PER NON DIMENTICARE - Fondazione Brigata Maiella
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PER NON DIMENTICARE - Fondazione Brigata Maiella
pagina 1 - pennadomo notizie COSTRUZIONI E SERVIZI CENTRO ITALIA Periodico di informazione dei pennadomesi residenti in italia e all’estero agosto 2013 La Storia Siamo noi Era il mese di agosto 1979 quando è stato pubblicato l’ultimo numero del giornale di Pennadomo che per 3 anni, dall’aprile 1976, ha dato informazioni a tutto campo su quanto accadeva nel paese delle rocce protetto da San Lorenzo. E’ stato un evento editoriale per un paese così piccolo, ma così grande nei nostri pensieri e nei nostri cuori. Abbiamo per primi spiegato quale era l’origine storica del nome di Pennadomo e di cui rivendichiamo l’originalità. Ed ora a distanza di 34 anni il giornale di Pennadomo ritorna per una missione ancora più importante e speciale: ridestare la memoria dei tre giovani patrioti della Brigata Maiella: Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo, uccisi dai tedeschi “dagli occhi di fuoco e di ghiaccio” nella battaglia di Pizzoferrato il 3 febbraio 1944 e di cui il prossimo anno ricorre il settantesimo anniversario. Riportiamo alla luce, facendola uscire dal silenzio e dall’oblio dove sono stati relegati ingiustamente e negligentemente per 70 anni, la storia tragica di questi tre nostri giovani che hanno avuto il coraggio di combattere per riconquistare la libertà e la democrazia soppresse dalla dittatura fascista, e per questo hanno pure offerto, come i martiri di ogni tempo, la propria vita per realizzare il sogno della nuova Italia redenta, dando una tragica e gloriosa testimonianza. Uniti da vicende drammatiche come molti giovani patrioti, con il desiderio della vita, della difesa del loro avvenire, i nostri Lorenzo, Luigi Donato e Nicola, hanno incarnato lo stesso sogno e le stesse speranze di redenzione che coltivarono i loro coetanei durante il Risorgimento. I giovani protagonisti di allora, che si chiamassero Silvio Pellico, Piero Maroncelli, Attilio ed Emilio Bandiera, Goffredo Mameli o i Mille al seguito di Garibaldi, hanno tutti desiderato un futuro migliore per un’Italia unita e indipendente, incuranti di ogni pericolo e pronti ad offrire la loro stessa vita, come fecero in migliaia. L’ansia di giustizia e di libertà è stata la forza morale che ha unito i patrioti della resistenza a quelli del periodo risorgimentale, ed entrambi ne sono usciti vittoriosi. Questo spirito unificante tra Risorgimento e guerra di liberazione è stato messo in risalto anche dai generali polacchi Anders e Wisniowski, le cui divisioni hanno combattuto a fianco a fianco dei patrioti della Brigata Maiella: “Il sangue che insieme abbiamo versato sui campi di battaglia per la liberazione d’Italia, ha rinnovato la gloriosa tradizione delle lotte sostenute nel passato, quando Polacchi nelle file di Garibaldi e Italiani in terra polacca, combatterono per la libertà della fraterna nazione e per i sacri diritti dell’uomo...” I patrioti di Pennadomo della “Maiella” sono entrati dunque da protagonisti nella grande Storia del Novecento: partigiani senza partiti, soldati senza stellette. Ecco quindi spiegate allora le ragioni del ritorno di questo giornale per ricostruire alcuni degli eventi storici della resistenza combattuta nelle nostre montagne d’Abruzzo e nei nostri paesi dove i tedeschi fecero razzie, rastrellamenti, barbari eccidi di persone inermi, seminando ovunque terrore, distruzioni e morte di interi paesi. In questa odiosa “terra bruciata” nacquero le prime resistenze tra contadini e povera gente che si affidarono al carisma di Ettore Troilo, un perseguitato dal regime fascista, per rigenerare l’idea di Patria negli animi e nei cuori degli abruzzesi. Ed è qui, in queste terre, povere ma fiere, che Lorenzo, Luigi Donato e Nicola, “i nostri tre fratelli maggiori”, spinti dal furore e dall’ardore, hanno offerto sul sagrato di Pizzoferrato il più bell’olocausto che mai potevano offrire per la redenzione dell’Italia, spargendo dei semi fruttuosi per la nascente Costituzione. Noi di “Pennadomo Notizie”, ieri come oggi, di queste storie di persone, di passioni, di drammi, di speranze e di eroismo delle nostre genti vogliamo raccontare. Non possiamo non far nostro l’invito di Pietro Calamandrei “ad andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”. Ottavio Di Renzo De Laurentis iL 3 febbraio 1944 neLLa battagLia di Pizzoferrato morirono da eroi i Patrioti deLLa “brigata maieLLa”: Lorenzo d’angeLo, Luigi donato di franceSco e nicoLa di renzo Per non dimenticare Lorenzo D’Angelo Luigi Donato Di Francesco Nicola Di Renzo Ricorre il prossimo anno il 70/mo anniversario del loro sacrificio per la liberazione dell’Italia dalla dittatura nazi-fascista. E’ grazie anche al loro sangue versato nella chiesa della Madonna del Girone che alla bandiera della Brigata Maiella è stata conferita la “Medaglia d’oro al valore militare”, un onore che dovrebbe riempire d’orgoglio Pennadomo e i suoi concittadini. E invece di loro si è quasi persa la memoria. Lorenzo, Luigi Donato e Nicola sono nati per vincere. Lo spirito del sacrificio fu il silenzioso condottiero che li portò diritti verso l’olocausto di Pizzoferrato, al loro battesimo di sangue con le carni lacerate dall’odioso fuoco tedesco. è tempo dunque di ridestarne la memoria perché essi furono sempre “primi in ogni prova di audacia ed ardimento, esempio a tutti di alto spirito di sacrificio”. “fare memoria” Per Sentirci comunità “Qui vivono per sempre gli occhi che furono chiusi alla luce perché tutti li avessero aperti per sempre alla luce” (“Per i morti della Resistenza” di G. Ungaretti). Ho accolto con entusiasmo questa iniziativa perché troppo a lungo questo tragico episodio di Pizzoferrato è stato mistificato, dimenticato e relegato nella memoria privata delle famiglie a cui i tre giovani partigiani appartenevano. Al di là dell’importanza storica, del valore militare o civile dell’azione, ciò che oggi abbiamo urgenza di testimoniare è il valore etico-morale della scelta compiuta da tre giovani che hanno contribuito, con le loro giovani vite spezzate, alla nascita della nostra democrazia. In un contesto storico sgretolato e inaridito da ingannevoli e inquietanti chimere, riorientare la rotta è il compito di noi adulti, genitori, insegnanti, anziani, donne e uomini appartenenti a generazioni che hanno conosciuto stagioni più solide, sorrette dall’entusiasmo di idealità oggi smarrite. Per ritrovarle, rimodularle occorre ripartire da qui, dalla comunità alla quale sentiamo di appartenere, dalla diaspora dei suoi pezzi di storia, non limitandosi a ricordare perché il ricordo è fragile, può perdersi, essere dimenticato. Questo, infatti, è accaduto. Il nostro compito è” fare memoria” perché è la memoria ciò che lega il passato al presente e ne determina il futuro. Fare memoria vuol dire costruire intorno a ciò che ci fa sentire parte di una comunità (la sua storia, la sua lingua, la sua cultura) progetti che, a loro volta, creano legami, speranze, futuro. Senza dimenticare chi ci ha preceduti. “O cara piota mia che sì t’insusi” dice Dante alla sua radice Cacciaguida quando lo incontra nel Paradiso. Fare memoria, dunque, vuol dire impedire che vada smarrita la nostra radice ovvero la nostra identità spirituale. Solo raccogliendo e condividendo “le egregie cose” la memoria non sarà più solo privata ma fertile humus per coloro che verranno. Maria Lucci pagina 2 - pennadomo notizie In ricordo di Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo patrioti della Brigata Maiella morti per la liberazione d’Italia nella battaglia di Pizzoferrato del 1944 3 febbraio: il giorno della memoria “Essi furono sempre primi in ogni prova di audacia e ardimento” “Molti dei nostri, i migliori, i più degni, quelli che hanno arrossato del loro sangue le terre d’Abruzzo, delle Marche, della Romagna, dell’Emilia non sono oggi tra noi. Essi sono caduti sulla via dell’onore e del dovere per il riscatto della libertà d’Italia... Il tributo di eroismo, di sangue che voi della “Maiella” avete offerto silenziosamente alla grande causa della liberazione della Patria vi pone tra i migliori figli d’Italia”. Sono queste alcune delle parole pronunciate da Ettore Troilo, fondatore e comandante del “Gruppo patrioti della Maiella”, nel giorno della cerimonia di scioglimento dei volontari abruzzesi a Brisighella il 15 luglio 1945. E tra questi “migliori figli d’Italia”, tra coloro che hanno dato il “tributo di eroismo e di sangue”, ci sono anche i tre giovani ventenni patrioti di Pennadomo: Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo, uccisi dai tedeschi nella battaglia di Pizzoferrato il 3 febbraio 1944. E’ grazie quindi anche al loro eroismo, all’alto spirito di sacrificio, al generoso contributo di sangue versato per il riscatto dell’onore e della libertà d’Italia, che alla bandiera della “Maiella”, è stata conferita dal Presidente della Repubblica Antonio Segni il 14 novembre del 1963 la “Medaglia d’oro al valore militare”. Una medaglia d’oro che dovrebbe riempire d’orgoglio Pennadomo, come accade in tanti altri paesi che hanno avuto un simile onore, e dove monumenti, targhe commemorative o strade e piazze sono state dedicate alle epiche o tragiche testimonianze dei propri concittadini che si sono distinti con azioni e opere, dando così onore e rinomanza al luogo della loro nascita. Dalla “battaglia più cruenta” di Pizzoferrato all’oblio A Pennadomo invece, rincresce affermarlo, nulla di tutto questo. Né un monumento, né una lapide commemorativa, ci ricordano gli eroi della battaglia di Pizzoferrato, che il comandante Troilo definì “la più cruenta di tutte le altre, e in cui i patrioti hanno dato fulgida prova di eroismo e sacrificio”. Quali le ragioni di questo oblio, dell’assenza di qualsiasi solenne riconoscimento commemorativo per i nostri tre giovani compaesani? E’ dovuto principalmente ad una carenza di coscienza civile, ad una carenza di orgoglio collettivo per così tanto eroismo. E i sentimenti di oblio che purtroppo si sono alimentati nel corso degli anni, fino alla loro quasi totale cancellazione dalla memoria di tutti, li hanno abbandonati nella tranquillità e oscurità della morte, che non è altro che l’oscurità della loro vita. E’ come se la tragica morte di Lorenzo, Luigi e Nicola per la guerra di liberazione d’Italia, non riguardasse affatto Pennadomo, il paese natale, e la loro dolorosa morte non avesse alcun alto valore oggettivo, destinandola così verso il nulla eterno. E nulla è più amaro di un eroismo nascosto o dimenticato. Invece il loro sacrificio è dentro la nostra Storia, poiché con la vita essi hanno testimoniato quel che di più nobile, di più generoso si può dare per la Patria. Lorenzo Luigi e Nicola sono nati per vincere: l’ardire e l’ardore dei martiri e degli eroi era in loro, bruciava nei loro cuori. Lo spirito del sacrificio era dentro il loro animo e fu il silenzioso condottiero che li portò diritti verso l’olocausto di Pizzoferrato, al loro battesimo di sangue con le carni lacerate dall’odioso fuoco tedesco. è tempo di ridestarne la vita con la resurrezione delle loro virtù E’ dunque un grande onore per Pennadomo aver dato i natali a questi tre valorosi giovani, ed è un alto onore per noi essere loro compaesani. Ma prima che il tempo inesorabilmente distrugga non solo le tombe ma anche il ricordo dei defunti, dobbiamo onorarne la memoria, “ridestarne la vita con la resurrezione delle loro virtù civili e morali”, onorare il loro puro eroismo di patrioti in modo che il sacrificio della loro vita non sia stato inutile, come un fiore senza radici seminato nel deserto. Un eroismo il loro, è bene ricordarlo, che ha avuto il suo apice nell’eccidio sul sagrato innevato della Madonna del Girone a Pizzoferrato all’alba del 3 febbraio 1944 quando furono uccisi dai tedeschi, ma che è nato e fiorito a Pennadomo, il giorno in cui hanno deciso di abbandonare il lavoro dei campi o degli studi, di allontanarsi dagli affetti familiari più cari, da una moglie incinta di un figlio che non conoscerà mai le carezze del padre, per aderire alla Brigata Maiella creata e condotta dal valoroso comandate di Torricella Peligna, Ettore Troilo, una formazione partigiana di volontari nata solo da qualche mese, il 5 dicembre 1943, e subito battezzata nel sangue di Pizzoferrato appena 60 giorni dopo. Rispettare i diritti dei defunti Onorando con un momento funebre, una lapide o con la dedica di una via prestigiosa, la loro memoria, le loro virtù civiche e morali, di testimoni di un’Italia redenta, Pennadomo li farà risorgere dall’oblio in cui sono stati relegati fino ad oggi, rispettando i loro diritti di defunti al pari di tutti gli eroi di ogni tempo che vivono nelle menti di coloro per i quali sono vissuti e si sono sacrificati. E questa mistica simbiosi e comunione, tra defunti e viventi, è una “celeste corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani”, così come la cantava il poeta-patriota Ugo Foscolo nei “Sepolcri”. “A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti; e bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta”, diceva ancora il Foscolo nei “Sepolcri”. Per noi di Pennadomo in primo luogo, e per tutti i visitatori che verranno nel paese delle rocce protetto da San Lorenzo, vediamo, in una brevissima rassegna storica, per quale ragione il sangue offerto da Lorenzo, Luigi e Nicola, “a egregie cose il forte animo accendono dei forti”. “Furono in guerra, tra i migliori d’Italia” Cominciamo con la testimonianza del Tenente Generale Comandante dell’8a armata inglese R.L. Mc Creery il quale affermò che “in ogni occasione i Patrioti della Maiella hanno saputo dimostrare quali siano gli ideali e la tempra degli italiani liberi,... furono in guerra, tra i migliori figli d’Italia. A loro giunga il riconoscimento dei soldati Alleati che li hanno visti al loro fianco, disciplinati e coraggiosi, nell’ora del combattimento”. Mentre per il generale della 1° Brigata Fucilieri Carpati, Wisniowski, “i soldati della Brigata Maiella sono degni successori della tradizione dei loro padri che combatterono sul Monte Grappa, al Piave e Vittorio Veneto, e dei loro antenati che lottarono per la libertà e la democrazia con il grande Garibaldi”. Il Brigadiere Generale dell’8a Armata inglese Timmins rivolgendosi ai patrioti abruzzesi afferma: “Voi siete i pionieri di quel movimento partigiano italiano, che tanto ha contribuito al successo della campagna d’Italia e grazie al quale potrà essere costruita la Nuova Italia. Pizzoferrato, Montecarotto, Pesaro, Monte Mauro e molte altre località del vostro bel Paese rimarranno sempre associate con le vostre gloriose gesta di guerra, in fraternità con i soldati alleati”. “Esempio a tutti di alto spirito di sacrificio” Ma al di sopra di ogni altro encomio e riconoscimento universale, basterebbe leggere la motivazione storica della “Medaglia d’oro al valore militare” alla bandiera della Maiella conferita dal Presidente della Repubblica Antonio Segni: “In quindici Pennadomo, monumento ai caduti di tutte le guerre mesi di asperrima lotta sostenuta contro l’invasore tedesco con penuria di ogni mezzo ma con magnifica esuberanza di entusiasmo e di fede, sorretti soltanto da uno sconfinato amore di Patria, i patrioti della Maiella, volontari della libertà, affrontando sempre soverchianti forze nemiche, hanno scritto per la Storia della risorgente Italia, una pagina di superbo eroismo. Esempio a tutti di alto spirito di sacrificio, essi nulla chiedendo se non il privilegio del combattimento, hanno dato per primi largo e generoso contributo di sangue per il riscatto dell’onore e della libertà d’Italia... Essi furono sempre primi in ogni prova di audacia e ardimento. Lungo tutto il cammino una scia luminosa di abnegazione e di valore ripete e riafferma le gesta più epiche e gloriose della tradizione del volontarismo italiano”. Sono dunque per tutte queste nobilissime ragioni che Pennadomo si deve, con orgoglio, considerare una “bella e santa terra”, come canta il Foscolo, perché conserva e onora la memoria e le tombe di Lorenzo, Luigi Donato e Nicola nel camposanto, dove, “all’ombra delle dolenti cime dei cipressi, testimoni silenti ed eterni di sovrane tristezze, riposano nella pace dei giusti”. Se non li onoriamo, se non li ringraziamo per la loro nobile testimonianza di sangue versato anche per la nostra libertà, per la nostra nuova civiltà della rinata Repubblica italiana, sarebbe come ucciderli una seconda volta con l’indifferenza e il silenzio complici di una morte ancora più triste e dolorosa di quella procurata dal fuoco assassino del nemico tedesco. Ottavio Di Renzo De Laurentis pagina 3 - pennadomo notizie Giovani spinti dal “furore e dall’ardore” per riconquistare le libertà perdute Chi erano i tre patrioti della Brigata Maiella Nicola Di Renzo era fidanzato con una ragazza di Montelapiano. Luigi Donato Di Francesco aveva avuto per padrino di battesimo Ettore Troilo e si stava per laureare all’Università di Roma. Lorenzo D’Angelo scriveva dolci lettere d’amore alla sua Carolina. Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo, partirono da Pennadomo per Pizzoferrato verso la fine di gennaio. Si erano arruolati tutti e tre il 25 gennaio 1944 al “Corpo dei volontari della Maiella” fondato soltanto il 5 dicembre 1943 a Casoli dal valoroso comandante Ettore Troilo e aggregato al Corpo Britannico dell’ottava armata, e quindi la loro avventura durò solo 10 giorni, fino al 3 febbraio quando morirono da eroi dentro la chiesa della Madonna del Girone a Pizzoferrato combattendo contro i tedeschi dagli occhi di fuoco e di ghiaccio. Lorenzo D’Angelo aveva 20 anni, era nato il primo maggio del 1924 da Nicola e Teresa D’Antonio, fratello di Antonio, aveva frequentato le scuole elementari fino alla quarta classe e dopo qualche anno, nel marzo del 1942, appena diciottenne e già innamorato (ricambiato) di Carlina Ruggiero, partì militare prima a Fiume, poi a Caserta e Nettunia (oggi divisa in due comuni tra Nettuno ed Anzio) dove rimase fino al Natale di quel medesimo anno. Ma durante una licenza, il 30 maggio sempre del ’42, tornò a Pennadomo per sposare la sua Carolina nella chiesa di San Nicola di Bari. Ma pochi giorni dopo ripartì nuovamente al fronte. In un anno e 8 mesi di matrimonio Lorenzo e Carolina stettero insieme solo circa tre mesi tra una licenza ed una convalescenza. Anche dal fronte Lorenzo pensava sempre alla sua amata sposa e le scriveva lettere e cartoline d’amore. In una di queste così manifestava il suo innamoramento: “Tutta per te la vita, amore mio, io ti stringo sul mio cuore così. Amore mio, non ti scoraggiare che non ti lascio più per tutta la vita Carolina, Lorenzo è per te sempre”. . Ritornato di nuovo a Pennadomo (assediato dai tedeschi e con la gente sfollata in rifugi di fortuna per le campagne) verso metà gennaio, Lorenzo si arruolò nella “Maiella” il 25 gennaio 1944 e tre giorni dopo, il 28, partì insieme agli altri patrioti di mattina presto per radunarsi a Montelapiano. Ma il primo febbraio, come un innamorato pazzo, fece un rapido salto a Pennadomo dove trascorse l’ultima notte con la moglie Carolina già incinta e prima di ripartire le disse: “Qualsiasi cosa mi succeda, chiamerai nostro figlio Mario se è maschio in onore di tua madre che mi ha cresciuto come se fossi suo figlio (era rimasto orfano di madre a 11 anni, ndr.) e nel caso fosse femmina Maria Teresa in onore delle due nonne”. Triste presagio di quanto avvenne due giorni dopo dentro la piccola chiesa della Madonna del Girone a Pizzoferrato. Il resto della storia di Lorenzo lo troverete nel memoriale della cara nipote Cinzia D’Angelo, figlia di Mario, che nascerà soltanto il 21 luglio del 1944 senza aver mai conosciuto il suo papà. Luigi Donato Di Francesco aveva 22 anni, era nato il 7 ottobre del 1922 da Giuseppe e Adelina Scopino, suo padrino di battesimo fu Ettore Troilo, il fondatore della “Brigata Maiella” e amico di famiglia. Luigi Donato era fratello di Maria, Assunta, Emma (morta a 13 anni nel 1940) e Italo, il sacerdote. Dopo gli studi di ragioneria a Chieti si era iscritto all’Università di Roma, facoltà di Economia e commercio ed era in procinto di laurearsi. Giovane molto attivo, anche politicamente, aveva ricevuto già alcune prestigiose offerte di lavoro. Nel 1943, secondo un articoletto di cronaca di un giornale abruzzese e conservato gelosamente dai nipoti Elena e Stefano D’Angelo, Luigi Donato, che era un brillante e dotto conferenziere, tenne nell’aula magna dell’Istituto tecnico “F.G” di Chieti, alla presenza dei professori e degli alunni un discorso, sotto la direzione del professore di diritto Rosa Achille, dal tiolo: “Il romanesimo e la Cristianità e la Missione Storica e civilizzatrice del Diritto Romano nel mondo”. Il giovane, si legge sul giornale, “è stato vivamente applaudito, ricevendo anche le congratulazioni del preside prof. Cav. Forlani Rodolfo”. Nicola Di Renzo aveva 24 anni, era nato il primo maggio del 1920 da Concetta Porreca e Fedele, fratello minore di Adelina e Rosina. Nicola si era diplomato a Villa Santa Maria dove aveva anche trovato una giovane fidanzata di nome Maria Palumbo nativa di Montelapiano che frequentava la scuola delle Ricordo d’amore tra Lorenzo e Carolina monache di Villa Santa Maria dove apprendeva l’arte del ricamo. I giovani fidanzati avevano anche già fissato la data delle nozze a primavera, e Maria, proprio per questo si stava preparando, con l’aiuto di altre sue amiche, l’abito da sposa. Quando Nicolino (così era chiamato al paese), dopo l’arruolamento, stava per partire, andò a casa del suo cugino di primo grado Luigi Di Renzo (il maestro di musica) il quale pensava che stava per portargli le partecipazioni per l’imminente matrimonio, e rimase molto sorpreso e amareggiato invece quando seppe il vero motivo della visita e cercò di dissuaderlo; ma invano. Quasi la stessa scena, ma ancora più commovente, si ripeté a Montelapiano, allorchè Nicolino andò nella sera del primo febbraio a salutare la fidanzata Maria e i futuri suoceri mettendoli al corrente del suo arruolamento nella Maiella. La promessa sposa, in lacrime, sull’uscio della porta, prima che Nicolino si allontanasse per sempre, lo strattonò per la giacca, lo frenava e lo pregava di non andare a Pizzoferrato, di ripensarci; ma invano. Maria Palumbo accolse con sommo strazio poi la notizia della morte del suo Nicolino e fu presente insieme ai suoi genitori ai funerali che si svolsero a Pennadomo martedì 15 febbraio piangendo per tutto il tempo del rito funebre nella chiesa di Sant’Antonio. In seguito Maria convolò a nozze con un signore di Ateleta ed ebbe pure quattro figli: ma dentro il suo cuore si portò per sempre, fino al giorno della sua morte, il ricordo del suo Nicolino, il giovane fidanzato di Pennadomo, morto da eroe a Pizzoferrato. (Testimonianza di Assunta Di Renzo) La testimonianza di Nicola Troilo, figlio del valoroso comandante della Brigata Maiella, Ettore “Ho rivissuto la tragedia con rinnovato dolore” Caro Di Renzo, sono rimasto veramente ammirato dai suoi scritti in ricordo ed onore dei tre Caduti di Pennadomo. Lo dico senza alcuna esagerazione perché lei ha saputo ricreare “il clima” di quel tristissimo inverno come se lo avesse personalmente vissuto: io, che l’ho vissuto già grandicello, l’ho ritrovato dopo settant’anni con un rinnovato dolore. In particolare la circostanza che ignoravo – e cioè che la moglie di Lorenzo D’Angelo aspettava un bambino – aggiunge al quadro un tocco di tristezza infinita. L’iniziativa da lei, dal sindaco Antonietta Passalacqua e dai suoi amici assunta di rendere il dovuto omaggio ai tre giovani di Pennadomo caduti nel combattimento di Pizzoferrato il 3 febbraio 1944 e alla Brigata Maiella nelle cui fila si erano da poco arruolati, mi trova non solo pienamente consenziente ma provoca in me anche una profonda commozione. Credo che questa sia dovuta in primo luogo al fatto che Pennadomo è il luogo di origine della mia famiglia al quale fin da piccolo ero particolarmente legato e dove ancora sorge il palazzetto del mio bisnonno paterno e in secondo luogo dal fatto che vissi con particolare angoscia tutta la vicenda di Pizzoferrato. Ero all’epoca un ragazzino di quattordici anni che aveva vissuto la feroce occupazione tedesca del suo paese, Torricella Peligna, e poi – evacuato con la forza a Casoli - vidi nascere la Brigata Maiella e collaborai at- tivamente alla sua costituzione e alle sue prime vicende. Ho ancora presente, come se non fossero passati quasi settant’anni, la notte del ritorno a Casoli dei superstiti di Pizzoferrato, laceri, stanchi, stravolti da quanto avevano visto e vissuto. Così come ricordo perfettamente il racconto di Nicola De Ritis che all’indomani del combattimento si recò a Pizzoferrato per dare sepoltura ai Caduti e si trovò di fronte ad uno spettacolo orribile. Danno nuova freschezza a questi ricordi le testimonianze da lei raccolte Di Renzo circa il recupero delle salme dei Caduti di Pennadomo e il loro trasporto, per vie impervie ed in pieno inverno, su barelle di fortuna o addirittura a dorso di mulo fino al paese natale: sono scene tremende e commoventi, degne di una tragedia greca. Non credo di aver conosciuto personalmente i tre giovani Caduti, o almeno non lo ricordo, ma ho ben conosciuto e sono stato “amico” di tanti cittadini di Pennadomo arruolati nella Brigata Maiella dal citato Nicola De Ritis ad Amerigo Di Renzo, da Galizio Lucci a Pasquale Croce, da Guido D’Angelo a Domenico Di Gravio, tutti valorosi combattenti e variamenti decorati. Ricordo che più volte con un camion indiano, sono stato a Taranta Peligna a portare i rifornimenti al XIII plotone (di cui Nicola De Ritis era il capo ed era formato in gran parte da pennadomesi, ndr.) che era ivi accantonato ed al quale si era aggregato anche mio cugino Mario Porreca. Mi accoglievano sempre con grandi feste e scherzi, mi consideravano la loro “mascotte”: erano giovani, forti, coraggiosi, allegri e pieni di entusiasmo. Ricordo in particolare che nella catapecchia semidiroccata di Taranta Peligna dove abitavano avevano issato una grande bandiera rossa alla cui vista, una volta, un generale badogliano fece un gesto di rabbia e fu sonoramente fischiato. Sempre con il plotone di Pennadomo e con mio cugino Mario consumai il pranzo del 15 luglio 1945 a Brisighella, il giorno dello scioglimento della Brigata. Questo è quanto volevo dire. Altri scriveranno del valore della Brigata Maiella, della sua importanza nella guerra di Liberazione, dei fondamenti che i suoi patrioti per primi eressero della libertà e della democrazia. Sono i ricordi di un ragazzo che – per l’inevitabile trascorrere del tempo – tende a diventare uno dei pochi testimoni viventi e che non potrà mai dimenticare che la Brigata Maiella è nata sulle nostre montagne ed ha combattuto lungo tutta la penisola meritando la Medaglia d’Oro al Valor Militare, unica tra le formazioni partigiane. Eroi, dunque: quelli che caddero a Pizzoferrato senza poter conoscere il profumo della pace e della libertà e quelli che continuarono a battersi fino alla fine. Pennadomo deve a tutti Loro il massimo omaggio e finalmente tale omaggio viene reso. Avv. Nicola Troilo pagina 4 - pennadomo notizie La formazione patriottica abruzzese fu fondata 70 anni fa da Ettore Troilo il 5 dicembre 1943 I 39 pennadomesi della Brigata Maiella Alcuni Patrioti della Brigata Maiella di Pennadomo a Roma nel febbraio 1945 (al centro della foto) L’annuncio della resa incondizionata dell’Italia e dell’armistizio con gli Alleati (8 settembre 1943) aveva provocato un generale sbandamento dell’esercito italiano: alcuni fuggirono, altri parteciparono alla Resistenza, altri ancora aderirono alla Repubblica di Salò. La Germania, intanto, aveva messo in atto il suo piano di occupazione dell’Italia. In Abruzzo si verificò una situazione particolarmente difficile, in quanto la Linea Gustav tagliava a metà la regione e la isolava quasi completamente; in più, il fronte si muoveva lentamente, tanto che l’occupazione tedesca in queste zone si protrasse dal settembre 1943 a giugno 1944: il fronte si sarebbe spostato solo dopo la liberazione di Roma avvenuta il 4 giugno 1944. Anche in una situazione così caotica, non si tardò a riconoscere l’oppressore nell’esercito tedesco, con la conseguenza che la popolazione fu subito pronta a venire in aiuto ai fuggiaschi, ai ricercati dalla polizia ed ai soldati fuggiti dai campi di prigionia. Gli abitanti del posto si offrirono come guide per coloro che cercavano di passare la linea del fronte: montanari e pastori li scortavano nei passi di montagna, difficili da superare senza una buona conoscenza del territorio. Ed è in questa situazione storica, con molti paesi semidistrutti e con la popolazione costretta a fuggire e a cercare rifugio in posti di fortuna, soprattutto nelle campagne e sulla montagna, che nel dicembre del 1943 Ettore Troilo, a Casoli, con alcuni uomini si mise subito a disposizione degli inglesi per la liberazione dei centri Brisighella: il Generale Tomaselli premia Nicola De Ritis abruzzesi. Troilo dovette faticare molto per ottenere il consenso degli Alleati che nei confronti degli italiani nutrivano sfiducia e diffidenza, se non talvolta ostilità. In suo aiuto venne il maggiore inglese Lionel Wigram e così il 5 dicembre nacque il “Corpo dei volontari della Maiella” aggregato al Corpo Britannico dell’VIII Armata. In un primo momento i volontari abruzzesi servirono ad evitare il contatto diretto con i tedeschi e vennero utilizzati come guide in zone difficili da raggiungere e pian piano ottennero anche incarichi importanti, soprattutto dopo la battaglia di Pizzoferrato del 3 febbraio 1944 che costituì la prima prova militare dei patrioti: il successo ottenuto ed il coraggio e la serietà dimostrati nello scontro fecero loro ottenere la fiducia degli inglesi confermata nel tempo. Una volta liberato l’Abruzzo, nel giugno 1944, i volontari della Maiella decisero di proseguire il cammino intrapreso al fianco degli alleati per liberare il resto dell’Italia. Con la cessazione delle ostilità, la “Maiella” decise per il proprio scioglimento, che avvenne il 15 luglio 1945 a Brisighella. Il riconoscimento ufficiale per l’eroismo dimostrato dai volontari abruzzesi avvenne il 14 novembre 1963 quando l’allora presidente della Repubblica Antonio Segni conferì la “Medaglia d’oro al valore militare” alla Bandiera della Brigata Maiella. Ed ecco l’elenco dei 39 pennadomesi che si aderirono alla Brigata Maiella fondata 70 anni fa. Di ogni patriota è riportato il numero di matricola con le rispettive date di arruolamento e di congedo (dall’”Archivio della Brigata Maiella”, inventario a cura di Stefania Di Primo in collaborazione con l’archivio di Stato di Chieti. Casa Editrice Tinari, Villamagna, 2007). Coretti Sebastiano: matr. 562, dal il 1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. Croce Pasquale: matr. 273, dal 20 settembre 1944 al 31 luglio 1945. D’Ambrosio Domenico: matr. 976, dal 20 settembre 1944 al 18 maggio 1945. D’Angelo Andrea: matr. 556 , dal 1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. D’Angelo Antonio (di Giuseppe): matr. 977, dal 20 settembre 1944 al 18 maggio 1945. D’Angelo Giuseppe: matr. 549 – 1281, dal 21 maggio 1944 al 31 luglio 1945. D’Angelo Guido: matr. 291, dal 25 gennaio 1944 al 31 luglio 1945. D’Angelo Lorenzo: matr. 278 – 1513, dal 25 gennaio 1944, morto il 3 febbraio 1944. D’Angelo Raffaele: matr. 839, dal 13 settembre 1944 al 31 luglio 1945. D’Angelo Vincenzo (di Francesco): matr. 979, dal 20 settembre 1944 al 31 luglio 1945. D’Angelo Vincenzo (fu Domenico): matr. 361, dal 25 gennaio 1944 al l9 marzo del 1944. De Ritis Giuseppe: matr. 848, dal 2 maggio 1944, manca la data del congedo. De Ritis Nicola: matr. 256 – 468, dal 16 gennaio 1944 al 15 febbraio 1946. Di Francesco Giuseppe: matr. 550 – 1269, dal 1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. Di Francesco Luigi Donato: matr. 292, dal 25 gennaio 1944, morto il 3 febbraio 1944. Di Gravio Domenico: matr. 469, dal 16 gennaio 1944 al 31 luglio 1945. Di Gravio Nicola: matr. 558, dal 1° giugno 1944, risulta ferito ed inviato in licenza di con- valescenza il 18 agosto 1944, manca la data di congedo. Di Legge Romeo: matr. 592, dal 1° giugno 1944 al 1° settembre 1945. Di Loreto Antonio: matr. 665, dal 10 giugno 1944 al 21 agosto 1944. Di Loreto Vincenzo: matr. 560, dal il 1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. Di Renzo Amerigo: matr. 302 – 473, dal 16 gennaio 1944 al 28 maggio 1945. Di Renzo Armando: matr. 559 – 1516, dal 1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. Di Renzo Giuseppe: matr. 566 – 1314, dal 1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. Di Renzo Nicola: matr. 271, dal 25 gennaio 1944, morto il 3 febbraio 1944. Di Renzo Umberto: matr. 360, dal gennaio 1944 al 9 marzo 1946. Di Reto Orlando: matr. 290, dal 25 gennaio 1944 al 9 marzo 1945. Fantini Giuseppe (di Domenico): matr. 561, dal 1° giugno 1944 al 1° settembre 1945. Giglio Giuseppe: matr. 299 – 470 – 1277, dal 25 gennaio 1944 al 31 luglio 1945. Giglio Lorenzo: matr. 975, dal 20 settembre 1944 al 18 maggio 1945. Lucci Galizio: matr. 272 – 471, dal 25 gennaio 1944 al 31 luglio 1945. Pantalone Giuseppe: matr. 637, dal 16 giugno 1944 al 31 luglio 1945. Pantalone Lorenzo: matr. 557, dal 1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. Paradisi Silvio: matr. 1450, dall’8 novembre 1944, manca la data di congedo. Piccone Camillo: matr. 483, dal 2 maggio 1944 al 31 luglio 1945. Piccone Domenico (di Vincenzo): matr. 589, dal 1° giugno 1944 al 30 settembre 1944. Piccone Lorenzo: matr. 591 – 1442, dall’8 novembre 1944 al 18 maggio 1945. Rossi Giuseppe (fu Massimiliano): matr. 571 – 1278, dal 1° giugno 1944 al 18 maggio 1945. Ruggiero Lorenzo: matr. 978, dal 20 settembre 1944 al 31 luglio 1945. Ruggiero Nicola: matr. 588 – 1895, dal 1° giugno 1944, al 31 luglio 1945. Le medaglie conquistate: “Medaglia di bronzo al valore militare alla memoria” a: Lorenzo D’Angelo, la cui motivazione della presidenza della Repubblica del 16/10/1954, recita: “Alla memoria, volontario di agguerrita formazione di patrioti in cruento assalto contro forte posizione nemica, cadeva da prode dopo estrema ed aspra lotta a Pizzoferrato il 3/2/1944”. Medaglia d’argento sul campo a: Nicola De Ritis prima capo Plotone e poi vice Comandante Sottotenente (quindi ai vertici della Brigata), inoltre ha ricevuto la “Croce al merito con spade di bronzo” conferita dal comando del Corpo d’armata Polacco. Medaglie di bronzo a: Guido D’Angelo, Galizio Lucci, Amerigo Di Renzo. Croce di guerra sul campo a: Domenico D’Ambrosio, Andrea D’Angelo, Raffaele D’Angelo, Domenico Di Gravio, Lorenzo Giglio, Lorenzo Pantalone, Lorenzo Piccone, Domenico Piccone, Camillo Piccone, Giuseppe Rossi. I feriti: Guido D’Angelo e Umberto Di Renzo a Pizzoferrato; Nicola De Ritis, Lonrenzo Pantalone, Andrea D’Angelo, Giuseppe Rossi, Giuseppe D’Angelo, Domenico Di Gravio, Giuseppe Pantalone, Giuseppe Fantini e Camillo Piccone a Montecarotto; Nicola Di Gravio a Loretello; Antonio D’Angelo e Lorenzo Piccone a Monte Mauro; Giuseppe De Ritis e Galizio Lucci a Brisighella; Vincenzo D’Angelo a Lama dei Peligni; Giuseppe Rossi a Castelplanio. Ettore Troilo pagina 5 - pennadomo notizie Le testimonianzE DEI PARENTI DEI PATRIOTI DELLA BRIGATA MAIELLA Mio padre “Peppe il mitragliere” È bello poter ascoltare e saper ascoltare una persona che racconta, specialmente se chi lo fa è un narratore nato che riesce a coinvolgerti nelle storie, facendotele vivere. Così è stato per me sentire raccontare da mio padre (Rocco Giuseppe De Ritis) episodi dell’ultima guerra, cosa che ha fatto dopo numerose e insistenti domande fattegli in più occasioni. Mi rispondeva che era meglio non parlare della guerra, perché anche se giusta, porta sempre dietro di sé morte, dolore, privazioni, sofferenze e tante ferite che a volte difficilmente riescono a rimarginarsi. Successivamente, forse perché io ero cresciuta o perché lui stesso era riuscito a far decantare quei ricordi e sentimenti dolorosi, incominciò a parlarmene. I suoi racconti per me sono stati soprattutto lezioni di vita, come quella di affermare appunto che ogni genere di guerra è sempre da evitare per le divisioni e le discordie che si porta dietro. Mentre ricordava l’assalto a una trincea nemica in Romagna, diceva di aver quasi sentito sul suo viso il respiro dei soldati tedeschi che si erano da poco allontanati per il cambio della guardia, e fu allora che gli chiesi se si era mai reso conto di aver ucciso qualcuno. Mi rispose che, stando in prima linea, aveva sparato per rispondere al fuoco e per difendere la vita, e poi quasi parlando a se stesso, aggiungere: “può darsi anche che l’abbia fatto, dato che ero bravo a sparare perché mi avevano addestrato molto bene nel corpo degli Artiglieri di montagna”. Bravo lo era perché era stato militare per tanti anni e prima di arruolarsi nella Brigata Maiella, aveva combattuto già sul fronte francese. Difatti, conosceva molto bene la riviera ligure e i paesi del principato di Monaco, dato che prima dello scoppio del conflitto suonava il filicorno contralto nella banda militare del suo reggimento (era anche il trombettiere della caserma): banda molto quotata e spesso in concerto in molti paesi limitrofi di Savona. Lo riconoscevano a distanza quando stava alla mitraglia tanto è vero che lo chiamavano “Peppe il mitragliere”. Così fu a Montecarotto, quando con altri tre uomini della sua squadra, difesero il campanile del paese: per 48 ore restarono isolati e senza rifornimento di viveri, disponendo soltanto di munizioni, sigarette e cioccolato, a volontà. Ogni volta, al tacere degli spari quelli della retroguardia pensavano al peggio, ma poi quando sentivano la mitraglia di mio padre, si rincuoravano: “va tutto bene, Peppe spara ancora”. Mio padre non mi ha saputo spie- Rocco Giuseppe De Ritis gare perché quel suo modo di sparare veniva riconosciuto…, ma era così. Vorrei aggiungere soltanto il ricordo dell’ultima battaglia a cui prese parte: quella di Brisighella. Qui, in un casolare restarono accerchiati per parecchie ore ed ebbero un gran da fare per uscirne fuori solo con dei feriti. Uno dei suoi superiori, volendo fare spavaldamente una sortita rimase colpito gravemente su una scarpata e in un punto così scoperto un massiccio tiro nemico gli impediva la ritirata. Per non lasciarlo morire dissanguato, mio padre insieme a un compagno, dopo aver chiesto un fuoco di copertura, si avventurarono allo sco- perto, riuscendolo a trascinare al riparo. Ma in quel casolare anche per lui ci fu una sorpresa inaspettata e tremenda. Mentre si spostava da una stanza all’altra per seguire gli uomini della sua squadra appostati alle finestre, una bomba a mano gli scoppiò a pochi metri di distanza. Diceva che prima di cadere per terra aveva guardato verso i vetri della finestra e li aveva visti intatti: quella bomba non era tedesca! Una grossa scheggia gli recise la vena aorta alla gamba destra ed altre scheggie lo colpirono in tutto il corpo: una di queste gli è rimasta per sempre dentro una mano. Trasportato ad Ancona nell’ospedale da campo, soltanto dopo aver rotto l’accerchiamento, per salvargli la vita non ci fu nientr’altro da fare che amputargli la gamba: la cancrena era già iniziata. I medici polacchi che l’operarono furono bravissimi e lo assistettero molto egregiamente per tutto il periodo che restò ad Ancona. Per questi medici e per il grande valore dimostrato dai soldati polacchi che in più di un’occasione avevano salvato la vita a un centinaio di uomini, messi in situazioni disperate, come quella di Pesaro, dalla incompetenza e leggerezza dei loro comandanti, mio padre ebbe sempre per la nazione polacca una grande consi- derazione e spesso soleva dire che questa nazione era stata tradita per la terza volta. Per mio padre la guerra finì a Brisighella, e verrà congedato con il grado di sergente: grado concessogli sul campo per la segnalazione del tenente colonnello inglese. Trascorse la convalescenza presso l’ospedale di Giovinazzo, vicino Bari, e dopo alcuni mesi fu trasportato a Bologna per l’adattamento alla protesi. Ma prima di andare a Bologna tornò per alcuni giorni di convalescenza a Pennadomo: con una camionetta militare arrivò nella piazza del paese proprio il pomeriggio del 10 di agosto, mentre si stava esibendo la banda, che lo scortò, accompagnandolo fino a casa. Una volta gli ho chiesto se provava rancore, rabbia per chi aveva lasciato cadere la bomba a terra in quel casolare a Brisighella (sono certa che conoscesse chi lo aveva fatto), causando la sua menomazione. La risposta che ricevetti mi spiazzò e ancora oggi quando mi lascio sopraffare da insofferenze, fastidi, o altro verso qualche persona non faccio che ripensare alle sue parole: la guerra è finita e non deve continuare nei cuori che devono essere pieni solo di buoni sentimenti! Luisa De Ritis Memoriale di Cinzia D’Angelo, nipote di Lorenzo “Il nonno che non ho conosciuto” Il giovane nonno Lorenzo Caro Ottavio, volevo ringraziarti nuovamente, non lo farò mai a sufficienza, per quello che stai facendo indipendentemente dai frutti a cui porterà. Volevo soprattutto esprimerti, a nome mio e della mia famiglia, i ringraziamenti più sinceri per la delicatezza con cui hai saputo cogliere l’atmosfera di quei momenti. Volevo accennarti anche che alla fine degli anni 70, mia nonna ricevette la proposta di mettere la salma di mio nonno nel sacrario della Brigata Maiella a Taranta Peligna, ma lei rifiutò perché lo voleva con sé, nel suo paese (di questo abbiamo solo memoria nulla di scritto). Lì comunque ci sono tutti i nomi dei partigiani della Brigata Maiella, anche quello di mio nonno. Mio padre Mario ci ha portato spesso sia a Pizzoferrato che a Taranta Peligna insieme a chi in quei posti c’è stato in quei momenti così difficili. I dettagli che ti ho riportato di quegli anni sono tutti scritti nel memoriale di mia nonna che conserva mia madre (gelosamente!!!). Nel 1942 mio nonno partì per la guerra prima a Fiume, e poi a Caserta e Nettuno, dove era addetto agli esplosivi in guerra. Non era ancora diciottenne quando si dichiarò a mia nonna Carolina che era di quattro anni più grande di lui. Lei aveva deciso (verso la fine del 1941) di andarsene a servizio a Roma, per avere delle prospettive di lavoro migliori rispetto al mondo contadino dell’epoca e perché chi fino ad allora aveva chiesto la sua mano non le piaceva. Lui prese coraggio e le disse che al paese c’era qualcuno che teneva molto a lei e che avrebbe sofferto per la sua partenza. Lei, quasi sfidandolo, gli disse che quel qualcuno se aveva coraggio doveva farsi avanti e presto, perché lei non voleva più attendere. Lui allora le dichiarò il suo amore e lei così decise che non sarebbe più andata a Roma. Si sposarono il 30/05/1942 nella chiesa di S. Nicola e nonostante i pochi mesi vissuti insieme, erano ognuno il tutto dell’altro. Pochi giorni dopo ripartì in guerra: in un anno e 8 mesi di matrimonio stettero insieme circa 3 mesi tra licenze e convalescenza. In quel periodo Pennadomo era assediata dai tedeschi. Il 25 gennaio del 1944 si formarono dei gruppi di Partigiani volontari della Maiella, tra cui mio nonno Lorenzo. Il 28 gennaio partirono di prima mattina per Montelapiano e il 3 febbraio a Pizzoferrato, dopo che mio nonno rimase ferito insieme ad altri patrioti, furono tutti rinchiusi dai tedeschi nella chiesa della Madonna del Girone e lì furono uccisi. Ci sono andata diverse volte con mio padre e i suoi zii, mia nonna non è mai voluta andare. Furono sotterrati senza cassa, mio nonno avvolto da una coperta militare, nel giardino al fianco della chiesa. Nel memoriale di mia nonna risulta che i tre patrioti di Pennadomo tornarono al paese il 13 febbraio e che i funerali si tennero il giorno 15 nella chiesa di S. Antonio. Lo ricordo bene perché quando mi sono sposata a Pennadomo il 24 luglio del 1994 volevo sposarmi nella chiesa di S. Antonio ma mia nonna me lo ha impedito proprio perché lì si tennero i funerali dei 3 giovani. Arrivò la comunicazione dell’aggiudicazione della “Medaglia d’Oro al valor militare”, ma al momento della cerimonia di consegna, diedero a mia nonna la “Medaglia di Bronzo” come segue:“N° d’ordine 46941 – Ministero della Difesa, il presidente della Repubblica Italiana (Giovanni Gronchi) con Decreto del 16/10/1954 visto il Regio Decreto ha conferito la “Medaglia di bronzo al valore militare” - al Patriota del “ Gruppo Patrioti Maiella” D’Angelo Lorenzo di Nicola nato a Pennadomo (Ch) classe 1924 “Alla memoria: Volontario di agguerrita formazione di Patrioti in cruento assalto contro forte posizione nemica, cadeva da prode dopo estrema ed aspra lotta. Pizzoferrato 3/2/1944”. Nulla può ridare alla famiglia quanto tolto dalla guerra, ma mia nonna ci ha fatto sentire mio nonno presente nella nostra vita, nella nostra educazione di nipoti di un Partigiano che tutto ha sacrificato per amore della sua Patria. Siamo stati cresciuti da mio padre Mario orgogliosi di aver avuto in famiglia un nonno con alti valori e ideali, siamo stati cresciuti con l’esempio di mio padre e di mia nonna testimoni nelle loro azioni di alto senso del dovere e senso della giustizia. Questa è l’ onorificenza di cui io vado maggiormente fiera: mio nonno e i suoi ideali comunque sono rimasti vivi in noi ed io sto cercando di trasmetterli ai miei figli”. Cinzia D’Angelo pagina 6 - pennadomo notizie La guerra a Pennadomo Tedeschi in azione: razzie, rastrellamenti e primi morti Dopo l’8 settembre del 1943, in seguito alla resa dell’Italia al cospetto del generale Eisenhower comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, l’Abruzzo, regione cerniera tra il Nord e il sud d’Italia, viene a trovarsi tagliata fuori da ogni forma di vita organizzata e quindi nell’isolamento totale perché né il governo Badoglio né quello di Graziani possono in qualche modo influenzare la regione. La linea del fronte (la Gustav), demarcata per parecchi mesi, lungo i fiumi Sangro e Aventino, taglia la provincia di Chieti a metà. I tedeschi ne fanno terra bruciata. Interi paesi vengono distrutti, i cittadini depredati di ogni avere, donne e bambini sono deportati in campi di concentramento. Nei mesi successivi nascono le prime forze di contrasto ai nemici e si organizzano proprio nelle zone del Sangro-Aventino, alle falde della Maiella, nei comuni di Civitella Messer Raimondo, Lama dei Peligni, Colledimadimacine, Pennadomo, Torricella Peligna, Fallascoso, Montenerodomo, Gessopalena, Casoli ed altri. L’avversione subcosciente esplose in rivolta nell’autunno 1943 di fronte agli spietati tedeschi che rubavano il grano, il bestiame, le masserizie. Si videro allora le contadine e i ragazzi trattenere per le braccia i militari tedeschi, opporsi con i pugni, con le lacrime, con le implorazioni alla perdita di ogni avere. Questa premessa era necessaria per capire bene le ragioni per cui molti dei giovani di Pennadomo aderirono come volontari alla “chiamata alle armi” dell’avvocato Ettore Troilo e numerosi si aggregarono al nascente “Gruppo Patrioti della Maiella”. L’eroismo e il sacrificio dei nostri giovani in quei giorni di guerra, in particolar modo di Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Masseria Aspromonte sotto Montenerodomo Di Renzo, sono testimoniati dalle cronache storiche delle azioni belliche redatte dai responsabili della formazione patriottica. I giovani e meno giovani pennadomesi, che numerosi aderirono alla Brigata Maiella (in tutto furono 39 come pubblicato a pagina 6), erano gente umile nella condizione sociale, ma grande e generosa nell’animo. Erano destinati ad affrontare rischi e sacrifici durissimi, e alcuni di loro non rivedranno mai più il paese in difesa del quale impugnarono le armi, e che poi fu liberato e redento grazie anche al loro sangue versato o alle ferite riportate sui loro corpi dopo aspri combattimenti non solo in Abruzzo, ma in tutte le altre battaglie che la “Maiella” prese parte da Montecarotto ad Asiago, facendosi onore, tanto da ricevere anche l’encomio dei generali dei corpi d’armata degli alleati inglesi e polacchi. I nostri paesani volontari della libertà erano tenuti stretti non da un legame di parentela o politico o militare o sociale, ma da una perfetta fusione di pensieri e di sentimenti, da un comune senso di solidarietà nella tragedia al pari di tutti gli altri patrioti della Maiella. Le prime vittime della guerra Dunque nell’autunno inoltrato del 1943, Pennadomo, come tutti i paesi del SangroAventino, che si trovavano sulla linea Gustav-Bernhardt è in guerra e con i tedeschi in casa. “Il comando tedesco risiedeva a Pennadomo nella casa di Angelica in via Mazzini, ed era composto da una decina di militari – ricorda Antonio Di Renzo – da dove partivano per controllare la zona e compiere razzie di animali, somari, maiali e generi di prima necessità per il loro sostentamento; le razzie le compivano anche nelle masserie delle campagne come alle Piane. I tedeschi per impedire l’accesso a Pennadomo e avere anche un zona di sicurezza, minarono tutta la strada della Crocetta e la zona Streppari. Ricordo ancora perfettamente la successiva bonifica della zona con il brillamento delle mine da parte degli alleati”. Anche a Pennadomo le tenebre della notte erano squarciate dallo scoppio delle mine e dal divampare degli incendi. Il comando tedesco aveva requisito alcune case, fra cui anche quella della famiglia di Luigi Di Francesco a Santa Maria dove vi installarono anche una linea telefonica collegata con Buonanotte (testimonianza del figlio Francesco). Il primo civile ucciso fu il mugnaio Nicola Monaco, originario di Colledimezzo e di anni 50. La sua cattura ed uccisione avvenne il 7 novembre del 1943 e ucciso intorno alle ore 20. Il mugnaio morì per difendere la sua roba nel mulino, e per questo ferì un tedesco che voleva requisirgli il cibo ed altri vivere. La rappresaglia non tardò ad arrivare e nonostante la fuga verso la Crocetta, il mugnaio fu catturato e pestato a sangue, e di lui, ricorda Nicola Di Loreto, non si seppe più niente fino a quando dopo un po’ di tempo fu ritrovato semisepolto in una campagna del Castelluccio dal proprietario di quel fondo che si accorse di un braccio che emergeva dal terreno. La salma del mugnaio fu ricomposta e riportata nel suo paese di origine, a Colledimezzo. Un’altra persona morì a Pennadomo il 22 novembre sempre del ‘43 per lo scoppio di una mina. Si tratta di Carolina Di Francesco, contadina di 55 anni sposata con Antonio Pantalone, la quale era sfollata in una masseria delle Piane. “Un giorno, all’imbrunire, per non farsi vedere dalle vedette tedesche situate a Santa Maria – racconta Laurina Di Gravio - decise di ritornare al paese per prendere a casa sua alcune robe e quindi fare ritorno la mattina dopo alle Piane dove l’attendevano il marito ed altri familiari. Arrivata nei pressi della Crocetta, che allora era tutta minata, la signora Carolina forse per il buio incipiente, non si accorse di alcuni fili collegati ad un mina, inciampò e questo provocò lo scoppio dell’ordigno che la uccise sul colpo e il corpo ricadde su un masso insanguinandolo”. Lo sfollamento nelle masserie Abbandonata Pennadomo, per timore delle razzie e dei rastrellamenti dei tedeschi, la maggior parte della gente si era rifugiata nelle campagne soprattutto a Piano del Forno, nelle masserie di Aspromonte, di Taddeo, di Annarosa e del Baliotto. I primi tedeschi ad arrivare a Penandomo furono due provenienti da Villa Santa Maria su un moto- La casa di Taddeo carro il 4 ottobre del 1943 e subito razziarono dei beni ad alcune famiglie secondo la testimonianza di Francesco Di Francesco. Alcune famiglie si nascosero nelle fattorie quasi sotto Montenerodomo di cui una era di proprietà del grande filosofo e storico Benedetto Croce. Tutte le abitazioni, compresi pagliai e stalle, erano gremiti di gente e per coloro che non c’era posto, furono utilizzati anche i fienili, altri dormivano allo scoperto al freddo e sotto la pioggia riparati alla meno peggio. Le sofferenze, la paura e il terrore erano visibili nei volti di tutti e in particolar modo degli uomini con l’incubo dei rastrellamenti che li avrebbero portati prigionieri sul fronte per essere impiegati alla costruzione di trincee o a seminare/sminare mine, oppure, ancora peggio, quello di un trasferimento nei famigerati campi di concentramento in territorio tedesco Altri sfollati si rifugiarono invece nelle masserie di Rosario, delle Selve e delle Piane. Ma spesso i tedeschi arrivavano anche in queste case isolate di campagna per farsi consegnare con la forza cibo e animali da macello. Durante lo sfollamento ogni famiglia si preoccupava di salvare la propria “roba”, soprattutto vetEd ecco tovaglie e animali. quanto Carolina Ruggiero, la moglie del martire di Pizzoferrato Lorenzo D’Angelo, scriveva nel suo diario di memorie: “Tutti gli uomini dovettero andare a dormire nei boschi. Il primo novembre 1943 dovemmo sfollare dalle nostre case e ci rifugiammo per un mese sotto qualche pagliaio in alcune cascine della famiglia di Rosario, sotto la pioggia, il freddo e la fame. Il paese era pieno di tedeschi e volevano far saltare le case anche qui, ma non successe nulla e così fu salvo. Il primo dicembre tornammo a casa nostra, spogliata di tutto. Arrivò il primo dell’anno (1944) con i tedeschi ancora in paese, e noi tutti eravamo stanchi e stufi dei saccheggi. Il 25 gennaio si formarono i primi volontari partigiani e tra questi c’era anche mio marito. Io, quando me lo disse, era tardi, perché senza dirmi niente aveva firmato. Il 28 gennaio partirono per raggiungere il comando di Montelapiano...”. A proposito di razzie di beni e di cibo, queste non furono compiute solo dai tedeschi, ma anche dai soldati alleati. La guerra nelle “memorie storiche” Alcuni elementi delle famigerate pattuglie degli “Alpenjager” fecero razzie e rastrellarono molti civili anche nelle campagne e nell’abitato di Pennadomo intorno alla metà di gennaio 1944. A questo proposito ecco quanto scrive Nicola Troilo nel suo libro “Storia della Brigata Maiella”: “ Nei giorni che seguirono, fu sostenuto (da parte dei patrioti, ndr) qualche scontro a fuoco con pattuglie tedesche che si recavano a compiere razzie e saccheggi nelle campagne e nell’abitato di Pennadomo e furono rastrellati e guidati al sicuro molti civili della zona. Le pattuglie si spinsero fino alle immediate vicinanze di Montenerodomo e di Torricella Peligna incontrandosi spesso con altri plotoni di patrioti provenienti da Gessopalena e provvedendo ad arrestare i pochi civili che avevano collaborato con i tedeschi”. L’incubo e la paura sono stati la sofferenza maggiore per i rastrellamenti che avrebbero portato gli uomini sulle linee nemiche, ed ecco le ragioni per cui cercavano in tutti i modi di sfuggire agli odiosi rastrellamenti. Nel “Diario storico della Brigata Maiella” compilato dal comandante Ettore Troilo e da Vittorio Travaglini ci sono numerosi episodi che si riferiscono a Pennadomo. Il “Diario” scrive che il “25 gennaio1944 una pattuglia di 4 patrioti del secondo plotone, si porta in ricognizione in contrada Tre Confini di Torricella, dove dai civili apprende che sotto l’abitato di Montenerodomo trovavasi, da vario tempo, un gruppo di 15/20 tedeschi, che giornalmente percorrevano la campagna, arrivando sino a Pennadomo per compiervi saccheggi e razzie”. pagina 7 - pennadomo notizie L’occupazione tedesca del 1943 nel Sangro-Aventino durante la guerra di Liberazione La battaglia di Pizzoferrato: i motivi storici Una posizione strategica da difendere per coprire la ritirata delle truppe tedesche impegnate nel fronte di Cassino”. L’incomprensione tra inglesi e italiani Per meglio capire le ragioni storiche che hanno indotto gli alleati inglesi e i patrioti della Brigata Maiella a sferrare l’attacco contro la roccaforte tedesca di Pizzoferrato, è opportuno ripercorrere brevemente i mesi e i giorni che precedettero la battaglia del 3 e 4 febbraio del 1944. In quelle tragiche giornate, parliamo dei primi giorni di gennaio 1944, con l’Italia in guerra contro i tedeschi e il regime nazifascista, la Brigata Maiella e gli inglesi avevano liberato, fra gli altri, Torricella Peligna, Quadri, Lama dei Peligni, Gessopalena, Fara San Martino e Civitaluparella. I tedeschi della Wermacht fuggendo avevano lasciato dietro di sé terra bruciata, ponti distrutti, case diroccate all’80 per cento come a Torricella Peligna o del tutto come a Quadri e Civitaluparella, e provocando, oltre all’abbandono dei paesi da parte dei civili in fuga, una “folla cenciosa, miserabile, avvilita da ogni genere di umane sofferenze e privazioni, schiacciata dal terrore”. Non è possibile qui per brevità, dare un quadro completo delle violenze, della brutalità e ferocia, né fornire il numero preciso di morti di civili uccisi e seviziati in buona parte anziani, poveri contadini, donne e bambini, dai tedeschi della formazione “Alpenjager” appartenenti al 4° Battaglione composto da alpini bavaresi e austriaci. La stragrande maggioranza di questi eccidi compiuti da famigerati “Alpenjager”, ebbe luogo durante il mese di dicembre del 1943 o ai primi di gennaio del ‘44, prima cioè che nella zona del Sangro Aventino operassero sistematicamente reparti partigiani e quindi senza nemmeno il fragile pretesto della rappresaglia, come l’eccidio di Sant’Agata a Gessopalena del 21 gennaio 1944, dove i tedeschi ammassarono in un casa colonica 42 civili, fra cui donne e bambini, e massacrandoli a colpi di bombe a mano; fu l’episodio più barbaro che si verificò nella zona. Alcuni elementi delle famigerate pattuglie degli “Alpenjager” fecero razzie e rastrellarono molti civili anche nelle campagne e nell’abitato di Pennadomo intorno alla metà di gennaio 1944. Nei giorni seguenti, il 23 e il 24 gennaio, un gruppo formato da soldati inglesi e patrioti della Maiella al comando del Maggiore Lionel Wigram, liberarono Quadri, in quanto il contingente tedesco che lo presidiava, era di ostacolo alla marcia di avvicinamento a Pizzoferrato. Nella notte del 24 gennaio circondarono la casa dove era il presidio nemico. Intimata dal Wigram la resa, la porta fu spalancata e alcuni tedeschi riuscirono a fuggire nel buio della notte ed altri furono fatti prigionieri; il combattimento ebbe breve durata e il maggiore inglese si salvò per miracolo. Ed ecco la stessa azione militare di Quadri come la racconta il patriota di Pennadomo, Nicola De Ritis allora capo plotone: “Poi fu decisa l’azione di Quadri, sempre seguendo la logica di mandare i tedeschi verso le montagne. Quella sera andò bene. Partimmo una ventina di uomini. Il pallino del maggiore Wigram, che era un signore, era quello di non uccidere, di fare solo prigionieri. Così circondammo la casa e lui gridò: “Arrendetevi, siamo inglesi, non avete nulla da temere, sarete trattati secondo la Convenzione di Ginevra, ormai la guerra l’avete persa, arrendetevi”. Quelli aprirono la porta ed un paio uscirono con le mani alzate, ma contemporaneamente da una finestra uno di loro sparò. Per fortuna uno di noi fu più svelto, se no Wigram sarebbe morto già quella notte”. Perché Pizzoferrato? E perché i tedeschi vi avevano costituito un presidio quasi inaccessibile? “L’obiettivo di quell’azione militare era rilevante – ricorda il comandante Domenico Troilo nelle sue memorie storiche - perché si proponeva la liberazione dai nazisti di tutti i paesi situati nel comprensorio Aventino-Sangro e, se anche non raggiunse lo scopo prefissato, servì a cimentare la collaborazione tra le truppe alleate e i combattenti volontari del nuovo esercito dell’Italia democratica e repubblicana. Da un punto di vista strategico-militare il presidio di Pizzoferrato rappresentava, oltre ad un osservatorio ideale, una posizione da difendere per coprire la ritirata delle truppe tedesche impegnate nel fronte di Cassino”. Facciamo dunque, per chiarezza un piccolo e breve passo indietro per meglio comprendere l’attacco al paese che conduceva alla stazione di Palena prima, Roccaraso, Sulmona e Avezzano dopo, vale a dire l’accesso per la strada maestra, la Tiburtina, e quindi arrivare a Roma per liberarla da parte delle forze alleate, o contrastarne l’avanzata da parte dei tedeschi. Scrivono i libri di storia che nella notte tra il 30 novembre e il primo dicembre 1943 le truppe alleate canadesi e neozelandesi, con un’azione di forza nell’ambito dell’offensiva generale contro i tedeschi, attestati sulla “linea Gustav”, che andava dalla foce del Garigliano al fiume Sangro, dall’Adriatico al Tirreno, nel punto più stretto e montagnoso della penisola, promossa dal generale britannico Montgomery, varcarono il Sangro sotto Casoli e le truppe indiane si affacciarono sulle rive del fiume tra Bomba e Villa Santa Maria nella terra di nessuno. I tedeschi fecero saltare immediatamente i ponti e abbandonarono a precipizio i paesi della zona ritirandosi verso la Stazione di Palena. La Wermacht resiste su più fronti all’avanzata degli Alle- La linea Gustav che divideva in due l’Italia nel 1943-44 Pizzoferrato in una foto del 1943 ati la cui offensiva si esaurì per via della “tenace resistenza tedesca nella zona di Ortona”, dove si combatté “una cruenta battaglia, tanto da essere chiamata la piccola Stalingrado, con 3.000 morti fra canadesi, tedeschi e civili”. Nel frattempo le truppe canadesi e neo-zelandesi puntavano verso Guardiagrele abbandonando il settore montano, e questo fatto ridonò vigore alle forze tedesche che, dopo un primo smarrimento, carichi di armi, riparati velocemente i ponti, arrivarono a piedi a Gessopalena, a Torricella, a Lama dei Peligni e negli altri paesi non ancora distrutti comportando un altro sfollamento della popolazione per rifugiarsi nelle masserie di campagne e in altri posti sicuri. Le razzie e i barbari eccidi di civili a cui si erano abbandonati i tedeschi avevano resi inquieti i patrioti aumentando il desiderio di liberare al più presto la zona per sottrarre la popolazione che era rimasta in balia delle rappresaglie nemiche. “Dopo lunghi e attenti esami si pensò di far precipitare la situazione con un sol colpo costringendo i tedeschi ad abbandonare il nostro settore montano” ricorda Nicola Troilo. “L’unica strada che collegava i reparti nemici della zona al resto del loro schieramento, era la strada frentana che da Palena conduce agli altipiani e a Roccaraso. Il progetto avrebbe potuto facilitare anche l’azione del Corpo d’armata inglese e polacco che da alcuni mesi tentavano senza successo di superare le fortificazioni nemiche di Roccaraso e degli altipiani. Si scelse quindi come base di partenza per questa azione di accerchiamento il paese di Pizzoferrato e da qui si sarebbe continuata l’avanzata lungo la rotabile che lo collega alla stazione di Palena”. Ed eccoci dunque alla battaglia di Pizzoferrato che fu combattuta in due giorni tra circa 80 componenti della Maiella, di cui 12 erano di Penandomo, insieme ad un plotone di 25 inglesi comandate da Lionel Wigram, contro la locale postazione di tedeschi formata da circa 40 militari, ma in stretto collegamento anche con i tedeschi posizionati nella vicina Gamberale. L’azione di guerra, che fu condotta “senza una saggia e giusta strategia” dovuta anche all’incomprensione tra inglesi e italiani per via della lingua, ma anche per una incomprensibile sottovalutazione del potenziale umano e bellico dei tedeschi che, forse avvertiti da qualche spia dell’arrivo degli alleati, tesero un agguato ai nostri rifugiandosi tutti in cima allo sperone di roccia della Madonna del Girone e asserragliandosi in gran parte a casa Casati, un’abitazione che si rivelò strategicamente favorevole ai tedeschi. L’incomprensione tra inglesi e italiani nasceva dal fatto che i britannici avevano all’inizio una scarsa fiducia nei partigiani che li sospettavano essere spie e “doppi giochisti” legati ancora al regime fascista. Solo con il coraggioso intervento di Lionel Wigram gli inglesi cambiarono opinione e da allora il Maggiore divenne l’amico più fidato della Brigata Maiella. Wigram aveva bisogno dell’aiuto di questi patrioti per accompagnare le truppe alleate sugli impervi sentieri delle montagne abruzzesi. E dette così vita alla “Wigforce”, una pattuglia militare che per la prima volta vide insieme inglesi e patrioti combattere fianco a fianco. Alla mancanza di una saggia e giusta strategia di guerra non bisogna sottovalutare anche l’impreparazione bellica dei patrioti alcuni dei quali, forse per la prima volta avevano in braccio un fucile, oltretutto non dell’ultima generazione come erano invece equipaggiati gli inglesi: i nostri erano malamente armati e sprovvisti quasi completamente di un equipaggiamento adeguato. Altri elementi critici di questa battaglia furono l’imprevista resa il 3 febbraio mentre infuriava la battaglia degli inglesi asserragliati dentro la chiesa della Madonna del Girone, dove pensavano di salvarsi insieme ad un gruppo di italiani, e che invece caddero in una micidiale e fatale trappola. Dunque la “Wigforce” arriva a Pizzoferrato alle 4 del mattino del 3 febbraio e con quella oscurità, resa ancora più silenziosa dall’abbondante nevicata, il maggiore Lionel Wigram pensava di cogliere di sorpresa nel sonno i tedeschi per farli tutti prigionieri e impadronirsi delle loro armi, fra cui due cannoni. Ma vittima della sorpresa ci rimase invece il maggiore Wigram che non trovò il nemico dove pensava che fosse nascosto. Fu l’inizio della tragedia che si sarebbe consumata in quel triste giorno come raccontato nella cronistoria della battaglia nella pagina seguente. A cura di Lucia Di Spirito pagina 8 - pennadomo notizie Pizzoferrato: cronistoria dell’attacco della “Maiella” alla roccaforte tedesca dal 2 al 4 febbraio 1944. Il primo a morire sotto il fuoco nemico fu il maggiore inglese Lionel Wigram La battaglia: ora per ora Alle ore 11 muoiono da eroi Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo. Il 4 febbraio il plotone di Nicola De Ritis dà sepoltura ai patrioti morti nel cimitero di Pizzoferrato Mercoledì 2 febbraio ore 19: partenza da Fallo Ettore Troilo e Luigi Mancini con i loro uomini e il Maggiore Lionel Wigram con 29 inglesi lasciarono alle ore 17 Montelapiano e si concentrarono a Fallo per iniziare l’azione contro Pizzoferrato. Negli ultimi colloqui Wigram stabilì di lasciare Fallo alle ore 19 per trovarsi a Pizzoferrato prima dell’alba del 3 febbraio iniziando senz’altro l’attacco. I paracadutisti italiani del Capitano Gay, di cui si attendeva di ora in ora l’arrivo a Fallo, sarebbero partiti più tardi per raggiungere anche’essi Pizzoferrato e dare man forte agli inglesi e ai patrioti. Primi dissidi tra italiani e inglesi Racconta Nicola Troilo nella sua “Storia della Brigata Maiella” che a questa proposta del Maggiore Wigram, Troilo, Mancini, Osvaldo Glieca e gli altri comandanti di reparto della Maiella obiettarono che sarebbe stato consigliabile attendere a Fallo l’arrivo del Capitano Gay per prendere precisi accordi con lui e proseguire insieme per Pizzoferrato. A giudizio degli ufficiali della Maiella sarebbe stato forse imprudente effettuare l’attacco alla munita posizione tedesca di Pizzoferrato senza l’aiuto dei paracadutisti, i quali erano, sì, in marcia ma non si poteva prevedere quando sarebbero giunti e se fossero stati in condizione di proseguire immediatamente per Pizzoferrato dato che per giungere a Fallo dovevano compiere un lungo e faticoso cammino nella neve. Ma il Maggiore Wigram non volle sentire ragioni, riaffermò l’assoluta necessità che l’attacco a Pizzoferrato venisse sferrato all’alba del 3 febbraio e non più tardi e diede ordine agli inglesi e ai patrioti di tenersi pronti a partire per le ore 19, lasciando a Troilo l’incarico di attendere i paracadutisti di Gay e di farli proseguire immediatamente per Pizzoferrato. Il che non fu poi possibile perché i paracadutisti, giunti due ore dopo la partenza di Wigram (alle ore 21, ndr) e chiesero di riposare parte della notte fino alle ore 2,30, quando poi partirono da Fallo. Obbedendo dunque all’impostazione tattica di Wigram tre plotoni di patrioti (il II, il X e l’XI) al comando del Capitano Mancini, di Massimo Di Iorio e di Nicola De Rosa, un plotone misto di inglesi (29 soldati) e patrioti (80 uomini circa) comandati dal Tenente Exell e da Glieca, lasciarono Fallo alle ore 19 sotto la guida del Maggiore. Ritis, che partecipò all’azione militare, a proposito di questo tragico episodio sottolinea: “Il pallino del maggiore Wigram, che era un signore, era quello di non uccidere, di fare solo prigionieri.”. Casa Casati vista dal basso con a sinistra la chiesa del Girone Giovedi 3 febbraio ore 4,00: arrivo a Pizzoferrato Pizzoferrrato si erge su uno sperone roccioso a 1250 metri sul mare dominando la valle del Sangro. Il paese si estende per maggior parte ai piedi di un’alta roccia: una sola strada, don due file di case, sale su un fianco della roccia fino alla sommità. Su questa cima, circondata per due lati da un precipizio inaccessibile, sorgono una piazzetta larga poco più di dieci metri e una piccola chiesa. La piazzetta confina da una parte, sulla sinistra della strada di accesso, con il giardino di Casa Casati. La casa sorge poco oltre: il fronte è posto verso il giardino, gli altri lati si ergono sullo strapiombo. Il paese era occupato dai tedeschi e la popolazione civile, costretta a evacuare fin dal dicembre , era nascosta nei boschi e nelle campagne. Una fitta coltre di neve ricopriva il paese deserto. Solo i tedeschi percorrevano, nella desolazione agghiacciante dell’inverno, le anguste strade del paese. La marcia di avvicinamento della “Wigforce” (il battaglione misto formato per la prima volta da inglesi e patrioti abruzzesi fortemente voluto dal maggiore Wigram e dal comandante Ettore Troilo, ndr.) durò tutta la notte, resa faticosissima dalla grande quantità di neve caduta che aveva completamente cancellato i sentieri e dalla fittissima oscurità. Gli inglesi erano ottimamente equipaggiati e armati; i patrioti calzavano quasi tutti le “cioce”, pochissimi avevano il pastrano o indumenti di lana. L’armamento consisteva in normali fucili inglesi, ogni dieci uomini avevano un fucile mitragliatore e ogni plotone una sola mitragliera pesante. Scarse le bombe a mano. Verso le 4 del mattino gli uomini raggiunsero le immediate vicinanze del paese e si spinsero fino all’albergo Melocchi dove non vennero rinvenuti tedeschi. A ciascun plotone (composto di 25 patrioti) venne assegnato il compito di raggiungere la località Clarentia dove si presumeva che vi fosse un batteria di cannoni, di snidare i tedeschi da Casa Melocchi e dalla casa dell’Arciprete; il Maggiore Wigram con il plotone misto di inglesi e patrioti avrebbe attaccato casa Casati. Un distaccamento restò a presidiare l’Albergo Melocchi. Ore 4,30: obiettivi raggiunti, ma non si vedono i tedeschi Verso le 4,30 il Maggiore Wigram ricevette la comunicazione che tutti gli obiettivi erano stati raggiunti ma né i cannoni erano stai trovati né si erano visti tedeschi alla casa Melocchi e in quella dell’Arciprete. Si suppose che tutta la guarnigione tedesca fosse asserragliata a casa Casati, nella posizione migliore per la difesa. Il Maggiore Wigram diede ordine ai plotoni di restare a presidiare gli obiettivi raggiunti e si diresse con 20 inglesi e 15 patrioti comandati da Glieca verso casa Casati. Ore 4,45: il Maggiore ordina l’assalto. Una bomba a mano venne lanciata contro la porta della principale della villa, che saltò in aria, e le forze entrarono di corsa in giardino dalla parte della piazzetta della chiesa; mentre i soldati circondavano la casa, il Maggiore Wigram con il Glieca si diresse verso la porta che era saltata in aria. Il maggiore, come era nel suo stile e come aveva già fatto anche nell’azione di Quadri, intima ai tedeschi la resa gridando: “I prigionieri non hanno nulla da temere, perché verranno trattati secondo la Convenzione di Ginevra”. Dall’interno i tedeschi sembrano voler obbedire, accettando la proposta; se non ché da una finestra partì all’improvviso una scarica di mitraglia dalla quale rimasero colpiti alcuni uomini e lo stesso Maggiore Wigram, che cadde all’indietro, davanti al cancello della villa. Il patriota pennadomese e capo plotone Nicola De Ore 4,50: la morte di Wigram Wigram, benché mortalmente ferito, ebbe il tempo di raccomandare a Glieca di ritirare gli uomini sulla piazzetta della Chiesa. Spirò quasi subito e con lui scomparve un grande amico della “Maiella”, aveva compiuto 37 anni il giorno precedente, il 2 febbraio. Osvaldo Glieca ritirò gli uomini che avevano circondato casa Casati, disponendoli sulla piazzetta della chiesa e attorno al muro di cinta del giardino. Sulle posizioni così disposte i patrioti e gli inglesi impedirono ai tedeschi, che avevano reagito intanto con accanimento, di uscire di casa. Ore 6,00: la battaglia divampa per tutto il paese Frattanto, al rumore della battaglia, molti patrioti dei plotoni rimasti a presidiare la casa Melocchi e la casa dell’Arciprete raggiunsero Glieca sulla piazzetta della chiesa per prestargli man forte. Ma ormai era quasi giorno e non fu possibile a tutti di raggiungere la piazzetta poiché l’unica strada d’accesso era violentemente battuta dal tiro delle mitragliatrici tedesche. Inoltre altri uomini dei suddetti plotoni si recarono ad aiutare il distaccamento rimasto a presidiare l’albergo Melocchi che era stato nel frattempo attaccato da rinforzi tedeschi arrivati da Gamberale. La battaglia divampò in tutto il paese. Ed ecco il racconto di questi drammatici momenti nel racconto del caporale inglese Wolfe Wayne che partecipò all’attacco: “Le cose si stavano mettendo male. Occorreva dare il segnale dell’allarme con il suono delle campane. I vari distaccamenti si ritirano verso la chiesetta del Girone, mantenendo sempre il nemico sotto fuoco. Vengono appostati fucili mitragliatori, mentre un certo numero di uomini, britannici e italiani, si dispone dietro il muretto sulla parte alta del giardino, con le spalle alla chiesa, e un altro gruppo ancora viene piazzato sul masso roccioso al lato della stessa. Da queste posizioni si continua a combattere, mentre si tenta di soccorrere anche i feriti. Intanto viene suonata la campana: il suono, forte e chiaro, rimbomba sulle colline. Il segnale rende però più intenso il fuoco dei tedeschi, cui ovviamente gli inglesi e i partigiani devono rispondere. Per fortuna arrivano dei rinforzi con alcuni uomini racimolati dalle altre postazioni (ma diversi sono già fuggiti)” . (Dal libro storico “Pizzoferrato paese in guerrra”, Carsa Edizioni). Ore 7,30: il tenente Exell assume il comando e nuovi contrasti con Glieca. Il Tenente Glieca ritira gli uomini che erano intorno alla Casa Casati, disponendoli nella piazzetta della Chiesa ed attorno al muro di cinta della casa. Sulle posizioni così disposte i sodati ed i patrioti impediscono ai tedeschi di uscire dalla Casa Casati finché verso le 7,30 giunse sul luogo il Tenente inglese Exell, che assunto il comando fa dire a mezzo dell’interprete (il caporale Sassie) a Glieca che la volontà del Maggiore Wigram era di annientare, a qualunque costo, tutti i tedeschi asserragliati in Casa Casati. Il Glieca gli fece rispondere che, per il fatto che era ormai giorno e che tutti gli uomini si trovavano allo scoperto, un secondo attacco contro Casa Casati sarebbe stato molto pericoloso, aggiungendo che se si voleva rinnovare l’attacco, sarebbe stato necessario attendere l’arrivo dei paracadutisti capitanati dal pugliese Gay, che non avrebbero potuto tardare di molto. Ma il Tenente Exell ritenne di disporre subito l’attacco e dopo di aver ordinato agli uomini di avvicinarsi alla Casa Casati entrando dal giardino dalla parte del 3° cancello, fa collocare una mina sull’altra porta della villa provocando lo scoppio a colpi di fucile, dopo di che dà l’ordine di resa ai tedeschi. Ore 8,30: Exell gravemente ferito, sbandamento dei patrioti Immediatamente escono dalla casa a mani alzate quattro tedeschi, ma nello stesso tempo una violenta raffica di proiettili investì in pieno il gruppo dei soldati e dei patrioti, nonché il Tenente Exell, che cadde, gravemente ferito all’addome e ad una scapola. I soldati inglesi ed i patrioti sono costretti a ritirarsi lungo la parte esterna del muro di cinta, e a raggiungere nuovamente la piazzetta davanti alla Chiesa. La battaglia dura così alcune ore, nella speranza che arrivino i paracaduti di rinforzo, che però non si vedono. I tedeschi, ad un certo punto, “muovendosi ad arco”, da assediati diventano assedianti. Quel che resta della “Wigforce” è accerchiato e alcuni uomini cadono sotto i colpi mortali del nemico. Ore 10,00: patrioti e inglesi si rifugiano nella Chiesa Dopo questa riposizione strategica dei tedeschi, un certo sbandamento e smarrimento si verificò fra le file dei patrioti, poiché gli inglesi, profondamente sfiduciati e stanchi per la lunga marcia notturna, manifestarono il proposito di arrendersi. Alcuni cedettero le armi ai patrioti e si rifugiarono all’interno pagina 9 - pennadomo notizie Ore 17,30, tramonto: 10 morti, 3 dispersi, 7 feriti, 13 prigionieri In questa azione di guerra di Pizzoferrato del 3 febbraio 1944 è stato alto il tributo di sangue dato dai patrioti della Brigata Maiella. Al termine della giornata, nell’ora del tramonto, nella piccola chiesa, agli angoli delle case silenziose e vuote, sulle rocce coperte di neve, giacevano i corpi dei patrioti caduti in combattimento. Alcuni di essi erano soltanto feriti e i tedeschi li avevano finiti a colpi di rivoltella nelle orecchie. Un silenzio agghiacciante dominava il campo della battaglia. La neve calpestata era tutta seminata di bossoli, di armi, chiazzata qua e là di sangue. Non fu possibile calcolare le perdite nemiche che alcuni voci, sicuramente esagerando, indicano in 23 caduti. I miseri resti furono seppelliti in una fossa comune nel cimitero di Pizzoferrato. Pizzoferrato 3 febbraio 1944: soldati inglesi in pausa rancio (archivio storico dell’VIII Armata) della Chiesa, altri restarono ai loro posti reagendo al fuoco tedesco con scarso vigore. Presto però lo sbandamento fu superato per l’alto spirito dei patrioti, che avevano subito provveduto a rimpiazzare i vuoti degli addetti ai fucili mitragliatori e si disposero sulle rocce circostanti la Chiesa. Per molte ore, sdraiati sulle neve nella giornata freddissima, poterono resistere senza abbandonare la posizione, nella certezza che verso le 11 sarebbero intanto sopraggiunti i paracadutisti del Capitano Gay. Ma tali rinforzi, purtroppo non giunsero e la piazza stessa divenuta ben presto bersaglio di bombe a mano lanciate dai tedeschi, dovette essere abbandonata perché i superstiti furono costretti a rifugiarsi nell’interno della Chiesa, dalle cui finestre e dalla cui porta seguitarono a tener fronte al nemico. Ed ecco come il caporale inglese Wayne racconta questa azione: “I tedeschi controllano il cocuzzolo della Chiesa da ogni parte. Quello che resta della ‘Wingforce’ è accerchiato. La rocca, che era stata una posizione eccellente poco prima, diventa ora una trappola mortale. Si decide allora di asserragliare gli uomini dentro la chiesa, di cui viene sbarrata la porta ”. Ore 10,30: gli inglesi si arrendono e depongono le armi Verso le 10,30 si ebbe l’impressione che la situazione precipitava e che ogni resistenza dall’interno della Chiesa sarebbe stata impossibile. Tale critica situazione divenne insostenibile quando i patrioti seppero dalla viva voce dell’interprete Sassie che i 22 inglesi che si trovavano all’interno della Chiesa avevano deciso di arrendersi e quando videro gli stessi deporre le armi e disporsi in cerchio attorno ad un fuoco acceso in mezzo alla Chiesa per bollire il tè, pronti ad ubbidire alla prima intimazione di resa da parte del nemico. La morte del maggiore ed il feri- mento del tenente Exell avevano prodotto negli animi degli inglesi una insanabile sfiducia; essi sapevano d’altra parte, che arrendersi significava soltanto rimanere prigionieri del nemico. Non altrettanto poteva accadere ai patrioti, ai quali sarebbe stata riservata ben altra sorte. Ore 10.45 i tedeschi assaltano la chiesa Ed allora di fronte ad una situazione ormai disperata, il Tenente Glieca decise di ordinare ai patrioti e agli inglesi di mettersi in salvo abbandonando la Chiesa, ordine a cui si attennero tutti i patrioti – tranne i feriti – e tre soldati inglesi, che sotto le raffiche dei fucili mitragliatori tedeschi riuscirono a guadagnare il torrente Parello e rientrare a Fallo nella stessa serata e nella notte seguente. Tra coloro che riuscirono mettersi in salvo ci fu anche il pennadomese Nicola De Ritis che nel documento storico di Raitre “La guerra dimenticata” ricorda che “dopo l’ordine di mettersi in salvo di Glieca, attraversato i cancello che era sotto il campanile, italiani e inglesi (3 soldati), mano nella mano come in una catena lungo il canalone, si gettano verso il basso riuscendo a guadagnare la valle del torrente Parello fino a raggiungere Fallo”. Ore 11.00 morte eroica dei tre patrioti di Pennadomo Non riuscirono invece a mettersi in salvo i tre patrioti di Pennadomo Lorenzo D’Angelo e Nicola Di Renzo uccisi alle ore 11 dentro la chiesa, mentre Luigi Donato Di Francesco, pur ferito ad una gamba aveva tentato la fuga ma crollò sul sagrato colpito da un ultimo vile colpo di rivoltella dai tedeschi prima della fuga. Ed ecco il drammatico racconto dell’assalto alla chiesa raccontato dal caporale inglese Wolfe Wayne: “Ci ritirammo nella chiesa e sbattemmo la porta, la rinforziamo e poi accatastam- mo quanti più mobili possibile. Il tedeschi avevano il completo controllo della situazione e la sfruttarono al massimo. Una scarica di mitragliatrice dall’altra parte del portale ci ridusse a schiacciarci contro le pareti della chiesa. Non potevamo sparare dalle finestre, perché erano troppo in alto, e noi stessi avevamo bloccato l’uscita. All’improvviso, bombe a mano tedesche atterrarono sul pavimento della chiesa e la scarica di mitragliatrice ricominciò. Ci rifugiammo in fondo alla chiesa; alcuni dei feriti distesi a terra colpiti di nuovo, compreso il luogotenente Exell, che fu colpito al petto. Ci coprimmo contro il muro in fondo, sotto un Crocifisso e dietro l’altare fatto di una semplice pietra. Se prima avevo avuto paura, adesso ero terrorizzato. I colpi d’arma da fuoco erano terminati ora, e i tedeschi cominciarono a buttare giù la porta. Presto dalla porta entrò la luce, e insieme ad essa, una scarica di pallottole si sparse in tutta la chiesa, colpendo l’altare e il muro dietro a noi, intorno al Crocifisso. I colpi finirono e una voce urlò” “Alzarsi, alzarsi”. .. Avevo sentito una paura indescrivibile, ed ero convinto che stavo per morire... Mi guardai intorno e vidi i tedeschi che ci coprivano con i loro Schmeissers. Vicino al parapetto c’era una mitragliatrice puntata verso il portale. Il cielo era di un freddo blu metallico” . Ore 12 - La sorte degli altri patrioti di Pennadomo Rimasero feriti nell’azione di guerra Umberto Di Renzo e Guido D’Angelo che fu fatto anche prigioniero. Alla cruenta battaglia di Pizzoferrato, da notizie certe, parteciparono in tutto 12 patrioti di Pennadomo, infatti oltre ai nomi citati fin qui, si devono aggiungere quelli di Nicola De Ritis, Giuseppe Giglio, Galizio Lucci, Amerigo Di Renzo, Orlando Di Reto, Domenico Di Gravio e Vincenzo D’Angelo. Venerdi 4 febbraio ore 5,00: i tedeschi abbandonano Pizzoferrato Alle prime luci dell’alba di giovedì 4 febbraio i tedeschi, temendo un nuovo attacco, abbandonarono il paese conducendo con sé i patrioti e gli inglesi prigionieri. Non prima però di aver dato sepoltura militare al maggiore Lionel Wigram nel giardino davanti Casa Casati (nelle vicinanze fu sepolto provvisoriamente anche il patriota pennadomese Lorenzo D’Angelo): a rendere omaggio alla salma furono, oltre ai prigionieri inglesi, anche i tedeschi che si misero sull’attenti in modo da parata militare; in seguito il corpo del Maggiore fu trasferito nel cimitero militare di Ortona, dove ora riposa nella pace dei giusti. Dai civili del luogo e dai paracadutisti si ebbe notizia che i tedeschi dopo aver trucidato con un colpo di rivoltella all’orecchio i patrioti italiani rimasti feriti, caricarono i cadaveri tedeschi, il tenente inglese Exell ferito (che morirà qualche tempo dopo un in un campo di prigionia tedesco), armi e munizioni che vennero trasportati dai patrioti e dagli inglesi fatti prigionieri, fra cui il caporale Wolfe Wayne, verso la stazione di Palena. Pizzoferrato era libera. Ore 6,00: arrivano gli inutili paracadutisti del Capitano Gay Qualche ora più tardi giunsero finalmente gli ormai inutili paracadutisti del Capitano Gay che non avevano potuto, causa la neve, lo smarrimento della strada Chiesa della Madonna del Girone e alcuni scontri sostenuti con il nemico durante il cammino, raggiungere Pizzoferrato durante la battaglia. Dietro a loro, timorosa e incerta, rientrò una parte della popolazione. Ore 12: sepoltura ai patrioti caduti Verso mezzogiorno giunse anche da Fallo una squadra di patrioti al comando del pennadomese Nicola De Ritis, incaricata di dare sepoltura ai caduti. Un ben triste spettacolo si offrì ai loro occhi (facevano parte del plotone di recupero anche Galizio Lucci e Amerigo Di Renzo i quali fecero arrivare nei giorni seguenti la triste notizia dei morti a Pennadomo). Ricordiamoli tutti e 13 i morti di questa battaglia che il comandante Ettore Troilo definì “la più cruenta di tutte le altre, e in cui i patrioti hanno dato fulgida prova di eroismo e sacrificio, specie se si consideri che sempre esiguo è stato l’apporto dell’Esercito Alleato nelle operazioni militari e che i patrioti hanno partecipato alle operazioni stesse in situazioni di assoluta inferiorità, particolarmente per quanto si riferisce al loro equipaggiamento”: Lorenzo D’Angelo, 20 anni, di Pennadomo; Luigi Donato Di Francesco, 22 anni, di Pennadomo; Nicola Di Renzo, 24 anni, di Pennadomo; Nicola De Rosa, 27 anni, di Casoli; Gaetano Di Gregorio, 20 anni, di Gessopalena; Giosia Di Luzio, 44 anni, di Torricella Peligna; Giuseppe Fantini, 18 anni, di Torricella Peligna; Domenico Madonna, 22 anni, di Lama dei Peligni; Alberto Pavia, 21 anni, di Villa Santa Maria; Alfonso Piccone, 21 anni di Torricella Peligna; Mauro Piccoli, 22 anni, di Torricella Peligna (ma frequentava quasi sempre Pennadomo dove aveva molti amici); Angelo Rossi, 21 anni, di Colledimacine; Mario Silvestri, 22 anni, di Pacentro. Nella settimana successiva i parenti delle vittime di Pennadomo si recarono a Pizzoferrato per recuperare le salme che erano state seppellite e le riportarono su muli o barelle di fortuna al paese la domenica sera del 13 febbraio. I funerali si svolsero due giorni dopo, martedì 15, nella chiesa di Sant’Antonio e di cui riferiamo a parte con un servizio redatto con la testimonianza di molti pennadomesi che ancora oggi, dopo 69 anni, si ricordano di quel triste e doloroso giorno.. A cura di Lucia Di Spirito pagina 10 - pennadomo notizie Piazza di Pizzoferrato Pizzoferrato, Chiesa della Madonna del Girone Pizzoferrato: canto mattutino In memoria di Lorenzo, Luigi Donato e Nicola1 “MEDAGLIA D’ORO AL VALORE MILITARE ALLA BANDIERA” Sepolti nel camposanto di Pennadomo, dove tra le dolenti cime dei cipressi, testimoni silenti ed eterni di sovrane tristezze, riposano nella pace dei giusti. “Ancora oggi quella gelida alba di fuoco e di sangue del 3 febbraio 1944 - un giorno con il cielo a noi ostile – un rinnovato fremito d’orgoglio ci riempie l’animo per il sacrificio che noi offrimmo per una Patria più nobile, più libera, più generosa. Siamo ancora fieri della nostra passione di combattenti per una grande e bella Italia. Non fummo noi gli artefici della nostra grandezza, ma un grande ideale trascendeva i nostri pensieri e gli atti dei nostri miseri corpi: le forze eterne operavano nei nostri umili spiriti. Dentro la piccola chiesa della Madonna del Girone2, ai piedi dell’altare e sotto il pietoso sguardo del Crocifisso, noi tre giovani ventenni pennadomesi, spinti dal furore e dall’ardore, accendemmo il nostro più bello olocausto che mai potevamo offrire per la redenzione d’Italia3. Un olocausto che ci ha purificati e consunti: fu il nostro battesimo di sangue. Con il rogo del nostro eroico sacrificio, ci siamo consumati lentamente, senza pietà, un’agonia penosa, le carni lacerate dall’odioso fuoco tedesco e il sangue sparso ai piedi dell’altare, quello stesso altare dove nei giorni di festa si consumava il sacrificio di Cristo: “Questo è il mio corpo..., questo è il mio sangue offerti in sacrificio per voi”. Per noi, Lorenzo, Luigi Donato e Nicola, ardore-ardire fu, in quel tragico freddo mattino invernale, una sola essenza mistica. Per questo se il teatro del nostro sacrificio, la collina rocciosa della pieve sospesa sopra un dirupo, divenne un inferno, noi ne fummo gli angeli, creature fiammanti, con l’essenza dell’immortalità trincerata in noi. E tuttavia fummo lasciati soli: già sepolti prima ancora di morire. La sera del 2 febbraio, dopo il vespro della Candelora, ci incamminammo da Fallo4. Le prime ferite ci furono inferte dal cielo invernale. La neve prima leggera, e poi bufera, fu la silente compagna del viaggio notturno nella tortuosa ascensione per Pizzoferrato. Sembrava che la natura volesse dolersi dell’imminente destino avaro per noi di gioie e di consolazioni. Si camminava in colonna, con le mani l’uno sulle spalle dell’altro come pellegrini oranti, qualcuno scivolava e cadeva, pronto a rialzarsi con fatica per la salita del nostro Calvario5. Il silenzio del cammino era più triste del silenzio dei nostri destini. Si vedeva poco: in lontananza le ombre avevano le sembianze di morte, di sagome di tedeschi armati. Il vento ci impediva di respirare. Non finiva mai quella lunga, gelida e grigia notte: era già eterna. Pur ricoperti di soli poveri panni6, senza scarponi o stivali, ma con le sole cioce, con il freddo pungente e l’ululare del vento, con le tenebre della salita e la stanchezza del lungo e faticoso camminare, eravamo tuttavia spinti da una forza rigeneratrice, dalla no- biltà tragica dell’imminente azione di guerra, condotta senza una saggia e giusta strategia 7. Raggiungemmo le prime masserie di Pizzoferrato al mattino presto, quando era ancora buio, il nevischio era cessato, ma un vento freddo batteva le strade, c’era un’asprezza implacabile in quel freddo. Un silenzio assoluto incombeva sul paese, c’era solo neve, e noi nell’aria gelida8. Quel silenzio surreale custodiva e nascondeva l’agguato del nemico che sembrava svanito, come lugubre fantasma9. Iniziava un nuovo giorno e la guerra si preparava a ricolmarlo generosamente di corpi sanguinanti, di urla, di fumo di fucili, di case bruciate, mentre i nostri cuori si riempivano di desolazione e paura riflessi nei nostri volti. Stremati e sfiniti, con i poveri piedi martoriati dal gelo, non avemmo neanche il tempo di assaporare un po’ di tepore in qualche casa abbandonata, di mangiare un tozzo di pane e cacio per riprendere le forze, di accendere una sigaretta. Lo spirito della redenzione della nostra cara e bella Italia, nascosto sotto i nostri miseri vestiti e dentro la carne che sarà data in sacrificio, ci richiamava con i primi strazianti spari d’arma da fuoco di noi patrioti e dal crepitio delle mitragliatrici dei nazisti che squarciarono il silenzio, rimbombando nell’aria grigia velata di angoscia. Nel buio, le scintille degli spari si accendevano e si spegnevano, lanciando scie e sibili di morte. E fummo sommersi dalla tristezza infinita della tragedia già al primo sangue che sporcò la neve. Arrivati miracolosamente sul sagrato, tutto intorno e dentro la chiesa, comparvero all’improvviso decine di tedeschi dagli occhi di gelo e di fuoco. I lampi delle armi, il boato delle bombe a mano, l’esplosione delle granate scuotevano l’aria e la terra tra urla e gemiti. Si respirava a fatica, sembrava che non ci fosse più aria... Tenebre nerissime e dolorosissime entrarono nei nostri occhi. Fummo eroi di un solo giorno quando cadde la nostra giovane vita. Soli e sepolti prima ancora di morire, senza che nessuno gettasse acqua fredda su quell’incendio di spari infiniti di mitragliatrici nemiche dentro quel luogo santo. Senza il tempo di un’Ave Maria per raccomandarci nell’ora della morte. Senza che nessuno spargesse lacrime nuove o di un pianto antico di altre guerre. Senza il lumicino di una candela, di un rintocco funebre di campana, di un Requiem aeternam. Il 4 febbraio10, a mezzogiorno, dopo un giorno e una notte che rimanemmo soli con il gelo e abbandonati a terra con i corpi martoriati e ancora sporchi di sangue, fummo portati, insieme ai nemici tedeschi che volevamo scacciare dall’Italia, nel santo re- cinto mortuario di Pizzoferrato, sepolti, ma in attesa che i nostri parenti venissero a riportarci a casa nel paese delle rocce protetto da San Lorenzo a dorso di muli11 . E nella chiesa di Sant’Antonio il 15 febbraio12, sotto lo sguardo misericordioso della Madonna e del Cristo Morto che ha portato i nostri affanni e si è addossato i nostri dolori, ricevemmo la purificazione dei corpi con l’aspersorio dell’acqua santa, quella stessa acqua benedetta che ricevemmo nel giorno del battesimo venti anni prima. Poi la mesta e lenta processione con i parenti più cari e il canto del “Lux aeterna dona eis, Domine”, ci accompagnarono nel campo santo di Pennadomo, dove tra le dolenti cime dei cipressi, testimoni silenti ed eterni di sovrane tristezze, riposiamo nella pace dei giusti. La gloria conquistata in vita con il nostro sacrificio, è la nostra unica immortalità. Pur se abbandonati dall’atroce destino, senza annuali solenni e pie commemorazioni, ci sentiamo dei vittoriosi, sempre pronti a versare altro sangue delle nostre giovani vite, qualora ci fosse ancora richiesto. E voi fratelli non ci abbandonate, non ci dimenticate: non vogliamo essere degli stranieri in casa nostra, degli stranieri senza memoria tra coloro che abbiamo onorato con il nostro sacrificio13. L’Italia redenta è anche nostra, abbiamo scritto la sua storia con il nostro generoso sangue, abbiamo con il nostro eroico olo- pagina 11 - pennadomo notizie Pennadomo, Chiesa di Sant’Antonio desunte le notizie storiche riportate in questo “Canto mattutino”. Nell’azione di guerra di Pizzoferrato furono in 12 i patrioti pennadomesi che presero parte alla battaglia; oltre ai tre morti, c’erano anche Umberto Di Renzo e Guido D’Angelo che riportarono delle ferite, Nicola De Ritis, Giuseppe Giglio, Amerigo Di Renzo, Galizio Lucci, Vincenzo D’angelo, Domenico Di Gravio e Orlando Di Reto. L’antica chiesa della Madonna del Girone si trova in cima ad uno sperone di roccia a Pizzoferrato e dove, dentro e tutto intorno, durante il cruento combattimento, durato dall’alba a mezzogiorno, ci fu l’eccidio di 13 combattenti della Brigata Maiella, insieme a due inglesi e 20 tedeschi. Dietro la chiesa risiedeva il comando tedesco asserragliato a Casa Casati 2 causto donato nobiltà anche alle nostre genti, al nostro paese protetto da San Lorenzo. Noi non abbiamo tutti fatto in tempo a godere in pieno le dolcezze di una famiglia o di una donna amata, né le gioie della paternità nelle nozze benedette, e tuttavia noi non siamo morti, siamo vivi, respiriamo ancora la santità e l’audacia di tutti i giovani patrioti della Brigata Maiella che per il loro ardimento hanno lasciato una scia luminosa di abnegazione e di valore, riaffermando così le gesta più epiche e gloriose della tradizione del volontarismo italiano”14 . Ottavio Di Renzo De Laurentis _______________ Lorenzo D’Angelo 20 anni, Luigi Donato Di Francesco 22 anni e Nicola Di Renzo 24 anni, sono i tre giovani ventenni patrioti della Brigata Maiella, nati a Pennadomo e morti da eroi nella battaglia di Pizzoferrato trucidati dai tedeschi. La battaglia di Pizzoferrato, in provincia di Chieti, fu combattuta il 3 e 4 febbraio 1944 insieme agli alleati inglesi, di cui il Maggiore Lionel Wigram aveva il comando dell’attacco, è stata definita da Ettore Troilo, il fondatore e comandante della Brigata Maiella, “la più cruenta di tutte le altre, e in cui i patrioti hanno dato fulgida prova di eroismo e sacrificio, specie se si consideri che sempre esiguo è stato l’apporto dell’Esercito Alleato nelle operazioni militari e che i patrioti hanno partecipato alle operazioni stesse in situazioni di assoluta inferiorità, particolarmente per quanto si riferisce al loro equipaggiamento”. La storia di quel tragico episodio della guerra di Liberazione è stata raccontata da Nicola Troilo, figlio di Ettore, nel libro “Storia della brigata Maiella 1943-1945” (Mursia Editore, Milano 2011) dal quale sono state 1 “Molti dei nostri, i migliori, i più degni, quello che hanno arrossato del loro sangue generoso le terre d’Abruzzo, delle Marche, della Romagna, dell’Emilia non sono tra noi. Essi sono caduti sulla via dell’onore e del dovere per il riscatto della libertà d’Italia; altri, moltissimi, sono assenti perché hanno ancora nelle carni doloranti il morsi del piombo nemico... Il tributo di eroismo e di sangue che voi della “Maiella” avete offerto silenziosamente alla grande causa della liberazione della Patria vi pone fra i migliori figli d’Italia” (Dal discorso del comandate Ettore Troilo alla cerimonia di scioglimento del Gruppo avvenuta a Brisighella il 15 luglio 1945, e riportato nel citato libro di Nicola Troilo a pagina 249). Lo stesso comandante Troilo nel discorso tenuto il giorno della consegna della “Medaglia d’oro al valore militare” alla Brigata Maiella il 2 maggio 1965 a Sulmona disse fra l’altro che “i patrioti della Maiella vissero, giorno per giorno, attraverso ogni difficoltà e ogni disagio, di un infinito amore verso la Patria”. 3 Il contingente che doveva liberare Pizzoferrato dall’occupazione tedesca era composto da 80 partigiani ed un plotone inglese di 25 uomini, i quali, provenienti da Montelapiano arrivarono a Fallo, da dove alle ore 19 iniziarono la salita raggiungendo, dopo 9 ore di marcia forzata, Pizzoferrato alle 4 del mattino di giovedì 3 febbraio. 4 “La marcia di avvicinamento all’obiettivo durò tutta la notte, resa faticosissima dalla grande quantità di neve caduta che aveva completamente cancellato i sentieri e dalla fittissima oscurità”. (Troilo N., opera citata, pag. 64). Il patriota Massimo Di Iorio di Fallascoso che partecipò all’azione di guerra nei suoi ricordi scrive che “durante il tragitto per Pizzoferrato ci colse una bufera di neve e nebbia, tanto che dovemmo 5 Pennadomo, Piazza dell’Unione camminare in fila, con uno che faceva da guida e gli altri con le mani l’uno sulle spalle dell’altro per non disperderci”. “Gli inglesi erano ottimamente equipaggiati e armati; i patrioti calzavano quasi tutti le cioce, pochissimi avevano il pastrano o indumenti di lana. L’armamento consisteva in normali fucili inglesi”. ( Troilo N., opera citata, pag. 64). 6 “A giudizio degli ufficiali della “Maiella” sarebbe stato forse imprudente effettuare l’attacco alla munita postazione tedesca senza l’aiuto dei paracadutisti... Ma il Maggiore Wigram non volle sentire ragioni, riaffermò l’assoluta necessità che l’attacco a Pizzoferrato venisse sferrato all’alba del 3 febbraio e non più tardi” (Troilo N., opera citata, pag. 63). Dopo poche ore che erano iniziati gli aspri combattimenti, e dove era evidente la superiorità dei tedeschi molto meglio armati e strategicamente dislocati, il Tenente Osvaldo Glieca, con il Maggiore Wigram ferito a morte, “ritirò gli uomini che avevano circondato casa Casati, disponendoli sulla piazzetta della Chiesa... Anche il tenente inglese Exell riuscì a raggiungere la piazzetta e assunse il comando facendo dire a Glieca dall’interprete che la volontà del Maggiore Wigram era di annientare a qualunque costo tutti i tedeschi asserragliati. Il Glieca gli fece rispondere che, per il fatto che era ormai giorno e che tutti gli uomini si trovavano allo scoperto, un secondo attacco contro casa Casati sarebbe stato un suicidio... Ma il Tenente Exell ritenne di disporre subito l’attacco” (Troilo N., opera citata, pag. 65). E a pag. 86 del libro storico, dopo le aspre polemiche suscitate per l’azione di guerra “viziata da una sottovalutazione dell’impresa e dall’insufficiente preparazione militare dei patrioti italiani”, la nota si conclude con una drammatica confessione sull’”inutile spargimento di sangue... in un’azione nata sotto così cattivi auspici”. 7 “Una fitta coltre di neve ricopriva il paese deserto, penetrava attraverso le porte sventrate fin dentro alle squallide case abbandonate e devastate dal saccheggio” (Troilo N., opera citata, pag. 64). 8 9 “Verso le 4 del mattino gli uomini raggiunsero le immediate adiacenze del paese e si spinsero fino all’albergo Melocchi dove non vennero rinvenuti tedeschi... Verso le 4,30 il Maggiore Wigram ricevette la comunicazione che tutti gli obiettivi erano stati raggiunti ma né i cannoni erano stati trovati né si erano visti tedeschi alla casa Melocchi e a quella dell’Arciprete.” (Troilo N., opera citata, pag, 64) “A mezzogiorno del 4 febbraio giunse anche da Fallo una squadra di patrioti 10 al comando di Nicola De Ritis (patriota di Pennadomo, ndr), incaricata di dare sepoltura ai caduti. Un ben triste spettacolo si offrì ai loro occhi. Nella piccola chiesa, agli angoli delle case silenziose e vuote, sulle rocce coperte di neve, giacevano i corpi dei patrioti caduti in combattimento... I miseri resti furono seppelliti in una fossa comune nel cimitero di Pizzoferrato” (Troilo N., opera citata, pag. 67) Pennadomo, in provincia di Chieti, si estende sopra uno sperone di roccia sulla cui cima si innalza la maestosa pietra liscia di Santa Maria. Nel libro “La leggenda di Pennadomo” (pag. 134) Amerigo Di Renzo scrive che il ritorno delle salme “di chi si era sacrificato per la società di un domani libero, fu uno spettacolo tetro e commovente. Fecero la loro apparizione alla periferia di Pennadomo dove tutta la popolazione attendeva nella notte inoltrata. I caduti erano stati traslati: due in barella e l’altro a cavalcioni di un mulo. La scena rischiarata con torce, apparve ancora più pietosa e tutti piansero lacrime di dolore. Rientrarono i morti accolti da eroi. 11 Le salme dei tre patrioti furono riportate da parenti ed amici a Pennadomo nell’ora del vespro di domenica 13 febbraio e i funerali furono celebrati dal parroco don Giovanni due giorni dopo, martedì 15: questa testimonianza è tratta dal diario di Carolina Ruggiero, vedova di Lorenzo D’Angelo. 12 Nonostante il grande eroismo dei tre partigiani martiri, Pennadomo, contrariamente a quanto avviene in altri paesi vicini e lontani che onorano i loro caduti, non ha dedicato loro né un monumento, né una piazza. 13 Se si eccettua il ricordo dei loro nomi, fra i caduti di tutte le guerre incisi sulla lapide posta sulla facciata della chiesa di Sant’Antonio, sono completamente ignorati. Eppure grazie anche al loro eroismo e sacrificio che la bandiera della Brigata Maiella è stata insignita della “Medaglia d’oro al valor militare”, di cui bisognerebbe andare fieri. Nell’agosto del 1976, il giornale “Notizie Pennadomo” si fece promotore per dedicare ai tre patrioti l’attuale Via Maiella modificandola in “Via martiri della Brigata Maiella”, con i nomi di Lorenzo, Luigi e Nicola. Ma l’amministrazione comunale di quel tempo, incurante della nobile proposta, dedicò ai patrioti della Brigata Maiella soltanto la stradina seminascosta e la scarsamente abitata che dal camposanto raggiunge via San Lorenzo, all’altezza della chiesa, e priva di una qualsiasi lapide commemorativa della tragedia di Pizzoferrato. La frase conclusiva di questo “Canto Mattutino”: “per il loro ardimento hanno lasciato una scia luminosa di abnegazione e di valore ripete e riafferma le gesta più epiche e gloriose della tradizione del volontarismo italiano”, è tratta dalla”Motivazione della medaglia d’oro alla Brigata Maiella al valore militare” conferita il 14 novembre 1963 dal presidente della Repubblica Antonio Segni e il cui testo è scolpito nel sacrario della Brigata Maiella a Taranta Peligna, inaugurato il 26 maggio 1976. Il sacrario, che raccoglie le spoglie di alcuni patrioti della brigata, ha coronato i lunghi sforzi del comandante Ettore Troilo e degli ex combattenti, affinché gli eroici caduti “riposassero all’ombra della montagna da cui essi partirono e presero il nome”. 14 In memoria dei tre Patrioti di Pennadomo uccisi a Pizzoferrato Buia alba Furtivi gli sguardi /frugavano i tratturi imbiancati / e già tramati / di nero presagio. Poi / fratelli sorpresi / da un inatteso fragore si adagiavano / su rami di giovani ricordi che lentamente / sbiadivano. Cancellando il dolore. / Salutando la vita. Sull’orizzonte / finalmente disteso. Alla Maiella, la bella partigiana Tanti anni fa ho camminato sui tuoi sentieri: eri bella e selvaggia da togliere il fiato ma io volevo, avevo qualcuno da raggiungere. Alla tua durezza ho dato tutto quello che avevo: una macchia scura sul petto, quasi un fiore rosso sul cuore, e tu hai donato un male che non finisce, mal d’amore, mal di Maiella. Maria Lucci Luisa De Ritis pagina 12 - pennadomo notizie Martedì 15 febbraio 1944: i funerali per le tre giovani vittime di Pizzoferrato Il dolore e il pianto di Pennadomo per i suoi eroi “La gloria conquistata in vita con il sacrificio, è la loro immortalità” Anche nel giorno del funerale, martedi 15 febbraio 1, come nell’ora in cui furono uccisi dai tedeschi dagli occhi di fuoco e di ghiaccio a Pizzoferrato, la neve cadeva leggera a Pennadomo quasi a voler piangere in silenzio, a interiorizzare il dolore della gente per le tre giovani vite che non fioriranno mai più, spezzate dall’odioso fuoco nemico. Tutto il paese, da Santa Maria a San Lorenzo, si ammanta di dolore come una vedova, versa lacrime amare, si consola con un pianto inconsolabile, nessuno la può confortare, tutte le strade sono deserte, le case piene di amarezza e non c’è nessuno che abbia la forza di consolare l’altro. Le stesse preghiere sono recitate a fior di labbra, con il ritmo del lamento, di chi si sente afflitto dal peso di così tanto dolore: come se ognuno avesse perso un proprio figlio o un fratello. Le donne sono strette nei loro scialli di lana, tutte con il velo nero in testa e la corona del rosario in mano. Il lutto aleggia su ogni cosa, con un’aria di tristezza infinita: è l’immagine della desolazione e delle rovine di un paese ancora in guerra, invaso dal nemico tedesco, e con i suoi soldati, i più forti, al fronte e dal ritorno incerto. A Pennadomo sembrava risuonare e rivivere i lamenti biblici di Geremia per i figli partiti per la guerra, i tesori più preziosi, spezzati dalle spade nemiche: “I suoi giovani erano più splendenti della neve, più candidi del latte; avevano il corpo più vermiglio dei coralli, era zaffiro la loro figura. Ora il loro aspetto si è oscurato più della fuliggine, ora non si riconoscono più nelle strade; si aggrinzì sulle ossa la loro pelle, secca è divenuta come un legno “ (Lamentazioni 4, 7-8). Era l’ora del vespro, con le prime ombre della sera di un giorno grigio, con l’aria gelida che toglieva il respiro. Le lanterne era accese e le torce portate a mano diffondevano una luce flebile, quasi greve, quando le salme di Lorenzo, Luigi Donato e Nicola, a dorso di muli e su barelle di fortuna, arrivarono domenica 13 febbraio da due strade diverse al largo della fontana: ci fu allora una scena di commovente misericordia. E il freddo prima pungente, sembrava ora svanito, e le tenebre prima dense si rischiaravano di una luce interiore. Quel giorno il sole non era mai spuntato. Da quel silenzio innevato si alzarono le grida di dolore delle madri: “Figlio, figlio mio, povero figlio mio, chi ti ha ucciso?... Figlio, figlio mio, voglio morire con te... Povero figlio mio,....”, versando lacrime e baciando e ribaciando quelle bare dal legno freddo 2. Con fatica mani pietose tentarono di distaccarle. Sorretta e circondata da amiche e parenti, avvolta nel suo scialle nero attendeva anche la giovane vedova incinta di un figlio che il padre Lorenzo non potrà mai accarezzare: il suo era un dolore di madre ancora più grande, la sua angoscia e il suo pianto erano anche per quella creatura nascente, già orfano nel seno materno 3. Il parroco don Giovanni Martorella con il piviale nero attorniato da 4 chierichetti di bianco vestiti e da un crocifero, benedisse per la prima volta quelle salme prima con l’acqua santa e poi li incensò con il fumo del turibolo. Intanto il canto corale responsoriale del “Libera me Domine de morte aeterna,” si librava nell’aria, fioco simile alla neve che continuava a cadere lenta lenta, come gocce di lacrime: “Liberami, Signore, dalla morte eterna, in quel giorno tremendo... Quando verrai a giudicare il mondo con il fuoco, dona ad essi, Signore, il riposo eterno e risplenda loro la luce perpetua 4. E con questa melodia salmodiante si incamminarono tutti, con le bare portate a spalla, nella chiesa di Sant’Antonio dove rimasero fino al pomeriggio di martedì 15 febbraio quando, sotto lo sguardo misericordioso della Madonna e del Cristo Morto che ha portato i nostri affanni e si è addossato i nostri dolori, durante l’ufficio dei defunti, Lorenzo, Luigi Donato e Nicola 5 ricevettero la purificazione dei corpi con l’aspersorio dell’acqua santa, quella stessa acqua benedetta che ricevettero nel giorno del battesimo una ventina di anni prima 6. La cerimonia religiosa si concluse con il suono dell’organo e il canto gregoriano del “Paradisum deducant te Angeli” dalla cupa e maestosa armonia: “In paradiso ti guidino gli Angeli, al tuo arrivo ti accolgano i Martiri e ti conducano nella Santa Gerusalemme. Il coro degli Angeli ti accolga e con Lazzaro, un giorno povero, abbi la pace eterna” e la folla, devotamente, si pose in fila per la mesta, lenta e silenziosa processione per accompagnare le bare benedette nel camposanto di Pennadomo, candido di neve. Qui, ancora oggi, tra le dolenti cime dei cipressi, testimoni silenti ed eterni di sovrane tristezze, i tre giovani patrioti di una battaglia condotta senza una saggia e giusta strategia, riposano nella pace dei giusti. _______________ L’arrivo delle salme delle tre giovani vittime, morti da eroi a Pizzoferrato, è raccontato da Cinzia D’Angelo, nipote di Lorenzo D’Angelo che si è avvalsa del diario di quei tristi giorni scritto dalla 1 nonna Carolina Ruggiero. L’intera testimonianza di Cinzia, di una straordinaria intensità emotiva, è pubblicata interamente a pagina 3. Le salme dei tre giovani patrioti arrivarono verso le cinque del pomeriggio al largo della Fontana: quella di Lorenzo, su un mulo, proveniva dalla strada di Villa santa Maria, mentre quelle di Luigi Donato e Nicola scendevano da Buonanotte. Nonostante la fredda ora vespertina tutto il paese, accorso al rintocco lento delle campane, era raccolto per rendere onore all’eroismo dei tre giovani. Parenti ed amici erano andati a Pizzoferrato per riprendersi le salme dei caduti e ripartirono all’alba di domenica 13 febbraio, mese bisestile, tutti insieme prima verso Quadri, e poi si divisero: alcuni prendendo la direzione di Villa Santa Maria, altri quella di Fallo, Montelapiano, Bosco Lungo, e strada per Buonanotte. Dopo circa 12/13 ore di cammino, al freddo dell’alba e sotto un leggero nevischio, raggiunsero Pennadomo (Testimonianze di Raffaele Di Francesco). Le tre salme furono collocate dentro la chiesa di Sant’Antonio dove, lunedì 14, furono ricomposte dentro bare di legno di fortuna (testimoni ricordano che furono utilizzate soprattutto tavole dei letti matrimoniali). La salma di Luigi Donato aveva una vistosa fasciatura bianca sulla testa per ricoprire la ferita del colpo mortale dei tedeschi (Testimonianza di Amelio Di Francesco). Mentre si ricomponeva la salma di Nicola fuoriuscì dal suo corpo una delle pallottole sparate dai tedeschi che è conservata dai parenti ancora sporca di sangue (Testimonianza di Antonio Di Renzo). 2 Il figlioletto nascente è Mario Lorenzo Nicola, di Lorenzo D’Angelo e Carolina Ruggiero (sposatisi il 30 maggio 1942) che vedrà la luce solo il 21 luglio 1944 3 La funzione dell’ufficio dei morti (“Officium defunctorum”), con i relativi canti in chiesa gremita di gente e lungo la processione che si snodò da Piazza dell’Unione fino al camposanto, fu celebrata dal parroco Don Giovanni Martorella. (Testimonianza di Filomena Di Renzo). 4 La chiesa di Sant’Antonio e la piazza dell’Unione erano stracolme di persone che vollero assistere in un religioso silenzio ai funerali, rotto solo dalle grida di dolore e dal pianto delle mamme delle vittime. Le salme dei tre patrioti dentro la chiesa erano state collocate verticalmente tra una fila di banchi e l’altra ed erano così disposte: la più vicina all’altare era quella di Lorenzo D’Angelo, in mezzo quella di Luigi Donato Di Francesco e infine quella di Nicola Di Renzo. Al termine della cerimonia funebre, dove erano presenti anche alcuni patrioti della battaglia di Pizzoferrato, si tenne in piazza una commossa rievocazione dei tre eroi caduti tenuta da Amerigo Di Renzo prima che le bare si avviassero verso il campo santo. (Testimonianza di Assunta Di Renzo) 5 6 Le salme presenti nella chiesa di Sant’Antonio erano all’inizio 4, in quanto c’era pure quella di Mauro Piccoli, 22 anni, nativo di Torricella Peligna in contrada Solagne. Mauro, proprio per la vicinanza a Pennadomo, frequentava più il nostro paese che il suo, qui aveva molti amici e oltretutto da piccolo era stato anche allattato dalla signora Rosa di Martellone, ma martedi mattina 15 febbraio la sua salma ritornò a Torricella dove si svolsero i suoi funerali. (Testimonianza di Laurina Di Gravio) pagina 13 - pennadomo notizie Il suono di una fisarmonica, nel silenzio attonito di un mattino, si diffonde e inonda la piazza annunciando la fine della guerra e l’inizio di un’alba finalmente nuova La Storia è passata di qui... Luoghi e voci ci raccontano I luoghi che ci hanno visto nascere, i nomi che ancora oggi sono presenti nei ricordi e nei riferimenti toponomastici dei nostri vecchi, ci sono tutti nei racconti di chi, senza fatica alcuna, ha riallacciato immagini, suoni, parole, per consentire a noi, oggi, di ricostruire e partecipare ciò che alle nostre generazioni è stato risparmiato: la guerra. Un’esperienza e una realtà che, se non fosse stato per “il piede straniero sopra il cuore”, ovvero per l’arrivo tuonante dei tedeschi, per le loro razzie e le fughe alle loro urla, si sarebbe sentita lontana… La guerra, infatti, ad eccezione del breve periodo dello sfollamento, non ha sovvertito le consuetudini e la liturgia delle giornate. Il lavoro nei campi continuava anche per quegli adolescenti che oggi sarebbero considerati nell’obbligo scolastico. All’alba si partiva per andare a giornata o nei propri poderi per preparare la terra, curarla, raccoglierne i frutti. I bambini andavano a scuola, una scuola in cui della guerra si taceva, a differenza di quanto accade oggi nelle nostre aule, dove la formazione di un cittadino non può prescindere dall’educazione al valore della pace, della fratellanza e della solidarietà anche attraverso riferimenti a quei luoghi dove l’uomo ancora uccide. Tutti ricordano, infatti, alla domanda, forse un po’ ingenua di un’insegnante di oggi, che di guerra non si parlava anche se vi si era dentro. Talvolta erano gli aerei che sfrecciavano in cielo, lungo “le meridiane di morte” o un aereo caduto nelle vicinanze del paese a scuotere gli animi e a ricordare che si stava combattendo. Oppure era il ritrovarsi intorno all’unica radio del paese, nella casa del “sartore”, per ascoltare se nell’elenco dei prigionieri vi fosse il proprio figlio, marito, fratello, futuro sposo… E quando il nome del proprio caro non era pronunciato dalla radio veniva allora cercato, come ultima disperata scelta, nelle parole di un “magaro ”. Si andava quindi a Piane d’Archi ad interrogarlo e si attendeva trepidanti sentirsi dire “lo vedo, cammina!” perché questo equivaleva a “E’ vivo!” Così si tornava a casa confortati da una fragile speranza per affrontare il resto dei giorni a venire. E i giorni, i più lunghi e indelebili, nelle voci di tutti i testimoni, sono stati quelli dello sfollamento quando, dopo l’8 settembre del ’43, si rovesciano i rapporti con la Germania e i tedeschi diventano ciò che rimarrà per sempre nell’immaginario collettivo di chi ha esperito la guerra ma anche di chi l’ha solo sentita raccontare o studiata sui manuali di storia. I tedeschi diventano il simbolo di efferate rappresaglie, feroci razzie, terribili eccidi. La furia tedesca ha però risparmiato il paese, rivelandosi solo nell’e- pisodio del mugnaio ricordato e raccontato da tutti con le stesse parole, le stesse sequenze e lo stesso giudizio. La risposta dei tedeschi all’istinto del mugnaio, che aveva ferito uno di loro per difendere il suo maiale, è quella conosciuta in altre più orribili rappresaglie. Il mugnaio, nella triste consuetudine tedesca, dopo essere stato picchiato, venne esposto in fontana come monito per tutti, suscitando la curiosità innocente e un po’ morbosa dei piccoli che venivano richiamati dagli adulti già consapevoli che quell’immagine era il preludio ad un ineluttabile sacrificio. Il suo corpo, infatti, scomparso di lì a poco, venne ritrovato dopo un mese da Nicola Paradisi mentre andava in campagna al Castelluccio. Pennadomo “sfolla” nell’autunno-inverno del ’44 in luoghi che evocano la bontà umana e la bellezza feconda della natura: Taddeo, Rosario, Montebello, Acque vive… Sono questi, infatti, i nomi ricorrenti che rimandano alla gratitudine dell’uomo verso una famiglia, verso quell’umanità che la guerra non è riuscita a negare, e verso la natura che rinasce e conserva la sua bellezza, malgrado le bombe, malgrado le macerie. Il paese, dunque, viene abbandonato per qualche mese. E’ un tempo che lascerà il segno sul cuore di tutti. E’ una partenza per un viaggio breve, lungo, forse senza ritorno, dipende dall’unità di misura: pochi chilometri per le gambe, interminabili palpiti per il cuore… Si parte, dopo l’annuncio del banditore, con poche cose o con niente. Chi con la valigia, chi senza genitori, chi con scarpe di fortuna scelte a caso sotto il desco buio del ciabattino. Si lascia il cuore nelle case e ciò che c’era di più prezioso: le provviste. I nascondigli sono i più disparati: le pile dell’olio, la legna, il fieno o, addirittura, una muratura improvvisata. Si fugge, tutti, tranne i più anziani, i malati che restano insieme, uniti, raggruppati in alcune stanze del Palazzo Troilo dove un telo bianco steso sul tetto indicava la loro presenza inviolabile. E come nel Lazzaretto manzoniano, anche qui c’è un Fra Cristoforo: don Giovanni Martorella che viene ricordato come un vero pastore, colui che è rimasto a confortare chi aveva bisogno di conforto e a dissuadere chi veniva a violare quel nido: i tedeschi. Coloro che erano partiti, raggiunta la destinazione, si sistemano presso le famiglie accoglienti anche se gli uomini continueranno a fuggire, a nascondersi nella boscaglia e a dormire nei pagliai per rientrare a turno solo per mangiare. Una vedetta proteggeva i loro spostamenti quotidiani. Le donne e i bambini trovano posto nelle case dove ci si adatta a mangiare ciò che c’è e a dormire, in tanti, anche in cucina quando le altre camere sono piene. I pasti, per alcuni frugali per altri abbondanti a seconda dei luoghi e delle famiglie, sono comunque simili: pasta fatta in casa con farina di granoturco o bianca, una pasta leggera, senza uova, a volte cotta nell’acqua piovana raccolta. La carne viene fornita dagli animali che gli sfollati avevano portato con sé o da quelli delle famiglie ospitanti. Non mancano, naturalmente, le patate, poco pregiate ma care alla cucina contadina. A volte, la fame incalzante non disdegna neanche abbondanti porzioni di fave tostate mangiate fino a starne male. La fame vera non badava a sottigliezze. Quando occorreva fare rifornimento di quelle provviste stipate, nascoste e lasciate nelle case, bisognava tornare in paese. Talvolta, erano giovani donne, qualcuna anche incinta, quando dare la vita poteva sembrare un trionfo dell’incoscenzama era invece, la vittoria della speranza, ad essere strategicamente scelte per la missione e per eludere i controlli tedeschi. L’amara sorpresa era scoprire che qualcuno era arrivato prima e aveva portato via tutto. Si poteva sempre contare sugli animali portati con sé ma anche questi, a volte, potevano rappresentare un ostacolo, in caso di fuga, e per questo si decideva di venderli, magari a malincuore, fosse pure una sola capra. La promiscuità, dovuta all’affollamento degli ambienti e alla presenza degli animali, peggiora le già precarie condizioni igieniche: ci si lava con l’acqua del pozzo, si fa il bucato nel fiume utilizzando la terra come “detersivo”, ci si ritrova così con le teste affollate non solo di timori, paure, ma anche di pidocchi. E così, tra gli altri, uno dei più diffusi passatempi durante il giorno è liberarsi di questi parassiti stando all’aperto quando le giornate regalano qualche “spera” di sole. E sempre al sole, ascoltando racconti, cantando o, semplicemente, dialogando si trascorrono le giornate quando non si è impegnati a fronteggiare i tedeschi che piombavano improvvisi per portar via coperte, lenzuola, rame, patate, animali. Il legame con questi ultimi, creature dalle quali dipendeva la sopravvivenza di intere famiglie, si rivela ancora in un episodio commovente in cui l’uomo dimostra di non aver smarrito la propria umanità. L’accoglienza manifestata dalla famiglia Taddeo, nei confronti di tutti coloro che avevano trovato rifugio e salvezza nella loro casa, viene ripagata quando i tedeschi portano via un bue dalla loro stalla. La solidarietà degli sfollati si concretizza in un toccante consolo durato diversi giorni: a turno si cucina per loro, per lenire il dolore per la perdita dell’animale così essenziale per la fragile economia di quei giorni. Dopo il ritorno a casa e ai ritmi consueti, si arriva alla fine della guerra che, però, non viene salutata con manifestazioni di gioia in piazza, come ci aspetteremmo noi, cresciuti con la televisione o i nostri figli nativi digitali, satolli di replicate immagini di folle festanti all’annuncio della fine di un conflitto o della caduta di un tiranno. Per molti la parola “fine” coincide con l’8 settembre quando l’espressione della gioia, però, viene, di lì a poco, nuovamente strozzata negli anni della dura guerra di liberazione. Poi, attraverso i ricordi, emergono varie cornici a cui gli animi hanno assegnato il valore di un annuncio liberatorio. L’arrivo degli inglesi dalle Piane che, rispettando l’ico- nografia del nascente cinema neorealista, distribuiscono cioccolata. I tedeschi che se ne partono lasciando nugoli di polvere che, stavolta, anziché offuscare libera l’aria. Le grida di gioia nelle case affollate che salutano il mesto ritorno dei prigionieri provati ma non domati dalla dura esperienza dei campi di prigionia. Infine, il suono di una fisarmonica che, nel silenzio attonito del mattino, si diffonde e inonda la piazza. E gli occhi increduli si aprono ad un’alba finalmente nuova. Maria Lucci Ringrazio per le preziose testimonianze: Laurina Di Gravio, Giuseppina Di Loreto, Alberto Fagnani, Lina Fagnani, Adelina Lucci, Domenica Lucci, Lorenzo Lucci I coniugi Taddeo: Silvia e Giuseppe Lettere al giornale Caro Ottavio, devo dirti che il progetto che mi hai sottoposto in onore dei martiri della Brigata Maiella mi entusiasma tantissimo, anzi dirò di più, per me si realizza un desiderio. Quando andavo alle manifestazioni con fascia e gonfalone, sentivo la mancanza di qualcosa che a Pennadomo doveva toccare di diritto: la medaglia d’oro al valore militare. Coloro che hanno combattuto fino a dare la vita per il loro Paese non devono essere dimenticati... Grazie per quanto stai già facendo, hai tutta la mia collaborazione. Antonietta Passalacqua Sindaco di Pennadomo Caro Ottavio, parlare dei Partigiani mi emoziona particolarmente. Ho sempre pensato che se fossi vissuto in quegli anni, non avrei esitato un solo minuto a considerarmi un patriota e quindi imbracciare le armi pur di difendere la libertà, il nostro territorio, le nostre case e le nostre famiglie. Ho sempre considerato i ragazzi della Brigata Maiella degli eroi. Ti ammiro per questo tuo impegno e spero di poter contribuire alla riuscita di questo tuo bellissimo progetto che ritengo nobile e di alto profilo morale. Antonio Piccone Caro Ottavio, ho letto con molta attenzione ciò che stai scrivendo per ricordare ed onorare degnamente la memoria dei nostri tre fratelli maggiori in occasione del 70° anniversario del loro eroico e supremo sacrificio, che ha permesso non solo all’Abruzzo ma all’Italia di ritrovare libertà perduta. E’ un ottimo lavoro, chiaro e ben documentato, che spero possa risvegliare nei cittadini di Pennadomo i ricordi di quei tristi giorni di guerra e dare ai nostri tre patrioti, anche se tardivo, il giusto riconoscimento dell’alto valore morale del loro eroico sacrificio. Ottavio. ti ringrazio veramente di cuore per avermi coinvolto nella tua nobile iniziativa. Antonio Di Renzo pagina 14 - pennadomo notizie Elezioni comunali 2013: Antonietta Passalacqua riconfermata a Via Maiella Tutto il potere nelle mani delle donne Le più votate alle amministrative sono state Paola Di Loreto per la maggioranza, e Nicoletta Di Florio per l’opposizione. L’elettorato femminile supera quello maschile. Tutti gli enti in mano alle donne, dall’Avis con Marisa Teti alla Pro Loco diretta da Mara Di Francesco I risultati delle elezioni amministratve del 26 e 27 maggio scorsi hanno confermato la “leadership” delle donne nella gestione della “cosa pubblica” a Pennadomo. Un evento che va in controtendenza rispetto ad altri comuni, per non parlare poi del potere politico nazionale. Antonietta Passalacqua, con la sua lista “Insieme per Pennadomo”, ha riconquistato la sede di Via Maiella e per altri cinque anni avrà la non facile responsabilità di amministrare il paese nel migliore dei modi, soprattutto in questi tempi di grande crisi economica che ha messo in ginocchio famiglie e società. Paola Di Loreto è risultata la consigliera che ha avuto più voti di tutti, 21. Nicoletta Di Florio, con 20 voti, è stata la più votata per la lista dell’opposizione “Amicizia e partecipazione”. Su 226 aventi diritto al voto ben 118 sono state le donne (pari al 52%) che si sono recate alle urne, mentre gli uomini si sono attestati a 108 (pari al 47%). A questa ampia affermazione delle donne sul piano politico amministrativo, bisogna aggiungerne altre due che detengono invece il “comando” sul piano sociale, umanitario e ricreativo: Marisa Teti è la stimata presidente della locale sezione dell’Avis, mentre Mara Di Francesco gestisce con generosità e competenza la Pro Loco formata a sua volta in gran parte da donne. Occorre poi ricordare che sono sempre donne le principali imprenditrici: Pina Lucci, l’amabile maestra dell’arte del pane, e Monika Mazurkiewicz., titolare del bar e generosa sponsor di varie attività culturali e ricreative. Le donne sono dunque gli “angeli” che vigilano e governano su Pennadomo e gli uomini a loro si affidano ciecamente e nelle loro mani ripongono completa fiducia e la speranza affinché il paese diventi una vera comunità, smussando e limando le molteplici divisioni che generano solo rancori e sterili contrapposizioni che non conducono da nessuno parte. Ed ecco ora il quadro riassuntivo dei risultati delle amministrative del 26 e 27 maggio 2013 con i relativi voti delle liste. I pennadomesi aventi diritto al voto, erano in tutto 420, di cui 161 residenti all’estero, per cui hanno votato solo 226 persone, vale a dire il 53 per cento, una media che si attesta su quella nazionale e che denota una forte disaffezione dei cittadini per la politica in genere. La lista vincente “Insieme per Pennadomo”, con Antonietta Passalacqua candidato sindaco, ha riportato 106 voti (pari al 46% dei votanti). La lista “Amicizia e partecipazione”, con Francescantonio Brignola candidato sindaco, ha raccolto 90 voti (pari al 39% dei votanti). La lista “Con Pennadomo”, con Domenico D’Angelo candidato sindaco, ha racimolato 23 voti (pari al 10% dei votanti). La nuova giunta si compone ora di 4 consiglieri della maggioranza: Paola Di Loreto 21 voti, Tullio Piccone 18 voti, Antonio Piccone 17 voti e Stefano Pantalone 16 voti. Mentre per l’opposizione risulta eletta la sola Nicoletta Di Florio 20 voti. Sul palazzo comunale di Via Maiella penderebbe, come una spada di Damocle, un ipotetico rischio commissariamento. Infatti l’opposizione “Amicizia e Partecipazione” ha presentato un ricorso alla prefettura di Chieti e al ministero dell’Interno contro la presunta irregolare rielezione del primo cittadino che sarebbe, a loro dire, al suo terzo mandato, mentre la legge ne consentirebbe solo due consecutivamente. Ma la Passalacqua non demorde e prepara un suo controricorso (vedi intervista qui sotto) . Purtroppo la sede comunale Via Maiella, negli ultimi venti/trent’anni, non è sempre stata un simbolo di concordia e di unità per il paese (del resto non lo era stata nemmeno quando stava in Via San Nicola). E’ stata al contrario, a volte, simbolo di disunione, di nascenti e crescenti e odi e rancori tra le opposte fazioni politiche che si rispecchiano poi anche nella ristretta vita sociale di tutti i giorni. Un esempio concreto di quanto sopra affermato, si è visto alle amministrative del maggio scorso dove sono state presentate ben 3 liste (più una di disturbo del tutta estranea al paese) l’una contro l’altra armata. La posta in palio è ghiotta, l’occupazione del palazzo comunale, ma tre liste in un paese piccolo come il nostro con soli 226 elettori, sono francamente troppe, anche se, in teoria, sono il frutto di una ricchezza democratica sancita dalla Costituzione. E ironia della sorte le tre liste contrapposte hanno presentato per simbolo parole e slogan ecumenici che farebbero pensare ad un ipotetico paese delle meraviglie: “Insieme per Pennadomo”, “Uniti per Pennadomo” e addirittura “Amicizia e partecipazione”. E’ evidente che queste liste hanno una visione molto filosofica e platonica dei suddetti termini senza averne, peraltro, una approfondita conoscenza semantica: “insieme”, “uniti” e “amicizia”, significano esclusivamente unione, visione comune, ideali e realtà condivisi. Ma poi all’atto pratico, in caso di vittoria dell’una o dell’altra lista, tutto viene disatteso con le solite spaccature, vendette minacciate e aride divisioni che, come l’araba fenice, si rigenerano in continuazione da una giunta comunale all’altra. Eppure la piazza principale del nostro paese ha un nobile nome di tutt’altro tenore, “Unione”, che dovrebbe essere preso da tutte le amministrazioni a simbolo, al di fuori delle ideologie politiche e sociali: creare e consolidare una vera comunità, fare una “com-unione” laica, sull’esempio di quella religiosa che si celebra in chiesa. Ed è anche per queste ragioni di vivere e sperimentare momenti di condivisione, di comunione di ideali e di valori, che la Piazza dell’Unione sarà al centro della manifestazione della giornata evento in memoria dei martiri della Brigata Maiella, i “nostri fratelli maggiori” come li ha definiti un nostro paesano, i quali con il loro eroico sacrificio a Pizzoferrato hanno dato prova di essere più che mai uniti nell’amare generosamente la Patria e il proprio paese, donando perfino la loro vita senza mettere in atto sterili ed egoistici tatticismi politici. L’origine storica del nome “Pennadomo” Ripubblichiamo integralmente il primo articolo sull’origine storica del nome di Pennadomo EDITO nell’aprile del 1977 sul nostro giornale e con il quale rivendichiamo il diritto di primogenitura contro eventuali plagi e ricopiature senza citare la fonte e l’autore. Tentare di ricostruire l’origine del nome Pennadomo non è stata un’impresa facile, tuttavia con alcuni validi elementi storici cerchiamo di dare una spiegazione logica al nome stesso. Gli elementi raccolti sono molto pochi ma già di per sé molto importanti perché un paese piccolo come il nostro ha una sua origine storica ben documentata. Per prima cosa bisogna capire che il nome Pennadomo è composto da due parole: Penna e Domo. Su queste due parole è tutto il significato etimologico dell’origine del nome del nostro paese. Sulla parola Penna non ci sono contrasti e dubbi per il suo significato, mentre le interpretazioni di Domo sono diverse e discordanti. Nei vari documenti e citazioni storiche consultati la parola Penna risulta sempre identica (a differenza di Domo che varia). Nell’etimologia geografica il termine “penna” vuol dire: cima, vetta, sommità, roccaforte. E’ un termine molto appropriato alle rocce che svettano sopra le nostre case. Il punto discordante è Domo. Su questa parola gli stessi documenti storici, di cui si citano qui sotto i più importanti, sono spesso discordanti. “Penna de Domo” è scritto nel “Rationes decimarum Aprutium Molisium” (“Clerici castra Penna de Domo”), lo stesso libro, per quanto riguarda le decime che le chiese di San Nicola e di San Lorenzo pagavano nel 1324-25, dice Penna de Homine. Nel “Justitieriatus Aprutii”, risalente attorno al 1300, è scritto “Penna de Homo”. Il “Dizionario ragionato del Regno di Napoli” del 1804 scrive “Penna de Domo”. Nell’archivio parrocchiale il documento “Stato delle anime della parrocchia di San Nicola” del 1888 scrive indifferentemente Pennadomo, Pennad’homo, Penna d’homo, Pennad’uomo. Come si vede c’è una gran confusione sul secondo termine, e fino a quando non è stato consultato il “Chornicon Vulturnese” si era indicesi sul motivo per cui le scritture erano così varie e che davano di volta in volta un significato diverso al nome del paese. Il “Chronicon Vulternense”, del monaco Giovanni, è la cronaca degli avvenimenti e dei possedimenti dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno. Il Chronicon, che fa anche parte delle serie di documenti per la fonti della “Storia d’Italia” raccolti da Ludovico Muratori, non solo è più preciso, ma è anche il più antico dei documenti finora citati. E’ da premettere che nel Chronicon (tutto scritto in latino) non vi è nominato Pennadomo, ma è importantissimo per dare una spiegazione al termine “Domo”. Nel marzo del 944 (documento 100) il Chronicon dice che il pontefice Marino II conferma all’abate Leone di San Vincenzo al Volturno, la proprietà dei possedimenti di vari monastri, tra i quali quello di Santa Maria in Palena che è così descritto: “Monasterium Sanctae Mariae in Palene, territorio Domo”. Il documento 117 del 968 scrive che l’imperatore Ottone I a richiesta dell’abate Paolo conferma al monastero di San Vincenzo i precetti di Desiderio, Carlo Ludovico e Lotario con i vari monasteri, e per distinguere il monastero di Santa Maria di Palena scrive: “Monasterium Sanctae Mariae, quod constructum est in Palena, territorio Domo”. I monasteri intitolati a Santa Maria era diversi e per distinguerli l’uno dall’altro si apponeva sempre il territorio in cui sorgevano, per questo il Chronicon parla del monastero di Santa Maria in “territorio marsicano”, “in territorio firmano”, “in territorio teatino” e “in territorio Domo”. Inoltre il documento 133 del giugno 958 rileva che l’abate Paolo concede a diversi signori appezzamenti di terra per la durata di dieci anni “que habemus in Domo culta finem habet: ex una parte rivus, ex alia parte finem via publica” (che possediamo coltivati nel territorio Domo, ha per confini da una parte il fiume e dall’altra la via pubblica). E’ dunque evidente che esisteva una zona geografica ben delimitata che si chiamava Domo. Ed ora è facile dedurre l’esatto significato del nome Pennadomo, che vuol dire: Penna nel territorio di Domo. Ecco perché il nome più antico del nostro paese finora scoperto è quello che si legge nel “Rationes decimarum Aprutium Molisium”, è “Penna de Domo”. Quel “de Domo” serve per distinguere geograficamente il termine “Penna”, che intorno all’anno Mille era una parola usata frequentemente. Nel già citato “Justitieriatus Aprutii”, un documento storico risalente a Federico II importantissimo anche perché per la prima volta l’Abruzzo viene descritto in ogni sua singola parte e coincide approssimativamente con l’attuale regione, sono citati diversi paesi o castelli che hanno a che vedere con il termine “Penna”. Infatti si legge di “Lapenna”, “Furca de Pennis”, “Penna Lucis”, “Fara in Pinne”, “Pennapedemontis” e naturalmente “Penna de Homo”. Quindi per distinguere la nostra “Penna” da tutte le altre si aggiungeva “de Domo” (a parte alcuni errori di scrittura onomatopeici, ndr) cioè il territorio di Domo: da qui il nome Pennadomo. Esiste un altro solo paese dalle nostre parti che termina in “domo” e questo, guarda caso, è proprio Montenerodomo, perché anch’esso come Pennadomo, sorge nella zona geografica descritta nel “Chronicon Vulternense”: “Que habemus in Domo culta finem habet: ex una parte rivus, ex alia parte fine via publica”. pagina 15 - pennadomo notizie Le promesse e i progetti del rieletto primo cittadino a cominciare dal recupero urbanistico Antonietta: “Premiata la mia coerenza” Spiccano i campi fotovoltaici, la raccolta differenziata porta a porta. Solenne impegno per onorare degnamente i nostri tre giovani patrioti della Brigata Maiella morti da eroi nella cruenta battaglia di Pizzoferrato Salvo ricorsi e controricorsi, Antonietta Passalacqua, nata a Torricella Peligna 56 anni fa, sposata con Antonio Di Francesco da cui ha avuto tre figlie: Lorena, Emanuela e Anna, e nonna di 3 nipoti con un altro in arrivo, amministrerà il palazzo di Via Maiella per i prossimi 5 anni. Il suo programma elettorale aveva molte proposte interessanti e si spera che vengano mantenute se non tutte almeno per la maggior parte. Ed ecco l’intervista che la Passalacqua ha rilasciato a “Pennadomo notizie” pochi giorni dopo la sua riconferma. Quali sono stati i motivi fondamentali per cui i cittadini ti hanno concesso ancora la fiducia? “La coerenza e il fatto di vivere la realtà di Pennadomo sempre al fianco dei cittadini. Il comune non è molto frequentato, tranne che per pratiche burocratiche e amministrative, o servizi sociali. Per cui mi trovano o li incontro per strada, parliamo in qualsiasi luogo, al bar, in chiesa: c’è con loro un dialogo continuo per migliorare la qualità dei servizi offerti che, anche in una piccola realtà come la nostra, si debbono creare le condizioni e le opportunità che consentono di vivere bene” Cosa pensi del ricorso legale dell’opposizione alla tua “terza” rielezione? “Non è una azione legale, perché questo ha un costo. Io non sono una sprovveduta, per cui mi sono già documentata prima di intraprendere questo “terzo” mandato, ma che per la legge non lo è. In quanto è vero che la mia prima elezione ha superato i due anni e mezzo, ma tra il primo ed il secondo mandato c’è stata una amministrazione commissariale, dal 10 marzo del 2007 alle elezioni dell’aprile 2008. Alle recenti amministrative del maggio scorso mi sono ricandidata non come un sindaco uscente, ma come un cittadino normale che fa una sua lista. Dicevo di non essere una sprovveduta e infatti sono andata prima da un legale a Roma che ha seguito simili casi e ci sono sentenze favorevoli a questo mio mandato che, ripeto, non è il terzo consecutivo, ma il secondo. Ci sono state interpretazioni sia del ministero dell’Interno che della Corte Costituzionale che mi hanno consentito di ricandidarmi, proprio perché non c’è stata consecutività. E’ la legge che mi ha quindi consentito di ricandidarmi, per cui ora la stessa legge non può dichiararmi ineleggibile, anche perché io non ho nessuna pendenza legale in corso che me lo potrebbe impedire”. Quindi caso mai la lista di opposizione “Amicizia e partecipazione” doveva fare un ricorso preventivo contro la tua candidatura? “Lo hanno fatto, ma la prefettura non ha trovato nulla di irregolare sia alla mia candidatura che alla mia lista. Loro pensavano di vincere eliminandomi dalla competizione elettorale, ma gli organi preposti non hanno dato nessuna risposta contro questa loro tesi, e in questo senso sono stata candidabile nel pieno rispetto delle leggi. E’ stata un’azione preventiva inutile. Ora hanno presentato un reclamo pure al comune: ma contro chi reclamano? Contro i cittadini che mi hanno rieletta?” Quali saranno i principali interventi dell’amministrazione sul recupero urbanistico del centro storico? “Sono principalmente tre: Via delle Starelle il cui riassetto potrebbe fare da stimolo ai proprietari di quelle casette, abbandonate, per riadattarle ad uso abitativo sfruttando anche gli incentivi statali attualmente in corso che arrivano fino al 65% della spesa effettuata; il progetto di recupero urbano ambientale ed artistico dell’antico quartiere di Santa Maria e un finanziamento di 150.000 euro per il recupero dell’ex scuola materna di San Lorenzo da destinarsi a struttura per ricettività turistica”. A proposito di strutture turistiche, cosa ne sarà di quella del lago? “Il progetto prevede l’impiego di 200 mila euro. Le strutture, realizzate dalle precedenti amministrazioni con enorme spreco di denaro pubblico, non si sono rivelate fino ad oggi un buon investimento, in quanto poi non c’è mai stata una saggia ed oculata gestione che è finita pure in mani poco raccomandabili”. Quali altri progetti intendi portare a termine nei prossimi 5 anni? “In cantiere ci sono opere per una migliore vivibilità ambientale, prima di tutto la raccolta differenziata porta a porta che dovrebbe iniziare nei prossimi mesi, e questo comporterà un risparmio sulla bolletta. La realizzazione di campi fotovoltaici: uno al cimitero che consentirà una produzione ed un utilizzo in proprio dell’energia elettrica, visto che è giunto alla scadenza il contratto con la ditta “Saie” che forniva l’illuminazione per le cappelle. L’altro campo fotovoltaico, ben più consistente rispetto a quello del camposanto, si dovrebbe realizzare nei pressi del bosco di San Leo per fornire “gratuitamente” la corrente elettrica alle famiglie residenti che ne faranno richiesta e per l’illuminazione ordinaria e scenografica del paese. Altra opera estremamente indispensabile e necessaria per i tempi moderni è quella di avere una veloce e certa connessione Wi-Fi con la rete Internet e l’installazione di una “webcam”, un occhio elettronico sempre acceso, notte e giorno, che permetterebbe ai non residenti, in Italia e all’estero, di vedere immagini in qualsiasi momento del proprio paese in tempo reale”. Vista la particolare configurazione del paese che ha nella maestosa pietra liscia di Santa Maria il suo manto protettivo che costituisce una spettacolare e irripetibile scenografia, ma al tempo stesso è un impedimento alla connessione Internet dato che la maggior parte dei ripetitori satellitari, televisivi e telefonici, sono installati a Monte Pallano, ben venga quindi la realizzazione della rete Wi-Fi (sperando che sia gratuita per i pennadomesi) per stare al passo con i tempi che cambiano velocemente per rimanere sempre aggiornati. Con l’avvento del Wi- Fi c’è da sperare che anche il Comune ne approfitti per creare un moderno sito Internet in modo che i cittadini possano dialogare in tempo reale con l’amministrazione per chiedere certificati vari ed avere risposte più rapide per i quesiti sottoposti, per lo più di ordine tecnico, finanziario ed anagrafico. Per ora fermiamoci qui, con i progetti futuri, che con la crisi economica in corso che morde, potrebbero creare solo delle illusorie aspettative. Ci sarebbe da parlare anche della realizzazione di una nuova piazza in Via Mazzini con la contemporanea costruzione sottostante di garage e la sua opera dovrebbe essere un ”project financing” (progetto di finanza), vale a dire si dovrebbe finanziare da solo con l’acquisto dei posti macchina mentre al Comune spetterebbe l’urbanizzazione (fognature, illuminazione sovrastante), ma appunto con la crisi che ci farà compagnia per non si sa ancora quanto tempo, questo progetto è destinato a rimanere a lungo nel cassetto dei sogni. Non è stato invece un sogno il positivo bilancio comunale del 2012 che si è chiuso con un avanzo di cassa di ben 40.138 euro, frutto di un’oculata amministrazione che ha visto le sue maggiori entrate nell’imposizione fiscale, pari a 458.058 euro, grazie anche al recupero di morosità pregresse riguardanti Ici-Imu, raccolta rifiuti e gestione acqua. Ma una domanda alla Passalacqua non possiamo non fargliela e riguarda la giornata della memoria per i nostri tre giovani eroi della Brigata Maiella morti a Pizzoferrato il 3 febbraio 1944 per la liberazione dell’Italia e di cui d’ora in poi non si potrà non tenerne conto in qualsiasi libro di storia di Pennadomo. Su questo argomento, che ci tocca tanto da vicini, il sindaco ha dato tutta la sua più ampia disponibilità, anche finanziaria, per onorarli degnamente, magari con un monumento ed altre importanti manifestazioni come quella in programma l’8 agosto con la “Giornata evento in onore della Brigata Maiella” che si svolgerà in Piazza dell’Unione. “Il progetto in onore dei martiri della Brigata Maiella mi entusiasma tantissimo, anzi dirò di più, per me si realizza un desiderio. Quando andavo alle manifestazioni con fascia e gonfalone, sentivo la mancanza di qualcosa che a Pennadomo doveva toccare di diritto: la medaglia d’oro al valore militare. Coloro che hanno combattuto fino a dare la vita per il loro Paese non devono essere mai più dimenticati. Il prossimo 8 agosto dedicheremo ai tre giovani patrioti l’edificio comunale con una targa marmorea commemorativa a futura memoria” Si sa che il potere genera invidie e maldicenze, non sei stanca di fare ancora il sindaco? “Ritengo che quando operi per una giusta causa, per la giusta causa non ti stanchi mai. Il sindaco non si fa stando seduti su una sedia o attaccati al telefono, bisogna muoversi, ed io mi muovo, vado in tutte le varie sedi istituzionali e riunioni con enti che contano: ci sono sempre per il solo bene di Pennadomo”. pagina 16 - pennadomo notizie Laura Di Renzo ci conduce alla riscoperta dei “dialetti” gastronomici Mangiare all’italiana, nutrirsi mediterraneo Dal 2011 la dieta mediterranea è entrata a far parte della lista rappresentativa del “Patrimonio culturale immateriale dell’umanità”. Come è a tutti noto la dieta mediterranea è un modello alimentare che racchiude nel suo interno una molteplicità di prodotti dal vino all’olio, dal grano al pesce azzurro, dalla gran varietà di frutta fresca a legumi ed ortaggi tipici fin dall’antichità di questa area geografica di cui l’Italia è il paese più rappresentativo. Questi ed altri prodotti costituiscono il cardine di quella speciale “strada del cibo” che l’Unesco ha riconosciuto come patrimonio dell’umanità. Se in prospettiva biologica il cibo è primariamente nutritivo che “serve a rifornire il corpo, a costruire ossa, denti e muscoli”, da un punto di vista culturale è peculiarmente linguaggio, sistema di pensiero, pratica sociale ed esperienza emozionale. A riguardo del “linguaggio” antropologico del cibo, l’Italia è la nazione nell’area mediterranea, che offre una maggiore varietà di “dialetti” e si connota per la sua speciale gastronomia del tutto distinta e peculiare. Una fisionomia che etichetta, ad esempio, il “dialetto” della cucina emiliana come grassa, la pugliese come saporita, la ligure come aromatica, la piemontese come formaggiera, la toscana come contadina, l’abruzzese come pastorale, la veneta come polentona, la campana come pastaiola e la calabrese come piccante. L’originalità di questi “dialetti” gastronomici, ha dato luogo ad un mosaico di piatti e di prodotti tipici a base di farro, cicerchie, caruselle, baccalà, prugnole, sarde, scapece, ecc., un tempo facenti parte della cosiddetta cucina povera, e in seguito rimossi nel periodo del boom economico degli anni sessanta del secolo scorso con il conseguente svuotamento degli spazi rurali e montani a favore di un inurbamento nelle grandi metropoli e il ricorso ad alimenti prodotti dall’industria e capace di assicurare conservabilità al cibo al di là dei tempi e dei luoghi di produzione. “Mangiare all’italiana, nutrirsi mediteranno” (sapori e pratiche alimentari tra cultura, salute e territorio) il nuovo libro scritto da Laura Di Renzo, dottoressa specialista in Scienza dell’Alimentazione, docente e ricercatrice presso l’Università di Roma Tor Vergata nella facoltà di Medicina e Chirurgia, non è il solito libro di ricette e di cucina che affollano gli scaffali delle librerie, ma è un trattato antropologico culturale del cibo e delle sue qualità nutritive, un modo diverso di confrontarci con gli alimenti e della loro utilizzazione. In pratica è un manuale salutistico che ci insegna a conoscere i cibi a 360 gradi, non solo per le loro qualità nutrizionali, ma anche i componenti bioattivi. La Di Renzo, che ha partecipato più volte come esperta della nutrizione anche in varie trasmissioni televisive di Raiuno come “La vita in diretta” con Mara Venier e “Occhio alla spessa” ed ha pubblicato numerosi articoli su riviste scientifiche nazionali e internazionali del settore, con questa sua nuova iniziativa editoriale, scritta in collaborazione con altri colleghi e professori universitari e pubblicata dalle edizioni dell’”Accademia italiana cucina mediterranea”, ci ricorda che la “dieta”, contrariamente a quanto si pensa, è un genere di vita, o meglio ancora uno stile di vita, collegato alla quantità e qualità di alimenti consumati abitualmente e che è diverso da una persona all’altra, ma per tutti dovrebbe costituire la base, il credo, del proprio stato di buona salute. La trasgressione allo stile di “Lu pajose mè”: il piccolo mondo antico del contadino Vincenzo Ranalli Pennadomo è un piccolo mondo antico, dove il tempo si è fermato, dove tutto scorre tranquillo, placido nei suoi dintorni, nei suoi solari paesaggi di pietre lisce, di acque dolci e rinfrescanti. Pennadomo è un piccolo mondo antico eletto a residenza dalla bellezza e dall’incanto dell’armonia del creato e che non si può non amare. Il piccolo mondo antico di Pennadomo è l’infinito di Vincenzo Ranalli. Contadino e poeta: una sintesi di vita, dove la poesia, apparentemente solo in età non più giovanile, è diventata, ora che non fatica più per le campagne portandosi dietro il suo asinello, l’essenza, la ragione della sua esistenza e del suo mondo, semplice e familiare, di tipo primitivo, ma fonte di certezze razionali e di meditazioni laiche. Pennadomo è per Vincenzo una visione quotidiana che si rigenera di stagione in stagione, ma che è sempre uguale a se stessa. Contempla, medita e trasmette i suoi sentimenti, simili a quelli degli innamorati, per condividerli con i familiari e con gli amici. E questa condivisione è la missione del suo esprimersi in poesia dialettale abruzzese. “Lu pajose me” è un idillio, una dichiarazione d’amore e di fede per Pennadomo con le sue visioni ancestrali nella luce solare e lunare di scenari apparentemente silenziosi, ma che invece declamano, forti e distinti, realtà materiali e idealizzate, fonte di infinita felicità. Vincenzo vuol far sapere a tutti che “lu pajose me è lu pajose ‘chiù bille di la vallaote, picchè la natiure ‘sta lescje balle l’ha criote”. Paragona la grande pietra liscia, che sovrasta e protegge come un manto prezioso Pennadomo, a ‘nu giuielle, la notte, ‘nghi li liùce appicciète pore ‘nu prisapie, lu jurre ‘nghi la liùce di lu saole, è angaore ‘chiù bille”. Mai dichiarazione d’amore fu così intensa e sincera per il proprio paese natale, per il proprio piccolo mondo antico. All’originale vena poetica, che si esprime con un dialetto antico e ormai desueto, anche nella scrittura, che molti oggi fanno fatica a comprendere, come le antiche lingue romanze, si accompagna una indistinta nostalgia per il tempo che passa, una amara meditazione sulla vita che ha intrapreso la curva dell’orizzonte verso l’occidente, quella del tramonto. La contemplazione passa dall’infinito materiale all’infinito del divino, dell’eterno. E “Lu pajose me” da idillio si trasforma in un lamento esistenziale: “Pajose mè acche so nate e so cresciute, tanda bène tè voliute, ti so tant’amate. Pocha jurre da saule tè lascjaote, ma mò vijcchie mi so faotte, pocha timpe mè rimaste, li jurr pi mè è cundaote”. L’animo desolato e angosciato ritrova tuttavia coraggio per una preghiera di ringraziamento, come quelle che si recitano la sera prima che ci si addormenti, ma non davanti all’immagine di un santo, o di Padre Pio o di una Madonna, ma di fronte alla maestosità della santità delle pietre di Pennadomo che Vincenzo porta da sempre dentro di sé: “Praste ti laoscje, tiù scj bille ‘mbaocce a sta lescje aringimete. E ‘nghi tò cundiende ci so staote, ta ringraozje di quelle che mi daote”. Il piccolo mondo antico di Pennadomo, al quale il rimatore rurale pur nella sua semplice povertà letteraria, ha voluto tanto bene come ad una donna amata e mai tradita con un’altra amante e da cui si è diviso solo raramente, ora diventa il preludio del divino immanente e avverte già la presenza di un “altro” pajose me che vorrebbe in tutto simile a quello dove “si vè saupre a la pranette di Sanda Marè e sije tutte chi li schele, e si è ‘na bell’jurnate da ‘ngieme, pure lu mare pù vedò”. Ritorna alla fine in Vincenzo la serena visione di quel sereno distendersi tra l’immensità delle pietre lisce del pajose me, il più bello della valle del suo eden, che è il suo mondo, il suo pensiero, la sua poesia e la sua vita rurale e che aleggerà per sempre nel suo spirito come la voce del vento. Laura Di Renzo vita, infatti, potrebbe generare patologie varie. Ed è proprio per questo stile di vita all’insegna del benessere che si dovrebbe sempre tenere a mente, che Laura Di Renzo, nel riproporre le ricette regionali della sapiente tradizione culturale-gastronomica regionale, oltre agli ingredienti e ai tempi di preparazione, ci propone pure un quadro riepilogativo del “Contenuto in energia e nutrienti della pietanza per porzione” che comprende: kilocalorie, indice di qualità nutrizionale, indice di qualità lipidica, indice di trombogenicità, contenuti di proteine animali, di proteine vegetali, di fibra e, assoluta novità, l’indice di “Adeguatezza Mediterranea” con il relativo punteggio. Il libro è nel suo insieme una ricca antologia di cultura gastronomica mediterranea di cui ripercorre le origini fin dall’antichità e di ogni cibo propone una didascalica scheda organolettica alla portata di tutti. Per quanto riguarda il “dialetto” gastronomico dell’Abruzzo, in “Mangiare all’italiana, nutrirsi mediterraneo”, la Di Renzo ha scelto le seguenti ricette con i relativi ingredienti, tempi di preparazione e indici nutrizionali: “Agnello incaporchiato”, “Alici sperone”, “Baccalà alla griglia”, “Cardone in brodo”, “Cavolo strascinato”, “Ceci allo zafferano”, “Crudo di calamaretti”, “Guazzetto alla pescarese”, “Minestra di ceci e castagne”, “Pallotte cace e ova” e “Pizza e ‘ffoje”, queste ultime due ricette sono state riprese dalla tradizione culinaria contadina di Pennadomo. Lettere al giornale Caro Ottavio, quando ho ricevuto la tua e-mail sono stato sorpreso da un duplice sentimento. Il primo è stato di gratitudine e di apprezzamento nei tuoi riguardi per avere, seppure con tanto ritardo e non certo per colpa tua, rimediato ad una colpevole mancanza che pesa sulla coscienza di tutti noi di Pennadomo, l’altro di gioia. La gioia di rendere giustizia e onorare, finalmente, quei meravigliosi giovani che, più di ogni altro nostro concittadino, hanno onorato il nostro paese. Quel giovane sangue versato ha fertilizzato e nutrito una democrazia che allora era nella mente e nel cuore, solo dei più forti e più giusti degli italiani. Lorenzo, Luigi Donato e Nicola erano fra Questi. Oggi che spesso ci tocca assistere a tentativi di orrendo revisionismo storico, che vuole accomunati sullo stesso altare chi sacrificava la propria vita per la libertà e la dignità di tutti, con chi difendeva la tirannide, il sopruso e il privilegio di pochi, la tua iniziativa mi sembra più che mai giusta e opportuna. A volte penso che se i nostri giovani avessero immaginato l’uso che avremmo fatto della libertà e della democrazia, se avessero saputo del disprezzo per le istituzioni, che negli ultimi tempi ha raggiunto picchi inusuali, persino nel nostro paese, forse quel tremendo mattino di inizio febbraio non avrebbero mai dato inizio alla scalata del lo ro Calvario. Spero e auguro che la tua iniziativa abbia il successo che merita. Nicola Di Gravio Caro Ottavio, ho riletto i tuoi articoli ed eccomi qui a risponderti. Quando tempo fa go ricevuto la tua telefonata, immagina la mia sorpresa: una “voce”, la tua, che mi chiedeva e più che altro mi raccontava le vicende della Brigata Maiella e di mio padre Nicola... Inutile negare la mia meraviglia, stavamo parlando di fatti in buona parte a me sconosciuti e di aspetti della vita militare di mio padre che non sapevo, visto che è sempre stato riluttante a raccontare e raccontarsi, motivando che si trattava di cose tristi e ricordandomi che la mia è una “generazione fortunata” in quanto non ha conosciuto la guerra... ma questi sono ricordi. Elio De Ritis pagina 17 - pennadomo notizie “Anima divelta” un diario di vita interiore storicizzato nel tempo Il “mal di vivere” di Maria Lucci “Barche immobili nell’immobile meriggio. Il vento culla le loro vele, in attesa, orientate al silenzio...” Maria Lucci insegna Lettere al liceo scientifico per le scienze applicate J.Von Neumann di Roma. Ha collaborato con le case editrici scolastiche Mondadori Education e Zanichelli La scoperta delle poesie di Maria Lucci raccolte in “Anima divelta” (Rupe Mutevole, 2011) è avvenuta per caso e già ad una prima lettura mi ha colpito per la sua apparente semplicità classica ma al tempo stesso per il suo profondo significato del mistero primitivo delle parole. L’antologia l’ho divisa, ma solo per comodità e brevità letteraria, in due momenti di vita: il viaggio e la sofferenza umana o il “mal di vivere”. Ma i temi di riflessione che scaturiscono dalla lettura di “Anima divelta”, non si esauriscono qui, ognuno ne può cogliere altri, come in un caleidoscopio dalle infinite sfaccettature intimistiche, letterarie e riflessive. Non a caso “Anima divelta” si apre con “Fuga” e si chiude con “Vele”, inframmezzate da tanti approdi, da molteplici ripartenze, da inviti al viaggio, da ritorni, da isole reali come “Itaca” o immaginarie, da albe adriatiche o aurore greche, da città visitate e vissute con uno sguardo insolito, vedi “Assisi” di cui coglie l’essenza mistica della povertà di San Francesco “dal cuore questuante”, o l’incontro con i “Pastori dell’Ellade”, “viandanti spogliati delle comuni incertezze affondano il dubbio nelle acque piovane dei pozzi della nostra malinconia”. Ma è “Itaca” l’isola del ritorno, dove ritrovare la propria identità, dopo un lungo viaggio con il mare in tempesta, che ha forgiato il navigante, arricchendolo di nuove esperienze. Ad Itaca il ritorno non è sempre alla portata di tutti, il viaggio riserva insidie e pericoli inaspettati. Solo chi resiste agli infiniti pericoli del mare e dei sogni ingannevoli, riesce a raggiungere il momentaneo o perenne placido approdo. Lungo il viaggio di ritorno per Itaca, come ci ricorda il poeta greco Kafavis, non bisogna temere o aver paura di scontarsi con l’ira cieca dei Ciclopi, o con le trame sensuali di Calipso e Circe. Sono pochi o inesistenti i momenti di calma del viaggio. La paura di affondare senza ritorno tra i gorghi di Scilla e Cariddi, ti avvolge e ti incute terrore e genera angoscia e ti scoraggia e ti riempie di dubbi. Ci si salverà da tutte queste sventure solo se non le portiamo dentro di noi, solo se non ci mettiamo contro di noi stessi, solo se siamo posseduti da un sentimento forte e deciso della destinazione, dell’approdo che, un bel giorno, ci ripagherà dei tormenti e delle sofferenze anche fisiche, non solo morali. Ed eccola la nostra Itaca, l’Itaca di Maria Lucci, che ci accoglie con la “voce del mare canto assordante di cicale; null’altro tra i verdi selvatici cipressi a raggiungere l’azzurro; l’orizzonte è lì, un’attesa, un vuoto a riempire, un domani da allevare”. Rientra ad Itaca “un battello con il suo carico di fatica”, e “offre il vento all’anima divelta una sosta sui muri ancora caldi di scirocco”. E dopo un tempo indefinito di assenza da Itaca l’approdo tanto atteso può riservare un senso di smarrimento o di estasi: “passi arditi nel buio incespicano risalgono il vuoto del pensiero quando al di là del cuore nulla sembra orientarci; oggi i sentieri si confondono e l’orizzonte non è più”. E’ qui, nella tua Itaca, nella tua patria, che il tuo viaggio approda nella gioia ultima, e s’innalza al di sopra del dolore sopportato lungo la rotta del ritorno. Ma Itaca, in Maria e in noi, non è solo l’isola del ritorno, l’isola di indomiti fanciulli di mare, dell’emigrante che ritrova la sua casa paterna, gli affetti di una donna, una famiglia che non ha potuto godere in pieno, è l’isola con “le barche immobili nell’immobile meriggio”, è l’isola della ripartenza. Quelle barche che ci hanno riportato ad Itaca, non sono state ormeggiate definitivamente al porto con funi che resistono alla salsedine o ai flutti impetuosi delle onde, sono invece lì con il “vento che culla le loro vele, in attesa, orientate al silenzio”, cioè orientate verso un nuovo orizzonte forse non lontano, a portata di mano, “come la lievitante nostalgia di chi fece l’uomo”. La poetessa ci dice che è di nuovo arrivata l’ora di rimettersi in viaggio, “l’indistinto orizzonte lentamente si apre un nuovo varco”, è di nuovo il tempo di un “nuovo vuoto a riempire, un altro domani da allevare”, e che ci spinge a esplorare un’altra Itaca, di riprendere il viaggio a ritroso, quasi alla ricerca di un passato, di un “tempo perduto” nel quale si è vissuto momenti che ora si rimpiangono e di cui forse non si comprende più il senso. Si riparte quindi per crescere intellettualmente e ampliare ancora di più il patrimonio di conoscenze. Maria riassume con queste riflessioni intimistiche del viaggio, che forse ci illudiamo di compiere, ma in realtà ci vuol dire che il viaggio è sempre intorno e dentro di noi per meglio conoscerci. Come già ci suggeriva Socrate con la sua massima filosofica “conosci te stesso” e che la nostra poetessa la riassume con questa profonda similitudine: “Come un bastimento, in cerca di ritorno, dove attraccare, è il mio cuore”. La sofferenza umana, o il “mal di vivere” L’altro tema affrontato da Maria è “il mal di vivere”. E’ il problema della sofferenza dell’uomo innocente, la sofferenza del Giobbe biblico, sofferenza senza colpa, la sofferenza morale che rimane un mistero. Sofferenza e dolore sono termini sinonimi, tuttavia essi hanno sfumature diverse: il dolore è soggettivo in quanto è la percezione di una lesione fisica, la sofferenza è oggettiva poiché è la percezione di una lesione che riguarda la personalità e non è una condizione eccezionale dell’esistenza, ma coincide con il sentimento umano del vivere. Anche nelle poesie della nostra poetessa si riscontra la “malinconia”, vale a dire la convalescenza dell’anima, che a differenza della tristezza, è un sentimento complesso, ambiguo, una sofferta tensione spirituale che ti fa sentire al tempo stesso dolcemente fuori della vita, e tuttavia dentro le viscere dell’esistenza, dove angoscia e desiderio si mescolano. La malinconia è uno stato d’animo e appartiene al vissuto, alle sensazioni ed esperienze individuali. Nello spirito malinconico regna un’atmosfera di silenzio e di quiete, come nel crepuscolo, nel vespro, che annuncia la fine del giorno ma c’è ancora la luce sia pure velata dalle prime ombre della sera: è il momento in cui si assiste ad una apparente visione di immobilità. “L’orizzonte è lì / un’attesa / un vuoto a riempire / un domani da allevare./ Barche immobili / nell’immobile meriggio. / Il vento culle le loro vele / in attesa orientate al silenzio”. In questi versi, sempre da “Itaca”, per Maria lo spazio, l’orizzonte nel meriggio immobile, è uno spazio enigmaticamente vuoto, e solo apparentemente desolato, segna un tempo sospeso, bloccato, immoto, suggerisce un tempo “altro”: vale a dire l’assenza di un tempo, “la divina indifferenza” di Montale negli “Ossi di seppia”. E’ il “taedium vitae” di Lucrezio, la “tranquillitate animi” di Seneca. Anche quando in “Notturno” Maria dice che “il presente grecato / edulcora l’o- rizzonte / ma il cuore spaesato / da inerziali latitudini / espianta l’assenza / che frange l’onda della vita / quando la morte / declina / la sua cesura eterna” manifesta il suo “mal di vivere” la sua sofferenza interiore che è nelle cose e in tutto il creato. Pure in “Tardo agosto” si tocca quasi con mano la sofferenza che genera dolore e infelicità nell’impossibilità di “decriptare una nuova geografia del cuore”, poiché il tardo sole d’agosto, nell’ora del crepuscolo, “oltre le spaesate fogge, l’ombra nitente, avamposto del nulla, narra ciò che resta del vissuto, atteso e già ipotecato, perché nella prossima stagione, i gerani tornino a infiorettare i davanzali”. “Il mal di vivere” , questa sofferenza interiore, non sempre facile da decifrare e dall’origine incerta, non è in Maria Lucci fine a sé stessa, né è intrisa di pessimismo, ma è il calore, il fuoco, il cibo, che mantiene in vita il suo animo e la sua creatività: soffrire è conoscenza. La conclusione di questa breve digressione letteraria sulla creatività della nostra poetessa, che fa tanto onore a Pennadomo, è che “Anima divelta” descrive un viaggio di grande raffinatezza nella memoria individuale, è un percorso interiore, riflessivo. Lo stato psicologico si traduce con immagini di scabra essenzialità e musicalità. La tensione poetica viene allentata dal ricorso ad elementi colti e didascalici della cultura ellenistica con sapienti mediazioni all’intimismo nitido ed essenziale, tesi a definire una realtà non trasognata quando parla di se stessa e delle proprie emozioni, e dove la poesia fa da stimolo allo scavo nel ricordo e nella coscienza, fino a rappresentare la complessità della vita reale, “mal di vivere” compreso. “Anima divelta” è un diario di vita interiore, storicizzato nel tempo, proprio come la pensava Baudelaire, secondo cui la “poesia è ciò che vi è di più reale”. Ottavio Di Renzo De Laurentis Itaca Voce del mare canto assordante di cicale. Null’altro tra i verdi selvatici cipressi a raggiungere l’azzurro. L’orizzonte è lì, un’attesa un vuoto a riempire un domani da allevare. Barche immobili nell’immobile meriggio. Il vento culla le loro vele in attesa orientate al silenzio. Rocce a picco ostili riluttanti alla presa. Un gallo chiama il giorno. Sospeso tra il geranio e gli ulivi Pietre seccate spaccate levigate dal mare, dal vento, dall’uomo. Eppure lievi come la lievitante nostalgia di chi fece l’uomo. pagina 18 - pennadomo notizie “Pennadomo scenario di pietra” è una summa di atti catastali e notarili di grigie baronie Un libro algido senza vita e senza “storie” L’autore si appropria della definizione dell’origine del nome di Pennadomo ricopiandolo da un nostro articolo pubblicato nell’aprile del 1977. La Storia si fonda e si sviluppa sulla vita “reale”, tanto è vero che per gli antichi la Storia era maestra della vita, come affermava Cicerone, in quanto ogni storia è storia del pensiero, elemento distintivo delle persone. Il filosofo latino Seneca si chiedeva: “Che storia sarebbe la Storia, senza le Storie?”, cioè senza la storia delle persone che sono le vere protagoniste della Storia? La storia della civiltà della vita delle persone è dunque la più nobile di tutte, più dei reperti archeologici o di civiltà sepolte. E tutto questo, vale a dire la storia della civiltà di Pennadomo, è assente nel libro di Lucio Cuomo dove le persone hanno un ruolo marginale, privilegiando al contrario noiosi atti catastali e notarili. “Pennadomo scenario di pietra” (Casa Editrice Tabula srl, Lanciano, 2011), edito in collaborazione con il Comune, ignora completamente la drammatica partecipazione dei pennadomesi nelle due guerre mondiali e il contributo dato nella lotta di liberazione d’Italia dal nazifascismo principalmente nella battaglia di Pizzoferrato il 3 febbraio 1944. Forse non era questo l’intento dell’autore, più avvezzo a frequentare mappe onciarie, revele e reperti antichi di scarso valore archeologico, piuttosto che storie di persone reali che hanno lasciato un’impronta per la nostra storia di pennadomesi di cui essere orgogliosi. Una desolante solitudine Per queste ed altre ragioni il libro è algido, privo di qualsiasi scenario di civiltà di vita reale, ma solo di pietre e di povere proprietà fondiarie che passano da un famelico barone ad un altro, da un ingordo feudatario ad un altro, da una mediocre servitù ad un’altra. Un libro di storia, al contrario, è anche il racconto di Storie di relazioni fra persone, di incontri-scontri con altre realtà vicine e lontane, di economia, di politica, mentre qui Pennadomo è considerato soltanto nella sua desolante solitudine, nel suo relativismo minimalista, come se fosse vissuto in un deserto geografico, culturale, economico e sociale, esistente solo come preda di piccole e sordide baronie, di dispute tra grigi agrimensori e gretti esattori. Le vicende descritte dal Cuomo saranno, caso mai, delle ridondanti cronache copia e incolla di avvenimenti catastali che con la civiltà e la storia delle persone hanno ben poco a che vedere, e che poco o nulla aggiungono alla storia di Penna- domo già in nostra conoscenza. La scrittura peraltro non è scorrevole, ricalca il freddo linguaggio notarile e bancario; manca la piacevolezza del racconto, componente essenziale per lontane vicende storiche per di più di scarso valore; assenti i raccordi e i legami tra un avvenimento ed un altro, i perché di quell’evento, e quando ci sono non sono approfonditi a sufficienza. La componente di partecipazione, o identificazione, emotiva degli algidi fatti descritti, è del tutto assente nel lettore pennadomese che non vi trova nessun avvenimento storico o personaggio di cui andare fieri. Si fa apprezzare il volume solo per i paragrafi che riguardano i cognomi, che in gran parte rispecchiano gli attuali, e la toponomastica delle campagne, ma senza indicare peraltro la localizzazione geografica delle stesse con una mappa didascalica: ad esempio dove si trovano la Pantera, le Casarine, o le Grascedere? Eccessivo ricorso al copia e incolla In questo ambito di totale ridondanza di documenti e di profonda noia ci sono non meno di 300 pagine su un totale di ben 390. Interessa forse a qualcuno, ad esempio, leggere le superflue dispute per la successione dell’eredità di Sinadoro Paglione che nel 1740 ricavava dal feudo di Pennadomo un po’ di salme di vino e l’affitto di alcuni terreni o di case diroccate? Interessa a qualcuno leggere le decine e decine di pagine scritte per lo più in latino di grigie eredità feudali o baronali? Come quella di circa 40 pagine dedicate agli Annechino? La mancanza di logica nell’eccessivo ricorso al “copia e incolla” di tanti inutili documenti notarili e onciari, si denota anche nell’assenza di traduzione corrette in un italiano leggibile e comprensibile di vari testi in latino, per non parlare dell’assenza totale di sintesi. Clamoroso a questo proposito è la riproduzione della pergamena del 1535 conservata nel Comune e scritta in latino e in parte anche in spagnolo inerente la famiglia Colonna: se è un documento storico di primaria importanza, come si vuol far credere per Pennadomo, come mai non è stata proposta nessuna traduzione corretta e integrale? Ma forse è meglio lasciare quel documento nelle ombre misteriose della lingua latina, altrimenti ci sarebbe stato il rischio di incorrere in traduzioni approssimative ed inesatte, come quella di pag. 27, dove traducendo un testo di Plinio il Vecchio sulla descrizione dell’Abruzzo nell’antichità, la città di “Histonium” diventa Istonio, quando è risaputo da tutti che “Histonium” non è altro che Vasto (come “Anxanum” è Lanciano). “Dare a Cesare quel che è di Cesare” Il Cuomo inoltre nel cercare di una dare una sua spiegazione sull’origine del nome di Pennadomo, cita anche il sottoscritto a pag. 42, tra coloro che per primi ne hanno individuato l’esatta terminologia. Ma a parte la data sbagliata nella citazione 1971, invece che 1977 quando ho scritto l’articolo e di cui gli avevo spedito una copia, mi corre l’obbligo di ricordargli che sono stato il primo a citare il “Chronicon Vulternese”, senza il quale si brancolerebbe ancora nel buio per spiegare il toponimo del paese. E poi si appropria della definizione del nome di Pennadomo così come l’avevo sintetizzato nel 1977 sul giornale di Pennadomo. Scrive il Cuomo: “Pertanto si può tranquillamente affermare che il termine Pennadomo identifica una Penna che è sita nel territorio Domo”. Ed ecco quanto scrivevo io a conclusione di un ragionamento logico storico: “A questo punto è facile dedurre l’esatto significato del nome Pennadomo, che vuol dire Penna nel territorio di Domo”. E’ vero che il Vangelo dice che “nessuno è profeta in patria”, ma afferma pure che “bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare”, per cui l’esatta e primigenia storica definizione del nome di Penandomo è opera del sottoscritto giornalista pennadomese. Tesi precostituite, supponenza e verità assolute Nel capitolo dedicato alla chiesa di Santa Lucia al Tutoglio, scrive l’autore a pagina 322 che tra “le varie leggende che si raccontano a Pennadomo, la più interessante e circostanziata è certamente quella relativa a S. Lucia” e cita E. D’Ambrosio il quale racconta ne “La vita audace” del 2003 che, durante “la guerra di Federico II contro Tommaso da Celano, nel 1221, l’imperatore si fermò a Tutoglio e vi fondò una chiesa, dedicata a S. Lucia, il cui culto era molto vivo in Sicilia”. Tutto ciò che D’Ambrosio scrive è ricopiato da un mio articolo scritto il 30 luglio 1985 per “Il giornale d’Italia” dal titolo “Pennadomo: un’antica riserva di caccia di Federico II di Svevia”. Strano che il Cuomo così scrupoloso nello scovare atti notarili e catastali del lontano passato, non abbia fatto un’attenta ricerca sull’origine di quello che peraltro lui, e solo lui, definisce leggenda. E la sua confutazione non è per nulla convincente per una sua tesi precostituita (si vedano le arbitrarie e surreali argomentazioni dubitative di una chiesa dedicata a S. Lucia contro la secolare “vox pupuli” e smentito da documenti storici), nel senso che è vero solo ciò che lui giudica storico e attendibile. Intanto gli ricordo che sbaglia data quando afferma che Federico II nel 1221, allorché era impegnato nell’assedio di Boiano e Roccamandolfi in Molise, ritornò in Sicilia perché gli era morta la moglie Costanza d’Aragona, la quale invece morirà un anno dopo nel 1222; l’imperatore vi fece ritorno per convocare una dieta a Messina per compiacere papa Onorio III e promulgare norme morali sulla vita pubblica. Quindi il Cuomo si cinge di supponenza irritante e di verità assolute che esulano dalla condotta di un vero storico, il quale non rifugge mai dal dubbio cartesiano, in quanto immagina che potrebbe esserci un documento, un indizio, una data che lui ancora ignora, e si fida ciecamente, come fosse Vangelo, solo delle mappe onciarie del regno di Napoli che sono state scritte ad uso e consumo dei famelici baroni. Ricordo che tutte le storie sull’origine di Roma raccontano di una lupa che allattò Romolo e Remo, e tutti sanno che è una leggenda, eppure non c’è libro sulla storia di Roma che non parli di questa famosa lupa e così pure del ratto delle Sabine. E allora chiediamo all’autore, che nessuno lo ha eretto a giudice, che ci lasci immaginare che Federico II sia venuto nelle nostre terre, partendo da tracce storiche ben circoscritte e documentate, come l’assedio nelle non distanti cittadine del Molise nel 1221, per la sua passione nel cacciare i falchi che numerosi nidificano sulle nostre “penne” e per la sua riorganizzazione amministrativa del 1233, in funzione della lotta contro il papa, della nostra regione con il “Justitieriatus Aprutii” con Sulmona capoluogo. Non è consentito quindi solo a lui immaginare, come fa, ad esempio, sulle presunte mura di Pennadomo e le sue supposte torri ivi esistenti, o sul fantasioso e contraddittorio sito (dentro o fuori le mura?) dove colloca la diruta chiesa del Peschio, oppure quando ricorre a frasi tipo: “c’è da supporre che...”, “allo stato attuale la documentazione non ha permesso di capire...”, “il luogo dove, probabilmente, era...”, e via dicendo. E’ lecito chiedersi quindi quali siano le sue credenziali scientifiche, accademiche e universitarie (di solito sono pubblicate nella terza o quarta pagina di copertina di un libro) per erigersi a severo giudice nell’affermare questo per me è originale e quello è leggenda o è un documento manipolato: concezioni assolutistiche che, ripetiamo, sono lontani anni luce dalla mentalità di un vero storiografo che si rispetti. O. D. R. D. L. Pennadomo Notizie, rivista di informazione per i pennadomesi residenti in Italia e all’estero. Direttore responsabile: Ottavio Di Renzo De Laurentis, Via San Nicola 7 - 66040 Pennadomo (Ch). [email protected] - [email protected] Progettazione grafica e impaginazione: Dario Campoli Stampa: Cimer, Via M. Bragadin, 12 - 00136 Roma Ringraziamenti: Antonio Piccone, Nicola Troilo, Cinzia D’Angelo, Stefano ed Elena D’Angelo, Patrizia e Raffaele Di Francesco, Alberto Fagnani, Assunta Di Renzo, Filomena Di Renzo, Nicola Di Gravio, Laurina Di Gravio, Elio De Ritis, Luisa De Ritis, Silvana Iezzi. pagina 19 - pennadomo notizie La “sagra della primavera” a Pennadomo: la “Passione” e l’Infiorata del Corpus Domini A Santa Maria un Calvario di incantevole bellezza Nicoletta Di Florio (la “Mater dolorosa”) e Antonio Berardinelli (il Cristo crocifisso) tra i protagonisti della “Passione”. Uno straordinario percorso religioso che si snoda per le vie del paese. Da tre anni a Pennadomo, grazie alla giovane e rinata Pro Loco, si assiste ad una nuova “sagra della primavera”, una celebrazione tra sacro e folklore drammatico di uno spettacolo collettivo, che attinge linfa a cerimonie dei riti della cristianità che si perpetuano da secoli remoti: la rappresentazione della Passione di Gesù Cristo e l’infiorata del Corpus Domini che si ripetono analoghe in varie regioni italiane. La partecipazione popolare è notevole e lodevole, e tutto nasce e si sviluppa all’interno della gente del paese: dalla presidente della Pro Loco, Mara Di Francesco, che sponsorizza la manifestazione para-religiosa, ad Angelina Ranalli l’animatrice e la regista della sacra rappresentazione con la supervisione e l’imprimatur del giovane parroco Don Giuseppe Leanza. La “Rappresentazione della Passione di Cristo” con agiografici quadri viventi per le strade del paese, dall’”Ultima Cena” alla “Deposizione di Gesù dalla Croce”, si inserisce nell’antica tradizione medievale quando il popolo, guidato da confraternite religiose e da ordini monacali mendicanti, dava vita ad una liturgia drammatica incentrata sul racconto della Passione e crocifissione del Salvatore come è raccontata dai Vangeli. Lo spazio scenico in cui si manifesta la metafora del dolore e della sofferenza cristiana è quello della vita quotidiana: le strade, le piazze, le chiese, le case, che inducono il pubblico a considerarsi non un semplice spettatore passivo, ma protagonista di una collettiva visione e rappresentazione religiosa. Lo spirito che anima la “Passione” dove tutti, dai numerosi personaggi biblici al pubblico che segue in processione le 14 Stazioni della Via Crucis con quadri viventi, sono coinvolti nello spirito religioso della manifestazione per la sua forma orante e che proprio per questo assume un connotato para-liturgico. Tutti i figuranti, vestiti con abiti tradizionali dell’antica Palestina, sono da elogiare per la loro immedesimazione nei ruoli, ma una nota a parte la meritano tuttavia i principali protagonisti di questa Via Crucis per la loro intensità drammatica ed emotiva: Nicoletta Di Florio e Antonio Berardinelli, il figlio di Pina, la cordiale e sempre amabile signora dell’arte del pane. Con il suo volto scavato dal dolore, Nicoletta è stata una “Mater dolorosa” dolce e tenera, grazie alla sua costante sofferente espressione, non solo quando incontra in piazza dell’Unione il suo figlio incoronato di spine e che si avvia al patibolo con la Croce sulle spalle, ma soprattutto quando a Santa Maria accoglie fra le sue braccia misericordiose il corpo di Gesù morto ricoprendo di baci, di carezze e di lacrime le sue piaghe, e avvolgendolo teneramente con il suo mantello nero quasi a volergli ridare calore per farlo tornare di nuovo in vita. Il giovane Antonio ha dominato la scena dal primo quadro dell’”Ultima Cena” davanti alla chiesa di San Lorenzo, fino alla spettacolare e drammatica scena della “Crocifissione”, sempre con la giusta interpretazione e immedesimandosi nell’impegnativo ruolo con religiosa e sincera partecipazione. La configurazione del paese si presta ad una simile rappresentazione e il percorso, da San Lorenzo a Santa Maria, passando per piazza dell’Unione e Via San Nicola (una perfetta via per la salita al Golgota), fa da scenario quasi naturale a questi essenziali quadri viventi, contribuendo nel suo insieme alla buona riuscita della manifestazione. Una critica positiva che si deve fare alla rappresentazione è quella sull’orario. Non ci sembra adeguata l’ora notturna per ammirare le potenziali e meravigliose scenografie naturali che offre il paese. Facendola svolgere invece tra le ultime tenue luci del giorno che muore, e le prime flebili ombre della notte, si coglierebbe meglio lo straordinario, incantevole e irripetibile scenario che si presenterebbe nelle ultime stazioni della Via Crucis a Santa Maria. Ora, con il buio della notte, la Crocifissione non ha alcuna prospettiva scenografica, nessuno sfondo se non il buio (come si può vedere nella foto). Invece anticipandola almeno di un’ora rispetto all’attuale, la Crocifissione si staglierebbe su un panorama di immensa solitudine tra la lontana visione di Monte Pallano e Colledimezzo da una parte, e da Monte Rizzano, Buonanotte e l’Acquaviva dall’altra. Sembrerebbe una Crocifissione sospesa nello spazio circostante, come quella magnifica dipinta dal Mantegna nel 1457 e che si ammira al museo del Louvre di Parigi, ma al tempo stesso più attinente anche a quanto affermano le sacre scritture: infatti nell’ora della morte di Gesù, dice il Vangelo di San Matteo, “si fece buio su tutto la terra”. E al Calvario di Santa Maria questo buio sarebbe non un miracolo, ma un evento del tutto naturale, la fine di un giorno vissuto all’insegna di una rappresentazione para-liturgica fonte di intensa e mistica spiritualità per tutti i cristiani. L’Infiorata del Corpus Domini Il secondo atto della “sagra della primavera” pennadomese, dopo quello della Passione, è l’omaggio floreale al “Corpus Domini”, il Corpo del Signore, che si è svolto domenica 2 giugno. Anche questa è una nuova tradizione che è stata ideata dalla Pro Loco di cui è presidente Mara Di Francesco. E, come nella rappresentazione della Passione, anche l’Infiorata è stata un’occasione di “com-unione” fra tutti pennadomesi, divisi per il resto dell’anno su quasi tutto. E’ stato bello vedere, fin dalle prime luci dell’alba la collaborazione di tutti per allestire il tappeto floreale che da piazza dell’Unione si è snodato fino al largo del fontana. Con l’eccezione di alcuni uomini, fra cui Nicola Di Francesco che andava su giù con il trattore per stendere il prato erboso e Gianni Di Pomponio, tutte le altre persone erano donne, ognuna con un suo compito specifico. Anche qui si sono viste le mani organizzatrici di Angelina Ranalli e di Mara Di Francesco con la preziosa partecipazione, fra le altre, di Giulia Piccone, Pina l’artigiana del pane, Anna Piccone, Irma, Silvana Iezzi, Nicolina Bevilacqua, Marisa presidente dell’Avis, Monica Mazurkiewicz, Antonietta Bozzi e di tante altre. Oltre che un devoto omaggio al Corpo di Cristo, l’Infiorata rappresenta anche un importante momento di socializzazione (e Dio sa quanto ce ne sia bisogno a Pennadomo!) che inizia fin dai giorni precedenti con il disegno dei cartoni preparatori che verranno poi realizzati posando pazientemente petali e petali e spighe di grano fino a completare il disegno dei bozzetti, e con la raccolta nei campi e sulle siepi di una gran varietà di bacche e infiorescenze su cui eccellono ginestre e rose. Dopo la messa solenne celebrata nella chiesa parrocchiale di San Nicola, il parroco Don Giuseppe Leanza ha dato il via all’omaggio al Corpo di Cristo riposto dentro l’ostensorio. Intanto tutti i partecipanti devotamente cantavano il “Panis angelicus”, il pane degli angeli, il pane dei pellegrini, vero pane dei figli, intervallato dalla recita del santo rosario. Arrivato in Piazza dell’Unione la processione ha sostato davanti alla chiesa di Sant’Antonio, dove, sotto la lapide che ricorda i morti pennadomesi di tutte le guerre, era stato eretto un altare dove Don Giuseppe ha dato un’altra benedizione con il Santissimo Sacramento in un devoto silenzio. Quindi, con il canto del “Tantum ergo Sacramentum” ha ripreso la processione per la strada infiorata, mentre alcune bambine gettavano petali di fiori e rose al passaggio del parroco con l’Ostensorio ricoperto da un baldacchino portato a mano da quattro uomini ed un ombrello speciale anch’essi preziosamente ricamati, che è arrivata fino alla chiesa di San Lorenzo per poi fare ritorno alla chiesa di San Nicola. Le finestre e i balconi delle strade erano quasi tutti addobbati con coperte variopinte e in alcuni erano accesi anche dei lumi. Tutte le donne che hanno realizzato l’Infiorata del Corpus Domini 8 agoSto: giornata evento in memoria dei Patrioti deLLa brigata maieLLa saRà dEdicaTa aLLa mEmoRia di LoREnzo d’angELo, Luigi donaTo di FRancEsco E nicoLa di REnzo La sEdE comunaLE di via maiELLa. Il Comune di Pennadomo, la Pro Loco e l’Avis in collaborazione con il giornale “Pennadomo Notizie”, organizzeranno per giovedì 8 agosto in Piazza dell’Unione una giornata evento per ridestare la memoria dei pennadomesi che si sono arruolati come volontari nella Brigata Maiella e in particolare dell’eroismo dei tre giovani, Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo, morti nella battaglia di Pizzoferrato il 3 febbraio 1944 per la liberazione d’Italia dalla dittatura del nazifascismo, e di cui il prossimo anno, il 2014, ricorrerà il 70/mo anniversario. E’ stato anche grazie al loro contributo di sangue e ai numerosi feriti di nostri concittadini che la bandiera della Brigata Maiella si è potuta fregiare con orgoglio della “Medaglia d’Oro al Valore Militare”. Di fronte a tanto eroi- smo, unanimemente riconosciuto, l’atteggiamento in tutti questi anni del paese è stato invece di un silenzio assoluto. Ma è anche grazie all’iniziativa editoriale del giornale “Pennadomo notizie” che ormai quell’oblio può essere definitivamente dimenticato. Si assiste, infatti, da parte di tutta la popolazione ad un rinato orgoglio e a un senso di gratitudine per i nostri giovani morti che stanno per risorgere a “vita nova”. Il pomeriggio dell’8 agosto in Piazza dell’Unione, a partire dalle ore 16,00, ci sarà una solenne commemorazione, preceduta dalla celebrazione di una Messa nella chiesa di Sant’Antonio alla memoria dei caduti, a cui parteciperanno anche alcuni dei parenti dei tre martiri e degli altri combattenti della Brigata Maiella, e poi nicola Troilo figlio di Ettore il fondatore del corpo dei volontari abruzzesi, il sindaco di Pizzoferrato Palmerino Fagnilli, Nicola Mattoscio presidente della “Fondazione Brigata Maiella”, Enzo Fimiani presidente dell’Anpi Abruzzo, Luigi Longobardi generale dei Carabineri e varie altre personalità. Al termine della messa si deporrà una corona di fiori al monumento dei caduti di tutte le guerre davanti a Sant’Antonio con il canto corale dell’Inno d’Italia: all’Associazione alpini di Torricella Peligna è affidato il compito del picchetto d’onore. La prolusione della manifestazione sarà tenuta dal sindaco di Pennadomo Antonietta Passalacqua, cui seguiranno gli interventi delle altre personalità presenti alla cerimonia e soprattutto di tutti i pennadomesi che vorranno intervenire per rendere Il sindaco Antonietta Passalacqua con il Generale dei carabinieri Luigi Longobardi la loro testimonianza. Saranno anche ricordati i nomi di tutti i pennadomesi che si sono arruolati nella “Maiella” e che si sono fatti onore in tante altre battaglie da Pizzoferrato a Montecarotto e Brisighella. Sul palco saranno esposti i gonfaloni dei comuni di Pennadomo, di Pizzoferrato, della Fondazione Brigata Maiella, dell’Anpi e la bandiera italiana. La cerimonia, dopo la lettura drammaturgica di “Pizzoferrato: canto mattutino” di Ottavio Di Renzo De Laurentis, proseguirà alle 18,30 circa, con lo scoprimento, davanti alla sede comunale di Via Maiella, di una targa marmorea in memoria dei tre giovani martiri di Pennadomo ai quali sarà dedicato l’edificio municipale. Subito dopo ci si incamminerà verso il camposanto di Pennadomo, dove, tra le solenni cime dei cipressi testimoni silenti ed eterni di sovrane tristezze, si onoreranno le tombe di Lorenzo, Luigi Donato e Nicola con l’accensione di un cero e l’omaggio di una composizione floreale. montebeLLo e L’oLimPo: agrituriSmo d’arte iL REcuPERo PaEsaggisTico di una coLLina chE PRoiETTa Lo sguaRdo suLL’inFiniTo. La campagna d’autore, la campagna d’arte che si ammira a Pennadomo, ha un naturale prolungamento a Montebello, un nome che evoca dolcezza, serenità, intimità, bellezza e armonia. Già per arrivarci si percorre una strada d’altri tempi, con curve e controcurve tra filari di querce, boschi, ginestre profumate, siepi di biancospino, rovi di more purpuree e campi incolti, distese di prati verdi, vigneti e splendidi panorami sia verso le rocce pennadomesi, sia verso lo specchio d’acqua del lago che riflette il monte Tutoglio: una visione georgica della natura lasciata al suo naturale evolversi e dove è tornato a nidificare anche il nibbio reale, uno dei rapaci più belli ed eleganti presenti in Europa e in particolare in Abruzzo, che vola con una straordinaria agilità, spesso aprendo e ruotando la coda simile ad un aquilone. Pur appartenendo sul piano amministrativo al comune di Villa Santa Maria, Montebello è tuttavia considerata una contrada pennadomese, visto che i suoi abitanti e proprietari delle campagne sono quasi tutti nati all’ombra del campanile della chiesa parrocchiale di San Nicola di Bari. Giunti in prossimità del piccolo borgo, un nuovo filare di cipressi, che richiama l’incanto del paesaggio toscano che si ammira anche nei capolavori pittorici di Giotto, Piero della Francesca e del Beato Angelico, accoglie il visitatore. L’atmosfera che ti circonda è amichevole e familiare, ci si sente subito a casa propria. Il borgo rurale – già proprietà della nobile famiglia dei Caracciolo di Villa Santa Maria che ha dato i natali a San Francesco (1563 – 1608) fondatore dei COSTRUZIONI E SERVIZI CENTRO ITALIA Chierici Regolari Minori e patrono dei cuochi italiani - con al centro della corte un albero secolare dalla larga chioma ombrosa, si trova nello stesso luogo dove un tempo, nei primi secoli dell’anno Mille, sorgevano due pievi devozionali dedicate a San Marco e Santa Maria e nel loro insieme costituivano un feudo rurale di Pennadomo. Si legge infatti nel “Rationes decimarum Italiae: Aprutium Molisium”, un libro storico del Vaticano a cura di Pietro Sella, che i “clerici castra Penna de Domo” avevano pagato per l’anno 1324/25 le decime (tasse ecclesiastiche) consistenti in due monete d’argento. Era quella una tariffa minima in quanto le chiese del territorio pennadomese erano povere, non essendo proprietarie di altri possedimenti sia fondiari che immobiliari che potevano generare delle rendite. La divisione amministrativa e fondiaria tra Montebello e Pennadomo potrebbe essere avvenuta nei secoli successivi e comunque di sicuro nei primi anni del Regno d’Italia. Che l’attuale borgo di Montebello, trasformato in agriturismo d’arte e denominato “Olimpo”, sorga sopra o nelle immediate vicinanze delle antiche duecentesche pievi devozionali, lo testimonia anche il ritrovamento in epoche passate di resti di alcuni scheletri umani, vista l’abitudine in quei tempi di seppellire i morti in cimiteri situati davanti o dentro le stesse chiese. Non solo resti umani, ma sono state ritrovate anche antichissime otri di terra cotta ed anfore votive, insieme a laterizi di uso quotidiano e decorativo. Prima dell’odierno borgo Olimpo a Montebello, c’era una sola grande masseria plurifamiliare, e quando agli inizi degli anni ’80, Sergio Pantalone, pennadomese doc, agente di borsa a Milano e con l’innata passione per il calcio, lo vide per la prima volta se ne innamorò perdutamente: fu il classico colpo di fulmine che incendia i cuori degli innamorati. Per gli uomini capaci di sognare, si dice che l’eternità è ad un passo: progettare, trasformare coraggiosamente un’idea che ti sgorga dalla mente in solide pietre, e per di più in uno scenario di incantevole bellezza paesaggistica, è solo di persone che pensano alla grande, persone nate per entrare nella storia nel rispetto dello sviluppo della natura. E Sergio ha trasformato, anno dopo anno, il suo sogno in una splendida e soli- Società di costruzioni e restauri da realtà, scrivendo una indelebile pagina naturalistica che sfida il tempo e le avversità. E’ grazie a questo suo carattere multiforme, metà platonico (sognatore) e metà aristotelico (praticità e fisicità), che ha potuto trasformare una vecchia masseria in un romantico e affascinante agriturismo: l’Olimpo. L’Olimpo è dunque un piccolo mondo antico, al tempo stesso intimo e ospitale, immerso in un grande parco naturalistico dall’atmosfera onirica e teatrale, angolo di quiete per raccogliersi in solitudine familiare, e vivace salotto per ricevere amici e ospiti. Le case del borgo hanno un’apertura verso la luce, un trionfo di spazi che non hanno confini, un panorama scenografico che invita lo sguardo e l’animo a scorgere altri mondi, al di sopra di monte Pallano e di Colledimezzo, che si aprono verso il cielo. Silvia Bassi Agriturismo Olimpo Contrada Montebello 66047 Villa Santa Maria (Ch) Informazioni e contatti: www.agriturismoolimpo.com 0872/940425– 345.3134028 Email [email protected] via ninfeo, 22 a/22 B - 00010 villa adriana, Tivoli (Rm) Tel. 0774.240001/2 - Fax 0774.380120 - cap. soc. i. v. Euro 114.000.000 Reg. Imprese Roma 08105361003 - R.E.A. n° 1073845 - UNI EN ISO 9001:2008 cERsa n°1045 soa consuLT [email protected] - www.costruzionieservizicentroitalia.it