59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC Rimini, 30 Maggio

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59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC Rimini, 30 Maggio
59° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA
PALACONGRESSI DELLA RIVIERA DI RIMINI
30 MAGGIO - 1 GIUGNO 2008
SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI
PER ANIMALI DA COMPAGNIA
SOCIETÀ FEDERATA ANMVI
ESTRATTI RELAZIONI • WORKSHOP SPECIALISTICI
COMUNICAZIONI BREVI • POSTER
SOCIETÀ CULTURALE ITALIANA VETERINARI
PER ANIMALI DA COMPAGNIA
SOCIETÀ FEDERATA ANMVI
59° CONGRESSO INTERNAZIONALE MULTISALA
PALACONGRESSI DELLA RIVIERA DI RIMINI
30 MAGGIO - 1 GIUGNO 2008
ESTRATTI RELAZIONI
WORKSHOP SPECIALISTICI
COMUNICAZIONI BREVI
POSTER
Traduzione dei testi inglesi: Dr. Maurizio Garetto e Dott.ssa Tiziana Binelli
organizzato da
certificata ISO 9001:2000
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U I D A
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li atti del Congresso Internazionale Multisala SCIVAC 2008, oltre che di tutti i Congressi Multisala SCIVAC dal 1998 al 2007,
sono presentati in formato PDF. Oltre a consentire la fedele riproduzione digitale della versione cartacea, questo formato offre la possibilità di inserire ipertesti in modo da rendere i documenti ricercabili e navigabili. La consultazione del CD richiede Acrobat Reader 3.0 o superiore installato sul computer. Nel CD è contenuto il file di installazione del programma per gli utenti che ne
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Macintosh
PowerPC 160 MHz
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CD-ROM 8x
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Ideazione e realizzazione
Enrico Febbo, Med Vet
© SCIVAC 2008. Tutti i diritti riservati.
La SCIVAC ringrazia le Aziende sponsor
LABORATORIO PER MEDICI VETERINARI
®
CONSIGLIO DIRETTIVO SCIVAC
DEA BONELLO
MASSIMO BARONI
FEDERICA ROSSI
GUIDO PISANI
MARCO BERNARDINI
ALBERTO CROTTI
BRUNO PEIRONE
Presidente
Presidente Senior
Vice Presidente
Tesoriere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
COMMISSIONE SCIENTIFICA
MASSIMO BARONI
DAVIDE DE LORENZI
GIORGIO ROMANELLI
COMITATO SCIENTIFICO
WALTER BERTAZZOLO
ANDREA BOARI
DAVID CHIAVEGATO
ALBERTO CROTTI
LUDOVICA DRAGONE
MANUELA FARABOLINI
SANDRA FONDATI
LUCA FORMAGGINI
TOMMASO FURLANELLO
SABRINA GIUSSANI
MARGHERITA GRACIS
MASSIMO GUALTIERI
ADRIANO LACHIN
MARIA TERESA MANDARA
ALESSANDRO MELILLO
MARIA SERAFINA NUOVO
FEDERICA ROSSI
FABIA SCARAMPELLA
ALDO VEZZONI
ERIC ZINI
Citologia
Medicina felina
Cardiologia
Oftalmologia
Fisioterapia
Riproduzione
Dermatologia
Chirurgia
Medicina Interna
Medicina Comportamentale
Odontostomatologia
Gastroenterologia
Anestesia
Neurologia
Animali Esotici
Medicina non Convenzionale
Diagnostica per Immagini
Dermatologia
Ortopedia
Nefrologia
COORDINATORE SCIENTIFICO CONGRESSUALE
FULVIO STANGA, Med Vet, Cremona
SEGRETERIA CONGRESSUALE
MONICA VILLA
Tel: +39 0372 403504 - E-mail: [email protected]
SEGRETERIA MARKETING
FRANCESCA MANFREDI
Tel: +39 0372 403538 - E-mail: [email protected]
SEGRETERIA ISCRIZIONI
PAOLA GAMBAROTTI
Tel: +39 0372 403508 - Fax: +39 0372 403512 - E-mail: [email protected]
ORGANIZZAZIONE CONGRESSUALE
EV - Eventi Veterinari
Via Trecchi 20 - 26100 CREMONA (I)
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
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CURRICULA VITAE DEI RELATORI
CAROLINE BACK
Bvet Med, MRCVS, Stoccolma (S)
Nel 1983 si è laureata in Medicina Veterinaria pressoil
Royal Veterinary College di Londra e da allora ha sempre lavorato in clinica, nel campo della ricerca e dell’industria nel
Regno Unito, in Kenia e in Svezia. È stata titolare di un ufficio di
consulenza e gestione aziendale veterinaria, la Nordic Connection
Consulting e ha tenuto numerosi incontri e conferenze sulla gestione del business veterinario in tutta Europa, Stati Uniti e Australia,
sia nelle cliniche veterinarie che nei maggiori congressi di medicina veterinaria. Caroline ha anche pubblicato numerosi articoli sulla gestione del business veterinario, incluso diversi libri: Managing
a Veterinary Practice, 2nd Edn (2006) Elsevier Ltd; Healthcare for
the well pet (Saunders, 1997) (with Tom Catanzaro); e l’imminente “Communication, Compliance and Leadership: making healthcare work in veterinary practice” (Elsevier Ltd.) che uscirà a primavera 2007. Dopo un periodo passato ancora in clinica come veterinario internista, Caroline è stata Direttrice di due dei più grandi
ospedali svedesi per animali da compagnia a Stoccolma con uno
staff di circa 120 persone e con un fatturato annuo che supera i 7
milioni di Euro. Attualmente ricopre l’incarico di Nordic Vet Affair
Manager in Hill’s Pet Nutrition con la responsabilità di sviluppare
l’insegnamento e la gestione del business veterinario in Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia.
MASSIMO BARONI
Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme, Pistoia
Laureato in Medicina Veterinaria con Lode nel 1987
presso l’Università di Pisa. Dal 1992 al 1995 ha compiuto un Non Conforming Residency Programme in Neurologia
presso l’Istituto di Neurologia, Università di Berna. Nel 1995 ha ottenuto il Diploma del College Europeo di Neurologia a Liegi (Belgio). Dal 1995 al 1999 ha lavorato a Genova, svolgendo attività di
referenza in campo neurologico ed ortopedico. Attualmente svolge
la propria attività specialistica presso la Clinica Veterinaria “Val di
Nievole”, Monsummano Terme, Pistoia. È stato membro dell’Education Commitee del College Europeo di Neurologia (ECVN) dal
1996 al 1999 ed è attualmente Presidente della Società Europea
ESVN e del College Europeo di Neurologia Veterinaria (ECVN). È
coordinatore dell’Itinerario di Neurologia SCIVAC. È inoltre componente del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Neurologia
Veterinaria (SINVET) ed è Senior President SCIVAC.
È autore di pubblicazioni e capitoli di libri riguardanti l’ortopedia
e la neurologia e presenta regolarmente relazioni ad incontri a carattere nazionale ed internazionale, in Italia ed all’estero. Attuali
aree di interesse: Neurodiagnostica per immagini, neurochirurgia
intracranica.
JEANNE BARSANTI
DVM, MS, Dipl ACVIM, USA
La Dr.ssa Barsanti si è laureata presso la New York State College of Veterinary Medicine, Cornell University
nel 1974. Ha portato a termine un periodo di internato, un Master’s
Degree in Small Animal Medicine ed un periodo di residenza in
medicina interna presso la Auburn University, Auburn, Alabama.
Dal 1977, la Dr.ssa Barsanti ha fatto parte del corpo docente del
Department of Small Animal Medicine e Surgery della University
of Georgia. Nel 1999 è stata nominata Head of the Department, una
posizione che ha retto per 5 anni. Attualmente ha il ruolo di Josiah
Meigs Distinguished Teaching Professor, Emerita. Ha conseguito il
Diploma of Specialty of Internal Medicine, American College of
Veterinary Internal Medicine, ed ha fatto parte del Board of Regents dell’ACVIM per 11 anni. La Dr.ssa Barsanti è stata autrice di
111 pubblicazioni di ricerca su riviste referee ed ha presentato 32
abstract, lavori derivati da oltre 1.000.000$ in finanziamenti per la
ricerca. È stata membro di un prolifico team di ricerca costituito dai
Dottori Scott Brown, Del Finco e Clarence Rawlings. Il suo principale settore di interesse è rappresentato dalla nefrologia ed urologia. È stata coautrice di un trattato (Urologic Surgery of the Dog
and Cat. Lea & Febiger) ed è stata editor della sezione relativa ai
problemi urinari per cinque edizioni di Current Veterinary Therapy
di Bonagura e Kirk. È stata autrice di 95 capitoli di libri.
CLAUDE BEATÀ
DVM, Dipl ECVBM-Ca, Toulon (F)
Il Dr. Beatà (DVM) è un veterinario specializzando in
medicina comportamentale. Oltre a esercitare la professione nel settore dei problemi comportamentali, che lo impegna
molto, tiene regolarmente delle lezioni per studenti e veterinari ed
interviene come relatore a numerosi congressi internazionali. Il Dr.
Beatà è un membro di primo piano di molte organizzazioni del settore come “Zoopsy” del quale è cofondatore ed al momento attuale presidente, dell’European College of Veterinary Behavior Medicine, della European Society of Veterinary Clinical Ethology e del
Gecaf (gruppo di studio sul comportamento).
MARCO BERNARDINI
Med Vet, Dipl ECVN, Padova
Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università di
Bologna nel 1988. Dal 1994 al 1995 residency in Neurologia Veterinaria presso l’Università di Berna (Svizzera). Diplomato all’European College of Veterinary Neurology (ECVN) nel
1995. Dal 1997 al 2001 Profesor Asociado di Neurologia Veterinaria e Responsabile del Servizio di Neurologia del Hospital Clínico
Veterinario dell’Università Autonoma di Barcellona (Spagna). Dal
2002 al 2003 Oberassistent in Neurologia Veterinaria presso l’Università di Berna. Attualmente è Professore Associato nel Dipartimento Clinico Veterinario dell’Università di Padova e lavora a Bologna presso l’Ospedale Veterinario “I Portoni Rossi” come libero
professionista referente di casi neurologici. Relatore a corsi e congressi in Italia e all’estero, è autore e coautore di articoli e libri di
neurologia veterinaria.
WALTER BERTAZZOLO
Med Vet, Dipl ECVCP, Pavia
Laureato nel 1995 presso l’Università degli Studi di
Milano, Istituto di Patologia Generale (Prof. C. Genchi) con una tesi sulla biologia molecolare di Borrelia burgdorferi
con votazione 110/110 lode.
Ha effettuato un periodo di training continuo presso il Dipartimento di Patologia dell’Università di Milano sotto la guida del Prof.
Mario Caniatti, DVM, DECVP, del Prof. Saverio Paltrinieri, DVM,
DECVCP e del Dr. Stefano Comazzi, DVM, DECVCP. Autore di
una ventina di pubblicazioni su riviste indexate internazionali inerenti la patologia clinica e l’oncologia. Nell’ottobre 2005 ha ottenuto il riconoscimento come membro defacto dello European College of Veterinary Clinical Pathology. Si occupa a tempo pieno di
patologia clinica veterinaria.
DAVID BETTIO
Med Vet, Parma
Laureato a Parma nell’anno ’97-’98 con una tesi in dermatologia, ha seguito varie periodi di formazione in
ematologia e diagnostica per immagini.
Diplomato alla Scuola di Medicina Omeopatica di Verona nel 1999,
ora ne è parte del Consiglio Direttivo e Docente effettivo di medicina Omeopatica Veterinaria. È autore di vari articoli pubblicati su
riviste italiane di casi clinici trattati con l’omeopatia unicista.
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Membro della FIAMO e dell’UMNCV, esercita la professione sugli animali da compagnia nel suo ambulatorio, occupandosi di medicina interna e anestesiologia.
ANDREA BOARI
Med Vet, Teramo
Laurea con lode in Medicina Veterinaria all’Università
degliStudi di Bologna nel1983. Premio di Studio “Prof.
Albino Messieri” (A.A. 1982-83). Funzionario Tecnico presso il
Dipartimento Clinico Veterinario della stessa Università (dal 1986
al 1998). Professore a contratto dal 1995 al 1998 in Semiologia
Medica Veterinaria presso l’Università degli Studi di Teramo. Borsa di Studio “Prof. Umberto Gasparini”: visiting researcher per
l’intero 1993 presso il Department of Veterinary Clinical Sciences
della Purdue University (USA) dove ha svolto sia attività di ricerca
che clinica internistica. Professore Associato (1998-2000). Coordinatore Sezione di Medicina Interna (1998-2002). Professore
Straordinario (2000-presente) in Clinica Medica Veterinaria, Semiologia Medica Veterinaria e Semeiotica e Diagnostica di Laboratorio presso l’Università degliStudi di Teramo. Maggio 2002 - luglio 2002: “Visiting Researcher” presso il Department of Small
Animal Medicine and Surgery della Texas A&M University(USA).
Dal 1° novembre 2002 è Direttore del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie presso la stessa Università e Vice Preside della
Facoltà di Medicina Veterinaria di Teramo. Responsabile progetti
di ricerca universitari (ex-60%) del 1999-2000-2001-2002. Ha pubblicato più di 100 lavori su riviste nazionali e internazionali ed è
stato relatore a numerosi Congressi nazionali ed internazionali.
È stato eletto quale membro del Comitato Scientifico della Società
Italiana delle Scienze Veterinarie in merito al Settore Scientifico
Disciplinare di Clinica Medica Veterinaria.
ANDREA BRANCALION
Med Vet, Treviso
Laureato in Medicina Veterinaria a Bologna nel 1981.
Docente della Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica di Cortona. Direttore dell’Accademia Trevigiana di Omeopatia Veterinaria.
È stato docente esterno della Scuola di Specializzazione in Diritto
e Legislazione Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria
dell’Università di Parma per gli argomenti di Omeopatia, dal 2001
al 2005. È stato membro della Segreteria Scientifica del Congresso
della Federazione Italiana delle Associazioni dei Medici Omeopati
(F.I.A.M.O.) fino al 2003 ed attualmente presenzia nel Comitato
Scientifico de “Il Medico Omeopata”, rivista ufficiale della Federazione stessa. È referente culturale per la veterinaria di RADAR™
e WinCHIP™, attualmente i più completi e diffusi pacchetti software di repertorizzazione e cartella clinica omeopatica. È stato inserito della ristretta cerchia di testers che nel mondo sono stati scelti per collaudare e mettere a punto EH™, l’enciclopedia omeopatica in versione software che oggi raccoglie oltre 800 testi di Materie Mediche. È membro dalla sua fondazione della Società Italiana
di Medicina Veterinaria Non Convenzionale, affiliata a SCIVAC.
Ha fondato con altri Colleghi l’Unione dei Medici Non Convenzionali Veterinari (U.M.N.C.V.) ed è rappresentante della Scuola di
Cortona nella stessa. Dalla sua fondazione è l’unico Veterinario europeo Professore Associato della Universidad Candegabe de Homeopatia di Buenos Aires, Distance Learning University in
www.universidadcandegabe.org. Attualmente svolge la Libera Professione anche presso l’Ospedale Veterinario “S. Francesco” di Castagnole (TV) nella Sezione Omeopatica da lui istituita e diretta. È
autore di oltre 30 pubblicazioni ed è stato relatore a congressi e seminari scientifici nazionali ed internazionali. Ha curato l’edizione
italiana del “Compendio dei Principi di Omeopatia” di W. M. Boericke, con aggiunta di note personali (Ed. Scuola di Cortona).
È coautore della “Materia Medica Essenziale” della Scuola di Cortona (Ed. h.m.s., Como). È autore della “Scala LM e Prognosi nella Pratica dell’Omeopatia” (Ed. h.m.s., Como), che rappresenta un
condensato di dottrina e pratica omeopatica unicista.
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ANTONELLO BUFALARI
Med Vet, PhD, Perugia
Laureato in Medicina Veterinaria (1989). Professore Associato dal 2006 presso l’Università di Perugia, con incarichi di insegnamento in Anestesiologia e Clinica Chirurgica. Visiting Fellowship e Post-doctoral Associate presso la Cornell University, per 2 anni. Titolo di PhD presso Faculty of Veterinary Medicine,
Helsinki. Co-investigator di una ricerca sperimentale su analgesici
presso la Cornell. Dal 1991 è membro SISVet e SCIVAC, dal 1993 è
membro AVA, dal 1994 è membro SICV. Dal 2003, docente ai corsi
SCIVACdi anestesiologia e dal 2004 è membro del consiglio direttivo SIARMUV. Autore/co-autore di 100 pubblicazioni di cui una decina su riviste internazionali. Relatore a numerosi congressi e seminari nazionali e internazionali. Co-autore di un capitolo su Veterinary
Clinics of North America. Autore del manuale: “Concetti di base per
l’artroscopia diagnostica e operativa nel cane”.
CLAUDIO BUSSADORI
Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Med Chir, Milano
Direttore sanitario della Clinica Veterinaria G. Sasso a
Milano, dove si occupa dicardiologia, medicina interna
ed ecografia e Direttore del residency program dell’ECVIM-CA
European college of Internal Medicine in cardiologia.
Dal 2002 Research fellow del centro di cardiologia pediatrica &
Cardiopatie Congenite dell’Adulto Centro per lo Studio e la Terapia
delle Malattie Cardiovascolari dell’Istituto policlinico di San Donato Milanese. Dal 2005 Dottorando di Ricerca in Fisiopatologia Cardiovascolare presso l’Istituto di Medicina Cardiovascolare dell’Ospedale Maggiore IRCCS della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Milano. Docente a seminari di cardiologia interventistica presso la Scuola di Specialità in Cardiologia della Facoltà di
Medicina e chirurgia dell’Università degli Studi di Milano. Professore a contratto in Cardiologia presso le Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Parma e di Torino. Ha tenuto corsi di Cardiologia, ed Ecocardiografia presso Università e istituzioni private
in varie nazioni Europee. È stato presidente dell’ESVC (European
Society of Veterinary Cardiology) dal 1997al 1999 attualmente e
membro onorario permanente del board È stato vice presidente Dell’E.C.V.I.M. dal 1993 al 1999 Autore di 165 publicazioni (dal 1984
al 2004), includendo: articoli originali su riviste Veterinarie e Mediche, atti di congressi e libri. I campi di interesse attuali riguardano
l’ecocardiografia, la diagnosi e il trattamento interventistico delle
cardiopatie congenite nell’uomo e negli animali.
MARIO CANIATTI
Med Vet, Dipl ECVP, Milano
Mario Caniatti si è laureato nel 1985 presso la Facoltà
di Medicina Veterinaria di Milano dove ha conseguito il
Dottorato di Ricerca (Patologia comparata degli animali domestici)
e dove oggi svolge la sua attività di insegnamento e ricerca presso la
Sezione di Anatomia Patologica del Dipartimento di Patologia.
In passato ha compiuto periodi di ricerca e studio presso le scuole
di veterinaria di Davis (California) e Barcellona. La sua attività lavorativa è imperniata sull’insegnamento degli aspetti microscopici
cito-istologici in patologia veterinaria e sul “Servizio di Citologia
Diagnostica” del Dipartimento. La sua attività di ricerca è focalizzata sulle neoplasie cutanee e linfoproliferative, nonché sulle patologie croniche del cavo nasale. È autore o coautore di varie pubblicazioni tra cui una trentina su riviste internazionali. Dal 1998 è
membro del College europeo dei patologi veterinari (ECVP).
FRANCESCA CAZZOLA
Med Vet, Torino
Laureata in Medicina Veterinaria nel 2003 presso l’Università degli studi di Torino e abilitata alla professione nello stesso anno.
Nel 2004 ha lavorato presso il Centro di riabilitazione “Villa Beria”
(Mathi, Torino). A novembre dello stesso anno ha iniziato a lavorare presso l’ospedale veterinario ANUBI di Moncalieri (Torino) do-
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ve esercita tuttora la professione. I suoi principali campi d’interesse sono rappresentati da fisiatria e fisioterapia, traumatologia ed ortopedia. Nel 2005 ha svolto uno stage di 4 mesi presso il reparto di
fisiatria dell’ospedale Mauriziano (Torino).
Nel 2006 ha partecipato al corso di base di fisioterapia (SCIVAC). Da ottobre dello stesso anno ad oggi interviene attivamente a tutte le giornate di aggiornamento organizzate dal gruppo di studio. Nel 2007 ha partecipato al corso avanzato di fisioterapia (SCIVAC). Nel gennaio dello stesso anno ha frequentato
il corso di idroterapia presso la Westcoast Products Ltd a Diss,
Norfolk, Inghilterra.
Dal 2004 è iscritta alla SIOVET e prende parte regolarmente agli
incontri. È intervenuta, in qualità di relatrice, al Master di Medicina Comportamentale presso la facoltà di Medicina Veterinaria di
Grugliasco (Torino) con una relazione sulla fisioterapia nel cane.
Nel 2007 ha svolto una relazione sulla riabilitazione dei pazienti
displasici nell’ambito dell’incontro sulla displasia dell’anca presso
l’ospedale veterinario ANUBI. A marzo del 2008 ha partecipato come assistente al corso base di fisioterapia (SCIVAC).
CHIARA CHIAFFREDO
Med Vet, Roletto (TO)
Chiara Chiaffredo nata a Torino nel 1976 e laureata a
Torino nel 2001, da alcuni anni mi occupo di Fisioterapia veterinaria, ho frequentato il corso base ed il corso avanzato di
fisioterapia organizzati dalla SCIVAC e i numerosi corsi di aggiornamento in questo settore. Da alcuni anni partecipo a corsi ed incontri di fisioterapia umana per mantenermi aggiornata e per confrontarmi con i colleghi fisioterapisti. Ho frequentato un centro di
fisioterapia umana per alcuni anni per poter apprendere le tecniche
più usate in medicina umana nell’ambito della fisioterapia e della
riabilitazione. Ho partecipato ad incontri di fisioterapia veterinaria
in qualità di relatore. Attualmente lavoro in provincia di Torino (a
Roletto), nel mio centro di fisioterapia per animali, il CVF. Regolarmente mi reco a Reggio Emilia presso il Dogfitness per mantenermi aggiornata in materia.
TOMMASO COLLARILE
Med Vet, Roma
Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università
degli Studi di Perugia nel marzo 2000 con tesi di laurea
sull’infezione da Polyomavirus negli psittacidi.
Dopo la laurea svolge diversi periodi di tirocinio all’estero tutti dedicati alla medicina degli animali esotici ed in particolare alla medicina aviare. Nel 2001 svolge un tirocinio pratico presso la Clinica del Loro Parque di Tenerife, Isole Canarie. Nel 2002 svolge un
tirocinio pratico presso l’Istituto di Medicina Aviare e Medicina degli Animali Esotici presso l’Università di Utrecht, Olanda. Nel
maggio 2002 partecipa al “Corso Avanzato di Endoscopia Aviare”
presso l’Università di Utrecht. Presso l’Università di Utrecht collabora ad alcuni progetti di ricerca. Nel 2003 svolge un tirocinio pratico presso il rifugio dei pappagalli “NOP” (Foundation Dutch Parrot Refuge). Nel 2003 e nel 2004 è collaboratore esterno della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Padova per il corso
integrato professionalizzante di Medicina degli animali selvatici e
non convenzionali.
Dal 2003 lavora come libero professionista e si occupa esclusivamente di medicina aviare e degli animali esotici, partecipa a congressi e convegni nazionali ed internazionali, svolge periodi di aggiornamento presso cliniche universitarie e private all’estero.
Nel 2005 presso l’Università della Georgia partecipa al corso avanzato di endoscopia e chirurgia endoscopica degli uccelli e dei rettili. Nel 2005e nel 2006 è consulente presso la Asl per la medicina
dei volatili da compagnia ed animali non convenzionali.
È relatore presso la SIVAE nell’ambito dei percorsi didattici. È relatore in vari incontri organizzati dagli ordini dei medici veterinari.
Nel 2007 è professore a contratto presso l’università di Padova in
“Medicina di Laboratorio degli animali non convenzionali”. È socio fondatore del Centro Veterinario Specialistico a Roma.
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PAUL COPPENS
DVM, Dipl ECVAA, Vienna (A)
Nato in Belgio, il Dr. Paul Coppens si è laureato in medicina veterinaria all’Università di Liegi, in Belgio, nel
1984. Ha portato a termine la sua formazione in anestesiologia clinica con la Prof. Diane Blais, della University of Montréal, Canada, dove ha lavorato come clinico in anestesiologia fino al 1989. È
stato anche “maître assistant” in anestesia-rianimazione alla “Ecole National Vétérinaire” d’Alfort, in Francia ed Assistant Professor
alla Faculty of Veterinary Medicine della University of Utrecht, nei
Paesi Bassi. Nel 1996, ha realizzato un’unità di “anestesia veterinaria ambulante” che offre servizi di anestesiologia alle strutture
private e consulenze all’industria farmaceutica ed all’Università di
Liegi, in Belgio. Dopo questi dieci anni trascorsi nel settore dell’anestesia sul campo, nell’ottobre del 2005 è entrato a far parte del
Dipartimento di Anestesia e Cure Perioperatorie della Facoltà di
Medicina Veterinaria dell’Università di Vienna, in Austria.
DANIELE SEBASTIAN CORLAZZOLI
Med Vet, Roma
Si laurea nel 1991 a Milano con lode, discutendo una
tesi sulla discospondilite nel cane, relatore il Prof Mortellaro. Dopo un periodo di studio in Francia, Inghilterra e negli
Stati Uniti, lavora nell’area milanese occupandosi esclusivamente
di neurologia e chirurgica dei piccoli animali. Dal 1995 si trasferisce a Roma dove collabora inizialmente con il Centro Veterinario
Gregorio VII, quindi con lo Zoospedale Flaminio. Dal 2001 ha
aperto un centro di referenza in neurologia, ortopedia e diagnostica
per immagini a Roma.
LUISA CORNEGLIANI
Med Vet, Dipl ECVD Milano
Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università di
Milano nel 1991, lavora come libero professionista nel
settore dei piccoli animali dove si occupa di dermatologia dal 1995.
Ha frequentato periodi d’aggiornamento all’estero ad indirizzo dermatologico presso strutture private ed universitarie. È diplomata al
College Europeo di Dermatologia Veterinaria.
È inoltre autore di numerosi articoli su riviste nazionali ed internazionali, nonché traduttore di testi di dermatologia veterinaria e coautore di un cd multimediale dedicato alla dermatologia. Attualmente lavora eseguendo visite dermatologiche di referenza a Milano, Torino, Novara.
LORENZO CROSTA
Med Vet, Como
Nato a Milano nel 1961, si è laureato a pieni voti in
Medicina Veterinaria a Milano. Fino al 1999 ha svolto
attività libero professionale in Italia, come veterinario di animali
esotici, concentrandosi soprattutto sulla medicina aviare. Dal 2000
al 2005 ha ricoperto l’incarico di Direttore Veterinario presso il Loro Parque di Tenerife, che comprende la più varia collezione di pappagalli del mondo (quasi 4.000 soggetti, rappresentanti oltre 350
specie e sottospecie). È stato rappresentante italiano dell’Association of Avian Veterinarians, della quale è già stato 2 volte Chairman
europeo e membro del Board of Directors. È Associate Editor del
Journal of Avian Medicine and Surgery. È socio fondatore della SIVAE (Società Italiana Veterinari per Animali Esotici), della quale è
anche Presidente. È socio dell’American Association of Zoo Veterinarians (AAZV), e della European Associationof Zoo and Wildlife Veterinarians (EAZWV).
È stato relatore invitato a diversi congressi internazionali in Europa, USA, Brasile, Messico, Australia e Cuba, ed ha scritto o presentato più di 70 fra articoli scientifici e relazioni a vari congressi.
Al momento è il veterinario ufficiale dei programmi di recupero di
due dei pappagalli più minacciati al mondo: l’Ara di Spix a l’Ara
di Lear, programma a cui lavora per conto del Governo Brasiliano.
La sua attività principale è di consulenza presso allevamenti e giardini zoologici in Italia ed Europa.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
ALBERTO CROTTI
Med Vet, Genova
Laureato presso la facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Pisa nell’anno 1982 con 108/110. Membro della S.O.V.I. (Società di Oftalmologia Veterinaria Italiana)
dalla sua costituzione, componente del Consiglio direttivo dal
1993, ricopre attualmente la carica di Past-president della società.
Presidente dell’A.Li.Ve.L.P. (Associazione Ligure Veterinari Liberi Professionisti) dal 1992 al 1997. Ha ricoperto la carica di Presidente della Delegazione Regionale Scivac dal 1999 al 2001. Dal
2007 è membro del consiglio direttivo Scivac. Dal 1992 al 1994 ha
frequentato il corso specialistico in oftalmologia dell’ESAVS (European Society for Advanced Veterinary Studies). Nel 1995 ha partecipato ad un internship in oftalmologia presso il Royal Veterinary
College di Londra. Nel 2004 ha frequentato il corso intensivo di
chirurgia oftalmologica ESAVS presso l’Ecole NazionaleVeterinarie di Tolosa. Dal 1995 è stato istruttore del corso di base Scivac in
oftalmologia e dal 1999 è divenuto relatore presso lo stesso corso.
Dal 2006 è coordinatore dell’Itinerario didattico in Oftalmologia
della Scuola di Formazione post universitaria SCIVAC e direttore
del I° corso del triennio di studi. Ha partecipato in qualità di relatore a congressi ed incontri su temi di oftalmologia. È coautore del
testo “Oftalmologia” ed. Poletto. È membro permanente del Gruppo di Studio della SCIVAC sulla Leishmaniosi canina. È titolare dal
1984 di uno studio associato in Genova dove si occupa prevalentemente di oftalmologia degli animali da affezione.
GUALTIERO WALTER CROTTI
Med Vet, Dipl Master in Cardiologia,
Civitanova Marche (MC)
Laureato a Milano nel 1990, abilitato nello stesso anno.
Fino al 1993 ha svolto attività libero professionale su animali di affezione in diverse strutture di Milano e provincia come collaboratore e come turnista di Pronto Soccorso.
Trasferitosi a Civitanova Marche, nel 1993, svolge attualmente attività nella propria struttura e consulenza esterna. Si occupa di cardiologia, medicina interna, diagnostica per immagini e medicina di
urgenza. Ha conseguito nel 2005 il diploma Master in Cardiologia
del cane e del gatto presso l’Università di Torino, con tesi riguardante il cuore di atleta. Dal 2003 collaboratore del Gruppo di Studio
di Practice Management. Coautore di relazioni a congresso SCIVAC
del 2004 e di pubblicazioni riguardanti il Practice Management.
PAUL CUDDON
BVSc, Dipl ACVIM (Neurology), Colorato, USA
Il Dr. Cuddon si è laureato con lode (first class honors)
presso la University of Sydney nel 1979. Dopo un periodo di residenza in medicina interna dei piccoli animali presso la
Universiy of Guelph (Canada), ha completato una seconda residenza in neurologia e neurochirurgia alla University of California at
Davis. Ciò lo ha portato ad ottenere nel 1989 il board certification
in neurology da parte dell’ACVIM. Il Dr. Cuddon era Assistant
Professor presso la University of Wisconsin, Madison (1986-1994)
e Associate Professor alla Colorado State University (1994-2001),
prima di dedicarsi alla libera professione al VCA Alameda East Veterinary Hospital. Il Dr. Cuddon ha svolto un’ampia attività didattica in occasione di conferenze regionali e nazionali ed è stato relatore invitato a conferenze internazionali in Argentina, Italia e Canada. È considerato dai suoi colleghi come il principale esperto di
elettrodiagnostica veterinaria nella specialità di neurologia. È autore di oltre 40 ricerche ed articoli di riviste cliniche, nonché di un
manuale di elettrodiagnosi in Neurologia Veterinaria.
NUNZIO D’ANNA
Med Vet, Roma
Si è laureato in medicina veterinaria a Torino nel 1992.
Ha effettuato un externship tra il 1993 e il 1994 presso
l’Animal Medical Center di New York con particolare interesse verso la chirurgia d’emergenza e l’oftalmologia.
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Autore di alcune pubblicazioni in campo oculistico e relatore in diversi incontri a livello nazionale e internazionale.
Dal 1995 lavora a Roma con il dr. Guandalini con la pratica limitata all’oftalmologia clinica. Dal 2001 è tesoriere della SOVI.
ELENA DALL’AGLIO
Med Vet, Milano
Nata a Milano il 30/11/1970, laureata in Medicina Veterinaria il 17/07/1996. Collabora con il Dr. Claudio
Bussadori dal 1998, coadiuvandolo nella realizzazione del materiale scientifico impiegato per la didattica. Dal 2005 direttore dei
workshop internazionali di ecocardiografia tenuti presso la Clinica
Veterinaria Gran Sasso. Webmaster del sito www.ecocardiografia
veterinaria.it. Relatore all’ultimo corso di ecocardiografia SCIVAC. Svolge attività come consulente per la specialità di Cardiologia presso diverse strutture della Lombardia.
SUSAN DAWSON
BVMS, PhD, MRCVS, Glasgow (UK)
Susan Dawson si laurea presso l’Università di Glasgow
nel 1983 e trascorre i sei anni successivi praticando la
libera professione. In seguito si trasferisce a Liverpool dove studia
i calicilovirus felini, conseguendo nel 1991 il PhD. Sino ad allora
Susan ha continuato a lavorare a Liverpool investendo la maggior
parte del suo tempo nello studio delle malattie infettive. Attualmente è Intervet Senior Lecturer in Small Animal Studies.
Susan ha lavorato come dermatologo nella clinica dei piccoli animali e continua ad insegnare in questo settore.
Il suo maggiore interesse si rivolge attualmente allo studio della
Bordetella bronchiseptica e ai calicivirus felini.
DENNIS B. DE NICOLA
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
Chief Veterinary Educator, IDEXX Laboratories
Il Dr. De Nicola ha conseguito la laurea in medicina veterinaria (DVM) nel 1978 ed il PhD nel 1981, entrambi presso la
Purdue University. Per più di 20 anni presso quella università ha
svolto il ruolo di educatore primario in Patologia Clinica e Chirurgica. Ha anche diretto il Clinical Pathology Laboratory ed il primary cytology and surgical pathology service nel Veterinary Teaching Hospital, oltre a svolgere per 15 anni un servizio di patologia
privata. È stato relatore invitato a più di 150 simposi di aggiornamento nazionali ed internazionali. Inoltre è autore e coautore di più
di 150 pubblicazioni, capitoli di libri, monografie e libri su vari
aspetti della patologia clinica veterinaria. Più recentemente, è stato
autore e coeditor di Diagnostic Cytology and Hematology of the
Dog and Cat, (Mosby, 2008).
ALBERTA DE STEFANI - LLABRES
DVM, PhD, Dipl ECVN, MRCVS, Cambridgeshire, UK
Lureata presso l’Università degli studi di Padova nel
Febbraio 2001. Ha lavorato per alcuni mesi in una clinica privata prima di iniziare un Dottorato presso l’Università degli
studi di Padova, che si è concluso con la discussine della tesi nel
2006. Nel 2002 ha iniziato un anno di internato presso The Animal
Health Trust, UK. Nel 2003 ha cominciato un programma approvato di residency in Neurologia/Neurochirurgia presso la stessa struttura. Nel 2007 si è diplomata all’Europen College of Veterinary
Neurology. Correntemente lavora come Senior Clinical Neurologist presso The Animal Health Trust, UK. Le maggiori aree di interesse sono la fisiopatologia, diagnosi e trattamneto dell’epilessia
ed il trattamento chirurgico delle patologie spinali.
MARCO DI MARCELLO
Med Vet, Brescia
Laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università
degli Studi di Milano il 1 marzo 1999, è abilitato alla
professione nel Dicembre dello stesso anno.
Dal dicembre 1999 al dicembre 2003 ha svolto attività clinica pres-
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
so gli ambulatori dell’Istituto di Clinica Medica Veterinaria della
stessa Università, occupandosi in particolare di cardiologia, ecografia ed ecocardiografia del cane e del gatto.
Nel dicembre 2003 consegue la qualifica di Dottore di Ricerca in
Diagnostica per Immagini, e nell’anno accademico 2003-2004 ha
assunto il ruolo di professore a contratto per l’insegnamento di cardiologia del cane e del gatto nell’ambito della scuola di specialità
in Patologia degli Animali da Affezione.
Attualmente svolge attività libero professionale presso il Centro
Medico veterinario “Cellatica” (BS) e svolge collaborazione di ricerca con la Sezione di Clinica Medica del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie dell’Università degli Studi di Milano, con la
Fondazione Salvatore Maugeri (Ospedale “Richiedei” - Gussago BS), con il Centro di ricerche “E. Menni” (CREM) presso la Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero (BS) e con la Clinica
Veterinaria Gran Sasso (MI).
MAURO DODESINI
Med Vet, Bergamo
Laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università degli Studi di Milano 1991 Torino, Corso organizzato da
Aivpa e Centrale di Lettura della Displasia dell’Anca nel Cane per
abilitazione a Medico Veterinario Fiduciario Aivpa 2000. Diploma
Corso Triennale di Omeopatia presso l’Associazione Omeopatica
Bresciana 20001. Diploma Corso Triennale di Omeopatia presso la
Scuola Superiore Internazionale di Medicina Veterinaria Omeopatica. 2004 Master Triennale in Omeopatia presso Centro di Omeopatia di Milano tenuto dal Dott. Roberto Petrucci, Docente del Centro di Omeopatia di Milano. Ha tenuto seminari presso il Centro di
Omeopatia di Milano sulla terapia della Spondilosi Vertebrale e
della Displasia dell’anca del cane.
Autore di diversi articoli e relatore in congressi nazionali veterinari sulla terapia della displasia dell’anca nel cane, sulla terapia della
spondilosi vertebrale, della lesione del legamento crociato, dell’incontinenza urinaria.
23-24-25\05\03 Ferrara, Centrale di Lettura della Displasia dell’anca del Cane: Aggiornamento Ricerca Radiografica Malattie
Scheletriche congenite e\o ereditarie nel Cane. Nell’elenco dei Docenti e Autore di una relazione.
Università di L’Aquila, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Corso di
Perfezionamento di Medicina Omeopatica, primo Corso organizzato in Italia in una sede accademica ufficiale, 08\01\2005 Lezione di
Clinica Veterinaria Omeopatica.
2006 Congresso Fiamo, relatore su “terapia omeopatica nella lesione
del legamento crociato del cane: studio retrospettivo di 26 casi”.
LUDOVICA DRAGONE
Med Vet, Reggio Emilia
Laureata in Medicina Veterinaria nell’anno accademico
2001-2002 presso l’Università di Parma, con tesi su
“La fisioterapia riabilitative nel cane”, relatore Dr.ssa Luisa De Risio. Nel 2003 e 2004 ha trascorso periodi di studio negli Stati Uniti, presso la University of Tennessee College of Veterinary Medicine sotto la guida del Prof. Darryl Millis ed in North Carolina sotto
la guida del Prof. Denis Marcellin. Per approfondire la conoscenza
della riabilitazione negli animali da compagnia ha completato l’iter
di studio negli Stati Uniti ottenendo, nel 2005, l’attestato di Certified Canine Rehabilitation Practitioner (CCRP), presso l’Università del Tennessee.
È autrice di articoli su riviste del settore, correlatrice di tesi presso
l’Università di Bologna, Padova, Parma e Teramo e relatrice a corsi, seminari e congressi su argomenti riguardanti la riabilitazione.
Ha partecipato a seminari e congressi nazionali ed internazionali
sul tema della fisioterapia riabilitativa negli animali da compagnia.
Dal 2003 è socia SCIVAC e SINVet.
Dal 2007 è responsabile del gruppo di studio SCIVAC sulla fisioterapia riabilitativa.
Attualmente svolge la propria attività presso l’Ambulatorio Veterinario Dog Fitness di Reggio Emilia occupandosi di riabilitazione.
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CRISTIAN FALZONE
Med Vet, Dipl ECVN, Monsummano Terme (PT)
Si laurea presso la facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Perugia nel 2001.
Dal 2001 al 2002 si dedica alla clinica dei piccoli animali svolgendo attività di libero professionista prima in una clinica veterinaria a
Perugia e quindi ad Arezzo.
Dal 2003 svolge un “Non Conforming Residency Program” (direct
supervised training) in neurologia con il Dr. Massimo Baroni (dipl.
ECVN) presso la Clinica Veterinaria Valdinievole a Monsummano
Terme (PT).
FRANCO FASSOLA
Med Vet Comportamentalista, Asti
Si laurea nel 1989 a Torino. Dal 1995 si occupa di patologia comportamentale. Segretario-tesoriere SISCA
dal ’99. Ha seguito corsi di base ed avanzati di medicina comportamentale in Italia e in Francia. Ha partecipato al corso per la formazione del diploma “Vetérinaire Comportementaliste des ENV
Francaises”. Direttore Scientifico della rivista di medicina comportamentale Sisca Observer. Ha pubblicato articoli di patologia comportamentale su riviste veterinarie e di divulgazione.
Autore di un libro sull’educazione del cane, “Educare o Ri-educare il cane”; ha collaborato alla stesura di un capitolo del libro “La
medicina comportamentale del cane e del gatto”. È stato membro
dello staff del Progetto Ex-combattenti dell’ENPA. Fa parte del
COMITATO SCIENTIFICO del Master di secondo Livello dell’Univ. di Torino. È membro dell’Ass. dei comportamentalisti francesi
Zoopsy e dell’ESVCE.
GIUSEPPE FEBBRAIO
Med Vet, Bari
Laureato nel 1992, ha conseguito il titolo di Dottore di
Ricerca nel 1999, presso l’università di Bari.
Nel 2006 ha conseguito il Diploma di Master internazionale di II livello in Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva all’Università
di Teramo. Consulente nutrizionale, ha partecipato a numerosi congressi nazionali, seminari. Svolge attività di libero professionista
nella propria clinica (Centro Veterinario Einaudi) a Bari, dove si
occupa principalmente di gastroenterologia, endoscopia, laparascopia, e patologie delle vie urinarie.
ALESSANDRA FONDATI
Med Vet, PhD, Dipl ECVD, Roma
Laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università
degli Studi di Pisa nel 1981. Si è occupata di dermatologia veterinaria come libero professionista dal 1984 al 1997, prima a Firenze quindi a Roma. Nel 1998 ha ottenuto il Diploma del
College Europeo di Dermatologia Veterinaria (ECVD) e dal 1998
al 2003 ha lavorato come Professore Associato di Dermatologia
presso l’Università Autonoma di Barcellona (Spagna). Nel 2003 ha
completato un PhD sulla patogenesi del complesso del granuloma
eosinofilico felino presso l’Università Autonoma di Barcellona. Attualmente si occupa di dermatologia veterinaria, come libero professionista, a Roma.
LUCA FORMAGGINI
Med Vet, Dormelletto (NO)
Si laurea a Milano nel Febbraio 1991. Dopo vari periodi di tirocinio in Italia e all’estero, dal 1996 lavora presso la Clinica Veterinaria “Lago Maggiore” di cui è socio
fondatore. È relatore in diversi corsi SCIVAC di chirurgia, ortopedia e medicina/chirurgia d’urgenza; ha tenuto relazioni a diversi congressi e seminari a livello nazionale e internazionale; è
autore e co-autore di vari testi scientifici pubblicati in Italia e su
riviste internazionali.
Membro SCIVAC, BSAVA, VECCS, ESVOT e EVECCS, è Resident in training per accedere all’esame dello European College of
Veterinary Surgery (ECVS).
Performance
e tenacia contro
pulci e zecche
DALLA RICERCA VETERINARIA,
PER IL MEDICO VETERINARIO
• EFFICACE: contro le pulci e le zecche
sviluppato esclusivamente
• DEDICATO:
per uso veterinario
uccide le pulci prima che depongano
• RAPIDO:
le uova; uccide le zecche prima che inizino
il pasto di sangue
ALL’ACQUA: efficace anche dopo
• RESISTENTE
shampoo e immersioni in acqua
ben tollerato anche dai cuccioli
• SICURO:
a partire dalle 8 settimane di vita
Prac-tic contiene Piriprolo
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Dal 2008 è Presidente della Società di Chirurgia Veterinaria Italiana (SCVI). I principali campi di interesse sono rivolti a tutti gli
aspetti della traumatologia (pronto soccorso, chirurgia e terapia intensiva) e alla chirurgia mini-invasiva laparoscopica e toracoscopica. I suoi hobbies comprendono la corsa, la pesca e lo snowboard.
Da osservatore ama il basket e il calcio.
DEREK B. FOX
DVM, PhD, DACVS, Missouri, USA
Il Dr. Fox ha conseguito la laurea in medicina veterinaria presso la Michigan State University nel 1998, ha
portato a termine un periodo di internato in medicina e chirurgia nei
piccoli animali presso la University of Missouri nel 1999 ed ha terminato un periodo di residenza in chirurgia dei piccoli animali
presso lo stesso istituto nel 2003. Nello stesso anno ha conseguito
il titolo di Diplomate of the American College of Veterinary Surgeons e nel 2004 ha ottenuto un PhD dalla University of Missouri
nel campo della Pathobiology, con particolare riguardo all’ingegnerizzazione del tessuto cartilagineo. Nel 2004 è anche diventato
Assistant Professor of Small Animal Orthopedic and Associate Director of the Comparative Orthopedic Laboratory presso la University of Missouri. Attualmente, la sua ricerca clinica riguarda le deformazioni angolari degli arti del cane.
PAOLO FRANCI
DVM, CVA, Padova
Laureato nel 1996 presso l’Università degli Studi di Pisa. Si è occupato di anestesia, terapia intensiva e medicina d’urgenza fin dai primi anni di professione.
Ha lavorato presso la Clinica Veterinaria Europa di Firenze nei primi anni di professione Nel 2002 è stato anestesista-rianimatore
freelance in varie strutture del Nord Italia prima di iniziare una
standard residency in anestesia presso l’Animal Health Trust Newmarket UK(2003-2006). Nel 2006 ha lavorato presso Davies Veterinary Specialist Manor Farm Business Park - Bedfordshire UK,
per poi essere responsabile dell’anestesia e terapia intensiva presso
l’Ospedale I Portoni Rossi Zola Predosa - BO. Dopo aver vinto un
concorso per ricercatore universitario, dal Settembre del 2007 insegna anestesia presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Padova.
Ha presentato lavori originali a congressi nazionali ed internazionali ed è relatore invitato a molti congressi e corsi.
GUALTIERO GANDINI
Med Vet, Dipl ECVN, Bologna
Il Prof. Gualtiero Gandini si è laureato con lode presso
la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli
Studi di Bologna nel dicembre 1990. Dal Luglio 1995 al marzo
2005 ha ricoperto il ruolo di ricercatore presso il Dipartimento Clinico Veterinario dell’Università degli Studi di Bologna.
Dal Marzo 2005 è professore associato presso la suddetta struttura.
Nel 1996 ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Medicina
Interna Veterinaria. Dal 2000 è membro dell’Executive Committee
della European Society of Veterinary Neurology (ESVN) - European College of Veterinary Neurology (ECVN) prima nelle vesti di
“member at large” (2000-2004), poi di Segretario (2004-2006) e attualmente di Vicepresidente. Nel marzo 2003 ha acquisito il titolo
di “Diplomate of the European College of Veterinary Neurology
(DECVN)” dopo aver seguito un “non-conforming residency programme” in neurologia veterinaria sotto la guida del Prof. André
Jaggy. È iscritto alla Società Italiana di Neurologia Veterinaria
(SINVet) dal 1998 e nel triennio Novembre 2004-Novembre 2007
è stato membro del Consiglio Direttivo con le funzioni di segretario. È direttore e coordinatore del Percorso di Neurologia e Neurochirurgia del cane e del gatto (2004-2007) frutto della convenzione
tra la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Bologna e
la società Performat.
È autore e coautore di circa 65 pubblicazioni scientifiche, di cui 22
su riviste internazionali peer-reviewed.
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BERNHARD GERBER
Dr Med vet, Dipl ACVIM & EECVIM-CA, Berna (CH)
Laurea presso l’Università di Berna nel 1987.
1987-1989 Libera professione.
1989-1991 Tesi di laurea in medicina veterinaria presso l’Università di Berna. 1991-1995 Libera professione.
1995-1999 Internato e residenza presso il Department of Internal
Medicine, Clinic of Companion Animals, University of Bern e
presso il Veterinary Teaching Hospital della Louisiana State University. Dal 1999 è Assistant Professor presso la Clinic for Small
Animal Internal Medicine, Vetsuisse Faculty University of Zuerich.
Diplomato ACVIM ed EECVIM-CA.
GIOVANNI GHIBAUDO
Med Vet, Samarate (VA)
Laureato presso l’Università di Milano nel 1994, dal
1996 si occupa di dermatologia veterinaria e citopatologia. Lavora come referente per la dermatologia presso strutture veterinarie a Samarate (Va) presso la Clinica Veterinaria Malpensa dove è socio e diverse strutture veterinarie in Lombardia, Emiglia Romagna e Marche. Ha svolto il corso di Dermatologia dell’ESAVS
(European School for Advanced Veterinary Studies) 1996-98. Full
member dell’ESVD (European Society of Veterinary Dermatology).
È stato istruttore al Corso base di Dermatologia della SCIVAC (Società Culturale Italiana Veterinari Animali da Compagnia) (20012003); relatore e istruttore al corso PERFORMAT all’Università di
Medicina Veterinaria di Torino nel 2005, 2008. È stato relatore al
Congresso Nazionale della SCIVAC nel 1999, 2002, 2004, 2007, e
dell’AIVPA (Associazione Italiana Veterinari dei Piccoli Animali)
nel 2004, 2007, 2008. Organizzatore, fondatore e relatore del Corso
di diagnostica e di terapia dermatologica ICF (2003 -2008). Traduttore del libro “Dermatologia del cane e del gatto” di Medleau e Hnilica 2° Ed. 2007. Autore di oltre 40 articoli su riviste veterinarie nazionali ed estere. I suoi settori d’interesse sono la citologia cutanea,
le otiti e la dermatite allergica nel cane e nel gatto.
STEFANIA GIANNI
Med Vet, Milano
Laureata nel Luglio 1991 a pieni voti all’Università di
Milano. Dal 1992 lavora presso la Clinica S Siro piccoli animali di Milano occupandosi di chirurgia d’urgenza ed ortopedia e dal 1997 con attività specialistica in neurologia clinica e
neurochirurgia. Dal 1996 al 1998 ha effettuato un periodo di tirocinio presso il dott. Massimo Baroni a Genova e successivamente numerosi corsi e periodi di aggiornamento in neurologia clinica e
neurochirurgia in particolare presso l’Università di Berna e quella
di Madison. Dal Novembre 2004 presso lavora anche presso la Clinica Veterinaria Tibaldi di Milano come responsabile del settore
neurologico. Collabora con diverse strutture veterinarie dell’area
lombarda come referente per la neurologia e la neurochirurgia. Relatrice a diversi corsi, congressi e seminari nazionali. Dal 1997
membro della SINVet e dell’ESVN. Dal Novembre 2004 membro
del consiglio direttivo SINVET.
CRISTINA GIORDANO
Med Vet, Torino
Laureata presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di
Torino nel 1993 con una tesi sul melanoma intraoculare del gatto.
Il suo interesse professionale è dedicato unicamente all’oftalmologia veterinaria ed in questo settore ha svolto numerosi periodi di
externship presso università e cliniche private negli Stati Uniti. Nel
2000 ha frequentato il Basic Science Corse dell’ACVO presso la
Facoltà di Medicina Veterinaria di Raleigh in North Carolina, nel
2004 il corso di microchirurgia oculare dell’ESAVS a Tolosa.
Ha partecipato a corsi e congressi nazionale ed internazionali sull’oftalmologia veterinaria dove è stata relatrice, autrice e co-autrice di varie pubblicazioni. Lavora a Torino dove svolge esclusivamente attività di consulenza nel campo dell’oculistica veterinaria.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
SABRINA GIUSSANI
Med Vet Comportamentalista, Dipl ENVF,
Busto Arsizio (VA)
Si laurea cum laude presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Milano. Dal 1998 si occupa di Medicina Comportamentale. È consigliere SISCA (Società Italiana di Scienze Comportamentali Applicate) dal febbraio 2002. Ha partecipato a seminari,
corsi di base, corsi avanzati di Medicina Comportamentale sia in
Italia sia in Francia. Si è diplomata Medico Veterinario Comportamentalista presso l’Ecole Nationale Française nel novembre 2002.
È stato relatore a giornate regionali, seminari, corsi di base e avanzati in Italia. Ha pubblicato articoli inerenti la Medicina Comportamentale su riviste del settore scientifico ed è autore, insieme al
Dott. Colangeli, del libro “Medicina comportamentale
del cane e del gatto” edito da Poletto nel 2004. Consegue nel dicembre 2004 il Master di specializzazione di 2° livello organizzato
dall’Università di Medicina Veterinaria di Padova in “Etologia applicata al benessere animale”.
È professore a contratto nel 2005 nel Master inerente alla Medicina Comportamentale organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Torino. È socio di Zoopsy e di ESVCE.
OSCAR GRAZIOLI
Med Vet, Reggio Emilia
Oscar Grazioli, conseguita la maturità classica, si è laureato in Medicina Veterinaria presso l’Università degli
studi di Parma nel 1978. I suoi principali campi di interesse sono
l’anestesiologia, la medicina interna e la patologia degli animali
esotici, con particolare riferimento ai rettili. Autore di diverse pubblicazioni scientifiche è stato relatore a numerosi congressi e seminari. Dal 1992 è ordinary member della Association of Veterinary
Anaesthetists (AVA) inglese. Nel triennio 1996-1998 è stato coordinatore del gruppo SCIVAC di Anestesia, Rianimazione, Medicina d’emergenza e terapia del dolore di cui è tuttora collaboratore.
Oscar Grazioli è anche giornalista pubblicista e recentemente scrittore, avendo esordito nel campo letterario con un libro intitolato
“Quello che gli animali non dicono”, che ha ottenuto unanime consenso di pubblico e di critica. Vive e lavora a Reggio Emilia.
CRAIG GREENE
DVM, MS, Dipl ACVIM, Georgia, USA
Il Dr. Craig Greene è Guest Professor presso il Department of Small Animal Medicine della University of
Georgia. Nel 1973 ha conseguito la laurea in Medicina Veterinaria
(DVM) presso la University of California ed ha portato a termine un
periodo di internato alla Cornell University. Si è trasferito per un periodo di residenza alla Auburn University ed ha ottenuto il titolo di
MS nel 1976. A partire da quell’anno ha fatto parte del corpo docente della University of Georgia, dove attualmente è Chaired Professor del Department of Small Animal Medicine. È anche board
certificate dell’American College of Veterinary Internal Medicine
nelle specialità di Medicina Interna e Neurologia. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di ricerca nei settori di medicina interna, neurologia, coagulazione del sangue e malattie infettive.
Ha ricevuto parecchi premi dalla University of Georgia, come il
Creative Research Award ed il Norden Distinguished Teaching
Award ed il Josiah Meigs Teaching Award. Il suo trattato, Infectious
Diseases of Dog and Cat, pubblicato da W.B. Saunders Co. nel 1984
e nel 1990, è stato ripubblicato come nuova edizione nel 1998.
MASSIMO GUALTIERI
Med Vet, PhD, SCMPA, Milano
Massimo Gualtieri si è laureato presso la Facoltà di
Medicina Veterinaria di Milano nel 1983. Nel 1987
consegue il diploma della Scuola di Specializzazione in Clinica
delle Malattie dei Piccoli Animali. Nel 1992 ottiene il titolo di Dottore di Ricerca e sempre nello stesso anno la nomina a Ricercatore
presso l’Istituto di Clinica Chirurgica e Radiologia Veterinaria dell’Università di Milano. Dal 1995 è docente presso la Scuola di Spe-
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cializzazione in Patologia e Clinica degli animali d’affezione della
Facoltà di Milano. Dal 1996 è docente del Corso di Medicina Operatoria del corso di Chirurgia Endoscopica. Dal 1992 è docente al
“Centro de Cirurgia de Minima Invasion” presso la Facoltà di Caceres (Spagna) per il “Corso Internazionale Teorico-Pratico di Endoscopia nei Piccoli Animali” e dal 1996 è Direttore Scientifico e
fondatore della rivista internazionale The European Journal of
Comparative Gastroenterology. Nel 1997 frequenta il Veterinary
Teaching Hospital (Surgery Unit) presso la Colorado State University (USA), dove viene nominato Supervisor della Endoscopy Unit.
Dal 2000 è Past President della European Society of Compartative
Gastroenterology (ESCG) della quale è inoltre membro fondatore
(1993). Massimo Gualtieri è autore e coautore di più di 80 pubblicazioni su riviste italiane ed estere comprese le comunicazioni congressuali, CD-Rom e videocassette.
LUCA GUARDABASSI
Med Vet, Dipl ECVPH, Copenhagen, (DK)
Professore associato di Microbiologia Clinica - Department of Veterinary Pathobiology, Faculty of Life Sciences, University of Copenhagen, Danimarca. Nato a Firenze nel 1966.
Laureato in medicina veterinaria nel 1994 alla Facoltà di Pisa. Diplomate of the European College of Veterinary Public Health (ECVPH).
Esperto di batteriologia ed antibioticoresistenza. Autore di oltre 50
pubblicazioni in riviste scientifiche e conferenze internazionali. Ha
scritto recentemente un libro, pubblicato da Blackwell, sull’uso prudente e razionale degli antimicrobici negli animali domestici.
JOHNNY D. HOSKINS
DVM, Dipl ACVIM, Louisiana (USA)
Il Dr. Hoskins si è laureato in Medicina Veterinaria
(DVM) nel 1968 alla Oklahoma State University. Ha effettuato un periodo di internato sui piccoli animali ed ha conseguito
il PhD in Veterinary Pathology presso la Iowa State University. È
Diplomate of the American College of Veterinary Internal Medicine, con specialità in Small Animal Internal Medicine e Small Animal Pediatrics. È Professor Emeritus presso la Lousiana State University School of Veterinary Medicine. Attualmente offre ai veterinari pratici un servizio di consulenza sulla medicina interna dei piccoli animali attraverso la DocuTech Services, Inc. È autore di numerosi articoli scientifici e dei trattati clinici Veterinary Pediatrics:
Dogs and Cats from Birth to Six Months e Geriatrics & Gerontology
of the Dog and Cat. Tiene una rubrica mensile su DVM Newsmagazine su argomenti selezionati di pediatria e geriatria nei piccoli
animali. È ben noto e riconosciuto come docente a livello nazionale
ed internazionale su molti argomenti clinici correlati alla professione nel settore della medicina interna dei piccoli animali.
CLÉMENTINE JEAN-PHILIPPE
DVM, PhD, France
Si laurea in Medicina veterinaria presso l’Uuniversità
di Alfort nel 1995 dove è stata Scientific assistant nel
dipartimento di nutrizione animale con il professor Wolter.
Nel 1999 termina il PhD in Nutrizione al National Agronomic Institute di Parigi (Adattamento comportamentale e metabolico alla
dieta con elevato apporto proteico). Dal 1995 al 1997 frequenta e
porta a termine il Master in scienze mediche e fisiologiche a Parigi. Dal 2000 al 2007 lavora presso la Nestlé Purina PTC: Ricerca e
sviluppo nella nutrizione ad Amiens in Francia.
Attualmente collabora con Nestlé Purina PetCare Europe nel ruolo
di European Veterinary Communication Manager.
MELISSA KELLY
PhD, Missouri (USA)
La Dr. Melissa Kelly si laurea in Scienze della Nutrizione presso l’Università di Greensboro, North Carolina (USA). Durante il corso di laurea, la Dr. Kelly ha lavorato come
Nutrizionista Clinico, acquisendo la sua prima esperienza pratica
nel campo della “corretta nutrizione e del benessere”. Terminata la
®
Gold sponsor at:
www.icfsrl.com
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
tesi, accetta un incarico presso la Nestlè Purina PetCare Research
nel Global Technical Communications Team. È responsabile dello
sviluppo e dell’implementazione dei programmi di comunicazione
globale che aiutano la comunità scientifica e veterinaria nella comprensione della scienza e della tecnologia di Purina Nestlè.
La Dr. Kelly impegna la maggior parte del suo tempo nello sviluppo e nella gestione della comunicazione scientifica per Nestlè Purina PetCare Europe, sviluppando comunicazioni ai consumatori e
ai veterinari, associandole al lancio di nuovi prodotti e alle nuove
scoperte scientifiche, così come si impegna in corsi di formazione
interni in aree relative alla nutrizione dei Pet.
Fornisce anche relazioni scientifiche ai Congressi Veterinari sulla
nutrizione degli animali da compagnia. I principali argomenti di interesse della Dr. Kelly includono la nutrizione, la gestione del peso, le proteine, i probiotici e l’invecchiamento.
JOLLE KIRPENSTEIJN
DVM, PhD, Dipl ACVS, Dipl ECVS, Utrecht (NL)
Jolle Kirpensteijn si è laureato alla Utrecht University
Faculty of Veterinary Medicine, in Olanda, nel 1988 ed
ha portato a termine un periodo di internato in medicina dei piccoli
animali e chirurgia alla University of Georgia negli Stati Uniti d’America nel 1989. Dopo il suo internato, ha completato un periodo di
residenza in chirurgia dei piccoli animali e conseguito un Master
presso la Kansas State University, USA. La residenza è stata seguita da un fellowship in oncologia chirurgica presso la Colorado State University Comparative Oncology Unit, USA. Nel 1993, Jolle è
tornato in Europa per accettare un Associate-professorship in oncologia chirurgica e chirurgia dei tessuti molli presso la University of
Utrecht. Nel febbraio del 2005 è stato nominato Professore di Chirurgia presso la University of Copenhagen. È Diplomate of the
American and European College of Veterinary Surgeons ed è stato
membro attivo del board of Regents di questo College. Dall’ottobre
2006 è membro dell’executive board della World Small Animal Veterinary Association, attualmente come vicepresidente. I suoi principali interessi clinici e di ricerca sono l’oncologia chirurgica e la
chirurgia ricostruttiva e traumatologica. Nel 1999 ha conseguito il
PhD sull’osteosarcoma ed attualmente svolge un ruolo attivo nella
ricerca sulla patogenesi di questa neoplasia nel cane e nel gatto, sulla chirurgia endoscopica e sulla traumatologia. Ha pubblicato più di
50 articoli su riviste referee e tenuto più di 200 lezioni in tutto il
mondo ed ha ricevuto il prestigioso BSAVA Simon Award nel 2007.
ADRIANO LACHIN
Med Vet, Venezia
Si laurea presso l’Università degli Studi di Parma nel
1996. Nel 1997 ha intrapreso un periodo di tirocinio
della durata di tre anni nel reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale “Villa Salus” di Mestre (Ve) frequentando attivamente la
sala operatoria, successivamente, con le medesime modalità, ha
frequentato per due anni il reparto di Chirurgia Generale dell’Ospedale di Dolo (Ve). Relatore ed istruttore al Corso base di Anestesia SCIVAC e al Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
di Rimini dal 2004 al 2007, nonché relatore a numerosi seminari
e corsi di livello base ed avanzato sull’argomento. Ha collaborato
alla stesura di un capitolo del libro “Medicina d’urgenza e terapia
intensiva del cane e del gatto” (Masson-2004); nel 2005 ha curato l’edizione Italiana dell’opera in lingua tedesca (J. Henke e W.
Erhardt) di “Terapia del dolore negli animali da compagnia”
(Masson 2006), nel 2007 ha curato la 2a edizione italiana (Elsevier-Masson-2008) sulla 4a americana del “Handbook of Veterinary Anesthesia” (W.W.Muir, J.A.E.Hubbel). Presidente dal 2008
della SIARMUV (Società Italiana di Anestesia, Rianimazione e
Medicina d’Urgenza Veterinaria) e della società europea di anestesia veterinaria (Association of Veterinary Anaesthesist). Da diversi anni collabora con la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli studi di Perugia mediante attività di consulenza
scientifico-didattica. Nel 2006 ha frequentato per diversi mesi la
divisione di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Padova
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presso il reparto di Chirurgia Pediatrica. Attualmente svolge l’attività libero professionale nel suo ambulatorio in provincia di Venezia e in due Cliniche Veterinarie a Padova e a Vicenza, dove si
occupa esclusivamente di Anestesia.
FEDERICO LEONE
Med Vet, Senigallia (Ancona)
Nato a Roma, vive e lavora a Senigallia presso la Clinica Veterinaria Adriatica. Si occupa di dermatologia
da più di dieci anni con particolare interesse alla parassitologia cutanea e all’otologia.
UGO LOTTI
Med Vet, Monsummano Terme (PT)
Si è laureato con lode in Medicina Veterinaria presso
l’Università di Pisa nel 1981. Dopo il servizio militare,
si è dedicato ad una “mixed practice” fino al 1988, occupandosi
principalmente di medicina equina e dei piccoli animali. Nel 1989
si è specializzato in medicina dei piccoli animali presso l’Università di Pisa. Dal 1990 si occupa esclusivamente di medicina dei piccoli animali. Dal 1994 la sua area di interesse principale è la Medicina Interna del cane e del gatto. Autore di pubblicazioni su riviste
nazionali e internazionali. Relatore presso numerosi corsi, seminari e congressi nazionali organizzati dalla SCIVAC. Autore di alcune presentazioni presso congressi internazionali (ESVIM - European Society of Veterinary Internal Medicine) di Medicina Interna.
Dal 1995 al 2001 ha fatto parte del Consiglio Direttivo della SCIVAC, di cui è stato segretario. Dal 2001 al 2004 è stato membro
della Commissione scientifica della SCIVAC. Dal 2002 al 2005 è
stato direttore del corso di Metodologia Clinica in Medicina Interna della SCIVAC. Dal 2004 al 2007 è stato presidente della SIMIV
(Società Italiana di Medicina Interna Veterinaria). Attualmente
svolge la propria attività presso la clinica veterinaria “Valdinievole” a Monsummano Terme in Toscana, dove si occupa principalmente di medicina interna, gastroenterologia ed endoscopia.
KRISTIN MACDONALD
DVM, PhD, Dipl ACVIM (Cardiology), Davis USA
La Dr.ssa Kristin MacDonald ha conseguito la laurea in
medicina veterinaria nel 1998 presso la Auburn University e poi ha portato a termine un periodo di internato in medicina e chirurgia dei piccoli animali presso la Michigan State University nel 1999. Ha completato un periodo di residenza in cardiologia veterinaria presso la University of California, Davis, nel 2000
ed ha ottenuto un PhD presso la UC Davis Comparative Pathology
graduate group nel settembre 2005. La sua ricerca di dottorato ha
riguardato la miocardiopatia ipertrofica dei gatti Maine Coon e gli
effetti degli ACE-inibitori. La Dr.ssa MacDonald è board certified
veterinary cardiologist del College of Veterinary Internal Medicine
e dal 2003ha lavorato presso l’Animal Care Center di Sonoma, in
Rohnert Park, California. La Dr.ssa MacDonald ha insegnato alla
Facoltà della UC Davis per un anno ed ora è adjunct clinical professor presso la stessa Università. Ha pubblicato capitoli in Veterinary Clinics of North America, Kirk’s Current Veterinary Therapy
e The Textbook of Veterinary Internal Medicine, è stata editor della sezione di cardiologia per Handbook of Small Animal Practice
nonché autrice di parecchi articoli per il Journal of Veterinary Internal Medicine, American Journal of Veterinary Research, e Veterinary Radiology and Ultrasound. Attualmente sta lavorando con
diversi colleghi su un trattato completo di cardiologia felina.
GIAN LUIGI MANARA
Med Vet, Torino
Gian Luigi Manara si laurea a bologna discutendo un
atesi in patologia chirurgica dal titolo “Urolitiasi nel
cane”. Dopo un periodo di soggiorno all’estero presso l’Animal
Medical Center di New York rientra a Trento dove svolge attività libero professionale occupandosi prevalentemente di casi ortopedici.
Autore di numerosi articoli inerenti l’ortopedia negli animali da
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
compagnia, ricopre la carica di presidente della Società Italiana di
Traumatologia ed Ortopedia Veterinaria dal 2005. Docente ed
istruttore a corsi pratici di fissazione esterna,chirurgia del ginocchio e dell’anca è mambro di numerose Società Culturali quali
AIVPA, SITOV, SCIVAC, ESVOT, WWHA.
STANLEY L. MARKS
BVSc, PhD, Dipl ACVIM (Internal Medicine Oncology),
Dipl ACVN, California, USA
Laureato nel 1986 all’Università di Pretoria nel Sud Africa. Nel
1987 ha completato un internship in medicina e chirurgia dei piccoli animali all’Università del Missouri (Columbia). Successivamente ha compiuto un residency in medicina interna all’Università
della Florida e un residency all’Università della California (Davis).
Ha conseguito il PhD in nutrizione presso l’Università della California, dove attualmente svolge il ruolo di Professore Associato in
Medicina nel Dipartimento di Medicina ed Epidemiologia. È diplomato ACVIM (medicina interna e oncologia) ed ACVN. I suoi
ambiti di ricerca comprendono la gastroenterologia dei piccoli animali, in particolare la modulazione dietetica della funzionalità della barriera mocosale e le gastroenteriti batteriche
ANDREA MARTINOLI
Med Vet, Milano
Dal 1983 al 1990 trascorre un periodo di internato presso l’Istituto di Clinica Chirurgica Veterinaria della Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano.
Durante tale periodo partecipa a numerosi progetti di ricerca, alla
stesura di numerosi articoli e tesi di laurea tra le quali in particolare “Osservazioni generali sull’applicazione della Fisioterapia nella riabilitazione al movimento del cane e nel gatto”. Si Laurea nel
1990 presso il medesimo Istituto. Dal 1991 è Direttore Sanitario di
una struttura Veterinaria nell’ambito della quale si occupa prevalentemente del settore chirurgico ed ortopedico. Dal 1992 al 1995
riveste il ruolo di Direttore Sanitario dell’Ambulatorio Veterinario
del “Centro di Recupero Fauna Selvatica” del Parco Lombardo della Valle del Ticino. Dal 1993 si occupa attivamente della gestione
di animali d’affezione affetti da disabilità motorie. Dal 1995 si occupa della gestione sanitaria del Centro Cinofilo, Addestramento,
Pensione ed Allevamento, nell’ambito del quale nel 1998 viene attivato un centro che si occupa esclusivamente di fisioterapia e riabilitazione dei piccoli animali. Nel 1997 partecipa in qualità di relatore al Congresso S.I.N.Vet con una relazione riguardante l’uso
dei carrelli ortopedici. Nell’anno 2004-2005 frequenta la prima edizione della Scuola Italiana di Fisioterapia Veterinaria per Piccoli
Animali presso il Centro Allevamento e Addestramento della Guardia di Finanza di Castiglione del Lago (PG). Nel 2007 ha partecipato in qualità di relatore al Congresso annuale Scivac e ad incontri del Gruppo di Studio di Fisioterapia Veterinaria presentando alcune relazioni riguardanti la fisioterapia e l’uso dei carrelli ortopedici nei piccoli animali. Collabora tuttora con numerose strutture
veterinarie offrendo la propria consulenza in campo chirurgico, ortopedico e fisioterapico.
GUIDO MASSIMELLO
Med Vet, Torino
Laureato presso la facoltà di Medicina Veterinaria di
Torino, ha conseguito i diplomi di specializzazione in
“Fisiopatologia della rirpoduzione degli animali domestci” presso
l’Università di Pisa, “Sanità animale, igiene degli allevamenti e delle produzioni animali” e “Patologia e clinica degli animali d’affezione” presso l’Università di Pisa. Ha frequentato il Master di II livello in “Clinica delle malattie comportamentali del cane e del gatto” presso l’Università di Torino. È stato professore a contratto. Ha
tenuto conferenze presso le Università di Torino, Pisa, Milano, ed
in molte altre sedi. Ha scritto diverse pubblicazioni. È allevatore di
Cani da Montagna dei Pirenei ed è giudice internazionale
E.N.C.I./F.C.I. È dirigente presso la A.S.L. Torino 2.
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JOHN MATTOON
DVM, Dipl ACVR, Washington, USA
Il dr. Mattoon ha frequentato la Oregon State e la Washington State University laureandosi nel 1984 in medicina
Veterinaria. Dopo 2 anni di pratica in una clinica privata ha fatto il residency in radiologia presso l’università della California a Davis diplomandosi all’American College of Veterinary Radiology nel 1989. Ha
lavorato privatamente come specialista radiologo e presso le Facoltà di
UC Davis, Oregon State University, Atlantic Veterinary College e all’Ohio State University. Attualmente è professore associato di radiologia alla Washington State University. Il dr. Mattoon è forse maggiormente conosciuto per il suo interesse nella diagnostica ultrasuoni e come co autore e autore dello Small Animal Diagnostic Ultrasound.
ALESSANDRO MELILLO
Med Vet, Roma
Nato a Roma il 12 gennaio 1970, si è laureato a Pisa nel
1997 con una tesi sull’anestesia dei Mammiferi esotici e
selvatici in collaborazione con il Giardino Zoologico di Pistoia. Fin
dall’inizio una prepotente passione per gli animali cosiddetti non convenzionali lo portava a lavorare quasi esclusivamente con conigli, roditori, pappagalli, rettili e furetti. È socio di diverse associazioni di appassionati di furetti e di veterinari specialisti in animali non convenzionali e ha sempre partecipato attivamente alla vita associativa della
SIVAE (Società Italiana Veterinari per Animali Esotici) di cui è socio
fondatore, anche in qualità di relatore a diversi corsi e congressi nazionali e internazionali. Ha scritto articoli per diverse riviste, fra cui
Veterinary Clinics of North America, Journal of Exotic Pet Medicine,
il nostro Exotic Files e diverse riviste divulgative. Dal 2000 lavora
presso la Clinica Veterinaria Omniavet, in Roma, di cui è socio fondatore e responsabile del settore Animali Esotici e Non Convenzionali.
ISABELLA MEROLA
Med Vet, Milano
Si laurea cum laude presso la facoltà di Medicina Veterinaria di Napoli. Dal 2004 si occupa di Medicina
Comportamentale. È socio SISCA (Società Italiana di Scienze
Comportamentali Applicate) dal febbraio 2004. Ha partecipato a
seminari, corsi di base, corsi avanzati di Medicina Comportamentale in Italia. Consegue nel 2008 il Master di specializzazione di 2°
livello organizzato dall’Università di Medicina Veterinaria di Padova e Bologna in “Etologia applicata al benessere animale”.
CARLO MARIA MORTELLARO
Med Vet, Milano
Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano nel 1974, è stato professore di Anestesiologia Veterinaria presso la stessa Università dal
1976 al 1979. Dal 1980 al 1992 ha ricoperto il ruolo di Professore
Associato di Patologia Chirurgica Veterinaria e Podologia, e nel
1993 è stato nominato Professore Ordinario di Patologia Chirurgica
Veterinaria, ruolo che tuttora ricopre. I suoi principali interessi
scientifici sono rappresentati dalle patologie di orecchio, naso gola
e cavo orale nel cane e nel gatto, endoscopia delle vie aeree superiori ed infine patologie della regione anale e circumanale. Da un
estremo all’altro del corpo senza transitare nel mezzo. In questi ultimi anni un interesse particolare è stato rivolto alle patologie osteoarticolari distrofico-displastiche (nota la sua avversione per le forme
“carenziali”) e soprattutto alle patologie degenerative. Past president
dell’IVENTA (International Veterinary Ear Nose and Throat Association) e della SIOVET (Società Italiana di Ortopedia Veterinaria)
e presidente IOVA (Innovet Osteoarthritis Veterinary Association) è
membro di numerose Società Scientifiche. È autore-coautore di 180
pubblicazioni, coautore del testo “Le lesioni digitali del bovino” in
collaborazione con Renato Cheli e Flaminio Addis e “Clinical Atlas
of Ear, Nose and Throat Diseases in Small Animals”. È stato relatore in numerosi congressi e seminari di aggiornamento post-universitario in Italia ed all’Estero. Hobbies: giardinaggio (Camelie, Agrumi, Bouganvillae, Lantane), orticoltura, orologi Breitling.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
CHIARA NOLI
Med Vet, Dipl ECVD, Cuneo, I
Laureata all’Università di Milano nel 1990, è specialista in Malattie dei Piccoli Animali dal 1995. Ha frequentato un periodo di specializzazione di tre anni in dermatologia
veterinaria presso l’Università di Utrecht, Paesi Bassi, e nel 1996
ha conseguito il Diploma del College Europeo di Dermatologia Veterinaria (Dip ECVD). Dal 1996 lavora in Italia eseguendo esclusivamente consulenze dermatologiche e letture dermatopatologiche.
È stata Presidente della Società Italiana di Dermatologia Veterinaria (SIDEV), membro del Consiglio Direttivo della Società Internazionale di Dermatopatologia Veterinaria (ISVD) ed è attualmente Presidente della ESVD (Società Europea di Dermatologia Veterinaria). La Dr.ssa Noli è relatrice in congressi italiani ed internazionali, autrice di numerosi articoli su riviste italiane e straniere e
di sei capitoli di libri. Con la Dr.ssa Fabia Scarampella è co-autrice del volume “Dermatologia del Cane e del Gatto”, Poletto Editore, 2002, tradotto anche in tedesco.
MARIA SERAFINA NUOVO
Med Vet, Torino
Ha frequentato e concluso il corso base del CISDO
(Centro Italiano Studi e Documentazione Omeopatica Boiron-) negli anni 1982-1985. Si laurea in Medicina Veterinaria a
Torino nel 1985 con punti 108/110 con una tesi sperimentale sull’impiego dell’Omeopatia nella clinica degli animali d’affezione
(prima tesi in Italia). Allieva del Dr. Franco Del Francia dal 1986 al
1989 (Corso Aivo -Roma-), è stata poi membro del Consiglio Direttivo dell’AIVO (Associazione Italiana di Veterinaria Omeopatica)
dal 1989 al 1991 e docente presso la Scuola Superiore Internazionale di Veterinaria di Cortona (Arezzo) negli anni 1990 e 1991. È
docente dal 1994 a tutt’oggi nella Scuola Medica Omeopatica Hahnemanniana di Torino, affiliata alla FIAMO (Federazione Italiana
delle Associazioni e dei Medici Omeopatici). Ha fatto parte del corpo docenti del primo corso di perfezionamento in Medicine Energetiche istituito nell’anno 2000/2001 presso l’ASSL di Tolmezzo
(Udine) e patrocinato dall’Università di Medicina Veterinaria di
Udine. Membro, fin dalla sua costituzione, del Gruppo di studio di
medicina non convenzionale nato in seno alla SCIVAC, successivamente convertito in SIMVeNCo (Società di Medicina Veterinaria
Non Convenzionale). Ha conseguito nel gennaio 2007 il diploma del
Master di II° livello in clinica delle malattie comportamentali del cane e del gatto istituito dalla Facoltà di Veterinaria di Torino. È stata
eletta presidente della SIMVeNCo per il triennio 2008/2010.
GAETANO OLIVA
Med Vet, Napoli
Il prof. Oliva Gaetano è nato a Salerno l’11/08/1960. Si
è laureato in Medicina Veterinaria presso la Facoltà di
Napoli, il 31/07/1984. La sua formazione scientifica si è affinata
presso la Sezione di Clinica Medica Veterinaria (già Istituto di Clinica Medica Veterinaria) della suddetta Facoltà, presso la quale tuttora opera in qualità di professore ordinario di Terapia Medica Veterinaria. Da alcuni anni, tiene, per supplenza, anche l’insegnamento
di Diagnostica di Laboratorio Medica Veterinaria. Nel periodo Novembre 1990 - Febbraio 1991, ha avuto modo di svolgere un periodo di studio presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Utrecht, Olanda. Autore di 100 pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali, frutto anche di Alessandra Fondati.
LAURA ORDEIX
Med Vet, Dipl ECVD, Barcelona (E)
Laura Ordeix si è laureata nel 1996 in Medicina Veterinaria all’Universitat Autonoma de Barcelona. Ha seguito dal 1996 al 1997 il programma di Internship presso l’ospedale veterinario della stessa università. Dopo un periodo di lavoro come veterinario nel medesimo ospedale, ha iniziato nel 1998 un Residency di specializzazione di tre anni in dermatologia veterinaria
presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Universitat Autono-
23
ma de Barcelona. Ha ottenuto il Diploma del College Europeo di
Dermatologia Veterinaria (ECVD) nel 2002. È autrice di articoli
pubblicati su riviste internazionali e nazionali ed dal 2006 è responsabile scientifico del Itinerario didattico di dermatologia della
Scuola di Formazione Veterinaria post-Universitaria. Attualmente
lavora eseguendo consulenze dermatologiche come libero professionista e come consulente per un laboratorio di analisi in dermatologia veterinaria a Barcellona.
PATRICK PAGEAT
Dr Vet, MSc, PhD, Apt (F)
Patrick Pageat si è laureato in medicina veterinaria
(DVM) nel 1984 presso la Scuola Nazionale Veterinaria
di Lione ed ha ottenuto il PhD dalla Facoltà di Parigi-VI nel 1991
(con uno studio sul comportamento predatorio della vespa Philanthus triangulum). Ha conseguito un diploma in comportamento veterinario presso Scuole Veterinarie Francesi, nonché dall’ECBVM.
Per diversi anni è stato professore associato delle Scuole Veterinarie
Francesi. Dopo 7 anni di professione esercitata presso una propria
clinica, ha fondato la Pherosynthese, che è un laboratorio privato di
ricerca e sviluppo specializzato nella comunicazione chimica e ben
inserito sul mercato dell’Animal Welfare. Il suo lavoro apporta grandi benefici al benessere animale grazie alla sintesi dei feromoni che
il laboratorio ha introdotto nel mondo degli allevatori e dei proprietari privati degli animali da compagnia in Francia e all’estero, nonché attraverso alcuni grandi laboratori. È stato eletto Presidente del
GECAF per due periodi (gruppo di studio specializzato sul comportamento degli animali da compagnia all’interno della CNVSPA), Vice-Presidente della European Society for Veterinary Clinical Ethology Member of AVSAB. Ha tenuto lezioni in congressi nazionali
ed internazionali sul comportamento animale e sulla psichiatria
umana e sulla psicofarmacologia. È autore di lavori in francese ed
in inglese pubblicati su riviste referee. Ha pubblicato molti contributi a vari libri su argomenti correlati al comportamento. È autore di
“Pathologie du comportement du chien” Ed. Point Vétérinaire 1996.
È autore di «L’homme et le chien» editore Odile Jacob (pubblicato
nel 1999). Di prossima traduzione in inglese. Disponibile in spagnolo ed italiano. Coautore di un’enciclopedia del cane per l’editore Rustica. Pubblicazione nel 2004.
BRUNO PEIRONE
Med Vet, PhD, Università di Torino
Professore Associato presso il Dipartimento di Patologia Animale dell’Università di Torino ed è titolare dei
corsi di “Patologia Chirurgica”, “Metodologie Chirurgiche” e “Clinica Ortopedica e Traumatologica”. I suoi campi di ricerca sono:
tecniche di chirurgia ricostruttiva ossea mini-invasiva, chirurgia
protesica dell’anca, chirurgia del ginocchio, deformità scheletriche.
Membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in
“Scienze Veterinarie” dell’Università di Torino. Past-Presidente
della SIOVET (Società Italiana Ortopedia Veterinaria) dal 2007 e
membro del Consiglio Direttivo SCIVAC dal 2008. Chair dell’Educational Committee della AO VET International dal 2006. Membro del SACcVet dell AO International dal 2007. Co-Direttore del
percorso di Ortopedia in collaborazione con Scivac Ha partecipato
a numerosi corsi di aggiornamento sulle tecniche di chirurgia ossea
ricostruttiva e sulle tecniche ortopediche per il trattamento delle patologie articolari. Ha partecipato, in qualità di relatore, a diversi
corsi di aggiornamento e congressi scientifici internazionali e nazionali. È autore di circa 90 lavori a stampa, apparsi su riviste nazionali e Internazionali, ha curato la traduzione italiana di alcuni libri di argomento ortopedico.
IGOR PELIZZONE
Med Vet, Reggio Emilia
Il Dr. Igor Pelizzone, conseguita la maturità scientifica,
si laurea a Parma nell’anno 2000. Nello stesso anno effettua un tirocinio pratico presso la clinica di fauna selvatica dell’ècole nationale vetèrinaire di Tolosa (Francia). Dal 2000 al 2002
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
frequenta la clinica veterinaria Città di Pavia dove si occupa di animali non convenzionali. Dal 2002 al 2005 frequenta l’Ambulatorio
Veterinario Belvedere di Reggio Emilia dove si occupa, assieme al
Dr. Oscar Grazioli, di animali non convenzionali. È socio fondatore dell’allevamento di rettili Herptop di Noceto (Parma). Dal 2003
al 2005 è chiamato all’Università di Parma per alcune lezioni slu
management dei rettli. Dal 2004 scrive articoli su rettili, furetti, lagomorfi e roditori. Nel 2004 è relatore per l’APVAC di Parma sull’argomento “anestesia bilanciata dei rettili” assieme al Dr. Oscar
Grazioli. Vive a Parma e lavora presso l’Ambulatorio Veterinario
Belvedere di Reggio Emilia.
MASSIMO PETAZZONI
Med Vet, Milano
Massimo Petazzoni si è laureato a Milano nel 1997. È
responsabile del reparto di Ortopedia della Clinica Veterinaria Milano Sud di cui è Direttore Sanitario. È membro di AOVet International, ESVOT, SCIVAC, IEWG, VIN e AVORE. È relatore ai corsi SCIVAC: “Vie d’accesso”, “Estremità distali”, “Fissazione esterna”. Dal 1998 al 2006 è stato consulente Hill’s per le
patologie scheletriche dell’accrescimento. Ha presentato 120 relazioni a corsi, congressi e seminari su argomenti di Ortopedia. È autore di 9 pubblicazioni scientifiche. È coautore del Testo Atlante
BOA (Breed-Oriented Orthopaedic Approach) ed autore dell’Atlante di Goniometria Clinica e Radiografica dell’arto pelvico del
cane. Fra il 2005 ed il 2008 ha sviluppato la linea veterinaria del
fissatore interno a stabilità angolare Fixin. Da Novembre 2007 è segretario della Società Italiana di Ortopedia Veterinaria (SIOVET).
FRANCESCA PISSERI
Med Vet, Pisa
Veterinario omeopata dal 1991.
Svolge attività libero-professionale occupandosi prevalentemente di omeopatia e di fitoterapia applicate agli animali da
affezione (cane e gatto), equini e ruminanti. Dal 1995 è docente di
omeopatia veterinaria tenendo corsi, lezioni e conferenze presso diversi enti pubblici e privati, quali Società scientifiche, Università,
Associazioni di categoria. Attualmente dirige la Sezione Veterinaria della Scuola CIMI-Koinè. Si occupa di ricerca in collaborazione coi Dipartimenti di Clinica Veterinaria, di Produzioni Animali e
di Patologia Animale della Facoltà di Medicina Veterinaria di Pisa.
MARZIA POSSENTI
Med Vet, Cassano D’adda (MI)
Si Laurea in Medicina Veterinaria presso l’Università
degli Studi di Perugia il 7/3/1996 con una tesi suimarcatori di benessere negli animali. Nel 1996 vince la borsa di studio
S. S. Vet. per un progetto di ricerca sulle “Variazioni stagionali dei
livelli ematici degli ormoni tiroidei e sessuali in daini (Dama dama) allevati in semi-libertà”. Dal settembre 1996 esercita la libera
professione, prima collaborando con diverse strutture ed in seguito
in una struttura propria, occupandosi revalentemente di medicina
del comportamento, di animali esotici e di patologie del comportamento in cane, gatto ed animali esotici. Da 11 anni effettua consulenze di medicina del comportamento di cane, gatto e nuovi animali
da compagnia, da 7 anni anche per altre strutture veterinarie del
centro-nord Italia. Da un anno organizza classi di cuccioli e da 3 altre iniziative volte al miglioramento del rapporto uomo-animale.
Socia SISCA (società italiana scienze del comportamento applicate) e SIVAE (società italiana veterinari per animali esotici) dal
1996, ha partecipato a numerosi corsi e seminari di aggiornamento. Da gennaio 2005 fornisce consulenze via internet sul comportamento del coniglio per diverse associazioni.
Ha pubblicato su Sisca observer l’articolo “il comportamento del
coniglio: similitudini e differenze fra coniglio selvatico e domestico” e, sul numero monografico di “Veterinaria” per i dieci anni della SISCA, un articolo sul comportamento del furetto. Ha tenuto diverse relazioni sulla medicina del comportamento di cane, gatto ed
animali esotici. È stata relatrice a tutti i moduli del primo itinerario
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formativo SISCA sulla medicina del comportamento e al modulo
sulla medicina e chirurgia del coniglio SIVAE. Dal novembre 2005
è coordinatrice del gruppo di studio del nord est della SISCA e collabora attivamente al restyling del sito della società.
ALEXANDER REITER
Med Vet, Dipl TzT, Dipl AVDC, Dipl EVDC,
Pennsylvania, USA
Dopo la laurea presso la University of Veterinary Medicine Vienna/Austria nel 1996, il Dr. Alex Reiter ha trascorso 1,5
anni ad esercitare la libera professione a Phoenix/Arizona/USA,
prima di iniziare un periodo di residenza di due anni in odontoiatria e chirurgia orale presso la University of Pennsylvania in Philadelphia School of Veterinary Medicine. Dopo un ciclo di studi di tre
anni ed il completamento di una tesi sul riassorbimento dei denti
del gatto, è entrato a far parte della Standing Faculty della University of Pennsylvania School of Veterinary Medicine come Assistant
Professor of Dentistry and Oral Surgery nel 2003. Il Dr. Reiter è
membro dell’American Veterinary Dental College (AVDC) e della
European Veterinary Dental College (EVDC). È Head of the Dentistry ad Oral Surgery Service della University of Pennsylvania
School of Veterinary Medicine. I suoi interessi nel campo della ricerca sono rappresentati dagli aspetti comparativi del riassorbimento dei denti nei carnivori domestici e nell’uomo, dalla chirurgia periodontale, dalla chirurgia orale e maxillofacciale (traumatologica ed oncologica), dalla ricostruzione palatina e facciale, dalle
manifestazioni orali di malattia sistemica e dalle manifestazioni sistemiche delle malattie orali.
BARBARA RIGAMONTI
Med Vet, VetMFHom, Genova
Barbara Rigamonti, medico veterinario libero professionista dal 1986, vivo e lavoro a Genova. Diplomata in
omeopatia presso la Scuola di Cortona nel 1986, e presso la Scuola Dulcamara di Genova nel 1991, dallo stesso anno collaboro alla
didattica della Scuola Dulcamara, sede accreditata della Facoltà di
Omeopatia del Regno Unito; presso questa Scuola dal 1995 sono
direttore della didattica veterinaria. Ho insegnato anche alla Scuola di Cortona, alla Scuola di Omeopatia di Verona ed alla Scuola
Lycopodium di Firenze. Ho tenuto seminari presso l’Università
dell’Havana durante un intervento di cooperazione medica internazionale, e presso un master in omeopatia veterinaria all’Università
statale spagnola, nelle Facoltà di Saragozza e di San Sebastian. Dal
2006 sono membro della Facoltà di Omeopatia del Regno Unito.
Dal 2007 collaboro con la Scuola di Specializzazione in benessere
animale della Facoltà di Medicina veterinaria di Milano. Sono stata presidente della Federazione italiana delle associazioni e dei Medici omeopatici; ho fatto parte della SIMVENCO dalla sua fondazione, e ne sono stata Presidente dal 2004 al 2007.
STEFANO ROMUSSI
Med Vet, Milano
Stefano Romussi si laurea in medicina veterinaria presso la facoltà di Milano nel 1990 con pieni voti assoluti
e lode. Dottore di ricerca nel 1995 e ricercatore l’anno successivo
si occupa da subito di chirurgia dei tessuti molli e di endoscopia degli apparati respiratorio ed urogenitale. Professore associato in chirurgia veterinaria docente di Chirurgia dei piccoli animali presso la
facoltà milanese dal 2000 ed ora di Semeiotica Chirurgica Veterinaria. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di aggiornamento permanente.
ROBERTO A. SANTILLI
Med Vet, Dipl ECVIM-CA (Card), Malpensa (VA)
Laureato presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di
Milano nel 1990. Si è diplomato all’European College
of Veterinary Internal Medicine - Companion Animals (Specialty of
Cardiology) nel 1999. Lavora presso la Clinica Veterinaria Malpensa in Samarate (Varese) come referente per la cardiologia. È sta-
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
to professore a contratto in cardiologia per l’anno 1997-1998 presso la Scuola di Specializzazione in Patologia e Clinica degli animali d’affezione dell’Università degli Studi di Milano e per l’anno
2003-2004 e 2005-2007 presso l’Università degli Studi di Torino
per il Master di II° livello in Malattie cardiovascolari. Negli anni
2004-2006 ha seguito il Master in elettrofisiologia ed elettrostimolazione presso la facoltà di medicina dell’Università dell’Insubria.
Al momento sta svolgendo il dottorato di ricerca sulla diagnosi e la
terapia delle tachicardie sopraventricolari nel cane presso la facoltà di medicina veterinaria di Torino. È stato presidente della Società Italiana di Cardiologia Veterinaria per il periodo 2001-2004. È
autore di numerose pubblicazioni di cardiologia su riviste nazionali ed internazionali. Il suo principale settore di ricerca sono la diagnosi e la terapia delle aritmie nel cane.
FABIA SCARAMPELLA
Med Vet, Dipl ECVD, Milano
Laureata all’Università di Milano nel 1982, ha lavorato
come libero professionista nel settore dei piccoli animali dal 1983 sino al 1996. Nel 2000 ha conseguito il Diploma del
College Europeo di Dermatologia Veterinaria (Dip ECVD) e nel
2007 il Diploma del Master in Evidence Based Medicine e Metodologia della Ricerca Sanitaria. È full-member dell’ESVD (Società
Europea di Dermatologia Veterinaria) e dell’AAVD (Società Americana di Dermatologia Veterinaria), dal 2007 è Presidente della SIDEV (Società Italiana di Dermatologia Veterinaria), Dal 2000 al
2004 ha curato la pubblicazione dei “Quaderni di Dermatologia”,
rivista ufficiale della SIDEV e dal 2005 fa parte del comitato scientifico della rivista “Veterinaria”.
Dal 2003 al 2005 è stata Direttore del Corso di Dermatologia della
SCIVAC. Attualmente è coordinatore scientifico dell’Itinerario di
Dermatologia della Scuola di Formazione Veterinaria post Universitaria. È autrice di articoli pubblicati su riviste italiane e straniere
e co-autrice del libro “Manuale pratico di Dermatologia Veterinaria” (Poletto Editore, Gaggiano, 2002). Lavora come libero professionista occupandosi esclusivamente di dermatologia e allergologia
veterinaria a Milano e Reggio Emilia e collabora con il Centro
Cochrane Italiano presso l’Istituto Mario Negri, Milano.
PAOLA SCARPA
Med Vet, PhD, SCMPA, Milano
Si è laureata in Medicina Veterinaria presso l’Università
degli Studi di Milano (110/110), dove ha conseguito il
Dottorato di Ricerca. Nel 1995 si diploma presso la Scuola di Spezializzazione in malattie dei Piccoli Animali. Dal 1998 al 2000 è Professore a contratto presso la Facoltà di Padova. Nel 2001 diventa Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie di
Milano. Attualmente è Professore Associato presso lo stesso Dipartimento ed è incaricata dell’insegnamento di Diagnostica di Laboratorio. La sua attività è testimoniata da numerose pubblicazioni nazionali ed internazionali nel campo della medicina interna e della diagnostica di laboratorio. È socia ESVNU, SINUV, SCIVAC, SISVet.
Attualmente riveste la carica di Presidente della SINUV.
PAOLO SELLERI
Med Vet, Roma
Si laurea in medicina veterinaria a Perugia nel 1998.
Nel 2006 termina un dottorato di ricerca presso la facoltà di Padova con una tesi dal titolo “Aspetti clinici dell’insufficienza renale nei rettili”. Si dedica dai primi momenti della sua carriera allo studio di medicina e chirurgia degli animali esotici. Ha
frequentato numerose cliniche private e universitarie in diversi paesi stranieri. Ha collaborato con facoltà nord americane a progetti di
ricerca e di scambio di studenti. Dal 2002 è professore a contratto
presso l’università di Padova per i corsi di “Patologia clinica e terapia degli animali selvatici e non convenzionali I e II”. È autore di
pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali. È stato relatore
a corsi e congressi italiani ed internazionali. Collabora con diverse
facoltà italiane a lezioni e programmi sulla medicina degli animali
25
esotici. È stato fondatore di RAVE (Reptiles and Amphibian Veterinarians of Europe). È membro del comitato internazionale dell’ARAV (Association of Reptilian and Amphibian Veterinarians).
Lavora a Roma presso il centro veterinario specialistico dove, con
Tommaso Collarile, si occupa esclusivamente di animali esotici.
FRANCESCO STAFFIERI
Med Vet, Bari
Francesco Staffieri si è laureato nel 2002 presso la facoltà di medicina Veterinaria dell’università di Bari. Attualmente Sta svolgendo un PhD dal titolo “Biotechnology applied
to organ transplantation and Integrated Therapies in Oncology”
presso il Dipartimento dell’Emergenza e dei Trapianti di Organi
(D.E.T.O.), Sezione di chirurgia della Facolta di Medicina di Bari.
È autore di pubblicazioni scientifiche e membro di numerose associazioni professionali.
ENRICO STEFANELLI
Med Vet, Roma
Laureato con lode in Medicina Veterinaria presso l’Università di Bologna nel 1994, inizia l’attività professionale occupandosi quasi esclusivamente di odontostomatologia
ed anestesiologia. Nel 1995 trascorre un periodo di tirocinio pratico negli Stati Uniti presso la Colorado State University e si reca
successivamente all’estero più volte per brevi corsi di specializzazione. Dal 1996 è referente per l’odontostomatologia e l’anestesiologia di numerose strutture veterinarie private in Italia. Relatore invitato in Congressi e Seminari Nazionali, è stato Istruttore per SCIVAC nei corsi di formazione post laurea per l’Odontostomatologia
negli anni 2000 e 2002; per l’Anestesiologia negli anni 2001 e
2002; per la Chirurgia Generale negli anni 2000 e 2001. È stato,
inoltre, relatore e istruttore per ISVRA nei corsi di Anestesia di base, Anestesia Avanzato e Anestesia Locoregionale dal 2002 al 2007.
Nel 2006 consegue il Master internazionale universitario, II livello,
in Gastroenterologia ed endoscopia digestiva degli animali d’affezione presso l’Università di Teramo.
È stato socio fondatore e vice presidente della prima Società Italiana Veterinaria di Anestesia Locoregionale e Terapia del Dolore. Dal
2006 è responsabile dell’attività formativa postlaurea in anestesia
di DormireSognare.
Attualmente svolge la propria professione dividendosi tra la gestione del reparto di Anestesia e Odontostomatologia della Clinica Veterinaria Gregorio VII di Roma e l’attività didattica nell’ambito della Educazione Continua in Medicina.
LUIGI VENCO
Med Vet, SCMPA, Dipl EVPC, Pavia
Consegue la laurea in Medicina veterinaria e di seguito
il Diploma di specializzazione in Clinica dei piccoli
animali presso la Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università
degli studi di Milano. Frequenta il Corso di cardiologia presso la
Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli studi di Torino. Soggiorna per periodi di studio e ricerca ed insegnamento all’estero presso le Università di Athens (GA), Philadelphia (PEN),
Fort Collins (CO), Davis (CA) negli USA e Gifu (Giappone).
È autore e coautore di più di venti articoli inerenti la filariosi cardiopolmonare e la cardiologia su International peer reviewed Journal (recensiti da PubMed), Editore ed autore della Monografia sulla Filariosi cardiopolmonare pubblicata da SCIVAC ed autore di
capitoli in Dirofilariasis in Humans and Animal (Università di Salamanca) e D. immitis annd D. repens in dog and cat and human
infections (Università di Napoli).
Dal 2006 è diplomato dell’European Veterinary Parasitology College.
Lavora a Pavia presso l’Ospedale veterinario Città di Pavia dove
svolge attività prevalente di referenza inerente le malattie parassitarie e la cardiologia, collabora nel settore della ricerca parassitologica con le sezioni di parassitologia delle Università degli Studi di
Salamanca e Milano, ed è consulente nel settore della cardiochirurgia dell’Ospedale veterinario “I Portoni Rossi” (Bologna).
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
ALDO VEZZONI
Med Vet, SCMPA, Dipl ECVS, Cremona
Laureato a Milano nel 1975, si è specializzato in Clinica delle Malattie dei Piccoli Animali e, nel 1993, ha
conseguito il Diploma di specializzazione del College europeo di
Chirurgia Veterinaria (ECVS). Presidente dell’ESVOT dal 2006, è
Presidente dell’FSA dal 1996 e Chairman della relativa Commissione di lettura per la displasia dell’anca e del gomito, È Presidente della SIOVET e Membro della Commissione Tecnica Centrale
dell’ENCI. Dal 1976, opera come libero professionista a Cremona,
svolgendo dal 1998 attività di riferimento dei Colleghi nell’ambito
della diagnostica e della chirurgia ortopedica dei piccoli animali.
È stato Socio Fondatore e Presidente della SCIVAC, socio Fondatore e Consigliere dell’ANMVI, socio fondatore e tesoriere della
FECAVA. Dal 1996 al 2006 ha rivestito le cariche di segretario
FNOVI e di Presidente dell’Ordine dei Veterinari di Cremona.
EZIO VINCENTI
Med Chir, Spec Anest e Rian, Padova
Nato a Padova nel 1950, nella stessa città si laurea in
Medicina e Chirurgia con lode nel 1975, discutendo
una tesi sperimentale di interesse neurochimico. Nel 1978 si specializza in Anestesiologia e Rianimazione. Fino al 1993 rimane all’Istituto di Anestesiologia e Rianimazione dell’Università di Padova, avendo nel frattempo maturato esperienze scientifiche e lavorative a Stoccarda, Londra e Los Angeles. Nel 1994 è primario all’Istituto per l’Infanzia Burlo Garofolo di Trieste. Dopo essere stato
Direttore a Camposampiero e Cittadella, approda all’Ospedale di
Dolo (Venezia) in cui è Direttore dell’UO di Anestesia, Rianimazione e Terapia Antalgica. È autore di oltre 450 pubblicazioni
scientifiche e di 43 libri, l’ultimo dei quali è intitolato “Manuale e
Atlante della curarizzazione” per i tipi della Lippicott Williams &
Wilkins. Ha tenuto più di 500 relazioni scientifiche congressuali. È
docente universitario dall’anno accademico 1978-79. Si occupa di
anestesia e analgesia ostetrica, di anestesia pediatrica, di anestesia
totalmente endovenosa, dell’uso delle prostaglandine in Terapia Intensiva, di tracheotomie chirurgiche e percutanee, di blocchi centrali e di anestesia loco-regionale periferica, nonché di trattamento
del dolore cronico ginecologico. Svolge intensa attività di consulenza medico-legale e peritale. È socio fondatore di varie società
scientifiche nazionali e internazionali, fra cui del World SIVA.
MARCO VIOTTI
Med Vet, Torino
Laureato a Torino nel 1994 a pieni voti con una tesi sperimentale presso il dipartimento di morfofisiologia veterinaria sull’embriogenesi del tubo cardiaco, approfondisce lo studio della dermatologia e dell’oculistica nell’anno successivo presso il dipartimento di clinica medica come laureato frequentatore. Esercita la professione sui piccoli animali da 13 anni nella
propria struttura, a Torino, insieme ad una socia e altri 4 collaboratori occupandosi esclusivamente di medicina interna e practice management. Frequenta dal 1994 i principali congressi nazionali inerenti la medicina interna, i corsi di chemioerapia ed ecografia presso palazzo Trecchi a Cremona, nonché i principali seminari di practice management con relatori stranieri in Italia. Dal 2003 è fondatore e co-coordinatore del gruppo di studio scivac di Practice management insieme ad altri 2 colleghi, frequenta nel 2005 il corso avanzato di practice management organizzato da hill’s con relatori stranieri Autore di 3 relazioni originali a tema all’interno del gruppo
stesso e di 2 articoli inerenti il practice management pubblicati sulla rivista “Zootecnia”, è chiamato come relatore per il practice management ai congressi nazionali scivac 2004, 2005 e 2006 con lavori originali su argomenti architettonici ed economici; relatore all’in-
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terno di un seminario di practice management per l’Università di Pisa nel novembre 2006, organizzatore e relatore insieme ad altro collega di un corso di practice management per l’Ordine dei Veterinari
di Genova e relatore in dicembre 2006 presso l’Ordine dei Veterinari di Venezia sempre per il practice management.
GIUSEPPE VISIGALLI
Med Vet, Milano
Il dr. Giuseppe Visigalli si è laureato in Medicina Veterinaria a Mi nel 1989. Da sempre si occupa con passione di animali esotici, ma anche selvatici e da zoo. Socio dal 1994
della ARAV e della AAV, è stato tra i soci fondatori della SIVAE,
nella quale da marzo 2008 ricopre la carica di Presidente. Ha partecipato come relatore a numerosi seminari, corsi e congressi nazionali ed internazionali.
È autore di numerose pubblicazioni su riviste italiane ed internazionali. Attualmente è direttore sanitario di una clinica veterinaria
che si occupa quasi esclusivamente di “exotic pets”. Tra le sue passioni professionali l’oftalmologia, l’anestesiologia comparate e la
microchirurgia; tra quelle extraprofessionali il comporre poesie, la
buona tavola e l’amore per la paziente moglie, nonché collega, Danila e per i figli Giulio e Diego.
ANDREA ZATELLI
Med Vet, Reggio Emilia
Laureato con lode presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Parma nel 1990. Dal 1991 al 1998 trascorre periodi di aggiornamento in Europa e negli Stati Uniti finalizzandoli
all’esclusivo approfondimento di argomenti di medicina interna e
diagnostica per immagini del cane e del gatto. È socio SCIVAC dal
1991, relatore SCIVAC dal 1998 e consulente scientifico della stessa società dal 2001. Relatore a congressi nazionali ed internazionali ha tenuto numerosi seminari scientifici e corsi di perfezionamento su argomenti riguardanti la nefrologia, l’ecografia addominale e
la terapia intensiva/medicina d’urgenza. È autore di numerose pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali inerenti la nefrologia, l’ecografia addominale e l’ecografia interventistica. Dal 2006 è
coordinatore della Società Italiana di Nefrologia Veterinaria (SINUV) e dal 2005 Chairman del board del Gruppo di Studio sulla
Leishmaniosi Canina (GSLC).
Nel 2005 ha ricevuto l’IRIS (International Renal Interest Society)
AWARD “in recognition of outstanding fundamental and clinical
research performed by an individual in the field of nephrology”.
Attualmente svolge la libera professione a Reggio Emilia dove dal
2002 è Direttore Sanitario di una referral practice. I suoi principali
settori di interesse sono lo studio qualitativo della proteinuria nel paziente nefropatico, i biomarkers di nefropatia e le tecniche innovative nel settore dell’ecografia interventistica e dell’ecocontrastografia.
STEFANO ZIGIOTTO
Med Vet, Milano
Nel Febbraio 1997 si laurea in Medicina Veterinaria
presso l’Universit di Milano. Sino dal ’99 pratica la libera Professione presso una struttura privata a Cologno Monzese
(MI). Nel 1999 diventa Consulente per Hills Pet Nutrition in qualit
di informatore. Nel 2001 diventa Consulente per Hills Pet Nutrition
in qualit di responsabile e coordinatore degli informatori nonch gestione dei grossisti del canale vendita / pet corner. Dal 2004 ad oggi Consulente per Hills Pet Nutrition in qualità Vet Business Advisor con incarichi di gestione delle attività in Università, attività
congressuali, training tecnico attività e consulenze di Practice Management. Svolge incontri di Practice Management presso cliniche
private Facoltà di Medicina Veterinaria e ordine dei medici Veterinari. Iscritto al gruppo studio Scivac di Practice Management.
ESTRATTI
DELLE RELAZIONI
Questo volume di atti congressuali riporta fedelmente quanto fornito dagli autori che si assumono la responsabilità
dei contenuti dei propri scritti.
Gli estratti sono elencati in ordine alfabetico secondo il cognome dell’autore presentatore.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
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Ten ways to increase your practice profits
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, Svezia
Profit is a sign of health in a business and is usually used
to pay your salary, as owner, and to reinvest in the business
to grow and develop it. Very simply put, profit is what you
have left after you have paid all the costs in your practice.
The relationship between profit, income and costs is shown
in the equation below:
Profit = income – costs
Clearly, to increase your profit you need either to increase
your income or reduce your costs – or both. There are a
number of ways that this can be achieved relatively simply.
Let’s first clarify some terms:
Income is generated from the sales of veterinary professional services and products. The more services and products you sell, the more income you will generate.
Costs are both fixed and variable. Fixed costs are things
like your staff’ salaries, equipment (leasing hire or loan
repayment)and costs associated with the clinic building
(heating, lighting, electricity, water, maintenance); variable
costs are generally associated with the delivery of the services you sell (medicines, lab costs, bandage material, etc).
Variable costs vary because they depend on the number and
type of services you sell: the costs associated with providing
routine vaccinations, for example, will be less than those
associated with advanced surgical care. To be able to influence your income level and your costs you need to be able to
measure them. This is best done as part of your budget planning. A budget is a numerical description of the health of
your practice. A budget plan is a written description of how
you want the finances in your practice to look over a period
of time – usually a year. It is actually an educated guess of
how you think your financial year will look based on how
the practice has performed in the past, and any changes you
wish to put into action in the future such as starting to use
new equipment you have invested in, providing new services, or hiring a new staff member. By making a plan you start
to take control of your finances instead of just leaving them
to chance. When making a budget plan it is important to
include your staff in the planning process, and also in sharing the outcomes over the year because the better they
understand the finances in your practice the better they can
contribute to helping you achieving your financial goals.
Your budget plan should include:
• How much income you need to generate (to break even
with your current costs)
• How much income you want to generate (to pay costs and
generate the profit you want)
• Your predicted costs
• How you plan to generate your income
− Number of client visits/month (also per week and per
day) needed
− Average transaction fee per client contact (ie. the
amount of money on average each client visit will generate) needed. This is also affected by:
- Your fee level
- Your levels of compliance
- Services sold per client visit
- Products sold per client visit
• How you plan to manage your costs, eg reduce costs by
− Effective use of equipment
− Stock control and turnover
− Review leasing arrangements for equipment
− Review loans
To be effective, your budget then needs to be updated and
reviewed regularly (once a week for the practice owner, once
a month for other staff) to keep it under control and make
any necessary adjustments to keep it on track and achieve
your goal for the year.
Apart from not making and following a financial plan, one
of the biggest mistakes many veterinarians make is to not
charge properly for their services. Undercharging or discounting services has the effect of reducing income into the
practice which in turn reduces (or eliminates) profits which
may mean you cannot get even a living salary out of your
practice after you have paid all the other costs.
Discounting does NOT attract the sort of clients you want
to have – it simply devalues your services and reduces your
income. It also creates more work for you, because for every
Euro you earn you have to work harder to get it.
Many vets believe clients are attracted by low prices. Of
course, if this is the only way they can differentiate between
the service level in your clinic and someone else’s this may be
true. However, this is not how providing quality care and quality service develops. In addition, undercharging because you
believe this will make your clients happy, simply teaches them
that veterinary services are not worth much and will encourage
them to shop around for even lower prices. Undercharging is
basically giving your clients money out of your own pocket
and this ultimately is professional suicide. Setting fair professional fees and charging properly can make a huge difference
to the income generated into your practice. Of course, it is
important that your staff also charge properly too.
Summary
Many veterinary practices are not well managed financially which results in low or negligible profits and an
unhealthy business. Careful planning, coupled with monitoring and management of results gives control over the business and enables you to improve practice profits.
C. Jevring-Bäck, Feb 2008
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
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Dieci modi per migliorare il tuo profitto
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, Svezia
Il profitto è un segno di salute dell’attività di impresa e di
solito viene utilizzato per pagare il vostro stipendio e il
vostro reddito come proprietario, e per reinvestire nell’impresa stessa per farla crescere e sviluppare. Molto semplicemente, il profitto è ciò che vi rimane dopo aver pagato tutti i
costi della vostra struttura. La relazione fra profitto, entrate
e costi è illustrata dalla seguente equazione:
Profitto = entrate – costi
Chiaramente, per aumentare il vostro profitto, dovete
incrementare le entrate o ridurre i costi – o entrambi. Esistono molti modi in cui si può ottenere questo risultato in
maniera relativamente semplice. Chiariamo prima alcuni termini:
Le Entrate sono generate dalle vendite di servizi professionali veterinari e prodotti. Quanti più prodotti e servizi
vendete, tanto maggiori saranno le entrate generate.
I Costi sono distinti in fissi e variabili. I primi sono dati da
voci come gli stipendi dello staff, le spese di acquisto delle
apparecchiature (rimborsi di leasing o prestiti) e quelle associate all’edificio che ospita la clinica (riscaldamento, illuminazione, elettricità, acqua, manutenzione); i costi variabili
sono generalmente legati alla fornitura dei servizi che vendete (farmaci, spese di laboratorio, materiali di bendaggio,
ecc..). I costi variabili sono tali perché dipendono dal numero e dal tipo di servizi che vendete: quelli associati all’esecuzione di vaccinazioni di routine, ad esempio, saranno inferiori a quelli abbinati agli interventi chirurgici avanzati.
Per riuscire ad influenzare il livello di entrate ed i costi,
bisogna essere in grado di misurarli. Il modo migliore per
farlo costituisce una parte della vostra pianificazione del
budget. Il budget è una descrizione numerica dello stato di
salute della vostra struttura. Un piano di budget è una descrizione scritta del modo in cui desiderate che sia la situazione
finanziaria della vostra struttura nell’arco di un dato periodo
di tempo – di solito un anno. In realtà, si tratta di una supposizione fondata del modo in cui pensate che si presenterà
il vostro anno finanziario, sulla base della resa data in passato dalla struttura e di tutte le eventuali modifiche che volete mettere in atto in futuro, come iniziare ad utilizzare una
nuova apparecchiatura nella quale avete investito, fornire
nuovi servizi o assumere un nuovo membro dello staff.
Facendo una pianificazione, iniziate a prendere il controllo
delle vostre finanze invece di limitarvi a lasciare loro un’opportunità di crescita. Quando si pianifica un budget è importante coinvolgere in questo processo anche il vostro staff,
nonché condividere con loro i risultati ottenuti nell’arco dell’anno, perché tanto più conosceranno la situazione economica della vostra struttura, tanto meglio potranno contribuire ad aiutarvi a raggiungere i vostri scopi economici. Il
vostro piano di budget deve comprendere:
• Quante entrate dovete generare (per arrivare al punto di
pareggio con i costi correnti)
• Quante entrate volete generare (per pagare i costi e generare il profitto che volete)
• I costi che prevedete
• Come pianificare per generare le vostre entrate
− Il numero di visite dei clienti al mese (anche alla settimana ed all’anno) necessari per ottenere il risultato
voluto
− Il valore medio dell’onorario per ogni contatto con il
cliente (cioè la quantità di denaro che genererà in media
ogni visita) necessario per arrivare ai risultati desiderati.
Ciò è anche influenzato da:
- il livello del vostro onorario
- i vostri livelli di osservanza
- i servizi venduti per visita al cliente
- i prodotti venduti per visita al cliente
• Come pianificare la gestione dei vostri costi, ad es. riducendoli mediante
− Uso efficace delle apparecchiature
− Controllo delle scorte di magazzino e del turn-over
− Revisione degli accordi di leasing per le apparecchiature
− Revisione dei prestiti
Per essere efficace, il vostro budget avrà quindi bisogno di
essere aggiornato e riconsiderato regolarmente (una volta
alla settimana da parte del proprietario della struttura, una
volta al mese per il resto dello staff) per tenerlo sotto controllo ed effettuare ogni eventuale correzione per rimanere in
pista ed arrivare a raggiungere gli scopi previsti per l’anno.
Oltre che non stilare e seguire un piano finanziario, uno
dei più grandi errori che molti veterinari commettono è quello di non farsi pagare in modo appropriato i propri servizi.
Sottovalutare o scontare le prestazioni ha l’effetto di ridurre
le entrate della struttura, il che a sua volta riduce (o elimina)
i profitti: ciò può significare che non riuscirete a trarre dalla
vostra struttura il guadagno per vivere dopo aver sottratto
tutti gli altri costi.
Lo sconto NON attrae i clienti del tipo che volete avere
– semplicemente, svaluta i vostri servizi e riduce le vostre
entrate. Inoltre, genera più lavoro per voi, perché dovrete
lavorare di più per ottenere ogni singolo euro che guadagnate.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Molti veterinari credono che i clienti siano attratti dai prezzi bassi. Naturalmente, se questo è l’unico modo con cui essi
possono differenziare il livello dei servizi della loro clinica da
quello di qualcun altro, ciò potrebbe essere vero. Tuttavia, non
è così che si sviluppa l’offerta di cure di qualità e servizi di
qualità. Inoltre, ridurre i prezzi perché credete che ciò renderà felici i vostri clienti significa semplicemente insegnare loro
che i servizi veterinari non valgono molto ed incoraggiarli ad
andare in giro a cercare prezzi ancora più bassi. La sottovalutazione significa fondamentalmente dare ai vostri clienti del
denaro togliendolo dalle vostre tasche e, in ultima analisi, ciò
costituisce un suicidio professionale. Stabilire onorari professionalmente adeguati e farsi pagare in modo appropriato può
fare una differenza enorme per le entrate generate dalla vostra
32
struttura. Naturalmente, è importante che anche il vostro staff
si faccia pagare nello stesso modo.
Riassunto
Molte strutture veterinarie non sono ben gestite dal punto
di vista economico, il che esita in profitti bassi o trascurabili ed in un’attività di impresa non sana. Una pianificazione
accurata, abbinata al monitoraggio ed alla gestione dei risultati permette di controllare l’attività di impresa e vi consente di migliorare i suoi profitti.
C. Jevring-Bäck, Feb 2008
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
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Top tips for great client communication
(parts 1 and 2)
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma, Svezia
Communication is the sharing or exchange of information, ideas, or feelings. It is a complex learned skill
that uses all the senses (sight, hearing, touch, smell and
taste).
COMMUNICATION is something that everyone does every
day on many different levels and yet communication problems are the greatest cause of stress, job dissatisfaction, and
disappointed clients in veterinary practice. Good communication is critically important because it is the foundation of
a healthy business.
WHAT ARE THE SKILLS OF EFFECTIVE
COMMUNICATION?
Listening skills
Listening is a core competence. People who cannot listen
cannot relate: poor listening undermines the ability to communicate with others. Despite the fact that we spend around
45% of communication time listening, compared with 30%
speaking, 16% reading and 9% writing, few people have
received formal training in how to listen attentively.
Attentive listening involves more than just sitting and
doing nothing. Attentive listening is a complex psychological procedure involving interpreting and understanding
the significance of both verbal and non-verbal messages
and turning this into meaning in the mind. It is an active
process and conveys respect.
Attentive listening is critical for the effective exchange of
information in a conversation. It is estimated that we use less
than 25% of our listening powers in a typical exchange and
ignore, forget, distort or misunderstand a staggering 75%.
This is borne out by studies which show that medical doctors
interviewing patients frequently interrupt them – often as early as 18 seconds in their opening statements – which results in
frustration and information withholding (‘..because the doctor
hasn’t time for me’) from the patient’s side. In veterinary practice, not listening attentively creates irritation (e.g. from not
listening to the nurse who suggests a valuable time-saving
technique), loses business (not hearing the client who mentions that Bonzo has intermittent diarrhoea, a condition which
might respond to dietary or medical management), and may
even be dangerous (not hearing the client who says that Fluffy
is drinking more, which may mean diagnostic blood tests for
renal disease are advisable before giving the anaesthetic for
the dental you’re recommending).
Barriers to attentive listening
Attentive listening is not easy. It requires commitment,
energy and focus. There are also many barriers to listening
not least of which is our own internal monologue which
includes our own personal views, thoughts, and our agenda.
What we hear and understand is largely based on personal
experience and background.
We have many preconceived notions and ideas so that we
often hear what our mind thinks a person has said, not what
they actually have said.
We may have perceptions about the communicator and are
more accepting of someone we like rather than someone
who has different or conflicting views. In addition, we often
choose to ignore or forget information that does not concur
with our own beliefs.
It is difficult to talk to somebody who is apparently not
responding and may create feelings of confusion, discomfort
and even anger on the part of the speaker that stops further
communication. By using encouraging body language (such
as nodding your head), eye contact, facial and auditory signals (‘Yes, I see’; ‘Mmmm, that’s interesting’) coupled with
repeating or paraphrasing what the person has said (‘If I
understand you correctly, you think that Tibbles...’; ‘Jim,
from what you’ve just said, the problem with the current Xray system is...’) you indicate that you are listening, and that
you follow and are interested in what the speaker is saying.
On the telephone where people can’t see you nodding and
agreeing with them, make agreeing noises (‘Yes’, ‘Ah-ha’, ‘I
see...’ and so on) to show your interest.
Clients also have barriers in their communication which
are particularly relevant during the clinical consultation. For
example, they may have:
• Ideas and beliefs about the cause or effect of the illness
their animal is displaying, and about health and what
influences or contributes to it (eg. some cat owners believe
it is healthier for their pet to eat a vegetarian diet)
• Concerns and worries about what the symptoms might
mean (‘Is this cancer?’)
• Expectations about how the veterinarian will help them,
and the outcomes that will be achieved from the visit (‘The
vets on that TV programme could fix this problem’)
• Effects on life: the effect that the animal’s illness has on
their own life now and in the future
• Feelings and emotions coupled to the breakdown of the
relationship with the animal
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
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Voice and words
Use of written material and visual aids
In a face-to-face meeting less than 20% of the exchange
depends on the words being spoken; most information for
the receiver comes from non-verbal signals such as tone of
voice, facial expression, eye contact, and body language. A
cold, brusque voice is alienating, and a shrill, loud voice can
be both irritating and wearing. The ideal voice is warm,
friendly and fairly low-pitched.
Voice is especially important on the telephone where the
caller cannot see the person and makes a judgement from
voice alone. Less than 15% of the impression made on the
telephone comes from the words spoken.
Smiling as you talk and using gestures positively influences voice quality, pitch, and speed of speech. As receiver
you are using only your listening sense, so good listening
skills become critical.
Choice of words is also important. Jargon is off-putting
and generally not understood by clients. Interestingly, many
studies have shown that medical doctors not only use language that patients often do not understand, they actually
appear to use it to control their patient’s involvement in the
interview.
Often clients are embarrassed to ask for explanations of
terms they don’t understand, which means they can be very
dependent on the nurse (or receptionist) to explain to them
afterwards ‘What the doctor said’.
Visual aids are a very important part of communication
between human beings because man is primarily a visual
creature. Studies of patients visiting human medical doctors
have shown that patients retain less than 10% of everything
discussed in the consulting room immediately afterwards.
Assuming our clients have the same retentive powers, there
is clearly more we can do to get information across, and
using written materials, models, and pictures can improve
understanding and retention considerably.
Body language
Body language is an integral part of face-to-face communication. It is generally an involuntary and therefore truthful
indicator of what the speaker is actually thinking, whatever
words he or she may be choosing to use. Communication
research has shown that non-verbal messages tend to override verbal messages when the two are inconsistent or contradictory.
Many individual components are involved in non-verbal
communication, including posture, movement, proximity,
direction of gaze, eye contact, gestures, facial expression,
touch and physical appearance. Particularly important is eye
contact.
Touch
Although there are many complex social taboos surrounding touch and physical contact, touch is still a very important
part of communication. A welcoming handshake or a comforting arm around the shoulders of a grieving client can say
far more than words alone.
Smell
The importance of smell is also underestimated particularly as
part of the ‘first impressions’ a client gains of the practice. What
impression does a client gain of a practice where the receptionist wears an overpowering scent, or the veterinarian smells
unwashed, or the waiting area reeks of tom cat urine? After all,
what are your reactions to the client who has powerful halitosis,
or smells of drink, or owns a poodle soaked in scent?
CONCLUSION
Communication is a complex process that uses all the five
senses. It is something we learn from birth and yet need to constantly refine and improve to be able to run an effective business.
Adapted from:
Effective communication: the vital link, Chapter 6 in Managing a Veterinary
Practice, 2nd edition (2007), Caroline Jevring-Bäck with Erik Bäck,
Elsevier, Oxford.
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35
I migliori suggerimenti per una grande comunicazione
(parte 1 e 2)
Caroline Jevring-Bäck
BVetMed, MRCVS, Stoccolma (S)
La comunicazione è la condivisione o scambio di informazioni, idee o sentimenti. Si tratta di una capacità complessa ed appresa, che utilizza tutti i sensi (vista, udito,
tatto, olfatto e gusto).
La COMUNICAZIONE è un’attività che ognuno pratica
ogni giorno a vari livelli differenti e ciò nonostante i problemi di comunicazione sono la prima causa di stress, insoddisfazione del lavoro e delusione dei clienti nelle strutture
veterinarie. Una buona comunicazione ha un’importanza critica, perché è il fondamento della salute dell’attività di
impresa.
miare tempo) o perdita di entrate (non ascoltare il cliente che
dice che Bonzo ha una diarrea intermittente, una condizione
che potrebbe rispondere ad un trattamento dietetico o medico) e può perfino essere pericoloso (non ascoltare il cliente
che dice che Fluffy sta bevendo di più, il che può significare che prima di somministrare un anestetico per l’intervento
di profilassi dentale che state suggerendo sarebbe bene effettuare un test ematochimico per escludere una nefropatia).
QUALI SONO LE CAPACITÀ DELLA
COMUNICAZIONE EFFICACE?
Ascoltare con attenzione non è facile. Richiede impegno,
energia e capacità di focalizzazione. Ci sono poi molte altre
barriere che si oppongono all’ascolto, non ultimo il nostro
stesso monologo interno che include i nostri punti di vista
personali, i nostri pensieri e la nostra agenda. Quello che
sentiamo e comprendiamo è in larga misura basato sulla
nostra esperienza personale e sul nostro background. Abbiamo molte nozioni ed idee preconcette, per cui spesso udiamo quello che la nostra mente pensa che la persona abbia
detto, e non quello che ha detto davvero. Possiamo avere
delle percezioni circa il comunicatore e siamo maggiormente disposti ad accettare qualcuno che ci piace piuttosto che
qualcuno che ha dei punti di vista diversi o conflittuali. Inoltre, spesso scegliamo di ignorare o dimenticare delle informazioni che non concordano con le nostre convinzioni.
È difficile parlare a qualcuno che apparentemente non sta
rispondendo e ciò può generare un senso di confusione, disagio e persino collera da parte di colui che parla, che interrompe ogni ulteriore comunicazione. Utilizzando un linguaggio del corpo incoraggiante (come annuire con la testa),
il contatto oculare, i segnali facciali e uditivi (“si, vedo”;
“Mmmm, questo è interessante”) unitamente al fatto di ripetere o parafrasare ciò che una persona ha detto (“se ho capito correttamente quello che intende, lei pensa che Tibbles…”: “Jim, in base a quello che hai detto, il problema con
il nostro attuale sistema radiografico è …”) indicate che state ascoltando, seguite e siete interessati a ciò che l’oratore
sta dicendo. Al telefono, dove le persone non possono vedervi annuire ed essere d’accordo con loro, emettete dei suoni
che esprimano questi sentimenti (“Si”, “Ah-ha”, “Vedo…” e
così via) per evidenziare il vostro interesse.
I clienti trovano anche altre barriere alla comunicazione,
che sono particolarmente rilevanti durante una visita clinica.
Ad esempio, possono avere:
Capacità di ascolto
L’ascolto è una competenza fondamentale. Le persone che
non sanno ascoltare non sono capaci di stabilire delle relazioni: il cattivo ascolto mina la capacità di comunicare con
gli altri. Nonostante il fatto che trascorriamo il 45% del tempo dedicato alla comunicazione ad ascoltare, in confronto al
30% dedicato a parlare, il 16% a leggere ed il 9% a scrivere,
poche persone hanno ricevuto una preparazione formale per
sapere come ascoltare con attenzione.
L’ascolto con attenzione è qualcosa di più che limitarsi a
stare seduti e non fare niente. L’ascolto con attenzione è una
procedura psicologica complessa che coinvolge l’interpretazione e la comprensione del significato dei messaggi sia verbali che non verbali e la loro conversione a livello mentale in
un particolare significato. Si tratta di un processo attivo che
merita rispetto.
L’ascolto con attenzione è di importanza critica per l’efficace scambio di informazioni in una conversazione. È stato
stimato che in una tipica situazione di questo genere utilizziamo meno del 25% della nostra potenzialità di ascolto ed
ignoriamo, dimentichiamo, distorciamo o comprendiamo in
modo errato uno sconcertante 75%. Questo dato deriva da
studi che hanno dimostrato che i medici umani che sono a
colloquio con i propri pazienti, li interrompono frequentemente – già 18 secondi dopo che hanno iniziato a parlare –
il che è causa di frustrazione e blocco dell’informazione
(“… perché il dottore non ha tempo per me”). In medicina
veterinaria, il fatto di non ascoltare attentamente è motivo di
irritazione (ad es., se a non essere ascoltata è l’infermiera
che suggerisce un’utile tecnica che consentirebbe di rispar-
Barriere che si oppongono all’ascolto
con attenzione
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• Idee o convinzioni circa la causa o l’effetto della malattia
che l’animale sta manifestando e circa la salute e ciò che
la influenza o contribuisce a determinarla (ad es., alcuni
proprietari di gatti sono convinti che per il loro animale
sia più sana una dieta vegetariana)
• Preoccupazioni ed angosce su ciò che i vari segni clinici
possono significare (“Questo è un cancro?”)
• Aspettative sul modo in cui il veterinario può aiutarli e
sugli esiti che otterranno dalla visita (“I veterinari di quel
programma TV saprebbero risolvere questo problema”)
• Effetti sulla vita: l’effetto che la malattia dell’animale ha
sulla loro vita ora ed in futuro
• Sentimenti ed emozioni abbinati all’interruzione della
relazione con l’animale.
Voce e parole
In un incontro faccia a faccia, meno del 20% dello scambio dipende dalle parole che vengono dette. La maggior parte delle informazioni per il ricevente deriva da segnali non
verbali come il tono di voce, l’espressione facciale, il contatto visivo ed il linguaggio del corpo. Una voce fredda e
brusca tende ad allontanare, mentre un tono profondo e
vibrante può essere irritante o fastidioso. La voce ideale è
calda, amichevole, e con un tono abbastanza basso.
La voce è importante soprattutto al telefono, dove chi
chiama non può vedere l’interlocutore e deve basare il proprio giudizio esclusivamente sulla voce. Meno del 15% delle impressioni che si hanno al telefono deriva dalle parole
dette. Sorridere mentre si parla ed utilizzare gesti che esprimano sentimenti positivi influisce sulla qualità e sul tono
della voce e sulla velocità dell’eloquio. Come riceventi, state utilizzando soltanto il vostro senso dell’udito, così le buone capacità di ascolto diventano critiche.
Anche la scelta delle parole è importante. Il gergo professionale determina un calo dell’attenzione ed in generale
non viene compreso dai clienti. È interessante notare che
molti studi hanno dimostrato che i medici umani non si
limitano ad utilizzare un linguaggio che i pazienti spesso
non comprendono, ma in realtà sembrano utilizzarlo per
controllare il coinvolgimento dei loro pazienti nel colloquio. Spesso i clienti sono imbarazzati a chiedere la spiegazione di termini che non capiscono, il che significa che
possono dipendere notevolmente dagli infermieri (o dagli
addetti alla reception) che devono spiegare poi loro “Quello che ha detto il dottore”.
Il linguaggio corporeo
Il linguaggio corporeo è parte integrante della comunicazione faccia a faccia. Generalmente è un indicatore involontario, e di conseguenza veritiero, di quello che colui che parla sta pensando davvero, indipendentemente dalle parole che
sta scegliendo di utilizzare. La ricerca sulla comunicazione
ha dimostrato che messaggi non verbali vengono a predominare su quelli verbali quando le due forme risultano incom-
36
patibili o in contraddizione. Nella comunicazione non verbale sono coinvolte molte componenti individuali, come la
postura, il movimento, la prossimità, la direzione dello
sguardo, il contatto oculare, la gestualità, l’espressione facciale, il tocco e l’aspetto fisico. Risulta particolarmente
importante il contatto oculare.
Uso di materiali scritti e di mezzi visivi
I mezzi visivi sono una parte molto importante della
comunicazione fra esseri umani, perché l’uomo è principalmente una creatura visiva. Gli studi condotti in ambito umano hanno dimostrato che i pazienti conservano meno del
10% di qualunque cosa venga discussa nella sala da visita
immediatamente dopo aver lasciato il medico. Presumendo
che i nostri clienti abbiano le stesse capacità di ritenzione,
chiaramente possiamo fare di più per far arrivare il nostro
messaggio ed utilizzando materiali scritti, modelli ed immagini possiamo migliorarne considerevolmente la comprensione e la ritenzione.
Tatto
Il tatto ed il contatto fisico, pur essendo circondati da molti complessi tabù sociali, costituiscono ancora una parte
molto importante della comunicazione. Una calorosa stretta
di mano o un braccio confortante intorno alle spalle di un
cliente addolorato possono dire molto di più delle semplici
parole.
Olfatto
Anche l’importanza dell’olfatto viene sottostimata, in particolare nell’ambito della “prima impressione” al momento
dell’ingresso del cliente nella struttura. Quale idea si farà il
cliente di una clinica in cui l’addetto alla reception indossa
un profumo eccessivamente intenso, o il veterinario ha odore di non lavato, o la sala di attesa puzza di urina di gatto
maschio?. Dopo tutto, quali sono le vostre reazioni davanti
ad un cliente con una terribile alitosi, o che sa di alcool, o ha
un cane barbone immerso nel profumo?
CONCLUSIONI
La comunicazione è un processo complesso, che utilizza
tutti i cinque sensi. È qualcosa che apprendiamo dalla nascita e ciò nonostante dobbiamo costantemente rifinire e
migliorare per essere in grado di svolgere efficacemente la
nostra attività.
Adattato da:
Effective communication: the vital link, Chapter 6 in Managing a Veterinary
Practice, 2nd edition (2007), Caroline Jevring-Bäck with Erik Bäck,
Elsevier, Oxford
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Canine prostatic disease
Jeanne Barsanti
DVM, MS, Dipl ACVIM (Specialty of Internal Medicine), Georgia, USA
Hyperplasia
Pathophysiology: Increase in epithelial cell number is
more marked than the increase in epithelial cell size. Vascularity of the prostate is increased. Intraparenchymal fluid cysts develop. Hyperplasia requires the presence of the
testes. Intraprostatic dihydrotestosterone is the hormonal
mediator.
Clinical Findings: Most affected dogs are asymptomatic.
Hemorrhagic urethral discharge, hematuria, and/or difficult
defecation are the most common signs. The prostate gland is
non-painful and symmetrically enlarged. Urine is normal or
contains blood. Semen is normal or hemorrhagic. On ultrasonography, the prostate may be diffusely hyperechoic with
parenchymal cavities. The prostatic capsule is smooth. Any
cavitary areas are typically well defined and smoothly marginated. In one study, 4 of 12 dogs with asymptomatic
intraprostatic cysts detected by ultrasound had an asymptomatic UTI and all of these dogs had positive cultures of the
same organism from prostatic cyst fluid. Thus, a culture of
urine is indicated in all dogs with intraprostatic cysts.
Treatment: Treatment of prostatic hyperplasia is only
required if abnormal signs are present.
The most effective treatment is castration, which will
result in a 75% decrease in prostate size over 8-9 weeks.
Medical therapies include estrogen, anitandrogens, and
progestins. Products containing extracts of the saw palmetto
plant, Serenoa repens, are widely advertised for prostatic
hyperplasia in men. We were unable to document any beneficial or harmful effects of one such product in dogs with
prostatic hyperplasia.
Prostatic Infection
Pathophysiology: Infections occur predominantly in
intact male dogs, but if infection is present prior to neutering, infection may persist. E. coli is the usual bacteria
involved.
Clinical Findings: With acute prostatitis and abscessation, anorexia, lethargy, and fever are usually noted. Most
often there are no signs directly referable to the prostate
gland with chronic prostatitis. The dog may be presented for
recurrent episodes of cystitis. With a large abscess or
abscesses, the dog may be presented with tenesmus or
dysuria. Evidence of septic shock was noted in 10% of cases. On palpation, the prostate gland is usually abnormal with
abscessation: enlarged, asymmetric and variable in consistency.
Hematuria, pyuria and bacteriuria are common in prostatic infections. A urine culture on a sample collected by cystocentesis or catheterization should be performed.
In acute prostatitis and abscessation, a neutrophilic leukocytosis with or without a left shift often exists. In chronic
prostatitis, the WBC is usually normal.
Blood chemistry is normal with chronic prostatitis but
bilirubin, alkaline phosphatase, and bile acids may be
increased with acute infections and abscessation. Hypoglycemia was noted in 40% of abscess cases. Such findings
are suggestive of gram negative septicemia.
Assessment of prostatic fluid is essential to diagnose
chronic prostatitis. Prostatic fluid is preferably collected by
ejaculation or by ultrasound guided aspiration of intraprostatic cysts.
Survey radiographs may be normal or show a loss of
detail at the margins of the prostate gland in acute prostatitis. The prostate gland is usually radiographically normal
with chronic prostatitis, but a few cases may have granular
parenchymal mineralization. Prostatic enlargement that can
be asymmetric or irregular in outline may be evident with
abscessation. The sublumbar lymph nodes may be enlarged.
With acute and chronic prostatitis, the prostate gland may
have focally to diffusely increased echogenicity on ultrasonography. In chronic prostatitis, multifocal mineralization
may also be seen, although mineralization is more common
with neoplasia. With abscessation, the prostate gland is usually asymmetric and hyperechoic with parenchymal hypoechoic cavities with distal enhancement.
Treatment of Acute Prostatitis: An antibiotic, based on
urine culture and sensitivity, is administered for 28 days.
Since acute infections may become chronic, reexamination
is performed 7 days after completion of antibiotic therapy.
Treatment of Chronic Prostatitis: Chronic bacterial prostatitis is very difficult to treat effectively because of the
blood-prostatic fluid barrier. The appropriate choice of an
antimicrobial agent depends on the both the antimicrobial
sensitivity of the infecting organism and the ability of the
antimicrobial to penetrate prostatic acini. Antimicrobials,
which have been shown to have prostatic penetrance in dogs
include chloramphenicol, clindamycin, difloxacin,
enrofloxacin, erythromycin, orbifloxacin, and trimethoprim.
Once a drug is chosen, it should be continued for at least 6
weeks. Castration is beneficial. Urine and/or prostatic fluid
are recultured 7 days and 1 month after discontinuing antibi-
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otics to ensure the infection has been eliminated (not merely suppressed).
Treatment of Abscessation: Surgical drainage is the
treatment of choice. Castration is recommended. Dogs with
abscessation must receive antibiotic therapy. If the dog is
systemically ill, intravenous antimicrobials are used initially. The antibiotic choice is based on results of cytology
(gram negative or positive rods or cocci), culture and sensitivity, and the presence or absence of bacteremia. After
improvement of clinical signs, the dog is managed as a case
of chronic bacterial prostatitis.
Continued prostatic infection and recurrent urinary tract
infections are common despite surgical treatment. Urinalysis
and urine culture are evaluated monthly for several months
after initial therapy is discontinued and then every 3 months
for at least a year. The prostate gland should be re-palpated
and re-examined by ultrasound at monthly intervals until
abscess resolution is confirmed.
Neoplasia
Pathophysiology: The most common neoplasm is carcinoma which occurs in both intact and neutered male dogs.
Prostatic carcinoma tends to metastasize through the external and internal iliac lymph nodes to vertebral bodies as well
as to the lungs. Cysts, abscesses, and areas of hemorrhage
can be found with neoplasia.
Clinical Findings: Dogs with carcinoma have a mean age
of 9-10 years. In most cases, the prostate will be enlarged and
asymmetric with increased firmness. It is often non-movable.
In determining whether the prostate is enlarged or not, the
examiner must consider the dog’s reproductive status.
Hematuria is common. Atypical cells are occasionally
found in urine sediment. Approximately 50% of affected
38
dogs have an increase in serum alkaline phosphatase.
Asymmetrical, irregular prostatomegaly may be evident
on survey abdominal radiography. Occasionally prostatic
carcinomas are associated with multifocal or granular poorly-defined mineral densities. The lumbar vertebral bodies
and the pelvic bones should be examined for areas of lysis or
proliferative changes. Metastasis may also occur to other
vertebral bodies, long bones, scapula, ribs, and digits. Thoracic radiographs are indicated.
Ultrasonography usually shows focal or multifocal hyperechoic parenchyma with asymmetry and irregular prostatic
outline. Echogenicity tends to be very heterogeneous. There
may be multifocal irregularly distributed areas of mineralization. If metastasis is not evident by radiography, a presumptive diagnosis of neoplasia should always be confirmed
by aspiration or biopsy under ultrasound guidance.
Treatment: Most dogs with prostatic carcinoma are euthanized within two months of diagnosis because of progressive disease. However, one case survived 19 months without
therapy. Therefore the decision in regard to euthanasia
should be based on the animal’s quality of life. Castration is
not beneficial; however, lack of decrease in prostatic size
after castration may help differentiate neoplasia from other
prostatic diseases. Piroxicam at 0.3 mg/kg/day may improve
quality of life in dogs with mild to moderate signs. Combining cisplatin with piroxicam to improve survival time has
been reported.
More Detailed Information
Barsanti JA: Genitourinary Tract Infections. In Infectious Diseases of the
Dog and Cat, 3rd Edition, edited by CE Greene, Saunders/Elsivier
Co., St. Louis, MO, pp 935-961, 2006.
Barsanti JA: Management of Prostatic Diseases. BSAVA Manual of Nephrology/Urology, edited by J. Elliott, BSAVA, London, England, in
press 2006.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
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Patologie prostatiche nel cane
Jeanne Barsanti
DVM, MS, Dipl ACVIM (Specialty of Internal Medicine), Professor, Georgia, USA
Iperplasia
Fisiopatologia: L’aumento del numero delle cellule epiteliali è più marcato dell’incremento delle loro dimensioni.
La vascolarizzazione della prostata è aumentata. Si sviluppano cisti fluide intraparenchimali. L’iperplasia richiede la
presenza dei testicoli. Il mediatore ormonale è il diidrotestoterone intraprostatico.
Riscontri clinici: La maggior parte dei cani colpiti è asintomatica. I segni clinici più comuni sono rappresentati da
scolo uretrale emorragico, ematuria e/o defecazione difficoltosa. La prostata è non dolente e simmetricamente ingrossata. L’urina è normale o contiene sangue. Lo sperma è normale o emorragico. All’esame ecografico, la ghiandola può
apparire diffusamente iperecogena, con cavità parenchimali.
La capsula prostatica è liscia.
Qualsiasi area cavitaria risulta tipicamente ben definita e
con margini lisci. In uno studio, quattro cani su dodici con
cisti intraprostatiche asintomatiche individuate mediante
ecografia erano affetti da una UTI asintomatica e in tutti
questi animali si è avuto un riscontro positivo agli esami colturali per lo stesso microrganismo dal fluido delle cisti prostatiche. Quindi, in tutti i cani con cisti intraprostatiche è
indicata l’urocoltura.
Trattamento
Il trattamento dell’iperplasia prostatica è necessario soltanto se sono presenti segni anormali. La terapia più efficace è la castrazione, che esita in una diminuzione del 75%
delle dimensioni della ghiandola nell’arco di 8-9 settimane.
La terapia medica consiste nella somministrazione di
estrogeni, antiandrogeni e progestinici. Nell’uomo, per il
trattamento dell’iperplasia prostatica sono ampiamente pubblicizzati i prodotti che contengono estratti di una pianta, la
Serenoa repens (saw palmetto). Non siamo in grado di documentare alcun effetto benefico o dannoso di un prodotto di
questo tipo nei cani con la stessa malattia.
Infezione prostatica
Fisiopatologia: Le infezioni si verificano principalmente
nei cani maschi interi, ma se sono presenti prima della
castrazione possono persistere anche dopo. Il batterio solitamente coinvolto è E. coli.
Riscontri clinici: Nella prostatite acuta e nell’ascessualizzazione, di solito si notano anoressia, letargia e febbre.
Nella maggior parte dei casi di prostatite cronica non vi sono
segni direttamente riferibili alla ghiandola. Il cane può essere portato alla visita a causa di ricorrenti episodi di cistite. In
presenza di un ascesso di grandi dimensioni o di ascessi
multipli, l’animale può presentare tenesmo o disuria. Nel
10% dei casi sono stati notati segni di shock settico. Alla palpazione, in caso di ascessualizzazione la ghiandola risulta
solitamente anormale: ingrossata, asimmetrica e di consistenza variabile.
Nelle infezioni prostatiche sono comuni ematuria, piuria e batteriuria. È necessario effettuare un’urocoltura utilizzando un campione prelevato mediante cistocentesi o
cateterizzazione.
Nella prostatite acuta o nell’ascessualizzazione spesso è
presente una leucocitosi neutrofila con o senza spostamento a sinistra. Nella prostatite cronica, i leucociti di
solito sono normali.
Il profilo biochimico è normale nella prostatite cronica,
mentre nelle infezioni acute e nelle ascessualizzazioni si
possono riscontrare aumenti di bilirubina, fosfatasi alcalina
ed acidi biliari. Nel 40% dei casi con ascessi è stata notata
un’ipoglicemia. Questi riscontri sono indicativi di una setticemia da batteri Gram-negativi.
Per la diagnosi di prostatite cronica è essenziale la valutazione del fluido prostatico. Quest’ultimo va probabilmente
prelevato mediante eiaculazione oppure per aspirazione sotto guida ecografica da cisti intraprostatiche.
Le radiografie in bianco possono essere normali oppure
mostrare una perdita di dettaglio a livello dei margini della
ghiandola nella prostatite acuta. La prostata di solito è radiograficamente normale nell’infiammazione cronica, ma in
pochi casi si può osservare una mineralizzazione granulare
del parenchima. Nell’ascessualizzazione può essere evidente un ingrossamento prostatico, che può avere profilo asimmetrico o irregolare. Si può avere un aumento di dimensioni
dei linfonodi sottolombari.
All’ecografia, nella prostatite acuta e cronica la ghiandola può presentare aumenti focali o diffusi dell’ecogenicità.
Nella prostatite cronica, si può anche osservare una mineralizzazione multifocale, che però è più comune in caso di
neoplasia. Nell’ascessualizzazione, la prostata di solito è
asimmetrica ed iperecogena, con cavità ipoecogene parenchimali con accentuazione distale.
Trattamento della prostatite acuta: Si somministra per
28 giorni un antibiotico scelto in base ai risultati dell’uro-
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coltura e degli antibiogrammi. Dal momento che le infezioni acute possono diventare croniche, il soggetto viene
riesaminato sette giorni dopo aver portato a termine la terapia antibiotica.
Trattamento della prostatite cronica: La prostatite batterica cronica è molto difficile da trattare efficacemente, a
causa della barriera esistente fra sangue e fluido prostatico.
La scelta appropriata di un agente antimicrobico dipende sia
dagli esiti degli antibiogrammi del microrganismo infettante
che dalla capacità del principio attivo scelto di penetrare
negli acini prostatici. Gli antimicrobici che si sono dimostrati dotati di penetrazione prostatica nel cane sono il cloramfenicolo, la clindamicina, il difloxacin, l’enrofloxacin,
l’eritromicina, l’orbifloxacin ed il trimethoprim. Una volta
scelto il farmaco, bisogna continuare a somministrarlo per
almeno sei settimane. La castrazione risulta utile. La coltura
dell’urina e/o del fluido prostatico viene ripetuta a distanza
di sette giorni e di un mese dalla sospensione degli antibiotici, per assicurarsi che l’infezione sia stata eliminata (e non
solo soppressa).
Trattamento dell’ascessualizzazione: Il trattamento d’elezione è il drenaggio chirurgico. Si raccomanda la castrazione. I cani con ascessualizzazione devono essere sottoposti ad una terapia antibiotica. Se l’animale presenta una
malattia sistemica, all’inizio si impiegano agenti antimicrobici per via endovenosa. La scelta dell’antibiotico è basata
sui risultati degli esami citologici (forme bastoncellari o cocciche, Gram-negative o Gram-positive), sugli esami colturali e sugli antibiogrammi, e sulla presenza o assenza di batteriemia. Dopo il miglioramento dei segni clinici, il cane viene trattato come un caso di prostatite batterica cronica.
L’infezione prostatica protratta e le infezioni ricorrenti del
tratto urinario sono comuni nonostante il trattamento chirurgico. L’analisi dell’urina e l’urocoltura vengono ripetute con
cadenza mensile per parecchi mesi dopo la sospensione della terapia iniziale e poi ogni tre mesi per almeno un anno. La
prostata deve essere riesaminata mediante palpazione ed
ecografia ad intervalli mensili fino a che non si ha la conferma della risoluzione dell’ascesso.
40
Riscontri clinici: I cani con carcinoma hanno un’età
media di 9-10 anni. Nella maggior parte dei casi, la prostata
risulta ingrossata ed asimmetrica, con un aumento della
durezza. Spesso non è mobile. Per determinare se la ghiandola è ingrossata o meno, l’esaminatore deve considerare lo
status riproduttivo del cane.
È comune l’ematuria. Nel sedimento urinario occasionalmente si riscontrano cellule atipiche. Il 50% circa dei cani
colpiti mostra un incremento dei livelli sierici di fosfatasi
alcalina.
Nelle radiografie dell’addome senza mezzo di contrasto
può essere evidente una prostatomegalia aspecifica ed irregolare. Occasionalmente, i carcinomi prostatici sono associati a radiopacità minerali multifocali o granulari scarsamente definite. I corpi vertebrali lombari e le ossa del bacino vanno esaminati alla ricerca di aree di lisi o alterazioni
proliferative. Si possono avere metastasi anche a carico di
altri corpi vertebrali, ossa lunghe, scapole, costole e dita. È
indicato l’esame radiografico del torace.
L’ecografia di solito mostra un parenchima iperecogeno
focale o multifocale con asimmetria ed irregolarità del profilo prostatico. L’ecogenicità tende ad essere molto eterogenea. Possono essere presenti aree multifocali irregolarmente
distribuite di mineralizzazione. In mancanza di segni radiografici di metastasi, un sospetto diagnostico di neoplasia
deve sempre essere confermato mediante aspirazione o biopsia sotto guida ecografica.
Trattamento: La maggior parte dei cani con carcinoma
prostatico viene soppressa eutanasicamente entro due mesi
dalla diagnosi a causa della progressione della malattia. Tuttavia, un caso è sopravvissuto 19 mesi senza terapia. Di conseguenza, la decisione relativa alla soppressione deve essere
presa basandosi sulla qualità della vita dell’animale. La
castrazione non è utile; tuttavia, la mancanza di diminuzione delle dimensioni della prostata dopo l’intervento può contribuire a differenziare la neoplasia da altre malattie prostatiche. Il piroxicam, alla dose di 0,3 mg/kg/die può migliorare la qualità della vita dei cani con segni clinici lievi o moderati. È stato riferito un miglioramento del tempo di sopravvivenza grazie alla combinazione di cis-platino e piroxicam.
Neoplasia
Per maggiori informazioni
Fisiopatologia: La neoplasia più comune è il carcinoma,
che si verifica sia nei cani maschi interi che in quelli sterilizzati. Il carcinoma prostatico tende a dare origine a metastasi attraverso i linfonodi iliaci esterni ed interni fino ai corpi vertebrali ed ai polmoni. Insieme alla neoplasia si possono riscontrare cisti, ascessi ed aree di emorragia.
Barsanti JA: Genitourinary Tract Infections. In Infectious Diseases of the
Dog and Cat, 3rd Edition, edited by CE Greene, Saunders/Elsivier
Co., St. Louis, MO, pp 935-961, 2006.
Barsanti JA: Management of Prostatic Diseases. BSAVA Manual of Nephrology/Urology, edited by J. Elliott, BSAVA, London, England, in
press 2006.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
41
Canine urolithiasis
Jeanne Barsanti
DVM, MS, DACVIM (Specialty of Internal Medicine), Josiah Meigs Distinguished Teaching Professor Emerita
The University of Georgia, Athens, GA
Uroliths form because the amount of the crystal involved
exceeds its solubility in urine. Characteristics of urine that
affect solubility include concentration of the crystal, urine
pH, presence of crystallization inhibitors and promoters, and
the proteinaceous matrix. The major questions related to
urolithiasis are what type of urolith is present and where
uroliths are located.
Clinical Signs
Most nephroliths produce no clinical signs. Occasionally
nephroliths cause hematuria or vague malaise. If bilateral,
nephroliths can result in chronic renal failure. Most
ureteroliths are also asymptomatic. Possible signs are
abdominal pain, vomiting, or hematuria. If a ureterolith
causes prolonged partial obstruction, hydroureter and
hydronephrosis result. Some cystoliths are asymptomatic.
Other cystoliths produce dysuria and/or hematuria. Urethral
calculi are the predominant cause of urethral obstruction
with the most prominent sign being dysuria.
Diagnosis
Uroliths are diagnosed by palpation or by radiography/
ultrasonography. The type of urolith is determined by quantitative stone analysis. An educated guess as to the type of
urolith can be made by considering signalment, history of previous stone formation, urinalysis (especially urine pH), urine
culture, serum calcium concentration, and radiodensity.
Therapy
If calculi are confined to the bladder and are smaller than
the diameter of the urethra, they can be removed by urohydropulsion.
Undersaturation of urine with the mineral components of
the urolith will prompt dissolution. Because uroliths must be
bathed in urine for dissolution, dissolution is most successful for cystoliths, requiring approximately 2-4 months.
Nephroliths may be dissolved if renal function is adequate in
the affected kidney as determined by excretory urography. A
longer time is required to dissolve nephroliths (mean for
struvite nephroliths is 6 months). Animals that are being
treated to dissolve calculi must be reevaluated during therapy with CBC, biochemical profile, urinalysis, urine culture,
and radiography. The evaluations are performed at 4 week
intervals. Therapy and these evaluations are continued at
least 4 weeks beyond the last radiographic evidence of
uroliths.
Uroliths tend to recur. A general recommendation to prevent recurrence is to increase water intake.
Struvite (Magnesium Ammonium
Phosphate) Uroliths
Pathophysiology: Struvite crystals are found in urinalyses from normal dogs because dogs excrete magnesium,
ammonium, and phosphate. The most common etiology of
urolith formation is urinary tract infection with bacteria that
produce urease (staphylococci, Proteus spp) causing urine
alkalinization. Female dogs have a higher incidence than
males. Struvite uroliths can affect any age animal. Sterile
struvite uroliths occur occasionally. The stone should be cultured when urine is sterile.
Dissolution of Infection Induced Struvite Uroliths:
Dissolution requires control of infection with an appropriate
antimicrobial and reduction of urine concentrations of
ammonium, magnesium, and phosphate usually by diet.
Canine s/d (Hills Co., Topeka, KS) is formulated for struvite
urolith dissolution.
Prevention of Recurrence of Infection Associated Struvite Uroliths: It is most important to monitor for infection.
A urinalysis and urine culture should be performed one
week after discontinuing antibiotics and every month thereafter for 3 months. The owner should monitor urine pH several times a week on urine collected in the morning prior to
feeding. If the owner notes urine pH > 7.0 for more than 3
days in a row, the owner should return the pet for urinalysis
and urine culture.
Calcium Oxalate Uroliths
Pathophysiology: Hypercalciuria is thought to be the
important factor in formation. Most affected dogs are normocalcemic. However, hypercalciuria may be secondary to
hypercalcemia.
Medical Therapy: Calcium oxalate uroliths cannot be
dissolved. Calcium oxalate cystoliths may be able to be
removed by urohydropulsion or cystoscopy.
Prevention of Recurrence: If the dog is hypercalcemic, it
is most important to diagnose and treat the cause.
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Acidifying diets should not be used. Diets designed for
prevention of calcium oxalate stones, diets designed for
renal failure, or high fiber diets can be fed. Hydrochlorothiazide (2-4 mg/kg every 12 hours) has been shown to reduce
calciuria in dogs, probably by increasing calcium reabsorption. Thiazide diuretics should never be used in animals
which are hypercalcemic and serum calcium should be monitored weekly for the first few weeks. Citrates chelate with
calcium to form soluble salts. Citrates also alkalinize urine.
Potassium citrate is usually used. A urine pH of 7.0 suggests
that adequate urine citrate concentrations have been
achieved. Salt should not be used to stimulate thirst, since
salt increases urine calcium excretion.
Once a preventative regimen is established, the dog
should be reevaluated every 3-6 months with a urinalysis and
survey abdominal radiographs to detect calculi while they
are small and removable by urohydropulsion
Urate Uroliths
Pathophysiology: 90% of urate calculi are ammonium
urate. Dalmatians (and probably bulldogs) are genetically
predisposed to urate uroliths. Urate uroliths are most commonly detected in males and are most frequent between 3-6
years. The ability of the liver of Dalmatians to oxidize uric
acid to allantoin is intermediate between other breeds and
humans. This leads to a urine uric acid concentration that is
approximately 10 times the concentration in other breeds
and results in urate crystals in urine of normal Dalmatians.
Only a small percentage of Dalmatians develop calculi, indicating that other factors are important. The major cause of
urate uroliths in other breeds is portovascular shunt or, more
rarely, hepatic dysfunction.
Dissolution of Urate Uroliths Unassociated with Portovascular Shunts: Allopurinol, alkalinizing the urine, modifying the diet, and increasing water intake are used. Allopurinol decreases the formation of urate by inhibiting xanthine oxidase which normally converts xanthine to uric acid.
The dosage is 30 mg/kg/day divided into 2 or 3 doses. Urine
alkalinization is usually accomplished with sodium bicarbonate or by diet. The dosage of sodium bicarbonate should
maintain a urine pH of 7.0-7.5. The goal of dietary modifi-
42
cation is to reduce uric acid intake which is primarily contained in purine containing glandular organs (e.g. kidney,
liver), to promote urine alkalinization, and to promote diuresis. Diets designed for renal failure can be used.
Treatment of Urate Uroliths Associated with Portovascular Shunts: Surgical correction of the shunt should be
performed.
Prevention of Recurrence: Urine alkalinization is recommended. Canine u/d can be fed. Dilated cardiomyopathy
has been reported in Dalmatians eating u/d for longer than 6
months (an average of 33 months). Alternatively, allopurinol
can be used at 10-20mg/kg/day divided into two doses.
Appropriate therapy can be determined by monitoring 24
hour urine urate excretion with a goal of 275-325 mg of
urate excreted in 24 hours. If 24 hour collections cannot be
performed, urine urate/urine creatinine ratios can be used. A
reduction in urine urate/urine creatinine ratio from 0.5-0.8
pre-treatment to 0.25 to 0.3 post-treatment is recommended.
Recurrence was reported in 30% of dogs despite preventative measures. Dogs with urate urolithiasis should be examined every 3 months with a urinalysis and radiographs and/or
ultrasound to detect uroliths when small and removable by
urohydropulsion.
Cystine Uroliths
Pathophysiology: Affected dogs have a renal reabsorptive
defect for cystine. Predisposed sex/breeds are male dachshunds and English bulldogs.
Dissolution: Diet (canine u/d) and administration of thiola are used. The dosage of N-(2-mercaptopropionyl)-glycine
(MPG; thiola) is 15 mg/kg per os every 12 hours. One
reported side effect is nonpruritic vesicular skin lesions.
Dosage reduction can lead to resolution of skin lesions.
Another is Coomb’s positive regenerative anemia.
Prevention: MPG is used in sufficient quantity to keep
the urine cystine concentration below 200 mg/L. If urine
cystine cannot be measured, MPG is given at 30 mg/kg/day.
Sodium bicarbonate or potassium citrate can be used to alkalinize the urine. Urine pH should be maintained at about 7.5.
Alternatively, a low protein diet that promotes alkaline urine
(renal failure diet) can be fed.
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Urolitiasi nel cane
Jeanne Barsanti
DVM, MS, Dipl ACVIM (Specialty of Internal Medicine), Professor, Georgia, USA
Gli uroliti si formano perché la quantità di cristalli coinvolti supera la loro solubilità nell’urina. Le caratteristiche
urinarie che influiscono sulla solubilità sono rappresentate
da concentrazione dei cristalli, pH urinario, presenza di inibitori e promotori della cristallizzazione e matrice proteinacea. In caso di urolitiasi, le principali domande da porsi
riguardano il tipo di urolita presente e la sua localizzazione.
Segni clinici
La maggior parte degli uroliti renali non determina alcun
segno clinico. Occasionalmente, i nefroliti causano ematuria
o vago malessere. Se sono bilaterali, possono esitare in
un’insufficienza renale cronica. Anche la maggior parte
degli ureteroliti è asintomatica. I possibili segni clinici sono
rappresentati da dolore addominale, vomito o ematuria. Se
un ureterolita causa un’ostruzione parziale prolungata, si
hanno idrouretere o idronefrosi. Alcuni cistoliti sono asintomatici. Altri determinano disuria e/o ematuria. I calcoli uretrali sono la causa predominante di ostruzione dell’uretra, il
cui segno più accentuato è la disuria.
Diagnosi
Gli uroliti vengono diagnosticati mediante palpazione o
esame radiografico/ecografico. Il tipo viene determinato
attraverso l’analisi quantitativa del calcolo. È possibile ipotizzare su basi razionali il tipo di urolita presente, tenendo in
considerazione i dati relativi a segnalamento, anamnesi di
precedente formazione di calcoli, analisi dell’urina (soprattutto pH urinario), urocoltura, concentrazioni sieriche di calcio e radiopacità.
Terapia
Se i calcoli sono limitati alla vescica e sono più piccoli del
diametro dell’uretra, possono venire rimossi mediante uroidropulsione.
L’insaturazione dell’urina da parte delle componenti
minerali dell’urolita ne favorisce la dissoluzione. Poiché i
calcoli devono essere immersi nell’urina perché questo
avvenga, la dissoluzione ha successo soprattutto nel caso
dei cistoliti e richiede approssimativamente due-quattro
mesi. I nefroliti possono venire disciolti se la funzione rena-
le è adeguata nel rene colpito, così come determinato
mediante urografia escretoria. La dissoluzione dei nefroliti
richiede un tempo più prolungato (valore medio per i calcoli di struvite pari a 6 mesi). Durante la terapia, gli animali
che vengono trattati per ottenere la dissoluzione dei calcoli
devono essere rivalutati mediante esame emocromocitometrico completo, profilo biochimico, analisi dell’urina, urocoltura e radiografia. Gli esami si effettuano ad intervalli di
quattro settimane. La terapia e queste valutazioni devono
continuare per almeno quattro settimane dopo l’ultimo
riscontro radiografico di uroliti.
Gli uroliti tendono a recidivare. Una raccomandazione
generale per prevenire questo problema è quella di aumentare l’assunzione di acqua.
Uroliti di struvite
(Magnesio Ammonio Fosfato)
Fisiopatologia: I cristalli di struvite si trovano eseguendo l’analisi dell’urina prelevata da cani normali, perché
questi animali eliminano magnesio, ammonio e fosfato.
L’eziologia più comune della formazione degli uroliti è l’infezione del tratto urinario da parte di batteri ureasi-produttori (stafilococchi, Proteus spp.) che determina un’alcalinizzazione dell’urina. Nelle cagne l’incidenza è più elevata
che nei maschi. I calcoli di struvite possono colpire animali di qualsiasi età. Occasionalmente si riscontrano uroliti di
struvite sterili. Quando l’urina è sterile, si deve effettuare la
coltura del calcolo.
Dissoluzione degli uroliti da struvite indotti da infezione: La dissoluzione richiede il controllo dell’infezione con
un appropriato agente antimicrobico e la riduzione delle
concentrazioni urinarie di ammonio, magnesio e fosfato,
ottenuta solitamente agendo sulla dieta. La Canine s/d (Hill’s Co., Topeka, KS) è formulata per ottenere la dissoluzione
degli uroliti di struvite.
Prevenzione delle recidive degli uroliti di struvite
associati ad infezione: È della massima importanza monitorare l’infezione. Bisogna effettuare un’analisi dell’urina
ed un’urocoltura una settimana dopo la sospensione degli
antibiotici e poi ogni mese per tre mesi. Il proprietario deve
monitorare il pH urinario più volte alla settimana su campioni di urina prelevati al mattino prima dell’assunzione
del cibo. Se nota un valore > 7,0 per più di tre giorni di
seguito, deve riportare l’animale per un’analisi dell’urina
ed un’urocoltura.
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Uroliti di ossalato di calcio
Fisiopatologia: Si ritiene che il fattore importante per la
formazione di questi calcoli sia l’ipercalciuria. I cani maggiormente colpiti sono normocalcemici. Tuttavia, l’ipercalciuria può essere secondaria ad ipercalcemia.
Terapia medica: Gli uroliti di ossalato di calcio non possono essere disciolti. I cistoliti di questo tipo possono venire
rimossi mediante uroidropulsione o cistoscopia.
Prevenzione delle recidive: Se il cane è ipercalcemico, è
della massima importanza diagnosticare e trattare la causa.
Non si devono utilizzare diete acidificanti. Si possono utilizzare le diete studiate per la prevenzione dei calcoli di
ossalato di calcio, quelle messe a punto per l’insufficienza
renale o quelle con un elevato tenore di fibra. È stato dimostrato che l’idroclorotiazide (2-4 mg/kg ogni 12 ore) riduce
la calciuria nel cane, probabilmente aumentando il riassorbimento del calcio. I diuretici tiazidici non devono mai essere
utilizzati in animali ipercalcemici e bisogna monitorare la
calcemia con cadenza settimanale per le prime settimane. I
citrati chelano il calcio per formare sali solubili. Inoltre,
alcalinizzano l’urina. Di solito si utilizza il citrato di potassio. Il pH urinario di 7,0 suggerisce che siano state ottenute
adeguate concentrazioni urinarie di citrato. Non si deve utilizzare il sale per stimolare la sete, perché questo aumenta
l’escrezione di calcio attraverso l’urina.
Una volta stabilito un regime di prevenzione, il cane deve
essere rivalutato ogni 3-6 mesi mediante analisi dell’urina e
radiografia dell’addome senza mezzo di contrasto, per individuare i calcoli quando sono ancora piccoli e suscettibili di
rimozione mediante uroidropulsione.
Uroliti di urati
Fisiopatologia: Il 90% dei calcoli di urati è costituito da
urato di ammonio. I dalmata (e probabilmente i bulldog)
sono generalmente predisposti alla formazione di questo
tipo di uroliti. Nella maggior parte dei casi questi vengono
identificati in soggetti maschi e sono più frequenti fra tre e
sei anni. La capacità del fegato dei dalmata di ossidare l’acido urico in allantoina è intermedia fra altre razze e l’uomo. Ciò porta ad una concentrazione urinaria di acido urico pari a circa 10 volte quella riscontrata in altre razze ed
esita nella presenza di cristalli di urati nell’urina di dalmata normali. Solo una piccola percentuale dei cani di questa
razza sviluppa i calcoli, il che indica che sono importanti
anche altri fattori. La causa principale degli uroliti da urati
in altre razze è lo shunt portovascolare o, più raramente, la
disfunzione epatica.
Dissoluzione degli uroliti da urati non associati a shunt
portovascolari: Si utilizzano l’allopurinolo, l’alcalinizzazione dell’urina, la modificazione della dieta e l’aumento
dell’assunzione di acqua. L’allopurinolo riduce la formazione di urati inibendo la xantina-ossidasi, che normalmente
converte la xantina in acido urico. Il dosaggio è di 30
44
mg/kg/die suddivisi in tre somministrazioni. L’alcalinizzazione dell’urina di solito si ottiene con bicarbonato di sodio
oppure agendo sulla dieta. Il dosaggio del bicarbonato di
sodio deve mantenere il pH urinario di 7,0 – 7,5. Lo scopo
della modificazione della dieta è quello di ridurre l’assunzione di acido urico, che è presente principalmente negli
organi ghiandolari contenenti purina (ad es., rene, fegato)
per promuovere l’alcalinizzazione urinaria e quindi la diuresi. Si possono utilizzare le diete messe a punto per l’insufficienza renale.
Trattamento degli uroliti da urati associati a shunt
portovascolari: Si deve effettuare la correzione chirurgica
degli shunt.
Prevenzione delle recidive: Si raccomanda l’alcalinizzazione dell’urina. Si può impiegare la dieta canine u/d. Nei
dalmata che venivano alimentati con questa dieta per più di
6 mesi (in media 33 mesi) è stata segnalata una miocardiopatia dilatativa. In alternativa, si può usare l’allopurinolo alla
dose di 10-20 mg/kg/die suddivisi in due somministrazioni.
La terapia appropriata può venire determinata con il monitoraggio dell’escrezione urinaria di urati nell’arco delle 24 ore,
cercando di ottenere un valore di questo parametro pari a
275-325 mg. Se non è possibile eseguire la raccolta delle urine delle 24 ore, si può impiegare il rapporto fra i livelli urinari di urati e creatinina. Si raccomanda una riduzione di tale
rapporto da 0,5-0,8 pretrattamento a 0,25-0,3 post-trattamento. Nel 30% dei cani sono state segnalate delle recidive,
nonostante l’attuazione di misure preventive. I cani con urolitiasi da urati devono essere esaminati ogni tre mesi mediante analisi dell’urina e radiografie e/o ecografie, per individuare gli uroliti quando sono ancora piccoli e suscettibili di
rimozione mediante uroidropulsione.
Uroliti di cistina
Fisiopatologia: I cani colpiti presentano un difetto di riassorbimento renale della cistina. Il sesso e le razze predisposti sono i maschi di razza bassotto ed english bulldog.
Dissoluzione: Si utilizzano la dieta (canine u/d) e la somministrazione di N-(2-mercaptopriopionil)-glicina (MPG). Il
dosaggio di quest’ultima è di 15 mg/kg per os ogni 12 ore.
Un effetto collaterale segnalato in letteratura è rappresentato
da lesioni cutanee vescicolari non pruriginose. La riduzione
del dosaggio può portare alla risoluzione di tali lesioni. Un
altro è l’anemia rigenerativa Coomb’s positiva.
Prevenzione: La MPG viene utilizzata in quantità sufficiente a mantenere la concentrazione urinaria di cistina al di
sotto di 200 mg/l. Se non è possibile effettuare la misurazione della cistina urinaria, la MPG viene impiegata alla dose di
30 mg/kg/die. Per alcalinizzare l’urina si possono usare il
bicarbonato di sodio o il citrato di potassio. Il pH urinario va
mantenuto pari a circa 7,5. In alternativa, gli animali possono essere alimentati con una dieta a basso tenore proteico
che promuova la formazione di urina alcalina (dieta da insufficienza renale).
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Urinary incontinence
Jeanne Barsanti
DVM, MS, DACVIM (Specialty of Internal Medicine), Josiah Meigs Distinguished Teaching Professor Emerita
The University of Georgia, Athens, GA
Physiology of Micturition
Normal micturition requires storage and emptying phases.
During the storage phase, the bladder slowly fills via the
ureters as the kidneys produce urine. The detrusor muscle of
the bladder adjusts to filling by stretching with little increase
in intravesicular pressure. The sympathetic system facilitates
detrusor relaxation via beta receptors. Both an internal
(smooth muscle) and external (striated muscle) sphincter
maintain continence during bladder filling by exerting a resting pressure which can increase with sudden increases in
intra-abdominal pressure (e.g. coughing). The smooth muscle of the internal sphincter is located in both the bladder
neck and urethra and is innervated by the sympathetic system via alpha receptors. The striated muscle of the external
sphincter is located in the urethra and is innervated by the
pudendal nerve.
The emptying phase begins when stretch receptors in the
bladder wall detect bladder fullness. Impulses are relayed
via the pelvic nerves to the sacral segments of the spinal cord
and up the spinal cord to the brain stem. A reflex occurs at
this level back down the spinal cord to the sacral parasympathetic nucleus. Impulses are sent via the pelvic nerve to
the detrusor muscle. In the detrusor muscle, excitation
spreads via tight junctions between muscle fibers. Contraction pulls the bladder neck open. Simultaneously, the pudendal motor neurons and alpha adrenergic sympathetic activity
are inhibited, resulting in decreased urethral pressure. Urine
is evacuated. When the bladder is empty, the afferent discharge from the pelvic nerve stops, the pelvic motor neurons
cease their discharge, and sympathetic and pudendal motor
activity again increase bladder neck and urethral pressure.
Voluntary control of this reflex pathway is via the cerebral
cortex to the brain stem. The cerebellum has an inhibitory
effect on the brain stem micturition center.
Diagnostic Plan
A thorough history includes the age of onset of the problem, reproductive status, relationship between the onset of
incontinence and neutering, chronologic course of the incontinence, associated urinary tract problems such as dysuria or
polyuria, neurologic abnormalities, whether normal micturition occurs, when incontinence occurs in relation to micturition and drug usage or dietary changes.
On physical examination, is the bladder large or small? In
a male dog the prostate gland should be palpated. Anal tone
and the integrity of the perineal reflex should be evaluated.
Any abnormal neurologic signs should be pursued by a neurologic examination. Micturition should be observed and
residual volume determined if the ability of the bladder to
empty is in question. The empty bladder should be palpated
for calculi, soft tissue masses, and wall thickness. If the
bladder does not empty, the urethra should be carefully palpated externally and per rectum in males and per rectum in
females.
After the history and physical examination, incontinence
is subdivided into that associated with other neurologic
problems or not. This lecture will focus on cases of incontinence with normal neurologic examinations. This type of
incontinence is best approached diagnostically by subdividing cases into 2 categories based on ability or inability to
empty the bladder.
Inability to empty: Partial or complete urethral obstruction is most likely. After palpation of the urethra, a urinary
catheter should be passed and any obstruction characterized
as to location and consistency. Survey and contrast radiographs are usually necessary to further characterize
obstruction. Ability to pass a urinary catheter to the bladder
does not preclude the presence of a partial obstruction. Retrograde urethrography is necessary to document such
obstructions.
After an anatomic obstruction has been excluded, two
general etiologies remain: (1) detrusor dysfunction (most
common) and (2) failure of the urethral musculature to relax
during detrusor contraction (dyssynergia).
Detrusor dysfunction occurs most commonly due to loss
of tight junctions from bladder over distention. Bladder over
distention may result from urethral obstruction, neurologic
dysfunction (e.g. intervertebral disk disease, dysautonomia),
and with prolonged recumbency. In some animals, the cause
of detrusor dysfunction cannot be determined.
Dyssynergia is difficult to confirm. There are two possible
causes: urethral spasm due to inflammation and neurologic.
The condition has mainly been noted in male dogs. Lumbosacral stenosis has been found in some affected dogs and
should be ruled out by spinal radiographs, EMG, and myelogram, epidurogram or CT of the lumbosacral area.
Normal ability to empty: There are two major categories: (1) the urethral sphincter is not competent or is being
bypassed (most common) or (2) the bladder is contracting
involuntarily at low volumes.
The urethral sphincter is bypassed with a patent urachus
or an ectopic ureter. A patent urachus is recognizable on
physical examination. Excretory urography, vaginourethrog-
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raphy and/or cystoscopy can be used for diagnosis of ectopic
ureters. The kidneys and ureters should be examined for
associated problems such as hydroureter, pyelonephritis, and
abnormal kidney size or shape. A urinalysis and urine culture should be performed prior to surgical correction of an
ectopic ureter. Some dogs with ectopic ureters also have
decreased resting urethral pressure that can lead to continued
incontinence despite surgical correction. A urethral pressure
profile can be used to detect this. If a urethral pressure profile is unavailable, determining whether the bladder is easy
or difficult to manually express is used.
A urethral sphincter of decreased competence is the cause
of “spay” incontinence; however this also occurs in neutered
males, in juvenile bitches, and in a few intact bitches, especially of the Doberman breed. Diagnosis is usually based on
history and physical examination. Historical findings
include a neutered, medium to large breed, overweight
female dog that leaks urine while sleeping or lying down or
when hyperactive, but otherwise urinates normally. The
physical examination is usually normal. The urinalysis is
usually normal, although some dogs develop a secondary
urinary tract infection. Specific gravity should be assessed as
an indicator of polyuria.
The cause of the decrease in resting urethral pressure is
not understood. Reproductive hormone receptors are present
in the urethral musculature and do increase resting urethral
tone. There is an association with age of neutering. Some
cases have been associated with an anatomically short urethra (intrapelvic bladder position on urethrocystography).
However, intrapelvic bladder location can also be present in
normally continent dogs. Rather than one cause, the condition is likely multifactorial,.
A mass in the area of the bladder neck may cause incompetence of the internal urethral sphincter. Diagnosis is suspected by an associated history of dysuria or hematuria, a
palpable abnormality (not always detectable), or abnormalities in the urine sediment (hematuria, pyuria, or abnormal
cells). Cystoscopy, cystography or retrogade urethrography
are necessary to confirm the mass.
Unrestrainable detrusor contractions at low bladder volumes (urge incontinence) result in incontinence that appears
similarly to urethral incompetence, but is often accompanied
by pollakiuria. Causes include severe chronic cystitis, bladder wall neoplasia, and prior cystectomy with markedly
reduced bladder volume. Diagnosis is based on palpating an
46
abnormal bladder, abnormalities on urine analysis, or an
abnormal cystogram.
Therapy
Inability to Empty the Bladder: A distended bladder
must be kept empty. Aseptic, atraumatic, urinary catheterization is the usual mechanism. Once the bladder is emptied,
the catheter is removed when the cause of the distention has
been rectified. For recurrent bladder distention, the catheter
may be left in place or passed intermittently. The advantages
of an indwelling catheter are time and potentially less urethral trauma; however, a major disadvantage is the likelihood
of urinary tract infection. Use of a closed system will delay
development of infection. Antibiotic use may also delay
development of infection, but may result in infections with
antibiotic-resistant bacteria.
Parasympathetic stimulants such as bethanechol are not
usually effective. Using a drug to relax the urethra, such as
phenoxybenzamine, may help to allow bladder expression
and in cases of dyssynergia. One recommended dosage is
0.25 mg/kg orally q12hrs. Side effects include hypotension,
tachycardia, and gastrointestinal irritation.
Normal Ability to Empty the Bladder: Surgical therapy
is required for patent urachus and ectopic ureters.
Urethral incompetence is usually treated with alpha
adrenergic drugs such as phenylpropanolamine (1.5 mg/kg
every 8 to 12 hours) or ephedrine (25 to 50 mg every 12
hours). Potential side effects include hypertension, urine
retention, and cardiac arrhythmias. Alternative therapy is
estrogen administration in neutered females and testosterone
in neutered males. In female dogs, diethylstilbestrol (DES)
is given orally at 0.5 to 1 mg per day for 3 to 5 days and then
as needed. One severe potential side effect of estrogens is
aplastic anemia. Estrogens should always be used with caution and at the lowest effective dose for the shortest period
of time. In most dogs, a few days of therapy will result in
resolution of signs for months, so that constant therapy is not
required. With neutered male dogs, 2.2 mg/kg of injectable
testosterone proprionate may be effective. If the duration of
action is too short, testosterone cypionate (depotestosterone)
can be used. If the dog was neutered because of a testosterone related problem such as a prostatic disease, the disease may recur with testosterone administration.
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Incontinenza urinaria nel cane
Jeanne Barsanti
DVM, MS, Dipl ACVIM (Specialty of Internal Medicine), Professor, Georgia, USA
Fisiologia della minzione
La minzione normale prevede un fase di accumulo o stoccaggio ed una di svuotamento. Durante la fase di stoccaggio,
la vescica viene riempita lentamente attraverso gli ureteri,
man mano che i reni producono urina. Il muscolo detrusore
della vescica si adatta allo riempimento stirandosi in risposta
al lieve aumento della pressione intravescicale. Il sistema
simpatico facilita il rilasciamento del detrusore attraverso i
recettori beta. Sia lo sfintere interno (muscolatura liscia) che
quello esterno (muscolatura striata) mantengono la continenza durante la fase di riempimento vescicale esercitando una
pressione a riposo che può essere aumentata in risposta ad un
improvviso incremento della pressione intraddominale (ad
es, in caso di tosse). La muscolatura liscia dello sfintere
interno è localizzata sia nel collo vescicale che nell’uretra ed
è innervata dal sistema simpatico mediante alfa-recettori. La
muscolatura striata dello sfintere esterno è situata nell’uretra
e viene innervata dal nervo pudendo.
La fase di svuotamento inizia quando i recettori vescicali
sensibili alla distensione rilevano la pienezza dell’organo.
Attraverso i nervi pelvici vengono inviati degli impulsi fino
ai segmenti sacrali del midollo spinale e poi, lungo quest’ultimo, fino al tronco encefalico. A questo livello si ha un
riflesso che ridiscende lungo il midollo spinale fino al nucleo
parasimpatico sacrale. Gli impulsi vengono inviati attraverso
il nervo pelvico fino al muscolo detrusore. Qui l’eccitazione
si diffonde attraverso le tight junction fra le fibre muscolari.
La contrazione determina l’apertura del collo vescicale.
Simultaneamente, i neuroni motori pudendi e l’attività simpatica alfa-adrenergica vengono inibiti, con conseguente
diminuzione della pressione uretrale. L’urina viene espulsa.
Quando la vescica è vuota, la scarica afferente dal nervo pelvico si arresta, i motoneuroni pelvici cessano di inviare
impulsi e l’attività motoria simpatica e pudenda aumenta
nuovamente la pressione del collo vescicale e dell’uretra.
Il controllo volontario di questa via riflessa avviene attraverso la corteccia cerebrale fino al tronco encefalico. Il cervelletto svolge un ruolo inibitore sul centro della minzione
del tronco encefalico.
Piano diagnostico
È necessaria un’approfondita anamnesi che permetta di
chiarire l’età di insorgenza del problema, lo status riproduttivo, la relazione fra la comparsa dell’incontinenza e la sterilizzazione, il decorso cronologico della condizione, i problemi associati del tratto urinario, come la disuria o la poliuria,
le anomalie neurologiche, la presenza o meno di una minzione normale, il momento in cui si verifica l’incontinenza
rispetto alla minzione, l’uso di farmaci o le modificazioni
della dieta.
All’esame clinico, la vescica si presenta piccola o grande?
In un cane maschio, bisogna esaminare la prostata mediante
palpazione. Occorre valutare il tono anale e l’integrità del
riflesso perineale. Ogni segno neurologico anormale deve
essere sottoposto ad un giudizio neurologico. Si deve osservare la minzione e determinare il volume residuo nei casi in
cui la capacità della vescica di svuotarsi è dubbia. Quando è
vuoto, l’organo deve essere palpato alla ricerca di calcoli,
masse di tessuti molli e spessore della parete. Se la vescica
non si svuota, bisogna accuratamente palpare l’uretra; questa
operazione può venire effettuata sia esternamente che per via
rettale nei maschi, mentre nelle femmine si può utilizzare
soltanto la via rettale.
Sulla base dell’indagine anamnestica e della valutazione
clinica, l’incontinenza viene distinta in due forme, una associata ad altri problemi neurologici e l’altra no. La presente
relazione sarà focalizzata sui casi di incontinenza con esame
neurologico normale. Il migliore approccio diagnostico a
questo tipo di incontinenza consiste nel suddividere i casi in
due categorie, in base alla capacità o meno di svuotare la
vescica.
Incapacità di svuotare la vescica: La diagnosi più probabile è l’ostruzione parziale o completa dell’uretra. Dopo la
palpazione uretrale, si deve inserire un catetere urinario, rilevando in questo modo la localizzazione e la consistenza di
ogni eventuale ostruzione. Di solito, per caratterizzare ulteriormente il problema sono necessarie le radiografie con e
senza mezzo di contrasto. La capacità di spingere un catetere urinario fino in vescica non esclude la presenza di un’ostruzione parziale. Per documentare tali ostruzioni è necessaria l’uretrografia retrograda.
Dopo aver escluso un’ostruzione anatomica, restano due
eziologie generali: (1) la disfunzione del detrusore (più comune) e (2) l’incapacità della muscolatura uretrale di rilasciarsi
durante la contrazione del detrusore stesso (dissinergia).
La disfunzione del detrusore nella maggior parte dei casi
è dovuta alla perdita delle tight junction dalla vescica sovradistesa. La sovradistensione vescicale può derivare da distensione uretrale, disfunzione neurologica (ad es., discopatia
intervertebrale, disautonomia) e decubito prolungato. In
alcuni animali, la causa della disfunzione del detrusore non
può essere determinata.
La dissinergia è difficile da confermare. Esistono due possibili cause: lo spasmo uretrale dovuto ad infiammazione e
quello neurologico. La condizione è stata notata principal-
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mente nei cani maschi. In alcuni cani colpiti è stata riscontrata la stenosi lombosacrale, che deve essere esclusa
mediante radiografie spinali, EMG e mielografia, epidurografia o TC nell’area lombosacrale.
Normale capacità di svuotamento della vescica: Esistono due categorie principali: (1) lo sfintere uretrale non è
competente o viene aggirato (evenienza più comune) oppure
(2) la vescica si contrae involontariamente in presenza di
volumi bassi.
Lo sfintere uretrale viene aggirato da un uraco pervio o un
uretere ectopico. Un uraco pervio è riconoscibile all’esame
clinico. Per la diagnosi degli ureteri ectopici si ricorre ad urografia escretoria, vaginouretrografia e/o cistoscopia. I reni e
gli ureteri vanno esaminati alla ricerca di problemi associati
quali idrouretere, pielonefrite ed anomalie di forma o dimensioni dei reni. Prima di effettuare la correzione chirurgica dell’uretere ectopico bisogna eseguire l’analisi dell’urina e l’urocoltura. Alcuni cani con ureteri ectopici presentano anche una
diminuzione della pressione uretrale a riposo che può portare
al perdurare dell’incontinenza nonostante la correzione chirurgica. Per individuare questi soggetti si può utilizzare il profilo della pressione uretrale. Se questo non è disponibile, di
solito si provvede a stabilire se la vescica risulta facile o difficile da svuotare manualmente mediante compressione.
La diminuita competenza dello sfintere uretrale è la causa
dell’incontinenza “da ovariectomia”, tuttavia, questa evenienza si riscontra anche nei maschi castrati, nelle cagne giovani ed in un ridotto numero di cagne integre, specialmente
di razza Dobermann. La diagnosi viene solitamente formulata in base all’anamnesi ed all’esame clinico. I riscontri anamnestici sono rappresentati da sterilizzazione chirurgica, razza
di media o grossa taglia, cagna sovrappeso che perde urina
mentre dorme o si corica o quando è iperattiva, ma per il
resto urina normalmente. L’esame clinico di solito è normale. Anche l’analisi dell’urina di norma non presenta alterazioni, benché alcuni cani sviluppino un’infezione secondaria
del tratto urinario. Si deve effettuare la determinazione del
peso specifico come indicatore di poliuria. La causa della
malattia nella pressione uretrale a riposo non è conosciuta.
Nella muscolatura uretrale sono presenti dei recettori per gli
ormoni riproduttivi che determinano un incremento del tono
uretrale a riposo. Esiste un’associazione con l’età della sterilizzazione. Alcuni casi sono stati abbinati ad un’uretra anatomicamente corta (posizione intrapelvica della vescica
all’uretrocistografia). Tuttavia, la localizzazione vescicale
intrapelvica può essere presente anche in cani con continenza normale. Più che riconoscere una sola causa, la condizione è probabilmente multifattoriale.
Una massa nell’area del collo vescicale può causare l’incontinenza dello sfintere uretrale interno. La diagnosi viene
sostenuta dal riscontro anamnestico associato di disuria o
ematuria, dalla presenza di un’anomalia palpabile (non sempre individuabile) o da alterazioni del sedimento urinario
(ematuria, piuria o elementi cellulari anomali). Per confermare l’esistenza della massa, sono necessarie la cistoscopia,
la cistografia o l’uretrografia retrograda.
Contrazioni incontenibili del detrusore in presenza di
volumi vescicali bassi (incontinenza da urgenza) esitano in
48
un’incontinenza che si presenta in modo simile all’incompetenza uretrale, ma spesso è accompagnata da pollachiuria. Le
cause sono rappresentate da grave cistite cronica, neoplasia
della parete vescicale e precedente cistectomia con marcata
riduzione del volume dell’organo. La diagnosi si basa sul
riscontro alla palpazione di vescica anormale, alterazioni
dell’analisi dell’urina o cistogramma anomalo.
Terapia
Incapacità di svuotare la vescica: una vescica distesa
deve essere tenuta vuota. Di solito il meccanismo utilizzato è
la cateterizzazione asettica, atraumatica. Una volta svuotata
la vescica, il catetere viene rimosso dopo aver risolto la causa della distensione. Se quest’ultima è ricorrente, il catetere
può essere lasciato in sede o introdotto in modo intermittente. I vantaggi di una cateterizzazione permanente sono dati
dal risparmio di tempo e dalla potenziale riduzione del trauma uretrale; tuttavia, uno dei principali svantaggi è la probabilità di infezione del tratto urinario. L’impiego di un sistema
chiuso ritarda lo sviluppo di questo processo infettivo. Anche
l’uso degli antibiotici può rinviare la comparsa dell’infezione, ma può anche determinare delle infezioni da batteri antibioticoresistenti.
Gli stimolatori parasimpatici come il betanecolo di solito
non sono efficaci. Utilizzare un farmaco per determinare il
rilascio dell’uretra, come la fenossibenzamina, può contribuire a permettere lo svuotamento della vescica mediante
compressione manuale e nei casi di dissinergia. Il dosaggio
raccomandato è di 0,25 mg/kg per os ogni 12 ore. Gli effetti
collaterali sono rappresentati da ipotensione, tachicardia ed
irritazione gastroenterica.
Normale capacità di svuotare la vescica: Per l’uraco
pervio e l’ectopia degli ureteri è richiesta la terapia chirurgica.
L’incompetenza uretrale di solito viene trattata con farmaci alfa-adrenergici come la fenilpropanolamina (1,5 mg ogni
8-12 ore) o l’efedrina (25-50 mg ogni 12 ore). I potenziali
effetti collaterali sono rappresentati da ipertensione, ritenzione di urina ed aritmie cardiache. La terapia alternativa è la
somministrazione di estrogeni nelle femmine sterilizzate e di
testosterone nei maschi castrati. Nelle cagne, si utilizza il
dietilstilbestrolo (DES) per os alla dose di 0,5-1 mg/die per
3-5 giorni e poi secondo necessità. Un grave effetto collaterale potenzialmente legato agli estrogeni è l’anemia aplastica. Gli estrogeni devono sempre essere utilizzati con cautela
ed alla dose minima efficace per il più breve periodo di tempo. Nella maggior parte dei cani, pochi giorni di terapia esitano nella risoluzione dei segni clinici per mesi, per cui non
è necessaria una somministrazione costante. Nei cani maschi
castrati, può essere efficace la somministrazione di 2,2
mg/kg di testosterone propionato iniettabile. Se la durata d’azione è troppo breve, si può usare il testosterone cipionato
(testosterone deposito). Se il cane era stato castrato a causa
di problemi correlati al testosterone, come una malattia prostatica, questa può recidivare in seguito alla somministrazione dell’ormone.
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49
Nouvelles études et applications cliniques
avec Zylkene
Claude Beata
Dr Med, Comportementaliste diplômé des Ecoles Nationales Vétérinaires Françaises,
Diplomate of European College of Veterinary Behaviour Medicine, Francia
L’alphacasozepine a fait l’objet de nombreuses études
fondamentales et appliquées, pour connaître sa structure
(Lecouvey et al., 1997a; Lecouvey et al., 1997b), comprendre son mode d’action, vérifier son innocuité et, bien
sûr, tester son efficacité.
Cette dernière partie a été faite chez les animaux de laboratoire (Schroeder et al., 2003; Guesdon et al., 2006; Violle et
al., 2006) mais aussi chez l’être humain (Messaoudi et al.,
2005) avant de faire l’objet d’essais chez nos animaux domestiques. Ces essais menés chez le chien (Beata et al., 2007b) et
chez le chat (Beata et al., 2007a) ont été publiés et apportent
des données sûres récoltées dans des essais contrôlés.
De nouvelles études ont vu le jour permettant d’affirmer
l’efficacité de l’alpha-casozepine dans certaines indications.
Parallèlement à cela, l’existence depuis deux ans de retours
cliniques permet, sans pouvoir parler de preuves sur ces
points, d’ouvrir des pistes intéressantes pour de nouvelles
utilisations du zylkene.
1 - NOUVELLE ÉTUDE EN COURS
(CHIENS ÂGÉS)
Il est toujours délicat de parler d’une étude en cours mais
les premiers éléments de dépouillement d’une nouvelle
enquête aux 2/3 de l’essai (39 cas sur 54) nous rendent
confiants sur l’efficacité de l’alpha-casozépine dans certains
troubles du comportement apparaissant chez le chien âgé.
Pour éviter toute perte de chances, la molécule a été testée
vis-à-vis d’une molécule de référence pour les troubles du chien
âgé. Les résultats obtenus jusqu’à aujourd’ hui sont similaires
mais cela ne pourra être significatif qu’à la fin de l’étude.
Nous nous bornerons donc à décrire quelques cas présents
dans cette étude et comment ils ont évalué de façon très
favorable avec l’aide du produit.
Ainsi ce chien de presque 14 ans, devenu malpropre avec
de nombreuses mictions et défécations à l’intérieur de la
maison. A côté de cela, de nombreux autres symptômes
étaient apparus: agressivité par irritation (le chien s’est
retourné sur une prise par le collier, ce qu’il n’avait jamais
fait), pertes d’apprentissage (n’obeit quasiment plus à
aucun ordre), périodes d’hébétude, inquiétude marquée à la
séparation.
Tous ces signes donnent un score de 44 dans la grille de
cotation utilisée dans l’essai.
Après deux mois de traitement avec l’alphacasozépine,
l’animal a retrouvé une attitude plus calme, peut de nouveau
Figura 1 - Représentation graphique de l’évolution du score ACRO utilisé
dans cet essai.
rester seul, ne souille quasiment plus la maison et ceci est
objectivé par un score de 23 soit presque 50% de réduction.
Nous pouvons aussi déjà dégager quelques éléments qui
demanderont à être confirmés par les études ultérieures
- les troubles émotionnels et cognitifs du vieux chien semblent être de meilleures indications pour l’alphacasozépine que les troubles de l’humeur (dépression d’involution).
- Cette notion paraît tout à fait explicable par le mode d’action suspecté de l’alphacasozepine qui agit comme une
benzodiazépine. Si ce type de molécules présente une forta activité anxiolytique, en revanche elle n’a pas d’action
spécifiquement anti-dépréssive. Elle ne relance pas les
neurotransmetteurs.
Si ces notions viennent se confirmer, il sera alors très intéressant pour le praticien de posséder à côté de molécules
ciblées sur les troubles de l’humeur ou sur le tonus général
du vieil animal, une nouvelle arme dans l’arsenal thérapeutique aux promesses clairement définies: diminuer l’anxiété
et relancer les performances cognitives. Remarquons que
cette relance est souvent signalée par une reprise des jeux, ce
qui est spontanément décrit par les propriétaires.
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2 - NOUVELLES INDICATIONS
2-1 Stress des transports
De nombreux vétérinaires rapportent l’utilisation avec
succès d’alpha-casozépine (Zylkène*) chez des animaux
présentant des manifestations indésirables pendant le transport (sialorrhée, vomissements, halètements, gémissements,
agitation…). L’efficacité semble liée au fait que ces symptômes soient en relation directe avec le stress que ressent
l’animal avant (anticipation) ou pendant le transport.
Pour les déplacements prévisibles, une prise de produit la
veille et une autre 2 heures avant le départ sont recommandées à la dose de 15 à 20 mg/kg.
2-2 Phobies des feux d’artifice
Les symptômes sont semblables dans les phobies aux
bruits forts (pétards, feux d’artifices) avec soit une prédominance de manifestations dopaminergiques et donc digestives
(sialorrhée, vomissements, diarrhée) soit une prédominance
de signes noradrénergiques (halètements, mictions, frissons,
tremblements …). Dans le premier cas, les symptômes comportementaux seront marqués par de l’inhibition et du retrait
alors que dans le second cas ce sont les manifestations productives comme les tentatives de fuite et les aboiements qui
prendront le dessus. Là encore, quand le calendrier ou les
prévisions météorologiques le permettent, il est préférable
de commencer la veille de l’événement. En cas d’imprévu,
une dose unique à 20 mg administrée le plus rapidement
possible dès le début de l’exposition peut aider l’animal à
présenter des symptômes modérés.
Dans ces deux premiers cas, une thérapie de contre-conditionnement ou une thérapie de contrôle des flux de communication viendra améliorer définitivement la situation.
2-3 Animaux âgés
L’essai en cours viendra sans doute confirmer une sensation
clinique partagée par de nombreux confrères: l’alpha-casozépine est très intéressante dans les troubles anxieux et cognitifs
des animaux âgés. En France, beaucoup ont eu la tentation de
l’utiliser chez les seniors en raison de son absence de toxicité.
Le côté naturel de la molécule associé à la facilité d’administration en font notamment une prescription de choix chez les
vieux chats. La reprise de jeux chez un animal qui paraissait
devenu indifférent de manière définitive est sans doute le
symptôme le plus frappant accompagné d’une reprise des
contacts et d’une régularisation de la relation d’attachement.
Cette reprise d’activité harmonieuse permet la mise en place de
thérapies simples permettant au vieil animal d’être récompensé et donc stimulé de manière très positive.
2-4 Adaptation
L’adoption, la confrontation à de nouveaux apprentissages
(club, agility, chasse,…) bref, tout ce qui demande au chien
50
de s’adapter est une indication de choix pour cette molécule. Ceci est vrai à tout age mais les résultats paraissent encore plus spectaculaires chez les chiots. Il est alors recommandé de donner le produit tout au long de la période d’adaptation en n’hésitant pas à prolonger tant que l’animal n’a pas
atteint un équilibre satisfaisant.
2-5 Troubles convulsifs
Enfin, plusieurs vétérinaires comportementalistes, mais
aussi généralistes, utilisent l’alpha-casozépine comme complément dans le traitement standard de l’épilepsie. Si les
résultats ne sont pas constants, cela leur permet souvent de
diminuer de façon significative la dose et donc les effets
secondaires des barbituriques.
A l’appui de cette utilisation, il faut se souvenir que les
premiers essais en laboratoire avaient montré une activité
anti-convulsivante du produit administré par voir intra-péritonéale chez la souris.
CONCLUSION
L’alpha-casozépine (Zylkene*) est un produit aux indications multiples. Les nouveaux essais cliniques et les retours
des utilisateurs ouvrent régulièrement de nouveaux champs
d’application.
Biblographie
Beata, Beaumont, G., Coll, Cordel, Marion, Massal, Marlois and Tauzin,
2007a. Effect of alpha-casozepine (Zylkene) on anxiety in cats. Journal
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Guesdon, B., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Fromentin, G., Tome, D.
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Lecouvey, M., Frochot, C., Miclo, L., Orlewski, P., Driou, A., Linden, G.,
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Two-dimensional H-NMR and CD structural analysis in a micellar
medium of a bovine alpha-s1 casein fragment having benzodiazepinelike properties. Eur. J. Biochem. 872-8.
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benzodiazepine-like peptide in SDS micelles by circular dichroim, H
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Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Desor, D., Demagny, B. and Bourdon, L.,
2005. Effects of a tryptic hydrolysate from bovine milk alpha(S1)casein on hemodynamic responses in healthy human volunteers facing
successive mental and physical stress situations. Eur J Nutr. 2, 128-32.
Schroeder, H., Violle, N., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Nejdi, A.,
Demagny, B. and Desor, D., 2003. Effects of ING-911, a tryptic hydrolysate from bovine milk alpha-S1casein on anxiety of Wistar male rats
measured in the conditioned defensive burying (CDB) paradigm and
the elevated plus maze test. Behavioural Parmacology. S1, 31.
Violle, N., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Desor, D., Nejdi, A., Demagny, B. and Schroeder, H., 2006. Ethological comparison of the effects
of a bovine alpha(s1)-casein tryptic hydrolysate and diazepam on the
behaviour of rats in two models of anxiety. Pharmacol Biochem Behav.
3, 517-23.
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51
Nuovi studi e applicazioni cliniche di Zylkene
Claude Beata
Dr Med Comportementalista, Dipl ENVF, Dipl ECVBM, Francia
L’alpha-casozepina è stato oggetto di numerosi studi fondamentali e applicati per conoscerne la struttura (Lecouvey
et al., 1997a; Lecouvey et al., 1997b), il modo d’azione, per
verificare la sua innocuità e, ovviamente, per testare la sua
efficacia.
Questo ultimo aspetto è stato studiato negli animali da
laboratorio (Schroeder et al., 2003; Guesdon et al., 2006;
Violle et al., 2006) ma anche negli esseri umani (Messaoudi
et al., 2005) prima di essere testato sugli animali domestici.
I test condotti sui cani (Beata et al., 2007b) e sui gatti (Beata et al., 2007a) sono stati pubblicati e forniscono dati sicuri
raccolti in test controllati.
Sono stati condotti nuovi studi che hanno consentito di
confermare l’efficacia dell’alfa-casozepina per alcune indicazioni. Parallelamente l’esistenza da due anni di dati clinici consente, senza poter parlare ancora di prove, di aprire vie
interessanti per nuovi impieghi di zylkene.
1 - NUOVI STUDI IN CORSO
(CANI ANZIANI)
È sempre delicato parlare di uno studio in corso ma i primi elementi emersi da una nuova indagine a 2/3 del test (39
casi su 54) ci rendono fiduciosi sull’efficacia dell’alfa-casozepina nel caso di alcuni disturbi comportamentali che si
manifestano nel cane anziano.
Per non lasciare nulla di intentato, la molecola è stata confrontata con una molecola di riferimento per i disturbi del
cane anziano. I risultati ottenuti fino ad oggi sono similari
ma potranno essere giudicati significativi solo alla fine dello
studio.
Ci limiteremo quindi a descrivere qualche caso presente in
questo studio e di come siano stati valutati positivamente
con l’aiuto di questo prodotto.
Ad esempio un cane di quasi 14 anni che aveva iniziato a
urinare e defecare in casa. Oltre a questo erano apparsi
numerosi altri sintomi: aggressività per irritabilità (il cane
aveva reagito per essere stato preso per il collare, cosa che
non aveva mai fatto), perdita di ciò che aveva appreso (non
obbediva più a nessun comando), periodi di inebetimento,
inquietudine marcata al momento della separazione.
Tutti questi segni danno uno score di 44 nella griglia del
punteggio utilizzato nel test.
Dopo due mesi di trattamento con alfa-casozepina, l’animale ha ritrovato un atteggiamento più tranquillo, può di
nuovo rimanere da solo, non sporca quasi più in casa e il tutto è confermato da uno score di 23, che testimonia un recupero di quasi il 50%.
Figura 1 - Rappresentazione grafica dell’evoluzione dello score ACRO
impiegato in questo test.
Possiamo già fornire qualche elemento
che dovrà comunque essere confermato
da ulteriori studi
- L’alfa-casozepina sembra essere più indicata per i disturbi emotivi e cognitivi del cane anziano rispetto ai disturbi
dell’umore (depressione da involuzione).
- Ciò potrebbe essere spiegato dal presunto modo d’azione
dell’alfa-casozepina che agisce come una benzodiazepina.
Se questo tipo di molecole presenta da un lato una forte
attività ansiolitica, dall’altro non ha un’azione specificatamente antidepressiva. Non riattiva i neurotrasmettitori.
Se ciò verrà confermato, sarà allora molto interessante per
il veterinario avere oltre alle molecole specifiche per i disturbi dell’umore o per il tono generale dell’animale anziano,
una nuova arma nell’arsenale terapeutico che promette di
ridurre l’ansia e di rilanciare le prestazioni cognitive. Sottolineiamo che questa ripresa è spesso segnalata dal fatto che
l’animale riprende a giocare, ciò che viene spontaneamente
descritto dai padroni.
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2 – NUOVE INDICAZIONI
2-1 Stress da trasporto
Molti veterinari segnalano l’impiego con successo dell’alfa-casozepina (Zylkene*) per gli animali che presentano
manifestazioni indesiderabili durante il trasporto (scialorrea,
vomito, ansito, gemiti, agitazione…).
L’efficacia sembra legata al fatto che questi sintomi sono
in relazione diretta con lo stress che l’animale avverte prima
(in anticipo) o durante il trasporto.
Per gli spostamenti programmati, si raccomanda di somministrare il prodotto alla vigilia e 2 ore prima della partenza in dosi da 15 a 20 mg/kg.
2-2 Fobia da fuochi d’artificio
Nelle fobie da rumori forti (petardi, fuochi d’artificio) i
sintomi sono simili con una predominanza sia di manifestazioni dopaminergiche e quindi digestive (sciallorea, vomito,
diarrea) che di segni noradrenergici (ansiti, minzioni, brividi, tremori …). Nel primo caso, i sintomi comportamentali
saranno caratterizzati dall’inibizione e dalla tendenza a
nascondersi mentre nel secondo caso si verificheranno manifestazioni produttive come tentativi di fuga e guaiti.
In caso di eventi programmati o di previsioni meteo avverse, è consigliabile iniziare la somministrazione alla vigilia
dell’evento stesso. In caso di imprevisto, una dose unica da
20 mg somministrata il più rapidamente possibile all’inizio
dell’esposizione può attenuare i sintomi.
In questi primi due casi, una terapia di controcondizionamento o una terapia di controllo dei flussi di comunicazione
potrà migliorare decisamente la situazione.
2-3 Animali anziani
Il test in corso confermerà senza ombra di dubbio una sensazione clinica condivisa da numerosi colleghi: l’alfa-casozepina è molto utile nel trattamento d
ei disturbi ansiosi e cognitivi degli animali anziani. In Francia in molti hanno pensato di impiegarla per gli animali anziani proprio per
l’assenza totale di tossicità. Il lato naturale della molecola
associata alla facilità di somministrazione ne fanno una prescrizione consigliata in particolare per i gatti anziani. La
ripresa del gioco in un animale che sembrava essere diventato completamente indifferente è senza dubbio il sintomo
più sorprendente unitamente alla ripresa dei contatti e alla
regolarizzazione della relazione di attaccamento.
La ripresa dell’attività normale consente di attuare terapie
semplici che permettono all’animale anziano di essere
ricompensato e quindi stimolato in modo molto positivo.
2-4 Adattamento
L’adattamento, il raffronto rispetto a nuovi insegnamenti (club, agility, caccia…), in breve tutto ciò che richiede un
adattamento da parte dell’animale rappresenta una indicazione per scegliere questa molecola. Questo vale per tutte
52
le età ma i risultati sembrano ancora più straordinari nel
caso dei cuccioli. Si raccomanda di somministrare il prodotto durante tutto il periodo dell’adattamento continuando
fino a quando l’animale non avrà raggiunto un equilibrio
soddisfacente.
2-5 Disturbi convulsivi
Infine diversi veterinari comportamentalisti ma anche
generici utilizzano l’alfa-casozepina come complemento nel
trattamento standard dell’epilessia. Se i risultati non sono
costanti, possono diminuire la dose in modo significativo e
quindi ridurre gli effetti secondari dei barbiturici.
A sostegno di questo utilizzo, bisogna ricordarsi che i primi test in laboratorio avevano mostrato una attività anticonvulsiva del prodotto somministrato per via intraperitoneale
nei ratti.
CONCLUSIONI
L’alfa-casozepina (Zylkene*) è un prodotto che ha più
indicazioni. I nuovi test clinici e i risultati degli utilizzatori
aprono la via a nuovi campi di applicazione.
Bibliografia
Beata, Beaumont, G., Coll, Cordel, Marion, Massal, Marlois and Tauzin,
2007a. Effect of alpha-casozepine (Zylkene) on anxiety in cats. Journal of Veterinary Behavior: Clinical Applications and Research. 2,
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Muller, G., 2007b. Effects of alpha-casozepine (Zylkene®) vs selegiline chlorhydrate (Selgian®, Anipryl®) on anxious disorders in dogs.
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L., 2005. Effects of a tryptic hydrolysate from bovine milk alpha(S1)casein on hemodynamic responses in healthy human volunteers
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Schroeder, H., Violle, N., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Nejdi, A.,
Demagny, B. and Desor, D., 2003. Effects of ING-911, a tryptic
hydrolysate from bovine milk alpha-S1casein on anxiety of Wistar male
rats measured in the conditioned defensive burying (CDB) paradigm
and the elevated plus maze test. Behavioural Parmacology. S1, 31.
Violle, N., Messaoudi, M., Lefranc-Millot, C., Desor, D., Nejdi, A.,
Demagny, B. and Schroeder, H., 2006. Ethological comparison of the
effects of a bovine alpha(s1)-casein tryptic hydrolysate and diazepam
on the behaviour of rats in two models of anxiety. Pharmacol Biochem Behav. 3, 517-23.
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53
Patologie neurologiche dell’arto anteriore
Marco Bernardini
Med Vet, Dipl ECVN, Padova
L’arto anteriore (AA) è innervato da numerosi nervi, formati da fibre provenienti dall’intumescenza cervicale, costituita dagli ultimi tre segmenti midollari cervicali (C6, C7 e
C8) e dai primi due toracici (T1 e T2). Da tali segmenti emergono radici nervose motorie e sensitive, che intrecciandosi
formano il plesso brachiale, dal quale nascono il nervo
soprascapolare, il nervo muscolocutaneo, il nervo radiale, il
nervo mediano e il nervo ulnare. Va ricordata, inoltre, la presenza a questo livello del nervo toracico laterale, responsabile dell’innervazione ipsilaterale dei muscoli pellicciai del
tronco, e fibre del sistema nervoso simpatico destinate
all’occhio e ai suoi annessi1-3.
Patologie in grado di colpire dette fibre nervose provocheranno una sintomatologia tipica da lesione del motoneurone inferiore, tipicamente caratterizzata da una diminuzione (paresi), fino all’assenza (paralisi o plegia), dell’attività
dello stesso, di tipo flaccido. Quando è coinvolto un solo AA
si parla di monoparesi o monoplegia. Per i rari casi in cui
sono coinvolti contemporaneamente entrambi gli AA, non
esiste un suffisso da aggiungere ai termini paresi o paralisi,
essendo “para-” da usare solo per gli arti posteriori. Altri
segni tipici di una patologia a questo livello sono: ipo-ariflessia e atrofia neurogena del muscolo. Il cosiddetto “segno
della radice nervosa”, che consiste in episodi più o meno
prolungati di sollevamento in completa flessione di un AA,
è segno di compressione o irritazione acuta di una radice
nervosa destinata all’innervazione dell’arto stesso. Anche
lesioni del sistema del motoneurone superiore destinate
all’AA possono essere responsabili di paresi o paralisi. Tuttavia, la localizzazione neurologica di queste fibre è tale, che
una lesione che le interessi coinvolge quasi sempre anche
altre vie nervose, causando un quadro neurologico ben più
esteso, che non sarà trattato in questa sede.
In questa sede verranno quindi discusse le entità patologiche in grado di coinvolgere le radici nervose, il plesso brachiale e i nervi periferici. Verranno inoltre considerate patologie del midollo spinale che in determinati casi, per decorso e localizzazioni peculiari, possono causare interessamenti del solo arto anteriore.
NEOPLASIE - Il plesso brachiale e i nervi derivanti da esso
sono le strutture nervose periferiche più coinvolte dai tumori della guaina mielinica (peripheral nerve sheath tumors
– PNST). Questo termine tutto sommato piuttosto generico
è giustificato dal fatto che le cellule che compongono queste
neoplasie sono solitamente molto indifferenziate e hanno
caratteristiche di malignità tanto spiccate che ormai è invalso l’uso di definirli “malignant peripheral nerve sheath
tumors” (MPNST)4-6. Sono di solito segnalati in soggetti di
più di 4 o 5 anni di vita, più frequentemente in cani che in
gatti. Il quadro sintomatologico dipende dalla loro esatta
localizzazione iniziale lungo il nervo e dalla loro caratteristica patogenetica di crescere sia prossimalmente che distalmente lungo il nervo stesso. Più il sito di origine è distale e
più si manifesteranno segni solo relativi al gruppo muscolare innervato dal nervo coinvolto. Più il sito di origine è prossimale, e più la neoplasia coinvolgerà velocemente il plesso
brachiale amplificando la sintomatologia clinica. I deficit
sono tanto più imponenti quanto maggiore è la distribuzione
e l’importanza del nervo colpito dalla neoplasia. In generale, il coinvolgimento della metà caudale del plesso e dei nervi da esso originantesi porta ad una sintomatologia più grave di quella dovuta all’interessamento della componente craniale. Nell’arto anteriore si può arrivare alla formazione di
una massa di notevoli dimensioni nella regione ascellare, la
cui palpazione può non essere difficile e spesso provoca
intenso dolore. Anche la postura dell’animale è frequentemente alterata: l’arto è mantenuto abdotto, sia per i deficit
propriocettivi che per il dolore e lo spazio occupato dalla
neoplasia. Il quadro clinico più tipico è quello di una zoppia
iniziale con paresi cronica e progressiva. Non raramente la
sintomatologia iniziale viene attribuita a un problema ortopedico e il trattamento con antinfiammatori dello stesso può
far perdere tempo prezioso ai fini diagnostici. Infatti, ciò che
rende infausta una prognosi già di per sé riservata, è la risalita della massa tumorale lungo la radice o le radici spinali
all’interno del canale vertebrale, dove il tumore dapprime
comprime e poi invade il midollo spinale. La comparsa di
sintomi clinici che coinvolgono l’arto posteriore ipsilaterale
e successivamente l’arto anteriore controlaterale hanno
grande ed infausto significato prognostico.
La diagnosi poteva essere non facile fino all’avvento della risonanza magnetica (RM). Le radiografie in bianco possono evidenziare lisi ossea a carico di una o due vertebre e
l’allargamento di un foramen intervertebrale. Raramente la
massa presenta calcificazioni. L’immagine che si ottiene
dopo iniezione di mezzo di contrasto (mielografia) è classicamente intradurale-extramidollare, ma non raramente i
PNST si possono sviluppare in un tratto di nervo non sufficentemente prossimale da coinvolgere l’emergenza, ma
abbastanza da coinvolgere il nervo nel suo tratto intracanalare; in questi casi si ottiene un’immagine extradurale, per
cui la diagnosi differenziale viene ulteriormente complicata.
La diagnosi di tumore del plesso brachiale può conseguirsi
egregiamente tramite tomografia computerizzata (TC), ma è
la RM che fornisce le maggiori informazioni. L’elettrodia-
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gnostica può fornire utili informazioni sulla reale distribuzione della patologia, specialmente nei casi in cui quadri clinici sono dubbi. Le metastasi sono rare.
La terapia è chirurgica, poiché gli steroidi spesso non danno neppure un transitorio miglioramento. Se il tumore si sviluppa a carico di un nervo destinato ad un arto, l’amputazione è spesso necessaria e forse anche consigliabile in caso di
diagnosi precoce per diminuire le possibilità di una recidiva.
L’invasione del canale vertebrale implica la necessità di una
(emi-)laminectomia: in questi casi l’esplorazione contemporanea dentro e fuori il canale vertebrale può essere difficile e
richiedere due diverse operazioni con approcci differenti.
Inoltre, la prognosi è ancora più riservata per la possibile
penetrazione della neoplasia nel midollo spinale precedentemente alla chirurgia. La prognosi è comunque infausta nella
maggior parte dei casi.
Altri tumori extraneurali che causano compressioni del
plesso o di nervi (linfomi, sarcomi) possono avere una sintomatologia simile. La prognosi per il problema in situ può
essere migliore per la mancata tendenza di molte di queste
masse a risalire i nervi, ma la loro origine multicentrica o la
loro tendenza a metastatizzare li rende comunque insidiosi.
Anche neoplasie extradurali o intradurali-extramidollari
(meningiomi) che si sviluppano ventrolateralmente all’intumescenza cervicale all’interno del canale vertebrale possono
inizialmente causare una sintomatologia sovrapponibile alla
precedente.
INFIAMMAZIONI - La neurite del plesso brachiale7 è
segnalata con estrema rarità nel cane (un caso anche nel gatto) e presenta una probabile origine autoimmune. Vaccinazioni o allergie alimentari potrebbero essere relazionate con
la comparsa di segni clinici. La malattia consiste in una neurite che coinvolge bilateralmente il plesso brachiale e risparmiando di solito il resto del SNP. L’esordio è acuto ed è
caratterizzato da paresi flaccida e iporiflessia ristretta al treno anteriore, cui segue in pochi giorni lo sviluppo di un’atrofia neurogena. Lo studio EMGrafico evidenza potenziali
di fibrillazione. La risposta alla terapia cortisonica è variabile. Diete ipoallergeniche sono consigliabili quando si sospetta un’allergia alimentare. La prognosi è tanto più riservata
quanto maggiore è la taglia dell’animale.
TRAUMI1-3 - La lesione del nervo Radiale (C7-T1) è
una delle lesioni neurologiche più frequentemente diagnosticate nell’arto toracico, talvolta erroneamente perché confusa
con la lesione del plesso brachiale. Frequentemente la lesione è secondaria alla frattura dell’omero e può coinvolgere il
nervo prossimalmente o distalmente il distacco delle branche destinate all’innervazione del muscolo tricipite. Nel primo caso non c’è possibilità di estensione del gomito, del carpo e delle dita, l’arto viene trascinato e si formano lesioni
cutanee della parte dorsale delle dita. Nel secondo caso il
gomito può essere esteso. La lesione parziale del nervo può
soluzionarsi in alcuni mesi, mentre quella totale, più probabile se la sensibilità manca fin dall’inizio e non ricompare in
poco tempo, ha una prognosi infausta e può originare quadri
di autotraumatismo. Più frequente è l’avulsione del plesso
brachiale (C6-T2), legata spesso a iperabduzione o trazione
54
nella regione ascellare, più raramente a fratture delle prime
coste o della scapola. Il risultato è uno “strappamento” delle
radici che originano dall’intumescenza cervicale. I gatti possono lesionarsi nel tentativo di divincolare un arto rimasto
incastrato. Raramente, il danno può essere bilaterale.
Le avulsioni si classificano cone craniali, caudali e totali.
Le craniali interessano le radici C6-C7. I sintomi sono
modesti: atrofia dei muscoli Sopraspinato e Infraspinato
(innervati dal nervo Soprascapolare) e diminuzione dell’anvanzamento del braccio durante l’andatura. A volte anche la
flessione del gomito può essere compromessa, segno di
coinvolgimento del nervo Musculocutaneo. L’andatura non è
comunque significativamente alterata.
L’avulsione caudale coinvolge le radici C8, T1 e T2. I sintomi sono più evidenti, l’appoggio non è possibile per la
lesione delle fibre che costituiscono il nervo Radiale. A volte l’arto è trascinato, a volte una certa flessione è ancora possibile. Distalmente al gomito, non c’è sensibilità plantareposteriore. Il coinvolgimento delle fibre simpatiche può causare sindrome di Horner ipsilaterale. L’avulsione implica
anche un danno, generalmente transitorio, del midollo spinale, con conseguente coinvolgimento delle fibre ascendenti
e discendenti relative all’arto pelvico ipsilaterale. Se l’avulsione è bilaterale, è facile localizzarla erroneamente nei segmenti C6-T2.
L’avulsione totale comporta una sintomatologia grave,
somma delle due precedenti, e una prognosi assai riservata.
Infine, lesioni intramidollari acute (mielopatie ischemiche) o ernie discali molto lateralizzate e/o di modesta entità,
che coinvolgono l’intumescenza cervicotoracica, possono
essere responsabili fin dall’inizio o nel proseguo del quadro
sintomatologico di monoparesi dell’AA.
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Marco Bernardini
Dipartimento Scienze Cliniche Veterinarie
Università degli Studi di Padova
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Malattie dei muscoli della masticazione
Marco Bernardini
Med Vet, Dipl ECVN, Padova
La miopatia dei muscoli masticatori (MMM)1-4, conosciuta in passato anche come miosite eosinofilica, miosite
atrofica e miosite masticatoria, tendenzialmente interessa
cani di media o grande taglia, generalmente giovani adulti.
Colpisce selettivamente i muscoli Temporale, Massetere e
Pterigoideo, quasi sempre bilateralmente.
Si tratta di una malattia autoimmune dovuta alla formazione di anticorpi contro le fibre 2M dei muscoli temporali, a
livello dei quali c’è la deposizione di immunocomplessi.
L’interessamento selettivo per i muscoli masticatori dipende
dalla presenza di molecole di miosina con caratteristiche uniche, probabilmente legate alla peculiarità dell’origine
embriologica di detti muscoli. Tali anticorpi sono rilevabili
nel siero e sono utilizzabili per la diagnosi. La risposta anticorpale potrebbe essere scatenata da agenti infettivi che condividono strutture antigeniche uguali o simili a quelle delle
fibre muscolari. L’improvviso inizio dei sintomi è accompagnato da dolore localizzato ai muscoli temporali, che possono aumentare di volume, causando a volte esoftalmo per l’apertura posteriore dell’orbita. Sono stati riportati anche deficit visivi da compressione del nervo ottico. Lo stato algico
spinge l’animale a rifiutare il cibo e a sottrarsi all’apertura
forzata della bocca, spesso tenuta semiaperta. Fenomeni reattivi a carico dei linfonodi regionali e ipertermia generalizzata possono completare il quadro clinico. La cronicizzazione
del processo è caratterizzata da progressiva atrofia muscolare, così massiva da modificare seriamente il profilo della
testa. A volte la fase acuta passa inosservata e il proprietario
si accorge del problema dell’animale solo nella fase cronica,
notando l’evidenza di alcune strutture ossee (protuberanza
occipitale e processi zigomatici) quando gli accarezza la
testa. La sostituzione del tessuto muscolare con tessuto fibroso può portare progressivamente a trisma con impedimento
all’apertura della bocca. Anche in anestesia generale, nonostante l’eliminazione dell’eventuale dolore e di ogni forma
di contrazione del residuo tessuto muscolare, l’angolo di
apertura della bocca non cambia sostanzialmente e l’intubazione può essere impossibile. Essendo l’orbita aperta posteriormente, un certo enoftalmo può essere evidente in caso di
massiva atrofia muscolare. La conseguente procidenza della
terza palpebra può essere il primo problema notato dal proprietario. L’alimentazione diventa sempre più difficile e si
può arrivare a stadi in cui è possibile solo la parziale fuoriuscita della lingua, spesso comunque sufficiente per assumere
alimenti liquidi e acqua. Stadi più avanzati rendono impossibile qualsiasi forma di alimentazione spontanea e possono
costringere a decidere per l’eutanasia dell’animale. Questa
fase cronica potrebbe in realtà essere un’entità nosologica a
sé stante, da mettere quindi in diagnosi differenziale con la
MMM, definita come miopatia atrofica dei masticatori,
miosite atrofica o miodegenerazione cranica. La patogenesi è
oscura: almeno in alcuni casi, potrebbe essere il risultato finale di una atrofia neurogena secondaria ad una neurite idiopatica del n. Trigemino. I muscoli della masticazione possono,
in casi decisamente rari, essere coinvolti in processi patologici che interessino diffusamente l’apparato muscolare e quindi i sintomi masticatori potrebbero essere i primi a comparire. Altre diagnosi differenziali della MMM, quindi, possono
essere le miositi autoimmuni, la miotonia e le forme
infiammatorie su base infettiva, tra le quali merita un posto
di rilievo la leishmaniosi5.
La diagnosi di MMM durante la fase acuta, solitamente
della durata di 2-3 settimane, non presenta soverchie difficoltà, anche se l’emogramma e la biochimica ematica sono
spesso negativi o presentano segni aspecifici di infiammazione. Se alterati, si possono riscontrare eosinofilia, ipergammaglobulinemia, aumento della CPK. Anche test più
specifici quali ANA test, rheuma test o LE test sono spesso
negativi. L’EMG rivela potenziali di fibrillazione e può permettere una differenziazione dalle rarissime forme miotoniche, caratterizzate da potenziali miotonici. L’esame di elezione rimane comunque la ricerca degli anticorpi contro le
fibre 2M, che risultano altamente diagnostici in caso di
MMM, a meno che non siano già state iniziate terapie con
dosi medio-alte di corticosteroidi. La biopsia muscolare permette di evidenziare quadri di infiammazione (infiltrazioni
di linfociti, plasmacellule, istiociti, eosinofili, ecc) o, meno
frequentemente, di degenerazione o necrosi muscolare,
frammisti a quadri di rigenerazione muscolare.
In caso di conferma diagnostica, una terapia immunosoppressiva deve essere iniziata il prima possibile, partendo da
2-4 mg/kg ogni 24 ore e scalando lentamente per 4-6 mesi.
È molto importante fornire all’animale un’adeguata gastroprotezione per prevenire la comparsa di effetti secondari della terapia corticosteroidea, poiché la sua sospensione
aumenta il rischio di recidive, che sono sempre più difficili
da trattare. Altre terapie con farmaci immunosoppressivi
mancano di un’adeguata sperimentazione, anche se in linea
teorica potrebbero trovare la loro applicazione anche in caso
di MMM. È stato suggerito l’uso di azatioprina alla dose di
0,6 mg/kg/q1-3 gg.
Considerazioni diverse devono essere fatte per la fase cronica della malattia, caratterizzata dalla marcata atrofia
muscolare. La diagnosi differenziale deve prendere in considerazione le atrofie neurogeniche, e quindi le patologie che
possono interessare contemporaneamente e bilateralmente il
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n. Trigemino. Sebbene, eccezionalmente, siano state descritte forme tumorali e traumatiche che coinvolgessero bilateralmente tale nervo, di fatto l’unica diagnosi differenziale da
porre è la paralisi idiopatica del nervo trigemino6 (neurite
del trigemino - paralisi della mandibola).
Tale malattia, legata verosimilmente ad un meccanismo
immunomediato, coinvolge la componente motoria della
branca mandibolare. La sensibilità è generalmente mantenuta in tutte le aree di competenza del n. trigemino, anche se
vengono riportati casi di alterazioni sensitive. Nei casi conclamati, la presentazione è acuta e l’animale si trova improvvisamente inabile a chiudere volontariamente la bocca. La
chiusura passiva avviene senza alcuna difficoltà, ma appena
lasciata libera, la mandibola si abbassa nuovamente. Tale
prova permette di escludere lussazioni temporomandibolari
o altri ostacoli meccanici alla chiusura. La prensione del
cibo risulta impossibile e si assiste a colio continuo di saliva. Il meccanismo della deglutizione può sembrare alterato e
mimare un problema di molteplici nervi cranici; in realtà la
deglutizione in sé non presenta deficit, ma i meccanismi che
comportano l’ingestione del cibo necessitano della chiusura
della bocca. Conseguentemente, gli animali colpiti passano
molto tempo cercando di bere ed è questo ad attirare spesso
l’attenzione dei proprietari. Infatti, essendo i movimenti della lingua normali, l’animale apparentemente è in grado di
bere e sembra solo assetato. In realtà, il livello di acqua nella ciotola rimane pressoché invariato e, anzi, sembra quasi
aumentare perché si mescola alla saliva prodotta in abbondanza, ma non deglutita.
Il decorso clinico generalmente evidenzia la ricomparsa di
movimenti volontari durante la terza settimana e recupero
spesso totale nelle settimane successive, anche se permane
una certa atrofia dei muscoli masticatori. Può essere istituita
una terapia con prednisone a dosi antinfiammatorie o immunosoppressive, ma la sua influenza sul decorso della malattia è questionabile. Molto importante è invece aiutare l’animale ad alimentarsi e a bere, depositando in bocca piccole
quantità di cibo, chiudendo rapidamente la mandibola e stimolando la deglutizione tramite palpazione esterna della
gola o strofinando il tartufo. Complicazioni quali la broncopolmonite ab ingestis sono rare e solo raramente si deve
ricorrere all’alimentazione tramite sondini rinoesofagei. Le
recidive sono possibili, ma molto infrequenti.
56
Altre patologie muscolari che si possono riscontrare
durante l’esame del cavo orale sono quelle a carico della lingua. Si tratta di solito di quadri di ipotrofia della metà destra
o sinistra della lingua e/o alterazioni nei movimenti, secondari ad una paresi o una paralisi del nervo ipoglosso (NC
XII)7. Nelle forme acute, quando non è ancora apprezzabile
l’ipotrofia muscolare, si noterà essenzialmente una deviazione della lingua dalla parte opposta alla lesione per mancanza dell’azione antagonista esercitata dai muscoli del lato della lesione. Con il passare del tempo si noterà una progressiva ipomiotrofia ipsilaterale alla lesione. Infine, la progressiva sostituzione di tessuto muscolare con tessuto connettivo
sarà responsabile di una deviazione verso lo stesso lato della lesione.
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Metodologia Omeopatica Hahnemaniana nelle patologie
croniche progressive. Analisi del metodo in un caso
di Mielopatia Degenerativa di un cane
David Bettio
Med Vet Omeopata LFHom, Parma
Alcune patologie degenerative a carico del sistema nervoso non possono essere trattate in modo efficace in Medicina
Veterinaria, poiché non esistono ancora terapie specifiche a
rallentare il progressivo avanzamento dello stato patologico
dell’animale colpito. L’omeopatia può in taluni casi essere
non solo un palliativo, ma una scelta terapeutica efficace.
Winkly è un Boxer maschio di 3 anni. Giunge con un deficit neurologico propriocettivo del treno posteriore. La deambulazione è fortemente incoordinata tra zampe anteriori e
posteriori. Le zampe posteriori reggono a fatica il cane che si
accascia senza alcun segno di dolore dopo pochi passi. Dalla
visita neurologica e dagli esami effettuati, non emergono dati
confortanti per una diagnosi. Non ci sono segni che facciano
sospettare una compressione midollare, neppure referti ematochimici suggeriscono una patologia specifica.
Il quadro neurologico presenta una atassia posteriore, dismetria lieve anteriore e atrofia dei muscoli degli arti posteriori e dei muscoli para-spinali toraco-lombari. Vengono
effettuate le analisi diagnostico-differenziali che mettono in
evidenza diverse problematiche. Dal punto di vista neurologico Winkly non presenta alcun segno di patologia neurologica a carattere compressivo, infettivo-infiammatorio, neoplastico. La RM, l’elettromiografia e la mielografia con contrasto risultano negative, mentre la biopsia muscolare mostra
una atrofia neurogena cronica attiva. Non viene effettuato
nessun trattamento terapeutico, tranne delle fisioterapia.
Dopo alcuni mesi Winkly non ha nessun miglioramento neurologico. Le analisi propongo per una ipotesi di Mielopatia
Degenerativa. Inoltre la situazione è aggravata dalla positività a Neospora e Toxoplasma.
La Mielopatia Degenerativa è una malattia del midollo
spinale a carattere progressivo, ingravescente, è caratterizzata da un esordio insidioso e da un decorso cronico progressivo che porta all’incapacità a deambulare il soggetto. A tutt’oggi l’eziologia della malattia è sconosciuta. Il decorso
della malattia, dal momento in cui vengono riconosciuti i
sintomi, viene quantificato in un periodo compreso tra i 6 e
i 36 mesi. La diagnosi eziologica della MD è una diagnosi
neuropatologia post-mortem.
Visita omeopatica: Winkly è irruento, vivace, giocoso e
festoso, a volte rissoso con gli altri cani, ma molto generoso
nei confronti dei proprietari, ubbidiente ma testardo. Mangia
di tutto e in modo vorace e a volte passa una giornata intera
senza toccare cibo. Beve parecchio. È tendenzialmente molto
eccitabile, basta stimolarlo a giocare che subito cerca di cor-
rere e aderire e accettare il gioco. Solitamente la sua struttura
fisica lo rende un cane elastico ed atletico, ma Winlky è
impossibilitato dalla sua malattia e fare ciò che desidera. Trascina gli arti posteriori e stenta a mettersi in piedi in modo
autonomo. Non appena inizia a camminare presenta una andatura incerta e incrociata delle zampe e ricade sul posteriore
senza forza. Solo quando è motivato (cibo o gioco) si alza ma
si sostiene per pochi metri. È un soggetto essenzialmente caloroso. Winkly appare un cane equilibrato dal punto di vista
comportamentale, ma fortemente condizionato dalla sua patologia che sembra non avergli intaccato la gioia di vivere, ma
che sicuramente limita le sue possibilità.
Come succede in alcuni casi, non ci sono molti sintomi
peculiari, strani e bizzarri che caratterizzano il cane in modo
omeopatico, come indicato nel §153:
Nella ricerca del rimedio omeopatico, specifico, ossia in
questo confronto tra la totalità dei segni della malattia naturale e le serie dei sintomi dei rimedi a nostra disposizione,
allo scopo di trovare la giusta potenza morbosa artificiale,
per guarire il male secondo la legge dei simili, si devono
tenere presenti in modo particolare e quasi esclusivo, i sintomi più salienti, quelli particolari, quelli non comuni, quelli caratteristici della malattia. Infatti il rimedio cercato, per
essere il più adeguato alla guarigione, deve appunto avere,
nella serie dei suoi sintomi, sintomi che siano assai simili a
quelli caratteristici della malattia che si cura.
I sintomi generali e indeterminati, come inappetenza, mal
di capo, debolezza, sonno inquieto, malessere ecc., per avere carattere generale e non essere meglio specificati, meritano minor attenzione, poiché essi si riscontrano quasi in
ogni malattia e in ogni rimedio.
Non mi rimane che attenermi ai sintomi obbiettivi.
I sintomi obbiettivi che scelgo per la repertorizzazione,
rispondono essenzialmente ad una domanda, che nel caso di
Winlky ritengo fondamentale: che cosa in questo momento è
invalidante nella vita di questo essere vivente? Quali sono i
veri sintomi del paziente?
1. SINTOMI GENERALI – ATROFIA
2. SINTOMI GENERALI - ATROFIA muscolare
3. ESTREMITÀ – EMACIAZIONE
4. SINTOMI GENERALI - ATASSIA LOCOMOTORIA
5. ESTREMITÀ - DEBOLEZZA - Inferiori; arti
6. ESTREMITÀ – INCOORDINAZIONE
7. ESTREMITÀ - INCOORDINAZIONE - Inferiori, arti
8. SINTOMI GENERALI - CALORE - sensazione di
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Prescrivere in questi casi non è facile perché si ha una
grossa responsabilità. Ciò che dobbiamo curare è una perturbazione dell’energia vitale che si manifesta in segni e sintomi. Il quadro mentale non è il baricentro di Winkly, il suo
problema è neurologico e la prescrizione dovrà necessariamente tenere in considerazione dei rimedi che hanno in se
una manifestazione puntiforme a livello neurologico.
Dovremmo quindi trovare la ‘risonanza’, la ‘similitudine’ tra
individuo e rimedio.
Questo viene indicato da Hahanemann nel § 70:
Per quanto fino a qui esposto dobbiamo ammettere:
1) che tutto quello che il medico può trovare di veramente
malato e da guarire nelle malattie consiste solo nello
stato dei disturbi del malato e nelle alterazioni del suo
stato percepibili con i sensi, in altre parole consiste solo
nella totalità di quei sintomi, con i quali la malattie
esprime la richiesta di un rimedio appropriato. Mentre,
dall’altra parte, ogni causa interna e condizione inventata ed oscura, oppure altra causa morbosa e immaginaria materiale non è che un sogno vano;
2) che questa sensazione della sensibilità generale, che
chiamiamo malattia, può essere riportata allo stato di
salute solo con altra alterazione della sensibilità generale della forza vitale col mezzo di rimedi, la cui unica
forza curativa può di conseguenza solamente consistere
nell’alterazione dello stato fisiologico generale ossia
nella produzione specifica di sintomi morbosi. Tali fatti
si riconoscono nel modo più chiaro e più evidente negli
esperimenti, con rimedi, nell’organismo sano; […]
4) che, pure per tutte le esperienze fatte, con medicine, che
hanno tendenza a produrre nell’uomo sano sintomi morbosi artificiali contrari a qualche sintomo della malattia
da curare, si può avere soltanto un sollievo passeggero,
mai guarigione di disturbi più vecchi, sebbene piuttosto
sempre conseguenze di peggioramento. In altre parole il
trattamento allopatico puramente palliativo in mali
importanti, di vecchia data,è senz’altro contrario allo
scopo; […]
Prescrizione: PLUMBUM METALLICUM 30 CH - 5
gocce mattina e sera dinamizzate nell’acqua di bevanda.
Dopo tredici giorni di terapia con Plumbum 30 CH si forma una neoformazione suppurante a livello del garretto
destro. Il linfonodo popliteo dell’arto destro è reattivo.
Winkly è sereno come sempre, mangia con appetito e inizia
a reggersi in piedi per periodi più lunghi. Un mese dopo l’inizio della crisi esonerativa la neoformazione si è riassorbita e rimane solo una reazione fibrosa che non suppura ne da
dolore. In concomitanza con la remissione del sintomo esonerativi, Winkly ha avuto un peggioramento della sintomatologia neurologica. PLUMBUM METALLICUM 200 CH 5 gocce al giorno dinamizzate nell’acqua di bevanda.
A questo punto mi viene riportato che Winlky non ha avuto più nessun miglioramento, rispetto alle fasi iniziali corrispondenti alla somministrazione di Plumbum 30 CH. Fa fatica a muore le gambe e si regge in piedi solo per pochi minuti. I proprietari notano che la postura del dorso è migliorata
e la cifosi è del tutto scomparsa. Ma rimane una forte debolezza agli arti posteriori. I muscoli del treno posteriori sono
ancora atrofici. Le gambe, a livello dei garretti si toccano
una contro l’altra. Alterna dei momenti in cui cammina e
58
altri nei quali non riesce a farlo. Sembra ritornato come all’inizio della terapia omeopatica. Quando si alza da solo per
camminare, perde urina. In questo ultimo periodo Winkly si
eccita molto sessualmente.
A questo punto la reazione al primo rimedio è stata molto
efficace ma ha esaurito la sua azione. La prescrizione sarà
mirata sulla predisposizione miasmatica neurologica, che è
il punto centrale della perturbazione energetica di Winkly.
1. MASCHILI, GENITALI - SESSUALE, desiderio aumentato - facilmente eccitato
2. ESTREMITÀ - DEBOLEZZA - Inferiori; arti - stando in
piedi
3. ESTREMITÀ - SBATTUTE tra loro - ginocchia
4. ESTREMITÀ - SBATTUTE tra loro - ginocchia - cammina; mentre
5. ESTREMITÀ - DEBOLEZZA - Inferiori; arti
6. ESTREMITÀ - EMACIAZIONE - Inferiori, arti
7. ESTREMITÀ - INCROCIANO, quando cammina; le
gambe si
8. ESTREMITÀ - MOVIMENTI - perdita di controllo dei
9. SINTOMI GENERALI - NEUROLOGICHE, malattie
Prescrizione: LATHYRUS SATIVUS 30 CH - 5 gocce
mattina e sera dinamizzate in acqua di bevanda.
Alla visita di controllo dopo un mese di terapia, trovo che
Winlky sta facendo grandi progressi, adesso ha voglia di
lavorare. Ho contattato la fisioterapista e dopo aver guardato il comportamento di Winkly e, dopo alcuni massaggi, ha
provato a mettere il cane sul tapis-roulant, rendendosi che
era pronto per lavorare. A soli tre mesi dall’inizio della somministrazione di Lathyrus s., Winkly lavora molto e giorno
dopo giorno posso rilevare gli effetti della terapia, piccoli
passi, ma significativi. Riesce a percorrere ogni mattina e
ogni sera 1 km a piedi senza problemi. Quando è stanco del
lavoro, cammina in modo poco coordinato, ma migliora
sempre di più la forza di resistenza sulle zampe posteriori. Il
titolo anticorpale di Neospora è diminuito a 1:512.
Andamento dell’energia vitale, come nelle indicazioni di
Hahnemann nel §70 dell’Organon, evidenziano una inversione della progressione della malattia degenerativa.
1. Boericke W., Pocket Manual of Homeopathic Materia
Medica, Encyclopaedia Homeopathica
2. Clarke J.H., Dictionary of Practical Materia Medica,
Encyclopaedia Homeopathica.
3. Clemmons RM (1192), Degenerative Mielopathy – Vet
Clin N am – Small Animal Pract 22:965-971.
4. Hahnemann S. Organon dell’Arte del Guarire, Edizione
VI, Ed Red, Como, 1985.
5. Johnston PE, Barrie JA, Mc Culloch MC et al. (2000)
Central nervous system pathology in 25 dogs with chronic
degenerative radiculomielopathy. Vet Rec 146:629-633.
6. Kent J.T., Lezioni di Filosofia Omeopatica, Edizioni Red,
Como, 1986.
7. Morrison G., Manuale Guida ai sintomi chiave e di conferma. Galeazzi Ed, 1998.
Indirizzo per la corrispondenza:
David Bettio
Scuola di Medicina Omeopatica di Verona (www.omeopatia.org),
Cell. 339-3497871, Ambulatorio: 0521-697211
Email: [email protected]
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59
Aspetti diagnostici e terapeutici della pancreatite
del gatto
Andrea Boari
Med Vet, Teramo,
Marco Pierantozzi
Med Vet, Teramo
Fino ad alcuni anni fa, si riteneva che i disordini del pancreas esocrino avessero una incidenza estremamente bassa nel
gatto. Studi recenti hanno dimostrato che i gatti sono colpiti
da affezioni del pancreas esocrino similmente a quanto avviene nel cane, ma che spesso sfuggono ad una diagnosi clinica.
Nella specie felina la pancreatite rappresenta il disordine più
frequente del pancreas esocrino. Si riconoscono forme acute e
croniche che costituiscono rispettivamente 1/3 e 2/3 di tutti i
casi, al contrario del cane dove i 2/3 dei casi di pancreatite
rientrano nelle forme acute.
La pancreatite acuta si riferisce ad una condizione infiammatoria di breve durata completamente reversibile una volta
eliminata la causa scatenante. La pancreatite cronica, è costituita invece da una flogosi di lunga durata del tessuto pancreatico associato ad alterazioni istopatologiche irreversibili
(fibrosi ed atrofia). Sebbene la definizione di acuto e di cronico si basi su dati istopatologici piuttosto che su segni clinici,
la pancreatite acuta si presenta comunemente in forma grave
mentre la pancreatite cronica è di solito lieve o subclinica. Al
momento nel gatto, non è possibile differenziare ante-mortem le forme acute da quelle croniche sulla base dei dati clinici, clinico patologici e di diagnostica per immagine.
Più del 90% dei casi di pancreatite felina sono idiopatici.
Tuttavia, alla condizione sono state associate molteplici
malattie e fattori di rischio. In letteratura sono stati segnalati
alcuni casi di pancreatite traumatica causati da incidenti stradali o dalla caduta da grandi altezze. Nella patogenesi della
malattia sono stati implicati inoltre diversi agenti infettivi tra
cui il Toxoplasma gondii, scarse le correlazioni con i virus della panleucopenia, della peritonite infettiva e l’Herpesvirus di
tipo I. Sono stati segnalati casi di pancreatite felina da applicazione topica di esteri fosforici (fenthion). Contrariamente al
cane in cui la pancreatite è stata associata a obesità e pasto ricco di grassi, nel gatto è stata osservata una associazione con lo
stato di nutrizione scadente.
Di estrema importanza clinica è il fatto che la pancreatite
felina sia associata ad altre condizioni patologiche come la
malattia infiammatoria intestinale (IBD) e affezioni del tratto
biliare. Per questo da alcuni autori è stato coniato il termine
“tradite” ed è stata avanzata l’ipotesi che la flogosi pancreatica ed epatobiliare sia in realtà la conseguenza della IBD. Tutte le cause sembrano seguire una analoga via patofisiologica
attraverso l’attivazione della tripsina, l’autodigestione del
pancreas, la liberazione di citochine infiammatorie, l’attivazione di una risposta infiammatoria, la comparsa di complicazioni sistemiche come la risposta infiammatoria sistemica
(SIRS), l’edema polmonare, la coagulazione intravasale disseminata, la disfunzione d’organo multipla ed infine la morte.
La pancreatite felina è molto difficile da diagnosticare per la
mancanza di segni clinici specifici e la disponibilità limitata di
test affidabili. I segni clinici più frequentemente riportati sono
l’anoressia, la letargia e la disidratazione. Il vomito, ritenuto
forse il segno più frequente e costante nel cane, si presenta
meno comunemente nel gatto; il dolore addominale è spesso
presente ma è difficile da rilevare nella specie felina. A causa
della aspecificità dei segni clinici, la pancreatite dovrebbe
essere considerata in diagnosi differenziale in ogni gatto che
presenti anoressia, letargia o vomito di origine non nota.
Le indagini ematobiochimiche sono di solito di scarso aiuto nella diagnosi, ma possono fornire utili informazioni sul
bilancio idroelettrolitico e su eventuali malattie concorrenti.
Trascurabili e poco significative le alterazioni ematologiche
(anemia non rigenerativa e leucocitosi). Le alterazioni al profilo biochimico sono di solito non specifiche e comprendono
iperbilirubinemia, ipercolesterolemia, iperglicemia, un
aumento degli enzimi epatici (ATL,AST,ALP), della BUN e
creatinina ed ipoalbuminemia. Le più comuni alterazioni elettrolitiche sono l’ipokaliemia e l’ipocalcemia. L’ipocalcemia è
il risultato di diversi meccanismi che includono gli squilibri
elettrolitici, la saponificazione del grasso peripancreatico, una
resistenza al paratormone e l’ipoalbuminemia. La presenza di
ipocalcemia è legata ad una prognosi sfavorevole. Molti
laboratori ancora comprendono nei loro profili, la lipasi e l’amilasi sieriche. Entrambi questi enzimi, fra l’altro non di
esclusiva provenienza pancreatica, si sono dimostrati nel cane
e nel gatto, incapaci di distinguere soggetti sani da quelli affetti da pancreatite e pertanto non sono in grado di fornire informazioni utili alla diagnosi di pancreatite.
Test ritenuti specifici della funzionalità intestinale (cobalamina e folati) e pancreatica (fTLI e fPLI) possono risultare
molto utili nella diagnosi della pancreatite felina e soprattutto
nella valutazione di malattie concomitanti (IBD) (Simpson et
al. 2001). L’immunoreattività tripsinosimile sierica (fTLI) è
considerato uno specifico indicatore della funzionalità pancreatica ed è infatti considerato il test d’elezione per la diagnosi di insufficienza pancreatica esocrina (IPE). Tuttavia la
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relativa bassa incidenza dell’IPE nel gatto, ha consentito una
sua maggior utilizzazione nella diagnosi della pancreatite acuta felina dove si assisterebbe all’aumento della sua concentrazione sierica. Il test si presenta altamente specifico ma scarsamente sensibile (sensibilità 30-60%) nella diagnosi di pancreatite acuta. La sensibilità si riduce drasticamente nelle forme croniche (8%). Pur rimanendo il test di scelta per l’insufficienza pancreatica esocrina, la presenza di un valore normale non ci permette di escludere la pancreatite. Falsi positivi
sono invece stati segnalati in corso di IBD, linfosarcoma e
digiuno prolungato. Recentemente è stato sviluppato e validato nel laboratorio della Texas A&M University un test RIA
specifico per l’immunoreattività della lipasi pancreatica felina
(fPLI) (Steiner et al., 2004). Il test mostra una elevata sensibilità e specificità (80% di sensibilità in corso di grave pancreatite, e 80% di specificità). Pur in assenza di un test “ideale” per
la diagnosi di pancreatite, l’elevate sensibilità e specificità del
fPLI, ne fanno attualmente il test più affidabile. In un recente
studio condotto su gatti con pancreatite spontanea, il fPLI si è
dimostrato infatti più sensibile e più specifico del fTLI e dell’ecografia addominale (Forman et al., 2004).
La pancreatite felina è difficile da valutare attraverso la diagnostica per immagini. Non esistono segni radiografici patognomonici della pancreatite, ma solo riscontri compatibili con
una peritonite localizzata e l’eventuale compromissione di
altri organi. L’ecografia addominale è la tecnica di diagnostica per immagini d’elezione per la pancreatite nel gatto, dal
momento che fornisce informazioni più specifiche sulle
dimensioni, la forma e l’omogeneità del pancreas rispetto alle
radiografie addominali in bianco. Consente inoltre di monitorare l’evoluzione ed eventuali complicanze (pseudocisti pancreatiche, ascessi). L’esame si presenta altamente specifico
quando vengono applicati rigorosi criteri (specificità >85%)
ma scarsamente sensibile (sensibilità <35%). È un esame fortemente operatore-dipendente.
L’unico metodo attualmente in grado di fornire una diagnosi definitiva rimane l’istopatologia su campioni multipli bioptici. Questo approccio ha però due limiti: il rischio anestesiologico elevato dei pazienti con le forme acute e la necessità di
effettuare, data la natura a volte focale della patologia, numerose biopsie (Ferreri et al., 2003). Per concludere nella diagnosi della pancreatite felina è essenziale utilizzare una combinazione di anamnesi, esame fisico, dati laboratoristici, diagnostica per immagini insieme con la valutazione dell’fPLI.
Il trattamento delle pancreatiti dipende dalla gravità del
processo morboso. Sia la pancreatite acuta che quella cronica
possono essere subcliniche, lievi, moderate o gravi. Le forme
gravi di pancreatite acuta necrotizzante sono quelle che presentano maggiori problemi terapeutici e la sopravvivenza dei
gatti colpiti dipende anche da una diagnosi precoce e da un
aggressivo e immediato supporto terapeutico. Se la causa scatenante viene identificata è opportuno rimuoverla al più presto. Nonostante non sia possibile distinguere da un punto di
vista clinico le forme acute da quelle croniche, è tuttavia
possibile indicare gli indicatori clinici più importanti delle
forme più gravi quali ipoalbuminemia e ipocalcemia nel
profilo biochimico; grave disidratazione, tachicardia/bradicardia, tachipnea e/o febbre che sono segni della SIRS.
La terapia di supporto continua ad essere il punto di forza
nel trattamento della pancreatite. È importante ripristinare il
60
volume circolante con una fluidoterapia aggressiva, correggere gli eventuali squilibri acido-base ed idro-elettrolitici, controllare il vomito (clorpromazina o 5-HT3 antagonisti), fornire
un sollievo per il dolore (meperidina o butorfanolo), mettere il
pancreas a riposo per un breve periodo di tempo e trattare ogni
complicazione che potrebbe insorgere. Le complicazioni che
mettono in pericolo la vita del gatto in corso di pancreatite acuta sono l’ipocalcemia, la coagulazione intravasale disseminata,
il tromboembolismo, le aritmie cardiache, la sepsi, la necrosi
tubulare acuta, l’edema polmonare ed il versamento pleurico.
La raccomandazione “nulla per os” per 2-4 giorni in corso
di pancreatite è giustificata esclusivamente nei casi in cui sia
presente grave vomito, altrimenti i gatti dovrebbero essere
comunque alimentati (sondini nasali, esofagei, gastrici, digiunali, nutrizione parenterale parziale). Il gatto infatti, quale carnivoro obbligato, sviluppa rapidamente mobilizzazione dei
grassi e lipidosi epatica durante il digiuno prolungato.
Considerando come istamina e bradichinine inducono
aumento della permeabilità microvascolare che può condurre
ad una forma emorragica necrotica di pancreatite potrebbe
essere giustificabile e privo di effetti collaterali, il trattamento
con H1 antagonisti (mepiramina o difenidramina) e con H2
antagonisti (cimetidina o ranitidina o famotidina o nizatidina).
A differenza del cane, l’uso di antibiotici ad ampio spettro
(cefotaxime o ampicillina + metronidazolo) può essere indicato in corso di pancreatite felina per il rischio di traslocazione e colonizzazione batterica del pancreas.
La prognosi dei gatti con pancreatite acuta dipende dalla
gravità della patologia e dalla presenza di complicazioni sistemiche. Fra queste occupa un ruolo importante la comparsa di
lipidosi epatica che può essere prevenuta tramite un adeguato
supporto nutrizionale. Nei gatti affetti da forme croniche, si
ritiene che l’infiammazione persistente solitamente subclinica
esiti in una progressiva perdita di tessuto pancreatico funzionale. Quando il danno supera l’85%-90% di tutto il tessuto
pancreatico (esocrino ed endocrino) possono insorgere l’IPE
e/o il diabete mellito. Infine in caso vi sia il sospetto che la
causa scatenante la pancreatite sia una IBD, la terapia dovrebbe essere rivolta alla risoluzione della flogosi cronica intestinale (modificazione della dieta, integrazione con folati e cobalamina, antibiotici, probiotici, agenti immunosoppressivi).
Bibliografia
Ferreri JA, Hardam E, Kimmel SE et al., (2003), Clinical differentiation of
acute necrotizing from chronic nonsuppurative pancreatitis in cats: 63
cases (1996-2001), J Am Vet Med Assoc 223: 469-474.
Steiner JM, Wilson BG, Williams DA, (2004), Development and analytical
validation of a radioimmunoassay for the measurement of feline pancreatic lipase immunoreactivity in serum, Can J Vet Res 68:309-314.
Simpson KW, Fyfe J, Cornetta A et al., (2001), Subnormal concentrations of
serum cobalamin (vitamin B12) in cats with gastrointestinal disease. J
Vet Intern Med, 15:26-32.
Forman MA, Marks SL, De Cock HEV et al., (2004), Evaluation of serum
feline pancreatic lipase immunoreactivity and helical computed tomography versus conventional testing for the diagnosis of feline pancreatitis, J Vet Intern Med, 18:807-815.
Indirizzo per la corrispondenza:
Andrea Boari, Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie, Università degli Studi di Teramo, Viale F. Crispi 212, 64100 Teramo
0861 266972 – fax 0861 266971 – e-mail [email protected]
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61
Evoluzione nella Escuela Medica Hahnemanniana
Argentina e riscontri nella clinica veterinaria
Andrea Brancalion
Med Vet, Treviso
Introduzione
Il nemico più subdolo del Clinico Omeopata è la propria
soggettività, fonte di pregiudizi nei confronti del paziente,
mentre invece sarebbe opportuno osservare regole di obbiettività per poter attuare la migliore prescrizione.
Molti anni di esperienza dei Maestri argentini hanno permesso di mettere a punto un percorso, che potremmo definire un protocollo, utile allo scopo, se non di eliminare completamente, di diminuire al massimo quei pregiudizi, ostacoli alla buona pratica, derivati dal grado di preparazione, di
conoscenza, di filosofia di vita, di esperienza e, perché no,
anche dal temperamento del medico stesso.
Con l’aiuto di un caso clinico, sono messi in evidenza i
punti focali di ciò che è conosciuto come Approssimazione
al Metodo Pratico e Preciso dell’Omeopatia Pura1, dove
“approssimazione” sta a significare la possibilità e la necessità di perfezionare ulteriormente il metodo stesso.
Esso rappresenta l’ultima e più importante evoluzione della Scuola Argentina e la sua validità anche nella clinica veterinaria sottolinea il suo carattere di universalità, una qualità
che sempre deve accompagnare la buona pratica omeopatica.
Materiali e metodi
Si prende in esame il caso di un cane, Pointer femmina di
8 anni di nome Lola, portato a consulto per una zoppia al
posteriore destro, presente da quasi un anno, che l’ha reso
prima inabile alla caccia e poi anche ad una normale attività
motoria.
Inizialmente è stato trattato da un Collega con antidolorifici, successivamente con antinfiammatori senza alcun risultato di rilievo; è stato allora riferito al nostro Ospedale, il 17
dicembre 2005.
Anamnesi, visita ortopedica, diagnostica per immagini e
citologia portano alla verifica di una neoplasia mesenchimale maligna di cm 2,33 x 3,71 lungo il percorso del nervo
sciatico destro, la cui tipizzazione (schwannoma maligno,
neurofibrosarcoma, ecc.) potrebbe essere confermata solo
dall’esame istologico, non eseguito.
Dopo questa prima fase clinica, su precisa richiesta della
proprietaria, si procede alla visita omeopatica secondo il
protocollo per la cui parte generale, già descritta più volte, si
rimanda alla bibliografia2 ed al PDF scaricabile in
http://www.universidadcandegabe.org/trabajoscientificos/a_brancalion/il_metodo_argentino.pdf
Di seguito, invece, sarà riportata la parte relativa alla sua
applicazione pratica.
Il protocollo del Metodo Argentino
dell’Omeopatia Pura
Interrogatorio sistematico - Come spesso fanno i cani da
caccia fuori dal loro normale ambiente, Lola si presenta con
fare dimesso, roteando la coda, unica parte del corpo mobile; tutto il resto è immobile, nella rassegnazione di chi deve
sottostare alla visita o, forse, per l’abitudine all’obbedienza
cieca nei confronti dell’uomo, in cambio delle giornate
gioiose della caccia.
L’approccio omeopatico ai cani da caccia mi è sembrato
sempre più difficoltoso, non a causa dell’animale, ma a causa del proprietario spesso, anche se non sempre, centrato
molto più sull’attività venatoria che sull’osservazione del
suo cane al di fuori di essa. Per questo a volte pongo delle
domande anche un po’ provocatorie, proprio per cercare di
“scompensare” il proprietario nel tentativo di ottenere un
racconto più obbiettivo.
Domanda alla proprietaria (D): “Signora, il problema del
suo cane ormai lo conosciamo, non ci resta quindi che indagare sugli altri aspetti che lo riguardano. Cosa mi dice di
Lola? Cos’è la prima cosa che le viene in mente?”
Risposta (R): “È un cane vivace, intelligente, grintoso, fa
la guardia ed abbaia di notte…”
Riflessione: mi aspettavo che mi parlasse della caccia, di
come puntava la selvaggina, di quanto correva, ecc.
D: “Beh… un cane da caccia che fa la guardia… Farà poi
come tutti i cani che abbaiano quando passa qualcuno, quasi per rompere la noia, no?”
R: “Me lo sono chiesto anch’io, ma il fatto che lo faccia
solo di notte, quando noi dormiamo insomma, e non di giorno, mi fa pensare che questo cane ha qualcosa in più ed una
certa logica.”
D: “Può aggiungere qualcosa al riguardo?
R: “Prendiamo la caccia ad esempio, a caccia batte tutti,
nel senso che guida il branco ed arriva sempre per prima.
Comanda lei, ovviamente, non l’ho mai vista azzuffarsi per
imporre la sua supremazia, lei è sempre davanti, semplicemente. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che ha un naso
migliore degli altri cani, ma ho la sensazione che l’aspetto
del leader naturale sia più giusto.”
D: “Si dice che l’obbedienza non vada molto d’accordo
con l’intelligenza…”
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R: “Guardi, Lola per me è intelligente e molto obbediente, poi quello che si dice non mi interessa: è la prima ad arrivare alla preda ed è la prima ad arrivare da me quando chiamo i cani. Adesso che mi ci fa pensare: più che obbediente,
potrei dire diligente, quello che si deve fare si fa. Ecco, credo proprio che sia questa Lola.”
D: “Qualcosa ancora che la rende particolare o diversa?”
R: “Mi colpisce la voglia enorme che ha ancora di giocare, in questo batte tutti gli altri cani ben più giovani di lei…
Poi devo dire che è una forte mangiatrice, nonostante mantenga il suo peso forma, sempre… e adesso proprio non
riesco a rassegnarmi a vederla ancora piena di volontà, ma
così impossibilitata.”
D: “È cambiato qualcosa nel suo atteggiamento ora che
non sta bene?”
R: “Mah... Una cosa sicuramente: vede? Lo vede anche
lei, si attacca e non mi molla più, quasi avesse paura di perdere il suo posto; l’ho visto fare anche in altri cani nelle stesse situazioni… Un’altra cosa che non aveva mai fatto prima,
l’altro giorno, aveva preso per la gola uno dei cani che di
solito lavorano con lei, senza motivo: non era ora di mangiare, né di bere, né di altro.”
Tracciato del quadro della malattia – Secondo lo schema
del protocollo, possiamo inquadrare i sintomi come segue:
• Caratterologici - grande perseveranza [OBSTINATE],
sicuro dei propri mezzi [POSITIVENESS], pieno di vita
[VIVACIOUS], competitivo [AMBITION increased –
competitive], desiderio di giocare [PLAYING – desire to
play]
• Modalizzati - forte senso del dovere [DUTY, too much
sense of], desiderio di essere tenuto stretto [HELD, desire
to be], conseguenze per la posizione perduta [AILMENTS
FROM, position, loss of], dolore sciatico agg. dal movimento [PAIN, Lower Limbs, sciatica, motion, agg.];
• Ausiliari - soggetto magro, nonostante il cibo abbondante
[LEAN people], linfadenite [INFLAMMATION, Glands
of], neoplasia [CANCEROUS affections].
Repertorizzazione intelligente – Si considerano solo i 3
sintomi modalizzati più gerarchici. In questo caso: DUTY,
too much sense of; HELD, desire to be; PAIN, Lower Limbs,
sciatica, motion, agg. I Rimedi suggeriti dallo schema metodologico sono: Ars., Calc., Coff., Gels., Kali-c., Lach., Nuxm., Nux-v., Plb., Sep.3
Connessione con la Materia Medica e Reinterrogatorio
indicizzato – Viene confermato il rimedio Nux-v.4
Diagnosi di Livello Dinamico e Prognosi Dinamica – Viene
attribuito il Livello 1 data la coerenza della Costituzione Morbosa del paziente e la buona manifestazione sintomatologica5.
Prescrizione giudiziosa – Nux-v. LM1 in gocce, una dose al
giorno in plus secondo Hahnemann6 dal 17 dicembre 2005.
62
delle sue dimensioni iniziali. Nell’occasione viene fatta una
nuova prescrizione: Nux-v. LM2, una dose a giorni alterni.
Dopo circa un mese il cane si allena e mostra di aver ripreso in pieno le sue facoltà motorie, correndo senza risentimenti anche per 2 ore.
La vita del paziente è ora considerata normale ed anche il
suo comportamento non ha più mostrato segni di squilibrio.
Nuova prescrizione: Nux-v. LM3 ogni terzo giorno.
I contatti telefonici con la proprietaria sono regolarmente
avvenuti e nulla è stato segnalato fino al 9 luglio 2006, giorno in cui Lola è stata portata d’urgenza in Ospedale in grave
stato con addome acuto a causa di una peritonite settica, conseguenza di una piometra con rottura dell’utero.
Il ritardo del ricovero è stato fatale. Un’ecografia postmortem ha confermato le stesse dimensioni della neoplasia
riferite nel precedente febbraio.
Conclusioni
La validità del metodo argentino dell’Omeopatia Pura si
può sintetizzare nella sua potenzialità di individuare la
Costituzione Morbosa del paziente7, cioè l’elemento fondamentale per l’applicazione del principio basilare dell’Omeopatia, la Legge di Similitudine.
È interessante notare che, lasciandoci trasportare dalla
soggettività o da un’analisi superficiale, non verrebbe mai in
mente di usare Nux-v. in un caso di neoplasia maligna, tant’è vero che tale rimedio non compare nelle rubriche del
Repertorio relative a tale problema, mentre copre straordinariamente tutti gli altri sintomi della Totalità del soggetto, e
soprattutto i sintomi caratterologici.
Questi sintomi, pur non essendo validi per la repertorizzazione, perché troppo generici e non individualizzanti, sono
tuttavia i più importanti per il paziente, poiché rappresentano il limite alla propria realizzazione, come definito nel §9
dell’Organon di Hahnemann, e rimangono il parametro principale di scelta assieme ai sintomi modalizzati.
Bibliografia
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Risultati
Subito dalle prime somministrazioni, la proprietaria riferisce che Lola ha ripreso ad essere più attiva ed a muoversi
meglio.
Tale miglioramento è progredito regolarmente fino al successivo controllo ecografico il 23 febbraio 2006: il tumore
risulta ridotto a un diametro di cm 1,57, cioè circa la metà
7.
Candegabe ME, Carrara HC, (1997), Approssimazione al Metodo
Pratico e Preciso dell’Omeopatia Pura, Centro Internazionale della
Grafica, Venezia.
Brancalion A, (2006), La Méthode Argentine de l’Homéopathie Pure
de Candegabe-Carrara en Médécine Vétérinarie, 61° Congres de
L.M.H.I., Lucerne (CH).
RADAR™ Homoeopathic Software, Vers. 8.0, Archibel SA, Belgique
EH™ Homoeopathic Software, Vers. 2.1, Archibel SA, Belgique.
Brancalion A, (2004), Scala LM e Prognosi nella Pratica dell’Omeopatia, H.M.S, Como.
Dudgeon RE, (2001), By Samuel Hahnemann Organon of Medicine,
Jain Publishers, New Delhi.
Stocchino MC, Brancalion A, (2007), Un Modo Speciale di Agire,
Sentire e Reagire, Il Medico Omeopata, 36: 36-38.
Indirizzo per la corrispondenza
Andrea Brancalion
Via L. Sartorio, 3 – 31100 Treviso
E-mail: [email protected]
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
63
Il corretto approccio all’anestesia nel parto cesareo:
le complicazioni e gli errori più comuni,
come evitarli e come risolverli
Antonello Bufalari
Med Vet, PhD, Perugia
Chiara Maggio e Tania Bordoni, Dottorande di ricerca, Università degli Studi di Perugia
Gli obiettivi da raggiungere nella conduzione anestetica
del parto cesareo sono:
• Ipnosi, analgesia e miorilassamento della madre che consentano una facile e tranquilla induzione dell’anestesia
generale, un’adeguata fase di mantenimento e una veloce
ripresa di coscienza e controllo dei movimenti per favorire una pronta cura dei cuccioli;
• pronto risveglio dei cuccioli che devono essere in grado di
assumere rapidamente il colostro.
Per soddisfare questi obiettivi è necessario sapere che
durante la gravidanza si instaurano nella gestante importanti cambiamenti fisiologici che coinvolgono l’apparato cardiocircolatorio, respiratorio, gastroenterico, nonché il sistema endocrino e metabolico1. Queste modificazioni alterano
sensibilmente le caratteristiche farmacologiche degli anestetici e degli analgesici rispetto a quanto avviene nei soggetti
non gravidi. Le alterazioni che ne conseguono si traducono
essenzialmente in variazioni a carico dell’assorbimento, della distribuzione, del metabolismo e dell’eliminazione dei
farmaci, nonché delle possibili interazioni con i rispettivi
bersagli molecolari, e in una conseguente modificazione
degli effetti farmacologici. L’assorbimento dei farmaci può
variare in ragione di molteplici fattori che fanno capo a
modificazioni del circolo, della componente idrica e lipidica
dell’organismo e a riduzione delle proteine plasmatiche.
L’apparato cardiocircolatorio, ad esempio, subisce delle
importanti variazioni correlate ai cambiamenti ormonali,
agli effetti meccanici dell’utero gravido e alle richieste metaboliche del feto; queste si traducono in un progressivo
aumento di frequenza, inotropismo e gittata cardiaca (tra il
20-50%) e in una corrispettiva diminuzione delle resistenze
vascolari periferiche, tali da permettere di mantenere inalterata la pressione sistemica, nonostante il considerevole
aumento del lavoro cardiaco2,3.
L’attivazione del sistema renina-angiotensina determina
ritenzione di acqua e ridotta eliminazione di sodio, con
aumento del volume plasmatico circolante (fino al 40%); i
liquidi trattenuti si distribuiscono nei tessuti materni, nell’amnios, nella placenta e nel feto, con conseguente aumento del volume di distribuzione dei farmaci idrosolubili e
ridotta concentrazione degli stessi a livello del sito effettore2,3. Allo stesso modo, l’aumento del grasso corporeo comporta un incremento del volume di distribuzione dei farmaci
liposolubili e una loro minore disponibilità nel plasma2,3. La
riduzione delle albumine seriche può indurre una maggiore
quantità di farmaco biodisponibile, e una sua più ampia
capacità di distribuzione2,3.
Per quello che concerne la funzionalità renale, la gestante
ha un flusso plasmatico renale e una filtrazione glomerulare
considerevolmente aumentati in dipendenza dell’aumento
della gittata cardiaca; la clearance dei farmaci risulta pertanto più elevata, con conseguente aumentata eliminazione delle molecole solubili e dei loro metaboliti2,3.
Anche il metabolismo e l’eliminazione degli analgesici possono subire delle modificazioni. L’attività degli enzimi epatici
può, infatti, risultare modificata, comportando una variazione
nell’ambito della quota metabolizzata del farmaco 2,3.
Anche la capacità di diffusione transplacentare deve essere
opportunamente considerata nella scelta degli anestetici da
impiegare, al fine di minimizzarne la possibile diffusione nei
tessuti fetali. La barriera placentare può essere considerata alla
stessa stregua di quella emato-encefalica, pertanto appare
ovvio che un analgesico capace di trasferirsi nel SNC può passare altrettanto facilmente la placenta. In particolare, la barriera placentare è permeabile alle molecole lipofile e a quelle con
peso molecolare inferiore a 500 Dalton, non consentendo invece, se non in misura ridotta, il passaggio di composti polari. In
conseguenza di tale transito, una certa quota di farmaco somministrato alla madre potrà risultare disponibile e attiva per il
feto. Inoltre, essendo la placenta un organo enzimaticamente
attivo, i farmaci che l’attraversano possono essere detossificati
ma anche trasformati in forme ancora attive o dotate di differente attività, con effetti potenzialmente tossici sul feto. Nelle
fasi finali della gestazione, ovvero in prossimità del parto, sfortunatamente la placenta “invecchia” e il suo spessore diminuisce facilitando un’ulteriore diffusione di farmaci al feto.
È noto che, in corso di gravidanza, si verifica un aumento
di sensibilità agli anestetici legata alla presenza di progesterone ed endorfine che hanno un ruolo sedativo tale da rendere più eclatante l’effetto degli anestetici. Inoltre, la diminuzione della capacità funzionale residua, unita all’aumento
del volume minuto (prodotto del volume tidalico per la frequenza respiratoria), rende più veloce il raggiungimento dell’equilibrio fra l’anestetico gassoso inspirato e quello alveolare. Ne deriva, pertanto, una più rapida induzione mediante
gli anestetici inalatori e la possibilità di impiegare dosi inferiori di questi ultimi per il mantenimento dell’anestesia
generale (riduzione della MAC fino al 40%)2,3.
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Infine, l’aumento della pressione intra-addominale, il rilassamento dello sfintere gastro-esofageo e il rallentato svuotamento gastrico possono aumentare il rischio di rigurgito intraoperatorio e determinare polmonite ab ingestis. Per questo motivo è consigliabile posizionare l’animale sul letto operatorio
con la testa più in alto rispetto al bacino (posizione di Fowler
o Trendelemburg inverso) e inserire sempre un tracheotubo nel
paziente.4
Queste premesse sono necessarie per potere effettuare la
scelta più corretta dei farmaci da impiegare nella scelta del protocollo anestesiologico. Di seguito sono riportati in modo
schematico alcuni anestetici e le loro possibili indicazioni in
corso di parto cesareo nel cane:
1. Atropina: se non ci sono indicazioni particolari, non dovrebbe essere impiegata. Infatti, gli effetti tachicardici secondari
causano un aumento considerevole del lavoro cardiaco in un
paziente che ha già un sovraccarico cardiocircolatorio marcato; inoltre, la tendenza all’ipossiemia della madre per la
ridotta riserva respiratoria e per le difficoltà meccaniche
respiratorie dovute alla pressione sul diaframma da parte
dell’utero, possono favorire l’insorgenza di aritmie;
2. Acepromazina: si preferisce non impiegarla in virtù della
lunga latenza d’azione, dell’effetto sedativo prolungato
(madre e neonato), degli effetti cardiocircolatori importanti
(vasodilatazione in primis) e dell’assenza di un antagonista
specifico;
3. Medetomidina: utilizzare con cautela e comunque a bassi
dosaggi (< 5 μg/kg). A dosi maggiori le rapide modificazioni cardiocircolatorie che si instaurano (bradiaritmie, vasocostrizione, inotropismo negativo etc.) possono essere importanti e non facili da gestire. A bassi dosaggi questi effetti
sono particolarmente ridotti o nulli e la medetomidina risulta un farmaco efficace per indurre miorilassamento e sedazione. Il vantaggio risiede comunque nella presenza dell’antagonista specifico, l’atipamezolo, che può essere impiegato
nel neonato con efficacia e rapidità per via sottolinguale;
4. Oppiacei: sono fondamentali per la gestione del dolore perie post-operatorio e possono essere usati anche in associazione ad anestetici locali per via epidurale. Al momento l’analgesia epidurale risulta uno dei mezzi più indicati per la
gestione dell’analgesia nel paziente cesareo. L’impiego
sistemico di meperidina, fentanil, sufentanil, buprenorfina e
butorfanolo è comunque ancora ampiamente utilizzato; l’antagonizzazione degli effetti degli oppiacei con naloxone è un
altro importante vantaggio;
5. Ketamina: è un anestetico da evitare nel protocollo del parto cesareo in quanto, pur avendo delle importanti e peculiari proprietà analgesiche, induce tachicardia, effetti eccitatori, rigidità muscolare e soprattutto depressione del SNC nei
neonati, poiché è scarsamente metabolizzato dal fegato del
cucciolo5. Infine, non esiste un antagonista specifico;
6. Tiopentale sodico: da evitare in assoluto a causa di aritmie e
fenomeni di accumulo che possono instaurarsi nella madre
e per la grave depressione del SNC e del sistema respiratorio nel nascituro5,6;
7. Propofol: risulta il farmaco di prima scelta per l’induzione
dell’anestesia generale in corso di parto cesareo in quanto ha
un effetto immediato, non si accumula, ed è eliminato rapidamente dalla madre, pertanto anche nel cucciolo la quota di
propofol che permane è molto bassa6;
64
8. Alogenati: tra gli agenti inalatori da evitare va menzionato l’alotano, a causa dell’elevata metabolizzazione e degli effetti di
depressione del SNC nei cuccioli. Da preferire l’isofluorano e
il sevoflurano5. Quest’ultimo, a differenza dell’isofluorano,
risulta molto utile anche per l’induzione dell’anestesia generale essendo un alogenato non irritante e inodore;
9. Analgesia epidurale: dovrebbe essere effettuata di routine nel
parto cesareo in quanto riduce drasticamente la quota di anestetici generali, non deprime i sistemi cardiocircolatorio e
respiratorio della madre e del neonato alla nascita, favorisce
un risveglio ottimale per la madre in quanto privo di dolore
post-operatorio7. I farmaci utilizzati sono oppiacei e/o anestetici locali. Tra questi ultimi da preferire la bupivacaina
(meglio ancora la levobupivacaina che è l’isomero levogiro
della bupivacaina) rispetto alla lidocaina, per via della più lunga durata d’azione (6-8 ore) e per il blocco solo parziale a
carico delle fibre nervose motorie. Attraverso questa procedura la madre ha maggiore libertà di movimento e può accudire
al meglio i cuccioli senza il rischio di danneggiarli.
Per concludere possiamo affermare che gli obiettivi che ci
siamo posti all’inizio dell’anestesia passano attraverso la conoscenza delle modificazioni cardiovascolari, respiratorie e neuroendocrine che si attuano nel corso della gestazione. Inoltre,
la corretta gestione della fattrice, fin dalle fasi preoperatorie,
deve prevedere la sua delicata manipolazione per ridurre lo
stress, la preossigenazione (naselli, maschera ecc.) e la correzione delle anomalie elettrolitiche (acido-base, calcemia, glicemia ecc.) che, unite alla scelta del protocollo anestetico/analgesico più idoneo, diventano fattori indispensabili per condurre adeguatamente a termine il parto cesareo. Non bisogna
dimenticare poi che il trattamento analgesico, introdotto fin
dall’inizio delle procedure anestetiche, deve continuare anche
nel periodo postoperatorio mediante l’impiego di anestetici
locali e/o farmaci analgesici.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Antonello Bufalari, Dip. di Patologia diagnostica e Clinica
veterinaria, sez. di Chirurgia e Radiodiagnostica,
Facoltà di Medicina veterinaria, Università di Perugia,
v. S.Costanzo 4, 0755857728, [email protected].
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Impieghi dello Spironolattone nell’Insufficienza
Cardiaca del cane
Claudio M. Bussadori
MD PhD, DVM Dipl ECVIM (Cardiology), Milano
I Diuretici sono farmaci di importanza fondamentale nella risoluzione e nella prevenzione dei sintomi riferibili all’
Insufficienza Cardiaca Congestizia, poiché con la riduzione
del volume ematico circolante diminuisce la pressione diastolica ventricolare e quella del letto capillare, contrastando
così i meccanismi fisiopatologici responsabili della formazione dell’edema polmonare.
Durante l’ICC si instaurano dei meccanismi fisiopatologici compensatori alcuni tra questi: la vasocostrizione che
determina l’aumento delle resistenze arteriolari, e il post
carico diminuendo quindi la gittata cardiaca; la diminuizione della capacità venosa che aumenta il precarico e determina congestione ed edema; l’aumento della secrezione di
ADH e di Aldosterone che incrementano la ritenzione idrica,
la natriemia e l’escrezione di potassio e predispongono alla
comparsa di edemi e di aritmie; la liberazione di radicali
liberi che determinano morte cellulare e fibrosi miocardica.
L’Aldosterone è un mineralcorticoide prodotto dalla corteccia delle ghiandole surrenali ed è rilasciato nel circolo
ematico. È anche sintetizzato a livello locale dall’endotelio
vascolare e dal miocardio indipendentemente dalla sintesi
surrenalica. Ha come funzioni la regolazione dell’omeostasi
del sodio, il volume del fluido extracellulare e la pressione
sanguigna. Si lega ai recettori dei mineralcorticoidi presenti
nei vasi, cuore e reni.
La sintesi e la regolazione dell’Aldosterone sono controllate in condizioni normali dall’ACTH che stimola il rilascio
giornaliero di aldosterone, dall’Angiotensina II, dalla kaliemia e natremia e da alcuni fattori a livello tessutale quali
l’Ossido Nitrico, il Peptide Natriuretico atriale, Endotelina I
e Radicali liberi. L’aumento dell’aldosterone plasmatico,
che avviene durante l’ICC è associato ad una risposta
infiammatoria e determina stress ossidativo e che porta a
rimodellamento vascolare e fibrosi. Infatti quando in eccesso l’Aldosterone stimola, nella parete vasale, la produzione
di radicali liberi e di ossido nitrico inattivato, questo effetto
infiammatorio locale determina fibrosi perivascolare difetto
di rilassamento dell’endotelio1 e vasocostrizione. Inoltre
determina iperplasia, ipertrofia e apoptosi delle cellule
muscolari liscie dei vasi. Il suo aumento è inoltre associato
alla formazione di superossidi, secrezione di endotelina,
ipertrofia dei fibroblasti e aumentata produzione di collagene che ha come risultato finale la fibrosi miocardica2,3. Nell’uomo, uno studio complementare allo studio RALES ha
dimostrato che l’aumento dei markers del collagene cardiaco è associato all’aumento del rischio di mortalità5. Da uno
studio di FALK T. et al. 20064, è emerso che tanto maggio-
re è il grado di fibrosi miocardica nell’ICC e tanto minore è
l’aspettativa di vita. Diversi studi dimostrano che nel cane
con ICC (IM, CMD) la concentrazione plasmatica di Aldosterone è doppia o tripla rispetto a quella di soggetti sani.
L’Aldosterone causa lo sbilanciamento del SN simpatico
e parasimpatico, è infatti dimostrato che l’ Aldosterone
potenzia gli effetti della noradrenalina stimolando continuamente il Sistema Nervoso Simpatico aumentando il rischio
di aritmie e sincopi, inoltre riduce la sensibilità dei barocettori dell’arco aortico e del seno carotideo e la loro capacità
di reagire ai cambiamenti di pressione sanguigna6.
Nell’uomo è attualmente ritenuto uno dei maggiori
responsabili nella progressione dell’ ICC.
L’Aldosterone stimola la produzione di una proteina, la
permeasi che aumenta il riassorbimento del sodio e diminuisce la secrezione del potassio
I recettori dell’Aldosterone sono presenti in diversi tessuti ghiandole salivari, colon, vari tratti del nefrone ultimo tratto del TCD e del dotto collettore. Questi recettori sono costituiti da una proteina solubile, situata a livello citoplasmatico, che presenta 2 possibili forme allosteriche.
L’Antagonista competitivo dell’Aldosterone è lo Spironolattone che si lega al recettore e gli impedisce di assumere la
sua configurazione attiva. L’effetto renale natriuretico dello
Spironolattone riduce il volume extracellulare, il precarico e
la pressione atriale sinistra.
L’effetto diuretico si instaura molto lentamente e non è
dose-dipendente e soprattutto
non aumenta incrementando la dose. La dose orale è di 12 mg/Kg PO q12h sia come monoterapia che in associazione con altri diuretici (ad es. Furosemide). È utilizzabile
anche nel combattere il fenomeno della diuretico resistenza
causato dall’Aldosterone.
La sua migliore applicabilità clinica si ritrova però nel
trattamento dell’ICC.
In uno studio comparativo post-mortem su campioni di
miocardio prelevati in cani con ICC (IM) vs cani senza ICC
le analisi istopatologiche hanno mostrano nei cani con ICC
la significativa presenza di fibrosi miocardica4.
Suzuki G. et al., hanno svolto uno studio placebo-controllo su 14 cani nei quali è stata eseguita una microembolizzazione coronarica sperimentale7. 7 di questi cani sono stati
trattati con un antagonista dell’Aldosterone (Eplerenone
10mg/kg BID), gli altri 7 sono stati trattati con un placebo.
Questo studio ha riportato dopo 3 mesi di sperimentazione
nel gruppo di cani trattati una significativa riduzione del
37% della fibrosi cardiaca e una stabilità dei parametri di
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FE, LVEDV, LVESV. Nel Gruppo di controllo invece i parametri di FE, LVEDV, LVESV appaiono significativamente
modificati indicando il peggioramento dell’ipertrofia del VS
e della disfunzione miocardica. Questo dimostra che un’antagonista dell’Aldosterone può quindi ridurre la fibrosi e l’ipertrofia miocardica in cani con ICC.
In umana lo studio RALES8(Studio randomizzato in doppio cieco) condotto su 1.663 pazienti con ICC trattati con
ACE-I e furosemide, l’associazione di Spironolattone alla
terapia standard ha determinato la riduzione del rischio di
mortalità del 30%.
I risultati positivi sono stati talmente evidenti che lo studio è stato concluso un anno prima di quanto previsto. Gli
studi CEVA ne hanno confermato l’efficacia sul rimodellamento ventricolare anche nel cane attraverso lo studio clinico GCP, multicentrico condotto in Francia, Germania, Italia,
Belgio, placebo-controllo randomizzato in doppio cieco atto
a validare l’efficacia di PRILACTONE® (2mg/kg/die) nel
cane con ICC attraverso uno studio a breve e a lungo termine, su cani con lieve o moderata ICC o cani con moderatagrave ICC.
Alla visita al giorno 10 più di un cane su 2 presentava netto miglioramento delle condizioni cliniche generali (PRILACTONE®-ACE I). I risultati sono stati confermati dal
monitoraggio per oltre 3 anni dai quali è emerso che per gli
studi nel medio-lungo periodo l’uso di PRILACTONE® per
oltre 15 mesi riduce il rischio di mortalità del 65%. I soggetti
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sottoposti a terapia con PRILACTONE® presentano un
rischio di morte 3 volte inferiore rispetto ai soggetti in terapia standard. Studi sulla sopravvivenza a lungo termine (3
anni) mostrano la riduzione del 59% del rischio di mortalità
nei cani in terapia con PRILACTONE® rispetto alla terapia
standard.
Tali risultati ne giustificano l’impiego come trattamento
precoce dell’ICC.
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Bendaggi morbidi e bendaggi funzionali
Francesca Cazzola
Med Vet, Moncalieri (TO)
BENDAGGI MORBIDI
Il bendaggio ha da sempre un ruolo di grande importanza
nel campo della medicina veterinaria, sia per la sua funzione contenitiva che per quella compressiva. I bendaggi si
classificano a seconda del segmento osseo interessato e della funzione che devono svolgere.
Bendaggio Robert Jones modificato
Questo tipo di bendaggio si utilizza per l’immobilizzazione temporanea di primo soccorso, per l’immobilizzazione
primaria o per quella secondaria ad intervento chirurgico,
come copertura di una lesione estesa dei tessuti molli o per
la riduzione di un edema passivo o attivo dell’arto. Il materiale utilizzato rappresenta un parametro molto importante
per la corretta esecuzione del bendaggio, associato ad una
buona manualità ed esperienza. Il bendaggio inizia con l’applicazione del cotone in direzione disto-prossimale fino alla
regione ascellare, lasciando esposte le estremità del terzo e
quarto dito. Le spire di cotone devono sovrapporsi del 50%.
Maggiore sarà la quantità di cotone utilizzato, minore sarà il
rischio di lesioni cutanee. Dopo l’applicazione del cotone,
per esercitare una pressione costante, si utilizza una benda
elastica coesiva o una benda orlata adottando la stessa direzione e gli stessi limiti detti precedentemente. La tensione
esercitata dalla benda elastica dovrebbe dare un aspetto uniforme al bendaggio e ridurne in parte le dimensioni dandogli un aspetto compatto sia visivamente che al tatto. La compressione ottenuta sarà direttamente proporzionale alla
quantità di bende utilizzate e alla forza impressa dall’operatore. Per dare una migliore protezione si completa il bendaggio con una benda coesiva. È necessario che vengano
rispettati gli angoli articolari fisiologici per evitare che il
bendaggio scivoli, sia fastidioso per l’animale o di scarso
aiuto per la patologia in atto. A seconda del raggio osseo o
dell’articolazione interessata sarà possibile decidere quanto
estenderlo distalmente e prossimamente.
Bendaggio di Valpeau
Utile per l’immobilizzazione post-operatoria dell’articolazione scapolo-omerale, per le fratture scapolari e per mantenere la riduzione a cielo chiuso delle lussazioni di spalla.
Il fine di questo bendaggio è di limitare drasticamente i
movimenti a carico dell’articolazione scapolo omerale. Per
ottenere questo risultato è necessario incorporare completamente tutto l’arto nel bendaggio.
Si inizia avvolgendo la benda elastica attorno all’estremità distale dell’arto in senso latero-mediale. Mantenendo
gomito e carpo in posizione di flessione, il bendaggio prosegue sul versante laterale dell’arto e della spalla, si estende
fino all’ascella controlaterale per poi tornare al punto di partenza. Per dare una maggiore rigidità e robustezza, si può
fare uso di più strati benda elastica seguendo il medesimo
schema. Se l’arto viene tenuto in questa posizione per più di
10 giorni, si possono creare condizioni di immobilità articolare conseguenti alla posizione di iperflessione forzata a cui
vengono sottoposte le articolazioni.
Bendaggio di non carico
Indicato in caso di lussazioni laterali di spalla e interventi chirurgici a carico dei muscoli sovraspinato e bicipite brachiale, questo tipo di bendaggio viene applicato per scoraggiare il carico del peso sull’arto.
Si utilizzano dei cerotti o uno strato di copertura di cotone su cui si applica una benda elastica coesiva; il carpo deve
essere mantenuto in flessione e i cerotti o gli strati di cotone
e bende devono essere applicati a partire dal terzo distale del
radio e ulna fino alla regione metacarpale. L’animale solitamente tollera l’applicazione di questo bendaggio, anche se
determina un’andatura claudicante con sovraccarico dell’arto controlaterale. Può portare a rigidità articolare se tenuto in
sede per un periodo superiore a 2 settimane. Inoltre è difficile monitorarne la compressione, dal momento che le estremità distali delle dita sono spesso incluse nel bendaggio. In
fisioterapia, dopo aver valutato correttamente la patologia in
atto, può essere utilizzato come ausilio durante un esercizio
funzionale per stimolare l’appoggio dell’arto controlaterale.
Considerazioni generali
Tutti i bendaggi devono essere mantenuti integri, asciutti
e puliti e devono essere sostituiti il più spesso possibile per
evitare lesioni cutanee. È quindi molto importante spiegare
la corretta gestione del bendaggio al proprietario ed effettuare controlli clinici ravvicinati.
BENDAGGI FUNZIONALI
Come ‘bendaggio funzionale’ si intende un tutore in grado di sostenere o stabilizzare le componenti di un’articolazione o di rinforzare o scaricare strutture muscolo-tendinee.
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Deve essere applicato valutando correttamente gli obiettivi
che si vogliono ottenere, le strutture che vengono coinvolte
nel bendaggio e la corretta diagnosi della lesione. Altri parametri da tener presente sono la buona conoscenza della meccanica articolare e muscolo tendinea, la tipologia del paziente e il suo stile di vita. I bendaggi funzionali già conosciuti
in medicina veterinaria sono il bendaggio di Robinson e il
bendaggio di Slocum per l’atro posteriore e alle pastoie.
Bendaggio di Robinson
È un bendaggio con sottrazione dell’arto al carico che permette di mantenere l’arto immobilizzato pur permettendo
dei movimenti di flessione ed estensione. Può essere utilizzato per ridurre il carico nel periodo post-operatorio dopo
una frattura di femore, per cercare di evitare la contrattura
del quadricipite.
Si esegue applicando una prima striscia di cerotto attorno
all’addome e una seconda sulla parte centrale di metatarsi,
avendo cura di proteggere i tessuti molli con un’adeguata
imbottitura di cotone e benda. Il cerotto posizionato sui
metatarsi viene poi unito facendo aderire i due lati adesivi,
ripiegato a metà e fissato cranialmente alla zona metatarsale
in modo da ottenere due strisce di cerotto. Una striscia viene fatta passare lateralmente e l’altra medialmente al ginocchio ed entrambe vengono poi collegate al cerotto precedentemente posizionato sull’addome, a un’altezza tale da impedire l’appoggio dell’arto. Le due strisce di cerotto sono mantenute in sede da un cerotto che le collega e passa caudalmente all’articolazione del ginocchio. Questo tipo di bendaggio si può anche modificare utilizzando una scarpetta
protettiva, di gomma o neoprene, e dei tubicini di lattice che
vengono ancorati alla parte volare della scarpetta, fissati sulla zona prossimale e craniale dei metatarsi, fatti passare lateralmente e medialmente all’articolazione tibiotarsica, fissati
in posizione leggermente distale al cavo popliteo, nuovamente separati e portati uno lateralmente e l’altro medialmente al ginocchio, infine fissati cranialmente al cerotto
posizionato sull’addome. Questo bendaggio può dare complicanze e non è semplice da eseguire in modo corretto.
Spesso cede a livello addominale determinando il carico dell’arto o non viene ben gestito dai proprietari. Sarà perciò
necessario valutarne la reale necessità e monitorare il
paziente ancora più attentamente.
Bendaggio a otto di Slocum per la lesione
del nervo sciatico
Il fine di questo bendaggio è di mantenere la dorsoflessione delle dita e del garretto, evitando lesioni di cute, tendini e legamenti causate del deficit propriocettivo conseguente alla lesione del nervo sciatico. Il bendaggio a otto inizia dalla parte distale della gamba, incrocia dorsalmente
facendo perno su un cuscinetto posto precedentemente sui
metatarsi e termina volarmente ai cuscinetti del terzo e quarto dito provocandone l’estensione. Lo stesso bendaggio può
essere applicato solo a livello delle dita: lo schema ad otto in
questo caso si esegue cominciando dal versante plantare e
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distale dei metatarsei, incrociando dorsalmente a livello dell’articolazione metatarso-falangea e terminando volarmente
ai cuscinetti del terzo e quarto dito per determinarne l’estensione. Per dare una maggiore stabilità le dita in entrambe i
casi vengono comprese nel bendaggio.
Pastoie
Utilizzate per proteggere un arto lesionato da ulteriori
traumi limitandone lo stress rotazionale. Si impiega per le
fratture di omero e femore e per fratture scapolari e pelviche
perché limita l’eccessiva abduzione o adduzione degli arti.
Si applica uno strato protettivo su entrambi i tarsi e i carpi, si avvolge del cerotto sulla zona metatarsale o metacarpale di una zampa in modo che resti un capo di cerotto libero da poter collegare al cerotto posto sull’altra zampa mantenendo la distanza fisiologica tra i due arti Spesso questa
metodica non viene tollerata bene dall’animale a causa dell’eccessiva limitazione dei movimenti. Se si ritiene necessario utilizzare le pastoie è necessario quindi che l’animale sia
confinato e faccia un esercizio controllato.
Considerazioni generali
I bendaggi descritti precedentemente sono di aiuto soltanto per alcuni distretti anatomici mentre, in medicina umana,
il bendaggio funzionale viene utilizzato per tutte le articolazioni e per molte lesioni muscolari. L’obiettivo che dovremmo raggiungere anche in medicina veterinaria è di ampliare
la gamma di bendaggi, sfruttando al meglio le conoscenze e
gli studi già fatti sull’uomo e applicandoli agli animali
domestici. Utilizzando bende e cerotti specifici è possibile
facilitare la guarigione di un tendine o di un legamento o
ridurre l’instabilità di un’articolazione, rispettando le strutture e i tessuti circostanti e premettendo un movimento articolare corretto. A questo proposito è importante ricordare
che la completa immobilizzazione articolare determina ristagno del liquido sinoviale, stiramento della capsula e conseguente dolore. È quindi possibile migliorare la qualità di vita
dell’animale con un metodo poco invasivo e tollerabile dal
soggetto. Gli obiettivi che si pone questa metodica di bendaggio sono di imporre uno ‘stop’ meccanico all’articolazione calibrato sul dolore del paziente, creare un’amplificazione esterocettiva, migliorare la propriocezione ed eliminare il
dolore e gli atteggiamenti antalgici. Il fulcro di questo metodo è incentrato sul corretto impiego di staffe di cerotto che
possono, ad esempio, simulare la funzione di un legamento
lesionato o proteggere un muscolo danneggiato da movimenti che potrebbero creare un danno ulteriore.
Bibliografia
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Donald L. Piermattei, Gretchen L: Flo – Ortopedia e trattamento delle fratture dei piccoli animali cap 2 pp 50 - 66.
Loris Stella – Bendaggio funzionale, moderne applicazioni.
Slatter - Trattato di chirurgia dei piccoli animali.
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Il tutore rigido su misura: come e quando costruirlo
Chiara Chiaffredo
Med Vet, Roletto (TO)
IL RELATORE NON HA INVIATO GLI ATTI RELATIVI A QUESTA PRESENTAZIONE
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Patologie degli uccelli con coinvolgimento oculare
Tommaso Collarile
Med Vet, Libero Professionista; Centro Veterinario Specialistico, Roma
Nunzio D’Anna
Med Vet, PhD, Libero Professionista; Centro Veterinario Specialistico, Roma
Gli uccelli posseggono globi molto grandi in rapporto alle
dimensioni del cranio ed un segmento posteriore, molto più
ampio rispetto a quello anteriore, se comparato con i mammiferi o con i rettili. Esistono 3 diverse forme di globo negli
uccelli, legate alla presenza di cartilagine nella sclera posteriore e agli ossicini sclerali (da 10 a 18): la forma piatta (asse
antero-posteriore corto, regione intermedia piatta o concava,
cornea convessa e segmento posteriore emisferico); la forma
globosa (con la porzione intermedia concava); la forma tubulare (con la porzione intermedia concava ed allungata anteroposteriormente). La forma piatta è quella più comune, quella
globosa è tipica di molte specie diurne che necessitano di una
visione a distanza ad alta risoluzione (rapaci diurni, insettivori, corvi) e quella tubulare che è caratteristica dei gufi.
I muscoli extraoculari retti ed obliqui sono scarsamente
sviluppati ed i movimenti della testa compensano la scarsa
mobilità del globo. L’iride contiene una muscolatura striata
sia a livello del muscolo sfintere che del muscolo dilatatore,
oltre alla muscolatura liscia e al mioepitelio.
La muscolatura iridea, prevalentemente striata, è responsabile del controllo volontario della pupilla oltre che della
mancata, o comunque incompleta midriasi farmacologica ad
opera di midriatici quali atropina o tropicamide, i quali agiscono sulle giunzioni neuromuscolari della muscolatura
liscia iridea. Negli uccelli, il riflesso pupillare alla luce può
essere stimolato, ma la sua interpretazione è alquanto difficile a seguito della loro capacità volontaria di costrizione e
dilatazione pupillare. Poiché negli uccelli la decussazione
dei nervi ottici è del 100%, il riflesso pupillare consensuale
non è presente; recentemente, questa teoria è stata messa in
discussione per le inattese risposte positive (costrizione
pupillare) degli occhi di polli sperimentalmente denervati
monolateralmente a livello del nervo ottico, in seguito alla
stimolazione luminosa degli occhi controlaterali. La midriasi, negli uccelli, può essere ottenuta con l’uso di agenti paralizzanti neuromuscolari somministrati tramite iniezione
intracamerale o per via topica.
La pressione intraoculare (IOP) negli uccelli è spesso difficile da determinare a causa delle ridotte dimensioni corneali ed oculari in molte specie; inoltre, l’elevata rigidità
corneale e sclerale degli occhi degli uccelli rende meno
attendibili le misurazioni ottenute.
Il pecten, struttura a forma di pettine altamente pigmentata e vascolarizzata.
La visione a colori, negli uccelli, è ben sviluppata, ed alcuni di essi possono vedere la luce ultravioletta, utile, secondo
alcuni autori, per il riconoscimento del sesso tra di loro.
Le congiuntiviti rappresentano le patologie oculari più
frequenti negli uccelli da compagnia, ma sono infrequenti
nei rapaci, nei quali i traumi sono generalmente all’origine
delle infiammazioni congiuntivali. Poiché le congiuntiviti
negli uccelli sono spesso secondarie a malattie sistemiche, è
importante effettuare una raccolta anamnestica completa
oltre ad un accurato esame fisico generale. Irritanti ambientali, quali lettiere molto sporche e cariche di ammoniaca
possono essere causa di cheratocongiuntiviti irritative nel
pollame, soprattutto in autunno ed inverno, quando la ventilazione è minore.
Le infezioni batteriche sono considerate la causa principale di congiuntiviti negli uccelli.
Sinusiti di origine batterica sono spesso alla base di congiuntiviti, cheratiti, blefariti, uveiti ed infiammazioni perioculari.
Nei pappagalli, cheratocongiuntiviti associate a clamidiosi sono state descritte, sia in forma localizzata che associata
a forme generalizzate.
Sinusiti di origine batterica sono spesso alla base di congiuntiviti, cheratiti, blefariti, uveiti ed infiammazioni perioculari.
In generale, le congiuntiviti e cheratiti batteriche sono frequenti negli uccelli, spesso associate ad infezioni delle vie
respiratorie alte.
Chlamydophila psittaci (già Chlamydia psittaci) è in grado di infettare uccelli per lunghi periodi senza indurre segni
clinici apparenti; può essere causa di zoonosi e per questo
da tenere in considerazione tra le diagnosi differenziali delle congiuntiviti negli uccelli. Le congiuntiviti associate a tale
agente, generalmente, sono accompagnate da altri segni clinici non oculari.
Le ulcere corneali negli uccelli sono associate a trauma,
infezione, corpi estranei e cheratocongiuntivite secca.
Le uveiti negli uccelli sono principalmente associate a:
traumi, infezioni, infiammazioni immunomediate/idiopatiche e neoplasie. In relazione ai traumi, l’ifema è stato il
segno oculare maggiormente osservato in un un gruppo di
931 rapaci esaminati.
Gli esiti delle uveiti croniche sono sovrapponibili a quelli
dei mammiferi, sebbene, in caso di glaucoma, il buftalmo sia
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raro negli uccelli, poiché gli ossicini sclerali limitano l’aumento di volume del globo.
Gli uccelli affetti da cataratta hanno spesso difficoltà nell’alimentarsi; questo è un problema grave nei soggetti selvatici quali i rapaci, nei quali le opacità lenticolari sono
riportate frequentemente, spesso associate ad infiammazione
intraoculare. Traumi oculari o degli annessi, si verificano sia
tra gli uccelli selvatici che in quelli tenuti in cattività, a
seguito di litigi tra compagni di gabbia, soprattutto se sovraffollata. I traumi palpebrali possono esitare in cicatrici e
secondaria irritazione cronica corneale.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Centro Veterinario Specialistico
Via Sandro Giovannini, 51 - 00137 - Roma
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Anaesthesia of the ophthalmic patient,
what’s important?
Paul Coppens
DMV, Dipl ECVAA, Vienna (A)
Unlike human ophthalmology, most of the ophthalmic
surgeries require general anaesthesia.
General anaesthesia in veterinary medicine remains at
high risk compared to human anaesthesia. Mortality risk
related to anaesthesia in horses (colic horses excluded) is
0,9%1. Healthy dogs and cats run a mortality risk of 0,054%
and 0,112% respectively2. Actual anaesthetic mortality in
humans is reported to be as low as 0,05 for 100003.
To limit the risk but taking into account the veterinary
economical condition, some requirements are compulsory
when performing general anaesthesia in veterinary medicine. The veterinarian must be able 1/ to ensure airway permeability, 2/ to deliver oxygen, 3/ to perform Intermittent
Positive Pressure Ventilation (IPPV), 4/ to administer IV
drugs, and 5/ to undertake CardioPulmonary Resuscitation.
This requires at least the following equipment: oxygen
cylinder, pressure regulator, flowmeter and a breathing
system allowing also to ventilate. Other useful equipment in
anaesthesia for ophthalmic procedure: a vaporizer to perform inhalational anaesthesia, a ventilator when using neuromuscular blocking agent. To improve surgical comfort, the
head must remain as free as possible from anaesthetic accessories. Therefore the use of long coaxial tubing included in
Bain system or adapted to a circle system permits to leave
the balloon and valve far away from the patient’s head
without increasing dead space.
The opthalmologic patient may require anaesthesia for
ophtalmologic or non-ophaltmologic procedures. In this
later case, vision problem could be present and to limit the
stress of the patient is an important goal of the anaesthesia
management. On the other hand, to avoid situation that could
worsen the ophtalmologic situation must be kept in mind
like avoiding situations where intraocular pressure could
increase (coughing, hypoventilation, …).
When considering anaesthesia for ophtalmologic intervention, the anaesthetic plan to adopt depends on the aim of
the ophthalmologic procedure:
1/ If anaesthesia needs to be performed for diagnosis procedure like electroretinogram, the following points are to be
considered:
• Painless procedure
• Avoid a too strong depression on the central nervous
system that could affect ERG
• Deep tranquillization or light anaesthesia are enough to
produce the immobility necessary to perform ERG.
In the anaesthetic strategy, propofol is a good choice because it provides a wide range of effects from sedation to general
anaesthesia, without excitation phase. It can be dosed upon
request to get the compulsory stillness and adequate eye position (light anesthesia) for the required examination.
• A deep sedation allowing ERG could also be thought of.
Medetomidine could provide it but should only be used
for patients with normal cardiovascular function. Rotation
of the ocular globe can happen and then makes the examination more difficult. If tranquillization is not enough,
propofol could be added.
2/ When anaesthesia is required for extraocular ophalmic
surgery, no specific precaution is necessary. But management to get a quiet recovery without any patient’s behaviour
able to jeopardize surgery’s results is mandatory.
Some general considerations are reviewed: surgery induces
pain/nociception. Pain increases morbidity and mortality.
When surgery is performed, anaesthesia goals are to provide:
unconsciousness, myorelaxation and analgesia. The active
analgesia in the anaesthesia procedure is one of the major
improvements of the last two decades. Preemptive analgesia
could be performed by giving analgesic drugs prior the programmed trauma that is surgery. This will prevent the hypersensitization of the central nervous system. Balanced anaesthesia consists in the use of different drugs/techniques to
reach the different goals of the anaesthesia. In veterinary anaesthesia, the analgesia adjuvant is mainly provided by alpha 2
agonists, opioids or locoregional techniques. The control of
the nociceptive effetcs by using analgesia adjuvant is essential
to produce a stress-free anaesthesia that reduces the amount of
complications during and after the operation and improves the
rehabilitation after the surgery. It will also reduce the “general
anaesthetic” requirements and the dose-dependent side effects
and contribute to the postoperative pain control. Pain control
must be continued during and after the recovery as long as
necessary. Loco-regional technique could be very useful. Those techniques for the different species are well described by
Roman Skarda7.
3/ For ocular and intraoculor surgery, the eye must be in central position, increase in intraocular pressure must be avoided.
Very quiet recovery is mandatory. Any excitation could lead to
intraocular pressure’s increase and jeopardize surgery. Ocular
and intraocular surgery could be very painful. Correct intraand post-operative pain control must be planned.
Intraocular pressure (IOP) is affected by several factors:
- Cardiorespiratory parameters:
Sudden rise in arterial blood pressure causes a transient rise
of IOP. Change in central venous pressure are more prone to
induce similar changes in IOP. Increasing PaCO2 (hypoventila-
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tion) and decreasing PaCO2 (hyperventilation) will cause
respectively an increase and a fall in IOP. Despite the fact that
hypoxia may increase IOP and hyperoxia decrase IOP, the
changes seen during anaesthesia have little effect on the IOP.8
- Anaesthetic regimes:
Medetomidine does not influence the IOP in normal
dogs9,10. Acepromazine/butorphanol before midazolam/ketamine is satisfactory for ophthalmic surgery in dogs whereas
acepromazine/meperedine is not11. Acepromazine/hydromorphone does not affect significantly IOP but induce miosis12. Propofol has no clinically significant effects on IOP13,
as well as sevoflurane and desflurane14. In humans, they
found no difference in IOP between isoflurane anaesthesia
and total intravenous anaesthesia with propofol/alfentanil
and conclude that both anaesthetic techniques are appropriate when increases in IOP have to be avoided15. Despite ketamine is known as not decreasing IOP and potentially increasing it8, several publications reported its use for extra and
intraocular surgery in children16, 17, 18. At sedation low dose,
ketamine does not influence IOP in humans19.
In dogs, neuromuscular blocking agents, atracurium and
rocuronium do not affect or they cause a decrease in IOP of
no clinical relevance20, 21.
At adequate anaesthesia’s depth, ocular globe falls over to
ventro-medial position except when using dissociation anaesthetics. But these are maybe not the optimal choice for
intraocular surgery because of the possible intraocular pressure’s increase and possible nystagmus when anaesthesia is
light. It can nevertheless be possible to fix the ocular globe
for surgery. By deepening anaesthesia, ocular globe can fall
back to central position implying a controlled but not riskfree overdose associated with cardiovascular and respiratory
depression. Using neuromuscular blocking agents is the best
solution to position the eye centrally without jeopardizing
anaesthesia’s depth. On the other hand, neuromuscular blocking agents guarantee a perfect stillness, compulsory for this
kind of delicate surgery. Before neuromuscular blocking
agent’s administration, it will be necessary to:
- make sure analgesia and anaesthesia’s levels are sufficient
- check availability and running of IPPV.
- check if antagonist is available
- preferably check if monitoring is available (peripheral
nervous stimulator = train of four)
- start IPPV.
Neuromuscular blocking technique is far from being riskless
and requires specific knowledge and practical training in clinical pharmacology, monitoring and ventilation management.
Therefore their use must be restricted to qualified persons.
• As for any ophthalmic surgery, adequate nociception control management by the use of systemic alpha 2 agonist or
opioids, and/or topical and loco-regional anaesthesia techniques, is mandatory to perform stress-free anaesthesia
• A quiet, progressive stress-free recovery is necessary for
the patient’s postoperative comfort and for a successful
surgery. This implies continuous pain control. Besides
analgesia, an active sedation could be set in if need be.
• When acquired ophthalmolgical pathology, like cataract,
is associated to systemic disease, like diabetes, or in presence of any systemic disease, the anaesthesia strategy
must be adapted.
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Anestesia nel paziente oftalmologico.
Cosa è importante?
Paul Coppens
DMV, Dipl ECVAA, Vienna (A)
A differenza di quanto avviene nell’uomo, negli animali
la maggior parte degli interventi di chirurgia oftalmica
richiede l’anestesia generale.
In medicina veterinaria, l’anestesia generale rimane ad
alto rischio in confronto a quanto accade nell’uomo. Il
rischio di mortalità correlato all’anestesia nel cavallo (coliche equine escluse) è dello 0,9%.1 I cani ed i gatti sani vanno incontro ad un rischio di mortalità pari, rispettivamente,
allo 0,054% ed allo 0,112%.2 L’effettiva mortalità da anestesia nell’uomo, secondo quanto segnalato in letteratura, è di
appena 0,05 casi su 10.000.3
Per limitare il rischio, ma tenere conto delle condizioni
economiche in cui si opera in ambito veterinario, quando si
esegue l’anestesia generale negli animali sono indispensabili alcune apparecchiature. Il veterinario deve essere in grado
di 1) garantire la pervietà delle vie aeree, 2) apportare ossigeno, 3) attuare la ventilazione a pressione positiva intermittente (IPPV), 4) somministrare farmaci per via endovenosa e
5) attuare la rianimazione cardiopolmonare. Ciò richiede
come minimo le seguenti apparecchiature: bombola di ossigeno, regolatore di pressione, flussimetro e sistema di respirazione che consenta anche la ventilazione. Altri utili strumenti in anestesia per le procedure oftalmiche sono un vaporizzatore per effettuare l’anestesia inalatoria ed un ventilatore quando si utilizza un agente di blocco neuromuscolare.
Per migliorare il comfort chirurgico, la testa deve rimanere
il più possibile libera dagli accessori delle apparecchiature
da anestesia. Di conseguenza, l’uso di lunghi tubi coassiali
inclusi nel sistema di Bain o adattati ad un sistema di circuito permette di lasciare il palloncino e la valvola lontano dalla testa del paziente senza aumentare lo spazio morto.
Nel paziente con affezioni oculari, l’anestesia può essere
richiesta sia per interventi oftalmologici che non oftalmologici. In quest’ultimo caso, possono essere presenti dei problemi della visione e limitare lo stress del paziente è una
meta importante dell’anestesia. D’altro canto, per non incorrere in situazioni che potrebbero aggravare il quadro oftalmologico è necessario tenere presente come evitare quelle
che potrebbero determinare un aumento della pressione
intraoculare (tosse, ipoventilazione…).
Quando si considera l’anestesia per gli interventi oftalmologici, il piano anestetico da adottare dipende dallo scopo
dell’intervento che si vuole eseguire:
1) se è necessario ricorrere all’anestesia per una procedura
diagnostica come l’elettroretinografia, bisogna tenere in
considerazione i seguenti punti:
• La procedura non deve essere dolorosa
• Bisogna evitare una depressione troppo profonda del
sistema nervoso centrale, che potrebbe influenzare l’ERG.
La sedazione profonda o la leggera anestesia sono sufficienti a determinare l’immobilità necessaria all’esecuzione dell’indagine elettroretinografica.
Nella strategia anestetica, il propofolo rappresenta una
buona scelta perché offre un’ampia gamma di effetti che
vanno dalla sedazione all’anestesia generale, senza fase di
eccitazione. Può essere dosato su richiesta in modo da
ottenere una tranquillità obbligata ed un adeguato posizionamento dell’occhio (anestesia lieve) per l’esame
richiesto.
• Si può anche pensare ad una sedazione profonda che permetta l’ERG. La medetomidina potrebbe determinarla, ma
deve essere utilizzata soltanto per i pazienti con funzione
cardiovascolare normale. Si può avere la rotazione del globo oculare, che rende più difficile l’esame. Se la sedazione
non è sufficiente, si può aggiungere il propofolo.
2) Quando è necessaria l’anestesia per un intervento di chirurgia oftalmica extraoculare, non occorre adottare alcuna
specifica precauzione. Tuttavia, è indispensabile garantire
un risveglio tranquillo, senza alcun comportamento del
paziente che possa mettere in pericolo i risultati dell’intervento. Bisogna tenere conto di alcune considerazioni generali: la chirurgia induce dolore/nocicezione. Il dolore
aumenta la morbilità e la mortalità. Quando si esegue un
intervento chirurgico, gli scopi dell’anestesia sono di garantire incoscienza, miorilassamento ed analgesia. L’analgesia
attiva nella procedura di anestesia è uno dei principali progressi dell’ultimo ventennio. L’analgesia preventiva può
essere attuata somministrando farmaci analgesici prima di
quel trauma programmato che è l’intervento chirurgico. Ciò
impedisce l’ipersensibilizzazione del sistema nervoso centrale. L’anestesia bilanciata consiste nell’uso di differenti
farmaci/tecniche per raggiungere i diversi scopi dell’anestesia. In anestesia veterinaria, l’analgesia adiuvante si ottiene
principalmente con gli alfa2-agonisti, gli oppiacei o le tecniche locoregionali. Il controllo degli effetti nocicettivi utilizzando l’anestesia adiuvante è essenziale per produrre un’anestesia senza stress che riduca l’entità delle complicazioni
durante e dopo l’intervento e migliori la riabilitazione postoperatoria. Inoltre, riduce i fabbisogni “anestetici generali” e
gli effetti collaterali dose-dipendenti e contribuisce al controllo del dolore postoperatorio. Il controllo del dolore deve
continuare durante e dopo il risveglio finché è necessario.
La tecnica locoregionale può essere molto utile. Le metodiche per le differenti specie animali sono ben descritte da
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Roman Skarda.7
3) Per la chirurgia oculare ed intraoculare, l’occhio deve
essere in posizione centrale e bisogna evitare l’aumento della pressione intraoculare. È indispensabile un risveglio molto tranquillo. Qualsiasi eccitazione potrebbe portare ad un
incremento della pressione intraoculare e mettere in pericolo la chirurgia. Gli interventi oculari ed intraoculari possono
essere molto dolorosi. Bisogna pianificare il corretto controllo intra- e postoperatorio del dolore.
La pressione intraoculare (IOP) è influenzata da diversi
fattori:
- Parametri cardiorespiratori:
L’aumento improvviso della pressione arteriosa causa un
innalzamento transitorio della IOP. Le variazioni della pressione venosa centrale sono più predisposte ad indurre alterazioni simili in quella intraoculare. L’incremento della PaCO2
(ipoventilazione) e la sua diminuzione (iperventilazione)
causano, rispettivamente, un incremento ed una caduta della
IOP. Nonostante il fatto che l’ipossia possa aumentare la
pressione intraoculare e l’iperossia la diminuisca, le variazioni che si osservano durante l’anestesia hanno scarsi effetti sulla IOP.8
- Protocolli anestetici:
La medetomidina non influenza la IOP nei cani normali.9, 10
L’acepromazina/butorfanolo prima della somministrazione di midazolam/ketamina è soddisfacente per la chirurgia
oftalmica nel cane, mentre l’acepromazina/meperidina no.11
L’acepromazina/idromorfone non influisce significativamente sulla IOP, ma induce miosi.12 Il propofolo non ha
effetti clinicamente significativi sulla IOP,13 così come il
sevofluorano ed il desfluorano14. Nell’uomo, non è stata
riscontrata alcuna differenza nella IOP fra l’anestesia con
isofluorano e quella totale per via endovenosa con propofolo/alfentanil e si è giunti alla conclusione che entrambe le
tecniche anestetiche siano appropriate quando è necessario
evitare aumenti della IOP.15 Benché sia noto che questa non
viene diminuita dalla ketamina, che anzi potenzialmente la
aumenta,8 parecchie pubblicazioni hanno riferito l’impiego
di questo anestetico per la chirurgia extra- ed intraoculare
nei bambini.16, 17, 18 Al basso dosaggio da sedazione, la ketamina non influisce sulla IOP nell’uomo.19
Nel cane, gli agenti di blocco neuromuscolare atracurium
e rocuronium non hanno alcun effetto oppure causano un
calo della IOP di nessuna rilevanza clinica.20, 21
Ad un’anestesia di profondità adeguata, il globo oculare
cade sulla posizione ventromediale, tranne quando si utilizzano anestetici dissociativi. Tuttavia, questi forse non sono
la scelta ottimale per la chirurgia intraoculare, a causa del
possibile incremento della IOP e del possibile nistagmo
quando l’anestesia è lieve. Tuttavia, si può fissare il globo
oculare per eseguire l’intervento. Portando l’anestesia su
piani più profondi, l’occhio può cadere tornando alla posizione centrale, il che implica un sovradosaggio controllato,
ma non privo di rischi, associato a depressione cardiovascolare e respiratoria. Utilizzare gli agenti di blocco neuromuscolare è la migliore soluzione per posizionare l’occhio centralmente senza compromettere la profondità dell’anestesia.
D’altro canto, questi farmaci assicurano una perfetta immobilità, indispensabile per questo genere di delicata chirurgia.
Prima della somministrazione degli agenti di blocco neuro-
75
muscolare, è necessario:
- assicurarsi che i livelli di anestesia ed analgesia siano sufficienti.
- controllare la disponibilità e l’esecuzione dell’IPPV.
- verificare che sia disponibile un antagonista.
- preferibilmente, accertarsi che sia disponibile il monitoraggio (stimolatore nervoso periferico = treno di quattro)
- iniziare l’IPPV.
La tecnica di blocco neuromuscolare è ben lontana dall’essere priva di rischi e necessita di specifiche conoscenze e
di una formazione pratica nell’ambito della farmacologia
clinica, del monitoraggio e della gestione della ventilazione.
Di conseguenza, il suo impiego deve essere riservato a personale qualificato.
• Come per qualsiasi intervento di chirurgia oftalmica, per
eseguire l’anestesia senza stress è necessario l’adeguato
controllo della nocicezione mediante uso di alfa2-agonisti
sistemici o oppiacei e/o tecniche di anestesia topica e
locoregionale.
• Per il comfort postoperatorio del paziente e per il successo dell’intervento è necessario un risveglio tranquillo,
progressivo e senza stress. Ciò implica il controllo continuo del dolore. Oltre all’analgesia, se necessario si può
mettere in atto una sedazione attiva.
• Nei casi in cui una patologia oftalmica acquisita, come la
cataratta, è associata ad una malattia sistemica, come il
diabete, oppure in presenza di una qualsiasi malattia sistemica, la strategia dell’anestesia deve essere adattata di
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Anaesthetic approach of the exotic patient with
specific emphasis on ophthalmologic procedures
Paul Coppens
DMV, Diplomate ECVAA
Unlike human ophthalmology, most of the ophthalmic
surgeries require general anaesthesia in veterinary medicine.
This is especially true for exotic animals.
General anaesthesia in veterinary medicine remains at high
risk compared to human anaesthesia. If actual anaesthetic mortality in humans is reported to be as low as 0,05 for 100003,
healthy dogs and cats run a mortality risk of 0,054% and
0,112% respectively2. Anaesthetic risk in exotic species could
even be more. For example the rabbit encouters a risk of 1,39%
(0,73% when healthy but 7,37% when sick4. Guinea pig, hamster and chinchilla encounter respectively a risk of 3,8, 3,7 and
3,3%4. For the majority of the exotic animals, the anaesthetic
related mortality risk is unknown.
To limit the risk but taking into account the veterinary
economical condition, some requirements are compulsory
when performing general anaesthesia in veterinary medicine5. The veterinarian must be able 1/ to ensure airway permeability, 2/ to deliver oxygen, 3/ to perform Intermittent
Positive Pressure Ventilation (IPPV), 4/ to administer IV
drugs whenever it is possible, and 5/ to undertake CardioPulmonary Resuscitation. This requires at least the following equipment: oxygen cylinder, pressure regulator,
flowmeter and a breathing system allowing also to ventilate.
Because, for exotic animals, very little is known about the
metabolisation and elimination of most of the anaesthetic
agents, the use of inhalation anaesthetic agents offers the
advantage to be mostly eliminated unchanged by the respiratory system. In order to administer the inhalational agents,
specific equipment is needed: a vaporizer must be included
in the gas (oxygen, eventualy plus nitrous oxide and air)
delivery system.
To improve surgical comfort, the head must remain as free
as possible from anaesthetic accessories. Therefore the use
of long coaxial tubing included in Bain system or adapted to
a circle system permits to leave the balloon and valve far
away from the patient’s head without increasing dead space.
Moreover in small exotic animal, when anaesthesia is usually provided via a face mask, this could interfere with the
ophtalmologic procedure. Whenever possible, intubation
will be preferred. Adequate equipment will be requested.
Adapted endotracheal tube to the species is requested. IV
catheter of adapted size can be used as endotracheal tube.
For example IV catheter of size 14G can be used for Guinea
pig. The use of rigid endoscope could be helpful to perform
difficult intubation in those species. In birds, an alternative
to endotracheal intubation is possible. Due to the specific
respiratory system6, caudal thoracic or abdominal air sac can
be cannulated using endotracheal tube or dedicated cannula
to ensure ventilation and delivery of anaesthetic agents7,8,9.
When considering anaesthesia for ophtalmologic procedures, the same considerations as in small animals are to be
taken into account :
1. Eye examination. This procedure may request physical
restraint, sedation or even general anaesthesia
2. If anaesthesia needs to be performed for diagnosis procedure like electroretinogram, the following points are to be
considered:
• Painless procedure
• Avoid a too strong depression on the central nervous
system that could affect ERG
• Deep tranquillization or light anaesthesia are enough to
produce the immobility necessary to perform ERG.
3. When anaesthesia is required for extraocular ophalmic
surgery, no specific precaution is necessary. But management to get a quiet recovery without any patient’s behaviour able to jeopardize surgery’s results is mandatory.
4. For ocular and intraoculor surgery, the eye must be in central position, increase in intraocular pressure must be
avoided. Very quiet recovery is mandatory. Any excitation
could lead to intraocular pressure’s increase and jeopardize surgery. Ocular and intraocular surgery could be very
painful. Correct intra- and post-operative pain control
must be planned.
The anaesthetic plan to adopt depends on the aim of the
ophthalmologic procedure and on the goals of the anaesthesia. Therefore we must first define what is general anaesthesia. This matter has long been the topic of many publications
in specialized magazines.
To define anaesthesia is not easy and there is no worldwide recognized definition. However, this thinking over is
very important in order to be able to define the wanted goals
and decide what are the means to use to reach them.
In 1957, Woodbridge described four components to general anaesthesia : loss of consciousness, analgesia, muscular
relaxation and abolishment of autonomous reflexes generated by surgery10. This description gives us the bases of a common concept in human anaesthesia but still relatively new in
veterinary medicine : the “ balanced anaesthesia ”. It is the
joint use of different products and/or technics in order to
undergo a general anaesthesia allowing to minimalize the
compulsory dose of each of them depending of the aimed
goals (unconsciousness, analgesia, myorelaxation) and thus
to reduce their side effects. The Woodbridge definition is the
classical definition general anaesthesia
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78
Isoflurane is the most popular one. Sevoflurane is an alternative (12) and presents some advantages, especially faster
recovery, for example in green iguanas (13), bald eagles (14)
and racing pigeons (15). In human medicine and in small
animal anaesthesia, sevoflurane is associated with smoother
and more rapid recovery (16). Halogenated drugs provide
unconsciousness and muscular relaxaton but are not, per se,
analgetics. In case of surgery or painful diagnostic procedures, the anaesthetic strategy must incorporate an analgetic
adjuvant. Recent publications in exotics and willdlife medicine deal with analgesia (17,18,19,20,21).
Different pharmaceutical drugs classes as opioids, alpha2 agonists, local anaesthetics, dissociative agents, NSAIDs,
N2O have analgetic properties. All those drugs are working
at different levels of the pain or nociception genesis. Multimodal analgesia becomes more and more used in domestic
animals.
Of course the analgetic plan must be in accord with the
exotics species specificities and the pharmacological command and knowledge of the specific species.
More recently, Prys-Roberts settles his reflection in the
animal’s responses (man included) to a noxious stimulus2. A
noxious stimulus will carry on, first of all, a sensory somatic response : the conscious perception of the stimulus, that is
to say pain, then a motor somatic response : movement.
Then will appear a set of responses related to the
autonomous nervous system ; such as respiratory response,
hemodynamic response with modification of blood pressure
and/of cardiac frequency, sudomotive response (for man and
horse) and finally hormonal response.
These different effects will disappear one by one in the
same order as they appeared related to the anaesthesia
depth. Prys-Roberts defines anaesthesia as a state, resulting from unconsciousness induced by one or more drugs,
where the patient does not perceive nor remember noxious
stimuli. With this approach, analgesia, muscular relaxation and abolishment of autonomous reflexes are no more
components but complements of anaesthesia. Whichever
definition chosen for anaesthesia, it is important to handle
the problem of the sought goal and thus of the needed
means also.
During an anaesthesia for a not painful diagnostic
examination, goals and means are not the same as the ones
for an anaesthesia carried on for a surgery. When considering a general anaesthesia, we must answer the following
important question : must a painful procedure be done? If
yes, a specific control of pain will be sought for. In practice, when building up the general anaesthesia protocol, it
is essential to keep well in mind the sought goals, for
example during an anaesthesia for a surgery:
- unconsciousness
- analgesia
- immobility/motionlessness and muscular relaxation
allowing surgery.
Unconsciousness could be provided by inhalational or
injectable anaesthetic agents. As already mentionned, very
little is known in pharmocodynamic and pharmococinetic
compared to domestic animals. This is one of the main reasons why inhalational anaesthetics remain the drugs of
choice in exotic animals.
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80
Approccio anestesiologico all’animale esotico con
particolare riferimento al paziente oftalmologico
Paul Coppens
DMV, Dipl ECVAA, Vienna (A)
A differenza di quanto avviene in medicina umana, in
ambito veterinario la maggior parte degli interventi di chirurgia oftalmica richiede l’anestesia generale. Ciò vale in
particolare per gli animali esotici.
In medicina veterinaria, l’anestesia generale rimane una
procedura ad alto rischio in confronto a quella dell’uomo.
Mentre per quest’ultimo la mortalità effettiva da anestesia,
secondo quanto segnalato in letteratura, è di appena 0,05
casi su 10.000,3 i cani ed i gatti sani vengono esposti ad un
rischio di mortalità, rispettivamente, dello 0,054% e dello
0,112%.2 Nelle specie esotiche, questo valore potrebbe essere ancora più elevato. Ad esempio, nel coniglio arriva
all’1,39% (0,73% per gli animali sani, ma 7,37% per quelli
malati).4 La cavia, l’hamster ed il cincillà sono esposti,
rispettivamente, ad un rischio del 3,8%, 3,7% e 3,3%.4 Per la
maggior parte degli animali esotici, il rischio di mortalità da
anestesia è sconosciuto. Per limitare il rischio, ma tenere
conto delle condizioni economiche in cui si opera in ambito
veterinario, quando si esegue l’anestesia generale negli animali sono indispensabili alcune apparecchiature.5 Il veterinario deve essere in grado di 1) garantire la pervietà delle vie
aeree, 2) apportare ossigeno, 3) attuare la ventilazione a
pressione positiva intermittente (IPPV), 4) somministrare
farmaci per via endovenosa e 5) attuare la rianimazione cardiopolmonare. Ciò richiede come minimo le seguenti apparecchiature: bombola di ossigeno, regolatore di pressione,
flussimetro e sistema di respirazione che consenta anche la
ventilazione.
Dato che le informazioni relative alla metabolizzazione ed
eliminazione della maggior parte degli anestetici negli animali esotici sono molto scarse, si utilizzano gli agenti da inalazione perché hanno il vantaggio di essere eliminati principalmente in forma immutata dal sistema respiratorio. Al fine
di somministrare gli agenti inalatori, sono necessarie apparecchiature specifiche: nel sistema di erogazione del gas
deve essere incluso un vaporizzatore (ossigeno, eventualmente più protossido di azoto ed aria).
Per migliorare il comfort chirurgico, la testa deve rimanere il più possibile libera dagli accessori delle apparecchiature da anestesia. Di conseguenza, l’uso di lunghi tubi
coassiali inclusi nel sistema di Bain o adattati ad un sistema di circuito permette di lasciare il palloncino e la valvola lontano dalla testa del paziente senza aumentare lo
spazio morto. Inoltre, negli animali esotici di piccola
taglia, nei quali l’anestesia viene di solito effettuata attraverso una maschera facciale, ciò potrebbe interferire con
la procedura oftalmica. Ogni volta che sia possibile, è pre-
feribile ricorrere all’intubazione. Bisogna disporre di
un’apparecchiatura adeguata. È necessario avere tubi orotracheali adatti alle specie da trattare. Allo scopo è possibile servirsi di un catetere endovenoso di dimensioni adeguate. Ad esempio, per la cavia se ne può usare uno da
14G. L’impiego di un endoscopio rigido può servire ad
effettuare le intubazioni difficili in queste specie animali.
Negli uccelli, è possibile un’alternativa all’intubazione
orotracheale. Date le caratteristiche specifiche dell’apparato respiratorio,6 è possibile incannulare il sacco aereo
toracico caudale o quello addominale utilizzando un tubo
orotracheale oppure una cannula dedicataper garantire la
ventilazione e l’apporto degli agenti anestetici.7,8,9
Ai fini dell’anestesia per le procedure oftalmologiche, è
necessario tenere conto di alcune considerazioni, come nei
piccoli animali:
1) Esame dell’occhio. Questa procedura può richiedere il
contenimento fisico, la sedazione o persino l’anestesia
generale
2) se è necessario ricorrere all’anestesia per una procedura
diagnostica come l’elettroretinografia, bisogna tenere in
considerazione i seguenti punti:
La procedura non deve essere dolorosa
Bisogna evitare una depressione troppo profonda del
sistema nervoso centrale, che potrebbe influenzare l’ERG.
La sedazione profonda o la leggera anestesia sono sufficienti a determinare l’immobilità necessaria all’esecuzione dell’indagine elettroretinografica.
3) Quando è necessaria l’anestesia per un intervento di chirurgia oftalmica extraoculare, non occorre adottare alcuna
specifica precauzione. Tuttavia, è indispensabile garantire
un risveglio tranquillo, senza alcun comportamento del
paziente che possa mettere in pericolo i risultati dell’intervento.
4) Per la chirurgia oculare ed intraoculare, l’occhio deve
essere in posizione centrale e bisogna evitare l’aumento
della pressione intraoculare. È indispensabile un risveglio
molto tranquillo. Qualsiasi eccitazione potrebbe portare
ad un incremento della pressione intraoculare e mettere in
pericolo la chirurgia. Gli interventi oculari ed intraoculari possono essere molto dolorosi. Bisogna pianificare il
corretto controllo intra- e postoperatorio del dolore.
Il piano dell’anestesia da adottare dipende dallo scopo
della procedura oftalmologica e dai fini dell’anestesia. Di
conseguenza, bisogna definire in primo luogo cos’è l’anestesia generale. Questo argomento è stato a lungo oggetto di
molte pubblicazioni nelle riviste specializzate.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Stimolo nocivo
somatico
autonomo
ormonale
sensoriale
motorio
sudoriparo
emodinamico
respiratorio
Fornire una definizione per l’anestesia non è facile e non
ne esiste alcuna che sia riconosciuta a livello mondiale. Tuttavia, la chiarezza di termini è molto importante per riuscire
a individuare gli scopi che si vogliono raggiungere e decidere quali sono i mezzi da impiegare per farlo.
Nel 1957, Woodbridge ha descritto quattro componenti
dell’anestesia generale: perdita di coscienza, analgesia,
rilassamento muscolare ed abolizione dei riflessi autonomi
generali dall’intervento chirurgico.10 Questa descrizione
fornisce le basi di un concetto comune in anestesia umana,
ma ancora relativamente nuovo in quella veterinaria: l’anestesia bilanciata. Si tratta dell’impiego articolato di differenti prodotti e/o tecniche al fine di ottenere un’anestesia
generale che consenta di ridurre al minimo il dosaggio
indispensabile di ognuno dei principi attivi utilizzati a
seconda dello scopo che si vuole raggiungere (perdita di
coscienza, analgesia, miorilassamento) e quindi diminuirne
gli effetti collaterali. Quella di Woodbridge è la definizione classica dell’anestesia generale.
Più recentemente, Prys-Roberts si è occupato delle risposte degli animali (uomo incluso) ad uno stimolo nocivo.2
Tale stimolo porta con sé, prima di tutto, una risposta somatica sensoriale (la percezione conscia dello stimolo, vale a
dire il dolore) e poi una risposta somatica motoria (il movimento). Successivamente comparirà una serie di reazioni
correlata al sistema nervoso autonomo, come la risposta
respiratoria, quella emodinamica con la modificazione della
pressione sanguigna e/o della frequenza cardiaca, quella della sudorazione (per l’uomo ed il cavallo) ed infine quella
ormonale.
Questi differenti effetti scompaiono uno dopo l’altro nello stesso ordine con cui sono apparsi in relazione alla profondità dell’anestesia. Prys–Roberts definisce quest’ultima
come uno stato, derivante da una perdita di coscienza indotto da uno o più farmaci, in cui il paziente non percepisce né
ricorda gli stimoli nocivi. Con questo tipo di approccio, l’analgesia, il rilassamento muscolare e l’abolizione dei riflessi autonomi non sono più componenti ma complementi dell’anestesia. Indipendentemente dalla definizione adottata, è
importante affrontare il problema dello scopo per cui viene
81
praticata l’anestesia e, quindi, anche dei mezzi necessari. Gli
scopi ed i mezzi di un’anestesia dovuta ad un esame diagnostico non doloroso non sono gli stessi che caratterizzano
quella praticata per un intervento chirurgico. Ai fini dell’anestesia generale, bisogna dare una risposta ad alcune
importanti domande: si deve effettuare una procedura dolorosa? Se sì, si dovrà ricercare uno specifico controllo del
dolore. In pratica, quando si delinea il protocollo dell’anestesia generale, è essenziale tenere ben presente gli scopi che
ci si prefigge, ad esempio nei casi in cui il fine è un intervento chirurgico:
- perdita di coscienza
- analgesia
- immobilità/mancanza di movimento e rilasciamento
muscolare che consentano l’intervento
L’incoscienza deve essere assicurata mediante agenti anestetici inalatori o iniettabili. Come già ricordato, si sa ben
poco sulla farmacodinamica e la farmacocinetica comparata
degli animali domestici. Questa è una delle principali ragioni per cui gli anestetici inalatori restano i farmaci d’elezione
negli animali esotici. L’isofluorano è quello più popolare. Il
sevofluorano rappresenta un’alternativa (12) ed offre alcuni
vantaggi, in particolare il risveglio più rapido nelle iguane
verdi,(13) nelle aquile calve(14) e nei piccioni da gara.(15)
In medicina umana ed in anestesia dei piccoli animali, il
sevofluorano è associato ad un risveglio più dolce e più rapido.(16) I farmaci alogenati assicurano l’incoscienza ed il
rilasciamento muscolare, ma non sono di per sé analgesici.
In caso di interventi chirurgici o procedure diagnostiche
dolorose, la strategia anestetica deve comprendere un adiuvante analgesico. Le recenti pubblicazioni sulla medicina
degli animali esotici e selvatici hanno preso in considerazione il controllo del dolore.(17,18,19,20,21) Differenti classi
di farmaci come gli oppiacei, gli alfa-2 agonisti, gli anestetici locali, gli agenti dissociativi, i FANS, l’N2O sono dotati
di proprietà analgesiche. Tutti questi agenti operano a livelli
differenti della genesi del dolore o della nocicezione. L’analgesia multimodale viene sempre più utilizzata negli animali domestici.
Naturalmente, il piano dell’analgesia deve essere accordo
con le specie-specificità degli animali esotici ed il controllo
farmacologico e la conoscenza delle singole specie.
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2007.
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83
Chirurgia tradizionale e mini-invasiva dell’apparato
riproduttore aviare
Lorenzo Crosta
Med Vet, Missaglia (LC)
PREMESSA
I pazienti aviari sono piccoli e delicati, pertanto i rischi associati all’anestesia e alla chirurgia sono maggiori. Nonostante gli
uccelli sopportino meglio dei mammiferi le perdite di sangue, si
parla comunque di volumi molto modesti: il mancato controllo
di un’emorragia può portare facilmente a morte un piccolo
uccello. Inoltre, il rapido metabolismo degli uccelli, e l’elevato
rapporto fra superficie corporea e massa corporea, li predispone a ipocalcemia e ipotermia durante la chirurgia e questo
rischio aumenta con l’aumentare della durata della chirurgia.
Questi fattori rendono indispensabile che il chirurgo conosca
bene la procedura e che abbia accesso agli strumenti specifici,
che servono per quell’intervento. Quindi, le chiavi per il successo nella chirurgia degli uccelli sono:
• preparazione,
• precisione,
• strumentazione,
• minimo tempo di anestesia.
I vasi degli uccelli hanno una parete più sottile di quelli dei
mammiferi e scorro più superficialmente. Ciò implica una
minore protezione da parte dei tessuti circostanti. Poiché,
rispetto ai mammiferi, c’è meno tessuto perivascolare, i vasi
hanno la tendenza a muoversi e a retrarsi con molta facilità,
portandosi fuori dalla vista del chirurgo. Anche dopo essere
stati chiusi o coagulati, i vasi degli uccelli possono rilassarsi e
riprendere a sanguinare, è quindi necessario che il chirurgo
aviare ricontrolli regolarmente che i vasi chiusi o coagulati
non sanguinino. L’impiego di fonti di ingrandimento, come
loupes, occhiali, binocoli chirurgici e microscopi operatori,
aiutano molto l’identificazione anche dei piccoli vasi e l’esecuzione della chirurgia in genere. La causa più comune di problemi peri-operatori negli uccelli, è l’inadeguata valutazione
pre-chirurgica del paziente, ciò spesso limita o rende impossibile che il paziente si riprenda dopo l’anestesia e la chirurgia.
Ovviamente, ciò non è possibile per alcune procedure d’emergenza “salva-vita”, ma in molti casi, come del resto avviene per i mammiferi, è meglio posticipare la chirurgia, per
valutare bene le condizioni del paziente.
alcuni casi è bene strappare le penne, in altri si preferisce
tagliarle alla base.
Preparazione del Campo Operatorio
Anche nel caso della chirurgia aviare è necessario applicare le normali regole di preparazione di un campo asettico.
Le normali soluzioni disinfettanti che s’impiegano per
abbattere la carica batterica nel campo dei mammiferi vanno
bene, ma bisogna ricordarsi che la cute degli uccelli è piuttosto delicata, pertanto alcune sostanze non sono consigliate
perché giudicate troppo aggressive.
Per esempio, lo iodio-povidone puro, seguito da lavaggio
con alcol non va bene, mentre il primo, diluito fino all’1% è
adeguato.
Al momento comunque, si consiglia di usare disinfettanti
più “morbidi”, come clorexidina allo 0.05%.
STRUMENTAZIONE
Gli strumenti per la chirurgia aviare devono essere adeguati alla taglia ridotta dei pazienti. In questa prospettiva si
consigliano:
• Strumenti normali, ma piccoli e delicati;
• Strumenti per chirurgia oftalmica;
• Strumenti per microchirurgia.
Inoltre, un piccolo endoscopio rigido dovrebbe sempre
essere presente per visualizzare zone inaccessibili all’occhio.
Si possono impiegare strumenti divaricatori chirurgici, ma
questi devono essere leggeri, delicati e non traumatici, quindi in genere si opta per piccoli blefarostati, o per divaricatori statici a più punti, tipo “lone-star”.
Molto spesso la legatura di vasi posti in posizioni profonde e in luoghi angusti, come il celoma di un piccolo uccello,
è quasi impossibile. In tali casi si consiglia l’impiego di clips
metalliche tipo “hemo-clip”.
PREPARAZIONE DEL PAZIENTE
RADIOCHIRURGIA
Pterotomia (tricotomia)
La radiochirurgia utilizza onde radio ad alta frequenza per
generare onde d’energia che, creando delle vibrazioni all’interno delle cellule, ne innalzano la temperatura. L’acqua
intracellulare si vaporizza e la cellula si rompe, mentre l’e-
Per effettuare una chirurgia, è bene che le piume vengano
asportate per un raggio di 2-3 cm dal campo operatorio. In
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lettrodo attivo resta freddo. La frequenza delle onde può
variare, permettendo al chirurgo di scegliere fra il taglio dei
tessuti e la coagulazione dei vasi. Quest’ultima avviene
quando la corrente è sufficiente per disidratare le cellule e
coagulare in loro contenuto organico.
L’impiego di un radio-bisturi è quasi indispensabile in
molte chirurgie dei tessuti molli, la precisione e la semplicità d’uso ne fanno uno strumento molto versatile che permette di tagliare, coagulare ed effettuare biopsie, limitando la
perdita di sangue, che come abbiamo visto, è un punto cruciale in questi piccoli pazienti.
MATERIALI DI SUTURA
Gli scopi della riparazione di una ferita chirurgica sono:
• minimizzare il danno arrecato all’organo,
• favorire la sua guarigione,
• limitare gli effetti della perdita di tessuto.
Per cui la tecnica ed il materiale impiegato nella sutura
sono fondamentale. In chirurgia aviare s’impiegano normalmente fili montati, di calibro da 3-0 a 6-0, ma nei pazienti
più piccoli e durante la microchirurgia si possono usare
84
anche fili più sottili, fino a 10-0
In genere si preferisce usare materiali assorbibili monofilamento e montati.
INTERVENTI SELEZIONATI
Ritenzione d’uovo
Tradizionale
Mini-invasiva
Ovocentesi
Salpingoisterectomia
Tradizionale
Mini-invasiva giovanile
Indirizzo per la corrispondenza:
Lorenzo Crosta
Consulenze Aviari e per Animali Esotici e da Zoo
Clinica Veterinaria Valcurone - Via Kennedy, 10 - 23873 Missaglia
(LC)
Tel. +39-039-92.79.338 - Cell. + 39-348-8751171 - E mail: [email protected]
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Chirurgia dell’apparato digerente negli uccelli
Lorenzo Crosta
Med Vet, Missaglia (LC)
PREMESSA
Risoluzione di fistole del gozzo
Fermo restando tutto quello che s’è detto nella parte generale sulla chirurgia dell’apparato riproduttore, negli uccelli si
possono impiegare tecniche chirurgiche a carico dell’apparato digerente.
Alcune porzioni del sistema digestivo aviare sono inaccessibili al chirurgo, altre sono molto difficili da riparare
(basti pensare ad una enterotomia in un paziente da 40-50
grammi), salvo avere a disposizione materiali e strumenti
molto specifici.
Pertanto, le chirurgie più comuni, a carico di questo apparato sono limitate all’ingluvie, allo stomaco ghiandolare e,
più raramente muscolare, ad alla cloaca.
Le fistole del gozzo si realizzano in seguito a ustioni dell’organo o, più raramente, a infezioni localizzate.
Dopo avere atteso alcuni giorni, fino a quando non sia ben
definito il margine del processo necrotico, si asportano separatamente cute e parete dell’ingluvie.
Anche qui la chiusura avviene come descritto prima, con
l’attenzione a scollare bene la parete dell’organo dalla cute,
per facilitare le due suture separate.
INTERVENTI SELEZIONATI
Ingluviotomia
Questo intervento si realizza principalmente con le
seguenti finalità: estrazione di corpi estranei, pulizia del gozzo impaccato e introduzione dell’endoscopio per by-passare
testa e collo.
L’approccio è molto semplice ed avviene con il paziente
in decubito dorsale. Preparato chirurgicamente il terzo distale del collo, nella sua faccia ventrale, si pratica una semplice incisione della cute e si scolla il sottile sottocute con una
piccola forbice o con una piccola mosquito.
Si fissa quindi la parete del gozzo con un punto lungo, che
si mantiene con un pinza mosquito e si procede all’apertura
della parete dell’ingluvie.
Effettuate le manovre necessarie, si richiude il gozzo con
filo monofilamento riassorbibile montato, di piccolo calibro
(4-0 a 6-0). La sutura sarà introflettente.
Segue la sutura cutanea come di consueto.
Biopsia del gozzo
La biopsia del gozzo è una procedura molto comune,
anche perché, al momento, è la tecnica più accreditata per la
diagnosi di PDD.
L’accesso alla parete dell’ingluvie avviene come sopra,
ma la cosa importante è esteriorizzare il gozzo nel punto più
distale possibile: in tal modo si può prelevare un campione,
di circa 1/3 di cm2, che contenga un vaso.
La chiusura avviene come descritto prima.
Celiotomia laterale sinistra
È la via più tradizionale per accedere alle gonadi, al rene
sinistro, ovidotto e naturalmente, al proventricolo e ventricolo. Il paziente è in decubito laterale destro, con le ali estese
dorsalmente e la zampa sinistra estesa dorso-caudalmente.
Dapprima s’incide la plica della grassella, per permettere
un’ulteriore abduzione dell’arto, poi si procede ad incidere
la cute, con la pinza bipolare del radio bisturi, dalla 6° costa
fino al pube.
A questo punto l’arteria e la vena femorali superficiali
mediali possono essere visualizzate lungo la parete addominale, medialmente all’articolazione coxo-femorale. Questi
vasi vanno cauterizzati. S’incide quindi la parete addominale, estendendo il taglio dal pube all’8° costa circa. Le ultime
due o tre coste vanno sezionate, ma prima di asportarle si
deve procedere alla cauterizzazione dei vasi intercostali.
Si può finalmente inserire un divaricatore per meglio
visualizzare gli organi intracelomatici.
La sutura avviene senza tentare di riposizionare le coste
asportate.
Proventricolotomia
La proventricolotomia è la tecnica più usata per accedere
al lume del proventricolo e del ventriglio.
Una volta identificato il ventriglio, si procede alla dissezione dei legamenti sospensori e al posizionamento di due
suture che lo mantengano contro la breccia operatoria. Identificata la porzione triangolare del fegato che nasconde l’istmo fra proventricolo e ventriglio, la si solleva gentilmente e
si può procedere all’incisione.
Finite le manovre necessarie, si sutura l’istmo con filo
monofilamento assorbibile (4-0 a 8-0), si riposizionano fegato e ventriglio e si procede alla completa chiusura del celoma.
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Cloacopessi
La fissazione della cloaca serve per la risoluzione, temporanea o permanente, del prolasso di cloaca, retto, ovidotto o,
più raramente del fallo.
Sutura peri anale: questa tecnica, che si può realizzare
anche con una semplice sutura a borsa di tabacco, è chiaramente temporanea. In genere si pongono due punti semplici
vicino ai margini laterali dell’ano, in modo da stringerne l’apertura.
Cloacopessi secondo Coles: la tecnica serve per la risoluzione temporanea del prolasso cloacale.
Servono fili monofilamento non assorbibili, con due aghi.
Un ago viene fatto passare dall’esterno dell’ano, oltre il
muscolo sfintere (diciamo alle ore 2), fin dentro la cloaca, e
guidato fino ad uscire dalla parete addominale ventrale. L’altro ago viene fatto entrare alle ore 4 ed uscire vicino al predente. Con l’altro filo, si ripete l’operazione, ma entrando
86
alle ore 8 e 10. Tirando i fili, la cloaca viene fatta rientrare
in posizione normale.
Cloacopessi definitiva: questa tecnica, che serve per i
prolassi cronici, prevede una celotomia ventrale, sulla
linea alba.
Una volta entrati nel celoma e dopo avere, con l’aiuto di
un tampone in cotone, identificata la parete cloacale, la si
ripulisce dal grasso pericloacale. La parete cloacale di ambo
i lati viene quindi fissata all’ultima costa ipsilaterale.
L’addome si chiude come di consueto..
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Lorenzo Crosta
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I glaucomi felini
Alberto Crotti
Med Vet, Genova
Con il termine Glaucomi si intende un gruppo di malattie
neuro degenerative caratterizzate da sintomi clinici polimorfi e determinate da aumento della pressione intraoculare in
grado di scatenare una catena di eventi a livello del nervo
ottico e della retina che si traducono in un danno alla integrità e alla funzione delle strutture oculari che persiste anche
se la pressione ritorna entro ai limiti della norma.
All’interno dell’occhio l’equilibrio tra la produzione ed il
drenaggio dell’umor acqueo è responsabile del mantenimento della pressione intraoculare nei valori normali di 22.2+/5.2 mm/hg1 con la presenza di variazioni legate al ritmo circadiano2.
L’umor acqueo viene prodotto a livello dei corpi ciliari in
massima parte attraverso meccanismi di secrezione o trasporto attivo ed in parte minore attraverso diffusione passiva
e ultrafiltrazione.
L’acqueo muove dalla camera posteriore alla anteriore
passando tra lente ed iride attraverso il foro pupillare. Nella
camera anteriore esso viene drenato a livello dell’angolo irido corneale dove tra la base dell’iride e la cornea sono presenti i legamenti pettinati. Esso penetra attraverso gli spazi
del Fontana delimitati da questi legamenti e si insinua nella
rete trabecolare che rappresenta una zona di resistenza al
flusso dell’acqueo. Attraversando la rete trabecolare l’umor
acqueo raggiunge infine il sistema venoso tramite vie di
deflusso definite convenzionali e non convenzionali. Nel
gatto le vie non convenzionali sarebbero responsabili solamente di circa il 3% di tale deflusso.
Anche se all’apparenza le strutture anatomiche deputate
alla filtrazione dell’umor acqueo nel cane e nel gatto risultano essere grossolanamente simili, esistono sottili differenze
tra le due specie. La camera anteriore nel gatto è notevolmente più profonda rispetto a quella del cane. Le fibre del
legamento pettinato appaiono più sottili, più lunghe e meno
numerose. La rete trabecolare è più ricca in fibre e il legamento cribriforme corneo-sclerale (trabecolo corneo-sclerale) possiede pori di maggiore diametro. Il plesso venoso della sclera è maggiormente sviluppato e le vene trabecolari
sono più numerose.
Queste differenze potrebbero spiegare la minore incidenza del glaucoma felino rispetto alla specie canina.
La diagnosi del glaucoma deve essere effettuata in base
all’esame clinico e alla misurazione della pressione intraoculare. Risulta importante anche la osservazione dell’angolo
irido corneale attraverso l’esame gonioscopico.
Da un punto di vista della classificazione i criteri seguiti
possono prendere in considerazione la patologia scatenante
il glaucoma che in tal caso può essere considerato primario3
nel caso non siano presenti patologie preesistenti o seconda-
rio nel caso in cui siano intervenute malattie intraoculari
responsabili della crisi glaucomatosa. La forma primaria può
essere congenita4 o se si prende in considerazione lo stato
dell’angolo irido corneale:ad angolo aperto, ristretto/chiuso,
con presenza di displasia dei legamenti pettinati5. La classificazione in acuto o cronico prende invece spunto dal tempo
di insorgenza della malattia.
Nella specie felina la maggior parte dei glaucomi sono di
origine secondaria e data la insorgenza subdola di tipo cronico. Gli individui di sesso maschile sarebbero più frequentemente colpiti rispetto a quelli di sesso femminile. Esiste
una certa prevalenza di incidenza nei gatti domestici rispetto a quelli di razza pura.
La ipertensione oculare risulta particolarmente critica inizialmente a livello del disco ottico attraverso meccanismi in
parte conosciuti ed in parte ancora oggetto di studio ed
approfondimento. In seguito sotto lo stimolo ipertensivo
anche la retina va incontro a fenomeni di tipo degenerativo.
Il glaucoma secondario è da ricondursi principalmente a
patologiche neoplastiche, infiammatorie/infettive, traumatiche e malattie sistemiche6. In caso di neoplasia intraoculare
la causa dell’ aumento della pressione è legata al meccanismo di compressione ed/od invasione dello stroma irideo,
dell’angolo irido corneale e dell’apparato trabecolare da parte del tessuto e/o della cellularità neoplastica.
La più comune neoplasia primaria è il melanoma diffuso
dell’iride. Il linfosarcoma rappresenta la forma più frequente tra le neoplasie secondarie.
Per quanto riguarda i fenomeni infettivi/infiammatori si
può affermare che qualunque malattia sistemica in grado di
determinare uveite nel gatto può essere potenzialmente
anche causa di glaucoma.
L’ irido ciclite determina rottura della barriera emato
acquea con aumento delle proteine e della cellularità dell’acqueo, si può formare ipopion ed ifema e in conseguenza
di ciò si ha aumento della viscosità dell’acqueo e la diminuzione del coefficente di filtrazione. Può esservi deposito di
fibrina a livello della superficie iridea, del foro pupillare e
dell’angolo irido corneale con formazione di membrane
fibro-vascolari preiridee. Si possono creare sinechie anteriori o posteriori con seclusione pupillare e grave impedimento
alla circolazione dell’acqueo. Si può avere iride bombè e
conseguente chiusura dell’angolo irido corneale. La miosi
che si accompagna all’uveite crea ulteriore ostacolo alla circolazione dell’acqueo.
All’evento infiammatorio può conseguire la lussazione
della lente per fenomeno degenerativo a carico delle fibre
zonulari. Lo spostamento del cristallino può determinare o
blocco pupillare con conseguente ostacolo al deflusso del-
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l’umor acqueo attraverso il foro pupillare, oppure più frequentemente il movimento della lente verso la camera anteriore crea alterato deflusso a livello dell’angolo irido corneale. In conseguenza della lussazione della lente può esservi prolasso del vitreo a livello pupillare con conseguente
blocco pupillare7.
Il glaucoma secondario a traumatismo vede come elemento predisponente l’emorragia in partenza dall’uvea anteriore con ifema e alterato drenaggio da parte dell’angolo irido corneale e le conseguenze del fenomeno infiammatorio
secondario al trauma stesso. Se il trauma è causato da ferita
perforante si può assistere a rottura della capsula della lente
con insorgenza di uveite facoclastica.
Una particolare forma di glaucoma felino è quello legato
ad alterata direzione dell’acqueo assimilabile al glaucoma
maligno dell’uomo. In questo caso l’acqueo tende a dirigersi verso il vitreo imbibendolo e causando uno spostamento
anterogrado della lente e dell’iride con chiusura dell’angolo
di filtrazione irido corneale8.
Nel gatto la sintomatologia del glaucoma è simile a quella del cane anche se molto spesso i segni clinici decorrono in
modo più sottile e meno eclatante soprattutto nella fase iniziale. Il gatto non di rado viene riferito tardivamente con
cecità e buftalmo associato agli altri sintomi clinici tipici
della malattia. Oltre ai sintomi sopracitati può essere presente epifora, pupilla dilatata e fissa o poco responsiva allo
stimolo luminoso, cambiamenti di colore dell’iride e nelle
forme avanzate escavazione del disco ottico non facilmente
evidenziabile causa la scarsa mielinizzazione della papilla
che appare più scura e degenerazione retinica manifestata da
iperreflettenza del fondo tappetale ed attenuazione della
componente vascolare. Appare meno frequente la presenza
di dolore con blefarospasmo, la iperemia congiuntivale, l’iniezione sclerale e l’edema corneale che di solito non è marcato9, 10, 11.
La terapia del glaucoma felino spesso risulta essere estremamente frustrante dal momento che frequentemente il soggetto viene portato alla visita con sintomatologia avanzata.
La cura può essere medica (specifica ed aspecifica) e chirurgica.
La terapia medica specifica si avvale dell’utilizzo di farmaci che agiscono sul vitreo disidratandolo (mannitolo e glicerolo), riducono la produzione di umor acqueo (inibitori
dell’anidrasi carbonica topici)12, facilitano il deflusso dell’umor acqueo (betabloccanti)13. La terapia aspecifica prevede
l’utilizzo di antinfiammatori, prodotti lubrificanti la cornea
ed antibiotici.
Le possibilità terapeutiche chirurgiche del glaucoma felino sono simili a quelle del glaucoma canino e si utilizzano
quando la terapia medica non consente il controllo della
pressione intraoculare.
Se la funzione visiva risulta mantenuta si può agire sulle
vie di drenaggio dell’umor acqueo attraverso la ciclodialisi,
la iridencleisi, le protesi sottocongiuntivali o con la ciclocrioterapia e la ciclofotocoagulazione. Nel caso di assenza
88
della visione si può provocare la distruzione dell’epitelio del
corpo ciliare e quindi ridurre la produzione dell’umor
acqueo attraverso la ablazione farmacologia dei corpi ciliari.
La eviscerazione con inserimento a scopo estetico di una
protesi endobulbare è una ulteriore possibilità terapeutica. È
corretto però considerare che tutti questi interventi espongono il soggetto operato al rischio della possibile insorgenza di
fibrosarcoma, una patologia non frequente ma ben documentata in letteratura.
Riferendosi a quanto sopra descritto nella specie felina la
enucleazione risulta molto spesso la terapia chirurgica più
corretta al fine della risoluzione del glaucoma non controllato da terapia medica in assenza della funzione visiva.
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Intelligenza vs emozioni? No! Intelligenza emotiva!
Gualtiero Crotti
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Nei rapporti interpersonali con il cliente, con i collaboratori e nella vita di tutti i giorni noi applichiamo un approccio che
mescola valutazioni razionali con quelle emotive.
Lo facciamo in maniera non sistematica, incostante e spesso in modo involontario.
Utilizziamo le nostre sensazioni, per valutare il presente,
ma anche per definire future azioni e per valutare passati avvenimenti,secondo un metro di giudizio personale e non rigidamente obbiettivo.
Stati d’animo, situazioni contingenti ed ambientali, variabili non legate al solo ambiente di lavoro,ci portano a non riuscire a standardizzare le nostre decisioni ed il nostro operato.
Correnti di pensiero, tempo fa, raccomandavano di separare razionalità ed emozione, anzi le contrapponevano.
Spingevano a utilizzare la sola l’intelligenza,senza che questa venisse indebolita dall’emozione.
Questa posizione è stata superata da alcuni autori, che semplicemente osservando cosa avviene nella vita comune di relazione,hanno codificato il termine di intelligenza emotiva
(I.E.).
Questa risulta essere una equilibrata fusione tra motivazione, empatia ed autocontrollo, che può permettere di sviluppare una grande capacità di adattamento atta a convogliare la
propria componente emotiva, rendendola un formidabile strumento per esplorare i lati positivi delle situazioni.
Come si può in una delicata relazione di aiuto,come quella
che intercorre tra il medico veterinario ed il proprietario, limitarsi ad applicare lo stretto e freddo approccio razionale?
L’intelligenza emotiva viene formata dall’interazione di fattori, denominate “competenze”.
Le competenze sono definibili come conoscenze e capacità
che portano alla possibilità di gestire situazioni specifiche con
ripercussioni positive nei rapporti interpersonali e nei rapporti lavorativi.
Quindi affinando la conoscenza delle “competenze”, si possono ottenere migliori rapporti interpersonali e proficue relazioni non solo sul lavoro ma anche nella comune vita di relazione.
Le competenze individuate da d. goleman, uno degli autori
che hanno lavorato sull’argomento, sono:
la competenza personale
la competenza sociale
ognuna di queste competenze è caratterizzata da abilità specifiche.
La competenza personale determina il modo con cui controlliamo noi stessi e le nostre reazioni.
Comporta il conoscere ed interpretare i propri stati interiori e le reazioni che ne derivano, esplicitate con azioni, discorsi, prese di posizione.
I nostri stati interiori sono determinanti per definire le
nostre preferenze, per la capacità di estrinsecare le nostre
risorse e per mettere quindi in atto le azioni piu corrette ed
adeguate.
Inoltre anche la nostra capacità di intuire e di interpretare le
esigenza altrui è strettamente legata a lucidità e prontezza che
possono essere alterate dal nostro stato interiore.
Nell’ambito della competenza personale le abilità specifiche sono:
la consapevolezza di sé.
Questa abilità implica consapevolezza emotiva, cioè il riconoscere le proprie emozioni.
In generale è innegabile che di fornite ad alcune emozioni,
possano emergere risposte specifiche.
Avere la consapevolezza che tali emozioni ci portano ad
agire ed a pensare in modo conseguente ci da una guida emotiva infallibile.
Per avere questa consapevolezza di se,serve un esercizio di
autovalutazione.
Il professionista dovrebbe esercitarsi per conoscere le proprie risorse ed i propri limiti.
L’autovalutazione, portando al riconoscimento delle proprie debolezze, puo favorire la riflessione sulle stesse, la serena presa di coscienza ed un intervento per un miglioramento.
Aiuta anche ad allontanare la frustrazione di critiche prese
come un affronto personale.
Una buona dote di senso dell’umorismo aiuta in questa analisi.
La forza che ci muove ad accettare sfide difficili e nel farci
uscire necessaria è anche la fiducia in se stessi, cioè la percezione del proprio valore e capacità.
la padronanza di sé.
Questa abilita consiste nellla capacità di controllare reazioni ed impulsi, anche in presenza di sentimenti contrastanti.
Indispensabile è l’autocontrollo, inteso come capacità di
dominare emozioni d impulsi distruttivi.
Vuol dire sapere rimanere concentrati nei momenti difficili, gestire stress ed impulsi negativi, rimanere lucidi per incanalare le proprie emozioni e sfruttarne l’energia al meglio.
La mancanza di autocontrollo spesso rovina prestazioni
fino ad quel momento condotte in modo efficace.
Senza autocontrollo emerge solo l’emotività incontrollata,
non è possibile una mediazione.
La padronanza di sé comporta una omogeneità di comportamento, la tendenza a costruire un clima di collaborazione
basato su chiarezza, trasparenza,rispetto delle regole ed affidabilità.
È piu agevole ammettere e correggere gli errori, opporsi
alle scorrettezze ed alla mancanza di etica.
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Chi ha padronanza di sé risulta avere coscienziosità, nell’assumersi responsabilità, nel perseguire gli obbiettivi e nel
rispetto degli impegni presi, allontanando i freni legati all’indifferenza ed al dubbio, che spengono la determinazione al
perseguimento dell’obbiettivo.
La padronanza di se da sicurezza interiore, rende possibile
l’ assumere un atteggiamento di apertura alle novità.
Questa è la base per la crescita professionale e per l’innovazione.
La padronanza di sé è anche il punto di partenza per accettare i cambiamenti necessari, promuoverli ed organizzarli,
attraverso l’adattabilità alle nuove richieste dei clienti.
Essere adattabili vuol dire essere flessibili nel modificare la
propria offerta di servizi.
La motivazione.
La motivazione è data dalla somma dei fattori che guidano
e sostengono fino al raggiungimento dell’obbiettivo.
L’aspetto economico e ‘ determinante ma non sufficiente
per mantenere la motivazione, servono altri fattori stimolanti.
È indispensabile la possibilità della realizzazione personale, nell’ambito del gruppo, per ottenere soddisfazioni personali.
L’impegno e lo spirito di iniziativa sono altresì’ importanti
anche come strumenti per una affermazione, nel contesto di
una stimolante, corretta e positiva competizione.
Non c’è motivazione senza un intelligente ottimismo.
Essere intelligentemente ed equilibratamente ottimisti
significa non cadere nello sconforto della paura del fallimento, non considerare gli insuccessi come incapacità personale.
L’ottimismo aiuta a non attribuire esagerata importanza ad
eventi negativi, per non distogliere l’attenzione dagli obbiettivi da perseguire.
Per quanto riguarda la seconda competenze, la competenza sociale, essa rappresenta la capacità di gestire le relazioni
interpersonali.
È determinata da due abilità:
l’empatia.
Rappresenta l’impegno a comprendere a fondo le esigenze
ed il sentire altrui tenendo ben chiare le proprie posizioni.
È imprescindibile avere la voglia di “comprendere”, essendo veramente e sinceramente interessati alle esigenze altrui.
Se c’è tale caratteristica ne consegue una genuina disponibilità allo “stare al servizio” e una propensione all’aiuto.
In tale abilità sociale si comprende anche la capacità di
valorizzare l’operato altrui, nell’ambito del rapporto con il
cliente o con i colleghi di lavoro.
Anche la promozione della diversità in ambito interpersonale e sociale è frutto dell’empatia.
La diversità viene in questo caso vista come un’ opportunità.
Implica la capacità di identificare le caratteristiche positive
del proprio interlocutore, senza la paura del confronto.
Un manager che sa riconoscere le prerogative dei singoli
collaboratori, oppure un professionista che sa personalizzare
l’offerta del servizio al cliente ha la capacità di ottenere il
meglio con soddisfazione reciproca.
Nell’empatia rientra anche la consapevolezza politica, intesa come la capacità di conoscere il territorio, gli aspetti sociali e le realtà culturali, oltre che le potenzialità e le tendenze.
90
Le abilità sociali
I sentimenti positivi sono meglio graditi, più immediati nelle loro trasmissione, più produttivi ed influenzano il proprio
interlocutore predisponendolo ad un rapporto piu sereno.
a capacità di trasmettere positività è innegabilmente una
virtù preziosa.
Ne risulta facilità di collaborazione, lealtà, ottimismo e
volontà nel perseguire l’obbiettivo.
Rilevante importanza riveste la capacità di trascinare, di
influenzare positivamente. L’influenza può aiutare nell’ottenere consenso.
Ci sono persone abili nel persuadere grazie ad una buona
capacità di comunicazione.
Sicuramente è nota a tutti la capacità di persuasione di abili comunicatori.
Altre componenti delle abilita sociali sono la leadership,
capacità di trasmettere il proprio entusiasmo e di porsi alla guida di un gruppo, creando cooperazione, la capacità di gestione
dei conflitti, di catalizzazione e guida dei cambiamenti.
In conclusione bisogna specificare.che l’intelligenza emotiva può essere potenziata ed allenata.
Sicuramente si sviluppa in maniera naturale con il tempo
come conseguenza di trascorsi ed esperienze personali, e
come un naturale processo di maturazione.
È comunque necessario avere la predisposizione ad effetture una serena analisi degli avvenimenti e ad una autovalutazione personale.
Non è peraltro indispensabile possedere proprio tutte le
competenze citate, sicuramente non tutti gli individui sono
dotati naturalmente di tali competenze ed abilità o hanno la
possibilità di esercitarsi per acquisirle o migliorarle.
Comunque anche un parte di queste capacità, se bene applicata, porterebbe notevoli risultati nell’evidenziare gli aspetti
“migliori” delle proprie caratteristiche personali.
Sicuramente affinare le abilità sopite da consuetudini, abitudini, pigrizia mentale ed assuefazione può aiutare a utilizzare in maniera intelligente le nostre emozioni.
Accontentarsi, non rivalutare i propri errori e rimanere
comodamente racchiusi nella propria “zona di comfort” non
fa progredire.
Gli psicologi del lavoro hanno dimostrato che nel portare a
termine un compito non in modo normale, ma in modo eccellente, le doti personali e caratteriali inerenti all’intelligenza
emotiva sono percentualmente più importanti rispetto all’applicazione delle sole intelligenza (Q.I.) e capacita professionali (expertise).
Bibliografia
Goleman D., (2000), Lavorare con intelligenza emotiva. Come inventare un
nuovo rapporto con il lavoro, Rizzoli, Milano.
Weisinger H.,(2004), Intelligenza emotiva al lavoro. Una guida per mettere a
frutto il proprio quoziente emotivo, Bompiani, Milano.
www.managerzen.it - www.corem.unisi.it
Indirizzo per la corrispondenza:
Gualtiero Crotti - [email protected]
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Acute generalized flaccid tetraparesis to tetraplegia
Paul A. Cuddon
BVSC, DACVIM (Neurology), Associate Professor, Colorado State University
COONHOUND PARALYSIS: Coonhound paralysis is
an acute canine polyradiculoneuritis, which often is associated with raccoon saliva (bite or scratch). However, this disease is seen in many countries without raccoons. It is most
likely a delayed immune mediated disease. Acute onset of
neurologic signs begins 7-14 days post raccoon contact or
other antecedent event.
Neurologic signs consist of an initial stiff-stilted gait in all
limbs with rapid progression to LMN tetraparesis / plegia. In
addition, dogs will often show dysphonia or aphonia +/facial paresis. Some dogs will demonstrate hyperesthesia.
Initial progression of signs will continue for 4-5 days, with
a duration of dysfunction lasting anywhere from 2-3 weeks
to 4 months
Major differentials would include botulism, tick paralysis,
fulminant myasthenia gravis, black widow spider envenomation, West Nile virus paralytic syndrome?????, and generalized or multifocal myelopathy.
Diagnosis is based on typical clinical signs of an acute
LMN syndrome followed by electrophysiology, which will
reveal generalized spontaneous activity, the severity of
which depends on the time after onset of signs. There is also
markedly decreased amplitude to absent compound muscle
action potentials. Motor nerve root studies will indicate
delayed latencies. Sensory function usually is normal. Lumbar spinal fluid analysis will reveal an increase in protein
(albuminocytologic dissociation). Dogs that have an
encounter with a raccoon have positive antibodies against
raccoon saliva.
Treatment usually entails conservative supportive care.
Artificial ventilation may be necessary if respiratory paralysis develops. High dose IV immune globulin therapy (1
g/kg/day for 2 consecutive days OR 0.4 g/kg/day for 4-5
consecutive days) can be utilized although this therapy is
extremely expensive. Corticosteroids DO NOT improve
signs nor shorten the duration of disease. Therefore, steroids
are contraindicated.
teinase, effects the n-m junction. It binds to a specific protein receptor on the prejunctional nerve terminal, where it is
internalized into a vesicle. It interferes with Ach release at
the n-m junction, post-ganglionic parasympathetic synapses,
& all ganglionic synapses. Ach release failure is due to toxin disruption of specific “docking proteins” (syntaxin).
Dogs are very resistant to botulism. Horses and esp. foals
are more commonly affected. The first sign is a shuffling
gait with subsequent generalized loss of muscle tone,
hyporeflexia & eventual flaccid paralysis & respiratory failure. There is involvement of facial, cervical, mandibular,
pharyngeal, laryngeal, and intraocular muscles, with associated clinical signs being dysphagia, salivation, mydriasis,
and dysphonia. Megaesophagus also commonly occurs
along with urinary retention and dribbling
Diagnosis is DIFFICULT since only very small amounts
of toxin needed to cause clinical signs. The organism or toxin can be detected in recently ingested food or vomitus.
Electrophysiology can be helpful with diagnosis, with
CMAP amplitude decreases and decremental/incremental
responses seen with supramaximal repetitive stimulation.
Mouse inoculation is still the most utilized definitive test
for botulism. CSF analysis is normal, unlike in coonhound
paralysis.
The mainstay of treatment is intensive supportive care.
There is no specific antidote for the bound toxin. Antibiotics
may be needed for possible secondary pneumonia but DO
NOT USE AMINOGLYCOSIDES, TETRACYCLINES,
OR PROCAINE PENICILLIN due to these antibiotics producing a decrease in Ach release. 4 amino-pyridine has been
used with some positive effect on clinical signs since it
increases intracellular Ca2+, which in turn increases muscle
strength. The trivalent antitoxin that is commercially available for humans (human A,D,E trivalent) is useless in dogs.
There is, however, a canine polyvalent antitoxin and antitype C1 antitoxin available. Both of these should be given
once within the first 5 days.
BOTULISM: This is caused by Clostridium botulinum
neurotoxin - Type C (dogs) and Type B, C, and D (horses
and cattle). The most common mode of exposure is the
ingestion of preformed toxin (decaying carcasses or decaying food - silage). After toxin ingestion, there is a latency of
1-2 days before development of clinical signs. The other
mode of exposure is toxicoinfectious botulism (Type B),
where there is spore ingestion or wound contamination with
spores with subsequent toxin production in the GIT or
wound. The botulinum toxin, a zinc-dependent metallopro-
TICK PARALYSIS: Tick paralysis is caused by neurotoxins associated with feeding female ticks of primarily Dermacentor andersonii or variabilis (USA) and Ixodes holocyclus (Australia). Amblyomma spp. also can produce tick
paralysis in the US. Only 1 female tick is required to produce neurological signs but the tick needs to be attached and
feeding for 6-9 days before signs develop. The tick toxin of
all species interferes with Ach release at the n-m junction,
although the Ixodes toxin is much more virulent with significant non-neurologic signs (hypertension, tachyarrhythmias,
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mydriatic pupils, pulmonary edema).
Typical signs consist of progressive LMN paraparesis
leading to tetraparesis over 1-2 days. Cranial nerve
involvement is RARE with all ticks except Ixodes. Limbs
are hypotonic and hyporeflexic and there often is a
decreased bark +/- respiratory compromise. Very rarely
tick paralysis may result in respiratory paralysis and death
(usually Ixodes toxin).
Definitive diagnosis is based on finding the offending tick
on a dog with classical clinical signs. DO A THOROUGH
SEARCH and, if at all suspicious, treat with Frontline,
Advantix or other topical tick preparation. Electrophysiology is rarely done, but the abnormalities are similar to botulism.
Removal of the entire tick, if it can be found, leads to
improvement within a day with Dermacentor. Performing a
tick bath is also an effective treatment to cause the tick to
dislodge. Prompt recognition usually results in a complete
recovery. This may not be the case with Ixodes toxin.
Removal of the tick does not immediately reverse clinical
signs. Therefore, you must neutralize circulating Ixodes neurotoxin with hyperimmune serum (0.5-1 mg/kg IV).
FULMINANT MYASTHENIA GRAVIS: The etiology
of myasthenia is the production of autoantibodies against
skeletal muscle AchRs. Acute fulminating MG presents as a
rapid onset of severe appendicular and bulbar muscle weakness often precipitated by relative increases in anti-AchR
antibody titers (tend to have higher serum titers). Relative
insufficiency of Ach may be precipitated by pneumonia,
UTI, or other concurrent illness.
There is a rapid progression of profound muscle weakness
in an animal with a recent sudden onset of megaesophagus
and regurgitation. Almost invariably, these animals have
92
aspiration pneumonia associated with the severe, constant
regurgitation. There is a rapid, progressive worsening of pulmonary function.
Despite the severity of this disease, there is often very little evidence of hyporeflexia. However, dogs can demonstrate a decreased gag, absent palpebral reflex, and urinary
bladder distension. Fulminant myasthenia gravis is associated with a high mortality rate due to respiratory failure.
Definitive diagnosis is based on positive serum anti-Ach
receptor antibodies, although results will be delayed.
Although electrophysiology can be very helpful with diagnosis (decremental response with supramaximal repetitive
stimulation), the associated anesthesia may precipitate progression of signs.
Edrophonium response testing (0.1-0.2 mg/kg IV) would
be an alternative diagnostic aid, although this may only
obtain a subtle response for only a few seconds. It would be
also important to perform thoracic radiographs to check for
thymoma.
Initial treatment would consist of parenteral anticholinesterases (NB IV pyridostigmine is 1/30th the dose of
the oral formulation). Constant rate infusion pyridostigmine
also can be an option in initial treatment. Avoid immunosuppressive corticosteroid therapy initially, especially with
aspiration pneumonia. It would also be important to not give
oral treatment if there is regurgitation. Definitely do not give
metoclopramide. Consider a PEG tube, gastrostomy tube or
parenteral nutrition for feeding and maintaining caloric
intake. Once the myasthenic crisis is stabilized, the dog
should be started on oral therapy with pyridostigmine (initial
dose of 1 mg/kg BID to TID) in combination with prednisone at an antiinflammatory dose of 1/2 mg/kg BID.
Mycophenolate (Cellcept) can also be effective at a dose of
20 mg/kg BID, although this is expensive.
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93
Diagnosi di neuropatia e miopatia;
valutazione funzionale e strutturale
Paul A. Cuddon
DVM, Bvsc Dipl Acvim(Neurology), Colorado, Usa
PARALISI DEL COONHOUND: La paralisi del coonhound è una poliradicoloneurite acuta del cane che risulta
spesso associata alla saliva del procione (morso o graffio).
Tuttavia, la condizione si osserva in molti Paesi in cui non vi
sono procioni. Molto probabilmente si tratta di una forma di
malattia immunomediata ritardata. L’insorgenza acuta dei
segni neurologici inizia 7-1 giorni dopo il contatto con il
procione o con un altro evento antecedente.
Le manifestazioni neurologiche sono costituite da un’andatura iniziale rigida ed innaturale a livello di tutti gli arti,
con rapida progressione da tetraparesi/plegia da motoneurone inferiore (MNI). Inoltre, i cani mostrano spesso disfonia
o afonia ± paresi facciale. Alcuni mostrano iperestesia. L’iniziale progressione dei segni clinici continua per 4-5 giorni, con una durata di disfunzione variabile da 2-3 settimane
a quattro mesi.
Le principali diagnosi differenziali da prendere in considerazione sono rappresentate da botulismo, paralisi da zecche, myasthenia gravis fulminante, avvelenamento da vedova nera, sindrome paralitica da West Nile virus??? e mielopatia generalizzata o multifocale.
La diagnosi si basa sul riscontro dei tipici segni clinici di
una sindrome acuta da MNI seguito dalle indagini elettrofisiologiche, che rivelano attività spontanea generalizzata, la
cui gravità dipende dal tempo trascorso dall’insorgenza dei
segni clinici. È anche presente una marcata diminuzione dell’ampiezza o l’assenza dei potenziali d’azione muscolari.
Gli studi condotti sulla radice dei nervi motori indicano
latenze ritardate. La funzione sensoriale di solito è normale.
L’analisi del liquor prelevato a livello lombare evidenzia un
aumento del contenuto di proteine (dissociazione albuminocitologica). I cani che hanno un incontro con un procione
diventano positivi per gli anticorpi contro la saliva di questo
animale.
Il trattamento di solito consiste in una terapia di sostegno
conservativa. Può essere necessaria la respirazione artificiale se si sviluppa una paralisi respiratoria. Si possono utilizzare alte dosi di terapia con immunoglobuline IV (1 g/kg/die
per due giorni consecutivi OPPURE 0,4 g/kg/die per 4-5
giorni consecutivi) anche se si tratta di un trattamento estremamente costoso. I corticosteroidi NON migliorano i segni
clinici né abbreviano la durata della malattia. Di conseguenza, sono controindicati.
BOTULISMO: È causato dalla neurotossina di Clostridium botulinum – tipo C (cane) e tipo B, C e D (cavallo e
bovino). La più comune modalità di esposizione è l’inge-
stione di tossina preformata (carcasse in decomposizione o
alimenti – insilati in decomposizione). Dopo l’ingestione
della tossina, si ha una latenza di 1-2 giorni prima dello sviluppo dei segni clinici. L’altra modalità di esposizione è la
tossinfezione botulinica (tipo B) in cui si ha l’ingestione di
spore o la contaminazione di una ferita da parte di spore, con
successiva produzione di tossina nel tratto gastroenterico o
nella ferita. La tossina botulinica, una metalloproteinasi zinco-dipendente, agisce sulla giunzione neuromuscolare. Si
lega ad uno specifico recettore proteico sulla terminazione
nervosa pregiunzionale, dove viene interiorizzata in una
vescicola. Interferisce con il rilascio di Ach a livello della
giunzione neuromuscolare, delle sinapsi parasimpatiche
postgangliari e di tutte le sinapsi gangliari. Il mancato rilascio dell’Ach è dovuto alla distruzione da parte della tossina
delle specifiche “proteine di attracco” (sintaxina).
I cani sono molto resistenti al botulismo. I cavalli, e
soprattutto i puledri, sono colpiti più comunemente. Il primo
segno è un’andatura strascicata, con una successiva perdita
generalizzata del tono muscolare, iporiflessia ed infine paralisi flaccida ed insufficienza respiratoria. Si ha il coinvolgimento dei muscoli facciali, cervicali, mandibolari, faringei,
laringei ed intraoculari, con la comparsa di segni clinici
associati quali disfagia, salivazione, midriasi e disfonia.
Anche il megaesofago si riscontra comunemente, insieme
alla ritenzione urinaria ed allo stillicidio di urina.
La diagnosi è DIFFICILE, dal momento che quantità molto piccole di tossina sono sufficienti a causare la comparsa di
segni clinici. È possibile identificare il microrganismo o la
tossina negli alimenti ingeriti da poco o nel vomito. L’elettrofisiologia può essere utile a fini diagnostici, con diminuzione dell’ampiezza di CMAP e decremento/incremento
delle risposte osservate nella stimolazione ripetitiva sopramassimale. L’inoculazione nel topo è ancora il test definitivo maggiormente utilizzato per il botulismo. A differenza di
quanto avviene nella paralisi del coonhound, l’analisi del
liquor è normale.
Il caposaldo del trattamento è la terapia di sostegno intensiva. Non esiste alcun antidoto specifico per la tossina legata. Può essere necessario somministrare antibiotici per un’eventuale polmonite secondaria, ma NON SI DEVONO UTILIZZARE AMINOGLICOSIDI, TETRACICLINE O PENICILLINA PROCAINA perché determinano una diminuzione del rilascio di Ach. La 4 amino-piridina è stata usata con
qualche effetto positivo sui segni clinici perché aumenta il
Ca2+ intracellulare, che a sua volta incrementa la forza
muscolare. L’antitossina trivalente disponibile in commercio
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per l’uomo (trivalente A, D, E umana) è inutile nel cane. Tuttavia, esiste un’antitossina polivalente canina ed una antitossina anti-tipo C1. Entrambe vanno somministrate una volta
entro i primi cinque giorni.
PARALISI DA ZECCHE: La paralisi da zecche è causata dalle neurotossine associate al pasto delle zecche femmina, principalmente delle specie Dermacentor andersoni o
variabilis (USA) e Ixodes holocyclus (Australia). Anche
Amblyomma spp. può determinare la paralisi da zecche negli
Stati Uniti. Una sola zecca femmina è sufficiente per determinare la comparsa di segni neurologici, ma il parassita deve
rimanere attaccato ed alimentarsi per 6-9 giorni prima che si
sviluppino i segni clinici. La tossina delle zecche di tutte le
specie interferisce con il rilascio di Ach a livello della giunzione neuromuscolare, benché quella di Ixodes sia molto più
virulenta e con segni non neurologici significativi (ipertensione, tachiaritmie, midriasi pupillare, edema polmonare).
I segni clinici tipici sono rappresentati da una progressiva
paraparesi da MNI che porta a tetraparesi nell’arco di 1-2
giorni. Il coinvolgimento dei nervi cranici è RARO per tutte
le zecche eccetto Ixodes. Gli arti sono ipotonici ed iporeflessici e spesso si riscontra una diminuzione del latrato ±
una compromissione respiratoria. Molto raramente, la paralisi da zecche può esitare in una paralisi respiratoria e morte
(di solito in caso di tossina da Ixodes).
La diagnosi definitiva si basa sul riscontro della zecca
responsabile su un cane che presenta i segni clinici classici.
Bisogna ESEGUIRE UNA RICERCA APPROFONDITA e,
in caso di sospetto, trattare con Frontline, Advantix o altre
preparazioni topiche antizecche. L’esame elettrofisiologico
viene eseguito raramente, ma le anomalie riscontrate sono
simili a quelle da botulismo.
La rimozione dell’intera zecca, se si riesce a trovarla,
determina il miglioramento entro un giorno in caso di Dermacentor. Anche l’attuazione di un bagno antizecche è un
trattamento efficace per determinare il distacco del parassita. Il pronto riconoscimento di solito esita in una guarigione
completa. Può darsi che ciò non accada nel caso della tossina da Ixodes. La rimozione della zecca non determina l’immediata regressione dei segni clinici. Di conseguenza, si
deve neutralizzare la neurotossina circolante da Ixodes con
siero iperimmune (0,5-1 mg/kg IV).
MYASTHENIA GRAVIS FULMINANTE: L’eziologia
della miastenia è la produzione di autoanticorpi contro
l’AchR del muscolo scheletrico. La MG fulminante acuta si
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presenta con un’insorgenza rapida di grave debolezza della
muscolatura appendicolare e bulbare, spesso scatenata da un
incremento relativo dei titoli anticorpali anti-AchR (tendenza ad avere titoli sierici più elevati). L’insufficienza relativa
di Ach può essere scatenata da polmonite, infezione del tratto urinario o altre malattie concomitanti.
Si ha una rapida progressione di una debolezza muscolare profonda in un animale con una recente insorgenza
improvvisa di megaesofago e rigurgito. Quasi invariabilmente, questi soggetti presentano una polmonite ab ingestis
associata a grave rigurgito costante. Si riscontra un peggioramento rapido e progressivo della funzione polmonare.
Nonostante la gravità di questa malattia, spesso si hanno
ben pochi segni di iporiflessia. Tuttavia, i cani possono
dimostrare una riduzione del riflesso faringeo, l’assenza di
quello palpebrale e la distensione della vescica urinaria. La
myasthenia gravis fulminante è associata ad un elevato tasso di mortalità dovuto ad insufficienza respiratoria.
La diagnosi definitiva si basa sulla positività dei titoli sierici degli anticorpi anti-Ach recettore, benché gli esiti si
ottengano con ritardo. L’elettrofisiologia può essere molto
utile ai fini diagnostici (risposta in decremento dopo stimolazione ripetitiva sopramassimale), ma l’anestesia che
richiede può scatenare una progressione dei segni clinici.
Il test di risposta all’edrofonio (0,1-0,2 mg/kg IV) sarebbe un mezzo diagnostico alternativo, anche se si può ottenere soltanto una risposta poco appariscente e della durata di
appena qualche secondo. Sarebbe anche importante eseguire l’esame radiografico del torace alla ricerca di un timoma.
Il trattamento iniziale consisterebbe nella somministrazione paraenterale di anticolinesterasi (NB: la piridostigmina
IV è 1/30 della dose della formulazione orale). Anche la piridostigmina per infusione a velocità costante può essere
un’opzione per il trattamento iniziale. In principio si deve
evitare la terapia immunosoppressiva con corticosteroidi,
soprattutto in caso di polmonite ab ingestis. Sarebbe anche
importante non attuare trattamenti per via orale in caso di
rigurgito. Non si deve assolutamente somministrare metoclopramide. Prendere in considerazione la possibilità di
inserire una sonda PEG oppure da gastrostomia, o di ricorrere alla nutrizione paraenterale per l’alimentazione ed il
mantenimento dell’assunzione calorica. Una volta stabilizzata la crisi miastenica, si deve iniziare a trattare il cane con
piridostigmina (dose iniziale di 1 mg/kg BID o TID) in combinazione con prednisone a dose antinfiammatoria di 1/2
mg/kg BID. Anche il micofenolato (Cellcept) può essere
efficace alla dose di 20 mg/kg BID, ma è costoso.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
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Chronic neuropathy
Paul A. Cuddon
BVSC, DACVIM (Neurology), Associate Professor, Colorado State University
Clinical signs associated with chronic neuropathy consist
of tetraparesis with hypotonia to atonia, hyporeflexia to areflexia, denervation atrophy, +/- ataxia (CP deficits), and +/sensory impairment. Bladder control & panniculus are often
intact and pain sensation is often spared.
Once a polyneuropathy is suspected, I work through my
diagnostic plan in tiers of increasing complexity to try to
determine the etiology of the peripheral nerve disease.
Despite full evaluation, as many as 50% of dogs remain
undiagnosed or return with a diagnosis of chronic axonal
degeneration.
The initial tier of diagnostic tests consists of primarily
bloodwork to assess metabolic and endocrine function as
well as to look for infectious disease. The initial testing
would comprise a CBC and biochemistry panel, free T4
and endogenous TSH, a low dose dexamethasone suppression test or ACTH stimulation test with endogenous
ACTH, ANA, FeLV and FIV titers (cats), Neospora caninum titer (dogs) +/- Toxoplasma titer (cats and dogs), +/AchE level.
The second tier of diagnostic evaluation is primarily associated with evaluation for possible neoplasia. Testing will
include radiography of thorax and abdomen, abdominal
ultrasound and CSF analysis.
If all of the above diagnostic tests are negative or normal,
further evaluation of the type of generalized nerve disease
should be evaluated via electrophysiology. The two main
categories of peripheral nerve pathology are demyelination
and axonal disease. However, many dogs have a combination of the above changes. Electrophysiology also reveals the
relative distribution of the neuropathy both in location along
the length of the nerves and degree of severity. Electrophysiology testing would consist of EMG, motor and sensory
nerve conduction velocities, CMAP and SNAP amplitudes,
supramaximal repetitive stimulation, dorsal and ventral
nerve root studies. Normal muscle is electrically silent on
electromyography. EMG will assist in assessing the presence of denervation and therefore axonopathy and the degree
of severity of the changes.
Purely demyelinating neuropathies will produce very
little in the way of EMG abnormalities. EMG also helps
determines whether observed muscle atrophy is due to
denervation or disuse. Electrophysiology also helps differentiates between peripheral nerve, muscle and n-m junction diseases. Based on the electrodiagnostic evaluation,
the next important step in nerve and muscle evaluation is
fascicular nerve biopsy (commonly of the distal tibial or
common peroneal nerve) and muscle biopsy (often distal
appendicular muscles).
SPECIFIC CHRONIC PERIPHERAL
NEUROPATHIES IN THE DOG AND CAT
NEOSPORA ASSOCIATED POLYRADICULONEURITIS: This polyradiculoneuritis, caused by Neospora caninum, usually in young 2-4 month old dogs, with concurrent
polymyositis. Transmission is commonly by transplacental
spread. Clinical signs will consist of firm, severely atrophic
pelvic limb muscles, an initial rapid progressive LMN paraparesis progressing to rigid paraplegia (pelvic limb fixed
extension) due to muscle contracture and fibrosis.
Diagnosis is based on finding an increased serum CK &
eosinophilia, positive serum & CSF titers to N. caninum,
pleocytosis with eosinophils on lumbar CSF analysis, and
spontaneous activity on EMG of especially the pelvic limb
muscles.
Treatment consists of clindamycin 5.5-11 mg/kg PO BID.
Prognosis is guarded if diagnosed early and poor if muscle
contracture and fibrosis has already occurred.
DIABETIC NEUROPATHY: The clinical signs associated with this symmetrical polyneuropathy are most commonly seen in cats although dogs also can develop this
polyneuropathy (dogs often have electrodiagnostic changes
with diabetes but are subclinical). The classical signs are a
plantigrade and palmigrade stance, a progressive paraparesis
with hyporeflexia, distal pelvic and thoracic limb muscle
atrophy, difficulty jumping, and probable sensory changes
leading to paraesthesias. Affected animals will also show
classical signs of diabetes.
Generally, diagnosis is based on a hyperglycemia on
serum biochemistry panel, high serum fructosamine, and
glycosuria. Diabetic neuropathy commonly develops in cats
that have persistently high glucose levels or widely fluctuating serum glucose levels. Electrophysiologic abnormalities
classically reveal a primary demyelination and lesser axonal
degeneration along the entire length of the sensory and
motor peripheral nerves and nerve roots. Peripheral nerve
biopsies show the classic change of ballooning and separation of the myelin sheath.
Proper treatment and control of the underlying metabolic
dysfunction will result in improvement and possible reversal
of the neuropathy although it may take several weeks to
months to return to normal. Treatment therefore would consist of possible oral hypoglycemic agents (e.g. glipizide 2.55 mg BID), acarbose which slows glucose absorption, or
subcutaneous injections of PZI insulin. Proper dietary control with low CHO (> 10%) alone can significantly improve
diabetic neuropathy.
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HYPOTHYROIDISM: Uncontrolled hypothyroidism
can eventually lead to progressive symmetrical weakness
with muscle atrophy & decreased reflexes in all limbs. In
addition, dogs with hypothyroidism can develop unilateral
cranial nerve dysfunction consisting most commonly of
facial nerve paresis. Other reported cranial neuropathies
include laryngeal paralysis, megaesophagus, and peripheral
vestibular disease. Overt signs of hypothyroidism may or
may not be present.
Diagnosis of hypothyroid neuropathy will be based on a
positive diagnosis of hypothyroidism (low serum total and
free T4 and an elevated endogenous TSH level), along with
confirmation of neuropathy via electrophysiology and muscle & nerve biopsy. Treatment of the hypothyroidism (L-thyroxine 22 ug/kg BID PO) can lead to improvement in the
generalized neuropathy (may take 6 months), although the
cranial neuropathies tend not to respond.
INSULINOMA ASSOCIATED NEUROPATHY: This
is primarily seen in middle-aged to older large breed dogs 20
to a functional tumor of the pancreas. Clinical signs usually
consist of muscle tremors with LMN paraparesis or tetraparesis (axonal necrosis / demyelination) usually in conjunction with encephalopathy (seizures, mentation and
behavior change).
Diagnosis consists of finding a fasting serum glucose of
<60 mg/dl, along with an amended insulin-to-glucose ratio
>30. Abdominal ultrasound may detect a pancreatic mass,
although this is not always the case. The treatment of choice
is surgical removal of the tumor, although some can be very
difficult to impossible to detect. If the mass is inoperable,
treatment with prednisone (0.5 mg/kg PO BID) +/-diazoxide
(3-5 mg/kg PO TID) often relieves many of the clinical
signs.
PARANEOPLASTIC NEUROPATHY: This is commonly associated with (adeno) carcinomas (bronchogenic,
mammary, & thyroid), melanoma, osteosarcoma, mast cell
tumors, and lymphosarcoma. These animals present with
classic LMN signs to spinal &/or cranial nerves. Some cases with any of the above cancers may be initially subclinical
for the associated neuropathy. Others with a generalized
neuropathy may have no initial signs associated with the initiating neoplasia. Diagnosis revolves around demonstration
of a primary tumor plus electrodiagnostic evidence of axonal degeneration (EMG changes) and demyelination (slow
NCV). Muscle and nerve biopsy may also be helpful. Treatment consists of removal or treatment of the primary tumor
96
in combination with immunosuppression with corticosteroids.
LYMPHOSARCOMA & FeLV INFECTION: Lymphosarcoma in cats (with or without associated FeLV infection) is capable of producing multiple mononeuropathies
(mononeuropathy multiplex) or a syndrome similar to distal
axonopathy due to extensive proliferation in and around
peripheral and spinal nerves. FeLV infection without lymphosarcoma also can produce classic acute or chronic relapsing polyneuropathies (axonopathy and demyelination).
Lymphosarcoma in this situation usually is associated with
FeLV infection, where metastatic spread to the nervous system is common. Despite systemic or intrathecal chemotherapy, the prognosis is poor (esp. in FeLV infected cats) due to
the very rapid spread of the tumor. Palliative radiation therapy would be feasible if there is extradural lymphoma since
this tumor is highly radiosensitive. Another treatment option
for CNS lymphoma is cytosine arabinoside.
CHRONIC
INFLAMMATORY
POLYNEUROPATHIES: These immune based neuropathies can present with either a chronic progressive or chronic relapsing
course. These chronic inflammatory neuropathies probably
have a similar etiology and pathogenesis to coonhound
paralysis, although obviously there will be a much more
gradual onset and clinical course. Unlike CHP, asymmetry
of signs may occur. In addition to the generalized neuropathy, this neuropathy can result in facial paresis & dysphonia/aphonia. Treatment will consist of immunosuppression
with prednisone (1-1.5 mg/kg PO BID), azathioprine (2
mg/kg PO daily), and/or cyclophosphamide (50 mg/m2 PO
SID 3-4 days/week).
CHRONIC
PROGRESSIVE
PERIPHERAL
AXONOPATHY: This is a non-inflammatory, nonimmune progressive axonopathy, which tends to be a ruleout diagnosis based on normal bloodwork, normal
endocrine testing, normal thoracic and abdominal radiographs and U/S. On electrophysiology, this syndrome
demonstrates denervation (spontaneous activity on EMG)
and decreased CMAP amplitudes. Muscle biopsy reveals
varying degrees of denervation (type I and type II
myofiber atrophy) and nerve biopsy demonstrates axonal
degeneration with no inflammatory infiltrates. This neuropathy is relentlessly progressive and immunosuppression does not improve clinical signs. An experimental
drug, Prosaposin, appears to hold the most promise.
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97
Neuropatie croniche
Paul A. Cuddon
DVM, Bvsc Dipl Acvim(Neurology), Colorado, Usa
I segni clinici associati alla neuropatia cronica consistono
in tetraparesi con ipotonia o atonia, iporiflessia o areflessia,
atrofia da denervazione ± atassia (deficit CP) e ± compromissione sensoriale. Il controllo della vescica ed il pannicolo sono spesso integri e la sensibilità dolorifica è spesso
risparmiata. Una volta formulato il sospetto di polineuropatia, si segue un piano diagnostico articolato in livelli di complessità progressivamente crescente per cercare di determinare l’eziologia delle affezioni del nervo periferico. Nonostante una valutazione completa, fino al 50% dei cani resta
senza diagnosi o viene riportato alla visita con una diagnosi
di degenerazione assonale cronica. Il primo livello dei test
diagnostici è rappresentato principalmente da esami ematochimici finalizzati a valutare le funzioni metaboliche ed
endocrine, nonché ad individuare eventuali malattie infettive. Inizialmente si effettuano l’esame emocromocitometrico
completo e il profilo biochimico, la determinazione dei livelli di T4 libera e di TSH endogena, il test di soppressione con
desametazone a basse dosi o il test di stimolazione con
ACTH endogeno, l’ANA-test e la determinazione dei titoli
di FeLV e FIV (gatto), Neospora caninum (cane) ± Toxoplasma (cane e gatto) ± livelli di AchE.
Il secondo stadio della valutazione diagnostica è principalmente associato alla ricerca di possibili neoplasie. I test
sono rappresentati da esame radiografico di torace ed addome, ecografia addominale ed analisi del liquor.
Se tutti i test diagnostici sopracitati sono negativi o normali, è necessario valutare ulteriormente il tipo di neuropatia
generalizzata mediante elettrofisiologia. Le due principali
categorie delle alterazioni patologiche del nervo periferico
sono la demielinizzazione e la malattia assonale. Tuttavia,
molti cani presentano una combinazione di queste due anomalie. L’elettrofisiologia rivela anche la distribuzione relativa
della neuropatia sia per quanto riguarda la sua localizzazione
lungo il decorso del nervo che la sua gravità. I test elettrofisiologici sono rappresentati da EMG, velocità di conduzione
dei nervi motori o sensoriali, ampiezze CMAP e SNAP, stimolazione ripetitiva sopramassimale, studi delle radici dei
nervi dorsali e ventrali. Il muscolo normale è elettricamente
silente all’esame elettromiografico. L’EMG contribuisce a
valutare la presenza della denervazione e di conseguenza dell’assonopatia e l’entità della gravità delle alterazioni. Le neuropatie puramente demielinizzanti producono una quantità
molto scarsa di anomalie EMG. L’esame elettromiografico
contribuisce anche a determinare se l’atrofia muscolare osservata è dovuta a denervazione o non uso. L’elettrofisiologia
consente inoltre di differenziare le alterazioni di nervi periferici, muscoli e giunzione neuromuscolare. Sulla base della
valutazione elettrodiagnostica, il successivo importante passo
nella valutazione di nervi e muscoli è la biopsia nervosa fascicolare (comunemente a livello del nervo tibiale distale o di
quello peroneo comune) e la biopsia muscolare (spesso a
livello dei muscoli appendicolari distali).
NEUROPATIE PERIFERICHE CRONICHE
SPECIFICHE NEL CANE E NEL GATTO
POLIRADICOLONEURITE DA NEOSPORA: Questa
poliradicoloneurite, causata da Neospora caninum, di solito
colpisce i cani giovani di 2-4 mesi, con concomitante polimiosite. La trasmissione avviene comunemente mediante diffusione transplacentare. I segni clinici sono rappresentati da
riscontro di muscoli degli arti pelvici duri e gravemente atrofici con rapida e progressiva paraparesi iniziale da MNI che
progredisce fino alla paraplegia rigida (arto pelvico fissato in
estensione) a causa della contrattura e fibrosi dei muscoli.
La diagnosi si basa sul riscontro di un aumento dei livelli
sierici di CK, eosinofilia, positività dei titoli del siero e del
liquor per N. caninum, pleocitosi con eosinofili all’analisi
del liquor prelevato a livello della zona lombare ed attività
spontanea all’EMG, in particolare nei muscoli pelvici.
Il trattamento consiste nella somministrazione di clindamicina alla dose di 5,5-11 mg/kg PO BID. La prognosi è
riservata se la malattia viene diagnosticata precocemente e
sfavorevole se si sono già verificate le contratture muscolari
e la fibrosi.
NEUROPATIA DIABETICA: I segni clinici associati a
questa polineuropatia simmetrica nella maggior parte dei casi
si osservano nel gatto, benché la malattia possa colpire anche
i cani (che presentano spesso alterazioni elettrodiagnostiche in
caso di diabete, però subcliniche). I segni clinici sono rappresentati da stazione da plantigrado e palmigrado, progressiva
paraparesi con iporiflessia, atrofia dei muscoli degli arti pelvici e toracici, difficoltà a saltare e probabili modificazioni
sensoriali che conducono alla parestesia. Gli animali colpiti
mostrano anche i segni classici del diabete. Generalmente, la
diagnosi è basata sul riscontro di iperglicemia al profilo biochimico, elevati livelli di fruttosamina e glicosuria. La neuropatia diabetica si sviluppa comunemente nei gatti con livelli di
glucosio persistentemente elevati o glicemia ampiamente fluttuante. Le anomalie elettrofisiologiche rivelano classicamente
una demielinizzazione primaria ed una minore degenerazione
assonale lungo l’intero decorso dei nervi periferici sensoriali
e motori ed in corrispondenza delle radici nervose. Le biopsie
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del nervo periferico mostrano le classiche alterazioni di ballonizzazione e distacco della guaina mielinica. La corretta attuazione del trattamento e del controllo della funzione metabolica sottostante esita nel miglioramento e nella possibile regressione della neuropatia, benché possano occorrere parecchie
settimane o mesi per il ritorno alla normalità. Il trattamento è
di conseguenza costituito dalla possibile somministrazione di
ipoglicemizzanti orali (ad es., glipizide, 2,5-5 mg BID), acarbosio con lento assorbimento del glucosio o iniezione sottocutanea di insulina PZI. Il corretto controllo della dieta con
bassi livelli di carboidrati (CHO > 10%) da solo può significativamente migliorare la neuropatia diabetica.
IPOTIROIDISMO: L’ipotiroidismo non controllato può
condurre alla fine a progressiva debolezza simmetrica con
atrofia muscolare e diminuzione dei riflessi in tutti gli arti.
Inoltre, i cani con ipotiroidismo possono sviluppare una disfunzione monolaterale dei nervi cranici costituita nella maggior parte dei casi dalla paresi del nervo facciale. Altre neuropatie craniche descritte sono rappresentate da paralisi
laringea, megaesofago e vestibulopatia periferica. Possono o
meno essere presenti segni palesi di ipotiroidismo.
La diagnosi della neuropatia ipotiroidea è basata sul
riscontro positivo dell’ipotiroidismo (bassi livelli sierici di
T4 totale e libera ed innalzamento delle concentrazioni di
TSH endogeno), unitamente alla conferma della neuropatia
mediante elettrofisiologia e biopsia muscolare e nervosa. Il
trattamento dell’ipotiroidismo (L-tiroxina, 22 μg/kg BID
PO) può portare al miglioramento della neuropatia generalizzata (che può richiedere sei mesi) benché le neuropatie
craniche tendano a non rispondere.
NEUROPATIA ASSOCIATA AD INSULINOMA: Questa condizione si osserva principalmente nei cani di media età
o più anziani appartenenti alle razze di grossa taglia, secondariamente ad un tumore funzionale del pancreas. I segni clinici
di solito sono rappresentati da tremori muscolari con paraparesi o tetraparesi da MNI (necrosi/ demielinizzazione degli assoni), in genere in associazione con encefalopatia (crisi convulsive, alterazioni del sensorio o del comportamento). La diagnosi è costituita dal riscontro di livelli sierici di glucosio a digiuno < 60 mg/dl, unitamente ad un rapporto corretto insulina:glucosio > 30. L’esame ecografico dell’addome può evidenziare
una massa pancreatica, ma non sempre. Il trattamento d’elezione è la rimozione chirurgica del tumore, anche se alcuni
possono essere molto difficili o impossibili da individuare. Se
la massa è inoperabile, il trattamento con prednisone (0,5
mg/kg PO BID) ± diazossido (3-5 mg/kg PO TID) consente
spesso di alleviare molti dei segni clinici.
NEUROPATIA PARANEOPLASTICA: Si tratta di una
condizione comunemente associata ad (adeno)carcinomi
(broncogeno, mammario e tiroideo), melanomi, osteosarcomi, mastocitomi e linfosarcomi. Questi animali vengono
portati alla visita con i classici segni da MNI a carico dei
nervi spinali e/o cranici. Alcuni casi colpiti da una qualsiasi
delle forme neoplastiche sopracitate possono inizialmente
essere subclinici per quanto riguarda la neuropatia associata.
Altri, con una neuropatia generalizzata possono non presentare manifestazioni iniziali riferibili alla neoplasia in fase di
98
avvio. La diagnosi ruota intorno alla dimostrazione di un
tumore primario abbinata alla prova elettrodiagnostica di
una degenerazione assonale (alterazioni EMG) e di una
demielinizzazione (velocità di conduzione nervosa lenta).
Anche il prelievo di biopsie muscolari e nervose può essere
utile. Il trattamento è costituito dalla rimozione o dalla terapia del tumore primario in associazione con immunosoppressione mediante corticosteroidi.
LINFOSARCOMA ED INFEZIONE DA FeLV: Il linfosarcoma nel gatto (associato o meno ad infezione da
FeLV) è in grado di produrre molteplici mononeuropatie
(mononeuropatie multiple) oppure una sindrome simile
all’assonopatia distale dovuta all’estesa proliferazione
all’interno ed intorno ai nervi periferici e spinali. Anche l’infezione da FeLV senza linfosarcoma può provocare delle
classiche polineuropatie acute o croniche recidivanti (assonopatia e demielinizzazione). Il linfosarcoma in questa
situazione di solito è associato ad infezione da FeLV, in cui
è comune la diffusione metastatica al sistema nervoso. Nonostante la chemioterapia sistemica o intratecale, la prognosi
è sfavorevole (soprattutto nei gatti con infezione da FeLV) a
causa della rapidissima diffusione del tumore. In presenza di
un linfoma extradurale sarebbe fattibile la radioterapia palliativa, dal momento che si tratta di un tumore altamente
radiosensibile. Un’altra opzione terapeutica per il linfoma
del SNC è la citosina arabinoside.
POLINEUROPATIE INFIAMMATORIE CRONICHE: Si tratta di neuropatie su base immunitaria che si possono presentare con un decorso cronico progressivo oppure
cronico recidivante. Queste neuropatie infiammatorie croniche
probabilmente riconoscono un’eziologia ed una patogenesi
simile alla paralisi del coonhound, benché ovviamente si
riscontrino un’insorgenza ed un decorso clinico molto più graduali. A differenza della CHP, si può avere l’asimmetria dei
segni clinici. Oltre alla neuropatia generalizzata, questa condizione può esitare in paresi del facciale e disfonia/afonia. Il trattamento consiste nell’immunosoppressione con prednisone (11,5 mg/kg PO BID), azatioprina (2 mg/kg PO die) e/o ciclofosfamide (50 mg/m2 PO SID 3-4 giorni/settimana).
ASSONOPATIA PERIFERICA
PROGRESSIVA CRONICA
Si tratta di un’assonopatia progressiva non infiammatoria
e non immunitaria che tende ad essere una delle possibili
diagnosi differenziali in caso di esito normale degli esami
ematochimici, dei test endocrini e delle radiografie ed ecografie del torace e dell’addome. Dal punto di vista elettrofisiologico, questa sindrome presenta denervazione (attività
spontanea all’EMG) e diminuzione delle ampiezze di
CMAP. La biopsia muscolare rivela vari gradi di denervazione (atrofia delle miofibre di tipo I e II), mentre quella nervosa mostra una degenerazione assonale senza infiltrati
infiammatori. Questa neuropatia è inesorabilmente progressiva e l’immunosoppressione non migliora i segni clinici. Il
trattamento più promettente sembra essere costituito da un
farmaco sperimentale, il Prosaposin.
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Myopathy I and II
Paul A. Cuddon
BVSC, DACVIM (Neurology), Associate Professor, Colorado State University
The clinical signs of myopathy are numerous and often
nonspecific. Typical signs would include weakness and muscle atrophy, stiffness/short-strided gait, muscle tremors and
cramping, occasional muscle hypertrophy, lameness, and
exercise induced weakness. Reflexes are often normal or
only mildly decreased. Muscle pain may be the main presenting sign. Sensory function is normal.
Diagnostic aids in muscle disease include routine bloodwork, including the muscle enzymes CK and AST (a rise in
serum CK is the most useful biochemical indicator of muscle degeneration), plasma electrolytes, plasma lactate and
pyruvate (pre & post-exercise), plasma, urine, and muscle
carnitine levels, and urine organic and plasma amino acid
profiles. For carnitine quantitation, you will need plasma
(heparinized) - 3 ml, urine - 10 ml, and frozen muscle. Carnitine analysis will diagnose primary or secondary carnitine dysfunction. Abnormalities are most commonly associated with lipid accumulation within myofibers. Lactate
and pyruvate are produced when glucose is metabolized by
muscle to produce energy. Lactic academia is associated
with enzyme defects in the metabolic pathways for pyruvate and lactate. When measuring lactate and pyruvate, a
ratio of lactate to pyruvate is calculated. Normal values are
as follows: Resting Lactate/Pyruvate ratio = 17.0 +/- 8.2;
immediately after exercise = 20.5 +/- 5.9; and 30 minutes
post exercise = 20.6 +/- 5.2.
To evaluate structural changes within myofibers, a muscle
biopsy will be essential. Select a muscle that is affected (via
EMG) but is not end stage for biopsy. A proximal muscle is
usually best for myopathy, whereas a distal muscle is usually best for neuropathy. The external intercostal muscle is
best for AchR quantitation for myasthenia gravis.
HEREDITARY MYOTONIA CONGENITA: This
autosomal recessive trait is characterized clinically by active
contraction of a muscle that persists after the cessation of
voluntary effort or stimulation. The underlying defect is
thought to originate in an abnormal muscle membrane that
discharges trains of repetitive action potentials in response to
depolarization. It has been reported in the Chow, Miniature
Schnauzer, and in cats. Biochemically, there is a diminished
sarcolemmal chloride conductance. In the Schnauzer, the
genetic basis has been found to involve a missense mutation
in both alleles of the gene encoding skeletal muscle voltagedependent chloride channel ClC-1. Methionine replaces
threonine residue in D5 transmembrane segment of Cl channel near ion pore. This results in abnormal channel function.
Clinical signs consist of stiffness on rising and walking,
especially after rest, which is noted when pups first ambu-
late. There is also reduced flexion of the thoracic limbs, with
the pelvic limbs commonly demonstrating a bunny hopping
gait. Muscle tone is normal, but the muscles are hypertrophied. A myotonic dimple is invariably present. Dogs show
a normal serum CK levels, but commonly have a hypocholesterolemia. There is very slow progression of signs. Complications, such as patellar luxation, may develop, but dogs
can survive for many years.
Diagnosis of hereditary myotonia initially is suspected
when a myotonic dimple is produced with percussion of a
skeletal muscle. Electromyography produces an unequivocal
diagnosis. High frequency discharges are produced with a
waxing and waning of discharge amplitude and frequency.
Drugs which stabilize cell membranes have been used to
treat myotonia (procainamide, mexiletine, quinidine, and
phenytoin). These drugs are antagonists to voltage-gated
sodium channels. Procainamide (extended release) is given
at a dose of 40-50 mg/kg PO BID-TID, which is reported to
give the best results. Mexiletine (8.3 mg/kg TID) has a similar efficacy.
MUSCULAR DYSTROPHY: This myopathy has an X
linked mode of inheritance similar to human Duchene
muscular dystrophy. There is an absence of the protein
dystrophin in striated muscle due to an abnormality in the
dystrophin gene, which is on the X-chromosome. Dystrophin links the myofiber cytoskeleton to the extracellular matrix. Muscular dystrophy is seen in Golden Retrievers, Irish terriers, Rottweilers, Samoyeds, Labradors, and
in cats. There is a high mutation rate since the dystrophin
gene is exceptionally large and different breeds have a different mutation within this same gene to produce a phenotypically similar syndrome. Golden Retrievers have a
mutation in intron 6, Rottweilers have a mutation in exon
58, Labradors have a mutation in intron 20, and GSHPs
have a large deletion in the gene.
Dogs and cats with muscular dystrophy have muscle
hypertrophy or atrophy. There is a progressive restriction
of gait starting at 6 to 8 weeks of age, with weakness, a
stiff, stilted shuffling gait and a plantigrade stance. There is
excess salivation (glossal hypertrophy or dysphagia), limb
abduction, a bunny-hopping gait, exercise intolerance, and
a weak bark. Some dogs remain ambulatory into middle
age, however, there is a fulminant neonatal form. Some
develop cardiomyopathy.
Initial diagnostic suspicion is based on seeing characteristic signs in a young male Golden Retriever, Rottweiler, or
Samoyed pup. These dogs have dramatic increases in CK
(10,000 ++ U/L) and dramatic EMG changes. Muscle biop-
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sy shows hyaline fibers, phagocytosis, large/prominent
nuclei, regenerating fibers, absence of dystrophin staining,
decreased staining for α-sarcoglycan and increased staining
for utrophin. There is no treatment for this myopathy, with
the only course of action being supportive care with feeding
gruel mixtures. Possible future treatments would include
myoblast transplantation and gene therapy. The long term
prognosis is poor.
CENTRONUCLEAR MYOPATHY IN LABRADOR
RETRIEVERS: Inheritance is autosomal recessive, with
the genetic defect being an abnormality on canine chromosome 2 (CFA02). Clinical signs become evident between 3
and 6 months. Muscle biopsies indicate some variation in
fiber size with a slight increase in endomysial and perimysial connective tissue. Fiber typing shows a predominance of type I and deficiency of type II fibers. Other observations suggest the possibility of neuropathic changes in
biopsied muscle.
Clinical signs consist of neck weakness, followed by exercise induced weakness. Both are aggravated by cold or
excitement and recover after periods of res. Muscle atrophy
occurs especially in the masticatory muscles and male dogs
can develop priapism. Serum CK levels are not elevated but
a creatinuria may be present. No further signs develop after
6 months, although dogs remain stunted with severe generalized loss of skeletal muscle bulk.
Diagnosis is based on breed, age of onset, clinical and
electrophysiological signs and, if necessary, muscle biopsy
(biceps or triceps muscle). There is no successful treatment,
but dogs have lived up to 6 years.
•
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OTHER INHERITED MYOPATHIES
Muscular dystrophy with merosin (laminin a2) def.
Muscular dystrophy with absence of sarcoglycans
PDH def. – Clumber and Sussex Spaniels
Exercise induced collapse - Labrador Retrievers
Hypertonic myopathy - Cavalier King Charles Spaniels
Glycogenoses
Nemaline rod myopathy
CANINE LIPID STORAGE MYOPATHIES: These
myopathies are characterized by abnormal amounts of lipid
accumulation in muscle with the lipid accumulation being
the predominant pathologic alteration. Most are associated
with a derangement of carnitine metabolism (either 1o or 2o),
with mitochondrial abnormalities or with disorders of fatty
acid oxidation involving β-oxidation.
Clinical signs consist of acute or chronic poorly localizable muscle pain, muscle atrophy, weakness, stiffness, and
lameness, exercise intolerance, muscle tremors, +/-cardiomyopathy. Lipid myopathy is seen in any aged dog with
no sex predilection, although the majority of dogs are adults.
Diagnosis initially entails electrophysiologic evaluation, followed by evaluation of lactate (pre and post-exercise) and
pyruvate levels in plasma and urine, as well as carnitine
quantitation (total, free, and esterified) in muscle, plasma,
and urine. Quantitative urine organic acid analysis differentiates pathologic causes of lactic academia. The mainstay of
diagnosis is muscle biopsy, in which there is an accumula-
100
tion of lipid droplets within myofibers in fresh-frozen muscle biopsies (oil red-O stain).
If there are low levels of muscle carnitine (primary), treat
with oral L-carnitine at 50 mg/kg BID (response is not as
good in animals where the decrease in muscle carnitine is
secondary to significant lactic and pyruvic aciduria), Coenzyme Q10 at 1 mg/kg PO daily, Riboflavin (50-100 mg PO
daily), Vitamin C (50 mg/kg PO daily), and dietary manipulation - low fat, high CHO, high protein diet with supplementation with medium-chain triglycerides.
IDIOPATHIC POLYMYOSITIS: This myopathy can
have an association with SLE or other immune based polyarthritis unassociated with SLE. There also can be a relationship between myositis and cancer, or an immune, paraneoplastic syndrome associated with thymoma. Whatever
the initiating cause, the muscle damage probably is immune
mediated. In polymyositis, there is a primarily T cell mediated reaction, initiated by an oligoclonal expansion of
autoaggressive T cells with an increased expression of CD25
& HLA-DR. In human polymyositis, the invading T cells are
mainly CD3+CD8+ and LFA-1+. The myofibers and
endothelial cells surrounded by T cells have an increased
staining for ICAM-1. The suspected primary targets for
these T cells are MHC-class I-positive myofibers. There is a
breed associated polymyositis seen in young Newfoundlands from 6 months to 5 years of age. It is suspected to be
an immune or autoimmune mechanism. At this time, there is
no evidence of a familial relationship.
Clinical signs of polymyositis include exercise intolerance/weakness, generalized appendicular muscle atrophy as
well as atrophy of the masticatory muscles, dysphagia,
ptyalism, regurgitation/megaesophagus,
laryngeal dysfunction, resulting in respiratory stridor, and
decreased jaw opening. Muscle pain is an INFREQUENT
FINDING. Diagnosis is based again on clinical signs, electrophysiology, and muscle biopsy. Serum CK levels do not
have to be elevated.
The treatment of choice for polymyositis is immunosuppression with corticosteroids at a dose of 1-1.5 mg/kg BID.
Second line therapy would be azathioprine at an initial
dose of 2 mg/kg SID. Prednisone and azathioprine are frequently used in combination. Third line drugs, if necessary,
would include mycophenolate, methotrexate, cyclophosphamide, or cyclosporine. If drug immunosuppression
fails, other potential therapy modalities would comprise IV
immunoglobulin therapy, total body irradiation, or plasmapheresis.
PROTOZOAL MYOSITIS: Protozoal myositis is
caused by either Toxoplasma gondii or Neospora caninum.
Neospora caninum is now thought to be the major cause of
a radiculoneuritis and polymyositis occurring in young pups
between 2 and 4 months of age. Infection in most instances
is thought to extend from the dam via the placenta.
Clinical signs in young pups consist of a progressive, rigid
paraplegia with the pelvic limbs being difficult or impossible
to flex even under anesthesia (thoracic limbs normal). Pelvic
limb reflexes cannot be elicited, although pain sensation often
is retained. Muscles are often firm on palpation and may be
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atrophied. In some dogs, signs are predominantly those of
polymyositis, with generalized weakness that worsens on
exercise. On bloodwork, there is often a raised serum CK level +/- eosinophilia. Serum titers to N. caninum are invariably
positive, whereas titers to T. gondii are usually negative. EMG
studies reveal generalized spontaneous activity. CSF analysis
commonly shows a mixed pleocytosis with eosinophils. Muscle biopsy reveals a necrotizing polymyositis, although protozoal cysts are very difficult to find. Neospora also produces a
polyradiculoneuritis in infected dogs.
IMMUNE MYOSITIS OF MASTICATORY MUSCLES: This is an autoimmune disorder directed against the
Type 2M myofibers peculiar to the dorsal group of masticatory muscles innervated by the mandibular nerve. There are circulating antibodies to Type 2M masticatory muscle fiber proteins which do not cross react with limb muscle fibers. There
is a necrotizing myositis, with regenerative changes and infiltrates of primarily mononuclear cells. In the more chronic
forms, connective tissue is markedly increased in volume.
There are two forms of masticatory myositis – an acute, often
painful, masticatory myositis and a more chronic, progressive
atrophy of the masticatory muscles without pain. In the acute
form, there is swelling of the masticatory muscles, sometimes
sufficient to produce exophthalmos and pain on opening the
mouth. The masticatory muscles may feel edematous. There
may be enlarged tonsils and submaxillary lymph nodes as
well as possible pyrexia. The dog may show a degree of
malaise. There is often a neutrophilia and in some instances an
eosinophilia. Other possible findings would be a mild anemia
and raised globulin levels. The chronic form may follow an
acute episode or develop insidiously. Major features are atrophy of the masticatory muscles and limitation of jaw opening.
Atrophy is usually, though not invariably, bilateral.
Masticatory myositis is suspected on clinical grounds and
confirmed by biopsy. Eosinophils are NOT a distinctive feature. On electromyography, there is an increase in insertion
and spontaneous activity, although in severely fibrotic muscles, there is no spontaneous EMG activity. In the acute disease, CK is usually increased, although this may not be the
case in chronic disease. The definitive diagnosis is a positive
serum anti-type 2M myofiber antibody assay. Muscle biopsy of the masticatory muscles can also be beneficial.
Treatment consists of immunosuppression with prednisolone at a dose of 1 to 2 mg/kg P.O. bid for an initial 4
weeks (even though acute signs may have resolved), then
reduce to 1/2 mg/kg P.O. bid for 1 month then decrease
dosage further over the next several months. Steroids are
indicated to suppress inflammation, reduce connective tissue
formation and suppress the immune response. Other
immunosuppressive drugs (azathioprine) can be used. The
disease often recurs, so repeated or continuous therapy may
be necessary in some dogs. It is unlikely that atrophy in
chronic cases will improve much even with aggressive therapy, and may lead to an inability to open the jaw.
FELINE HYPOKALEMIC POLYMYOPATHY:
Decreased total body potassium produces initial muscle cell
membrane hyperpolarization. With continued K+ decrease,
the membrane becomes more permeable to Na+, leading to
101
hypopolarization and myopathic weakness. A K+ losing
nephropathy has been postulated as the cause for the total
body K+ depletion. Chronic dietary deficiency in potassium
may also contribute in some cats.
Cat with hypokalemic myopathy develop a sudden onset
of generalized weakness, pronounced cervical ventroflexion and a reluctance to walk (stiff). Affected cats also show
significant muscle pain. Cats commonly demonstrate
decreased serum K+ (2.0 - 3.3 mEq/L), increased CK (up
to 10,000 IU/L), increased serum creatinine and/or BUN,
and metabolic acidosis. These cats usually have negative
FeLV titers. Generalized EMG abnormalities are usually
detected although muscle biopsies are often normal on
light microscopy. Measurement of fractional excretion of
urinary potassium reveals a significantly increased renal
potassium loss. Treatment consists of oral K+ supplementation, with resultant significant improvement in muscle
strength within 2-3 days. There will be a gradual complete
resolution. Permanent daily potassium supplementation is
recommended. Oral potassium supplementation is usually
with Tumil-K (potassium gluconate) at a dose of 5-10
mEq/cat/day divided BID in severe cases and 2-4
mEq/cat/day in mild cases. Prognosis is guarded to favorable
(related to degree of renal disease).
HYPOPTHYROIDISM: There is a mild clinical (to
subclinical) myopathy in mature dogs proposed to be related to a disturbance in CHO metabolism secondary to
hypothyroidism. Clinical signs consist of weakness, stiffness, myalgia, and muscle atrophy. There is preferential
type II myofiber atrophy, nemaline rods, and glycogen
accumulation on muscle biopsies. Treating the underlying
hypothyroidism will usually lead to a resolution of this
mild myopathy.
CUSHING’S MYOPATHY: Cushing’s disease can produce a degenerative myopathy secondary to the excess in
corticoids in the body. Clinical signs can be dramatic with a
stiff gait, muscle atrophy, pelvic limb rigidity, and
pseudomyotonia (dimpling & EMG changes). On muscle
biopsy, histopathologic changes consist of Type II myofiber
atrophy, subsarcolemmal masses, focal necrosis, excess
intramyofiber lipid, fiber size variation, & fiber splitting.
The proposed pathogenesis of Cushing’s myopathy is related to increased protein catabolism and inhibited synthesis of
myofibrillar proteins. Increases in circulating ACTH are also
myopathic. With treatment, either with Lysodren or
Trilostane, the muscle weakness reverses (often taking
months). However, the muscle rigidity may remain.
HYPERTHROIDISM ASSOCIATED MYOPATHY:
12% - 17% of hyperthyroid cats develop muscle weakness,
30% develop muscle tremors and 1% - 3% develop ventral
neck flexion. These cats also have decreased ability to jump
and fatigability associated with exercise. The prognosis for
weakness resolution however is good with treatment with
either radioactive iodine, surgical removal, or with Tapazole.
Note that Tapazole may induce muscle weakness and antiAChR antibodies at 2-4 months after treatment initiation.
This drug also has been associated with fine muscle tremors.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
102
Miopatie I e II
Paul A. Cuddon
DVM, Bvsc Dipl Acvim(Neurology), Colorado, Usa
I segni clinici della miopatia sono numerosi e spesso
aspecifici. Le manifestazioni tipiche comprendono debolezza ed atrofia muscolare, andatura rigida e con passo corto, tremori muscolari e crampi, occasionalmente ipertrofia
muscolare, zoppia e debolezza indotta dall’esercizio. I
riflessi sono spesso normali o solo lievemente diminuiti. Il
dolore muscolare può essere il principale segno clinico al
momento della presentazione alla visita. La funzionalità
sensoriale è normale.
I mezzi diagnostici nelle miopatie sono rappresentati dalle indagini ematochimiche di routine, come la determinazione dei livelli degli enzimi muscolari CK ed AST (un aumento delle concentrazioni sieriche di CK è il più utile indicatore biochimico di una degenerazione muscolare), degli elettroliti plasmatici, dei livelli plasmatici di lattato e piruvato
(pre & post-esercizio), delle concentrazioni di carnitina in
plasma, urina e muscolo e dei profili aminoacidici organici e
plasmatici. Per la quantificazione della carnitina, è necessario disporre di un campione di plasma eparinizzato (3 ml),
urina (10 ml) e muscolo congelato. L’analisi della carnitina
permette di diagnosticare le disfunzioni primarie o secondarie della carnitina stessa. Le anomalie nella maggior parte
dei casi sono associate ad accumulo di lipidi all’interno delle miofibre. Lattati e piruvati vengono prodotti quando il
glucosio viene metabolizzato dal muscolo per produrre energia. L’acidemia lattica è associata a livelli enzimatici nelle
vie metaboliche del piruvato e del lattato. Quando si misurano lattati e piruvati, è necessario calcolare il rapporto dei primi rispetto ai secondi. I valori normali del rapporto lattato/piruvato sono i seguenti: a riposo = 17,0 ± 8,2; immediatamente dopo l’esercizio = 20,5 ± 5,9; 30 minuti dopo l’esercizio = 20,6 ± 5,2.
Per valutare le modificazioni strutturali che avvengono
all’interno delle miofibre, è essenziale una biopsia muscolare. Allo scopo, bisogna scegliere (mediante EMG) un
muscolo che sia colpito ma non nello stadio terminale. Di
solito per la miopatia è preferibile impiegare un muscolo
prossimale, mentre per le neuropatie in genere sono meglio
quelli distali. Il muscolo intercostale esterno è il più adatto
per la quantificazione dell’AchR in caso di myasthenia
gravis.
MIOTONIA EREDITARIA CONGENITA: si tratta di
una malattia trasmessa da un carattere autosomico recessivo,
caratterizzata clinicamente dalla contrazione attiva di un
muscolo che persiste dopo la cessazione dello sforzo volontario o della stimolazione. Si ritiene che il difetto che sta alla
base del problema abbia origine da un’anomalia della membrana muscolare che scarica treni di potenziali d’azione ripe-
tuti in risposta alla depolarizzazione. La condizione è stata
segnalata in chow-chow, schnauzer nano e gatto. Dal punto
di vista biochimico, si ha una diminuzione della conduttanza del cloro a livello del sarcolemmma. Nello schnauzer, è
stato riscontrato che la base genetica coinvolge una mutazione senza senso di entrambi gli alleli del gene che codifica nella muscolatura scheletrica il canale del cloro voltaggio-dipendente ClC-1. La metionina sostituisce il residuo di
treonina nel segmento transmembranario D5 del canale del
cloro vicino al poro ionico. Ciò esita in un’anormale funzionalità del canale stesso.
I segni clinici sono rappresentati da una rigidità che si
manifesta quando l’animale si alza e cammina, soprattutto
dopo il riposo, e viene notata quanto i cuccioli iniziano per
la prima volta a camminare. Si ha anche una riduzione della
flessione degli arti toracici, mentre quelli pelvici mostrano
comunemente un’andatura a salti da coniglio. Il tono muscolare è normale, ma i muscoli sono ipertrofici. È invariabilmente presente la formazione di una fossetta miotonica. I
cani mostrano livelli sierici di CK normali, ma sono comunemente affetti da ipercolesterolemia. È presente una progressione molto lenta dei segni clinici. Si possono sviluppare delle complicazioni, come la lussazione rotulea, ma gli
animali colpiti possono sopravvivere per molti anni.
La diagnosi di miotonia ereditaria viene inizialmente
sospettata quando si osserva la formazione di una fossetta
miotonica in seguito alla percussione di un muscolo scheletrico. L’elettromiografia consente di giungere ad una diagnosi inequivocabile. Vengono prodotte scariche ad alta frequenza con ampiezza e frequenza altalenanti. Per trattare la
miotonia sono stati utilizzati i farmaci che stabilizzano le
membrane cellulari (procainamide, mexiletina, chinidina e
fenitoina). Questi agenti sono antagonisti dei canali del
sodio regolati dal voltaggio. La procainamide (a rilascio prolungato) viene somministrata alla dose di 40-50 mg/kg PO
BID-TID), che, secondo quanto segnalato in letteratura, consente di ottenere i migliori risultati. La mexiletina (8,3
mg/kg TID) ha un’efficacia simile.
DISTROFIA MUSCOLARE: questa miopatia viene trasmessa ereditariamente con modalità X-linked, analogamente a quanto avviene nell’uomo per la distrofia muscolare di
Duchene. Nella muscolatura striata risulta assente una proteina, la distrofina, a causa di un’anomalia del gene che la
codifica, che si trova sul cromosoma X. La distrofina lega il
citoscheletro delle miofibre alla matrice extracellulare. La
distrofia muscolare si osserva in golden retriever, Irish terrier, rottweiler, samoiedo, Labrador e gatti. È presente un’elevata frequenza di mutazione, dal momento che il gene del-
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la distrofina è eccezionalmente grande e razze diverse presentano una mutazione differente all’interno di questo stesso gene in modo da determinare una sindrome fenotipicamente simile. Il golden retriever presenta una mutazione nell’introne 6, i rottweiler nell’esone 58, i Labrador nell’introne 20 ed i pastori tedeschi mostrano una grande delezione
del gene. I cani ed i gatti con distrofia muscolare hanno un’ipertrofia o atrofia del muscolo. Si osserva una progressiva
restrizione dell’andatura a partire dall’età di 6-8 settimane,
con debolezza, deambulazione rigida, innaturale e strascicata, con stazione da plantigrado. Si riscontrano poi eccesso di
salivazione (ipertrofia della lingua o disfagia), abduzione
degli arti, andatura a salti da coniglio, intolleranza all’esercizio e debolezza del latrato. Alcuni cani restano in grado di
camminare anche nella media età, tuttavia esiste una forma
neonatale fulminante. Alcuni soggetti sviluppano una miocardiopatia.
Il sospetto diagnostico iniziale viene basato sull’osservazione dei segni clinici caratteristici in un giovane cucciolo di
golden retriever, rottweiler o samoiedo maschio. Questi cani
mostrano un incremento impressionante dei livelli di CK
(10.000 ++ U/l) ed imponenti modificazioni dell’EMG. La
biopsia muscolare evidenzia fibre ialine, fagocitosi, nuclei
grandi/prominenti, fibre in via di rigenerazione, assenza di
colorazione per la distrofina, diminuzione della colorazione
per l’α-sarcoglicano ed incremento della colorazione per
l’utrofina. Non esiste alcuna terapia per questa miopatia, per
cui l’unico intervento attuabile è rappresentato dagli interventi di sostegno alimentando gli animali con miscele semiliquide. In futuro, i possibili trattamenti saranno rappresentati dal trapianto di mioblasti e dalla terapia genica. La prognosi a lungo termine è sfavorevole.
MIOPATIA CENTRONUCLEARE NEL LABRADOR RETRIEVER: La trasmissione ereditaria è di tipo
autosomico recessivo, con un difetto genetico rappresentato
da un’anomalia del cromosoma 2 del cane (CFA02). I segni
clinici si rendono evidenti fra tre e sei mesi. Le biopsie
muscolari indicano una certa variazione delle dimensioni
delle fibre con un lieve incremento del tessuto connettivo di
endomisio e perimisio. La tipizzazione delle fibre mostra un
predominio di quelle di tipo I ed una carenza di quelle di tipo
II. Altre osservazioni suggeriscono la possibilità di modificazioni neuropatiche in campioni di muscolo sottoposti a
biopsia.
I segni clinici sono rappresentati da debolezza del collo,
seguita da debolezza indotta dall’esercizio. Entrambe queste forme sono aggravate dal freddo o dall’eccitazione e
seguite da un recupero dopo periodi di riposo. L’atrofia
muscolare si verifica in particolare nei muscoli masticatori
ed i cani maschi possono sviluppare un priapismo. I livelli
sierici di CK non sono elevati, ma può essere presente una
creatinuria. Dopo i sei mesi non si sviluppano altri segni
clinici, benché i cani continuino a presentare uno scarso
accrescimento con grave perdita generalizzata della massa
muscolare scheletrica.
La diagnosi si basa su razza, età di insorgenza, segni clinici e quadri elettrofisiologici e, se necessario, biopsia
muscolare (bicipite o tricipite). Non esiste alcun trattamento
efficace, ma alcuni cani sono sopravvissuti fino a sei anni.
103
ALTRE MIOPATIE EREDITARIE:
• Distrofia muscolare con carenza di merosina (laminina
α2)
• Distrofia muscolare con assenza di sarcoglicani
• Carenza di PDH – Clumber e Sussex spaniel
• Collasso indotto da esercizio – Labrador retriever
• Miopatia ipertrofica – Cavalier King Charles spaniel
• Glicogenosi
• Miopatia Nemaline rod
MIOPATIE DA ACCUMULO DI LIPIDI NEL CANE:
Queste miopatie sono caratterizzate dalla presenza di accumuli di lipidi in quantità anormali nel muscolo, dove tale
accumulo costituisce l’alterazione patologica predominante.
La maggior parte dei casi viene associata ad un’alterazione
del metabolismo della carnitina (sia di tipo primario che
secondario), con anomalie mitocondriali o disordini dell’ossidazione degli acidi grassi con coinvolgimento della β-ossidazione.
I segni clinici sono rappresentati da dolore muscolare
acuto o cronico scarsamente localizzabile, atrofia muscolare, debolezza, rigidità e zoppia, intolleranza all’esercizio,
tremori muscolari ± miocardiopatia. La miopatia da lipidi si
osserva in cani di qualsiasi età senza alcuna predilezione di
sesso, benché la maggior parte dei soggetti colpiti sia rappresentata da adulti. La diagnosi inizialmente prevede la
valutazione elettrofisiologica, seguita dalla determinazione
dei livelli di lattati (pre- e post-esercizio) e piruvati nel plasma e nell’urina, nonché dalla quantificazione della carnitina (totale, libera ed esterificata) in muscolo, plasma ed urina. L’analisi quantitativa degli acidi organici permette di differenziare le cause patologiche dell’acidemia lattica. Il caposaldo della diagnosi è la biopsia muscolare, in cui si riscontra un accumulo di gocce lipidiche all’interno delle miofibre
nei campioni bioptici di muscolo freddo, congelato (colorazione con olio rosso O).
Se sono presenti bassi livelli di carnitina muscolare (primaria), il soggetto va trattato con L-carnitina per os alla dose
di 50 mg/kg/bid (la risposta non è così buona negli animali
in cui l’alterazione a carico della carnitina muscolare è
secondaria ad una significativa aciduria lattica e piruvica),
Coenzima Q10 alla dose di 1 mg/kg/die PO, riboflavina (50100 mg/die PO), vitamina C (50 mg/kg/die PO) e modificazione della dieta – bassi livelli di grassi, elevato tenore di
carboidrati, dieta ricca di proteine con integrazione con trigliceridi a catena media.
POLIMIOSITE IDIOPATICA: Questa miopatia può
avere un’associazione con il LES o con altre poliartriti su
base immunitaria non abbinate ad esso. Può anche esistere
una relazione fra la miosite e la neoplasia, oppure una sindrome paraneoplastica immunologica associata a timoma.
Indipendentemente dalla causa scatenante, il danno muscolare probabilmente risulta mediato dal sistema immunitario. Nella polimiosite, si ha una relazione mediata principalmente dalle cellule T, che viene iniziata da un’espansione oligoclonale degli elementi T autoaggressivi con un
incremento dell’espressione di CD25 ed HDL-DR. Nella
polimiosite dell’uomo, le cellule T responsabili dell’invasione sono principalmente CD3+ CD8+ e LFA-1+. Le mio-
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fibre e gli elementi endoteliali circondati dalle cellule T
hanno una aumentata colorazione per ICAM-1. I presunti
bersagli primari di queste cellule sono le miofibre MAHCclasse 1-positive. Esiste una polimiosite razza-associata
osservata nei giovani Terranova di età compresa fra 6 mesi
a 5 anni. Si sospetta che si tratti di un meccanismo immune o autoimmune. Attualmente, non ci sono prove di una
relazione familiare.
I segni clinici della polimiosite sono rappresentati da
intolleranza all’esercizio/debolezza, atrofia muscolare
appendicolare generalizzata ed atrofia dei muscoli masticatori, disfagia, ptialismo, rigurgito/megaesofago, disfunzione
laringea, conseguente stridore respiratorio e diminuzione
dell’apertura delle fauci. Il dolore muscolare è un RISCONTRO INFREQUENTE. La diagnosi si basa su segni clinici,
elettrofisiologia e biopsia muscolare. I livelli sierici di CK
non devono essere elevati.
Il trattamento d’elezione della polimiosite è l’immunosoppressione con corticosteroidi alla dose di 1-1,5 mg/kg
BID. La seconda linea di terapia è rappresentata dall’azatioprina ad una dose iniziale di 2 mg/kg SID. Prednisone ed
azatioprina vengono frequentemente utilizzati in combinazione. Il farmaco di terza linea, se necessario, dovrebbe essere rappresentato da microfenolato, metotressato, ciclofosfamide o ciclosporina. Se l’immunosoppressione farmacologica fallisce, altre potenziali modalità terapeutiche possono
prevedere la somministrazione di immunoglobuline IV, l’irradiazione di tutto il corpo o la plasmaferesi.
MIOSITE PROTOZOARIA: La miosite protozoaria è
causata da Toxoplasma gondii o Neospora caninum. Quest’ultimo è oggi ritenuto la principale causa di radicoloneurite e polimiosite che colpisce i giovani cuccioli di età compresa fra due e quattro mesi. Nella maggior parte dei casi, si
ritiene che l’infestazione venga trasmessa dalla madre attraverso la placenta.
I segni clinici nei cuccioli giovani sono rappresentati da
una progressiva paraplegia rigida con gli arti pelvici difficili o impossibili da flettere anche sotto anestesia (mentre gli
arti toracici sono normali). I riflessi degli arti pelvici non
possono venire suscitati, anche se la sensibilità dolorifica è
spesso conservata. I muscoli sono frequentemente duri alla
palpazione e possono essere atrofici. In alcuni cani, i segni
clinici sono principalmente quelli della polimiosite, con
debolezza generalizzata che si aggrava con l’esercizio. Agli
esami ematochimici si riscontra spesso un innalzamento dei
livelli sierici di CK ± eosinofilia. I titoli sierici anti-N. caninum sono invariabilmente positivi, mentre quelli anti-T.
gondii di solito sono negativi. Gli studi elettromiografici
rivelano un’attività spontanea generalizzata. L’analisi del
liquor evidenzia comunemente una pleocitosi di tipo misto
con eosinofili. La biopsia muscolare mostra una polimiosite necrotizzante, benché le cisti protozoarie siano molto difficili da trovare. Neospora determina anche una poliradicoloneurite nei cani infestati.
MIOSITE IMMUNITARIA DEI MUSCOLI MASTICATORI: Si tratta di un disordine autoimmune diretto contro
le miofibre di tipo 2M, peculiari del gruppo dorsale dei
muscoli masticatori innervati dal nervo mandibolare. In circo-
104
lo si trovano anticorpi diretti contro le proteine delle fibre
muscolari masticatorie dei tipo 2M che non danno origine a
reazioni crociate con le fibre muscolari degli arti. Si ha una
miosite necrotizzante, con modificazioni rigenerative ed infiltrati costituiti principalmente da elementi mononucleari. Nelle forme più croniche, il tessuto connettivo è marcatamente
aumentato di volume. Esistono due forme di miosite masticatoria – una acuta, spesso dolorosa, ed una più cronica, con
atrofia progressiva delle strutture colpite e senza dolore. Nella forma acuta, si riscontra una tumefazione dei muscoli
masticatori, talvolta sufficiente a causare esoftalmo e dolore
all’apertura della bocca. I muscoli masticatori possono venire
percepiti come edematosi. Si può avere un ingrossamento delle tonsille e dei linfonodi sottomascellari, nonché possibile
piressia. Il cane può mostrare un certo grado di malessere.
Spesso si riscontra una neutrofilia ed in alcuni casi un’eosinofilia. Altri possibili rilievi sono rappresentati da lieve anemia
ed aumento dei livelli di globuline. La forma cronica può
seguire un episodio acuto oppure svilupparsi in modo insidioso. Le principali caratteristiche sono l’atrofia dei muscoli
masticatori e la limitazione dell’apertura delle fauci. L’atrofia
è di solito, anche se non invariabilmente, bilaterale.
La miosite masticatoria viene sospettata su base clinica e
confermata dalla biopsia. Gli eosinofili NON sono una caratteristica distintiva. All’elettromiografia, si rileva un incremento dell’attività di inserzione e spontanea, benché nei
muscoli gravemente fibrosici non vi sia alcuna attività EMG
spontanea. Nella malattia acuta, la CK è solitamente aumentata, mentre nei casi cronici può non essere così. La diagnosi definitiva è data dalla positività del riscontro a livello sierico di anticorpi anti-miofibre di tipo 2M. Può essere utile
anche la biopsia muscolare dei muscoli masticatori.
Il trattamento consiste nell’immunosoppressione con
prednisolone alla dose di 1-2 mg/kg PO bid per un periodo
iniziale di 4 settimane (anche se i segni acuti possono essersi risolti), da ridurre poi a _ mg/kg PO bid per un mese e poi
diminuendo ulteriormente il dosaggio nell’arco dei mesi
successivi. Gli steroidi sono indicati per spegnere l’infiammazione, ridurre la formazione di tessuto connettivo e sopprimere la risposta immunitaria. Si possono usare anche altri
farmaci immunosoppressori (azatioprina). La malattia spesso recidiva, per cui in alcuni cani può essere necessaria una
terapia ripetuta o continua. È improbabile che l’atrofia nei
casi cronici migliori molto, anche con una terapia aggressiva, e si può arrivare all’incapacità di aprire le fauci.
POLIMIOPATIA IPOKALEMICA DEL GATTO: La
diminuzione dei livelli totali di potassio nell’organismo
determina una iniziale iperpolarizzazione della membrana
delle cellule muscolari. Se la diminuzione dei livelli di K+
continua, la membrana diviene più permeabile ad Na+, portando alla ipopolarizzazione ed a debolezza miopatica. Una
nefropatia K+-disperdente è stata ipotizzata come possibile
causa della deplezione totale di questo ione nell’organismo.
Anche la carenza cronica di potassio nella dieta può contribuire in alcuni gatti.
I felini con miopatia ipokalemica sviluppano una debolezza generalizzata ad insorgenza improvvisa, con pronunciata ventroflessione cervicale e riluttanza a camminare
(rigidità). I gatti colpiti mostrano anche un significativo
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dolore muscolare. Questi animali presentano comunemente
un calo dei livelli sierici di K+ (2,0-3,3 mEq/l), un aumento
di CK (fino a 10.000 IU/l), un incremento della creatinina
sierica e/o dell’azotemia ed un’acidosi metabolica. Questi
gatti di solito risultano negativi alla titolazione per la diagnosi dell’infezione da FeLV. Anomalie EMG generalizzate
vengono solitamente rilevate anche se le biopsie muscolari
sono spesso normali al microscopio ottico. La misurazione
della frazione di escrezione del potassio urinario rivela un
significativo incremento della perdita di questo elemento per
via renale.
Il trattamento consiste nella misurazione del K+ per via orale, con conseguente significativo miglioramento della forza
muscolare entro 2-3 giorni. Si riscontra una risoluzione graduale e completa. Si raccomanda un’integrazione permanente
e quotidiana con potassio. Questa viene solitamente effettuata
per via orale con potassio gluconato alla dose di 5-10
mEq/gatto/giorno suddivisi BID nei casi gravi e 2-4 mEq/gatto/giorno in quelli lievi. La prognosi varia da riservata a favorevole (in funzione dell’entità della malattia renale).
IPOTIROIDISMO: Esiste una lieve miopatia clinica (o
subclinica) nei cani adulti per la quale è stata ipotizzata una
relazione con un disturbo del metabolismo dei carboidrati
secondario ad ipotiroidismo. I segni clinici sono rappresentati da debolezza, rigidità, mialgia ed atrofia muscolare. Si
riscontra un’atrofia preferenziale delle miofibre di tipo II,
nemaline rod ed accumulo di glicogeno nelle biopsie muscolari. Il trattamento dell’ipotiroidismo sottostante di solito
esita nella risoluzione di questa lieve miopatia.
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MIOPATIA DI CUSHING: Il morbo di Cushing può
determinare una miopatia degenerativa secondaria all’eccesso di corticoidi nell’organismo. I segni clinici possono essere notevoli, con andatura rigida, atrofia muscolare, rigidità
degli arti pelvici e pseudomiotonia (formazione di fossette
miotoniche ed alterazioni EMG). Alla biopsia muscolare, le
alterazioni istopatologiche sono rappresentate da atrofia delle miofibre di tipo II, masse nel sarcolemma, necrosi focale,
eccesso di lipidi all’interno delle miofibre, variazione delle
dimensioni delle fibre e divisione longitudinale delle fibre.
La patogenesi ipotizzata per la miopatia di Cushing fa riferimento ad un incremento del catabolismo proteico ed all’inibizione della sintesi delle proteine miofibrillari. Anche gli
incrementi dei livelli circolanti di ACTH hanno un’azione
miopatica. Con il trattamento, con mitotano o trilostano, la
debolezza muscolare regredisce, spesso nell’arco di mesi.
Tuttavia, la rigidità può rimanere.
MIOPATIA ASSOCIATA AD IPERTIROIDISMO: Il
12-17% dei gatti ipertiroidei sviluppa debolezza muscolare,
il 30% sviluppa tremori muscolari e l’1-3% sviluppa ventroflessione del collo. Questi gatti mostrano anche una diminuzione della capacità di saltare ed un’affaticabilità associata
all’esercizio. La prognosi per la risoluzione della debolezza
tuttavia è buona con il trattamento, sia mediante iodio
radioattivo che rimozione chirurgica o tapazolo. Si noti che
quest’ultimo può indurre debolezza muscolare e la formazione di anticorpi anti-AchR a distanza di 2-4 mesi dall’inizio della terapia. Il farmaco è stato associato anche a fini tremori muscolari.
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La Malattia Infettiva Respiratoria Felina:
nuove sfide, nuove evidenze
Susan Dawson
BVMS, PhD, MRCVS, Liverpool, UK
La malattia del tratto respiratorio superiore (URTD) o
influenza felina è tuttora un problema comune nei gatti, specialmente in giovani gattini e nei gatti che vivono in gruppo
come ad esempio nelle pensioni o nei ricoveri. Anche se la
malattia può essere associata ad una mortalità relativamente
bassa, può causare un’elevata morbilità. Il grado di malattia
può creare problemi per i ricoveri che, durante un’epidemia
devono interrompere l’introduzione nelle case dei gatti, ed
anche per gli allevamenti dove è evidentemente più difficile
la vendita dei gattini che hanno sviluppato la malattia respiratoria. La maggior parte dei casi di URTD felina è dovuta
ad uno dei virus respiratori: l’herpesvirus felino (FHV) o il
calicivirus felino (FCV). I batteri possono anch’essi giocare
un ruolo come invasori secondari a seguito di un iniziale
danno virale. Inoltre, è ormai riconosciuto che il batterio
Bordetella bronchiseptica può comportarsi come patogeno
primario del tratto respiratorio del gatto. Chlamydophila
felis (in precedenza Chlamydia psittaci) può causare la
malattia respiratoria nei gatti, ma più spesso è coinvolta in
forme in cui il sintomo predominante è una persistente congiuntivite.
Inizialmente si pensava che i due virus fossero coinvolti in
uguale misura nei casi di malattia del tratto respiratorio
superiore, rappresentando insieme la causa eziologica di circa l’80% dei casi. Di recente, invece, sembra che il calicivirus felino sia isolato più frequentemente rispetto all’herpesvirus felino. Il genoma RNA del FCV, risulta estremamente variabile e ciò permettere una rapida mutazione ed evoluzione del virus. Pertanto, per esistono numerosi ceppi differenti di FCV con antigenicità e patogenicità variabile. Questo spiega l’esistenza di diversi sintomi clinici associati al
FCV, piuttosto che una sindrome standard, e in termini di
vaccinazione ciò può fornire problemi nella copertura nei
confronti di tutti i ceppi.
SINTOMI CLINICI
I sintomi clinici sono simili per i diversi agenti eziologici,
anche se alcuni sintomi sono più comuni ad un patogeno
rispetto ad un altro.
Herpesvirus felino – grave malattia respiratoria in gatti
senza l’immunità
• Piressia
• Starnuti
• Scolo oculare e nasale
• Congiuntiviti
• Ipersalivazione
Calicivirus felino - spesso la malattia è più lieve di quella osservata con l’herpesvirus felino. Alcune infezioni possono essere sub-cliniche.
• Piressia
• Ulcerazione - orale specialmente sulla lingua
• Scolo oculare e nasale
• Starnuti
• Congiuntiviti
• Gengiviti/stomatiti
• Zoppie
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•
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•
•
•
Bordetella Bronchiseptica
Piressia
Starnuti
Scolo nasale
Tosse
Linfoadenopatia sottomandibolare
Rantoli all’auscultazione
Broncopolmonite
Molto recentemente per il calicivirus felino è stata riportata una forma più grave di malattia con una mortalità di circa il 50%. Questa sindrome, la malattia sistemica virulenta
felina, è stata riportata per la prima volta negli Stati Uniti,
ma recentemente è stata osservata in altri paesi. I sintomi clinici sono diversi, ed includono ittero, edema specialmente
della testa e degli arti inferiori con ulcerazione della cute che
appaiono sulle aree dell’edema, emorragia dal naso e nelle
feci, ulcerazioni della bocca e piressia. In contrasto alla
malattia del tratto respiratorio superiore acuta associata a
calicivirus felino, questa sindrome virulenta colpisce più
comunemente i gatti adulti rispetto ai gattini. Anche se molti dei casi riportati dal campo si sono verificati in gatti vaccinati, alcune prove sperimentali hanno dimostrato che la
vaccinazione conferisce protezione contro la malattia. I ceppi di FCV isolati dai casi di questa sindrome fino ad ora studiati, sembrano essere tutti diversi.
DIAGNOSI
Una diagnosi di influenza felina può essere eseguita in
base ai sintomi clinici, ma è spesso difficile identificare l’agente eziologico sulla base dei soli sintomi clinici. Per l’iso-
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lamento dei virus possono essere prelevati dei tamponi orofaringei per identificare l’herpesvirus felino ed il calicivirus
felino. Dovrebbe essere usato un tampone di cotone asciutto
che poi dovrebbe essere posto in un mezzo di trasporto per
virus prima di essere spedito entro ventiquattro ore ad un
laboratorio idoneo. Per la coltura batterica deve essere prelevato un ulteriore tampone e deve essere collocato in un
mezzo di trasporto per batteriologia - per B. bronchiseptica
noi raccomandiamo il carbone Amies. Bordetella dovrebbe
essere coltivata su un mezzo Agar selettivo (ad esempio carbone cefalessina) che previene l’eccessiva crescita da parte
di altri batteri presenti nell’orofaringe del gatto. Chlamydophila può essere identificata da tamponi congiuntivali
mediante coltura, ELISA o PCR.
Test della PCR (reazione a catena della polimerasi) sono
stati sviluppati per i patogeni respiratori felini e questo permette l’identificazione di tutti i potenziali patogeni da un solo
campione. Mentre la PCR può essere il test più sensibile per
alcuni degli agenti patogeni, per il FCV può essere meno sensibile a causa della variazione genomica tra i ceppi.
Tutti i risultati positivi dovrebbero essere interpretati alla
luce della conoscenza dei portatori clinicamente guariti.
107
di tempo, ed esistono gatti che si liberano del virus in modo
definitivo. Anche se la maggioranza di gatti elimina ancora il calicivirus un mese dopo l’infezione, solo in alcuni
gatti lo stato di portatore dura tutta la vita. In uno studio
condotto nei gatti nel Regno Unito è risultato che l’8% di
gatti tenuti come animali da compagnia, il 19% di gatti
portati in visita al veterinario ed il 25% di gatti che frequentano mostre feline, erano eliminatori di FCV. È stato
dimostrato recentemente che solo alcuni gatti sono portatori prolungati dello stesso virus, ma altri possono apparire
portatori perenni a causa di re-infezioni ripetute. Questo
spiega la più alta percentuale di prevalenza del FCV in gatti che vivono in gruppo.
Si pensa che vi sia anche una prolungata eliminazione di
Bordetella bronchiseptica a seguito di un’infezione acuta: in
uno studio sperimentale i gatti eliminavano il batterio per 19
settimane dopo l’infezione, momento in cui è stato interrotto il campionamento. In uno studio di 700 gatti con o senza
malattia respiratoria, eseguito nel Regno Unito, l’11% è stato trovato eliminare Bordetella bronchiseptica.
Prevenzione e Controllo
Trattamento
Attualmente nessun antivirale specifico è disponibile per
l’uso di routine nei gatti. Gli antivirali sono stati utilizzati
per il trattamento delle infezioni oculari da herpesvirus,
anche se questi non sono autorizzati per l’uso nel gatto; sono
relativamente costosi e richiedono applicazioni giornaliere
multiple.
I gatti con malattia del tratto respiratorio superiore richiedono una buona cura infermieristica ed una copertura antibiotica per controllare le infezioni secondarie. Dove è presente Bordetella bronchiseptica gli antibatterici di scelta
sono le tetracicline, come la doxiciclina. Per Chlamydophila
felis le tetracicline e la doxiciclina sono di nuovo gli antibatterici di scelta ed il trattamento deve essere sistemico
piuttosto che solo ad uso topico dal momento che Chlamydophila si diffonde in modo sistemico.
Epidemiologia
I virus si trasmettono più spesso per contatto diretto, ma
possono anche diffondersi mediante gli starnuti di macrogocce o fomite. La fonte di virus può essere un gatto infetto
in modo acuto o un ambiente contaminato (vi è un tempo di
sopravvivenza breve nell’ambiente – fino a 2-3 giorni per
l’herpesvirus e 7-10 giorni per il calicivirus) o un gatto portatore clinicamente guarito.
Sia l’herpesvirus che il calicivirus producono lo stato di
portatore, sebbene ci siano delle differenze. L’herpesvirus
produce un’infezione latente con l’eliminazione intermittente di virus spesso dopo un periodo di stress. Lo stato di
portatore per l’herpesvirus dura tutta la vita e si pensa che
tutti i gatti che si infettano diventano portatori. Nel caso dei
calicivirus, i gatti portatori eliminano il virus più o meno
continuamente ma questo avviene per un periodo variabile
Sono disponibili vaccini contro l’herpesvirus felino ed il
calicivirus felino e dovrebbero essere usati per controllare la
malattia. Comunque, la vaccinazione non elimina o previene
lo stato di portatore e così i virus possono ancora essere presenti anche nei gatti vaccinati. Pertanto, nel controllare l’infezione in un gruppo di gatti, devono essere messe in atto le
procedure di gestione, per prevenire la diffusione dei virus,
tanto quanto la vaccinazione. Dal momento che la maggior
parte della trasmissione di virus avviene per contatto diretto
i gatti dovrebbero essere limitati dall’avere contatti con altri
gatti e devono essere prese delle precauzioni per prevenire la
diffusione attraverso un fomite.
Per i vaccini contro FCV vi è la sfida di produrre un vaccino che protegga contro tutti i ceppi. Nei vaccini vengono
utilizzati diversi ceppi e sebbene siano stati scelti perché
sono largamente cross-reattivi, è probabile per tutti i vaccini
che ci siano ancora dei ceppi in circolazione che non risultano protetti dalla vaccinazione.
Un recente studio indipendente (Università di Liverpool,
2008) ha dimostrato la persistente efficacia del ceppo di calicivirus felino F9, che è risultato tuttora ampiamente crossreattivo ed in grado di neutralizzare un’elevata percentuale
(88%) delle varianti di calicivirus isolate in campo, simile a
quella degli anni precedenti.
Il momento della prima vaccinazione dipende dalla durata degli anticorpi di origine materna (MDA). Nella maggior
parte dei gattini gli MDA verso FHV e FCV raggiungono
livelli sufficientemente bassi entro le 12 settimane di età per
permettere una vaccinazione di successo, comunque in un
piccolo numero di gattini la vaccinazione potrebbe essere
bloccata a questa età. Pertanto, la prima vaccinazione di
richiamo annuale ad un anno di età è molto importante. In
alcuni gattini, gli MDA possono essere persi precocemente e
siccome i due virus sono molto diffusi i gattini possono contrarre l’infezione durante questo vuoto immunitario. In queste situazioni una vaccinazione più precoce a 6 settimane di
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età potrebbe essere di beneficio.
title: La Malattia Infettiva Respiratoria Felina: nuove sfide,
nuove evidenze.
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no
Indirizzo per la corrispondenza:
Susan Dawson
Companion Animal Infectious Diseases University of Liverpool,
Leahurst,Chester High Road, Neston, Cheshire CH64 7TE, UK
E-mail: [email protected]
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Blood Film Cytology - Red blood cell morphologic
changes: Clue to the cause of anemia and diagnostic
direction to possible organ dysfunction
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
Technological advances in both reference laboratory and
in-house hematology analyzers have been tremendous over
the last 15 years. Changes have included greater ease of use,
greater precision and accuracy and increased amount of data
and information collected. We now provide detailed objective morphologic characterization of red blood cell morphology with the use of the Mean Cell Volume (MCV),
Mean Cell Hemoglobin Concentration (MCHC), and Red
cell Distribution Width (RDW). Each of these parameters
provide objective information related to red cell morphology; however, the key limitation to these values is that they
represent only the mean or average of all the red blood cells
present and there has to be a dramatic increase in numbers
of abnormal cells or a dramatic decrease in number of normal cells before the “mean” values are outside of the determined reference interval. Blood film morphologic evaluation
provides a more sensitive means of detecting abnormalities
in size and hemoglobin concentration as well as providing
information related to abnormalities in cell shape (poikilocytosis) or the presence or absence of inclusions (iron accumulation, Howell-Jolly bodies, infectious agents, etc.) within or on the surface of the red blood cells. These latter
changes are not identifiable even with the most advanced of
hematology analyzers available in reference and academic
laboratories.
The blood film remains an essential component of the
Complete Blood Count (CBC) even with the most advanced
in-house and reference laboratory instrumentations.
Changes in red blood cell morphology provide insight into
the cause of a possible anemia, the presence of a potential
underlying metabolic process, the possibility of underlying
specific organ dysfunction (liver, kidney, spleen, etc.) as
well as the identification of a potential underlying infectious
agent. In addition, examination of the red blood cells morphologically helps validate data generated by the hematology analyzers. Decreased density of red blood cells in the
monolayer of a blood film immediately supports the observation of anemia with the data generated. Also, the finding
of clumped erythrocytes as might be seen with immunemediated disease directed against red blood cells (agglutination) signals to the technician or veterinarian that the data
relative to enumeration of numbers of red blood cells could
be an underestimation by the instruments The time that it
takes to do a rather thorough evaluation for red blood cell
morphology is typically much less than one minute even
when the most severe of abnormalities are present. If an
individual has good experience of what normal red blood
cell morphology is for the different animal species, the
recognition of “abnormal” is both rapid and simple.
Some of the more common or significant red blood cell
morphologic changes are itemized below:
Polychromasia - Polychromatophils are immature nonnucleated erythrocytes that for most species are only present
in relatively low numbers during health. These immature
cells are slightly larger than mature well hemoglobinized
erythrocytes and with a good Romanovsky stain, they stain
pale blue compared to the normal orange red of a mature
erythrocyte. This distinctive staining of the polychromatophil is due in part to the fact that the cell does not have
its complete complement of hemoglobin but also due to the
presence of residual RNA in the cytoplasm, which is essential for hemoglobin production. The normal mature erythrocyte should have no significant RNA; these cells are primarily bags of hemoglobin with a finite amount of cellular
enzymatic capability. No protein production takes place in
the mature erythrocyte because there is no significant RNA.
Polychromatophils are primarily found in the bone marrow hematopoietic tissue. They represent the last stage of
erythrocyte maturation following the loss of the nucleus,
which typically takes place in the marrow hematopoietic tissue itself. In the healthy animal, the numbers of polychro-
Parameter
Name
Indication
RBC
HBG
HCT
MCV
MCHC
RDW
Red blood cell count
Hemoglobin
Hematocrit
Mean corpuscular volume
Mean corpuscular hemoglobin concentration
Red cell distribution width
Red cell mass
Red cell mass
Red cell mass
Mean cell size
Mean hemoglobin content
Objective measure of anisocytosis
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matophils in circulation is directly related to the lifespan and
turnover rate of erythrocytes in circulation. When there is an
increased demand for erythrocytes in the circulation, polychromatophils may be found in the peripheral blood film;
greater than normal amounts of polychromasia signify
increased rate of production of erythrocytes at the bone marrow level. Morphologic recognition of polychromasia is the
primary way to validate a reticulocyte count; the more
advanced in-house hematology analyzers provide reticulocyte counts with every dog and cat CBC.
Spherocytosis - Spherocytes appear as smaller than
normal erythrocytes that
have no central zone of pallor and appear more intensely staining than the normal
erythrocyte. As their name
implies, these cells are
spherical. The loss of the
normal biconcave shape of a
normal mature erythrocyte
results in these changes.
The more intense staining of the cytoplasm is
because the cell does not
lie as flat on the blood film
since the cell is spherical and this results in the microscopic evaluation of a “thicker” cell; more hemoglobin is
found in the center of the cell compared to the normal
biconcave and “thinner” normal mature erythrocyte. These
cells are formed because of a loss of cytoplasmic membrane without significant loss of cytoplasmic content.
They are commonly seen with immune-mediated hemolytic anemia and if there are many spherocytes noted (greater
than 4-6 per 100x oil magnification field of view) with no
other significant poikilocytosis this is strongly supportive
of an underlying immune mediated extravascular event. If
only very few spherocytes are identified, the finding is relatively nonspecific.
Agglutination - Three dimensional clumping of erythrocytes when confirmed with a saline agglutination test are
supportive of an immune-mediated process directed against
the red blood cells. They support the presence of surfacerelated antibodies that result in tightly bound cross-linking
of erythrocytes. It must be differentiated from loosely
attached organized linear arrays of erythrocytes (Rouleaux).
Acanthocytosis - Acanthocytes are a specific type of
poikilocytosis characterized by the presence of 2-10, blunt,
finger-like projections from the surface of the erythrocytes.
They support “lipid-loading” of these cells and investigation into causes of changes in cholesterol:phospholipid
ratios in the plasma (liver disease, underlying metabolic
disturbances) and possible splenic disease is warranted
when identified.
Leptocytosis (target cells) - Target cells or leptocytes are
red blood cells with excess cell membrane to cytoplasmic
110
content ratio commonly associated with “lipid-loading” by
similar mechanisms as seen with acanthocytosis.
Hypochromasia - Hypochromatophils are red blood cells
with decreased cytoplasmic content of hemoglobin. They
present as pale thin cells typically smaller appearing than
normal red blood cells. In veterinary medicine the primary
cause for this finding is the presence of a chronic blood loss
situation with developing or developed iron deficiency.
Investigation into chronic blood loss is warranted when
identified.
Schistocytosis - Schistocytes are irregular fragments of red
blood cells due to mechanical injury to the cells. Oftentimes,
this is associated with a “microangiopathy” with abnormalities such as fibrin accumulation in small blood vessels / capillaries. However, conditions where increased turbulent flow of
blood through large vessels (caval syndrome with Heartworm
disease) or within the heart (endocarditis) can result in similar
findings. The presence of schistocytes can prove to be a helpful parameter to include in the clinical investigation of Disseminated Intravascular Coagulopathy.
Metarubricytosis - Metarubricytes are nucleated red
blood cells. When found in low numbers relative to high
numbers of polychromatophils, they are often accepted as
being an “appropriate” component of a strongly regenerative
response by the bone marrow.
However, since there is typically a physical and physiological restriction for nucleated red blood cells from being
released from the normal marrow, when found without associated polychromasia, investigation into bone marrow stromal damage (infiltrative bone marrow disease, endotoxemia
/ septicemia, hypoxia, heavy metal toxicity [acute lead toxicity] is warranted.
Heinz bodies - Heinz bodies represent small, projections
on the surface of the red blood cells. These are small collections of denatured / oxidized hemoglobin due to oxidant
injury. Conditions such as acute onion toxicity in the dog
and Acetaminophen toxicity in the cat is warranted but other oxidant stresses including underlying metabolic disturbances are possible causes also.
Miscellaneous inclusioins - Whenever an identified
structure within or on a red blood cell, further characterization is required. Often, this will involve sending a well
made blood film to a reference laboratory for evaluation
and confirmation and hopeful identification is warranted.
Selected References
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen
ED, Rebar A and Weiser G. Veterinry Hematology and Clinical
Chemistry.
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111
Citologia dello striscio ematico Alterazioni della morfologia eritrocitaria:
le “chiavi” per l’interpretazione dell’anemia
e di possibili disfunzioni d’organo
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
Nel corso degli ultimi quindici anni, i progressi tecnologici compiuti dagli apparecchi per analisi ematologiche da utilizzare sia presso i laboratori di riferimento che
a livello ambulatoriale sono stati enormi. Le modificazioni sono state rappresentate da maggior facilità di
impiego, precisione ed accuratezza più elevate ed incremento della quantità di dati ed informazioni che è possibile raccogliere.
Noi oggi possiamo disporre di una dettagliata caratterizzazione obiettiva della morfologia degli eritrociti utilizzando il volume globulare medio (MCV, Mean Cell
Volume), la concentrazione emoglobinica globulare media
(MCHC, Mean Cell Hemoglobin Concentration) e l’ampiezza di distribuzione eritrocitaria (RDW, Red cell Distribution Width).
Ognuno di questi parametri fornisce informazioni
obiettive correlate alla morfologia degli eritrociti; tuttavia, la principale limitazione di questi indici è che rappresentano soltanto la media di tutti gli eritrociti presenti
e ci deve essere un imponente incremento del numero di
cellule anormali o un drastico calo di quelle normali prima che i valori “medi” escano dall’intervallo di riferimento predeterminato.
La valutazione morfologica dello striscio ematico rappresenta un mezzo più sensibile per individuare le anomalie di dimensioni e di concentrazione emoglobinica,
nonché per ottenere informazioni correlate ad alterazioni
della forma delle cellule (poichilocitosi) oppure della presenza o assenza di corpi inclusi (accumulo di ferro, corpi
di Howell-Jolly, agenti infettivi, ecc…) all’interno o sulla superficie degli eritrociti. Queste ultime modificazioni
non sono identificabili anche con gli analizzatori ematologici più avanzati disponibili presso i laboratori di riferimento e quelli accademici.
Lo striscio ematico resta una componente essenziale
dell’esame emocromocitometrico completo anche quando si dispone dei più avanzati strumenti di analisi in uso
a livello ambulatoriale e presso i laboratori di riferimento. Le modificazioni della morfologia degli eritrociti consentono di valutare la causa di una possibile anemia, la
presenza di un potenziale processo metabolico primario,
la possibilità di una sottostante disfunzione organica specifica (fegato, reni, milza, ecc..) nonché l’identificazione
di un potenziale agente infettivo all’origine del problema.
Inoltre, l’esame della morfologia eritrocitaria contribuisce a validare i dati generati dagli analizzatori ematologici. La diminuita densità degli eritrociti nel monostrato di
uno striscio di sangue depone immediatamente a favore
del riscontro di un’anemia con i dati generati. Inoltre, il
reperto di eritrociti ammassati, come si può osservare
nelle malattie immunomediate dirette contro i globuli
rossi (agglutinazione) indica al tecnico o al veterinario
che i dati relativi al conteggio degli eritrociti potrebbero
essere sottostimati dagli strumenti. Il tempo che richiede
l’esecuzione di una valutazione piuttosto approfondita
della morfologia degli eritrociti è tipicamente molto inferiore ad un minuto, anche quando sono presenti le anomalie più gravi. Se un operatore ha una buona esperienza
della morfologia eritrocitaria normale nelle differenti
specie animali, il riconoscimento delle “anormalità” è
rapido e semplice.
Verranno ora illustrate alcuna delle più comuni o significative alterazioni morfologiche dei globuli rossi:
Policromasia – i policromatofili sono eritrociti immaturi non nucleati che nella maggior parte delle specie animali sono presenti soltanto in numero relativamente basso in condizioni di buona salute. Queste cellule immature
Parametro
Nome
Indicazione
RBC
HBG
HCT
MCV
MCHC
RDW
Conteggio degli eritrociti
Emoglobina
Ematocrito
Volume globulare medio
Concentrazione emoglobinica globulare media
Ampiezza di distribuzione degli eritrociti
Massa eritrocitaria
Massa eritrocitaria
Massa eritrocitaria
Dimensione media delle cellule
Contenuto emoglobinico medio
Misura obiettiva dell’anisocitosi
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sono leggermente più grandi degli eritrociti maturi ben
dotati di emoglobina e con una buona colorazione di tipo
Romanovsky assumono un tono blu chiaro in confronto al
normale arancio rosso di un eritrocita maturo. Questa
colorazione caratteristica dei policromatofili è dovuta in
parte al fatto che le cellule non hanno la dotazione completa di emoglobina, ma anche alla presenza di residui di
RNA nel citoplasma, che è essenziale per la produzione
dell’emoglobina stessa. Il normale eritrocita maturo non
deve presentare una quota significativa di RNA; queste
cellule sono principalmente delle sacche di emoglobina
con una quantità finita di capacità enzimatica cellulare.
Nell’eritrocita maturo non avviene alcuna produzione di
proteine, perché non c’è una quota significativa di RNA.
I policromatofili si riscontrano principalmente nel tessuto
emopoietico del midollo osseo. Rappresentano l’ultimo
stadio della maturazione degli eritrociti dopo la perdita
del nucleo, che avviene di norma nel tessuto emopoietico
midollare stesso. Nell’animale sano, il numero di queste
cellule in circolo è direttamente correlato alla durata della vita ed alla rapidità del turn-over degli eritrociti circolanti. Quando questi ultimi aumentano, nello striscio di
sangue periferico si possono riscontrare i policromatofili:
la presenza di una policromasia superiore alla norma indica un incremento della velocità di produzione degli eritrociti a livello midollare. Il riconoscimento morfologico
della policromasia è il metodo principale per validare un
conteggio dei reticolociti; i più avanzati analizzatori ematologici ambulatoriali forniscono il conteggio dei reticolociti per ogni esame emocromocitometrico completo del
cane e del gatto.
Sferocitosi – Gli sferociti si presentano sotto forma di eritrociti più piccoli
del normale, privi di una
zona centrale di pallore, e
colorati più intensamente.
Come implica il loro
nome, queste cellule sono
sferiche. La perdita dell’abituale forma biconcava di
un eritrocita maturo normale esita in queste modificazioni. La più intensa
colorazione del citoplasma
è dovuta al fatto che la cellula, essendo sferica, non
si dispone appiattita sullo striscio ematico, il che esita nel
riscontro microscopico di una cellula “più spessa”, al cui
centro si trova una quantità di emoglobina maggiore
rispetto a quella dei normali eritrociti maturi biconcavi e
“più sottili”. Queste cellule si formano a causa della
scomparsa della membrana citoplasmatica senza significativa perdita di contenuto citoplasmatico. Si osservano
comunemente nell’anemia emolitica immunomediata e il
loro riscontro in numero elevato (più di 4-6 per 100x
campo microscopico in immersione ad olio) senza una
poichilocitosi significativa è fortemente indicativo di un
sottostante evento immunomediato extravascolare. Se
112
vengono identificati soltanto pochissimi sferociti, il
reperto è relativamente aspecifico.
Agglutinazione – Tre ammassi dimensionali di eritrociti confermati con un test di agglutinazione con soluzione fisiologica sono indicativi di un processo immunomediato diretto contro i globuli rossi. Questi riscontri depongono a favore della presenza di anticorpi di superficie,
che esitano nella formazione di stretti legami crociati fra
eritrociti. La situazione va differenziata dalla disposizione lineare di globuli rossi organizzati e lassamente adesi
(rouleaux).
Acantocitosi – L’acantocitosi è un tipo specifico di
poichilocitosi caratterizzato dalla presenza di 2-10 proiezioni smusse digitiformi dalla superficie degli eritrociti.
Questo quadro depone a favore di un “carico di lipidi” di
queste cellule e la sua identificazione richiede un’indagine per chiarire le cause e le modificazioni dei rapporti fra
colesterolo e fosfolipidi nel plasma (epatopatia, sottostanti disturbi metabolici) e di una eventuale malattia
splenica.
Leptocitosi (cellule bersaglio) – Le cellule bersaglio o
leptociti sono eritrociti con un eccesso di rapporto fra
membrana cellulare e contenuto citoplasmatico comunemente associato al “carico di lipidi” con meccanismi
simili a quelli osservati nel caso dell’acantocitosi.
Ipocromasia – Gli ipocromatofili sono eritrociti con
un minor contenuto intracitoplasmatico di emoglobina. Si
presentano sotto forma di cellule pallide e sottili, tipicamente più piccole degli eritrociti normali. In medicina
veterinaria, la causa primaria di questo riscontro è la presenza di una situazione di perdita ematica cronica con
carenza di ferro in via di sviluppo o già instaurata. La loro
identificazione impone la ricerca di una perdita ematica
cronica.
Schistocitosi – Gli schistociti sono frammenti irregolari di eritrociti dovuti al danneggiamento meccanico delle
cellule. Spesso, questo quadro è associato a “microangiopatia” con anomalie come l’accumulo di fibrina nei vasi
sanguigni di piccolo calibro e/o nei capillari. Tuttavia,
anche le condizioni in cui si ha un aumento del flusso turbolento di sangue attraverso grandi vasi (sindrome della
vena cava nella filariosi cardiopolmonare) o all’interno
del cuore (endocardite) possono esitare nella comparsa di
riscontri simili. La presenza di schistociti può risultare un
utile parametro da includere nell’indagine clinica in caso
di coagulopatia intravasale disseminata.
Metarubricitosi – I metarubriciti sono eritrociti
nucleati. Quando si riscontrano in numero limitato rispetto ad un’elevata quantità di policromatofili, vengono
spesso accettati come una componente “appropriata” di
una forte risposta rigenerativa da parte del midollo osseo.
Tuttavia, dal momento che esiste tipicamente una restrizione fisica e fisiologica al rilascio di eritrociti nucleati
da parte del midollo normale, il loro riscontro senza una
policromasia associata impone la ricerca di un danno
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stromale del midollo osseo (malattia midollare infiltrante,
endotossiemia/setticemia, ipossia, avvelenamento da
metalli pesanti [tossicità acuta da piombo]).
Corpi di Heinz – I corpi di Heinz sono rappresentati da
piccole proiezioni sulla superficie degli eritrociti. Sono
piccole raccolte di emoglobina denaturata/ossidata dovute ad un danno da ossidanti. Il loro riscontro richiede la
ricerca di condizioni come l’avvelenamento acuto da
cipolle nel cane e da acetaminofene nel gatto, ma anche
altri stress ossidativi, compresi i disturbi metabolici sottostanti, sono possibili cause.
Inclusioni varie – Ogni volta che viene identificata
una struttura all’interno o sulla superficie di un eritrocita,
113
è necessario caratterizzarla ulteriormente. Spesso, ciò
comporta l’invio di uno striscio ematico ben realizzato ad
un laboratorio di riferimento per la valutazione e la conferma, nella speranza di un’identificazione.
Letture consigliate
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic
Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis,
2008.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology:
Atlas of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.
Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen
ED, Rebar A and Weiser G. Veterinry Hematology and Clinical
Chemistry. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.
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Blood Film Cytology - White blood cell identification
and morphologic changes: Blood films and cytologic
preparations of inflammatory disease
complement one another
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
With the advent of the newer generations of hematology
analyzers economically available for the veterinarian, a new
era in CBC analysis has evolved. Many of the newer instruments provide more accurate and precise total leukocyte
counts than we have had in the past and with the more
advanced reference laboratory and in-house hematology
analyzers, a complete 5-part leukocyte differential is possible. This 5-part differential is essential for us to properly
interpret the different leukograms we see daily in veterinary
practice and these interpretations direct the veterinarian to a
better understanding of any inflammatory process present in
an animal. Serial leukogram evaluations also play critical
roles in characterizing the progression or regression of an
inflammatory process in an animal. Even with the best of
possible analyzers, blood film evaluation is still a critical
part of the CBC and many morphologic changes seen on the
blood film that are not identified with the analyzers also
play a critical role in our characterization of the progression
or regression of various inflammatory conditions in our
patients.
In less than a 1-2 minute microscopic evaluation of a
blood film at low magnification, a technician or veterinarian
should be able to rapidly validate the leukocyte differential
provided by the hematology analyzer and to recognize any
significant morphologic abnormalities present. Before
being able to recognize the abnormalities in morphology,
the microscopist must first be able to easily recognize the
common leukocytes – neutrophils, lymphocytes, monocytes, eosinophils and basophils. Some of the more important
morphologic abnormalities commonly seen with different
inflammatory and non-inflammatory processes are listed
below.
IMMATURE NEUTROPHIL FORMS: Typically when
one speaks of immature neutrophil forms, one considers
only band and metamyelocyte and earlier stages of the maturation process for neutrophils. Recognition of increased
numbers of immature neutrophil forms in circulation indicates the presence of an inflammatory process even when total
neutrophil numbers are normal. Specific rules for identification of “band” neutrophil forms exist but they are often not
sufficient to assure the proper information from getting to
the veterinarian. There is a gradual process of maturation
between the band and the segmented neutrophil forms;
transition from band to seg is not abrupt. Neutrophil forms
with partial segmentation that lie somewhere between
“band” and “seg” are often found on the peripheral blood
film and this finding may be essential in recognizing the presence of a mild inflammatory process. A band is typically
identified if the narrowest point of indentation in the nucleus
is greater than one-third the widest portion of the nucleus. If
the nucleus is folded on itself or twisted, this evaluation cannot be made and the technician is instructed to report the cell
as the more mature form of the neutrophil, namely, a segmented neutrophil. With these rules, one can see the potential for missing a “left shift” in the neutrophil series. A veterinarian must develop confidence in the reporting of “hyposegmented” neutrophils from a trained technician.
TOXIC CHANGES IN
NEUTROPHILS: Neutrophil toxicity is also an indication of the presence of an
inflammatory process. Typically, toxicity is seen when
there is a left shift present,
but there will be times when
only toxicity, no left shift
and potentially no change in
numbers of neutrophils, is
noted. Morphologic changes are associated with
rapid cell development and
the “skipping” of certain
steps of normal maturation.
With the more severe toxic
changes, conditions including endotoxemia and septicemia
are likely, therefore, the name “toxic” change.
One of the earliest forms of “toxic” change is the mild
increased blue staining of neutrophil cytoplasm. Due to
retention of RNA in the cytoplasm as a result of the shortened development time, the cytoplasm now stains bluer. As
the cells are more and more “immature” related to cytoplasm
maturation, the cytoplasm is more and more blue. A reported toxicity of 2-3+ is generally, moderately blue.
In addition to the blue staining of the cytoplasm, there is
a potential of a foamy appearance or potential vacuolization
of the cytoplasm. As with the cytoplasmic blue staining, the
more severe toxicity has a greater foamy and vacuolated
appearance. In some species (primarily dog and cow), the
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115
presence of lamellar aggregates of rough ER - RNA results
in the formation of small (less than 1 to slightly greater than
1 micrometer in diameter), pale blue, irregularly shaped
inclusions in the cytoplasm that are detectable at the light
microscopic level. These inclusions are called Döhle bodies.
When present in the dog associated with a more blue and
potentially foamy or vacuolated cytoplasm, they are considered to be a sign of toxicity also. In the cat and the horse,
they have no diagnostic significance.
Typically, one will interpret the toxic changes relative to
severity of the inflammatory process. The more severe the
toxic change, the more severe the inflammatory process.
Typically, the leukocyte numbers and distribution (possible
left shift) are reflective of the severity of the inflammatory
process also. The finding of severe toxicity in the face of a
neutropenia with a prominent left shift is supportive of severe overwhelming inflammation and a guarded to grave prognosis would be given. The finding of slight toxicity
(“noted” or “1+”) should not be ignored if a qualified technician is making the observation. These changes are supportive of more mild inflammation and typically are reflected in
a more mild or non-existing leukocyte number change.
In addition to the cytoplasmic changes, the potential of
finding large or giant neutrophil forms is also considered a
sign of toxicity and is a result of skipping one or several division periods during the development process. If this happens, the end result is a neutrophil form that is larger than
normal. In many cases this is difficult to perceive since most
if not all of the neutrophil forms will be similarly sized and
unless the microscopist it observant and compares the neutrophil forms to other leukocytes, it will be missed.
tive” morphologic features. Reports of “atypical” lymphocytes with few small pink cytoplasmic granules with
lymphocyte counts as high as 15,000 - 20,000 / microliter
have been documented with chronic systemic infection, particularly chronic canine Ehrlichiosis. “Atypical” lymphocytes do not mean neoplasia. Review by a veterinary clinical
pathologist or individual with more experience is recommended.
REACTIVE LYMPHOCYTES: “Reactive lymphocytes
noted” is a common comment on most CBCs. Its significance is directly related to systemic antigenic stimulation, but
specific causes for this antigenic stimulation is not identifiable. Lymphocyte reactivity is typically associated with
increased blue staining of lymphocyte cytoplasm and the
potential of increased amounts of cytoplasm. In rare occasions, plasmacytoid lymphocytes and well differentiated plasma cells may be seen in the peripheral blood also. These
cells will have moderate amounts of deeply blue cytoplasm
and potentially poorly distinct to distinct perinuclear clear
zones in the cytoplasm. Nuclei of these cells tend to be
round with uniform and dense chromatin patterns.
One of the important features related to reactive lymphocytes is their accurate identification. Many people will at first
confuse less mature metarubricytes (nucleated erythrocytes)
with reactive lymphocytes. Differentiation from “atypical”
lymphocytes may also be problematic. In general, atypical
lymphocytes will have increased amounts of cytoplasm
without any significant increased in cytoplasm blue staining
or only minimal increased blue staining affinity for the cytoplasm. In some cases, there may be one or several, small,
pink cytoplasmic granules much less than one micrometer in
diameter. When “atypical” lymphocytes are seen, investigation into potential underlying lymphoproliferative disease is
warranted. These cells may merely be representative of
systemic antigenic stimulation as is the more common “reac-
ABNORMAL / LEUKEMIC CELLS: When
leukocytes that cannot be
identified easily, the potential for an underlying neoplastic process should be
considered and submission
of a sample for review
would be warranted. If very
immature cells are found in
circulation, special staining
procedures may be needed
for accurate identification.
MONOCYTES: No major morphologic abnormalities
are observed with monocytes. The potential of seeing
monocytes differentiated to macrophages in circulation
exists, but this is very uncommon. Identification of these
macrophages is best accomplished by detailed evaluation at
the feathered edge of the blood film. Phagocytosed erythrocytes in immune-mediate hemolytic anemia, various infectious etiologic agents, and abnormal (leukemic) cells have
been reported.
EOSINOPHILS: Eosinophils are relatively easy leukocytes to identify in the peripheral blood and when increased in numbers, investigation into underlying parasitic,
hypersensitivity and other specific causes of eosinophilic
inflammation is warranted. The potential of degranulation of
eosinophils exists, but is uncommon in the peripheral blood.
Degranulated eosinophils appear as polymorphonuclear leukocytes with multiple, clear, distinct cytoplasmic vacuoles.
Usually, one or several remnant granules are found making
the identification of these cells relatively simple. Eosinophils of Greyhounds may be confusing. Their granules typically do not stain well or they may appear degranulated.
Selected References
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen
ED, Rebar A and Weiser G. Veterinary Hematology and Clinical Chemistry.
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Citologia dello striscio ematico - Identificazione
ed alterazioni morfologiche dei leucociti:
come la valutazione dello striscio ematico
e dei preparati citologici si completano a vicenda
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
Con l’avvento degli analizzatori ematologici di ultima
generazione, disponibili a costi economicamente accettabili
per i veterinari, si è aperta una nuova era nell’analisi dell’esame emocromocitometrico completo. Molti degli strumenti più recenti forniscono conteggi dei leucociti totali più
accurati e precisi di quelli di cui si poteva disporre in passato e con i più avanzati analizzatori ematologici dei laboratori di riferimento ed ambulatoriali è possibile ottenere una
formula leucocitaria completa con cinque voci. Tale formula è essenziale per consentirci di interpretare correttamente i
vari quadri di leucogramma che osserviamo quotidianamente nell’esercizio della professione veterinaria e tali interpretazioni guidano il clinico verso una migliore comprensione
di qualsiasi processo infiammatorio presentato da un animale. Inoltre, le valutazioni seriali del leucogramma svolgono
un ruolo di importanza critica per caratterizzare la progressione o la regressione di un processo infiammatorio in un
animale. Anche con il migliore degli analizzatori possibili, la
valutazione di uno striscio ematico è ancora una parte di
importanza critica dell’esame emocromocitometrico completo e molte alterazioni morfologiche osservate nello striscio e che non vengono identificate da queste apparecchiature svolgono un ruolo critico nella nostra caratterizzazione
della progressione o regressione di varie condizioni infiammatorie nei nostri pazienti.
In meno di 1-2 minuti di valutazione al microscopio di
uno striscio ematico a basso ingrandimento, un tecnico o un
veterinario dovrebbe riuscire a validare rapidamente la formula leucocitaria fornita dall’analizzatore ematologico e
riconoscere ogni eventuale anomalia morfologica significativa presente. Prima di essere in grado di identificare le anomalie della morfologia, un operatore dovrebbe riuscire a
individuare facilmente i comuni leucociti – neutrofili, linfociti, monociti, eosinofili e basofili. Più oltre sono elencate
alcune delle più importanti anomalie morfologiche comunemente osservate nei differenti processi infiammatori e non
infiammatori.
FORME IMMATURE DI NEUTROFILI
Tipicamente, quando si parla di forme immature di neutrofili, si considerano soltanto quelli non segmentati ed i
metamielociti ed i primi stadi del processo di maturazione
dei neutrofili. Il riconoscimento di un aumento del numero
di forme neutrofile immature in circolo indica la presenza di
un processo infiammatorio anche quando il numero totale
dei neutrofili è normale. Esistono delle regole specifiche per
l’identificazione dei neutrofili non segmentati, ma spesso
queste non sono sufficienti ad assicurare la corretta informazione da dare al veterinario. Esiste un graduale processo di
maturazione che porta dai neutrofili non segmentati a quelli
segmentati; la transizione da una forma all’altra non avviene
bruscamente. Le forme neutrofile con segmentazione parziale che si situano in un punto imprecisato fra “non segmentati” e “segmentati” si riscontrano spesso negli strisci di sangue periferici e questo reperto può essere essenziale per riconoscere la presenza di un lieve processo infiammatorio. Un
neutrofilo non segmentato viene tipicamente identificato se
il punto più stretto fra le incisure del nucleo è più grande di
un terzo della porzione più larga del nucleo stesso. Se questo è ripiegato su se stesso o ritorto, questa valutazione non
può essere formulata e si deve richiedere al tecnico di indicare la cellula come la forma più matura del neutrofilo, in
particolare quella segmentata. Con queste regole, esiste il
rischio di farsi sfuggire uno “spostamento a sinistra” nella
serie neutrofila. Un veterinario deve sviluppare una certa
confidenza con il referto di neutrofili “iposegmentati” da
parte di un tecnico adeguatamente preparato.
ALTERAZIONI TOSSICHE DEI NEUTROFILI
Anche la tossicità dei
neutrofili è un’indicazione
della presenza di un processo infiammatorio. Tipicamente, questa caratteristica
si osserva quando è presente
uno spostamento a sinistra,
ma vi saranno delle occasioni in cui si noterà soltanto la
tossicità senza alcuno spostamento a sinistra ed essenzialmente senza alcuna
variazione del numero dei
neutrofili. Le alterazioni
morfologiche sono associate
a rapido sviluppo cellulare
ed al “salto” di certe fasi
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della normale maturazione. Le alterazioni più gravi si verificano probabilmente in presenza di condizioni come l’endotossiemia e la setticemia, da cui il nome di modificazioni
“tossiche”.
Una delle prime forme delle alterazioni di questo tipo è
il lieve incremento della colorazione blu del citoplasma
neutrofilo. A causa dell’accorciamento del tempo di sviluppo si ha una ritenzione dell’RNA nel citoplasma, che
assume ora una colorazione più blu. Dato che le cellule
sono sempre più “immature” rispetto alla maturazione
citoplasmatica, il citoplasma diventa sempre più blu. Una
tossicità indicata come 2-3+ ha generalmente una colorazione moderatamente blu.
Oltre alla modificazione tintoriale citata, si può riscontrare un aspetto schiumoso o una vacuolizzazione del
citoplasma. Come nella colorazione blu, la tossicità più
grave comporta un aspetto maggiormente schiumoso e
vacuolizzato. In alcune specie animali (principalmente
cane e bovino), la presenza di aggregati lamellari di Reticolo Endoplasmatico Ruvido-RNA esita nella formazione
di inclusioni di colore blu chiaro piccole (di diametro
compreso fra meno di 1 e poco più di 1 μm) e di forma
irregolare nel citoplasma che possono essere individuate
a livello di microscopia ottica. Queste inclusioni prendono il nome di corpi di Döhle. Quando sono presenti nel
cane in associazione con un citoplasma più blu e potenzialmente schiumoso o vacuolizzato, vengono anch’esse
considerate un segno di tossicità. Nel gatto e nel cavallo,
non hanno alcun significato diagnostico.
Tipicamente, le alterazioni tossiche vengono interpretate in relazione alla gravità del processo infiammatorio.
Tanto più tali alterazioni sono gravi, tanto più grave è la
flogosi. Di norma, anche il numero e la distribuzione dei
leucociti (possibile spostamento a sinistra) riflettono la
gravità dell’infiammazione. Il riscontro di una grave tossicità a fronte di una neutropenia con un prominente spostamento a sinistra è indicativo di grave flogosi che travolge le difese dell’organismo e comporta una prognosi
variabile da riservata a grave. Il riscontro di una tossicità
lieve (indicata come “1+”) non va ignorato se l’osservazione viene formulata da un tecnico qualificato. Queste
alterazioni sono indicative di un’infiammazione più lieve
e si riflettono tipicamente in una modificazione numerica
dei leucociti più lieve o assente.
Oltre alle alterazioni citoplasmatiche, anche il possibile
riscontro di forme di neutrofili grandi o giganti viene considerato un segno di tossicità ed una conseguenza del “salto” di
uno o più periodi di divisione durante il processo di sviluppo.
Se ciò avviene, l’esito finale è una forma neutrofila che risulta più grande del normale. In molti casi, questo quadro è difficile da percepire, dal momento che la maggior parte se non
la totalità delle forme neutrofile avrà dimensioni simili e, a
meno che l’operatore non sia osservatore e confronti le forme
neutrofile con altri leucociti, passeranno inosservate.
LINFOCITI REATTIVI: “Riscontro di linfociti reattivi” è un commento comune nella maggior parte dei
referti degli esami emocromocitometrici completi. Il suo
significato è direttamente correlato alla stimolazione antigenica sistemica, ma le cause specifiche di questa stimo-
117
lazione non sono identificabili. La reattività linfocitaria è
tipicamente associata ad un aumento della colorazione
blu del citoplasma dei linfociti ed al potenziale incremento della quantità del citoplasma stesso. Nel sangue periferico si possono osservare anche, in rare occasioni, linfociti plasmocitoidi e plasmacellule ben differenziate. Queste cellule presentano moderate quantità di citoplasma di
intensa colorazione blu e possibili zone chiare perinucleari, variabili da maldistinte a distinte. I nuclei di queste cellule tendono ad essere tondeggianti, con quadri cromatinici uniformi e densi.
Una delle importanti caratteristiche correlate ai linfociti reattivi è la loro accurata identificazione. Molti inizialmente confondono i metarubriciti meno maturi (eritrociti
nucleati) con i linfociti reattivi. Anche la differenziazione
dai linfociti “atipici” può costituire un problema. In generale, i linfociti atipici presentano un aumento della quantità di citoplasma senza alcun significativo incremento
della colorazione blu dello stesso o solo con un aumento
minimo di tale affinità tintoriale. In alcuni casi, possono
essere presenti uno o più piccoli granuli citoplasmatici
rosa, di diametro molto inferiore ad un micron. Quando
non si osservano linfociti “atipici”, è necessario ricercare
una potenziale malattia linfoproliferativa sottostante.
Queste cellule possono rappresentare semplicemente una
stimolazione antigenica sistemica, come le più comuni
caratteristiche morfologiche “reattive”.
Il riscontro di linfociti “atipici” con pochi piccoli granuli citoplasmatici rosa e conteggi linfocitari che arrivano
sino a 15.000-20.000/μl è stato documentato in caso di
infezione sistemica cronica, in particolare nell’erlichiosi
cronica del cane. Il riscontro di linfociti “atipici” non
indica una neoplasia. Si raccomanda di rivolgersi ad un
patologo clinico veterinario o comunque a qualcuno con
più esperienza.
MONOCITI: nei monociti non si osservano anomalie
morfologiche imponenti. La possibilità di vedere dei monociti differenziati in macrofagi in circolo esiste, ma è molto
poco comune. L’identificazione di questi macrofagi viene
effettuata preferibilmente mediante valutazione dettagliata a
livello del margine sfrangiato dello striscio ematico. Sono
stati segnalati eritrociti fagocitati nell’anemia emolitica
immunomediata, vari agenti eziologici infettivi e cellule
anormali (leucemiche).
EOSINOFILI: gli eosinofili sono leucociti relativamente facili da identificare nel sangue periferico e, quando aumentano di numero, indicano la necessità di ricercare parassitosi sottostanti, ipersensibilità ed altre cause
specifiche di infiammazione eosinofilica. Esiste la possibilità che vadano incontro a degranulazione, che però è
poco comune nel sangue periferico. Gli eosinofili degranulati si presentano come leucociti polimorfonucleati con
molteplici vacuoli citoplasmatici chiari e ben distinti. Di
solito, si riscontrano uno o più granuli residui che rendono relativamente semplice l’identificazione di queste cellule. Gli eosinofili dei levrieri possono essere motivo di
confusione. I loro granuli di norma non si colorano bene
oppure possono apparire degranulati.
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Letture consigliate
CELLULE NORMALI/LEUCEMICHE: quando si riscontrano dei leucociti che non possono essere
identificati con facilità, si
deve prendere in considerazione l’eventualità di un
processo neoplastico sottostante, inviando il campione
ad un esame specialistico.
Se si trovano in circolo elementi fortemente immaturi,
per un’identificazione accurata può essere necessario il
ricorso a speciali procedure
di colorazione.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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ED, Rebar A and Weiser G. Veterinary Hematology and Clinical Chemistry. Wiley.
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Basic to the advanced diagnostic cytology:
Inflammatory disease
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
The identification of primary inflammatory disease is relatively simple in that the majority of the inflammatory cells
observed with the exception of members of the monocyte/macrophage family are commonly encountered in
peripheral blood and are relatively easy to identify. After a
process is identified as being inflammatory, the types of
inflammatory cells present give direction into the possible
underlying cause of the process. Different cellular distribution patterns are often seen associated with selective causes
and morphologic changes within some of the inflammatory
cell types themselves also provide insight into the cause of
the process. It should always be remembered that identification of an inflammatory process does not preclude the potential for an underlying neoplastic process and clinical signs,
signalment and history must all be used to properly interpret
a cytologic specimen. Several of the different inflammatory
patterns that are commonly encountered in veterinary medicine are included below.
NEUTROPHILIC INFLAMMATION
This category is among the most common type of inflammation we see in veterinary medicine. The cytologic appearance is one of a predominance of the acute inflammatory
cell, the neutrophil. Often times we associate this with a bacterial etiology which is a common cause but by no means are
bacterial agents the only possible cause for neutrophilic
inflammatory disease. One should consider a general category of strongly irritating agents when seeing a primarily
neutrophilic response. This also includes causes like chemicals such as seen in the case when the intravenous anesthetic accidentally gets perivascular during the administration
process. Severe tissue necrosis in the early stages can also
present with a primarily neutrophilic inflammatory process.
Beyond just the mere numbers of neutrophils predominating in this type of process, the morphology of the neutrophils
may provide clues as to the etiology of the lesion. Although
acute tissue necrosis can cause moderately severe neutrophil
degeneration, more commonly this cytologic finding is associated with a bacterial etiology as a direct result of either
endotoxins or exotoxins from the bacteria. These degenerative changes range from very mild alterations consisting of
nuclear swelling and hyalinization of the chromatin patterns
to severe alterations consisting of karyolysis and karyorrhexis. These latter two findings indicate sudden death of the
neutrophils. Often seen in association with all of the degen-
erative changes is pyknosis of neutrophil nuclei. If only
pyknosis is observed, one should be concerned about over
interpreting the specimen. This may merely be evidence of
slow neutrophil death associated with aged cells in the
inflammatory process. Another aging change, which should
not be confused with degeneration, is hypersegmentation.
This is a common finding in many of the fluids routinely collected or various inflammatory exudates. Most people associate this with a simple aging process of the neutrophil.
The absolute numbers of acute inflammatory cells seen in
a process needed to categorize the process as “neutrophilic”
is relatively arbitrary. There should be a predominance of
these cells and many people feel there should be greater
than 70% of the total cellularity consisting of neutrophils
before this classification can be made. The remainder of the
cells seen consist generally of a mixture of monocytes,
macrophages and lymphocytes in various stages of reactivity. Low numbers of mast cells, epithelioid cells and other
mixed inflammatory cells may also be present even in an
acute, septic inflammatory process with severe neutrophilic
degeneration.
EOSINOPHILIC INFLAMMATION
A special subcategory of active inflammation is
eosinophilic inflammation. By its name one can expect to
see large numbers of eosinophils in the process. This cell
type is helpful in identifying that there is a hypersensitivity component to the inflammatory process; however, it is
not generally helpful in identifying a specific etiology. Parasitic agents commonly present with this type of a response
but allergic responses to various non-infectious allergens
are possible as well. In addition, eosinophilic infiltrates
may be seen with mast cell tumor and other neoplastic conditions including T-cell malignant lymphoma and various
carcinomas.
MIXED (CHRONIC-ACTIVE)
INFLAMMATION
As one could expect from the title of this category, this is
a mixed inflammatory process that is often a mixture of neutrophils and macrophages with much lower numbers of other inflammatory cell types. Causes for these mixed processes include things such as foreign bodies be it plant material
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or keratin from a ruptured follicular cyst or epidermal inclusion or sebaceous cyst. Potential infectious agents such as
many of the systemic fungi and low grade irritant bacteria
such as members from the Actinomyceaceae family can also
present with a mixed inflammatory disease.
As mentioned above, neutrophils and macrophages typically predominate but reactive and normal appearing lymphocytes are commonly seen also. The macrophage population originates from the circulating monocytes but may be
morphologically challenging to the novice cytologist.
Macrophages represent a population of mono- or multinucleated cells with a wide range of morphologic appearances. They are generally round to slightly polyhedral cells
and they range in size from 20 micrometers to over several
hundred micrometers in diameter. Nuclei are often oval and
eccentrically placed in the cells. Nuclear chromatin patterns
are often open to lacy and there is moderate to abundant
amounts of pale basophilic cytoplasm. Cytoplasmic vacuolization and/or evidenced of phagocytosed cells, cellular
debris or particulate matter must be present to classify these
cells as macrophages. If similarly sized cells (on the small
end of the size range) with similar nuclei are observed without cytoplasmic vacuolization or phagocytosed material,
these cells are identified as epithelioid cells. This latter population of cells is in the monocyte/macrophages family but
plays more of a secretory role possibly helping control the
inflammatory process through the release of various mediators of inflammation. These cells originally received the
name epithelioid cells since their morphology is so similar to
epithelial cells.
As with the classification of neutrophilic inflammatory
processes the decision to classify an inflammatory process
mixed or chronic-active is based upon a relatively arbitrary
number of mononuclear and polymorphonuclear inflammatory cells. If the number of neutrophils is between 50% and
70% of the total cellularity, most individuals will classify the
process as mixed or chronic-active. As stated previously,
think more about what each cell population is needed for
rather than the specific subtyping of the inflammatory
process itself. The macrophages represent either a need for
removal of various debris or are required to handle a specific etiology such as a fungal agent. The macrophages are
often termed the “garbage can cell” since it is their job to
remove all the tissue debris and necrotic material from many
inflammatory foci. If there is a prominent population of
reactive lymphocytes in the inflammatory process then there
most likely is a significant degree of at least localized antigenic stimulation. It is not specific for an infectious agent
since other conditions including neoplastic disease also
stimulate a localized immune response.
120
MACROPHAGIC INFLAMMATION
This category of inflammatory disease presents with a
predominance of monocytes / macrophages. Generally one
classifies a response as macrophagic if greater than 50% of
the inflammatory cells seen fall in the category of mononuclear inflammatory cells. Stimuli for this type of inflammation consist of low-grade irritants like inert foreign material
and several specific fungal etiologies such as Histoplasma
capsulatum. In addition, certain bacteria (Mycobacterium
sp) also present primarily with a macrophagic inflammatory
response. Although many people think of the macrophage as
a “chronic” inflammatory cell, significant macrophagic
inflammation can occur “acutely” if the correct process such
as tissue necrosis or etiologic agent such as Mycobacteria
bacteria is present. A special subcategory of macrophagic
inflammation exists, namely granulomatous inflammation.
These responses present with a prominent population of
epithelioid cells and potentially multinucleated giant cells.
LYMPHOCYTIC INFLAMMATION
Pure or primary lymphocytic inflammation is uncommon;
however, conditions such as plasmacytic gingivitis or pododermatitis as well as lymphoplasmacytic enteritis and rhinitis do occur. The response is relatively non-specific merely
indicating localized chronic antigenic stimulation. A specific etiology is only rarely identified. The inflammatory
response typically consists of a mixture of normal small
lymphocytes, reactive lymphocytes, plasmacytoid lymphocytes and well-differentiated plasma cells. This heterogeneous mixture of lymphoid cellular elements in most cases
helps the differentiation of lymphocytic inflammation and
malignant lymphoma. Low to moderate numbers of this heterogeneous mixture of lymphocytes may be seen with any
other type of inflammatory response (neutrophilic,
eosinophilic, macrophagic or mixed inflammation) if there
is some source of local antigenic stimulation.
Selected References
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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Malattie infiammatorie:
dalle basi alla citologia avanzata
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
L’identificazione della malattia infiammatoria primaria è
relativamente semplice, dato che la maggior parte degli elementi flogistici osservati, con l’eccezione di quelli della famiglia dei monociti/macrofagi, si riscontra comunemente nel sangue periferico ed è relativamente facile da individuare. Dopo
aver identificato il processo come infiammatorio, il tipo di elementi flogistici presenti indirizza verso la possibile causa sottostante. Spesso si osservano differenti quadri di distribuzione
cellulare associati a determinate cause ed alterazioni morfologiche all’interno di alcuni dei tipi cellulari infiammatori stessi,
che forniscono indicazioni sulla causa del processo. Bisogna
sempre ricordare che l’identificazione di un’infiammazione
non esclude l’eventualità di un processo neoplastico sottostante e bisogna sempre utilizzare segni clinici, segnalamento ed
anamnesi per interpretare correttamente un campione citologico. Verranno illustrati alcuni dei differenti quadri infiammatori
comunemente riscontrati in medicina veterinaria.
INFIAMMAZIONE NEUTROFILA
Questa categoria rientra fra i tipi più comuni di infiammazione osservati in ambito veterinario. L’aspetto citologico è
quello di un predominio della cellula infiammatoria acuta: il
neutrofilo. Spesso, noi associamo questo riscontro ad un’eziologia batterica, che è una causa comune, ma ciò non
significa che questi microrganismi siano l’unica eziologia
possibile della flogosi neutrofila. È necessario prendere in
considerazione una categoria generale di agenti fortemente
irritanti quando si osserva una risposta principalmente neutrofila. Questa comprende anche cause come i composti chimici, quali quelli che si osservano in caso di accidentale
iniezione perivascolare di anestetici endovenosi durante il
processo di somministrazione. Anche la grave necrosi tissutale degli stadi iniziali può presentarsi con un processo
infiammatorio principalmente neutrofilo.
Oltre al mero numero di neutrofili che predominano in
questo tipo di processo, la morfologia di questi casi può fornire indicazioni sull’eziologia della lesione. Benché la
necrosi tissutale acuta possa causare una degenerazione neutrofila moderatamente grave, più comunemente questo
riscontro citologico è associato ad un’eziologia batterica,
come conseguenza diretta delle endotossine o esotossine
prodotte dai microrganismi. Queste alterazioni degenerative
variano da modificazioni molto lievi costituite da rigonfiamento nucleare e ialinizzazione del quadro cromatinico fino
a gravi anomalie come la cariolisi e la carioressi. Questi ulti-
mi due riscontri indicano la morte improvvisa dei neutrofili.
In associazione con tutte le alterazioni degenerative si osserva spesso la picnosi dei nuclei neutrofili. Se questa è presente da sola, è necessario preoccuparsi di sovrainterpretare
il campione. Il reperto può semplicemente essere la prova di
una lenta morte neutrofila associata all’invecchiamento delle cellule nel processo infiammatorio. Un’altra modificazione da invecchiamento, che non va confusa con la degenerazione, è l’ipersegmentazione. Questo è un riscontro comune
in molti dei fluidi prelevati di routine o in vari essudati
infiammatori. La maggior parte degli operatori associa questo quadro ad un semplice processo di invecchiamento del
neutrofilo. Il numero assoluto delle cellule infiammatorie
acute che occorre osservare per classificare un processo
come “neutrofilo” è relativamente arbitrario. Deve essere
presente un predominio di queste cellule e molti ritengono
che si debba arrivare a valori superiori al 70% della cellularità totale costituita da neutrofili prima di poter formulare
questa classificazione. Il resto delle cellule osservate è costituito generalmente da un miscela di monociti, macrofagi e
linfociti in vari stadi di reattività. Possono anche essere presenti bassi numeri di mast cell, cellule epitelioidi e altri elementi infiammatori misti, perfino in un processo infiammatorio settico acuto con grave degenerazione neutrofila.
INFIAMMAZIONE EOSINOFILICA
Una speciale sottocategoria dell’infiammazione attiva è
quella eosinofilica. Dato il suo nome, ci si aspetta di vedere un
gran numero di eosinofili. Questo tipo cellulare è utile per
identificare la presenza di una componente da ipersensibilità
nel processo infiammatorio; tuttavia, non è generalmente indicato per individuare un’eziologia specifica. Gli agenti parassitari presentano comunemente questo tipo di risposta, ma possono farlo anche le reazioni allergiche a vari allergeni non
infettivi. Inoltre, si possono osservare degli infiltrati eosinofilici in presenza di mastocitomi e di altre condizioni neoplastiche
come il linfoma maligno a cellule T e vari carcinomi.
INFIAMMAZIONE MISTA
(CRONICA-ATTIVA)
Come ci si potrebbe aspettare dal nome di questa categoria, si tratta di un processo infiammatorio di tipo misto, che
spesso presenta una miscela di neutrofili e macrofagi, con un
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numero molto inferiore di altri tipi di cellule infiammatorie.
Le cause di questi processi misti sono rappresentate da agenti come i corpi estranei, che si tratti di materiale di origine
vegetale o cheratina derivante dalla rottura di una cisti follicolare o un’inclusione epidermica o una cisti sebacea. Anche
i potenziali agenti infettanti, come molti dei miceti sistemici
ed i batteri che provocano irritazioni di basso grado, come i
membri della famiglia Actinomicetaceae, possono presentarsi con un quadro infiammatorio di tipo misto.
Come già ricordato, di norma predominano neutrofili e
macrofagi, ma si osservano anche comunemente linfociti
reattivi e di aspetto normale. La popolazione dei macrofagi
origina dai linfociti circolanti, ma può essere difficile da
interpretare da un punto di vista morfologico da parte di un
citologo alle prime armi. I macrofagi rappresentano una
popolazione di cellule mono- o multinucleate con un’ampia
gamma di aspetti morfologici. Sono generalmente tondeggianti o leggermente poliedrici ed hanno dimensioni variabili da 20 micron ad oltre parecchie centinaia di micron di diametro. I nuclei sono spesso ovali e posizionati in sede eccentrica all’interno della cellula. I quadri della cromatina
nucleare sono spesso aperti o merlettati e si riscontra una
quantità moderata o abbondante di pallido citoplasma basofilo. Per classificare queste cellule come macrofagi devono
essere presenti una vacuolizzazione citoplasmatica e/o segni
di cellule fagocitate, detriti cellulari o sostanza particolata.
Se si osservano cellule di dimensioni simili (o al limite inferiore della gamma dimensionale) con nuclei analoghi, ma
senza vacuolizzazione citoplasmatica o materiale fagocitato,
questi elementi vengono identificati come cellule epitelioidi.
Quest’ultima popolazione cellulare rientra nella famiglia dei
monociti/macrofagi, ma svolge maggiormente un ruolo
secretorio, arrivando a contribuire a controllare il processo
infiammatorio, attraverso il rilascio di vari mediatori della
flogosi. Queste cellule, in origine, hanno ricevuto il nome di
epitelioidi perché la loro morfologia è molto simile a quella
delle cellule epiteliali.
Come nel caso della classificazione del processo infiammatorio neutrofilo, la decisione di distinguere una flogosi
mista o cronica attiva si basa su un numero relativamente
arbitrario di elementi infiammatori mononucleati e polimorfonucleati. Se il numero dei neutrofili è compreso fra il
50 ed il 70% della cellularità totale, la maggior parte degli
operatori classifica il processo come di tipo misto o cronico
attivo. Come già ricordato, bisogna pensare più alla popolazione cellulare necessaria che al sottotipo specifico del processo infiammatorio stesso. I macrofagi rappresentano una
necessità per la rimozione dei vari detriti, oppure vengono
richiesti per contrastare uno specifico agente eziologico,
come un micete. Questi elementi vengono spesso indicati
con il termine di “cellule secchio della spazzatura” dal
momento che il loro compito è quello di rimuovere tutti i
detriti cellulari ed i materiali necrotici da molti focolai
infiammatori. Se nel processo infiammatorio si osserva una
popolazione prominente di linfociti reattivi, con tutta probabilità è presente un grado significativo di stimolazione
antigenica, come minimo localizzata. Non è specifica per
un agente infettivo, dato che anche altre condizioni, come le
122
affezioni neoplastiche, stimolano una risposta immunitaria
localizzata.
INFIAMMAZIONE MACROFAGICA
Questa categoria di flogosi si presenta con un predominio
di monociti/macrofagi. Generalmente, si classifica una
risposta come macrofagica se più del 50% degli elementi
infiammatori osservati rientra nella categoria delle cellule
mononucleate. Gli stimoli per questo tipo di infiammazione
sono rappresentati da agenti irritanti di basso grado come i
corpi estranei inerti e parecchie specifiche eziologie micotiche come Histoplasma capsulatum. Inoltre, anche certi batteri (Mycobacterium spp.) si presentano principalmente con
una risposta infiammatoria macrofagica. Benché molti pensino che il macrofago sia una cellula da infiammazione “cronica”, una quota significativa della flogosi macrofagica si
può verificare “in forma acuta” se è presente un processo di
tipo adeguato, come una necrosi tissutale, o un agente eziologico come un Mycobacterium.
Esiste una speciale sottocategoria dell’infiammazione
macrofagica, detta flogosi granulomatosa. Queste risposte si
presentano con una popolazione preminente di cellule epitelioidi e potenzialmente di elementi giganti multinucleati.
INFIAMMAZIONE LINFOCITARIA
L’infiammazione linfocitaria pura o primaria è poco
comune; tuttavia, si verificano condizioni come la gengivite o la pododermatite linfoplasmocitaria nonché come l’enterite e la rinite linfoplasmocitaria. La risposta è relativamente aspecifica ed indica puramente una stimolazione
antigenica cronica localizzata. Solo raramente viene identificata un’eziologia specifica. La risposta infiammatoria è
costituita tipicamente da una miscela di piccoli linfociti
normali, linfociti reattivi, linfociti plasmocitoidi e plasmacellule ben differenziate. Questa miscela eterogenea di elementi cellulari linfoidi nella maggior parte dei casi contribuisce alla differenziazione dall’infiammazione linfocitaria
e del linfoma maligno. Un numero basso o moderato di questa miscela eterogenea di linfociti si può osservare con qualsiasi altro tipo di risposta infiammatoria (neutrofila, eosinofilica, macrofagica o mista) in presenza di una qualche fonte di stimolazione antigenica locale.
Letture consigliate
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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123
Basic to the advanced diagnostic cytology:
Neoplastic disease
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
A group of general, nuclear and cytoplasmic cytologic
features identified microscopically can generally aid in the
characterization of malignant neoplastic conditions. The
general and nuclear criteria are considered to be stronger
than other criteria. There are no true minimum numbers of
criteria that must be present to accurately identify a malignant process. There are some malignant processes with minimal numbers of morphologic criteria and some benign
processes that could exhibit multiple criteria. The veterinarian must utilize the cytologic findings in combination with
clinical presentation to make an accurate assessment. The
various cytologic criteria of malignancy, which are of assistance to the veterinarian, are identified below.
GENERAL CRITERIA OF MALIGNANCY
Cellularity: In general, samples with high cellularity and no
significant inflammatory component, particularly body cavity
effusions, prove to be malignant. Possibly because of
decreased organization and cellular adhesions, malignant cells
more freely exfoliate whether naturally as in a body effusion or
artifactually as in a fine needle aspirate. This general criterion
is only appropriate for epithelial and mesenchymal tissues; discrete cell populations such as lymphoid tissue often yield high
numbers of cells with routine cytologic collections.
Pleomorphism: Most normal tissues have uniform populations of cells regarding cell size and shape. In malignant
neoplastic conditions, this uniformity is often lost and in the
more anaplastic pleomorphism may be so severe that accurate identification of tissue type may be impossible.
Location: The identification of even well differentiated
epithelial tissue within lymphoid tissue (regional metastasis), is diagnostic of malignant neoplasia. Cytologic evaluation of local lymph nodes in a suspect neoplastic condition
is always highly recommended. This criterion can be applied
to other tissue types also. For example, the identification of
well differentiated squamous epithelial cells with very few
other cytologic criteria of malignancy in a deep aspirate
from a lytic mandibular bone lesion would be highly diagnostic for squamous cell carcinoma.
NUCLEAR CRITERIA OF MALIGNANCY
Nuclear Size: In most normal, hyperplastic and benign
neoplastic tissues, nuclear size is relatively uniform. Within
malignant neoplastic tissues, anisokaryosis can be quite
prominent. If nuclei of suspect malignant cells vary greater
than 1.5 - 2 times the size of most other tissue cells of the
same type, malignancy can be highly suspected.
Nuclear Shape: Nuclear shape is generally preserved
within non-malignant tissues. If round nuclei are found
within the normal tissue population, the majority of the
benign cell population will have rounded nuclei also. In a
malignant neoplastic cell population, there may be a mixture of round to ovoid and possibly slightly or deeply
indented or clefted nuclei. On occasion, bizarre shaped
nuclei may be found.
Nuclear/Cytoplasmic Ratios: A uniform nuclear/cytoplasmic ratio is found within benign tissues. Variations in
this ratio between cells of a monotonous population of noninflammatory cells are highly supportive of malignancy in
most tissue types.
Nucleoli: Many normal, hyperplastic and benign neoplastic tissues have cells with single and occasionally multiple
nucleoli and in most cases, these nucleoli are small, round
and uniform in size within that particular tissue cell population. Many malignant neoplastic cell populations have multiple, prominent nucleoli with possible variable sizes and
shapes between cells and within the nucleus of the same cell.
When marked variation in nucleoli is identified, this is generally a strong criterion of malignancy.
Nuclear Chromatin Patterns: Uniformity in nuclear
chromatin patterns is the rule for benign cells. These patterns
may vary from finely stippled, to coarse or granular in
nature. In malignant neoplastic tissue cells, abnormal
amounts of nuclear chromatin (aneuploidy) will be evident
by the finding of larger numbers of cells with increased
nuclear density and the density of nuclear chromatin staining will be more variable than the few cells preparing for
division in benign tissue. In many cases, abnormal clumping
of nuclear chromatin will be found in malignant cell populations. This is a strong criterion of malignancy.
Nuclear Molding: With normal or benign proliferative
tissue, there is organization with orderly proliferation due to
contact inhibition of proliferation resulting in no distortion
of adjacent cells. Loss of contact inhibition and abnormal
proliferation of malignant neoplastic tissue is often seen.
Cytologically, this can be demonstrated by the finding of
nuclear molding where neoplastic cells in a closely packed
cluster compress and distort the adjacent cells and their
nuclei. In many cases, the nucleus being deformed is indented by the compression process.
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Mitotic Figures: Many neoplastic conditions have high
mitotic rates and this may in fact be valuable in grading a
neoplastic process; however, the finding of a high mitotic
index is not a good criterion of malignancy; this merely supports a high rate of cellular division. However, the finding of
abnormal mitotic figures is a strong feature of malignant
neoplastic tissue.
Multiple Nuclei: The finding of multiple nuclei within a
single cell is not supportive of malignancy in few cell populations; however, the finding of marked variation in nuclear
size and the presence of micronuclei within a multinucleated cell are very supportive of malignancy and may be evidence of abnormal division.
CYTOPLASMIC CRITERIA
OF MALIGNANCY
Cytoplasmic Basophilia: Immature and highly activated
cells often have relatively deeply blue cytoplasm due to the
increased relative amounts of cytoplasmic RNA compared to
more differentiated cells or cell populations not involved
with significant protein synthesis. In many malignant neoplastic cell populations, there is abnormal maturation of the
cytoplasm and in many cases dysynchronous maturation
between cytoplasm and nucleus resulting in immature
appearing cytoplasm with high amounts of RNA giving the
cytoplasm a deep blue staining pattern. Since normal cells
can have deeply blue cytoplasm, this feature is not a relatively strong criterion of malignancy.
Cytoplasmic Vacuolization: Many cells of different tissue
types may have cytoplasmic vacuoles for a variety of reasons;
therefore, this is a poor morphologic criteria of malignancy.
However, with some malignant glandular tumors, single,
large, clear cytoplasmic vacuoles causing compression of the
nucleus peripherally may be found; the cells with these types
of vacuoles are classified as signet ring cells. If present in high
numbers, the finding of signet ring cells may be additional
cytomorphologic support for malignancy.
Cannibalism: Phagocytosis of cells of the same tissue
type, cannibalism, is a process generally restricted to
macrophages and possibly neutrophils regarding non-malignant cell populations. With some malignant cell populations,
cannibalism could be quite extensive and can be used as a
criterion of malignancy.
124
TISSUE TYPE IDENTIFICATION
After identification of a malignant neoplastic process, the
next step in characterization is identifying the primary tissue
of origin and morphologic features can help with this
process. The primary features of epithelial tissue origin
include the presence of generally round cells with round
nuclei. These cells will have cell-cell connections and
should present in cohesive groups of varying sizes. The primary features of mesenchymal tissue origin include the finding of individualized elongate, stellate, polygonal or spindle
shaped cells with slightly oval nuclei. Extracellular proteinaceous material may be present. Discrete round cell neoplasms are typically characterized as individualized round
mononuclear cells with round to slightly indented nuclei.
This neoplasm group includes lymphoid tumors (lymphoma,
plasma cell tumor, etc.), histiocytic tumors, mast cell tumor
and TVT. Many of these round cell tumors will have distinctive cytomorphologic features such as cytoplasmic granules that aid in their identification.
The potential of mixed neoplastic and inflammatory
processes exist and these will present with the most difficulty for accurate assessment. When there is a significant
inflammatory process, the potential for marked and often
dysplastic hyperplasia of normal tissue elements (epithelial
hyperplasia, fibroplasia / granulation tissue, etc.). Morphologic changes within these markedly hyperplastic cells may
mimic many of the cytomorphologic features of malignancy;
therefore, when an inflammatory and non-inflammatory
process is identified, caution is strongly recommended to
prevent over interpretation of the specimen. Histologic confirmation of any suspected malignant process should be considered when this type of process is encountered.
Selected References
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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Malattie neoplastiche:
dalle basi alla citologia avanzata
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
L’identificazione microscopica di un gruppo di caratteristiche citologiche generali, sia nucleari che citoplasmatiche,
di norma può contribuire alla caratterizzazione delle condizioni neoplastiche maligne. I criteri generali e nucleari sono
considerati più validi degli altri. Non esiste alcun autentico
numero minimo di criteri che debbano essere presenti per
poter identificare accuratamente un processo maligno. Esistono alcuni processi maligni con pochissimi criteri morfologici, mentre ve ne sono altri, benigni, che possono
mostrarne molteplici. Il veterinario deve utilizzare i riscontri
citologici in associazione con la presentazione clinica per
giungere a formulare una diagnosi accurata. Verranno illustrati i vari criteri di malignità che possono risultare utili in
queste occasioni.
CRITERI GENERALI DI MALIGNITÀ
Cellularità: in generale, i campioni con un’elevata cellularità e senza alcuna componente infiammatoria significativa, in particolare versamenti nelle cavità corporee, si dimostrano maligni. Eventualmente, a causa della diminuita organizzazione ed adesione cellulare le cellule maligne possono
esfoliare più liberamente sia per cause naturali, passando in
un versamento corporeo, che in seguito ad un artefatto, come
nell’aspirazione con ago sottile. Questo criterio generale è
appropriato soltanto per i tessuti epiteliali e mesenchimali; le
popolazioni a cellule isolate come il tessuto linfoide spesso
forniscono un numero elevato di cellule nei campioni citologici di routine.
Pleomorfismo: la maggior parte dei tessuti normali presenta popolazioni di cellule omogenee per forma e dimensioni. Nelle condizioni neoplastiche maligne, questa uniformità va spesso perduta ed è il pleomorfismo più anaplastico
che può essere così grave da rendere impossibile l’accurata
identificazione del tipo di tessuto.
Localizzazione: L’identificazione di un tessuto epiteliale
ancora ben differenziato all’interno del tessuto linfoide
(metastasi regionale) ha valore diagnostico per la neoplasia
maligna. In una sospetta condizione neoplastica è sempre
altamente raccomandata la valutazione citologica dei linfonodi locali. Questo criterio si può applicare ad altri tipi tissutali. Ad esempio, l’identificazione di cellule epiteliali
squamose ben differenziate con pochissimi altri criteri citologici di malignità in un aspirato profondo ottenuto da una
lesione litica dell’osso mandibolare potrebbe risultare altamente diagnostica per il carcinoma squamocellulare.
CRITERI NUCLEARI DI MALIGNITÀ
Dimensioni del nucleo: Nella maggior parte dei tessuti
neoplastici normali, iperplastici e benigni, le dimensioni
nucleari sono relativamente uniformi. Nei tessuti neoplastici maligni, l’anisocariosi può essere molto accentuata. Se i
nuclei di cellule con presunta malignità variano di più di
1,5-2 volte della maggior parte degli altri elementi tissutali dello stesso tipo, si può sospettare fortemente un processo maligno.
Forma del nucleo: La forma del nucleo è generalmente
conservata nei tessuti non maligni. Se si riscontrano nuclei
tondeggianti all’interno della popolazione tissutale normale,
anche la maggior parte degli elementi benigni presenterà la
stessa caratteristica. In una popolazione cellulare neoplastica maligna si può invece riscontrare una mescolanza di
nuclei tondeggianti o ovali ed eventualmente leggermente o
profondamente indentati o fessurati. Occasionalmente, si
possono trovare nuclei di forma bizzarra.
Rapporto nucleo/citoplasmatico: Nei tessuti benigni, si
riscontra un rapporto nucleo citoplasmatico uniforme. Nella
maggior parte dei tipi tissutali, variazioni di questo valore
fra le cellule di una popolazione monotona di elementi non
infiammatori sono altamente indicative della malignità.
Nucleoli: Molti tessuti normali, iperplastici e neoplastici
benigni presentano cellule con nucleoli singoli ed occasionalmente multipli e nella maggior parte dei casi questi
nucleoli sono piccoli, tondeggianti e di dimensioni uniformi
all’interno di quella particolare linea di cellule tissutali.
Molte popolazioni neoplastiche maligne presentano nucleoli multipli e prominenti, con possibili variazioni di dimensioni e di forma da una cellula all’altra ed all’interno del
nucleo della stessa cellula. Quando si identifica una marcata
variazione dei nucleoli, questo è generalmente un forte criterio di malignità.
Quadri di cromatina nucleare: L’uniformità dei quadri
della cromatina nucleare è la regola delle cellule benigne.
Questi quadri possono variare da finemente puntinati a grossolani o granulari. Nelle cellule tissutali neoplastiche maligne, la presenza di quantità anormali di cromatina nucleare
(aneuploidia) si manifesterà con un aumento numerico degli
elementi con un’aumentata densità nucleare e la colorazione
cromatinica sarà più variabile rispetto a quella che si riscontra nel caso di poche cellule che si preparano per la divisione nel tessuto benigno. In molti casi, nelle popolazioni cellulari maligne si troveranno ammassi anormali di cromatina
nucleare. Questo è un forte criterio di malignità.
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Modellamento nucleare: Nel tessuto proliferativo normale o benigno si riscontra un’organizzazione caratterizzata
da una proliferazione ordinata, dovuta all’inibizione da contatto della proliferazione stessa, che esita nella mancanza di
distorsione delle cellule adiacenti. Spesso si osserva la perdita di questa inibizione accompagnata da una proliferazione anormale del tessuto neoplastico maligno. Citologicamente, questo fenomeno può essere dimostrato dal riscontro
del modellamento nucleare, dove le cellule neoplastiche in
un grappolo strettamente addossate le une alle altre comprimono e distorcono quelle adiacenti ed i loro nuclei. In molti casi, il nucleo che viene deformato è indentato dal processo di compressione.
Figure mitotiche: Molte condizioni neoplastiche presentano elevate percentuali mitotiche e questo può in realtà
essere utile per graduare un processo tumorale; tuttavia, il
riscontro di un elevato indice mitotico non è un buon criterio di malignità; non fa altro che sostenere un elevato tasso
di divisione cellulare. Tuttavia, la presenza di figure mitotiche anormali è una valida caratteristica di un tessuto neoplastico maligno.
Nuclei multipli: L’identificazione di nuclei multipli
all’interno di una singola cellula non depone a favore della
malignità in una popolazione costituita da pochi elementi;
invece, l’esistenza di una marcata variazione delle dimensioni nucleari e la presenza di micronuclei all’interno di una
cellula multinucleata sono fortemente indicativi di malignità
e possono costituire una prova di divisione anormale.
CRITERI CITOPLASMATICI DI MALIGNITÀ
Basofilia del citoplasma: Le cellule immature ed altamente attivate spesso presentano un citoplasma dalla colorazione blu relativamente intensa, dovuta all’aumento della
quantità relativa di RNA citoplasmatico in confronto a elementi più differenziati o popolazioni cellulari non coinvolte
da una significativa sintesi proteica.
In molte popolazioni cellulari neoplastiche maligne, si
riscontra una maturazione anormale del citoplasma ed in
molti casi una maturazione non sincrona di citoplasma e
nucleo, che fa sì che il primo abbia un aspetto immaturo,
con elevate quantità di RNA che gli conferiscono un quadro tintoriale blu intenso. Dal momento che le cellule normali possono presentare un citoplasma intensamente blu,
questa caratteristica non è un criterio relativamente forte
di malignità.
Vacuolizzazione citoplasmatica: Molte cellule di differenti tipi tissutali possono presentare vacuoli citoplasmatici
per una varietà di ragioni; di conseguenza, questo è uno scarso criterio morfologico di malignità. Tuttavia, nel caso di
alcuni tumori ghiandolari maligni, si possono riscontrare
grandi vacuoli citoplasmatici singoli e chiari, che provocano
la compressione del nucleo che viene spinto a livello periferico. Le cellule con questo tipo di vacuoli vengono definite
“ad anello con castone”. Se presenti in numero elevato, il
loro riscontro può essere un ulteriore sostegno citomorfologico della malignità.
126
Cannibalismo: La fagocitosi di elementi dello stesso tipo
tissutale, cioè il cannibalismo, è un processo generalmente
limitato ai macrofagi ed eventualmente ai neutrofili, che
riguarda le popolazioni cellulari non maligne. Nel caso di
alcune di quelle maligne, il cannibalismo potrebbe essere
molto esteso e potrebbe venire utilizzato come criterio di
malignità.
IDENTIFICAZIONE DEL TIPO CELLULARE
Dopo aver identificato un processo neoplastico maligno, il
passo successivo nella caratterizzazione consiste nell’individuare il tessuto primario di origine; nell’ambito di questo processo possono risultare utili gli aspetti morfologici. Le caratteristiche primarie del tessuto di origine epiteliale sono date
dalla presenza di cellule generalmente rotonde con nuclei tondeggianti. Questi elementi mostrano delle connessioni da cellula a cellula e dovrebbero comparire in gruppi coesi di
dimensioni variabili. Le caratteristiche primarie dell’origine
del tessuto mesenchimale sono rappresentate dal riscontro di
cellule individualmente allungate, stellate, poligonali o fusiformi con nuclei leggermente ovali. Si può osservare un materiale proteico esterno. Le neoplasie a cellule rotonde isolate
sono tipicamente caratterizzate da singoli elementi mononucleari di forma circolare, con nuclei tondeggianti o leggermente indentati. Questo gruppo comprende i tumori linfoidi
(linfoma, plasmocitoma, ecc..) e quelli istiocitari (mastocitoma e tumore venereo trasmissibile [TVT]). Molte di queste
neoplasie a cellule rotonde presentano caratteristiche citomorfologiche distintive, quali granuli citoplasmatici, che contribuiscono alla loro identificazione.
È possibile che si verifichino processi di tipo misto, neoplastico ed infiammatorio: sono quelli più difficili da valutare accuratamente. Quando è presente un processo infiammatorio significativo, si può avere una marcata e spesso displasica iperplasia degli elementi del tessuto normale (iperplasia
epiteliale, fibroplasia/ tessuto di granulazione, ecc..). Le
modificazioni morfologiche di queste cellule marcatamente
iperplastiche possono simulare molte delle caratteristiche
citomorfologiche della malignità; di conseguenza, quando si
identifica un processo infiammatorio e non infiammatorio, si
raccomanda di operare con molta cautela per evitare di interpretare erroneamente il campione. Quando si incontra questo tipo di processo, si deve prendere in considerazione il
ricorso alla conferma istologica di qualsiasi presunto processo maligno.
Letture consigliate
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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127
Thoracic and Abdominal Fluid Evaluation:
Immediate essential information on critical
and non-critical patients
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
Thoracic and abdominal fluid accumulation in animals
can be associated with a chronic gradual or acute critical
presentation. Characterization of the fluid becomes an
essential component of the patient work-up to both help
identify the mechanism of formation of the fluid and to
guide therapeutic intervention. There are several commonly
used categories for fluid characterization including transudate, modified transudate and exudate and there are general
guidelines for these characterizations and the differential for
the mechanism of these fluid formations are somewhat different and therefore provide some direction in limiting the
clinical differential but there is significant overlapping of
characteristics and similar mechanisms can result in different types of fluid formation, so this categorization has limited value. The categorization is primarily related to gross,
chemical (primarily total protein content) and quantitative
cytologic features; however, the microscopic characterization of the fluid regarding the types of cells present are an
essential component to help identify the underlying cause of
the fluid formation itself. Even if no protein content or quantitative cytologic assessment is performed, the microscopic
evaluation of the types of cells present is something that can
provide immediate information about the fluid and is the
most important component of the fluid assessment. The different categories of fluid formation including what is considered normal for the dog and cat are characterized below.
Normal Findings: Pleural and peritoneal fluid collection
is difficult in the normal dog and cat because of the limited
volume present and the trapping of this fluid between thoracic and abdominal viscera. Protein content is typically
much less than 30 g/L and the total cell count is generally
less than 500x106/L. Cells present in normal pleural, pericardial, and peritoneal fluids include low numbers of
mesothelial cells and occasionally seen inflammatory cells.
Mesothelial cells are present in small clusters or as individuals. If knocked loose from the cavity lining during the collection process, mesothelial cells resemble squamous cells
with a low N/C ratio and abundant faintly basophilic cytoplasm. Mesothelial cells that have naturally exfoliated into
the fluid are rounded up and are quite basophilic (“dark”
mesothelial cells). They measure between 25 and 35µ in
diameter. Nuclei are centrally located, round, and uniformly
granular. Cytoplasm is abundant. The most striking characteristic of these cells is the presence of an eosinophilic
peripheral brush border or “skirt” if they have exfoliated
recently.
The inflammatory cells present in normal fluids have the
morphology of normal peripheral blood leukocytes. The predominant leukocyte seen varies with the species. In dogs and
horses, neutrophils are prevalent. In cats and cattle, lymphocytes predominate.
Transudate: Transudates are defined as excessive accumulations of fluid having normal characteristics. Transudates therefore have low total protein (less than 30 g/L) and
low nucleated cell counts (less than 500 nucleated cells
x106/L) for the dog and cat. These fluids are commonly the
result of venous stasis and less frequently from hypoalbuminemia and lymphatic obstruction (congestive heart failure, liver failure, the nephrotic syndrome, and in some cases
of neoplasia. It is emphasized that pleural and peritoneal
effusions due solely to hypoalbuminemia will only occur
when serum albumin levels fall below 10 g/L.
Transudative fluids are quite clear at the time of collection. While most transudates are nonspecific cytologically,
those which are caused by neoplasms may contain malignant
cells which allow specific diagnosis. To maximize the likelihood of finding such abnormal cells, concentrated cellular
preparations should be evaluated.
Modified transudates: The accumulation of transudative
fluid in one of the body cavities causes increased pressure
which is irritating to the mesothelial cells resulting in proliferation and sloughing into the effusion. With time these cells
die and release chemoattractants drawing phagocytes into
the effusion. The result is a mild increase in both total protein (30-50 g/L) and nucleated cell count (slightly more than
500x106/L). When this occurs, the fluid is known as a modified transudate. Thus, modified transudates are nothing
more than transudates which have been present long enough
to illicit a mild inflammatory reaction. Eventually, characteristics of the fluid may change enough so that the fluid is
classified as an exudate. The microscopic evaluation of the
fluid generally provides critical information for correct
interpretation.
Exudates: Exudates are defined as fluid accumulations
which are abnormally high in total solids and/or nucleated
cell count. Total proteins range between 30 and 70 g/L and
total cell counts may be as high as 100,000x106/L. The vast
majority of exudates are caused by inflammation; however,
the common denominator of exudate formation is vascular
damage. Consequently, both hemorrhage and chylous effusions are classified as exudates on the basis of physical characteristics and pathogenesis.
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Inflammatory exudates are classified like classic cytologic sample characterization. Because of local irritation, some
degree of reactive mesothelial cell hyperplasia is present.
Most inflammatory effusions are cytologically nonspecific in terms of etiologic diagnosis. Again, classic cytologic
characterization of a sample is used to help either identify an
underlying infectious agent or direct the veterinarian to additional diagnostic procedures.
Several fluid formations that do not typically follow this
classification system and should be considered separately
are discussed below.
Feline infectious peritonitis (FIP): FIP is unique
among most exudates in that the fluid which accumulates
is of low cellularity. Total protein content is typically
extremely high, which is a reflection of a similar elevation
in serum protein (polyclonal gammopathy). The cellular
response is most commonly neutrophilic in character; nondegenerate neutrophils predominate. Low to sometimes
significant numbers of normal small lymphocytes and
macrophages may be seen also.
Bile pleuritis/peritonitis: Because bile is a very irritative
substance, its presence very quickly elicits an inflammatory
response. The cellular response is mixed with many neutrophils associated with the acute irritant but with a significant influx of macropahges present for removal of the foreign material and degenerating cells. Bile is seen as greenish
to black granular material scattered in the slide background
and in the cytoplasm of reactive mesothelial cells and
macrophages. Reactively mesothelial hyperplasia is a common finding with these effusions.
Parasitic effusions: As expected, parasitic infections are
often characterized by eosinophilic exudates. In dogs the
most common such effusion is the pleural effusion associated with heartworm disease. It should be emphasized that not
all cases of parasitic effusion are characterized by
eosinophilic exudates; in many cases the exudate is non-specific. A small number of non-parasitic infections can result
in eosinophilic peritoneal or pleural effusions also. For
example, we have seen such responses in association with
systemic microcytosis in dogs, eosinophilic pneumonitis in
cats and a variety of neoplastic conditions including lymphoproliferative disease and various carcinomas in a variety
of species.
Chylous effusions: Chylous effusions are the result of
leakage of lymph into the body cavity and may involve
either the pleural or peritoneal space. These fluids are often
described as opaque milky fluids; however, it should be
128
emphasized that depending on the lipid content and longevity of the fluid, they may be clear and colorless. Consistent
characteristics include the finding of a high protein concentration (35-45 g/L) but relatively low cellularity. Cytologically, they are associated with significant numbers of normal
appearing small lymphocytes but since the lipid is relatively
irritating rather significant numbers (and potentially predominating numbers) of mature nondegenerate neutrophils
as well as significant numbers of hyperplastic mesothelial
cells can be present It is important to note that in the cat,
cardiac disease results in pleural effusions which are indistinguishable from chylothorax. The mechanisms behind
these effusions have not been clarified; however, it is well
established that heart failure causes venous and lymphatic
stasis with increases pressure. In the cat it appears that these
circumstances predispose to lymphatic leakage and result in
a secondary chylous effusion.
Hemorrhagic effusions: True hemorrhagic exudates can
occur in any of the major body cavities. Grossly, these effusions are red to serosanguinous depending upon the age of
the exudate and the extent of the hemorrhage. Physical evaluation reveals a protein level reflective of but somewhat less
than that of peripheral blood. Both nucleated cell counts and
red blood cell counts are elevated. These fluids contain predominantly red blood cells with lesser numbers of nucleated
cells. The most significant indicator of true hemorrhage is
the presence of activated macrophages containing phagocytosed red cells or hemosiderin. True hemorrhagic exudates
are devoid of platelets but they are commonly observed in
contaminated samples.
Neoplastic effusions: A variety of primary and secondary
neoplastic processes involving the thoracic and peritoneal
cavities can be seen in the dog and cat and clearly the microscopic identification of these neoplastic cells become diagnostic. The character of the fluid related to protein content
and total cell count is dramatically variable.
Selected References
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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129
Valutazione dei versamenti addominali ed toracici:
informazioni essenziali immediate
in pazienti critici e non
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
L’accumulo di fluidi a livello toracico ed addominale
negli animali può essere associato ad un quadro cronico e
graduale oppure acuto e critico. La caratterizzazione del
liquido diviene una componente essenziale della valutazione
diagnostica del paziente, sia perché contribuisce ad identificare il meccanismo di formazione del versamento che per
guidare l’intervento terapeutico. Esistono e vengono comunemente utilizzate parecchie categorie di classificazione dei
fluidi, distinguendo trasudati, trasudati modificati ed essudati; queste suddivisioni vengono effettuate sulla base di linee
guida generali che tengono conto del fatto che i meccanismi
di formazione dei fluidi sono abbastanza differenti e, di conseguenza, forniscono una certa indicazione per ridurre le
possibili diagnosi differenziali dal punto di vista clinico; tuttavia, esiste una significativa sovrapposizione delle caratteristiche e meccanismi simili possono esitare in differenti tipi
di formazione dei fluidi, per cui questa classificazione ha
valore limitato. La distinzione in categorie è principalmente
correlata ai riscontri macroscopici e chimici (principalmente, il contenuto di proteine totali) ed alla citologia quantitativa; tuttavia, la caratterizzazione microscopica del fluido
per quanto riguarda il tipo di cellule presenti è una componente essenziale che risulta utile per identificare la causa sottostante della formazione stessa del fluido. Anche se non si
esegue alcuna valutazione del contenuto proteico o della
citologia quantitativa, l’esame al microscopio dei tipi di cellule presenti è qualcosa che può fornire informazioni immediate sul fluido ed è la componente più importante della
valutazione di questi liquidi. Verranno elencate le differenti
categorie di formazione dei fluidi, unitamente ai reperti considerati normali nel cane e nel gatto.
Riscontri normali: il prelievo del liquido pleurico e peritoneale nei cani e nei gatti normali è difficile a causa dello
scarso volume presente e dell’intrappolamento del fluido fra
i visceri toracici ed addominali. Il contenuto proteico è di
norma molto inferiore a 30 g/l ed il conteggio cellulare totale è generalmente al di sotto di 550 x 106/l. Il quadro citologico riscontrabile nei fluidi pleurici, pericardici e peritoneali normali è rappresentato da un basso numero di cellule
mesoteliali e, occasionalmente, da elementi infiammatori.
Le cellule mesoteliali sono presenti in piccoli grappoli oppure singolarmente. Quando vengono distaccati dal rivestimento cavitario durante il procedimento di raccolta, questi
elementi somigliano alle cellule squamose con un basso rapporto nucleo/citoplasmatico ed un abbondante citoplasma
debolmente basofilo. Le cellule mesoteliali che sono passate nel fluido per esfoliazione naturale sono tondeggianti e
fortemente basofile (cellule mesoteliali “scure”). Misurano
da 25 a 35 μ di diametro. I nuclei sono localizzati in posizione centrale, tondeggianti ed uniformemente granulari. Il
citoplasma è abbondante. La caratteristica maggiormente
distintiva di queste cellule è la presenza di un orletto a spazzola eosinofilo o “gonna” se sono state esfoliate di recente.
Gli elementi infiammatori che si riscontrano nei fluidi
normali hanno la morfologia ordinaria dei leucociti del sangue periferico. Il leucocita predominante osservato varia in
funzione della specie animale. Nel cane e nel cavallo prevalgono i neutrofili. Nel gatto e nel bovino, i linfociti.
Trasudato: I trasudati si definiscono come accumuli
eccessivi di fluidi con caratteristiche normali. Di conseguenza, sia nel cane che nel gatto presentano un basso valore di
proteine totali (inferiore a 30 g/l) e di cellule nucleate (inferiore a 500 x 106/l). Questi fluidi sono dovuti comunemente
ad una stasi venosa e, meno frequentemente, ad ipoalbuminemia ed ostruzione linfatica (insufficienza cardiaca congestizia, insufficienza epatica, sindrome nefrosica ed alcuni
casi di neoplasia). Va sottolineato che i versamenti pleurici e
peritoneali dovuti unicamente all’ipoalbuminemia si riscontrano soltanto quando i livelli di albumina sierica cadono al
di sotto di 10 g/l.
I trasudati sono molto limpidi al momento del prelievo. La
maggior parte di essi presenta caratteristiche aspecifiche del
punto di vista citologico, ma quelli che vengono causati da
neoplasie possono contenere cellule maligne che consentono
una diagnosi specifica. Per massimizzare la probabilità di
trovare queste cellule anormali, si devono valutare preparati
cellulari concentrati.
Trasudati modificati: l’accumulo di fluidi trasudatizi in
una delle cavità corporee provoca un aumento della pressione che irrita gli elementi mesoteliali, con conseguente
proliferazione e distacco con passaggio nel liquido di versamento. Col tempo, queste cellule muoiono e rilasciano
sostanze chemioattrattrici che attirano i fagociti nel versamento. Il risultato è un lieve aumento sia delle proteine
totali (30-50 g/l) che delle cellule nucleate (leggermente
superiori a 500 x 106/l). Quando ciò avviene, il fluido prende il nome di trasudato modificato. Quindi, i trasudati
modificati non sono nient’altro che trasudati che sono presenti da abbastanza tempo da aver suscitato una lieve reazione infiammatoria. Infine, le caratteristiche del fluido
possono cambiare così tanto che il liquido viene classificato come essudato. La sua valutazione microscopica generalmente fornisce informazioni di importanza critica per
una corretta interpretazione.
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Essudati: gli essudati si definiscono come accumuli di
liquidi che presentano livelli abnormemente elevati di solidi
totali e/o cellule nucleate. Le proteine totali variano tra 30 e
70 g/l e le cellule totali possono arrivare fino a 100.000 x
106/l. La grande maggioranza degli essudati è causata da
processi infiammatori; tuttavia, il denominatore comune della loro formazione è il danno vascolare. Di conseguenza, sia
i versamenti emorragici che quelli chilosi sono classificati
come essudati sulla base delle caratteristiche fisiche e della
patogenesi.
Gli essudati infiammatori sono distinti in base alla caratterizzazione del campione citologico classico. A causa dell’irritazione locale, è presente un certo grado di iperplasia
reattiva delle cellule mesoteliali.
La maggior parte dei versamenti infiammatori presenta
caratteristiche citologiche aspecifiche ai fini della diagnosi
eziologica. Anche in questo caso, si utilizza la classica caratterizzazione citologica di un campione per contribuire ad
identificare un agente infettivo sottostante o orientare il veterinario verso ulteriori procedure diagnostiche.
Verranno illustrate diverse formazioni di fluidi che non
seguono tipicamente questo sistema di classificazione e
devono essere considerati a parte.
Peritonite infettiva felina (FIP): la FIP presenta caratteristiche esclusive fra la maggior parte degli essudati, dal
momento che il liquido che si accumula ha una cellularità
bassa. Il contenuto proteico totale di norma è estremamente
elevato, il che riflette un analogo innalzamento delle proteine sieriche (gammopatia policlonale). La risposta cellulare
nella maggior parte dei casi è caratterizzata dai neutrofili; fra
questi, predominano quelli non degenerati. Si possono osservare anche numeri bassi o talvolta significativi di piccoli linfociti normali e macrofagi.
Pleurite/peritonite biliare: Poiché la bile è una sostanza
molto irritante, la sua presenza suscita molto rapidamente
una risposta infiammatoria. Tale risposta cellulare è di tipo
misto, con molti neutrofili associati all’agente irritante acuto, ma con un significativo afflusso di macrofagi che intervengono per rimuovere il materiale estraneo e le cellule in
via di degenerazione. La bile si osserva sotto forma di un
materiale verdastro o nero diffuso sullo sfondo del vetrino e
nel citoplasma dei macrofagi e degli elementi mesoteliali
reattivi. L’iperplasia mesoteliale reattiva è un riscontro
comune in questi versamenti.
Versamento parassitario: Come prevedibile, le infestazioni parassitarie sono spesso caratterizzate da essudati eosinofilici. Nel cane, il più comune versamento di questo tipo è
quello pleurico associato alla filariosi cardiopolmonare. Va
sottolineato che non tutti i casi di versamento parassitario
sono contraddistinti da essudati eosinofilici; in molti casi, il
quadro è aspecifico. Anche un piccolo numero di infezioni
non parassitarie può esitare in versamenti peritoneali o pleurici eosinofilici. Ad esempio, abbiamo osservato risposte di
questo tipo in associazione con la microcitosi sistemica nel
cane, la polmonite eosinofilica nel gatto ed una varietà di
condizioni neoplastiche come le malattie linfoproliferative e
vari tipi di carcinoma in una gran varietà di specie animali.
130
Versamenti chilosi: I versamenti chilosi sono la conseguenza della fuoriuscita della linfa nella cavità corporea e
possono colpire sia lo spazio pleurico che quello peritoneale. Questi fluidi vengono spesso descritti come opachi e lattiginosi; tuttavia, va sottolineato che a seconda del loro contenuto lipidico e della durata del periodo di tempo da cui
sono presenti, possono essere limpidi ed incolori. Le caratteristiche costanti sono rappresentate dal riscontro di elevate
concentrazioni di proteine (35-45 g/l), ma con una cellularità relativamente bassa. Dal punto di vista citologico, si rileva un’associazione con un numero significativo di piccoli
linfociti di aspetto normale, ma, dal momento che i lipidi
sono relativamente irritanti, possono essere presenti in quantità abbastanza significative (e potenzialmente predominanti) anche dei neutrofili maturi non degenerati nonché, in
misura significativa, delle cellule mesoteliali iperplastiche. È
importante notare che nel gatto la cardiopatia esita in versamenti pleurici indistinguibili dal chilotorace. I meccanismi
che stanno alla base di questi versamenti non sono stati riferiti; tuttavia, è ben accertato che l’insufficienza cardiaca provoca una stasi venosa e linfatica con aumento della pressione. Nel gatto, sembra che queste circostanze predispongano
alla fuoriuscita della linfa ed esitino in un versamento chiloso secondario.
Versamenti emorragici: Si possono avere autentici versamenti emorragici in ognuna delle principali cavità corporee. Macroscopicamente, questi versamenti si presentano
di colore rosso o sieroematico a seconda dell’età dell’essudato e dell’entità dell’emorragia. La valutazione fisica rivela un livello di proteine che riflette quello del sangue periferico, pur essendo in qualche modo inferiore. Sia il conteggio delle cellule nucleate che quello degli eritrociti
risultano aumentati. Questi fluidi contengono principalmente eritrociti con numeri minori di cellule nucleate.
L’indicatore più significativo dell’emorragia vera è la presenza di macrofagi attivati che contengono eritrociti fagocitati o emosiderina. Gli autentici essudati emorragici sono
privi di piastrine, che invece si osservano comunemente nei
campioni contaminati.
Versamenti neoplastici: Nel cane e nel gatto è possibile
osservare una gran varietà di processi neoplastici primitivi e
secondari che coinvolgono le cavità toracica e peritoneale;
chiaramente, l’identificazione al microscopio di queste cellule tumorali ha valore diagnostico. Le caratteristiche del
fluido per quanto riguarda il contenuto di proteine ed il conteggio cellulare totale presentano imponenti variazioni.
Letture consigliate
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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131
The Liver: Cytologic features of common metabolic,
inflammatory and neoplastic conditions
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
Liver disease is one of the most important and frequent
syndromes encountered in both companion and food animal
medicine. Through the use of diagnosis imaging and screen
chemistry, abnormalities of the liver generally can be documented. Furthermore, predominantly cholestatic disorders
usually can be differentiated from predominantly hepatocellular ones. However, diagnosis of specific hepatic disease
entities almost always depends upon biopsy and morphologic pathology. Liver biopsy can be done in essentially three
ways: 1) Fine needle aspiration, 2) Needle core biopsies, and
3) Wedge biopsies. Cytologic preparations can be made
from collections with all methods. Cytologic features of normal liver and some of the more common abnormalities seen
in the liver are discussed below.
Normal Cytologic Findings: The predominating nucleated cell in most preparations is the hepatocytes, which is a
large round to polygonal mononuclear and sometimes binucleated cell. These cells have eccentric round and relatively
uniformly sized nuclei generally with a single prominent
round nucleolus. Cytoplasm is abundant in amount, coarsely granular and moderately blue staining. Few small clear
cytoplasmic vacuoles may be present and few cells with
small amounts of coarse, green-black to brown-black pigment granules in the cytoplasm may be present.
Hepatocellular Degeneration: Hepatocellular degeneration is a common hepatic abnormality and may occur either
alone or in association with inflammation or other liver
pathology. Cytologically this is identified with cytoplasmic
vacuolization. Indistinct vacuolization (foamy cytoplasm) is
consistent with water accumulation (hydropic change) or
glycogen accumulation where the presence of distinct clear
cytoplasmic vacuolization is consistent with lipid accumulation. If there is dramatic lipid accumulation as might be seen
with hepatic lipidosis, affected hepatocytes may be difficult
to the novice to be distinguished from adipocytes.
Necrosis: Cytologically, necrotic hepatocytes have glassy
homogeneous basophilic cytoplasm which has not lost its
normal granularity. Cytoplasmic boundaries are indistinct.
Nuclei are either absent, present as ghost-like remnants or
pyknotic and/or karyorrhectic nuclei. Often, small rhomboidal yellow crystals (bile pigment crystals, probably
hematoidin) are present in the background of the slide.
Inflammation: Inflammatory liver lesions are classified
according to standard cytologic convention as neutrophilic,
mixed or macrophagic based upon the primary types of infiltrating cells. If the sample contains RBCs as well, care must
be taken to establish that the inflammatory cells are not
merely a reflection of blood contamination (of particular
concern in neutrophilic hepatitis). This can be done by establishing that the inflammatory cells are significantly more
numerous than the peripheral leukocyte alone. Additionally,
in a true hepatitis, the inflammatory cells are usually closely associated with the hepatocytes, not in the background of
the slide.
Cholestasis: Cholestasis is characterized cytologically in
finding bile pigment either within the hepatocytes (intracellular cholestasis) or between hepatocytes within bile canaliculi (intercellular cholestasis). Bile pigment stains greenbrown to green-black with Romanovsky-stained preparations.
Extramedullary Hematopoiesis: Extramedullary hemopoiesis must be differentiated from both inflammation and
leukemia. It is most easily characterized when there are easily identifiable hematopoietic precursors including early
forms of maturation for red blood cells, white blood cells
and platelets (megakaryocytes). In most cases of leukemia,
proliferation of all three cell lines is unusual, where with
extramedullary hematopoiesis, all three cell lines are commonly present in varying amounts.
Fibrosis: Fibrosis of the liver can only be suggested cytologically; histologic confirmation is required. Mast cells are
commonly associated with fibrous connective tissue element
proliferation and their presence in significant numbers in a
liver cytology should promote suspicion for fibrosis.
Neoplasia: Both primary and secondary neoplastic disease can be seen in the liver. Classic cytologic characterization is applied for classification and identification of these
processes. In many of the secondary processes, the finding
of an “abnormal” cell population and the finding of significant cytologic criteria of malignancy generally proves effective in recognizing these processes assuming that the sample
was collected from the right location. Primary hepatocellular neoplastic disease often proves more problematic
because cytomorphologic criteria of malignancy generally
do not provide good differentiating features. Even well-differentiated hepatocellular carcinoma can present cytologically (and histologically) with cells that are morphologically very similar to normal hepatocytes. Histologic assessment
of wedge biopsy material is often needed for differentiation
between nodular hyperplasia, benign neoplasia and well-differentiated neoplasia of hepatocytes.
There are some relatively unique presentations to some
specific diseases of the liver and these are briefly discussed
below.
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Bacterial Hepatitis: Bacterial hepatitis most commonly
presents as neutrophilic hepatitis. In some cases, neutrophils are degenerated and contain bacteria, making diagnosis easy. More commonly, however, neutrophils are nondegenerate and organisms are not seen. In these cases, a
second sample should be collected for culture to rule out a
bacterial etiology.
Viral Hepatitis: The most important viral hepatitis is
infectious canine hepatitis (ICH). Although now uncommon
due to the advent of effective vaccines, ICH remains an
important differential diagnosis whenever acute liver disease
is suspected. Fortunately, the disease is easily diagnosed
because of its characteristic cytologic features.
ICH is a typical adenoviral infection; as such it produces
distinctive intranuclear inclusion bodies. These inclusions are
large, azurophilic, and round. They may entirely fill the nucleus, or may be located centrally with peripheral clearing of
nucleoplasm and margination of chromatin. ICH causes a
necrotizing hepatitis; inclusion bodies are seen in free nuclei,
nuclei of necrotic hepatocytes and nuclei of intact cells.
Chronic-Active Hepatitis: Chronic active hepatitis is a
steroid responsive entity of still unknown etiology in dogs in
most cases. The disease is suspected to be an immune medicated hepatitis that occurs secondarily to previous infection.
Cytologically, the lesion is that of mixed inflammatory hepatitis. The distinctive feature is the prominence in the reaction of lymphocytes, reactive lymphocytes and plasma cells.
Cytologic findings are suggestive of the disease, but diagnosis should await histologic confirmation of the cellular infiltrate and the preferential distribution of the lesion in the portal zones of hepatic triads.
Histoplasmosis: Hepatic histoplasmosis is a relatively
common manifestation in the abdominal form of this disease
if in an endemic region. Presenting signs include chronic
wasting and diarrhea. The diagnosis can generally be confirmed by cytologic evaluation of rectal biopsies as well as
liver aspirates. In many cases there will be accompanying
peritoneal effusion. The effusion is characteristically an
inflammatory modified transudate that is a reflection of
obstruction of hepatic lymph flow. Organisms may often be
found in peritoneal macrophages.
132
The liver is generally markedly enlarged in these patients.
Aspirates reveal a chronic hepatitis characterized by large
numbers of macrophages. Macrophages often contain large
numbers of 1 - 3 _ avoid yeasts with thick cells walls and
single central nuclei. These organisms are diagnostic for
histoplasmosis. Although some care must be exercised in
distinguishing them from Leishmania donovani. Leishmania
organisms are of a similar size and shape but contain a rodlike kinetoplast in addition to a nucleus.
Cytauxzoonosis: Cytauxzoonosis is a protozoal disease
of cats caused by Cytauxzoon felis. Though generally
thought of as a cause of anemia this organism replicates by
schizogony in fixed macrophages throughout the body and
in particular, in liver and lung. Aspirates from the liver in
this disease contain giant macrophages (up to 100_ or more)
filled by small (1-2_) banana-shaped organisms with single
central nuclei.
Diabetes Mellitus: The cytologic features of diabetes
mellitus are non-specific but are often so striking as to be
worthy of comment. Furthermore, serum enzymatic alterations in diabetes mellitus may be profound, prompting
some form of liver biopsy.
The principal liver alteration in diabetes is diffuse fatty
change. Liver cells become filled by fat which takes the form
of large single unstained vacuoles. In some instances hepatocytes take on a characteristic signet ring appearance with
the nucleus pushed totally to the periphery and the cytoplasm distended by unstained fat. Insulin therapy leads to a
rapid (1-2 weeks) return to normal hepatocyte morphology.
Selected References
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
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133
Il fegato: quadri citologici delle più comuni alterazioni
metaboliche, infiammatorie e neoplastiche
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, DACVP, Maine USA
L’epatopatia è una delle sindromi più importanti e frequenti riscontrate sia in medicina degli animali da compagnia che in quella degli animali da reddito. Grazie all’impiego delle tecniche di diagnostica per immagini ed al profilo biochimico, in genere è possibile documentare le anomalie del fegato. Inoltre, i disordini a carattere principalmente colestatico possono essere differenziati da quelli
soprattutto epatocellulari. Tuttavia, la diagnosi delle specifiche entità patologiche del fegato dipende quasi sempre
dai risultati delle biopsie e dagli esami di patologia morfologica. La biopsia epatica può essere effettuata essenzialmente in tre modi: 1) aspirazione con ago sottile, 2) biopsia a core mediante ago e 3) biopsie a cuneo. I preparati
citologici possono essere allestiti da materiale prelevato
con tutti questi metodi. Verranno ora illustrate le caratteristiche citologiche del fegato normale ed alcune delle anomalie comunemente osservate a carico di quest’organo.
Riscontri citologici normali: La cellula nucleata predominante nella maggior parte dei preparati è l’epatocita, un
elemento di grandi dimensioni, tondeggiante o poligonale,
mononucleato e talvolta binucleato. Queste cellule hanno
nuclei tondeggianti, eccentrici e di dimensioni relativamente
uniformi, generalmente con un singolo nucleolo tondo e ben
evidente. Il citoplasma è presente in quantità abbondante,
grossolanamente granulare e con una moderata colorazione
blu. Si possono osservare pochi piccoli vacuoli citoplasmatici trasparenti e un limitato numero di cellule che mostrano
nel citoplasma scarse quantità di granuli di pigmento grossolani, di colore verde nero o bruno nero.
Degenerazione epatocellulare: La degenerazione epatocellulare è una comune anomalia del fegato e si può riscontrare sia da sola che in associazione con infiammazioni o
altre patologie a carico dello stesso organo. Dal punto di
vista citologico, viene identificata con la vacuolizzazione del
citoplasma. Una vacuolizzazione indistinta (citoplasma
schiumoso) è compatibile con un accumulo di acqua (modificazione idropica) oppure di glicogeno, mentre la presenza
di una vacuolizzazione citoplasmatica chiara e distinta può
essere abbinata all’accumulo di lipidi. Se si rileva un imponente accumulo di lipidi, come si può osservare nella lipidosi epatica, può risultare difficile per un principiante distinguere gli epatociti colpiti dagli adipociti.
Necrosi: Dal punto di vista citologico, gli epatociti necrotici presentano un citoplasma basofilo omogeneo e vitreo
che non ha perso la propria normale granularità. I limiti citoplasmatici sono indistinti. I nuclei sono assenti, presenti sotto forma di residui simili ad ombre (“ghost”) oppure picno-
tici e/o carioressici. Spesso, sullo sfondo del vetrino si osservano piccoli cristalli gialli romboidali (cristalli di pigmento
biliare, probabilmente ematoidina).
Infiammazione: Le lesioni infiammatorie del fegato
vengono classificate in funzione della convenzione citologica standard come neutrofile, miste o macrofagiche, in
base al tipo principale di cellula infiltrante. Se il campione
contiene anche degli eritrociti, bisogna stare attenti a stabilire che gli elementi infiammatori non riflettano puramente una contaminazione ematica (il che costituisce un problema in particolare nell’epatite neutrofila). Allo scopo,
può risultare utile accertare che le cellule infiammatorie
sono significativamente più numerose dei leucociti periferici. Inoltre, in un’autentica epatite, gli elementi flogistici
sono in genere strettamente associati agli epatociti e non
sullo sfondo del vetrino.
Colestasi: La colestasi è caratterizzata citologicamente
dal riscontro di pigmento biliare sia all’interno degli epatociti (colestasi intracellulare) che fra questi all’interno dei
canalicoli biliari (colestasi intercellulare). Nei preparati realizzati con una colorazione di tipo Romanovsky il pigmento
biliare assume delle sfumature verde-bruno o verde-nero.
Emopoiesi extramidollare: L’emopoiesi extramidollare
va differenziata sia dall’infiammazione che dalla leucemia.
Risulta più facilmente caratterizzata quando sono presenti
dei precursori emopoietici facilmente identificabili, come
le forme iniziali di maturazione degli eritrociti, dei leucociti e delle piastrine (megacariociti). Nella maggior parte
dei casi di leucemia la proliferazione di tutte e tre le linee
cellulari è inusuale, mentre nell’emopoiesi extramidollare
tutte e tre le linee cellulari sono comunemente presenti in
quantità variabili.
Fibrosi: Con l’esame citologico la fibrosi del fegato può
essere solo ipotizzata; è necessaria la conferma istologica.
Alla proliferazione degli elementi del tessuto connettivo
fibroso sono comunemente associate le mast cell, la cui presenza in numero significativo in un quadro citologico epatico deve far nascere il sospetto di fibrosi.
Neoplasia: Nel fegato si possono osservare neoplasie sia
primitive che secondarie. Per classificare ed identificare questi processi si applica la caratterizzazione citologica classica.
In molte forme secondarie, ai fini del loro riconoscimento
risulta in genere efficace il riscontro di una popolazione cellulare “anormale” ed il rinvenimento di significativi criteri
citologici di malignità, presumendo che il campione sia stato prelevato dalla sede giusta. Le malattie neoplastiche epatocellulari primitive spesso appaiono più problematiche, per-
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ché i criteri citomorfologici di malignità generalmente non
offrono buone caratteristiche distintive. Anche il carcinoma
epatocellulare ben differenziato si può presentare citologicamente (ed istologicamente) con cellule che appaiono morfologicamente molto simili agli epatociti normali. Per distinguere l’iperplasia nodulare dalla neoplasia benigna e dalla
neoplasia ben differenziata degli epatociti è spesso necessaria la valutazione istologica del materiale ottenuto mediante
biopsia a cuneo.
Esistono alcuni quadri relativamente esclusivi di certe
malattie specifiche del fegato, che verranno illustrati brevemente.
Epatite batterica: Nella maggior parte dei casi l’epatite
batterica si presenta come una forma neutrofila. Talvolta i
neutrofili sono degenerati e contengono batteri, rendendo
facile la diagnosi. Più comunemente, tuttavia, questa degenerazione è assente e non si osservano microrganismi. In
questi casi si deve prelevare un secondo campione da destinare agli esami colturali per escludere o confermare l’eziologia batterica.
Epatite virale: La più importante malattia di questo tipo
è l’epatite infettiva del cane (ICH, infectious canine hepatitis). Benché oggi sia poco comune grazie all’avvento di vaccini efficaci, l’ICH resta un’importante diagnosi differenziale in tutti i casi in cui si sospetti un’epatopatia acuta. Fortunatamente, la malattia viene diagnosticata facilmente grazie
ai suoi caratteristici quadri citologici.
L’ICH è una caratteristica infezione da adenovirus; in
quanto tale, determina la formazione di corpi inclusi intranucleari caratteristici. Queste inclusioni sono grandi, azzurrofile e rotonde. Possono riempire completamente il nucleo,
oppure essere localizzate in posizione centrale con chiarificazione periferica del nucleoplasma e marginazione della
cromatina. L’ICH provoca un’epatite necrotizzante; i corpi
inclusi si osservano spesso all’interno di nuclei liberi, nuclei
di epatociti necrotici e nuclei di cellule intatte.
Epatite cronica-attiva: Nnella maggior parte dei casi l’epatite cronica-attiva è un’entità dall’eziologia ancora sconosciuta nel cane che risponde agli steroidi. Si sospetta che la
malattia sia un’epatite immunomediata che si verifica secondariamente ad una precedente infezione. Dal punto di vista
citologico, la lesione è contraddistinta da un’epatite infiammatoria di tipo misto. La caratteristica distintiva è la prominenza nella reazione di linfociti, linfociti reattivi e plasmacellule. I riscontri citologici sono indicativi della malattia,
ma la diagnosi necessita della conferma istologica dell’infiltrato cellulare e della distribuzione preferenziale della lesione nelle zone portali delle triadi epatiche.
Istoplasmosi: L’istoplasmosi epatica è una manifestazione relativamente comune della forma addominale di questa
malattia se ci si trova in una regione endemica. I segni clinici al momento della presentazione alla visita sono rappre-
134
sentati da consunzione cronica e diarrea. La diagnosi può
generalmente essere confermata dalla valutazione citologica
delle biopsie rettali nonché dagli aspirati epatici. In molti
casi il quadro è accompagnato da un versamento peritoneale. Quest’ultimo è rappresentato caratteristicamente da un
essudato infiammatorio modificato che riflette l’ostruzione
del flusso della linfa epatica. Nei macrofagi peritoneali si
possono spesso riscontrare i microrganismi.
In questi pazienti il fegato presenta generalmente un marcato ingrossamento. Gli aspirati rivelano un’epatite cronica
caratterizzata da molti macrofagi. Questi ultimi contengono
spesso un numero elevato di lieviti ovoidali di 1-3 μ con
parete cellulare spessa e singoli nuclei centrali. Questi
microrganismi hanno valore diagnostico per l’istoplasmosi.
Tuttavia, è necessaria una certa attenzione per distinguerli da
Leishmania donovani. I microrganismi del genere Leishmania hanno forma e dimensioni simili, ma oltre al nucleo contengono un chinetoplasto simil-bastoncellare.
Citauxzoonosi: La Citauxzoonosi è una malattia protozoaria del gatto sostenuta da Cytauxzoon felis. Benché sia
generalmente considerato causa di anemia, questo microrganismo si replica mediante schizogonia nei macrofagi fissi di
tutto il corpo ed in particolare nel fegato e nei polmoni. Gli
aspirati ottenuti dal fegato in questa malattia contengono
macrofagi giganti (fino a 100 μ o più) pieni di piccoli
microrganismi (1-2 μ) a forma di banana con singoli nuclei
centrali.
Diabete mellito: Le caratteristiche citologiche del diabete mellito sono aspecifiche, ma spesso così evidenti da valere la pena di un commento. Inoltre, le alterazioni enzimatiche sieriche riscontrate in questa malattia possono essere
profonde, suggerendo una qualche forma di biopsia epatica.
La principale alterazione del fegato nel diabete è la diffusa modificazione adiposa. Le cellule epatiche vengono riempite da grasso che assume la forma di grandi vacuoli singoli
e non colorati. In alcuni casi, gli epatociti acquisiscono un
caratteristico aspetto ad anello con castone, con un singolo
nucleo spinto totalmente alla periferia ed il citoplasma disteso da grasso non colorato. La terapia con insulina porta ad
un rapido (1-2 settimane) ritorno alla normale morfologia
degli epatociti.
Letture consigliate
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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135
The Lymphoid System: The window into local and
systemic inflammatory and non-inflammatory disease
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
In general when one considers discussions about lymphoid tissue, the focus is on peripheral and central lymph
nodes; however, other organs play a significant role in the
whole lymphoid tissue. The spleen, bone marrow and gastrointestinal tract (mucosal associated lymphoid tissue) play
significant roles and their description and interpretation relative to lymphoid tissue are similar to those of lymph node
cytologic evaluation and should be included in the entire
discussion below. Also, it should be reminded that the
potential development of functional lymphoid nodules in
locations other than the classic anatomic distribution of
lymph nodes is possible and identification of such tissue
with fine needle aspiration should not be a surprise when
encountered. In general, characterization of the various
lymphoid tissue samples cytologically, provides valuable
information about local disease including both inflammatory and non-inflammatory disease.
Normal Lymphoid Cytology: Before considering pathologic cytology of lymph nodes, it is necessary to define normal lymphoid tissue cytology. Aspirates from normal lymphoid tissue contain mixed cell populations in which small
lymphocytes are the predominant cell (>80-90 percent of all
cells). Different lymphoid tissues will present slightly differently based upon the “normal” degree of antigenic stimulation that particular lymphoid tissue is exposed to regularly.
For example, the normal submandibular lymph node has a
much greater normal antigenic exposure than the prescapular lymph node merely because of its location and the tissues
is drains. In this case, the number of normal small lymphocytes will be relatively lower in the tissue exposed to the
greater degree of antigenic stimulation and subsequently,
other cells types may be in greater relative numbers.
Small lymphocytes are round cells approximately 8 to 10
µm in diameter that contain round, densely stained nuclei
with a scant rim of pale basophilic cytoplasm. Nucleoli are
rarely visible. Intermediately sized lymphocytes (previously
identified as “prolymphocytes”) constitute the second most
prevalent cell type in normal nodes. These cells are larger
(10 to 15 µ in diameter), have more vesicular nuclei and have
more abundant basophilic cytoplasm. As with small lymphocytes, nucleoli are not seen. Large and immature appearing lymphocytes (lymphoblasts) are even less prevalent than
intermediate sized lymphocytes, constituting 1 percent or
less of all cells seen. These cells are large cells (up to 30 µ
in diameter) with large pale vesicular nuclei in which single
to multiple nucleoli are generally visualized. Cytoplasm is
relatively scant and basophilic.
It should be emphasized that not all aspirated lymphoid
cells can be classified. Aspiration and impression smear
techniques are somewhat traumatic and a number of cells are
ruptured. These ruptured cells are seen as naked nuclei, the
origin of which cannot be determined. Consequently, only
intact cells with clearly recognized cytoplasmic boundaries
should be evaluated.
In addition to the primary lymphocytic cells, other cell
types may be seen in lymph node aspirates in small numbers.
Plasma cells, mast cells and macrophages may all be seen in
low numbers. Macrophages are often very active if present
and they may contain cytoplasmic vacuoles filled with cellular debris or brown-black hemosiderin (iron) granules. Rarely
seen mature nondegenerate neutrophils and few eosinophils
and other miscellaneous cell types may be seen also.
Benign Reactive Lymphoid Hyperplasia: Hyperplastic
lymphoid tissue aspirates are similar morphologically to
aspirates from normal lymphoid tissue in that all the aforementioned populations are seen. However there is a shift in
the relative numbers of the different cell types. Small lymphocytes continue to predominate, but in general, the cell
populations are “left-shifted”; increased numbers of intermediate sized lymphocytes and large and immature appearing lymphocytes are present. In addition, mitotic figures,
which are rarely encountered in normal lymph node aspirates, may be observed with some frequency.
Simple lymphoid tissue hyperplasia is rarely seen. A
much more commonly observed phenomenon is reactive
lymphoid tissue hyperplasia. Reactive hyperplasia implies
antigenic stimulation of the involved node. Cytologically
reactive hyperplasia exhibits all the features of simple
hyperplasia. However, the striking feature is the presence of
significant and potentially large numbers of plasma cells
and plasmacytoid lymphocytes and large immature appearing lymphocytes. These latter cells represent precursors
that differentiate into plasma cells. In some instances, plasma cells containing numerous vacuoles (filled with
immunoglobulin) are observed. These cells are known as
Mott cells; cells containing immunoglobulin crystals may
also be observed; the immunoglobulin-filled vacuoles are
known and Russell Bodies. Specific significance for the
finding of these immunoglobulin inclusions is not known;
they may be seen with both mild and marked antigenic
stimulation as well as with both infectious and non-infectious antigenic stimulation.
Lymphoid Tissue Inflammation: Inflammatory lesions
of lymphoid tissue (lymphadenitis) may be classified similar
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to other inflammatory processes based on the predominating
inflammatory cell population infiltrating the lymphoid tissue: neutrophilic lymphadenitis, eosinophilic lymphadenitis,
macrophagic lymphadenitis, mixed cellular lymphadenitis,
etc. Neutrophilic lymphadenitis aspirates contain large numbers of neutrophils and suggest severe irritation as with
inflammation of other anatomic locations. Bacterial agents
should always be suspected and in some cases may even be
seen. Degeneration of neutrophils should provide a good
morphologic clue that an underlying bacterial agent is the
cause and if found even when no organisms are identified,
complete microbiologic evaluation should be strongly considered. Mixed cellular lymphadenitis commonly exhibits
increased numbers of both neutrophils and macrophages and
is usually associated with less severe irritation than is acute
inflammation (or a more prolonged time course). In the past
this type of process has been classified as subacute lymphadenitis and it is usually accompanied by benign reactive
hyperplasia of lymphoid elements. Chronic lymphadenitis is
often characterized by a marked increase in lymphoid tissue
macrophage numbers. Granulomatous lymphadenitis is a
special form of this type of inflammatory response and is
characterized by the presence of either inflammatory giant
cells or epithelioid macrophages or both. In both chronic and
granulomatous lymphadenitis, the inciting irritation is low
grade and etiologic agents such as systemic mycotic agents
or foreign bodies or possible other infectious agents such as
systemic mycobacteriosis or leishmaniasis should be investigated. Eosinophilic lymphadenitis should always include
possible parasitic agents in the differential; however,
eosinophilic infiltrates of lymphoid tissue are commonly
seen with a variety of other infectious and non-infectious
agents. With peripheral lymph nodes draining areas of
chronic dermatitis or dermatosis, eosinophilic infiltrates
locally within the lymphoid tissue is a common finding
regardless of the cause.
Primary Lymphoid Neoplasia: In primary neoplastic disease (malignant lymphoma), the striking cytologic feature is
the presence of a remarkably uniform population of discrete
round cells. In most of the malignant lymphoma cases we
encounter in dogs and cats, this population consists of a
136
monotonous population or intermediate to large and immature appearing lymphocytes (oftentimes lymphoblasts),
which makes accurate identification a relatively simple
process even for the novice cytologist. In contrast, normal,
hyperplastic, reactive and inflamed lymphoid tissue will typically have a predominance of normal appearing small lymphocytes as well as a dramatic heterogeneity within the lymphoid populations. Within the neoplastic lymphocytes,
nuclear and cytologic criteria of malignancy may be present;
however, these are not essential for making a diagnosis of
malignant lymphoma. The dramatic shift in distribution of
lymphocyte types is the primary cytologic support for malignancy; the presence of a monotonous population of extremely uniform appearing large and immature appearing lymphocytes is still malignant lymphoma.
Secondary Lymphoid Neoplasia: Even with no obvious
lymphadenomegaly in cases when a primary neoplastic
process is identified in the region of a lymphoid tissue,
investigation into possible metastatic disease is warranted.
This information provides valuable prognostic information
that needs to be relayed to the owners of our patients.
Metastatic neoplastic disease is characterized cytologically
by the presence of an aberrant cell population in lymph node
aspirates; metastatic foci may consist of spindle-shaped cells
(sarcoma), clusters or sheets of round or oval cells (carcinoma), or individual round or oval cells (discrete cell tumors
such as mastocytoma). Reactive and hyperplastic changes
may also be identified in the lymphoid elements aspirated
from the more normal.
Selected References
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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137
Il sistema linfatico: una finestra verso le malattie
infiammatorie e non infiammatorie
sia locali che sistemiche
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
In generale, quando si considerano le trattazioni sul tessuto linfoide, l’attenzione viene focalizzata sui linfonodi periferici e centrali. Ma anche la milza, il midollo osseo ed il
tratto gastroenterico (tessuto linfoide associato alle mucose)
svolgono un ruolo significativo e la loro descrizione ed interpretazione relativa al tessuto linfoide sono analoghi a quelli
della citologia linfonodale e devono essere compresi nell’intera valutazione che segue. Inoltre, occorre ricordare che si
possono sviluppare noduli linfoidi funzionali in sede diversa
dalla classica distribuzione anatomica dei linfonodi e l’eventuale identificazione di questo tessuto nei campioni prelevati mediante aspirazione con ago sottile non deve essere una
sorpresa. In generale, la caratterizzazione dei vari campioni
di tessuto linfoide dal punto di vista citologico offre utili
informazioni sulle malattie locali, comprese quelle infiammatorie e non infiammatorie.
Citologia linfoide normale: Prima di prendere in considerazione la citologia patologica dei linfonodi è necessario
definire quella del tessuto linfoide normale. Gli aspirati ottenuti da tale tessuto contengono una popolazione cellulare
mista in cui l’elemento predominante è costituito dai piccoli
linfociti (> 80-90% della totalità delle cellule). I tessuti linfoidi differenti si presentano in modo leggermente diverso in
base al grado “normale” di stimolazione antigenica alla quale quel particolare tessuto linfoide viene esposto regolarmente. Ad esempio, in condizioni normali il linfonodo sottomandibolare ha un’esposizione antigenica molto più elevata di
quello prescapolare, unicamente a causa della sua localizzazione e dei tessuti che drena. In questo caso, il numero di piccoli linfociti normali sarà relativamente più basso nel tessuto esposto al grado di stimolazione antigenica più elevato e,
di conseguenza, altri tipi cellulari potranno essere numericamente più rappresentati. I piccoli linfociti sono cellule rotonde di circa 8-10 μ di diametro, che contengono nuclei tondeggianti e densamente colorati con uno scarso bordo di citoplasma basofilo pallido. I nucleoli sono raramente visibili. I
linfociti di dimensioni intermedie (già identificati come
“prolinfociti”) costituiscono il secondo tipo cellulare in ordine di prevalenza nei linfonodi normali. Queste cellule sono
più grandi (10-15 μ di diametro), hanno nuclei più vescicolari e presentano una quantità più abbondante di citoplasma
basofilo. Come nel caso dei piccoli linfociti, i nucleoli non
sono visibili. I grandi linfociti di aspetto immaturo (linfoblasti) hanno una prevalenza ancora minore di quelli intermedi,
costituendo l’1% o meno della totalità delle cellule osservate. Si tratta di elementi di grandi dimensioni (fino a 30 μ di
diametro) con grandi nuclei pallidi e vescicolari in cui generalmente si osservano nucleoli singoli o multipli. Il citoplasma è relativamente scarso e basofilo.
Va sottolineato che non tutte le cellule linfoidi aspirate
possono essere classificate. Le tecniche di aspirazione e di
allestimento di strisci per impronta sono abbastanza traumatiche e numerose cellule vanno incontro a rottura. Questi elementi si osservano sotto forma di nuclei nudi, la cui origine
non può essere determinata. Di conseguenza, è necessario
valutare soltanto le cellule integre con confini citoplasmatici chiaramente riconoscibili.
Oltre alle cellule linfocitarie primarie, negli aspirati linfonodali si possono osservare in numero limitato altri tipi cellulari. Plasmacellule, mast cell e macrofagi possono essere
tutti presenti in basso numero. I macrofagi, se ci sono, sono
spesso molto attivi e possono contenere vacuoli citoplasmatici pieni di detriti cellulari o granuli di emosiderina (ferro)
di colore bruno-nero. Raramente si osservano neutrofili
maturi non degenerati e si possono riscontrare anche pochi
eosinofili ed altri tipi cellulari vari.
Iperplasia linfoide reattiva benigna: Il tessuto linfoide
iperplastico negli aspirati appare morfologicamente simile a
quello ottenuto dal tessuto linfoide normale, dato che si
osservano tutte le popolazioni sopracitate. Tuttavia, si ha
uno spostamento del numero relativo dei differenti tipi cellulari. I piccoli linfociti continuano a predominare, ma in
generale le varie popolazioni presentano uno “spostamento
a sinistra”; si rilevano aumenti numerici dei linfociti di
dimensioni intermedie e di quelli grandi ed immaturi. Inoltre, si possono osservare con una certa frequenza delle figure mitotiche, che si riscontrano raramente negli aspirati linfonodali normali.
L’iperplasia semplice del tessuto linfoide è rara. Un fenomeno riscontrato molto più comunemente è l’iperplasia reattiva del tessuto linfoide. Questa implica una stimolazione
antigenica del linfonodo coinvolto. L’iperplasia reattiva dal
punto di vista citologico mostra tutte le caratteristiche di
quella semplice. Tuttavia, il carattere distintivo è la presenza
di numeri significativi e potenzialmente elevati di plasmacellule e linfociti plasmocitoidi, nonché di linfociti grandi e
di aspetto immaturo. Queste ultime cellule rappresentano i
precursori che si differenziano nelle plasmacellule. In alcuni
casi, queste ultime contengono numerosi vacuoli (in alcuni
casi, pieni di immunoglobuline). Queste cellule sono note
come Mott cell; si possono anche osservare elementi contenenti cristalli di immunoglobuline; i vacuoli pieni di immu-
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noglobuline vengono detti corpi di Russel. Il significato specifico del riscontro di queste inclusioni immunoglobuliniche
non è noto; si possono osservare sia in caso di stimolazione
antigenica lieve e marcata che in presenza di stimolazioni
antigeniche infettive e non infettive.
Infiammazione del tessuto linfoide: Le lesioni infiammatorie del tessuto linfoide (linfoadenite) possono essere
classificate in modo simile agli altri processi flogistici, sulla
base della popolazione cellulare infiammatoria predominante che infiltra il tessuto linfoide: linfoadenite neutrofila, linfoadenite eosinofilica, linfoadenite macrofagica, linfoadenite a cellule miste, ecc… Gli aspirati di linfoadenite neutrofila contengono un numero elevato di neutrofili e suggeriscono una grave irritazione, come nel caso dell’infiammazione
di altre sedi anatomiche. Si deve sempre sospettare un’eziologia batterica ed in alcuni casi si può persino riuscire a
vedere i microrganismi. La degenerazione di neutrofili deve
costituire una valida indicazione morfologica del fatto che la
causa è rappresentata da un agente batterico sottostante e il
suo riscontro, anche in assenza dell’identificazione di
microrganismi, richiede di prendere fortemente in considerazione una valutazione microbiologica completa. La linfoadenite cellulare mista mostra comunemente un aumento
numerico sia dei neutrofili che dei macrofagi e di solito è
associata ad un’irritazione meno grave dell’infiammazione
acuta (oppure ad una durata temporale più prolungata). In
passato, questo tipo di processo è stato classificato come linfoadenite subacuta ed è solitamente accompagnata da iperplasia reattiva benigna degli elementi linfoidi. La linfoadenite cronica viene spesso caratterizzata da un marcato incremento del numero dei macrofagi nel tessuto linfoide. Quella
granulomatosa è una forma particolare di questo tipo di
risposta flogistica ed è caratterizzata dalla presenza di cellule giganti infiammatorie e/o di macrofagi epitelioidi. Sia nella linfoadenite cronica che in quella granulomatosa, l’irritazione scatenante è di grado ridotto e si devono studiare gli
agenti eziologici come i miceti sistemici o i corpi estranei o,
eventualmente, altri microrganismi infettanti come la micobatteriosi sistemica o la leishmaniosi. In caso di linfoadenite eosinofilica, l’elenco delle possibili diagnosi differenziali
deve sempre comprendere gli agenti parassitari; tuttavia,
infiltrati eosinofilici nel tessuto linfoide si osservano comunemente in presenza di una gran varietà di agenti infettivi e
non infettivi. Nel caso di linfonodi periferici che drenano
aree di dermatosi o dermatite cronica, il riscontro di infiltrati eosinofilici localmente all’interno del tessuto linfoide è
comune, indipendentemente dalla causa.
138
Neoplasia linfoide primaria: Nella neoplasia primaria
(linfoma maligno) la caratteristica citologica principale è la
presenza di una popolazione notevolmente uniforme di cellule rotonde isolate. Nella maggior parte dei casi di linfoma
maligno che si riscontrano nel cane e nel gatto, gli elementi
cellulari sono costituiti da una popolazione monotona o
intermedia di linfociti grandi e di aspetto immaturo (spesso
linfoblasti), il che rende l’identificazione accurata un processo relativamente semplice, anche per un citologo alle prime armi. Al contrario, il tessuto linfoide normale, iperplastico, reattivo ed infiammato mostra tipicamente un predominio di piccoli linfociti di aspetto normale nonché una notevole eterogeneità all’interno delle popolazioni linfoidi. Fra i
linfociti neoplastici, possono essere presenti criteri nucleari
e citologici di malignità; tuttavia, questi non sono essenziali
per la formulazione della diagnosi di linfoma maligno. Il
drastico spostamento nella distribuzione dei tipi linfocitari è
il principale riscontro citologico al sostegno dell’ipotesi di
una neoplasia maligna; anche la presenza di una popolazione monotona di aspetto estremamente uniforme di linfociti
grandi ed immaturi è segno di linfoma maligno.
Neoplasia linfoide secondaria: Anche in assenza di linfoadenomegalia evidente, nei casi in cui si identifica un processo neoplastico primario nella regione del tessuto linfoide
è necessario ricercare la presenza di eventuali malattie metastatiche. Questa informazione fornisce utili dati di valore
prognostico che devono essere riferiti ai proprietari dei
nostri pazienti. Le metastasi neoplastiche sono caratterizzate citologicamente da una popolazione cellulare aberrante
negli aspirati linfonodali; i focolai metastatici possono essere costituiti da cellule fusiformi (sarcoma), grappoli o
foglietti di cellule tondeggianti o ovali (carcinoma) oppure
cellule tondeggianti o ovali singole (tumori a cellule isolate
come il mastocitoma). Alterazioni reattive e iperplastiche si
possono anche identificare negli aspirati di elementi linfoidi
più normali.
Letture consigliate
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
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139
Feline thoracic and abdominal effusion evaluation:
Common presentations
Dennis B. De Nicola
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Thoracic and abdominal fluid accumulation in animals
can be associated with a chronic gradual or acute critical
presentation. Characterization of the fluid becomes an
essential component of the patient work-up to both help
identify the mechanism of formation of the fluid and to
guide therapeutic intervention. There are several commonly
used categories for fluid characterization including transudate, modified transudate and exudate and there are general
guidelines for these characterizations and the differential for
the mechanism of these fluid formations are somewhat different and therefore provide some direction in limiting the
clinical differential but there is significant overlapping of
characteristics and similar mechanisms can result in different types of fluid formation, so this categorization has limited value. The categorization is primarily related to gross,
chemical (primarily total protein content) and quantitative
cytologic features; however, the microscopic characterization of the fluid regarding the types of cells present are an
essential component to help identify the underlying cause of
the fluid formation itself. Even if no protein content or quantitative cytologic assessment is performed, the microscopic
evaluation of the types of cells present is something that can
provide immediate information about the fluid and is the
most important component of the fluid assessment. The different categories of fluid formation including what is considered normal for the dog and cat are characterized below.
Normal Findings: Pleural and peritoneal fluid collection
is difficult in the normal dog and cat because of the limited
volume present and the trapping of this fluid between thoracic and abdominal viscera. Protein content is typically
much less than 30 g/L and the total cell count is generally
less than 500x106/L. Cells present in normal pleural, pericardial, and peritoneal fluids include low numbers of
mesothelial cells and occasionally seen inflammatory cells.
Mesothelial cells are present in small clusters or as individuals. The inflammatory cells present in normal fluids have
the morphology of normal peripheral blood leukocytes. The
predominant leukocyte seen varies with the species. In dogs
and horses, neutrophils are prevalent. In cats and cattle, lymphocytes predominate.
Transudate: Transudates are defined as excessive accumulations of fluid having normal characteristics. Transudates therefore have low total protein (less than 30 g/L) and
low nucleated cell counts (less than 500 nucleated cells
x106/L) for the dog and cat. These fluids are commonly the
result of venous stasis and less frequently from hypoalbuminemia and lymphatic obstruction (congestive heart fail-
ure, liver failure, the nephrotic syndrome, and in some cases
of neoplasia. It is emphasized that pleural and peritoneal
effusions due solely to hypoalbuminemia will only occur
when serum albumin levels fall below 10 g/L.
Modified transudates: The accumulation of transudative
fluid in one of the body cavities causes increased pressure
which is irritating to the mesothelial cells resulting in proliferation and sloughing into the effusion. With time these cells
die and release chemoattractants drawing phagocytes into
the effusion. The result is a mild increase in both total protein (30-50 g/L) and nucleated cell count (slightly more than
500x106/L). When this occurs, the fluid is known as a modified transudate.
Exudates: Exudates are defined as fluid accumulations
which are abnormally high in total solids and/or nucleated
cell count. Total proteins range between 30 and 70 g/L and
total cell counts may be as high as 100,000x106/L. The vast
majority of exudates are caused by inflammation; however,
the common denominator of exudate formation is vascular
damage. Consequently, both hemorrhage and chylous effusions are classified as exudates on the basis of physical characteristics and pathogenesis. Inflammatory exudates are
classified like classic cytologic sample characterization.
Because of local irritation, some degree of reactive mesothelial cell hyperplasia is present.
Several fluid formations that do not typically follow this
classification system and should be considered separately
are discussed below. In addition, there is an expanded discussion of a few of these effusions that are specific to the cat.
Feline infectious peritonitis (FIP): FIP is unique among
most exudates in that the fluid which accumulates is of low
cellularity. The presence of any fluid accumulation is
dependent upon multiple variables; both “wet” and “dry”
form of FIP have been described extensively in our literature. When significant fluid is formed, total protein content
is typically extremely high, which is a reflection of a similar
elevation in serum protein. Electrophoresis of either the effusion fluid or serum typically reveals a dramatic polyclonal
gammopathy. Grossly, the FIP effusion is often clear and
straw-colored and it may be present in both the pleural and
peritoneal cavities. Even when collected in EDTA, the fluid
often has clots or strands of fibrin and the fluid has a high
degree of viscosity similar to synovial fluid. The cellular
response is most commonly neutrophilic in character; nondegenerate neutrophils predominate. A prominent pink granular proteinaceous background surrounding the various
nucleated cells is also quite common and highly supportive
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of FIP or minimally a fluid with high protein content. Low
to sometimes significant numbers of normal small lymphocytes and macrophages may be seen also.
Lymphocytic Effusions: In most species, identification
of a prominent lymphocytic component to any effusion
demands an investigation into the possibility of a chylous
component to the effusion. Chylous effusions are the result
of leakage of lymph into the body cavity and may involve
either the pleural or peritoneal space. These fluids are often
described as opaque milky fluids; however, it should be
emphasized that depending on the lipid content and longevity of the fluid, they may be clear and colorless. Many cats
with prolonged anorexia will have this type of effusion even
though it is chylous in character. Unless a microscopic evaluation of the effusion is performed and significant numbers
of normal appearing small lymphocytes are observed, chylous effusion is typically not considered. In many chylous
effusions, a high protein concentration (35-45 g/L) is
observed, but there is a relatively low cellularity. Intermixed
with the normal appearing small lymphocytes, variable numbers of mature nondegenerate neutrophils and activated
macrophages will often be seen. The degree of neutrophilic
infiltration is often directly related to the amount of lipid
material present since this material proves to be a significant
irritant resulting in the recruitment of neutrophils. Mesothelial cell hyperplasia and exfoliation into the effusion will
occur if the fluid has any significant time duration. If a chylous effusion is questioned, triglyceride concentration measurement in the fluid should be considered. Triglyceride concentrations have proven to be one of the most objective
measures of a true chylous component to these effusions.
Triglyceride concentrations greater than 110 mg/dL (1.21
mmol/L) are highly supportive of a chylous effusion.
The second most common cause for a lymphocytic effusion in the cat is feline cardiomyopathy. The mechanisms
behind this type of effusion have not been completely clarified; however, it is well established that heart failure causes
venous and lymphatic stasis that increases pressure. In the
cat it appears that these circumstances predispose to lym-
140
phatic leakage and result in a secondary chylous effusion.
Many of the effusions associated with cardiomyopathy are
true chylous effusions. However, there is a subcategory of
feline cardiomyopathy cases that have significant lymphocytic effusions without other features of chylous effusions
(triglyceride concentrations less than 110 mg/dL).
A third cause for a lymphocytic effusion to be considered
is malignant lymphoma. With most malignant lymphoma
forms, the neoplastic cells are large and immature appearing lymphocytes, but there are low numbers of cases of
small lymphocytic malignant lymphoma where the neoplastic cells resemble normal small lymphocytes. These could
be misinterpreted as a simple chylous effusion. The advantage we have in veterinary medicine is that this is much less
common a presentation, which limits our opportunity for a
missed diagnosis.
Regardless the cause for the lymphocytic effusion, diagnostic imaging becomes a critical component to the identification of the underlying cause. Even with many of the true
chylous effusions, there is an associated space-occupying
lesion in the anterior mediastinal region associated with
lymphadenomegaly (lymphoid hyperplasia, inflammation or
neoplasia) or the presence of an inflammatory focus or neoplastic process (malignant lymphoma, Thymoma, etc.) or
there is imaging support for feline cardiomyopathy. Diagnostic imaging is important in routine feline thoracic effusion characterization.
Selected References
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and DeNicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
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of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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Aspetti patogenetici e citologici del versamento
nel gatto
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
L’accumulo di fluidi a livello toracico ed addominale
negli animali può essere associato ad un quadro cronico e
graduale oppure acuto e critico. La caratterizzazione del
liquido diviene una componente essenziale della valutazione
diagnostica del paziente, sia perché contribuisce ad identificare il meccanismo di formazione del versamento che per
guidare l’intervento terapeutico. Esistono e vengono comunemente utilizzate parecchie categorie di classificazione dei
fluidi, distinguendo trasudati, trasudati modificati ed essudati; queste suddivisioni vengono effettuate sulla base di linee
guida generali che tengono conto del fatto che i meccanismi
di formazione dei fluidi sono abbastanza differenti e, di conseguenza, forniscono una certa indicazione per ridurre le
possibili diagnosi differenziali dal punto di vista clinico; tuttavia, esiste una significativa sovrapposizione delle caratteristiche e meccanismi simili possono esitare in differenti tipi
di formazione dei fluidi, per cui questa classificazione ha
valore limitato. La distinzione in categorie è principalmente
correlata ai riscontri macroscopici e chimici (principalmente, il contenuto di proteine totali) ed alla citologia quantitativa; tuttavia, la caratterizzazione microscopica del fluido
per quanto riguarda il tipo di cellule presenti è una componente essenziale che risulta utile per identificare la causa sottostante della formazione stessa del fluido. Anche se non si
esegue alcuna valutazione del contenuto proteico o della
citologia quantitativa, l’esame al microscopio dei tipi di cellule presenti è qualcosa che può fornire informazioni immediate sul fluido ed è la componente più importante della
valutazione di questi liquidi. Verranno elencate le differenti
categorie di formazione dei fluidi, unitamente ai reperti considerati normali nel cane e nel gatto.
Riscontri normali: il prelievo del liquido pleurico e peritoneale nei cani e nei gatti normali è difficile a causa dello
scarso volume presente e dell’intrappolamento del fluido fra
i visceri toracici ed addominali. Il contenuto proteico è di
norma molto inferiore a 30 g/l ed il conteggio cellulare totale è generalmente al di sotto di 550 x 106/l. Il quadro citologico riscontrabile nei fluidi pleurici, pericardici e peritoneali normali è rappresentato da un basso numero di cellule
mesoteliali e, occasionalmente, da elementi infiammatori.
Le cellule mesoteliali sono presenti in piccoli grappoli oppure singolarmente. Quelle infiammatorie che si riscontrano
nei fluidi normali hanno la morfologia ordinaria dei leucociti del sangue periferico. Il leucocita predominante osservato
varia in funzione della specie animale. Nel cane e nel cavallo prevalgono i neutrofili. Nel gatto e nel bovino, i linfociti.
Trasudato: I trasudati si definiscono come accumuli
eccessivi di fluidi con caratteristiche normali. Di conseguen-
za, sia nel cane che nel gatto presentano un basso valore di
proteine totali (inferiore a 30 g/l) e di cellule nucleate (inferiore a 500 x 106/l). Questi fluidi sono dovuti comunemente
ad una stasi venosa e, meno frequentemente, ad ipoalbuminemia ed ostruzione linfatica (insufficienza cardiaca congestizia, insufficienza epatica, sindrome nefrosica ed alcuni
casi di neoplasia). Va sottolineato che i versamenti pleurici e
peritoneali dovuti unicamente all’ipoalbuminemia si riscontrano soltanto quando i livelli di albumina sierica cadono al
di sotto di 10 g/l.
Trasudati modificati: l’accumulo di fluidi trasudatizi in
una delle cavità corporee provoca un aumento della pressione che irrita gli elementi mesoteliali, con conseguente proliferazione e distacco con passaggio nel liquido di versamento. Col tempo, queste cellule muoiono e rilasciano sostanze
chemioattrattrici che attirano i fagociti nel versamento. Il
risultato è un lieve aumento sia delle proteine totali (30-50
g/l) che delle cellule nucleate (leggermente superiori a 500 x
106/l). Quando ciò avviene, il fluido prende il nome di trasudato modificato.
Essudati: gli essudati si definiscono come accumuli di
liquidi che presentano livelli abnormemente elevati di solidi
totali e/o cellule nucleate. Le proteine totali variano tra 30 e
70 g/l e le cellule totali possono arrivare fino a 100.000 x
106/l. La grande maggioranza degli essudati è causata da
processi infiammatori; tuttavia, il denominatore comune della loro formazione è il danno vascolare. Di conseguenza, sia
i versamenti emorragici che quelli chilosi sono classificati
come essudati sulla base delle caratteristiche fisiche e della
patogenesi. Gli essudati infiammatori sono distinti in base
alla caratterizzazione del campione citologico classico. A
causa dell’irritazione locale, è presente un certo grado di
iperplasia reattiva delle cellule mesoteliali.
Più oltre vengono discusse parecchie formazioni di fluidi
che non seguono tipicamente questo sistema di classificazione e che devono essere considerate a parte. Inoltre, vengono trattati a fondo alcuni di questi versamenti che risultano specifici per il gatto.
Peritonite infettiva felina (FIP): la FIP presenta caratteristiche esclusive fra la maggior parte degli essudati, dal
momento che il liquido che si accumula ha una cellularità
bassa. Il riscontro di una qualsiasi raccolta di fluidi dipende
da molteplici variabili; in letteratura veterinaria sono state
descritte ampiamente sia la forma “umida” che quella “secca” della malattia. Quando si forma una quantità significativa di fluidi, il contenuto di proteine totali risulta di norma
estremamente elevato, il che riflette un analogo innalzamento delle proteine sieriche. L’elettroforesi del liquido di ver-
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samento o del siero rivela di norma un’imponente gammopatia policlonale. Macroscopicamente, il versamento della
FIP è spesso limpido e di colore paglierino e può essere presente sia nella cavità pleurica che in quella peritoneale.
Anche quando il prelievo viene effettuato con EDTA, il fluido mostra spesso coaguli o filamenti di fibrina ed è caratterizzato da un elevato grado di viscosità, simile a quella del
liquido sinoviale. La risposta cellulare nella maggior parte
dei casi ha caratteristiche neutrofile; predominano i neutrofili non degenerati. Anche un prominente sfondo proteinaceo
granulare di colore rosa che circonda le varie cellule nucleate è molto comune ed altamente indicativo di FIP o come
minimo di un fluido con un elevato contenuto proteico. Si
possono osservare anche numeri bassi o talvolta significativi di macrofagi e piccoli linfociti normali.
Versamenti linfocitari: Nella maggior parte delle specie
animali, l’identificazione di una componente linfocitaria
prominente in qualsiasi versamento richiede di accertare la
possibilità che sia coinvolta una componente chilosa. I versamenti chilosi sono la conseguenza della fuoriuscita della
linfa nella cavità corporea e possono interessare sia lo spazio pleurico che quello peritoneale. Questi fluidi vengono
spesso descritti come opachi e lattiginosi; tuttavia, va sottolineato che a seconda del loro contenuto lipidico e della loro
longevità possono essere anche limpidi ed incolori. Molti
gatti con anoressia prolungata presentano questo tipo di versamento, anche se con caratteri chilosi. A meno che non si
esegua una valutazione microscopica del liquido e non si
osservi un numero significativo di piccoli linfociti di aspetto
normale, di norma l’ipotesi del versamento chiloso non viene presa in considerazione. In molti versamenti chilosi, si
osserva un’elevata concentrazione di proteine (35-45 g/l),
mentre la cellularità è relativamente bassa. Inframmezzato ai
piccoli linfociti di aspetto normale, si riscontra un numero
variabile di neutrofili non degenerati maturi e spesso si
osservano macrofagi attivati. Il grado di infiltrazione neutrofila spesso è direttamente correlato alla quantità di materiale
lipidico presente, dal momento che questo risulta essere un
agente irritante significativo, che determina il reclutamento
dei neutrofili. Se il fluido è presente da un periodo di tempo
significativo, nel versamento si riscontrano iperplasia ed
esfoliazione delle cellule mesoteliali. Se l’ipotesi di versamento chiloso è dubbia, si deve prendere in considerazione
la misurazione delle concentrazioni di trigliceridi nel fluido.
Queste si sono dimostrate una delle misure più obiettive di
un’autentica componente chilosa nei versamenti. Livelli di
trigliceridi superiori a 110 mg/dl (1,21 mmol/l) sono altamente indicativi di versamento chiloso.
142
Al secondo posto in ordine di frequenza tra le cause di versamento linfocitario nel gatto si trova la miocardiopatia felina.
Il meccanismo che sta alla base di questo tipo di versamento
non è ancora stato completamente chiarito; tuttavia, è ben stabilito che l’insufficienza cardiaca causa una stasi venosa ed
epatica che aumenta la pressione. Nel gatto, sembra che queste circostanze predispongano alla fuoriuscita della linfa dai
vasi ed esitino in un versamento chiloso secondario. Molti dei
versamenti associati alla miocardiopatia sono autentici versamenti chilosi. Tuttavia, esiste una sottocategoria di casi di
miocardiopatia felina contraddistinti da significativi versamenti linfocitari senza altre caratteristiche dei versamenti chilosi (concentrazione di trigliceridi inferiori a 110 mg/dl).
Una terza causa di versamento linfocitario da prendere in
considerazione è il linfoma maligno. Nella maggior parte
delle forme di questa neoplasia, gli elementi tumorali sono
linfociti grandi e di aspetto immaturo, ma esiste un ridotto
numero di casi di linfoma maligno a piccoli linfociti in cui
le cellule neoplastiche somigliano a piccoli linfociti normali. Questi potrebbero essere erroneamente interpretati come
un semplice versamento chiloso. Il vantaggio di cui godiamo
in medicina veterinaria è che questo quadro è molto meno
comune, il che limita le nostre probabilità di formulare una
diagnosi errata.
Indipendentemente dalla causa del versamento linfocitario, la diagnostica per immagini diviene una delle componenti critiche per l’identificazione dell’eziologia sottostante.
Anche con molti degli autentici versamenti chilosi, nella
regione mediastinica anteriore si riscontra una lesione occupante spazio associata a linfoadenomegalia (iperplasia linfoide, infiammazione o neoplasia) oppure la presenza di un
focolaio infiammatorio o di un processo neoplastico (linfoma maligno, timoma ecc..); in alternativa, si possono osservare con le tecniche di diagnostica per immagini dei dati che
depongono a favore della miocardiopatia felina. La diagnostica per immagini è importante nella caratterizzazione del
versamento toracico felino di routine.
Letture consigliate
Baker R and Lumsden, JH. Color Atlas of Cytology of the Dog and Cat.
Mosby, St. Louis, 2000.
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Raskin RE and Meyer DJ. Atlas of Canine and Feline Cytology. W.B. Saunders Company, Philadelphia, 2001.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
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143
A cat is not a dog:
Some unique feline hematologic features
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
Most of the basic hematologic principals applied to other
mammals are directly applicable to the cat; however, there
are several significant specific differences that are important
to remember. A few of these differences are outlined below.
Leukogram Interpretation: The majority of the changes
in quantitative leukocyte values are similar between species
regarding basic interpretations of inflammatory disease and
various physiologic leukocyte changes; however, there are
differences. The primary difference is related to the lymphocytosis commonly seen in cats with excitement or epinephrine affect. This physiologic response is commonly seen in a
veterinary practice. Due to excitement and release of epinephrine there is an associated increased heart rate and cardiac output that has the greatest impact on leukocyte numbers and distribution. This is an effect that impacts leukocyte
numbers immediately and when the excitement is removed,
leukocyte numbers and distribution return to baseline values
very rapidly (within minutes following removal of the epinephrine affect). There is a physiologic leukocytosis the primarily impacts the peripheral blood distribution of leukocytes. Normally approximately 50% of the peripheral blood
leukocytes are present in a marginal pool (rolling along the
inside of vessel walls and peripherally in vessels in a laminar flow pattern) that is not sampled during blood collection
from a large vein. Only the approximately 50% of the leukocytes present in the center of these vessels (circulating pool)
are sampled. With increased cardiac output, there is a shift
from the marginal pool into the circulating pool resulting in
an increase in the total leukocyte count. In most animal
species, this results in a mild mature neutrophilia. This neutrophilia is also seen in the cat; however, there is an additionally lymphocytosis that is relatively unique to the cat.
Lymphocyte counts are often only mild to moderate, but
lymphocyte counts slightly greater than 20x109/L A moderately Lymphocytosis is uncommonly seen in dogs with
excitement: puppies tend to have this potential leukogram
change compared to adult dogs. The cause for the Lymphocytosis is still controversial; however, re-distribution of lymphocytes during the period of excitement seems a reasonable
explanation for this transient effect.
Toxic Neutrophil Morphology: Most of the morphologic features of neutrophil toxicity are shared among all mammalian species as well as with both avian and reptile samples. The primary and most significant morphologic finding
of increased blue staining of the cytoplasm is the same for
the cat as it is for the dog. This morphologic finding represents retention of RNA within the cytoplasm during the
development process. In the normal neutrophil production
process, cytoplasmic RNA slowly decreases and by the time
the cell has completely matured, there are only minimal
amounts of RNA present; these mature cells have their full
complement of granules and enzymes and needs very minimal protein production capabilities for its normal function.
If there is significant neutrophil demand in the peripheral tissues (neutrophilic inflammation), the production process in
the marrow is shortened and there are some sacrifices in the
production process. One of these sacrifices is the incomplete
removal of cytoplasmic RNA. The more the RNA, the more
deeply blue the cytoplasm and the more shortened the production process. This cytoplasmic blue staining is an excellent morphologic sign of toxicity and the greater the toxicity the greater the potential for an underlying bacterial
inflammatory process as the inciting cause. In most animal
species, the presence of Döhle bodies, small irregularly
sized pale blue cytoplasmic inclusions, parallels the presence of cytoplasmic blue staining; Döhle bodies are considered a significant morphologic sign of neutrophil toxicity in
most species. In the cat (and the horse), the presence of Döhle bodies is an incidental finding and should not be interpreted as an indication of neutrophil toxicity by itself. Blue
Example of an Epinephrine-induced leukogram change
Parameter
WBC
Neutrophil
Lymphocyte
Monocyte
Eosinophil
Before Excitement
Immediately After Excitement
Reference Interval
7.93
5.87
1.27
0.80
0.71
29.60
10.66
17.76
0.30
0.89
6 – 17 x109/L
3 – 12 x109/L
1 – 5 x109/L
0.15 – 1.35 x109/L
0.10 – 1.25 x109/L
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staining cytoplasm is a more accurate and valid morphologic clue to toxicity in the cat.
Heinz Bodies: Different animal species have different
susceptibility for Heinz Body formation. Heinz Bodies are
small, rigid, coccoid bodies of oxidized and denatured
hemoglobin typically present at the periphery of the erythrocyte. Feline hemoglobin, because of its high number of
sulfhydryl groups compared to other species’ hemoglobin, is
more susceptible to oxidant injury than most species. In fact,
in the normal cat, depending on who you read, anywhere
from 10-25% of erythrocytes in circulation will have small
Heinz Bodies. These small Heinz Bodies are difficult to
visualize and as with the large forms, staining with New
Methylene Blue (NMB) will enhance the ability to visualize.
With normal Romanovsky-stained slides, the Heinz Bodies
stain similar to the normal orange-red hemoglobin of the
erythrocytes, where as with NMB, the Heinz Body stains a
dark blue that is easily distinguished from the non-oxidized
hemoglobin. The presence of these small Heinz Bodies do
not appear to impact red blood cell volume and these cells
have a normal peripheral blood circulating time; however, if
the larger forms are present, erythrocyte lifespan is shorted
due to removal by the monocyte-macrophage system of the
spleen and other tissues as the cells circulate through these
tissues. Marked acute hemolytic crises can result from sudden severe oxidative insult as might be seen with acute
Acetaminophen toxicosis. This results in sudden onset anemia with eventual strong bone marrow response and significant reticulocytosis. Several systemic illnesses in the cat are
also associated with Heinz Body formation but these are typically not as severe a hemolytic disease; these systemic illnesses include hepatic lipidosis, malignant lymphoma,
hyperthyroidism and Diabetes mellitus with or without
ketoacidosis.
Reticulocyte Response: Absolute reticulocyte counts are
the most objective measure of bone marrow responsiveness
and proper characterization of regenerative versus nonregenerative anemia in the cat just as it is in most other
mammalian species. However, different species release
reticulocytes from the bone marrow at different rates. An
excellent example of this is seen with the horse where erythrocyte maturation in the marrow is the same as with other
mammals; however, the bone marrow does not release reticulocytes into circulation but only rarely even with the most
144
marked regenerative response. The horse is relatively unique
related to this response but to a much less degree, the cat
marrow does not release reticulocytes as readily as is seen
with the dog; the dog is much more similar to humans in
reticulocyte responsiveness. The end result is found in the
fact that reticulocyte counts in the cat are typically not as
dramatic as is seen in the dog with similar degrees and
mechanisms of anemia.
In addition to a difference in ease of release from the marrow, there is also a difference in reticulocyte maturation
between the cat and dog once released into circulation. In the
dog, the normal maturation time from an identifiable reticulocyte to a mature erythrocyte is only 24 hours; maturation
for a feline reticulocyte from a young released reticulocyte
from the bone marrow to a completely mature erythrocyte is
days to a couple weeks. With this slower maturation process,
there are two major different morphologically identifiable
reticulocytes possibly seen in circulation. Aggregate reticulocytes are immature erythrocytes with moderate to large
amounts of residual RNA that when stained with NMB are
precipitated into moderately sized “aggregates” of blue
staining material; therefore, their identification as aggregate
reticulocytes. These cells mature relatively rapidly (within
1-2 days) to a cell with small amounts of residual RNA that
lasts for 7-14 days. When these cells are stained with NMB,
there are only few small coccal blue staining precipitated
material; these reticulocytes are identified as punctuate reticulocytes. In most reference laboratories, only aggregate
reticulocytes are reported thinking that these represent the
most recent bone marrow response and therefore are more
representative of the current situation. However, aggregate
reticulocytes appear to be released in the marrow only with
relatively significant anemia. In many cases with cats with
hematocrits greater than 20%, only punctuate reticulocytes
are released and unless these are identified, an incorrect
interpretation of non-regenerative anemia will be made.
Selected References
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen
ED, Rebar A and Weiser G. Veterinary Hematology and Clinical Chemistry. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.
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145
Il gatto non è un cane anche in citologia:
alcune caratteristiche citologiche peculiari del gatto
Dennis B. De Nicola
DVM, PhD, Dipl ACVP, Maine, USA
La maggior parte dei principi ematologici di base degli
agli altri mammiferi risulta direttamente applicabile anche al
gatto; tuttavia, esistono parecchie significative differenze di
specie che è importante ricordare. Alcune di esse saranno
delineate più sotto.
Interpretazione del leucogramma: la maggior parte delle variazioni dei valori quantitativi dei leucociti risulta simile fra le diverse specie, per quanto riguarda l’interpretazione
di base delle malattie infiammatorie e le varie modificazioni
leucocitarie fisiologiche; tuttavia, esistono delle differenze.
Quella principale è correlata alla linfocitosi comunemente
osservata nei gatti eccitati o sotto l’effetto dell’adrenalina.
Questa risposta fisiologica si riscontra comunemente in
ambito veterinario. A causa dell’eccitazione e del rilascio di
adrenalina, si ha un incremento della frequenza e della gittata cardiache, che agiscono principalmente sul numero e sulla distribuzione dei leucociti. Questa variazione numerica si
riscontra immediatamente e, quando l’eccitazione cessa, il
numero e la distribuzione dei leucociti tornano molto rapidamente ai valori basali (entro pochi minuti dopo l’eliminazione dell’effetto adrenalinico). Esiste una leucocitosi fisiologica che colpisce principalmente la distribuzione dei leucociti nel sangue periferico. Normalmente, il 50% circa di
questi elementi è presente in un pool marginale (adeso alla
superficie interna delle pareti vasali ed a livello periferico
dei vasi, in un flusso laminare) che non viene raccolto durante il prelievo del sangue effettuato da una grande vena. Solo
il 55% circa dei leucociti presenti all’interno di questi vasi
(pool circolante) viene campionato. Con l’aumentare della
gittata cardiaca, si ha uno spostamento dal pool marginale in
quello circolante, che esita in un incremento del conteggio
totale dei leucociti. Nella maggior parte delle specie animali, ciò determina una lieve neutrofilia matura. Questa si
osserva anche nel gatto; tuttavia, esiste una linfocitosi
aggiuntiva che costituisce una caratteristica relativamente
esclusiva di questa specie. Il conteggio dei leucociti presenta spesso solo un aumento lieve o moderato, ma quello dei
linfociti è leggermente superiore a 20 x 109/l. Una linfocitosi moderata si osserva con scarsa frequenza nei cani con
eccitazione; i cuccioli tendono più degli adulti a presentare
questa potenziale modificazione del leucogramma. La causa
della linfocitosi è ancora controversa; tuttavia, la ridistribuzione dei linfociti durante il periodo di eccitazione sembra
una spiegazione ragionevole di questo effetto transitorio.
Morfologia dei neutrofili tossici: la maggior parte delle
caratteristiche morfologiche della tossicità dei neutrofili è
comune fra tutte le specie di mammiferi, nonché fra gli
uccelli ed i rettili. Il principale è più significativo riscontro
morfologico, rappresentato dall’incremento della colorazione blu del citoplasma, è identico sia nel gatto che nel cane.
Questo reperto è dovuto alla ritenzione del RNA all’interno
del citoplasma durante lo sviluppo. Nel normale processo di
produzione dei neutrofili, l’RNA citoplasmatico diminuisce
lentamente ed al momento in cui la cellula è completamente
maturata è presente soltanto in quantità minime; questi elementi maturi dispongono della loro completa dotazione di
granuli ed enzimi e necessitano di una produzione di proteine davvero minima per essere in grado di svolgere la loro
funzione normale. In presenza di una significativa domanda
di neutrofili nel sangue periferico (infiammazione neutrofila), il processo di produzione nel midollo viene abbreviato e,
di conseguenza, alcuni passaggi devono essere sacrificati.
Uno di questi è il completamento della rimozione dell’RNA
citoplasmatico. Tanto maggiore è la quantità di quest’ultimo,
tanto più intensa è la colorazione blu del citoplasma e tanto
più breve è il processo di produzione. Questa colorazione
citoplasmatica blu è un eccellente segno morfologico di tossicità e questa è tanto più elevata quanto più è probabile che
Esempio di una modificazione del leucogramma indotta dall’adrenalina
Parametro
Prima dell’eccitazione
Immediatamente dopo
l’eccitazione
Intervallo di
riferimento
Leucociti
Neutrofili
Linfociti
Monociti
Eosinofili
7,93
5,97
1,27
0,80
0,71
29,60
10,66
17,76
0,30
0,89
6-17 x 109/l
3-12 x 109/l
1-5 x 109/l
0,15-1,35
0,10-1,25
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la causa scatenante sia rappresentata da un sottostante processo infiammatorio batterico. Nella maggior parte delle
specie animali, la colorazione blu del citoplasma è abbinata
alla presenza dei corpi di Döhle, piccole inclusioni citoplasmatiche di colore blu chiaro e di forma irregolare. Queste
formazioni sono considerate un significativo segno morfologico della tossicità neutrofila nella maggior parte delle specie animali. Nel gatto (e nel cavallo) la loro presenza è un
reperto incidentale e non deve essere interpretata come indicazione di tossicità neutrofila di per sé. Da questo punto di
vista, nel gatto la colorazione blu del citoplasma è più accurata e più valida.
Corpi di Heinz: Le differenti specie animali presentano
varie sensibilità alla formazione di corpi di Heinz. Questi
sono piccole e rigide formazioni coccoidi di emoglobina
ossidata e denaturata, tipicamente presenti alla periferia dell’eritrocita. L’emoglobina felina, a causa dell’alto numero di
gruppi sulfidrilici che possiede in confronto a quella di altre
specie, è più suscettibile al danno da ossidanti di quella maggior parte degli animali. In effetti, nel gatto normale, a
seconda degli autori consultati, è possibile trovare la segnalazione della presenza di piccoli corpi di Heinz in una percentuale di eritrociti circolanti pari ad un valore qualsiasi fra
il 10% e il 25%. Questi piccoli corpi di Heinz sono difficili
da visualizzare e, come nella forma grande, si colorano con
il nuovo blu di metilene (NMB) che ne accentua la visualizzazione. Con le abituali tecniche di Romanovsky, i corpi di
Heinz assumono una colorazione simile alla normale emoglobina degli eritrociti, di colore arancio-rosso, mentre con
il NMB si colorano di blu scuro, che viene facilmente distinto dall’emoglobina non ossidata. La presenza di questi piccoli corpi di Heinz non sembra influire sul volume degli eritrociti, che mostrano un tempo normale di circolazione nel
sangue periferico; invece, se sono presenti le forme più grandi la durata della vita degli eritrociti è abbreviata a causa della rimozione da parte del sistema monocitario-macrofagico
della milza e di altri tessuti quando le cellule circolano attraverso di essi. Si possono avere marcate crisi emolitiche acute dovute all’improvviso e grave insulto ossidativo, come si
può osservare nell’avvelenamento acuto da acetaminofene.
Ciò esita nella comparsa improvvisa di anemia con eventuale forte risposta midollare e significativa reticolocitosi.
Anche parecchie malattie sistemiche del gatto sono associate alla formazione di corpi di Heinz, ma di norma non determinano un quadro emolitico altrettanto grave; queste malattie comprendono la lipidosi epatica, il linfoma maligno, l’ipertiroidismo ed il diabete mellito con o senza chetoacidosi.
Risposta reticolocitaria: nel gatto, come nella maggior
parte delle altre specie di mammiferi, i conteggi assoluti dei
reticolociti sono la misurazione più obiettiva della reattività
midollare e consentono un’appropriata caratterizzazione
dell’anemia rigenerativa rispetto a quella non rigenerativa.
Tuttavia, specie differenti rilasciano reticolociti dal midollo
osseo a velocità differenti. Un esempio eccellente di questo
146
fenomeno si osserva nel cavallo, la cui maturazione eritrocitaria nel midollo è uguale a quella degli altri mammiferi; tuttavia, il midollo osseo non rilascia reticolociti in circolo, se
non in casi molto rari, anche in presenza della risposta rigenerativa più marcata. Il cavallo presenta una situazione relativamente esclusiva per quanto riguarda questa risposta, ma,
in misura molto minore, anche il midollo del gatto non rilascia reticolociti con la stessa facilità osservata per quello del
cane; quest’ultimo è molto più simile all’uomo nella reattività reticolocitaria. Il risultato finale è che il conteggio dei
reticolociti nel gatto di norma non è così drammatico come
si osserva nei cani colpiti da un’anemia di analoga entità e
causata dagli stessi meccanismi. Oltre alla diversa facilità
del rilascio dal midollo, fra il cane ed il gatto si osserva
anche una variazione nella maturazione dei reticolociti una
volta rilasciati in circolo. Nel cane, il tempo di maturazione
normale da un reticolocita identificabile ad un eritrocita
maturo è di sole 24 ore; la maturazione per un reticolocita
felino da un reticolocita giovane rilasciato dal midollo osseo
fino ad un eritrocita completamente maturo va da alcuni
giorni fino ad un paio di settimane. Data la maggiore lentezza di questo processo di maturazione, esistono due principali differenti reticolociti morfologicamente identificabili che
si possono vedere in circolo. I reticolociti aggregati sono eritrociti immaturi con moderate o elevate quantità di RNA
residuo che, in seguito alla colorazione con NMB, vengono
precipitate in “aggregati” di dimensioni moderate di materiale che assume una tinta blu; da qui, la loro identificazione
come reticolociti aggregati. Queste cellule maturano in
modo relativamente rapido (entro 1-2 giorni) trasformandosi in un elemento con piccole quantità di RNA residuo che
dura per 7-14 giorni. Quando queste cellule vengono colorate con NMB, si osservano solo poche piccole aree coccoidi
di materiale precipitato che si colora di blu; questi elementi
vengono identificati come reticolociti puntati. Nella maggior
parte dei laboratori di riferimento, vengono segnalati soltanto i reticolociti aggregati, pensando che questi rappresentino
la più recente risposta midollare e, di conseguenza, siano più
rappresentativi della situazione in atto. Tuttavia, sembra che
i reticolociti aggregati vengano rilasciati a livello midollare
solo in presenza di un’anemia relativamente significativa. In
molti casi di gatti con ematocrito superiore al 20%, si ha il
rilascio soltanto dei reticolociti puntati e, a meno che questi
non vengano identificati, si avrà un’interpretazione non corretta di un’anemia non rigenerativa.
Letture consigliate
Cowell RL, Tyler RD, Meinkoth JH and De Nicola DB, Diagnostic Cytology and Hematology of the Dog and Cat, Mosby, St. Louis, 2008.
Reagan WJ, Saunders TG and De Nicola DB. Veterinary Hematology: Atlas
of Common Domestic Species. Wiley, John & Sons, Incorporated,
Indianapolis, 2004.
Thrall MA, Baker DC, Campbell TW, De Nicola D, Fettman MJ, Lassen
ED, Rebar A and Weiser G. Veterinary Hematology and Clinical Chemistry. Wiley, John & Sons, Incorporated, Indianapolis, 2004.
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Patologie della placca neuromuscolare:
miastenia gravis e sindromi miasteniche
Alberta De Stefani
Med Vet, Dipl ECVN, Cambridgeshire (UK)
INTRODUZIONE
La placca neuromuscolare (NM) rappresenta il punto di
contatto tra il motoneurone e le fibre muscolari da questi
innervate. A livello della placca NM si possono riconoscere
3 zone distinte: 1. la membrana presinaptica, 2. la fessura
sinaptica e 3. la membrana postsinaptica. Spesso i diversi
processi patologici colpiscono specificatamente una parte
della placca NM.
Il neurotrasmettitore utilizzato a livello della placca NM è
l’acetilcolina. L’attività della placca NM quindi è strettamente legata non solo alla normale produzione e rilascio di
questa molecola ma anche alla presenza di recettori specifici per l’acetilcolina sulla membrana postsinaptica (recettori
nicotinici) e di un efficiente meccanismo per la sua degradazione (degradazione enzimatica).
Il primo passo nella trasmissione NM è l’arrivo di un
potenziale d’azione a livello del bottone terminale del motoneurone. Questo potenziale d’azione causa depolarizzazione
e apertura di canali ionici per il Ca2+. L’entrata di Ca2+ nel
bottone terminale promuove la fusione delle vesciche contenenti il nurotrasmettitore con la membrana presinaptica e
quindi il rilascio, per esocitosi, dell’acetilcolina nella fessura
sinaptica. L’acetilcolina quindi attraversa lo spazio intersinaptico e ragginge i suoi specifici recettori sulla membrana
postsinaptica. I recettori dell’acetilcolina (canali per il Na+)
sono proteine transmembrana formati da 5 subunità organizzate in modo tale da foermare una struttura circolare (canale).
Quando l’acetilcolina si lega ad un recettore ne provoca un
cambio morfologico che permette al Na+ di attravesare la
membrana postsinaptica. L’aumento di Na+ a livello intracellulare provoca depolarizzazione della membrana postsinaptica o potenziale di placca. L’acetilcolina rilasciata nello spazio intersinaptico viene rapidamente metabolizzata, per idrolisi, dall’acetilcolin-esterasi. Se il potenziale di placca supera
una determinata soglia allora la depolarizzazione si propaga
lungo la fibra muscolare causando rilascio intracellulare di
Ca2+ che a sua volta risulta in contazione muscolare.
Le patologie che colpiscono la placca NM vengono quindi classificate in presinaptiche e postsinaptiche a seconda
della fase della trasmissione NM che viene principalmente
alterata.
I processi patologici possono interferire:
1. a livello presinaptico tramite una alterata sintesi, trasporto, reuptake, e rilascio dell’acetilcolina nella fessura
sinaptica (i.e. tossina botulinica miastenia grave congenita [raro] paralisi da zecche e veleno della vedova nera).
2. a livello di fessura sinaptica tramite alterazioni della
concentrazione e tempo di permanenza dell’acetilcolina
nello spazio intersinaptico (i.e. organofosfati e cabammati).
3. a livello postsinaptico alterando l’interazione tra l’acetilcolina e i suoi recettori (i.e. miastenia grave, _-bungarotoxin o tossina del sepente di mare Krait e il curaro).
Indipendentemente dal meccanismo patologico che provoca il malfunzionamento dalla trasmissione neuromuscolare i segni clinici sono spesso molto simili. Il tipico quadro
clinico comprende una progressiva e simmetrica debolezza
muscolare che colpisce sia gli arti anteriori che gli arti posteriori. I riflessi tendinei sono spesso intatti soprattutto negli
stadi iniziali della patologia. I muscoli piccoli e a contrazione rapida sono quelli più precocemente colpiti e frequentemente si può e riscontrare debolezza del riflesso palpebrale,
alterazione della voce (disfonia) e ridotto riflesso di deglutizione. Lo stato del sensorio è generalmente inalterato così
come la propriocezione. In alcuni casi, come le intossicazioni da organofosfati, si può assistere ad un quadro di stimolazione colinergica con eccessiva salivazione, bradicardia e
miosi. Come è intuitivo pensare, il trattamento e la prognosi
sono strettamente legati alla eziologiga ed alla gravità della
disfunzione NM. È tuttavia importante ricordare che se la
debolezza muscolare è tale da indurre decubito prolungato,
terapie di supporto quali la fisoterapia, “nursing care” e un
apporto nutrizionale adeguato rappresentano una parte fondamentale del trattamento con enormi ripercussioni sulla
sopravvivenza del paziente.
MIASTENIA GRAVIS (MG)
La miastenia gravis è una ben nota patologia che colpisce
la pacca neuromuscolare. Due forme di MG sono state
descritte: la forma congenita e la forma acquisita.
Miastenia gravis congenita
La MG congenita puo essere ulteriormente suddivisa in
un problema presinaptico (dovuto a un mancato/ridotto rilascio di acetilcolina) e in un problema postsinaptico (dovuta
ad un ridotto numero di recettori per l’acetilcolina presenti
sulla membrana postsinaptica). La tipica presentazione clinica è una progressiva debolezza muscolare indotta dall’esecizio fisico.
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La forma congenital di MG è stata riportata in diverse razze di cani tra cui lo Spriger Spaniel, Jack Russell terrier,
smooth-haired Fox terrier, Samoyed, Miniature Dachshund e
il Gammel Dansk Hounsehound. Quest’ultima razza è l’unica in cui si ha la forma presinaptica di MG. La MG congenital è rara nel gatto ed è stata riportata nel Siamese e nel
gatto domestico. Nel gatto la forma è sempre postsinaptica.
Il tipo di ereditarietà è stato identificato nel Jack Russell e
smooth-haired Fox terrier e nel Gammel Dansk Hounsehound. In queste razze la patologia si trasmette con modalità autosomica recessiva.
I segni clinici si presentano ad una età che varia tra le 6 e
le 16 settimane di vita. A parte la progressiva debolezza
muscolare indotta dall’esecizio fisico comune a tutte le razze, lo smooth-haired Fox terrier sviluppa anche megaesofago. La patologia è purtroppo, progressiva in qusi tutte le razze nonstante la terapia medica e porta negli stadi avvanzati a
grave debolezza muscolare, disfagia e treraparesi/paralisi
flaccida. Nel Gammel Dansk Hounsehound la MG congenita non è progressiva e nel Miniature Dachshund la patologia
si risolve col raggiungimento della maturità. Nel gatto non ci
sono disponibili sufficienti dati per stabilirne il decorso a
lungo termine.
La diagnosi si ottiene tramite il segnalamento, l’anamnesi e la risposta a farmaci anticolinesterasici (edrofonium,
neostigmina o piridostigmina) inquanto gli anticorpi anti
recettori per l’acetilcolina sono negativi. La prognosi è nella
maggior parte dei casi risevata o grave. La prognosi puo
essere ulteriormente aggravata da ricorrenti e spesso gravi
episodi di polmonite ab ingestis.
Miastenia gravis acquisita
La MG acquisita è una patologia autoimmune in cui si ha
la formazione di anticorpi contro i recettori nicotinici per
l’acetilcolina. Ne consegue un ridotto numero di recettori
disponibili a livello di placca motrice e quindi una ridotta
trasmissione neuromuscolare. Gli autoanticorpi così prodotti possono interferire con i recettori per l’acetilcolina in tre
diversi modi:
1) gli autoanticorpi si possono legare direttamente al recettore bloccandolo (blocco the canale ionico per il Na)
2) gli autoanticorpi possono promuovere la degradazione
dei recettori. Questo risulta in una ridotta concentrazione
di recettori sulla membrana postsinaptica
3) gli autoanticorpi possono provocare l’attivazione del
complemento con conseguente lisi della porzione
muscolare della placca motrice.
La MG acquisita è diagnosticata molto più frequentemente nel cane che non nel gatto. Diverse razze di gatti (Abyssinian e Somali) e cani (Akita, Terranova, terriers, German
shorthaired pointers, Chihuahua, GSD e Golden Retriever)
sembrano sviluppare questa patologia più frequentemente di
altre. L’età al momento della diagnosi sembra avere una distribuzione di tipo bimodale. Per il gatto i due picchi sono tra
i 2 e i 3 anni e tra i 9 e i 10 anni. Nel cane la MG acquisita
è più frequentemente diagnosticata in soggetti di meno di 5
anni e poi in età più avanzata tra i 9 e i 13 anni. Nel cane le
femmine sterilizzate sono maggiormente colpite.
148
La MG acquisita può essere diagnosticata in associazione
con altre patologie, in particolare:
a. Ipotiroidismo
b. Ipoadrenocorticismo
c. Timoma
d. Cisti del timo
e. Linfoma cutaneo non epiteliotropico
f. Carcinoma dei dotti biliari
g. Adenocarcinoma delle ghiandole apocrine dei sacchi
perianali
h. Osteosarcoma
i. Trattamento con methimazole nel gatto
j. Altre patologie immunomediate come l’anemia emolitica
e la trombocitopenia
Nel processo diagnostico queste patologie devono essere
sempre prese in seria considerazione poiché possono
influenzare la prognosi in modo significatiovo.
La MG acquisita si può presentare sotto tre forme cliniche
distinte:
⇒ Focale
⇒ Generalizzata
⇒ Fulminante
La MG focale spesso si presenta con debolezza di un
gruppo limitato di muscoli per esempio l’esofago, e i muscoli laringei, faringei e facciali. Tipicamente non si ha debolezza dei muscoli degli arti. I segni clinici comprendono
rigurgito dovuto al megaesofago, disfagia, disfonia, debolezza della mandibola e diminuito/assente riflesso palpebrale. È da tenere presente che il 25% dei cani che presentano
megaesofago idiopatico hanno un titolo anticorpale anti
recettori per l’acetilcolina positivo.La MG focale è più frequente nel cane (26%-43%) che nel gatto (15%).
La MG generalizzata, come suggerisce il nome, è caratterizzata clinicamente da debolezza generalizzata che si
aggrava con l’esercizio fisico. Altri segni clinici comprendono: zoppia, collasso, rigurgito, scialorrea, ventroflessione
del collo e tremori muscolari. Il megaesofago è spesso diagnosticato nel cane (88%). Il megaesofago non è molto frequente nel gatto (20%). Il 3% dei cani colpiti da MG generalizzata presentano anche timoma, nel gatto la percentuale
è molto più elevata e varia tra il 15 e il 26%.
La forma fulminante di MG è stata riportata sia nel cane
che nel gatto. La forma clinica è caratterizzata dagli stessi
segni clinici presenti nella MG generalizzata che però si
manifestano in forma molto grave e a progressione rapida.
Una grave difficoltà respiratoria è molto spesso presente.
Molti dei casi che sviluppano la forma fulminante hanno il
timoma. A parte gli anticorpi anti acetilcolina due altri anticorpi sono stati identificati nella forma fulminante, anticorpi
anti titin (una proteina muscolare) e anti ryanodine receptors
(RyR, un canale per il rilascio del Ca+2 dei muscoli schelettrici). La prevalenza della forma fulminante di MG è stata
riportata del 16 e 15% rispettivamente nel cane e nel gatto.
Diagnosi
Come ci si può immaginare la biopsia muscolare non è
un test sensibile o specifico per la MG. Ciò che si può trovare all’esame instopatologico sono rare fibre muscolari con
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forma angolare, fibre muscolari atrofiche e a volte piccoli
aggregati di linfociti. Da ricordare che in alcuni casi la MG
si può presentare contemporaneamente a un miosite. In questo caso la biopsia muscolare presenterà anomalie molto più
specifiche e gravi. Usando tecniche di immunoistochimica
(staphylococcal protein A-horseradish peroxidase) si possono identificare immunocomplessi depositati a livello di placca NM e a livello ultrastrutturale si possono apprezzare un
ridotto numero di recettori per l’acetilcolina, aumento della
distanza intesinaptica e una riduzione delle ondulazioni della membrana postsinaptica.
La presentazione clinica è il primo passo verso la diagnosi. Gli esami del sangue e la diagnostica per immagini
(x-ray, ecografia o CT) possono aiutare ad identificare patologie concomitanti (i.e. timoma) e/o la presenza di megaesofago e polmonite ab ingestis. I risultati dell’esame elettrodiagnostico possono dimostrare riduzione dei potenziali
muscolari dopo ripetuta stimolazione del nervo o un aumento del jitter nel single fiber EMG (elettromiografia). Una
risposta positiva al test farmacologico con farmaci anticolinesterasici ad azione breve (edrophonium o neostigmina)
può supportare la diagnosi di patologia di palcca. Tuttavia la
diagnosi definitiva si ottiene solo tramite l’identificazione
degli anticorpi anti recettori per l’acetilcolina nel siero
(radioimmunoassays). Questo test sierologico è positivo
nel 98% dei casi di MG generalizzata (titoli > 0.6nmol/l nel
cane e >0.3nmol/l nel gatto sono ritenuti positivi per MG).
Terapia
La terapia si può dividere in:
a. Terapia della causa scatenante, se presente/identificabile (i.e. tumore)
b. Terapia di supporto. Questa può includere terapia antibiotica in presenza di polmonite ab ingestis, fluidoterapia,
nutrizione via peg-tube, fisioterapia...etc
c. Terapia immunosopressiva. (corticosteroidi, azathiprine, ciclosporine, micofenolato, plasmapheresis)
d. Terapia specifica con farmaci anticolinesterasici (neostigmina [0.04mg/kg ogni 6 ore im], piridostigmina [0.53mg/kg ogni 8-12 ore po])
La terapia di supporto e la terapia specifica dovrebbero
sempre essere instaurate. La necessità di usare farmaci
immunosopressivi è stata messa in questione da uno studio
in cui l’88% dei pazienti è migliorato solo con terapia anticolinesterasica. (Il restante 12% ha sviluppato sucessivamente diversi tipi di neoplasie.)
Prognosi
In generale la prognosi in cani colpiti da MG acquisita è
riservata o grave. Questo è soprattutto dovuto al fatto che
questa specie tende a sviluppare molto spesso il megaesofago. La prognosi è infatti ritenuta buona per quei soggetti che
non hanno megaesofago, debolezza faringea o polmonite ab
ingestis o in cui la polmonite viente facilmente controllata
farmacologicamente. La mortalità ad un anno dalla diagnosi
è stata riportata tra il 40 ed il 60%. La causa della morte o
149
eutanasia è nella vasta maggioranza dei casi legata a ricorrenti e/o gravi episodi di polmonite ab ingestis. La prognosi
sembra essere un po’ più favorevole nei gatti, forse proprio
dovuto al fatto che questa specie raramente spviluppa
megaesofago.
La remissione dei segni clinici è associata ad una riduzione del titolo anticorpale anti recettori per l’acetilcolina. È
quindi utile ripetere il test sierologico ogni 6-8 settimane.
SINDROMI MIAESTENICHE
Come citato nell’introduzione, un vasto numero di patologie possono influenzare il funzionamento della placca neuromuscolare (a livello pre, inter e post sinaptico). Quelle
citate a seguire sono forse le più rappresentative e comuni
patologie di placca, tuttavia non sono certamente le uniche.
Botulismo
Il termine botulismo viene utilizzato per descrivere la
patologia che si sviluppa in seguito all’ingestione della tossina botulinica. Nella maggior parte dei casi, il botulismo è
dovuto all’ingestione della tossina contenuta in cibi avariati
e non cotti e solo raramente è dovuto ad una infezione da
Clostridium botulinum. Questa patologia è stata descritta nel
cane tuttavia non sono stati riportati casi di infezione naturale nel gatto. Otto sierotipi diversi di tossina botulinica sono
stati identificati. Il tipo che più comunemente colpisce il
cane è C (molto raro il tipo D). Nell’uomo la maggior parte
dei casi di botulismo sono associati alla tossina A, B, E ed F.
La tossina botulinica è stata definita una delle più potenti
tossine che si conoscano. Indipendentemente dal tipo la sua
azione a livello di placca neuromuscolare è moto simile. La
tossina botulinica è composta da due porzioni, la catena
pesante (heavy chain, HC) e la catena leggera (light chain,
LC). La HC permette alla tossina di ancorarsi alla membrana presinaptica e favorisce l’entrata della LC all’interno del
bottone terminale del neurone. La LC ha la funzione di bloccare in modo irreversibile l’azione delle proteine SNARE.
Queste sono un gruppo di proteine che permettono la fusione delle vescicole conteneti acetilcolina con la membrana
presinaptica e quindi il rilascio del neurotrasmettitore nella
fessura sinaptica. Come ci si può immaginare il risultato
ultimo della tossina è di prevenire la conduzzione neuromuscolare tramite il blocco del rilascio dell’acetilcolina.
La rapidità con cui si sviluppano i segni clinici e la loro gravità dipende dalla quantità di tossina ingerita. Spesso i primi
segni clinici si manifestano 12 ore dopo l’ingestione (fino a 6
giorni). Gli animali colpiti da botulismo sviluppano una paresi simmetrica che inizia dagli arti posteriori e progredisce agli
arti anteriori. La paresi presto diventa paralisi flaccida con frequente coinvolgimento dei nervi cranici (paralisi del facciale,
ridotto riflesso di deglutizione, ridotto tono della mandibola e
megaesofago) e ipo/ariflassia. Il sistema nervoso autonomo
può in oltre essere colpito (alterazioni della frequenza cardiaca, midriasi, ritenzione urinaria etc). La sensibilità, così come
lo stato del sensorio sono inalterati.
La diagnosi di botulismo si basa principalmente sull’anamnesi e sul quadro clinico. La tossina può essere isolata
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dal sangue (siero) o dal contenuto gastrointestinale (ELISA,
RIA, PCR). Gli esami di elettrodiagnostica possono rivelare
una riduzione dei potenziali d’azione dopo stimolazione delle fibre nervose motorie. Potenziali di fibrillazione e onde
acute positive vengono talvolta registrate 7-10 giorni dopo la
comparsa dei segni clinici.
La terapia è largamente di supporto e particolare attenzione deve essere posta ad eventuali coinvolgimeti del sistema
nervoso autonomo. In casi gravi la ventilazione assistita è
necessaria. Il siero polivalente anti tossina può essere utilizzato in casi molto gravi e in cui la sospetta esposizione alla
tossina è avvenuta nei 5 giorni precedenti. Un test intradermico è sempre raccomandato prima dell’iniezione endovenosa del siero antibotulinico per svelare eventuali reazioni di
tipo allergico. La prognosi è variabile.
Paralisi da zecche
La paralisi da zecche è stata riportata in Nord America e
Australia. È caratterizzata da paralisi flaccida, simmetrica,
progressiva e ascendente. Gli arti posteriori sono tipicamente conivolti per primi. In alcuni casi i nervi cranici vengono colpiti. La sensibilità è di solito mantenuta così come
la funzione degli sfinteri uretrali ed anali. In casi gravi si ha
la paralisi dei muscoli respiratori. La neurotossina viene
rilasciata dalla zecca con la saliva durante il pasto di sangue. Le specie di zecche che costituiscono un rischio per il
cane e il gatto sono il Dermacentor (Nord America) e l’Ixodes (Australia). La paralisi in Australia è molto più grave di quella riscontrata in America. La neurotossina agisce
a livello di placca neuromuscolare impedendo in modo
reversibile il rilascio dell’acetilcolina. Questa neurotossina
sembra anche interferire con la normale propagazione dell’impulso lungo la porzione terminale dell’assone del nervo motorio.
La diagnosi si basa principalmente sull’anamnesi, segni
clinici e identificazione di una o più zecche sull’animale.
Rimuovere la zecca è il trattamento migliore. Nei casi gravi
terapia di supporto è altrettanto importante. L’uso del siero
anti tossina è di solito riservato ai casi molto gravi che non
migliorano dopo la rimozione della zacca. Anche in questo
caso il test intradermico è fondamentale in quanto spesso si
assiste a reazioni di tipo anafilattico.
La prevenzione delle infestazioni da zecche è ovviamente
consigliata.
Antibiotici aminoglicosidici
Gli aminoglicosidici sono un gruppo di antibiotici utilizzati principalmente per il trattamneto di infezioni da batteri
aerobi, gram-negativi. Gli aminoglicosidici interferiscono
con la sintesi proteica raggiungendo in questo modo la loro
azione battericida. Tra gli effetti collaterali forse meglio noti
e più comuni rispetto al blocco della trasmissione neuromuscolare ci sono, la loro ototossicità e nefrotossicità. Tuttavia
il blocco della trasmissione NM è stata riportata sia in medicina veterinaria che in medicina umana.
Il blocco della trasmissione NM sembra essere dovuto ad
150
un azione di antagonismo verso il Ca2+ sul versante extracellulare della membrana pre e post sinaptica. A livello di membrana presinaptica questo causa un mancato flusso di Ca2+
all’interno del bottone terminale con conseguente mancato
rilascio dell’acetilcolina e quindi macata trasmissione NM.
Il blocco è reversibile e la terapia migliore è l’immediata
sospensione dell’antibiotico. Sloluzioni di calcio e neostigmina sono state utilizzate in medicina umana in situazioni di
emergenza per sbloccare la trasmissione NM. Altri antibiotici che possono interferire con la trasmissione NM sono la
lincomicina, la polimixina e le tetracicline.
Ipocalcemia
Il calcio in forma ionica ha un ruolo fondamental sia nella trasmissione NM (rilascio del neurotrasmettitore nella
fesura sinaptica) sia nel mantenimanto dell’equlibrio delle
membrane muscolari e nervose. L’ipocalcemia (Ca2+
<2.5mg/dl) può quindi rendere difficile la normale trasmissione NM e rende le fibre muscolari e nervose molto facili
da eccitare (questo è dovuto ad una aumentata permeabilità
delle membrane al Na+). I segni clinici sono principalmente
legati alla ipereccitabilità delle membrane nervose e solo
raramente si osserva una sintomatologia miastenico-simile.
Si possono osservare l’insorgenza acuta di nervosismo, spasmi muscolari, crampi, fascicolazioni dei muscoli facciali,
andatura rigida, prurito alla muso, atassia, crisi tetaniche,
tetraparesi e crisi convulsive (fino allo status epilepticus). Le
cause dell’ipocalcemia possono essere molto diverse e comprendono, l’ipoparatiroidismo, l’iperparatiroidismo nutrizionale, insufficinza renale (acuta o cronica), pancreatite acuta,
eclampsia post-partum, avvelenamento da glicole etilenico
etc. Una accurata anamnesi e test di approfondimento possono aiutare ad identificare la causa dell’ipocalcemia. Il trattamento prevede la somministrazione di Ca2+ per via orale o
endovensa a seconda della presentazione clinica. In situazioni di emergenza calcio gluconato 10% può essere somministrato lentamente (nell’arco di 10-30 minuti) ev ad una dose
di 1-1.5ml/kg.
Organofosfati e carbammati
Gli oganofosfati (OP) e i cabamati sono sostanze comunemente utilizzate come pesticidi, antiparassitari, funghicidi
ed erbicidi. L’intossicazione nei piccoli animali è di solito
dovuta ad un uso inappropriato o al sovradosaggio di queste
sostanze. Gli OP e i carbammati sono sostanze con azione
anticolinesterasica e quindi causano un accumulo di acetilcolina nella fessura sinaptica a livello sia di sistema nervoso
autonomo (tra neutoni per e post gangliari del simpatico e
parasimpatico e tra neuroni post gangliari ed organo effettore del parasimpatico), sia di sistema nervoso periferico
(giunzione neuromuscolare) sia di sistema nervoso centrale
(circuiti eccitatori del CNS). Gli OP inibiscono l’acetilcolinesterasi in modo irreversibile, mentre i carbamati inibiscono l’acetilcolinesterasi in modo reversibile. L’accumulo di
acetilcolina a livello sinaptico causa tre gruppi diversi di
segni clinici:
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1. segni muscarinici, dovuti a stimolazione del sistema nervoso parasimpatico, comprendono: aumentata salivazione, lacrimazione, minzione e transito intestinale, oltre a
bradicardia, e miosi.
2. segni nicotinici, dovuti a stimolazione dei muscoli schelettrici, comprendono: fascicolazioni e tremori muscolari,
spasmi, andatura rigida, ed eventualmente debolezza e
paralisi.
3. segni colinergici centrali, dovuti a stimolazione del
CNS, comprendono: ansietà, iperattività, anoressia e crisi
convulsive.
Una sindrome neuropatica ritardata (giorni o settimane
dopo l’esposizione) si può sviluppare in seguito all’esposizione ad OP. Questa sindrome prende il nome di “organophosphorus-induced delayed neurotoxicity (OPIDN)” e si
osserva più comunemente nel gatto che nel cane. Una forma di miopatia da OP è inoltre stata descritta. In generale i
segni clinici si sviluppano nell’arco di alcuni minuti o alcune ore dopo l’esposizione alla tossina. La gravità dei segni
clinici è strettamente legata alla ‘dose’ di OP o carbamma-
151
ti a cui un soggetto viene esposto. In forme gravi l’animale può morire in seguito ad asfissia secondaria a depressione respiratoria centrale, broncocostrizione e eccessive
secrezioni bronchiali.
La terapia consiste nella rimozione, quando possibile, della sostanza tossica (usando carbone attivo quando la tossina
è stata ingerita o con dei bagni se si ritiene che il soggetto
abbia contaminazione del mantello). L’atropina (0.20.4mg/kg lentamente ev) è utile per ridurre/elimare i segni
muscarinici, tuttavia non ha effetto sui segni nicotinici. Pralidossima cloruro (2-PAM: 10-20mg/kg ev nel gatto e
40mg/kg ev nel cane. È preferibile somministrare questa
sostanza molto lentamente nell’arco di circa 30 minuti e
diluita al 10% e) può essere utilizzata per antagonizzare i
segni nicotinici, tuttavia si deve avere la certezza che l’intossicazione è dovuta a OP. Pralidossima cloruro può aggravare i segni clinici in caso di intossicazione da carbamati.
Difenilidramina (4mg/kg ev/im tre volte al giorno) può inoltre essere utilizzata per contrastare i segni nicotinici ed in
alcuni casi muscarinici dovuti ad esposizione ad OP.
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Nuove tecniche nella diagnostica ecocardiografica
Elena Dall’Aglio
Med Vet, Peschiera Borromeo (MI)
Marco Di Marcello
Med Vet, PhD, Cellatica (BS)
Con il termine “strain” viene indicato un parametro fisico,
e più precisamente meccanico, che negli ultimi anni sta trovando numerosi campi applicativi anche in ambito
biomedico.4, 5, 8, 9, 10, 12
Lo strain può essere definito come il grado di deformazione cui è soggetto un corpo valutato lungo uno dei suoi
assi, e può essere calcolato tramite il rapporto:
Strain = (L - L0) / L0
Dove L0 rappresenta la dimensione iniziale ed L la dimensione misurabile dopo che il corpo è stato sottoposto alla
deformazione. Trattandosi di un rapporto tra due lunghezze,
lo strain non possiede unità di misura e viene espresso sotto
forma di percentuale.
Strettamente correlato allo strain è lo strain rate, parametro che indica la velocità con la quale la deformazione del
corpo ha luogo, e che è data dal grado della deformazione
avvenuta nell’unità di tempo. L’unità di misura di questa
grandezza è 1/sec, esprimibile anche come sec-1.
In medicina, e nello specifico in cardiologia, strain e
strain rate vengono utilizzati principalmente per analizzare
la cinetica di segmenti miocardici. Allo scopo di standardizzare quanto possibile l’analisi, generalmente si preferisce
suddividere il miocardio ventricolare sinistro in segmenti
seguendo le linee guida proposte dall’American Society of
Echocardiography.
Dal momento che l’analisi può essere effettuata in funzione delle diverse dimensioni spaziali, sono state identificate
tre principali componenti dello strain miocardico: longitudinale, radiale e circonferenziale.
Per quanto concettualmente i principi su cui si basa l’analisi di strain e strain rate siano sufficientemente intuitivi, di
gran lunga più complessa è l’applicazione pratica di queste
metodiche, in quanto si rende necessario, per via ecocardiografica, analizzare nel dettaglio la cinetica di un singolo segmento miocardico, fornendo poi il risultato dell’esame in
maniera quanto più possibile chiara e concisa.
In ordine cronologico, la prima tecnica utilizzata ai fini
della determinazione di strain e strain rate è quella basata
sull’impiego del Doppler tissutale (TDI) 1, 2. Dal momento
che lo strain rate è proporzionale al gradiente di velocità,
calcolato lungo lo stesso asse, esistente tra le due estremità
di un segmento, misurando la velocità dei singoli punti e
conoscendo la distanza che li separa è possibile calcolare lo
strain rate secondo la formula:
SR = (V2 - V1) / D
from Journal of the American
Society of echocardiography
vol 18 N° 12
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Dove V2 e V1 rappresentano le velocità dei punti in esame, e D la distanza che li separa. Partendo da questo parametro, lo strain può essere quindi calcolato tramite l’integrazione dello strain rate in funzione del tempo. La determinazione di questi parametri tramite tecnica “TDI-based”
si basa ad oggi sull’utilizzo di particolari sistemi Color
Doppler messi a punto per l’utilizzo specifico. È naturalmente necessario che le macchine in questione dispongano
di elevati frame rate, ed inoltre l’applicazione di questa tecnica è necessariamente vincolata dalle necessità di allineamento tra fascio di scansione e zona da analizzare tipica di
ogni sistema Doppler. Questo, però, rende estremamente
difficile l’analisi di strutture poste trasversalmente al fascio
ultrasonoro.
Al fine di svincolare l’analisi strain da queste limitazioni, altri sistemi, non basati su tecnica Doppler, sono stati
studiati e sono tuttora oggetto di affinamento.
Le tecniche di “Speckle Tracking” si basano sull’identificazione, da parte del sistema, di alcuni caratteri ecografici univocamente distintivi di una precisa zona miocardica;
una volta “agganciata” la zona in esame, la macchina è in
grado di seguirne il movimento in funzione del tempo ed,
analizzando il movimento relativo di almeno due aree di
interesse, di restituire all’operatore l’analisi strain eseguita
sul segmento compreso tra i due punti in esame3, 6, 7, 11. Una
volta ottenuto questo parametro, è naturalmente possibile
risalire allo strain rate. Anche in questo caso è necessario
che la macchina disponga di un adeguato frame rate, ma il
punto cardine del corretto funzionamento del sistema è
sicuramente dato dalla raffinatezza dell’algoritmo di “cattura” della zona miocardica di interesse, questione particolarmente delicata anche in funzione della complessità della cinetica miocardica.
Tecnicamente molto simile allo Speckle Tracking è infine la tecnica “2D based”, in cui vengono nuovamente
determinate le caratteristiche di una zona miocardica partendo però da una localizzazione dei punti vincolata dall’intervento dell’operatore, che generalmente identifica
con la massima precisione possibile il profilo endocardico
partendo inoltre da punti ritenuti particolarmente significativi. Ad esempio, nell’analisi dello strain longitudinale, i
punti di riferimento sono forniti dall’annulus mitralico e
dall’apice cardiaco. L’algoritmo che implementa la metodica in esame si basa quindi su una tecnica di “Border
153
Tracking”, tramite la quale la macchina analizza i movimenti del profilo endocardico in funzione del tempo a partire dai dati forniti dall’operatore.
Disponendo di un sistema bastato su quest’ultima metodica, il presente lavoro è consistito nella standardizzazione
della tecnica di esame, nella massima limitazione degli
errori metodica ed operatore- dipendenti (al fine di limitare al massimo le variabili inter ed intraoperatore) e nella
determinazione dei valori di strain e strain rate su gruppi di
soggetti sani appartenenti a razze diverse (Boxer, Labrador,
Beagle, Dobermann), nonché sul confronto con alcuni soggetti patologici.
A tale scopo, sono state utilizzate apparecchiature ecocardiografiche della serie Mylab (Esaote), ed in particolare
i modelli 30 e 50 di volta in volta equipaggiati con le sonde ritenute maggiormente adatte alla taglia ed alle caratteristiche ecografiche del soggetto in esame. Tutti i soggetti,
clinicamente sani, sono stati sottoposti ad esame ecocardiografico completo effettuato secondo standard con
paziente in decubito. Di ogni soggetto sono stati inoltre
registrati dei cine loop relativi alle proiezioni parasternale
sinistra apicale 4 camere e parasternale destra asse corto a
livello di valvola mitrale, muscoli papillari ed apice cardiaco. Su questi loop è stata, successivamente, effettuata la
determinazione delle curve di strain e strain rate tramite
analisi offline con software dedicato (Mylabdesk, Esaote).
Dopo standardizzazione della metodica ed adeguato training degli operatori, per ogni soggetto sono quindi stati
ottenuti e registrati in tabella i valori di picco sistolico di
velocità, strain, strain rate e relativi tempi dall’inizio della
sistole (“time to peak”); questa analisi è stata effettuata su
tutte le proiezioni disponibili per ogni soggetto.
Dal confronto con i dati disponibili in letteratura per la
medicina umana, sembra emergere che i soggetti di specie
canina abbiano valori di strain rate simili a quelli riscontrabili in pediatria, mentre i valori di strain sono sovrapponibili a quelli rilevati negli uomini adulti; di ulteriore interesse è che soggetti sani appartenenti a diverse razze sembrano possedere valori di picco tendenzialmente differenti.
In conclusione, i risultati preliminari di questo studio
sembrano fornire dati di potenziale interesse per la medicina veterinaria, confermando gli andamenti precedentemente osservati in medicina umana facendo uso di tecniche
simili. La determinazione dei valori di strain e strain rate in
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gruppi di animali sani appartenenti a diverse razze dovrebbe, nel tempo, contribuire all’utilizzo di questa metodica
fornendo dei termini di paragone utili al fine di analizzare
i comportamenti tipici di soggetti affetti da differenti cardiopatie. Di particolare interesse, a questo proposito,
potrebbe essere un contributo all’identificazione precoce di
patologie caratterizzate da fasi di latenza di riconoscimento particolarmente ostico (es. miocardiopatia dilatativa).
Il lavoro svolto, al di là dei risultati preliminari precedentemente descritti, ha permesso di ribadire l’assoluta
necessità, da parte dell’operatore, di effettuare un training
adeguato in relazione alla considerevole sensibilità della
tecnica ad errori operatore dipendenti.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Elena Dall’Aglio: Clinica Veterinaria Milano Sud
Via della Liberazione n° 26, Peschiera Borromeo (MI)
Tel. 0255305568, Fax 0255306288
email: [email protected]
Marco Di Marcello: Centro Veterinario Cellatica
Via Trebeschi n° 2, Cellatica (BS)
Tel. e Fax 030.2772760; email: [email protected]
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Un caso cronico e un acuto trattati con le alte
dinamizzazioni secondo Geukens
Mauro Dodesini
Med Vet, Bergamo
Introduzione
Obiettivo del lavoro è dimostrare la possibilità di somministrazione al paziente acuto e cronico di Rimedi Omeopatici ad alte o altissime potenze ripetute a distanza molto ravvicinata, anche di pochi minuti, con un completo ristabilimento delle condizioni di salute del paziente in tempi brevi
rispetto alla gravità della patologia.
Per spiegare a fondo questa metodologia con i dovuti riferimenti all’Organon proietterò parte della relazione del
Medico italiano Dott. Roberto Petrucci Presidente del Centro di Omeopatia di Milano, referente per l’Italia del Medico belga Dott. Alfon Geukens promotore di questa metodologia, al Congresso della Liga Homeopatica mondiale nel
2005.
Caso n°1: Paralisi flaccida degli arti anteriori.
Paziente: Poldo è un cane meticcio del peso di Kg 16, di
11 anni e 10 mesi di età.
Anamnesi
Domenica 30\09\2007 ore 19,00
Dopo una giornata normale non riesce a rialzarsi.
Se sollevato e poi rimesso a terra il polso sinistro cede
senza riuscire a sollevarlo.
Lunedì 01 Ottobre 2007
Paralisi flaccida di entrambi gli arti anteriori: non riesce
più ad alzarsi.
Opinione del Collega: probabili postumi di Ictus Cerebrale.
Terapia antinfiammatoria: nessun risultato.
Lunedì O8 Ottobre 2007
Mi viene portato per la prima volta in Ambulatorio Poldo
che presenta la seguente sintomatologia:
dolore al tocco della regione cervicale, riflesso pupillare
ritardato alla luce diretta, appetito e sete nella norma, minzione volontaria, defecazione volontaria.
Importante difficoltà di deambulazione: quando tenta di
rialzarsi barcolla e cade, mentre quando viene messo in posizione quadrupedale non viene sostenuto dall’arto anteriore
sinistro mentre piange quando gli tocco la spalla destra. Da
sdraiato non mostra assenze e sofferenza: riesce a muovere
la coda per esprimere la sua contentezza quando si avvicina
il proprietario.
Pungo con un ago sui due arti anteriori ma Poldo non
retrae né emette un grido di dolore.
Esame Radiografico:
Gravi segni di sofferenza discale su tutto il rachide cervicale e su quello toracico.
Calcificazione del disco intervertebrale C4-C5.
Importante artrosi di entrambe le teste femorali.
Repertorizzo il caso usando i Repertori Radar 9.1 e Complete Zandvort
e diagnostico un Rimedio che copra tutta la sintomatologia.
Terapia
Ore 11,00 somministro il Rimedio alla 10.000 K.
Dopo quaranta secondi il cane che prima era tranquillissimo comincia a
lamentarsi come se ricominciasse ad avvertire il dolore.
Trascorsi cinque minuti dall’assunzione del Rimedio il
cane guaisce quando viene preso in braccio per essere portato all’auto.
A domicilio:
Il Rimedio Omeopatico determinato dalla Repertorizzazione alla potenza 10.000 K: mezzo contagocce ogni ora
fino alle ore 21,00: n°11 dosi nella prima giornata.
Martedì 09 Ottobre 2007
Ore 11 relazione telefonica:
Il cane viene sollevato e poi appoggiato a terra sulle quattro zampe ma non si sostiene ancora. Novità: recupero della
sensibilità dolorifica: manifesta più spesso dolore.
Confermata la paralisi flaccida.
Durante la notte la P. lo sente lamentarsi e girarsi da solo
nella cuccia:
non succedeva dall’esordio del problema. Sono trascorse
36 ore dall’esordio della terapia.
Terapia consigliata:
Il Rimedio alla 10.000 K: tre somministrazioni al giorno
fino alla giornata successiva.
Mercoledì 10 ottobre 2007
Relazione telefonica: il proprietario è meravigliato:
Stamattina richiamato dalla P. si rialza da solo e riprende
a camminare recandosi alla ciotola per bere. Poi si pulisce da
solo leccandosi le zampe anteriori.
Sono trascorse meno di 48 ore dall’assunzione della prima dose del Rimedio.
Visita in Ambulatorio in tarda mattinata:
Sintomatologia: deficit motorio da lesione dei nervi radiale e ulnare:
Iperflessione dell’arto anteriore destro mentre cammina
con tendenza a cedere
se aumenta la velocità di deambulazione quando si agita
nel piazzale antistante l’Ambulatorio.
Sdraiato sul tavolo delle visite presenta ancora: sensorio
vigile e attento, irrequietezza degli arti posteriori, rallentata
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chiusura dell’arco diastaltico: pungo le zampe anteriori e i
polpastrelli con un ago e lui retrae la zampa dopo parecchi
secondi, pupille dilatate e abbastanza insensibili al fascio di
luce diretto.
TERAPIA
Rimedio 10.000 K: tre somministrazioni al giorno fino a
Venerdì 12 Ottobre quando ci risentiremo telefonicamente.
Lunedì 15 Ottobre 2007
Giovedì 11 e Venerdì 12\10\97 era molto arzillo: voleva
andare a fare una passeggiata.
Sabato 13 e Domenica 14: meno vivace e manifesta dolori al collo.
Tenta di scrollarsi ma non riesce. Debolezza nell’appoggio dell’arto anteriore sinistro.
Sono giornate di tempo freddo umido. Non vuole più stare a dormire sul divano perché probabilmente ha paura di
cadere. Si sdraia volentieri sul pavimento.
I proprietari gli stanno preparando un cuscino.
Non è più rannicchiato quando dorme (come quando stava bene), ma assume una posizione distesa (come quando
stava male).
Visita Clinica
Manifesta dolore sollevandogli la testa, ma dopo la punzione con un ago ancora insensibilità agli arti anteriori.
I proprietari hanno proseguito di loro iniziativa fino ad
oggi con la somministrazione di Rimedio alla 10.000 K tre
somministrazioni al giorno nonostante gli avessi detto di
richiamarmi Venerdì quando pensavo di ridurla ad una volta
al giorno.
Rimedio alla 10.000 K: due somministrazioni al giorno
per 3 giorni.
Lunedì 22 Ottobre 2007: dopo 14 giorni di terapia il cane
salta corre e gioca senza problemi.
Insensibilità alla punzione con un ago degli arti anteriori:
a) arto anteriore destro: recupero completo.
b) arto anteriore sinistro: chiusura dell’arco diastaltico
ancora ritardata.
TERAPIA
Venerdì 26 e Sabato 27\10\07: dopo avere dinamizzato il
flacone:
mezzo contagocce di Rimedio alla 50.000 K la mattina.
Lunedì 29 Ottobre 2007
Ha recuperato completamente la voglia di vivere: va molto volentieri a fare passeggiate in montagna. Durante la passeggiata gioca e corre con i Proprietari.
L’autonomia fisica senza alcun segno di affaticamento è di
almeno 30 minuti,
poi al rientro quando camminano sull’asfalto trascina leggermente la mano sinistra.
Salta il muretto fuori dall’Ambulatorio senza problemi.
L’appetito è robusto.
Beve e urina parecchio.
Durante la visita verifico: l’arto anteriore destro: chiusura
normale dell’arco diastaltico, mentre l’arto anteriore sinistro: ipoanalgesia alla punzione.
Lunedì 05 Novembre 2007
Guarigione assoluta e recupero completo anche della sensibilità dolorifica all’arto anteriore sinistro. Ieri ha percorso
una camminata di 90 minuti senza fermarsi mai, fosse stato
156
per lui sarebbe andato ancora a spasso. Oggi è un tantino
stanco ma è un piacere verificare quest’esuberanza in un
soggetto di dodici anni. La terapia viene sospesa perché non
è più necessaria.
07 Aprile 2008
Sono trascorsi 5 mesi e Poldo ha 12 anni e 4 mesi di età.
Il recupero è definitivamente completo: il suo stato di
salute è ottimo: non ha mai più sofferto di deficit neurologici come di nessun altro problema.
Sono andati in vacanza in montagna e non ha mai avuto
problemi anche percorrendo lunghe passeggiate nella neve,
in un campo vicino a casa rincorre i conigli selvatici.
Oggi è “ disturbato “ da una cagnolina in calore del palazzo in cui abita.
Non ha mai più assunto alcuna terapia. Fuori dall’Ambulatorio: corre e scavalca addirittura un muretto. Tutti i giorni
escono a passeggio per almeno un’ora, ma se fosse per lui
non rientrerebbe mai.
Conclusioni
Possiamo considerare questo un caso acuto anche se ha
intrapreso la terapia a distanza di una settimana dal suo esordio. Il risultato è confortante e possiamo trarre un bilancio
delle frequenza delle assunzioni del Rimedio alla 10.000 K:
n°11 dosi nelle prime dodici ore, tre dosi al giorno per la
settimana successiva giorni e due dosi al giorno per i sette
giorni seguenti. Il completo raggiungimento dello stato di
salute del soggetto viene definitivamente raggiunto con due
dosi alla 50.000 K.
Un’alta potenza è così somministrabile molto frequentemente ad un soggetto anche di quasi 12 anni di età senza
compromettergli la salute e anzi facendolo guarire in tempi
assolutamente brevi.
I Filmati che verranno proiettati durante la relazione
dimostreranno la assoluta veridicità di quanto affermi.
Caso n°2
Mio è un gatto affetto da atopia, dermatite eosinofilica,
importante allergia ad acari, pulci e betulla diagnostica da
Colleghi esperti in Dermatologia. Dopo un paio d’anni di
terapia convenzionale con la somministrazione di antibiotici, antistaminici, cortisonici, farmaci antiparassitari locali e
per via generale, diete ipoallergeniche, viene intrapresa dopo
attenta Repertorizzazione una terapia omeopatica inizialmente alla 1.000 K con frequenza di tre somministrazioni al
giorno.
Inizialmente interverrò aumentando la frequenza di somministrazione quando si aggrava la sintomatologia, e poi
gradualmente aumenterò la potenza del Rimedio: 3.000 K,
6.000 K, 10.000 K, 20.000 K, 30.000 K, 50.000 K, 80.000 K
e infine 100.000 K che con più somministrazioni al giorno
risolverà definitivamente il caso.
Il Follow-up è di quattro anni e la serie delle fotografie
che verranno proiettate ne documenteranno a fondo l’evoluzione.
Indirizzo per la corrispondenza:
Mauro Dodesini
Via Bellini n°51, Bergamo
Telefono 035-250008.
E-mail: [email protected]
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157
Metodiche riabilitative per una gestione ottimale
dell’arto anteriore
Ludovica Dragone
Med Vet, Reggio Emilia
Quando ideiamo un programma riabilitativo dobbiamo
tenere presente una serie di fattori.
Una terapia di successo non può infatti prescindere da una
accurata visita clinica che renda possibile identificare il problema e porsi obbiettivi realisticamente raggiungibili. Dopo
una visita per una valutazione iniziale dobbiamo avere ben
chiara la diagnosi, conoscere le varie tecniche chirurgiche
utilizzate e capire i tempi di guarigione dei tessuti, in modo
da comprendere i limiti funzionali delle strutture coinvolte e
poter operare correttamente. Il tipo di trattamento scelto
varierà infatti non solo per le diverse patologie, ma anche per
ogni stadio di riparazione tissutale davanti a cui ci troviamo.
Solo così ci potremo porre degli obbiettivi appropriati.
Grazie ad una buona gestione dell’arto anteriore saremo
quindi in grado di raggiungere migliori risultati in tempi più
brevi, sia che si tratti di una gestione postoperatoria o
postraumatica, sia che si tratti di una gestione conservativa,
per esempio in presenza di osteoartrosi.
Vale la pena sottolineare, anche in questa sede, che qualunque metodica riabilitativa, se applicata in maniera non
corretta, può peggiorare la situazione. Alla luce di questo è
quindi chiaro come una buona diagnosi ed una buona padronanza delle più comuni metodiche fisioterapiche siano indispensabili per poter operare correttamente.
Gli obiettivi che ci si pone sono di proteggere le articolazioni da ulteriori traumi, ridurre la formazione di edema, alleviare il dolore e ridurre l’infiammazione, mantenere o ripristinare una buona mobilità articolare ed un buon tono muscolare, stimolare le vie nervose, evitare il disuso dell’arto.
Nell’immediato postoperatorio, con opportune metodiche, possiamo agire sul dolore, contribuendo a ridurre edema ed infiammazione. Non bisogna per forza ricorrere a
metodiche complesse, basta un semplice impacco ghiacciato applicato correttamente per avere risultati utili. La crioterapia la potremo applicare già durante la fase di risveglio
dall’anestesia. Gli impacchi utilizzati dovranno avere una
forma facilmente adattabile al distretto anatomico trattato e
non dovranno essere applicati per tempi superiori ai 15
minuti. Durante l’applicazione è bene controllare frequentemente la cute per evitare reazioni da contatto. Se si decide di
eseguire anche alcuni esercizi la crioterapia andrà applicata
solo alla fine della sessione di lavoro.
Nell’immediato postoperatorio, oltre alla crioterapia, sarà
utile eseguire esercizi di mobilizzazione articolare, massaggi ed elettrostimolazione.
I massaggi associati a corretti movimenti di mobilizzazione articolare, consentendoci di limitare la formazione di ede-
ma, effusioni articolari e aderenze tissutali, ci permetteranno
di avere un corretto range of motion articolare già entro
pochi giorni dalla chirurgia e, migliorando il movimento
articolare, stimoleremo un corretto utilizzo dell’arto.
L’elettrostimolazione può essere utilizzata per mantenere
un buon tono muscolare e per contrastare edema e dolore.
Attraverso la scelta di opportuni programmi, modulando frequenze, intensità ed ampiezza d’onda, saremo in grado di
ottenere i risultati desiderati.
Anche l’applicazione di impacchi caldi può risultare utile
nella gestione postoperatoria sia dei pazienti ortopedici, sia
dei pazienti neurologici, provocando una maggior estensibilità dei tessuti, un generale rilassamento, un aumento del circolo sanguigno, una diminuzione del dolore, una riduzione
degli spasmi muscolari e della rigidità articolare. Basterà
aspettare che sia passata la fase acuta del processo infiammatorio e poi potremo scaldare la zona da trattare con
impacchi applicati localmente per 15 – 20 minuti. Gli
impacchi caldi hanno un potere di penetrazione limitato; a
seconda della quantità di tessuto adiposo presente il calore
potrà penetrare per 1 – 3 cm di profondità. Se si desidera
raggiungere profondità maggiori si dovrà far ricorso a metodiche strumentali, quali gli ultrasuoni o la diatermia, metodiche molto utili anche per contrastare dolore ed infiammazione e stimolare la cicatrizzazione.
Non appena l’infiammazione ed il dolore cominciano a
risolversi si potranno inserire nel nostro protocollo riabilitativo alcuni esercizi. Gli esercizi terapeutici sono una delle
tecniche riabilitative più utili e più usate a nostra disposizione, il cui scopo è quello di migliorare ed accelerare il recupero funzionale della parte lesa. Se scelti ed applicati adeguatamente infatti, ci consentono di migliorare l’attivo range of motion dell’articolazione e di ridurne il dolore durante il movimento, ci permettono di stimolare l’uso di un arto,
ridurre la zoppia, migliorare il tono e la massa muscolare,
migliorare la sensibilità e la coordinazione dei movimenti,
scongiurare il rischio di ulteriori traumatismi, prevenire o
ridurre la rigidità articolare, l’atrofia e le contratture muscolari e far si che la normale attività quotidiana richiesta sia
ripresa il prima possibile.
Durante l’esercizio attivo o passivo le vie nervose vengono stimolate ripetutamente, ciò provoca un graduale aumento della velocità di trasmissione degli impulsi nervosi, grazie
ad una diminuzione della resistenza sinaptica. Di conseguenza gli esercizi attivi e passivi effettuati su arti paretici
aumentano la conduzione degli impulsi nervosi e la forza
muscolare.
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È importante fare attenzione a non esercitare più del dovuto l’animale, poiché un lavoro eccessivo potrebbe provocare
una distruzione delle proteine muscolari e ritardare il ritorno
dei muscoli alla normale attività.
L’esercizio terapeutico può essere effettuato in svariate
forme. Possiamo far compiere noi alla parte interessata un
movimento passivo, qualora non sia possibile far eseguire
movimenti in maniera attiva, e passare poi gradualmente,
quando possibile, ad un esercizio attivo, dove sono i muscoli stessi a far compiere ai segmenti ossei dell’articolazione la
propria escursione; infine si passa ad attività capaci di determinare una lieve sollecitazione della resistenza muscolare.
L’esercizio passivo è simile alla manipolazione: prevede
il movimento di un’articolazione per tutta la sua possibilità
di escursione. L’escursione passiva si definisce anche con la
sigla PROM, Passive Range Of Motion. I movimenti passivi sono eseguiti interamente grazie all’applicazione di forze
esterne, senza che vi sia contrazione muscolare volontaria.
L’esercizio passivo è indicato sia nei soggetti con deficit
neurologici più o meno gravi, sia nei pazienti ortopedici, in
quanto consente di ridurre le contratture muscolari ed articolari e limitare l’atrofia da disuso, ridurre la rigidità articolare, mantenere la mobilità tra i vari tessuti diminuendo la
formazione di aderenze, favorire la circolazione ematica e
linfatica, migliorare il trofismo tissutale e aumentare la produzione endogena di endorfine. Gli esercizi di PROM purtroppo non ci aiuteranno però molto nel contrastare l’atrofia muscolare e nell’aumentare la forza muscolare, ma prevenendo le alterazioni secondarie all’immobilizzazione
otterremo una guarigione migliore, più rapida e con meno
complicazioni.
Se applichiamo pressioni che vanno oltre la fine del ROM
(ma senza esagerare o provocheremo uno stress eccessivo
alle strutture interessate), iniziamo a fare dello stretching. Lo
stretching ed il PROM si possono eseguire congiuntamente,
aiutandoci non solo a mantenere, ma anche a migliorare il
movimento di escursione articolare.
L’ideale è iniziare il trattamento di PROM il giorno stesso dell’intervento (magari seguito poi dall’applicazione di
impacchi freddi), o comunque il prima possibile, in relazione al tipo di patologia in atto.
Il “passo intermedio” tra gli esercizi passivi e gli esercizi
attivi prevede l’esecuzione di esercizi attivi assistiti. I movimenti di ROM attivo assistito si possono eseguire mentre il
cane cammina, per terra o su un treadmill, o mentre nuota, e
prevedono che aiutiamo il cane nel compiere i movimenti
del passo che altrimenti da solo non sarebbe in grado di
compiere correttamente.
Negli animali l’esercizio attivo controllato, volontario, è
meno facile da ottenere che nell’uomo. L’escursione attiva
(Active Range Of Motion, AROM) prevede essenzialmente
che siano i muscoli a determinare il movimento dell’artico-
158
lazione per tutta la sua escursione. Si può iniziare con tali
esercizi quando l’animale è in grado di deambulare e di
muovere l’arto traumatizzato.
L’esercizio attivo controllato (esercizio aerobico a basso
impatto) ha lo scopo di stimolare il metabolismo cartilagineo
favorendo la diffusione dei metaboliti attraverso la cartilagine, migliorare il range of motion articolare, recuperare il
tono, la forza e la resistenza muscolare, ridurre il peso corporeo, aumentare la produzione di oppioidi endogeni (con
conseguente riduzione del dolore), stimolare le reazioni sensoriali, favorire l’integrità della struttura ossea e favorire il
circolo ematico e linfatico.
In determinate patologie, come ad esempio l’osteoartrite,
un esercizio moderato consente di prevenire la progressione
della malattia in quanto, aumentando il tono e la forza
muscolari, le articolazioni sono maggiormente protette da
sollecitazioni biomeccaniche anomale e risultano più stabili.
I benefici di un esercizio terapeutico risiedono nel fatto
che con l’attività fisica, come in parte già accennato, si contribuisce a ridurre il peso corporeo (l’obesità è un fattore predisponente allo sviluppo di determinate patologie), si stimola un adeguato range of motion, si riduce il dolore articolare
attraverso l’uso di esercizi a basso impatto per rinvigorire i
muscoli e si proteggono i muscoli stessi che in seguito al disuso perdono la capacità di allungarsi, si indeboliscono e si
atrofizzano.
Gli esercizi attivi per gli arti anteriori, a seconda delle
indicazioni per ciascun paziente, prevedono svariate attività
quali: stare in piedi, esercizi statici (seduto – in piedi), camminare, trottare, fare le scale, camminare su un treadmill,
movimenti a carriola, correre, riportare degli oggetti o dei
pesi lanciati, percorsi ad ostacoli posti a diverse altezze, utilizzo di tavolette propriocettive e physioroll.
Il nuoto o il camminare in acqua (underwater treadmill)
possono essere considerati forme particolari di esercizio
attivo.
Con il progredire del nostro programma di riabilitazione,
tutto ciò sarà più facilmente tollerato e si potrà aumentare la
quantità e la durata degli esercizi.
Il programma di esercizio ideale è infatti quello che procura benefici senza provocare disagio all’animale inoltre,
idealmente, un programma terapeutico dovrebbe essere frazionato nell’arco della giornata. La durata, l’intensità e la
frequenza delle sessioni di esercizio attivo controllato devono essere attentamente modulate in base alle condizioni del
paziente ed in relazione alla disponibilità del proprietario.
Indirizzo per la corrispondenza:
Ludovica Dragone
Med Vet, Reggio Emilia
Amb. Vet. Dog Fitness, Via Adua 24/a, Reggio Emilia
Tel 0522 924310 - [email protected]
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La consulenza pre - adozione del cucciolo
e l’arrivo in famiglia
Franco Fassola
Med Vet Comportamentalista, Asti
PERCHÉ UNA CONSULENZA
PRE-ADOZIONE?
Non esiste il cane perfetto, cioè che soddisfi tutte le esigenze del futuro proprietario.
La scelta di un cucciolo deve essere la sintesi tra i desideri, le aspettative, le motivazioni del proprietario, il contesto
ambientale e relazionale dove sarà inserito, lo spazio fisico e
emotivo che occuperà nella vita del suo padrone, il gusto
estetico, ecc.
Tutti questi aspetti devono essere valutati dal proprietario
coadiuvato da un Medico Veterinario comportamentalista,
per questo è importante la consulenza pre-adozione. Vediamo, nello specifico, quali sono i punti da prendere in considerazione prima dell’adozione del cane.
•
•
•
•
•
famiglia di anziani (valutare se escono frequentemente, se
sono sedentari, se hanno delle menomazioni fisiche).
Tipo di vita del proprietario: vedi punto predente.
Disponibilità di tutti i membri della famiglia a dedicarsi
al cane: questo è un elemento importante, perché più sono
le persone che si occupano del cane, maggiore sarà piano
esperienziale.
Possibilità finanziarie: il cane costa, non solo per l’alimentazione, ma anche per l’educazione.
Il tipo di relazione fisica/affettiva che si ricerca: ci sono
proprietari delicati, altri che voglio sempre lottare e competere con il cane (avere questa informazione può essere
utile per consigliare una razza invece di un’altra).
Considerazione la possibilità che possa essere adottato,
in luogo del cane un soggetto di un’altra specie (gatto,
coniglio,…..).
La motivazione
La scelta: taglia - razza - sesso
Le motivazioni che sono alla base della scelta possono
essere primarie o secondarie:
• Motivazioni primarie: 1) il cane è desiderato e scelto da
tutta la famiglia; 2) il cane è scelto per volontà di un solo
membro della famiglia; 3) il cane deve svolgere un lavoro; 4) non c’è una motivazione chiaramente espressa.
• Motivazioni secondarie: 1) il cane deve fare compagnia a
un altro già esistente, attenzione se il cane presente è
anziano, l’introduzione di un cucciolo potrebbe essere
vantaggiosa, ma anche motivo di stress per lui; 2) sostituire un animale deceduto, al riguardo c’è un discreta letteratura che valuta i pro e i contro; 3) adozione forzata,
perché quel cane è destinato al canile, o peggio all’eutanasia, oppure perché arriva come regalo.
I problemi pratici
La vita con un cane comporta molti problemi pratici, che
di primo acchito non sono sempre presi in considerazione:
• Il luogo di vita: vivere in appartamento è diverso dall’avere a disposizione una casa con giardino, se poi si pensa
di confinare il cane in un recinto insorgono altri problemi
gestionali - è possibile che il soggetto debba abituarsi a
più abitazioni.
• La composizione della famiglia: presenza solo adulti adulti, bambini, adolescenti e giovani (questo cambia il
contesto e anche le abitudini delle persone e del cane) -
• La taglia: un luogo comune recita che i cani di piccola
taglia hanno bisogno di meno spazio e di meno attività
fisica rispetto a quelli di grossa taglia: è sbagliato. Come,
non corrisponde al vero che i cani di taglia piccola non
siano “veri” cani. Purtroppo, i cani piccoli vengono spesso sottratti al confronto con gli altri cani per paura che
possano essere aggrediti, di conseguenza possono presentare deficit di socializzazione.
Il cane di taglia grande può essere meno attivo e meno
reattivo, richiede un proprietario che abbia forza per controllarlo all’esterno e uno spazio adeguato, inoltre i costi di
alimentazione, le spese veterinarie, ecc.. Per contro il rispetto sociale che si ha con un cane di grossa taglia è difficilmente ottenibile con uno piccolo.
• La scelta della razza non deve solo basarsi sull’aspetto
fisico, ma anche sulle sue caratteristiche attitudinali per
stabilire se è adatta in quel contesto e a quel gruppo
famigliare.
• Il sesso: 1) vantaggi del maschio: è più appariscente, con
più pelo e una testa più grande - in teoria può essere usato come riproduttore (ci riferiamo a cani di razza); svantaggi: è più indipendente, meno affettuoso - fa le marcature sessuali e sociali, le uscite devono essere più lunghe
rispetto a quelle delle femmine - può fuggire quando ci
sono le femmine in calore - può essere più aggressivo e
generare maggiori problemi gerarchici con il proprietario
- può non andare d’accordo con i conspecifici;
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2) vantaggi della femmina: è più affettuosa - più casalinga - può riprodursi (anche se non è perfetta e non ha il pedigree) - le passeggiate possono anche essere più brevi, perché
fa tutta la pipì in una sola volta; svantaggi: è più piccola e
meno appariscente - ha il calore con perdite ematiche - può
restare gravida.
NON CI SONO DIFFERENZE PER QUANTO
RIGUARDA LA CAPACITÀ DI APPRENDERE.
Tre punti importanti
• L’allevatore: è lui che decide gli accoppiamenti, è il primo essere umano che ha contatto con il cane, che lo cura,
che lo accudisce, che lo accompagna nelle prime esperienze.
Offriamo la nostra disponibilità ad andare insieme al proprietario per aiutarlo nella valutazione.
• La madre del cucciolo: è il primo cane con cui il cucciolo ha a che fare, gli insegna molte cose; per questo è
importante vederla, valutare il suo comportamento con
l’uomo, con gli altri cani e con i cuccioli.
• Il cucciolo in sé: consigliare al proprietario di ossee il
cucciolo, non come un bel peluche, ma come un essere
vivente – suggerire al proprietario di fare più visite al cucciolo prima di acquistarlo.
Dove cercare il cucciolo, i pro e i contro
• Negozio di animali: 1) è necessario procedere a una scelta oculata del negozio; 2) i cuccioli possono essere stati
sballottati; 3) in molti casi i cuccioli sono tenuti sempre in
gabbia; 4) le manipolazioni, da parte del personale, sono
distratte; 5) spesso i cuccioli arrivano da un allevamento
estero; stress da trasporto; 6) sono staccati dalla madre
molto presto (a 30 - 40 gg); 7) è impossibile vedere i genitori e i fratelli.
• Allevamento generalista: 1) spesso sono gestiti da persone che si improvvisano o che vendono cuccioli alla moda
senza guardare al loro benessere; 2) sono presenti più
razze, anche molto diverse - questo può essere un vantaggio o uno svantaggio, dipende dalla gestione; 3) non ci
sono quasi mai i maschi riproduttori; 4) molti cuccioli
sono di età diversa; 5) si fa uso massiccio della pubblicità per aumentare le vendite; 6) sono in grado di trovare
quasi sempre i cuccioli richiesti, ma senza badare alla
loro provenienza.
• Allevamento specializzato su una sola razza: 1) solitamente sono allevamenti a gestione famigliare; 2) generalmente gli allevatori portano in esposizione i loro soggetti;
è più facile conoscere le caratteristiche dei riproduttori; 3)
il proprietario, solitamente, conosce bene le attitudini di
razza, perché appassionato; 4) in genere c’è un’attenta
gestione sanitaria dei soggetti; 5) spesso sono visibili
entrambi i genitori.
• Cucciolate famigliari: 1) in genere c’è un’attenta gestione
sanitaria dei soggetti; 2) sviluppo comportamentale dei
cuccioli generalmente corretto; 3) attenzione anche alla
documentazione dei cuccioli; 4) sempre visibile la madre;
160
5) la conduzione dell’allevamento varia da caso a caso,
dipende dal proprietario del cane.
• Cucciolate di amici: 1) ottima conoscenza del comportamento e delle condizioni fisiche di almeno un genitore; 2)
in genere c’è un’attenta gestione sanitaria dei soggetti; 3)
sviluppo comportamentale dei cuccioli generalmente corretto; 4) attenzione anche alla documentazione dei cuccioli; 5) è possibile una difficoltà nella scelta per una sorta di forzatura da parte del proprietario; 6) possibile imbarazzo nel rifiutare il cucciolo se non risponde alle caratteristiche richieste.
• Canili pubblici o privati: l’adozione di un cane abbandonato in canile è una incognita perché non è possibile conoscere i genitori, la storia pregressa del cucciolo, che se
resta tanto in canile ha poche interazioni sociali ambientali, lo sviluppo cognitivo può essere deficitario.
Cosa considerare nel luogo di adozione
• Valutazione dell’ambiente: 1) il canile deve avere le dimensioni proporzionate al numero di cani ospitati e deve essere
ordinato e pulito; 2) la valutazione dell’ambiente circostante è importante per rilevare la presenza di rumori, persone,
auto, altri animali; 3) considerare la posizione del canile
rispetto alla casa patronale per stabilire il tipo di contatto e
la relazione tra cani e proprietari; chiedere se i cuccioli hanno anche accesso alla casa; 4) quante e come sono le persone che si occupano dei cani, osservare come interagiscono con loro e quale relazione hanno instaurato; 5) abitudine dei cuccioli alle manipolazioni dell’allevatore; 6) arricchimento ambientale del luogo dove soggiornano i cuccioli (fondo, possibilità di dislivelli, presenza di coperte, di
giornali per sporcare, di giochi, di specchi, ecc.); 7) temperatura dell’ambiente; 8) umidità dell’ambiente.
• Valutazione della madre: 1) presenza della madre nella cucciolata: costante - saltuaria - occasionale; 2) comportamento della madre verso gli estranei: madre che non socializza
ne con i cani, ne con i soggetti di altre specie - madre fobica o ansiosa, - madre iperattiva o troppo tollerante, sono
comportamenti che possono essere trasmessi ai cuccioli; 3)
osservare come la mamma gestisce i cuccioli.
• Valutazione del padre: 1) se si tratta di un cane da lavoro,
informarsi sull’attività svolta e sui risultati ottenuti nel
caso abbia partecipato a gare; 2) vedere se ha possibilità
di avvicinarsi ai cuccioli e alla madre; 3) considerare
come si comporta con gli estranei.
• Valutazione sanitaria: suggerire al proprietario del cucciolo di informarsi dello stato sanitario dei genitori (vaccinazioni regolari, prevenzione della filaria, trattamento per
parassiti interni ed esterni, visite veterinarie periodiche....)
dei controlli eseguiti sui cuccioli, e dell’avvenuta iscrizione all’Anagrafe canina.
Quando andare a vedere i cuccioli
• Quando tutti i componenti della famiglia hanno le idee
chiare sull’adozione e sulla gestione di un cane, sulla razza da scegliere e sul sesso.
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• Quando si ha tempo.
• Andare più volte per vedere i cagnolini in età diversa.
• Far visita all’allevamento in momenti in cui le condizioni
climatiche sono diverse.
Deve partecipare tutta la famiglia alla visita.
161
VALUTAZIONE DEL TEMPO DA DEDICARE AL
CUCCIOLO:
1. qualcuno della famiglia sempre a casa;
2. il cucciolo resta da solo al mattino e al pomeriggio / solamente al mattino / solamente al pomeriggio;
3. organizzarsi per abituarlo, a restare solo, in modo progressivo, ricorrere all’aiuto di dog-sitter.
La scelta del cucciolo
Il proprietario, ora ha il bagaglio di informazioni necessarie per andare a scegliere il suo cucciolo, vediamo cosa deve
osservare:
• Che sia in buona salute.
• Che si offra al contatto con i visitatori, questo dimostra
che ha avuto una buona socializzazione.
• Che accetti di buon grado le manipolazioni e le costrizioni.
VALUTAZIONE DELLO SPAZIO DOVE PUÒ MUOVERSI IL CUCCIOLO:
1. giardino dove lo può restare libero, ma sotto il controllo
del proprietario;
2. uscite al guinzaglio per le vie della città, al parco, libero
nell’area cani - programmare almeno 4-5 uscite di 30
minuti al giorno;
3. uscite in campagna in un luogo sicuro;
4. uso di dog-sitter per uscite - valutare i costi.
ARRIVO IN FAMIGLIA DEL CUCCIOLO:
cosa prendere in considerazione
ARRIVO IN FAMIGLIA DEL CUCCIOLO:
cosa prendere in considerazione
In relazione allo schema riportato sopra valutiamo, per
ogni singolo punto, le varie opzioni.
Gestione del cibo:
1. scelta del luogo dove somministrare il pasto e rituale da
usare;
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2. numero dei pasti;
3. alimento casalingo/commerciale - secco/umido;
4. gestione del cucciolo che assiste al pasto dei proprietari.
Gestione dello spazio:
1. spazio interno:
a. disposizione delle cucce in casa e fuori casa;
b. luogo dove il cane dorme:
i. in casa:
1. camera dei proprietari nella sua cuccia;
2. camera dei proprietari, sul letto;
3. in una camera da solo;
4. non ha un posto preciso nella casa
ii. fuori casa:
1. box;
2. cuccia vicino alla casa;
3. non ha un posto preciso dove dormire;
2. spazio esterno:
a. cortile, suggerimenti per la collocazione della cuccia e
per l’educazione del cane con esercizi cognitivi;
b. educazione civica per le uscite in città (suggerimenti
sull’uso della pettorina e del guinzaglio, uso delle
palette per la rimozione delle deiezioni, uso dei mezzi
pubblici, ecc.).
Gestione della socializzazione:
a. consigli su come iniziare la socializzazione con le persone;
162
b. consigli su come iniziare la socializzazione con i cani
di piccola e grossa taglia;
c. consigli per mettere in contatto il cucciolo con altri
animali.
Abitazione a situazioni non comuni:
a. l’abituazione al trasporto in macchina, l’uso del D.A.P.
b. programmare di portare il cane in pulman, in treno,
cominciando con visite alla stazione per abituarlo al
rumore;
c. programmare uscite in ambienti diversi da quelli vicino a casa: mercati, uffici pubblici, luoghi dove ci sono
manifestazioni, ecc.
Ricordare ai proprietari la possibilità di frequentare con il
cane il Puppy party e la Classe per cucciolo, dove vengono
introdotti a tutte queste esperienze in modo graduale e sotto
il controllo di un Medico Veterinario Comportamentalista e
di un Educatore cinofilo.
Bibliografia disponibile su richiesta all’autore
Indirizzo per la corrispondenza:
Franco Fassola
Asti - C.so Torino 88 - Tel.: 340/2350989
E-mail: [email protected]
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Obesità, sua incidenza in Europa, impatto clinico
e strategie nutrizionali
Giuseppe Febbraio
Med Vet, Bari
L’obesità rappresenta oggi la patologia nutrizionale che
colpisce più frequentemente gli animali da compagnia che
vivono nei paesi industrializzati. Il tasso di incidenza dell’obesità nei cani presentati alla visita varia dal 24% al 44% a
seconda dell’autore, la sede dello studio epidemiologico e la
definizione dei criteri iniziali. Nel gatto, il tasso d’incidenza
dell’obesità, che era molto basso negli anni 70 supera ora il
20% a prescindere dalla sede dello studio epidemiologico.
L’abitudine sempre più frequente di considerare il gatto
come un animale di casa, la limitata attività fisica quotidiana dei gatti tenuti tra le mura domestiche e la maggiore disponibilità di cibi molto appetibili sono tutti fattori che possono aver contribuito alla crescita molto consistente dell’obesità tra i gatti. Stime più recenti, provenienti dal mondo
veterinario e da ricerche di mercato confermano il fatto che
la percentuale di cani e gatti in sovrappeso ha assunto
dimensioni rilevanti; tale percentuale diventa addirittura
preoccupante in alcune aree geografiche soprattutto del
Nord Europa dove le abitudini alimentari della popolazione
umana tendono a diete ipercaloriche, con conseguenti ripercussioni sulla salute sia degli animali domestici che dei loro
proprietari. I ricercatori hanno osservato che l’obesità è
associata alla presenza di cibo appetibile in eccesso e situazioni in cui non è richiesta un’attività fisica gravosa. Queste
condizioni stanno acquisendo una sempre maggiore incidenza nella popolazione umana globale ed è probabile che incidano anche sui cani e gatti da compagnia. Considerata la tendenza globale recente, è piuttosto probabile che l’obesità
negli animali da compagnia derivi da uno scarso controllo
dell’apporto alimentare in un ambiente caratterizzato dall’abbondanza di cibo e dalla carenza di movimento.
L’obesità è definita come l’accumulo eccessivo di grasso nelle zone di deposito adiposo dell’organismo. Un valore del peso corporeo pari o superiore al 20% in più rispetto al normale è generalmente considerato indice di obesità
e, nella specie umana, i problemi di salute cominciano a
aggravarsi quando il peso raggiunge il 15% in più rispetto
al peso ideale.
La causa fondamentale di tutti i casi di obesità è uno squilibrio tra l’apporto e il consumo energetico che provoca
un’eccedenza energetica persistente. L’energia in eccesso si
accumula principalmente sotto forma di lipidi, determinando un incremento ponderale e un’alterazione della composizione corporea.
Il problema dell’obesità sembra molto semplice in termini di bilancio energetico, ma esistono molte cause
responsabili dello squilibrio, primo dei quali la errata con-
vinzione da parte dei proprietari che somministrare molto
cibo ai propri animali sia la forma più efficace e diretta per
dimostrare loro affetto e che, viceversa, l’introduzione di
una dieta controllata sia vissuta dall’animale come una
incomprensibile cattiveria. A questo si aggiunge la relativa
incapacità dei veterinari di recepire i rischi correlati all’obesità animale e di comunicare ai proprietari in forma sufficientemente incisiva una corretta educazione alimentare e
le misure dietetiche correlate.
È opinione diffusa che gli animali obesi abbiano un aspetto meno sano e meno gradevole. Spesso l’obesità provoca la
diminuzione delle capacità di reazione del soggetto e dell’attività fisica che normalmente svolge, ma può addirittura
abbreviarne la durata della vita ed esporlo maggiormente al
rischio o essere la causa di disturbi di salute. È ormai assodato che il sovrappeso e l’alimentazione in eccesso negli animali sono coinvolti non solo nell’insorgenza di malattie
metaboliche (es., diabete mellito), ma anche nel peggioramento clinico di condizioni croniche (artrosi, malattie cardiovascolari) e anche nella patogenesi di malattie ortopediche dello sviluppo (displasia dell’anca, osteocondrosi). Ad
esempio la maggiore incidenza di rotture del legamento crociato nei cani obesi non è solo imputabile al carico ponderale abnorme che le articolazioni devono sopportare, ma anche
all’indebolimento della struttura stessa del legamento, composto in questi soggetti da fibrille di collagene di calibro
inferiore alla norma. Anche la valutazione clinica è complessivamente più difficile nel paziente obeso rispetto al
paziente in condizione corporea ideale. Le tecniche ostacolate dall’obesità includono la visita clinica, auscultazione
toracica, palpazione e aspirazione dei linfonodi periferici,
palpazione addominale, prelievo di sangue, cistocentesi e
diagnostica per immagini (soprattutto l’ecografia). Anche il
rischio anestetico è maggiore negli animali obesi e i problemi includono la stima della dose anestetica, l’inserimento
del catetere e il tempo operatorio.
Ricerche più recenti hanno suggerito un nuovo legame tra
obesità e molte malattie. Sembra che il tessuto adiposo, una
volta considerato fisiologicamente inerte, sia un attivo produttore di ormoni, come la Leptina, e numerose citochine. Si
ritiene che le adipo citochine ( fattore di necrosi tumorale
alfa, interleuchina 6,proteina C reattiva, ecc) abbiano un ruolo nella patogenesi di molti disordini associati all’obesità
nell’uomo, ed è probabile che esistano molti parallelismi
con i disordini degli animali da compagnia. Inoltre l’obesità
è associata con aumentato stress ossidativo, che può anche
contribuire alle patologie.
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Il concetto alla base del trattamento dell’obesità è semplice: il peso diminuisce quando la spesa energetica supera il
consumo giornaliero di calorie. Può essere tuttavia difficile
implementare programmi di successo per perdere peso nel
caso del cane o del gatto di casa. L’elemento fondamentale
consiste nel valutare dettagliatamente l’anamnesi alimentare
e lo stile di vita per identificare innanzi tutto ogni specifico
limite del proprietario e dell’animale che possa influenzare
l’implementazione del programma per la perdita del peso e,
in seguito, sviluppare soluzioni pratiche in grado di funzionare all’interno di tali limiti.
L’obiettivo primario è sempre quello di ridurre il consumo
giornaliero di calorie e aumentare il dispendio energetico
quotidiano.
Del tutto controindicato è limitare l’apporto calorico semplicemente limitando la quantità di cibo solitamente consumata. Questa scelta produce carenze nutrizionali ed è poco
probabile che abbia successo. L’uso di una dieta appropriata
per la perdita di peso è importante e vi sono diversi criteri da
considerare. Sebbene sia la restrizione calorica che induce la
perdita di peso, è importante evitare una eccessiva restrizione di nutrienti essenziali. Una dieta a bassa densità calorica
con un aumentato rapporto nutrienti / calorie rappresenta un
ottimo approccio. Altra considerazione non meno importante è quella di promuovere la perdita di massa grassa riducendo al minimo quella della massa magra, che può essere
influenzata dalla composizione della dieta.
La scelta della dieta deve tenere conto innanzitutto dell’obiettivo (il trattamento dell’obesità) e possibilmente della
velocità, per la perdita di peso programmata.
La restrizione dei grassi riduce ovviamente la densità
calorica della dieta e di conseguenza aiuta a assumere meno
calorie. Anche l’incorporazione della fibra è senza dubbio
uno dei mezzi principali per ridurre la densità energetica delle diete, garantendo nello stesso tempo un volume soddisfacente e un contenuto energetico ridotto. Nel cane, la restrizione energetica ottenuta somministrando una dieta ad alto
contenuto in fibra e basso contenuto in lipidi ha consentito
una maggiore riduzione del grasso corporeo e delle concentrazioni di colesterolo sierico.
La dieta deve avere un rapporto proteine /calorie appropriato, il cui valore energetico (determinato anche dal conte-
164
nuto in fibra) sarà il più basso possibile, permettendo allo
stesso tempo una razione e un volume di alimento accettabili per il proprietario e un effetto sufficientemente saziante
per l’animale.
La concentrazione proteica delle diete destinate al trattamento nutrizionale dell’obesità deve, per coprire i fabbisogni in aminoacidi essenziali o meno, essere superiore a quella delle razioni consigliate per il mantenimento. Considerato che l’apporto energetico è fortemente ridotto, occorre
aumentare in proporzione inversa la concentrazione proteica
per prevenire la riduzione dell’apporto proteico al di sotto
dei fabbisogni fisiologici. Le diete ad alto contenuto proteico rendono possibile aumentare la perdita della massa grassa, minimizzando quella della massa magra. Questa viene
ulteriormente tutelata da un aumentato rapporto Lisina (primo aminoacido limitante)/ calorie. La supplementazione di
una appropriata quantità di aminoacidi in rapporto con la
Lisina piuttosto che un semplice aumento della quantità totale delle proteine favorisce la sintesi proteica e la riduzione
della mobilitazione della massa muscolare.
Nelle diete a basso contenuto energetico possono essere
importanti anche alcuni specifici ingredienti, soprattutto
quelli che influenzano il metabolismo lipidico e, a parte questo, la composizione corporea. La L-carnitina favorisce
appunto la conversione dei grassi in energia, migliora la
ritenzione azotata e modifica la composizione corporea a
favore della massa magra. La scelta del grado di razionamento energetico deve essere adattata in funzione di numerosi criteri e, soprattutto, il grado di soprappeso, il sesso dell’animale e la durata programmata della dieta. I numerosi
studi clinici pubblicati indicano che mantenere una perdita
dell’1-2% alla settimana rispetto al peso iniziale, costituisce
un obiettivo ragionevole. Un punto di partenza è quindi quello di una restrizione calorica del 40% (20 -30% nel gatto), da
adattare poi al singolo individuo.
Dividere la razione giornaliera in 4 o più piccoli pasti
dovrebbe aumentare la termogenesi postprandiale. È anche
un buon metodo per ridurre la quantità di tempo in cui gli
animali hanno fame, limitando così l’iperattività all’ora di
pranzo. Rivalutare il paziente è importante per riadattare
l’apporto energetico se la perdita di peso è inferiore all’1%
o superiore al 2% alla settimana.
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165
Ridurre il rischio di resistenza nei confronti
degli antimicrobici al momento di trattare
le infezioni cutanee: il punto di vista del clinico
Alessandra Fondati
PhD, Dipl ECVD, Roma
Al momento di trattare le infezioni batteriche cutanee, gli
obiettivi del medico veterinario dovrebbero essere i seguenti:
i. Eliminare l’infezione batterica
a. Trattare con farmaci antimicrobici adeguati (topici e/o
sistemici)
b. Identificare (controllare/eliminare) la/e causa/e sottostante/i per evitare recidive
ii. Non favorire la selezione di batteri resistenti agli antibiotici
In dermatologia veterinaria il problema si pone principalmente nel cane, al momento di trattare le piodermiti, malattie cutanee frequenti in questa specie e spesso ricorrenti se
dovute a cause non facilmente controllabili (es. dermatite
atopica).
La terapia antimicrobica adeguata per trattare le infezioni
batteriche cutanee viene selezionata in base al quadro clinico-patologico (infezioni batteriche superficiali/profonde;
localizzate/generalizzate) e prevede l’uso di prodotti antibatterici topici (shampoo/soluzioni/creme/unguenti) e/o sistemici. Laddove sia possibile (es. sovracrescita batterica; piodermiti superficiali e profonde localizzate), per ridurre il
rischio di favorire la selezione di batteri resistenti agli antibiotici sistemici, dovrebbe essere privilegiato l’impiego di:
• soluzioni/shampoo contenenti prodotti antibatterici non
antibiotici (es. clorexidina 1-2%)
• creme/unguenti contenenti antibiotici
Tuttavia, per trattare le piodermiti nel cane, spesso è
necessario ricorrere ad una terapia antibiotica sistemica, che
nella maggior parte dei casi viene scelta empiricamente
basandosi sulla prevista sensibilità agli antibiotici degli stafilococchi coagulasi positivi, i batteri che più frequentemente causano infezioni cutanee nella specie canina. La terapia
antibiotica sistemica empirica viene impiegata soprattutto
per trattare le piodermiti superficiali (follicoliti) generalizzate. Nei testi di dermatologia veterinaria si suggerisce la somministrazione orale, per 3 settimane, di cefalosporine di prima generazione (cefalexina, cefadroxil), penicilline associate ad inibitori delle beta-lattamasi (amoxicillina-acido clavulanico) e/o sulfamidici potenziati. L’utilizzo dei fluorochinoloni dovrebbe rappresentare una seconda scelta ed essere
quindi limitato ai casi in cui venga indicato dai risultati dei
test di sensibilità. Sebbene ci sia variabilità nei dati riportati, la resistenza degli stafilococchi nei confronti degli antibiotici beta-lattamici e dei fluorochinoloni sembra in aumento, forse in parte come conseguenza dell’uso prolungato (da
oltre 10 anni) di questi antibiotici.
Se al momento di trattare una piodermite nel cane si
sospettano fenomeni di resistenza e/o presenza di batteri
diversi dagli stafilococchi come causa dell’infezione, prima
di iniziare la terapia antibiotica è necessario eseguire un test
di sensibilità (di solito un antibiogramma con tecnica KirbyBauer). La scelta mirata dell’antibiotico aumenta le possibilità di efficacia della terapia e riduce il rischio di favorire
fenomeni di resistenza. Conoscere la concentrazione minima
inibente (MIC) dell’antibiotico nei confronti del patogeno
isolato sarebbe d’aiuto ma nella pratica clinica la tecnica
Kirby-Bauer è la più comunemente impiegata.
Alcuni esempi pratici di casi in cui sarebbe consigliabile
eseguire un esame batteriologico ed un antibiogramma prima di instaurare la terapia antibiotica sistemica sono i
seguenti:
• se non si osserva una risposta adeguata ad una terapia
antibiotica sistemica corretta (per dose e durata)
• se la piodermite, superficiale e/o profonda, è ricorrente ed
è stata trattata con cicli ripetuti di antibiotici
• se si sospetta che la piodermite sia dovuta a batteri diversi dagli stafilococchi (es. bacilli)
• se il quadro clinico-patologico è suggestivo di piodermite
profonda ma non si osservano batteri all’esame citologico
L’esame batteriologico, che si suggerisce empiricamente
di eseguire previa sospensione della terapia antibiotica per
almeno una settimana, può essere effettuato a partire da:
• contenuto di pustole intatte (preferibilmente, laddove possibile)
• superficie di collaretti epidermici
• contenuto di papule-placche-noduli
• materiale che fuoriesce da tragitti fistolosi
• campioni bioptici (empiricamente viene suggerita la rimozione dell’epidermide)
Specialmente in caso di piodermiti profonde, è consigliabile comunque eseguire, assieme agli esami batteriologici,
anche esami istopatologici di biopsie cutanee.
Per quanto riguarda l’esame batteriologico e l’antibiogramma, al fine di ottenere informazioni utili, è necessario
eseguire i prelievi ed inviare i campioni al laboratorio in
modo corretto. I risultati ottenuti devono essere comunque
interpretati alla luce del quadro clinico-patologico e non è
infrequente, purtroppo, la mancanza di correlazione fra quadro clinico, cito-istologico e microbiologico.
Il laboratorio dovrebbe provvedere a:
• identificare la specie di stafilococco isolato, ivi compresi
gli stafilococchi coagulasi negativi, che possono causare
piodermite nel cane
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• includere nell’antibiogramma dischi contenenti oxacillina
(la resistenza in vitro nei confronti di questo antibiotico è
considerata indicativa della resistenza alla meticillina)
oltre a dischi contenenti quegli antibiotici comunemente
usati in dermatologia
• indicare il diametro di inibizione della crescita batterica,
ed i valori di riferimento standard per valutare resistenza/sensibilità, per ciascun antibiotico.
Nel caso in cui vengano isolati stafilococchi resistenti alla
meticillina esistono due tipi di conseguenze pratiche:
• rischi per la salute-vita del paziente. Dato che la meticillino-resistenza implica resistenza in vivo nei confronti di
tutti gli antibiotici beta-lattamici (penicilline e cefalosporine) e si accompagna spesso a resistenza nei confronti di
≥ 3 classi di antibiotici (multiresistenza), la terapia della
piodermite è estremamente difficile. È possibile che dall’antibiogramma non emergano antibiotici utili che possano essere somministrati per via orale, per lungo tempo, e
senza rischi per la salute del cane. In alcuni casi di piodermite canina causata da stafilococchi meticillino-resistenti multiresistenti è stata riportata l’efficacia dell’apramicina (un amminoglicoside registrato per l’uso nel suino) alla dose di 13 mg/Kg per via orale ogni 12 ore. Altri
antibiotici citati come potenzialmente utili per trattare
infezioni sostenute da stafilococchi meticillino-resistenti
nel cane includono la rifampicina (associata ad un altro
antibiotico, purché diverso dai fluorochinoloni) e la doxiciclina, quest’ultima alla dose di 10 mg/Kg per via orale
ogni 12 ore. È sconsigliabile, per non favorire la selezione di batteri resistenti, a meno che non si tratti di una scelta estrema, l’uso della vancomicina, uno degli antibiotici
impiegati per trattare le infezioni umane sostenute da
Staphylococcus aureus meticillino-resistente.
• potenziali rischi per gli umani in contatto col paziente, inclusi proprietari e veterinari. A questo proposito sarebbe consigliabile seguire alcune norme igieniche basiche, da spiegare
anche ai proprietari (consultare www.bsava.com e/o la referenza bibliografica 7).
In dermatologia, per ridurre il rischio di favorire la selezione di stafilococchi resistenti, sarebbe anche opportuno
ridurre il più possibile l’uso prolungato di antibiotici a
dosaggi subterapeutici, come avviene per la terapia di piodermiti “idiopatiche” o ricorrenti dovute a cause sottostanti
difficilmente controllabili. Pur tuttavia, in uno studio effettuato in cani con piodermite superficiale/profonda trattati
per un anno con cefalexina, due giorni/settimana, alla dose
di 15 mg/Kg per via orale ogni 12 ore, la buona risposta clinica ottenuta non suggeriva l’insorgenza di fenomeni di resistenza. Nonostante ciò, il numero ridotto di casi inclusi nello studio e la mancanza di dati microbiologici non permettono di considerare l’uso prolungato di dosaggi subterapeutici
di cefalexina scevro da rischi di resistenza e/o altri rischi.
Per riassumere, per ridurre il rischio di favorire la selezione di batteri resistenti, i medici veterinari per animali da
166
compagnia, vista l’assenza di linee guida nel nostro paese,
dovrebbero usare gli antibiotici con “buon senso”. Dovrebbero cercare quindi di prescrivere antibiotici:
• solo se è necessario, alla dose corretta e per un periodo
possibilmente breve (senza però interrompere la terapia
troppo precocemente)
• possibilmente a stretto spettro e scelti in base ai risultati di
test di sensibilità
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Indirizzo per la corrispondenza:
Alessandra Fondati
Centro Veterinario Prati
Viale delle Milizie 1/a, 00192 Roma
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
167
Gastropessi preventiva: a chi, quando, come.....
Luca Formaggini
Med Vet, Dormelletto (VA)
La gastropessi viene definita come fissazione permanente dello stomaco alla parete addominale destra tramite
induzione chirurgica di aderenze. Molteplici sono le tecniche descritte in letteratura. Preceduta dalle manovre di stabilizzazione, la gastropessi rappresenta il trattamento d’elezione per la gestione definitiva del paziente che ha manifestato il primo episodio acuto di dilatazione/torsione
gastrica (GDV). L’utilizzo della gastropessi come mezzo di
prevenzione in un paziente altrimenti sano ma potenzialmente a rischio di GDV, non è stato ancora valutato da studi controllati; tuttavia, considerando che i trattamenti
medici (anti-acidi, anti-meteorici, promotori della motilità
gastrica) e i tentativi di manipolare i fattori di rischio (dietetici e comportamentali) hanno fornito scarsi risultati e
che il tasso di mortalità in corso di GDV rimane ancorarelativamente alto (30-40%), la prevenzione chirurgica viene
sempre più frequentemente richiesta dai proprietari/allevatori di razze a rischio e consigliata dai Medici Veterinari
attenti a questa problematica..
Sono tre punti i punti fondamentali da considerare rispetto a questo argomento:
1. la selezione del paziente che potrebbe beneficiare della
chirurgia preventiva
2. la tecnica da utilizzare
3. l’aspetto etico dell’intervento stesso.
Selezione del paziente:
A CHI? E QUANDO?
Per rispondere a questa domanda è molto importante
essere al corrente e considerare attentamente l’epidemiologia e i fattori di rischio correlati all’insorgenza della GDV
nei cani di razze grande e gigante in modo da fornire ai loro
proprietari e agli allevatori un’adeguata informazione nel
rispetto della scientificità. In particolare, se si analizzano
attentamente i dati estrapolati dagli studi epidemiologici
condotti dal gruppo di ricerca della Purdue University,
risulta praticamente impossibile non porsi la domanda:
“Dobbiamo noi veterinari raccomandare la gastropessi
preventiva in quei soggetti a rischio per GDV così come
identificati dagli studi epidemiologici?” Allo stato attuale
della Letteratura mondiale in termini di prevenzione della
GDV, la risposta dell’autore a questa domanda è “senza
nessun dubbio si!” Altri pazienti che potrebbero beneficiare dell’intervento di gastropessi preventiva sono quelli
affetti da torsione cronica; questi pazienti sono presentati
con vomito cronico, perdita di peso, flatulenza e dilatazioni ricorrenti dopo i pasti. Diversi lavori inoltre, riportano
una correlazione tra splenectomia e GDV e tra IBD
(Inflammatory Bowel Disease) e GDV. Non è possibile
ancora dimostrare una relazione diretta causa-effetto, ma in
assenza di ulteriori dati, pazienti sottoposti a splenectomia
per torsione splenica e pazienti sintomatici per malattie
infiammatorie intestinali potrebbero anch’essi trarre vantaggio dalla gastropessi preventiva. Nei soggetti a rischio
“altrimenti sani” la gastropessi preventiva può essere eseguita in qualsiasi momento della loro vita, ad esempio
associata ad altri interventi preventivi (sterilizzazione nella
femmina). Per essere più precisi, considerando i periodi
della vita a maggior rischio di GDV, la gastropessi va effettuata più precocemente nei soggetti di taglia gigante
(rischio incrementale a partire da 1 anno di vita) rispetto ai
soggetti di taglia medio-grande in cui il rischio maggiore è
dai 7 anni in poi.
La tecnica da utilizzare: COME?
La gastropessi preventiva rappresenta un concetto nuovo
che deve essere posto in atto dai chirurghi senza alcuna esitazione; nella struttura dell’autore si sta raccomandando
fortemente questa procedura ai clienti proprietari di cani
che presentano diversi fattori di rischio e che hanno parenti che a loro volta hanno manifestato GDV. In questi casi
(soggetti sani) viene proposta la chirurgia mini-invasiva
(gastropessi video-assistita). I vantaggi sono ovvi e sono
rappresentati da sicurezza e minor morbilità, che si riflettono in un breve periodo di convalescenza post-operatorio,
minor incidenza di infezioni e minore dolore legato alla
breccia celiotomica. In alternativa a questa tecnica, o in
quei soggetti in cui altre malattie concomitanti (torsione
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splenica) sono oggetto di chirurgia, altre tecniche di gastropessi sono altrettanto valide e le preferenze personali del
chirurgo hanno maggior peso.
L’aspetto etico
Dal punto di vista etico si possono evidenziare argomenti
di discussione nel momento in cui si considerano questi
pazienti come riproduttori e come cani da esposizione. L’ereditabilità di alcune caratteristiche fisiche (torace profondo
e stretto) considerate come fattori di rischio per lo sviluppo
di GDV sono considerate colpevoli della trasmissione verticale della GDV cosiddetta “familiare”. In questi casi la pessi preventiva potrebbe mascherare l’espressione della malattia favorendone la diffusione.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Luca Formaggini
Clinica Veterinaria “Lago Maggiore”
C.so Cavour, 3 - 28040 Dormelletto (NO) Italia
Tel +39 0322 243716 - Fax +39 0322 232756
E-mail [email protected]
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Patella luxations in the dog
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Missouri, USA
Incidence
Patella luxation is a common problem encountered in small
animal practice. Though most of the patella luxations occur in
small dogs, they also occur in large breeds of dogs and cats.
Most patella luxations will be medial in dogs and cats. Lateral patella luxations mainly occur in large dogs. However,
either direction of patella luxation can be found in dogs and
cats. The techniques for surgical repair of patella luxation that
will be discussed can be used for either dogs or cats. The techniques are modified, depending on whether the patella luxation is medial or lateral. As an example, for a medial patella
luxation, the tibial tuberosity will be moved laterally, while,
for lateral patella luxation, the tibial tuberosity will be moved
medially to realign the pull of the quadriceps mechanism.
Etiopathogenesis
The patella is a sesamoid bone that serves to reduce the friction and change the direction of the pull of the quadriceps
muscle in its action on the proximal tibia to extend the stifle
joint. Thus the major components of the quadriceps mechanism are actually affected during patellar luxations and
include the four muscle bellies that comprise the quadriceps,
their points of origination either on the femur or on the pelvis,
the patella itself, the patello femoral ligaments, the patellar
ligament and its insertion point on the tibial tuberosity.
Displacement of the patella is only one of the abnormalities
present in patella luxation. When discussing this problem with
owners, it is easy to give the owner the impression that all that
needs to be done to correct the problem is to move the patella
back into place. In reality, numerous musculoskeletal abnormalities may be present. As the patella luxation becomes more
severe, the number and severity of the deformities will
increase. The deformities that may be present with medial
patella luxation include coxa vara, distal femoral varus, external torsion of the distal femur, shallow trochlear groove with
poorly developed or absent trochlear ridges, hypoplasia of the
medial condyle of the femur with tipping of the stifle joint,
medial rotation of the tibial plateau with respect to the distal
femur, medial displacement of the tibial tuberosity, and valgus
of the proximal tibia.
Classification
Patella luxations have been categorized depending on the
type and severity of the abnormalities that are present. Patel-
la luxations are classified as grade I-IV. Grade I patella luxations are usually intermittent luxations causing the leg to be
carried when the patella is displaced. The dog is able to
replace the patella by extending the knee. Displacement of
the tibial tuberosity is minimal. Grade I luxations rarely
cause a significant problem for the dog. With grade II patella luxation, the patella frequently luxates but can be reduced
manually without much effort. The dog will be intermittently lame and will carry the leg when the patella is out of position. As the luxation becomes more chronic, the dog may
walk on the leg when the patella is out of position. The tibial tuberosity is displaced medially and the tibial plateau is
rotated up to 30 degrees. The trochlear groove may be significantly shallow. Grade III patella luxation is characterized
by a patella that is permanently luxated but which can be
manually replaced into the trochlear groove. Once finger
pressure is released, the patella reluxates. The tibial tuberosity is displaced medially a significant amount and the tibial
plateau is rotated between 30 and 60 degrees. The stifle joint
is usually significantly tipped. The trochlear groove is usually very shallow. The medial joint capsule is contracted,
while the lateral joint capsule is stretched out. Grade IV luxations are the most severe grade of patella luxation. The
patella is always out of the trochlear groove and cannot be
digitally replaced, even under anesthesia. The femur and tibia are usually bowed and the proximal tibia is rotated internally 60-90 degrees. The medial femoral condyle is
hypoplastic and the joint is tipped severely. The trochlear
groove is flat or convex. The limb is carried or the animal
walks with a crouched, flexed and bowed-legged stance. The
medial joint capsule is contracted, while the lateral joint capsule is stretched out.
Surgery for uncomplicated cases
Correction of a patella luxation should be based on the
specific abnormalities that are present. It is not always possible or necessary to correct all of the abnormalities that are
present. Experience will allow the selection of the best procedures to correct the problems at hand. Accurate physical
and radiographic examination will define most of the abnormalities present. However, some of the decisions on what
procedures to be performed will be made at the operating
table after inspection of the knee and the initial procedures
are performed. One of the basic principles of correction of
patella luxations is that a skeletal deformities, such as a tibial tuberosity deviation or a shallow trochlear groove, need
to be corrected by bone reconstruction techniques. Failure to
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move the tibial tuberosity laterally is the most common error
made in correcting patella luxations. Bilateral corrective
procedures can be performed under the same anesthesia in
smaller patients.
Surgical correction of patella luxations should be performed in a step-by-step fashion after identifying the abnormalities that are present and amenable to correction. The following description of the surgical procedures available will
be in the sequence that they are performed in the patient for
medial patella luxations. The proper adjustments for lateral
patella luxations will need to be made. If the patella is not
stable after the standard procedures are performed, additional procedures can be added until the patella is stable.
A lateral arthrotomy of the stifle is performed making
sure to identify where the patella and patella ligament are
located. Remember that for patella luxations the joint capsule and fascia lata are stretched out and thus the anatomical
relationships of the soft and hard tissues may be distorted.
While making the approach, make the incision through the
fascia lata just lateral to the patella ligament and carefully
separate the fascia lata from the underlying joint capsule
before entering the joint. Once within the joint, it should be
thoroughly explored for abnormalities such as cruciate
injuries and cartilage damage. The depth of the trochlear
groove, the displacement of the tibial tuberosity, and the
contracture of the medial joint capsule should also be
assessed.
The depth of the trochlear groove should be at least onehalf the height of the patella (cranial-caudal thickness). If the
trochlear groove is shallow or borderline shallow, it is the
first abnormality to be corrected. There are two methods of
deepening the trochlear groove: trochlear wedge recession
arthroplasty and trochlear sulcoplasty. The trochlear sulcoplasty involves removing the cartilage and the bone in the
trochlear groove to form a trough for the patella to ride in.
The edges of the groove should be cut at right angles to the
base. The trough should be deep enough so that the bottom
of the patella does not ride on the bone. If the patella does
ride on the bone, the cartilage of the patella will be damaged.
With time, granulation tissue will start to fill in the trough.
The pressure of the patella riding against the granulation tissue will limit the amount it will fill in the trough, thus making a groove that is the correct depth. With time, the granulation tissue should turn into fibrocartilage. Unfortunately,
the transformation process of the granulation tissue is not
complete and thus forms a surface that is not as good as the
hyaline cartilage that lines normal joints. The trochlear
wedge recession arthroplasty was developed to overcome
this deficiency. The trochlear wedge arthroplasty uses a
wedge-shaped piece of bone with the cartilage still attached
to line the trochlear groove. The trochlear wedge recession
arthroplasty is started by using a scalpel blade to outline the
intended wedge to be removed.
Once the wedge is outlined, an X-acto saw (#234 or 236)
is used to cut the wedge. The cuts are started at the top of the
trochlear ridges (or where they should be making sure that
the cuts are wider apart than the width of the patella) and
angles toward the midline of the trochlear groove. Care must
be used to make sure that the cuts do not extend into the cruciate ligaments or up too proximal into the bone and that the
170
cut is not too deep. The wedge of bone that is removed is
wrapped in a saline or blood-soaked gauze sponge and saved
to be replaced later. A second cut is made parallel to the first
two cuts so that a “V-shaped” piece of bone is removed. The
“V” is discarded. The wedge is placed back into the defect
and tested for fit. If the wedge does not sit back into the
defect without rocking back and forth, the bottom of the
wedge is carefully removed with a rongeur until the wedge
does sit in the defect without rocking. Once the wedge fits
correctly, it is removed, wrapped in a saline-soaked sponge
and then replaced immediately before closure of the joint.
The wedge will be held in position by the pressure of the
patella riding against it and the friction between the bone
edges. The wedge will quickly heal back down and the articular cartilage will survive as hyaline cartilage. The major
advantage to this procedure is that the lining of the groove is
hyaline cartilage that is the normal cartilage present within
the joint. Deepening the trochlear groove is generally performed on most grade II, and on all grade III and IV, patella
luxations.
Contraction of the medial joint capsule and retinaculum is
assessed. If the patella will not stay in place once the patella is positioned in the trochlear groove without undue digital
pressure or cannot be replaced, the medial retinaculum
and/or joint capsule will need to be incised. This is referred
to as a medial desmotomy or release. This will need to be
performed for grade III and IV luxations in all cases and
generally for grade II luxations. The release is performed
with a scalpel blade and involves carefully cutting through
the medial retinaculum, to begin with, without cutting
through the joint capsule. The incision extends from the tibial plateau to just proximal to the insertion of the cranial belly of the sartorius muscle. The fibers of the retinaculum are
allowed to retract back from the joint capsule. The patella is
again replaced into the trochlear groove and the tendency for
reluxation assessed. If the patella tends to luxate easily, the
joint capsule can be incised along the same line if necessary.
At the time of joint capsule closure, if the medial side of the
joint has been incised, the medial arthrotomy is only covered
with deeper subcutaneous tissue and skin.
Medial displacement of the tibial tuberosity and tibial
rotation compared to the femur are assessed together to see
if one or both need to be corrected. Proper alignment of the
tibial tuberosity is necessary to keep the patella in position.
The tibial tuberosity should be centered with the trochlear
groove so that, as the quadriceps muscle extends the knee,
the pull of the quadriceps muscle is centered with the
trochlear groove. If the origin and insertion of the quadriceps
muscle and the trochlear groove are not aligned, the action
of the muscle contraction will continually try to pull the
patella out of place. Most dogs with grade II, and all dogs
with grade III and IV, patella luxation will require tibial
tuberosity transposition. An osteotome is used to cut the tibial tuberosity. Care is taken to remove enough of the tibial
tuberosity so that it can be reattached. The distal most aspect
of the tuberosity is not cut so that the tuberosity is hinged.
An extension of the patella ligament runs over this area and
helps hold the tuberosity in place. Once the tuberosity is cut,
it is rotated laterally until the pull of the patella ligament is
centered in the trochlear groove. With the tibial tuberosity
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held in this position, the knee is flexed and extended as the
knee is internally and externally rotated to see if the patella
will stay in place. Once the neutral position is located, the
tibial tuberosity is reattached using two Kirschner wires.
They are driven in a cranial-to-caudal direction with a slight
proximal angle. Any rotational abnormalities will be corrected after the lateral side of the joint has been closed.
The joint capsule on the lateral side of the joint is sutured
using a simple interrupted suture pattern. Redundant joint
capsule can be excised if excessive. If the patella still has a
tendency to luxate, a derotational suture can be placed if the
tibial tuberosity does not line up with the trochlear groove.
The derotational suture is passed around the lateral fabella of
the femur and through a hole that has been drilled in the area
of the tibial tuberosity. The suture is passed through the hole
from lateral to medial and back under the patella ligament.
The suture is tightened to the point that the patella ligament
is centered with the trochlear groove and tied. If the patella
still has a tendency to luxate, an artificial collateral ligament
is created with suture material. Different patterns are used,
but a simple figure-eight pattern works well. The suture is
passed around the lateral fabella of the femur and back
towards the patella. The suture is passed through the patella
tendon just proximal to the patella in a lateral-to-medial
direction. The suture is next passed along the medial side of
the patella in a proximal-to-distal direction. The last step
involves passing the suture in a medial-to-lateral direction
through the patella ligament just distal to the patella. The
suture is tightened just to the point that the patella will not
luxate medially. The fascia lata is imbricated as the last corrective measure performed. Excessive fascia lata can be
trimmed if necessary. Care must be taken to make sure that
a medial patella luxation is not turned into a lateral luxation.
A Mayo mattress or Lembert suture pattern are used for the
imbrication.
Postoperatively, the leg is placed in a soft-padded bandage. The bandage is left on for 10-14 days and removed
when the sutures are removed. Once the bandage is
removed, the owners are encouraged to perform physical
therapy on the leg by flexing and extending the knee 30-40
times twice a day. The dog can also be swum in the bathtub
to encourage use of the leg.
171
Surgery for complicated cases
Patellar luxations in large breed dogs, lateral patellar luxations and Grade IV luxations can all prove to be particularly challenging cases. Recently, additional techniques have
been explored to try to decrease the risk of post-operative reluxation which is about 8%. These techniques have been
focused on addressing other anatomical malformations that
can accompany this condition such as excessive distal
femoral varus and contracture of the rectus femoris component of the quadriceps muscle group. Distal femoral varus is
normal and has recently been shown to be about 7 degrees in
large breed dogs. This is important to note not only to give
the surgeon an appreciation of what excessive varus may
measure as, but also to serve as a target value to perform corrections to, if needed. Two recent reports have documented
the utility of performing a closing wedge osteotomy and
internal fixation for the correction of excessive distal
femoral varus for those cases where it is suspected to be a
complicating element in patellar luxation.
Another ancillary technique is the completion of a rectus
femoris transposition. The rectus femoris is the only component of the quadriceps muscle group that does not originate
on the proximal femur, but on the pelvis instead. Because of
this, in some cases, the rectus femoris undergoes contraction, especially with chronically medially luxating patellas.
It is believed that releasing the pull of the rectus femoris by
transecting its tendon of origin, and then transposing the tendon to the lateral aspect of the proximal femur will eliminate
a source of strong medial pull on the patella, and make its
lateral movement and reduction more successful.
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172
Come ridurre il rischio d’insuccesso
nella lussazione della rotula
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Missouri, USA
Incidenza
La lussazione della rotula è di comune riscontro nella clinica dei piccoli animali. Benché la maggior parte dei casi si
verifichi nei cani di piccola taglia, la condizione si riscontra
anche in quelli di grossa taglia e nei gatti. Sia nella specie
canina che nei felini, in genere le lussazioni della rotula sono
di tipo mediale. Quelle laterali si verificano principalmente
nei cani di grossa taglia. Tuttavia, sia nel cane che nel gatto
la lussazione può avvenire in entrambe le direzioni. Le tecniche di riparazione chirurgica della lussazione rotulea che
verranno illustrate possono essere impiegate in entrambe le
specie animali. Le diverse metodiche vanno modificate, a
seconda del fatto che la lussazione rotulea sia mediale o laterale. Ad esempio, per una lussazione mediale, la tuberosità
tibiale verrà spostata lateralmente, mentre per la lussazione
rotulea laterale la stessa tuberosità tibiale verrà spostata
medialmente per riallineare la trazione esercitata dal meccanismo del quadricipite.
Eziopatogenesi
La rotula è un osso sesamoideo che serve a ridurre la frizione ed a modificare la direzione della trazione esercitata
dal muscolo quadricipite durante la sua azione sull’estremità prossimale della tibia per estendere l’articolazione del
ginocchio. Quindi, nelle lussazioni rotulee vengono in realtà colpite le componenti principali del meccanismo del quadricipite, che comprendono quattro ventri muscolari che
costituiscono il quadricipite stesso, i loro punti di origine sia
a livello del femore che del bacino, la rotula stessa, i legamenti femororotulei, il legamento rotuleo ed il suo punto di
inserzione sulla tuberosità tibiale.
La dislocazione della rotula è soltanto una delle anomalie presenti nella lussazione. Quando si discute questo problema con i proprietari, è facile dare loro l’impressione
che tutto ciò che si deve fare per correggere il problema è
riportare a posto la rotula. In realtà, possono essere presenti numerose anomalie muscoloscheletriche. Man mano
che la lussazione rotulea diviene più grave, il numero e la
gravità delle deformazioni aumentano.
Le deformità che possono essere presenti nella lussazione rotulea mediale sono rappresentate da coxa vara,
varismo femorale distale, torsione esterna dell’estremità
distale del femore, scarsa profondità del solco trocleare
con cattivo sviluppo o assenza dei margini trocleari, ipo-
plasia del condilo mediale del femore con inclinazione
dell’articolazione del ginocchio, rotazione mediale del
plateau tibiale rispetto all’estremità distale del femore,
dislocazione mediale della tuberosità tibiale e valgismo
del tratto prossimale della tibia.
Classificazione
Le lussazioni rotulee sono state classificate in funzione
del tipo e della gravità delle anomalie presenti. Vengono
distinte in base al grado da I a IV. Quelle di grado I sono di
solito fenomeni intermittenti che fanno sì che l’arto possa
essere tenuto sospeso quando la rotula è dislocata. Il cane
è in grado di riposizionarla estendendo il ginocchio. La dislocazione della tuberosità tibiale è minima. È raro che le
lussazioni di grado I causino un problema significativo
all’animale. Nella lussazione rotulea di grado II, la rotule
frequentemente è lussata ma può essere ridotta manualmente senza molto sforzo. Il cane presenterà una zoppia
intermittente e terrà l’arto sollevato quando la rotula è fuori posto. Man mano che la lussazione diviene più cronica,
il soggetto può camminare sull’arto quando la rotula è dislocata. La tuberosità tibiale viene spostata medialmente ed
il plateau tibiale è ruotato fino a 30°. Il solco trocleare può
essere significativamente poco profondo. La lussazione
rotulea di grado III è caratterizzata da una lussazione permanente della rotula, che però può essere riposizionata
manualmente nel solco trocleare. Quando la pressione
esercitata con le dita viene eliminata, la rotula si rilussa. La
tuberosità tibiale viene dislocata medialmente in misura
significativa ed il plateau tibiale è ruotato fra 30 e 60 gradi. L’articolazione del ginocchio di solito è significativamente inclinata. Il solco trocleare in genere è molto poco
profondo. La capsula articolare mediale è contratta, mentre
quella laterale è stirata.
Le lussazioni di grado IV sono quelle più gravi. La rotula è sempre fuori dal solco trocleare e non può essere riposizionata con le dita, neppure sotto anestesia. Il femore e la
tibia di norma sono arcati e la parte prossimale della tibia
è ruotata internamente di 60-90 gradi. Il condilo femorale
è ipoplastico e l’articolazione è gravemente inclinata. Il
solco trocleare è appiattito o convesso.
L’arto viene tenuto sospeso oppure l’animale cammina
assumendo una stazione rannicchiata, con arti flessi ed
inarcati. La capsula articolare mediale è contratta, mentre
quella laterale è stirata.
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173
Trattamento chirurgico dei casi
non complicati
mo dalla rotula sovrastante limita la quantità che andrà a colmare la doccia, portando così alla formazione di un solco dalla profondità corretta. Con il tempo, il tessuto di granulazione
deve evolvere in fibrocartilagine. Sfortunatamente, il processo
di trasformazione del tessuto di granulazione non è completo
e ciò porta alla formazione di una superficie che non è valida
quanto la cartilagine ialina che riveste le articolazioni normali. Per superare questa carenza è stata sviluppata l’artroplastica con riposizionamento di un cuneo trocleare. Questa tecnica si basa sulla realizzazione di un frammento di osso a forma
di cuneo con la cartilagine ancora attaccata alla linea del solco trocleare. L’artroplastica con riposizionamento di un cuneo
trocleare viene iniziata utilizzando una lama da bisturi per
delineare il cuneo che si intende asportare.
Una volta che il cuneo è stato tracciato, si utilizza una sega
di tipo X-acto (n° 234 o 236) per tagliarlo. I tagli devono iniziare alla sommità dei bordi trocleari (o comunque in una posizione tale da garnatire che risultino più ampi della larghezza
della rotula) ed inclinati verso il solco. Bisogna stare attenti ad
assicurarsi che non si estendano nei legamenti crociati né si
spingano troppo prossimalmente nell’osso e che l’incisione
non sia troppo profonda. Il cuneo di osso che viene rimosso
viene avvolto in un tampone di garza imbevuto di soluzione
fisiologica o di sangue e messo da parte per essere riposizionato più tardi. Si realizza poi un secondo taglio parallelo ai primi due, in modo da rimuovere un pezzo di osso “a forma di V”.
La “V” viene scartata. Il cuneo viene ricollocato sul difetto
valutando il grado di adattamento fra le due parti. Se il cuneo
non si riposiziona nel difetto senza oscillare avanti ed indietro,
bisogna asportarne delicatamente il fondo con una pinza ossivora fino a che non si adatta alla sede prestabilita senza oscillare. Quando il cuneo è correttamente adattato viene rimosso,
avvolto in un tampone di soluzione fisiologica e poi immediatamente riposizionato prima di chiudere l’articolazione. Il
cuneo verrà tenuto in posizione dalla pressione della rotula che
si dispone a cavaliere sopra di esso e dalla frizione fra i margini ossei. La parte operata guarirà rapidamente tornando alla
normalità e la cartilagine articolare sopravvivrà come cartilagine ialina. Il principale vantaggio di questa procedura è che il
rivestimento del solco è costituito da cartilagine ialina, cioè
dalla struttura cartilaginea normalmente presente all’interno
dell’articolazione. Nella maggior parte delle lussazioni rotulee
di grado II ed in tutte quelle di grado III e IV si esegue generalmente l’approfondimento del solco trocleare.
Si valutano la contrazione della capsula articolare mediale e
del retinaculum. Se dopo essere stata posta sul solco trocleare
la rotula non rimane in posizione senza una pressione digitale
eccessiva oppure non può essere riposizionata affatto, è necessario incidere il retinaculum mediale e/o la capsula articolare.
Questo intervento viene definito come liberazione o desmotomia mediale. Deve essere eseguito in tutti i casi per lussazioni
di grado III e IV e generalmente anche per quelle di grado II.
La liberazione si esegue con una lama da bisturi e comporta
per cominciare l’esecuzione di un accurato taglio attraverso il
retinaculum mediale, senza scontinuare la capsula articolare.
L’incisione si estende dal plateau tibiale sino ad un punto situato appena prossimalmente all’inserzione del ventre del muscolo sartorio. Le fibre del retinaculum vengono lasciate retrarre
allontanandosi dalla capsula articolare. La rotula viene nuovamente riposizionata sul solco trocleare e se ne valuta la ten-
La correzione della lussazione della rotula deve essere
basata sulle specifiche anomalie presenti. Non è sempre possibile o necessario correggere tutte le alterazioni riscontrate.
L’esperienza permette di scegliere le procedure più adatte a
correggere il problema. Un esame clinico e radiografico accurato definisce la maggior parte delle anomalie presenti. Tuttavia, alcune delle decisioni sulle procedure da attuare verranno
prese al tavolo operatorio, dopo aver eseguito l’ispezione del
ginocchio e portato a termine le procedure iniziali. Uno dei
principi di base della correzione della lussazione rotulea è che
una deformità scheletrica, come la deviazione della tuberosità
tibiale o la scarsa profondità del solco trocleare, devono essere corrette con tecniche di ricostruzione ossea. Il mancato spostamento della tuberosità tibiale in direzione laterale è l’errore più comunemente effettuato nella correzione delle lussazioni rotulee. Nei pazienti più piccoli, le procedure correttive
bilaterali possono essere eseguite durante la stessa anestesia.
La correzione chirurgica delle lussazioni della rotula deve
essere effettuata in modo graduale, dopo aver identificato le
anomalie presenti e suscettibili di correzione. Nel testo che
segue, le procedure chirurgiche disponibili verranno descritte nella sequenza in cui vengono attuate nel paziente per il
trattamento delle lussazioni rotulee mediali. Sarà necessario
effettuare le correzioni appropriate nel caso della lussazione
rotulea laterale. Se la rotula non viene stabilizzata dagli
interventi standard, si potranno aggiungere ulteriori procedure fino a che non si ottiene il risultato desiderato.
Si esegue un’artrotomia laterale del ginocchio assicurandosi di identificare il punto in cui sono localizzati rotula e
legamento rotuleo. Occorre ricordare che nelle lussazioni
rotulee la capsula articolare e la fascia lata sono stirate e
quindi le relazioni anatomiche fra tessuti molli e duri possono essere distorte. Mentre si esegue questo approccio, si
deve praticare l’incisione attraverso la fascia lata, appena
lateralmente al legamento rotuleo, e separare accuratamente
la stessa dalla capsula articolare sottostante prima di penetrare nell’articolazione. Una volta qui, si deve eseguire un’esplorazione approfondita alla ricerca di anomalie come le
lesioni del legamento crociato ed il danno della cartilagine.
Bisogna anche valutare la profondità del solco trocleare, la
dislocazione della tuberosità tibiale e la contrattura della
capsula articolare mediale.
La profondità del solco trocleare deve essere pari come
minimo a metà dell’altezza della rotula (spessore craniocaudale). Se il solco trocleare ha una profondità scarsa o ai limiti
della norma, questa è la prima anomalia ad essere rilevata.
Esistono due metodi per approfondire il solco trocleare: l’artroplastica con riposizionamento di un cuneo trocleare e la
sulcoplastica trocleare. Quest’ultima tecnica comporta la
rimozione della cartilagine e dell’osso nel solco trocleare per
formare una doccia su cui possa scorrere la rotula. I margini
del solco devono essere tagliati ad angolo retto rispetto alla
base. La doccia deve essere abbastanza profonda da evitare
che la parte inferiore della rotula si disponga a cavallo dell’osso. Se ciò avvenisse, la cartilagine rotulea verrebbe danneggiata. Col tempo, la doccia inizia a venire riempita da un
tessuto di granulazione. La pressione esercitata su quest’ulti-
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denza alla rilussazione. Se la rotula tende a lussare facilmente,
se necessario si può incidere la capsula articolare lungo la stessa linea. Al momento della chiusura della capsula articolare, se
il lato mediale dell’articolazione è stato inciso l’artrotomia
mediale viene coperta soltanto con tessuto sottocutaneo più
profondo e cute.
La dislocazione mediale della tuberosità tibiale e la rotazione della tibia rispetto al femore vengono valutate insieme
per vedere se l’una o entrambe necessitino di correzione. Per
mantenere la rotula in posizione è necessario il corretto allineamento della tuberosità tibiale. Quest’ultima deve essere
centrata rispetto al solco trocleare, in modo che la trazione
esercitata dal muscolo quadricipite per determinare l’estensione del ginocchio risulti a sua volta centrata sul solco stesso. Se l’origine e l’inserzione del muscolo quadricipite e il
solco trocleare non sono allineati, l’azione della contrazione
muscolare cercherà continuamente di tirare la rotula fuori
posto. La maggior parte dei cani con lussazione rotulea di
grado II e tutti quelli di grado III e IV necessitano di una trasposizione della tuberosità tibiale. Quest’ultima viene tagliata con un osteotomo. Bisogna stare attenti che la porzione di
osso rimossa sia sufficiente a consentirne il riattacco. La parte più distale della tuberosità non viene tagliata, in modo che
la tuberosità stessa possa muoversi come su un cardine.
Sopra quest’area decorre un’estensione del legamento rotuleo che contribuisce a tenere la parte in posizione. Una volta che è stata tagliata, la tuberosità viene fatta ruotare lateralmente fino a che la trazione del legamento rotuleo risulta
centrata sul solco trocleare. Con la tuberosità tibiale tenuta
in posizione, il ginocchio viene flesso ed esteso e contemporaneamente ruotato internamente ed esternamente per
vedere se la rotula rimane in posizione. Una volta individuata la collocazione neutra, la tuberosità tibiale viene riattaccata con due fili di Kirschner. Questi vengono spinti in direzione craniocaudale con una lieve angolazione prossimale.
Qualsiasi anomalia di rotazione verrà corretta dopo la chiusura della parte laterale dell’articolazione.
La capsula articolare sulla faccia laterale dell’articolazione
viene chiusa con una sutura semplice a punti staccati. Se risulta eccessiva, l’eventuale porzione ridondante può venire escissa. Se la rotula ha ancora una tendenza alla lussazione, nei casi
in cui la tuberosità tibiale non si allinea con il solco trocleare si
può applicare una sutura derotazionale. Questa sutura viene fatta passare intorno alla fabella laterale del femore ed attraverso
un foro che sia stato praticato con il trapano nell’area della tuberosità tibiale. Il filo viene fatto passare attraverso il foro procedendo dalla parte laterale a quella mediale e poi riportato indietro sotto il legamento rotuleo. La sutura viene tirata sino al punto che il legamento rotuleo risulti centrato con il solco trocleare
e poi annodata. Se la rotula ha ancora la tendenza a lussare, si
realizza un legamento collaterale artificiale in materiale da sutura. Si impiegano schemi differenti, ma una semplice figura ad
otto funziona bene. La sutura viene fatta passare intorno alla
fabella laterale del femore e poi riportata verso la rotula. Il filo
deve decorrere attraverso il tendine rotuleo appena prossimalmente alla rotula in direzione lateromediale. La sutura deve poi
proseguire lungo il lato mediale della rotula in direzione prossimodistale. L’ultimo passaggio consiste nel far procedere il filo
in direzione mediolaterale verso il legamento rotuleo, appena
distalmente alla rotula. La sutura viene tirata fino al punto in cui
174
la rotula non si possa lussare medialmente. Come ultima misura correttiva si esegue l’embricazione della fascia lata. Se necessario, la parte in eccesso di quest’ultima può essere rifilata.
Bisogna stare attenti ad assicurarsi che una lussazione rotulea
mediale non si trasformi in una laterale. Per l’embricatura si utilizza una sutura da materassaio di Mayo o di Lembert. Nel
periodo postoperatorio, l’arto viene posto in un bendaggio morbido ed imbottito, che viene lasciato in sede per 10-14 giorni ed
eliminato quando si tolgono le suture. Una volta che il bendaggio sia stato rimosso si esorta il proprietario ad effettuare la
fisioterapia sull’arto flettendo ed estendendo il ginocchio per 30
o 40 volte due volte al giorno. Il cane può anche essere fatto
nuotare in una vasca da bagno per spingerlo ad usare l’arto.
Chirurgia dei casi complicati
Le lussazioni rotulee nei cani delle razze di grossa taglia,
quelle laterali e quelle di grado IV possono risultare particolarmente impegnative. Recentemente, sono state studiate
nuove tecniche per cercare di ridurre il rischio di rilussazione postoperatoria, che è circa dell’8%. Queste tecniche sono
state focalizzate sul trattamento di altre malformazioni anatomiche che possono accompagnare questa condizione,
come un eccessivo varismo del tratto distale del femore e la
contrattura della componente del retto femorale del gruppo
del muscolo quadricipite. Il varismo femorale distale costituisce un riscontro normale ed è stato recentemente dimostrato che è di circa 7 gradi nei cani delle razze di grossa
taglia. È importante notare questo fatto non solo per offrire
al chirurgo la possibilità di apprezzare quanto possa misurare il varismo in eccesso, ma anche per fungere da indicazione del valore da raggiungere nei casi in cui sia necessario
eseguire una correzione. Due recenti segnalazioni hanno
documentato l’utilità di ricorrere all’osteotomia a cuneo ed
alla fissazione interna per la correzione del varismo femorale distale in eccesso per quei casi in cui si sospetta la presenza di un elemento complicante nella lussazione rotulea.
Un’altra tecnica collaterale è il completamento della trasposizione del retto femorale. Quest’ultimo è l’unica componente
del gruppo del muscolo quadricipite che non origina dalla parte prossimale del femore, ma piuttosto dalla pelvi. Per questo
motivo, in alcuni casi, il retto femorale va incontro a contrazione, in particolare nelle rotule con lussazione mediale cronica. Si
ritiene che il rilascio della trazione esercitata dal retto femorale
con la resezione del suo tendine di origine e la successiva trasposizione dello stesso sulla faccia laterale del tratto prossimale del femore eliminino una fonte di forte trazione mediale sulla rotula e consentano di ottenere un maggior successo dell’intervento di spostamento laterale e riduzione.
Bibliografia
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175
Management of osteoarthritis in the dog and cat
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
Introduction
Osteoarthritis (OA) is a debilitating, irreversible condition that affects multiple tissues comprising the joint environment including the synovium, articular cartilage and
subchondral bone. Conservative estimates suggest that no
less than 20% of the canine population suffers from OA
whereas recent surveys have concluded that 1 in 6 humans
suffer from this degenerative condition. Estimates of the
incidence of feline OA have been somewhat age dependent
with one figure suggesting that >90% of cats over 12 years
of age are affected.
leukin – 1 (IL-1) and tumor necrosis factor (TNF) are
released from the chondrocyte and synovial cells which
result in the release of prostaglandins (PGE2). This milieu
of cytokines can result in the phenotypic alteration of the
chondrocyte to producing types I and III collagen instead of
the normal type II, decreased production of proteoglycans
and increased synthesis of degradative enzymes called
matrix metalloproteinases (MMPs). The end result is significant alteration of the extracellular matrix which subsequently falters mechanically.
TREATMENT STRATEGIES
Distinguishing arthropathies
Prevention
When presented with a patient with orthopaedic signs
related to an arthropathy, the first step is to distinguish the
etiology of the joint disorder. General arthropathies can be
divided into suppurative and non-suppurative conditions
based on the absence or presence (respectively) of a predominate number of neutrophils in the synovial fluid.
Osteoarthritis, also called degenerative joint disease (DJD)
exhibits a higher cell count than normal synovial fluid, with
monocytic cells being the dominate cell type as apposed to
suppurative arthopathies which will result in 50-90% of the
cells in the synovial fluid to be neutrophils.
A successful therapeutic strategy to treat OA can be broken down into several essential components. The first of
these intervening steps includes prevention. Preventative
measures can start through client education prior to the purchase of a new puppy about orthopedic diseases that certain
breeds have predispositions for, and how recognition of
genetic screening systems and appropriate nutrition can help
avoid such diseases. In addition, for non-breeding animals,
certain surgical interventions in the dog such as juvenile
pubic symphysiodesis, can be performed to help prevent the
developmental musculoskeletal changes seen with canine
hip dysplasia.
Pathophysiology
Diagnosis
The vast majority of canine OA is secondary in origin, as
opposed to human patients which will suffer from both primary and secondary etiologies. It can be stated therefore,
that canine OA is the product of either normal forces on
abnormal anatomy or abnormal forces on normal anatomy.
Articular cartilage is comprised of a viscoelastic extracellular matrix capable of tolerating certain degrees of use. However as the discrepancy of overuse and mechanical tolerance
of the cartilage increases over expanding time, OA ensues.
Interestingly, the causality for feline OA can only be documented in approximately 50% of the cases, thus implying
that like humans, OA in cats may have a higher primary etiology. The key cellular element in articular cartilage is the
chondrocyte. The chondrocyte is responsible for the production of the major extracellular matrix constituents as
well as the degradative enzymes that allow matrix turnover.
During OA, certain inflammatory cytokines, such as inter-
Any successful treatment strategy is largely dependent on
a rapid and accurate diagnosis. Diagnostic modalities start
with a thorough history followed by a complete orthopedic
and neurologic examination. Essential tests should always
include radiography, but may also necessitate other imaging
modalities such as ultrasonography, magnetic resonance
imaging or computed tomography. Additional examinations
may include arthrocentesis, bloodwork, serum titers, PCR,
or histopathology. It is important to remember that radiography is more often diagnostic than prognostic and has recently been documented to be a fairly insensitive early detector
of osteoarthritis. However, good radiographic studies still
exist as the main diagnostic modality in current small animal
practice. The radiographic hallmarks of osteoarthritis
include subchondral sclerosis, marginal osteophytosis, joint
effusion and diminished joint space.
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Client Communication
Conscientious client communication is essential throughout the process of diagnosing and treating OA. It is most
important to educate the animal’s owners that OA is an
incurable disease whose changes are not reversible. Short of
the surgical replacement or removal of affected joints, we
can at best, slow the progression of the disease and ease the
discomfort experienced by the animal.
Treatment: Surgical vs. Non Surgical
Treatment of OA can fall within two broad categories:
non-surgical and surgical. In many cases, non-surgical treatment choices can be explored before surgical intervention
occurs, however, this is largely dictated by the joint affected
and the underlying etiology. For example, medical treatment
should preclude total hip arthoplasty for the treatment of
canine hip dysplasia, but current recommendations regarding cranial cruciate ligament disease include surgical intervention as quickly as feasible. Surgical options for the treatment of OA are largely focused on correcting underlying
joint instabilities or re-establishing appropriate joint alignment and motion. Non-surgical treatments are usually
administered with surgical modalities and may exist as the
mainstay for the long term care of animals with DJD. Nonsurgical treatment options can further be divided into medical modalities (pharmaceuticals and nutraceuticals) and
environmental modalities (activity and weight management). Above all else, weight management is the single most
important lifestyle change to implement with other treatment
for OA. Studies now demonstrate that avoiding juvenile obesity in dogs reduces the risk for geriatric multiple joint OA
and that weight loss in adult dogs affected by OA reduces
the severity of clinical signs. Simply put, effective weight
loss can be achieved through increasing activity while
decreasing caloric intake. During such, optimizing the comfort level of an animal that may experience pain due to the
underlying OA is often necessary.
Treatment: NSAIDs
Non-steroidal anti-inflammatory drugs (NSAIDs) are the
most common agents to prescribe for short and long term
management of OA pain. They exist as analgesics in a variety of classes determined by which enzymatic pathways of
the arachadnoic acid cascade they inhibit. Some NSAIDs are
cyclooxygenase (COX) non-specific in the dog including
aspirin, ketoprofen and etodolac. Others either preferentially or selectively inhibit cyclooxygenase-2 (COX-2) such as
carprofen, deracoxib, firocoxib and meloxicam. Other
NSAIDs such as tepoxalin are dual pathway inhibitors in
that they interfere both cyclooxygenase and lipoxygenase
(LOX) pathways. It has been held that COX-2 is inducible at
sites of inflammation whereas COX-1 is constitutive and
results in the production of normal and regulatory
prostaglandins and should therefore be spared. However,
recent data suggests that the distinction in roles of COX-1
176
and COX-2 enzymes is not as well defined. Furthermore,
inhibition of the LOX pathway may result in interference of
chemotaxis of neutrophils to areas of gastric ulceration and
therefore may hold anti-ulcerogenic properties. Recent concerns have been raised in humans with the use of COX-2
selective inhibitors because of the reported elevated risk of
thromboembolic (TE) disease. This is thought to occur
through the selective inhibition of prostacyclin (which
vasodilates and inhibits platelet aggregation), a COX-2
mediated process, without a concordant inhibition of thromboxane, which facilitates platelet aggregation in response to
COX-1. Whether or not this increased risk of TE disease will
translate into small animals is unknown at this time. However, the natural TE disease process in dogs and people appears
to be quite different. The use of any NSAID should be prudent with close attention paid to potential adverse effects in
the forms of gastrointestinal upset, hepatotoxicity, renal
effects and keratoconjunctivitis sicca. Each product should
be evaluated individually for their respective risks. Use of
most NSAIDs in cats is off label in the US and should be
done with caution. Safe regimens do exist, but require an
excellent patient-veterinarian-client relationship.
Treatment: Nutraceuticals
Nutraceuticals have gained a great deal of popularity in
the treatment of both human and canine OA in recent years.
It is important to remember that at this time they are still
considered nutritional supplements and as such are not regulated by the FDA. A brief review of the major ingredients
of most currently used products follows. Glucosamine is a
common ingredient of many multi-agent OA treatment compounds. It is a complex sugar and component of larger glycosaminoglycans molecules. Research has indicated that it
possesses anti-MMP effects. Much research is still lacking
with respect to its efficacy in treating OA. The most
bioavailable form is the glucosamine hydrochloride (HCl)
salt. Chondroitin sulfate also is a complex sugar and a glycosaminoglycans constituent of larger aggrecan macromolecules that comprise the extracellular matrix of hyaline cartilage. Like glucosamine, it is believed to have anti-degradative effects, but because of its molecular weight and charge,
gastrointestinal absorption is attenuated. New lower molecular weight products are now being investigated. Polysulfated glycosaminoglycans is a mixture of highly sulfated glycosaminoglycans mostly comprised of chondroitin sulfate.
Whereas in vitro studies have indicated anti-proteinase and
anti-collagenase properties, appropriate clinical studies validating efficacy are still somewhat lacking. Viscosupplementation, or the intra-articular injection of hyaluronic acid
(HA) containing products, shows in vitro activity against
degradative enzymes and PGE2, while able to enhance the
body’s production of endogenous HA. Interestingly, most
forms of HA used clinically will no longer be within the
joint 72 hours following intraaritcular injection, depending
on the molecular weight. However, people receiving viscosupplementation reportedly can have benefits for months
following treatment. Small animal clinical trials are still
lacking.
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Treatment: Physical Therapy
Exercise has been stated to be the most effective nonpharmacologic modality for reduction of joint pain and
impairments. Because OA of a single joint can lead to multiple joint disease through inactivity, physical therapy is now
recognized as an essential component to the appropriate
management of patients with OA. Range of motion activities
such as swimming helps to maintain the compliance of periarticular soft tissues and reduces the risk of additional joint
injury as well as leads to increased nutritional support of the
articular cartilage through promotion of intra-articular fluid
flow. Promotion of muscle strength through non-concussive
177
activities combats arthrogenous muscle atrophy which has
been shown to lead to poorly coordinated neuromuscular
reflexes, decreased joint stability and early onset fatigue.
Regular aerobic activity also improves the cardiovascular
health of human patients with OA, resulting in overall clinical improvement, and as such should have the same effects
in our small animal patients.
In conclusion, OA is a complex multifactorial disease
that is best treated by a multi-agent therapeutic strategy
including preventative measures, accurate and rapid diagnosis, environmental alterations, prudent use of pharmacologics, surgery when appropriate and conscientious client
education.
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Approccio multimodale all’osteoartrosi
nel cane e nel gatto
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
Introduzione
L’osteoartrite (OA) è una condizione debilitante ed irreversibile che colpisce i molteplici tessuti che costituiscono
l’ambiente articolare e sono rappresentati da sinovia, cartilagine articolare ed osso subcondrale. Le stime conservative
suggeriscono che la OA colpisca non meno del 20% della
popolazione canina, mentre recenti indagini sono giunte alla
conclusione che un paziente umano su sei soffra di questa
condizione degenerativa. Le stime dell’incidenza della OA
nei felini sono risultate abbastanza dipendenti dall’età, con
un dato che suggerisce il coinvolgimento di più del 90% dei
gatti con oltre i 12 anni di vita.
Distinguere le artropatie
Di fronte ad un paziente che mostra segni ortopedici correlati ad una artropatia, il primo passo consiste nel distinguere l’eziologia del disordine articolare. Le artropatie in
generale possono essere distinte in condizioni suppurative e
non suppurative in base alla presenza o assenza (rispettivamente) di un predominio numerico dei neutrofili nel fluido
sinoviale. L’osteoartrite, anche detta artropatia degenerativa,
è caratterizzata dal riscontro nel liquido sinoviale di un
aumento del numero delle cellule determinato principalmente da elementi monocitari, mentre nelle artropatie suppurative il 50-90% di leucociti osservati è costituito da neutrofili.
Fisiopatologia
La grande maggioranza dei casi di OA nel cane è di origine secondaria, a differenza di quanto accade nei pazienti
umani che sono colpiti sia da eziologie primitive che secondarie. Si può quindi affermare che la OA nel cane è il prodotto di forze normali su strutture anatomiche anormali,
oppure di forze anormali su strutture anatomiche normali.
La cartilagine articolare è costituita da una matrice cellulare
viscoelastica, capace di tollerare un certo grado di impiego.
Tuttavia con il passare del tempo, man mano che la discrepanza tra il super uso e la tolleranza meccanica della cartilagine aumenta, insorge una osteoartrite. È interessante notare
che la causa dell’osteoartrite felina può essere dimostrata
soltanto nel 50% circa dei casi, il che implica che, come nell’uomo, anche nel gatto questa condizione possa riconosce-
re un’eziologia primaria più elevata. L’elemento cellulare
chiave nella cartilagine articolare è rappresentato dal condrocita. Questo è responsabile della produzione della maggior parte dei costituenti della matrice extracellulare, nonché
degli enzimi degradativi che consentono il turnover della
matrice stessa. Durante l’osteoartrite, dal condrocita e dalle
cellule sinoviali vengono rilasciate certe citochine infiammatorie come l’interleuchina 1 (IL-1) e il fattore di necrosi
tumorale (TNF), esitando nella liberazione di prostaglandine
(PGE2). Questo ambiente caratterizzato da citochine può
esitare nell’alterazione fenotipica del condrocita, che viene
spinto a elaborare collagene di tipo I e III invece del normale tipo II, diminuire la produzione di protoglicani ed aumentare la sintesi di enzimi degradativi detti metalloproteinasi
della matrice (MMP). Il risultato finale è una significativa
alterazione della matrice extracellulare, che in seguito può
venire compromessa meccanicamente.
STRATEGIE DI TRATTAMENTO
Prevenzione
Una strategia terapeutica di successo per l’osteoartrite può
essere suddivisa in diverse componenti essenziali. Il primo
dei settori in cui è possibile intervenire è la prevenzione. Le
misure profilattiche possono iniziare con l’educazione del
cliente prima dell’acquisto di un cucciolo nuovo a proposito
delle malattie ortopediche alle quali certe razze sono predisposte ed a come il riconoscimento dei sistemi di screening
genetico e la nutrizione appropriata possono risultare utili
per affrontarle. Inoltre, per gli animali non destinati alla
riproduzione, è possibile eseguire certi interventi chirurgici
nel cane, come la sinfisiodesi pubica giovanile, per contribuire a prevenire lo sviluppo di alterazioni muscoloscheletriche osservate nella displasia dell’anca.
Diagnosi
Qualsiasi strategia terapeutica di successo dipende in larga misura da una diagnosi rapida ed accurata. Le modalità
diagnostiche iniziano con un’anamnesi approfondita seguita da un esame ortopedico e neurologico completo. I test
essenziali devono sempre comprendere la radiografia, ma
può essere necessario anche ricorrere ad altre modalità di
diagnostica per immagini, come l’ecografia, la risonanza
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magnetica e la tomografia computerizzata. Altre indagini
possono essere rappresentate da artrocentesi, esami ematochimici, titolazione sierica, PCR o istopatologia. È importante ricordare che la radiografia ha più spesso valore diagnostico che prognostico ed è stato recentemente dimostrato che è abbastanza poco sensibile come metodo per individuare precocemente l’osteoartrite. Tuttavia, le buone indagini radiografiche costituiscono ancora la principale modalità diagnostica nella clinica dei piccoli animali di oggi. I
segni distintivi dell’osteoartrite dal punto di vista radiografico sono rappresentati da sclerosi subcondrale, osteofitosi
marginale, versamento articolare e diminuzione dello spazio articolare.
Comunicazione con un cliente
La comunicazione con un cliente coscienzioso è essenziale per tutta la durata del processo di diagnosi e trattamento
dell’osteoartrite. L’educazione del proprietario degli animali è della massima importanza, perché l’osteoartrite è una
malattia incurabile con alterazioni irreversibili. Nella
migliore delle ipotesi, possiamo rallentare la progressione
della malattia ed alleviare il disagio sperimentato dall’animale prima di dover ricorrere al riposizionamento od alla
rimozione chirurgica delle articolazioni colpite,.
Trattamento: chirurgico o non chirurgico
Il trattamento dell’osteoartrite può rientrare in due ampie
categorie: non chirurgico e chirurgico. In molti casi, è possibile provare a ricorrere alle scelte terapeutiche del primo tipo
prima di attuare l’intervento; tuttavia, quest’ultimo viene
spesso imposto dall’articolazione colpita e dall’eziologia
sottostante. Ad esempio, la terapia medica dovrebbe precludere l’artroplastica totale dell’articolazione coxofemorale
per il trattamento della displasia dell’anca del cane, mentre
le attuali raccomandazioni relative alla malattia del legamento crociato craniale prevedono l’intervento chirurgico
non appena attuabile. Le opzioni operatorie per il trattamento dell’osteoartrite sono in gran parte focalizzate sulla correzione delle instabilità articolari sottostanti o sul ripristino di
un appropriato allineamento o movimento dell’articolazione. I trattamenti non chirurgici di solito vengono attuati in
associazione con le modalità chirurgiche e possono costituire il caposaldo della terapia a lungo termine degli animali
con artropatia degenerativa. Le opzioni terapeutiche non chirurgiche possono essere ulteriormente distinte in interventi
medici (farmaceutici e nutraceutici) ed ambientali (attività e
controllo del peso). Sopra a tutti, il controllo del peso è la
singola più importante modificazione dello stile di vita da
mettere in atto con altri trattamenti dell’osteoartrite. Gli studi condotti dimostrano oggi che evitare l’obesità giovanile
nel cane riduce il rischio di molteplici osteoartriti in età
geriatrica e che la perdita di peso nei cani adulti colpiti da
osteoartrite diminuisce la gravità dei segni clinici. In termini semplici, un efficace controllo del peso si può ottenere sia
aumentando l’attività che diminuendo l’apporto calorico.
Durante questo tipo di intervento, è spesso necessario otti-
179
mizzare il livello di comfort di un animale che può essere
afflitto da dolore dovuto alla sottostante osteoartrite.
Trattamento: FANS
I farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) sono gli
agenti più comuni da prescrivere per il trattamento a breve e
lungo termine del dolore da osteoartrite. Si trovano come
analgesici in una gran varietà di classi, determinate in base
alle vie enzimatiche della cascata dell’acido arachidonico che
inibiscono. Nel cane, alcuni FANS (acido acetilsalicilico,
ketoprofen ed etodolac) sono ciclossigenasi (COX)-aspecifici.
Altri, come il carprofen, il deracoxib, il firocoxib ed il meloxicam, inibiscono preferenzialmente o selettivamente la
ciclossigenasi 2 (COX-2). Altri ancora, come la tepoxalina,
sono inibitori di entrambe le vie, in quando interferiscono sia
con quella della ciclossigenasi che con quella della lipossigenasi (LOX). È stato stabilito che la COX-2 è inducibile nelle
sedi dell’infiammazione, mentre la COX-1 è essenziale ed esita nella produzione di prostaglandine normali e regolatrici e
deve quindi essere risparmiata. Tuttavia, recenti dati suggeriscono che la distinzione dei ruoli degli enzimi COX-1 e COX2 non è altrettanto ben definita. Inoltre, l’inibizione della via
della LOX può esitare nell’interferenza della chemiotassi dei
neutrofili verso aree di ulcerazione gastrica e di conseguenza
può essere dotata di proprietà antiulcerogene. Nell’uomo,
sono state recentemente espresse delle preoccupazioni riguardo all’uso degli inibitori selettivi della COX-2 a causa della
segnalazione di un elevato rischio di malattia tromboembolica
(TE). Si ritiene che ciò avvenga attraverso l’inibizione selettiva della prostaciclina (che determina una vasodilatazione ed
inibisce l’aggregazione piastrinica), un processo mediato dalla COX-2 senza una concordante inibizione del trombossano,
che facilita l’aggregazione piastrinica in risposta alla COX-1.
Al momento attuale si ignora se tale aumento del rischio di
malattia TE esista anche nei piccoli animali oppure no. Tuttavia, il processo naturale della malattia TE nel cane e nell’uomo sembra essere molto differente. L’uso di qualsiasi FANS
va attuato con prudenza prestando molta attenzione ai potenziali effetti indesiderati che si manifestano sotto forma di problemi gastroenterici, epatotossicità, alterazioni renali e cheratocongiuntivite secca. Ciascun prodotto deve essere valutato
individualmente per stabilirne i rispettivi rischi. L’uso della
maggior parte dei FANS nei gatti è improprio negli Stati Uniti e deve essere effettuato con cautela. Esistono dei protocolli
sicuri, ma richiedono un’eccellente relazione fra paziente,
veterinario e cliente.
Trattamento: nutraceutici
Negli ultimi anni, i nutraceutici hanno riscosso una notevole popolarità nel trattamento dell’osteoartrite sia nell’uomo
che nel cane. È importante ricordare che al momento attuale
sono ancora considerati degli integratori nutrizionali e in
quanto tali non regolati dalla FDA. Segue una breve rassegna
sui principali ingredienti della maggior parte dei prodotti utilizzati attualmente. La glucosamina è un ingrediente comune
di molti composti multiagente utilizzati per il trattamento
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dell’osteoartrite. Si tratta di uno zucchero complesso che
costituisce una componente delle più grandi molecole di glicosaminoglicani. La ricerca ha indicato che possiede effetti
anti-MMP. Mancano ancora molti studi sulla sua efficacia nel
trattamento dell’osteoartrite. La forma più biodisponibile è
quella di glucosamina cloridrato (HCl). Anche il condroitinsolfato è uno zucchero complesso ed un costituente dei glicosaminoglicani delle più grandi molecole di aggrecani che
costituiscono la matrice extracellulare della cartilagine ialina.
Come la glucosamina, si ritiene che sia dotato di effetti antidegradativi, ma a causa del suo peso molecolare e della carica, l’assorbimento gastroenterico è attenuato. Sono attualmente oggetto di studi nuovi prodotti dal peso molecolare più
basso. I glicosaminoglicani polisolforati costituiscono una
miscela di glicosaminoglicani altamente solfati rappresentati
principalmente da condroitinsolfato. Mentre gli studi in vitro
hanno indicato proprietà antiproteinasiche ed anticollagenasiche, mancano ancora indagini cliniche appropriate finalizzate a validarne l’efficacia. La viscosupplementazione, o l’iniezione intrarticolare di prodotti contenenti acido ialuronico
(HA) ha mostrato in vitro un’attività nei confronti degli enzimi degradativi e della PGE2, abbinata alla capacità di accentuare la produzione di acido ialuronico endogeno da parte
dell’organismo. È interessante notare che la maggior parte
delle forme di acido ialuronico utilizzate clinicamente non è
più presente all’interno dell’articolazione 72 ore dopo l’iniezione intrarticolare, a seconda del peso molecolare. Tuttavia,
i pazienti umani trattati con viscosupplementazione, secondo
quanto segnalato in letteratura, possono presentare dei benefici per mesi dopo il trattamento. Mancano ancora prove cliniche condotte nei piccoli animali.
180
Trattamento: fisioterapia
È stato affermato che l’esercizio è la modalità non farmacologica più efficace per ridurre il dolore e la compromissione articolari. Poiché l’osteoartrite di una singola articolazione può portare a molteplici artropatie dovute all’inattività, la fisioterapia viene oggi riconosciuta come una componente essenziale del trattamento appropriato dei pazienti con
osteoartrite.
Le attività che sollecitano l’escursione articolare, come il
nuoto, contribuiscono a mantenere la compliance dei tessuti
molli periarticolari ed a ridurre il rischio di lesioni articolari
aggiuntive, nonché portare ad un aumento del supporto
nutrizionale della cartilagine articolare attraverso la promozione del flusso dei fluidi intrarticolari. La promozione della forza muscolare attraverso le attività non concussive contrasta l’atrofia muscolare artrogena che si è dimostrata capace di portare ad un decadimento dei riflessi neuromuscolari
coordinati, ad una diminuzione della stabilità articolare ed
all’insorgenza precoce di affaticamento. La regolare attività
aerobica agisce anche positivamente sulla salute cardiovascolare dei pazienti umani con osteoartrite, esitando in un
miglioramento clinico complessivo e, come tale, dovrebbe
avere gli stessi effetti nei piccoli animali che costituiscono i
nostri pazienti.
In conclusione, l’osteoartrite è una malattia multifattoriale complessa che deve essere preferibilmente trattata con una
strategia terapeutica multiagente che comprenda misure preventive, diagnosi accurata e rapida, alterazioni ambientali,
impiego oculato di farmaci, chirurgia nei casi appropriati ed
educazione del cliente coscienzioso.
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181
Tissue engineering: the future of orthopedic surgery?
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
The need for novel solutions
As orthopedic surgeons, we are constantly faced with the
serious dilemma that a number of tissues we work with are
irreparable and lack the capacity to heal. The most commonly
affected of these tissues includes articular cartilage, meniscal
fibrocartilage and some ligaments, especially those intraarticular. In light of these particular tissues being so frequently
injured and unable to undergo a healing response spontaneously, many surgical techniques have been designed to protect them, augment a healing response, no matter how minimal, or to remove the affected tissue and occasionally replace
them with prosthetic devices. These modalities then beg the
question, “Could we do more.” Of much wider use in human
medicine is the application of cadaveric allografts for orthopedic tissues. When certain tissues are completely lost to disease,
allografts can serve as an intermediate step prior to total joint
arthroplasty. Most commonly used are allograft replacements
of anterior cruciate ligaments, osteochondral portions of joints,
such as the medial femoral condyle or smaller sections that are
used in a mosaic fashion for joint resurfacing. Meniscal allografts are also used if the entire meniscus is lost due to injury.
Despite the ready access to cadaveric allografting in human
medicine, there are many disadvantages associated with them
with respect to appropriate tissue sizing, tissue rejection, lack
of tissue integration, disease transmission, and gradual deterioration of the grafts. For all of the above reasons, treatment
alternatives are being sought.
Definitions and Approaches
An area of research focusing on a novel set of treatment
options is the field of tissue engineering. Tissue engineering
is the development of new tissue from very basic elements
through a number of different techniques. Although it is
somewhat specific for the tissue type in question, the basic
elements that are typically utilized for the development of the
desired tissue include a cell source, a scaffold or matrix upon
which to seed the cells, and bioactive factors, either chemical
such as growth factors, or mechanical or both. Different
philosophies exist with respect to determining the optimal
methodology in tissue engineering specific tissues. One style
of tissue engineering utilizes well-differentiated cells within
a matrix with minimal manipulation. The theory behind this
methodology is to quickly redevelop the tissue in question
from the cells that comprise the original tissue without having to utilize bioactive factors to direct the cells, which can
potentially save much time and money. For example, should
this technique be employed for articular cartilage engineering, chondrocytes would be placed within a scaffold so that
the extracellular matrix constituents they produce would be
deposited through the matrix, and the construct could be surgically applied to the affected area. Difficulties with this
approach can include finding a donor source of cells that is
normal. Obviously, chondrocytes taken from the same joint
in which the tissue loss was identified is problematic considering the joint-wide affects of osteoarthritis. Thus a separate
donor source must be identified, which can increase patient
morbidity. Also disadvantageous with this methodology is
the fact that well-differentiated cells have a decreased capacity to produce matrix constituents. An alternative philosophy
and approach to tissue engineering is to use a less differentiated cell source and to attempt to recapitulate the embryological steps that the original tissue experienced in its development. Thus, more manipulation of the cells with certain
growth factors and mechanical stimulation is required. Popular cells for orthopedic tissue engineering following this philosophy include adult stem cells, also referred to as connective tissue progenitor cells. There are many sources of these
cells including adipose tissue, synovial tissue, and bone marrow stem cells. Because these cells are pluripotential, they
require signaling and stimulation to guide them to produce
the extracellular matrix appropriate for the desired application. For cartilage engineering, this often involves the chondrogenic growth factors, including transforming growth factor and other members of the bone morphogenic protein
superfamily and insulin-like growth factor (IGF).
Beyond these two philosophies are two philosophies that
exist with respect to timing of construct implantation.
Whereas some strategies utilize application of cells and
matrix to tissue defects before they’ve had a chance to produce matrix constituents, others will allow the development
of the cells, their matrix production and the maturation of the
tissue in vitro for longer periods prior to their surgical use.
An example of the former are those techniques used for full
thickness cartilage defects that employ the debridement of
the defect, suturing a flap of periosteum over the area of cartilage loss and the subsequent injection of recently harvested cells and carrier under the periosteal flap. Contrary to this
are those techniques which apply the cell source to a carrier
that is exposed to regular infusion of stimulating growth factors in addition to exposure to mechanical stimulus to
encourage the cells to produce a maximal amount of appropriate extracellular matrix prior to the surgical use of the
construct.
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182
Stato dell’arte dell’ingegneria tissutale:
il futuro della chirurgia?
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
La necessità di soluzioni nuove
Come chirurghi ortopedici, ci troviamo costantemente di
fronte al grande dilemma determinato dal fatto che numerosi tessuti con cui lavoriamo sono irreparabili e mancano della capacità di guarire. I più comunemente colpiti fra questi
tessuti sono la cartilagine articolare, la fibrocartilagine meniscale ed alcuni legamenti, in particolare quelli intrarticolari.
Alla luce del fatto che questi particolari tessuti sono frequentemente danneggiati e non sono in grado di andare
incontro ad una risposta di riparazione spontanea, sono state
studiate molte tecniche chirurgiche per proteggerli, aumentarne la risposta di guarigione, non importa quanto poco,
oppure rimuovere il tessuto colpito ed occasionalmente
sostituirlo con protesi. Tutto ciò porta ad una domanda: possiamo fare di più?
In medicina umana, viene utilizzata su scala molto più
ampia l’applicazione di innesti omologhi da cadavere per
sostituire i tessuti ortopedici. Quando certi tessuti sono completamente perduti a causa di un evento patologico, gli innesti omologhi possono servire da fase intermedia prima della
totale artroplastica. I trapianti omologhi più comunemente
utilizzati sono quelli dei legamenti crociati anteriori delle
porzioni osteocondrali delle articolazioni, come il condilo
femorale mediale o le sezioni più piccole che vengono utilizzate con una tecnica a mosaico per la ricostruzione della
superficie articolare. Gli innesti omologhi meniscali vengono anche utilizzati nei casi in cui l’intero menisco è andato
perduto a causa di un evento patologico. Benché facilmente
reperibili in medicina umana, gli innesti omologhi da cadavere sono associati a molti svantaggi per quanto riguarda le
appropriate dimensioni dei tessuti, il rigetto, la mancanza di
un’integrazione tissutale, la trasmissione di malattie ed il
graduale deterioramento degli impianti. Per tutte le ragioni
citate, si è alla ricerca di trattamenti alternativi.
Definizioni ed approcci
Il campo dell’ingegneria tissutale costituisce un’area di
ricerca focalizzata su una nuova serie di opzioni terapeutiche. L’ingegneria tissutale è lo sviluppo di un nuovo tessuto
a partire da elementi di base attraverso numerose tecniche
differenti. Benché sia abbastanza specifico per il tipo di tessuto in questione, gli elementi fondamentali che vengono
tipicamente utilizzati per lo sviluppo del tessuto desiderato
sono rappresentati da una fonte cellulare, un’impalcatura o
matrice sulla quale seminare le cellule e fattori bioattivi,
costituiti sia da agenti chimici che da fattori di crescita e/o
meccanici. Esistono differenti filosofie relative alla determinazione della metodologia ottimale per l’ingegneria tissutale di specifici tessuti. Una tecnica si basa sull’impiego di cellule ben differenziate all’interno di una matrice, con una
manipolazione ridotta al minimo. La teoria che sta alla base
di questa metodologia è quella di risviluppare rapidamente il
tessuto in questione a partire dalle cellule che costituivano
quello originale senza dover utilizzare fattori bioattivi per
indirizzare le cellule stesse, il che consentirebbe potenzialmente di far risparmiare molto tempo e denaro. Ad esempio,
qualora questa tecnica potesse essere impiegata per l’ingegnerizzazione della cartilagine articolare, i condrociti
dovrebbero essere posti all’interno di una impalcatura in
modo che i costituenti della matrice extracellulare che producono vengano depositati attraverso la matrice stessa ed il
costrutto potrebbe essere applicato chirurgicamente all’area
colpita. La difficoltà di questo tipo di approccio può essere
quella di trovare un donatore di cellule che risulti normale.
Ovviamente, il prelievo di condrociti dalla stessa articolazione in cui è stata identificata la perdita di tessuto è problematico, considerando gli effetti dell’osteoartrite diffusi in
tutta l’articolazione. Di conseguenza, è necessario identificare un sito donatore separato, il che può aumentare la morbilità del paziente. Un altro svantaggio di questa metodologia è dato dal fatto che le cellule ben differenziate hanno una
diminuita capacità di produrre le costituenti della matrice.
Una diversa filosofia ed approccio all’ingegneria tissutale
prevede l’impiego di una fonte di cellule meno differenziate
ed il tentativo di ripercorrere le fasi embriologiche che il tessuto originale ha attraversato durante il suo sviluppo. Quindi, è necessaria una maggiore manipolazione delle cellule
mediante certi fattori di crescita e stimolazione meccanica.
Gli elementi più diffusi per l’ingegneria tissutale ortopedica
secondo questa filosofia sono quelli staminali degli adulti,
anche indicati come cellule progenitrici del tessuto connettivo. Esistono numerose fonti di queste cellule, rappresentate
da tessuto adiposo, tessuto sinoviale e cellule staminali. Dal
momento che si tratta di cellule pluripotenti, necessitano di
segnali e stimoli adeguati per guidarli verso la produzione di
una matrice extracellulare adatta all’applicazione che si
intende effettuare. Per l’ingegnerizzazione della cartilagine,
spesso è necessario utilizzare fattori di crescita condrogeni,
come il fattore di crescita trasformante ed altri membri della
superfamiglia delle proteine morfogeniche ossee e il fattore
di crescita insulino-simile (IGF).
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Oltre a queste due filosofie principali, ne esistono altre
due che tengono conto del momento dell’impianto del
costrutto. Mentre alcune strategie utilizzano l’applicazione
di cellule e della matrice ai difetti tissutali prima che queste
abbiano avuto la possibilità di produrre le costituenti della
matrice, altre consentono lo sviluppo delle cellule, la loro
produzione di matrice e la maturazione del tessuto in vitro
per periodi di tempo più prolungati prima del loro impiego
chirurgico. Un esempio del primo caso è dato dalle tecniche
utilizzate per i difetti cartilaginei a tutto spessore che preve-
183
dono la revisione chirurgica della parte lesa, la sutura di un
lembo di periostio al di sopra dell’area di cartilagine perduta e la successiva iniezione di cellule appena prelevate e carrier al di sotto del lembo periostale. All’opposto si trovano
le tecniche che applicano la fonte cellulare ad un carrier che
viene esposto ad una regolare infusione di un fattore di crescita stimolante oltre che a stimoli meccanici finalizzati a
spingere le cellule a produrre una quota massima di una
matrice extracellulare appropriata prima di utilizzare chirurgicamente il costrutto.
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184
Principles of external fixation for fracture repair
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
External skeletal fixation (ESF) is a system of bone stabilization in which pins or wires engage the affected bone
in a percutaneous fashion, and are attached to larger connecting struts that exist outside of the body. ESF types
include standard (or linear), circular or hybrid devices.
Each has certain advantages which can be used strategically to optimize post-operative outcome, depending on the
bone affected and the type of fracture.
closest to a joint, where fracture segments may be too small
to accept multiple pins. The thinner wires used with the circular system can engage these juxtarticular segments more
optimally. The rings are then attached to long rods which
will serve as struts for the attachment of clamps for the use
of standard transfixation pins elsewhere on the bone.
Biomechanics
Nomenclature
Linear fixators utilize pins to engage the segments of bone
above and below the fracture. Whereas full transfixation pins
enter percutaneously, and traverse both cortices to exit percutaneously on the side opposite to engage the connecting bar
on both sides of the limb, half transfixation pins only penetrate one skin surface while still engaging both cortices. Pins
can be smooth or threaded. Threaded pins may possess positive or negative profile threads. Pins are attached to connecting bars with a variety of clamps depending on which system
is used. Connecting bars vary widely with respect to their
composition and are typically made from carbon, titanium or
steel. Acrylic connecting bars can also be fashioned and used
with transfixation pins. The position and configuration of
connecting bars and transfixation pins has led to a classification system of linear ESFs which can be used to communicate and design apparatuses. Advances in the strength of the
materials comprising the connecting bars has led to a reduction in the necessary complexity of fixator frame design, and
the use of fewer transfixation pins, thus resulting in better
patient comfort, tolerance and frame longevity.
Circular external fixation, or ring fixators, are so named
because the connecting apparatus consists of a series of aluminum rings which either completely or incompletely, encircle the affected bone. Thin wires then engage the bone segments above and below the fracture in full fashion, thereby
being attached to a ring element on both sides of the limb. In
most cases, these wires will be tensioned to resist overt axial motion of the bone segments during weight bearing.
Advantages of ring fixators include the small diameter of
transfixing wires which are able to engage very small segments of bone, especially useful in the periarticular environment. Furthermore, most ring fixator designs allow some
small degree of axial micromotion which has been shown to
mechanically stimulate the fracture to heal more rapidly in
some circumstances.
Hybrid fixators are a combination of the aforementioned
systems. This usually consists of the use of a ring or rings
When designing an external fixation frame, one must consider both the biomechanics and also the biological effects
of applying that frame. With respect to the biomechanics of
fracture fixation, regardless of whether it is internal fixation
or external fixation, one must remember that fracture fixation is a race. It is a race between the mechanical failure of
the fixation device and the healing of the bone. The mechanical failure of external fixators typically occurs at the level of
the pin bone interface. Understanding this will allow the surgeon to focus on measures to preserve the health of transfixation pins to maximize the longevity of the fixator frame. To
this end, critical technical rules must be observed with
respect to pin placement. Positive profile pins should be
used whenever possible and placed in bicortical fashion.
Two to three pins should be placed in each bone segment.
Pins in each segment should be placed both close to the fracture and far away from the fracture to span the entire length
of the bone. When using positive-profile pins, predrilling is
recommended. This is to minimize the risk of bone
microfracture or superheating when placing the positiveprofile pin.
With respect to connecting bars, it is important to remember that triangular configurations are the strongest. Therefore, for very large dogs, the use of both full and half pins
that are connected with connecting bars oriented to one
another in a triangular fashion will resist compression, bending and torsional forces most optimally.
Bone Healing
One of the most important advantages with ESF is that it
can be applied in a minimally invasive fashion. In this way,
the surgeon may play a “gardener” versus a “carpenter” in
providing stability and regaining appropriate fracture apposition and alignment without disrupting the fracture
hematoma or devascularizing fragments. Many times, ESF
can be placed in a complete ‘closed’ fashion, in which the
bone is not exposed through an approach of any kind.
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Because this can sometimes be challenging without the use
of intraoperative fluoroscopy, an alternative strategy is
called the ‘open-but-do-not-touch’ technique, in which a
small approach is made over the fracture to achieve appropriate alignment and apposition with a minimum of manipulation. It has been demonstrated that comminuted diaphyseal fractures treated with minimal disruption of the fragments heal through bridging endosteal formation and that
the less invasive approaches can reduce healing time.
It is important to remember that fracture fixation is a race
between bone healing and implant failure. All ESF devices
will loosen over time. The most frequent point of loosening
occurs at the pin-bone interface. Thus concentrating efforts
on optimizing pin longevity will promote the mechanical
integrity of the fixation device most successfully, thus
increasing the chances of achieving bone healing. Techniques to ensure good pin health include applying the aforementioned positive-profile pins after pre-drilling. Both
microfracture, and thermal necrosis of the bone at the site of
pin placement can lead to premature pin loosening. In addition, areas of large soft tissue coverage should be avoided for
pin placement, because these overlying tissues will be irritated by the pins and result in more drainage which can preclude infection leading to osteomyelitis.
An interesting concept with respect to encouraging bone
healing with the use of external fixation is the process of
destabilization. This principle describes the intentional
weakening of a fixator frame over the course of fracture
treatment. This allows the bone to see more of the biomechanical load over time and the fixator frame less, and thus
should encourage the healing bone to generate more callus
and organize that callus quickly. There are a number of ways
to accomplish this, from the staged removal of certain parts
185
of a frame, to the removal of an IM pin, to increasing the distance of a connecting bar from the bone along the pins, to
actually removing pins. This obviously requires the completion of radiographs at frequent intervals post-operatively to
assess the level of healing.
ESF application
ESF can be applied to any long bone in the small animal
patient, and also in some specific instances of spinal fractures. Techniques of application as well as type of fixation
design will vary depending on the bone due largely to the
amount of soft tissue surrounding the bone as well as the
location of vital nerves and vessels that must be avoided
with the pins. Because of their distance from the body, distal extremity bones such as radius/ulna and tibia/fibula
fractures are amenable to circular fixators or type II linear
fixators. Proximal extremity fractures of both front and
hind limb possess zones adjacent to the body that are intolerable to the placement of full pins with medially positioned
connecting bars or pins and therefore require the use of
hybrid fixators, or type I linear fixators with intramedullary
pin tie-ins.
Care of an ESF post-operatively involves regular inspection of the frame and most-importantly pin sites to assess for
evidence of infection or irritation. It is important to place a
bandage around the ESF and especially to pack sponges
between the frame and underlying soft tissues, to minimize
their movement against the pins, which should greatly
decrease the amount of potential pin irritation. Again, maximizing pin health biomechanically preserves the fixator
more than anything else.
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186
Nuovi concetti nella fissazione ossea esterna
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
La fissazione scheletrica esterna (ESF) è un sistema di
stabilizzazione delle fratture in cui chiodi o fili metallici
vengono inseriti nell’osso colpito con una tecnica percutanea e poi uniti ad una struttura di connessione più grande
situata all’esterno del corpo. Si riconoscono dispositivi ESF
standard (o lineari), circolari o ibridi. Ognuno è certamente
caratterizzato da vantaggi che possono essere utilizzati in
modo strategico per ottimizzare l’esito postoperatorio, a
seconda dell’osso colpito e del tipo di frattura.
Nomenclatura
I fissatori lineari utilizzano chiodi che ingaggiano i segmenti di osso al di sopra ed al di sotto della frattura. Mentre
i chiodi per impianti bilaterali vengono introdotti per via
percutanea ed attraversano entrambe le corticali per fuoriuscire, sempre a livello percutaneo, sul lato opposto ed unirsi
alla barra di connessione su entrambi i lati dell’arto, quelli
per impianti monolaterali penetrano soltanto in una delle
superfici cutanee, pur ingaggiando sempre entrambe le corticali. I chiodi possono essere lisci o filettati. Questi ultimi
possono disporre di filetti a profilo positivo o negativo. I
chiodi vengono uniti alle barre di connessione con una varietà di morsetti che dipendono dal sistema utilizzato. Le barre
di connessione differiscono ampiamente per quanto riguarda
la composizione e sono tipicamente costituite di carbonio,
titanio o acciaio. Si possono anche realizzare delle barre di
connessione in materiale acrilico, usate con i chiodi per
impianti. La posizione e la configurazione di questi ultimi e
delle barre di connessione hanno portato ad un sistema di
classificazione dei fissatori esterni lineari che può essere utilizzato per comunicare e progettare i vari apparati. I progressi compiuti nel campo della robustezza dei materiali che
costituiscono le barre di connessione hanno consentito di
ridurre la complessità della configurazione del fissatore e di
utilizzare un minor numero di chiodi, il che esita in un maggior comfort del paziente, più tolleranza e maggior durata
della configurazione.
La fissazione esterna circolare, o ad anello, è così chiamata perché l’apparato di connessione è costituito da una
serie di anelli di alluminio che circondano completamente o
incompletamente l’osso colpito. Sottili fili metallici vengono inseriti come chiodi per impianti bilaterali nei segmenti
ossei, al di sotto ed al di sopra della frattura, e poi uniti ad
un elemento ad anello su entrambi i lati dell’arto. Nella maggior parte dei casi, questi fili verranno posti sotto tensione
per resistere all’evidente movimento assiale dei segmenti
ossei che si verifica quando l’arto viene posto sotto carico. I
vantaggi dei fissatori ad anello sono dati dal piccolo diametro dei fili che fungono da chiodi, che sono in grado di
ingaggiare segmenti ossei di dimensioni molto ridotte, il che
risulta particolarmente utile nell’ambiente periarticolare.
Inoltre, la maggior parte dei fissatori ad anello consente un
certo grado limitato di micromovimento assiale, che si è
dimostrato capace di stimolare meccanicamente la frattura
portandola in alcune circostanze a guarire più rapidamente.
I fissatori ibridi sono una combinazione dei sistemi sopracitati. Di solito sono costituiti dall’impiego di uno o più
anelli nelle sedi più prossime ad un’articolazione, dove i
segmenti fratturati possono essere troppo piccoli per accettare molteplici chiodi. I fili utilizzati con il sistema circolare, avendo un calibro minore, possono ingaggiare questi segmenti juxta-articolari in modo più ottimale. Gli anelli vengono poi fissati alle barre lunghe che servono da montanti
sui quali attaccare i morsetti da utilizzare per i chiodi standard inseriti in qualsiasi altro punto dell’osso.
Aspetti biomeccanici
Quando si progetta la configurazione di un fissatore esterno, è necessario tenere conto sia degli aspetti biomeccanici
che degli effetti biologici della sua applicazione. Per quanto
riguarda la biomeccanica della stabilizzazione delle fratture,
indipendentemente dal fatto che sia di tipo interno o esterno,
occorre ricordare che si tratta di una corsa. È una corsa fra il
cedimento meccanico del dispositivo di fissazione e la guarigione dell’osso. Il cedimento meccanico dei fissatori esterni avviene tipicamente a livello dell’interfaccia fra chiodo ed
osso. Conoscere questo fatto permette al chirurgo di focalizzare l’attenzione sulle misure finalizzate a preservare le corrette condizioni dei chiodi per impianti, in modo da prolungare al massimo la longevità del fissatore. A tal fine, è necessario osservare regole tecniche di importanza critica per
quanto riguarda l’inserimento di questi elementi nell’osso.
Ogni volta che sia possibile, è necessario utilizzare chiodi a
profilo positivo da inserire in modo che ingaggino entrambe
le corticali. In ciascun segmento osseo bisogna applicare due
o tre chiodi. I chiodi in ciascun segmento devono essere
posti sia vicino alla frattura che lontano da essa, per coprire
l’intera lunghezza dell’osso. Quando si utilizzano chiodi a
profilo positivo, si raccomanda di praticare preventivamente
un foro con un trapano. Ciò serve a ridurre al minimo il
rischio di microfrattura ossea o di surriscaldamento durante
l’inserimento del chiodo a profilo positivo.
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Per quanto riguarda le barre di connessione, è importante
ricordare che le configurazioni più robuste sono quelle triangolari. Di conseguenza, per i cani di taglia molto grande, l’uso di chiodi per impianti sia bilaterali che monolaterali connessi a barre orientate l’una rispetto all’altra in modo da formare un disegno triangolare consente di ottenere la migliore
resistenza possibile alla compressione, all’arcatura ed alle
forze di torsione.
Guarigione dell’osso
Uno dei più importanti vantaggi dei fissatori esterni è che
possono essere applicati con una tecnica dall’invasività minima. In questo modo, il chirurgo può comportarsi come un
“giardiniere” piuttosto che come un “carpentiere”, riuscendo a
conferire stabilità e recuperare l’appropriata apposizione della
copertura e l’allineamento corretto senza distruggere l’ematoma di frattura o determinare la perdita della vascolarizzazione
dei frammenti. Molto spesso, il fissatore può essere inserito in
modo completamente “chiuso”, per cui l’osso non viene esposto attraverso un approccio di alcun genere. Poiché questa operazione talvolta può essere difficile senza l’impiego della fluoroscopia intraoperatoria, si può utilizzare una strategia alternativa che viene detta “aprire ma non toccare”, nella quale si realizza un piccolo accesso al di sopra della frattura per ottenere
l’allineamento e l’apposizione appropriati con una manipolazione minima. È stato dimostrato che le fratture diafisarie comminute trattate in modo da evitare il più possibile la distruzione dei frammenti guariscono mediante formazione di un ponte
endostale e che gli approcci meno invasivi possono ridurre la
durata del periodo di guarigione.
È importante ricordare che la fissazione della frattura è
una corsa fra la guarigione dell’osso ed il cedimento degli
impianti. Tutti i dispositivi ESF si allentano col tempo. Il più
frequente punto di allentamento è localizzato a livello dell’interfaccia fra chiodo ed osso. Quindi, concentrare gli sforzi sull’ottimizzazione della longevità del chiodo promuove
più efficacemente l’integrità meccanica del dispositivo di
fissazione, aumentando le probabilità di giungere alla guarigione dell’osso. Le tecniche per assicurare una buona tenuta
del chiodo sono rappresentate dall’applicazione dei già citati impianti a profilo positivo dopo realizzazione preventiva di
un foro con il trapano. Sia la microfrattura che la necrosi termica dell’osso nella sede di inserimento del chiodo possono
portare ad un prematuro allentamento dello stesso. Inoltre,
per l’inserimento del chiodo è necessario evitare le aree
caratterizzate da una grande copertura di tessuti molli, perché questi verrebbero irritati degli impianti ed esiterebbero
in un maggiore drenaggio; in questo modo è possibile prevenire l’infezione che porta all’osteomielite.
187
Un concetto interessante relativo alla promozione della
guarigione dell’osso con l’impiego della fissazione esterna è
il processo di destabilizzazione. Questo principio prevede
l’indebolimento intenzionale della configurazione di un fissatore durante il decorso del trattamento della frattura. Ciò
consente all’osso di veder aumentare il proprio carico biomeccanico nel tempo parallelamente alla riduzione della
configurazione del fissatore e, quindi, dovrebbe favorire la
guarigione ossea portando alla formazione di una maggior
quantità di callo ed alla sua rapida organizzazione. Esistono
molti modi per ottenere questo risultato, dalla rimozione per
stadi di certe parti della configurazione alla asportazione di
un chiodo endomidollare, all’aumento della distanza fra una
barra di connessione e l’osso lungo i chiodi, sino all’effettiva eliminazione degli stessi. Ciò ovviamente richiede l’esecuzione di indagini radiografiche ad intervalli frequenti nel
periodo postoperatorio per valutare il livello di guarigione.
Applicazione di un fissatore esterno
Nei piccoli animali il fissatore esterno può essere utilizzato per qualsiasi osso lungo ed anche in alcuni casi specifici
di fratture spinali. Le tecniche di applicazione nonché il tipo
di configurazione adottata variano in funzione dell’osso e
sono dovute in gran parte alla quantità di tessuti molli che
circondano l’osso stesso nonché alla localizzazione delle
strutture nervose e vascolari vitali, che bisogna evitare con i
chiodi. A causa della loro distanza dal corpo, le fratture delle ossa delle estremità distali come il radio/ulna e la
tibia/fibula possono venire trattate con fissatori circolari
oppure lineari di tipo II. Le fratture prossimali delle estremità degli arti, sia anteriori che posteriori, sono contraddistinte da zone adiacenti al corpo che non tollerano l’applicazione di chiodi per impianti bilaterali con barre di connessione o chiodi posizionati in sede mediale e quindi richiedono l’impiego di fissatori ibridi, oppure lineari di tipo I con un
chiodo endomidollare.
La cura di un fissatore esterno nel periodo postoperatorio
prevede l’ispezione regolare della configurazione e, cosa
più importante, delle sedi di inserimento dei chiodi per
valutare l’eventuale comparsa di segni di infezione o irritazione. È importante applicare un bendaggio intorno al fissatore e in particolare inserire dei tamponi come imbottitura fra la configurazione ed i tessuti molli sottostanti, in
modo da ridurre al minimo il loro movimento contro i chiodi, il che dovrebbe notevolmente diminuire la potenziale
irritazione provocata dagli impianti. Anche in questo caso,
massimizzare dal punto di vista biomeccanico la guarigione
a livello dei chiodi contribuisce più di qualsiasi altra cosa a
preservare il fissatore.
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188
Understanding the canine meniscus: anatomy,
function, disorders and treatment
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
Anatomy
The knee menisci are paired C-shaped fibrocartilage wedges
that are interpositioned between the femoral and tibial
condyles. Knee menisci are predominantly comprised of collagen Type I and are rich with glycosaminoglycans. The extracellular matrix is maintained by the cellular constituents of the
menisci, the meniscal fibrochondrocytes (MFCs). Meniscal
fibrochondrocytes vary in their appearance and ability to
respond to stimuli depending on their location within the menisci. Whereas those cells inhabiting particularly the femoral
meniscal surface are more fibroblast-like, the cells deeper within the tissue are more similar to chondrocytes in appearance and
function. The lateral meniscus tends to be larger than the medial meniscus with respect to its thickness and radius. Both medial and lateral menisci are attached to the tibial plateau with cranial and caudal meniscotibial ligaments. In addition the caudal
pole of the lateral meniscus is attached to the femur with the lateral meniscofemoral ligament. The menisci are attached to one
another by way of the intermeniscal ligament. The medial
meniscus possesses an intimate association with the medial collateral ligament and joint capsule, and as such is less mobile
than the lateral meniscus during periods of joint motion. The
menisci receive their blood supply from branches of the medial
and lateral genicular arteries by way of the perimeniscal capsular plexus. Vessels permeating the meniscal tissue from the
plexus penetrate no more than 25% of the width of the tissue,
also referred to as the ‘red zone’. This leaves the axial component devoid of vessels and can be referred to as the ‘white zone’.
Therefore, the majority of the tissue is left to receive nutrition
through diffusion of nutrients from the synovial fluid during
periods of joint motion.
The cranial and caudal poles of the menisci are also highly innervated with the majority of nerve fibers accompanying vessels thus likely serving in a vasomotor function.
However, the presence of additional nerve fibers not associated with the vasculature has lead to theories regarding their
roles in sensory feedback mechanisms of the knee. It is suspected that the concentrations of neural elements in the cranial and caudal horns act as mechanoreceptors to detect tension during periods of extreme knee extension and flexion.
Function
Although once believed to serve no integral purpose, it is
now known that the menisci are essential in maintaining the
normal integrity and function of the knee. They do so primarily through alleviating femoral-tibial incongruity, bearing and distributing load, assisting with joint lubrication and
providing shock-absorption to the joint. The menisci are
capable of performing these functions because of their
unique structure-function relationship which is dependent
upon their complex extracellular matrix. The majority of
peripheral collagen fibers are oriented in a circumferential
fashion which, combined with the action of the meniscotibial ligaments securing the meniscal poles to the tibia, allow
the menisci to convert compressive forces transmitted axially from the femur into tensile forces, also known as ‘hoop
strains’. Radially oriented collagen fibers or ‘tie fibers’ run
perpendicular to the longitudinal bands thereby binding
them together. The presence of glycosaminoglycans assists
with imbibition of water, which when compressed will
exude forth from the meniscal tissue in viscoelastic fashion,
giving the tissue excellent absorptive resiliency when subjected to rapid loading. During periods of knee flexion and
extension the menisci will actually move over the surface of
the tibial plateau. As the knee flexes, both menisci move
caudally, the lateral being able to experience greater excursion than the less mobile medial meniscus. Conversely, during extension, the menisci slide cranially, again with the lateral being able to move more. During periods of motion, it
is now thought that the menisci aid in sensation of knee position in a proprioceptive function through the presence of
type I and II nerve endings. This function is thought to aid in
the maintenance of knee stability.
Disease
Meniscal injuries are commonplace in several mammalian species. Whereas humans can experience primary
meniscal tears, dogs typically will only suffer meniscal
damage secondary to rupture of the cranial cruciate ligament. Secondary to the ruptured ligament, the knee can be
subject to excessive and unrestrained internal torsional
forces such that the femur can pivot on the tibial plateau on
the medial condyle, thus subjecting the medial meniscus to
a combination of compression and shearing forces. The lateral meniscus is also frequently damaged secondary to cranial cruciate ligament disease in dogs. A variety of different
types of meniscal injuries can ensue. The most frequently
experienced is the longitudinal tear in the caudal pole of the
medial meniscus. The caudal poles of the menisci act as
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passive restraints to cranial tibial translation. Once the cranial cruciate ligament has been ruptured and the proximal
tibia can slide forward with respect to the femur during
weight bearing, the caudal poles can be pinched between
the femur and tibia. Because the medial meniscus is less
mobile, it is likely less able to displace caudally during
weight bearing to avoid this crushing type of injury. Longitudinal injuries can result in the displacement of the torn
aspect of the tissue which can become entrapped and interfere with the mechanical function of the knee. These are
sometimes referred to as ‘bucket-handle’ tears.
A number of diagnostic tools have been investigated for
the evaluation of the meniscus in the human, however these
are somewhat limited in the veterinary patient due to cost
and availability. Novel diagnostic modalities that will likely
see increased use in the small animal patient include ultrasound and magnetic resonance imaging. A minimally invasive surgical approach to meniscal evaluation currently
being used by a number of veterinary surgeons is exploratory arthroscopy.
Treatment
The majority of meniscal tears in both humans and dogs
require surgical intervention. In the human, early diagnosis
of meniscal injuries and sensitive determinants of injury
location have allowed a wider variety of repair strategies.
However these types of treatment are dictated by the
anatomic location and the extent of the injury. Because of
the relationship to healing potential, meniscal injuries are
typically classified anatomically based on the location of
occurrence with respect to the tissue’s blood supply. Relatively small tears in the vascular portion of the menisci, or
red-red tears, can heal spontaneously. In people, tears
longer than 10 mm in the vascular zone repaired with
sutures or other fixation devices have a good prognosis for
appropriate healing. However, injuries to the large avascular portion of the meniscus, or white-white tears, do not
heal spontaneously and are not typically considered candidates for primary repair.
The majority of meniscal tears in the small animal patient
are definitely diagnosed secondarily while the knee is undergoing a procedure for the torn cruciate ligament. Most veterinary surgeons treat meniscal tears in the dog through subtotal meniscectomy. During this procedure, damaged meniscus is removed while grossly normal tissue is preserved in an
attempt to maximize remaining function. For large white-
189
white tears in the human, arthroscopic partial meniscectomy
is also completed and has become the most common orthopedic procedure currently performed in the United States,
with close to one million cases operated annually.
Removal of meniscal tissue is not without consequence.
Secondary osteoarthritis of the knee inevitably occurs and is
directly related to the amount of remaining meniscal tissue.
Although fibrovascular tissue can form in the meniscal
defect resulting from surgical meniscectomy, the size, shape,
composition, and material properties of this new tissue, in
conjunction with the time frame of formation, typically
result in loss of the essential meniscal function.
Because of the vital function the menisci serve in the
knee, and the risk of meniscal damage during cranial cruciate ligament disease, prophylactic surgical techniques have
been suggested to try to prevent the medial meniscus from
being damaged if it is still intact at the time the cruciate-deficient knee is undergoing stabilization. This technique is
called the meniscal release and either involves transection of
the medial caudal meniscotibial ligament or making a midbody transection to the level of the joint capsule. The theory
behind this procedure is that it allows the medial meniscus
to become more mobile, and thus would allow the caudal
pole to displace itself out of the way of the femoral condyle
during periods of excessive internal torsion or cranial tibial
translation. However, as is seen with the lateral meniscus,
meniscal mobility is not a guarantee for protection and
despite the releasing technique, subsequent meniscal injury
can still occur. It is important to note that transection of neither medial caudal meniscotibial ligament nor mid-body of
the meniscus is an innocuous procedure. Both procedures
obliterate the longitudinal collagen fibers and completely
disrupt the function of the meniscus.
A large research movement is afoot to determine alternative treatment options to meniscectomy for avascular meniscal injuries. Of the currently investigated alternatives, those
that utilize tissue engineering strategies appear to have the
most potential for success.
References
Thieman KM, Tomlinson JL, Fox DB et al. Effect of menical release on rate
of subsequent meniscal tears and owner-assessed outcome in dogs
with cruciate disease treated with tibial plateau leveling osteotomy.
Vet Surg. 2006, 35, 705-710.
Pozzi A, Kowaleski MP, Apelt D et al. Effect of medial meniscal release on
tibial translation after tibial plateau leveling osteotomy. Vet Surg.
2006, 35, 486-494.
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190
Le patologie del menisco nel cane
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
Anatomia
Funzione
I menischi del ginocchio sono due fibrocartilagini
accoppiate, a forma di C e con sezione a cuneo, che si
interpongono fra i condili femorali e tibiali. I menischi
sono costituiti principalmente da collagene di tipo I e
sono ricchi di glicosaminoglicani. La matrice extracellulare viene mantenuta dai costituenti cellulari dei menischi, i fibrocondrociti meniscali (MFC). Queste cellule
variano per aspetto e capacità di rispondere agli stimoli a
seconda della loro localizzazione all’interno dei menischi. Mentre quelle che vivono in particolare in corrispondenza della superficie meniscale femorale sono più
simili a fibroblasti, quelle situate più profondamente
all’interno dei tessuti somigliano di più ai condrociti sia
per l’aspetto che per la funzione.
Il menisco laterale tende ad essere più grande di quello
mediale sia per spessore che per raggio. Sia il menisco laterale che quello mediale sono uniti al plateau tibiale da legamenti menisco-tibiali craniali e caudali. Inoltre, il polo
caudale del menisco laterale è connesso al femore dal legamento meniscofemorale laterale. I menischi sono uniti gli
uni agli altri dal legamento intermeniscale. Il menisco
mediale è intimamente associato al legamento collaterale
mediale ed alla capsula articolare, e come tale è meno
mobile di quello laterale durante i periodi di movimento
dell’articolazione. I menischi ricevono il proprio apporto
ematico dai rami delle arterie genicolari mediali e laterali,
attraverso il plesso capsulare perimeniscale. I vasi che permeano il tessuto meniscale a partire dal plesso penetrano
per non più del 25% dello spessore del tessuto, che viene
anche indicato come “zona rossa”. Ciò lascia la componente assiale priva di vasi, per cui può essere indicata come
la “zona bianca”. Di conseguenza, la maggior parte del tessuto viene lasciata a ricevere la nutrizione per diffusione
dei principi nutritivi dal fluido sinoviale durante i periodi
di movimento articolare.
I poli craniali e caudali dei menischi sono anche altamente innervati dalla maggior parte delle fibre nervose che
accompagnano i vasi e quindi probabilmente svolgono una
funzione vasomotoria. Tuttavia, la presenza di fibre nervose aggiuntive non associate alla vascolarizzazione ha portato a formulare teorie relative al loro ruolo nei meccanismi
di feed-back sensoriale del ginocchio. Si sospetta che le
concentrazioni degli elementi nervosi nelle corna craniali e
caudali agiscano da meccanocettori per individuare la tensione durante i periodi di estrema estensione e flessione del
ginocchio.
Benché una volta si ritenesse che non svolgessero alcuno
scopo integrale, è oggi noto che i menischi sono essenziali per
mantenere la normale integrità e funzionalità del ginocchio.
Ottengono questo risultato principalmente alleviando l’incongruenza femorotibiale, sopportando e distribuendo i carichi,
favorendo la lubrificazione articolare e svolgendo una funzione di ammortizzatore a livello del ginocchio. I menischi sono
in grado di assolvere questo compito grazie alla loro esclusiva relazione fra struttura e funzione, che dipende dalla loro
complessa matrice extracellulare. La maggior parte delle fibre
collagene periferiche è orientata in senso circonferenziale, il
che, unitamente all’azione dei legamenti meniscotibiali che
assicurano i poli meniscali alla tibia, consente ai menischi di
convertire le forze compressive trasmesse assialmente dal
femore in forze di tensione, anche note come “stiramenti circolari”. Le fibre collagene orientate radialmente o “fibre di
vincolo” decorrono perpendicolarmente alle bande longitudinali e quindi le legano insieme. La presenza di glicosaminoglicani contribuisce al processo tramite l’imbibizione di
acqua, che quando viene compressa fuoriesce per essudazione dal tessuto meniscale, in modo viscoelastico, conferendo al
tessuto stesso un’eccellente capacità elastica di assorbimento
quando viene sottoposto ad un rapido carico. Durante i periodi di flessione ed estensione del ginocchio, i menischi in realtà si muovono sopra la superficie del plateau tibiale. Quando
il ginocchio si flette, entrambi i menischi si spostano caudalmente, con quello laterale in grado di compiere un’escursione
più ampia di quello mediale, meno mobile. Al contrario,
durante l’estensione, i menischi scivolano cranialmente,
anche in questo caso con quello laterale capace di muoversi di
più. Durante i periodi di movimento, si ritiene ora che i menischi contribuiscano a percepire la sensazione della posizione
del ginocchio svolgendo una funzione propriocettiva grazie
alla presenza di terminazioni nervose di tipo I e II. Si pensa
che questa funzione contribuisca al mantenimento della stabilità del ginocchio.
Malattie
I traumi meniscali sono un evento comune in molte specie
di mammiferi. Nell’uomo si possono riscontrare lacerazioni
primarie del menisco, mentre nel cane il danno meniscale di
norma si osserva solo come fenomeno secondario alla rottura
del legamento crociato craniale. Secondariamente a tale rottura, il ginocchio può venire sottoposto a forze di torsione inter-
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na eccessive e non più trattenute, per cui il femore può ruotare sul plateau tibiale sul condilo mediale, sottoponendo così il
menisco mediale ad una combinazione di forze di compressione e di taglio. Anche il menisco laterale viene frequentemente danneggiato secondariamente ad un processo patologico che colpisce il legamento crociato craniale del cane. È possibile riscontrare una gran varietà di differenti tipi di lesioni
meniscali. Quella più frequente è la lacerazione longitudinale
a livello del polo caudale del menisco mediale. I poli caudali
dei menischi agiscono da mezzi di contenimento passivi che
si oppongono alla traslazione tibiale craniale. Una volta che si
sia verificata la rottura del legamento crociato craniale e che
la parte prossimale della tibia possa scivolare in avanti rispetto al femore durante il carico, i poli caudali possono venire
pizzicati fra il femore e la tibia. Poiché è meno mobile, il
menisco mediale è probabilmente meno in grado di dislocarsi
caudalmente durante il carico per evitare questa lesione da
schiacciamento. Le lesioni longitudinali possono esitare nella
dislocazione della parte lacerata del tessuto, che può venire
intrappolata ed interferire con la funzione meccanica del
ginocchio. Questi quadri vengono talvolta indicati col nome di
lacerazioni “a manico di secchio”.
Per la valutazione del menisco nell’uomo sono stati studiati numerosi metodi diagnostici, che però sono ancora
abbastanza limitati in ambito veterinario a causa del costo e
della scarsa diffusione. Le nuove modalità diagnostiche che
vedranno probabilmente un aumento del loro impiego nella
clinica dei piccoli animali sono l’ecografia e la risonanza
magnetica. Numerosi chirurghi veterinari utilizzano attualmente l’artroscopia esplorativa, che costituisce un approccio
operatorio dall’invasività minima per la valutazione del
menisco.
Trattamento
La maggior parte delle lacerazioni meniscali sia nell’uomo che nel cane richiede l’intervento chirurgico. Nell’uomo,
la diagnosi precoce delle lesioni meniscali e la possibilità di
disporre di criteri sensibili per determinare la localizzazione
della lesione hanno consentito una più ampia varietà di strategie di riparazione. Tuttavia, questi tipi di trattamento sono
condizionati dalla localizzazione anatomica e dall’entità del
danno. A causa della relazione con la potenziale guarigione,
le lesioni meniscali vengono tipicamente classificate su base
anatomica facendo riferimento alla localizzazione rispetto
all’apporto vascolare del tessuto. Le lacerazioni relativamente piccole nella porzione vascolare dei menischi, o lacerazioni rosso-rosso, possono guarire spontaneamente. Nell’uomo, lacerazioni più lunghe di 10 mm nella zona vascolare riparate con suture o altri dispositivi di fissazione hanno
una buona prognosi per una guarigione appropriata. Invece,
le lesioni a carico della grande porzione non vascolarizzata
del menisco, o lacerazioni bianco-bianco, non guariscono
spontaneamente e di norma non sono considerate candidate
alla riparazione primaria.
In genere nelle lacerazioni meniscali dei piccoli animali la
diagnosi definitiva viene formulata secondariamente, mentre
il ginocchio viene sottoposto ad un intervento per la lacerazione del legamento crociato. La maggior parte dei chirurghi
191
veterinari tratta le lacerazioni meniscali del cane mediante
meniscectomia subtotale. Durante questa procedura, il menisco danneggiato viene rimosso, mentre il tessuto macroscopicamente normale viene preservato nel tentativo di massimizzare il recupero funzionale. Per le grandi lacerazioni
bianco-bianco nell’uomo, viene anche eseguita la meniscectomia parziale per via artroscopica, che è diventata la più
comune procedura ortopedica eseguita negli Stati Uniti, con
quasi un milione di casi operati all’anno.
La rimozione del tessuto meniscale non è priva di conseguenze. Si verifica inevitabilmente un’osteoartrite secondaria del ginocchio che è direttamente correlata alla quantità di
tessuto meniscale residuo. Benché in seguito alla meniscectomia chirurgica a livello del difetto meniscale si possa formare del tessuto fibrovascolare, le dimensioni, la forma, la
composizione e le proprietà materiali di questo nuovo tessuto, in associazione con il periodo di tempo richiesto dalla sua
formazione, esitano tipicamente nella perdita della forma
meniscale essenziale.
Poiché la funzione vitale dei menischi si svolge a livello
del ginocchio, ed esiste il rischio di un danno meniscale
durante un processo patologico a carico del legamento crociato craniale, sono state suggerite tecniche chirurgiche profilattiche finalizzate a cercare di prevenire il danneggiamento del menisco mediale eventualmente ancora integro
nel momento in cui un ginocchio con lesioni del crociato
viene sottoposto a stabilizzazione. Questa tecnica viene detta rilascio o liberazione meniscale e comprende sia la resezione del legamento meniscotibiale caudale mediale che la
realizzazione di una scontinuazione a metà corpo sino a
livello della capsula articolare. La teoria che sta alla base di
questa procedura è che in questo modo si consente al menisco mediale di diventare più mobile e quindi si permette al
polo caudale di spostarsi dal percorso del condilo femorale
durante i periodi di eccessiva torsione interna o di traslazione tibiale craniale. Tuttavia, come si osserva nel menisco
laterale, la mobilità meniscale non è una garanzia di protezione e, nonostante la tecnica di rilascio, si possono ancora
avere successivi danni meniscali. È importante notare che
né la scontinuazione del legamento meniscotibiale caudale
mediale né quella a metà corpo del menisco sono procedure innocue. Entrambe determinano la perdita delle fibre collagene longitudinali e distruggono completamente la funzione del menisco.
È in corso una notevole attività di ricerca per determinare
opzioni terapeutiche alternative alla meniscectomia per le
lesioni meniscali avascolari. Fra le alternative attualmente
oggetto di studio, sembrano avere il maggior potenziale di
successo quelle che utilizzano le strategie di ingegnerizzazione tissutale.
Bibliografia
Thieman KM, Tomlinson JL, Fox DB et al. Effect of menical release on rate
of subsequent meniscal tears and owner-assessed outcome in dogs
with cruciate disease treated with tibial plateau leveling osteotomy.
Vet Surg. 2006, 35, 705-710.
Pozzi A, Kowaleski MP, Apelt D et al. Effect of medial meniscal release on
tibial translation after tibial plateau leveling osteotomy. Vet Surg.
2006, 35, 486-494.
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192
TPLO principles, patient selection
and preoperative planning
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
TPLO Principles
In the veterinary surgical vocabulary, the TPLO procedure, or tibial plateau leveling osteotomy, refers to the alteration of the proximal tibial joint reference angle by the performance of a dome or radial osteotomy in the sagital plane
for the purpose of stabilizing the cranial cruciate deficient
joint. Other types of osteotomies such as opening, neutral,
chevron, intrarcitular or closing wedges can accomplish the
same task, however over the past 8 years, the most frequent
technique has employed the use of the dome osteotomy.
When examined in the sagital plane, the proximal canine
tibia possesses a joint orientation line that intersects with the
mechanical axis at approximately 26 degrees from perpendicular. This angle has been much studied and is referred to in
the literature as the tibial slope, tibial plateau angle (TPA) or
the complement of the mechanical proximal caudal tibial
angle (mPTCdA). Recent research has demonstrated that
this angle may be breed-dependent.
The TPLO procedure is geared toward alleviating cranial
tibial thrust, which is the dynamic instability of the canine
cruciate-deficient stifle during weight-bearing. Cranial tibial
thrust is the cranially-oriented tibial translation that results
from femoral tibial compression from both weight bearing
forces and contraction of the gastrocnemius, hamstring and
quadriceps muscle groups in the cruciate deficient stifle. In
the normal stifle, the cranical cruciate ligament would resist
cranial tibial thrust. The purpose of the TPLO procedure is
then to provide functional stifle stability during the stance
phase of the gait cycle by eliminating cranial tibial thrust.
The completion of a TPLO induces converts cranial tibial
thrust into caudal tibial thrust, thus increasing strain on the
caudal cruciate ligament and stabilizing the joint during
weight bearing.
the current standard of care for most veterinary canine
patients. However, other very successful techniques exist,
including the aforementioned extracapsular suturing techniques, and the tibial tuberosity advancement procedure.
Whereas most dogs with cranial cruciate ligament rupture
would be a candidate for any of the surgeries mentioned
here, some patient-specific criteria may dictate why the
TPLO would be advantageous. Although a direct relationship has not been shown, speculation still surrounds the possible causal effect of tibial slope on cranial cruciate ligament
rupture. Regardless, a percentage of cases is seen clinically
that have tibial slopes that can be considered excessive
(>30°). For those cases, completing another stifle stabilizing
procedure may not fully eliminate the cranial tibial thrust.
Although a recent study argues against this supposition, it
should be noted that dogs with slopes greater than 30° were
not evaluated. Therefore, it is still commonly held that dogs
with excessive slope may show the most improvement from
a leveling osteotomy. An advantage of the TPLO procedure
is that rotational corrections of tibial torsional deformities
can be made at the time of the leveling procedure. Torsional
deformities of the tibia have been suspected as being contributory to cranical cruciate ligament disease and patellar
luxation. Thus presenting dogs with cranial cruciate ligament rupture and concomitant torsional deformity may be
optimally treated with TPLO. Patients that are not condidates for the TPLO procedure would be any dog that is of a
size that is not compatible with the surgeons osteotomy
equipment. Another major criteria for exclusion would
include those dogs with traumatically-induced cranial cruciate ligament rupture that has concurrent compromise of the
caudal cruciate ligament since the strain on the caudal cruciate ligament increases following the TPLO procedure.
Preoperative Planning
Patient Selection
Historically, the TPLO procedure was limited to largebreed dogs only due to limitations in sizing of the appropriate saws and implants. With the popularity of the procedure,
came the advent of differently-sized saw blades and sizespecific plates for post-correctional stabilization. The TPLO
procedure has thus been now described for all sizes of dogs
and even cats. Despite recent reports failing to show advantages in clinical outcome of dogs undergoing TPLO versus
extracapsular suture techniques, the procedure has become
Orthogonal radiographs are required to plan for the corrective dome osteotomy employed in the TPLO procedure.
Frontal plane radiographs are used to assess if torsional
deformities of the tibia are present. If the tibia is normal and
void of torsional deformity, the stifle should appear straight
on the frontal plane radiographs, with the fabella bisected by
the femoral cortices, and the center of the patella bisecting
the mid-femur. The tibiotarsal joint should also be straight
such that the medial cortex of the calcaneous should bisect
the intermediate ridge of the distal tibia. Radiographic evi-
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dence of torsional rotation may be addressed at the time of
surgery at the discretion of the surgeon. Sagital plane radiographs of the tibia are used to plan the actual osteotomy.
First the mechanical axis of the tibia in the sagital plane is
determined and is defined as the straight line running
between the intercondylar eminences proximally to the center of a best-fit circle superimposed over the talus distally.
The joint orientation line of the stifle is determined either by
finding the tangential line to the medial tibial condyle, or by
defining points at the cranial and caudal most aspects of the
tibial slope, and drawing a straight line through them. The
intersection of the proximal tibial joint orientation line and
tibial sagital plane mechanical establishes the TPA which is
measured from a line perpendicular to the mechacnial axis.
Next the size of the saw blade to be used is determined.
Standard sizes of saw blades that are commonly available
are named for the radius that defines the arced blade: 30mm,
24mm, 18mm and 12mm. Transparent templates are useful
for preoperatively sizing the blade on the films. Remember
that the saw blades will cut an arc in the bone, and an arc is
simply a fraction of a circle. The circle that constitutes the
arced cut should be centered over the intercondylar eminences of the proximal tibia. Optimally, the size blade that is
chosen will be able to be centered as described and cut an arc
with the following criteria:
1) The cranioproximal portion of the osteotomy should exit
the bone cranial to intermeniscal ligament
2) The caudodistal portion of the osteotomy should exit the
bone roughly perpendicular to the caudal cortex of the
tibia, or angled slightly proximally to it.
3) Be positioned in a proximal-distal relationship to allow
just enough room proximally to apply the designated
number of screws through the proximal portion of the
chosen TPLO plate.
4) Not be so big as to compromise the tibial crest: the optimal cut should actually allow the remaining tibial crest to
widen toward its base following the cut, not taper to
become more narrow.
193
This arc can be drawn on the pre-operative radiographs, or
a copy of the radiographs. Many surgeons are now measuring the distance from the most prominent aspect of the tibial
crest caudally in perpendicular fashion until the osteotomy is
reached. This number is used intra-operatively to establish a
reference mark for the cranial position of the saw.
Once the saw blade size is chosen, then those two numbers (radius of the arced blade and the tibial slope) are used
to determine how much rotation of the tibial slope is
required to reduce the slope to ~5° in millimeters (X). This
is determined by the trigonometric formula:
X(mm) = (2π(saw blade diameter))(TPA-5°/360°)
Therefore, if you measured the TPA to be 26°, and wanted to use the 24mm saw blade, and wanted the post-correctional TPA to be 5°, the calculation would be:
X(mm) = (2π24mm)(21°/360°)
X(mm) = 8.8mm
This means that after completing the dome osteotomy
intra-operatively, you would rotate the tibial plateau along
the arced cut a total of 8.8mm to correct the TPA from the
measured 26° to 5°.
Additional Reading
Warzee CC, Dejardin LM, Arnoczky SP et al. Effect of tibial plateau leveling on cranial and caudal tibial thrusts in canine cranical cruciate –
deficient stifles: an in vitro experimental study. Vet Surg 30: 278-286:
2001.
Havig ME, Dyce J, Kowaleski MP et al. Relationship of tibial plateau slope to limb function in dogs treated with a lateral suture technique for
stabilization of cranial cruciate ligament deficient stifles. Vet Surg:
245-251: 2007
Kowaleski MP, McCarthy RJ. Geometric analysis evaluating the effect of
tibial plateau leveling osteotomy position on postoperative tibial plateu slope. Vet Comp Orthop Trauma 17:30-34: 2004.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
194
Attualità e perfezionamento della TPLO
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
Principi della TPLO
Nel vocabolario chirurgico veterinario, l’intervento di
TPLO, o osteotomia di livellamento del plateau tibiale, indica l’alterazione dell’angolo di riferimento dell’articolazione
tibiale prossimale mediante l’esecuzione di una osteotomia a
cupola o radiale eseguita lungo il piano sagittale allo scopo
di stabilizzare l’articolazione colpita da un’anomalia del
legamento crociato craniale. Per lo stesso scopo si possono
effettuare altri tipi di osteotomie, come quelle cuneiformi ad
angolo aperto, neutre, chevron, intrarticolari o ad angolo
chiuso; tuttavia, nell’arco degli ultimi otto anni, la tecnica
più frequentemente impiegata è stata l’osteotomia a cupola.
Quando viene esaminata lungo il piano sagittale, la parte
prossimale della tibia del cane presenta una linea di orientamento dell’articolazione che interseca l’asse meccanico a
circa 26° dalla perpendicolare. Questo angolo è stato molto
studiato e viene indicato in letteratura come inclinazione
tibiale, angolo del plateau tibiale (TPA) o complemento dell’angolo tibiale caudale prossimale meccanico (mPTCdA).
Una recente ricerca ha dimostrato che questo angolo può
essere dipendente dalla razza. L’intervento di TPLO è mirato ad alleviare la spinta tibiale craniale, che è l’instabilità
dinamica del ginocchio colpito da difetti del legamento crociato nel cane quando l’arto viene posto sotto carico. La
spinta tibiale craniale è la traslazione tibiale orientata cranialmente che deriva dalla compressione tibiale femorale da
parte delle forze di carico del peso e della contrazione dei
gruppi muscolari del gastrocnemio, dei muscoli posteriori
della coscia e del quadricipite nel ginocchio con lesioni del
crociato. Nell’articolazione normale, il legamento crociato
craniale si oppone alla spinta tibiale craniale. Lo scopo dell’intervento di TPLO è quindi quello di assicurare una stabilità funzionale del ginocchio durante la fase di appoggio del
ciclo del passo eliminando la spinta tibiale craniale. Il completamento della TPLO induce la conversione della spinta
tibiale craniale in spinta tibiale caudale, aumentando così la
tensione esercitata sul legamento crociato caudale e stabilizzando l’articolazione quando l’arto viene posto sotto carico.
Selezione del paziente
Storicamente, l’intervento di TPLO è stato limitato ai cani
delle razze di grossa taglia soltanto a causa dei vincoli imposti dalle dimensioni di seghe ed impianti appropriati. Con la
sempre maggiore diffusione dell’intervento, si è avuta la
comparsa di lame da sega di dimensioni differenti e di placche di taglia specifica per la stabilizzazione successiva alla
correzione. L’intervento di TPLO è stato quindi ora descritto per cani di tutte le taglie e persino per il gatto. Benché le
recenti segnalazioni non siano riuscite a dimostrare i vantaggi dell’esito clinico dei cani sottoposti a TPLO in confronto
alle tecniche di sutura extracapsulare, questa procedura è
diventata lo standard corrente per il trattamento della maggior parte dei casi in medicina veterinaria. Tuttavia, esistono
altre tecniche di notevole successo, come quelle già citate di
sutura extracapsulare, e la procedura di avanzamento della
tuberostità tibiale. La maggior parte dei cani con rottura del
legamento crociato craniale sarebbe candidata ad uno qualsiasi degli interventi chirurgici citati in questa sede, ma alcuni criteri specifici per il paziente possono imporre la TPLO
a causa di determinati vantaggi che comporta. Benché non
sia stata dimostrata una relazione diretta, si ipotizza ancora
il possibile effetto causale dell’inclinazione della tibia sulla
rottura del legamento crociato craniale.
Indipendentemente da ciò, si osserva clinicamente una certa percentuale di soggetti con inclinazioni tibiali che possono
essere considerate eccessive (> 30°). Per questi casi, l’esecuzione di un altro intervento di stabilizzazione del ginocchio
potrebbe non riuscire ad eliminare completamente la spinta
tibiale craniale. Benché un recente studio abbia fornito degli
argomenti contro questa supposizione, va notato che non
sono stati valutati cani con inclinazioni superiori a 30°. Di
conseguenza, è ancora convinzione comune che negli animali di questa specie che presentano un’inclinazione eccessiva i
maggiori miglioramenti si possano ottenere in seguito ad
un’osteotomia livellante. Un vantaggio dell’intervento di
TPLO è che al momento della procedura di livellamento è
possibile effettuare le correzioni rotazionali delle deformità
torsionali tibiali. Queste ultime sono state sospettate come
fattori capaci di contribuire alla patologia del legamento crociato craniale ed alla lussazione rotulea. Quindi, nei cani che
vengono portati alla visita con rottura del legamento crociato
craniale e concomitante deformità torsionale, la TPLO può
costituire il trattamento ottimale. I pazienti che non sono candidati all’intervento di TPLO sarebbero rappresentati da tutti
i cani di taglia tale da non risultare compatibile con la dotazione osteotomica del chirurgo. Un altro dei principali criteri
di esclusione sarebbe rappresentato da quei cani con rottura
traumatica del legamento crociato craniale che presentano
una concomitante compromissione di quello caudale, dal
momento che in seguito all’intervento di TPLO la tensione
esercitata su quest’ultimo aumenta.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Pianificazione preoperatoria
Per pianificare l’osteotomia correttiva a cupola impiegata
nell’intervento di TPLO sono necessarie delle radiografie
riprese in proiezione ortogonale. Le immagini radiografiche
del piano frontale vengono utilizzate per valutare l’eventuale presenza di deformità torsionali della tibia. Se quest’ultima è normale e quindi non presenta deformazioni da torsione, il ginocchio deve apparire diritto nelle radiografie sul
piano frontale, con la fabella bisecata dalle corticali femorali ed il centro della rotula bisecato dalla parte media del
femore. Anche l’articolazione tibiotarsica deve essere diritta, dato che la corticale mediale del calcaneo deve bisecare
il margine intermedio dell’estremità distale della tibia. I
segni radiografici della rotazione torsionale possono essere
richiamati all’attenzione del chirurgo al momento dell’intervento. Per pianificare l’osteotomia da realizzare effettivamente, si utilizzano le radiografie della tibia lungo il piano
sagittale. In primo luogo si determina l’asse meccanico dell’osso nel piano sagittale, che si definisce come la linea diritta che corre fra le eminenze intercondiloidee prossimalmente ed il centro di un cerchio che si sovrappone meglio all’astragalo distalmente. La linea di orientamento dell’articolazione del ginocchio viene determinata attraverso il riscontro
della linea tangenziale al condilo tibiale mediale, oppure
definendo i punti corrispondenti alle sedi più craniali e caudali dell’inclinazione tibiale e unendoli con una linea diritta.
L’intersezione fra la linea di orientamento dell’articolazione
tibiale prossimale e il piano sagittale tibiale meccanico stabilisce il TPA, che viene misurato a partire da una linea tracciata perpendicolarmente all’asse meccanico.
Il passo successivo consiste nel determinare le dimensioni della lama da sega da utilizzare. Le dimensioni standard
di questi strumenti comunemente disponibili sono indicate
in base al raggio che definisce l’arco della lama: 30 mm, 24
mm, 18 mm e 12 mm. Per confrontare nel periodo preoperatorio le dimensioni delle lame sulle pellicole radiografiche si
utilizzano delle sagome trasparenti. Occorre ricordare che le
lame da sega praticano un taglio nell’osso lungo un arco, che
è semplicemente una frazione di cerchio. Il cerchio che
costituisce il taglio arcuato deve essere incentrato al di sopra
delle eminenze intercondilari della parte prossimale della
tibia. In condizioni ottimali, la lama delle dimensioni prescelte deve poter essere centrata nel modo descritto e tagliare un arco che soddisfi i seguenti criteri:
Far sì che la porzione cranioprossimale dell’osteotomia
fuoriesca dall’osso cranialmente al legamento intermeniscale.
Far sì che la porzione caudodistale dell’osteotomia fuoriesca dall’osso in modo approssimativamente perpendicolare alla corticale caudale della tibia, oppure risulti leggermente inclinata in senso prossimale rispetto ad essa
195
Essere posizionata in relazione prossimodistale in modo
da lasciare appena lo spazio sufficiente prossimalmente per
applicare il numero previsto di viti attraverso la porzione
prossimale della placca da TPLO prescelta
Non essere così grande da compromettere la cresta tibiale: il taglio ottimale dovrebbe in realtà consentire, seguendolo, di allargare la cresta tibiale residua verso la sua base,
non di restringerla fino a farla diventare più stretta.
Questo arco può essere tracciato sulle immagini radiografiche preoperatorie, oppure su una copia delle radiografie.
Molti chirurghi stanno ora misurando la distanza dalla parte
più prominente della cresta tibiale procedendo caudalmente
in senso perpendicolare fino a che non si raggiunge l’osteotomia. Questo numero viene utilizzato in sede intraoperatoria per stabilire un segno di riferimento per la posizione craniale della sega.
Una volta scelte le dimensioni della lama della sega, si
impiegano i due valori numerici (raggio della lama arcuata e
inclinazione della tibia) per determinare di quanto sia necessario ruotare, in millimetri (X), l’inclinazione tibiale per
ridurla a circa 5°. Ciò viene determinato mediante una formula trigonometrica:
X (mm) = (2 π [diametro della lama della sega])(TPA5°/360°)
Di conseguenza, se il valore misurato di TPA è pari a 26°
e si vuole usare la lama della sega da 24 mm per arrivare
dopo la correzione a 5°, il calcolo sarà:
X(mm) = (2 π 24 mm) (21°/360°)
X(mm) = 8,8 mm
Ciò significa che dopo aver portato a termine l’osteotomia
a cupola intraoperatoria, dovrete ruotare il plateau tibiale lungo il taglio arcuato per un totale di 8,8 mm al fine di correggere il TPA passando dal valore misurato di 26° a quello di 5°.
Letture consigliate
Warzee CC, Dejardin LM, Arnoczky SP et al. Effect of tibial plateau leveling on cranial and caudal tibial thrusts in canine cranical cruciate –
deficient stifles: an in vitro experimental study. Vet Surg 30: 278-286:
2001.
Havig ME, Dyce J, Kowaleski MP et al. Relationship of tibial plateau slope to limb function in dogs treated with a lateral suture technique for
stabilization of cranial cruciate ligament deficient stifles. Vet Surg:
245-251: 2007
Kowaleski MP, McCarthy RJ. Geometric analysis evaluating the effect of
tibial plateau leveling osteotomy position on postoperative tibial plateu slope. Vet Comp Orthop Trauma 17:30-34: 2004.
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196
Fluoroscopic Guidance of Sacroiliac Luxation Repair:
A Minimally Invasive Approach
Derek B. Fox
DVM, PhD, Dipl ACVS, Assistant Professor, Missouri, USA
INTRODUCTION
Sacroiliac (SI) luxations are common in the dog and cat.
Vehicular trauma to the pelvic region can frequently result in
cranial displacement of the ilium from the sacral body.
Because of the ‘box’ configuration of the pelvis, unilateral
SI luxations must be accompanied by other pelvic fractures.
Bilateral SI luxations can occur with or without concurrent
pelvic fractures. Because the SI joint is in the weight bearing axis of the axial skeleton, reduction and fixation is advisable and will result in quicker return of normal, pain free
ambulation. Prior to any surgical intervention, the animal
must be adequately stabilized and evaluated for other
injuries that would preclude the safe surgical repair of the
luxation. A full neurological examination is important to
rule out concurrent traumatic myelopathies. Radiographs of
the entire pelvis are required to determine the degree of SI
displacement, determine the size of the sacrum and evaluate
for concurrent pelvic trauma. Conventional surgical repair of
SI luxations have been completed with the use of either positional or lag screws placed through open approaches either
ventrally or dorsally. These approaches can be time consuming and cause increased patient morbidity compared to
closed, minimally invasive techniques.
TECHNIQUE
After the animal is fully anesthetized, an attempt can be
made to reduce the SI luxation manually by pushing caudally on the wing of the ilium or pulling caudally on the
ipsilateral pelvic limb. The more chronic the injury the
more difficult manual reduction will be. The limb and ipsilateral hemipelvic region is clipped free of hair and surgically scrubbed using a hanging limb preparation technique.
After placing the animal in lateral recumbency on a radiolucent table, the affected side is draped in appropriately.
An intraoperative fluoroscopy machine (C-arm) is positioned to capture a lateral view of the pelvis. If additional
reduction needs to be completed, the end of a Jacob’s
chuck handle can be used to push caudally on the wing of
the ilium. In addition, a small approach can be made to the
ilial wing for the placement of small Kern bone holding
forceps which can be pushed caudally. If the entire
hemipelvis is intact, a small approach may also be made to
the ischiatic tuberosity which can be subsequently pulled
caudally and laterally with the use of Kern bone holding
forceps. Reduction is confirmed with the C-arm. A perfect
lateral view of the pelvis is next achieved by manipulating
the exposed pelvic limb. Lateral positioning is judged by
the superimposition of ilial wings and transverse process of
the lumbar spine.
Once SI joint reduction is verified on a true lateral projection, a temporary Kirschner wire is percutaneously driven from lateral to medial through the ilial body and into the
caudal aspect of the sacral body. This wire is temporary
used to keep the SI in reduction and to assist in the alignment of the subsequent screw placement. A 1cm incision is
made in the skin cranially to the K-wire. A tap sleeve of the
appropriate size for the intended screw is positioned within the skin incision and tunneled through the gluteal muscles until it contacts the ilial body. Using the C-arm the tap
sleeve is positioned so that the empty barrel of the sleeve is
easily apparent over the ilial body and underlying sacral
body. The appropriately sized drill bit loaded within a drill
is placed into the sleeve and used to drill through the ilium
and into the sacral body. The hole position is confirmed
with the C-arm. If a positional screw is to be placed (recommended for younger dogs to maximize bone purchase)
the depth of the hole is measured and compared to ventrodorsal radiographs of the pelvis to confirm at least 60%
purchase of the sacral body with the screw. If a lag screw
is to be placed, an appropriately oversized drill bit is used
to overdrill the glide hole in the ilium using both the C-arm
and manual palpation to locate the original hole previously
drilled. If upon measurement, the screw hole is not deep
enough to engage 60% of the sacral width, it is drilled further. The appropriate size and length screw is placed with a
washer to distribute the force over the ilium. If a positional screw is being placed, compression across the SI joint
must be applied manually prior to engaging the sacral body
with the screw threads. The K-wire is removed and final
position of screw and reduction of SI evaluated with the Carm. The small incision is closed with a simple interrupted
suture and post-operative radiographs are completed in
orthogonal views.
DISCUSSION
In a case series of 13 dogs using this technique, percent
reduction of the SI joint was 92.33%, with sacral purchase
of 79%. Sixty-nine percent of the dogs were weight bearing the day following surgery using this minimally invasive
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approach and no screw loosening was documented. In a
larger study of 46 dogs in which the SI luxations were
treated in closed fashion, 100% of dogs had satisfactory
healing and a good clinical outcome. Only one dog in 46
had an inappropriate screw placement which did not affect
the clinical results. This is a technically challenging procedure, however once the learning curve has been breeched,
is a minimally invasive technique than is very successful.
197
Reference
Tomlinson JL, Cook JL, Payne JT, Anderson CC, Johnson JC. Closed
reduction and lag screw fixation of sacroiliac luxation and fractures.
Vet Surg 1999; 28:188-193.
Tonks CA, Tomlinson JL, Cook JL. Evaluation of closed reduction and
lag screw fixation of sacroiliac fracture-luxations: 46 caes (19992006).
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
198
Le più frequenti complicazioni in corso
di anestesia locoregionale
Paolo Franci
DVM CertVA, Dipartimento Scienze Cliniche Veterinarie- Università degli Studi di Padova
Le complicazioni sono eventi inattesi che peggiorano il
quadro clinico in atto. Proprio per il loro essere inattese e per
il fatto che colgono il paziente in un periodo, come quello
perioperatorio, già gravido di rischi, le complicazioni sono
particolarmente temute e pur tuttavia non così infrequenti.
Per sua natura, l’anestesia, è soggetta a innumerevoli variabili non controllabili, una corretta gestione anestesiologica
dovrebbe essere guidata dalla capacità di minimizzare le
complicazioni potenziali di ogni fase perioperatoria. Tanto
più l’anestesista sarà cosciente e “padrone” di una tecnica
anestesiologica e delle sue implicazioni per il paziente tanto
più i problemi che ne deriveranno saranno limitati in intensità e tempo. In medicina esiste un notevole interesse per le
tecniche locoregionali e una notevole quantità di letteratura,
dalla quale è possibile evincere che tali tecniche, se basate su
scelte coerenti con i dettami attualmente riconosciuti come
validi e ben eseguite tecnicamente da personale esperto, presentano poche complicazioni a prescindere dalla taglia del
paziente. Ovviamente questi studi si basano su migliaia di
casi, all’interno di un mondo medico che si presenta “culturalmente attrezzato” ad eseguirle. Benché le complicazioni
potenziali, tra paziente umano ed animale, siano le medesime, in campo veterinario la situazione è molto più confusa:
le pubblicazioni sono basate, con esclusione di un paio di
studi, su pochi casi; molto spesso mancano degli studi clinici ben condotti che forniscano dati di base (per es. dosaggio
dei farmaci in anestesia neurassiale); inoltre il mondo veterinario registra un ritardo culturale che spesso genera complicazioni perioperatorie altrimenti evitabili.
Indirizzo per la corrispondenza:
Paolo Franci
DVM CertVA
Dipartimento Scienze Cliniche Veterinarie
Università degli Studi di Padova
Via dell’Università, 16 – Legnaro
Tel. 0498272951
e-mail: [email protected] (per ogni corrispondenza)
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199
Ipotiroidismo e neuropatie:
alla ricerca delle evidenze scientifiche
Gualtiero Gandini
Med Vet, Dipl. ECVN, Bologna
L’ipotiroidismo nel cane è una condizione patologica che
fino all’inizio degli anni novanta è stata molto probabilmente sottodiagnosticata. Da allora si sono compiuti notevoli
progressi nella comprensione dei meccanismi eziopatogenetici della malattia e, grazie anche alle limitazioni della maggior parte dei test diagnostici disponibili sul mercato, si è
assistito ad una sorta di inversione paradossa con sovrastima
della reale incidenza dell’ipotiroidismo, diagnosticato anche
in soggetti che non ne erano affetti.
Questa situazione è forse giustificata dal fatto che la tiroide
è una ghiandola che produce ormoni che intervengono in
numerose funzioni che coinvolgono diversi organi e apparati.
Gli ormoni tiroidei stimolano il metabolismo cellulare e, di
conseguenza, favoriscono il consumo di ossigeno da parte dei
diversi tessuti, favoriscono il catabolismo di proteine e lipidi,
stimolano l’eritropoiesi, migliorano la contrazione cardiaca e
sono fondamentali per il normale sviluppo degli apparati
scheletrico e nervoso. Proprio per il fatto che le funzioni della tiroide si ripercuotono sul funzionamento di molte strutture dell’organismo, l’ipotiroidismo può produrre una sintomatologia quanto mai varia, spesso mal definita, non specifica e
caratterizzata da aspetti sistemici più o meno marcati, variamente associati a disfunzioni di diversi apparati1.
Nel cane adulto, lo sviluppo di una condizione di ipotiroidismo acquisito è legata alla distruzione della ghiandola
tiroide (ipotiroidismo primario) caratterizzato da due diversi
quadri istopatologici: quello di una tiroidite linfocitaria
autoimmune e quello della cosiddetta “degenerazione (o
atrofia) idiopatica della tiroide” che, per molti autori, rappresenta verosimilmente l’aspetto istopatologico dello stadio terminale della tiroidite linfocitaria2,10. La presenza di
una tiroidite linfocitaria spesso precede di diversi mesi la
comparsa di una sintomatologia clinicamente apparente2.
I sintomi con cui può esprimersi la condizione di ipotiroidismo sono compresi all’interno di un ampio “range” di possibili manifestazioni, diverse non solo per aspetti qualitativi,
ma anche di severità. Classicamente, nel cane ipotiroideo
sono riconosciuti segni “sistemici” e comportamentali,
variamente associati a disfunzioni dell’apparato tegumentario, nervoso, cardiovascolare, riproduttivo, emopoietico. In
associazione all’ipotiroidismo sono state riportate altre
manifestazioni cliniche quali coagulopatie, disturbi
gastroenterici, manifestazioni oculari e di infertilità nel
maschio, per le quali non esiste però ancora evidenza di una
acclarata relazione causale con la malattia1.
Come verrà discusso in seguito, per le limitazioni dei test
diagnostici, non è sempre facile confermare con certezza il
sospetto clinico di ipotiroidismo. È pertanto possibile che
alcuni dei casi riportati nella letteratura meno recente, non
fossero veri ipotiroidei. Negli ultimi 15 anni sono stati pubblicati solo due importanti studi retrospettivi sull’ipotiroidismo del cane, caratterizzati da criteri di inclusione molto
severi3,4.
Da questi lavori appare che l’età media dei cani affetti da
ipotiroidismo è di sette anni e che, nonostante nello studio
statunitense3 sia segnalata una predisposizione per i Labrador, i Dobermann Pinscher, e i maschi castrati, non sembra
esservi una reale predisposizione significativa di razza o di
condizione sessuale1,4.
I segni sistemici associati alla condizione di ipotiroidismo
riflettono un rallentamento del metabolismo basale dell’organismo e possono essere sintetizzati in letargia, minor reattività, sonnolenza, scarsa volontà di interazione, fiacchezza,
incremento del peso corporeo, intolleranza al freddo e all’esercizio1.
I segni dermatologici sono quelli più frequentemente
riportati nei soggetti ipotiroidei1. A livello del mantello è
possibile apprezzare alopecia e/o ipotricosi bilaterale e simmetrica, e ritardo nella ricrescita del pelo. La cute può presentarsi secca e forforosa o, al contrario, seborroica. Le alterazioni dermatologiche possono favorire la comparsa di infezioni batteriche ricorrenti e causare piodermiti. Altri segni
riportati sono l’ipercheratosi, l’iperpigmentazione, l’otite
ceruminosa, la scarsa tendenza alla guarigione delle ferite. Il
mixedema è un sintomo a comparsa decisamente più rara1.
I segni cardiovascolari indicano una diminuzione della
funzione inotropa e cronotropa, ma solo raramente esitano in
segni di insufficienza cardiaca. Nel Dobermann Pinscher è
documentata la concomitante presenza di ipotiroidismo e
miocardiopatia dilatativa. Da segnalare infine che l’ipotiroidismo è considerato un fattore di rischio per la possibile
comparsa di aterosclerosi dei vasi1.
Gli effetti dell’ipotiroidismo sul Sistema Nervoso sono
documentati soprattutto come manifestazioni cliniche a carico del Sistema Nervoso Periferico (SNP), anche se non mancano segnalazioni inerenti ad effetti sul Sistema Nervoso
Centrale (SNC). Per alcuni autori, la relativa scarsità di
segnalazioni non riflette la reale incidenza delle manifestazioni neurologiche dell’ipotiroidismo. I meccanismi fisiopatogenetici che sottendono le alterazioni neurologiche sono
scarsamente compresi, anche se alcune ipotesi per la spiegazione dei sintomi periferici chiamano in causa un difficoltoso trasporto assonale dovuto al rallentamento del metabolismo basale cellulare. In medicina umana è stata documenta-
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
ta una assonopatia distale che sembra coinvolgere soprattutto gli assoni più lunghi.
Le prime segnalazioni di deficit neurologici ben documentati in cani ipotiroidei risalgono alla seconda metà degli
anni ottanta5,6, ma è con il lavoro di Jaggy e coll.7 che viene
posto l’accento sui segni neurologici di una ragguardevole
popolazione di soggetti ipotiroidei. Le manifestazioni cliniche riportate, ad esordio tipicamente insidioso e a decorso
progressivo, sono quelle che caratterizzano le sindromi neuromuscolari: intolleranza all’esercizio, debolezza, paresi,
diminuzione generalizzata dei riflessi spinali e atrofia
muscolare. Accanto a queste manifestazioni cliniche, lo studio enfatizza anche la presenza di sintomi non generalizzati
e quindi non immediatamente riconducibili ad una endocrinopatia. È questo il caso delle disfunzioni vestibolari, del
megaesofago, delle paralisi laringee, delle zoppie, che sono
state segnalate anche in diversi altri studi e imputate ad una
condizione di ipotiroidismo1,3,7,8. In diversi casi, approfondimenti diagnostici in questi soggetti hanno rivelato la presenza di alterazioni subcliniche generalizzate, evidenziabili con
l’elettrodiagnostica (elettromiografia e valutazione della
velocità di conduzione nervosa) o con le biopsie del nervo
periferico e del muscolo. La spiegazione di una mononeuropatia in presenza di un disturbo endocrino generalizzato
chiama in causa la documentazione in medicina umana di
una compressione della radice nervosa ad opera di depositi
mucinosi all’interno e attorno alla radice stessa. Questo
aspetto non è però mai stato dimostrato nel cane1.
Sporadiche segnalazioni riguardano la presenza di una
miopatia primaria generalizzata associata a ipotiroidismo1,9.
I reperti bioptici riportano segni di atrofia delle fibre di tipo
II e, nel caso più recentemente descritto, bastoncelli di
nemalina all’interno delle miofibre di tipo I9.
Le manifestazioni cliniche a carico del SNC, molto più
sporadiche e di più difficile attribuzione, comprendono le
manifestazioni comatose legate al mixedema acuto, le convulsioni, il disorientamento, i movimenti di maneggio e la
recente segnalazione di sindromi vestibolari centrali1,8.
All’origine di queste manifestazioni dovrebbero porsi fenomeni ischemici legati all’aterosclerosi dei vasi1.
La diagnosi di ipotiroidismo non è sempre facile per la
difficoltà ad attribuire con oggettività i segni clinici e i risultati dei test diagnostici all’ipotiroidismo o alla cosiddetta
“Euthyroid sick syndrome”, nella quale valori inferiori alla
norma di T4 totale vengono rinvenuti in soggetti eutiroidei
ma con sintomatologia a volte compatibile con l’endocrinopatia in oggetto10.
Nel protocollo diagnostico del paziente con sintomi neurologici, proprio perché l’ipotiroidismo è considerato una
disfunzione “multisitemica”, attenzione particolare deve
essere dedicata alla visita clinica, orientata alla ricerca di
segni anche a carico di altri distretti. L’esame emocromocitometrico e il profilo biochimico possono mostrare i segni
ritenuti “classici” di modica anemia non rigenerativa, ipercolesterolemia, iperlipidemia, innalzamento di SAP, ALT e
200
CK, reperti purtroppo scarsamente indicativi. Anche indagini più sofisticate, quali i test elettrodiagnostici e le biopsie
neuromuscolari, mostrano reperti generici e di relativa utilità diagnostica, consistenti rispettivamente in presenza di attività spontanea muscolare (potenziali di fibrillazione e onde
acute positive), diminuzione della velocità di conduzione
motoria e sensitiva e atrofia delle fibre muscolari di tipo II
associata a vari quadri di sofferenza mielinica e degenerazione assonale1.
Attualmente, quando non si ha la possibilità di effettuare
il test di stimolazione con il TSH ricombinante umano, i
rilievi più utili per la diagnosi di ipotiroidismo consistono
nella determinazione congiunta dei livelli del T4 totale, del
TSH canino e del T4 libero, quest’ultimo analizzato in equilibrio dialitico.
La terapia dell’ipotiroidismo prevede la supplementazione orale di levo-tiroxina al dosaggio di 15-20µg/kg a distanza di dodici ore. È stato scritto che il recupero di una normale condizione neurologica richiede mediamente almeno
due mesi di supplementazione7. Diversi autori sottolineano
però che non in tutti i casi è possibile ottenere una restituito
ad integrum della funzione. In particolare, i soggetti con
megaesofago attribuito all’ipotiroidismo sembrano rispondere meno efficacemente alla terapia3-7.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Gualtiero Gandini
Dipartimento Clinico Veterinario, Facoltà di Medicina Veterinaria,
Università di Bologna.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
201
Feline lower urinary tract disease (FLUTD)
B. Gerber
Dr. med. Vet., Dipl. ACVIM + ECVIM-CA, Vetsuisse Faculty University of Zurich
INTRODUCTION
Diseases of the lower urinary tract of cats are summarized
under the term “Feline Lower Urinary Tract Disease”
FLUTD. FLUTD describes the common clinical presentation of different diseases with a wide variety of causes. The
signs of FLUTD are pollakiuriaa, stranguriab, periuriac and
hematuria.1 Obstruction of the urethra occurs frequently in
this disease complex. FLUTD is a common problem in veterinary medicine. Investigations in the USA revealed, that 8%
of the cats presented to teaching hospitals suffered from
FLUTD.2 Furthermore a survey in private practices showed
that in 3% of the examined cats the diagnosis was FLUTD.3
CAUSES
If the cause of FLUTD can not be identified the diseased
is called idiopathic. Between 55% and 63% of the cats with
FLUTD are considered to suffer from the idiopathic form.2,
4, 5
In a study at our hospital 58% of the cats with FLUTD
suffered from the idiopathic form, 22% had urinary calculi,
10% urethral plugs and 8% urinary tract infections. In 3% of
the cats no exact diagnosis was possible.6 Further less common causes of FLUTD are neoplasias (e.g. transitional cell
carcinoma), acquired or congenital anatomic defects, and
central nervous system diseases leading to micturation disturbances. In a recent study from Norway 33% of the cats
with FLUTD were diagnosed with urinary tract infection7.
This rate is considerably higher than reported in other studies (1-12%) and was suspected to be due to the fact that
other studies originated from referral institutions while this
one did not.2, 4-6, 8
DIAGNOSIS
Because all forms of FLUTD have a very similar clinical
presentation, laboratory tests and diagnostic imaging are
required in each case to establish a diagnosis. Urinalysis is
very important and urine should always be collected before
any therapy is instituted. Therapy could potentially change
the urinalysis results and lead to the wrong diagnosis.
Ideally urine should be collected by cystocentesis, however
there is some debate about the danger of cystocentesis in
obstructed cats. Urinalysis should include measurement of
the specific gravity, a dip-stick analysis, analysis of the urine sediment and a urine culture. In the interpretation of
results of the urinalysis it is important to remember that
crystalluria is not a disease. Serum biochemical analysis can
provide information about underlying diseases. For example
hypercalcemia can lead to the formation of calcium-oxalate
stones or cats with diabetes mellitus might be more prone to
urinary tract infection.9 Furthermore it is important to identify and quantify hyperkalemia or postrenal azotemia in cats
with urinary tract obstruction. Postrenal azotemia develops
about 24 h after the obstruction of the urethra. Electrolyte
disturbances specifically hyperkalemia can be life threatening and should be recognized and treated immediately.
On radiographs radio dense stones can be seen, furthermore size and form of the bladder can be evaluated. It is
important to make sure that the distal end of the urethra is on
the radiograph. Ultrasound evaluation of the urinary tract
provides information about the bladder wall and the content
of the bladder. At the authors institution both, ultrasound and
radiography are routinely performed in cats with FLUTD as
both examinations provide different information. Hyperechogenic floating material is often seen in the ultrasound
examination, however similar pictures can be seen in healthy
cats. Diseases of the urethra can be seen by contrast urethrography. Urethroscopy and cystoscopy are not routinely
performed in cats with FLUTD.
IDIOPATHIC FLUTD
It is still not known what’s causing idiopathic FLUTD. A
still unproven hypothesis was the involvement of infectious
agents since injection of urine from affected cats into the
urinary bladders of unaffected cats caused urethral obstruction.10 Caliciviruses isolated from a cat with urinary tract
obstruction caused the same signs in other cats inoculated
with this virus. However these experiments were not reproducible leaving the question open if viruses are truly involved in the development of FLUTD.11 Defects in the glycosaminoglycan layer and therefore higher permeability of
the bladder epithelium, increased activity of the sympathetic nervous system and neurogenic inflammation seem to
be features of the disease.1
Idiopathic FLUTD is suggested as model fort interstitial
cystitis in people.12 Typical glomerulations (small petechial
bleedings) in the submucosa of the bladder wall are part of
the human disease and are required for the diagnosis. However cystoscopy is not routinely used for the diagnosis of
FLUTD and the term interstitial cystitis is only applicable
for cats in the few cases where cystoscopy was performed.
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
Risk factors for idiopathic FLUTD
Risk factors associated with idiopathic FLUTD in a recent
study were male gender, overweight, pedigree cat and most
importantly living with an other cat with which there was
conflict.13 This implies that stress might be a trigger for the
disease, which is supported by the finding that bladder permeability in cats with idiopathic FLUTD is highest under
stress.14 Earlier, living indoor and eating dry food were also
considered risk factors for idiopathic FLUTD.15 We found
that 36% of the cats with idiopathic FLUTD were overweight, 73% lived indoor and 27% were fed dry food only.6
However it was suspected that not demographic or environmental factors but rather cat-related factors like for example
acting fearful were associated with idiopathic FLUTD.16
Clinical picture of idiopathic FLUTD
Cats suffering from idiopathic FLUTD show pain, hematuria, pollakiuria, stranguria, periuria or are not able to urinate at all. This picture is not different from other causes of
FLUTD. In our patients expression of pain, hematuria, pollakiuria, or stranguria were seen in about 50% of the cases
with idiopathic FLUTD while periuria was seen in only
35%. More than half of the cats (55%) were presented with
urethral obstruction.6
Idiopathic FLUTD is more common in male cats than
female cats and occurs rather in young to middle aged cats.17
Therapy
Cats with urinary tract obstruction are emergency
patients. The main goal of the therapy is to re-establish urine flow. Life threatening metabolic derangements like
hyperkalemia or severe acidosis have to be corrected immediately. About 12% of cats with urethral obstruction were
found to have severe hyperkalemia (>8mmol/l)(18). Possibilities for the therapy of hyperkalemia are: -infusion with
NaCl 0.9%; -infusion with glucose 5%; -regular insulin (0.2
IU/kg IV) followed by a glucose bolus (2 g glucose per unite insulin) followed by infusion with glucose 5%; -calcium
gluconate 10%, 0.5 – 1.5 ml/kg IV over 10 minutes; -sodium
bicarbonate 0.2 – 0.5 mmol/kg with infusion.
If urethral patency can’t be re-established, urine can be
evacuated by cystocentesis. Possible side effects of decompressive cystocentesis are extravasation of urine into the
peritoneal cavity and injury to a pre damaged bladder wall,
therefore decompressive cystocentesis is not recommended
as routine procedure. Once the urethra is patent we prefer to
leave an indwelling catheter in place and connected it to a
closed urine collecting system. After severe postrenal azotemia a substantial postobstructive diuresis might occur and
should be addressed by adequate infusion.
After the emergency procedure it is very important to perform a thorough work up to get a correct diagnosis.
If other reasons are excluded idiopathic FLUTD can be
suspected. Many cats with idiopathic FLUTD recover spontaneously. A specific therapy of idiopathic FLUTD has not
202
been established so far. Different medications and treatments
have been recommended, however they remained tentative
and many relapses are seen. Controlled studies proofing the
efficacy of treatments are lacking.
Some therapeutic options for idiopathic FLUTD will be
discussed below.
Pain medication
In humans idiopathic cystitis is also classified as a chronic
pain syndrome, indicating that pain is an important part of
the disease. Pain seems to be a common feature of idiopathic
FLUTD and should therefore be addressed at least in the
acute phase.6
Antibiotics
Antibiotic therapy is indicated if the cats were catheterized. By the way of a catheter infectious agents can get into
the urinary tract and establish an infection. Specifically if an
indwelling catheter is left in place for several days an infection is likely. Therapy should not be started with the catheter
in place to avoid the growth of resistant bacteria.
Glycosaminoglycan
Changes of the glycosaminoglycan layer of the bladder
seem to be a feature of idiopathic FLUTD. Therefore it
seems logic to replace glycosaminoglycans. In humans some
success was described, however the success was not consistent. In veterinary medicine only one study about the application of glycosaminoglycans in cats with idiopathic
FLUTD was published.19 In this study no difference was
seen between cats treated with N-acetyl glucosamine for six
month compared to cats treated with a placebo.
Amitriptyline
Amitriptyline is a tricyclic antidepressant and is used in
veterinary medicine for behavioral problems.20 Amitriptyline is thought to have antihistaminic, anticholinergic, antialpha-adrenergic, anti inflammatory, analgetic und mild
sedative actions. Based on this broad spectrum of action
amitriptyline seemed to be ideal for the treatment of all
forms of FLUTD. In humans the medication provided some
relief in patients with interstitial cystitis. In two veterinary
studies amitriptyline was used for a short period of time in
cats with idiopathic FLUTD.21, 22 In both studies no positive
effect of the medication could be demonstrated. In an other
unfortunately uncontrolled study amitriptyline lead to a
reduction of clinical signs in 9 of 15 cats which were treated
for one year.20 Unfortunately the palatability of the medication is not good and it is difficult for cat owners to treat their
cat over a long period of time. Therefore other forms of
application were tested. In one study the plasma concentration of amitriptyline was measured after transdermal application.23 In this trial all plasma levels were below the detection limit, however only a low dose of amitriptyline was
used.
Reduction of stress
Signs of idiopathic FLUTD may be exacerbated by
stress14 and adaptation of the cats environment and might
reduce stress.24 Pheromones are thought to reduce stress in
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cats. In a pilot study synthetic feline facial pheromones
(Feliway®) were used for the treatment of idiopathic
FLUTD.25 No significant difference was seen between treated and untreated cats. However a trend towards fewer days
with clinical signs, towards less pronounced clinical signs
and towards fewer episodes of clinical signs was seen.
Feeding
The recurrence rate in cats receiving a diet in canned form
was lower than in cats receiving the same diet in dry form.26
Furthermore improvement of clinical signs in cats with idiopathic FLUTD was attributed to the change on canned diet
in one study.19 This implies that adding water in the diet
might be beneficial for cats with idiopathic FLUTD.
Prognosis
Prognosis in non obstructive FLUTD is not known. In
obstructive FLUTD the prognosis is guarded27. Recurrent
signs of lower urinary tract disease including obstruction
were common in cats with urethral obstruction. About half
of the cats had recurrent signs of lower urinary tract disease,
about one third obstructed again and about one fifth was
euthanatized because of their disease. Prognosis seemed to
be independent on the primary cause of the obstruction.
Recurrence of signs occurred irrespective of the primary
cause of the obstruction. Furthermore frequency of reobstruction seemed to be the same as almost thirty years ago.
203
8.
9.
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12.
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stranguria: Painful, not controllable micturation
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59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
204
Patologie delle basse vie urinarie nel gatto:
un approccio basato sulla casistica clinica
(Parte I e II)
B. Gerber
Dr. med. Vet., Dipl. ACVIM + ECVIM-CA, Vetsuisse Faculty University of Zurich
INTRODUZIONE
Le varie malattie delle basse vie urinarie del gatto vengono riassunte sotto il nome di “Affezioni delle basse vie urinarie del gatto” o FLUTD (Feline Lower Urinary Tract Disease). Que4sta espressione denota la comune presentazione
clinica di differenti malattie che riconoscono un’ampia
varietà di cause. I segni clinici della FLUTD sono rappresentati da pollachiuriaa, stranguriab, periuriac ed ematuria.1
L’ostruzione dell’uretra si riscontra frequentemente in questo complesso patologico. La FLUTD è un problema comune in medicina veterinaria. Indagini condotte negli USA
hanno rivelato che l’8% dei gatti presentati agli ospedali universitari ne era colpito.2 Inoltre, un’indagine condotta presso
le strutture private ha evidenziato come nel 3% dei gatti esaminati la diagnosi fosse di FLUTD.3
CAUSE
Se la causa della FLUTD non può essere identificata, la
malattia viene definita idiopatica. Si ritiene che questo sia il
caso di una percentuale di gatti con FLUTD compresa fra il
55% ed il 63%.2,4,5 In uno studio condotto presso il nostro
ospedale, il 58% dei gatti con FLUTD era colpito dalla forma idiopatica, il 22% presentava calcoli urinari, il 10% tappi uretrali e l’8% infezioni delle vie urinarie. Nel 3% dei casi
non è stato possibile formulare una diagnosi precisa.6 Ulteriori cause meno comuni di FLUTD sono le neoplasie (ad
es., carcinoma delle cellule di transizione), i difetti anatomici congeniti o acquisiti e le malattie del sistema nervoso centrale che portano a disturbi della minzione. In un recente studio condotto in Norvegia, nel 33% dei gatti con FLUTD è
stata diagnosticata un’infezione del tratto urinario.7 Questa
percentuale è considerevolmente più elevata di quella riferita in altri lavori (1-12%) e si è sospettato che fosse dovuta al
fatto che questi erano basati sui dati di istituti specialistici
che trattavano casi riferiti, mentre questo no.2,4-6,8
tante l’analisi dell’urina, che deve sempre essere prelevata
prima di instaurare qualsiasi terapia. Il trattamento sarebbe
potenzialmente in grado di modificare i risultati dell’esame
e portare ad una diagnosi sbagliata. L’ideale è prelevare
l’urina mediante cistocentesi, tuttavia i rischi di questa
operazione nei gatti ostruiti sono oggetto di una certa discussione. L’analisi dell’urina deve comprendere la misurazione del peso specifico, la valutazione mediante strisce
reattive, l’esame del sedimento urinario e l’urocoltura. Nell’interpretazione dei risultati di queste indagini è importante ricordare che la cristalluria non è una malattia. Il profilo
biochimico può fornire informazioni relative alle malattie
sottostanti. Ad esempio, l’ipercalcemia può portare alla
formazione di calcoli di ossalato di calcio oppure i gatti
con diabete mellito possono essere predisposti alle infezioni del tratto urinario.9 Inoltre, è importante identificare e
quantificare l’iperkalemia o l’iperazotemia postrenale nei
felini con ostruzione del tratto urinario. L’iperazotemia
postrenale si sviluppa circa 24 ore dopo l’ostruzione dell’uretra. I disturbi elettrolitici, ed in particolare l’iperkalemia, possono essere potenzialmente letali e vanno riconosciuti e trattati immediatamente.
Nelle immagini radiografiche si possono visualizzare calcoli radiopachi, dopo di che si possono valutare le dimensioni e la forma della vescica. È importante accertarsi che
l’estremità distale dell’uretra sia compresa nella radiografia.
L’esame ecografico del tratto urinario fornisce informazioni
sulla parete vescicale e sul contenuto dell’organo. Presso l’istituto dell’autore, nei gatti con FLUTD si eseguono di routine sia l’esame ecografico che quello radiografico, dal
momento che forniscono informazioni differenti. Nell’esame ecografico si osserva spesso un materiale iperecogeno
fluttuante, tuttavia quadri simili si possono riscontrare anche
nei gatti sani. Le malattie dell’uretra possono venire visualizzate mediante uretrografia con mezzo di contrasto. L’uretroscopia e cistoscopia non sono invece indagini abituali nei
gatti con FLUTD.
FLUTD IDIOPATICA
DIAGNOSI
Poiché tutte le forme di FLUTD hanno una presentazione clinica molto simile, per giungere alla formulazione di
una diagnosi è sempre necessario ricorrere ai test di laboratorio ed alla diagnostica per immagini. È molto impor-
Non è ancora noto quale sia la causa della FLUTD idiopatica. Un’ipotesi, ancora da dimostrare, riguardava il coinvolgimento di agenti infettivi, dato che l’iniezione di urina di
gatti colpiti nelle vesciche di altri non colpiti causava l’ostruzione uretrale.10 I calicivirus isolati da un gatto con ostruzio-
59° Congresso Internazionale Multisala SCIVAC
ne del tratto urinario hanno determinato la comparsa degli
stessi segni clinici in altri felini inoculati con questo virus.
Tuttavia, questi esperimenti non erano riproducibili, lasciando aperta la questione se i virus fossero davvero coinvolti nello sviluppo della FLUTD.11 Sembra che fra le caratteristiche
della malattia rientrino i difetti nello strato di glicosaminoglicani e di conseguenza la più elevata permeabilità dell’epitelio vescicale, l’aumento dell’attività del sistema nervoso
simpatico e l’infiammazione del sistema neurogeno.1
La FLUTD idiopatica è stata suggerita come modello per
lo studio della cistite interstiziale nell’uomo.12 Le tipiche
glomerulazioni (piccoli sanguinamenti petecchiali) nella
sottomucosa della parete vescicale fanno parte del quadro
patologico dell’uomo e sono considerate indispensabili per
la diagnosi. Tuttavia, la cistoscopia non viene utilizzata di
routine per la diagnosi della FLUTD ed il termine di cistite
interstiziale è applicabile ai gatti soltanto nei rari casi in cui
la cistoscopia è stata eseguita.
Fattori di rischio per la FLUTD idiopatica
In un recente studio, i fattori di rischio associati alla
FLUTD idiopatica erano il sesso maschile, il sovrappeso, il
fatto di essere gatti di razza pura e, cosa più importante, il
fatto di vivere con un altro gatto con il quale si era in conflitto.13 Ciò implica che lo stress possa essere un fattore scatenante della malattia, il che viene sostenuto dal riscontro
del fatto che la permeabilità vescicale nei gatti con FLUTD
idiopatica è massima sotto stress.14 In precedenza, anche il
vivere in casa e il consumare alimenti secchi erano stati considerati fattori di rischio per la FLUTD idiopatica.15 Abbiamo rilevato che il 36% dei gatti con FLUTD idiopatica era
sovrappeso, il 73% viveva in casa ed il 27% veniva alimentato soltanto con prodotti secchi.6 Tuttavia, si è sospettato
che alla FLUTD idiopatica fossero associati dei fattori non
tanto di tipo demografico o ambientale, quanto piuttosto correlati al gatto, come, ad esempio, il fatto di comportarsi in
modo timoroso.16
205
cipale della terapia è quello di ripristinare il flusso dell’urina. Le alterazioni metaboliche potenzialmente letali come
l’iperkalemia o la grave acidosi devono essere corrette
immediatamente. Il 12% circa dei gatti con ostruzione uretrale è risultato colpito da una grave iperkalemia (> 8
mmol/l).18 Le possibilità per la terapia dell’iperkalemia
sono rappresentate da infusione di soluzione fisiologica
(NaCl 0,9%), infusione di glucosio al 5%, somministrazione di insulina amorfa (0,2 UI/kg IV) seguita da un bolo di
glucosio (2 g di glucosio per unità di insulina) e poi dall’infusione di glucosio al 5%, somministrazione di calcio
gluconato al 10%, alla dose di 0,5-1,5 ml/kg IV nell’arco
di 10 minuti e infusione di bicarbonato di sodio alla dose
di 0,2-0,5 mmol/kg.
Se non si riesce a ristabilire la pervietà dell’uretra, l’urina
può essere evacuata mediante cistocentesi. I possibili effetti
collaterali della cistocentesi decompressiva sono rappresentati dallo stravaso di urina nella cavità peritoneale e dal danneggiamento di una parete vescicale precedentemente lesionata, per cui questo tipo di intervento non viene consigliato
come procedura di routine. Una volta che l’uretra è pervia,
preferiamo lasciare in posizione un catetere permanente e
raccordarlo ad un sistema chiuso di raccolta dell’urina.
Dopo una grave iperazotemia postrenale, si può avere una
sostanziale diuresi postostruttiva, che deve essere trattata
con un’adeguata infusione.
Dopo la procedura di emergenza è molto importante effettuare un’approfondita indagine diagnostica per giungere a
formulare una diagnosi corretta.
Se vengono escluse altre ragioni, si può sospettare una
FLUTD idiopatica. In molti gatti, quest’ultima guarisce
spontaneamente. Sino ad ora, non è stata stabilita alcuna
terapia specifica per la FLUTD idiopatica. Sono stati raccomandati differenti farmaci e trattamenti, che però continuano a rimanere a livello di tentativi e si osservano molte recidive. Mancano studi controllati volti a provare l’efficacia
delle terapie proposte. Verranno ora illustrate alcune opzioni
terapeutiche per la FLUTD idiopatica.
Terapia del dolore
Quadro clinico della FLUTD idiopatica
I gatti colpiti dalla FLUTD idiopatica mostrano dolore,
ematuria, pollachiuria, stranguria, periuria o assoluta incapacità di urinare. Questo quadro non è differente dalle altre
cause di FLUTD. Nei nostri pazienti, l’espressione di dolore, ematuria, pollachiuria e stranguria è stata osservata nel
50% circa dei casi con FLUTD idiopatica, mentre la periuria era presente soltanto nel 35%. Più di metà dei gatti (55%)
è stata portata alla visita con ostruzione uretrale.6
La FLUTD idiopatica è più comune nei gatti maschi che
nelle femmine e si riscontra più nei soggetti giovani che in
quelli di media età.17
Terapia
I gatti con ostruzione del tratto urinario sono da considerare pazienti in condizioni di emergenza. Lo scopo prin-
Nei pazienti umani, la cistite idiopatica è anche classificata come una sindrome di dolore cronico, il che indica che le
sensazioni algiche sono una parte importante della malattia.
Il dolore sembra essere una caratteristica comune della
FLUTD idiopatica e deve quindi essere opportunamente
trattato, almeno nella fase acuta.6
Antibiotici
La terapia antibiotica è indicata se i gatti sono stati sottoposti a cateterizzazione. Attraverso un catetere, gli agenti infettanti possono accedere al tratto urinario e dare origine ad un’infezione. Quest’ultima è da ritenere probabile
in particolare se è stato lasciato in sede un catetere permanente per parecchi giorni. La terapia non deve essere iniziata con il catetere in sede, per evitare la crescita di batteri resistenti.
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Glicosaminoglicani
Le modificazioni dello strato di glicosaminoglicani della
vescica sembrano essere una delle caratteristiche della
FLUTD idiopatica. Di conseguenza, pare logico ripristinare
i livelli di questi composti. Nei pazienti umani è stato
descritto un certo successo, che però non è stato costante. In
medicina veterinaria è stato pubblicato soltanto uno studio
relativo all’applicazione dei glicosaminoglicani nei gatti con
FLUTD idiopatica.19 In questo lavoro, non è stata osservata
alcuna differenza fra i gatti trattati con N-acetilglucosamina
per 6 mesi e quelli trattati con un placebo.
Amitriptilina
L’amitriptilina è un antidepressivo triciclico che viene utilizzato in medicina veterinaria per i problemi comportamentali.20 Si ritiene che sia dotato di azione antistaminica, anticolinergica, anti-alfa-adrenergica, antinfiammatoria, analgesica e lievemente sedativa. Sulla base di questo ampio spettro d’azione, l’amitriptilina è parsa essere ideale per il trattamento di tutte le forme di FLUTD. Nei pazienti umani, il
farmaco consente di ottenere un certo sollievo nei pazienti
con cistite interstiziale. In due studi condotti in medicina
veterinaria, l’amitriptilina è stata usata per un breve periodo
di tempo in gatti con FLUTD idiopatica.21,22 In entrambe
queste indagini non è stato possibile dimostrare alcun effetto positivo del farmaco. In un altro studio, sfortunatamente
non controllato, l’amitriptilina ha portato ad una riduzione
dei segni clinici in 9 gatti su 15 che erano stati trattati per un
anno.20 Sfortunatamente, l’appetibilità del farmaco non è
buona ed è difficile per i proprietari di gatti trattare i loro animali per un lungo periodo di tempo. Di conseguenza, sono
state prese in esame altre forme di applicazione. In uno studio, sono state misurate le concentrazioni plasmatiche dell’amitriptilina dopo applicazione transdermica.23 In questa
prova, tutti i livelli plasmatici sono risultati al di sotto del
limite di rilevamento, tuttavia era stata utilizzata soltanto una
dose bassa di amitriptilina.
Riduzione dello stress
I segni clinici della FLUTD idiopatica possono essere esacerbati dallo stress,14 che a sua volta può essere ridotto dall’adattamento dei gatti all’ambiente.24 Si ritiene che i feromoni riducano lo stress nel gatto. In uno studio pilota, si è
fatto uso di feromoni facciali felini di sintesi (Feliway®) per
il trattamento della FLUTD idiopatica.25 Non è stata osservata alcuna differenza significativa fra i gatti trattati e quelli
non trattati. Tuttavia, è stata rilevata una tendenza a presentare meno giorni con alterazioni evidenti, segni clinici meno
pronunciati e meno episodi di malattia.
206
sumavano la stessa dieta in forma secca.26 Inoltre, in uno studio il miglioramento dei segni clinici nei gatti con FLUTD
idiopatica è stato attribuito ad una modificazione della dieta
umida.19 Ciò implica che l’aggiunta di acqua alla dieta possa essere utile per i gatti con questa affezione.
4.4 Prognosi
La prognosi della FLUTD non ostruttiva non è nota. Quella della forma ostruttiva è riservata.27 Le manifestazioni
ricorrenti di affezioni delle basse vie urinarie come l’ostruzione erano comuni nei gatti con ostruzione uretrale. La
metà circa degli animali presentava segni ricorrenti di affezione delle basse vie urinarie, un terzo circa era nuovamente ostruito ed un quinto circa è stato soppresso eutanasicamente a causa della malattia. La prognosi è parsa essere indipendente dalla causa primaria dell’ostruzione. La ricomparsa dei segni clinici si è verificata indipendentemente dalla
causa primaria dell’ostruzione. Inoltre, la frequenza della
riostruzione è parsa essere la stessa di quasi trenta anni fa.
a
Pollachiuria: frequente emissione di piccole quantità di urina.
Stranguria: minzione dolorosa non controllabile.
c
Periuria: minzione in sedi inappropriate.
b
Bibliografia
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Alimentazione
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204
Video-endoscopia auricolare
Giovanni Ghibaudo
Med Vet, Samarate (VA) e Fano (PU)
Federico Leone
Med Vet, Senigallia (AN)
L’otite esterna è un processo infiammatorio, acuto o cronico, del condotto uditivo esterno. Il termine otite esterna
cronica viene riservato ad un otite esterna la cui sintomatologia sia presente da più di tre settimane o, evenienza più frequente, nella quale si siano verificati episodi di recidiva. L’otite media è un processo infiammatorio dell’orecchio medio.
Un corretto approccio all’otite comprende diverse tappe
alcune delle quali fanno parte dell’esame dermatologico di
base. L’otite esterna può rappresentare, infatti, l’espressione
localizzata o meno, di una sottostante dermatosi per cui nel
corso della visita occorre appurare se il problema è esclusivamente otologico o se sono presenti contemporaneamente
altri segni cutanei e/o sistemici. La finalità di questa sequenza diagnostica è quella di identificare e controllare, in una
prima fase, le infezioni secondarie (fattori perpetuanti) e,
successivamente, identificare e combattere i fattori primari,
perpetuanti e predisponenti eventualmente coinvolti nell’insorgenza dell’otite.
L’ispezione del condotto uditivo esterno degli animali con
otite rappresenta il punto di partenza fondamentale per raggiungere una diagnosi eziologica delle affezioni auricolari.
Tramite l’esame diretto del condotto uditivo esterno è
possibile evidenziare la presenza di corpi estranei all’interno
del condotto, la presenza di quantità eccessiva di peli, valutare il diametro del condotto, visualizzare la presenza di
lesioni a carico della parete del condotto uditivo, la presenza di neoformazioni e soprattutto di valutare la presenza,
l’integrità, l’aspetto, il grado di vascolarizzazione ed eventuali variazioni di colore della membrana timpanica. L’ispezione del condotto uditivo tramite otoscopio tradizionale
prevede l’utilizzo di coni di adeguata lunghezza e larghezza
per eseguire al meglio l’esame.
Per poter correttamente visualizzare il condotto uditivo
orizzontale e la membrana timpanica è necessario afferrare
il padiglione auricolare e compiere una trazione in modo da
sollevarlo e allontanarlo dal piano sagittale per rendere il
condotto più rettilineo possibile.
L’esame otoscopico, soprattutto in corso di otite cronica,
può essere difficoltoso, se non impossibile, per una marcata
stenosi del condotto, che può impedire l’introduzione del
cono al suo interno, o per la presenza di abbondanti secrezioni. Nel primo caso è consigliabile prescrivere al paziente
una terapia antinfiammatoria prima di ripetere l’esame. Nel
secondo caso è necessario procedere ad un accurato lavaggio
del condotto uditivo.
La visione del timpano che si ha con un normale otoscopio è limitata sia in qualità che in quantità di membrana
visualizzata. Nel cane infatti sfugge all’osservazione la porzione cranio-dorsale per la particolare inclinazione della
porzione ossea del condotto e per l’angolo che il timpano
forma con l’asse del canale orizzontale (circa 45°). Nel gatto invece, il timpano descrive un angolo di circa 90° con
l’asse del condotto, rendendo praticamente visibile tutta la
membrana. La porzione visibile della membrana timpanica,
inoltre, non è sufficientemente ingrandita per permettere di
identificare, ad esempio, perforazioni di limitate dimensioni.
L’otoscopia microscopica consiste nella visualizzazione
del condotto uditivo esterno e della membrana timpanica
attraverso un microscopio operatorio interponendo, fra il
microscopio e l’orecchi da esaminare, un cono da otoscopia
di idonee dimensioni. Questa metodica consente di apprezzare molto dettagliatamente ogni particolare del condotto e
specialmente della membrana timpanica in quanto la visione
risulta molto più ingrandita (6-11X). È evidente che i limiti
di visibilità del timpano sono gli stessi dell’otoscopia tradizionale.
La video-oto-endoscopia auricolare consente una visione
più raffinata e completa del condotto uditivo e del timpano.
Per utilizzare in modo efficace e sicuro la video-oto-endoscopia è necessario acquisire tutte le informazioni anatomiche dell’orecchio e nel contempo conoscere le componenti
del video- endoscopio e le indicazioni d’utilizzo.
L’orecchio esterno è formato da due parti di cartilagine
ricoperte da cute. La porzione più ampia, cartilagine auricolare, forma il padiglione auricolare e la maggior parte del
condotto uditivo. Il padiglione si avvolge su se stesso, formando delle pieghe anatomiche, dove inizia il canale auricolare esterno. Questo condotto varia in lunghezza (da 5 a 10
cm in base alle dimensioni dell’animale) e, classicamente, è
costituito da una porzione verticale e una orizzontale. La
porzione verticale origina dal padiglione auricolare e si
estende in direzione ventro-rostrale ripiegandosi medialmente, dove un prominente rilievo cartilagineo separa il tratto verticale da quello orizzontale. Quest’ultimo si estende
medialmente fino a raggiungere la membrana timpanica. La
cute che ricopre il condotto uditivo è costituita da un’epider-
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mide sottile e derma che contiene gli annessi (follicoli piliferi, ghiandole sebacee e apocrine). La membrana timpanica
è una struttura epiteliale che separa l’orecchio esterno dalla
cavità dell’orecchio medio posta medialmente. Il timpano
del cane è costituito da una pars flaccida e una pars tensa.
La pars flaccida è una piccola area della parte dorsale-anteriore del timpano; è relativamente flaccida e abbastanza
vascolarizzata. La maggiore parte della membrana timpanica che viene visualizzata all’esame otoscopico è invece
costituita dalla pars tensa che si presenta, in condizioni normali, traslucida con striature che si estendono dal manubrium del malleus o martello (uno degli ossicini dell’orecchio insieme a incudine e staffa) verso la periferia. Nella
sezione mediana della membrana timpanica è visibile una
struttura biancastra a forma di C con la punta bassa raddrizzata, tale struttura corrisponde alla prominenza ossea (manubrium del malleus) che separa la cavità timpanica dalla bolla timpanica . La cavità timpanica è divisa in tre parti: dorsale, media e ventrale. La dorsale è la più piccola e contiene
il manubrio, l’incudine e la staffa. La staffa è attaccata ad un
forame vestibolare (finestra ovale) che porta verso l’orecchio interno. La parte media è adiacente alla membrana timpanica e una prominenza cocleare unisce una parte interna
del timpano alla finestra rotonda (o cocleare) che comunica
con il labirinto osseo della coclea. Questa è la struttura da
evitare quando si compie una miringotomia. L’apertura della tuba uditiva (tuba di Eustachio) è posizionata nella parte
rostro-mediale della cavità timpanica; comunica con il nasofaringe. Infine la parte ventrale è la bolla timpanica che rappresenta la porzione più estesa. Nel gatto la cavità timpanica è nettamente divisa in due camere da un setto osseo che
si estende, con andamento curvilineo, dalla porzione medio
craniale della bolla fino a quella medio laterale.
Rispetto alla visione data dal classico otoscopio, il videooto-endoscopio garantisce una maggiore e istantanea visione, tramite schermo, della visita otoscopica. Le fibre ottiche,
il miglioramento della fonte di luce e la miniaturizzazione
delle videocamere insieme all’endoscopio rigido (diametro
2,7 e 4 mm) hanno condotto allo sviluppo della video-otoendoscopia. Questo equipaggiamento può essere connesso
ad un monitor, a software per acquisizione d’immagini (con
stampa) e filmati. La visualizzazione delle immagini permette di procedere ad un esame del condotto uditivo accura-
205
ta: presenza di cerume, ectoparassiti, corpi estranei, iperplasia ghiandole ceruminose, erosioni, ulcere ecc.; della integrità della membrana timpanica; infine della bolla timpanica
(presenza di materiale ceruminoso, purulento, neoplasie o
colesteatomi).
Attraverso la video-oto-endoscopia è possibile effettuare,
sotto visione, prelievi bioptici tramite pinze flessibili bioptiche/chirurgiche, tamponi in cavità timpanica (con o senza
miringotomia) ed effettuare lavaggi e pulizie dell’orecchio
tramite vie di servizio nelle camicie dell’ottica. L’immissione di soluzione fisiologica a temperatura corporea può essere effettuata tramite sacca spremitrice, per semplice gravità
o attraverso irrigatori appositi (siringhe da 20-60 ml connessi con valvole a tre-vie al canale di servizio dell’ottica o irrigatori specifici elettrici).
L’efficacia dell’utilizzo del video-oto-endoscopio è dovuta non solo alla possibilità di eseguire al meglio procedure
sia diagnostiche (tamponi, ago-infissioni, biopsie ecc…) che
terapeutiche (asportazione piccole neoformazioni, lavaggio
e pulizia del condotto uditivo e/o della bolla timpanica); ma
anche al fatto di potere refertare tramite fogli con immagini
e/o CD con immagini e filmati al proprietario e al veterinario referente mostrando le condizioni cliniche dell’orecchie
dell’animale.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Giovanni Ghibaudo: [email protected]
Federico Leone: [email protected]
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206
Patologie oculari dei conigli
Cristina Giordano
Med Vet, Torino
Cenni di anatomia
L’orbita è la fossa ossea che separa il bulbo oculare dalla
cavità cranica, lo circonda, lo protegge e attraverso forami
permette a vasi e nervi di raggiungerlo. Essa inoltre contiene un plesso venoso retrobulbare (seno orbitale) e le ghiandole lacrimali associate al globo oculare.
Il coniglio possiede 4 ghiandole lacrimali:ghiandola lacrimale e ghiandola lacrimale accessoria situate dorso lateralmente,ghiandola superficiale e ghiandola profonda (di Harder) associate alla terza palpebra
Le lacrime drenano attraverso l’unico punto lacrimale
situato nella porzione mediale del sacco congiuntivale ventrale circa 3-4mm centralmente al margine palpebrale.Il dotto lacrimale decorre attraverso l’osso lacrimale, l’osso
mascellare, poi in prossimità della radice dei molari e degli
incisivi ed emerge a livello della mucosa nasale a pochi millimetri dalla giunzione muco cutanea. A livello della mascella prossimale e alla base dell’incisivo superiore esso va
incontro a due restringimenti, importanti nello sviluppo delle ostruzioni.
La cornea occupa circa il 25% dell’intero globo
La testa del nervo ottico è posizionata a circa un diametro
di disco sopra la linea mediana dell’occhio. Fibre nervose
mielinizzate si estendono orizzontalmente da entrambi i lati
del disco ottico e sulla superficie di tali fibre si possono
osservare vasi retinici maggiori. Il coniglio ha una retina che
viene denominata “merangiotica.
Patologie orbitali
Prolasso del globo
A causa della posizione anatomica del globo oculare,
naturalmente sporgente, il bulbo può facilmente prolassare a
seguito di traumi anche di lieve entità.
Esoftalmo
La causa più comune di esoftalmo è la presenza di un
ascesso o cellulite retrobulbare che si può formare in segutito, ad esempio, ad infezioni dentarie. Altre cause meno frequenti sono:cisti orbitali (es parassitarie),neoplasie orbitali,anomalie vascolari e/o impedimento di drenaggio dall’orbita (es masse toraciche o trombosi per cateterismo vena
giugulare),grasso orbitale per obesità.
Esoftalmo intermittente può verificarsi durante la visita
clinica per congestione del seno vascolare orbitale.
Patologie delle palpebre, della congiuntiva
e della terza palpebra
A carico delle palpebre possono verificarsi difetti di posizionamento, processi infiammatori e neoplastici.
Tra i difetti di posizionamento la patologia che si osserva
più comunemente è l’entropion che può essere primario,
come descritto nei conigli bianchi Nuova Zelanda e French
lop, o secondario alla formazione di cicatrici in seguito a
blefariti o blefarocongiuntiviti e può interessare sia la palpebra superiore che quella inferiore. I principali segni clinici in
corso di entropion includono epifora, blefarospasmo, iperemia congiuntivale e, in alcuni casi, cheratite ulcerativa. La
terapia è prettamente chirurgica.
Le blefariti sono processi infiammatori spesso associati a
congiuntivite, che si manifestano inizialmente con iperemia
e lieve scolo mucoso a cui può far seguito la comparsa di
scolo muco purulento. Possono essere conseguenti a cause
irritative (polveri o difetti di posizionamento palpebrale),
infettive (Pasteurella spp, Treponema cuniculi, Staphilococcus aureus, Haemophilus spp e Mixoma virus) oppure a
patologie dentali.
Le neoplasie palpebrali le più comunemente riportate
sono il carcinoma squamocellulare, il fibrosarcoma ed il
melanoma.
Per quanto concerne le congiuntiviti, possono essere primarie, associate a blefariti, cheratiti o a gravi patologie dell’intero occhio (ad es. uveiti o panoftalmiti), o possono essere correlate ad infezioni del tratto respiratorio superiore. Tra
le cause più frequenti di congiuntivite non infettiva si possono annoverare la cheratocongiuntivite secca, i traumi e gli
stimoli allergenici ambientali. Nelle congiuntiviti infettive
spesso si riscontra la presenza di abbondanti quantità di batteri e virus, che costituiscono la normale flora congiuntivale. Fattori predisponenti lo sviluppo di tali forme di congiuntivite possono essere rappresentati da stress o inadeguate condizioni ambientali.
Le patologie che si riscontrano a livello di terza palpebra
interessano principalmente le ghiandole lacrimali e, nella
pratica clinica, si osserva più frequentemente il prolasso della ghiandola profonda.
Disordini del Sistema Lacrimale
Le condizioni patologiche che possono interessare con
maggior frequenza il sistema naso lacrimale sono l’ostruzio-
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ne del dotto naso lacrimale e le dacriocistiti.
Un’ostruzione del dotto nasolacrimale si può verificare
per la presenza di materiale mucopurulento denso conseguente a patologie congiuntivali o ad infezioni. Anche patologie dentali o cambiamenti ossei dell’osso mascellare,
secondari a iperparatiroidismo nutrizionale, possono indurre
un’ostruzione del dotto. Tra le patologie dentali una malocclusione dei molari e dei premolari e, meno frequentemente,
degli incisivi, può indurre retropulsione dei denti stessi e
creare danni al dotto nasolacrimale.
Il segno clinico più caratteristico di dacriocistite è la presenza di scolo oculare che può variare da semplice epifora a
scolo mucoso- muco purulento.
L’utilizzo di esami radiografici o tomografici, e l’esecuzione di una dacriorinocistografia sono di ausilio nell’individuare la causa e la localizzazione dell’ostruzione. La terapia è volta alla risoluzione della patologia primaria, specialmente alla correzione di eventuali patologie dentali.
Patologie della cornea
Distrofie corneali
Si manifesta come un’opacità di forma solitamente ovalare, bianco-grigiastra situata in posizione assiale o temporale,
negativa alla colorazione con fluoresceina.
Cheratopatia lipidica
Per cheratopatia lipidica si intende la deposizione all’interno della cornea di colesterolo o dei suoi esteri, fosfolipidi
ed esteri di acidi grassi. Può presentarsi in forma uni o bilaterale e macroscopicamente appare come un’opacità biancogrigiastra in posizione perilimbare o ventromediale accompagnata da neovascolarizzazione della cornea.
Dermoide
Il dermoide è costituito da un’isola di tessuto dermico
situato in posizione aberrante in seguito ad un anormale
invaginamento del tessuto ectodermico, durante la vita
embrionale. Sulla cornea si reperta solitamente a livello limbare temporale.
Cheratiti ulcerative
Le cheratite ulcerative si dividono in:ulcere corneali
superficiali,erosioni persistenti superficiali indolenti ed
ulcere profonde o stromali
Le ulcere corneali superficiali sono caratterizzate da epifora e/o scolo mucoso, muco-purulento, edema corneale di
lieve entità, prova con fluoresceina debolmente positiva. Se
limitate allo strato superficiale (epitelio), possono rimarginare rapidamente e richiedono unicamente una terapia antibiotica topica.
Le erosioni persistenti superficiali indolenti sono caratterizzate da segni clinici sovrapponibili a quelli delle ulcere
corneali superficiali. L’epitelio corneale appare edematoso e
mobile ai bordi delle erosioni.
Le ulcere profonde o stromali sono caratterizzate da un
marcato arrossamento della congiuntiva bulbare, blefarospasmo di grado variabile, edema e neovascolarizzazione corneale; possono avere una profondità variabile ed assumere
207
un colore giallo-verdastro (ascessi corneali), soprattutto
quando la causa scatenante è la penetrazione di un corpo
estraneo di natura vegetale.
Uveiti
Le uveiti nel coniglio possono essere causate da batteri
quali Pasteurella multocida e Staphylococcus aureus, microsporidi quali Encephalitozoon cunicoli, traumi, neoplasie
quali il linfoma. I segni clinici possono essere variamente
rappresentati da iperemia congiuntivale, edema corneale,
vascolarizzazione corneale e iridea,ascessi iridei, sinechie
anteriori, flare, ipopion, cataratta.
Uveite facoclastica
È sostenuta dall’Encephalitozoon cunicoli che è un parassita intracellulare obbligato che infetta i conigli ed altri
mammiferi. I conigli nani e i New Zealand bianchi sembrano essere più sensibili all’infezione. La forma oculare si
manifesta con cataratta, granulomi infiammatori, uveite lente indotta (LIU) di tipo facoclastico (legata cioè alla rottura
della capsula anteriore della lente ed alla conseguente
improvvisa esposizione dell’uvea alle proteine lenticolari e
glaucoma secondario.
Le indagini diagnostiche prevedono le analisi sierologiche
(ICA/IFA, Elisa), la citologia lacrimale (colorazioni calcofluor white, trichrome modified), il centrifugato delle urine
e la paracentesi dell’acqueo.
Glaucoma
Può essere primario (ereditario nel coniglio bianco di Nuova Zelanda ed associato al gene bu) o secondario ad uveite batterica, trauma o neoplasia (linfoma). I segni clinici sono: buftalmo, iperemia congiuntivale, aumento del diametro corneale,, riduzione dei riflessi pupillari, edema corneale, cupping del
disco ottico (segno clinico tardivo) e perdita della visione. Il
glaucoma è apparentemente meno doloroso nel coniglio rispetto al cane e al gatto. Con il passare dei mesi la pressione intraoculare spesso ritorna nei range della norma probabilmente a
causa di una diminuzione di produzione di acqueo dovuta ad
una marcata atrofia dei corpi ciliari.
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bilateral exophthalmos associated with metastatic thymic carcinoma
in a pet rabbit,J Small Anim Pract, 46:393-7.
Indirizzo per la corrispondenza:
Cristina Giordano
Studio Veterinario Oculistico Galileo
C.so Galileo Ferraris 121. Torino
E mail:[email protected]
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“Le razze: motivazioni e vocazioni”
Sabrina Giussani
Med Vet Comportamentalista,Dpl ENVF, Busto Arsizio (VA)
Dove si sono incontrati l’uomo ed il cane?
L’uomo ha incontrato il lupo e non il cane.
Il cane, quindi, è il frutto dell’incontro e non il partner
dell’incontro stesso. Inoltre, è opportuno chiedersi se anche
l’uomo (così come lo concepiamo) sia l’esito dell’incontro
più che il partner dell’incontro (R. Marchesini).
Le attuali conoscenze sulla natura sociale del lupo hanno
contribuito a chiarire la preferenza dell’uomo primitivo per
questa specie rispetto ad altre come lo sciacallo ed il coyote.
Questi ultimi, infatti, vivono in coppia, non possiedono né
struttura sociale né capacità comunicative mimiche e posturali simili a quelle dell’uomo. Inoltre, cacciano piccole prede la cui carne avrebbe sfamato con difficoltà le famiglie
umane. Uomini e lupi hanno spartito per molti millenni lo
stesso territorio di caccia come nemici e competitori.
L’evoluzione dell’uomo
6 milioni di anni fa
3 milioni di anni fa
2 milioni di anni fa
1,7 milioni di anni fa
500 mila anni fa
190 – 150 mila anni fa
Pongidi (gorilla,
scimpanzè, oranghi),
Ominidi
Australopitecus robustus
Homo abilis
Homo erectus
Homo sapiens
Homo sapiens neanderthalensis
Homo sapiens sapiens
La domesticazione degli animali da utilità
8000 a. C.
6000 a. C.
4000 a. C.
3500 a. C.
2500 a. C.
Maiale, pecora, capra
Bue, gatto
Cavallo, asino, bufalo
Lama, alpaca
Dromedario, cammello
Tutto ciò suggerisce che il processo di domesticazione del
cane si differenzia da quello di altri animali poiché non è stato realizzato in base ad esigenze performative dettate dal territorio.
Le ricerche effettuate sul Dna mitocondriale da C. Vilà et
al (1999) posizionano il processo di domesticazione del cane
circa 135000 anni fa mentre P. Savolainen et al (2002) lo
collocano intorno ai 40000 anni fa. La presenza del cane ha
favorito la crescita della sicurezza del gruppo famigliare: la
notte è una sentinella, il giorno collabora nella caccia e nella difesa del gruppo durante gli spostamenti. Il cane, nel
periodo Paleolitico, ha influenzato lo stile di vita dell’uomo
tanto che Allmann sostiene che la presenza di questo animale abbia contribuito a favorire l’affermazione dei sapiens
rispetto ai neandertaliani. Gli effetti della co – evoluzione
riguardano il miglioramento delle tecniche di caccia, un’alimentazione più ricca, un incremento riproduttivo a cui fa
seguito un’espansione sia dell’uomo che del cane.
La domesticazione e le razze
Le ricerche realizzate non hanno fatto chiarezza sulle
dinamiche dell’incontro: è stato l’uomo ad avvicinarsi al
lupo o viceversa? Il semplice incontro, inoltre, non è sufficiente per spiegare la domesticazione del cane. È necessario
che si realizzi un processo di adozione per rendere operative
l’alleanza e l’affiliazione. L’adozione nasce da un comportamento epimeletico messo in atto dall’adottante e da una riconoscibilità et – epimeletica dell’adottabile (R. Marchesini).
Le teorie maggiormente accreditate indicano che l’adottabile può essere stato rinvenuto nei pressi dell’accampamento
oppure trovato durante una battuta di caccia. La tesi Autointegrativa proposta da R. e L. Coppinger sostiene che nel
periodo Mesolitico il lupo si sia avvicinato al villaggio e ne
abbia tratto un vantaggio selettivo legato alla minore mortalità. La tesi del Maternaggio, invece, ipotizza che durante il
periodo Paleolitico, l’uomo abbia raccolto un cucciolo di
lupo e la donna lo abbia allattato al seno, poiché gli erbivori
non erano ancora stati addomesticati (R. Marchesini).
I concetti di addomesticare, ammansire e domare spesso
sono confusi con il processo di domesticazione. Questo ultimo si differenzia dai precedenti poiché comporta la rottura
con il pool genetico della popolazione del progenitore e prevede un’ibridazione sia ontogenetica che filogenetica. La
domesticazione, tra i tanti parametri, richiede all’animale la
capacità di riprodursi una volta sottratto dalla propria nicchia ecologica. Le nuove direttrici selettive sono, così, antropocentrate: è l’uomo che ne modifica i parametri (pressione
selettiva antropocentrata).
Quanto più i caratteri et – epimeletici persistono nell’adulto, tanto più il soggetto sarà in grado di evocare cura e
accudimento nell’uomo aumentando le possibilità di
sopravvivenza e riproduzione. Inoltre, l’uomo primitivo,
seleziona la docilità, la remissività, la ridotta tendenza alla
fuga, la tolleranza alle manipolazioni e le capacità collaborative. Il cane primordiale è di taglia inferiore e possiede
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un muso più corto rispetto a quello del lupo. L’encefalo ha
una dimensione inferiore del 20%: la riduzione è soprattutto a carico delle aree sensitive, così come accade nella
maggior parte degli animali domestici. Il cane rispetto al
lupo tende a mantenere alcuni caratteri giovanili (neotenia)
o a presentare caratteri che imitano quelli giovanili (pseudoneotenia) (R. Marchesini).
Gli accoppiamenti controllati hanno dato luogo alla nascita delle razze, popolazioni estremamente omogenee all’interno di una specie originate per volere dell’uomo (B. Gallicchio). La selezione ha attraversato periodi ben distinti.
Dapprima è empirica e basata sull’attitudine al lavoro: l’interesse per la morfologia è scarso ed i riproduttori sono provati sul campo. In seguito, grazie alla standardizzazione
(vedi tabella), emerge un sempre maggiore interesse per le
caratteristiche estetiche: nell’epoca vittoriana l’allevamento
inizia ad indirizzarsi verso anomalie o peculiarità che assumono il valore di simbolo di qualità e di prestigio.
Definizione di standard
Lo standard è la descrizione di una variante genetica prodotta artificialmente dopo l’isolamento riproduttivo di una piccola popolazione (prole).
Nel 1822, infatti, nascono il pedigree ed il Libro d’Allevamento dove i soggetti sono riconoscibili con un nome e un
numero. Intorno agli anni ’30 la selezione si disinteressa al
comportamento della razza: la divergenza dal tipo primitivo
è notevole e la consanguineità in continuo aumento. Compare, così, la fase critica caratterizzata da alterazione della
riproduzione, alta frequenza di patologie ereditarie, alto tasso di mortalità infantile e longevità ridotta (maltrattamento
genetico). Clamoroso è l’esempio del Pastore Tedesco dove,
attualmente, è presente una vistosa differenza dal punto di
vista estetico e comportamentale tra le linee da lavoro e da
bellezza. La variazione dell’aspetto morfologico ha provocato la modificazione di alcune motivazioni (ad esempio la
collaboratività e la concentrazione sono venute meno) ed un
innalzamento dell’arousal (o attivazione emozionale).
Le razze così selezionate sono state classificate con differenti modalità. È possibile evidenziare:
• Classificazione convenzionale – morfologica (tipologie
fondamentali: lupoidi, braccoidi, molossoidi, graioidi);
• Razze specializzate e non specializzate;
• Classificazione FCI (Federazione Cinologica Internazionale, evidenzia dieci gruppi e ciascuno comprende differenti razze);
• Classificazione anglosassone (sporting/ gundogs, hound,
working, terrier, toy, non sporting/ utility, herding/ pastoral, miscellaneous).
Motivazioni e vocazioni
Le motivazioni sono disposizioni di orientamento verso
un target o un’espressione comportamentale (R. Marchesini). Indicano l’orientamento del soggetto verso il mondo
esterno e definiscono “ciò che cerca nel mondo” (la sensibi-
210
lità verso particolari stimoli) e “cosa l’individuo si propone
di fare” (la tendenza ad esprimere un certo comportamento).
Le motivazioni sono un retaggio filogenetico: hanno un
valore adattativo per la sopravvivenza della specie e sono
riferibili alla selezione naturale, non a processi di apprendimento. Ogni specie, infatti, nasce con un retaggio motivazionale di tendenze ad esprimere particolari comportamenti.
I behaviouristi hanno ignorato il concetto di motivazione,
considerando i soli fabbisogni fisiologici o di mantenimento
del corpo (mangiare, bere, dormire, respirare e così via). L’etologia classica, invece, riteneva la motivazione una forma di
energia da sfogare attraverso un comportamento (teoria psicoenergetica). Nell’approccio cognitivo la mente funziona
in maniera sistemica e non analitica: dal punto di vista neurobiologico la motivazione è spiegata in termini di set neurali (ovvero gruppi di neuroni interconnessi) che, attivando
una cascata di eventi fisiologici, provocano l’espressione di
un comportamento (repertorio cinestesico ed uno stato del
corpo). L’approccio cognitivo considera la motivazione
un’attivazione complessa che coinvolge anche altre componenti cognitive come le emozioni (risposte reattive di base,
indotte dall’ambiente e da stati mentali, componenti fondamentali del processo di apprendimento) e l’arousal (livello
di attivazione emozionale) (R. Marchesini).
I set neurali che caratterizzano le motivazioni sono sottoposti a Darwinismo neuronale: quanto più una motivazione
è sollecitata tanto più si potenzierà. Le motivazioni sono,
quindi, rafforzate ontogeneticamente: la prevalenza di un
assetto motivazionale rispetto ad un altro dipende dallo sviluppo ontogenetico del soggetto. Ad esempio, lanciando più
e più volte una pallina, il proprietario “non sfogherà” la
necessità del cane di rincorrere oggetti in movimento abbassando la motivazione predatoria. Invece, ne aumenterà il
volume favorendo l’apparizione di un comportamento di
inseguimento indirizzato verso ciclisti, podisti e così via.
Le motivazioni prevalenti indicano lo spettro vocazionale
dell’individuo, cioè a che cosa è interessato. Inoltre, ogni
razza possiede alcune motivazioni enfatizzate ed altre
neglette: questo assetto indica la vocazione di razza, ossia
ciò verso cui il cane è predisposto (R. Marchesini). In alcune razze, motivazioni sinergiche (una data motivazione agisce rafforzandone un’altra) e controlaterali (una data motivazione agisce inibendone un’altra) si sovrappongono
ponendo le basi per una fragilità emozionale. Ciò accade ad
esempio nel Dalmata, cacciatore e guardiano delle carrozze,
o nel Dobermann, cacciatore di topi, guardiano dei cavalli e
difensore dei postiglioni lungo le strade.
La pedagogia cinofila e la terapia comportamentale “lavorano” anche sulle motivazioni dell’individuo modificandone
il volume o dando una cornice (contesto) alla motivazione
stessa. È opportuno ricordare che queste ultime non possono
essere né eliminate né aggiunte ma è possibile modificare il
loro volume all’interno dell’assetto posizionale del soggetto
agendo sulla stimolazione, sull’esercitazione, sulla gratificazione e così via. Per disciplinare una forte motivazione è
necessario legarla ad un target (un contesto, come ad esempio una rappresentazione cinestesica) mentre è possibile
enfatizzare una motivazione negletta attraverso la stimolazione, l’esercizio, la gratificazione (lavorando contemporaneamente sull’assetto emozionale e sull’arousal).
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Le principali tipologie di motivazione del cane sono predatoria, sillegica (raccogliere oggetti e portarli nella cuccia o
in un nascondiglio), sociale, esplorativa, territoriale, competitiva, possessiva, collaborativa, ludica ed epimeletica (aiutare ad accudire un compagno). Un importante obiettivo pedagogico consiste nell’allargare l’orizzonte motivazionale del
soggetto in modo da favorire l’emissione di comportamenti
adeguati all’integrazione nella società attuale. È bene ricordare che, quando si lavora sulle motivazioni in ambito educativo o terapeutico, è necessario cercare il consenso motivazionale del soggetto per non scivolare nell’ambito imperativo o coercitivo. Le motivazioni rappresentano il motore del
comportamento dell’individuo: se un’attività trova il consenso della motivazione l’attività è “voluta”, se un’attività
non trova il consenso o addirittura incontra il dissenso l’attività è “dovuta”. Le attività volute incentivano e rafforzano la
relazione con il proprietario (R. Marchesini). Inoltre, ogni
situazione vissuta dal cane è marcata da un’emozione che
mette il corpo nelle migliori condizioni per affrontarla. Per
questo è importante collegare ogni processo d’apprendimento ad emozioni positive.
Razze specializzate e non specializzate
L’Autore si soffermerà in modo dettagliato sulla Classificazione razze specializzate e non specializzate poiché
meglio si adatta all’applicazione dei concetti di motivazione
e vocazione. Inoltre saranno descritte le caratteristiche dei
gruppi attualmente più diffusi.
Il comportamento delle razze specializzate è stato sottoposto a selezione in modo da evidenziare in particolar modo
alcune attitudini (E. Garoni). Le capacità ricercate si basano
sulla motivazione predatoria, amplificata e ritualizzata. Le
razze specializzate comprendono:
• I pastori conduttori del bestiame (Pastore Tedesco, Pastore Belga e &, Border Collie, Australian Shepherd, etc);
• I cani da ferma (Bracco Italiano, Spinone, Bracco Tedesco, Epagneul Breton, Pointer, Setter e &, Cocker Spaniel,
etc);
• I retriever (Labrador Retriever, Golden Retriever, Flat
Coated, Curly Coated, Cheasepeake Retriever);
• I cani da slitta (Siberian Husky, Alaskan Malamute,
Groenlandesi);
• I terrier (Parson Jack Russel Terrier, West Highland Terrier, Yorkshire Terrier, Fox Terrier, Bull Terrier, Staffordshire Bull Terrier, etc);
• I molossi (Mastino Napoletano, Cane Corso, Dogue de
Bordeaux, Boxer, Rottweiler, Dogo Argentino, Bulldog
Inglese, Mastiff, Alano, etc).
La selezione, per quanto riguarda i pastori conduttori del
bestiame, ha favorito la motivazione collaborativa (E. Garoni). Il cane, la maggior parte delle volte in seguito all’indicazione del conduttore, sposta gli armenti utilizzando la bocca (ad esempio i Bovari), la voce (ad esempio il Pastore Bergamasco) o lo sguardo (ad esempio il Pastore Australiano).
Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione collaborativa, sociale inter - ed
intraspecifica, predatoria, esplorativa, territoriale. La motivazione difensiva è, al contrario, bassa. Per quanto riguarda
211
lo spettro vocazionale, si evidenzia un/ una importante:
• legame sociale con gli eterospecifici;
• predatorietà (anche nel gioco);
• mandato di responsabilità;
• collaborazione con il conduttore.
Una notevole variabilità di razza è presente nella vocazione relativa al mantenimento del possesso. Inoltre, l’arousal
di questi individui è alto poiché devono prestare continuamente attenzione allo spostamento del bestiame.
Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe:
• esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (auto – accreditamento per l’individuo e base della relazione con il proprietario) ed imparare a concentrarsi/
attendere (modellare l’arousal);
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal);
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul
proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere
(modellare l’arousal).
Inoltre, è fondamentale non frustrare la motivazione
sociale (ad esempio isolando il Pastore Tedesco in un grande giardino) e non incentivare la motivazione predatoria (ad
esempio con il lancio di oggetti).
I retriever – cani da riporto derivano dal Cane di Terranova. Sono specialisti nel ritrovare e riportare (dall’inglese “to
– retrieve”, rintracciare, riportare) la selvaggina abbattuta.
Per questo i retriever sono grandi cacciatori: l’olfatto è molto sviluppato così come la perseveranza nel seguire la traccia fino al recupero (B. Gallicchio). Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione predatoria, esplorativa, sillegica, sociale inter - ed
intraspecifica, possessiva, collaborativa. È opportuno evidenziare che la motivazione predatoria è gratificata in sé: il
cane non è ricompensato dal “Bravo” ma dal riporto. Inoltre,
la collaborazione permette la chiusura della sequenza predatoria grazie al “Lascia”. Le motivazioni difensiva e territoriale sono, al contrario, basse Per quanto riguarda lo spettro
vocazionale, si evidenzia un/ una importante:
• esplorazione olfattiva;
• predatorietà (anche nel gioco);
• legame sociale con i con – e gli eterospecifici
• mantenere il possesso;
• collaborazione con il conduttore.
L’arousal di questi individui è alto poiché devono continuare a cercare il selvatico ferito o abbattuto seguendo la
traccia olfattiva anche in terreno umido o in acqua.
Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe:
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal);
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul
proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere
(modellare l’arousal);
• esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (auto – accreditamento per l’individuo e base della relazione con il proprietario) ed imparare a concentrarsi/
attendere (modellare l’arousal).
Inoltre, è fondamentale non incentivare sia la motivazione
predatoria (ad esempio con il lancio di oggetti) sia il riporto
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di oggetti target in autonomia al fine si scoraggiare l’esplorazione orale degli stessi.
I terrier derivano dai segugi: inseguono il selvatico sottoterra nella tana, lo afferrano e lo portano all’esterno. Sono
molto combattivi tanto che da confrontarsi anche con prede
di taglia superiore alla loro. Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione predatoria, esplorativa e possessiva. Le motivazioni difensiva, collaborativa e sociale inter – e intraspecifica sono, al contrario,
basse. Per quanto riguarda lo spettro vocazionale, si evidenzia un/ una importante:
• esplorazione olfattiva;
• predatorietà (anche nel gioco);
• tendenza a mantenere il possesso (non devono riportare
ma estrarre);
• agonismo inter – ed intraspecifico (sono competitivi).
La collaborazione con il proprietario non è mai stata
richiesta ai terrier così come la difesa di un territorio. L’arousal di questi individui è alto: sono caratterizzati da un
profilo emozionale eccitabile.
Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe:
• esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (base della relazione con il proprietario) ed imparare a
delegare le responsabilità (cerca e lascia);
• esercitare la collaboratività al fine di imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal).
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal);
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul
proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere
(modellare l’arousal).
Inoltre, è fondamentale non frustrare la motivazione
esplorativa e non incentivare sia la motivazione predatoria
(ad esempio con il lancio di oggetti) sia l’agonismo.
Dal ceppo dei cani da montagna (definiti oggi Molossoidi) originano i molossi (mastini), termine forse derivato dalla parola latina “mansata” che significa cane appartenente
alla casa. L’eredità dei pastori guardiani appare ancora oggi
evidente. Infatti, la maggior parte delle razze era adibita a
tenere a bada il bestiame più irruente come ad esempio il
maiale. Inoltre, sono descritti grossi molossi utilizzati per
cacciare il leone e l’asino selvatico presso gli Assiri o come
cani da guerra per combattere contro i nemici appiedati ed i
loro cavalli (B. Gallicchio). Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione difensiva (nei confronti delle risorse e degli esseri umani), territoriale, competitiva e possessiva (nei confronti degli oggetti).
Le motivazioni collaborativa, sociale inter – e intraspecifica
ed esplorativa sono, al contrario, basse. Per quanto riguarda
lo spettro vocazionale, si evidenzia un/ una importante:
• difesa del territorio;
• tendenza a mantenere il possesso;
• agonismo interspecifico.
È importante evidenziare che Boxer e Rottweiler sono
attualmente straordinari cani da lavoro nonostante il ridotto
volume della motivazione collaborativa. L’arousal ed il profilo emozionale sono bassi.
Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe:
• esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risulta-
212
to (base della relazione con il proprietario) ed imparare a
delegare le responsabilità (chiedere al proprietario il permesso di iniziare un’azione);
• esercitare la collaboratività al fine di imparare ad attendere;
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a scovare/ cercare (al fine di
modellare la difesa ed il possesso);
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere;
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul
proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere.
È fondamentale disciplinare le motivazioni fin dal
momento dell’adozione in modo da esaltare la dimensione
collaborativa per evitare conflitti nel gruppo uomo - cane al
momento della maturazione sociale.
Le razze non specializzate originano dai cani dei villaggi.
Motivazioni e vocazioni sono legate alla caccia ed alla protezione e normalmente esercitate. Per questo, il conduttore
non deve possedere particolari abilità (E. Garoni). Le razze
non specializzate comprendono:
• I cani da caccia da seguita (Segugi Italiani, Segugi Tedeschi, Bassotti, Beagle, Bloodhound, etc);
• I levrieri primitivi (Cirneco dell’Etna, Levriero dei Faraoni, Podengo Ibicenco, Podengo Portoghese, Gruppo dei
cani nudi));
• I guardiani degli armenti (Pastore Maremmano – Abruzzese, Pastore Bergamasco, Pastore del Caucaso, Cane da
Montagna dei Pirenei, Bovaro del Bernese, etc).
I cani da caccia da seguita (segugi) cercano, scovano,
inseguono, catturano ed a volte uccidono la preda. La seguita è caratterizzata dall’uso della voce con la quale i cani
segnalano di essere all’inseguimento e mantengono il contatto con il cacciatore. Si tratta del metodo di caccia più primitivo e naturale per il cane (B. Gallicchio). I segugi lavorano in mute ed il comportamento agonista è poco sviluppato.
Il compito del cacciatore si limita a dare il via alla coreografia iniziale eccitatoria: il cane, in un secondo tempo, segue il
selvatico rincorso a sua volta dal conduttore. I segugi non
hanno bisogno di apprendere dall’uomo che cosa seguire e
come farlo, imparano soprattutto dagli altri cani. Inoltre, crescono a contatto con gli animali da cortile che non saranno
cacciati in futuro (E. Garoni).
Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione predatoria, esplorativa e sociale soprattutto intraspecifica. Le motivazioni territoriale,
difensiva e collaborativa (il cacciatore dà solamente il via al
cane) sono, al contrario, basse. Per quanto riguarda lo spettro vocazionale, si evidenzia un’importante predatorietà
(tendenza a cercare, scovare, inseguire, catturare, uccidere).
L’arousal di questi individui è alto: sono caratterizzati da un
profilo emozionale eccitabile sensibile alla coreografia che
dà il via alla caccia.
Il percorso educativo di pedagogia cinofila dovrebbe:
• esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (base della relazione con il proprietario);
• esercitare la collaboratività al fine di centripetare l’attenzione del cane (l’attenzione del cane deve essere rivolta al
proprietario e non all’ambiente che lo circonda);
• esercitare la collaboratività al fine di imparare a concentrarsi/ attendere (modellare l’arousal);
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• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul
proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere
(modellare l’arousal);
• esercitare il possesso e la difesa per ridurre la tendenza a
cercare, scovare.
Inoltre, è fondamentale non frustrare la motivazione
esplorativa e sociale poiché gli schemi comportamentali
innati relativi alla vita “in muta” sono molto forti.
L’origine dei pastori guardiani degli armenti risale all’età pastorale. I cani crescono e vivono sempre all’interno del
gregge tanto da considerare questi animali come componenti del gruppo sociale. L’educazione è compito degli
adulti già presenti nel gregge mentre l’essere umano ha
pochi rapporti con i cani stessi. I pastori guardiani si muovono con gli armenti, allertano, difendono e minacciano.
Non cacciano, uccidono o mangiano gli animali con cui
sono cresciuti (E. Garoni).
Gli individui appartenenti a questo gruppo, sono caratterizzati da un’alta motivazione territoriale, difensiva e possessiva. Le motivazioni collaborativa, predatoria ed esplorativa sono, invece, basse. Per quanto riguarda lo spettro vocazionale si evidenzia un/ una importante:
• difesa del territorio;
• diffidenza verso gli estranei (esseri umani);
• legame sociale con i conspecifici;
• autonomia decisionale.
L’arousal ed il profilo emozionale sono bassi. Il percorso
educativo di pedagogia cinofila dovrebbe:
• esercitare la collaboratività al fine di acquisire un risultato (base della relazione con il proprietario) ed imparare a
delegare le responsabilità (chiedere al proprietario il permesso di iniziare un’azione);
• esercitare la collaboratività al fine di imparare ad attendere;
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a scovare/ cercare (al fine di
modellare la difesa ed il possesso);
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sull’ambiente ed imparare a concentrarsi/ attendere;
• esercitare l’esplorazione per acquisire informazioni sul
proprio corpo ed imparare a concentrasi/ attendere.
La gratificazione effettuata con la voce, il contatto ed il
cibo è poco importante per questi cani. Il percorso educativo
cercherà di trasformare la ricompensa in un tempo di attesa
(“Aspetta”) che, una volta rispettato, permetterà la realizzazione del comportamento desiderato dal cane.
213
È fondamentale disciplinare le motivazioni fin dal
momento dell’adozione in modo da esaltare la dimensione
collaborativa per evitare conflitti (difficilmente risolvibili)
nel gruppo uomo - cane al momento della maturazione
sociale. Inoltre, le motivazioni difensiva e sociale non devono essere frustrate.
Conclusioni
Il percorso educativo inizia fin dal momento dell’adozione del cucciolo: la pedagogia cinofila ha il compito di realizzare lo sviluppo armonico dell’individuo. È fondamentale, quindi, esercitare le motivazioni di ampio volume e allenare quelle depresse in modo da trasformare le vocazioni in
doti evitando le fissazioni. È opportuno ricordare che l’apprendimento non completa ciò che è innato ma dà forma
all’individuo. Per questo tanto più è forte una vocazione,
tanto più necessita di apprendimento o esercizio.
La conoscenza del repertorio motivazionale – vocazionale delle differenti razze permetterà al Medico Veterinario di
fornire al proprietario fondamentali informazioni relative al
“carattere” del soggetto che desidera adottare. Inoltre, la
visione pedagogica permette un dialogo migliore tra il Medico Veterinario e l’Educatore Cinofilo: il Medico Veterinario,
durante la visita di Educazione Cucciolo, traccerà un profilo
dell’individuo e fornirà le linee guida del processo pedagogico che sarà realizzato dall’Educatore Cinofilo.
Bibliografia
Atti, II Edizione Corso Educatori Cinofili, maggio 2006 – maggio 2007,
organizzato da SIUA;
B. Gallicchio, “Lupi travestiti, le origini biologiche del cane domestico”,
Edizioni Cinque, Biella 2001;
J. Clutton – Brock, “Storia naturale della domesticazione dei mammiferi”,
Bollati Boringhieri Editoria S.r.l., Torino 2001;
R. Marchesini, “L’identità del cane”, Apèiron Editoria e Comunicazione
S.r.l., Bologna 2004;
R. Marchesini, “Pedagogia cinofila introduzione all’approccio cognitivo
zooantropologico”, Alberto Perdisa Editore, Bologna 2007.
Indirizzo per la corrispondenza:
Sabrina Giussani
[email protected] - [email protected] - Tel: 3331861226
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Educazione del cliente e dell’animale:
corretta impostazione e gestione del colloquio
Sabrina Giussani
Medico Veterinario Comportamentalista, Master in Etologia applicata e Benessere animale,
Diplomato Medico Veterinario Comportamentalista ENVF, Consigliere SISCA
INTRODUZIONE
Le informazioni sui possibili rischi per la salute dell’animale, legati ad un’alimentazione non corretta, sono spesso
ignorate dal proprietario. Questo ultimo, infatti, sostiene di
amare così tanto il proprio pet da non potergli negare l’affetto sotto forma di cibo! L’inadeguata alleanza terapeutica
tra Medico Veterinario, Cliente e Pet è un problema di primaria importanza nella prevenzione e nel trattamento dell’obesità del cane e del gatto. È opportuno ricordare che alcuni
stati patologici conseguenti a malattie del comportamento,
possono essere alla base dell’obesità. La bulimia è, infatti,
un sintomo presente nello stato ansioso permanente e nella
depressione cronica. Inoltre, la restrizione alimentare può
peggiorare la sintomatologia di malattie dl comportamento
preesistenti o indurne la nascita. Durante la progettazione di
un piano di restrizione alimentare è necessario eseguire
un’accurata valutazione comportamentale.
LA RELAZIONE UOMO - ANIMALE:
LA DIMENSIONE DI CURA
Al fine di valutare l’importanza della relazione uomo –
animale nella genesi dell’obesità, un recente studio pilota (A
Comparison of the Feeding Behavior and the Human–Animal
Relationship in Owners of Normal and Obese Dogs, Ellen
Kienzle, Reinhold Bergler and Anja Mandernach) ha reclutato 60 coppie proprietario/ cane obeso e ad altrettante formate
da proprietario/ cane normale. Dall’elaborazione dei dati raccolti con l’aiuto di un questionario, è emerso che il legame tra
proprietario/ cane obeso è più stretto rispetto a quello esistente tra proprietario/ cane normale: il proprietario ha meno
paura di contrarre malattie, affronta con l’animale un gran
numero di argomenti di discussione, dorme spesso con il
cane, osserva a lungo il pet mentre mangia, somministra un
numero elevato di pasti e spuntini al cane, considera poco
importante l’esercizio fisico ed il lavoro collaborativo. Queste osservazioni indicano che la somministrazione del cibo è
una piacevole forma di comunicazione e d’interazione con il
cane: il proprietario di un cane obeso interpreta ogni esigenza dell’animale come una richiesta di cibo. Inoltre, appare
poco attento alla propria salute e trasferisce non solo le proprie abitudini alimentari all’animale ma anche la mancanza
di apprezzamento per una buona condizione fisica.
E. Kienzle e R. Berglery hanno osservato che solo una piccola percentuale di gatti obesi riesce a perdere peso utiliz-
zando diete dimagranti. Tuttavia, studi clinici controllati eseguiti in laboratorio hanno mostrano che la restrizione alimentare consente ai gatti coinvolti di raggiungere una riduzione del peso. È, dunque, possibile ipotizzare una mancanza di compliance (alleanza terapeutica) da parte dei proprietari di gatti obesi. Un recente studio (Human-Animal Relationship of Owners of Normal and Overweight Cats, Ellen
Kienzle and Reinhold Berglery) ha coinvolto 120 proprietari
di gatti, 60 animali normali e 60 in sovrappeso. L’inchiesta
ha esaminato il rapporto uomo - animale, alcuni aspetti del
comportamento del gatto ed alcune caratteristiche personali
del proprietario (come ad esempio la salute e le abitudini alimentari). Dall’elaborazione dei dati raccolti con l’aiuto di un
questionario è emerso che il legame tra proprietario/ gatto
obeso è più stretto rispetto a quello esistente tra proprietario/
gatto normale: il proprietario parla con l’animale affrontando un gran numero di argomenti (lavoro, famiglia, amici e
conoscenti), la convivenza con il gatto lo ha rassicurato e
consolato, l’animale è considerato non solo un membro della famiglia ma anche un bambino da accudire. La maggior
parte dei proprietari di gatti obesi guarda il proprio animale
mentre mangia. Inoltre, i proprietari di gatti normali utilizzano il gioco come premio mentre i proprietari di gatti obesi offrono all’animale il cibo preferito. L’alimentazione ad
libitum è un fattore di rischio controverso. Infatti, soltanto in
alcuni studi è emerso che la possibilità di avere libero accesso al cibo è correlata all’obesità. La maggior parte dei proprietari di gatti obesi percepisce il proprio animale più
magro di quanto non sia in realtà. Una possibile spiegazione
può essere che il gatto non appare quasi mai in pubblico e,
di conseguenza, le persone commentano saltuariamente la
condizione fisica dell’animale. A differenza dei dati ottenuti
dalla ricerca svolta sui proprietari di cani la maggior parte
dei proprietari di gatti obesi è di sesso femminile.
Le osservazioni raccolte mostrano che la somministrazione del cibo potrebbe essere una piacevole forma di comunicazione e d’interazione con il gatto: il proprietario di un gatto obeso interpreta ogni esigenza dell’animale come una
richiesta di cibo. Gli Autori hanno interpretato le differenze
evidenziate nella relazione tra proprietario/ cane – gatto obeso come indicatori di eccessiva umanizzazione dell’animale.
Secondo l’approccio zooantropologico, la relazione si differenzia dalla semplice interazione. Nella relazione è riconosciuta la soggettività dell’animale: il cane è una controparte sociale, un interlocutore, una referenza. L’accreditamento del pet comporta un interscambio non solo sulla base
dei contenuti ma anche sulla base dei ruoli sociali che ven-
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gono negoziati. La negoziazione dei ruoli sociali comporta
la definizione di dimensioni o livelli, ciascuna caratterizzata
da una specifica funzione di transazione. Una delle dimensioni di base della relazione uomo – animale è quella affettiva: l’interscambio è basato sulla protezione, sulla rassicurazione, sull’offerta/ richiesta di aiuto, sulla condivisione
emozionale. L’area affettiva mostra differenze d’espressione
che variano a seconda del ruolo assunto dal fruitore: epimeletico (offre protezione, cura, sicurezza, alimento), et – epimeletico (chiede protezione, conferme, sicurezza, alimento).
Il partner umano mostra un comportamento protettivo nei
confronti dell’animale assumendo il ruolo del genitore e
mostra l’atteggiamento tipico dell’accudimento parentale.
Un eccesso epimeletico può provocare lo sbilanciamento
della relazione e, di conseguenza, una deriva proiettiva nel
rapporto. Nel caso di tendenze surrogatorie dove il pet assume il ruolo di animale – bambino o animale – figlio è necessario integrare la dimensione affettiva con le altre dimensioni di relazione (ludica, epistemica, edonica, sociale, affiliativa) (R. Marchesini). Un approccio psicologico, come la
sostituzione di un comportamento associato all’alimentazione con un comportamento di gioco può migliorare la compliance dei proprietari di gatti che partecipano a programmi
di riduzione del peso (E. Kienzle e R. Berglery).
IL CLIENTE: LO STADIO DEL
CAMBIAMENTO
La reticenza del cliente ad intraprendere un percorso terapeutico dovrebbe essere interpretata come un problema di
motivazione al cambiamento e di consapevolezza dell’esistenza di un problema, piuttosto che come una resistenza
incosciente, un tentativo di sabotare gli sforzi del terapeuta.
Questa differente visione appare quando si pensa al cliente
in funzione del suo livello di motivazione, di coscienza o di
preparazione al cambiamento. L’attitudine, le aspettative e
gli interventi del terapeuta devono, quindi, adattarsi. Prochaska e Diclemente (1983) hanno proposto una teoria del
cambiamento psicoterapico composta di cinque stadi. Ogni
stadio mostra la percezione del cliente di fronte alla situazione problema. Secondo gli Autori esiste un legame tra lo
stadio del cambiamento ed i processi psicologici indispensabili da mettere in atto per produrre un cambiamento. Young
nel 1992 ha proposto un modello semplificato in quattro stadi che ben si adatta alle nostre esigenze.
Nel primo stadio, detto di pre – intenzione, il cliente non
è cosciente della situazione problema e si mostra completamente reticente verso qualsiasi tentativo di presa in carico. Il
cambiamento, secondo il cliente, comporta conseguenze
negative rispetto alla persistenza dello stato di difficoltà in
cui si trova. Nello stadio successivo, di intenzione, il cliente
è cosciente dell’esistenza della situazione problema ma ne
sminuisce l’importanza, nega il bisogno di aiuto o ritiene che
nessuno possa assisterlo. Fa seguito la fase di azione in cui
il cliente desidera il cambiamento e comincia a cambiare o a
cercare un aiuto esterno. Il progetto terapeutico può, quindi,
essere messo in opera. Infine, la fase di mantenimento consiste nel mantenere i risultati ottenuti e permette ulteriori
progressi del cliente. In questo stadio gli Autori collocano la
215
possibile ricaduta. È necessario che il terapeuta annunci la
possibilità di una recrudescenza della sintomatologia, così
che la fidelizzazione del cliente sia ancor più importante.
Infatti, quando un evento è previsto ed annunciato, viene più
facilmente affrontato e superato dalla coppia cliente – terapeuta.
Secondo il modello presentato, il Medico Veterinario, per
raggiungere l’obiettivo terapeutico, dovrà adattandosi al
livello di motivazione ed allo stadio di cambiamento del
cliente. Solo nella fase di azione è possibile realizzare una
terapia volta alla soluzione della situazione problema.
Questo concetto è riportato anche da Malarewicz (1996).
Esiste una profonda differenza tra domanda e processo terapeutico Quando il cliente fissa un appuntamento con il
Medico Veterinario, effettua una domanda terapeutica e
spesso il procedimento si arresta a questo livello. Infatti, il
cliente si accontenta di aver preso contatto con il professionista e rimette nelle mani di quest’ultimo il suo destino. Il
Medico Veterinario dovrà, durante il colloquio, trasformare
la domanda in processo terapeutico valutando lo stadio di
cambiamento in cui si trova il cliente ed adattando il proprio
intervento terapeutico.
È necessario, quindi, lasciare al cliente il tempo necessario per far proprie le informazioni ricevute e prepararsi al
cambiamento.
IL MEDICO VETERINARIO ED IL CLIENTE:
L’ALLEANZA TERAPEUTICA
La prima tappa della relazione terapeutica consiste nello
stabilire un’alleanza terapeutica con il cliente. Lo scopo dell’interazione è suscitare un’impressione positiva attraverso
l’empatia, il calore umano, la sincera preoccupazione e l’assenza di giudizio/ pregiudizio. L’alleanza terapeutica implica la percezione di un lavoro in comune, della collaborazione tra i partecipanti.
Per favorire una corretta interazione è necessario condurre la visita all’interno di un setting ben definito (ad esempio
la sala visite). Il setting è l’insieme delle condizioni metodologiche entro le quali si può osservare, descrivere, comprendere l’oggetto di conoscenza, che ne permette l’obiettivazione (B. Alessio).
Le attitudini elementari di ascolto, di attenzione, di rilancio e di ripetizione sono alla base della nascita dell’alleanza
terapeutica.
L’attitudine all’attenzione
Consiste nel mostrare attenzione (soprattutto utilizzando
la comunicazione non verbale) in modo che il cliente percepisca l’interesse del terapeuta.
Mantenere il contatto visivo
Il contatto visivo è il più importante indizio d’ascolto e di
coinvolgimento. È opportuno evidenziare che un contatto
mantenuto troppo a lungo può essere inappropriato. È necessario interrompere il contatto visivo di quando il quando, in
modo naturale.
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Mantenere una distanza adeguata
La distanza fisica può essere più o meno grande ma, quando il terapeuta ed il cliente sono l’uno di fronte all’altro, è
consigliabile rimanere a circa 1,50 m.
gia il suo cane?” è una domanda aperta). Inoltre, spesso
sono formulate sottoforma di frase affermativa o imperativa
per evitare di dare la sensazione al cliente di essere sottoposto ad un interrogatorio.
La postura
È necessario assumere una postura detta “di coinvolgimento”: un atteggiamento rilassato ma vigile che comunica
la disponibilità all’ascolto. Inclinare leggermente il busto in
avanti in occasione dei “punti critici” del colloquio, carichi
di emozione, trasmettono l’interesse del terapeuta e la volontà di venire in aiuto al cliente. Inoltre, una postura aperta,
senza braccia e gambe incrociate, sembra incoraggiare il
cliente ad aprirsi.
Il silenzio attento
I momenti di silenzio permettono, sia al Medico che al
cliente, di riflettere. Inoltre il silenzio è spesso la riposta più
appropriata a rivelazioni dolorose che riguardano la vita del
cliente (ad esempio un lutto). È bene che il terapeuta rimanga in silenzio in modo da essere presente senza interferire.
Inoltre, il silenzio incita il cliente ad esprimere le proprie
emozioni.
I gesti e l’espressione facciale
L’espressione del viso del Medico deve essere adeguata
alle emozioni mostrate dal cliente durante il colloquio. Inoltre, alcuni gesti (ad esempio mangiarsi le unghie, tamburellare con le dita, giocare con la penna, cambiare frequentemente posizione) possono disturbare l’interazione facendo
trasparire disinteresse o impazienza.
Toccare il cliente
Il contatto fisico può essere un importante fattore di coinvolgimento emozionale. È necessario valutare attentamente
la disponibilità del cliente, quale tipo di contatto realizzare
ed in quale momento del colloquio.
L’attitudine al rilancio
Questa attitudine, aiuta il cliente a parlare di sé, all’interno di una situazione non coercitiva, senza manipolazioni.
Gli inviti
L’invito indica la disponibilità all’ascolto del Medico.
Abitualmente avviene durante la prima fase del colloquio e
lascia trasparire l’assenza di giudizio. Il terapeuta può formulare osservazioni che invitano il cliente a parlare ad libitum come ad esempio “Mi può dire qualche cosa di più a
questo proposito?”.
Gli incoraggiamenti
Sono risposte verbali molto brevi che comunicano l’interesse ed il coinvolgimen