 89, 100, 101, 102, 103, 104, 111,
117, 121, 128, 143, 148, 157
Brindisi, 63
Bruxelles, 67
Buc, 75
Bucciano, 89, 110
Calvo (monte), 101
Campania, 51
Capodimonte, 63, 83, 121
Caprarola, 42, 42, 43
Capua, 63, 85, 110
Carré de trappes, 75
Casanova, 104
Casapulla, 104
Caserta, 41, 48, 51, 52, 53, 57, 57, 58, 61, 84, 85, 86, 88,
95, 100, 101, 111, 113, 147, 152
Casa Hirta, 51, 63
Caserta Vecchia, 52, 63, 89, 94, 177
Casigliano, 61
Casolla (casale), 102
Castiglia, 53
Castrone (monte), 91
Charlottenburg, 61
Chesnay, 74
190
Ciesco (monte), 88, 91, 111
Citera, 154
Civita Castellana, 94
Clagny (stagno), 73, 74, 75
Cnido, 154
Corbet, 75
Croce (monte), 93, 94, 111, 112
Dordogna (fiume), 34
Drottningholm
Durazzano, 91, 92, 92
Ebro (fiume), 123
Elicona (monte), 124
Emilia, 49
Eure (fiume), 75, 76
Europa, 22, 25, 39, 44, 60, 177
Faenza (fiume), 90, 91, 91, 111
Fano (monte), 91
Fiero (monte), 91
Finlandia, Golfo di, 46
Firenze, 12, 53, 63, 161
Fizzo (monte), 88, 89, 90, 105
Francia, 19, 22, 26, 31, 33, 34, 38, 39, 44, 46, 47, 60, 61,
72, 108
Francoforte, 67
Frascati, 14, 42, 155, 163
Garonna (fiume), 35, 108
Garzano (casale), 101
Garzano (monte), 83, 88, 94, 98, 100, 101, 137
Genova, 120
Germania, 44
Grecia, 59
Greenwich, 61
Hampton Court, 61
Heidelberg, 67
Hollande, 75
Ibero (fiume, vedi Ebro)
Inghilterra, 107
Isclero (fiume), 90
Italia, 19, 49, 62
Karlsberg, 63
Kassel, 63
La Celle-Saint-Cloud, 74
La Flèche, 107
L’Aja, 49
Latmo (monte), 154
La Tour, 75
Lazio, 152
Libano, 157
Licia, 34, 59
Liegi, 77
Lilibeo (promontorio), 135
Linguadoca, 108
Loira (fiume), 35
Londra, 49, 67
Indice dei luoghi
________________________________________________________________________________________________
Longano (monte), 84, 85, 92, 94
Louveciennes, 77, 80, 82, 107
Maastricht, 160
Madagascar, 37
Madalona / Matalona (vedi Maddaloni)
Maddaloni, 67, 88, 94, 96, 99, 101, 110
Madonna di Costantinopoli (chiesa), 92
Madrid, 49, 157
Maintenon, 76, 96
Marly, 77, 78, 109
Martorano (fiume), 92
Mediterraneo (mare), 76, 108, 122
Mesnil-Saint-Denis, 75
Meudon, 22, 23
Milano, 166
Duomo, 166
Monceaux (fiume), 28, 30
Montagna Nera, 108
Montreuil, 78
Monza, 174
Napoli, 14, 15, 16, 41, 49, 50, 51, 53, 56, 62, 63, 83, 95,
102, 110, 113, 114, 120, 125, 127, 151, 152, 155, 156,
175, 176
Neuf-Brisach, 109
Nîmes, 94, 98
Nonette (fiume), 24
Olanda, 44
Olimpo (monte), 39, 60
Orsigny, 75
Pachino (promontorio), 135
Pafo, 154
Palatino (monte), 155
Palfour, 77
Parigi, 16, 19, 22, 24, 63, 107, 108, 109
Place des Victoires, 76, 77
Parma, 49, 121, 126, 155
Parnaso (monte), 43, 64, 122, 125, 132, 133, 155
Pecq, 77
Peloro (promontorio), 135
Perray, 75
Pfaffenheim, 109
Piacenza, 49, 107
Piccardia, 78, 82
Piemonte,
Polonia, 62, 155
Poltava, 61
Pourras, 75
Praga, 67, 106
Prato (monte), 85, 91
Provenza, 94, 107
Puant (stagno), 24, 33
Rambouillet, 75
Ranciuose (vedi Aranjuez)
Rodano (fiume), 34
Roma, 12, 26, 53, 56, 61, 62, 65, 92, 110, 155, 159
Biblioteca Vaticana, 40
Meta sudans, 33
Piazza Colonna, 132
Piazza del Pantheon, 132
Piazza Navona, 132
Piazza Nicosia, 132
Piazza San Pietro, 132
Pincio, 64
Quirinale, 136, 137
San Pietro, 40
Trinità dei Monti, 53
Rueil, 32
Russia, 44, 46, 155
S. Agata dei Goti, 84, 93, 94
S. Barbara (casale), 102
S. Benedetto, 114
S. Nicola alla Strada, 156
Saclay, 75, 108
Sagrestia (monte), 91
Saint-Germain, 77
Saint-Hubert, 75
Saint-James, 61
Saint-Léger-de-Foucherest, 109
Sala Baganza, 49, 50
Salisburgo, 161, 162
Sampierdarena, 161
San Leucio, 15, 52, 53, 103, 177
Sannio, 110
San Pietroburgo, 46
Sant’Angelo (monte), 65
Santa Prisca (casale), 110
Santella (strada), 114
Saone (fiume), 35
Sassonia, 114
Satory, 75, 82
Sciorenza (vedi Firenze)
Sebeto (fiume), 123
Segovia,
Senna (fiume), 24, 34, 75, 77, 78, 79, 81, 82
Sicilia, 135, 139, 157, 163
Sor (fiume), 108
Spagna, 15, 16, 47, 67, 94, 133, 177
Stella maggiore (monte), 91
Stoccolma, 21
Strasburgo, 109
Stupinigi, 48
Subiaco, 68
Svezia, 61
Taburno (monte), 85, 86, 88
Tevere (fiume), 31, 106
Tifata (monte), 88, 110, 111
Tifatini (monti), 84, 94, 148
Tivoli, 11,12, 20, 40, 41, 42, 65, 113, 133, 155, 156, 160,
160, 162
S. Maria Maggiore, 65
Tolosa, 108
Tora (casale), 102
191
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Torre, villaggio, 52, 55
Trento, 122
Trou d’Enfer, 78
Trou Salé, 75
Ucraina, 61
Val de Bièvre, 74, 74, 75
Valeria (via), 68
Valsanzibio, 54, 55, 57, 62, 135, 138, 157
Vaucresson, 74
Venezia, 60, 120, 138
Versailles, 28, 32, 60, 61, 74, 75, 76, 77, 77, 78, 81, 82,
83, 121, 159, 160, 168, 176
Vesuvio (monte), 123
Villiers, 75
Vistola (fiume), 123
Viterbo, 61
Voisins, 78
Würm (fiume), 44
Acquedotti, sorgenti, opere idrauliche
Acqua Giulia, 51, 85, 88
Acqua Marzia, 68
Acqua Paola, 68
Acquedotto Carmignano, 83, 91, 102
Acquedotto Carolino, 72, 83, 84, 84, 85, 87, 89, 90, 92,
93, 94, 95, 98, 102, 103, 105, 110, 111, 114, 131, 152,
166, 171, 174, 176, 177
Acquedotto Claudio, 112
Acquedotto di Arcueil, 106
Acquedotto di Buc, 75
Acquedotto di Louveciennes, 76, 78
Acquedotto di Maintenon, 76, 76, 98, 99, 109
Acquedotto di Retz, 66
Acquedotto Rivellese, 65
Atalena (sorgente), 88, 110
Bollore (sorgente), 86
Canal de la Bruche, 109
Canal du Midi, 76, 108, 109
Canal Vauban, 109
Casolla (sorgente), 55
Condotto Vecchio, 55, 56
Fico (sorgente), 86
Fizzo (sorgente), 86, 87
Fontana dei Cavoli (sorgente), 86
Fontana del Duca (sorgente), 86
Fontanelle (sorgente), 56, 88, 111
Giove (sorgente), 56, 88
Launay (mulino), 75
Macchina di Marly, 69, 70, 70, 75, 76, 77, 78, 79, 79, 80,
80, 81, 81, 82, 107
Mango (sorgente), 86
Marano (sorgente), 86
Mastro Marco (molino), 91
Matarano (sorgente), 86
Molinile (sorgente), 86
Molinise (sorgente), 85, 86
192
Montbauron (serbatoi), 75, 78, 82
Noce (sorgente), 86
Olmo (sorgente), 86
Peschiera (sorgente, vedi Peschiera del Principe)
Peschiera del Principe (sorgente), 86, 88, 90
Pont du Gard, 94, 96, 98, 109
Ponti della Valle, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101,
101, 105, 107, 175
Rapillo (sorgente), 86, 88
Ru de la Princesse (sorgente), 80
Sambuco (sorgente), 86
Satory (serbatoio), 75
Sfizzo (sorgente, vedi Fizzo)
S. Sebastiano (sorgente), 86
Stagni Inferiori, 75
Stagni Superiori, 75
Stagni Vecchi, 75
Tréfle (serbatoio), 82
Vella (sorgente), 86
Boschetti e Parterres
Arc de Triomphe, 58
Bains d’Apollon, 107
Berceau d’Eau, 58
Bosquet de la Reine, 58
Bosquet de l’Etoile, 58
Bosquet de l’Obélisque, 58, 107
Bosquet des Bains d’Apollon, 58
Bosquet des Dômes, 48, 58, 107
Boschetto d i Encelado, 58, 107
Bosquet des Sources, 58
Colonnata (Colonnade), 37, 48, 58, 60, 107
Giardino di Flora, 117, 118, 125
Giardino di Zefiro, 117, 118, 125
Isola Reale, 58
Labirinto, 58
Marais, 58
Parterre d’Acqua, 45, 46
Parterre d’Eau, 34, 34, 35, 38
Parterre Nord, 33, 34, 74, 121
Parterre Sud, 23, 23, 33, 34, 148
Plazuela de los Ochos Calles, 48
Sala da Ballo (Bosquet des Rocailles), 37, 58, 107
Salone di Amore e Psiche, 118, 120
Salone di Narciso ed Eco, 118, 120
Tre Fontane, 58
Fontane, Bacini, Giochi d’Acqua
Bacini delle Quattro Stagioni, 38
Bacino del Drago, 33
Bacino / Fontana di Apollo, 35, 37, 38, 73
Bacino di Latona (Versailles), 34, 36, 107
Bacino di Nettuno, 33, 74
Bagno di Diana (La Granja di San Ildefonso), 48, 62,
157
Bagno di Diana (Valsanzibio), 138
Indice dei luoghi
________________________________________________________________________________________________
Bagno di Venere, 172, 172, 177
Canopo, 11, 20,
Cascata della Scacchiera (dei Draghi), 46
Collina d’Oro (cascata), 46
Fontana dei Delfini (Bagnaia), 43
Fontana dei Delfini (Caserta), 102, 103, 103, 131, 131,
132, 133, 133, 153, 163, 166, 175, 176, 177
Fontana dei Draghi, 162
Fontana dei Fiumi Reali Ibero, Vistola ed il piccolo
Sebeto, 118, 123, 153
Fontana dei Giganti, 43
Fontana dei Lumini, 13, 162
Fontana del Diluvio, 43
Fontana del Dragone, 73
Fontana del Moro, 132
Fontana del Nettuno (Bologna), 122
Fontana del Nettuno (Firenze), 122
Fontana del Pastore, 171, 172
Fontana del Pavillon, 73
Fontana del Sole, 46
Fontana del Tevere, 106
Fontana della Civetta, 106, 161, 162
Fontana della Corona, 156
Fontana della Fama (La Granja di San Ildefonso), 48, 62,
124, 125
Fontana della Fama (Herrenchiemsee), 46
Fontana della Fortuna (Herrenchiemsee), 46
Fontana della Regia Corte di Nettuno, 118, 121, 123, 124,
125, 130, 153
Fontana della Piramide, 171, 177
Fontana delle Bagnanti (di Caserta), 136, 137
Fontana delle Rane, 48
Fontana delle Tre Grazie, 47
Fontana dell’Oceano (Francavilla), 122
Fontana dell’Oceano (Giambologna), 122
Fontana dell’Organo, 162
Fontana dell’Ovato, 133, 156
Fontana di Adone, 118, 120
Fontana di Andromeda, 48, 124, 124
Fontana di Anfitrite, 47, 48, 137, 145, 147
Fontana di Artemide Efesia, 106
Fontana di Atalanta, 118, 124
Fontana di Bacco, 118
Fontana di Cerere, 100, 101, 137, 138, 139, 140, 141,
142, 146, 147, 152, 157, 163, 164
Fontana di Diana (Caserta, Dichiarazione), 118, 120
Fontana di Diana e Atteone, 103, 143, 144, 145, 145, 146,
150, 151, 164, 171
Fontana di Encelado, 13, 13
Fontana di Endimione, 118, 120
Fontana di Eolo (Caserta), 133, 134, 135, 136, 136, 137,
137, 144, 145, 146, 147, 148, 156, 157, 163, 163
Fontana di Eolo (La Granja di San Ildefonso), 48, 62
Fontana di Ercole, 118
Fontana di Flora (Caserta), 118
Fontana di Flora (Nymphenburg), 45
Fontana di Ippocrene, 118, 124
Fontana di Latona (La Granja di San Ildefonso), 48
Fontana di Latona (Herrenchiemsee), 46
Fontana di Nettuno (Versailles), 48, 107
Fontana di Pallade, 118
Fontana di Perseo, 118, 124
Fontana di Pomona, 118
Fontana di Roma, 106, 161
Fontana di Tivoli, 106, 162
Fontana di Venere (Caserta, asse centrale), 100, 139, 140,
140, 141, 142, 146, 147, 148, 151, 163, 164, 164, 165
Fontana di Venere (Caserta, Dichiarazione), 118, 120
Fontana di Venere (Villa d’Este), 160
Fontana di Vertumno, 118
Fontana di Zefiro, 118
Fontane di Adamo ed Eva, 46
Fontane di Amore e Psiche, 116, 118, 163, 173
Fontana di Narciso ed Eco, 116, 118
Fontana Margherita (del Canestro), 129, 130, 131, 153
Grand Canal (Sceaux), 23
Grand Canal (Vaux-le-Vicomte), 24, 28, 29, 30
Grand Canal (Versailles), 23, 34, 35, 38, 39, 48, 82, 168
Grande Cascata, 46, 47
Grande Peschiera, 104, 118, 127, 131, 165, 166, 167,
167, 168, 168, 169, 170
Grotta degli animali, 161
Grotta del canto degli uccelli, 162
Grotta di Teti, 35, 106, 160
Mar, 47, 62
Peschiera dei Venti, 135, 157
Piramide (Peterhof), 46
Piramide (Versailles), 73
Specchio d’acqua degli Svizzeri, 23, 23, 24, 33, 82
Stagno Quadrato, 47
Tavola del Cardinale, 43, 162
Tavola del Principe, 162, 162
Teatro d’Acqua (Versailles), 160
Teatro delle Acque (Villa Aldobrandini), 163
Viale delle Cento Fontane, 106
Parchi e giardini
Belvedere (Vaticano), 39, 40, 41, 60
Boboli, 67, 122
Bois de Boulogne, 63
Capodimonte, 49, 50
Caserta, 14, 15, 17, 17, 42, 43, 48, 53, 56, 58, 66, 84, 89,
100, 102, 103, 103, 105, 115, 125, 127, 130, 131, 132,
133, 133, 134, 135, 135, 137, 138, 138, 139, 140, 141,
143, 144, 144, 145, 147, 148, 149, 150, 151, 151, 152,
153, 153, 163, 163, 164, 165, 165, 166, 167, 171, 172,
173, 175, 176, 176, 177
Aperia, 103, 104, 171
Belvedere, 53
Boschetto, 53, 54, 55, 56, 168, 170, 173
Bosco Vecchio, 55, 56, 103, 124, 127, 165, 165, 166,
174, 167, 168, 170
193
Le architetture per l’acqua nel Parco di Caserta
________________________________________________________________________________________________
Cappella degli Schiavi, 170
Castelluccia, 56, 127, 131, 165, 167, 168, 169, 169,
170, 170
Giardino Inglese, 15, 56, 57, 103, 127, 152, 156, 171,
172, 172, 173, 174, 175, 177
Pernesta, 56, 169, 170, 170
Ponte di Ercole, 104, 131, 151
Ponte di Sala, 104, 151
S. Silvestro, 157
Chantilly, 22, 24, 45, 58, 61, 73, 107
Manche, 24
Colorno, 49, 50, 50, 62
Aranceria, 49
Bosco della Mezzaluna, 49
Fontainebleau, 22, 58, 106, 159
Hannover, 44
Grosser Garten, 44
Hellbrunn, 161, 162
Herrenchiemsee, 45, 46, 48, 61
Sala degli Specchi, 46
Stanza del Re, 46
Herrenhausen, 44
La Granja di San Ildefonso, 47, 48, 49, 124, 124, 125,
137, 145, 147, 157
Longschamps, 63
Marly-le-roi, 24, 61, 63, 78
Aubrevoir, 24
Belvedere, 24
Grande Cascata, 24
Gran Parco, 24
Grille Royale, 24
Padiglione del Sole, 24
Nymphenburg, 44, 45
Badenburg, 45
Large Parterre, 45
Pagodenburg, 45
Palais du Luxembourg, 106
Peterhof, 46, 47, 47, 61
Grotta Maggiore, 46
Parco Inferiore, 46, 61
Parco Superiore, 46, 61
Pratolino, 53, 60, 67, 161, 163, 164, 173
Richmond, 106
Saint-Cloud, 22, 23, 24, 25, 46, 81, 109
Allée des Goulottes, 25
Gerbe, 23
viale della Balustrata, 24
Saint-Germain en Laye, 22, 25, 58, 66
194
Sceaux, 22, 23, 24, 58, 160
lago Morto, 24
Spianata delle Quattro Statue, 24
Schleissheim, 44, 45, 61
Castello Nuovo, 61
Castello Vecchio, 61
Lustheim, 45, 61
Tuileries, 22, 25, 58
Vaux-le-Vicomte, 20, 21, 22, 24, 25, 25, 26, 26, 27, 27,
28, 29, 30, 30, 31, 31, 32, 58, 59, 61, 63, 141, 156, 159,
160, 173
Cancelli d’Acqua, 29
Cancelli dell’Orto, 30
Grotte, 28, 29, 29
Piccole Cascate, 30
Versailles, 12, 13, 13, 14, 17, 18, 18, 19, 22, 23, 23, 24,
31, 34, 35, 36, 37, 38, 42, 43, 44, 45, 45, 47, 56, 58, 59,
63, 72, 73, 73, 75, 81, 82, 105, 106, 107, 108, 109, 118,
121, 148
Allée Royale, 46
Fama del Re, 33
Ménagerie, 39
Orangerie, 23, 33, 38, 160
Potager, 58
Trianon, 23, 38, 39, 82, 168, 171
Viale dell’Acqua, 33
Regge e Palazzi Reali
Caserta, 14, 14, 16, 17, 27, 48, 49, 50, 51, 56, 58, 62, 72,
84, 85, 88, 89, 103, 103, 106, 112, 115, 116, 117, 120,
127, 128, 128, 131, 136, 141, 148, 156, 163, 171, 174,
175, 177
Vestibolo, 49
Versailles, 16, 25, 27, 31, 32, 38, 39, 43, 46, 48, 49, 50,
62, 72, 124
Cortile di Marmo, 32, 33
Ville e Palazzi
Palazzo Farnese, 42, 42
Villa Adriana, 11, 20
Villa Aldobrandini, 14, 42, 155, 163
Villa Barbarigo, 54, 55, 57, 62, 135, 138, 157
Villa d’Este, 19, 40, 41, 41, 42, 65, 106, 155, 160, 162,
164
Villa di Castello, 161, 161
Villa Lante, 13, 14, 42, 42, 43, 43, 61, 155, 162
Villa Ludovisi, 42
________________________________________________________________________________________________
FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI
Le illustrazioni assenti dal presente elenco sono ad opera dell’autore. In particolare i disegni relativi
alle architetture per l’acqua presenti nel Parco della Reggia di Caserta sono stati realizzati nell’ambito
della ricerca commissionata dalla Soprintendenza B. A. A. A. S. di Caserta e Benevento al Dipartimento R. A. D. A. Ar. della “Sapienza” Università di Roma per il rilievo del Parco (ricerca coordinata
dal Prof. Arch. C. Cundari).
p. 18 Filippo PIZZONI, Il giardino arte e storia, dal Medioevo al Novecento, Leonardo arte, Milano, 1997.
pp. 20, 21, 25 Vaux-le-Vicomte, Publications Elysées, s.l., s.d.
p. 32 Richard ROUDAUT, Le Nôtre. L’Art des jardins à la française, Parangon, Paris, 2000.
p. 41 Torsten Olaf ENGE, Carl Friedrich SCHRÖER, Architettura dei giardini in Europa. 1450-1800, Benedikt Taschen,
Colonia, 1991.
p. 43 Caserta e la sua Reggia. Il Museo dell’Opera, Electa Napoli, Napoli, 1993.
p. 50 Delizia Farnesiana in Colorno, a cura di Marzio dall’Acqua, Colorno, 1995.
pp. 52, 53, 54 Anna GIANNETTI, Il giardino napoletano dal Quattrocento al Settecento, Electa Napoli, Napoli, 1994.
p. 55 Loris FONTANA, Valsanzibio, Bertoncello, Padova, 1990.
p. 57 Caserta e la sua Reggia. Il Museo dell’Opera, Electa Napoli, Napoli, 1993.
pp. 66, 67 Luigi ZANGHERI, Storia del giardino e del paesaggio, Leo S. Olschki, Firenze, 2003.
p. 68 Fontane, giochi d’acqua e spettacolo, a cura di Marilyn Simmes, ed. Librerie Dedalo, Roma, 1998.
p. 69 Carlo FONTANA, Utilissimo trattato dell’acque correnti, Roma, 1696.
p.70 DIDEROT E D’ALEMBERT, Encyclopédie, Tutte le tavole, II, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2002.
p.71 Bernard FOREST DE BÉLIDOR, Architecture Hydraulique, ou l’Art de conduire, d’élever, et de menager les Eaux
pour les différents besoins de la Vie, Jombert, Parigi, 1737-1753.
p. 72 Giardini, orti e labirinti, a cura di Lucia Impelluso, Electa, Milano, 2005.
p. 73 Les jardins de Le Nôtre à Versailles, Plans de Jean Chaufourier, presentazione di Pierre Arizzoli-Clémentel, Alain
de Gourcuff, Parigi, 2000.
p. 76 Filippo PIZZONI, Il giardino arte e storia, dal Medioevo al Novecento, Leonardo arte, Milano, 1997.
pp. 79, 80, 81, 82 Historique de la Machine de Marly, Circuit chemin de Mi-Côte à Louveciennes, raccolta dei pannelli
esplicativi posti lungo il percorso della Ferme de Mi-Côte a cura del comune di Louveciennes, s.l., s.d.
pp .91, 97, 100 Il Palazzo Reale di Caserta, a cura di Cesare Cundari, Edizioni Kappa, Roma, 2005.
p. 102 Franco STRAZZULLO, Le lettere di Luigi Vanvitelli della biblioteca palatina di Caserta, Congedo Editore, Galatina, 1976.
p. 115 Caserta e la sua Reggia. Il Museo dell’Opera, Electa Napoli, Napoli, 1993.
p. 116 Planimetria di Dezallier d’Argenville tratta da Antoine-Joseph DEZALLIER D’ARGENVILLE, La Théorie et la Pratique du Jardinage, 1739; Progetto della Reggia di Caserta tratto da Laura CARNEVALI, Il complesso Vanvitelliano
di Caserta, studi ed esperienze di ricerca, Edizioni Kappa, Roma, 2004.
pp. 117, 120 Il Palazzo Reale di Caserta, a cura di Cesare Cundari, Edizioni Kappa, Roma, 2005.
p. 122 I Grandi Maestri della Pittura Europea, Scala, Firenze, 2003.
p. 152 Caserta e la sua Reggia. Il Museo dell’Opera, Electa Napoli, Napoli, 1993.
p. 160 Fontane, giochi d’acqua e spettacolo, a cura di Marilyn Simmes, ed. Librerie Dedalo, Roma, 1998.
p. 161 Filippo PIZZONI, Il giardino arte e storia, dal Medioevo al Novecento, Leonardo arte, Milano, 1997.
p. 162 Fontane, giochi d’acqua e spettacolo, a cura di Marilyn Simmes, ed. Librerie Dedalo, Roma, 1998.
p. 168 Caserta e la sua Reggia. Il Museo dell’Opera, Electa Napoli, Napoli, 1993.
p. 170 Anna GIANNETTI, Il giardino napoletano dal Quattrocento al Settecento, Electa Napoli, Napoli, 1994.
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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI
Area 01 – Scienze matematiche e informatiche
Area 02 – Scienze fisiche
Area 03 – Scienze chimiche
Area 04 – Scienze della terra
Area 05 – Scienze biologiche
Area 06 – Scienze mediche
Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie
Area 08 – Ingegneria civile e Architettura
Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione
Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche
Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche
Area 12 – Scienze giuridiche
Area 13 – Scienze economiche e statistiche
Area 14 – Scienze politiche e sociali
Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su
www.aracneeditrice.it
Finito di stampare nel mese di luglio del 2009
dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
CARTE: Copertina: Patinata opaca Bravomatt 300 g/m2 plastificata opaca; Interno: Patinata opaca Bravomatt 115 g/m2
ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura