P A R A G R A F O - Università degli Studi di Bergamo
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§ PARAGRAFO RIVISTA DI LETTERATURA & IMMAGINARI Paragrafo Rivista di Letteratura & Immaginari pubblicazione periodica coordinatore FRANCESCO LO MONACO Redazione FABIO CLETO, DANIELE GIGLIOLI, MERCEDES GONZÁLEZ DE SANDE, FRANCESCO LO MONACO, FRANCESCA PASQUALI, VALENTINA PISANTY, LUCA CARLO ROSSI, STEFANO ROSSO, AMELIA VALTOLINA Segreteria di Redazione STEFANIA CONSONNI Ufficio 211 Università degli Studi di Bergamo P.za Rosate 2, 24129 Bergamo - tel: +39-035-2052744 / 2052706 email: [email protected] - web: www.unibg.it/paragrafo webmaster: VICENTE GONZÁLEZ DE SANDE La veste grafica è a cura della Redazione La responsabilità di opinioni e giudizi espressi negli articoli è dei singoli collaboratori e non impegna la Redazione Questo numero è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Lettere, Arti e Multimedialità © Università degli Studi di Bergamo ISBN – 978-88-95184-97-5 Sestante Edizioni / Bergamo University Press Via dell’Agro 10, 24124 Bergamo tel. 035-4124204 - fax 035-4124206 email: [email protected] - web: www.sestanteedizioni.it Stampato da Stamperia Stefanoni - Bergamo A Sergio (1969-2007) Paragrafo IV (2008) Sommario INCONTRI §1. GIOVANNI SOLINAS, La critica tra dialogo e conflitto. Conversazione con Romano Luperini 9 FIGURE §2. NICCOLÒ SCAFFAI, Fortuna e sfortuna di un poeta editore. Inediti di Domenico Buratti 31 §3. PAOLA DI MAURO, Da dandy. L’intellettuale dada contro la guerra 55 §4. GABRIELE BUGADA, La pazzia del tiranno. Ritratti di un potere bandito 73 QUESTIONI §5. LUIGI MARFÉ, In viaggio con Erodoto. Appunti per una tipologia dell’anti-turismo contemporaneo 99 §6. GIANPAOLO IANNICELLI, Tra le crepe della memoria. Dinamiche e criticità del processo di trasmissione del passato 113 STERNIANA §7. STEFANIA CONSONNI, Schemi di costruzione spaziale del tempo in Tristram Shandy 135 §8. STEFANO A. MORETTI, “Quell’inquieto calesse”. Deviazioni spaziotemporali in Laurence Sterne e Prosper Mérimée 163 I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO 183 NUMERI ARRETRATI 185 § PARAGRAFO IV INCONTRI § 1 La critica tra dialogo e conflitto Conversazione con Romano Luperini a cura di Giovanni Solinas Romano Luperini è uno studioso attivo ormai da più di quarant’anni. Critico militante, storico della letteratura e teorico dell’interpretazione, è stato uno dei principali animatori del dibattito culturale degli ultimi decenni. Si è confrontato con il fitto succedersi di autori, movimenti, proposte critiche e svolte metodologiche, e insieme con i grandi passaggi della vita sociale ed intellettuale italiana del secondo Novecento. È venuto così maturando una originale prospettiva critica, che, partendo da una base solidamente marxista-materialista, di orientamento prevalentemente benjaminiano, si è poi aperta alla discussione con le filosofie del dialogo (Gadamer innanzitutto). La sua critica si è sempre caratterizzata come fortemente ancorata al contesto reale, storico-sociale delle opere. Negli ultimi vent’anni si è molto interessato, in quest’ottica, alle questioni relative alla postmodernità, affrontate con un taglio decisamente critico, al problema della perdita di centralità della figura dell’intellettuale, ed all’insegnamento della letteratura nella scuola. I suoi autori d’elezione (sui quali ricordiamo i suoi studi più importanti) sono innanzitutto Verga (Pessimismo e verismo in Giovanni Verga, 1982; Simbolo e costruzione allegorica in Verga, 1989), Tozzi (Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, 1995), Montale (Montale o l’identità negata, 1984; Storia di Montale, 1986; Montale e il canone poetico del Novecento, a cura di, con M.A. Grignani, 1998). Fra i suoi testi di maggior interesse, dal punto di vista della proposta teorica, bisognerà ricordare almeno L’allegoria del Moderno (1990) e Il dialogo e il conflitto (1999). Un tentativo recente di coniugare ermeneutica e critica tematica è L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale (2007). Luperini teorizza da tempo un modello di critica letteraria che prevede il concorso di due diversi movimenti: il conflitto, inteso come conPARAGRAFO IV (2008), pp. 9-27 10 / GIOVANNI SOLINAS fronto, dibattito anche acceso fra proposte d’interpretazione diverse, ed il dialogo, figura che traduce, invece, la relazione fra l’orizzonte del testo e quello dell’interprete. Conflitto, confronto, dialogo: tutte nozioni la cui sfera di senso è dominata dall’idea dell’alterità, dell’apertura agli altri, al fuori, alla realtà esterna allo spazio monadico del pensiero soggettivo. Ma un’intervista può essere considerata un vero confronto, un vero dialogo? La dinamica di domanda e risposta che essa prevede può ritenersi lo strumento di una costruzione partecipativa del senso? L’interrogativo non è poi così retorico: la domanda, dice Barthes in Le neutre (1977-78), è un esercizio – se pur in forma minima – di potere, la messa in atto di un meccanismo elementare di costrizione: “C’è sempre un terrorismo della domanda; in ogni domanda è implicato un potere. La domanda nega il diritto di non sapere”. Indubitabilmente vero, ma solo se la domanda, anziché essere concepita come il primo atto di uno scambio dialogico, diviene un meccanismo che costringe l’interlocutore a rimanere entro i binari prospettici di chi la pone. D’altronde, sempre nel Barthes di Comment vivre ensemble (1976-77) si possono rintracciare i termini essenziali di una pratica della convivenza applicabile, in senso positivo, alla dimensione relazionale della conversazione: l’indicazione di un criterio di delicatezza su cui dovrebbe reggersi il vivere insieme e il cui principio primo sia quello del “non maneggiare l’altro, non manipolarlo”; ad essere invocate, in questo caso, sono la disposizione all’ascolto, la capacità di porre un limite al desiderio di espressione di sé (e di controllo sull’altro), la volontà di offrire il proprio silenzio alle ragioni dell’interlocutore: tutte componenti costitutive della conversazione. Verrà magari da obiettare che difficilmente la dimensione dell’apertura si attaglia ad un intellettuale come Luperini, che ha fatto della coerenza e della fedeltà a se stesso la sua cifra principale. È vero il contrario. È solo in quanto parte di un dibattito, di un conflitto con le idee del suo tempo, che una prospettiva come quella di Luperini può arrivare a definirsi. Un doppio movimento prezioso, in un’epoca in cui le diverse proposte teoriche, interpretative, letterarie, tendono a sovrapporsi, nella coscienza di chi cerca di starvi al passo, senza stabilire un rapporto profondo, vero, con la sua visione del mondo. Il che è forse il portato inevitabile di una società in cui l’apertura al mondo esterno, anziché rappresentare l’occasione di sentire l’attrito della realtà, rischia di diventare, come direbbe Fortini, l’esposizione senza difese ai fantasmi (dei significanti, delle immagini, dei mondi paralleli) che ci si moltiplicano attorno. CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 11 Vorrei aprire quest’intervista proponendole uno sguardo retrospettivo su alcune delle fasi più significative sia del dibattito critico letterario italiano degli ultimi quarant’anni, che della sua formazione di critico e di studioso della letteratura. La sua attività critica è nata e si è sviluppata entro un’area ideologica esplicitamente marxista. Più specificamente: ripensando a Marxismo e letteratura (e anche a Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopoguerra), si potrebbe definire la sua come una prospettiva molto vicina all’orientamento ideologico del cosiddetto marxismo critico, che affondava le sue radici già nel decennio precedente; penso a figure come Fortini, ad esempio. Eppure mi sembra che con Fortini, per quanto le vostre visioni possano dirsi simili sotto moltissimi aspetti, ci siano alcune differenze di fondo: in Fortini c’è un’insistenza fortissima su una sorta di aristocraticità dell’arte, veicolo di un’altezza e di un’intensità di significati che la rende una dimensione cui la realtà (secondo l’idea di Adorno) deve aspirare. Nella sua visione, invece, è la considerazione dell’opera d’arte e della letteratura come convenzione, prodotto culturale storico-sociale (certo ben presente anche in Fortini, ma in forma forse più debole) a ricevere un rilievo maggiore. Ho conosciuto Fortini nel 1965, appena dopo essermi laureato, ed è innegabile che egli abbia esercitato una forte influenza non soltanto su di me, ma su tutto il gruppo di giovani che si raccoglieva allora attorno alla rivista Nuovo impegno. D’altro canto rappresentava per noi un riferimento essenziale anche un’altra figura intellettuale, quella di Sebastiano Timpanaro. Timpanaro allora abitava nella mia città, Pisa e, proprio nel 1965, uscì il suo libro Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, attorno al quale si produsse una grossa discussione all’interno del nostro gruppo. In quell’anno uscì anche Scrittori e popolo di Asor Rosa. Ed in effetti devo dire che questi due testi, oltre a Verifica dei poteri di Fortini, anch’esso del 1965, condizionarono profondamente la mia formazione. A questo si deve aggiungere quella sorta di “utero sozzo della storia” – come avrebbe detto Vittorini – da cui venivamo tutti, rappresentato grosso modo da quella forma di storicismo di sinistra che aveva a Pisa come maestro Luigi Russo, e che vedeva i suoi interpreti e riferimenti principali in Petronio e Muscetta, da me conosciuti pochi anni dopo (il mio primo libro infatti – la mia tesi di laurea, uscita poi con il titolo Pessimismo e verismo in Giovanni Verga – fu pubblicato da Petronio, mentre con Muscetta entrai in contatto successivamente; o meglio, fu Muscetta che mi contattò, per farmi collaborare alla Storia della letteratura della Laterza). Rispetto a Fortini sì, può 12 / GIOVANNI SOLINAS darsi che da parte mia ci fosse una maggiore attenzione all’arte come prodotto culturale e storico-sociale, ma l’elemento di distinzione più importante era un altro, vale a dire la maggior sottolineatura che facevamo allora (oggi direi a torto) dell’elemento negativo nella valutazione dell’arte: in questo senso eravamo, probabilmente, un po’ condizionati da Asor Rosa. Il mio Marxismo e letteratura, che parzialmente – cosa significativa – era già uscito, in spagnolo, in America Latina, ed il cui primo saggio era stato pubblicato nel 1967 da Che Guevara sulla rivista Casa de las Américas, esprimeva proprio quest’idea dell’arte come splendore e orrore, facendosi portatore di una critica non solo della letteratura, ma alla letteratura. Ecco, credo che questo elemento, inizialmente, fosse assai più pronunciato in me che in Fortini. Non va poi dimenticata l’influenza fortissima che in quegli anni ebbe su di me Benjamin: lessi Benjamin attorno al ’65-’66 e fu una lettura decisiva, forse più di qualsiasi altra; ed in Benjamin era molto forte la convinzione che il patrimonio culturale, ed in generale qualsiasi prodotto di cultura, fosse anche un prodotto di barbarie. La sua insistenza sulle idee di Gramsci (quasi un caso isolato, il suo, nel panorama critico italiano) e sul suo originalissimo modello, che lei, in Controtempo, ha definito nei termini “di una pragmatica e di una ermeneutica materialistiche, intrinsecamente estranee a ogni assolutismo”, mi sembra essenziale. Che ruolo ha avuto il pensiero gramsciano nella sua formazione? In realtà, inizialmente, non soltanto io, ma tutto il gruppo di cui facevo parte assunse una posizione molto negativa su Gramsci. Anche in questo caso fummo parzialmente influenzati da Asor Rosa. Allora, infatti, vedevamo Gramsci come l’anticipatore di Togliatti, e la critica alla politica culturale del PCI portava automaticamente con sé quella a Gramsci, che a me ed agli altri sembrava troppo debitore, nonostante tutto, di Croce. Cambiai poi idea nel corso degli anni Settanta. Probabilmente il mutare della situazione storica contribuì a determinare il graduale modificarsi della mia valutazione: a partire dal ’73 (bisogna tener presente che in Italia c’è stato un ’68 prolungato: cominciò nel ’65, per lo meno a Pisa, e di fatto finì con il compromesso storico, nel ’73), quando fu chiaro che non era più possibile nessuna prospettiva di trasformazione rapida, mi resi conto che probabilmente Gramsci, con la sua idea secondo cui era possibile un lungo viaggio attraverso le istituzioni, poteva risultare utile. Recentemente, poi, sono ritornato su Gramsci, vedendo in lui un forte elemento relativistico ed ermeneutico. Gramsci, cioè, mi pare oggi portatore di una concezione che in- CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 13 tende la storia come qualcosa che si fa attraverso la sua stessa interpretazione: interpretando la storia noi la cambiamo, ci troviamo cioè ad essere protagonisti di un conflitto delle interpretazioni che contiene, in realtà, un fine pragmatico, rivolto ad una trasformazione. Pensandoci meglio, ora che mi viene in mente, il momento decisivo, nell’inversione di segno che subì la mia considerazione di Gramsci, è rappresentato da un saggio, mai riunito in volume, in cui analizzavo le differenti letture che Gramsci e Togliatti davano della politica di Giolitti. Allora io mi occupavo de La Voce, e presi posizione contro Asor Rosa e Carpi, che de La Voce avevano una visione critica: i vociani, infatti, erano considerati da loro sostanzialmente dei sovversivi di destra. Io vedevo invece un parallelo fra la ribellione della generazione vociana e quella del ’68; certo ero consapevole della presenza, all’interno del gruppo vociano, di spinte di destra, ma notavo che Gramsci era stato a favore de La Voce, come di Lacerba, e addirittura anche dei primi futuristi. In più c’era, appunto, una divergenza capitale di valutazione, fra Gramsci e Togliatti, nei confronti di Giolitti: Togliatti (e sia Asor Rosa che Carpi si attestarono sulla sua posizione, in definitiva perché convertitisi al compromesso storico) era favorevole a Giolitti. La posizione di Gramsci, invece, era profondamente antigiolittiana, dunque simile a quella dei giovani vociani. Proprio accorgendomi di questa continuità filo giolittiana dei dirigenti del PCI e degli studiosi di questo partito cominciai a studiare con maggiore attenzione il pensiero di Gramsci. Scrissi su Gramsci, Giolitti e La Voce un saggio, che uscì nella rivista Belfagor, e che riscosse il consenso di Timpanaro; questi riprese la questione e proprio su questo argomento pubblicò uno dei suoi libri più belli, Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana. Bisogna infatti tener presente che un altro elemento caratterizzante la posizione di Carpi e di altri critici della sinistra di allora era la critica a Leopardi, esempio negativo, a loro dire, di intellettuale isolato. Si era creato un fronte entro il quale rientravano Salinari autore di un saggio pro-Manzoni e contro Leopardi, Asor Rosa e Carpi, i quali sostenevano le ragioni di Giolitti e si schieravano contro i Vociani. Asor Rosa giunse persino a dare un giudizio positivo della Controriforma (dietro, ancora una volta, c’era il compromesso storico, in ossequio al quale si cercava di far passare l’idea che la Controriforma fosse stata una grande operazione di egemonia culturale messa in atto dalla Chiesa). Nel mio lungo saggio presi appunto posizione contro tutta questa linea cominciando a sviluppare una posizione che, come ho detto, Timpanaro poi appoggiò ed ampliò in un libro che oggi mi pare uno dei suoi capolavori polemici. 14 / GIOVANNI SOLINAS Sempre restando agli anni Sessanta, nella sua accoglienza dello strutturalismo apparvero da subito le questioni che caratterizzeranno anche in seguito la sua posizione in merito: la sua opposizione rispetto ad un certo atteggiamento scientista, tendente a favorire i singoli specialismi analitici ed a rifiutare il momento della sintesi, la sua critica ad un tipo di studio che sacrificava la specificità e la singolarità dell’opera all’astrazione, allo schema formale, rimanendo così al di qua della scommessa interpretativa. Eppure da più parti, anche nell’ambito di quella sinistra di cui si parlava, si sosteneva la necessità di un aggiornamento, dell’acquisizione di rinnovati strumenti teorici, attraverso i quali superare quella cultura genericamente idealista-cattolica che era ancora preponderante in Italia. Non c’è stato un momento in cui si è creduto che lo strutturalismo potesse fornire questi strumenti, in cui si è creduto che lo si potesse usare? Se lei, adesso, dovesse fare un bilancio obiettivo sugli aspetti positivi dello strutturalismo italiano, a cosa penserebbe? Ha portato delle novità positive, crede che ci siano stati aspetti in esso impliciti che non sono stati sviluppati? Nel 1968 pubblicai un saggio intitolato Le aporie dello strutturalismo e la critica marxista, in cui esponevo i miei motivi di critica allo strutturalismo. Ne attaccavo in primo luogo la tendenza a favorire l’ordine e la struttura, tendenza spinta sino a disconoscere, o ad abolire, l’elemento della contraddizione; in secondo luogo, ne criticavo l’autoreferenzialità: in molta critica strutturalista si negava di fatto il valore conoscitivo, nonché la funzione referenziale dell’arte. E la concezione della autoreferenzialità portava, naturalmente, ad oscurare la genesi storica dell’opera. Ricordo che fui uno dei primi a criticare Gli orecchini di Montale di Avalle, vedendovi un esempio eclatante della tendenza all’abolizione delle implicazioni storiche nell’analisi testuale. Le faccio soltanto un esempio: nella poesia di Montale, accanto all’immagine della donna di fronte allo specchio, compare quella degli aerei da guerra. A questo proposito Avalle parla di un “inserto civile” che non avrebbe alcuna importanza, come fosse qualcosa che guasta l’ordine del testo. Io lo ritenevo, invece, un elemento sostanziale, responsabile della vera tragicità del messaggio poetico, e mi sembrava che Avalle lo scartasse solo perché non rientrava nello schema descrittivo che aveva ingegnosamente approntato. Era presente poi un terzo motivo polemico nella mia posizione: gli strutturalisti sostenevano di essere avalutativi, mentre in realtà, nei loro modi critici, lasciavano comunque intravedere una valutazione, ed una valutazione di un certo tipo: quando si dice ad esempio che certe ripetizioni di suoni costituiscono la CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 15 funzione poetica della lingua, si attribuisce ad essi, di fatto, anche un criterio di valore. Questa mia visione, fortemente critica, era inscritta entro una convinzione ideologica di fondo, che mi portava a considerare lo strutturalismo come un movimento omologo alla logica del neocapitalismo, in accordo, di nuovo, con Timpanaro (più che con Fortini, che su queste questioni, invece, intervenne molto poco). Ora, però, nonostante tutto questo, io non ho mai negato che esistessero nelle proposte degli strutturalisti degli elementi utili al lavoro del critico. La mia tesi era infatti la seguente: bisogna criticare l’ideologia dello strutturalismo, ma certe tecniche, che esso ha insegnato, sono utili e vanno usate. Per sostenere questa tesi scrissi nel ’75-’76 un libro molto agile, una lettura di Rosso Malpelo, in cui intendevo appunto utilizzare, nella mia analisi del testo di Verga, tutti i diversi metodi d’analisi allora a disposizione, ma con il massimo di disprezzo verso la loro pretesa di organicità e completezza; volevo utilizzarli, cioè, come puri strumenti. Mi rivolsi innanzitutto alla narratologia: ai formalisti russi, in particolar modo; ma utilizzai, anche la psicanalisi e certo, nello scrivere questo libro, ebbe una grande importanza, per me, anche il lavoro di Francesco Orlando Per una teoria freudiana della letteratura. Feci ricorso poi anche al Frye di Anatomia della crtica, che pure aveva posizioni ideologiche lontanissime dalle mie. Ceserani parlava dell’importanza dell’eclettismo metodologico. Lei era d’accordo su questo? …e disse, appunto, recensendo subito quel libro, che ero stato eclettico. Io gli risposi che non si trattava di eclettismo. È vero, utilizzavo vari metodi, ma da un punto di vista unitario, un punto di vista critico-negativo. La conclusione del mio saggio era questa: l’inferno di Rosso Malpelo è ‘bello’, esiste un rapporto stretto, dunque, fra orrore e splendore, e l’arte ha la capacità di trasformare l’orrore in splendore. Cosa deve fare il critico? Limitarsi a mostrare la bellezza dell’opera o evidenziarne anche l’orrore che vi sta dentro? Sceglievo la seconda opzione, mostrando i rapporti sociali sottesi al testo, e la componente materialistica e critico-negativa del racconto verghiano. Oggi sono ancora di quest’idea: lo strutturalismo è stato importante, in quanto ha messo a disposizione del critico una serie di strumenti che ormai non possono essere ignorati. Un libro come L’analisi del testo letterario di Segre, del resto, proviene da quella stagione, e oggi qualsiasi dottorando in materie letterarie ha il dovere di leggerlo. Si 16 / GIOVANNI SOLINAS tratta dei ferri del mestiere, che lo strutturalismo ha determinato per due o tre generazioni. Anche a livello scolastico… In questo caso penso che l’uso che se ne fa sia persino eccessivo. Credo che ridurre la letteratura ad una serie di schemi e schemini, come numerosi manuali scolastici fanno, risulti molto negativo ai fini didattici. Nessuno di noi legge un testo per descriverlo. Ecco, questa è forse la critica di fondo che mi sentirei di fare allo strutturalismo: esso pretendeva di ridurre la critica alla descrizione, mentre la critica è sempre anche interpretazione. Il suo metodo critico, vale a dire l’integrazione fra prospettiva ermeneutica e materialismo (di stampo prevalentemente benjaminiano), come lei ha detto più volte, l’ultima nel Breviario di critica, è caratterizzato dall’attenzione inesausta alla storia, al rapporto fra contesto storico, materiale e culturale, ed opera. Qual è la sua idea di storicismo, in ambito critico letterario, e quali autori hanno rappresentato per lei un riferimento in questo senso? Trovo che nelle sue analisi si trovi un interessante elemento di duplicità, un elemento che, mi sembra, viene fuori in modo evidente anche nel suo recente L’autocoscienza del moderno (penso soprattutto agli studi sul motivo dell’incontro, o sulla figura del giovane, in cui la prospettiva storicista si mescola, in modo a mio parere molto fecondo, all’analisi tematica): da una parte si fa attenzione ad ancorare l’oggetto ‘opera’ al contesto storico in cui sorge, considerando in che modo esso possa dirsi in parte determinato dal plesso di relazioni materiali e culturali proprie alla sua epoca, possa ritenersi in qualche misura espressione di tale insieme: la storia spiega l’opera; da un’altra parte, quasi all’opposto, le grandi opere paiono essere sempre all’avanguardia rispetto al proprio tempo, rappresentano il luogo dell’anticipazione, l’indice immediato del cambiamento: l’opera spiega la storia (ed è in grado di spiegare le epoche a loro stesse). In realtà le mie prese di posizione, sin dai primi scritti, sono state sempre anti-storiciste. Dello storicismo criticavo l’ideologia, cioè l’ipotesi (e questo era il motivo di discussione e di distanza rispetto a Petronio, soprattutto quando nacque il ‘caso’ Verga) di un’evoluzione storica tendente al progresso, lineare. Era l’idea di Petronio, di Muscetta; un’idea che, a mio parere, non teneva conto innanzitutto del fatto che il socialismo non fosse affatto inevitabile – per riprendere una formula che si usava allora –, CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 17 e poi dal fatto che fenomeni come nazismo e fascismo non potessero essere crocianamente redenti: non potevano, cioè, essere identificati con il momento negativo della storia, necessario a far avanzare quello positivo. Non ho mai condiviso questa concezione della storia. Ho sempre accettato, invece, una distinzione fondamentale di Timpanaro, quella fra storicismo e storicità: lo storicismo è un’ideologia, la storicità un metodo di ricerca. E tutt’ora sono dell’idea che un critico effettui sempre una doppia ipotesi. La prima è una congettura di senso: egli ipotizza, infatti, una coerenza di senso entro l’opera, e se non riesce a ricostruirla, fallisce nella sua operazione critica. La seconda, connessa alla prima, è un’ipotesi genetica, dunque storica, cui il critico deve saper collegare tale coerenza di senso. La mia, insomma, non è una posizione meccanicistica nei confronti della storia. La storia non è una sorta di corsa, di maratona, in cui c’è chi sta avanti e chi sta dietro. Il critico deve assumersi la responsabilità della propria visione, deve possedere un’ottica che valuti i fatti storici. In fondo anche la storicizzazione è un atto interpretativo. Non c’è nulla di più discutibile della periodizzazione, ad esempio. Essa apparentemente sembra nascere dalle cose stesse, ma in realtà è un atto attraverso il quale il critico legge e interpreta i fatti. Per quanto riguarda il tema dell’anticipazione, forse è stato più presente in Fortini. È vero: quando scrivo che Mastro don Gesualdo chiude la stagione del liberalismo, dell’uomo che si fa da solo, del capitano d’industria etc., e che dopo di lui sarà possibile solo la figura dell’inetto, da questo punto di vista si può dire che la sua opera chiuda un’epoca e ne apra un’altra. L’idea che l’opera possieda una dimensione profetica, però, non direi che mi appartenga. Negli ultimi anni lei si è interessato molto alla questione dell’insegnamento della letteratura nelle scuole. Ne L’autocoscienza del moderno ha sostenuto che la critica e l’insegnamento letterario siano due attività “in realtà più simili di quanto di solito non si pensi”. Ho pubblicato un libro intitolato Insegnare letteratura oggi, già arrivato alla quarta edizione, e mi sembra significativo che abbia trovato un certo riscontro di pubblico. Forse i lettori sono i futuri professori, coloro che frequentano le Scuole di Specializzazione per l’insegnamento, ma credo comunque che possano esserci anche altre ragioni alla base di una simile diffusione. In questo testo sostengo, in effetti, che la critica letteraria ha un rapporto abbastanza stretto con l’insegnamento. L’elemento in comu- 18 / GIOVANNI SOLINAS ne fra le due dimensioni è la necessità di una spiegazione dei testi che, partendo dalla loro descrizione linguistica e stilistica, li interpreti poi in chiave storica. Sia l’insegnante che il critico devono argomentare tale interpretazione e renderla accetta a un pubblico. La mia tesi di fondo è che si debba fare della classe una comunità ermeneutica, una tesi divenuta piuttosto popolare oggi, anche in seguito al mio manuale La scrittura e l’interpretazione. La formula deriva dal decostruzionismo americano, da Fish, contro cui, ribaltandone il senso, la uso. Secondo Fish, com’è noto, il testo non possiede alcuna datità, nessuna consistenza oggettiva. Io credo, invece, che ce l’abbia e che si debba prenderne atto attraverso un momento analitico e descrittivo, che la si debba insomma considerare, studiare, tenendo sempre presente però che lo scopo finale è quello dell’interpretazione. Si tratta, insomma, di fare del testo il punto di partenza per un discorso rivolto a interpretare non solo l’opera, ma anche l’extratesto. Il giudizio di valore su un’opera, d’altronde, proviene, certo, da qualità interne al tessuto testuale, ma è comunque sempre motivato anche da ragioni ad esso esterne di tipo morale, civile, culturale ecc. Noi diamo valore ai testi, riconosciamo loro un valore sociale, o esistenziale. E lo facciamo attraverso un atto non fondato scientificamente. Ritrovo, qui, altro elemento di critica allo strutturalismo, di cui prima non ho parlato: la sua pretesa scientifica, la riduzione dell’opera d’arte a struttura da descrivere. Mentre la critica è un’ermeneutica, non una scienza. Possiede un’attrezzatura e un rigore scientifici, come la psicanalisi e la storia, ma, a livello interpretativo, non ha possibilità di verifiche oggettive. E la componente soggettiva, puramente ermeneutica, è fondamentale. Di qui la mia polemica contro la tendenza a ridurre la critica ad una serie di schemi descrittivi, senza arrivare mai all’interpretazione diretta del testo. In fin dei conti si tratta di riproporre la questione benjaminiana del rapporto necessario fra commento ed interpretazione, contenuto di fatto e contenuto di verità. In Insegnare la letteratura oggi lei riflette anche sul fatto che per i giovani “il linguaggio della letteratura” è ormai un “linguaggio estraneo e addirittura straniero”. Il modo con cui molti, nell’insegnamento della letteratura, tendono spontaneamente a colmare questa distanza, è quello di proporre ai ragazzi testi letterari, che non soltanto presentino loro contenuti legati alla condizione della gioventù di oggi, temi e modi di pensare in cui gli studenti possano ‘ritrovarsi’, ma anche che assorbano, o che siano in parte improntati, CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 19 ai cosiddetti ‘nuovi linguaggi’ (il linguaggio dell’immagine televisiva, del videoclip, della comunicazione giovanile e così via). In effetti la quotidiana esperienza di insegnamento mostra come l’assunzione di questo tipo di testi risvegli nei ragazzi l’interesse, la volontà di partecipazione alla lettura. Nello stesso tempo non si può sfuggire al sospetto che si corra il rischio, così, di confermarli nella dimensione che essi vivono quotidianamente. Esiste a suo parere un modo per trovare un equilibrio fra queste due esigenze? Per non far percepire agli studenti la letteratura come qualcosa di totalmente distante dalle loro vite, ma allo stesso tempo per cercare di comunicar loro la complessità, se si vuole la differenza – per utilizzare un vecchio concetto – del linguaggio letterario, la sua capacità di veicolare significati, modelli, e anche una forma di piacere, sempre più sconosciuti ai ragazzi e alla contemporaneità in genere? Per quanto riguarda i metodi, io sono sempre stato d’accordo con l’utilizzare a scuola canzonette, video, o quant’altro si ritenga utile per sollecitare l’attenzione degli studenti. Si tratta, però, pur sempre di mezzi. Deve essere chiaro che il fine dell’insegnamento è in realtà far conoscere ed apprezzare la letteratura, quella italiana e quella europea, poiché attraverso di esse passa l’identità culturale del nostro popolo. Per quanto riguarda i contenuti, sono contrario egualmente sia ad ogni posizione dogmatica, sia ad ogni posizione nichilista sul canone. Quest’ultima è molto diffusa in Italia, fra i miei colleghi, e si basa sulla convinzione che il canone non sia necessario, che a scuola il professore possa leggere qualsiasi testo. Non sono d’accordo, il professore non può proporre le poesie del vicino di casa, o le poesie del poeta locale, più o meno improvvisato. Prima di tutto perché si tratta di una cultura non ‘spendibile’ sul mercato culturale e professionale. Cosa serve ad un ragazzo conoscere le poesie dialettali del Salento ed ignorare Montale e Leopardi, o, che so, Shakespeare? Si tratta di uno snobismo inaccettabile. Sono però contrario anche alla posizione opposta, cioè all’idea alla Bloom che il canone occidentale sia invariabile e determinato una volta per tutte. Questa posizione non tiene conto del fatto che il canone cambia, viene ridiscusso e ri-negoziato ininterrottamente; ed uno dei luoghi dove lo si fa è appunto la scuola. Ad esempio: fino a vent’anni fa era obbligatorio preparare Fogazzaro per l’esame di stato. Non c’è stato mai nessuno che abbia detto “Basta, Fogazzaro non va più considerato”, ma nei fatti nessuno oggi lo porta più; al suo posto si prepara Svevo, o altri autori del Novecento. Lo stesso dicasi per Carducci: è ancora nei programmi, ma è molto meno studiato. Vi è insomma un processo di lento, graduale cambiamento del canone, che la 20 / GIOVANNI SOLINAS scuola per un verso registra e per un altro incoraggia. Il canone insomma lo si rinegozia anche attraverso il confronto con gli studenti: Manzoni (si parla del biennio delle superiori) probabilmente per questo non è più obbligatorio. Nella recente presentazione al libro di Giovanni Jervis, Contro il relativismo, lei ha tracciato un’interessante distinzione fra relativismo e nichilismo. Ha sostenuto che il primo muove dalla consapevolezza della parzialità di ogni posizione. Mi sembra molto interessante quest’idea della coscienza del proprio essere ‘parte’, o se si vuole ‘di parte’, la quale implica, evidentemente, anche l’idea del ‘sentirsi parte di’, del sentirsi coinvolti, e deriva dalla sua attenzione al pensiero ermeneutico, alle filosofie del dialogo. Eppure quello che lei ha definito il “nichilismo morbido” espresso da certa cultura postmoderna, e contro cui ha polemizzato, sembra aver concesso spazio alla molteplicità delle prospettive, delle differenze. In che cosa differisce questo orizzonte rispetto a quello da lei suggerito? Ed in relazione al suo modello, non c’è forse contraddizione fra l’attitudine relativista che implica il costante tener presente la parzialità della propria angolazione, e l’esito naturalmente inscritto nella dinamica del ‘conflitto’, che prevede l’affermarsi di una sola delle posizioni? Quella del nichilismo morbido, se si vuole usare quest’espressione, molto di moda negli anni Ottanta, non è una posizione relativistica, ma piuttosto, come dice il nome, nichilista. Si fonda sulla convinzione che non ci sia nessuna verità. La mia tesi, invece, è che esista un conflitto delle verità, dove il termine verità è da intendere, evidentemente, in senso ermeneutico, e non dogmatico o ontologico. La visione particolare che è fatta propria e circola all’interno di un gruppo sociale, costituisce certamente una posizione parziale, ma, per quel gruppo, rappresenta una verità; una verità relativa, che evidentemente differisce da quella di altri soggetti sociali, ma comunque una verità; si è dunque in presenza di un riconoscimento di valori. Il nichilismo morbido si basa invece su una concezione decostruzionista fortemente contraria all’idea dell’affermazione di valori anche parziali. È vero, il postmoderno tiene conto della molteplicità delle posizioni, ma, nel quadro di tale molteplicità, ogni lettura è ugualmente giusta ed ugualmente sbagliata. Facciamo un esempio: il concetto del misreading, cioè della lettura necessariamente sbagliata di ogni opera d’arte, in realtà è molto pericoloso proprio perché presuppone che tutte le letture siano sbagliate come giuste. E questo non è vero (un professore a scuola lo vede benissimo): esistono letture che non possono esse- CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 21 re ammesse, e non tanto per una questione scientifica, quanto per motivi deontologici: se per strada alla domanda “dove vai” mi si risponde “son cipolle”, la mia risposta è sbagliata. Se dunque qualcuno legge il senso “oggi piove” in un testo in cui apertamente si dice che oggi c’è il sole, questa risposta non è accettabile: esiste una verità relativa di quel testo. Si può poi discutere se “oggi c’è il sole” venga detto nel testo con malinconia o con rabbia, con ironia o con gioia – questo fa parte del conflitto delle interpretazioni –, ma non si può negare la materialità immediata del senso del testo. Se si mette in discussione questo, si tolgono le radici alla conversazione umana, al dialogo fra gli uomini. Il dialogo presuppone una possibilità di intesa, per cui se qualcuno dice “porta” tutti capiscono “porta”. Ricorda la famosa discussione fra Derrida e Gadamer? Il primo rimproverava al secondo di presupporre ancora la possibilità dell’esistenza di un senso, e Gadamer gli rispondeva: “però tu vuoi essere inteso”. Si può decostruire il senso quanto si vuole, ma non si può negare che alla base di questa stessa operazione ci sia una pretesa di essere compresi e una volontà di comunicazione. In più non sono convinto che l’esito naturale del conflitto sia l’affermazione, la vittoria di una sola posizione. In Il dialogo e il conflitto sostengo che il modello del conflitto fra le diverse tesi innesca un procedimento a spirale. E non parlo tanto di un meccanismo dialettico, che preveda il realizzarsi di una sintesi capace di superare ed annullare la tesi e l’antitesi contrapposte. Mi riferisco invece ad una dinamica in cui di volta in volta si crea un nuovo livello diciamo così di ‘verità’, a partire dal quale il conflitto delle interpretazioni rinasce; conflitto che, dunque, non si conclude mai con la vittoria di una delle due o delle varie parti. Esso è inseparabile dal procedimento ermeneutico, dalla produzione sociale di senso. Il critico produce del senso, e questo senso è messo in circolo e discusso. Per tornare alla figura di Gramsci, cui ci siamo richiamati in precedenza, devo riconoscere che la mia affermazione sull’importanza dell’essere di parte è certo un debito gramsciano. Devo molto a Gramsci per questa riflessione sulla parzialità e sulla esigenza di esibire la propria parzialità. E se le si proponesse di sostituire il termine parzialità con quello di prospetticità, in riferimento alla visione del soggetto dei filosofi alla base della svolta linguistica: Heidegger, Nietzsche, secondo i quali il soggetto è sempre situazionato, non può sottrarsi alla sua prospettiva di visione del mondo, determinata appunto dal linguaggio? 22 / GIOVANNI SOLINAS A venir meno, nella visione heideggeriana, è quell’ontologia dell’essere sociale, come la chiama l’ultimo Lukács, che a mio avviso è l’unica ontologia possibile. Se invece si vede il soggetto come un’entità completamente isolata, si ha sì una situazione prospettica, ma al di fuori di ogni dinamica sociale. E su questo non posso proprio concordare. Ne L’allegoria del moderno lei ha parlato della critica allegorica come di un modello in cui (cito il passo in cui si riferisce direttamente a Benjamin) “un’immagine del tutto viene fornita a partire dalla scelta di una costellazione particolare, dal gesto parziale di chi si assume la responsabilità di indicarla fra le altre strappandola dai legami vitali che la uniscono al contesto”; dunque della scommessa interpretativa di chi sceglie un collegamento virtuale (come lo è la costellazione nei confronti delle stelle) fra quei dati oggettivi che sono i ricordi pietrificati e sottratti al continuum storico. In generale, potrebbe ricostruire i motivi che l’hanno portata a formulare la sua proposta legata alla dimensione dell’allegoria? Il principale motivo di interesse per il metodo allegorico è legato proprio al suo carattere relativo, parziale. Esso afferma una verità nella consapevolezza della non coincidenza con la verità assoluta. Se il simbolo presuppone la convergenza di particolare ed universale, l’allegoria invece presuppone la loro scissione. E qualsiasi verità si pronunci, lo si fa sapendo che è una verità parziale, consapevoli che siamo noi ad attribuire un senso sempre particolare. Non si tratta, dunque, di un senso che nasce dalla realtà, grazie ad una non meglio definita dinamica secondo la quale il mondo, unendosi simbolicamente a me, sprigiona un significato. Sono io che, partendo da dei dati reali, attribuisco loro un significato attraverso un atto che è puramente interpretativo. Il tentativo di dare senso ad un percorso storico coincide in qualche modo con un’attribuzione di senso di tipo allegorico. I fatti stanno lì, si tratta di stabilire fra loro un collegamento, di leggervi, allegoricamente, un disegno virtuale. Le stelle ci sono, ma si tratta di vedervi una costellazione, diceva Benjamin, e ogni popolo traccia costellazioni dotate di senso diverso. Il grande carro può diventare l’Orsa o, in Nord America, il Cucchiaio… Lei sostiene che non può esistere critica letteraria senza ideologia, intesa come prospettiva, proposta interpretativa della realtà, diciamo visione del mondo, entro la quale il critico inscrive la sua lettura. Una visione del mondo che, naturalmente, deve essere conscia della propria parzialità. Mi sembra CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 23 di capire che secondo lei la mortificazione del ruolo attuale della critica trova una delle sue ragioni principali nel venir meno dell’ideologia intesa in questo senso. È così? Ed è forse così anche per la letteratura? Mi riferisco anche alla polemica sviluppatasi sulle pagine dell’Unità, in seguito alla pubblicazione del suo articolo che criticava profondamente il panorama culturale e letterario italiano degli ultimi anni. La vera letteratura si ha soltanto quando si sente la necessità di portare avanti una visione delle cose, di esprimerla attraverso le opere? Ormai da una quindicina d’anni, a partire dal libro di Segre che la denunciò, si parla sempre più diffusamente di una condizione di “crisi della critica”. Io ritengo che questa difficoltà della critica sia legata innanzitutto alla crisi dell’intellettuale. Quest’ultimo ha perso, ormai, la sua funzione legislativa, il suo ruolo sociale, ed il critico si è sempre più ridotto a due ambiti: il primo è quello del filologo, che non giudica, ma commenta e disossa le opere, tutto interno ad una visione oggettivistica e scientifica della critica. Si tratta del critico con il camice bianco ed i guanti di lattice, che ‘fa il proprio mestiere’, il mestiere che la società gli riconosce – vale a dire quello di addetto alla manutenzione dei testi – senza intervenire nel merito. Il secondo, molto in auge negli anni Novanta, ed oggi fortunatamente un po’ in crisi, è quello della critica en artiste, della critica narcisistica nata dall’idea tipicamente postmoderna secondo la quale non esiste più confine fra le discipline: la filosofia si letteraturizza, l’antropologia si letteraturizza, la letteratura sparisce ma nello stesso tempo tutto diventa letteratura. Il critico utilizza la critica come pretesto per fare della scrittura originale o ‘creativa’, rinunciando così ad enucleare il contenuto di verità di un’opera. Un simile critico non ha più una militanza, una ragione di scrivere rivolta all’ordine sociale. Lo svuotamento della funzione dell’intellettuale che si manifesta, nell’ambito della critica letteraria, attraverso queste due modalità, ha collaborato a parte subiecti ad una crisi della critica in realtà già in atto per ragioni che agivano a parte obiecti, per ragioni storiche oggettive. Le cose sono differenti per la letteratura. Per scrivere una grande opera letteraria non bisogna essere impegnati; io non l’ho mai pensato e questa è stata anche una delle ragioni della mia estraneità al pensiero lukácsiano. La letteratura non deve necessariamente portare avanti una certa visione del mondo. La ragione per cui negli ultimi trent’anni si è abbassato il livello medio della produzione letteraria è l’incapacità degli scrittori, evidentissima in Italia, di confrontarsi con i massimi problemi della società italiana e mondiale. Se prendiamo le ope- 24 / GIOVANNI SOLINAS re della narrativa americana recente, ad esempio un capolavoro come Pastorale americana o un testo come Carne e sangue di Cunningham, notiamo che si tratta di romanzi quasi balzachiani, che esprimono la volontà di un confronto profondo con la realtà. Sono grandi opere d’arte, e contemporaneamente romanzi in grado di fornire una rappresentazione della realtà. In Italia tutto ciò manca completamente (per quanto qualcosa di interessante stia forse cominciando a emergere fra i giovani). C’è da noi, infatti, una situazione fortemente asfittica, che fortunatamente si registra meno nella poesia lirica. Quest’ultima regge, tuttora, in Italia, prima di tutto per la forte tradizione che ha alle spalle (tradizione assente, invece, nella grande narrativa), e poi perché vive nella clandestinità, in una estraneità al mercato che in parte la protegge. In questo senso, qual è a suo parere la relazione che con il proprio periodo storico stabiliscono, intendono o riescono a stabilire gli autori delle nuove generazioni? In un recente saggio Antonio Scurati ha sostenuto che gli scrittori devono fare i conti con la dimensione dell’inesperienza, vale dire l’impossibilità di scrivere in rapporto alla realtà, o meglio, più alla radice, di percepire la realtà come un insieme di esperienze effettive, che divengano il contenuto della propria narrazione. Esiste ancora la possibilità di una letteratura che stabilisca con l’epoca in cui sorge quel rapporto doppio per cui essa è allo stesso tempo espressione di una fase della cultura umana, e, in qualche modo, espressione del suo superamento, cioè, in quanto avanguardia del pensiero collettivo, anticipazione, indicazione della nuova direzione della storia? Pochi mesi fa ho partecipato a un’iniziativa, a Macerata, in cui sono state presentate le opere di giovani autori. Anche lì ho avuto l’ulteriore conferma di un’impressione che già mi ero fatto, e cioè che stia nascendo qualcosa di nuovo, non solo nella produzione dei più giovani, ma anche fra gli autori più anziani. Questo, io credo, in conseguenza alla mutata situazione del mondo; in uno dei miei ultimi libri parlo di fine del postmoderno (o come lo si vuole chiamare, non ne ho mai fatto una questione terminologica), sostenendo che una certa maniera di concepire la letteratura come manierismo, citazionismo, meta-letteratura, ironia, intertestualità infinita è entrata in crisi, e per una ragione molto chiara: quando ti casca una bomba sulla testa è difficile dire che esiste solo il linguaggio. L’idea del primum linguistico, che accompagnava la teoria della fine della storia e delle contraddizioni, è entrata in crisi. Da una decina d’anni si assiste infatti ad un ritorno forte delle contraddizioni: si pensi soltanto al CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 25 precariato lavorativo, ma più in generale alla precarietà della vita, soprattutto dei giovani. E forse è per questo che, rispetto a dieci anni fa, i giovani danno l’impressione di essere oggi più politicizzati di prima, anche se assai confusamente (penso ai miei dottorandi, ad esempio, che trovo iperpoliticizzati). Un tempo si diceva che cambiare di continuo il lavoro era qualcosa di positivo, anzi qualcuno sosteneva che questo fatto rappresentava l’anticipazione del comunismo (penso alle posizioni di Autonomia Operaia: uno oggi fa il pescatore, domani scrive una poesia…); ma oggi, di fronte al precariato, nessuno potrebbe dire una cosa del genere. Se a ciò si aggiungono le guerre, l’immigrazione in massa delle popolazioni dell’Est e del Sud del mondo, il rischio degli attentati, diventa difficile sostenere posizioni da ‘ilare nichilismo’. Questi giovani non ne vogliono sapere dei padri, e neppure dei fratelli maggiori. In narrativa una delle cose più interessanti degli ultimi tre o quattro anni è il libro di Balestrini Sandokan che narra di un fatto concreto, la camorra; ma si pensi anche all’interessantissima evoluzione di Nove, che prima era un ‘cannibale’. È vero che c’è anche una maturazione personale, legata a fattori d’età, ma persino Ammaniti, che trovo molto più discutibile, è passato dal descrivere stupri, vomiti etc. a un romanzo come Io non ho paura, che restituisce pur sempre al lettore un’immagine dell’Italia. Vedo dunque una possibilità di evoluzione. È vero che è sempre più difficile fare esperienza, ma questo già lo registrava Flaubert: l’Educazione sentimentale è un romanzo che nega l’esperienza. Eppure c’è un elemento materiale che è difficile abolire dalla vita. E oggi più di ieri. In una situazione come quindici anni fa potevamo presupporre che il nostro occidente ci proteggesse, che questo mondo senza esperienza potesse durare, oggi non lo si può più credere, o è sempre più difficile crederlo. Rispetto a ciò, io sono dell’idea che nel dibattito sulla condizione attuale della letteratura si stia un po’ poco attenti alla figura del lettore. Mi viene da chiedermi se oggi si cerchi ancora nei romanzi quella condizione di pienezza di senso e di densità esistenziale che da sempre si è individuato nei loro personaggi e nelle loro vicende. La proiezione che si esprime nel “vorrei che la mia vita fosse così”, nell’aspirare a possedere, cioè, un simile grado di plenitudine, di realizzazione, trova sempre di più il proprio ambito di investimento nell’esistenza reale (o meglio nella proiezione immaginaria dell’esistenza reale), anziché nell’arte. Le società occidentali propongono agli individui il miraggio di una vita che si fonda sull’inesausto rinnovamento, sul continuo riproporsi 26 / GIOVANNI SOLINAS di nuove possibilità, di nuove direzioni esistenziali. L’immagine che un tempo il soggetto aveva del proprio percorso biografico, quella di un tracciato unico, i cui sviluppi futuri, nei loro termini generali, fossero in qualche misura già segnati, è stata sostituita dalla convinzione indotta che la propria esistenza sia definita da un serie di ripetute occasioni di rigenerazione dell’Io, sia fatta da una serie continua di nuovi inizi, di prospettive di realizzazione che non cessano di riproporsi. Come la ‘promessa’ del romanzo può competere con questo miraggio, il cui contenuto sembra essere, in definitiva, l’abbattimento dei limiti dell’individuo? Di primo acchito mi verrebbe da pensare questo: noi viviamo in una società che Fortini chiamava del surrealismo di massa, dove si potenziano le facoltà oniriche a scapito di quelle razionali. Una società in cui sostanzialmente, per riprendere un’espressione usata ancora da Fortini, “si vive come drogati”, come se non esistesse più la memoria storica, e come se ci si cibasse di epifanie. Lei dice che questo modo di vivere dà l’illusione di un’infinita possibilità di rigenerazione delle possibilità esistenziali… Che questa sia un’illusione diffusa è innegabile, che corrisponda alla realtà non credo. I ragazzi, oggi, vivono assieme ai loro genitori sino a quaranta anni, sono degli eterni adolescenti e rischiano di non diventare mai adulti, perché non hanno la possibilità materiale di crearsi una vita propria, non viene data loro la possibilità di farsi un mestiere e di diventare adulti. Io ho lavorato, vissuto e guadagnato da solo dall’età di ventitre anni. Quanti sono quelli che oggi possono permettersi questo? Credo pochi. Ripeto, a mio modo di vedere quell’ampliamento delle possibilità esistenziali cui lei faceva riferimento è più che altro un’illusione. Si torna al discorso fatto prima: si può forse credere che tutto sia linguaggio e illusione, ma quando ti casca una bomba sulla testa, le illusioni crollano e resta la realtà. Chi guadagna, e per dieci-quindici anni continua a guadagnare, poco più di 500 euro al mese, è costretto ad interrogarsi su questo fatto. Per cui mi rendo conto che esiste, sì, questa ideologia, e può essere vero che abbia anche un certo scintillio, un certo potere d’attrazione; io, però, credo molto nella materialità nuda e cruda dei fatti, e penso che, alla lunga, la datità delle condizioni materiali venga fuori. Quest’illusione sostituisce le proiezioni immaginarie che erano suscitate un tempo dalla lettura dei romanzi? È probabile. Anche in questo caso, però, resta il fatto che la letteratura americana, che sorge in quella società in cui questa illusione è più forte, rappresenta duramente e amaramente la realtà dei fatti. Pensi all’agghiacciante conclusione di Pastorale americana. Bisogna forse tener conto CONVERSAZIONE CON ROMANO LUPERINI / 27 anche di un elemento di profondo provincialismo culturale dell’Italia: noi siamo più americani degli americani; e niente, mi creda, è peggio degli americanizzati. Ritornando a Gramsci, si pensi a quanto è conosciuto e continuamente citato in America. Da noi non se ne parla più, invece. L’anno scorso, quando ho insegnato a Toronto, sono arrivato che si stava tenendo un convegno su Gramsci. Quanto tempo è che in Italia una grande università non organizza un convegno su Gramsci? C’è qualcosa nel comportamento di molti italiani di zelante, qualcosa che è proprio dei parvenus, per questo gli italiani vogliono essere più americani degli americani. In conclusione: la situazione storica cambia il comportamento degli individui, e il riferimento alla storia è fondamentale per cercare di capire quello che succede. È più importante la materialità dei dati di fatto, che non il condizionamento, alla Baudrillard, degli effetti ideologici, innegabilmente presenti, della società dei consumi e della comunicazione. Questi effetti esistono, e, finché le cose vanno così, continueranno a influenzare l’umanità; però poi l’uomo rimane un essere che nasce, si ammala, muore in certe precise condizioni materiali. Oltre un certo grado non sarà più possibile ignorarle, queste condizioni. Il romanzo si salverà o deperirà a seconda che questa capacità di mimesis si realizzi oppure venga ancora accantonata. § PARAGRAFO IV FIGURE § 2 Niccolò Scaffai Fortuna e sfortuna di un poeta editore Inediti di Domenico Buratti 1. La fortuna del pittore e poeta Domenico Buratti (Nole Canavese, 1881 - Torino, 1960) nel panorama culturale del Novecento italiano non dipende tanto dalla sua pur notevole attività artistica quanto dall’impresa editoriale che da lui prese il nome. Formatosi all’Accademia Albertina di Torino, dove strinse amicizia con artisti come Cesare Ferro e Felice Carena, Buratti espose le sue opere pittoriche già prima della Grande guerra, in Italia e a Parigi. Arruolatosi nel 1916, fu fatto prigioniero a Caporetto e internato in Westfalia, da dove fuggì in Olanda. Rientrato in Italia nel gennaio del 1919, sposò Vittoria Cocito nel 1920. L’esperienza della guerra e della prigionia è al centro della sua prima raccolta di versi, Paese e galera (1930). Nel 1929 si stabilì con la famiglia a Torino, in via Nicola Fabrizi. Nel ’40 estese la sua attività anche all’architettura, su impulso dei fratelli Novaro che gli commissionarono i progetti per due case, a Nava e a Viozene.1 Nel 1945 uscì il secondo libro di poesia, Canzoni di strada; la scrittura proseguì intensamente dopo la seconda guerra mondiale: è al periodo compreso tra il ’45 e il ’60 che risale infatti la maggior parte dei suoi versi inediti. Quando, alla fine degli anni Venti,2 Domenico e il fratello Giovanni 1 Ricavo le notizie biografiche su Buratti, oltre che dalla testimonianza delle figlie, le signore Gabriella (Lella) e Chiaretta, dal catalogo della mostra allestita a Torino tra il febbraio e l’aprile del 2003 presso le Sale del Circolo degli Artisti (Palazzo Graneri della Roccia): Giorgio Auneddu (a cura di), Domenico Buratti. Realtà, sogni, scritture pittoriche di un artista torinese, Torino: Circolo degli Artisti, 2003. Si veda inoltre Angelo D’Orsi, “‘Scrittori contemporanei’: un’avventura editoriale nella Torino fascista”, in Silvia Rota Ghibaudi e Franco Barcia (a cura di), Studi politici in onore di Luigi Firpo, Milano: Franco Angeli, 1990, vol. 3, pp. 889-961 (specialmente pp. 923-25). 2 In base alle ricostruzione documentale (cfr. Angelo D’Orsi, ivi), il passaggio di proprietà sembra da collocarsi verso la fine del ’29; il dato non concorda del tutto, però, con la testiPARAGRAFO IV (2008), pp. 31-54 32 / NICCOLÒ SCAFFAI Tav.1: Domenico Buratti, Autoritratto con il berretto rosso (1907). Olio su tela, cm 25x30. Collezione privata monianza delle eredi e, implicitamente, con quanto lo stesso Buratti lascerà intendere nella lettera citata qui più avanti. Le figlie, infatti, ricordano che Domenico si attribuiva la pubblicazione di autori (Montale, ad esempio) presenti nel catalogo Ribet già dal ’28. FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE Tav. 2: Il manto viola (ritratto di Vittoria Cocito) (1922). Olio su tela, cm. 95x190. Collezione privata / 33 34 / NICCOLÒ SCAFFAI Battista (Tino) rilevarono la casa editrice torinese “Fratelli Ribet”,3 la ribattezzarono Fratelli Buratti Editori. Una clausola contrattuale prevedeva che fosse lasciato al suo posto il direttore Mario Gromo, al quale si deve l’impostazione della gloriosa collana “Scrittori contemporanei” a cui è legata in gran parte la notorietà delle edizioni Ribet prima, Buratti poi. Gromo, nato a Novara nel 1901, pur molto giovane aveva già preso parte ad iniziative di rilievo nell’ambito della cultura torinese e italiana: nel ’22 aveva fondato la rivista Primo tempo con Debenedetti e Sergio Solmi; aveva collaborato con i fogli gobettiani Il Baretti e Rivoluzione liberale; scriveva su Solaria e, dal ’29, per La Stampa, come critico cinematografico. Durante la sua direzione, dal ’28 al ’32 (l’anno in cui i “Fratelli Buratti” cessano la propria attività), la casa editrice tenne a battesimo numerosi scrittori destinati a una matura fama nazionale. L’antologia Scrittori contemporanei, curata nel ’29 da Gromo ancora per l’insegna di Ribet, comprende un canone di autori difficilmente eguagliabile per l’epoca: Alvaro, Angioletti, Aniante, Bacchelli, Baldini, Betti, Biancale, Buratti, Cajumi, Carocci, Comisso, De Zuani, Falqui, Franchi, Giardini, Grande, lo stesso Gromo presente con un brano in prosa intitolato Ritratto d’industriale, Lanza, Linati, Loria, Malaparte, Montale, Moscardelli, Onofri, Oppo, Pancrazi, Pavolini, Prestinenza, Raimondi, Ramperti, Ravegnani, Savinio, Sbarbaro, Solmi, Stuparich, Tecchi, Titta Rosa, Vergani. Nella prefazione all’antologia, Gromo faceva riferimento alla questione del frammentismo d’avanguardia cui si opponeva la necessità, viva e sentita in quegli anni, di reagire alla maniera calligrafica per ‘costruire’ con una rinnovata consapevolezza della forma. Solo sei anni prima, nel ’23, Borgese aveva pubblicato da Treves il suo Tempo di edificare. Ora, quella parola d’ordine veniva ripresa da Gromo, come invito per le giovani generazioni di scrittori ospitati nella sua collana: Non immemori de La voce e de La ronda, di svariati illuminismi e di raccolti artigianati, i migliori dei giovani d’oggi sembran tutti riuniti in un comune proposito di edificare su di un terreno da loro stessi dissodato; e lo storico letterario del primo novecento non potrà trascurare questa situazione che è comune tanto per chi s’appaghi dell’ombra del suo campa3 La casa Fratelli Ribet Editori era stata fondata pochi anni prima, nel 1927, da Sandro, Giuseppe e Mario Ribet, insieme a Mario Gromo, che fin dall’inizio aveva ricoperto incarichi direttivi. La funzione di co-direttore responsabile per la saggistica fu assunta da Edoardo Persico. Su Gromo, la Ribet e il passaggio a Buratti si veda Angelo D’Orsi, ivi, pp. 896 e seguenti. FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE / 35 nile sul sagrato, quanto per chi si protenda al rombo dei convogli che uniscon le capitali d’Europa.4 Il valore propositivo degli “Scrittori contemporanei” venne ribadito, anni dopo la conclusione dell’impresa, dallo stesso Buratti. Come emerge dai documenti epistolari conservati dalle eredi, Domenico era cosciente della propria differenza rispetto agli editori maggiori. Del resto, il proprietario ebbe probabilmente anche un ruolo come organizzatore culturale nell’impresa, specialmente negli ultimi tempi, dopo il defilarsi di Gromo.5 Di “editori industrialmente veri”, ma per questo poco disposti a scommettere su scrittori emergenti, Buratti parla in una lettera che rappresenta per così dire il suo ‘testamento’ editoriale: Egregio sig. Due righe di commento sull’attività della Casa Editrice Buratti per mostrare gli scopi che si vollero raggiungere e i modi in cui brevemente operò. Scopi letterari: gli editori industrialmente veri, per non esser né letterati né artisti non potevano evidentemente, pensavamo noi accettare opere di ignoti che non dessero garanzia del loro valore letterario: gli scrittori inediti dovevano arrivare alla notorietà prima di riuscire trovare [sic] un editore. Da questo ragionamento scaturì l’idea della collana Scrittori contemporanei e della improvvisazione editoriale. Cademmo in pieno come attività finanziaria e riuscimmo a meraviglia in quanto a pura attività letteraria. Notevolissimi i vantaggi dei giovani autori. Per esempio: Corrado Alvaro, reso noto da noi con l’Amata alla Finestra, vinse il Premio Stampa; G. Angioletti, ignorato o inedito vinse nella nostra collana il Premio Bagutta: G. Comisso con il Vento dell’Adriatico ebbe larga risonanza e vinse in seguito il Premio Bagutta nel seguente anno; U. Betti fatto noto da noi con la Padrona vinse il Premio Mondadori; Montale con una lirica degli Ossi di seppia, ebbe il premio Antico Fattore, ecc. ecc. Ma il successo dei nostri autori non si sviluppò vantaggiosamente per noi: a ogni volume beneaccolto dalla critica, era un autore che ci abbandonava allettato dalle offerte di qualche grande casa editrice.6 4 Mario Gromo (a cura di), Scrittori contemporanei, Torino: Fratelli Ribet Editori, 1929, p. 10. 5 Cfr. Angelo D’Orsi, op. cit., p. 953. 6 Si cita dalla fotocopia di una minuta autografa, su carta intestata “Fratelli Buratti Editori / Torino / Via Nicola Fabrizi 16 bis”, di cui si mantengono le singolarità grafiche (nella trascrizione non do conto di parole e frasi cassate, ma solo delle lezioni corrette dall’autore). La fotocopia riproduce il recto e il verso della lunga lettera, di cui si è riportata a testo solo la parte rilevante dal punto di vista culturale e letterario, trattandosi per il resto 36 / NICCOLÒ SCAFFAI 2. Oltre ai documenti epistolari, nell’abitazione torinese di via Nicola Fabrizi 16, dove ebbe sede la casa editrice, sono conservate le testimonianze di un’attività letteraria cospicua e in buona parte inedita.7 Se, come si è detto, l’impresa editoriale di Buratti è un capitolo rilevante nella storia culturale del primo Novecento,8 mentre quella figurativa è stata oggetto di un recente revival locale,9 la sua poesia, dopo l’interesse dei primi recensori,10 non ha conosciuto analoga fortuna. Numerosi e mai coronati da successo sono stati negli anni gli sforzi di Vittoria Cocito per attrarre sulla poesia del marito l’interesse postumo di critici e intellettuali: da Enrico Falqui a Piero Bargellini, da Edoado Sanguineti a Marziano Guglielminetti. L’archivio di via Fabrizi restituisce, tra le altre, la minuta della lettera che Vittoria scrisse a Falqui nel 1967: Son passati 37 anni da quando lei scrisse a Domenico Buratti parole amichevoli a proposito di un volume di liriche da lui pubblicato: Paese e galera – e sette anni dacché il poeta è morto. Troppi perché ne sussista in lei un ricordo? Il pittore Domenico Buratti si ritrasse in solitudine, e la poesia fu il lavoro secreto che lo accompagnò tutta la vita. Io sono depositaria della sua di questioni economiche e di gestione. La minuta non reca né il nome del destinatario previsto, né la data. Difficile dire, perciò, se la lettera è stata effettivamente inviata, e in quella forma. Si può solo dedurre, dal contenuto e dalle allusioni a opere e autori la cui fama è maturata soprattutto dopo la cessazione dell’attività editoriale, che la stesura non sia precedente alla metà degli anni Trenta. La relativa tardività potrebbe essere confermata dall’approssimazione con cui Buratti si riferisce ai riconoscimenti di autori nel suo catalogo: Corrado Alvaro vinse il premio bandito dal quotidiano La Stampa nel 1931, per Gente in Aspromonte, pubblicato a Firenze da Le Monnier nel ’30; Giovanni Battista Angioletti vinse la prima edizione del Premio Bagutta con Il giorno del giudizio, uscito quando ancora la casa editrice era intestata ai Ribet; Giovanni Comisso vinse la seconda edizione del Bagutta nel ’28, con Gente di mare, uscito da Treves nello stesso anno in cui Ribet ristampava, con il titolo Al vento dell’Adriatico, l’opera già uscita nel ’25 come Il porto dell’amore; Ugo Betti, con l’opera teatrale La padrona (1926), vinse il concorso bandito dalla rivista La scimmia e lo specchio; infine, Montale vinse sì il Premio dell’Antico Fattore nel ’32, ma non con una lirica degli Ossi di seppia (di cui Ribet aveva pubblicato la seconda edizione accresciuta nel ’28), bensì delle Occasioni, cioè La casa dei doganieri. 7 Ho potuto consultare il materiale ancora presente in casa Buratti grazie alla disponibilità delle signore Chiaretta e Lella Buratti, che qui ringrazio. 8 Oltre al citato studio di Angelo D’Orsi, si veda per il contesto culturale Marziano Guglielminetti, “La cultura letteraria”, in Nicola Tranfaglia (a cura di), Storia di Torino, vol. 8: Dalla Grande Guerra alla Liberazione (1915-1945), Torino, Einaudi: 1998, pp. 623-90. 9 Ne è il maggior segno la già citata mostra torinese del febbraio-aprile 2003. 10 Si vedano le recensioni, in verità non del tutto positive, pubblicate in L’Eroica, 20, 1930, pp. 68-70 e in Solaria, 5:11, 1930, pp. 50-53. FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE / 37 copiosa opera inedita che nessuno ha mai letto. Così difficile trovare un lettore di poesia! e così necessario al poeta, anche se lui non c’è più. Ho pensato di mandare a lei qualche saggio di queste poesie, con viva trepidazione e speranza. Speranza che voglia leggerle con attenzione, con bontà: superando le parti deboli o troppo insistite o oscure, cercando il nocciolo vitale che io son convinta sia in esse, che è la necessità per cui furono scritte, in dolorosa solitudine. Le rimando anche Paese e galera ed un secondo volume stampato nel ’40, che non ebbe eco alcuna. Ma soprattutto vorrei pregarla di leggere le inedite, e di darmi un suo schietto giudizio. Se la interessassero potrei mandargliene poi altre, chiederle consigli. Perdoni questa intrusione indiscreta. La speranza è più forte del timore. Coi saluti più cordiali A quella lettera, seguì in risposta una cartolina di Falqui datata “18 maggio ’67”: Gentilissima, mi scusi, ma sono angariato da mille scadenze. Quei versi sono invece meritevolissimi di essere pubblicati in volume, perché certo gioverebbe alla memoria dell’autore. Avesse tempo e modo, le proporrei di collaborare alla scelta e alla presentazione. Ma proprio non posso: e mi rincresce. Creda al suo Falqui. A convincere Vittoria Cocito dell’opportunità di rinnovare il ricordo della poesia di Domenico può essere stata l’uscita, proprio nel 1967, dell’edizione di Un giorno e altre poesie di Carlo Vallini, curata per Einaudi da Edoardo Sanguineti. Il milanese Vallini (1885-1920) era appartenuto alla cerchia dei crepuscolari piemontesi; amico di Gozzano, era infatti vissuto a Torino, dove era diventato allievo di Arturo Graf alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Anche Buratti era stato vicino all’entourage che aveva in Graf, Cena, Thovez i principali esponenti; non tanto come poeta – la sua prima raccolta è del ’30 –, quanto come illustratore di poeti (per Il cestello di Angiolo Silvio Novaro, ad esempio). Gozzano, come ricorda Buratti nei versi di Commiato (l’ultimo componimento della raccolta Canzoni di strada) si era rivolto anche a lui per la copertina della Via del rifugio, poi eseguita da altri.11 Che la ‘riscoperta’ di Vallini abbia rappresentato un mo11 “Talvolta arrivava Gozzano / sul labbro il sigillo del dito: / sono arrivato di lontano… / per lontananze ripartito. // […] // Pel mio libro – chiedeva roco / – un segno: fra zucche 38 / NICCOLÒ SCAFFAI vente per Vittoria, è testimoniato dalla minuta di una lettera indirizzata al curatore “Prof. Edoardo Sanguineti / Via Vespucci 25”. La Cocito chiede a Sanguineti di dedicare attenzione alle poesie del marito, dopo aver letto la prefazione a Vallini in cui si affermava che “la storia della cultura torinese del primo Novecento potrebbe essere ancora ricca di sorprese e scoperte”. Tra le carte dell’archivio famigliare non vi è traccia di una risposta a quella lettera. Certo è che a Buratti non è toccata ancora la fortuna postuma di cui aveva potuto beneficiare Vallini. Non vanno a miglior fine, infatti, i successivi sforzi compiuti per richiamare sull’opera e sulla figura del marito l’attenzione di Vittorio Giovanni Rossi (scrittore di viaggio e inviato all’estero per il Corriere della Sera e per Epoca) e di Piero Bargellini (la cui attività politica, in quel periodo, prevaleva già su quella letteraria). La lettera più recente emersa dall’archivio, datata “16 agosto ’81”, è inviata a Vittoria da Marziano Guglielminetti, che vi dichiara di aver letto i due volumi di Buratti tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, essendo stato impegnato nei mesi precedenti con altri lavori urgenti. Il favore di Guglielminetti va soprattutto al primo (Paese e galera), che ritiene di poter accostare alla tradizione della poesia di guerra che ha in Italia il suo principale esponente in Ungaretti. Entrando nel merito dello stile di Buratti, Guglielminetti osserva come l’uso della rima distingua la sua opera dalla maggior parte della poesia a lui contemporanea. Propone infine di valorizzare la poesia burattiana senza disgiungerla dall’attività artistica e da quella editoriale, pur non potendo indicare in quel momento collaboratori liberi o sufficientemente preparati per occuparsi del lavoro. 3. Consegnata quindi alle due sole raccolte pubblicate in vita dall’autore (Paese e galera. Liriche, Torino, Fratelli Buratti Editori, 1930; Canzoni di strada, Torino, Edizioni Palatine in Torino, 1945), la scrittura burattiana richiede, come auspicava Vittoria Cocito, di essere valutata e situata alla luce delle opere ulteriori: non solo abbozzi e progetti ma veri e propri libri, alcuni già allestiti in redazioni manoscritte più o meno perfectae a cui non sono mai seguite edizioni a stampa. e cocomeri / le statue del tempo barocco, / ed il cartiglio rococò // […] // La copertina per la ‘Via / del rifugio’. Un disegno vario, / la casa di melanconia / del Meleto, che è un chiuso armario. // Stampò un disegno di altra mano, / dopo avermi richiesto anch’io, / ma così andando, da lontano / fra una notizia ed un addio!” (Commiato III, vv. 1 e sgg., in Domenico Buratti, Canzoni di strada, cit., pp. 150-51). FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE / 39 Tav. 3: Scrittori contemporanei, a cura di Mario Gromo, Torino: Ribet, 1929 Tav. 4: Domenico Buratti, Paese e galera, Torino: Buratti, 1930 Tav. 5: Domenico Buratti, Canzoni di strada, Torino; Edizioni Palatine, 1945 Tav. 6: ms. di Il gran rifiuto (carte Buratti) 40 / NICCOLÒ SCAFFAI Nell’archivio privato di casa Buratti sono infatti custoditi alcuni faldoni che contengono i testi e i materiali per ulteriori serie di testi, preparati da Vittoria in base alla volontà e alle indicazioni del poeta.12 È sicuro che Buratti, all’uscita di Canzoni di strada, già progettasse una raccolta successiva, Tempo perduto: nel volume del ’45, infatti, questa viene annunciata “in preparazione”. Sembra dunque ragionevole pensare che una parte degli inediti conservati oggi tra le carte Buratti risalgano, almeno in una loro prima versione, già alla metà degli anni Quaranta. Non è facile stabilire con certezza, però, quale assetto finale avrebbero raggiunto gli avantesti consultabili nelle carte Buratti, poiché in esse si stratificano diverse redazioni e indici non del tutto concordanti. L’assenza di datazioni sistematiche non permette inoltre di dedurre la successione cronologica dei testi (esplicita, invece, nel Buratti delle Canzoni) e degli indici, in larga parte manoscritti. Ipotesi sull’ultima volontà della redattrice (e, indirettamente, dell’autore) possono essere avanzate in base alle correzioni sugli indici apportate verosimilmente da Vittoria Cocito. Risultano con certezza quattro titoli – Tempo perduto, La colonna istoriata, Roma e Esodo – a due dei quali sono associati gruppi di testi, conservati nei faldoni in redazioni manoscritte e dattiloscritte: 1. Tempo perduto I. I MIEI LEANDRI “Mattino” “All’ombra dei leandri” “La mia corona” II. “Le due botteghe” III. “Tino del Campanaro” [cassata] IV. “Improvviso” V. “Il piffero di Frosinone” VI. “Settembre” VII. “Le altre stelle” VIII. “Cosia” [cassata] IX. “Carmen” 2. La colonna istoriata I. “La colonna istoriata” II. “Il cielo” III. “Il verbo” 12 Le notizie sull’allestimento dei materiali e sulla volontà dell’autore al riguardo sono ricavate dalla testimonianza orale di Chiaretta e Lella Buratti. FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE / 41 IV. “Lo striscione a spira” “L’unica parola” VI. “La lingua degli angeli” VII. “Il pan degli angeli” VIII. “Il Salvatore del mondo” IX. “Lo zodiaco” X. “Il prossimo” V. 3. Roma 4. Esodo “I miei leandri”, all’inizio di Tempo perduto, si configura come una sezione nella sezione, a sua volta composta da tre poesie. Sempre nella prima parte, i testi che una redazione dell’indice prevedono in terza (“Tino del Campanaro”) e ottava sede (“Cosia”) vengono cassati in un’altra redazione, presumibilmente posteriore. Le poesie menzionate negli indici, comprese quelle espunte, sono leggibili tra le carte famigliari. 4. Oltre agli incunaboli di raccolte mai attuate, l’archivio di casa Buratti restituisce un volume manoscritto a penna, in carattere stampatello minuscolo, composto da 98 fogli di carta ruvida di cm 25x14,5, numerati in basso a destra. Sul frontespizio compaiono il nome dell’autore e il titolo dell’opera: “Domenico Buratti / Il gran rifiuto / Poema”. A copiare il testo in bella grafia, secondo la testimonianza delle figlie di Buratti, sarebbe stata Ada Ronzini, allieva di pittura dell’autore. Il poema è composto da due testi introduttivi, “Il biglietto di visita” e “L’isola del presente”, e da quaranta ‘canti’ di diversa ampiezza, numerati in alto al centro in cifre romane; a destra a mo’ di epigrafe, tra la cifra e il testo, sono collocati i titoli, che nella maggior parte dei casi richiamano personaggi ed episodi dell’Odissea: “Il biglietto di visita” “L’isola del presente” I. “Lotofagi” “Averno” III. “Circe” IV. “Ciclope” V. “Nessuno” VI. “Vacche del sole” II. 42 / NICCOLÒ SCAFFAI VII. “Sirena” “Calipso” IX. “Il cinto” X. “La sua statura” XI. “Vesti eterne” XII. “Omo” XIII. “Il giudizio d’Ulisse” XIV. “L’ermafrodito” XV. “Il cuore di Penelope” XVI. “La nube” XVII. “Pallade Athena” XVIII. “L’amore della dea” XIX. “Liberatori e salvatori” XX. “Il diluvio” XXI. “Amata fusione” XXII. “Le torri” XXIII. “Il mulino del tempo” XXIV. “Le cose” XXV. “Cure” XXVI. “Preghiera” XXVII. “I flagelli” XXVIII. “Il limite” XXIX. “Il limite. Continuazione” XXX. “Parole a Ulisse” XXXI. “Risposta” XXXII. “La partenza” XXXIII. “Tempo degli dei” XXXIV. “Nausica” (I-III) XXXV. “Nausica” (IV-VI) XXXVI. “Nausica” (VII-IX) XXXVII. “Nausica” (X) XXXVIII. “Itaca” (I) XXXIX. “Itaca” (II-III) XL. “Il pitocco” VIII. Il canto VII (“La sirena”), articolato in dieci movimenti, è di gran lunga il maggiore per ampiezza. “Nausica” e “Itaca” sono sequenze rispettivamente di quattro e due movimenti, ciascuno indicato da un numero progressivo (da XXXIV a XXXVII e da XXXVIII a XXXIX); all’interno delle due serie, tuttavia, la numerazione delle lasse è continua: dieci sono quelle che compongono il testo di “Nausica”, tre quelle di “Itaca”. I canti più brevi hanno misure madrigalistiche, come il XXIV (“Le cose”), composto da tre soli distici in rima baciata. Combinata con l’alterna, la rima baciata è lar- FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE / 43 gamente prevalente nel poema, a fronte di una marcata varierà e irregolarità nel metro, nelle ripartizioni strofiche e, come si è detto, nella stessa misura dei canti. La tenuta formale del poema viene perciò garantita in prevalenza da una rimicità fortemente sonora e cadenzata: quasi ingenua, per un effetto amplificato dalla facilità delle rime adottate. Se la prevedibilità adempie le esigenze di iterazione e mnemonicità proprie del genere, l’impiego di schemi rimici primari è da considerare un tratto dello stile di Buratti, apprezzabile anche nella restante sua opera in versi. Qui nel Gran rifiuto, però, la funzione dello stilema si precisa in rapporto a un’istanza di poetica, ricavabile e contrario dagli accenni polemici di cui l’opera è disseminata: la presa di distanza dalle sperimentazioni avanguardistiche e la difesa dei canoni artistici tra realismo e simbolismo in vigore fra Otto e Novecento. La semplificazione e la conservazione delle forme valgono cioè come antidoto nei confronti dei tradimenti contemporanei. Il paradosso del Gran rifiuto consiste nel prendere posizione per il tema del ‘paese’ e per il realismo sociale attraverso l’assunzione di un palinsesto epico e mitologico. Nel poema, alla storia di Ulisse si sovrappone infatti la voce del protagonista-autore (un ‘io’ assai più moderno che classico), che riflette in quella dell’eroe omerico la propria esperienza umana e artistica. Segnatamente pittorica: il poema è, nella sua componente principale, la rielaborazione in chiave mitica della carriera artistica di Buratti, percorsa da accenti polemici e con intenti risarcitori. La similitudine ulissiaca, volentieri mescolata con formule e immagini dantesche, vale come affermazione di autonomia morale e artistica rispetto alle lusinghe e alle mode del presente. Perciò il “gran rifiuto” del titolo perde la connotazione negativa che il sintagma ha in Dante, per acquistare un segno positivo, così come illustra la strofa conclusiva del XII canto burattiano: “Tu sei colui che fece il gran rifiuto / omo, per mezzo dell’astuto / Ulisse, tu che non volesti / le vesti / eterne che la dea / ti porgeva”. Ne deriva un atteggiamento di reazione verso i “teoremi di tendenza”, che rinnegano le forme della tradizione e appiattiscono la personalità dell’artista; questi deve invece mantenere l’orgoglio dell’eminenza, mostrandosi per “la città e il paese” dalla vetta di una torre: non d’avorio ma “del borgo”. Così nel testo programmatico più esplicito, il canto XXII, intitolato appunto “Le torri”. Se in pittura l’eredità impressionista permetteva a Buratti di conciliare i tratti simbolisti con uno sfondo realista, in poesia l’amalgama non poteva contare su ricette autorevoli, a meno di non assecondare il modello pa- 44 / NICCOLÒ SCAFFAI scoliano, nei confronti del quale Buratti non sembra andare oltre un generico corteggiamento. Particolarmente problematica, inoltre, l’integrazione degli ingredienti con l’intento ‘monumentale’ che sollecita il progetto del Gran rifiuto. Di qui discendono da un lato l’indubbia originalità del poema, che nonostante i numerosi riecheggiamenti sfugge a ogni assimilazione di scuola, dall’altro la sua irredimibile inattualità nel panorama letterario contemporaneo. Ispirato dal motivo ulissiaco in auge nel primo Novecento (ad esempio nel Pascoli dei Conviviali, specialmente in “L’ultimo viaggio”, cui Il gran rifiuto allude per struttura e scelta di titoli: “Il pitocco”, “Ciclope”, “Calipso”), animato da un energico (ri)sentimento autoriale di ascendenza carducciana, Buratti coglie gli aspetti critici del Tav. 7: Domenico Buratti, Ribelli (1904). Olio su tela, cm 105x115. Collezione privata FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE / 45 trapasso dalla poesia fin de siècle alla letteratura del pieno Novecento, senza poter contare sugli strumenti che aiuteranno i migliori tra i poeti più giovani ad uscire dall’impasse: l’assimilazione dell’avanguardia e l’attraversamento della tradizione. Coraggiosamente al di qua della prima, Buratti si percepì dentro la seconda, mancando forse l’occasione di tornarvi con la coscienza del distacco che appartiene ai poeti del pieno Novecento. Uno scrittore più giovane, che avesse incontrato Buratti e parlato con lui, avrebbe forse potuto condividere mutatis mutandis la chiaroscurale annotazione di Pavese scritta nel maggio ’46 dopo una visita all’anziana Sibilla Aleramo (ora nel Mestiere di vivere): “è il fiore di Torino 900-10. Mi commuove come un ricordo. C’è in lei Thovez, Cena, Gozzano, Amalia, Gobetti. C’è Nietzsche, Ibsen, il poema lirico. […] C’è la confusione di arte e vita, che è adolescenza, che è dannunzianesimo, che è errore”. APPENDICE Inediti di Domenico Buratti Si fornisce di seguito una selezione degli inediti di Domenico Buratti rinvenuti nell’archivio famigliare: il trittico “I miei leandri”, da Tempo perduto; “Il biglietto di visita”, “L’isola del presente”, “Le torri”, “Parole a Ulisse”, “Nausica I”, “Il pitocco”, da Il gran rifiuto. La trascrizione, condotta sui dattiloscritti e sui manoscritti di piana leggibilità conservati nei faldoni, riproduce la divisione in versi e in strofe, la morfologia e i segni diacritici degli originali. Da Tempo perduto: “I miei leandri” Mattino Non potevo dormire stanotte. La mamma vecchia ma ben destra e presta schiude la finestra. Vecchie cose le più note entrano per l’aperta fascia luminosa come la grazia. Giovane un leandro mi fa festa dallo spiraglio al davanzale, 46 / NICCOLÒ SCAFFAI mi saluta al cenno con gale di rose rosa a mazzi in testa. E ogni ramo fa capo a un mazzo; e ogni mazzo cui lega un lasso di luce, col peso fa ammasso corposo di rosa carnoso. Albero è della giovinezza, non invecchia al cadente inverno, foglia ha di verde sempiterno. Codesta viride tenerezza fusa è coi rami, né si smorza sepolta sotto rugosa scorza; molle e verde fino al pedale, per sempre giovane e mortale. Con rose rosa in ombra, accese rosse in controluce, soavemente mosse sul bronzo verde, chino in ascolto, al fiato avverte sospesa un’estranea presenza; ed ecco, mi fa riverenza. All’ombra dei leandri Rosaio del tempo più caro dalle rose caduche e il verde eterno spirante un soave ricordo amaro sotto l’ala del tetto paterno; altri parte e il silenzio è grave sotto i leandri se mi seggo sul trave. Rosea delizia d’ogni estate agli occhi spenti d’anime amate con me ora qui a respirare il passato che ci s’illumina beato. Fiato amaro che soave odora; ci si parla e ciò più m’accora. FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE Ombre mi si rialzano a mente oh, vive in questo stesso mentre in quel loro piacer d’ora, in questo mio piacer d’allora! La mia corona Lauro di rose familiare col fusto terra verde e calce venuto su rasente il muro e radicatovisi al calcio… La mia fronda non ho che a strappare. Ma il mio mondo rimansi oscuro: in figure le mie creature si celan dietro la parete con le idee informi e secrete; non escono di gemma fuori dal cuor dei sensi a scoppio fra cori di luce col battito in cuore. Tela in telaio, spazio lindo. I miei quadri, tutti nel limbo, figure sospese senz’ali da evadervi, mute e mortali. Da Il gran rifiuto: Il biglietto di visita Non anche il futuro lo investe il lume delle tue innamorate lune; viandante il passato si sente lontanare e il presente solo esiste se ti adoperi a costruirtelo in un’opera. Se il sole la scolora, il vento la scancella, / 47 48 / NICCOLÒ SCAFFAI l’acqua la lava; se duri il guizzo d’un’ora favolosamente bella o a lungo come Cibele, l’ava, è tutt’uno. Disfatta prima che vista da qualcuno e chi se ne rattrista? Non chi la guarda fa preziosa la nostra opera faticosa. Stabilità di bronzo, fissità di colore o di sguardo, qual carezza di bella donna che insista, non vi aggiungon concretezza… Il mondo nulla le dona. Di lei novella ebbe la tua sorella anima, forse, che ti fu modella. Il fiore pendulo al davanzale non chiedeva il visto alla tale di tali che lo stel gli ruppe, ma sparso come fior di rupe in solitudine mortale dava al cielo nuove di sé in suo nuovo disegno. L’opera è il biglietto di visita: nomi nessuno ma i tratti d’un viso uscente dal tuo bel lavoro di svelarti in un ghirigoro. C’è l’ora e il luogo d’appuntamento FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE con gli dei a mezzo il firmamento. Vi prendono nota in eterno… Quel loro grande quaderno… L’isola del presente Il tempo ha il passato dietro la schiena e l’avvenire di faccia; non c’è presente che gli impacci l’andare e immoto si cacci a mezzo qual cuneo o parentesi tra i due che non gli son parenti. Presente è il dono che facciamo al dio e alla bella che amiamo. Ah, le opere in cui i selvatici Artigiani si son persi o salvati. Non ha a che fare col tempo il presente che non è fiume venuto e andato tra ombre e lume egli è l’opera della corrente, masso che prende forma e figura di arrotondata scoltura deposta su la riva dello spazio che ve l’attende per giacersi sazio. Opere che l’uomo ripone così andando per sua via, a destra e sinistra a perdita di vista sempre di nuova fantasia… Belle, portando in bocca il pianto-riso come un fiore, ti fanno il Paradiso. Brutte, lastricano l’inferno… Ma in eterno, in eterno! / 49 50 / NICCOLÒ SCAFFAI XXII. Le torri Un tempo… a’ bei tempi per essere europei gli artisti saliti sulla torre del borgo, si mostravan da lontano grandi come il monte che appare di sopra l’orizzonte del piano e del mare; ora standosi a fare i lor bisogni a pie’ della torre, si credon visibili da ogni luogo, in ciò che s’ingegnano a porre da parte la personalità rinnegando la città e il paese: così distrutti somigliando a nessuno e a tutti, prendono a fare il neo cittadino europeo. All’adunanza generale del gruppo che li fa e li accoppia, si cimentano a far la copia d’un inesistente originale. Che fregola di far riverenza ai teoremi di tendenza, che impone la comune regola Che ne è dei vostri sensi così caldi? Vivi li dovrete pur fare i saldi con chi alla Dea non s’arrese e non volle essere un dio ma un’ora data nel gusto di paese natio: FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE Ulisse che chiuse infinita la sua grandezza a Itaca! XXX. Parole a Ulisse Mattinal nuvola rosa d’ambrosia a mezzo un ciel di fior d’aliso Calipso d’olimpico alburno non macerata dal piacer notturno; volto innumerevole dell’onda che sorge e sprofonda senza strazio e l’isola circonda d’un sempre uguale rilevo, vivente mar di spazio. Disse: – Tu non sei mai: o piangi o speri, non ti chiami Oggi ma Domani o Ieri. Coronate di rose le donne colme di piaceri e di doni dove sono? Dal convito il Presente non tuo, fu sempre mai assente. Non hai modanature fisse di profilo immutabile, sei il lamentabile Ulisse. Che si logora e consuma e teme di non essere che ricordo impresso in coteste tue membra peste canuto in cima onda con schiuma. XXXIV. Nausica I Sul tuo capo è un’ala di alcione. Soltanto il nume dell’alcinea / 51 52 / NICCOLÒ SCAFFAI innamorata ti rifà ambrosii sul volto luminoso i crini ombrosi. Ora ti pari di vesti eccelse uscito dai mari purificato dalla salsedine. T’avvii d’Alcinoo alle lucenti sedi cangiato in tutti i tuoi aspetti diverso di stagione e affetti; ma non avrai Nausica. Antico la tua età antica. Ti sei incanutito in viaggio. Hai perduto il tuo maggio. XL. Il pitocco Esser quello che sono un poveruomo col suo tocco di pane, io, il pitocco. Sveglio o assonnato su ciottoli o foglie presso una strada che ci si venga e ci si vada lungo due rive di soglie. Nel dolore avviare il piacere; goder la state a soffrir l’inverno; dar tra monete false in quelle vere, dentro col male del lacero esterno. Farsi aprir la porta ingobbiti sotto sacco e sporta; al colpo che chiude la porta partire soli senza scorta. Come a dire: – Nascere e morire. E viverci in attesa di due pani: FORTUNA E SFORTUNA DI UN POETA EDITORE pan che ti bisogna, carne che ami e brami. Lontane, di puro colore, le cose che son mie, ch’io ho, ricco onnipotente signore, e per averle non spicco di dentro il cattivo coro – rotondo il soldone di bell’oro. Altri lo estragga per me dal nicchio di cuoio che me ne cavi un tocco di pane, io il pitocco. Tav. 8: ms. di Il biglietto di visita (carte Buratti) / 53 54 / NICCOLÒ SCAFFAI Tav. 9: minuta autografa di una lettera di Domenico Buratti (fotocopia) § 3 Paola Di Mauro Da dandy L’intellettuale dada contro la guerra Neujahr 1915: A bas la guerre Hugo Ball, Die Flucht aus der Zeit, 1931 La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata […]. Non soltanto è più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato […] ma è anche perlomeno tanto crudele, accanita, spietata, quanto tutte le guerre che l’hanno preceduta. Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che si diceva il diritto delle genti, disconosce le prerogative del ferito e del medico, non distingue fra popolazione combattente e popolazione pacifica, viola il diritto di proprietà. Abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca e come se dopo di essa non dovesse più esservi avvenire e pace fra gli uomini. Spezza tutti i legami di comunità che possono ancora sussistere fra i popoli in lotta e minaccia di lasciar dietro di sé un tale rancore da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione.1 Nel celebre scambio epistolare con Einstein, riflettendo circa l’insopprimibilità degli istinti aggressivi umani che avevano portato al conflitto mondiale, Freud affermava: “Non si tratta […] di abolire completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra”.2 In altre parole, era necessario ricorrere “all’antagonista di questa pulsione: l’Eros”,3 affinché dall’equilibrio generato dall’interazione tra spinte distruttive ed erotiche si ricostituissero “le1 Sigmund Freud, “Zeitgemässes über Krieg und Tod” (1915), trad. it. di Cesare Musatti, “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte”, in Id., Perché la guerra? Carteggio con Einstein e altri scritti, Torino: Bollati Boringhieri, 1975, pp. 20-21. 2 Albert Einstein e Sigmund Freud, Warum Krieg? Ein Briefwechsel (1933), trad. it. di Ermanno Sagittario, “Perché la guerra?”, ivi, p. 82. 3 Ibidem. PARAGRAFO IV (2008), pp. 55-71 56 / PAOLA DI MAURO gami emotivi”, unica chance di sopravvivenza per l’umanità condannatasi, volontariamente, all’autodistruzione. Come noto, la risoluta posizione dei due scienziati non è rappresentativa dell’entourage culturale dell’epoca, testimoniato piuttosto dal famigerato “appello dei novantatre”,4 l’indecoroso manifesto sottoscritto da note personalità del mondo intellettuale e accademico tedesco allo scopo di giustificare la violazione del diritto internazionale attuato dalla Germania. Rileva amaramente Reinhart Meyer: “all’intelligenza tedesca, soprattutto a quella accademica, era stata data la possibilità, al più tardi nella guerra e nel dopoguerra, di imparare. Ma tranne alcune eccezioni essa si mise sempre, anche dopo la guerra, dalla parte del capitale, del potere”.5 Riappare con ciò lo spettro di un Sonderweg calcato dagli intellettuali tedeschi che, scegliendo sostanzialmente un ruolo di conservatorismo e di consenso all’establishment politico, confermarono, anche in tali circostanze, un’endemica incapacità critica nei confronti del potere costituito. Al contrario, arte e letteratura divennero strumenti di propaganda con cui professori, poeti, scrittori e critici, dimenticando la loro naturale attitudine al pacifismo, alimentarono il furor populi guerrafondaio. Tra di essi, secondo Miklavž Prosenc, “Klabund scriveva liriche da guerra. Karl Kraus, almeno ancora nel novembre 1914, salutava la guerra […] come ‘la grande epoca’, Richard Dehmel, Ernst Lissauer e Richard Nordhausen ottenevano all’inizio del 1915 medaglie imperiali per meriti patriottici, e professori delle università tedesche pubblicavano testi programmatici con motti patriottici in versi”.6 Il fatto che solamente nel 1915 si contino quattrocentocinquanta antologie di liriche inneggianti all’interventismo,7 conferma l’acuta osservazione di Cesare Cases sull’entusiastica adesione alla guerra da parte degli esponenti degli sperimentalismi artistici tedeschi: Quando scoppiò la guerra mondiale, vociani e futuristi, espressionisti e neoclassici, bergsoniani e positivisti, nietzschiani e crociani, sindacalisti e forcaioli la salutarono come un’esplosione necessaria e liberatrice, per cen4 Il testo dell’appello lanciato il 4 ottobre 1914 è riportato e commentato da Luciano Canfora, Intellettuali in Germania tra reazione e rivoluzione, Bari: De Donato, 1979, pp. 32-33. 5 Reinhart Meyer, Dada in Zürich und Berlin. Literatur zwischen Revolution und Reaktion, Regensburg: Scriptor, 1973, p. 15. Laddove non altrimenti indicato, la traduzione è mia. 6 Miklavž Prosenc, Die Dadaisten in Zürich, Bonn: Bouvier, 1967, p. 32. 7 Cfr. Wolfgang Paulsen e Helmut G. Hermann (a cura di), Sinn aus Unsinn. Dada International, Bern: Francke, 1982, p. 88. L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA / 57 to ragioni diverse, ma con una convergenza di fondo di cui solo oggi forse si comincia a riconoscere pienamente il significato senza farsi più illusioni sulle scarse riserve o sulle scarse eccezioni. [La] guerra non era altro che la conferma di una fine del mondo che poeti ed artisti portavano già in sé.8 Noto è lo zelo interventista con cui, all’interno di tale congerie artisticoletteraria, i marinettiani affermarono la nascita di una nuova estetica del bello e della guerra. Seguendo la visione del tecnicismo razionalistico come soddisfacimento artistico, l’umanità avrebbe dovuto “vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine”.9 Così Walter Benjamin: Nel manifesto di Marinetti per la guerra coloniale d’Etiopia si dice che da vent’anni i futuristi si oppongono a che la guerra venga definita come antiestetica. Pertanto asseriscono: […] la guerra è bella, perché – grazie alle maschere antigas, ai terrificanti megafoni, ai lanciafiamme, ed ai piccoli carri armati – fonda il dominio dell’uomo sulla macchina soggiogata. La guerra è bella perché inaugura la sognata metallizzazione del corpo umano.10 Se non altro, “questo manifesto”, potremmo constatare assieme a Benjamin, “ha il vantaggio di essere chiaro”.11 Dai glorificatori della guerra si distinguevano i dadaisti, rappresentanti di quelle ‘scarse riserve’ immaginate da Cases, che non si rivolsero, nemmeno sporadicamente, al fiat ars pereat mundus loro contemporaneo. Basti pensare a definizioni quali la “ripugnante meccanicistica visione del mondo”12 o alla veemenza con cui Hugo Ball, un antesignano del Dada zurighese, si scagliava contro la desacralizzante civiltà delle macchine: “La necrofilia moderna. Credere alla materia è come credere alla morte. Il trionfo di questo tipo di religione è un’orrenda devianza. La macchina conferisce una specie di vita apparente alla morta materia”.13 8 Cesare Cases, “Arte e letteratura tra le due guerre” (1970), in Id., Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, Torino: Einaudi, 1985, pp. 123-24. 9 Walter Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1955), trad. it. di Enrico Filippini, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Torino: Einaudi, 2000, p. 48. 10 Ivi, p. 47. 11 Ibidem. 12 Richard Huelsenbeck e Tristan Tzara, Dada siegt. Bilanz und Erinnerung, Hamburg: Nautilus, 1985, p. 11. 13 Hugo Ball, Die Flucht aus der Zeit (1931), Luzern: Stocker, 1946, p. 4-5. D’ora in avanti la sigla FZ farà riferimento a questo volume. 58 / PAOLA DI MAURO Mai i dadaisti presero parte a proclami apologetici di guerra, indignandosene, invece, e disprezzandola come espressione parossistica della meccanicizzazione disumanizzante del mondo: “La guerra si basa su di un errore grossolano”, diceva Ball, “scambia le persone con le macchine. Si dovrebbero decimare le macchine al posto delle persone” (FZ, p. 30). Sin dagli esordi zurighesi, essi si distinsero come ‘intellettuali disorganici’ rispetto al gruppo sociale dominante,14 giudicando la Germania responsabile in primis dello scatenarsi del conflitto bellico: Eravamo d’accordo sul fatto che la guerra dei singoli governi fosse stata tramata dai più bassi e materialistici motivi di gabinetto. [Non] abbiamo avuto timore di dire talvolta anche ai filistei zurighesi grassi e ottusi, che consideravamo loro come dei maiali e gli imperatori tedeschi come i responsabili della guerra.15 Nonostante sia significativo il debutto del Dada nell’“atmosfera compressa” della Zurigo neutrale, allora “occupata da un esercito internazionale di rivoluzionari, riformatori, poeti, pittori, musicisti, filosofi, politici, e apostoli della pace”,16 i dadaisti disdegnavano il pacifismo generalmente umanitario degli altri esuli svizzeri: “Non erano pacifisti del tipo di Roman Rolland, anche lui rifugiato in quel tempo in Svizzera”, precisa Sandro Volta, “ma gente in rivolta contro tutte le menzogne dell’ordinamento sociale, di cui la guerra era soltanto la conseguenza”.17 In altre parole, vedevano il conflitto bellico come parossistica evoluzione del più generale decadimento del sistema capitalistico annunciato nei contemporanei proclami bolscevichi. Al contempo però, la presenza di Lenin a Zurigo, che da lì a poco avrebbe compiuto il celebre viaggio in treno verso Leningrado, non suscitò entusiasmi negli artisti della porta accanto. Il capo bolscevico, infatti, risiedeva al 14 Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1949), Torino: Einaudi, 1966. Tra tutti, solo Ball, per poco, sarà interventista, come sappiamo da Steinke, che commenta così il temporaneo traviamento: “colto da un attacco di fervore patriottico, si arruolò volontario”. Gerhard Edward Steinke, The Life and Work of Hugo Ball: Founder of Dadaism, The Hague: Mouton, 1967, p. 111. 15 Richard Huelsenbeck (a cura di), Dada. Eine literarische Dokumentation, Reinbek: Rowohlt, 1984, p. 115-16. D’ora in avanti la sigla DLD farà riferimento a questo volume. 16 Hans Arp, Unsern täglichen Traum… Erinnerungen, Dichtungen und Betrachtungen aus dem Jahren 1914-1954 (1955), Zürich: Die Arche, 1995, p. 59. 17 Sandro Volta, “Prefazione”, in Tristan Tzara, 7 Dada Manifeste (1918), trad. it. a cura di Sandro Volta, Manifesti del dadaismo e lampisterie, Torino: Einaudi, 1964, p. 17. L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA / 59 numero sei di quella stessa Spiegelgasse del Cabaret Voltaire dove i dada continuavano, indisturbati e indipendenti, le loro attività (DKA, p. 14): Strani accadimenti: mentre a Zurigo, nella Spiegelgasse 1, c’era un Cabaret, abitava di fronte a noi nella stessa Spiegelgasse al numero 6, se non vado errando, il signor Ulianow-Lenin. Egli dovette sentire ogni sera le nostre musiche e le nostre tirate, non so se con gioia e vantaggio. Il Dadaismo, come segno e gesto, è il contrario del Bolscevismo? (FZ, p. 163) Nel caffè Terrasse di Zurigo Tzara e Lenin si riunivano per giocare a scacchi; pare inoltre che il rivoluzionario russo assistesse alle soirée dalla finestra del suo appartamento nella Spiegelgasse.18 Come conciliare questa descrizione di felice convivenza con quella di Schwarz che riferisce di un Lenin così infastidito dagli spettacoli dada da allertare la polizia?19 Di fronte a congetture così discordanti, sui rapporti tra i bolscevichi dell’arte e quelli della politica, verosimile è l’ipotesi di una reciproca “cordiale indifferenza”.20 Indifferente la società zurighese lo era verso i bolscevichi, che “colti e tranquilli progettavano la rivoluzione mondiale” (DKA, p. 14), mentre con preoccupazione guardava ai dadaisti. “I zurighesi non avevano nulla contro Lenin, poiché non era provocatorio. Invece il Dada li indignava. […] Il borghese vedeva nel dadaista un mostro dissoluto, un rivoluzionario scellerato, un asiatico scostumato”.21 Alla domanda se il Dada zurighese fu movimento politicizzato, risponde la scarsa eco che in esso ebbero gli avvenimenti politici contemporanei. Come evidenziato da Hugnet, “nel 1917, al momento dell’immane crollo dello zarismo, Dada organizzava esposizioni e conferenze sull’espressionismo e l’arte astratta”.22 Come si giustifica, ad esempio, che la Conferenza socialista internazionale di Zimmerwald (1915) non venga nemmeno menzionata? Della famosa assemblea svizzera non vi è traccia negli scritti dei dada; né essi presero mai parte a forme organizzate di protesta: anche la notizia di una presunta associazione di scrittori rivoluzio18 Ibidem. Arturo Schwarz, “Lo spirito dadaista”, in Stefano Cecchetto e Elena Cardenas Malagodi (a cura di), Dada a Zurigo. Cabaret Voltaire 1916-1920, Milano: Mazzotta, 2003, p. 5. 20 Georges Hugnet, L’aventure Dada, 1916-1922 (1971), trad. it. a cura di Giampiero Posani, Per conoscere l’avventura dada: 1916-1922, Milano: Mondadori, 1977, p. 24. 21 Hans Arp, op. cit., p. 60. 22 Georges Hugnet, op. cit., p. 24. 19 60 / PAOLA DI MAURO nari fondata da Hans Richter nel 1919, viene smentita leggendo il memorandum dell’avanguardista berlinese.23 In definitiva, il gruppo fu contraddistinto da un certo velleitarismo: Il Dadaismo nasce e si sviluppa, dunque, con una fortissima carica antiborghese, fondamentalmente antiautoritaria e anarchica, incapace di prendere coscienza, al di là del gesto esemplare e del culto incondizionato della libertà individuale contro ogni forma di super io, della dialettica concreta della lotta di classe e di identificarsi, oltre al solidarismo, nella classe operaia e nelle sue organizzazioni storiche.24 Tuttavia, la composizione internazionale del Dada zurighese era una caratteristica che, di per sé, si opponeva ai nazionalismi guerrafondai: “I movimenti artistici immediatamente precedenti la prima guerra mondiale”, precisa Rubin, “avevano avuto in generale un carattere nazionale, e nel promuovere consapevolmente un’arte che non tenesse conto dei confini, Dada divenne il primo movimento programmaticamente internazionale di pittori e scultori”.25 Tale caratteristica si rispecchiò nell’allestimento di eventi artistici, come le soirées francesi e russe di musica, danza e poesia (DKA, p. 13), o negli sperimentalismi poetici: si pensi alle versioni gemelle del componimento plurilingue di Tzara Per fare una poesia dadaista, o alla poesia di Huelsenbeck, Janco e Tzara L’ammiraglio cerca una casa da affittare, recitata simultaneamente in tedesco, inglese e francese. All’interno del Cabaret Voltaire, quasi “simbolo di una koinè plurima e sopranazionale” e baluardo contro la “virtus e la purezza germanica”,26 si respiravano particolari atmosfere danubiane. Come dimenticare, tra le curiose etimologie dell’espressione diadica, quella basata sulla forma affermativa delle lingue slave: ‘da-da’?27 Fu lo slavismo, rappresentato, tra 23 Hans Richter, Dada-Kunst Antikunst, Köln: DuMont, 1999, p. 45. D’ora in poi la sigla DKA farà riferimento a questo volume. 24 Giampiero Posani, “Introduzione”, in Tristan Tzara, 7 Dada Manifeste (1918), trad. it. di Ornella Volta, Manifesti del dadaismo e lampisterie, a cura di Giampiero Posani, Torino: Einaudi, 1990, p. xxxiii. D’ora in poi la sigla MDL farà riferimento a questo volume. 25 William S. Rubin, Dada and Surrealist Art (1968), trad. it. di Domenico Tarizzo, L’arte dada e surrealista, Milano: Rizzoli, 1972, p. 75. 26 Claudio Magris, Danubio (1986), Milano: Garzanti, 1999, p. 28. 27 Così Richter: “il nome Dada per il nostro movimento aveva rapporti di parentela con le forme affermative slave ‘da, da’” (DKA, p. 30). Sull’etimologia della parola dada cfr. Paola Di Mauro, Antiarte Dada, Acireale-Roma: Bonanno, 2005, pp. 108-09. L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA / 61 l’altro, fisicamente dai rumeni Tzara e Janco e dal pittore ucraino Slodki, a determinare l’identità vitalistica del movimento, quella paradossale joie de vivre slava come tradizionale controcanto alle incessanti guerre. “Pomiràt’ tak s mùzykoj”: se si deve morire, recita il noto proverbio russo, meglio con la musica. “Nel ricordo mi sembra quasi idilliaca”,28 avrebbe detto più volte Arp, ripensando a Zurigo. La definizione è eloquente. Di fronte all’imperversare della guerra, le percezioni dell’isolamento zurighese quale condizione ‘privilegiata’ e della città svizzera come idillio sicuro, ridimensionano la leggenda del Dada come movimento artistico-letterario engagée. Anche il controverso appellativo di Kerndadas,29 chiamato a designare l’autenticità del gruppo di Zurigo, secondo le intenzioni apolitiche dello scrittore di Hannover, ne mette in luce un tratto significativo. In tale contesto, si inquadrano le relazioni privilegiate con gli anarchici. Ball, in diretto contatto con Bakunin, Kropotkin, Landauer e Mereschkoski, definiva l’anarchismo principio politico vicino al Dada: “premessa è il credo rousseauiano nella bontà naturale dell’essere umano e all’ordine immanente della natura primigenia” (FZ, p. 25). L’utopismo anarchico, conciliabile con le nuances chimeriche del Dada zurighese, sarebbe stato caldeggiato anche da Serner e Tzara: “Ball, Serner, Tzara e Richter erano necessariamente coinvolti nei dibattiti dell’internazionale anarchica che si diffondevano attraverso la stampa, se non addirittura direttamente informati da Brupbacher”.30 Tuttavia, lo stesso Ball si mantenne sempre a rassicurante distanza da concrete imprese sovversive, precisando: “Mai darei il benvenuto al caos, mai getterei bombe, farei saltare ponti e mai potrei sbarazzarmi delle idee. Non sono un anarchico” (FZ, p. 26). In effetti: Non si tratta di valutare i dadaisti sulla base dell’anarchismo, di evidenziare il loro interesse alle idee sociali o alle utopie come indizio di impegno politico, bensì […] del patrimonio ideale anarchico, che i dadaisti certamente conoscevano, e che doveva essere penetrato quale componente indispensabile nel concepimento artistico del Dada.31 28 Hans Arp, op. cit., p. 59 (corsivo mio). Schwitters usava l’appellativo di Kerndadas, i dada autentici, per distinguere il gruppo di Zurigo, dedito all’arte, dai berlinesi Huelsendadas, i dadaisti di Huelsenbeck politicamente degenerati. Cfr. Werner Schmalenbach, Kurt Schwitters, Köln: DuMont, 1984, p. 47. 30 Miklavž Prosenc, op. cit., p. 100. 31 Eckhard Philipp, Dadaismus. Einführung in den literarischen Dadaismus und die Wortkunst des ‘Sturm’-Kreises, München: Fink, 1980, p. 41. 29 62 / PAOLA DI MAURO “Il nostro tipo di Candido contro il tempo”, scriveva Ball (FZ, p. 94), facendo del protagonista del sarcastico romanzo di Voltaire il portavoce di un rassicurante progetto di esistenza per l’artista. Tuttavia, la proverbiale cura dell’orticello personale di Candido, vagheggiata come utopia, sarebbe stata abbandonata dai dadaisti assieme all’ottimistica joie de vivre zurighese. Alcune circostanze contribuirono alla necessaria metamorfosi. Forse a causa dei ripetuti oltraggi contro la benpensante società zurighese e dei numerosi disordini verificatisi durante gli spettacoli, i locali della Spiegelgasse vennero chiusi.32 Nel secondo cenacolo zurighese della Galerie Dada nella Bahnhofstrasse, che rappresentò una sorta di transizione verso la dimensione realmente poco idilliaca di Berlino, la variegata formazione del Dada si semplificava: Tzara sarebbe diventato leader indiscusso del gruppo, mentre Ball, in crisi mistica, se ne sarebbe allontanato, stabilendosi nel paese ticinese di Sant’Abbondio. I dadaisti che, nel 1918, arrivarono a Berlino si confrontarono con una realtà assai diversa: Spartaco era in tutte le strade, in tutti i luoghi, e in una Berlino sconvolta si eccitava il Dada: chi sta fermo viene colpito a fuoco, ordine del prefetto della polizia. Niente gas, né elettricità, né acqua, e tutto questo già da più giorni. A ogni angolo della strada controlli per il porto d’armi, manifestazioni di massa, incontri per Spartaco, di notte al centro rumore di mitragliatrici […]. E in tutto ciò si dovevano comporre versi ben levigati, dipingere nature morte o donne nude? Al diavolo.33 Durante i tre anni dell’esperienza berlinese si sentì la necessità che “architetture artistiche e questioni sociali”34 camminassero di pari passo, come provano i numerosi dibattiti su arte, letteratura, politica e società: “non solo l’arte, ma anche i pensieri e i sentimenti, la politica e la società dovettero essere trascinati nella cerchia d’azione del Dada” (DKA, p. 105). Evidentemente, in questa fase, non erano le utopie anarcoidi ad affascinare i dadaisti, che ora si avvicinavano, semmai, a formazioni ideologi32 Cfr. Fritz Glauser, “Dada-Erinnerungen”, in Peter Schifferli (a cura di), Dada in Zürich. Bildchronik und Erinnerungen der Gründer, Zürich: Sanssouci, 1957, p. 23. 33 Raoul Hausmann, Am Anfang war Dada (1972), a cura di Karl Riha, Gießen: Anabas, 1992, p. 16. 34 Hanne Bergius, Das Lachen Dadas. Die Berliner Dadaisten und ihre Aktionen, Gießen: Anabas, 1989, p. 40. L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA / 63 camente strutturate: i fratelli Herzfelde, George Grosz e Franz Jung si unirono alle milizie del Partito comunista, nella cui sfera gravitavano, pur non essendovi formalmente iscritti, molti dadaisti. Berlino richiedeva gesti esemplari. Se, infatti, come asseriva Huelsenbeck “era la città della fame sempre più dilagante, dove la rabbia repressa si trasformava in smisurata cupidigia”,35 era precisamente in tale contesto che “[s]i dovevano trovare mezzi completamente diversi, se si voleva dire qualcosa alla gente”.36 Colpisce, in enunciati simili, la ricerca instancabile di gesti efficaci: “il gesto dada si presentava nella metropoli berlinese aggressivo, battagliero, cinico e radicale politicamente”.37 A questo proposito e a scanso di equivoci, Fähnders propone una distinzione tra “provocazione politicizzata”, del Dada, e “politica provocatoria”,38 dietro la quale si legge un giudizio impietoso sulla pressoché inesistente progettualità del movimento. Effettivamente, se da una parte il Dada fu “una visione relativa, antiborghese, anticapitalistica, attivista di teste pensanti politicamente” (DLD, p. 32), dall’altra, il “flirt con il comunismo” (DKA, p. 115) fu un pretesto ‘antiartistico’, una posizione generica di protesta, come precisava Huelsenbeck: “Non erano nemmeno i contenuti del comunismo che ci attraevano. Ciò per cui, per così dire, simpatizzavamo, era l’impeto rivoluzionario”.39 In un successivo autodafé, il dadaista avrebbe giudicato con severità certe frequentazioni radicali, chiarendo, forse condizionato dall’aria non troppo liberale della nuova dimora newyorkese del 1957, la differenza tra entusiasmo personale e militanza politica: Quando, nell’anno 1918, portai il Dadaismo a Berlino, si unì a noi un tale, il cui carattere sospetto mi si è chiarito piano piano, il proprietario delle edizioni Malik, il cui nome era Wieland Herzfelde […]. Gli Herzfelde, Jung e l’altro, e con essi il mio amico Hausmann, ci spinsero al comunismo e io devo ammettere adesso, con vergogna, che ideologicamente fui dalla loro parte.40 Inoltre, alla luce della tradizionale vulgata del Dada berlinese come movi35 Herbert Kapfer, “Bruitistisch, abstrakt, konkret”, in Richard Huelsenbeck, Phantastische Gebete (1916), Gießen: Anabas, 1993, p. 75. 36 Ibidem (corsivo mio). 37 Hanne Bergius, op. cit., p. 9. 38 Walter Fähnders, “Avantgarde und politische Bewegung”, Text + Kritik, 2001, p. 73. 39 Richard Huelsenbeck, Mit Witz, Licht und Grütze. Auf den Spuren des Dadaismus, Hamburg: Nautilus, 1985, p. 78. 40 Richard Huelsenbeck, Phantastische Gebete, cit., p. 77. 64 / PAOLA DI MAURO mento inquadrato ideologicamente, come interpretare un atto paradossale quale l’invio del telegramma da parte di Huelsenbeck, Baader e Grosz a sostegno dell’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio? Medesima perplessità suscita la fondazione del fantomatico Consiglio centrale rivoluzionario dadaista dove, ad onta delle emergenze berlinesi di quegli anni, si sostenevano rivendicazioni equivoche come “l’introduzione della disoccupazione progressiva attraverso l’ampia meccanicizzazione di ogni attività” oppure “l’introduzione della poesia simultanea come preghiera di stato comunista” o ancora “l’immediata espropriazione del possesso e il sostentamento comunista di tutti, così come l’edificazione di città-giardino e città-luce appartenenti alla comunità”.41 L’eversione semantica di tali enunciati, tuttavia, attuata tramite il capovolgimento delle tradizionali espressioni utilizzate dalla politica, comportava uno slittamento del discorso su un piano metapolitico che evidenziava, oltre ai limiti terminologici e concettuali, anche l’inefficacia della tradizionale retorica. Osserva Fähnders: “Si tratta della ridicolizzazione della semantica politica fino alla messa in ridicolo di determinate strutture e postulati politici che tradizionalmente si muovono sui binari del pensiero lineare”.42 In tal senso, sebbene i dadaisti rimasero, salvo rare eccezioni, sostanzialmente estranei all’engagement tradizionale, essi avviarono, con le loro pratiche antiartistiche e iconoclastiche, una riflessione ante litteram molto significativa sul linguaggio della politica. Il dadaista lotta contro la società borghese alla quale appartiene, penetrandone con lo sguardo la falsità, l’ipocrisia e il cinismo, ma proprio con questi stessi mezzi. Lui è il dis-illuso, che scopre l’illusione per mezzo dell’illusione, svela il bluff con il bluff, l’apparenza con l’apparenza e la maschera con la maschera.43 Nella caleidoscopica rappresentazione della realtà come festa mascherata, i dadaisti volevano apparire nei panni di buffoni: “Finalmente il grande successo era arrivato!”, si rallegrava Picabia delle sue esibizioni, “eravamo trattati come pazzi, fanfaroni e clown” (DLD, p.111). “Volevamo ridere, ridere e fare ciò che i nostri istinti esigevano. Volevamo creare tutto da soli – il nostro nuovo mondo” (DLD, p. 62). Come 41 Der Zweemann, 2, 1919, pp. 18-19. Walter Fähnders, op. cit., p. 73. 43 Hubert Schings, Narrenspiele oder die Erschaffung einer verkehrten Welt. Studien zu Mythos und Mythopoiese im Dadaismus, Frankfurt: Lang, 1996, p. 63. 42 L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA / 65 evidenzia Bachtin nel suo lavoro sul comico e la letteratura, ridere è espressione di una precisa concezione del mondo.44 Di tanto in tanto, i dadaisti davano a vedere che cosa ci fosse dietro lo scherno, quale concezione della realtà portasse con sé. Dichiara Huelsenbeck con fierezza: “Chi si irrita del Dada, chi crede di considerare i dadaisti come arlecchini e inetti e il Dadaismo come una stupidaggine, non ha capito […] che i dadaisti sono uomini che hanno capito il senso della loro epoca meglio di tutti gli altri”.45 Ideatori di burle o di “scherzi filosofici”,46 secondo la nota definizione di Alfred Kerr che ammantava, con tale espressione, lo scherno dada di un elogio malsicuro, i dadaisti furono dotati di quella saggezza superiore che fa percepire la realtà come poderoso spettacolo di insensatezza. Quello che conferisce alla figura del clown la sua eccentrica superiorità sugli imperatori e sui giudici è il fatto che, al contrario dei potenti presi in trappola dal loro abbigliamento e dagli attributi esterni di una vana tirannia, il clown è un ‘re derisorio’ […]. Toccherà a noi intuire che egli rappresenta noi tutti, che siamo tutti dei pagliacci, e che la nostra vera dignità (giacché a questo punto si può parafrasare Pascal) consiste nell’ammissione del nostro essere pagliacci. Se impariamo a osservare attentamente, vedremo che i nostri abiti sono tutti costumi di lustrini. Totus mundus agit histrioniam.47 Dell’artista da saltimbanco il dada possiede tutte le contraddittorie qualità, la capacità di “librarsi in volo e piombare a terra, trionfo e declino; agilità e atarassìa; gloria e sacrificio”,48 ondeggiando saturninamente tra “una buffonata e una messa funebre” (FZ, p. 78), come scriveva Ball riferendosi al potere catartico del riso nel contesto luttuoso del suo tempo. 44 Michail M. Bachtin, Tvorcestvo Fransua Rable i narodnaja kulturasrednevekovja i Renessansa (1965), trad. it. di Mili Romano, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino: Einaudi, 1982, p. 66. 45 Richard Huelsenbeck, “Die dadaistische Bewegung. Eine Selbstbiographie”, in Jeanpaul Goergen (a cura di), Urlaute dadaistischer Poesie: Der Berliner Dada-Abend vom 12. April 1918, Hannover: Postskriptum, 1994, p. 35. 46 Karin Füllner, “Ulk mit Weltanschauung. Die dadaistische Großveranstaltung im Spiegel der zeitgenössischen Presse”, in Id., Richard Huelsenbeck. Texte und Aktionen eines Dadaisten, Heidelberg: Winter Universitätsverlag, 1983, p. 170. 47 Jean Starobinski, Portrait de l’artiste en saltimbanque, (1983), trad. it. di Corrado Bologna, Ritratto dell’artista da saltimbanco, Torino: Bollati Boringhieri, 1998, p. 122. 48 Ivi, p. 117. 66 / PAOLA DI MAURO La beffa, riprendendo la sua antica funzione di consolidamento psicologico quale compensazione emotiva e vitalistica di fronte a situazioni di emergenza, fu un raffinato escamotage di esorcizzazione del terrore. “Rivolta[ndosi] all’idea che la logica potesse servire per giustificare l’uccisione e la mutilazione di milioni di esseri”, il riso fu il “mezzo preferito della guerriglia dada”49 per sublimare la paura scatenata dagli eventi terrificanti della guerra. Tematiche simili emergono anche da prospettive individuali, come dalla descrizione autobiografica di Tzara che, affidando le sue ultime volontà pseudotestamentarie al fascino pernicioso della morte, dichiarava: “Mi suicidio al 65%. Ho la vita molto a buon mercato, per me non è che il 30% della vita […]. La morte è un po’ più cara. Ma la vita è affascinante e la morte altrettanto affascinante” (MDL, p. 34). Anche alla luce del suicidio del sofisticato Jacques Vaché,50 dadaista ante litteram la cui magnifica “forza impressionifica” avrebbe fortemente influenzato tutto l’entourage avanguardistico primonovecentesco, non era di poco conto l’affermazione di Tzara: “prendetevi voi stessi a pugni in piena faccia e cascate morti” (MDL, p. 22). Tuttavia il nesso illustrato da Agamben tra autoannientamento e produzione artistica avanguardistica,51 non comprende la specifica evoluzione dei dada tedeschi, tesi piuttosto verso il ‘rischio’ come forma vitalistica di sfida alla quieta esistenza borghese; basti pensare alle rocambolesche avventure descritte da Huelsenbeck (cfr. DLD, p. 34) o alla biografia del dadaista di Colonia Baargeld, scomparso, non suicida, come sostiene Schwarz,52 ma più prosaicamente travolto da una valanga sul Monte Bianco.53 Una particolare propensione ai piaceri psichedelici, tuttavia, conferma la vocazione dada alla bohème. Il consumo di droghe fu letale al libraio antiquario Hans Hack, il mecenate di Zurigo, il cui negozio era punto d’incontro del gruppo, trovato morto a causa di una dose eccessiva di cocaina. Lo stesso Ball, che avrebbe messo in guardia dai pericoli del dandi49 William S. Rubin, op. cit., p. 9 (corsivo mio). In realtà, Vaché, che morì nel 1918, non ebbe mai contatti con i dadaisti, il suo accostamento ideale al Dada fu opera di Breton con cui intrattenne uno scambio epistolare. Cfr. Jacques Vaché, Lettres de guerre (1919), trad. it. di Elena Paul, Lettere di guerra, Palermo: Duepunti, 2005. 51 Giorgio Agamben, L’uomo senza contenuto, Macerata: Quodlibet, 2000. 52 Arturo Schwarz, op. cit., p. 17. 53 William S. Rubin, op. cit., p. 11. 50 L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA / 67 smo e della vita scapestrata,54 mostra comprovata conoscenza delle sostanze stupefacenti che descriveva in termini altamente nobilitanti e come reali alternative alla sterilità della vita moderna: Per chi ha perso dubbi e speranze, le droghe possono offrire una consolazione. Le droghe sono condizioni umane di felicità e di disperazione, che conducono in un aldilà immaginario. La dose di cui ognuno ha bisogno per continuare a sopportare la vita si regola in relazione alla propria costituzione fisica, a seconda del livello di nostalgia o delusione. Le droghe servono a integrare l’ideale. (FZ, pp. 43-44) Il Dadaismo “era una rivolta della personalità oppressa da ogni lato”, diceva Huelsenbeck. “Era la ribellione contro la massificazione, la stupidizzazione, la distruzione. Era il grido di aiuto dell’uomo creativo contro la banalità”.55 I dadaisti si cimentarono nella difficile impresa di rimanere fedeli ai proclami di antiartisticità attraverso un accurato repulisti da ogni tradizionalismo, con un’attenzione scrupolosa affinché “squilli di tromba dell’antiarte”, così Richter, non trasmettessero vibrazioni di antiche convenzioni (DKA, p. 51). Da qui si comprende il giudizio di Luigi Forte sulla centralità di un dissidio con “l’ossessiva riproduzione dell’immago paterna”;56 da qui l’identificazione del gruppo sulla base di un’intesa spiccatamente generazionale che, secondo Tzara, esprimeva l’inquietudine della giovinezza di tutti i tempi.57 Che nel 1918 tutti i membri del gruppo berlinese avessero appena vent’anni, eccetto l’architetto Baader, poco più che quarantenne ma irruente e scapestrato più degli altri, basterebbe a giustificare la definizione del Dada come “nuovo, appassionato Sturm und Drang”.58 Questi tratti giovanilistici chiariscono anche la mancata intesa tra i dada berlinesi e Kurt Schwitters, che veniva apostrofato come “il talentuoso piccolo borghese”;59 anche Grosz non fece mistero della sua antipatia verso l’avanguardista di Hannover quando, a dispetto di tutte le con54 Cfr. Hugo Ball, Flametti oder vom Dandysmus der Armen (1918), trad. it. di Piergiulio Taino, Flametti o del dandismo dei poveri, Pasian di Prato: Campanotto, 2006. 55 Richard Huelsenbeck, Mit Witz, Licht und Grütze, cit., p. 79. 56 Luigi Forte, “Dada o le metamorfosi del gioco”, in Id. Le forme del dissenso, Milano: Garzanti, 1987, p. 61. 57 Cfr. Robert Motherwell (a cura di), The Dada Painters and Poets, New York: Wittenborn, 1967, p. 6. 58 Valerio Magrelli, Profilo del Dada, Roma: Lucarini, 1990, pp. 40. 59 Richard Huelsenbeck, Mit Witz, Licht und Grütze, cit., p. 96. 68 / PAOLA DI MAURO venienze, lo lasciò davanti alla porta del suo appartamento berlinese (cfr. DKA, pp. 147-48). In tal senso, si ridimensiona anche la querelle sulla politicità del Dada come principale causa delle incomprensioni tra DadaBerlin e Schwitters. Basti solo osservare che Max Ernst, a sua volta dadaista sui generis e senz’altro critico nei confronti dell’egagement dada, giudicava inconciliabile il programma di un’arte politica e antiborghese con la prospettiva elitaria dei berlinesi, coniando, a questo proposito, il termine Kurfürsten-Dammdadaismus, con cui alludeva sarcasticamente al legame tra i dadaisti e il boulevard più rappresentativo di Berlino.60 Che il dandismo fosse un fenomeno molto diffuso in Dada, trova conferma nell’adozione di “ingegnosi apparati di liturgia sociale”,61 chiamati a mettere alla berlina ogni vezzo aristocratico: tra questi, l’attribuzione, tipicamente bohémien, di soprannomi (Hausmann era il Dadasoph, Grosz il Propagandada, Mehring il Pipidada, Baader l’Oberdada, Herzfelde il Progressdada, Heartfield il Monteurdada), l’attenzione per l’abbigliamento – come ci rammentano “la passione per le stoffe inglesi di Arp (che portava scarpe disegnate da lui stesso), la predilezione di Heartfield per gli abiti di Savile Row, la raffinata eleganza di Picabia, o la provocatoria moda del monocolo adottata da Tzara, Grosz, Hausmann, Breton e Arp” –62 la frequentazione assidua dei caffè zurighesi Terrasse e Odeon o altri luoghi di ritrovo, come la scuola delle ballerine di Laban, legate a doppio filo al Cabaret Voltaire. L’intrinseca natura rivoluzionaria, instabile, scintillante di Dada non poteva non contagiare anche i rapporti d’amicizia fra i suoi adepti. Il rapporto tra sé e gli altri era immancabilmente scandito da punte di adesione allucinata e vertiginosa o di dissociazione radicale: Noi siamo cinque amici, e la cosa più stupefacente è che non andiamo mai completamente d’accordo, sebbene ci unisca principalmente la stessa convinzione. La costellazione cambia. Ora Arp e Huelsenbeck si capiscono e sembrano inseparabili, ora Arp e Janco fanno comunella contro H., ora H. e Tzara contro Arp ecc ecc. Si tratta di un’ininterrotta e cangiante attrazione e repulsione. Bastano un lampo, un gesto, un nervosismo che la costellazione si trasforma. (FZ, p. 89) 60 Cfr. Jörgen Schäfer, Dada Köln. Max Ernst, Hans Arp, Johannes Theodor Baargeld und ihre literarischen Zeitschriften, Wiesbaden: Dt. Universitätsverlag, 1993, p. 91. 61 Valerio Magrelli, op. cit., p. 96. 62 Ibidem. 63 Hans Bolliger, Guido Magnaguagno e Raimund Meyer, Dada in Zürich, Zürich: Die Arche, 1985, p. 28. L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA / 69 Tuttavia, l’unione indissolubile di questo “movimento eterogeneo di amici e artisti”63 era costituita da uno spirito di solidarietà straordinariamente forte, particolarmente all’interno del gruppo di Zurigo, i cui membri erano paragonabili, secondo l’efficace metafora di Richter, ai colori di un arcobaleno, visivamente diversi, ma risultanti da un’unica rifrazione luminosa (DKA, p. 25). Incontri più epifanici furono quelli del gruppo a Berlino, dove l’inquietudine sociale si rifletteva anche all’interno delle turbolente relazioni interpersonali, come dimostrano la contesa leadership tra Huelsenbeck e Hausmann64 o l’assenza di un manifesto firmato da tutti i componenti del gruppo. D’altronde, “l’arte è una cosa privata”, ribadirono più volte i dadaisti, “l’artista la fa per sé” (MDL, p. 23). Non solo l’antiarte dada doveva essere privata, ma più ermetica rimaneva, meglio era: “Ciò di cui abbiamo bisogno”, affermava Tzara, “sono opere […] incomprensibili” (p. 49). Fornivano un correttivo a questo soggettivismo estremo, da una parte il carattere conviviale delle manifestazioni dada, dall’altra il rifiuto, pressocché categorico, dell’idea di ‘genio’. Tale significativa incongruenza con lo stereotipo del dandy spiega la concezione estetica ‘casuale e spontaneistica’ del Dada, per cui l’atto creativo non doveva dipendere da specifiche capacità individuali, quanto piuttosto dall’originalità della vita stessa. Infatti: “Dada è immediato e naturale. Si è dadaisti vivendo”.65 In merito al rapporto tra individuo e gruppo nel Dada, le interpretazioni critiche sono discordanti. Mentre Sylvia Brandt sostiene che, “[s]ebbene uno spirito di gruppo giochi nel Dada un ruolo importante, il singolo è soprattutto il rappresentante di sé medesimo”,66 Prosenc, convinto della natura politicizzata del movimento, insiste sullo spirito d’aggregazione: “[i dadaisti] si presentavano insieme, si sostenevano reciprocamente nelle preparazioni, progettavano insieme, discutevano giorno e notte e scrivevano persino collettivamente”.67 A questi bisogni aggregativi corrispondeva la creazione di veri e propri sottogruppi quali la Società anonima per lo sfruttamento del vocabolario dadaista del 1919 di Arp, Serner e Tzara, 64 Così Hausmann: “Huelsenbeck non ebbe su di noi il minimo influsso. Rimase sempre un corpo estraneo. Venne tollerato come un’appendice, una sorta di alibi per il nome ‘dada’” (op. cit., p. 102). 65 Richard Huelsenbeck, “Einleitung”, Dada Almanach, numero unico, 1920. 66 Sylvia Brandt, Bravo! & Bum Bum Neue Produktions- und Rezeptionsformen im Theater der historischen Avantgarde: Futurismus, Dada und Surrealismus. Eine vergleichende Untersuchung, Frankfurt: Lang, 1995, p. 29. 70 / PAOLA DI MAURO FATAGAGA68 di Arp ed Ernst oppure le collaborazioni tra la Taeuber e Arp, sulla base delle quali l’artista alsaziano così rifletteva: “Gli artefici dell’arte concreta non dovevano portare la firma del loro autore. Questi dipinti, queste sculture – queste cose – dovevano essere anonime”.69 Si spiegano così azioni letterarie quali la falsificazione o lo scambio di firme, unite ad altre numerose pratiche, escogitate per impedire la riconoscibilità autoriale, che i dadaisti, eccelsi nell’arte della dissimulazione, esercitavano con grande maestria. Ne è esempio emblematico il concepimento, volutamente incerto, della parola ‘dada’: Ognuno si identificava così tanto con l’altro, che fu persino insignificante chi fosse il padre spirituale delle singole metafore, figure, paradossi o invenzioni. Caratteristico di questa atmosfera è che nel 1916 nessuno dei dadaisti si curò di stabilire chi di loro avesse trovato il simbolo.70 Nella negazione dell’originalità e nel rifiuto di appropriazione individualistica si manifestava un volontario disconoscimento dei valori di autorialità e paternità artistiche. Ma proprio perché si rifiutavano di concepire, i dadaisti furono tanto prolifici: essi riuscirono a superare la dimensione proiettiva edipica e giovanilistica primonovecentesca sublimando l’‘azione criminosa’ nella prassi antiartistica: L’assassinio operato dall’avanguardia non coincide con la volontà di potenza o con la follia distruttrice, ma intende presentarsi come il retorico gesto di una detronizzazione a cui la coscienza aspira, la metafora dell’impotenza che si esalta in aggressività verso gli idoli dei padri. Nel pensiero e nella prassi antiletteraria si compie il reato.71 Se da una parte il dadandy cambiava i connotati meramente individualistici dell’aristocratico esteta primonovecentesco, presentandone una sottile parodia, egli sfuggiva, dall’altra, allo stereotipo dell’intellettuale impegnato: la vocazione dell’uno all’azione si contrapponeva all’altra, contemplativa e solitaria. L’impegno corrispose, forse solo ad un desiderio, a un voler essere: un saturnino che sogna di essere mercuriale e che risente di 67 Miklavž Prosenc, op. cit., p. 57. Si tratta dell’acronimo di Fabrication de Tableaux Gasométriques Garantis. Cfr. Hans Arp, op. cit., p. 79. 69 Ibidem. 70 Ivi, p. 70. 71 Luigi Forte, op. cit., p. 62 (il corsivo è mio). 68 L’INTELLETTUALE DADA CONTRO LA GUERRA / 71 queste due spinte,72 si potrebbe affermare parafrasando Italo Calvino e riconducendo quella del dada a una distonia più universale. Arduo stabilire, a posteriori, quale tra le due identità avrebbe prevalso sull’altra: se alla lunga, avrebbe avuto la meglio il sapienziale fallire del bohémien o la strenua e lucida resistenza dell’intellettuale. Non ci fu tempo di scegliere. Quando le tecniche della provocazione cominciarono ad usurarsi mostrando la propria inefficacia, ai dadaisti si presentò il problema di escogitare, pena la propria sopravvivenza, nuovi modi espressivi all’altezza della carica sovversiva inizialmente proposta. Il problema del mantenimento della prassi rivoluzionaria si scontrava con il processo di consunzione delle forme espressive scelte che, per quanto dirompenti e innovative, finiscono sempre per fare i conti con la propria ineluttabile deperibilità. Nel riconoscere l’essenza e l’insuperabilità di questo dilemma, i dadandy, proclamando la propria palingenesi, si sarebbero dissolti, lasciando tuttavia le risonanze di un monito fecondo di fronte all’aridità di assolute quanto fragili certezze: Quando si è poveri di spirito, si possiede un’intelligenza sicura e solida, una logica feroce, un punto di vista irremovibile. Cercate di essere vuoti e di riempire le vostre cellule celebrali come viene. Distruggete sempre quel che avete dentro di voi. A seconda degli incontri che fate. Solo così potete capire molte cose. (MDL, pp. 59-60) 72 Italo Calvino, “Rapidità”, in Id., Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1985), Milano: Mondadori, 2002, p. 60. “Ma secondo l’opinione più diffusa, il temperamento influenzato da Mercurio, portato agli scambi e ai commerci e alla destrezza, si contrappone al temperamento influenzato da Saturno, melanconico, contemplativo, solitario. Dall’antichità si ritiene che il temperamento saturnino sia proprio degli artisti dei poeti, dei cogitatori, e mi pare che questa caratterizzazione corrisponda al vero”. Ivi, p. 59. § 4 Gabriele Bugada La pazzia del tiranno Ritratti di un potere bandito Però il mio personaggio predominante è quello del tiranno: ti saprei fare un Ercole come se ne vedono pochi, o una di quelle parti da strapparsi i capelli, da spaccare il mondo in due. William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate Il tiranno sorge indossando una maschera: la figura del tiranno – topos letterario, modello antropologico, personaggio politico – si costituisce sulla scena tragica ateniese del V secolo. Le precedenti esperienze storiche della tirannide non si erano mai coagulate in un’icona tanto determinata, un’immagine ideologica che si fa persona; nell’efficacia dell’azione teatrale il tiranno prende vita, e sarà proprio questa “vita” a protrarsi nei secoli successivi, “lunga e fortunata quanto quella dei suoi controvalori”.1 È dunque in un certo senso la maschera che crea originariamente il tiranno in quanto oggetto di rappresentazione; in questo caso però lo stesso gesto descrive, designa, ed esclude: traccia una frontiera di estraneità immediatamente tradotta in esecrazione, e finanche esorcismo nel momento in cui “[l]a figura del tiranno vive e si sviluppa dalla necessità sociale di un capro espiatorio, di un idolo polemico atto a rappresentare tutto quel che la polis rifiuta come ad essa estraneo” (TP, p. 191). Ritroveremo l’essenza di tale gesto nella genesi di un’altra tipologia di personaggio: pure il ‘folle’ – per come l’âge classique l’ha individuato e tramandato – affonda le proprie radici in “una sensibilità che ha tracciato una linea, formato un limitare; e che sceglie, per bandire”. Il portato ideologico del processo si dimostra direttamente affine, nell’amalgama instaurata tra 1 Diego Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, Torino: Einaudi, 1977, p. 94. D’ora innanzi indicato dalla sigla TP. PARAGRAFO IV (2008), pp. 73-96 74 / GABRIELE BUGADA l’alterità sociale e quella etica: nel folle “c’è qualcosa che parla di altrove e di qualcosa d’altro, […] egli oltrepassa da se stesso le frontiere dell’ordine borghese e si aliena al di fuori dei limiti consacrati della sua etica”.2 Quanto da un lato risulterebbe fuorviante circoscrivere nella sola sfera della creazione artistica la raffigurazione del tiranno – anche in virtù della radicale e fondante politicità del suo locus originario – tanto, sull’altro versante, sarebbe riduttivo leggere la storia della follia come un percorso sociologico rispetto al quale l’immaginario sia sovrastrutturale. Le dinamiche specifiche della rappresentazione sono anzi sostanziali per definire la novità che la follia costituisce nelle forme assegnatele dall’âge classique: “gli uomini di sragione” sono “personaggi”, ovvero “tipi riconosciuti e isolati dalla società” (SF, p. 106), e quindi la follia “diviene puro spettacolo, in un mondo sul quale Sade estende la sua sovranità, e così viene offerta, come distrazione, alla buona coscienza di una ragione sicura di se stessa” (p. 149). Si ravvisa un’omologia nel rapporto di entrambe le figure con l’identità (mêmeté ricoeuriana) che le esclude: con Lotman possiamo ricordare quanto le relazioni ‘di confine’ siano improntate a un’interdefinizione che rende reciproco ogni fondamento ontologico, ambivalente ogni attributo. In questo modo, infatti, la follia “diventa una forma relativa alla ragione” (SF, p. 36); o meglio vi si integra, “costituendo tanto una delle sue forze segrete, quanto un momento della sua manifestazione” (p. 39). Le case di correzione finiscono per rappresentare, nel proprio microcosmo indipendente, un’immagine rovesciata della società; la società, a sua volta, svilupperà nei confronti di questo perturbante doppelgänger una caratteristica “ossessione davanti alle contraddizioni che sole possono tuttavia assicurare il mantenimento delle sue strutture; la follia è diventata la paradossale condizione della durata dell’ordine borghese, del quale costituisce tuttavia dall’esterno la minaccia più immediata” (p. 318). Parallelamente nella figura del tiranno si personifica ben presto tutto ciò che è respinto e condannato dalla morale politica della polis, facendone il portatore dell’il-libertà, della dis-misura, dell’em-pietà, dell’ir-razionalità. Il tiranno, sempre sconfitto nell’azione drammatica, non trova nella praxis un’identità integra bensì la perdita di ogni supposta coerenza; costruito a contrario, come un negativo fotografico, nella diegesi cede la2 Michel Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique (1972), trad. it. di Franco Ferrucci, Storia della follia nell’età classica, Milano: Rizzoli, 2005, pp. 82, 77. D’ora innanzi indicato dalla sigla SF. LA PAZZIA DEL TIRANNO / 75 cerato dal proprio intrinseco disordine: tuttavia è l’appartenenza ad un organico universo narrativo (l’essere personaggio, l’essere maschera) a garantire che il ritratto del tiranno possa sussistere malgrado qualsiasi incongruenza, ed ergersi a turpe monumento, a monito per la città. La maschera del tiranno deve permanere – coesa, se non coerente – perché “la città ha bisogno della controimmagine del tiranno per affermarsi”.3 I nodi che stringono il tiranno sono in realtà gli stessi che attanagliano la polis; tutti gli aspetti dell’agire umano che l’ideologia politica rifiuta di riconoscere (o in cui rifiuta di riconoscersi): “Così il sesso è lussuria, il sentimento odio, l’economia cieca avidità […] ma a questi vizi non corrispondono altrettante virtù che non siano a loro volta delle negatività […], la sophrosyne che si delinea in questo quadro non è un pieno ma un vuoto, non è caratterizzata dalla presenza ma dall’assenza” (TP, pp. 19091). Quell’integrità identitaria che abbiamo visto sottratta al tiranno (in cambio di una solidissima matrice topica e narrativa) può nascere e resistere all’interno della città proprio grazie alla fondante contrapposizione versus questo rovescio che essa stessa proietta sulla scena. A partire da questa analogia funzionale tra le rappresentazioni del tiranno e quelle della follia (almeno nell’ambito storico analizzato da Foucault) l’analisi si incentrerà dapprima sugli ‘assi’ rispetto ai quali le maschere del folle e del tiranno si collocano in una posizione complessa: contraddizioni culturalmente rilevanti, faglie di instabilità, non certo risolte bensì rese assimilabili grazie alla sintesi che le immagini operano. Le appassionate ‘archeologie’ di Lanza e Foucault (già citate in calce) forniranno il tessuto entro cui cercare questo diverso – ma condiviso – ordito, per mostrare come non sia casuale che tirannide e pazzia s’intreccino quasi indissolubilmente nel panorama iconografico e narrativo del XX secolo. Vedremo quindi all’opera tali dinamiche in un lavoro recentissimo, dichiaratamente afferente al discorso scientifico. Le scienze umane, in specie medicina e diritto, si incaricano di descrivere la parentela sempre più necessaria – o necessitata? – tra tirannide e follia, risultando però debitrici (forse inconsapevoli) di più antiche raffigurazioni, la cui storia retorica e il cui fardello ideologico sono assai corposi. Va peraltro osservato che i tratti di follia (stricto sensu) nei ritratti classici dei tiranni possono essere più spesso intuiti a posteriori che individuati letteralmente. Si pensi al notissimo Nerone tacitiano: in effetti sol3 Helmut Berve, Die Tyrannis bei den Griechen (1967), cit. in TP, p. xiii. 76 / GABRIELE BUGADA tanto in rarissime occasioni Tacito impiega il lessico della pazzia, e riferendosi a momenti comunque transitori. Tuttavia su questa base Nerone assurgerà ad esempio principe, quasi ad archetipo, dell’autocrate pazzo: lo stampo di calchi innumerevoli, nei quali però determinate venature – del tutto indifferenziabili nel quadro originario – sono emerse specificamente come stigmate di un fenomeno ulteriore rispetto alla tirannide, ovvero la follia. La corrispondenza dei tratti (innervata sull’analogo gesto che fonda la rappresentazione) li rende ‘semi’ di traducibilità, luoghi di articolazione per i reciproci innesti. Un lupo sulla porta L’avido, il traviatore, il feroce, il subdolo, che già nuocerebbero assai se ti stessero attorno, sono dentro di te. Seneca, Lettere a Lucilio 1. Il posizionamento del folle e del tiranno è connotato da un estremismo a tutta prima paradossale: tanto più foranei risultano despoti e pazzi, quanto più la loro ‘destinazione naturale’ – esito temibile eppure inevitabile di una vera e propria dis-locazione spaziale e culturale – appare l’intimità della città, intesa come luogo fisico ma anche come corpo politico. Inoltre lo sguardo che bandisce sposta sempre più le supposte dinamiche generative dei fenomeni nell’interiorità individuale, sottraendole ad ogni contesto relazionale: “l’interiorità psicologica si è costituita a partire dall’esteriorità di una coscienza scandalizzata” (SF, p. 381). Al fine di cogliere la progressività e l’impronta direzionale di questo movimento è opportuno rivolgersi all’immediata antecedenza delle sue svolte ‘istituzionali’. Già prima del grande internamento del XVII secolo il folle si trova in una situazione liminare, che riassume nella propria ambiguità la dialettica complessa tra spazi interni e spazi esterni: una “situazione insieme simbolizzata e realizzata dal privilegio che ha il folle di essere rinchiuso alle porte della città: la sua esclusione deve racchiuderlo […] [ma] ciò che fu un tempo la fortezza visibile dell’ordine è diventato ora il castello della nostra coscienza” (SF, p. 19). L’internamento si differenzierà a propria volta in una serie, anzi in una ‘fuga’ di contenitori via via più reconditi e reclusivi, fino alle celle dei furiosi, fino all’isolamento, fino – in ultimo – alle catene e alla camicia di forza che identificheranno quasi la superficie contentiva e de-finitoria con LA PAZZIA DEL TIRANNO / 77 quella corporea.4 La mise en abyme degli spazi chiusi tuttavia spalanca, nelle parole di Mercier, un’“[u]lcera terribile nel corpo politico”:5 nel XVIII secolo sorgerà da qui la grande paura del contagio, il contatto ‘atmosferico’ con un male che fermenta e si propaga a partire dalle case di internamento per minacciare le città, i cui “abitanti saranno lentamente impregnati dalla putrefazione e dal vizio” (SF, p. 298). La metafora della pestilenza convoca la sfera medica: la psichiatria finirà per installarsi in questo spazio di “complicità fra la medicina e la morale” (p. 90), nell’intimità della passione concepita come interfaccia tra corpo e anima – sede d’elezione della follia. Anche la figura del tiranno si affaccia sull’orizzonte teoretico della Grecia classica nell’atto di avvicinarne le porte geografiche. Nelle monumentali Storie erodotee troviamo il primo modello analitico della tirannide: il passo (III:80) è cruciale in quanto sarà proprio l’irriducibile contrapposizione tra demokrateesthai e tyranneuesthai ad avviare un sensibile mutamento nell’impostazione dell’opera, che da uno stile ricco di digressioni ‘etnografiche’ giungerà a concentrarsi decisamente sulle guerre persiane, conformate a questa logica contrastiva. Spiega Lanza: “Tiranno, si sa, non è parola greca. Ma neppure il tiranno è figura greca; essa appartiene agli usi dei barbari […] popoli non greci, soprattutto orientali” (TP, p. 192): questa la soluzione ideologica che permetterà nel lungo periodo di rimuovere dall’organica immagine della polis le cesure e i conflitti connessi all’esercizio del potere, sfocandoli “nella caligine del tradizionale dispotismo d’Oriente” (p. 214). Così si “trasforma un sistema sociale diverso in un puro e semplice fenomeno degenerativo dell’unico sistema sociale accettabile, quello appunto della polis. La degenerazione è a sua volta spiegata con la non grecità, con la barbarie degli altri popoli” (p. 192). Nella seconda metà del V secolo però si sviluppa in Atene il pensiero ossessivo della tirannide, al punto di costituire una palpabile fobia: è presente in ogni momento la diffusa paura della perdita della libertà, della catastrofe della polis; il tiranno paventato ad Atene è ora un tiranno che nasca, per corruzione, dal seno stesso della città.6 Durante gli stessi anni 4 In questa prospettiva si presta a un’interessante lettura il trattamento della follia tramite psicofarmaci. 5 Louis-Sébastien Mercier, Tableau de Paris (1781), cit. in SF, p. 297. 6 Si ripensi alla ‘grande paura’ descritta da Foucault. La capillarità del timore ateniese è ben illustrata dall’ironia di Aristofane nelle Vespe: “tutto è tirannide e tutto è cospirazione. 78 / GABRIELE BUGADA l’imperialismo ateniese (fondato sulla negazione dell’esistenza di alterità neutrali, non ostili; sullo sfruttamento dei corpi civili prossimi ma non interni alla polis, gli alleati; sul lavoro, nella città, dei meteci,7 privi di diritto alla cittadinanza) raggiunge il suo vertice simbolico con l’assedio, la deportazione, lo sterminio dei Meli: Atene si autodefinisce ‘educatrice’ dell’Ellade, ma questi eventi aprono nella coscienza dei suoi abitanti una lacerazione irredimibile, che tornerà a emergere per decenni. Proprio in questa temperie, dentro lo spazio autonomo ma politico dello spettacolo teatrale, si staglia il tiranno, corrotto e vizioso: il ‘nemico della democrazia’. Il tiranno in quanto personaggio anticipa – e rende possibile – l’interpretazione platonica della tirannide come degradazione della morale individuale piuttosto che come rappresentazione di una struttura di potere; l’anima tirannica non sarà diversa per Platone dalla città governata tirannicamente, e la maschera teatrale prelude a questa elaborazione costituendo una linea d’intersezione tra i due piani della polis vera e propria e della ‘micropolis’: l’interiorità del singolo. Sulla scena si compie il capovolgimento dell’atteggiamento ancora presente in Otane. Non è più il rapporto particolare che lega (e separa) tiranno e cittadini ad agire sull’anima del primo deformandola, ma è da quell’anima deformata che si propaga la corruzione dell’intera città. Infatti in Erodoto Otane affermava: E come potrebbe essere un governo ben ordinato il dominio d’un solo, se egli può fare quello che vuole, senza rendere conto ad alcuno? Poiché anche l’uomo migliore del mondo, investito di questa autorità, si troverà al difuori del consueto modo di pensare (III:80).8 Nel dialogo di Platone, invece, leggiamo: “Or quando gli altri desideri ronzantigli attorno […] infiggano a questo In cinquant’anni non ne ho sentito neppure il nome, e ora è a più buon mercato del pesce in salamoia, tanto la parola circola per la piazza. Metti che qualcuno non voglia sardine, e compri degli scorfani: ecco subito il venditore di sardine, lì accanto, che borbotta: ‘Costui sta facendo provviste per farsi tiranno’” (vv. 488-95). Aristofane, Sphekes, trad. it. di Guido Paduano, Le Vespe, Milano: Garzanti, 2005, pp. 54-57. 7 Etimologicamente: ‘che abitano con [noi], in mezzo a [noi]’. 8 Erodoto, Historiai, trad. it. di Luigi Annibaletto, Storie, Milano: Mondadori, 2006, p. 309. LA PAZZIA DEL TIRANNO / 79 fuco [cioè a una passione] il pungolo del desiderio, allora questo capopopolo dell’anima si fa scortare dai satelliti della pazzia, e infuria, e se trova in quell’uomo delle opinioni o desideri tenuti per buoni e ancor capaci di pudore, li ammazza e li caccia fuori da lui, sino a che non lo purghi di saggezza, e non lo riempia di importata pazzia”. “Tu descrivi perfettamente la genesi dell’uomo tirannico” (573,a-b).9 È evidente nel modello platonico la trasposizione degli effetti di un sistema sociopolitico (così impostava la questione Otane) sulla scala della dinamica psicologica, con la personificazione retorica degli impulsi e la comparsa del lessico della follia: tra questi due paradigmi esplicativi si situano, con tutta la loro forza rappresentativa, gli spettacoli teatrali del V secolo. È assai indicativo riconoscere quali esperienze segnino la faglia di rottura tra il singolo e la società: empietà, sessualità dissoluta, mancanza di controllo nei riguardi delle passioni; si ritroveranno accanto alla follia come già nel cuore del tiranno (pur nell’ovvia diversità delle materializzazioni storiche): “ira, violenza, lussuria saranno riassunte nella comune categoria dell’incontinenza (akrasia) da Platone” (TP, p. 49). E poi: “l’irreligiosità del tiranno non nega la divinità, ma scalza tutti i modelli di comportamento etico che le sono connessi” (p. 56). In maniera consimile la nostra cultura ha posto la sessualità sulla linea di separazione della sragione, e “la violenza può essere decifrata altrettanto bene, e senza contraddizione, nei termini dell’insensato o in quelli dell’irreligiosità. Tra follia ed empietà la differenza è impercettibile” (SF, p. 97). Più in generale “la sragione si annette un nuovo dominio: quello in cui la ragione si asservisce ai desideri del cuore e il suo uso si imparenta con le sregolatezze dell’immoralità. I liberi discorsi della follia appariranno nella schiavitù delle passioni” (p. 104). Il pungiglione del desiderio e le infrazioni all’ordine sacro come trafitture e incrinature dell’organismo sociale: nell’intimità delle passioni si appone il marchio di un bando ben più ampio. 2. L’alienazione dall’umanità come sineddoche moralizzante dell’estraniazione nei confronti – o da parte – di una determinata società trova spessore figurativo nell’assimilazione del folle quanto del despota ad una 9 Platone, Politeia, trad. it. di Francesco Gabrieli, La repubblica, Milano: Rizzoli, 1984, pp. 319-20. 80 / GABRIELE BUGADA quintessenziale animalità. Il tema assume particolare rilievo dal momento che ad esso si riconducono altri due nodi fondamentali: il rapporto ambivalente con un’ideale (contro)Natura; quindi la dialettica tra arbitrio assoluto e determinismo. Non è pensabile, nel XVII e nel XVIII secolo, trattare umanamente la follia poiché essa è – a pieno titolo – inumana, simile a un “animale dai meccanismi strani, bestialità in cui l’uomo è abolito”. I folli sono “bestie in preda a una rabbia naturale: come se, nel suo punto estremo, la follia […] raggiungesse con un colpo di forza la violenza immediata dell’animalità” (SF, pp. 149-51; corsivi miei). La vicinanza tra uomo e animale, che finisce per sprofondare nel secondo il primo, è simbolicamente posta da Platone all’origine stessa della tirannide tramite la convocazione del mito del licantropo Licaone per descrivere il modo in cui incomincia “[l’]evoluzione da capopopolo a tiranno”: Chi […] si lordi di sangue distruggendo la vita di un uomo, e gustato che abbia con l’empia lingua e bocca il sangue della stessa sua razza, […] forse che non è necessario e fatale dopo ciò per un essere siffatto o di cadere ucciso dai nemici o di farsi tiranno, e diventare da uomo lupo? (565, d-e; 566, a).10 La sintesi attuata dalle rappresentazioni riesce a far efficacemente convivere due immagini del rapporto tra umanità e Natura all’apparenza contraddittorie: da un lato la Natura posta come sfondo sordo sul quale l’uomo si eleva e si staglia, fino alla percezione di essa come un’alterità che nella propria opacità resiste all’azione e alla cognizione dell’uomo, o addirittura sotto la cui pressione è l’uomo a dover resistere; dall’altro la Natura come misura originaria a cui l’uomo deve ricondursi, in nome di un’appartenenza organica a quella gerarchia, quell’ordine, quell’evoluzione che sono dettati dalla “positività naturale” (SF, p. 155). In ambedue le formazioni ideologiche risalta il senso di datità che accompagna l’aggettivo naturale: la nozione di riferimenti stabili e indiscutibili. La ferinità del tiranno come del folle (rafforzando comunque entrambi i sistemi) si trova ad esservi inglobata nella prima prospettiva testé descritta, e viceversa a sottrarvisi in modo quasi straziante dal secondo 10 Tutte le citazioni del capoverso sono in Platone, op. cit., pp. 310-11. Si osservi la ricorrenza del lessico ‘biologico’: “sangue”, “vita”, “razza”. La traduzione ben rende l’originale greco che impiega le radici phy-, bi-, ghen-. LA PAZZIA DEL TIRANNO / 81 punto di vista. Tiranno e folle vengono presentati, senza tema di incongruità, sia come il risultato di una precipite caduta dell’uomo verso la bruta naturalità, sia come i protagonisti di un violento strappo nel regolato tessuto della Natura. Il tiranno può allora essere indicato come “il frutto maligno che intossica e uccide la pianta che l’ha prodotto” (TP, p. viii). E Foucault osserva: “L’animalità che infuria […] toglie all’uomo ciò che può esserci in lui di umano […] per collocarlo nel grado zero della sua propria natura” (SF, p. 152); a tale ‘grado zero della natura’ bisogna però riconoscere tutta la complessità che lo scuote, esso deve venir – per così dire – rovesciato dall’interno, e dunque: “l’animale appartiene piuttosto alla contronatura, a una negatività che minaccia l’ordine e mette in pericolo, col suo furore, la saggezza positiva della natura” (SF, p. 155). La ‘naturalità contronaturale’ della tirannide si profila significativamente anche nell’anaciclosi polibiana, modello storico-politico animato tuttavia da un movimento di degenerazioni e rigenerazioni prettamente biologico. Polibio individua nel potere di un singolo la forma primigenia di governo, definendolo “la più autentica opera della natura [physeos]” esattamente sulla base della comunanza del fenomeno anche con “le altre razze animali prive di ragione”. Esso dà poi adito al “regno”, tramite il senso di giustizia e la legge: questi però sono prodotti tipici dell’uomo – “in quanto differente dagli altri animali”– ma che parimenti “nascono [upoghinetai] secondo natura [eikos estì]”; non più la Natura/physis, bensì la ‘naturalezza’ di ciò che è a un tempo adeguato, verosimile, ragionevole (VI:5-6). La “degenerazione” o “corruzione” del regno è invece la tirannide: se anch’essa condivide la naturalità primitiva, caratteristica dei governi individuali, è appunto sul piano della naturalezza intesa come misura e omogeneità che essa esce dal solco, ovvero delira. La tirannide sorge infatti quando il sovrano si abbandona ai desideri (epithumiais: ritorna il ‘fuco’ di Platone); pretende quindi per sé solo abiti stravaganti (exallous: si notino il prefisso dell’estraneità, dal valore intensivo, e il semantema dell’alterità), cibi variegati e sofisticati (poikilias), la soddisfazione delle proprie brame sessuali per quanto non si addicano né a lui né alle sue vittime (me prosekonton: di nuovo, la negazione di ciò che è ‘naturalmente’ appropriato, VI:7).11 11 Tutte le citazioni degli ultimi due capoversi sono in Polibio, Historiai. L’edizione di riferimento è Storie, a cura di Domenico Musti, Milano: Rizzoli, 2002, pp. 272-79. La traduzione è stata da me adattata in funzione dell’analisi. 82 / GABRIELE BUGADA Queste ultime notazioni polibiane si inscrivono perfettamente nella topica dell’esposizione di artificiose stravaganze che accompagna i ritratti dei più vari dispotismi: una topica condivisa largamente dalle figure della pazzia, il cui territorio semantico e sociologico sfuma con frequenza in quelli dell’eccentricità o della stramberia (paradigmatiche in ambedue i sensi le carrellate aneddotiche di Svetonio). La mitologia tirannica riesce ad integrare l’incoerenza di personaggi che contemporaneamente sprofondano nella Natura e da essa esulano in direzione di un’esasperata sofisticazione (nonché – in effetti – l’incoerenza di due distinte idee di Natura):12 l’emblema ne possono forse essere le raffinatissime, ricercatissime, quaesitissimis torture con le quali il Nerone tacitiano esprime la propria bestiale crudeltà, assieme saevitia e immanitas. Infine – seppur solamente tramite un rimando in nota al capitolo che Foucault dedica all’argomento –13 va ricordata l’ossessione indagatrice nei confronti di un radicamento fisiologico della follia. La ricerca di una base biologica costituisce un’area di singolare specificità propria della storia della follia più che di quella della tirannide:14 a maggior ragione risulterà cruciale l’esplicita identificazione tra tiranno e folle operata dalla psichiatria più recente, così come la concomitante rivendicazione di diagnosticabilità dell’una quanto dell’altra ‘patologia’. 3. Il meccanicismo insito in questa visione – che pare avocare alle filosofie naturali ogni responsabilità teoretica concernente tali ‘innaturalissime’ degenerazioni – ci introduce al secondo nodo concettuale suggerito dall’animalità: la tensione tra potestà e determinismo. Da una parte si stigmatizza una libertà che esplode in arbitrio, con tutta la carica di responsabilità etica che può essere imputata a coloro che ne siano portatori. Dall’altra si diagnosticano meccaniche cogenti, che comportano l’irredimibilità dei soggetti nonché l’ineluttabilità degli interventi su – contro? – di essi. “Il tiranno, dopo esser divenuto tiranno, non può che continuare ad esserlo, ad esercitare il proprio arbitrio o essere elimina12 Con l’approssimazione propria di una nota, vale la pena di suggerire una riflessione su quanto questa struttura (naturalità/artificio/animalità) abbia giocato, e giochi tutt’oggi, un ruolo nelle rappresentazioni del femminile. 13 Capitolo IV della Parte seconda: “Medici e malati” (SF, pp. 253-82). 14 Nondimeno pure in quest’ultima non mancano spunti correlati, come certi caratteri di ereditarietà o la fisiognomica. Recenti diversioni (deviazioni?) tra storia e narrativa fan discendere Saddam Hussein dai lombi di Adolf Hitler. LA PAZZIA DEL TIRANNO / 83 to dai nemici, così come l’uomo divenuto lupo o continua a sbranare o finisce sbranato” (TP, p. 66); del pari, se “questa animalità della follia […] la pone in uno spazio di imprevedibile libertà in cui il furore si scatena” (SF, p. 154), è pur vero che la medesima “rabbia animale” rende la “libertà incatenata al furore” (SF, p. 162). Furore scatenato, libertà incatenata: sembra che proprio l’immagine della catena sia il contrassegno che definisce il margine d’azione concesso dalle rappresentazioni ai loro personaggi. Nella riflessione sulla follia, e specialmente nella sua analisi medica, saranno poste in discussione la libertà e le sue effettive determinazioni; il desiderio viene affiancato e assieme contrapposto alla volontà, l’automatico è confrontato con lo spontaneo. Sebbene la sragione possa venir delimitata nelle forme di un determinismo – come detto – ‘naturale’, non è trascurabile che questa possibilità abbia preso senso in una (per quanto spesso rimossa) condanna etica. Si ha l’impressione che coesistano due piani di elaborazione: nell’uno, la pazzia viene descritta come limitazione della soggettività, della libertà e, in modo più sottile, dell’essenza umana o della dignità che a queste si riconnettono. L’altra forma di alienazione indica al contrario il folle come estraneo; pertanto non lo si libera affatto della sua responsabilità, gli si assegna anzi una colpevolezza morale, confermata dalla pervicacia con cui egli esprime una renitenza alla cura. Una simile polarità si propone anche per quanto riguarda la rappresentazione del tiranno, così come si ripropongono le declinazioni morali che essa finisce per assumere: “l’uomo è corrotto dalla stessa condizione del suo potere” (TP, p. 43); la trasgressione è favorita dall’assoluta libertà d’azione ma il potere si rivela costrizione: di più, ciò che il tiranno proietta fuori di sé è precisamente la coercizione cui è soggetta la sua anima. Insomma: il despota in quanto governante sopprime la libertà altrui, in quanto uomo perde la propria. Una delle trattazioni più esplicite ed esaustive del tema si ha nello Ierone di Senofonte, un dialogo immaginato tra il tiranno siracusano e il poeta Simonide. Ierone delinea l’inferiorità della propria condizione alla luce della divaricazione tra cognizione e azione introdotta dalla necessità (ananke): “Per Zeus”, disse, “caro Simonide, è inevitabile [ananke estì] che pure quelle azioni per le quali gli uomini vengono odiati, noi laboriosamente le intraprendiamo assai più che i comuni cittadini! Bisogna esigere [prakteon] ricchezze, se intendiamo aver di che spendere per ciò che è necessario [ta deonta]; bisogna costringersi [anankasteon] a sorvegliare quanto 84 / GABRIELE BUGADA necessita [deitai] di sorveglianza; bisogna punire [kolasteon] gli ingiusti; bisogna fermare [koluteon]quanti vogliono passare il segno e farsi violenti” (VIII, 8-9).15 L’isotopia è veramente ossessiva, marcata altresì a livello grammaticale dalla preferenza per forme impersonali: perfino il raro noi che agisce finisce in accusativo, soggetto di un’infinitiva sorretta e retta dall’inevitabilità; la necessità d’intervento promana direttamente dalle cose (ta deonta, deitai); la sintassi si impronta a una sequenza di aggettivi verbali (indicanti modalità del dovere, diatesi mediopassiva) impersonali, col verbo principale sottinteso, tra i quali spicca un – a dir poco ridondante – anankasteon. La piena comprensione della realtà, della catena delle cause e degli effetti, invece che liberare il tiranno lo vincola alla responsabilità di azioni odiose, seppur qui velate da una patina eufemistica; non può sfuggire però il fatto che il tiranno risulti in definitiva molto intraprendente, nella sua situazione di ‘costrizione’. Ancor più chiaramente Ierone si era già pronunciato in precedenza: i tiranni ben conoscono [ghighnoskousi] infatti (non meno che i comuni cittadini!) i forti, i saggi, i giusti. Tuttavia, invece che amarli, li temono [phobountai]: i valorosi, che non azzardino qualcosa per la libertà; i saggi, che non macchinino qualcosa; i giusti, che il popolo non preferisca essere guidato da costoro. Allorché abbiano levato di mezzo [hypexairontai] per paura [dia ton phobon] gli uomini siffatti, chi altri restano loro da impiegare se non gli ingiusti, deboli e servili? […][È] un’amara tribolazione [pathema], il fatto di ritenere gli uni uomini validi, ma essere costretti [anankazesthai] a servirsi degli altri (V, 1-2).16 Oltre ai summenzionati caratteri di passività e determinismo necessitante (pathema, anankazesthai) – complementi peraltro di un arbitrio assoluto che tocca la vita e la morte altrui! – emerge un altro snodo fondamentale per la ‘schizofrenia’ tra cognizione del bene e opzione ineluttabile del male: la paura. 4. Il brano di Senofonte lascia trasparire quella che si configura come una vera e propria paranoia, associabile all’analisi del fenomeno proposta da 15 Senofonte, Ieron e tyrannikos. L’edizione di riferimento è Ierone, a cura di Gennaro Tedeschi, Palermo: Sellerio, 1991, pp. 74-77. La traduzione è stata da me adattata in funzione dell’analisi. 16 Senofonte, op. cit., p. 62. LA PAZZIA DEL TIRANNO / 85 Canetti in Massa e potere.17 La lettura di Canetti esplica il nesso tra paura e violenza: la centralità dell’Io del potente lo pone come bersaglio reale o immaginario di atti di violenza. Per paura quindi egli ricorre per primo a una violenza che ben presto diviene inarrestabile, montando col crescendo dei sospetti: l’incertezza cognitiva dà luogo a una deriva ossessiva e totalizzante. La diffusione del terrore non può portare ad altro che al realizzarsi della paventata reazione violenta da parte dei governati, oppressi da una condizione di minaccia costante. Paura e violenza si dimostrano anelli inscindibili di una morfologia del potere improntata alla circolarità: “è resa manifesta la paura che al potere sempre si accompagna. Anzitutto la paura che ha di lui chi gli è soggetto. […] Ma vi è anche la paura del tiranno [che] vive ed agisce sempre soggetto alla paura” (TP, p. 45). Sono indispensabili due annotazioni: l’uso in epoca tanto precoce da parte di Senofonte della coppia (suscettibile di tradursi in endiadi!) “sorvegliare” e “punire” – coppia che proprio Foucault renderà illustre – ci avverte di come forse il vizio di questo circolo contamini ogni potere, dunque pure quelli collegiali, democratici; in secondo luogo, la trattatistica storica o biografica sulla tirannide sviluppa spesso la tendenza a raffigurare violenza e paura del despota come particolarmente autoreferenziali, esorbitanti, immotivate (tornano artificio e arbitrio). Questi ritratti portano in tal modo le cicatrici di una rimozione. È decisamente significativo, allora, che anche la pazzia sia presa in questo cerchio, stretta nelle sue tremende simmetrie: la violenza è uno dei marchi della follia se addirittura il termine “furore”, con cui si identifica una delle sue tipologie, “fa allusione a tutte le forme di violenza che sfuggono alla definizione rigorosa” (SF, p. 114), e se – in direzione inversa – alla violenza si ricorre non solo a fini di contenzione ma benanche di cura. La medesima struttura bidirezionale è riferibile alla paura, ed è addirittura uno dei perni su cui ruota il carosello della pazzia messa in spettacolo. Ma non solo, nel Ritiro di Tuke – in cui “[i]l principio della paura, che difficilmente è diminuito nella follia, è considerato di grande importanza per la cura dei folli” –18 questa relazione svela tutta la propria ambigua centralità: 17 Elias Canetti, Masse und Macht (1960), trad. it. di Furio Jesi, Massa e potere, Milano: Adelphi, 1982. 18 Samuel Tuke, Description of the Retreat (1813), cit. in SF, p. 413. 86 / GABRIELE BUGADA La Paura appare […] segnando il limite della ragione e della sragione e disponendo di un duplice potere: sulle violenze del furore per contenerle, e sulla ragione stessa per tenerla in disparte […]. Quella che viene instaurata nel Ritiro scende invece in profondità: essa va dalla ragione alla follia come una mediazione, come l’evocazione di una comune natura che appartiene loro ancora e con la quale potrebbe annodare il loro legame (SF, p. 413; corsivi miei). Ciò che fonde e confonde violenza e paura, sorveglianza e punizione è un dispositivo semiotico. Se ne intuisce traccia nei brani senofontei: l’attenzione preventiva del tiranno si appunta sulla sfera delle intenzioni (coloro che “vogliono passare il segno”,19 le macchinazioni dei saggi) perché è lì che va interrotto ogni possibile processo di frattura dei limiti imposti. Tutto ciò implica una prospettiva di lettura penetrante nei confronti del mondo e soprattutto dei segni che lo affollano. Tale competenza – tale ‘governo dei segni’, si potrebbe dire – ha un corollario di non poco conto: la capacità di simulare e dissimulare, ovvero di produrre segni fuorvianti e nel contempo occultare a piacimento le stimmate della propria ‘degenerazione’. L’attitudine della tirannide a creare un proprio codice, un universo discorsivo autocratico e chiuso quanto il sistema politico, si evince dal noto episodio erodoteo dei due tiranni Periandro e Trasibulo (V:92). Periandro, fino a quel momento “più mite del padre”, invia a Trasibulo un messo per chiedere quale sia il modo “più sicuro” per reggere la città. Trasibulo conduce l’araldo a passeggiare in un campo di grano ove, “senza aggiungere una parola”, non fa altro che continuare a chiedere e richiedere il motivo della visita, ignorando apparentemente le ripetute risposte del messaggero. Mentre cammina tuttavia Trasibulo, come distrattamente, recide e abbatte tutte le spighe migliori e più alte. Tornato da Periandro, l’araldo racconta l’accaduto sostenendo di non aver ricevuto alcun consiglio, e meravigliandosi anzi di essere stato inviato da “un tipo simile, come a dire un pazzo”. Periandro invece coglie ciò che per l’ambasciatore passava inavvertito, “avendo compreso il significato di quei gesti”: per essere al sicuro è necessario eliminare i cittadini più eminenti; e “da allora non ci fu perfidia che egli non sfogasse contro i cittadini”.20 Risaltano qui 19 L’originale recita: “boulomenos hybrizein”. Si presterebbe a essere indagata l’eredità odierna – nel pensiero della violenza come rottura o travalicamento – dell’articolato concetto di hybris. 20 Tutte le citazioni del capoverso sono in Erodoto, op. cit., pp. 505-06 (corsivi miei). LA PAZZIA DEL TIRANNO / 87 diversi temi: l’insondabilità per il messo – non edotto – del codice tirannico, il quale svuota quello verbale pur mantenendolo nominalmente (il fallimento comunicativo del dialogo); il potere diffusivo di contagio di cui è carico il discorso dispotico; soprattutto lo scarto retorico attuato dalla voce autoriale, che dopo aver riconosciuto la logica (feroce e condannabile, certo) della tirannide, dopo averne evidenziato la concreta motivazione (la sicurezza), finisce per bollarne le azioni come dettate da “perfidia”, ridimensionate così a dati caratteriali. Quest’ultima osservazione consente una chiosa relativa alla retorica delle rappresentazioni: la presunta o effettiva abilità mistificatoria esibita dal despota concede in realtà ai suoi ritrattisti un vastissimo margine interpretativo; ogni evento discrepante rispetto alla rotondità della raffigurazione può artatamente essere ricondotto nella cornice in virtù di questa zona d’ombra semiotica. Giunti a questo punto, non sorprenderà più scoprire che pure “la follia affascina perché è sapere […], perché tutte quelle figure assurde sono in realtà gli elementi di un sapere difficile, chiuso, esoterico. Queste forme strane sono situate, di primo acchito, nello spazio del gran segreto” (SF, p. 27). Sotto la superficie di una fenomenica assenza di ratio, “più in profondo, si trova un’organizzazione rigorosa che segue l’armatura impeccabile di un discorso [...] nella trasparenza di un linguaggio virtuale” (p. 204). Sfidare questo guscio, penetrare questo discorso richiederà le più macchinose e indiziarie tecniche ermeneutiche. Non solo: da questo ‘schermo’ sorge immediato il sospetto morale della contraffazione – automatica o volontaria che sia, comunque necessaria.21 “Se la follia involontaria, quella che sembra impadronirsi dell’uomo malgrado lui, cospira tanto spontaneamente con la malvagità, non è molto diversa, nella sua essenza segreta, da quella che è simulata intenzionalmente da parte di soggetti lucidi […]: la follia reale equivale alla follia simulata” (pp. 14041); ovvero, con le lapidarie parole di Sartre a proposito di un suo personaggio psicotico: “Il mondo irreale di Pierre è solo finzione e i folli sono dei mentitori”.22 21 Un esempio affine è il dibattito sull’isteria tra XIX e XX secolo. Jean-Paul Sartre, Œuvres romanesques (1981), cit. in Paola Dècina Lombardi, “Introduzione”, in Jean-Paul Sartre, Le mur (1939), trad. it. di Elena Giolitti, Il muro, Torino: Einaudi, 2002, p. xiii. 22 88 / GABRIELE BUGADA Assassinare l’inumanità Si ergono a tiranni di quegli stessi che li hanno sospinti sulla scena. Cicerone, Sullo Stato 5. Il banco di prova per lo schema di parallelismi fin qui elaborato sarà, come preannunciato, un testo scientifico edito nel 2003: Assassini dell’umanità. La patologia mentale del tiranno, di Gian Carlo Nivoli. In quanto paradigma di traducibilità psicologica di contenuti morali e sociali, la rappresentazione del tiranno si trova a convergere vertiginosamente verso quella della follia – “anormalità psichica scientificamente accertabile” (TP, p. 215) – con la quale finirà per intrecciarsi: una sovrapposizione anticipata, come abbiamo visto, da una lunga storia di analogie formali e funzionali. Se forse è vero che ad oggi “non sopravvive […] la politicità del modello psicologico” (pp. 221-22) ateniese, può essere tuttavia che stiamo assistendo a una ‘psicologizzazione’ dei modelli politici. Al principio del XXI secolo la consonanza tra i due personaggi ormai ipostatizzati del despota e del pazzo assurge a sottotitolo di un’opera che, pur agile e divulgativa, vanta paternità considerevoli: è pubblicata per i tipi del Centro Scientifico Editore, casa editrice “[f ]ondata e diretta da medici”, che professa apertamente la “profondità della scienza, il rigore del metodo” vantando – oltre alla produzione libraria – “format di ineccepibile qualità metodologica, andragogica, informatica e di contenuti” per l’“Educazione Continua” dei professionisti.23 L’autore si situa nel fulcro dei campi accademico, clinico e giuridico essendo professore ordinario di Clinica Psichiatrica, direttore di una scuola di specializzazione in Psichiatria, presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense. Il saggio esordisce con una definizione: L’assassino dell’umanità (humanity murderer) è un soggetto che, attraverso un’astuta manipolazione di gruppi sociali estesi e con pretestuose motivazioni etiche, religiose, economiche ecc., si rende responsabile di centinaia e spesso migliaia e milioni di assassinii di persone innocenti (non solo adulti maschi guerrieri, ma anche anziani, donne, bambini). L’assassino dell’umanità manifesta un disturbo mentale legato a un patologico desiderio di distruggere la vita degli esseri umani. Questa definizione […] ha lo scopo di dare una base scientifica (psichiatrica e criminologica) 23 Si veda il sito dell’editore, <www.cse.it>, 4 agosto 2007. LA PAZZIA DEL TIRANNO / 89 a espressioni diffuse in tutto il mondo e note come ‘tiranno crudele e sanguinario’, ‘criminale di guerra’, ‘criminale contro il genere umano’ ecc.24 Il tiranno appare subito come contrapposto all’umanità, sia dal punto di vista del suo ‘programma narrativo’, sia tramite una più sfumata implicazione grammaticale, ovvero costituendo l’umanità, i gruppi sociali, le persone innocenti, la vita degli esseri umani e infine il genere umano come genitivi oggettivi o oggetti diretti delle azioni intraprese dal “soggetto”. Risulta particolarmente significativo il riferimento alla “manipolazione di gruppi sociali estesi” che situa il tiranno in una posizione complessa e ambivalente tra estraneità e appartenenza alla società, nonché – come vedremo – tra un’autarchia individualista e il necessario radicamento in una struttura. Il despota pare in grado di indirizzare, con personale e precipua responsabilità, movimenti storico-sociali su grande scala senza essere però sensibile alle retroazioni che ogni sistema sociale comporta. Inoltre la “astuta manipolazione” pertiene – l’autore sarà ancor più esplicito nel prosieguo – alla sfera cognitiva delle alterazioni semiotiche ‘emanate’ dal codice tirannico: è tale presupposto, ben più della “base scientifica”, ad autorizzare e validare la rappresentazione da parte di voci altre rispetto a quelle dello stesso tiranno (silente o mendace) o del suo popolo (tacitato o fuorviato). Seppure venissero professate motivazioni “etiche, religiose, economiche, ecc.” – ossia ascrivibili a quei fattori che abitualmente contribuiscono allo spessore analitico di un discorso storiografico –25 esse vengono illico et immediate bollate come “pretestuose”: è al “disturbo” interno alla mente del tiranno che bisogna ricondurre i fatti, e per la precisione a “un patologico desiderio”; come già da Platone in poi, è al ronzio del ‘fuco’ interno alla psiche individuale che si deve prestare attenzione per capire la tirannide. Resta sospesa a due parole la contraddizione più vibrante che percorrerà l’intero testo: l’assassino “responsabile” ma affetto da un disturbo mentale “patologico”. Il disegno che lega gli opposti è sottile come una ragnatela, ma regge, anche perché costruito su una tradizione che – inesausta – ha invischiato nell’unitaria figura del tiranno (del folle) arbitrio e determinismo. 24 Gian Carlo Nivoli, Assassini dell’umanità. La patologia mentale del tiranno, Torino: Centro Scientifico Editore, 2003, p. 1. 25 Si sarebbe quasi tentati di dire con un po’ di candore: che contribuiscono allo spessore della realtà. 90 / GABRIELE BUGADA Infine – alla luce del ruolo retorico dell’idea di Natura – si osservi la ricorrenza di una terminologia che più o meno sotterraneamente allude alla sfera biologica: “adulti maschi”, “disturbo”,26 “la vita degli esseri umani”, “il genere umano”. Le espressioni che identificano il tiranno sono “note” e “diffuse in tutto il mondo”: la scienza salpa – come Foucault ha ben mostrato nel caso della follia – dal porto sicuro della coscienza pronta a scandalizzarsi, da un senso comune che si autoproclama tanto comune da essere universale; ma l’umanità universale deve essere, naturalmente, pronta a difendersi contro l’antiumanità. La questione della referenzialità – chi sia un tiranno – è primaria, e il richiamo al senso comune appare in quest’ottica come uno snodo cruciale:27 In realtà, nella maggior parte delle culture dominanti, dopo un’adeguata campagna informativa e una volta trascorso un opportuno intervallo di tempo, utile a capire i fatti e a sedimentare le emozioni, le persone sono in grado di formulare giudizi (soprattutto nei casi estremi) molto precisi e di cogliere le differenze tra un ‘capo coraggioso’ e un ‘criminale sadico’ (p. 5). L’abbondanza di clausole restrittive denuncia la fragilità epistemologica della proposizione (quali saranno le “culture dominanti”?), per di più tendente alla tautologia: i presupposti del giudizio sono un’informazione “adeguata” e il trascorrere di un tempo “opportuno”, i giudizi saranno “molto precisi” nei “casi estremi”. Il tiranno, insomma, può essere riconosciuto come corpo estraneo e rifiutato solo quando il subentrare cronologico o politico di discorsi altri lo abbia reso estraneo, quando la sua posizione risulti estrema, ovvero ‘periferica’ (marginalizzata) nella sfera della cultura vigente. L’aporia è messa in risalto dal testo stesso, e inquadrata nella topica del potenziale contagioso proprio della malattia mentale, oltre che in quella del despota mistificatore: “La patologia mentale dell’assassino dell’umanità non sempre è chiaramente visibile e decodificabile dal popolo. […] Sollecitati, eccitati e manipolati, i cittadini non si rendono affatto conto, all’inizio” della condizione di chi li governa, e si ritrovano affetti da “una sorta di ‘cecità ai disturbi mentali del proprio leader’” (p. 65; corsivi miei). I sostenitori interni o esterni, come i cosiddetti “pacifisti crimi26 27 Disturbo: “Irregolarità o disordine nelle funzioni organiche” (Devoto-Oli). Si pensi all’idea di giuria, istanza della pubblica coscienza, in SF, p. 382 e passim. LA PAZZIA DEL TIRANNO / 91 nali” (pp. 79 sgg.), hanno un ruolo preciso: “si tratta di fiancheggiatori non meno pericolosi” i quali impediscono che i tiranni siano “adeguatamente etichettati, isolati e messi di fronte alle loro responsabilità”; a ciò si aggiunge “la manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa, […] le cui informazioni sono abilmente distorte” (p. 66). 6. Si registra in queste pagine un’oscillazione continua tra la presunta evidenza della tirannide, e la ‘nube’ cognitiva che il linguaggio del tiranno riuscirebbe a sollevare; tra l’isolamento che dovrebbe caratterizzare il personaggio del tiranno, e la sua appartenenza a un sistema:28 un’anomalia che punta ad annidarsi nel cuore della società. Queste tensioni si traducono in figure di quasi paradossale specularità tra il despota e le sue controparti. Quando non si può evitare di percepire una serie di perturbanti somiglianze, esse vengono interpretate in chiave di manichea simmetria: “Un’analoga associazione psicosociale di tipo piramidale, anche se di segno opposto, è quella formata dagli ‘uomini diavolo’ che predicano la guerra e l’omicidio” (p. 6). La forma piramidale sintetizza la dialettica tra singolarità della causa prima (responsabilità individuale, circoscrizione massima dell’anomalia) e coalescenza del male; si ammette un’analogia esplicita con le associazioni ‘normali’, ma si relega nell’ambito ‘diabolico’ – un antiumano rovesciamento – chi compone questo ordinamento. Ritroviamo la logica noi/loro sottesa ad un’incongruenza altrimenti patente: sarebbero “democratici” solamente il 50 per cento dei regimi statali attuali. Tra la restante metà dei popoli che non possono contare su un sistema rappresentativo reale […] [a]llo stato attuale, nel mondo, non meno di una dozzina di leader potrebbero essere considerati, dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione di massa occidentali, come delinquenti e come despoti crudeli e sanguinari (p. 9). In primis si noti come una distinzione preliminare escluda i regimi statali democratici dal campo di ricerca in cui individuare gli “assassini dell’umanità”, mentre di fatto nulla sembra impedire che la patologia mentale si manifesti anche in presenza di “un sistema rappresentativo reale”, o che un personaggio con questa inclinazione – e con le capacità intrusive ad 28 Sebbene, per quanto possibile, tale appartenenza al sistema tenda a venir rimossa: specialmente in quanto eventuale origine delle dittature. Si veda l’arringa finale dell’avvocato Rolfe in Vincitori e vinti (Judgment at Nuremberg, 1961). 92 / GABRIELE BUGADA essa connesse – possa aver successo in simili contesti.29 In secondo luogo, si confronti la valutazione sul ruolo manipolatorio dei “mezzi di comunicazione di massa” riportata supra (appartenente ad una pletorica catena di affermazioni in tal senso, dipanata per l’intero testo) con la scelta, come pietra di paragone, proprio dei “mezzi di comunicazione di massa”, qui indicati però come “occidentali”: da un lato o dall’altro dello specchio lo strumento è il medesimo ma ciò che ‘laggiù’ offusca, ‘qui’ invece rivela. L’ottimistico appello al senso comune delle “persone”, peraltro mai smentito direttamente nella sua validità, va quindi affiancato dalla consapevolezza di star fronteggiando un potere che acceca e nasconde: nonostante le affermazioni programmatiche sulla visibilità del fenomeno, l’autore deve amaramente riconoscere “quanto gli assassini dell’umanità riescano a mascherare la loro criminalità e la loro patologia non solo in vita, ma anche, e spesso per anni e anni, dopo la loro morte”.30 Ecco dunque la necessità di occhi e voce scientifici affinché le “patologie mentali […] direttamente e obiettivamente constatate da professionisti nel campo specifico” (p. 30) emergano “attraverso le [proprie] manifestazioni obiettive” (p. 44). Il semantema chiave è obiett[iv]-, così insistito da far sospettare che convivano in sovrimpressione i significati relativi alla datità fattuale di un (complemento) oggetto, al dispositivo ottico che fornisce un’immagine – piana e rovesciata –, ai bersagli delle operazioni militari. Nell’ossessione panottica di ‘smascherare l’evidente’, nell’idea manichea di una ‘piramide diabolica’, e – soprattutto – nell’accento posto sulla pericolosità degli ‘onnipresenti fiancheggiatori’ e delle ‘informazioni astutamente distorte’: in tutto ciò la techné interpretativa che ambisce ad affiancare e guidare il giudizio pubblico (o politico, nei termini di amico/nemico) si apparenta alla paranoia che tanto di frequente caratterizzerebbe i tiranni; è l’ennesima corrispondenza che giunge a suggerire come esclusione ed esecrazione siano fondate sulla rimozione e proiezione di elementi – per così dire – oriundi. L’abilità di manipolazione intellettuale che contraddistingue il despota è invocata pure per affrontare il nodo dell’articolazione tra follia e colpa: 29 Anzi: emblematico il caso di Hitler, che pure per Nivoli è – con Stalin – paradigma del tiranno. 30 L’asserzione che gli assassini dell’umanità “riescano” a fare qualcosa “dopo la loro morte” è straniante: nel disagio linguistico trasmesso dall’espressione si intuiscono i limiti di una concezione che accentra nell’individuo ogni responsabilità, a scapito della portata sociale dei processi. LA PAZZIA DEL TIRANNO / 93 “gli assassini dell’umanità non solo sono, nella maggior parte dei casi, sani di mente in senso giuridico, ma addirittura intellettualmente così abili da manipolare immense folle e addirittura, in una nazione, grandi numeri di cittadini ingenui, creduloni e suggestionabili” (p. 7). La sanità di mente giuridica sembra costituirsi con uno scarto netto rispetto a quella psichiatrica: la costruzione “non solo [...] ma addirittura” ne fa una sottocategoria logica, pressoché un’implicazione, di un’intelligenza efficace unita alla cattiva volontà (si osservi anche il patetismo degli aggettivi che, di contro, connotano i cittadini vittime dell’astuzia tirannica). La sanità giuridica viene insomma accompagnata, forse persino corroborata, da una diagnosi inappellabile di patologia mentale: come è possibile che il testo si regga su questa discrasia? È possibile perché essa viene posta su un piano non logico ma ideologico, e gestita con strumenti retorici e narrativi affinati da secoli: la maschera, il personaggio, il carattere del tiranno e del folle. “Purtroppo la storia e le conoscenze psichiatriche dimostrano che ci sono anche ‘papà cattivi’ e cioè capi di stato e di grandi gruppi sociali che si sono rivelati corrotti, violenti, criminali e assassini, e anche psichicamente malati” (p. 11): “e anche” colloca il climax del vizio morale, sociale, legale e umano a una distanza intima dalla malattia psichica, che infine si presenta quasi come un accessorio della serie; ma già la sola locuzione “papà cattivi” disegna un ritratto umano – essenziale eppure vivido – che precede più che seguire ogni valutazione scientifica o storica. La fusione tra patologia e carattere (o character) viene esplicitamente portata a compimento e generalizzata, nel delineare “una struttura della personalità che incoraggia il soggetto a compiere omicidi”: L’assassino dell’umanità è, in concreto, incline a uccidere, indipendentemente dalle motivazioni che lo muovono, così come sono propensi a dare la morte l’omicida di massa (mass murderer), l’omicida seriale (serial killer), l’omicida orgiastico (spree killer), l’autore del suicidio allargato (enlarged suicidal) ecc. […] Tale cifra, che costituisce una vera e propria patologia specifica, è sempre presente in tutti gli assassini dell’umanità (pp. 5-6). La “patologia specifica” è un’inclinazione, una propensione che “incoraggia” il soggetto: indole non emendabile, forma o ‘piega’ (in)naturale dell’anima, essa non esime in alcun modo dalla colpa perché in ultima analisi è una colpa. Il tiranno viene identificato – “indipendentemente dalle motivazioni che lo muovono” – grazie all’evocazione di una galleria di personaggi ap- 94 / GABRIELE BUGADA partenenti all’immaginario collettivo almeno quanto alla criminologia: il risalto così acquisito dalla figura dello humanity murderer e la sua concepibilità “in concreto” hanno più a che vedere con Hollywood o con gli articoli di nera che con la tassonomia medica. 7. Il testo arriva ben presto ad esuberare la dimensione teoretica, per proporsi una vera e propria missione performativa: “attribuire una fisionomia, e soprattutto precise responsabilità, a questi assassini dell’umanità per riconoscerli, ricercarli e neutralizzarli” (p. 9). Difficile sottovalutare la forza illocutoria di questa frase. Si attribuisce una fisio-nomia col fine dichiarato di riconoscere, ricercare, neutralizzare: ecco la funzione della medicina, “obiettivamente” individuare e radicare nella physis il marchio della follia tirannica, quello che è stato – quanto significativamente! – definito come una “cifra”; si sposta l’analisi dal piano sociopolitico a quello individuale e biologico. Ma sotto la pelle della malattia, coerentemente con la storia genealogica della follia, traspare la macchia della colpa: il fatto di “attribuire [...] precise responsabilità” non segue, bensì anticipa il riconoscimento del criminale; dove ci aspetteremmo una condizionale (se è possibile attribuire responsabilità, allora si riconosce la colpa) troviamo una coppia principale/finale con ribaltamento dell’ipotassi (si attribuisce una responsabilità per riconoscere). Abbiamo già incontrato tale schema, pur mimetizzato nell’innocenza apparente della paratassi: “etichettati, isolati e messi di fronte alle loro responsabilità”, ove il termine “isolati” allude assieme all’attuazione pratica di un bando e all’operazione ermeneutica31 di identificazione/astrazione (abs-trahere). Anche la sequenza riconoscere/ricercare/neutralizzare contiene una variatio tutt’altro che innocente. Mentre i primi due termini sono legati al terzo da una logica di (non mera) successione, essi costituiscono invece una coppia alternativa: infatti se ho già riconosciuto non ho bisogno di ricercare; ma qualora venga a mancare il riconoscimento di una realtà preesistente, si passa alla ricerca attiva, predisposta a sfociare nella creazione e iterata ri-creazione. La “neutralizzazione” richiama l’idea di cura ben indicata dalle parole di Foucault: la “quasi-identità del gesto che punisce e di quello che guarisce […] l’astuzia della ragione medica che fa il bene facendo soffrire” (SF, 31 Isolare: “In medicina, identificare l’agente patogeno di una malattia” (Devoto-Oli). LA PAZZIA DEL TIRANNO / 95 p. 91). Ci si approssima per questa via alla ‘cura democratica’, alla giustificazione delle sofferenze delle popolazioni civili in nome di una terapia volta a sanare la tirannide in quanto malattia politica. La malattia mentale del tiranno invece non pare guaribile perché connaturata. Nella “neutralizzazione” intravediamo infine la convergenza tra diversi elementi del ritratto del tiranno folle verso un punto focale, per quanto celato da eufemismi ed ellissi: l’uccidibilità del tiranno.32 Egli è un elemento estraneo al corpo sociale, che vi si è intimamente annidato: va estirpato. Il suo arbitrio lo rende imprevedibile, incontrollabile, pericoloso come una bestia feroce; come una belva egli è assoggettato (a differenza dell’animale, si è assoggettato) al determinismo naturale che lo rende irredimibile, alla meccanica della patologia mentale. La sua condizione – obiettivamente riscontrabile dal senso comune, specie se indirizzato da una voce scientifica – lo pone al di fuori del genere umano, relativizzando così i dilemmi etici sulla sua sorte; non si dimentichi poi che egli è responsabile, che il suo stato è una colpa: neutralizzarlo è solo ‘metterlo di fronte alle sue responsabilità’. L’opera procede tracciando il profilo di due esemplari assassini dell’umanità, Stalin e Hitler.33 L’argomentazione si sviluppa sulla falsariga di quanto premesso nella sezione teorica, quindi non è il caso di addentrarsi in un territorio ormai battuto, per quanto comunque fertilissimo in virtù della messe di topoi e calchi molto riconoscibili prelevati di peso dalla tradizione letteraria classica, medievale e moderna. Ciò che più premeva in queste pagine era tracciare i percorsi di lungo periodo che hanno condotto due distinte rappresentazioni ad intrecciarsi dopo una storia di somiglianze sommerse e incroci fugaci; riconoscere modalità fondative comuni a entrambe, sintomatiche dei più generali processi culturali che concernono la formazione dell’identità o la soluzione ‘mitogrammatica’ di contraddizioni e attriti interni; comprendere in uno scenario più ampio retoriche ancora attuali. 32 Cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi, 1995. 33 Interessante che un testo animato da inequivoca urgenza verso il presente (“allo stato attuale, nel mondo”; “riconoscerli, ricercarli e neutralizzarli”) scelga esempi storici ormai ‘in giudicato’, specialmente nel senso comune; che inoltre – nel proprio orientamento performativo – faccia implicito riferimento ai dittatori delle prime pagine contemporanee, situati per lo più tra vicino, medio ed estremo Oriente (si noti: “culture dominanti”, “mezzi di comunicazione occidentali”), ma si trovi costretto a proporre come casi principe due membri di culture indubbiamente dominanti, nonché ‘piuttosto europee’. 96 / GABRIELE BUGADA In questa prospettiva non si è voluto considerare il saggio di Nivoli in quanto campione da cui trarre ipotesi induttive, ma neppure come fenomeno singolo e singolare: esso va invece letto come una testimonianza del fatto che – ‘oggi’, ‘qui’ – semplicemente è possibile elaborare e immettere nello spazio pubblico (nelle sfere dell’opinione, della scienza, della medicina, del diritto) determinate proposizioni e proposte; ciò che si è voluto indagare erano le condizioni culturali di tale possibilità. Resta aperto l’interrogativo che proprio queste condizioni ci pongono: se la maschera del tiranno riflette lo sguardo che la impone, che cosa ci raccontano su di ‘noi’ questi ritratti di dittatori, contemporanei tiranni? Di chi parliamo scrivendo di “pretestuose motivazioni”, di “migliaia e milioni di assassinii di persone innocenti”, di cittadini “sollecitati, eccitati e manipolati”, di “manipolazione dei mezzi di comunicazione di massa”, di capi “corrotti” o “criminali”? Le democrazie sono immuni dal circolo di paura, controllo, coercizione e violenza che contamina e rende folle il potere tirannico? Affrontare il tiranno, ma messi di fronte alle proprie responsabilità: perché talvolta il nemico incarna non solo le nostre domande, ma quelle che già sono le nostre risposte. Per concludere si può ricordare uno di quegli episodi testé definiti incroci fugaci, nelle parole con cui l’insigne umanista del XVI secolo Francisco de Vitoria (teologo, giurista, professore universitario) – dopo aver demolito come ingiustificate le guerre allora condotte in America – ammetteva la possibilità di ‘guerre giuste’ per proteggere gli innocenti dalla tirannia dei capi: Benché questi barbari non siano affatto pazzi, non sono tuttavia lontani dalla follia. [...] Non sono più capaci di governarsi da sé di quanto lo siano i pazzi, gli animali e le bestie feroci, visto che il loro cibo non è più gradevole, ed è appena migliore, di quello delle belve.34 La fondazione dell’Occidente atlantico risiede anche nell’idea – e nella pratica – dello sterminio giusto, quello che mira a riscattare l’altro dalla tirannia, dalla barbarie, dalla follia, dalla bestialità (insomma, dalle proprie proiezioni di alterità) muovendo nell’angusto margine che divide o lega salvezza e annichilazione. 34 Francisco de Vitoria, De Indis (1538), cit. in Tzvetan Todorov, La conquête de l’Amérique. La question de l’autre (1982), trad. it. di Aldo Serafini, La conquista dell’America. Il problema dell’‘altro’, Torino: Einaudi, 2002, pp. 180-82. § PARAGRAFO IV questioni § 5 Luigi Marfé In viaggio con Erodoto Appunti per una tipologia dell’anti-turismo contemporaneo Benché l’oggetto di In viaggio con Erodoto – il reportage del giornalista di guerra polacco Ryszard Kapuściński apparso nel 2004 – siano i viaggi compiuti in Medio Oriente e in Africa, il riferimento del titolo non ha una valenza esclusivamente geografica. A mettere Kapuściński sulle tracce dello storico greco, infatti, è soprattutto il proposito di imitarne il metodo di indagine. La sua poetica intende la letteratura odeporica come inchiesta conoscitiva, secondo quanto François Hartog – in un lavoro il cui titolo evoca la stessa figura – ha dimostrato essere implicito fin dall’etimologia greca, che considera lo storico (historié) prima di tutto un cercatore. In quest’ottica, il valore di un reportage dipende dalla trasparenza dello sguardo con cui il suo autore dà voce alla realtà dei luoghi che attraversa. Per le proprie corrispondenze, Kapuściński ha usato la definizione di ‘opera collettiva’, il cui vero autore sarebbe l’insieme delle persone cui si è rivolto nel corso del viaggio.1 Seguendo le tracce di un viaggiatore precedente, Kapuściński compie un’operazione letteraria comune a molti resoconti della letteratura odeporica contemporanea. In un mondo che Claude Lévi-Strauss e Marc Augé hanno definito di fine dei viaggi e di nonluoghi, gli scrittori di viaggio hanno infatti provato a sviluppare un rapporto con i luoghi diverso dall’omogeneizzazione del turismo, trasformando i propri itinerari in metadiscorso. Questo articolo illustra le strategie retoriche che hanno permesso alla letteratura odeporica di rinviare la propria fine. Per delinearne la poetica, si descrive in primo luogo la prospettiva dell’anti-turista come 1 Cfr. Ryszard Kapuściński, Podróze z Herodotem (2004), trad. it. di Vera Verdiani, In viaggio con Erodoto, Milano: Feltrinelli, 2005; François Hartog, Le miroir d’Hérodote (1980), trad. it. di Adriana Zangara, Lo specchio di Erodoto, Milano: Saggiatore, 1992. PARAGRAFO IV (2008), pp. 99-112 100 / LUIGI MARFÉ personaggio letterario (§ 1), quindi se ne definisce una tipologia (§ 2) e infine si evidenziano i limiti della sua prospettiva (§ 3).2 1. In Bazar express (1975), Paul Theroux si interroga sulla necessità della letteratura odeporica nel mondo contemporaneo: se i resoconti di viaggio si scrivevano un tempo per coloro che non viaggiavano, per chi scriverli oggi se tutti viaggiano? Tutti fanno l’amore – è la sua risposta – ma non per questo si è cessato di scriverne. Il mot juste indica l’appartenenza di Theroux a una generazione letteraria che ha iniziato a pubblicare a metà degli anni settanta, re-inventando la figura del viaggiatore come personaggio letterario. Si tratta di scrittori come Bruce Chatwin, Redmond O’Hanlon, Jonathan Raban, Colin Thubron. Alcuni di essi hanno legato il proprio nome alla rivista Granta, che dal 1979 ha pubblicato molti resoconti di viaggio animati dal desiderio di esorcizzare il turismo di massa con un dandismo esibito in chiave ironica.3 La nascita dell’anti-turismo rimonta in verità a un secolo prima. Studi sui rapporti tra la letteratura e il turismo nel XIX secolo come L’idiota in viaggio (1991) di Jean-Didier Urbain e The Beaten Track (1993) di James Buzard dimostrano come il termine turista assuma una connotazione negativa intorno al 1850. Da allora, gli scrittori contrappongono il byronismo dei propri itinerari ai viaggi di gruppo di turisti schiavi delle loro guide. In questo senso, in un saggio sulla letteratura inglese tra gli anni venti e gli anni quaranta, intitolato significativamente All’estero (1980), Paul Fussell ha definito il viaggio come parentesi intermedia tra l’esplorazione e il turismo. A suo avviso, i luoghi si offrirebbero nelle condizioni ideali per essere descritti quando già sono stati scoperti, ma ancora sono 2 Cfr. Claude Lévi-Strauss, Tristes tropiques (1955), trad. it. di Bianca Garufi, Tristi tropici, Milano: Saggiatore, 1965; Marc Augé, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité (1992), trad. it. di Dominique Rolland, Nonluoghi. Introduzione ad un’antropologia della surmodernità, Milano: Eleuthera, 1993; Id., L’Impossible voyage. Le tourisme et ses images (1997), trad. it. di Alfredo Salsano, Disneyland e altri nonluoghi, Torino: Bollati Boringhieri, 1999; Id., Le temps en ruines (2003), trad. it. di Aldo Serafini, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino: Bollati Boringhieri, 2004. 3 Cfr. Paul Theroux, The Great Railway Bazaar: By Train Through Asia (1975), trad. it. di Francesco Franconeri, Bazar express. In treno attraverso l’Asia, Milano: Mondadori, 1982. Granta ha dedicato alla letteratura di viaggio i seguenti numeri monografici: Travel Writing, 10, 1983; In Trouble Again, 20, 1986; Travel, 26, 1986; Necessary Journeys, 76, 2001; On the Road Again: Where Travel Writing Went Next, 94, 2006. A questi numeri, occorre aggiungere due volumi: The Granta Book of Travel, London: Granta, 1998, e The Granta Book of Reportage, London: Granta, 1998. IN VIAGGIO CON ERODOTO / 101 stati visti da pochi. È quello che è successo tra le due guerre, quando molti scrittori, da D.H. Lawrence e Christopher Isherwood a Henri Michaux e Michel Leiris, hanno affidato al racconto di viaggio nuove sperimentazioni poetiche.4 Al tramonto di quest’epoca, nell’introduzione a Quando viaggiare era un piacere (1945), Evelyn Waugh scrive che il tempo di viaggiare è finito per sempre. Invece dei pericoli dell’avventura, la diffusione del turismo ha infatti imposto la ‘dépense depotenziata’ – per richiamare una categoria di Georges Bataille, di cui Rossana Bonadei si è servita recentemente, spiegando proprio queste dinamiche – di chi evade dalla gabbia per una rivolta controllata, mai più lunga di due settimane. Il desiderio di accaparrarsi il maggior numero di turisti fa aderire i luoghi agli stereotipi cui sono associati nell’immaginario comune, fino alla loro riduzione a nonluoghi identici tra loro.5 Alla letteratura di viaggio non rimane che raccontare la fine di quei rifugi aristocratici che erano stati fonte di ispirazione di molti artisti, come l’Engadina che Eugenio Montale tratteggia con nostalgia in Fuori di casa (1969). Emblematico è però soprattutto il caso di Lawrence Durrell: tornato a Corfù negli anni sessanta, infatti, vi trova frotte di turisti in cerca dei luoghi che egli stesso aveva descritto in Prospero’s Cell (1945).6 Dal momento che la ricerca del pittoresco si rivela deludente, per mettere i luoghi nella condizione di dire ancora qualcosa, i viaggiatori ap4 Cfr. Jean-Didier Urbain, L’idiot du voyage. Histoires de turistes (1991), trad. it. di Chiara Barbarossa, L’idiota in viaggio, Roma: Aporie, 2003; James Buzard, The Beaten Track: European Tourism, Literature, and the Ways to Culture, 1800-1918, Oxford: Clarendon Press, 1993; Paul Fussell, Abroad: British literary Traveling between the Wars (1980), trad. it. di Grazia Biondi, All’estero. Viaggiatori inglesi fra le due guerre, Bologna: Mulino, 1988. 5 Cfr. Evelyn Waugh, When the Going Was Good (1946), trad. it. di David Mezzacapa, Quando viaggiare era un piacere, Milano: Adelphi, 1996; Georges Bataille, “La notion de dépense” (1934), trad. it. di Francesco Serna, “La nozione di dépense”, in Id., La parte maledetta, preceduta da La nozione di dépense, Verona: Bertani, 1972; Rossana Bonadei, I sensi del viaggio, Milano: Angeli, 2007. Sui risvolti sociologici della diffusione del turismo, cfr. almeno Dean MacCannell, The Tourist: A New Theory of the Leisure Class (1976; 1999), trad. it. a cura di Luigi Guiotto, Il turista. Una nuova teoria della classe agiata, Torino: UTET, 2005; John Urry, The Tourist Gaze: Leisure and Travel in Contemporary Societies, London: Sage, 1990; Id., Consuming Places, London: Routledge, 1995; Chris Rojek, Ways of Escape: Modern Transformation in Leisure and Travel, London: McMillan, 1993; Chris Rojek e John Urry (a cura di), Touring Cultures: Transformations of Travel and Theory, London-New York: Routledge, 1997. 6 Eugenio Montale, Fuori di casa, Milano: Mondadori, 1969; Lawrence Durrell, Prospero’s Cell: A Guide to the Landscape and Manners of the Island of Corcyra, London: Faber, 1945. 102 / LUIGI MARFÉ prontano una serie di accorgimenti che sono anche gli strumenti retorici del loro racconto. C’è chi ha provato a cambiare la velocità del viaggio, cercando nuove possibilità di espressione nella velocità, come il Paul Virilio de L’orizzonte negativo (1984) o nella lentezza, come José Saramago nel Viaggio in Portogallo (1981). Altri hanno scelto mezzi di trasporto obsoleti, come nel caso della Topolino di Nicolas Bouvier ne La polvere del mondo (1964), dei treni regionali usati da Theroux in Da costa a costa (1983) o addirittura del vagabondaggio a piedi di Patrick Leigh Fermor in A Time of Gifts (1977). Il richiamo del nomadismo ha spinto qualcuno verso gli antipodi, come Chatwin in Patagonia e in Australia, e altri a esplorare le realtà sommerse delle periferie delle metropoli come se si trattasse di mondi sconosciuti, al modo de Les passegers de Roissy-Express (1990) di François Maspero o di London Orbital (2002) di Iain Sinclair.7 I viaggi dell’anti-turismo mirano a costruire un rapporto nuovo tra il viaggiatore e il luogo, in modo da fare dell’uno l’orizzonte di comprensione dell’altro. Con un’eco letteraria dal viaggio di Arthur Rimbaud in Dancalia, Chatwin ha riassunto questi sforzi nella domanda Che ci faccio qui? (1989), il titolo di un volume che raccoglie alcuni dei suoi reportages usciti perlopiù sul Sunday Times. Attraverso di essa, egli pone in maniera obliqua la questione dell’identità, legando il senso di un mondo franto e pulviscolare a quello del sé di chi scrive.8 2. La prima compilazione dei possibili tipi di viaggiatore risale al Viaggio sentimentale attraverso la Francia e l’Italia (1768) di Lawrence Sterne, allorché Yorick cerca la definizione più calzante per il proprio modo di viaggiare. A suo avviso, infatti, l’“universalità de’ viaggiatori” sarebbe mossa da tre cause principali: “infermità di corpo”, “imbecillità di mente” e “inevitabile necessità”. La combinazione di queste scherzose motivazioni 7 Cfr. Paul Virilio, L’horizon négatif. Essai du dromoscopie (1984), trad. it. di Maria Teresa Carbone e Fabio Corsi, L’orizzonte negativo. Saggio di dromoscopia, Genova: Costa & Nolan, 1986; José Saramago, Viagem a Portugal (1981), trad. it. di Rita Desti, Viaggio in Portogallo, Torino: Einaudi, 1999; Paul Theroux, The Kingdom by the Sea (1983), trad. it. di Roberto Cagliero e Stefano Rosso, Da costa a costa, Milano: Frassinelli, 1985; Nicolas Bouvier, L’usage du monde (1964), trad. it. di Giuseppe Martoccia, La polvere del mondo, Reggio Emilia: Diabasis, 2004; Patrick Leigh Fermor, A Time of Gifts: On Foot to Constantinople from the Hook of Holland to the Middle Danube, London: Murray, 1977; François Maspero, Les passagers du Roissy-Express, Paris: Seuil, 1990; Iain Sinclair, London Orbital: A Walk Around the M25, London: Granta, 2002. 8 Cfr. Bruce Chatwin, What Am I Doing Here? (1989), trad. it. di Dario Mazzone, Che ci faccio qui?, Milano: Adelphi, 1990. IN VIAGGIO CON ERODOTO / 103 dà luogo ai diversi modi del viaggio, con cui Sterne descrive le anime che si contendono la letteratura del Grand Tour: “viaggiatori scioperati”, “curiosi”, “bugiardi”, “ipocondriaci” e così via, fino al “viaggiatore sentimentale” cui apparterrebbe lo stesso Yorick.9 Classificazioni meno svagate, ma altrettanto arbitrarie, si trovano ne Le voyage et l’écriture (1974) di Michel Butor, in Noi e gli altri (1989) di Tzvetan Todorov e in Per mare e per terra (1995) di Eric J. Leed. Si tratta di strumenti utili, a patto di ricordare che lo scopo di una tipologia non è quello di offrire una definizione univoca del territorio in analisi, ma di tagliare l’impenetrabilità di un genere letterario attraverso alcuni concettichiave – le ‘faglie del discorso’ di cui parla Michel Foucault ne L’archeologia del sapere (1969) – in grado di portarne alla luce i meccanismi retorici e di costringerlo a dire qualcosa in più sul suo funzionamento. Prima ancora che i modi del viaggio, la tipologia che si intende proporre qui riguarda le strategie retoriche su cui si basa la loro testualizzazione. Gli scrittori dell’anti-turismo non hanno infatti rinviato, esorcizzato o superato la fine dei viaggi scoprendo nuovi modi di spostarsi nello spazio, ma inventando nuovi modi di rappresentare in chiave letteraria percorsi che potrebbero essere seguiti anche da un turista. In questo senso, tra le strategie compositive utilizzate nei loro resoconti, si possono distinguere quattro tipi principali: l’erudizione, il meta-viaggio, il dépaysement, e l’anti-turismo politico.10 I resoconti dei viaggiatori eruditi risolvono la letteratura odeporica nella somma dei riferimenti colti che i luoghi mettono in moto nella loro immaginazione. In quest’ottica, viaggiare è qualcosa di simile all’avventura semiologica descritta da Barthes ne L’impero dei segni (1970). Non si tratta però di attribuire significato a un sistema di segni vuoto, ma di riportare alla luce le tracce dei sistemi di segni che la storia ha stratificato nei luoghi. La portata conoscitiva dei resoconti di viaggio ascrivibili a questa poetica si avvicina a quel processo di metaforizzazione del reale che Hans Blumenberg ha chiamato ‘leggibilità del mondo’: lo scrittore 9 Lawrence Sterne, Sentimental Journey through France and Italy (1768), trad. it. a cura di Giuseppe Sertoli, Viaggio sentimentale, Milano: Mondadori, 1983, pp. 17, 19. 10 Cfr. Michel Butor, Le voyage et l’ecriture, in Id., Répertoire IV, Paris: Minuit, 1974; Tzvetan Todorov, Nous et les autres. La réflexion française sur la diversité humaine (1989), trad. it. di Attilio Chitarin, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Torino: Einaudi, 1991; Eric J. Leed, Shores of Discovery: How Expeditionaries Have Constructed the World, (1995), trad. it. di Erica Joy Mannucci, Per mare e per terra. Viaggi, missioni, spedizioni alla scoperta del mondo, Bologna: Mulino, 1996; Michel Foucault, L’archéologie du savoir (1969), trad. it. di Giovanni Bogliolo, L’archeologia del sapere, Milano: Rizzoli, 1994. 104 / LUIGI MARFÉ sfoglia i luoghi come se fossero le pagine di un libro, a caccia di tutti i riferimenti storici, letterari e artistici che trova nascosti nelle sue pieghe. Per questa poetica, in un’intervista ora raccolta ne La penombra mentale (2001), Giorgio Manganelli ha proposto il nome di “geocritica”. È come se il viaggiatore andasse a controllare se i luoghi corrispondono davvero ai libri che ha letto su di essi, e, nel caso in cui l’aderenza non sia completa, si convincesse che a sbagliare non siano i libri, ma il mondo.11 Lo sforzo enciclopedico di addobbare il paesaggio con le invenzioni della propria erudizione implica una sorta di collezionismo antiquario. Se si pensa alle opere di scrittori come Angelo Maria Ripellino o Alberto Arbasino, si noterà come sia proprio nella letteratura italiana che la letteratura di viaggio ha seguito più spesso il canale dell’erudizione. In libri come Parigi o cara (1960) e Lettere da Londra (1997), ad esempio, Arbasino ha raccolto numerose sue interviste con scrittori francesi e britannici, fino a descrivere i luoghi attraverso il ventaglio delle polemiche mondane dei loro salotti letterari.12 Nella letteratura inglese, lo scrittore che ha espresso meglio questa poetica sofisticata è Sacheverell Sitwell. La peculiarità di reportages come L’Olanda (1948) o Spain (1950), in cui la figura del viaggiatore è eclissata dietro la descrizione dell’architettura e dei costumi tradizionali, dipende dalla scelta di raccontare lo spirito dei luoghi attraverso i dettagli poco noti, secondo un proposito già espresso nei suoi studi sul gotico, allorché invece delle cattedrali aveva descritto miniature e merletti. La volontà di fuga della letteratura di viaggio tra le due guerre è volta da Sitwell nella ricostruzione minuziosa di civiltà perdute per sempre, come quella rappresentata dall’arte barocca.13 È come se i luoghi, secondo un’espressione usata da Claudio Magris, nell’ottica di questi viaggiatori diventassero dei gomitoli di tempo. C’è una valenza etica in questa scrittura che cerca, attraverso l’attenzione ai dettagli, di salvare dall’oblio l’alterità di modi di vivere diversi dal pro11 Cfr. Roland Barthes, L’empire de signes (1970), trad. it. di Marco Vallora, L’impero dei segni, Torino: Einaudi, 1984; Hans Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt (1981), trad. it. di Bruno Argenton, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Bologna: il Mulino, 1989; Giorgio Manganelli, La penombra mentale, a cura di Roberto Deidier, Milano: Adelphi, 2001. 12 Cfr. Angelo Maria Ripellino, Praga magica, Torino: Einaudi, 1973; Alberto Arbasino, Parigi o cara, Milano: Feltrinelli, 1960; Id., Lettere da Londra, Milano: Adelphi, 1997. 13 Cfr. Sacheverell Sitwell, The Netherlands (1948), trad. it. di Enzo Siciliano, L’Olanda, Milano: Garzanti, 1961; Id., Spain, London: Batsfod, 1950. IN VIAGGIO CON ERODOTO / 105 prio. In questo senso, al viaggiare si associa una forte responsabilità morale, che coincide con la difesa dei microcosmi che si incontrano durante il percorso dall’invadenza della storia. Da questa capacità, dipende la credibilità della letteratura di viaggio come strumento di “mediazione evanescente” – per usare una categoria di Frederic Jameson – tra le culture, come nel Viaggio in Portogallo di Saramago, in Danubio (1986) dello stesso Magris o nel Breviario mediterraneo (1987) di Pedrag Matvejević.14 La scrittura dei meta-viaggiatori si pone su un piano poetico diverso. Per scrittori come Chatwin, Theroux e Bouvier, contro l’omogeneità del turismo, non conta la collezione di preziosità erudite, ma la capacità di disconnettere i pregiudizi della mentalità occidentale. L’emblema di questo progetto è la figura del nomade, in cui, al di là di ogni correttezza antropologica, essi vedono una persona che, oltre alla meta, ha rinunciato anche alla direzione. Per i meta-viaggiatori, il vagabondaggio implica una liberazione dall’ansia, connaturata alla filosofia occidentale, di porre le questioni del senso. È quello che capita ad esempio in un resoconto come Verso la foce (1988) di Gianni Celati, che, attraverso il lento scorrere del Po verso il suo delta, descrive le idiosincrasie di ogni visione del mondo basata sulla teleologia.15 La poetica del meta-viaggio coincide con quella descritta da Barthes alla voce “fading” dei Frammenti di un discorso amoroso (1977). La metafora della dissolvenza cinematografica indica una poetica della sparizione, che porta il viaggiatore fino agli antipodi, alla ricerca di uno spazio libero da ogni ingerenza dell’euro-centrismo. Come sottolineano Gilles Deleuze e Félix Guattari, il viaggio può indicare infatti un percorso di conoscenza – la “geofilosofia” – alternativo a quello della metafisica tradizionale, poiché fondato non sulla compresenza delle categorie, ma sulla contingenza dei piani di discorso. È questo il significato di un resoconto come America (1986) di Jean Baudrillard, che esalta le analogie tra la vita del deserto e quella delle metropoli statunitensi, nel senso della freschezza che entrambe possono vantare in antitesi al paralizzante storicismo connesso con la mentalità europea.16 14 Cfr. Claudio Magris, Danubio. Un viaggio sentimentale, Milano: Garzanti, 1986; Id., Microcosmi, Milano: Garzanti, 1997; José Saramago, op. cit.; Pedrag Matvejević, Mediteranski brevijar (1987), trad. it. di Silvio Ferrari, Breviario mediterraneo, Milano: Hefti, 1987. 15 Cfr. Paul Theroux, The Great Railway Bazaar, cit.; Bruce Chatwin, The Songlines (1987), trad. it. di Silvia Gariglio, Le vie dei canti, Milano: Adelphi, 1988; Id., What Am I Doing Here?, cit.; Nicolas Bouvier, op. cit.; Gianni Celati, Verso la foce, Milano: Feltrinelli, 1988. 16 Cfr. Roland Barthes, Fragments d’un discours amoreux (1977), trad. it. di Renzo Guidieri, Frammenti di un discorso amoroso, Torino: Einaudi, 1979; Jean Baudrillard, Améri- 106 / LUIGI MARFÉ Ogni passo verso il meno, secondo Bouvier, è un passo verso il meglio. Nel viaggio come nella scrittura, i meta-viaggiatori propongono infatti una poetica del levare per cui il valore estetico si ottiene come sottrazione del noto. Deleuze dà a questo processo il nome di “de-territorializzazione”, dal momento che implica una disconnessione del territorio su cui poggiano i pregiudizi più radicati dall’abitudine. La scommessa del meta-viaggio è però quella di non appiattire il principio del viaggiare per il viaggiare all’estetica post-moderna dell’equivalenza di tutte le tradizioni e dell’indifferenza al valore. Il mondo in cui si muovono gli scrittori del meta-viaggio è frammentario e disconnesso, ma non per questo i resoconti devono rinunciare a qualunque sforzo ermeneutico. Il loro compito è quello di provare a ‘ri-territorializzare’ nuovi piani di significato, al di fuori della tradizione dell’euro-centrismo.17 Il più importante cantore del meta-viaggio è Bruce Chatwin. Sia quando racconta gli orizzonti australi che quando cerca i demoni della campagna gallese, la sua scrittura scopre un mondo di storie che intrecciano una dimensione all’altra. Il senso dei suoi libri dipende dalla sostituzione del picturesque con un’arte di accostare coincidenze improbabili che Susannah Clapp ha definito chatwinesque. Non importa se i dettagli sono inventati: la credibilità di Chatwin riposa infatti nella scoperta di un mondo fatto di esuli e migranti, in cui la normale consecuzione delle cause è incrinata. Al viaggiatore spetta il dovere di inseguire le storie che incontra durante il viaggio, come se fossero le Vie dei canti (1988) che segnano il ritmo degli spostamenti degli aborigeni australiani.18 Sia per i viaggiatori eruditi che per i meta-viaggiatori, il resoconto di viaggio coincide con la descrizione di un viaggio di piacere. Al contrario, per gli scrittori dépaysées implica la tragedia di un destino non scelto. Come ha scritto Tzvetan Todorov, ad accomunare i modi del dépaysement – esilio, deportazione, migrazione – è la lacerazione del tempo doppio in cui il viaggio li costringe a vivere. Come ne L’angolo prediletto (1908) di Henry James, il cui protagonista torna dopo molti anni nella casa che que (1986), trad. it. di Laura Guarino, L’America, Milano: Feltrinelli, 1988; Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille plateaux (1980), trad. it. di Giorgio Passerone, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma: Istituto della enciclopedia italiana, 1987, e Id., “Géophilosophie” (1991), trad. it. di Angela De Lorenzis, “Geofilosofia”, in Geofilosofia. Il progetto nomade e la geografia dei saperi, Milano: Mimesis, 1993, pp. 11-33. 17 Cfr. Deleuze e Guattari, “Geofilosofia”, cit.; Nicolas Bouvier, L’usage du monde, cit. 18 Cfr. Bruce Chatwin, The Songlines, cit.; Susannah Clapp, With Chatwin: Portrait of a Writer (1997), trad. it. di Matteo Codignola, Con Chatwin, Milano: Adelphi, 1998. IN VIAGGIO CON ERODOTO / 107 aveva lasciato, trovandovi il fantasma di se stesso, gli hommes dépaysées vivono l’impossibile futuro del passato della vita che avrebbero fatto rimanendo nel proprio paese d’origine. È quello che capita ad esempio ai protagonisti dei quattro racconti de Gli emigrati (1992) di Winfried G. Sebald, che non trovano alcuna ragione di vita nell’esilio e si spengono fino a morire. Esuli o emigrati, i personaggi di Sebald soffrono per un’identità scissa, di cui non riescono a ricostruire la continuità con il passato. In questo senso, Sebald descrive la malinconica impossibilità di ricostruire un rapporto limpido con il mondo, se non come rievocazione di un orrore che sarebbe stato meno doloroso dimenticare, al modo di una farfalla rimasta per errore prigioniera di una stanza chiusa.19 A dispetto del surplus di valore estetico che, secondo Extraterritorials (1971) di George Steiner, la ‘unhousedness’ avrebbe garantito a molti autori chiave della letteratura del Novecento, il linguaggio è infatti soprattutto un vettore di sradicamento. Romanzi come La vera vita di Sebastian Knight (1941) e Pnin (1957) di Vladimir Nabokov, ad esempio, mostrano come il dépaysement riduca la lingua d’origine a un vocabolario di sentimenti incomunicabili e privati e quella del paese d’adozione a un crudele virtuosismo logico. Non tutti gli autori del dépaysement accettano però la riduzione al silenzio: alcuni di essi, come Primo Levi o Iosif Brodskij, trovano infatti nella letteratura un modo di recuperare la continuità con il proprio passato e dare speranza al futuro.20 Tra i reduci della deportazione, la scrittura di viaggio più nitida appartiene senz’altro a Primo Levi. Un libro come Se questo è un uomo (1947; 1958) intende il viaggio della deportazione come inabissamento fisico e morale, che impone al reduce lo strano potere di parola del vecchio marinaio di Samuel Coleridge, fino a quando non ha finito di raccontare la 19 Cfr. Tzvetan Todorov, L’homme dépaysée (1996), trad. it. di Maria Baiocchi, L’uomo spaesato, Roma: Donzelli, 1997; Henry James, “The Jolly Corner” (1908), trad. it., “L’angolo prediletto”, in Id., Racconti di fantasmi, Torino: Einaudi, 1988; Winfried G. Sebald, Die Ausgewanderten (1992), trad. it. di Ada Vigliani Gli emigrati, Milano: Adelphi, 2007; Id., Austerlitz (2001), trad. it. di Ada Vigliani, Milano: Adelphi, 2002. 20 Cfr. George Steiner, “Extraterritorials”, in Id., Extraterritorials: Papers on Literature and the Language Revolution, New York: Atheneum, 1971; Vladimir Nabokov, The Real Life of Sebastian Knight (1941), trad. it. di Germana Cantoni De Rossi, La vera vita di Sebastian Knight, Milano: Adelphi, 1992; Id., Pnin (1957), trad. it. di Elena De Angeli, Milano: Adelphi, 1998; Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino: Einaudi, 1958; Id., La tregua, Torino: Einaudi, 1963; Iosif Brodskij, The Condition We Call Exile (1988), trad. it. di Gilberto Forti e Giovanni Buttafava, “La condizione che chiamiamo esilio”, in Id., Dall’esilio, Milano: Adelphi, 1988. 108 / LUIGI MARFÉ propria storia. Il resoconto dell’odissea con cui Levi è tornato alla fine della guerra dal campo di Buna Monowitz a Torino, La tregua (1963), dimostra come la sopravvivenza dipenda dalla capacità di non lasciarsi ridurre all’inumano, tenendo desta la curiosità di chi ha messo se stesso per l’alto mare aperto. Come ha notato Piero Boitani, attraverso la figura di Ulisse, Levi lega infatti il tema del viaggio a quello della conoscenza, nel senso della Commedia di Dante.21 Ancora diversa è la poetica dell’anti-turismo politico. Mi riferisco ai resoconti di viaggio che lottano contro un particolare tipo di turismo, cui oggi si dà il nome di news management. La tendenza cioè a mistificare la realtà, attraverso la retorica della politica e la manipolazione delle immagini, nell’ottica di compiacere il potere. Al contrario, i resoconti dell’antiturismo politico non si adeguano a questa logica e superano la fine dei viaggi con l’atteggiamento perplesso e dubitante di chi cerca di vedere la realtà al di là delle apparenze. Ai loro autori si può estendere il soprannome che i compagni di viaggio avevano affibbiato a Franco Fortini durante un viaggio in Cina: je voudrais savoir…22 Da un lato, a questa poetica si possono ricondurre i reportages che smascherano le menzogne dei regimi totalitari, come Il volto della Spagna (1950) di Gerald Brenan o Un mese in Urss (1958) di Alberto Moravia. Attraverso la pignola discussione di ogni aspetto della vita sociale dei paesi che visitano, essi provano infatti a sottrarsi alla cortesia degli ospiti con cui, come ha notato Paul Hollander, i regimi totalitari hanno spesso cercato di cooptare gli intellettuali per guadagnare credibilità internazionale. Un’altra tentazione da cui gli scrittori si sono dovuti guardare per non cadere nel turismo della politica è stata quella di trasformare l’insoddisfazione per il sistema politico del proprio paese in esaltazione acritica di quello altrui, come è capitato a molti visitatori dell’Urss, della Cina o di Cuba.23 D’altronde, è anti-turismo politico anche il giornalismo di guerra. Come ha notato Phillip Knightley, i corrispondenti di guerra si confrontano con la volontà dei governi di controllare le informazioni fin dalla lo21 Cfr. Primo Levi, Se questo è un uomo, cit.; Id., La tregua, cit.; Piero Boitani, L’ombra di Ulisse, Bologna: Mulino, 1992. 22 Cfr. Franco Fortini, Asia maggiore, Torino: Einaudi, 1956. 23 Cfr. Gerald Brenan, The Face of Spain (1950), trad. it. di Donato Barbone, Il volto della Spagna, Bari: Leonardo da Vinci, 1954; Alberto Moravia, Un mese in URSS, Milano: Bompiani, 1958; Paul Hollander, Political Pilgrims: Travels of Western Intellectuals to the Soviet Union, China, and Cuba, 1928-1978 (1981), trad. it. di Loreto Di Nucci, Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba, Bologna: Mulino, 1988. IN VIAGGIO CON ERODOTO / 109 ro comparsa nella guerra di Crimea. Nell’ambito dell’Europa, una situazione di conflitto in cui recentemente i governi si sono contesi i favori dell’opinione pubblica distorcendo la realtà è quella che tra il 1992 e il 1997 ha visto come teatro di guerra i Balcani. In questo senso, resoconti di viaggio come il Cahier de Sarajevo (1993) di Juan Goytisolo, Un viaggio d’inverno (1996) di Peter Handke o Maschere per un massacro (1996) di Paolo Rumiz riescono a mettere in luce le bugie contrapposte della politica. Dietro la retorica, i corrispondenti di guerra scoprono la realtà di un’umanità sfaccettata e mai scontata, colorando le proprie riflessioni in chiave filosofica, come capita nei resoconti di Kapuściński.24 3. Se la letteratura odeporica è sopravvissuta alla fine dei viaggi è quindi perché ha sviluppato una poetica – quella dell’anti-turismo – che le ha dato i tratti di un’inchiesta conoscitiva, rimettendo in moto le possibilità narrative connesse con la dimensione del lontano. Ponendo in chiave meta-letteraria la domanda sul senso del viaggio, i resoconti degli anti-turisti si configurano come interrogatori della natura, che trasformano l’esperienza dello spazio in riflessione sull’identità. La portata di questo progetto poetico è espressa da un romanzo come Sulla collina nera (1983) di Chatwin. La collina del titolo simboleggia infatti la capacità dello spazio di influenzare la personalità dei protagonisti. Dalla sua sommità, si vedono da un lato il Galles e dall’altro l’Inghilterra. A seconda del versante che si scelga per la discesa, non solo si avrà davanti un itinerario diverso, ma, dal momento che strada e destino coincidono, si indirizzerà in maniera opposta il proprio futuro.25 La distanza tra il turismo e l’anti-turismo, tuttavia, è più sottile di 24 Phillip Knightley, The First Casualty: The War Correspondant as Hero, Propagandist and Myth Maker from the Crimea to Vietnam (1975), trad. it. di Giorgio Cuzzelli, Il dio della guerra, Milano: Garzanti, 1978; Juan Goytisolo, Cahier de Sarajevo, Strasbourg: Nuée bleue, 1993; Peter Handke, Eine winterliche Reise zu den Flüssen Donau, Save, Morawa und Drina oder Gerechtigkeit für Serbien (1996), trad. it. di Claudio Groff, Un viaggio d’inverno ai fiumi Danubio, Sava, Morava e Drina, ovvero Giustizia per la Serbia, Torino: Einaudi, 1996; Id., Sommerlicher Nachtrag zu einer winterlichen Reise (1996), trad. it. di Claudio Groff, Appendice estiva a un viaggio d’inverno, Torino: Einaudi, 1997; Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Roma: Editori Riuniti, 1996. Sulla storia dei corrispondenti di guerra, con particolare attenzione al rapporto tra la situazione italiana e quella anglosassone, cfr. inoltre Mimmo Cándito, I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet, Milano: Baldini & Castoldi, 2002. 25 Cfr. François Hartog, op. cit.; Bruce Chatwin, On the Black Hill (1983), trad. it. di Clara Morena, Sulla collina nera, Milano: Adelphi, 1986. 110 / LUIGI MARFÉ quanto gli scrittori di viaggio lascino intendere. L’errore cui la letteratura dell’anti-turismo non sempre sa sottrarsi è infatti quello di sostituire il Baedeker con guide più raffinate, come Joseph Addison provava ad orientarsi nell’Italia del XVIII secolo con il poema di Silio Italico. In questo senso, l’anti-turismo si macchia talvolta degli stessi difetti riscontrati da Edward Said in Orientalismo (1978): dal momento che l’unico canale attraverso il quale invita all’esperienza dei luoghi è quello libresco, il progetto conoscitivo degli scrittori di viaggio finisce per perdere ogni rapporto immediato con ciò che descrive. Leggendo L’impero dei segni di Barthes, si scopre ad esempio che il Giappone è solo un pretesto e che il viaggio non è animato dallo sforzo di aprire uno spiraglio di comprensione dell’altro nemmeno nelle intenzioni.26 Se lo strano potere di parola della letteratura di viaggio si misura nella saggezza guadagnata nell’esperienza del lontano di cui ha scritto Walter Benjamin nel saggio sul narratore (1935), la vera frontiera della letteratura di viaggio è oggi quella dei ‘contro-viaggi’ dei migranti che mettono in discussione le certezze dell’euro-centrismo. Nelle opere di scrittori come Hanif Kureishi o Caryl Phillips, e, più di recente, Monica Ali e Andrea Levy, l’Europa non è più il punto di partenza di una civiltà impegnata a esportare se stessa, ma, al contrario, è il punto di arrivo di moderne odissee, che disconnettono le certezze di superiorità della mentalità euro-centrica. Il valore di questi counter-travels è proprio nella loro capacità di rimettere in discussione i rapporti di forza tra le comunità migranti e le società che le accolgono. I termini della dialettica che istituiscono non sono più quelli del ‘noi e gli altri’, per dirla con Todorov, ma quelli plurali e frastagliati del mondo multi-culturale, in cui, come in un disegno frattale, i confini dell’identità di ciascuno appaiono labili e sempre pronti all’ibridazione.27 26 Cfr. Edward Said, Orientalism (1978), trad. it. di Stefano Galli, Orientalismo, Torino: Bollati Boringhieri, 1991; Roland Barthes, L’empire de signes, cit. 27 Cfr. Walter Benjamin, “Der Erzähler. Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows” (1935), trad. it. di Renato Solmi, “Il narratore. Considerazioni intorno all’opera di Nikolaj Leskov”, in Id., Angelus Novus, Torino: Einaudi, 1966, pp. 93-119; Tzvetan Todorov, Nous et les autres, cit.; Hanif Kureishi, The Buddha of Suburbia (1990), trad. it. di Maria Ludovica Petta, Il budda delle periferie, Milano: Leonardo, 1995; Caryl Phillips, The Atlantic Sound, New York: Knopf, 2000; Monica Ali, Brick Lane (2003), trad. it. di Lidia Perria, Sette mari tredici fiumi, Milano: Mondolibri, 2004; Andrea Levy, Small Island (2004), trad. it. di Laura Prandino, Un’isola di stranieri, Milano: Baldini Castoldi Dalai, 2005. Di countertravel writing parlano Patrick Holland e Graham Huggan in Tourists with Typewriters: Critical Reflections on Contemporary Travel Writing, Ann Arbor: University of Michigan Press, pp. 48-53, a proposito delle opere di Jamaica Kincaid e Caryl Phillips. IN VIAGGIO CON ERODOTO / 111 Non per questo va però negato il valore di un’operazione letteraria che ha rivoluzionato il modo di intendere la figura del viaggiatore e il suo rapporto con lo spazio, facendo proprie le intuizioni della narrativa modernista, come Heart of Darkness (1899) di Joseph Conrad. La letteratura di viaggio contemporanea scommette infatti che l’indagine dello spazio possa offrire un accesso obliquo alla questione dell’identità capace di superare l’impasse del dire narrativo. È questo il senso del titolo Che ci faccio qui? di Chatwin. Secondo la poetica di Theodor W. Adorno, per cui la forma saggio è sempre una sovrapposizione, in quanto discorso che parte da altri discorsi, la domanda ‘che ci faccio qui?’ è infatti un modo trasversale di porre le domande su ‘chi sono io?’ e ‘chi è l’altro?’ e rimettere in moto le possibilità della letteratura di essere uno strumento di conoscenza anche nell’epoca della fine di tutte le storie.28 In quest’ottica, il viaggiatore non riconquista l’identità come individualità compatta e immobile in se stessa, ma piuttosto come luogo dell’incontro tra le proprie convinzioni e la realtà dei luoghi che attraversa. Nei resoconti dell’anti-turismo, infatti, il percorso di ri-territorializzazione dello spazio descritto dalla geofilosofia di Deleuze è condotto in chiave metaletteraria, in virtù della coincidenza di viaggio e scrittura. Come ha notato Iain Chambers, il significato della letteratura odeporica dipende dalla sua capacità di riscattare lo spazio dalla condizione di nonluogo, intendendolo come magazzino di nuove narrazioni. Gli anti-turisti riadattano cioè allo spazio quella capacità di produzione poietica che Paul Ricoeur attribuiva al tempo raccontato, in quanto vestito cucito di storie.29 Non è un caso se il libro che ha più influenzato la rappresentazione letteraria del viaggio negli anni in cui l’anti-turismo rivoluziona le convenzioni del genere odeporico – Le città invisibili (1972) di Italo Calvino – sceglie come protagonista il primo viaggiatore occidentale, Marco Polo. Invitato da Kubilai Khan a visitare le città del suo impero e a riportare le sue impressioni di viaggio, il mercante veneziano intende i luoghi che at28 Cfr. Marc Augé, L’Impossible voyage, cit.; Bruce Chatwin, What Am I Doing Here?, cit. Questa interpretazione riprende argomentazioni già sviluppate da Antonio Gnoli, La nostalgia dello spazio, Milano: Bompiani, 2000. Sul rapporto tra il paesaggio e l’identità, cfr. anche Lawrence Durrell, “Landscape and Character”, in Id., Spirit of Place: Letters and Essays on Travel, a cura di A.G. Thomas, London: Faber & Faber, 1969, pp. 156-63. 29 Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, “Geophilosophie”, cit.; Iain Chambers, Border Dialogues: Journeys in Postmodernity (1990) trad. it. di Wanda Balzano, Dialoghi di frontiera. Viaggi nella postmodernità, Napoli: Liguori, 1995; Paul Ricoeur, Temps et récit (1983-1985), trad. it. di Giuseppe Grampa, Tempo e racconto, 3 voll., Milano: Jaca Book, 1986-1988. 112 / LUIGI MARFÉ traversa come episodi, facendo ogni volta sfumare le sue descrizioni in nuove storie da raccontare. Calvino scrive che il viaggio è uno specchio in negativo, che fa scoprire al viaggiatore il poco che è suo e il molto che non ha avuto e non avrà. Condannando melanconicamente il viaggio, poiché non può dare realtà ai desideri che l’hanno generato, Le città invisibili riaffermano però le sue possibilità di conoscere l’io – il poco del viaggiatore – e l’altro – il molto che gli resta precluso.30 Allo stesso modo, sempre sospesa tra utopia e disincanto, la letteratura di viaggio contemporanea affida alla dimensione meta-letteraria il progetto poetico di superare la fine dei viaggi e di riproporre il ruolo della letteratura nella conoscenza del mondo e dell’identità. È questa la scommessa ad esempio delle Vie dei canti. In viaggio tra gli aborigeni australiani, Chatwin scopre che il mito fondativo della loro cultura racconta la storia degli antenati che hanno creato il mondo, dando il nome a ogni cosa incontrassero mentre lo attraversavano. Gettati anche a centinaia di chilometri dalla zona in cui vivono, gli aborigeni di oggi saprebbero – secondo le Vie dei canti – ritrovare l’orientamento, cantando le Piste del Sogno dei predecessori. Con un cortocircuito di associazioni tra l’Australia e la poetica degli indistinti confini di Ovidio, Chatwin si lascia affascinare dall’idea della musica come banca-dati per trovare la strada. La sua scrittura si serve quindi del mito in chiave meta-letteraria, facendo coincidere il viaggio con la sua testualizzazione e sottolineando la portata poietica della letteratura odeporica. Nel momento in cui racconta un luogo, infatti, gli scrittori di viaggio contemporanei lo staccano dall’indistinto e ne ri-territorializzano il significato. Seguendo l’etimologia del tedesco, che lega il luogo (Ort) alla parola (Wort), Chatwin dimostra che nessun viaggio può fare a meno della scrittura, dal momento che le sue rotte sono sempre songlines, percorsi del canto, e quindi, in chiave meta-letteraria, del racconto. 30 Cfr. Italo Calvino, Le città invisibili, Torino: Einaudi, 1972. § 6 Gianpaolo Iannicelli Tra le crepe della memoria Dinamiche e criticità del processo di trasmissione del passato La ricerca sociologica sulla memoria ha sollecitato negli anni recenti prospettive, categorie, nessi e relazioni originali. In particolare, dato che la memoria pubblica nelle società moderne è sempre più una memoria pubblica mediata, di sicuro interesse si è rivelato lo sguardo orientato alle dinamiche e agli intrecci che si instaurano tra memorie e media.1 Inoltre, poiché la memoria collettiva è una rappresentazione comune di un certo passato, si assume che la memoria stessa e i momenti attraverso cui essa viene edificata siano fondati anche – se non soprattutto – su processi comunicativi. Ciò che resta ai margini di tali riflessioni è la questione della trasmissione intra- e intergenerazionale del patrimonio memoriale, sia che si tratti di piccoli gruppi, sia che si considerino comunità e società più ampie. Il nodo cruciale, il momento in cui una memoria collettiva è maggiormente a rischio di dispersione, di sgretolamento, è il passaggio di tale patrimonio da quegli individui o gruppi che hanno vissuto direttamente gli eventi ‘memorabili’ – ne hanno quindi una rappresentazione fattuale – alle generazioni successive, le quali, nella migliore delle ipotesi di una trasmissione riuscita, saranno portatori di una rappresentazione semantica.2 Secondo una tale prospettiva, sono molteplici i quesiti sui quali è opportuno riflettere: cosa si intende per “dovere della memoria”?3 Quale 1 Cfr. Paolo Jedlowski, Memoria, esperienza e modernità. Memorie e società nel XX secolo, Milano: FrancoAngeli, 2002; Marita Rampazi e Anna Lisa Tota (a cura di), Il linguaggio del passato. Memoria collettiva, mass media e discorso pubblico, Roma: Carocci, 2005. 2 Joël Candau, Memoire et identité (1998), trad. it. di Tommy Cappellini, La memoria e l’identità, Napoli: Ipermedium, 2002. 3 Emmanuel Kattan, Penser le devoir de la mémoire (2002), trad. it. di Tommy Cappellini, Il dovere della memoria, Napoli: Ipermedium, 2004. PARAGRAFO IV (2008), pp. 113-131 114 / GIANPAOLO IANNICELLI ruolo giocano i media e i diversi artefatti culturali? Agiscono in direzione di un ampliamento delle possibilità e dell’efficacia della trasmissione memoriale o, piuttosto, finiscono col produrre quella che è stata definita “agnosia dell’evento”?4 La logica della strage e dell’eccidio può in tal senso fornire elementi significativi di riflessione, in quanto se, da un lato, tali eventi rappresentano casi limite, forse unici, per le loro caratteristiche intrinseche, dall’altro, la loro unicità li rende paradigmatici ed esemplari, casi rispetto ai quali i temi qui affrontati si manifestano con maggiore evidenza. 1. La costruzione della memoria. Una questione di comunicazione La memoria collettiva è una rappresentazione comune di un certo passato, una narrazione dotata di senso per determinati gruppi, comunità, società. Ne consegue che l’esistenza stessa di una memoria e i momenti attraverso cui essa viene edificata siano fondati anche – se non soprattutto – su processi comunicativi. Guardare alla memoria da questa prospettiva porta a spostare il fuoco dell’analisi verso la comunicazione che vede coinvolti nella “sfera pubblica”5 i diversi soggetti civili e istituzionali implicati. Se prendiamo come esempio un tipo di evento paradigmatico qual è quello di una strage, di un attentato, allora uno dei momenti in cui può essere più evidente quello che si configura come un confronto-scontro tra le parti, laddove esso abbia luogo, è chiaramente il cerimoniale commemorativo. È in questa occasione che si può verificare la compresenza delle diverse componenti coinvolte, che le loro posizioni si articolano in maniera diretta e immediata. Il caso delle stragi italiane, poi, è reso ancora più peculiare dal sospetto di connivenza o, quanto meno, di depistaggio delle indagini da parte di apparati deviati dello Stato, tale da giustificare l’appellativo di ‘stragi di Stato’.6 Di conseguenza, l’incontro tra rappresen4 Cfr. Joël Candau, op. cit., p. 143. Qui intesa come quello spazio pubblico caratteristico delle moderne società democratiche all’interno del quale le convinzioni, le opinioni, le credenze e i principi dei cittadini a proposito di questioni di rilevanza collettiva si confrontano e si influenzano reciprocamente sulla base di argomentazioni razionali, in linea di principio, accessibili a tutti. Cfr. Jürgen Habermas, Strukturwandel der Öffentlichkeit (1962), trad. it. di Augusto Illuminati, Ferruccio Masini e Wanda Perretta, Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari: Laterza, 2002. 6 Un sospetto che non si fonda nel nulla, ma che trova terreno fertile – come nel caso, oggetto di una mia personale ricerca, della strage del treno 904 del 23 dicembre 1984 – 5 TRA LE CREPE DELLA MEMORIA / 115 tanti istituzionali e società civile assume spesso i toni aspri, se non dello scontro aperto, quanto meno della critica e della manifestazione di rabbia e sdegno. Una sorta di ‘guerra comunicativa permanente’ che continua anche attraverso altri mezzi, quali i comunicati e le conferenze stampa delle diverse associazioni di cittadini, gli articoli che appaiono sui giornali, gli spazi dedicati dalla televisione ad episodi di questa risma, le pubblicazioni da parte di studiosi, ricercatori, ecc. Così come strumenti di costruzione e comunicazione pubblica della memoria sono anche tutti quei simboli, quegli artefatti, quegli oggetti culturali nei quali possiamo scorgere tracce e segni che parlano del passato. 2. Il dovere della memoria Ma procediamo per gradi. È proprio dell’umano lasciare tracce di sé, della propria esistenza, attività, cultura. Una produzione di tracce che si è fatta via via più cosciente ed esplicita, fino a divenire, nella seconda metà del XX secolo, una vera e propria ossessione memoriale,7 un desiderio convulso e compulsivo di registrare il passato, di conservarlo e rievocarlo. Un “mal d’archivio”8 figlio di un’angoscia latente nelle società connotate da identità collettive e individuali sempre più precarie e instabili. Emmanuel Kattan definisce con molta precisione il momento di inizio di tale ossessione: “Dalla fine degli anni Ottanta, la preoccupazione del passato, nelle sue differenti manifestazioni – che si tratti della commemorazione dello sbarco alleato, della celebrazione del bicentenario della Rivoluzione francese o di gesti di pietà fatti in memoria delle vittime del nazismo – occupa un posto preponderante nello spazio pubblico. proprio nelle stesse indagini, le quali hanno seguito, per lo più in processi paralleli, l’ipotesi di coperture e sviamenti da parte di ufficiali e apparati corrotti dello Stato o di forze armate. Pur non essendoci mai state condanne in tal senso, è chiaro che in casi come questi, dove la verità, se non del tutto oscura, è sempre confusa, il solo sospetto finisce per rappresentare per il comune cittadino un dubbio legittimo. Cfr. Alexander Höbel e Gianpaolo Iannicelli, La strage del treno 904. un contributo dalle scienze sociali, Napoli: Ipermedium, 2006. 7 Cfr. Antonio Cavicchia Scalamonti, “Il peso dei morti ovvero dei ‘dilemmi di Antigone’!”, in Emmanuel Kattan, op. cit., pp. 7-24. 8 Jacques Derrida, Mal d’archive. Une impression freudienne (1995), trad. it. di Giovanni Scibilia, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Napoli: Filema, 1996. 116 / GIANPAOLO IANNICELLI Questo interesse accresciuto per la storia – e in particolare per i crimini della storia – si accompagna spesso a un’invocazione al ricordo, a un appello al ‘dovere della memoria’”.9 Un’espressione, quest’ultima, che a prima vista può apparire pacifica e scontata. A proposito, poi, di particolari fatti della storia, come le stragi, taluni pesanti crimini subiti da gruppi o interi popoli, l’obbligo di ricordare e, attraverso il ricordo, di impegnarsi affinché quanto accaduto non si ripeta, sembra diventare, almeno dal punto di vista morale, una certezza irrefutabile. 2.1. Apprendere dalla Storia Eppure, non appena ci si interroghi sui fondamenti normativi di un dovere della memoria e sul suo significato, emerge una serie di questioni complesse. È sempre auspicabile per una società il dovere della memoria? E a chi spetterebbe: all’individuo o, riguardando spesso eventi collettivi che questi, il più delle volte, non ha vissuto di persona, a gruppi specifici,10 intere comunità e soggetti istituzionali? Nel dibattito sul dovere della memoria è preponderante il ruolo difensivo che il ricordo può svolgere; l’idea secondo cui la storia impartisca delle lezioni da cui va tratto un insegnamento, perché chi dimentica il passato ne agevola il ripetersi, è tanto diffusa quanto costantemente invocata. Il problema, in questo caso, è che se guardandoci indietro possiamo scorgere con estrema chiarezza che cosa dobbiamo assolutamente evitare che si ripeta, quali sono gli sbagli commessi dai quali è auspicabile che si rifugga tanto nel presente quanto in futuro, non è altrettanto manifesto che cosa dovremmo o potremmo fare a tal fine; la storia, infatti, può mostrarci che cosa si deve evitare, ma non ci insegna che cosa fare. Certo è che se, ancora alle soglie del terzo millennio e ai suoi albori, abbiamo dovuto assistere a episodi di ‘purificazione etnica’, a stermini di massa e stragi terroristiche, allora sorgono legittimamente diversi dubbi e interrogativi. È del tutto ovvio che per sconfiggere fenomeni come il razzismo o il terrorismo non bastino solo delle pratiche commemorative sistematicamente reiterate; la corretta conservazione della memoria non può essere nella maniera più assoluta una condizione sufficiente a debellare piaghe 9 Emmanuel Kattan, op. cit., p. 29. Il riferimento qui è sia ai protagonisti diretti di una certa vicenda, sia a categorie sociali e a figure professionali come gli storici, gli intellettuali e gli altri scienziati sociali. 10 TRA LE CREPE DELLA MEMORIA / 117 così complesse che richiedono sforzi enormi in molte sedi – politiche, istituzionali, militari, ecc. – e, oggigiorno, concertati a livello internazionale. In ogni caso, viene da domandarsi se le modalità attraverso le quali ogni comunità sceglie di commemorare il proprio passato siano adeguate; se riescano, in altre parole, a tenere alta la soglia dell’attenzione nei confronti del potenziale ritorno delle tragedie della storia, a stimolare con efficacia uno stato di vigilanza collettivo e a veicolare una cultura dell’impegno civile. 2.2. Una memoria pacificata Non possiamo addentrarci in questa sede nel complesso dibattito inerente i soggetti più idonei a farsi carico del dovere della memoria – questione sulla quale si sono spese voci autorevoli come quelle di Primo Levi, Czeslaw Milosz, Paul Ricoeur e Yosef Yerushalmi. Innanzitutto, riprendendo alcuni degli interrogativi già emersi, si scorge l’altra faccia dell’appello al dovere della memoria, ovvero il rischio che un eccessivo attaccamento al passato risulti individualmente e collettivamente paralizzante – se non proprio controproducente.11 Allora, quale atteggiamento è da auspicare tra la necessità della memoria e le ‘virtù’ dell’oblio? Che tipo di condotta è opportuno assumere se, da un lato, sono evidenti i doveri morali e le esigenze pratiche che la memoria impone e, dall’altro, non possono essere negate nemmeno le contraddizioni, o addirittura le conseguenze nefaste, che un suo uso carico di rancore e desiderio di vendetta determina? È chiaro che ci si muove su un terreno sdrucciolevole alla ricerca continua di un equilibrio: quello, appunto, tra un richiamo ossessivo alla memoria di tutti i passati ambivalenti e dolorosi che potrebbe comportare abusi capaci solo di acuire le tensioni del presente e una prescrizione, talora troppo disinvolta, dell’oblio. Ciò che Kattan propone, allora, è una sorta di compromesso che non porti, però, alla costruzione di una memoria asettica, ovvero scevra da ogni antinomia – cosa fors’anche improponibile, impossibile da realizzare quando determinati passati sono controversi e contraddittori in sé: 11 Per una ricostruzione sintetica ma efficace di tale dibattito si rimanda al volume citato di Kattan. Si veda anche, in particolare per l’interessante concetto di “imprenditori morali della memoria”, Anna Lisa Tota, La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980, Bologna: Il Mulino, 2003. 118 / GIANPAOLO IANNICELLI Lo sforzo di riconciliazione con il passato ha una doppia funzione: contribuisce in primo luogo a impedire che i conflitti del passato siano rimessi in gioco nel presente; e in secondo luogo, permette agli eredi delle vittime di ieri di progettare il futuro in favore di una messa a distanza dei ricordi dolorosi che essi continuano a portare con sé. La ricerca di un tale ideale – che si potrebbe chiamare “memoria pacificata” – non presuppone la dissoluzione di ogni tensione, ma mira piuttosto a smorzare la logica del risentimento e il perpetuarsi della violenza”.12 Costruire una memoria pacificata vuol dire innanzitutto riconoscere e addossarsi la propria storia, non negarla, non rifiutarla, per quanto ‘scomoda’ essa possa essere. L’oblio può portare a una quiete solo superficiale e poco duratura: così come sul piano individuale, anche collettivamente si è verificato talvolta nel corso della storia un ritorno del rimosso. Per tacitare una coscienza turbata da ricordi di ingiustizie e torti subiti è più efficace compiere un’operazione di pacificazione della memoria che perseguire l’occultamento del passato, in quanto la negazione di ciò che è accaduto non incide sulle cause che sono all’origine delle tensioni attuali, non ne favorisce l’elaborazione e l’accettazione. Laddove, al contrario, ricercare la pace della memoria vuol dire – come in una sorta di ‘psicanalisi collettiva’ – confrontarsi apertamente con i motivi del dolore determinati dal ricordo e con le problematiche relative alle modalità di conservazione, di rappresentazione e di trasmissione del passato. A tale scopo, è necessario riflettere con pacatezza ed equanimità sulla propria storia, fare i conti con essa piuttosto che cancellarla da ogni orizzonte presente e futuro. Dunque, compiere un lavoro di memoria vuol dire assegnare al passato un posto di rilievo nel proprio presente affinché esso possa recitare un ruolo significativo nell’edificazione e nello svolgimento del percorso di vita. Il passato deve integrarsi, prima in forma narrativa e poi fattivamente, nell’elaborazione del racconto di vita soggettivo e di gruppo. Ciò avviene tramite un processo che potremmo definire di costruzione sociale della memoria, in quanto questa viene esteriorizzata attraverso le narrazioni e le rappresentazioni collettive, poi prende la forma dei diversi artefatti culturali attraverso i quali viene oggettivata e infine integrata nell’esperienza personale e di gruppo. Con terminologia e approccio diversi, una delle funzioni principali della narrazione, sul piano sociale, è quella di permettere la classificazione e l’interpretazione di ciò che viviamo at12 Emmanuel Kattan, op. cit., p. 129. TRA LE CREPE DELLA MEMORIA / 119 traverso la diffusione fra i membri di una società di modelli cognitivi comuni.13 Una siffatta integrazione dà luogo a tre dinamiche molto rilevanti.14 In primo luogo, vi è un immediato beneficio apportato dalla narrazione, dalla ‘messa in racconto’ della propria esistenza: infatti, per suo tramite è possibile interporre una distanza fra sé e un passato doloroso o comunque opprimente. In altre parole, l’inserimento del passato in una storia di vita integrale e lineare può liberare un potenziale terapeutico nei confronti degli aspetti più traumatici legati a un certo ricordo. Nel senso che, considerando la successione degli eventi biografici come un tutto coerente, vengono dotati di senso e significato anche i singoli eventi che compongono l’insieme, cioè il percorso esistenziale complessivo. Si giunge a conclusioni del tutto analoghe pure considerando la questione nell’ottica della psicologia cognitiva, in particolare quella elaborata da Bruner, secondo la quale le rappresentazioni delle esperienze fatte attraverso la narrazione forniscono degli schemi che rendono un soggetto più capace di interpretare la propria biografia.15 È anche una questione di oggettivazione, per l’appunto: il ricordo, una volta raccontato, messo a distanza attraverso la narrazione, diviene cosa altra rispetto al soggetto, esiste – in senso fenomenologico – indipendentemente dall’intenzionalità della coscienza dell’individuo, cessando di gravare su questa. In secondo luogo, la narrazione svolge una funzione liberatoria ristabilendo la continuità che l’evento tragico aveva spezzato. Quello che era un punto di rottura, una frattura di una biografia o della storia di una collettività diventa, attraverso il racconto, parte di un flusso continuo e ininterrotto che arriva fino al presente ed è rivolto parimenti al futuro e perciò più agevolmente rappresentabile come parte integrante dell’identità. Infine, essendo impossibile una ritenzione del passato nella sua interezza, la narrazione, occupandosi di certi avvenimenti, ne lascia fuori degli altri; in altre parole, essa opera una selezione includendo gli elementi 13 Cfr. Jerome Bruner, “La costruzione narrativa della ‘realtà’”, cit. in Paolo Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Milano: Bruno Mondadori, 2000, p. 49. 14 Le espongo qui in estrema sintesi, rimandando per gli approfondimenti al già menzionato volume di Kattan, pp. 129-142. Sulle funzioni e i benefici della narrazione si vedano anche Antonio Cavicchia Scalamonti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Napoli: Ipermedium, 2007, pp. 142-45, e Paolo Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, op. cit. 15 Cfr. Jerome Bruner, In Search of Mind: Essays in Autobiography (1983), trad. it. di Silvano Chiari, Autobiografia. Alla ricerca della mente, Roma: Armando, 1984. 120 / GIANPAOLO IANNICELLI che presentano una qualche utilità attuale per la collettività ad esclusione di quelli che non presentano alcun interesse. Certo, ci sono passati così controversi, eventi tanto drammatici e inspiegabili che il loro inserimento in una memoria pacificata risulta un’operazione ostica. È come se determinati momenti della storia fossero intrinsecamente resistenti a ogni tentativo di messa in racconto. Difficoltà del genere presenta, ad esempio, la Shoah. E non soltanto per il popolo ebraico, si badi bene, ma anche per lo stesso popolo tedesco: per il primo l’integrazione narrativa può addirittura minacciare e destabilizzare l’identità piuttosto che rinsaldarla. E lo stesso discorso, rovesciato, vale per il secondo: come è possibile inserire positivamente un evento che provoca vergogna e senso di colpa in una narrazione che non sia di peso per le coscienze? In altri termini, per poter perseguire l’ideale di una memoria pacificata non basta accettare, imparare e trasmettere un certo passato, né affermare semplicemente che bisogna integrarlo nei racconti, nelle prospettive, nei progetti e nelle azioni presenti di un gruppo, ma c’è bisogno che vengano esplicitati e forniti gli strumenti per comprendere in che modo e in che senso un evento carico di valenze negative possa essere pertinente con una certa identità.16 Ne consegue che, talvolta, mettere un punto ai discorsi sul passato, sulle interpretazioni da attribuirgli e sull’uso che se ne deve fare è cosa impossibile. In questi casi, accettare di continuare a dibattere vuol dire essere obbligati ad accettare anche, e senza soluzione di continuità, la controversia, la polemica, lo scontro. Allora, si domanda Kattan, non sarebbe preferibile per una comunità tacere una volta per tutte e abbandonarsi all’oblio? Che cosa induce una collettività a rivivere costantemente i suoi conflitti passati? Perché questo passato continua a invadere lo spazio pubblico e il presente? Forse perché la modernità ha cambiato alcune cose decisive: nelle società tradizionali la memoria collettiva si manteneva ‘viva’ e dinamica fornendo al gruppo un universo simbolico totalizzante, cioè un quadro d’insieme che comprendeva i momenti fondatori e la tra16 Per continuare con lo stesso esempio, la pertinenza del genocidio nazista per l’identità del popolo tedesco, o meglio la pertinenza della memoria di quell’evento, sta nel fatto che esso può fungere da sostrato per l’edificazione di uno Stato fondato sui valori della democrazia e della libertà. Il che non significa voler fissare per sempre la colpevolezza tedesca o che l’odierna vita democratica della Germania sia basata su un debito o su una vergogna perenni, ma soltanto affidare a questo popolo una responsabilità particolare, quella di essere sentinella principale e universale a difesa della giustizia e dei diritti umani. TRA LE CREPE DELLA MEMORIA / 121 dizione del gruppo stesso in base alla quale era possibile spiegare e interpretare il presente. I miti delle origini e tutti i passaggi più rilevanti in chiave identitaria venivano riattualizzati e trasmessi attraversi i riti e le celebrazioni. Ma ora che questo rapporto si è dissolto, ora che la storia e la memoria si sono separate sotto i colpi di una serie di processi sociali e culturali – l’individualizzazione, la secolarizzazione, il weberiano Entzauberung – il passato ci si presenta come un ‘buco nero’, una landa inospitale nella quale non sappiamo più vivere. Il che ci disorienta, e allora il suo continuare a essere sempre presente e nel presente indica forse il bisogno di riannodare i fili spezzati con quel qualcosa senza il quale pare che non si diano né l’identità, né la cultura stessa: la propria memoria collettiva. Allora, meglio una memoria permanentemente controversa e conflittuale, meglio una memoria in incessante fermento che non una memoria tacitata e che, proprio in quanto tale, non ha più alcuna vitalità. 3. Conservazione e trasmissione della memoria La memoria, oltre agli individui e ai gruppi che ne sono portatori, svolge essa stessa alcune importanti funzioni sociali. È ormai chiaro il suo legame con la fondazione dell’identità culturale di una collettività; ma in che modo, e attraverso quali processi, la memoria edifica un’identità? Condizione affinché ciò si verifichi è la condivisione di una serie di elementi, tra i quali lingua, convenzioni verbali (che, secondo Halbwachs, costituiscono il quadro sociale della memoria collettiva più elementare e più stabile allo stesso tempo),17 saperi, conoscenze, credenze, stili, comportamenti, ecc. Tale comunanza non sarebbe possibile senza un’adeguata trasmissione della memoria intesa, appunto, come patrimonio culturale. E questo perché la socializzazione, l’educazione e l’apprendimento non avrebbero né fondamenta né contenuto, ma sarebbero dei processi da fondare e rifondare ogni volta, da porre in questione di continuo. Ma, se così fosse, l’esistenza stessa – senza la possibilità per i soggetti di ‘mettere tra parentesi’, secondo l’insegnamento fenomenologico,18 una serie di conoscenze e pra17 Cfr. Maurice Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire (1925), trad. it. di Gianfranco Brevetto, Luciana Carnevale, Gianfranco Pecchinenda, I quadri sociali della memoria, Napoli: Ipermedium, 1997. 18 Cfr. Peter Berger e Thomas Luckmann, The Social Construction of Reality (1966), trad. it. di Marta Sofri Innocenti e Alessandra Sofri Peretti, La realtà come costruzione sociale, Bologna: Il Mulino, 1969. 122 / GIANPAOLO IANNICELLI tiche diventate scontate attraverso le routines, di considerare scontati e aproblematici ampi ambiti della vita – sarebbe impossibile. Invece, se l’uomo non è una monade ma un essere sociale, è perché la trasmissione intra- e intergenerazionale del patrimonio culturale è incessantemente all’opera e gli consente, così, di essere immerso costantemente in un milieu socio-culturale onnicomprensivo. Nelle parole di Joël Candau, “[a] partire da questo apprendimento – adattamento del presente a un futuro organizzato a partire da una reiterazione del passato –, egli costituirà la sua identità, in particolare nella sua dimensione protomemoriale. In uno stesso gruppo, questa trasmissione ripetuta un gran numero di volte e diretta a un gran numero di individui sarà alla base della riproduzione della società considerata”.19 Una trasmissione che non è mai un atto meccanico di trasferimento di un’eredità memoriale sempre uguale a se stessa, ma invece, “per prestarsi alle strategie identitarie, essa deve assumere il ruolo complesso della riproduzione e dell’invenzione, della restituzione e della ricostruzione, della fedeltà e del tradimento, del ricordo e dell’oblio”.20 3.1. Le vie della trasmissione Ma attraverso quali vie e quali supporti avviene la trasmissione? Fatta eccezione per le comunità tradizionali e quelle di piccole dimensioni nelle quali la comunicazione orale è sufficiente a trasferire all’individuo il bagaglio culturale di cui ha bisogno, un ruolo preponderante lo ha avuto la scrittura, e in particolare la stampa. Tali mezzi, permettendo di comunicare e socializzare grandi masse a un patrimonio culturale fissato e reso stabile dal supporto materiale impiegato, forniscono certamente, più del racconto orale, una maggiore quantità di elementi per la costruzione e la trasmissione della memoria collettiva e consentono, al contempo, di raggiungere strati più vasti di popolazione. Anche se dobbiamo ricordare che il rapporto tra scrittura – e più in generale tra tutte le tecnologie del ricordo – e memoria resta problematico: la scrittura, infatti, può anche favorire la messa a distanza critica della tradizione.21 19 Joël Candau, op. cit., p. 128. Ivi, pp. 128-29. 21 Su questo argomento, vasto quanto affascinante, sul quale aveva già riflettuto Platone nel Fedro, si vedano gli studi, ormai classici, di Eric A. Havelock, Muse Learns to Write (1986), trad. it. di Mario Carpitella, La musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi, Bari-Roma: Laterza, 1987, e Walter J. Ong, Ora20 TRA LE CREPE DELLA MEMORIA / 123 Diventa, quindi, basilare la selezione di ciò che si deve conservare e trasmettere, nonché la questione della ricezione. E qui le società moderne mostrano una contraddizione di fondo, un paradosso: le abnormi possibilità di archiviare dati, infatti, rendono complicata la selezione di quanto sia realmente utile e opportuno trasmettere tra la grande quantità di materiale a disposizione. Nelle comunità orali tale problema non si poneva; il contatto diretto, ‘vissuto’, tra le persone, l’assenza di mediazioni, in definitiva “l’autenticità delle relazioni” consentivano l’immersione totalizzante del singolo nell’universo simbolico di riferimento del proprio gruppo.22 Ma la complessità caratteristica delle società attuali necessita di criteri in grado di orientare la selezione.23 Per di più, in questa situazione di sovrabbondanza di informazioni, persino la ricezione diventa problematica, poiché le capacità individuali di immagazzinare e trattare tutto ciò che viene trasmesso non sono affatto illimitate, anzi, sono piuttosto ridotte se confrontate alla vastità delle conoscenze disponibili. E la differenza col passato, secondo alcuni, è netta: “La complessità del mondo attestata dalla massa enorme di informazioni disponibili in modo così atomizzato, è sempre meno assoggettabile a quella messa in ordine quasi spontanea che assicurava la memoria collettiva individuandovi concatenamenti esplicativi”.24 Il risultato è che la memoria finisce col somigliare sempre di più a un simulacro e che le risorse necessarie all’edificazione e al mantenimento dell’identità collettiva si indeboliscono e si disperdono: In fin dei conti, la trasmissione è tanto emissione che ricevimento. L’efficacia di questa trasmissione, cioè la riproduzione di una visione del mondo, di un principio d’ordine, di modi d’intelligibilità della vita sociale suppone l’esistenza di ‘produttori autorizzati’ della memoria da trasmettere: famiglia, antenati, capi, maestri, precettori, guerrieri, eruditi, ecc. Fintanto che essi saranno riconosciuti dai ‘riceventi’ come i depositari della lity and Literacy. The Technologizing of the Word (1982), trad. it. di Rosamaria Loretelli, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna: Il Mulino, 1986. 22 Cfr. Claude Lévi-Strauss, Antropologie structurale (1958) trad. it. di Paolo Caruso, Antropologia strutturale, Milano: Il Saggiatore, 1966. 23 Per un approfondimento di questa tematica – qui necessariamente solo evocata – in chiave storica, filosofica e semiotica, si veda Umberto Eco, Dall’albero al labirinto. Studi storici sul segno e l’interpretazione, Milano: Bompiani, 2007. 24 Danièle Hervieu-Léger, La religion pour mémoire (1993) trad. it. di Aldo Pasquali, Religione e memoria, Bologna: Il Mulino, 1996. 124 / GIANPAOLO IANNICELLI memoria ‘vera’ e legittima, la trasmissione sociale assicurerà la riproduzione delle memorie forti. In compenso, quando i guardiani e i luoghi della memoria diventano troppo numerosi, quando i messaggi trasmessi sono innumerevoli, ciò che è trasmesso diventa sfumato, indefinito, poco strutturante e i ‘riceventi’ hanno un margine di manovra molto più grande che permetterà ad essi, a loro modo, di ricordare o di dimenticare.25 Con particolare riferimento alla trasmissione del passato che si realizza attraverso la profusione di immagini televisive, Candau sostiene che essa “produce un’agnosia dell’evento: questo non è più che una successione di piani percepiti senza durata e indipendenti gli uni dagli altri, più o meno de-realizzati e il cui senso sfugge in gran parte allo spettatore. A partire da una determinata soglia, la densificazione della memoria iconica rende più difficile lo sviluppo di una memoria semantica”.26 Ma la questione centrale qui non è quella relativa alla trasmissione della memoria come patrimonio culturale, quanto piuttosto il problema più specifico della trasmissione, o meglio della trasmissibilità, della memoria di eventi tragici; è qui, infatti, che si annidano le maggiori criticità e i problemi per la sopravvivenza della memoria e, soprattutto, di una “giusta memoria”:27 di fronte all’orrore di una strage, all’insensatezza di uno sterminio, alla crudeltà di un qualsiasi abominio è davvero possibile raccontare, e quindi trasmettere, il dolore delle vittime, la stessa realtà delle loro sofferenze o questi sono indicibili? Quali sono gli strumenti più efficaci a tale scopo? Si è già accennato al ruolo degli storici; ma c’è chi considera il loro lavoro troppo asettico per trattare una materia che, se ha la velleità di essere adeguatamente ricevuta e di diventare memoria collettiva, deve parlare 25 Joël Candau, op. cit., p. 155. Occorre però sottolineare il fatto che anche in seno alla modernità continuano a sussistere molteplici vie di trasmissione del patrimonio memoriale che consentono di mantenere una qualche fedeltà alla tradizione. Parlo di tutti quei rituali, quelle azioni consuetudinarie, i costumi, le abitudini, le pratiche informali e istituzionalizzate che, agite nel corso della vita quotidiana nelle relazioni interpersonali, danno continuità e durata a una certa cultura. Si tratta, essenzialmente, della perpetuazione di forme protomemoriali, cioè di attitudini, di condotte, di modi appropriati di stare al mondo costituiti da disposizioni poste nel corpo, ossia frutto di un’acquisizione inconsapevole, piuttosto che di una trasmissione esplicita, derivante dall’immersione degli individui nella società fin dalla loro nascita. 26 Ivi, p. 143. 27 Paul Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli (2000), trad. it. di Daniella Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Milano: Raffaello Cortina, 2003. TRA LE CREPE DELLA MEMORIA / 125 anche – forse soprattutto – la lingua dell’emotività, del pathos. Ecco perché Paul Celan e Jorge Semprun, tra gli altri, credono che solo attraverso la letteratura si renda possibile la trasmissione, mentre non manca chi ritiene che di fronte all’orrore, alla ‘verità’ dell’inferno, sia possibile soltanto il silenzio.28 La trasmissione della memoria emerge insomma con tutta la problematicità che Primo Levi enunciava in I sommersi e i salvati, là dove indicava la tensione fra il dovere di dialogo con i giovani, e il rischio di sembrare anacronistici, di non essere ascoltati.29 3.2. La scomparsa delle ‘memorie viventi’ e la Visual History Foundation La criticità della trasmissione si farà ancor più viva quando i testimoni di tragedie e orrori che hanno squassato il Novecento saranno scomparsi. Il problema è generalizzabile a ogni altro evento, certo, ma è particolarmente sentito in relazione all’esperienza della Shoah in quanto unicum. È anche vero che, a proposito dei misfatti dei totalitarismi, sono stati più insistenti e reiterati i tentativi di revisione, di negazione, di occultamento; almeno in questo caso, l’ossessione memoriale si lega all’ansia di perdita dei superstiti, delle ‘memorie viventi’ appunto, cioè di coloro che oggi possono ancora opporre la propria testimonianza alla manipolazione della storia. “Bisognerà ormai fare affidamento ai soli documenti”, scrive Kattan: “Non sarà più dato nessun accesso diretto al passato. La risposta alla domanda ‘cosa è successo?’ non potrà più essere trovata se non negli archivi, negli artefatti, nei libri di storia. Più nessuno potrà dire: ‘io c’ero’ e opporre la sua memoria di uomo ai tentativi di manipolazione del passato”.30 È molto significativo in questo senso, ad esempio, il progetto nato da un’idea del regista Steven Spielberg, il quale nel 1994, dopo aver condotto a termine le riprese di Schindler’s List, fondò la Survivors of the Shoah Visual History Foundation allo scopo di raccogliere e conservare il maggior numero possibile di testimonianze audiovisive filmando, appunto, le interviste realizzate con superstiti e altri testimoni del genocidio nazista. La fondazione è attualmente impegnata nello sforzo di rendere accessibile il suo intero archivio a chiunque, in tutto il mondo, voglia servirsene come risorsa educativa. L’intento è estremamente chiaro e reso esplicito dallo slogan che campeggiava in maniera evidente sulla home page del pre28 Antonio Cavicchia Scalamonti, “Il peso dei morti”, cit., p. 23. Cfr. Emmanuel Kattan, op. cit., p. 33. 30 Emmanuel Kattan, op. cit., p. 83. 29 126 / GIANPAOLO IANNICELLI cedente sito web della fondazione: “Per sconfiggere il pregiudizio, l’intolleranza, l’estremismo – e le sofferenze ad essi dovute – attraverso l’uso didattico delle testimonianze di storia visuale della Fondazione”.31 In questo è affiancata dall’organizzazione Facing History and Ourselves, il cui impegno è rivolto al coinvolgimento di studenti di diversa estrazione socioculturale in tematiche quali il razzismo, l’antisemitismo, l’etica e il senso di responsabilità, allo scopo di promuovere lo sviluppo di una società più informata, più umana e, di conseguenza, meno conflittuale. Il progetto è ambizioso e presenta spunti di riflessione interessanti. A una prima e più superficiale lettura potrebbe apparire come l’ennesimo indizio della compulsione memoriale che la modernità sta vivendo, con tutte le varianti e le possibilità che le tecnologie, di volta in volta, offrono; di quel frenetico produrre e conservare tracce che, con-fuse tra tantissime altre in un flusso indifferenziato, rischia di diventare uno sterile esercizio di archiviazione di per sé poco capace di costruire memorie. Ma in realtà, a mio parere, sono proprio la presa di coscienza del problema della scomparsa delle ‘memorie viventi’ e una conseguente attenta riflessione sulla questione della trasmissione e della comunicazione intergenerazionale i punti di partenza che hanno ispirato la fondazione. Ne sia prova il fatto che la raccolta delle testimonianze non resta fine a se stessa, né soltanto mira a commemorare le vittime o a rafforzare o rifondare l’identità di questo o quel popolo coinvolto: c’è, nell’operato della fondazione, una consapevolezza del fatto che accumulare artefatti e segni del passato non significa automaticamente costruire e trasmettere una memoria collettiva, e tale consapevolezza si traduce in un lavoro attivo di ricerca dei metodi più efficaci per una trasmissione della memoria che raggiunga davvero lo scopo di inserire in maniera significativa la storia nell’orizzonte della vita delle persone, di incorporarla nelle loro esperienze quotidiane. Secondo quanto afferma Margot Stern Strom, direttrice di Facing History and Ourselves, gli studenti che partecipano al progetto, dopo aver guardato e ascoltato le testimonianze dei sopravvissuti, provano rabbia, indignazione, confusione; poi, grazie alla guida dei loro insegnanti, riescono a inquadrare, attraverso il confronto con la storia e i temi da essa posti, questioni etiche generali nei termini pratici delle scelte che si pre31 Allo stato attuale la fondazione conta oltre 52.000 testimonianze raccolte in 57 paesi e in 32 lingue diverse (www.usc.edu/schools/college/vhi/ oppure www.vhf.org). TRA LE CREPE DELLA MEMORIA / 127 sentano loro quotidianamente nel corso della vita; apprendono che la storia stessa non è un fatto ineluttabile, ma una questione di decisioni concrete, anche piccole, prese da uomini concreti come loro e che, quindi, ogni scelta comporta una responsabilità. Una forma e un’intensità di coinvolgimento probabilmente non raggiungibile da nessun libro di testo, da nessuna lezione scolastica convenzionale, da nessun altro metodo o strumento didattico più tradizionale. Se dunque il problema della modernità – come ha fatto notare Simmel – è quello di colmare la sproporzione enorme che si è prodotta tra “sapere oggettivo” e “sapere soggettivo”32 – ovvero tra la massa di informazioni socialmente disponibili e le capacità individuali di appropriarsene significativamente – tra passato ed esperienza, tra storia e memoria, progetti e metodi educativi e formativi di questo tipo sembrano poter contribuire a colmare, o quanto meno arginare, tale scarto. La fondazione ambisce a dare il proprio contributo, insieme con studiosi, ricercatori, insegnanti, educatori e documentaristi, allo sviluppo e alla diffusione di metodologie di insegnamento della storia innovative e più efficaci, che mirino, cioè, a elaborare il passato e ad assumerlo come parte costitutiva del presente che viviamo e del nostro futuro. Ma al di là della valutazione dell’impatto di tali istituzioni, ciò che da un punto di vista sociologico è interessante cogliere è la presa di coscienza del problema della scomparsa delle memorie viventi e delle conseguenti strategie che diversi attori sociali pongono in essere. Che poi queste possano anche fornire una risposta appropriata alle preoccupazioni di Levi sulle possibilità di trasmissione della memoria, sul dialogo con le generazioni future e sui rischi di essere anacronistici è ancora tutto da vedere. Di certo, se ciò che più occorre è un nuovo linguaggio fatto non tanto di termini originali, quanto proprio di nuovi codici espressivi e registri comunicativi, un linguaggio che abbia la caratteristica di essere logopatico,33 ovvero razionale e affettivo al medesimo tempo, in modo da generare un impatto che possa consentire un contatto più profondo con l’oggetto rappresentato, il mezzo audiovisivo è il più indicato, forse l’unico che presenti tale caratteristica. Nelle parole di Antonio Cavicchia Scalamonti, 32 Cfr. Georg Simmel, Die Großstädte und das Geistesleben (1903), trad. it. di Paolo Jedlowski e Renate Siebert, Le metropoli e la vita dello spirito, Roma: Armando, 1995. 33 Cfr. Julio Cabrera, Cine: 100 años de filosofía. Una introduccíon a la filosofía a través del análisis de películas (1999), trad. it. di Marco Di Sario, Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Milano: Bruno Mondadori, 2000. 128 / GIANPAOLO IANNICELLI Che significano sei milioni di morti? O sette? O tredici? O i venti denunciati da Kruschov durante il regime staliniano? Come viviamo questa informazione? Questi sono numeri, nient’altro che numeri, con poco senso! […] D’altronde, se lo scopo è la trasmissione, il problema è innanzitutto l’efficacia d’essa. Che trasmissione sarebbe se non arrivasse a segno! Inoltre, va detto che i fatti storici sono fatti umani, fatti cioè compiuti dagli uomini. La verità d’essi, quella da comunicare, non può essere solo razionale. Specie se alla razionalità si attribuisce quel carattere di freddezza e di controllo delle emozioni che dovrebbero definirla. È noto che alcuni eventi, per essere pienamente compresi, vanno vissuti o rivissuti affettivamente. Il che implica che la trasmissione richiede la capacità di un discorso razionale ma anche emotivamente valido!34 4. Codici espressivi e forme culturali della memoria Avendo accennato ad alcuni percorsi e strumenti di trasmissione memoriale, è opportuno accennare al rapporto tra le forme culturali in cui le memorie si cristallizzano, i mezzi attraverso cui vengono comunicate, i contesti della fruizione di questi artefatti e i contenuti e la possibilità stessa dell’attività del ricordare. Le forme in cui può sedimentarsi una memoria sono svariate: da quelle naturalmente considerate tali, come i monumenti, le statue, le targhe, le lapidi, fino ai diari, ai libri, alle canzoni, ai film, agli spettacoli di vario genere. Ognuno di questi mezzi parla, ovviamente, un linguaggio diverso, usa il codice espressivo che gli è proprio. E differenze non trascurabili ci sono anche tra i differenti generi peculiari a ciascuno di essi; ad esempio, così come è certamente diverso apprendere un determinato fatto storico da un libro di testo piuttosto che leggendo una targa commemorativa o ascoltando una canzone ad esso ispirata, fa ugualmente differenza che il libro letto sia un saggio o un romanzo, un pamphlet o una raccolta di poesie, o che il prodotto audiovisivo a cui si assiste sia un documentario, un film o una testimonianza da parte di un osservatore diretto dell’evento in questione. E così via fino a continuare con ulteriori distinzioni tra i sottogeneri: un film come Schindler’s List suscita sicuramente sensazioni e riflessioni diverse, almeno in parte, da quelle che può stimolare La vita è bella di Benigni. Si tratta di differenze logopatiche appunto, essendo 34 Antonio Cavicchia Scalamonti, La morte, op. cit., pp. 137-38. TRA LE CREPE DELLA MEMORIA / 129 diverse le emozioni coinvolte e i bisogni di comprensione, di conoscenza storica e di approfondimento che ne scaturiscono. Se dunque è vero, con McLuhan, che “il mezzo è il messaggio”, è chiaro che la scelta di utilizzare un certo codice rispetto a un altro non è indifferente, non è neutrale: non lo è innanzitutto perché condiziona i contenuti stessi dell’attività del ricordare, in quanto la struttura del mezzo ne vincola i gradi di libertà espressiva. Inoltre, non lo è per i processi di ricezione che vengono attivati: trattandosi per lo più di prodotti estetico-culturali, il fruitore si porrà nei confronti di questi artefatti adottando prima di tutto schemi cognitivi e comportamenti tipici per quell’oggetto. Tipici perché socialmente determinati e influenzati dalle esperienze simili precedentemente vissute dal soggetto più che rispondenti a dinamiche strettamente individuali. Infine, è il contesto stesso della fruizione – come attestato da diversi studi e teorie della sociologia della comunicazione35 – a rendere rilevante la scelta del codice espressivo. È evidente che essere in classe o a un concerto, in una piazza di fronte a un monumento o al cinema, a una commemorazione o a casa propria guardando una fiction in tv non è la stessa cosa: anche in questo caso il nostro essere immersi in una società, nella sua cultura, nei suoi ruoli, nelle sue regole di condotta, ci porterà ad assumere in ogni singolo caso atteggiamenti e condotte peculiari. Dunque, l’efficacia di un certo codice espressivo e l’adeguatezza di una determinata forma commemorativa in relazione all’evento da ricordare dipendono da tutti gli elementi appena discussi, comprese le caratteristiche delle persone alle quali essi si rivolgono. Il problema più sentito resta sempre quello della trasmissione ai giovani, ma più in generale a tutti coloro i quali non hanno vissuto in prima persona quel passato che si cerca di ricordare e trasmettere. E si sa che i giovani sono più sensibili a quelle forme espressive che essi sentono più vicine, quelle che riescono a parlare loro suscitando il maggior coinvolgimento possibile, cioè proprio la musica e il cinema. È giocoforza, allora, chiedersi se non sia proprio attraverso questi media e i loro rispettivi linguaggi che bisogna cercare di farsi prestare attenzione dai giovani, da chi non c’era e, perciò, non sa; se non sia parlare la lingua di chi dovrebbe ascoltare il modo migliore di trasmettere una vera memoria collettiva, ovvero pezzi di passato socialmente e individualmente dotati di senso e coerenza. 35 Cfr. Roberto Grandi, I mass media fra testo e contesto. Informazione, pubblicità, intrattenimento, consumo sotto analisi, Milano: Lupetti, 1994. 130 / GIANPAOLO IANNICELLI D’altro canto, non è ingiustificato sollevare un dubbio: e se, per esempio, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti smettessero di essere due immigrati italiani, due anarchici ingiustamente condannati a morte negli Stati Uniti nel 1927,36 per diventare solo i protagonisti di una canzone (la ballata di Joan Baez ispirata alla loro vicenda) o di un film (quello di Giuliano Montaldo del 1971) su un vecchio caso giudiziario? E se le donne che ballano da sole nella canzone They Dance Alone37 di Sting venissero ricordate poeticamente come persone che esprimono il dolore danzando senza però sapere il perché, cioè perdendo di vista il momento e le vicende storiche cui la canzone fa riferimento (ovvero gli anni del regime dittatoriale di Pinochet in Cile e dei desaparecidos)?38 In altre parole, quello che sto cercando di dire è che se la trasmissione e la conoscenza del passato fatte attraverso registri narrativi ‘sensibili’ si slegassero troppo da un apprendimento e una comprensione dei fatti storici che vadano di pari passo, l’efficacia della memoria potrebbe risultarne minata al pari della situazione in cui l’eccessiva impersonalità e ‘asetticità’ dei codici espressivi e dei contesti di fruizione della trasmissione memoriale rischiano di dar luogo a un corto circuito della ricezione. È per questo ordine di ragioni che è plausibile ipotizzare – affinché l’ideale del “dovere della memoria” possa imboccare la strada della concretizzazione evitando di alimentare solo un’utopia o sterili retoriche – la 36 Lo stesso governatore del Massachusetts, cinquant’anni dopo l’esecuzione, nel 1977, al termine di un lungo e approfondito esame dell’ufficio legale dello Stato, pronunciò una dichiarazione di riabilitazione dei due anarchici sostenendo che il processo attraverso il quale essi furono condannati fu “scorretto” e “viziato da pregiudizi contro gli stranieri e i dissidenti”. 37 They Dance Alone è la traduzione dello spagnolo Gueca Solo, nome di una danza tradizionale cilena che più recentemente è stata usata come forma di espressione di dolore per la perdita delle persone care e di protesta politica. Questa canzone nasce da un percorso molto significativo a proposito dei discorsi affrontati in questo e nei precedenti paragrafi. Sting sostenne la fondamentale differenza tra il leggere o il sentir parlare della tortura e l’esperienza di ascoltarne i racconti direttamente dai protagonisti. La scrisse, infatti, dopo aver conosciuto e parlato di persona a ex prigionieri politici che erano stati vittime di torture e sevizie di ogni genere. Oltre a confermare il ruolo essenziale delle testimonianze storiche dirette, possiamo considerare il percorso che ha portato alla nascita di questa canzone come una sorta di traduzione da un codice espressivo (il racconto orale) a un altro (la musica), in cui il secondo ha enormemente ampliato la diffusione dei contenuti del primo, seppur sacrificando qualcosa in termini di fedeltà e oggettività storica. 38 Anche se, in verità, Pinochet viene esplicitamente nominato nella canzone: “Hey Mr. Pinochet, you’ve sown a bitter crop […] can you think of your own mother dancing with her invisible son?”. TRA LE CREPE DELLA MEMORIA / 131 necessità di un impegno di tutti gli attori sociali: dagli studiosi agli intellettuali, dagli scrittori agli artisti, dalle associazioni di cittadini ai soggetti istituzionali e politici, dai testimoni diretti a ogni singolo individuo, con le loro produzioni di artefatti culturali, nonché di progetti coerenti che evitino di generare memorie ‘mute’, tracce ‘silenziose’, come, ad esempio, tutti quei monumenti che riempiono sì le nostre città e che magari parlano anche di eventi di indubbio rilievo, ma di cui più nessuno conosce ormai né l’origine né il significato. Sotto l’effetto dell’illusione che i nostri monumenti commemorativi saranno sempre al loro posto per farci ricordare, troppo spesso affidiamo loro il nostro impegno di memoria, abbandonandoli e ritornando a loro solo quando una contingenza presente lo richieda. Ma, in questo modo, altro non facciamo che condannarli – e condannare noi stessi – all’oblio. Laddove sarebbe più utile sperimentare modalità e linguaggi innovativi di trasmissione della memoria, cioè che sappiano raccogliere l’invito a coniugare razionalità ed emotività, discorso e affettività, logos e pathos, fatto storico e leggenda, affinché il legame che abbiamo col nostro passato sia più profondo e radicante. Il che, in un’epoca di forte precarietà anche culturale ed esistenziale non è poco. Non solo la teoria, ma anche numerosi casi empirici – tra cui quelli qui riportati – mostrano l’efficacia e l’utilità di tale percorso. § PARAGRAFO IV sterniana § 7 Stefania Consonni Schemi di costruzione spaziale del tempo in Tristram Shandy Riguardo al problema di una sintagmatica spaziale del racconto, riguardo cioè alla funzione di complemento e incremento svolta dai metalinguaggi spaziali nell’atto formale di messa in intrigo del tempo, il romanzo del Settecento inglese rappresenta un ottimo luogo d’osservazione. Se Aristotele per primo descriveva la configurazione nei termini di un intreccio, un disegno o un nodo, in seguito si è parlato di piramidi (Gustav Freytag), linee e circoli (Alvin Kernan, la Mimesis di Paul Ricoeur), spirali e serpentine (Allen Tilley),1 e lo si è fatto per una ragione: l’atto configurazionale è il processo che dà forma e sostanza al tempo raccontato, imponendo uno schema spaziale – strutturale, figurale – di totalità significante alla distribuzione cronologica degli eventi. Il racconto è dunque per sua natura un atto intermediale, esito di una solidarietà profonda, che ha radici antiche e difficili da districare, fra il segno verbale, uditivo, sequenziale proprio alle arti dette ‘temporali’, e quello iconico, visivo, coesistente delle arti ‘spaziali’. Non si dà tempo senza la mediazione dello spazio: paradossi della rappresentazione. Lo sa bene Ricoeur, che impernia la sua teoria della referenza narrativa sull’edificio geometrico e altamente finzionalizzato del Tom Jones di Fielding. Ebbene, nella cultura settecentesca e in particolar modo in Inghilterra, l’interazione fra spazio e tempo, fra pictura e poësis, fra iconografia e scrittura, è ancora tutta in fieri, in via di negoziazione da parte di un nutritissimo novero di teorici, scrittori, critici e artisti, cosicché i linguaggi di pittura, poesia, musica, architettura ne ri1 Cfr. Alvin B. Kernan, The Plot of Satire, New Haven: Yale University Press, 1965; Paul Ricoeur, Temps et récit (1983-85), trad. it. di Giuseppe Grampa, Tempo e racconto, 3 voll., Milano: Jaca Book, 1983-88; Allen Tilley, Plot Snakes and the Dynamics of Narrative Experience, Gainesville: University Press of Florida, 1992. PARAGRAFO IV (2008), pp. 135-161 136 / STEFANIA CONSONNI sultano costantemente sovrapposti e rimescolati. Se da un lato si raccolgono e si distillano gli esiti della questione ut pictura poësis, perfezionandone il lessico e dando corpo alla dottrina neorinascimentale di analogie fra i segni e paragoni fra le arti su cui si costruirà il moderno canone del gusto inglese, dall’altro lato, complice il rivoluzionario Laocoonte (1766) di G.E. Lessing, si intuisce e si imposta con forza la necessità di un crescente apparato di distinzioni, reciproche limitazioni e connessioni regolamentate fra i sistemi di segni. Ecco perché la ricchezza di alcuni schemi di spazializzazione del tempo rappresenta uno dei tratti di maggior interesse in un romanzo di grande complessità come il Tristram Shandy (1760-69) di Laurence Sterne. È difficile dire che forma abbia il tempo in Tristram Shandy. Giudicata disordinata o pretestuosa rispetto al suo universo umorale e umoristico, la narrazione di Sterne è piena di buchi, scarti, parentesi; è abitata da un “ristagno stregato”2 sul piano tanto dei personaggi, che più “agiscono e meno cose accadono”, più “pensano e più si fanno inconsistenti”, quanto degli eventi, inclini a “dipanarsi e a fare inciampare il passato anziché generare il futuro”, e degli oggetti inanimati, mossi da una “sospetta caparbietà”, come la borsa del Dr. Slop. È insomma caratterizzata da una matericità esuberante della dimensione spaziale e dei suoi annessi, mentre del tutto sfuggente, priva di un nucleo di gravità e di uno spessore suo proprio, appare la sfera temporale; opera questa, secondo E.M. Forster, di un “dio nascosto: il suo nome è Disordine”. E se fosse invece Paradosso? Si ripensi alla commistione fra segni iconici e verbali; al fischiettio dello zio Toby; alle descrizioni pittoriche e architettoniche di pose oratorie e fortificazioni militari; al sipario che cala e si rialza, alle rampe di scale che rallentano e arrestano l’azione; agli intrichi che scompaginano il filo della storia, così come il tempo del racconto e della scrittura; agli schizzi, ai diagrammi e agli esperimenti tipografici delle pagine vuote, nere o marmorizzate. Sono tutti elementi, questi, di una riflessione sulla natura spazio-temporale dell’intreccio letterario, a cui sarà dedicato quanto segue. Non prima di aver però chiarito tre punti preliminari: i) Stiamo parlando di un intreccio in cui il senso del tempo è restituito in virtù del suo embricarsi con la sfera spaziale, e però imbastito attorno a ‘eventi’ quali un detrito vagante, un naso rotto, una castagna bollen2 E.M. Forster, Aspects of the Novel (1927), trad. it. di Corrado Pavolini, Aspetti del romanzo, Milano: Garzanti, 1991, p. 115. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 137 te, una finestra senza contrappesi. Ma è un’attenta “sintassi comica” dell’intelletto e del linguaggio quella che, sotto la guida principale del Saggio sull’intelletto umano di Locke, vediamo in atto a Shandy Hall.3 Certo, in un romanzo intitolato La vita e le opinioni di Tristram Shandy, la ‘vita’ coincide con tragicomiche aporie della soggettività, per cui le stranezze di Tristram, che da piccolo teneva storta la trottola e da grande non saprà pensare “come altro figlio d’uomo”,4 sono ricondotte all’influenza dei fluidi corporei, alla grandezza dei nasi, ai nomi di battesimo. Quanto alle ‘opinioni’: goffaggini del linguaggio, parole non già come nodi forti, un tutt’uno di mente e natura come vorrebbe Locke (III, 5, X), ma come perfidi cappi stretti alla maniera di Obadiah fra il soggetto e il mondo, ingannevoli tanto nella significazione quanto nella comunicazione, come dimostra il tormento denotativo di Walter, con i guai che ne vengono. Eppure l’universo di Sterne è lontano da una mera sovversione delle regole proprie al romanzo settecentesco, oltre che da una disimpegnata eccentricità rispetto, poniamo, alla signorile corposità di un Fielding o alla gravità di un Richardson. È che a quelle regole – a quel cerchio di gravità spazio-temporale che presiede alla messa in intrigo, anche a quella apparentemente più capricciosa –5 Sterne sceglie di dar vita con più amabile leggiadria. ii) In effetti, i nessi epistemologici al cuore parodico del romanzo – il paradigma del sensazionalismo e dell’associazionismo, e il golfo aperto fra realtà dei fenomeni e costruzione linguistica – si riverberano in una causalità narrativa al contempo opacizzata ed esacerbata, un “realismo percettivo”6 fatto tanto di una componente schematica, un’accentuazione comica dell’orologeria fieldinghiana, quanto di una relazione più compiutamente dialettica fra l’ordine evenemenziale e quello diegetico: come in 3 Cfr. Ian Watt, “The Comic Syntax of Tristram Shandy”, in Howard Anderson e John S. Shea (eds.), Studies in Criticism and Aesthetics, 1660-1800: Essays in Honor of S.H. Monk, Minneapolis: University of Minnesota Press, 1967, pp. 315-31. Ove non altrimenti specificato, le traduzioni sono mie. 4 Laurence Sterne, The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman (1760-67), trad. it. di Antonio Meo, La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, Torino: Einaudi, 1990, p. 9. D’ora in poi citato nel testo con la sigla TS. 5 Cfr. la discussione sulla gravità in Flavio Gregori, “‘A Sore Travel and Vexation’: Movement in Tristram Shandy”, III Colloque International Paul-Gabriel Boucé, Parigi, 16 dicembre 2006. 6 Lois A. Chaber, “‘This Intricate Labyrinth’: Order and Contingency in EighteenthCentury Fictions”, Studies on Voltaire and the Eighteenth Century, 212, 1982, p. 191. 138 / STEFANIA CONSONNI Richardson, ogni cosa, compresi gli elementi più triviali, pone una domanda di racconto. Se la coerenza di storiografo costringe Tristram a un regresso infinito per afferrare e agganciare tutti gli anelli della catena, la frattura fra causa ed effetto non è mai colmata, e da questa impossibilità nascono la sua damnatio biografica e il racconto di Sterne, poiché la circostanzialità del contesto costringe, per esempio, a interrompere l’evento della nascita per digredire circa la licenza della levatrice, il carattere di Yorick, le clausole matrimoniali degli Shandy: tutti elementi senza i quali si perderebbe di vista l’architettura della storia. Volendo raffigurare questa logica, afferma Šklovskij, potremmo paragonare l’evento a un cono il cui vertice rappresenti il momento causale (Fig. 1). Nel romanzo tradizionale il cono è “tangente alla linea fondamentale del romanzo proprio col suo vertice”, qui invece lo è con la base, “e noi ci troviamo all’improvviso dentro uno sciame di allusioni”.7 Fig. 1. La logica narrativa in Tristram Shandy secondo Šklovskij iii) Intessendo la più impervia idea di contingenza, eredità del grande architetto Fielding, con la più ricca rappresentazione della legatura causale che – insegna Richardson – è il suo antidoto, la trama di Sterne è tutt’altro che nemica dell’ordine: è nemica di un concetto troppo facile di ordine, e di disordine. Non ci sono nel romanzo, osserva Wayne Booth, che due nuclei, “il concepimento di Tristram, la nascita, l’imposizione del nome, la circoncisione, i primi calzoni” e “il corteggiamento della vedova 7 Viktor Šklovskij, “Il romanzo parodistico. Tristram Shandy di Sterne”, in Id., O teorii prozy (1929), trad. it. di Cesare De Michelis e Renzo Oliva,Teoria della prosa, Torino: Einaudi, 1976, p. 212. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 139 Wadman da parte dello zio Toby”;8 ma Tristram è un protagonista tutt’altro che latitante, e della sua vita e dei suoi pensieri, “non ci viene forse detto/mostrato tutto? Che cosa vorremmo sapere/vedere di più”?9 La logica narrativa ne risulta allora sì messa in discussione, ma non già affievolita quanto potenziata, poiché basta il primo paragrafo “per apprezzare l’equilibrio come Sterne si muova fra contingenza e intelligibilità, trasformando la circostanzialità in disegno”.10 Thomas Kavanagh ha raffigurato una simile strategia con riguardo al Jacques (1796) di Diderot, che da Sterne prende a prestito l’atteggiamento ‘fatalistico’, l’ostentazione cioè di una manipolazione del legame causale e finalistico fra gli eventi (Fig. 2). Si tratta di un’elaborazione del modello šklovskijano, in cui ordine ‘naturale’ della fabula e ordine dell’intreccio sono disposti secondo uno schema zigzagante di vettori lineari.11 Fig. 2. T.M. Kavanagh, La logica narrativa in Jacques le fataliste Torneremo su questi punti. Importa ora osservare come i problemi fin qui tratteggiati siano veicolati in Tristram Shandy attraverso una configurazione d’intreccio che investe i limiti semiotici del medium narrativo, deformandone e riarticolandone l’intrinseca temporalità attraverso l’in8 Wayne C. Booth, The Rhetoric of Fiction (1961), trad. it. di Eleonora Zoratti e Alda Poli, Retorica della narrativa, Firenze: La Nuova Italia, 1996, p. 241. 9 Giuseppe Sertoli, “Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo”, in Franco Moretti (a cura di), Il romanzo. Vol. II: Le forme, Torino: Einaudi, 2002, p. 648. 10 Michael Rosenblum, “Shandean Geometry and the Challenge of Contingency”, Novel, 10, 1977, p. 240. 11 Thomas M. Kavanagh, “Jacques le fataliste: Encyclopaedia of the Novel”, in Jack Undank e Joseph Herbert (eds.), Diderot: Digression and Dispersion, Lexington: French Forum, 1984, p. 155. 140 / STEFANIA CONSONNI gresso della sfera spaziale. Sono limiti, quelli della narrazione, che una tradizione di confronti fra segno iconico e segno verbale – che muove dall’Ars poetica di Orazio al Paragone di Leonardo da Vinci, approdando alla protosemiotica lessinghiana, per poi estendersi fino all’odierna indagine della temporalità nelle arti visive, come in E.H. Gombrich, e viceversa all’esplorazione della spazialità nelle arti verbali, come in W.J.T. Mitchell e lo stesso Ricoeur –12 riconduce a tre fattori: temporalità, sequenzialità, irreversibilità. Limiti che però lo stesso Lessing intendeva in chiave non normativa ma come Grenze, faglie di relazionalità intelligente, di interazione meditata, consapevole delle distinzioni a cui era cieco il paradigma analogico, con i complementari fattori di illusione secondaria (limiti al contrario delle arti visive), ossia spazialità, simultaneità, giustapposizione. È la lezione, tutta proiettata verso la contemporaneità, del Laocoonte: fra spazio e tempo e fra le relative arti, così come fra simultaneità e sequenzialità, irreversibilità e giustapposizione, esistono confini permeabili eppure nitidi, flessibili proprio perché rigorosi, di cui l’intermedialità settecentesca – il fiorire di linguaggi pittorici, architettonici, musicali nei romanzi di Richardson, Fielding, Sterne, Jane Austen, ecc. – è una delle espressioni più sottili e calibrate. In Sterne è appunto un armamentario di giustapposizione e simultaneità a plasmare un’idea più morbida e intricata del tempo narrativo. Una temporalità spazializzata, ‘morfologica’: la radiografia di una sintagmatica spaziale del racconto, radicata precisamente nel coevo dibattito sulle arti e i linguaggi, poiché le intuizioni dell’‘eccentrico’ Sterne si rivelano più vicine di quanto non sembri a quelle del ‘grave’ Lessing. A fare da quinta, nell’episteme che Michel Foucault ha battezzato classica, la metafora lockiana delle parole come immagini delle cose, perché è nel Settecento che dalle disjecta membra di ut pictura poësis prende forma un’idea di conoscenza imperniata su un primato del visivo (nelle parole di Locke “il più capace di tutti i nostri sensi”, II, 9, IX), e pervasa da una tendenza alla naturalizzazione del segno. Tanto in Locke quanto in Lessing la rappresentazione appare infatti orientata verso la sfera visiva, come “griglia di visibilità dell’oggetto che viene filtrata direttamente nel linguaggio”,13 e dunque imperniata su un’ideale trasparenza delle parole, “mediatrici di un’immagine che deve essere percepita dal12 Mi permetto di rimandare all’approfondimento nel mio Geometrie del tempo. Il romanzo inglese del Settecento, di prossima pubblicazione. 13 Sandra Cavicchioli, “Spazio, descrizione, effetti di realtà” (2001), in Id., I sensi, lo spazio, gli umori, Milano: Bompiani, 2002, p. 243. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 141 l’occhio, interiore o esteriore”,14 esito di un sodalizio nominalistico fra mente e natura, rivolto verso pittorialismo e plasticità e teso a chiudere il golfo fra l’arbitrarietà del segno e la concreta superficie delle cose, verso cui il segno è riferito. E però la preoccupazione di Sterne riguarda più radicalmente la dialettica stessa fra limpidezza e opacità del segno, fra referenza ed espressione, fra le lacerazioni della concezione linguistica settecentesca, riassumibili nelle polarità ‘logica’ vs. ‘retorica’, ‘esteriorità’ vs. interiorità’, ‘limitatezza’ vs. ‘illimitatezza’, ‘tradizione’ vs. ‘originalità’, ‘ipercodifica’ vs. ‘ipocodifica’.15 Ed è la difficoltà con cui tale dialettica si lascia afferrare, anche dalla speculazione più raffinata, a pervadere Tristram Shandy. Lo dimostrano l’ironia inconsapevole dello zio Toby, discepolo della naïvété lockiana; la pudicizia della Badessa delle Andouïllettes (VII.25); o un passo della Prefazione in cui Tristram proclama un’antipatia per la retorica: “non v’è cosa più sciocca al mondo […] che oscurare la propria ipotesi infilando tra il proprio pensiero e quello del lettore una lunga serie di paroloni oscuri” (TS, 185). È pertanto a un confronto fra l’oscurità traditrice delle parole e il fulgore ingannevole delle cose – parallelamente a un’interrogazione delle mutue soglie fra i linguaggi dell’arte, condotta attraverso una costante strategia anti-lessinghiana, o più audacemente lessinghiana, di forzatura spaziale della cronotipicità letteraria – che Sterne consacra l’eredità del pittorialismo letterario. Questo è lo sfondo su cui esaminare una spazialità fatta di gesti, pose e drammatizzazioni, di interruzioni e attorcigliamenti della linearità, di illustrazioni e grafici, ecc. Di espedienti illusionistici di natura pittorica, plastica e architettonica che cioè – interferendo con l’azione, sospendendone lo svolgimento in maniera quasi impensabile a metà Settecento e rendendone appunto visibili i confini a mezzo di contrasto, come radiografandoli – mettono in luce, e in discussione, l’astrazione invalicabile che mantiene separate “le immagini dalle parole, le strutture spaziali da quelle temporali, le cause dagli effetti, il dopo dal prima, l’arte dalla vita”.16 Strumento di tale operazione è una configurazione tutt’altro che esile o pretestuosa, che della temporalità restituisce 14 Cfr. Wiliam V. Holtz, Image and Immortality: A Study of Tristram Shandy, Providence: Brown University Press, 1970, pp. 67-68. 15 Loretta Innocenti, “Il linguaggio nella riflessione settecentesca”, in Franco Marenco (a cura di), Storia della civiltà letteraria inglese, Torino: UTET, 1996, vol. 2, pp. 40, 52. 16 C. Maria Laudando, Parody, Paratext, Palimpsest: A Study of Intertextual Strategies in the Writings of Laurence Sterne, Napoli: Istituto Universitario Orientale, 1995, p. 248. 142 / STEFANIA CONSONNI anzi un’idea profondamente dialettica. E moderna: non è un caso che Tristram Shandy abbia riscosso l’entusiasmo tanto di Diderot, che redasse la voce “Composition” per l’Encyclopédie sulla falsariga del Laocoonte, quanto dello stesso Lessing, che secondo un aneddoto “avrebbe volentieri sacrificato dieci anni di vita per donarne uno in più a Sterne”.17 1. Effetti di giustapposizione, stasi e simultaneità Evidente è in primo luogo la plasticità prodotta dall’interruzione sistematica della linea di progresso dell’azione attraverso la descrizione di pose e gesti, costrutti corporei che, sfidando la fallibilità del linguaggio attraverso segni che prescindono dalla verbalità, frenano o arrestano il ritmo diegetico, sfalsandolo rispetto al tempo della storia che continua invece a scorrere regolarmente. Secondo Goldsmith, Tristram Shandy contiene non meno di novecentonovantacinque pause e settantadue “ha-ha”,18 e infatti è Tristram il principale disturbatore del procedere narrativo, colui che muove e arresta i fili delle marionette. È ciò che avviene quando non vi è possibilità che le lacune comunicative fra i personaggi siano colmate dall’astrazione linguistica, e l’intervento risolutore è affidato alla cosalità del corpo e della mimica: ai personaggi non rimane che sostare – gelati dall’attesa per intere mezz’ore, se nel frattempo il pensiero ha trasportato Tristram lontano – in artificiosa immobilità, finché il nodo comunicativo e diegetico si stringe, e il racconto può tornare a comprenderli. Si pensi alle attitudes assunte da Toby quando la conversazione si fa criptica o immodesta, come nel caso della prozia Dinah, alla cui menzione si lancia “indietro nella sedia a braccioli e sollevando le braccia, gli occhi e una gamba” (TS, 63), o alle configurazioni con cui Walter reagisce ai colpi della sorte. Sconfortato dal naso rotto di Tristram si lascia ad esempio cadere sul letto, la palma destra, “nel cui cavo si posava la fronte e si nascondevano quasi interamente gli occhi”, affondata sotto il peso della testa, il braccio sinistro penzoloni “lungo la sponda del letto”, la gamba destra “sporgente a metà della sponda opposta” (201). Si ricordi poi il contrapposto serpentinato con cui il caporale Trim, il mannequin preferito da Sterne, si dispone per leggere (senza capirlo) il sermone di Yorick in II.17, di cui William Hogarth diede una raffigurazione 17 Cit. in A.A. Mendilow, Time and the Novel, New York: Humanities Press, 1972, p. 187. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY Fig. 3. William Hogarth, Trim legge il Sermone (1760) / 143 144 / STEFANIA CONSONNI nel 1760, con una bella incisione per il frontespizio del primo e secondo volume (Fig. 3). Trim è descritto “molleggiato e inclinato in avanti”, la gamba destra a reggere “i sette ottavi del suo peso”, il piede sinistro un po’ avanzato, il ginocchio piegato “ma non troppo, per restare nei limiti della linea estetica” (TS, 112). Sterne fa confluire nella posa di Trim sia la moda del rococò, della varietà e della ‘linea della bellezza’ introdotta dall’amico Hogarth, sia la tradizione precettistica, con le istruzioni sulla gestualità del sermo – la Rhetorica ad Herennium di Quintiliano e l’Orator di Cicerone – sia anche la moderna scienza sociale della conversazione, quella del Cortegiano, del Galateo di Della Casa, di Baltasar Gracián e Stefano Guazzo. È però con il gesto che annuncia in V.7 la morte di Bobby (un cappello lasciato cadere a perpendicolo, 327) e soprattutto con la raffigurazione in IX.4 della serpentina del bastone di Trim, silente argomento a favore del celibato (Fig. 5), che Sterne si avvicina di più a Hogarth. Perché è l’Analisi della bellezza a fornirgli l’esempio, con un’indagine protosemiotica della grazia serpentina nei volti, nell’azione scenica e nella danza, accompagnata da due tavole illustrative. La Figura 71 in particolare, che ha probabilmente ispirato gli atteggiamenti di Trim, schematizza con una tecnica alfabetica – una visualizzazione lineare o “stenografia visiva” delle tracce cinetiche – le figure danzanti al centro dell’incisione (Fig. 4).19 L’immagine va letta a partire da destra: le due C rovesciate disegnano una posa corpulenta, così Fig. 4. William Hogarth, L’analisi della bellezza, Fig. 71 (1753) Fig. 5. Tristram Shandy, IX.4 La serpentina di Trim 18 Cit. in Wayne C. Booth, “Did Sterne Complete Tristram Shandy?”, Modern Philology, 1951, p. 172. 19 William Hogarth, The Analysis of Beauty (1753), trad. it. di C. Maria Laudando, L’analisi della bellezza, Palermo: Aesthetica, 1999, pp. 123-24; cfr. il mio Linee, intrichi, intrighi. Sull’estetica di William Hogarth, Genova: ECIG, 2003, pp. 60-65. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 145 come la curva seguente, mentre una verticale sormontata da un circolo rappresenta un contegno rigido e impettito, una X una posa sgambettante, cui seguono una sagoma angolare a forma di Z e una florida P (una retta verticale sormontata dalla O del seno). Il seme dei quadri racchiude un movimento saltellante, accompagnato da un figura lunga e immobile (le braccia piegate a doppia L); all’estrema sinistra, l’eleganza è rappresentata da due linee speculari a guisa di S. Auspicando che la gestualità arrivi così a essere insegnata come un linguaggio, “da una specie di grammatica con regole proprie”, Hogarth – grande appassionato di letteratura e teatro – dimostra grande sensibilità rispetto al problema intermediale della resa del movimento.20 Di rimando Sterne, a propria volta pittore dilettante, estende la tecnica all’esperimento complementare, una conversione dell’azione propria al medium narrativo in stasi, e all’elaborazione di convenzioni più ricche, cifre più dense e oblique del nostro modo di esperire e rappresentare la realtà e il tempo. È in riferimento a quest’operazione di manipolazione riduttiva – ma anche di complemento e incremento iconico – del mondo in cifra e alfabeto, che Gombrich affianca l’idea di rappresentazione alla metafora del cavallino fatto con un manico di scopa, perché se è del tutto arbitrario stilizzare “una faccia con due punti e una linea”, d’altro canto proprio la distorsione creativa del rapporto fra cosa e cifra è il marchio di una vocazione referenziale cui la rappresentazione non può sottrarsi. “Se il cavallino fosse troppo simile al vero, galopperebbe via”:21 è la prima lezione di Sterne. Non è un caso che l’altro motivo-principe del romanzo, quello delle mappe e delle fortificazioni costruite e demolite nel campo da bocce da Toby e Trim, pure s’imperni sui principî della convenzione, della stasi, della geometria. La “rêverie della miniaturizzazione”22 è l’antidoto di Toby alla difficoltà del dire come si sia procurata la ferita durante l’assedio alla cittadella di Namur, nel 1697. Prigioniero di un intrico di termini guerreschi difficili da capire e da spiegare, Toby trova l’unica via d’uscita in una mappa (Fig. 6) tanto dettagliata da consentirgli di puntare uno spillo 20 William Hogarth, op. cit., p. 125. E.H. Gombrich, “Meditations on a Hobby-Horse, or the Roots of Artistic Form”, in Id., Meditations on a Hobby-Horse: And Other Essays on the Theory of Art, London: Phaidon, 1963, pp. 6, 8. 22 Gaston Bachelard, La poétique de l’espace (1957), trad. it. di Ettore Catalano, La poetica dello spazio, Bari: Dedalo, 1975, pp. 172-73. 21 146 / STEFANIA CONSONNI Fig. 6. Pianta della città fortificata di Namur (1692) nel luogo esatto, “di fronte al saliente del mezzo bastione di St. Roch” (TS, 76). La fisicità di tale gesto è purtuttavia satura di astrazione, perché sostituisce alla sfida avventurosa che aveva caratterizzato l’età d’oro della letteratura di viaggio – si pensi a Defoe e Swift, Fielding e Smollett –23 la più potente retorica di world-making della cartografia. A una carrozza e a un viaggio si sostituiscono una poltrona e una mappa, e a una narrazione zoppicante subentra una spazialità non meno artatamente linguistica, una geometria poligonale e/o stellata di torri e bastioni, camminamenti, ponti e fossati, gallerie e palizzate, mezzelune e rivellini, ecc. Si assiste così al passaggio di consegne fra i modelli narrativi del tour (il racconto focalizzato attorno all’andare, come Tom Jones), e della mappa, il cui fulcro è invece il vedere, la configurazione di un ordine spaziale di rispettive posizioni.24 Eppure, nota Trim, all’attività cartografica, come al linguaggio, manca tridimensionalità: occorre una tattica che solletichi sì il piacere della rappresentazione astratta, ma valichi al contempo “i confini della 23 J. Paul Hunter, Occasional Form: Henry Fielding & the Chains of Circumstance, Baltimore-London: Johns Hopkins University Press, 1975, p. 145. 24 Michel de Certeau, L’invention du quotidien, Paris: Gallimard, 1980, p. 119. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 147 carta stampata”.25 Servono ‘vere’ campagne condotte secondo i bollettini di guerra, e un mondo in miniatura man mano più dettagliato e più astratto, una quinta teatrale con ponti, città, campanili, e sei cannoni in bronzo che Trim fa fumare con le pipe turche avute dal povero Tom. Il gioco prende la mano a Toby, ma l’arbitrio geometrico della staticità non è superato, per tre ragioni. Perché la miniaturizzazione ha ceduto alle lusinghe della coestensione, all’aprospetticità dell’uno a uno; perché con la demolizione di Dunkerque Toby verrà di colpo consacrato alla pace coniugale, ma non riuscirà a dissipare l’equivoco e darà anzi luogo al double entendre sul “luogo esatto” in cui ha ricevuto il colpo, il che chiuderà sul nascere la relazione con il genere femminile; perché la sua carriera militare è iniziata pure nel più artificioso dei modi, quasi per capriccio del narratore che arresta d’emblée gli eventi subito dopo il suo problematico passaggio ai calzoni lunghi. Si torna con ciò alla funzione narratologica delle pose: la deliberata riduzione della sequenzialità in stasi, la violazione – misurata e rigorosa – della distinzione lessinghiana fra corpi e azioni, la manipolazione spaziale delle linee dell’intreccio, la sospensione e rimessa in circolo di una situazione narrativa in una specie di ‘campo di relazioni’ del narrabile. Come afferma Šklovskij, in Sterne l’azione è continuamente interrotta ma “il materiale d’inserimento” non è mai a parte, perché “ogni brano si riferisce sempre a una delle linee compositive del romanzo”. C’è una regola alla base di questa scelta e la detta Omero, il quale “non descrive mai due azioni contemporanee”, anche quando dovrebbero esserlo, ma le rappresenta come successive: Sterne vi si attiene in maniera letterale, consentendo all’azione di un eroe di essere contemporanea solo alla “permanenza di un altro, cioè alla sua presenza inattiva”.26 Non lo fa però con gli omissis e il doppio passo di Fielding, ma con una giustapposizione paradossalmente statica che porta alle estreme conseguenze – all’auto-riflessività, al nonsense – la regola dell’ellissi. Quando una situazione non fa nodo nel reticolo dei nessi diegetici viene ‘gelata’ da Sterne, in attesa che si materializzi una giunzione, un occhiello, che la riagganci alla tessitura causativa. Spunto che è spesso di natura triviale ma non per questo da sottovalutare, perché la catena delle associazioni mentali non fa che ribadire la necessità 25 Eleanor F. Shevlin, “The Plots of Early English Novels: Narrative Mappings in Land and Law”, Eighteenth-Century Fiction, 11, 1999, p. 400. 26 Viktor Šklovskij, op. cit., pp. 237, 213. 148 / STEFANIA CONSONNI di un ordine, così come l’infilage di quadri statici ha il compito di mettere l’accento sulla normale dinamica narrativa, che prevede l’ablazione dei tempi morti, come appunto in Fielding. Le suture sono rese visibili, trasformate in ricami attraverso l’introduzione di effetti simultanei, prerogative delle arti visive: di qui il giudizio formalista, secondo cui questo è “il romanzo più tipico di tutta la letteratura mondiale”.27 Ecco perché leggendo si tende a percepire una serie di quadri, ciascuno “organizzato secondo una propria logica spaziale” e presentati “secondo un comune ordine di percezione”.28 Ma attenzione: non si pensi con ciò a un principio atemporale di flânerie. L’effetto complessivo di tale configurazione è simile a un quadro dipinto davanti ai nostri occhi, ma va ricordato che un’immagine ha in sé una temporalità, che non c’è forma senza tempo, né tempo senza forma, e che esattamente in ciò consiste la mediazione prestata dai metalinguaggi spaziali alla letteratura. La dialettica attuata da Sterne fra “movimento e stasi, fra linea retta e linea intricata” si rivela dunque ben più densa, e più prossima di quanto non sembri, all’analisi di Lessing, perché laddove “la prosa precedente risolveva tutta la questione in favore dell’azione”, Sterne è il primo a esplorarla “in tutte le sue sfaccettature teoriche”,29 e a fare della violazione spaziale il principio di edificazione della temporalità. 2. Arrangiamenti di temporalità relazionale A fare da canovaccio per l’intreccio di Tristram Shandy è una cronologia che Theodor Baird nel 1936 ha eletto a esempio di rigore. Sterne elabora un duplice ordine di eventi, sviluppando il filone biografico-privato sulla falsariga del calendario storico, su un arco che va dal 1689 fino al momento in cui Tristram, settantenne, redige le sue memorie.30 In un arco tanto esteso solo piccole incongruenze, pochi fili non annodati: non si sa cosa accada fra il ferimento di Toby e il suo ritiro presso il fratello; si assiste nel 1704, nel terzo anno delle campagne nel campo da bocce, a battaglie combattute due o tre anni dopo; Billy Le Fever torna in Yorkshire 27 Ivi, p. 243. William Holtz, op. cit., p. 107. 29 Ivi, p. 99. 30 Theodore Baird, “The Time Scheme in Tristram Shandy and a Source”, PMLA, 1936, p. 804. 28 SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 149 quattro anni dopo l’arruolamento avvenuto nel 1717, ma lo troviamo a Shandy Hall solo sei settimane prima dell’incidente di Susannah, nel 1723. È tutto quanto si può eccepire alla fabula di Sterne, che nell’ordinare sette decenni di storia non sbaglia di un giorno, e nel trattare eventi ravvicinati, ad esempio quelli del 5 novembre 1718, nemmeno di un’ora. Eccone, semplificata, la linea cronologica: 1689: Arruolamento di Trim (V.40) 1693: Trim ferito nella battaglia di Landen e curato dalla Beghina (VIII.20) 1695: Morte di Mr. Wadman (VIII.9) 1697: Toby ferito nell’assedio di Namur (I. 25) 1698: Yorick procura un’ostetrica ai suoi parrocchiani (I.10) 1699 ca.: Fuga della prozia Dinah col cocchiere (I.21) 1702: Toby e Trim si trasferiscono a Shandy Hall, Yorkshire (I.25) 1706: Morte di Le Fever, Sr. (VI.6) 1713: Walter cessa l’attività di commercio a Londra e si ritira a Shandy Hall (VI.6); pace di Utrecht e demolizione di Dunkerque (VI.30); Toby corteggia la vedova Wadman (III.24; VI.12; IX.18) 1717: Mr. e Mrs. Shandy a Londra per una falsa gravidanza (I.15); arruolamento di Billy Le Fever (VI.12) 1718: Tristram, concepito fra la prima domenica e il primo lunedì di marzo (I.4), nasce il 5 novembre (I.5), giorno infausto del Gunpowder Plot 1723: Billy Le Fever rientra in Inghilterra; sei settimane dopo, l’incidente della finestra a ghigliottina (V.17) 1733: Il 10 aprile viene pubblicata la lettera dei Dottori della Sorbona sul battesimo prenatale (I.20) 1741: Tristram accompagna il figlio di Mr. Noddy nel Grand Tour (I.11) 1748: Morte di Yorick (I.12) 1759: Il 9 marzo, Tristram scrive il capitolo I.18; il 26 marzo, scrive il capitolo I.21 1761: Il 10 agosto, Tristram scrive il capitolo V.17 1766: Tristram compie un viaggio in Francia (vol. VII); il 12 agosto, Tristram scrive il capitolo IX.1.31 Tali gli eventi della storia. Non pochi né disordinati, e arrangiati secondo una rigorosa dislocazione spaziale. Il romanzo incomincia nel 1718 e si chiude cinque anni prima, abbracciando in trecentododici capitoli uno 31 Adattato dal più sintetico Clifford R. Johnson, Plots and Characters in the Fiction of Eighteenth-Century English Authors, Hamden-Folkestone: Archon & Dawson, 1977-78, vol. 2, p. 128. 150 / STEFANIA CONSONNI zigzag di date fra il 1766 (il 12 agosto, con Tristram che scrive il capitolo IX.1) e i tempi di Enrico VIII, quando in virtù di una catena di nasi importanti la famiglia Shandy ricopriva prestigiose cariche politiche (III.33). Circoscrivendo l’analisi con A.A. Mendilow al primo volume, si oscilla fra il 1698 del capitolo I.10 (in cui la levatrice ottiene la licenza grazie all’interessamento di Yorick) e il 9 e 26 marzo 1759 di I.18 e I.21, ossia il presente della scrittura, in cui un Tristram afflitto dall’asma scrive “questo libro per l’edificazione dell’umanità” (TS, 42). Si passa però più e più volte attraverso la notte fra la prima domenica e il primo lunedì del marzo 1718, esplorando l’intorno dei mesi precedenti e seguenti – la dissertazione sul nome ‘Tristram’, scritta nel 1716 (I.16); il viaggio a Londra dei coniugi Shandy nel settembre 1717 (I.15); i tre mesi di sciatica sofferti da Walter dal dicembre del ’17 e il viaggio a Cambridge con Bobby, fra marzo e maggio 1718 (I.4) – e si intersecano così i riferimenti cronologici più disparati: l’antichità di Saxo Grammaticus, in cui vanno rintracciate le origini danesi di Yorick (I.11); l’assedio di Namur nel 1695 (I.21); la fuga della prozia Dinah nel 1699 (I.21); il trasloco nello Yorkshire nel 1713 (I.4); la dissertazione dei sorboniani nel 1733 (I.20); il viaggio in Danimarca nel 1741 (I.11); la morte di Yorick nel 1748 (I.12). È allora evidente come sotto una superficie ludica e autoironica la trama di Sterne nasconda una struttura di grande precisione: la collocazione di ogni riferimento risponde a una legge di coerenza interna, appartiene a un preciso campo di reciprocità gravitazionale che appoggia e puntella la scala evenemenziale della biografia d’invenzione a quella storiografica, collocando tutti i tasselli al loro posto. È una temporalità relazionale, questa, che pur nella sua stranezza illumina una proprietà fondamentale del racconto: “ci si accorge della temporalità quando diviene oggetto di un accidente”, cosa che per prima accade con i romanzieri inglesi del Settecento, con le strategie di “rottura del parallelismo tra il tempo dell’enunciato e il tempo dell’enunciazione, e rottura anche nella sequenza logica delle azioni”.32 Sorprendentemente nuova in Sterne, e tale ancora oggi, è invece la bellezza – teatrale ma anche pulita, discreta – delle relazioni, l’architettura di un sistema di giustapposizioni temporali che restituisce un modello non unilineare ma reticolare, in cui cioè non è una linea a guidare il progredire cronologico32 Tzvetan Todorov, “Poétique” (1968), trad. it. di Mario Antomelli, “Poetica”, in AA.VV., Che cos’è lo strutturalismo?, Milano: ISEDI, 1971, p. 137. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 151 causativo mentre un numero di tracciati secondari ne complicano il disegno (come in Tom Jones). Le relazioni devono sì accadere davanti ai nostri occhi, in un presente drammatico in cui futuro e passato “non sono tali rispetto al tempo ma all’ordine della narrazione, che è tutt’altra cosa”;33 ma è come se, una volta smessa la maschera dell’iconoclasta, Tristram rivelasse la legge più snella, più semplice, quella che sottostà a ogni racconto, la relazione. Vero, “i grandi ingegno vanno a salti” (TS, 156), eppure tutto si tiene: alterare la dislocazione degli eventi significherebbe romperne l’unità, introdurre crepe nell’ingranaggio con cui Tristram “nel 1760 racconta di come nel 1713 Trim raccontasse la morte di Le Fever, avvenuta nel 1706”.34 La vedova Wadman ad esempio entra in scena ben prima dei due volumi a lei consacrati, e cinque anni dopo i relativi eventi, ricordata in II.7 a proposito dell’ingenuità sentimentale di Toby, il quale nel 1718 tende a giudicare con troppa modestia la presenza di Slop al cospetto della cognata. Il personaggio di Yorick, condotto alla catastrofe nel 1748 da un incauto motteggiare, è ricordato con una pagina nera in I.12, per ricomparire in II.17 il 5 novembre 1718, a reclamare il sermone dimenticato nello Stevinus; dopodiché balza direttamente al 1751, giacché questo stesso sermone fu predicato due anni dopo la sua morte da un prebendario di York che poi “si permise anche di farlo stampare” (TS, 132). Ossia dal Reverendo Sterne, che così ci porta fino al capolinea degli anni ’60 e al momento della scrittura di Tristram Shandy, in cui il sermone è integralmente riportato. Di qui in poi Yorick non uscirà mai di scena. Il che non significa che il tempo ha invertito o smarrito la sua freccia, diventando reversibile o dissolvendosi nello spazio. Significa che abbiamo a che fare con un tempo fuori asse, in cui il 1748 viene prima del 1718. Un tempo ‘modalizzato’, in cui il 1748 non è annullato ma modificato, potenziato, dal 1718. Occorre inoltre evitare di assimilare l’arrangiamento cronologico di Sterne a strutture di tipo rizomatico come ad esempio quelle descritte da Deleuze e Guattari, dominate da connessioni agrammaticali e reversibili, da un nomadismo acentrico e antigenealogico, da un’indefinita possibilità di rottura del legame, ecc.35 Non tutto è possibile, e non nello stesso 33 A.A. Mendilow, op. cit., p. 183. Ivi, p. 186. 35 Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Rhizome (1976), trad. it. di Giorgio Passerone, “Rizoma”, in Id., Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1987, pp. 3-36. 34 152 / STEFANIA CONSONNI tempo, in Tristram Shandy; non tutti i nodi generano racconto, come dimostrano interruzioni e pose, e non ogni ordine è accettato. Per citare un solo caso, le campagne e gli amori di Toby devono necessariamente chiudere il romanzo, e su questo punto Tristram non transige, nonostante siano la parte più amena dell’opera. Vanno cioè raccontate dopo il volume VII, in cui la Morte e l’inesorabile scorrere del Tempo incalzano Tristram in viaggio per la Francia. Impensabile invertire l’ordine: gli amori di Toby diventerebbero frivoli, il ’13 sbiadirebbe a perduta età dell’oro, la fuga del ’66 risulterebbe greve. La melanconia ironica di Sterne ne uscirebbe distrutta. Insomma, Tristram Shandy non esisterebbe. La mediazione dello spazio deve infatti servire a rendere più complesso il tempo raccontato, a spiegarne l’intelligenza, a incrementarne la morfologia, non ad appiattirlo a campo del possibile-a-ogni-istante. Proviamo a dimostrarlo con un celebre passo in III.39, che mette in scena tutti gli attori contemporaneamente in un brulichio di azioni che chiedono di essere svolte nello stesso istante, affastellando ‘ieri’, ‘adesso’ e ‘domani’ in cinque minuti – Walter steso sul letto, il neonato da fasciare, una mucca nelle fortificazioni, lo Slawkenbergius da tradurre ecc. (TS, 216). È evidente che siamo in presenza di una violazione sincronica della legge di sequenzialità; si rischierebbe però, con un’idea povera di spazialità, di mortificare la tensione temporale che anche sul piano tematico anima il romanzo, tranciandone come un nodo gordiano la densità configurazionale. Il fatto è che la simultaneità va pensata come una più profonda relazione fra spazio e tempo. Come musica, ad esempio: Sterne organizza il suo intreccio in un sistema “interstrutturato di relazioni”,36 plasmando, organizzando e sviluppando scene, eventi e fili secondo uno schema visivo di configurazione sincronica che si sovrappone e si articola con la sequenza diacronicamente ordinata degli elementi. È come se questa strategia di messa in intrigo riflettesse sui modi in cui, intervenendo sulla linearità irreversibile del testo narrativo, si possa rendere conto della plasticità, della stereoscopia, della pluralità del tempo nella mente e nell’esperienza. Poco importa, si è detto, che ne La vita e le opinioni di Tristram Shandy si trovino la vita di Toby e le opinioni di Walter: nessun filo ha un ruolo secondario, nulla è prescindibile eppure tutto è non-finito, poiché tutto è com36 Jean-Jacques Mayoux, “Variations on the Time-Sense in Tristram Shandy”, in Arthur Cash e John M. Stedmond (eds.), The Winged Skull: Papers from the Laurence Sterne Bicentenary Conference, London: Metheun, 1971, p. 7. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 153 preso in una rete che non è più semplicemente armonica o melodica, bensì polifonica. E polifonia, lo insegna Bachtin, vuol dire sì pluralità, ma col significato di articolazione, di varietà nell’unità. La giusta concatenazione sincronica, il reciproco adattamento progressivo delle scene in un racconto sono dunque equiparabili alla sensibilità morfologica che occorre ad ascoltare una composizione. Come dice Tristram, “scrivere un libro” è come “cantare una canzone; non importa, signora, che il vostro tono sia alto o basso, purché voi riusciate a mantenervi intonata” (TS, 282). E che l’avanzare sequenziale della trama nel tempo e il suo espandersi giustapposto nello spazio siano un uno indivisibile, lo afferma un noto passo di I.22 in cui – a proposito della verecondia di Toby – Tristram riflette sul simultaneo progredire-digredire della macchina diegetica. Sebbene salti continuamente “di palo in frasca”, dice Tristram, “pure ho cura di disporre le cose in modo che l’azione principale non ristagni mentre io mi occupo d’altro” (65): l’inseguire tutt’a un tratto Dinah in fuga col cocchiere non arresta in posa il ritratto di Toby, che al contrario si espande simultaneamente all’ingresso di nuovo materiale, procedendo con “discrete pennellate qua e là”, così che dopo la digressione lo si conosce meglio di prima. È allora un uso strutturale della simultaneità, quello che Sterne propone con i suoi inserti, le interpolazioni e i meta-racconti, che non coincide più con un arresto o una temporanea sospensione della linea narrativa in un punctum temporis, ma al suo flettersi, ingolfarsi, torcersi e svilupparsi contemporaneamente in più direzioni, al suo ospitare nel medesimo tempo segmenti di racconto diversi, al suo dividersi e articolarsi nel medesimo spazio su più piani temporali. Non una proliferazione istantanea di nessi ma una morfologia plurale poiché scissa: è la natura dialettica della configurazione narrativa, esito di solidarietà ma anche di una tensione, un conflitto fra tempo e spazio. (Ecco la crucialità del Laocoonte.) Thomas Carlyle sosteneva che l’azione per sua natura è solida, ha “una sua ampiezza e profondità”, mentre la narrazione è lineare, “si muove soltanto in avanti, da un punto ai successivi”.37 Ecco, nello spazializzare il tempo, nel raffigurarlo in segmenti simultanei come golfi, ingorghi e crocicchi, Sterne non fa che ricercare un rapporto stereoscopico fra azione e narrazione: rendere cioè visibile lo scorrere, la misura, la durata del tempo. È per questo che il concetto di simultaneità va distinto da quello di 37 Thomas Carlyle, “On History” (1830), in Id., The Works of Thomas Carlyle, ed. by H.D. Traill, London: Chapman & Hall, 1899, vol. 27, pp. 88-89. 154 / STEFANIA CONSONNI istantaneità. Si ripensi al passo del secondo volume in cui i due minuti e tredici secondi occorsi in II.6 a Toby per suonare il campanello e inviare Obadiah alla ricerca di Slop si trasformano in virtù dell’idea di durata – che deriva “soltanto dal susseguirsi e concatenarsi delle nostre idee” (TS, 95) – in un’ora e mezzo di lettura. Un intervallo sufficiente per percorrere avanti e indietro le otto miglia che separano Shandy Hall dall’abitazione del medico, durante il quale Tristram ha anche prelevato Toby da Namur, riportandolo in Inghilterra, curandolo e trasferendolo a Shandy Hall, “allo stesso modo – almeno lo spero – che si fosse trattato di una danza, di una canzone o di un intermezzo musicale”. Naturalmente chi racconta sta barando, poiché quei due minuti e tredici secondi non erano che due minuti e tredici secondi, e oltretutto Obadiah non ha dovuto galoppare per miglia, avendo investito Slop dietro l’angolo della casa. Importa però un’idea di simultaneità che – racchiudendo in un’unità cronologica (non importa se forzata oltre il verosimile, afferma Tristram: il tempo è più elastico di quanto dicono le convenzioni aristoteliche) segmenti distinti in uno schema sincronico – è affiancata a un arrangiamento musicale.38 La durata appare allora come un continuum configurazionale, una specie di ‘spazio del tempo’. In III.8, ad esempio, è misurata in nodi: data la mezza dozzina di cappi con cui la domestica di Slop e Obadiah hanno assicurato la borsa verde, Shandy madre avrebbe partorito Tristram “a dir poco, venti nodi prima” (155). E un nodo è un costrutto spazio-temporale: quando infatti un filo è teso, “la linea è una retta, presenta cioè la forma di una temporalizzazione dello spazio”, laddove “un coacervo serrato di curve” suggerisce una spazializzazione del tempo, poiché ne “imbriglia e rallenta lo scorrere […], involvendo il rettilineo nel curvilineo”.39 A questo proposito Mendilow ricorda un frammento precedente Tristram Shandy, in cui è lo stesso Sterne ad affermare che se esistono lenti in grado di espandere indefinitamente la percezione dello spazio, si potrebbe inventare un metodo letterario per intensificare la sensazione del tempo, “per fare che un minuto sembri un anno”.40 In che modo? Ad esempio, presentando una successione di scene e assicurandole con lacci sincronici, 38 Robert P. Morgan, “Musical Time/Musical Space”, in W.J.T. Mitchell (ed.), The Language of Images, Chicago & London: University of Chicago Press, 1980, p. 261. 39 Giuseppe Di Napoli, “Il disegno del nodo”, in Marco Belpoliti e Jean-Michel Kantor (a cura di), Nodi, Milano: Marcos y Marcos, 1996, p. 427. 40 A.A. Mendilow, op. cit., p. 177. Cfr. Paul Stapfer, Laurence Sterne. Etude précédée d’un fragment inédit de Sterne, Paris: Thorin, 1870. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 155 “dilatando un momento e contraendo anni” attraverso l’associazione d’idee, in modo da rendere non soltanto “le impressioni e associazioni che passano nella mente dei personaggi”, ma anche “l’accumularsi di fatti distinti” e perfino “l’equivalente di spazi vuoti”.41 È quello che accade con il dialogo sulle durée fra Walter e Toby in III.18, che si svolge un paio d’ore dopo l’arrivo di Slop e comincia con l’osservazione, “Sono due ore e dieci minuti, non di più […] dacché il dott. Slop e Obadiah sono arrivati, ed io non so come accada […] ma alla mia immaginazione sembra quasi un secolo” (TS, 175). Con la rappresentazione della durata, Sterne incrocia l’asse temporale-sequenziale-irreversibile della scrittura con quello spaziale-giustapposto-simultaneo dell’esistenza, creando l’impressione che tutte le parti della storia procedano simultaneamente, “ognuna col suo ritmo e nella sua direzione”, ma secondo una comune unità compiuta e indivisibile, come se emergessero “da una moltitudine di pennellate”.42 È così sancita la capitolazione del modello aristotelico e la sua sostituzione con una morfologia pensata, oltre che per adattarsi alla coscienza dei processi psicologici e per veicolare un’idea del tempo come fenomeno mentale, per esplicitare il modo in cui l’entropia dell’esistenza viene accomodata in una forma narrativa ampia e capace – la forma romanzo – in grado addirittura di travalicare i propri Grenze. In tal senso, è il tempo della scrittura il protagonista di Sterne. Non c’è modo per Tristram di sincronizzarlo o avvicinarlo in maniera accettabile al tempo della storia. In più punti egli si raffigura in preda a un’insormontabile difficoltà; anche se, curiosamente, i riferimenti cronologici al qui-e-ora della scrittura seguono un ordine lineare, senza dislocazioni: il 9 marzo 1759 Tristram scrive il capitolo I.18; il 26 marzo, fra le nove e le dieci del mattino, è arrivato a I.21; dopodiché, coerentemente con le date di pubblicazione dei rispettivi volumi, lo rincontriamo il 10 agosto 1761 (V.17) e il 12 agosto 1766, in “casacca viola e ciabatte gialle”, ad aprire l’ultimo libro. Ma il perenne ritardo della scrittura nei confronti dell’esistenza è un tema ricorrente. Un solo esempio: in IV.13, dopo aver invocato l’aiuto dei critici per togliere Walter e Toby dalle scale e sbloccare la scena, quantifica in termini spazio-temporali la ratio anisocronica fra vita e scrittura spiegando che, con un ritmo di scrittura di 364 volte più lento rispetto a quello dell’esistenza, egli avrà in futuro sempre più mate41 42 Ibidem. Ivi, p. 178. 156 / STEFANIA CONSONNI riale per continuare a scrivere, per cui non riuscirà “mai a raggiungere [s]e stesso” (TS, 264). Di qui l’inadempienza e la programmatica lacunosità che per Giuseppe Sertoli sono la ragione stessa del romanzo, il principio strutturale del suo “solidissimo impianto narrativo”, il motivo per cui pur a malincuore bisogna accettare che dei capitoli promessi – quello sui nodi, sul dritto e il rovescio delle donne, sugli occhielli, sui capitoli, sugli uff!, sul sonno ecc. – quasi nessuno sarà realizzato. Di qui anche il vuoto cristallino di un reticolo finito eppure sempre incompiuto, e proprio per questo, perfetto nella sua ricercata imperfezione, simile all’intelaiatura dell’esistenza.43 È evidente che Tristram non risolverà mai il problema del tempo; che soltanto in una manciata di casi, indovinando una posa o materializzandone l’estensione nella simultaneità, gli riuscirà di catturarne lo scorrere, mentre il più delle volte se lo lascerà sfuggirà fra le dita, tenterà di riempirlo con una digressione oppure resterà a contemplarlo “come nuvole leggere in una giornata di vento” (564). Eppure non è una fuga la sua ma un agone, combattuto con gli strumenti dialogici della spazializzazione, come se i problemi di Tristram col tempo fossero illusionisticamente circoscritti da Sterne attraverso la mediazione dello spazio. L’immobilità, il silenzio, la sincronia saranno l’eredità di scrittori come Proust o Virginia Woolf, così come il conflitto fra un sé che è ormai ostaggio del flusso della temporalità e una scrittura che ricerca “la fissità dello spazio”,44 e che proprio nell’elaborare schemi narrativi sempre più sofisticati e problematici – nello scandagliare i rapporti fra i linguaggi della rappresentazione, nel penetrare morfologicamente le relazioni fra tempo e spazio – offre la miglior interpretazione a uno degli interrogativi più formidabili dei nostri, oltre che di quei tempi. 3. Tecniche di spazializzazione grafica del racconto Grande “anatomia del libro stampato”,45 Tristram Shandy si rivela su più piani un esperimento sulla necessità di integrare la sequenzialità lineare e 43 Giuseppe Sertoli, op. cit., pp. 646, 650. K.G. Simpson, “At This Moment in Space: Time, Space and Values in Tristram Shandy”, in Valerie Grosvenor Myer (ed.), Laurence Sterne: Riddles & Mysteries, London: Vision, 1984, p. 152. 45 Maurice Couturier, Textual Communication: A Print-Based Theory of the Novel, London: Routledge, 1991, p. 87. 44 SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 157 tutta ‘annidata’ del medium letterario con la tridimensionalità, rubata alle arti visive, di elementi che segnalino – sul piano tipografico come della forma-libro, dal testo al paratesto fino all’illustrazione, alla messa in pagina e alla legatura – la necessità di fare “i nodi alle stringhe” del discorso,46 di flettere e allacciare le marche disgiunte, fratturate, allografiche del sistema verbale attraverso la continuità densa ed estesa propria al linguaggio iconico. Di intrappolare il dinamismo intrinseco al medium temporale attraverso un arricchimento grafico, pittorico, musicale del supporto che lo ospita. Tristram Shandy è un lavoro sul potenziale espressivo della stampa, inteso, alla Richardson, in chiave critica e creativa; è un esperimento di retorizzazione visiva della parola scritta, che prende le mosse da un’equazione epocale fra parole e cose e dalla tradizione del pittorialismo letterario, e tuttavia finisce una volta di più per metterne in discussione gli assunti, complicandone enormemente gli esiti. Se in più punti Sterne fa riferimento al parallelo fra pittura e poesia, come ad esempio in I.9 o in II.4, il suo è un impiego ironico del topos, che nasce dallo scetticismo nei confronti della parola e s’impernia sul capovolgimento dell’anima della scrittura: l’essere “fissata nel tempo ed estesa nello spazio”,47 prodotta attraverso un susseguirsi irreversibile di lettere, segni d’interpunzione, regole grammaticali e sintattiche, e al contempo imprigionata in uno schema immobile di caratteri a stampa. Non occorre qui esaminare tutte le tecniche usate da Sterne, come la resa del tono conversazionale attraverso l’uso della punteggiatura, segni di editing, omissioni e aposiopesis; la manipolazione del “livre comme objet” e delle sue convenzioni di volumen; le pagine nere e bianche, le impaginazioni con testo a fronte, ecc. Tutte hanno però lo scopo di contrastare con la loro visibilità il naturale dissolversi nacheinander delle parole, di prolungare la “tardità” e lo svanire di parti che, come diceva Leonardo da Vinci, non sono “tutte insieme giunte” ma nascono l’una dall’altra successivamente, e soltanto se le precedenti muoiono.48 Un’attenzione speciale merita tuttavia la duplice pagina marmorizzata, il risguardo di copertina prelevato dalla collocazione usuale e reinscritto in III.36, nel mezzo di una digressione sui nasi lunghi, quale motivo orna46 Stefano Bartezzaghi, “I nodi alle stringhe”, in Marco Belpoliti e Jean-Michel Kantor (a cura di), op. cit., p. 464. 47 William Holtz, op. cit., p. 86. 48 Leonardo da Vinci, Trattato della pittura (1490-1515), Milano: Neri Pozza, 2000, pp. 23-24. 158 / STEFANIA CONSONNI mentale e cifra dell’opera, della sua stratificata difficultas, e monito di Tristram al lettore incolto, poiché “senza molta lettura” non si potrà “penetrare il significato morale” di tale “variegato emblema” (TS, 210). Come nota Martin Battestin, la composta simmetria palladiana che condensava l’architettura di Tom Jones è qui sostituita con una figura magmatica che, attraverso un flusso anziché uno schema, restituisce un’idea “delle sensazioni e dei movimenti del pensiero”, e nel suo imitare non la geometria ma “la profusione, il capriccio e l’infinita varietà della Natura” riflette “una nuova concezione della mimesi, dei modi in cui la forma dà conto di un’ontologia”.49 Il che sollecita due considerazioni. Primo, che cos’è un emblema? Secondo Ronald Paulson, è un costrutto di natura relazionale, in bilico fra l’analitico e il sintetico e, dal punto di vista semiotico, fra il verbale e l’iconico: il significato di un emblema nasce “solo da un’interazione fra il titolo, il motto e l’immagine, a cui si aggiunge spesso un commento in prosa”, poiché produce “un’immagine che è più della somma delle sue parti, [e] che va decifrata”.50 E, secondo, quale emblema sceglie Sterne? Un ramificarsi discontinuo di venature, di macule e aloni, un compenetrarsi di pieni e vuoti, di forme e accidenti, che si presta a varianti potenzialmente infinite quanto le edizioni, o addirittura le singole copie del testo, e che soltanto un preciso atto di volontà morfologica può ricondurre a uno schema riconoscibile, quasi che potenzialmente infinite fossero anche le varianti fruitive concesse dall’opera. Ecco una tesi discutibile, perché il gesto di Sterne va ben oltre una poco dispendiosa idea di deriva interpretativa, secondo la quale il romanzo esisterebbe – paradossale unicum indefinitamente ripetibile – soltanto nell’immaginazione del lettore, come un guazzabuglio caleidoscopico nell’occhio di chi lo contempla. Certo l’immaginazione e il suo correlato critico, l’estetica della ricezione, sono una componente del testo, ma non l’unica. E soprattutto non devono semplificare, rendendola quasi casuale – con riferimento a un’accezione povera del concetto di ‘caso’ – la natura configurazionale, e perciò dialettica e transazionale, della costruzione temporale in Tristram Shandy. Si noti allora come la scelta del motivo marmorizzato non sia frivola come potrebbe sembrare. Prestando fede alla curiositas offerta da Peter de Voogd ai primi lettori dello Shandean, Sterne potrebbe essersi ispirato a 49 Martin C. Battestin, op. cit., pp. 260-61. Ronald Paulson, Emblem and Expression: Meaning in English Art of the Eighteenth Century, London: Thames & Hudson, 1975, p. 14. 50 SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 159 Fig. 7. Geoffrey Smith, The manner of marbling paper (1738) un popolare manuale di arti e mestieri, The Laboratory: Or, School of Arts (1738) di Geoffrey Smith, all’epoca alla quarta edizione (1755), che fra le altre cose illustra “il modo in cui si marmorizza la carta” (Fig. 7). Occorre cospargere un foglio con gocce di colore diverso (cfr. le boccette di inchiostro), spruzzandole con un pennino o strumento simile, dopodiché, mentre l’inchiostro è fresco, con un pettine o altro attrezzo dentato bisogna disegnare “attraverso i colori una specie di figura a serpente”.51 A un dripping alquanto casuale fa seguito una traccia precisa – un taglio sbieco, una deviazione calcolata – che dà al motivo una forma solo apparentemente effimera. Pieni e vuoti, zigzag, bolle e venature sono sì oggetti metamorfici che prendono vita nello sguardo di chi li interpreta, ma sono anche l’esito di un ordine composito, che prescinde dall’imposizione di uno schema lineare ma non per questo rinuncia a morfologie più articolate. Di nuovo, è un concetto insufficiente di ordine il nemico di Sterne. Come una macchia di Rorschach, il motivo marmorizzato suggerisce un uso pianificato del frammento, una incompletezza deliberata che se rimanda alla dimensione drammatica del non-finito, dell’instabile, dell’inadeguato – sollecitando così una partecipazione spettatoriale – non può però non mettere l’accento sul fatto che si tratta di una forma artificiale, 51 Cfr. Peter J. de Voogd, “A Portrait and a Flourish”, The Shandean, 1, 1989, pp. 129-32. 160 / STEFANIA CONSONNI attentamente costruita. Come non condividere perciò l’idea di McKillop, secondo cui Sterne “intreccia l’uso di un simbolo che potrebbe sembrare degradante o ridicolo con la riaffermazione della sua dignità e del suo significato”, suggerendo come “le piccole cose su questa terra possano superare le grandi, le umili oscurare le maestose”?52 E appunto: dov’è discontinuità è legame, dov’è contingenza è racconto. Nelle parole di Sir Thomas Browne, il mondo è pervaso da un “aspetto particolare e oscuro della Provvidenza [che] noi chiamiamo Fortuna, quella linea serpentina e contorta attraverso cui Egli, in modo sconosciuto e segreto, guida le azioni dettate dalla Sua saggezza”.53 Fig. 8. Tristram Shandy, VI.40 La logica narrativa del volume V Pace Forster: e se fosse una divinità morfologica a plasmare i percorsi inattesi e irregolari di Tristram Shandy? Non mediante il limpido schema al tratto di Tom Jones, ma con la geometria del nodo, ossia di uno “specifico modo di vedere” il mondo attraverso una torsione, un’obliquità cifrata che rivela sempre un conflitto, una tensione “tra la volontà del tempo a incedere e la capacità dello spazio a trattenere, tra la in-tensione della direzione e la es-tensione della massa, tra l’intensità del divenire (moto) e la densità dell’essere (stato)”.54 È quanto mostra lo schema in VI.40 (Fig. 8), miscuglio di tipografia e illustrazione – annodamento, voluta, origami che piega e dispiega il mondo –55 ispirato secondo Carlo Ginzburg all’errabondo sistema di notazioni dell’eruditissimo Dictionnaire di Pierre Bayle, che visualizza la concatenazione spazio-temporale fra il viaggio in Na52 A.D. McKillop, The Early Masters of English Fiction, Lawrence: University of Kansas Press, 1956, p. 186. 53 Thomas Browne, Religio Medici, in Id., The Works of Sir Thomas Browne, ed. by Geoffrey Keynes, London: Faber & Faber, 1964-66. 54 Giuseppe Di Napoli, op. cit., p. 440. 55 Gilles Deleuze, Le pli. Leibniz et le Baroque (1988), trad. it. di Valeria Gionolio, La piega. Leibniz e il Barocco, Torino: Einaudi, 1988, p. 149. SCHEMI DI COSTRUZIONE SPAZIALE DEL TEMPO IN TRISTRAM SHANDY / 161 varra (A), una passeggiata con la signora de Baussière (B), i diavoli di Monsignor Della Casa (D) e alcune parentesi di scarsa importanza (c c c c c).56 Guai però a pensare che il rifiuto delle linee rette, lasciate ai teologi e ai piantatori di cavoli, si traduca automaticamente in cose come l’eccentricità, l’esuberanza, la dépense. A un soggetto strambo non può che corrispondere, si dirà, una forma dell’incomprensione, un’architettura aberrante. Vero, ma solo in parte, perché se c’è un motivo per rifiutare le linee rette, è che benché “certi uomini di spirito e di genio” le abbiano sempre confuse “con la linea di gravitazione” (TS, 432), non sono leggi gravitazionali sufficientemente elastiche, soffici, articolate, per spiegare un universo saldamente concepito e ingabbiato in una struttura tutt’altro che fragile o pretestuosa com’è quella allestita da Sterne. Non sono adatte a raffigurare la bellezza dell’intelligenza, del legame, della varietà nell’unità. È in questo particolare senso che le digressioni rappresentano “il sole, la vita, l’anima della lettura” (TS, 65). Come osserva Roger Robinson, il rococò di Tristram Shandy non rappresenta perciò alla fine dei conti che “il ricco rivestimento di una struttura attentamente elaborata”, di una configurazione che nell’intricata eccentricità della sua esecuzione si dimostra assolutamente rigorosa. Quanto più “il labirinto sembrerà irregolare” – tale è la vita segreta delle geometrie – allora tanto più attentamente risponderà “a una legge complessiva di configurazione”.57 E questo, insieme a tante altre cose, insegna Tristram Shandy. 56 Carlo Ginzburg, “La ricerca delle origini. Rileggendo Tristram Shandy”, in Id., Nessuna isola è un’isola, Milano: Feltrinelli, 2002, pp. 68-95. 57 Roger Robinson, “Henry Fielding and the English Rococo”, in R.F. Brissenden (ed.), Studies in the Eighteenth Century: Vol. II, Canberra: Australian National University Press, 1973, p. 111. § 8 Stefano A. Moretti “Quell’inquieto calesse” Deviazioni spaziotemporali in Laurence Sterne e Prosper Mérimée 1. Il buffone sull’altalena Le parole, che l’autore, come tutti gli autori, scriveva predicando da sé, furono frantese da due inglesi che andavano nel cortile considerando quell’inquieto calesse. Ugo Foscolo, Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, 1813 “Se un turista esotico […] ce lo chiedesse, sarebbe arduo spiegare in breve la rapida e durevole fortuna europea del Viaggio Sentimentale”. Così Giancarlo Mazzacurati apriva Il fantasma di Yorick, scritto sull’eredità formale e filosofica del Viaggio Sentimentale di Laurence Sterne.1 Se però quell’esotico turista fosse un viaggiatore nel Tempo, proveniente dalla quarta o dalla quinta dimensione, forse sarebbe lui a spiegare che il mezzo che ha impiegato per raggiungerci è molto simile, se non identico, a quello che Yorick sceglie per compiere il suo viaggio attraverso la Francia e l’Italia. Ma andiamo con ordine, cominciando – come si conviene – dalla Prefazione. 1.1. Un nuovo vecchio Veicolo2 Una carrozza senza cavalli è l’impossibile mezzo di trasporto di cui si serve 1 Giancarlo Mazzacurati, “Il fantasma di Yorick”, in Laurence Sterne, Un viaggio sentimentale, Napoli: Cronopio, 1991, II, pp. 153-91; ora in Id., Il fantasma di Yorick. Laurence Sterne e il romanzo sentimentale, Napoli: Liguori, 2006, pp. 41-71. Per alcuni suoi assunti fondamentali, il saggio di Mazzacurati è all’origine di buona parte delle riflessioni che seguono. 2 Mantengo l’uso sterniano della maiuscola per evidenziare il carattere astratto, quasi di categoria filosofica, che il termine veicolo assume in questo contesto. PARAGRAFO IV (2008), pp. 163-182 164 / STEFANO A. MORETTI Yorick per intraprendere un viaggio inedito, ‘sentimentale’; un viaggio introspettivo e retrospettivo, sobbalzante – il primo inciampo è già nel matter better della prima frase – per le strade della mente più che su quelle che attraversano le campagne francesi.3 Non solo resoconto o memoria di un viaggio, ma viaggio esso stesso, indagine rivolta a sondare delicate questioni relative al Sé, il Viaggio sentimentale pone al vaglio della critica la possibilità stessa di comunicare le proprie emozioni e percezioni; comunicazione che seppur possibile sarà sempre e comunque ‘traduzione’, traslazione e trasporto di una materia tanto volatile e volubile da rischiare di dissolversi – come una delicata pergamena – al primo contatto con l’aria.4 Se è impossibile uscire da sé comunicando agli altri ciò che proviamo e pensiamo, impossibile è anche viaggiare, uscire dai propri confini, siano essi corporei o nazionali. Assunto paradossale, per dare avvio a un racconto di viaggio, eppure è questa la tesi che Yorick, riprendendo e in buona misura parodiando un sermone del vescovo Joseph Hall,5 sembra sostenere nella celebre Prefazione scritta a viaggio e romanzo iniziato in una carrozza ferma nel cortile di un’osteria di Calais. Non una carrozza qualsiasi, ma una vecchia désobligeante6 abbandonata nell’angolo più remoto della corte colpisce la fantasia e il capriccio di Yorick che “trovandola in passabile armonia con il [suo] stato d’animo” decide di entrarvi per scrivere il suo viaggio. Serrandosi dentro la carrozza, tirando la tendina di taffeta nero per non 3 Yorick “viaggiava in Francia, ma la strada incrociava spesso la sua mente, e le principali avventure non coivolgevano briganti o precipizi ma le emozioni del cuore”. Virginia Woolf, “The Sentimental Journey”, in Id., The Common Reader, Second Series (1932), trad. it. di Vittoria Sanna, Il lettore comune. Seconda serie, Genova: il nuovo Melangolo, 1996, p. 85. 4 Sull’emblematico capitolo The Translation (il XXV secondo la numerazione del Foscolo) si vedano almeno Martin C. Battestin, “A Sentimental Journey and the Syntax of Things”, in J. C. Hilson, M. M. B. Jones e J. R. Watson (a cura di), Augustan Worlds: Essays in Honour of A. R. Humphreys, Leicester: Leicester University Press, 1978, pp. 223-39 (che definisce il Viaggio un libro “di ostacoli e traduzioni d’ogni genere”); Jean Jacques Mayoux, “Laurence Sterne”, in John Traugott (a cura di), Sterne: A Collection of Critical Essays, New York: Cliffs, 1968, p. 118 e Joseph Chadwick, “Infinite Jest: Interpretation in Sterne’s A Sentimental Journey”, Eighteenth-Century Studies, 12:2, 1978-1979, p. 205. Laddove non altrimenti indicato la traduzione è mia. 5 Joseph Hall, Quo Vadis? A Just Censure of Travel, As It is Commonly Undertaken by the Gentelmen of Our Nation, London, 1617; si veda Laurence Sterne, A Sentimental Journey through France and Italy by Mr. Yorick, a cura di Gardner D. Stout jr., Berkeley, University of California Press, 1967, pp. 332-36. D’ora in poi la sigla ASJ [Stout] farà riferimento a questa edizione. 6 Scelgo la grafia francese corrente désobligeante, mentre in Sterne si trova sempre Désobligeant. “QUELL’INQUIETO CALESSE” / 165 vedere e per non essere visto, Yorick sospende il corso della narrazione e scrive la premessa teorica al proprio romanzo. Chiuso nella carrozza immobile Yorick interrompe il suo viaggio, elimina lo Spazio e il Tempo attorno a sé; contemporaneamente egli interrompe anche lo Spazio e il Tempo del racconto, ne devia il flusso verso la dimensione della narrazione postuma – benché il testo si finga viatico, scritto a viaggio appena iniziato – e verso quella della lettura. Ciò provoca una serie di cortocircuiti tra gli spazi e i tempi della scrittura, dello scrittore, della lettura e del lettore (Yorick che scrive a Calais e Sterne a Coxwold diversi anni dopo; il tempo che impieghiamo a leggere il brano di Sterne e il flusso spazio-temporale nel quale viviamo e che interrompiamo leggendo).7 Trasgredendo le norme convenzionali del récit narrativo Sterne non solo confonde e sorprende il lettore, ma ne invade lo spaziotempo, lo obbliga a fermarsi, tornare sui propri passi e riprendere la lettura, resa frammentaria e sobbalzante almeno quanto la narrazione. Mazzacurati percepì la frattura provocata dall’inserimento di questa prefazione postuma e ne segnalò l’effetto straniante come paradigma dei luoghi sterniani “in cui il testo viene adoperato come uno strano crocevia di apparizioni e sparizioni, un luogo di scambio tra le diverse dimensioni (interno/esterno, mente/corpo, tempo/spazio)”.8 Che sia l’opera stessa questo luogo di scambio, crocicchio tra varie dimensioni, è Sterne a indicarlo: l’opera è letteralmente “Veicolo”, macchina che subisce continui smontaggi e rimontaggi e che non ha pudore a mostrarsi nella nudità dei propri ingranaggi.9 In 7 Alle categorie di tempo della scrittura, dello scrittore, del lettore e della lettura (mutuate da Tzvetan Todorov e Oswald Ducrot, Dictionnaire encyclopédique des sciences du language, Paris: Seuil, 1972, p. 400 e adottate nell’analisi del Tristram Shandy da Loretta Innocenti, “La narratività come spazialità del tempo. A proposito del Tristram Shandy”, Lingua e stile, 13:1, 1978, pp. 41-57), mi pare in questo caso adeguato intrecciare il concetto di cronotopo bachtiniano. In Sterne lettura e scrittura non perdono mai la propria corporeità; come per i cronotopi, “il tempo acquista in essi un carattere sensibilmente concreto”. Michail Bachtin, Formi vremeni i chronotopa v romane (1937-38), trad. it. di Clara Strada Janovic, “Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo”, in Id., Estetica e romanzo (1979), Torino: Einaudi, 2001, p. 396. 8 Laurence Sterne, Un viaggio sentimentale, cit., II, p. 18n13. 9 In una nota del 21 giugno 1767 Sterne definisce il diario che stava scrivendo all’amata Eliza Draper e il Viaggio sentimentale “sicuri come le prime due ruote della mia carrozza”: Laurence Sterne, A Sentimental Journey through France and Italy and Continuation of the Bramine’s Journal, a cura di Melvyn New e William G. Day, Gainesville, University of Florida Press, 2002, p. 205. D’ora in poi la sigla ASJ [Florida] farà riferimento a questa edizione. 166 / STEFANO A. MORETTI un passo centrale della Preface: In the Désobligeant il neonato viaggiatore sentimentale ammette con buona dose d’ironia che per attirare l’attenzione su di sé senza essere considerato un viaggiatore vanesio serviranno appigli migliori che non “la Novità del mio Veicolo”.10 Sia Gardner Stout, sia Melvin New, nelle rispettive edizioni critiche dell’opera offrono soltanto le occorrenze di questa formula ambigua; è merito di Mazzacurati avervi riconosciuto non solo il senhal con cui Sterne si riferisce alla propria opera ma anche il fondamento stesso della poetica sterniana, l’idea dell’opera letteraria non solo o non tanto come vettore di significati e significanti, ma come macchinario poetico in movimento.11 I sobbalzi di questa macchina poetica si lasciano dietro due tracce contigue, una formale e – a detta di Šklovskij – rivoluzionaria,12 l’altra esistenziale e lirica.13 La frantumazione o la forzatura dell’intreccio, che affascinò i formalisti, è il frutto di un consapevole benché precoce superamento della geometria euclidea applicato alla narrazione, uno sperimentalismo che a noi evoca soluzioni da avanguardia cubista;14 in campo esistenziale, invece, il moto perpetuo della macchina poetica sterniana ricorda con insistenza ai propri passeggeri la loro mortalità, offrendo però in cambio alcune possibilità di salvezza: la promessa di una continuazione letteraria dell’esistenza da un lato e la possibilità di uscire dalla tirannia del Tempo e dello Spazio praticandovi dei varchi dall’altro; fessure attraverso le quali Virginia Woolf sbir10 ASJ [Stout], p. 82, che Foscolo traduce “la novità della mia vettura”; si veda il Viaggio Sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, traduzione di Didimo Chierico [Ugo Foscolo] (1813), in Laurence Sterne, Viaggio Sentimentale, a cura di Giuseppe Sertoli, Milano: Mondadori, 1983, p. 21. D’ora in poi la sigla VS [Sertoli] farà riferimento a questa edizione. 11 ASJ [Florida], pp. 244-51 e Laurence Sterne, Un viaggio sentimentale, cit., II, p. 16n8. 12 Victor Šklovskij, “Tristram Shandy Sterne’a teorija romana” (1921), trad. it. Cesare G. De Michelis e Renzo Oliva, “Il romanzo parodistico. Tristram Shandy” in Id., Teoria della prosa, Torino: Einaudi, 1976, pp. 209-43; immensa la bibliografia che in seguito ne ha ripreso le intuizioni, mi limito all’ultimo in ordine di tempo: Carlo Ginzburg, “La ricerca delle origini. Rileggendo Tristram Shandy”, in Id. Nessuna isola è un’isola. Quattro sguardi sulla letteratura inglese, Milano: Feltrinelli, 2002, pp. 68-95. 13 Virginia Woolf, op. cit., p. 82. 14 Sul legame tra geometrie non euclidee, teorie delle n-Dimensioni e arti figurative si veda Linda Darlymple Henderson, The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art, Princeton: Princeton University Press, 1983. Sterne aveva già nel Tristram Shandy dimostrato come, al contrario di quanto affermato da Archimede, la retta non è necessariamente la linea più breve che unisce due punti; si veda Laurence Sterne, The Life and the Opinions of Tristram Shandy, Gentlemen, a cura di I. Campbell Ross, Oxford: Oxford University Press, 1983, VI, XL, p. 379. D’ora in poi la sigla TS farà riferimento a questa edizione. “QUELL’INQUIETO CALESSE” / 167 ciava le profondità dell’animo.15 Quelli che Šklovskij chiama “grafici d’andamento della fabula”, “mappe” che denunciano un ironico e consapevole straniamento formale, sono per Mazzacurati come i tracciati di un sismografo sentimentale che vede e registra solo le emergenze emotive, condannando all’oblio tutto quanto asseconda il flusso ordinario degli eventi.16 Viste a bordo della nostra carrozza queste mappe sembrano essere anche la registrazione tipografica degli accidenti del cammino: indicando un’affinità tra l’incoerenza del pensiero e la disconnessione del manto stradale queste tracce segnalano una analogia tra esperienza mentale e percezione corporale, espressa nel tremito della mano che tenta di vergare parole e che invece scarabocchia. 1.2. L’infinito viaggio della (meta)narrazione Il “movimento aperto” della macchina narrativa è il moto impresso da Yorick al trabiccolo nell’atto di scrivere impetuosamente il proprio sermone introduttivo, un moto che sospinge la stesura del Viaggio e che al tempo stesso ha un riscontro nella dimensione interna alla narrazione, tanto che due viaggiatori inglesi un po’ maliziosi si avvicinano incuriositi.17 Anche l’aspetto più macchinale del montaggio narrativo trova una rispondenza nella carrozza monoposto: nel capitolo seguente la Prefazione, Dessein, l’oste di Calais, per dissuadere Yorick dall’acquistare quel triste e scortese carrozzino avverte il viaggiatore che esso è stato già montato e smontato due volte per attraversare il Moncenisio. La désobligeante riassume e racchiude dunque in sé tutte le caratteristiche del Veicolo sterniano, del suo libro e della sua scrittura, ne diviene – quasi per sineddoche – il simbolo. La piccola carrozza all’interno della quale l’opera è scritta è l’opera stessa in miniatura, buio anfratto all’interno del quale le percezioni del protagonista sono proiettate come ombre.18 Il “Nuovo Veicolo” scelto da Yorick 15 Sterne “ci conduce fino all’orlo di un profondo precipizio dell’anima; lanciamo uno sguardo su quell’abisso; ma subito ci distoglie indicandoci splendidi prati verdi dall’altra parte”: Virginia Woolf, op. cit., p. 87. 16 Giancarlo Mazzacurati, op. cit., p. 50. 17 La stesura e la lettura di un sermone di Yorick è associata all’immagine di una carrozza già in un celebre capitolo del Tristram Shandy (II, XV), ove il caporale Trim, sfogliando le pagine della Nouvelle manière de fortifications par écluses (1618) di Simon Stevin alla ricerca del passo dove l’inventore fiammingo descrive la sua famosa “carrozza a vela”, fa inavvertitamente cadere un sermone che Sterne pronunciò il 29 luglio 1750 a York (TS, II, XV, p. 95). 18 Estranea a gran parte della critica sterniana, questa interpretazione è accennata in una 168 / STEFANO A. MORETTI come vettore ed emblema per il proprio viaggio non è dunque la carrozza vis-à-vis, ma l’angusta monoposto.19 Se il Viaggio Sentimentale è “la porta che ci permette di giungere ad una comprensione profonda di Sterne”,20 possiamo ora ipotizzare che, per sua stessa volontà, sia la désobligeante – con la Prefazione che in essa si presume sia stata scritta – la stretta via d’accesso al Viaggio Sentimentale. All’ingresso di Yorick nella désobligeante la soluzione di continuità narrativa è segnalata dall’inizio di un nuovo capitolo e da un brusco mutamento di registro stilistico; il tono e la costruzione retorica s’impennano improvvisamente verso quelli, sempre a un passo dalla parodia, del sermone o del discorso accademico. Già si è notato come la discontinuità sia non solo narrativa, ma spaziotemporale: “Il Viaggiatore Sentimentale. E qui intendo di me – e però mi sto qui ora seduto a darvi ragguaglio del mio viaggio” dice Sterne.21 Il luogo di scambio, lo shifter spaziotemporale non è qui il testo nel suo insieme ma lo spazio chiuso della carrozza, il suo stretto sedile che trasporta, come una wellsiana macchina del Tempo, lo scrittore che ha viaggiato e il suo lettore dal cortile di Calais allo studio di Sterne a Coxwold. Utilizzo di proposito il termine jakobsoniano shifter per indicare la funzione che la désobligeante, come dispositivo narrativo e come mezzo di trasporto, riveste nella costruzione della tessitura spaziotemporale dell’opera: Sterne fà di una sgangherata carrozza monoposto un commutatore metaforico, uno scambio lungo i binari dello spaziotempo, a volte centripeto, come all’inizio della Prefazione, altre centrifugo, come nel caso citato.22 In maniera del tutto simile Sterne si avvale, sul piano tipografico, delnota di Remo Ceserani: “la carrozza è simbolo e contenitore del racconto (i sobbalzi e i dondolii del calesse in cui si svolge il viaggio, detto la désobligeante, ne ritmano non solo le avventure ma anche la scrittura […])”. Sub voce “Carrozza”, in Remo Ceserani, Mario Domenichelli e Pino Fasano (a cura di), Dizionario dei temi letterari, Torino: Utet, 2007, I, p. 379. 19 Al contrario di quanto afferma Jean-Claude Dupas, Sterne ou le vis-à-vis, Lille: PUL, 1984. 20 György Lukács, “Reichtum, Chaos und Form: Ein Zwiegespräch über Lawrence Sterne” (1911), trad it. di Sergio Bologna, “Ricchezza, caos e forme. Un dialogo su Laurence Sterne”, in Id., L’anima e le forme, Milano: SugarCo, 1972, p. 217. 21 VS [Sertoli], p. 19. 22 Il termine scambio rimanda al procedimento di débrayage / embrayage, che Algirdas Greimas e Joseph Courtès (in Sémiotique. Dictionnaire raisonné de la théorie du langage, Paris: Hachette, 1979, pp. 79-82) derivano da Roman Jakobson, “Overlapping of Code and Message in Language” (1950), trad. it. di Luigi Heilmann e Letizia Grassi, “Commutatori ed altre strutture semplici”, in Id. Saggi di linguistica generale, Milano: Feltrinelli, 2002, pp. 149-53. “QUELL’INQUIETO CALESSE” / 169 le ‘poco eleganti’ lineette per aprire squarci nella temporalità narrativa ordinaria e immettere il lettore nel discorso e nel flusso di pensieri dei suoi protagonisti;23 inserendosi negli interstizi del testo, grazie alle ferite che l’autore stesso procura al proprio testo, al lettore è concesso penetrare la nebbia delle ambiguità per scoprire che a lui è dato tessere la trama profonda, Sentimentale, del viaggio e rinvenire attraverso l’esperienza o l’interpretazione i nessi che formano la “sintassi delle cose”.24 L’esibita frammentarietà, sintomo di una poetica, è al tempo stesso la caratteristica peculiare della concezione sterniana dell’individuo; già nel Tristram Shandy l’uomo è paragonato dal padre di Tristram a un fragile e traballante Veicolo, continuamente sottoposto al rischio di perdere i suoi pezzi a causa dei violenti sobbalzi che il suo viaggio comporta.25 Per Sterne l’Io è un oggetto discontinuo e inafferrabile, proprio come la forma narrativa adibita a raccontarlo e che tenta di contenerlo;26 questa reiterata 23 “La funzione più importante della lineetta […] è di fornire Tristram di una ‘illogica’ giuntura tra differenti generi di discorso: tra passato e presente, tra evento narrativo e intervento dell’autore rivolto al lettore; tra un flusso di pensieri e un altro nella mente di Tristram”: Ian Watt, “The Comic Syntax of Tristram Shandy”, in Howard Anderson e John S. Shea (a cura di), Studies in Criticism and Aesthetics, 1660-1800, Essays in honour of Samuel Holt Monk, Minneapolis: UMP, 1967, pp. 315-31. Altro spazio e altra sede meriterebbe il raffronto con la funzione delle lineette nell’opera di Emily Dickinson, dove peraltro l’immagine della carrozza è ricorrente. Sull’argomento sono da vedere, oltre al saggio di Watt appena citato, Richard B. Moss, “Sterne’s Punctuation”, Eighteenth-Century Studies, 15:2, 1981-1982, pp. 179-200; Elizabeth Brunner, “Dashing Genius: Emily Dickinson and the Punctuation of Cognition”, <http://members.tripod.com/~ElizBrunner/Scholar/ DashOne.htm>; Brita Lindberg-Seyersted, The Voice of the Poet: Aspects of Style in the Poetry of Emily Dickinson, Cambridge: Harvard University Press, 1968; Id., Emily Dickinson’s Punctuation, Oslo: University of Oslo, 1976 e Peter Crumbley, Inflections of the Pen: Dash and Voice in Emily Dickinson, Lexington: University Press of Kentucky, 1997. 24 “poiché il sentimento è il primo / a prestare qualche attenzione / alla sintassi delle cose”: Edward E. Cummings, “VII” (1926), in Id, Complete Poems, New York: HBJ, 1980, p. 290; da questi versi ha preso avvio il lavoro di Battestin citato in precedenza. Il ruolo del lettore interprete è stato invece messo a fuoco in Joseph Chadwick, op. cit., p. 205. 25 “Sebbene l’uomo sia tra tutti il più bizzarro veicolo, – disse mio padre, – pure ha una struttura così fragile ed è così mal connesso, che gl’improvvisi sobbalzi e le scosse violente a cui è inevitabilmente sottoposto il questo scabroso viaggio, lo manderebbero a gambe levate e lo ridurrebbero in pezzi una dozzina di volte al giorno, se non fosse, fratello Tobia, per una segreta molla ch’è in noi...” Laurence Sterne, The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman (1760-1767), trad. it. di Antonio Meo, La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo (1958), Milano: Mondadori, 1974, p. 204. D’ora in poi riferiremo a questo volume con la sigla TS [Meo]. 26 Questa vischiosità si riflette nelle numerose e opposte interpretazioni degli studiosi; Chadwick ad esempio ne evidenzia l’aspetto solipsistico, monadico, di “centro di coscien- 170 / STEFANO A. MORETTI scissione dell’Io mi pare si verifichi anche al termine del brano di cui ci stiamo occupando: interrompendo la scrittura Yorick “schizza fuori” dalla désobligeante, ma una parte di lui vi resta ‘dentro’ per continuare a scrivere il libro che stiamo leggendo. Mentre Yorick prosegue il proprio viaggio in un mondo di ectoplasmi, Sterne resta seduto al suo scrittoio e continua a proiettare, insieme a noi, le immagini del viaggio; la piccola carrozza funziona quindi come una camera ottica o un prisma attraverso il quale il fascio di luce del soggetto si rifrange in tutte le sue facce multicolori. Il mondo esterno, le persone che si incontrano, sono simili a un vetro riflettente, grazie al quale possiamo avere un’immagine dei nostri procedimenti mentali e dei nostri sentimenti e tentare infine di possederli; ma anche questa superficie sembra essere incrinata, lo specchio del mondo sembra essersi rotto irrimediabilmente in infiniti caleidoscopici riflessi.27 Questo carrozzino apparentemente dimesso deve aver lasciato un segno profondo nella memoria di un grande sterniano, E. T. A. Hoffmann, che scelse di rivestire di specchi la carrozza de La Principessa Brambilla. I passanti cercano di scoprire chi è l’ospite della fantastica vettura giunta a Roma per il Carnevale, ma tutto ciò che riescono a cogliere con lo sguardo è la loro stessa immagine riflessa e rifratta in mille direzioni differenti; la visione del passeggero resta preclusa e sorge ben presto il dubbio che tra i cuscini di velluto non sia seduto nessuno: il tentativo di vedere dentro di sé porta così alla scoperta di un Io in frantumi. L’introspezione, inevitabile all’interno della désobligeante, in Hoffmann è diventata impossibile; portiere specchiate ne precludono l’accesso, segno dell’inattingibilità dell’Io che il Romanticismo ha, nel frattempo, portato con sé.28 za” al cui interno anche l’Io del lettore è risucchiato e imprigionato; Mazzacurati vi scorge invece la “porosità” di una spugna che assorbe ottimisticamente tutte le sensazioni che il mondo le offre, nella certezza che un “Grande Sensorio” esista; i più, a partire da Stout, Battestin e Watt fino a Sertoli, leggono il Viaggio come una moderna peregrinatio che ha questi due poli come prima e ultima tappa. 27 Cfr. Joseph Lamb, “Language and Hartleian Associationism in A Sentimental Journey”, Eighteenth-Century Studies, 13:3, 1980, p. 290; Danielle Bobker, “Carriages, Conversation, and A Sentimental Journey”, Studies in Eighteenth-Century Culture, 35 (2006), pp. 243-66; e Carsten Meiner, “Voyage autour du carrosse. A Sentimental Journey de Laurence Sterne”, in Id., Le carrosse littéraire et l’invention du hasard, Paris: PUF, 2008, pp. 101-14. La metafora dello specchio rotto è già in Edward e Lilian Bloom, “Hostage to Fortune: Time, Chance, and Laurence Sterne”, Modern Philology, 85:4, maggio 1988, p. 500: “Sterne mostra un intarsio caleidoscopico di immagini incomplete, come nelle schegge di uno specchio rotto”. 28 “Il popolo accorreva da tutte le parti e voleva a tutti i costi guardare dentro la carrozza, ma non riusciva a vedere che il Corso e se stesso perché gli sportelli erano tanti spec- “QUELL’INQUIETO CALESSE” / 171 1.3. See-saw: frammentarietà e moto perpetuo Il ritmo sussultante della prosa, le frequenti interruzioni nello spaziotempo sono lo stratagemma con cui Sterne imprime alla sua vettura narrativa l’illusione di un moto perpetuo e perennemente incoativo, che blocca l’esistenza nella sua fase di gestazione e nascita esorcizzando così la caducità congenita del marchingegno umano, procrastinando la morte all’infinito. La désobligeante è forse la prima delle molte interruzioni, brusche virate e inciampi nello Spazio e nel Tempo che Yorick incontra per via; una pietra d’inciampo ancora piccola se confrontata con il masso – un “frammento” di montagna, a ben guardare – che nell’ultimo capitolo impedisce a Yorick il valico delle Alpi, lo obbliga a passare la notte nella stessa stanza con una dama piemontese e lo intrappola per sempre in un viaggio che non giungerà mai a destinazione.29 Queste frequenti barriere sono lo strumento di cui il soggetto sterniano si avvale per riflettere su di sé le proprie sensazioni, i propri pensieri e confrontarli con i nostri, lasciandoci liberi di interpretarli secondo la nostra inclinazione.30 Questi rari momenti permettono un contatto con l’altro, il ritorno alla semplicità della Natura che, per Sterne, è ancora oggetto di fede; sono petrae scandali in cui il Viaggiatore Sentimentale inciampa e grazie alle quali per pochi istanti si riconosce. Ritmo e interruzioni liberano il Veicolo e i suoi passeggeri restituendoli a una dimensione altra, dove Spazio e Tempo si dissolvono. Virginia Woolf amava Sterne per questo suo volo a zig-zag, da libellula, che permette al lettore di gettare uno sguardo nell’abisso dentro di sé e un attimo dopo di volgere lo sguardo ai pascoli smaglianti che fiancheggiano la strada. Il movimento saltellante di questa carrozza senza cavalli non è però un vago sobbalzo o dondolio, ma un see-saw, un’altalena: “E le sue fila mi guidano a dirittura (ove il su e giù [see-saw] di questa désobligeante mi lasci tirare innanzi) sì alle efficienti che alle finali cause de’ viaggi”.31 chi. Più d’uno, vedendosi riflesso a quel modo credeva già di star seduto dentro quella splendida carrozza e dalla gioia usciva completamente di sé”: Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, Prinzessin Brambilla (1820), trad. it. di Alberto Spaini, La principessa Brambilla, in Id., Romanzi e racconti, Torino: Einaudi, 1969, III, p. 418. 29 Anche la narrazione di Tristram è, a detta dei già citati Edward e Lilian Bloom, costellata di continui inciampi: “Tristram stesso […] inciampa per giorni e notti nell’incongruo movimento di uno zigzagare obliquo” (op. cit., p. 499). 30 Joseph Chadwick, op. cit., passim. 31 VS [Sertoli], p. 19. 172 / STEFANO A. MORETTI La désobligeante si muove quindi zigzagando, in disequilibrio a trecentosessanta gradi, attraverso tutte e quattro le direzioni e le Dimensioni. È però anche un’altalena onomastica, dato che il nome stesso del gioco sale e scende tra presente (o infinito) e passato: vedo-vidi, che tradotto alla lettera ci mostra come il movimento della désobligeante abbia ancora una volta a che fare sia con il viaggio nel Tempo – e nei tempi – sia con lo sconcertante paesaggio che quel viaggio ci lascia, per un breve attimo, scorgere. Questa altalenante carrozza, come il più celebre ‘gioco’ sterniano, il cavalluccio di zio Tobia, è un dispositivo grazie al quale Sterne guadagna alla sua Macchina poetica un moto perpetuo, a sé e ai propri lettori un altalenante e ironico viaggio tra Cielo e Inferno. Nel Discorso sul funzionamento meccanico dello spirito, pubblicato anonimo nel 1704, Jonathan Swift parodiava così i seguaci dei predicatori moderni, che promettono di sciogliere lo spirito dalle catene del corpo con una ‘operazione meccanica’: “Per prima cosa costoro rivolgono dentro i globi oculari tenendo socchiuse le palpebre. Poi stando seduti, si dondolano di continuo, come se fossero su un’altalena, emettendo ad intervalli regolari lunghi mugolii, prolungando il suono alla medesima intensità e scegliendo il momento in cui il predicatore vien meno”.32 È arduo pensare che Sterne, con l’immagine della ‘carrozza altalena’, non intendesse rimandare il lettore al geniale Frammento di Swift, considerando che la ciarlatanesca “operazione spirituale” dei Moderni consiste nel preferire, come Veicolo di ascesa al Cielo, un asino ad una carrozza, dove l’asino raffigura i Maestri illuminati e il cavaliere i suoi fanatici uditori: Si narra che, dovendo far visita in Paradiso, a Maometto fossero offerti vari veicoli per condurcelo, quali carri di fuoco, cavalli alati e berline celesti, e che lui li rifiutasse tutti, scegliendo di essere trasportato in cielo dal proprio asinello. […] Non c’è altro paese al mondo che sia dotato di tanta abbondanza di mezzi comodi e sicuri per fare un simile viaggio, e moltissimi di noi non vogliono altro veicolo che non sia quello di Maometto.33 32 Johnathan Swift, Discourse Concerning the Mechanical Operation of the Spirit. In a Letter To a Friend. A Fragment (1704), trad. it. di Attilio Brilli, “Discorso sul funzionamento meccanico dello spirito. Lettera a un amico (Frammento)”, in Id., Meditazione su un manico di scopa e altre satire, Milano: Archinto, 2008, p. 75. Poco oltre, egli individua l’origine di queste estasi altalenanti nei riti di iniziazione femminile del vicino oriente; l’argomento merita uno spazio ben più ampio, ho voluto però richiamarlo all’attenzione perché sia presente quando si parlerà della carrozza di Cenerentola. 33 Ivi, pp. 65-66. Swift elenca inoltre quattro motivi di sortita dell’anima dal corpo (profezia o ispirazione divina, possessione diabolica, immaginazione o spleen dovuto a “QUELL’INQUIETO CALESSE” / 173 Il pamphlet di Swift è pretestuosamente il frammento di una lettera anonima. A un’eterodossa e ironica questione teologica si associa quindi, come in Sterne, una riflessione sullo strumento letterario.34 La frammentarietà narrativa è legata all’altalenante moto del Veicolo narrativo anche in uno scritto del terzo conte di Shaftesbury: Questa maniera di scrivere è così ammirata e imitata nella nostra epoca che a stento abbiamo idea di qualsiasi altro modello. […] Tutto corre alla stessa nota, e batte esattamente sempre la stessa misura. Nulla, si vorrebbe pensare, potrebbe essere più tedioso di questo passo uniforme. La strada per Amble o per Canterbury non è, ne sono persuaso, più noiosa per un buon cavaliere di quanto questo altalenare dei saggisti non sia per un abile lettore. L’accorto compositore di un brano corretto è come un abile viaggiatore, che con esattezza misura il suo viaggio, considera il terreno, preordina le sue tappe, gli intervalli, le soste e le intenzioni, sino alla conclusione della sua impresa, che egli felicemente raggiunge dove inizialmente si era prefisso quand’era partito.35 Benché la Prefazione del Viaggio Sentimentale sembri rispondere direttamente a questo brano, le Riflessioni di Shaftesbury – come il Discorso di Swift – non sono mai state considerate tra le sue fonti dirette;36 meriterebbero invece la nostra frequentazione, come lucide e insospettabili antesignane della forma saggio novecentesca e postmoderna. L’attenzione alle origini, agli ingredienti di quella vasta e antica farmacia che è per Sterne la letteratura, non è quindi da intendersi come il tentativo anacronisticause naturali, entusiasmo religioso frutto di una “operazione meccanica”); una casistica che pare ricalcare, non senza ironia, le celebri maniai platoniche (Platone, Fedro, 244b245a e 249d-e). Scritto poco dopo La battaglia dei libri, questo libello è con ogni evidenza un ulteriore attacco al ‘partito’ dei Moderni. Per una accurata ricostruzione della ben nota querelle si veda Marc Fumaroli, Les abeilles et les araignées. La querelle des Anciens et des Modernes (2001), trad. it. di Graziella Cillario e Massimo Scotti, Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, Milano: Adelphi, 2005. 34 Come non pensare, parlando di asini, linee rette e deviazioni letterarie, al celebre passo shandiano: “se uno storiografo potesse tirar diritto per la sua strada come un mulattiere nel condurre il suo mulo” (TS [Meo], p. 28). 35 Anthony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftersbury, Characteristicks of Men, Manners, Opinions, Times (1714), Farnborough: Gregg, 1968, III, pp. 25-26. 36 La conoscenza da parte di Sterne di questi brani è indubbia; basti dire che, alla morte, egli possedeva quattro diverse edizioni dell’opera di Shaftesbury (numerate nel catalogo della sua biblioteca 963, 1416, 1653, 2382) e di Swift (nelle miscellanee numerate 1524 e 1620). Cfr. Charles Whibley (a cura di), A Facsimile Reproduction of a Unique Catalogue of Laurence Sterne’s Library, London: Tregaskis-Wells, 1930, pp. 39, 55, 59, 62, 63 e 89. 174 / STEFANO A. MORETTI co di confinare il Viaggio Sentimentale nei limiti del proprio secolo; è semmai rassegna e notazione di alcune ennesime merci delle molte che il Veicolo sterniano contrabbanda alla posterità.37 1.4. Il carro di Elia Come hanno notato tutti i curatori del Viaggio Sentimentale dopo Gardner Stout, la “Novità del Veicolo” è presente già nella dedica del sermone intitolato Il caso di Elia e la vedova di Zarepta, pronunciato dal reverendo Sterne il venerdì di Pasqua del 1747.38 Può stupire che Sterne tratti la Carità alla stregua di un genere letterario o di una forma narrativa, come farà poi per il romanzo di viaggio; in realtà il sermone, che ebbe all’epoca molto successo e fece incassare parecchie sterline alla parrocchia di York, è condotto in maniera piuttosto tradizionale e segue scrupolosamente il canone dell’eloquenza. Com’è noto sono altri due i sermoni che più hanno influenzato la composizione della Prefazione. Nella désobligeante: Il figliol prodigo scritto nel 1765 e il Quo Vadis? del vescovo Hall, pubblicato nel 1617. È però quantomeno curioso che il testo ove la metafora del veicolo sterniano appare per la prima volta sia dedicato al profeta Elia. Abbiamo visto che anche in Swift, tra i “Veicoli” che si immaginano offerti a Maometto e da lui rifiutati, ci sono “[c]arri infuocati e portantine celesti”; si potrebbe a questo punto ipotizzare, con più mezzi e spazio a disposizione, una ‘linea irlandese’ e rintracciare così un destino sotterraneo e insulare del profeta chiamato da Dio su un carro di fuoco, con fuggevoli ma frequenti emersioni in epoche e ambienti apparentemente lontani, come la letteratura omiletica irlandese e l’Ulisse di Joyce.39 Un’altra apparizione del carro di Elia, nata in seno all’anticlericalismo francese dell’Ottocento, sarà la laconica chiusa del secondo testo di cui ora ci occuperemo. 37 “Continueremo a fatturare nuovi libri come i farmacisti fatturano le loro misture, solo travasandole da un recipiente all’altro?” (TS [Meo], p. 243); ironica ruberia sottratta a Burton: “come farmacisti facciamo nuove miscele ogni giorno e vuotiamo un vasetto in un altro”. Robert Burton, “Democritus Junior to the Reader”, in Id., The Anathomy of Melancholy (1621), a cura di Floyd Dell e Paul Jordan-Smith, New York: Tudor, 1955, p. 18. 38 Laurence Sterne, The Sermons of Laurence Sterne: The Text, a cura di Melvyn New, Gainesville: Florida University Press, 1996, p. 40. 39 Un esempio emblematico del destino irlandese di Elia e di Enoch è l’omelia Da brón flatha nime; cfr. Enrica Salvaneschi, “Enoch in terra d’Irlanda: due testi extra-vaganti”, in Carlo Angelino e Enrica Salvaneschi (a cura di), Synkrisis. Testi e studi di filosofia del linguaggio religioso, Genova: il Melangolo, 1984. Il celebre ratto compare nel capolavoro joyciano nella sezione XIII, Cyclops, al termine della quale Leopold ascende alla gloria celeste col nome di ‘ben Bloom Elijah’. Cfr. James Joyce, Ulysses (1922), London: Penguin, 1986, pp. 281-83. “QUELL’INQUIETO CALESSE” / 175 2. L’attrice cenerentola Cenerentola qui non è un soprannome, proprio e inadeguato, ma aggettivo; non è personaggio, non è persona – ma qualità di persona, e quindi come in procinto di regredire, di disfarsi della cenere costitutiva del nome suo inventato. Enrica Salvaneschi, In vano, 2004 Il 14 giugno 1829 sulle pagine della Revue de Paris compare anonimo La carrozza del Santissimo Sacramento, breve pièce del ventisettenne Prosper Mérimée. L’anno seguente sarà accolta, con L’occasione, nella seconda edizione del Teatro di Clara Gazul, commediante spagnola. La fantomatica attrice spagnola cui è attribuita la composizione della raccolta teatrale è in realtà la maschera indossata da Mérimée per il proprio debutto letterario: il volto della commediante effigiata in alcune rare copie del volume è a guardare meglio quello del giovane Prosper. Egli stesso dissemina con arguzia gli indizi necessari a riconoscerlo; persino nel titolo si è voluto vedere l’anagramma di Etienne Jean Delécluze, autore del ritratto di Clara Gazul, mentore con Lingay e Stendhal del giovane Mérimée.40 La carrozza del Santissimo Sacramento è l’unica tra le otto brevi commedie di Clara Gazul ad aver avuto fortuna, sui palcoscenici e sulla carta stampata. Ad esclusione del primo, clamoroso fiasco del 1850 la pièce ha goduto, in patria e all’estero, di un interesse crescente, dovuto in gran parte alla storica messinscena di Jacques Copeau, Louis Jouvet e Valentine Tessier al Théâtre du Vieux Colombier nel marzo del 1920.41 La vicenda rappresentata da Mérimée ha ispirato numerose riletture, teatrali, musicali, letterarie e cinematografiche, da La Périchole di Meilhac e Halévy musicata da Offenbach e La carrozza del Santissimo Sacramento di Maurice Vaucaire sino a La carrozza d’oro, film di Jean Renoir del 1952 con Anna Magnani. Fortuna pari se non persino maggiore ha avuto la figura della protagonista di questo atto unico, Camila Perichole, trasposizione letteraria dell’at40 Samuel Borton, “A Note on Prosper Mérimée: Not de Clara Gazul But Delécluze”, Modern Language Notes, 75:4, 1960, p. 337, legge come anagramma ‘approssimato’ il titolo di Mérimée, in cui rintraccia due serie di lettere che compongono il cognome del pittore Delécluze (Le Théatre de Clara Gazul / Le Théatre de Clara Gazul). L’anagramma di Gazul, personaggio dei Romances moriscos novelescos, compare in modo evidente ne La Guzla del 1827. 41 In Italia resta invece poco conosciuta, benché tradotta nel 1993 da Guido Davico Bonino e nel 1997 da Carlo Terron. 176 / STEFANO A. MORETTI trice peruviana Micaela Villegas, fonte di ispirazione per numerosi autori, tra i quali Thornton Wilder e Luis Alberto Sánchez.42 Il saynete43 è ambientato a Lima, nell’appartamento del viceré del Perù don Andres de Ribera.44 La sua nuova splendida carrozza è appena giunta dal continente, ma un attacco di gotta, costringendolo in poltrona, gli impedisce di usarla per andare al battesimo di un cacicco convertito e mostrarsi in tutta la sua vanitosa ricchezza. L’attrice Camila Perichole, sua amante, sopraggiunge con grande strepito decisa ad avere per sé la carrozza e mettere così in scacco la vecchia marchesa Altamirano, sua “nemica capitale”.45 Don Andres, benché riservasse una scena di gelosia all’amata, scoperta a tradirlo con un militare, il capitano Hernán Aguirre, e con il torero mulatto Ramón, cede infine al capriccio e assiste dalla finestra allo scandalo provocato dalla Perichole: la sua carrozza lanciata di gran carriera verso la cattedrale taglia la strada a quella dell’odiata marchesa, che si ribalta tra il clamore della folla. Il dottor Tomas d’Esquivel, scampato all’incidente, lamenta con don Andres lo “scandalo enorme” di cui è stato testimone e vittima e chiede che la Perichole paghi per l’onta causata. Alla funzione da poco terminata pochi hanno prestato attenzione; persino il vescovo ha dimenticato di far promettere al padrino di educare cristianamente l’indio convertito. Il vescovo in persona entra in scena e tenendo per mano l’attrice celebra un nuovo beffardo rito, l’improvvisa redenzione della commediante. In un inatteso slancio di carità cristiana Camila Perichole ha deciso di donare la ‘sua’ nuova carrozza ai poveri preti appiedati, che la useranno per raggiungere i moribondi e prestare loro gli estremi conforti della religione. Rispetto alle fonti Mérimée presenta lo scandalo della carrozza dorata sotto una luce del tutto diversa; reinventando delle figure reali, le osserva con uno sguardo disincantato, quasi acre, e al tempo stesso profondamente umano. Dalla lettura del diario del capitano Basil Hall egli poté ricavare poco più che un aneddoto sprezzante sulla fantasia di una comme42 Si vedano Thornton Wilder, The Bridge of San Luis Rey, New York: Boni, 1927 e Luis Alberto Sánchez, La Perricholi, México: Leyenda, 1944. 43 Il saynete è una breve forma teatrale, comica o brillante, utilizzata soprattutto da Ramón de la Cruz nel XVIII secolo. Sul suo uso in Mérimée si veda Pierre Trahard, La jeunesse de Prosper Mérimée, Paris: Champion, 1925, p. 112. 44 Don Manuel de Amat Junient, Planella, Aimeric y Santa-Pau – questo il vero nome del vicerè – fu governatore del Perù dal 1761 al 1775; secondo le fonti storiche dalla relazione con Micaela ‘Perricholi’ Villegas ebbe anche un figlio. 45 Utilizzo per i passi in italiano la versione di Guido Davico Bonino in Prosper Mérimée, La Carrozza del Santo Sacramento, Macerata: Liberilibri, 1993. “QUELL’INQUIETO CALESSE” / 177 diante capricciosa e spendacciona che, per mettere alla prova il proprio ascendente sull’amico governatore, lo obbliga a farsi costruire una carrozza decidendo, altrettanto capricciosamente, di donarla alla curia.46 L’invenzione scenica rivela invece una tessitura abile e delicata; con piglio maturo egli ordisce la trama e dispone un impeccabile meccanismo teatrale che supera l’anticlericalismo e l’épater le bourgois ponendo questioni sociali e politiche di rilievo, quali la libertà dei subalterni nelle colonie, l’indipendenza femminile, il rapporto tra attrice e cortigiana nella società borghese. La beffarda scenetta è anche una riflessione estetica e ontologica sullo statuto della verità nell’arte, sulla evanescente e proteiforme identità della commediante, e al tempo stesso teologica, sulla possibilità – qui ironizzata – della Grazia. Anche la carrozza di Mérimée è petra scandali; come la désobligeante di Sterne essa taglia la strada al regolare flusso degli eventi, su di essa i valori consueti inciampano e vengono per un breve lasso di tempo annullati, le identità dei personaggi e le convenzioni sociali si confondono. Lo scontro tra la carrozza della Perichole e quella della marchesa – assente nei resoconti storici e probabilmente preso a prestito a Calderón47 – è un gesto intenzionale; la sfida all’avversata marchesa non è soltanto l’ennesimo affronto nella scaramuccia tra due donne vanitose, ma un atto deliberato contro l’aristocrazia coloniale. La notorietà e l’avvenenza sono per l’attrice armi di seduzione tanto quanto l’imprevedibilità, libertà garantitale da uno statuto sociale ambiguo, meticcio. Quando don Andres minaccia di incarcerarla Camila risponde che “ci sarebbe una rivolta a Lima se la Perichole finisse in prigione”;48 la consapevolezza del potere conferito dal ruolo di mantenuta, la conquista attraverso la seduzione dell’indipendenza 46 Basil Hall, Extracts from a Journal, written on the coasts of Chili, Peru and Mexico, Edinburgh: Constable, 1825, vol. I, pp. 238-41, individuato come fonte da George Hainsworth, “Autour du Carrosse du Saint-Sacrement: Basil Hall, La Araucana et l’Histoire générale des voyages”, Zeitschrift für franzosische Sprache und Litteratur, 2, 1972, pp. 14152. Mérimée ha certamente letto Hall nell’edizione originale: se in francese la carrozza è “un brillante equipaggio dal gusto antico” (Basil Hall, Voyage au Chili, Pérou et au Mexique, Paris: Bertrand, 1825, I, p. 223), nell’originale è “una grande, pesante, vecchia carrozza gilt (dorata)” (Basil Hall, Extracts from a Journal, cit., I, p. 239), come nella pièce “un’attrice su una carrozza doré (dorata)” (Prosper Mérimée, Le Carrosse du Saint-Sacrement, cit., p. 240). I corsivi sono miei. 47 Il racconto di un incidente tra due carrozze è l’avvio di Cuál es major perfección? di Calderón de la Barca, citato da Mérimée in esergo alla Carrozza. 48 Prosper Mérimée, La Carrozza del Santo Sacramento, cit., p. 43. 178 / STEFANO A. MORETTI economica e il tentativo di metterla a frutto per superare le barriere che quello stesso ruolo impone, sono i tratti di molte Margherite Gauthier che durante il Secondo Impero provocheranno la preoccupazione di non pochi padri e moralizzatori. Il nobile o il borghese à la Armand Duval che ama una cortigiana o un’attrice senza mantenerla rischia di sovvertire la rigida gerarchia sociale e sessuale così come la donna che possiede da sé il danaro per sostenere le proprie passioni e i propri capricci; per la società essi sono entrambi una minaccia.49 Per il mondo borghese esiste tuttavia un pericolo ancora maggiore dello scandalo in sé ed è l’uso dello scandalo che le attrici cortigiane del Secondo Impero fanno o tentano di fare. Possiamo scorgere il germe anche di questo male nel gesto della Perichole che sporgendosi dal finestrino ordina al cocchiere di tagliare la strada alla marchesa per fare ed essere scandalo. La scorribanda dell’attrice è però anche uno scandalo dell’identità. Una commediante conduce per definizione un’esistenza proteiforme se non addirittura schizoide, in ogni caso indefinibile secondo i parametri identitari consueti. La consapevolezza della Perichole e di Mérimée in questo senso è lampante; al viceré che le ricorda di non essere “un vescovo, […], un uditore o una marchesa, per andare in carrozza” Camila replica di essere di volta in volta “l’infanta d’Irlanda, la regina di Saba, la regina di Thomiris, Venere e santa Giustina, vergine e martire”.50 Il travestimento di Mérimée è qualcosa di più che un mero vezzo romantico, il gioco di un enigmista erudito o la maschera presa a prestito da un esordiente timoroso; la scelta di indossare i panni di una commediante spagnola che a sua volta interpreta il ruolo di una nota attrice peruviana del Settecento è, ancora, come riflettersi in uno specchio rotto. L’essenza femminile sarà sempre per Mérimée una preda inafferrabile, desiderata e temuta ad un tempo, in cui egli vedrà incarnato il contrasto insanabile tra verità e finzione.51 Per questo Mérimée partecipa al dibattito sul Vero solo nella misura in cui esso gli dà modo di perseguire la propria indagine sulle donne e le fornisce una cornice teorica. Benché le sue scelte formali e contenuti49 Un utile raffronto può essere quello con Michel Foucault, La volonté de savoir, Paris: Gallimard, 1976, pp. 161-73. 50 Prosper Mérimée, La Carrozza del Santo Sacramento, cit., p. 37. 51 Guido Davico Bonino, “Introduzione”, in Prosper Mérimée, La Carrozza del Santo Sacramento, cit., pp. xiv-xv. Il motto di Mérimée, va ricordato, sarà sempre mémneso apistéin (ricordo di non credere): Prosper Mérimée, Théâtre de Clara Gazul, Romans et nouvelles, éd. par Jean Mallion et Pierre Salomon, Paris: Gallimard, 1978, p. lv. “QUELL’INQUIETO CALESSE” / 179 stiche siano state recepite come l’esempio di una nascente nuova generazione di scrittori romantici, esse non sembrano essere lo scopo ma il mezzo del suo fare letteratura; nei suoi ritratti femminili egli ci restituisce non solo il prodotto di una riflessione estetica, ma anche il nodo irrisolto di una cogente questione privata. L’ultima parola, nella Carrozza del Santo Sacramento, è lasciata ad un anonimo pretino. Fino ad allora il canonico ha assistito in disparte agli ultimi sviluppi della vicenda, è entrato al seguito del vescovo ma non ce ne siamo neppure accorti. Mentre il suo superiore saluta e sorride alla ‘redenta’ Perichole, egli ha l’onore della morale finale: “Signorina, questa carrozza sarà per voi come il carro di Elia, vi porterà dritto in cielo”.52 L’ammiccante presenza del vescovo sulla scena venne ritenuta scandalosa dagli spettatori della prima rappresentazione del 1850, che abbandonarono la sala e fischiarono gli attori. Mérimée non solo si disinteressò completamente della messa in scena, ma tentò pure, con garbo ma con decisione, di impedirla. La sua tormentata assenza di fiducia nelle donne e nella verità si intreccia a una forse altrettanto tormentosa assenza di fede.53 La redenzione della Perichole è certo una parodia, come ironico è il rimando all’episodio biblico del carro di Elia; tuttavia in essi si cela il dubbio e, con il dubbio, la speranza. La carrozza d’oro non perde quindi del tutto la valenza soteriologica che anche altri Veicoli, a cominciare proprio dal carro di Elia, hanno avuto. Nella mitologia classica e nelle religioni arcaiche, tradizioni in cui le idee di soprannaturalità e di vita ultramondana non implicano una promessa di salvazione o di vita eterna ma un processo di rigenerazione, il viaggio di un carro o di una carrozza fuori dal Tempo e dallo Spazio ha assunto un valore diverso, sempre però legato al passaggio da uno stato dell’esistenza marginale e incompleto a uno stato superiore. Il carro di Elia trova il suo corrispettivo nei riti di passaggio legati ai culti orfici, praticati a Roma ancora nella tarda età imperiale, nel ratto di Persefone. L’immagine arcaica del carro di Proserpina giunge con grande vitalità sino all’età moderna, dove, perduto il suo valore iniziatico, si intreccia alla vicenda di Cenerentola.54 Tra le molte analogie 52 Prosper Mérimée, La Carrozza del Santo Sacramento, cit., p. 73. “Dio mi sembra molto probabile […]. Quanto all’altro mondo, stento molto di più a credervi”. Lettera alla signora de la Rochejaquelein del 7 novembre 1859, citata in Prosper Mérimée, Théâtre de Clara Gazul, Romans et nouvelles, cit., p. lv. 54 Il legame profondo che unisce Kore a Cenerentola non riguarda solo l’antropologia delle religioni ma anche la psicoanalisi, come si evince da Adalinda Gasparini, La luna 53 180 / STEFANO A. MORETTI strutturali che rendono salda questa parentela, la funzione svolta dalla carrozza o dal carro nella vicenda simbolica ed esistenziale delle due fanciulle è una delle più importanti. La carrozza è ancora una volta ‘Veicolo’ verso una dimensione senza Tempo, di segregazione e sterilità: mentre Persefone è rinchiusa nelle ‘case ammuffite’ di Ade il tempo naturale si arresta, i fiori e le messi smettono di crescere; tornando alla luce ella fonderà un nuovo Tempo, quello delle stagioni, fatto di continue morti e rinascite. Nella prima apparizione letteraria di Cenerentola, Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, gli echi dei riti di passaggio sono ancora tutti ben udibili: Zezolla, uccisa la prima madrina, vive davvero nell’Inferno della cenere, ma una volta trasformata dalla fata è come una regina tra dodici paggi, dodici come i mesi dell’anno che lei governa.55 C’è in Basile un dettaglio che lega in modo indissolubile la casta fanciulla delle origini a numerose e meno caste fanciulle delle letterature europee: alla sua terza metamorfosi Cenerentola “fu vestita superbamente e messa in una carrozza d’oro, con tanti servi intorno che sembrava una puttana sorpresa durante il passeggio e circondata di sbirri”.56 La festa a cui tutti si recano per tre volte nel racconto e in occasione della quale il re si innamora di Cenerentola non è il ballo tramandatoci dalle versioni posteriori della favola ma il giorno della festa, la domenica. Cenerentola, come la Perichole si reca in chiesa con una carrozza d’oro e come lei sembra o forse è una cortigiana. C’è però anche un altro elemento comune tra le due vicende: vedendosi seguita ancora una volta dal servo del re Cenerentola chiede al cocchiere di andare più veloce; la carrozza si mette a correre pazzamente e, mentre lei perde una pianella, vola via. Superati i limiti del Tempo, Cenerentola infrange anche quelli dello Spazio. nella cenere. Analisi del sogno di Cenerentola, Pelle d’Asino, Cordelia, Milano: Franco Angeli, 1999, pp. 35-52 e passim. Sui riti di iniziazione femminile si vedano a titolo d’esempio Arnold van Gennep, Les rites de passage, Paris: Nourry, 1909, e Mircea Eliade, Initiation, Rites, Sociétés secrètes. Naissance mystique, Paris: Gallimard, 1976. 55 Zezolla il secondo giorno è “fatta bella come a no sole” su una carrozza tirata da sei cavalli. Nella antica smorfia napoletana il sei, che è anche il numero della novella all’interno della prima giornata, indica tra altre cose anche la Luna. 56 Giambattista Basile, Lo Cunto de li Cunti, ovvero lo trattenimento de’ peccerille (1634), trad. it. di Michele Rak, Milano: Garzanti, 1986, p. 133. “QUELL’INQUIETO CALESSE” / 181 3. Au bout du souffle Le parole – così immagino spesso – sono piccole case, con cantina e soffitta. […] Salire e discendere, nelle parole stesse. Questa è la vita del poeta Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, 1992 Benché apparentemente differenti, i viaggi metaforici della désobligeante e della carrozza d’oro provocano tutte e due quella che Mircea Eliade chiamerebbe un’altalenante “uscita dal Tempo”.57 Entrambe alternano discese nei recessi dell’Io e brusche risalite verso un improbabile altro mondo; entrambe partecipano alla medesima rivolta contro il tempo cronologico. Salendo a bordo di queste due carrozze il lettore è portato alla Quinta Dimensione di cui parla Norbert Elias nel suo Saggio sul tempo; qui egli prende consapevolezza del carattere prettamente umano, convenzionale, dello spaziotempo e può finalmente scioglierne i legami, rendendo così praticabile l’accesso a concezioni temporali differenti, non necessariamente sottomesse al dominio degli orologi.58 La lettura, la scrittura, l’insolito e sobbalzante viaggio di un’immaginaria carrozza sono uscite dal tempo, “maglie rotte” nella trama dell’esistenza direbbe Montale; in quanto tali permettono di partecipare per quel che è possibile a ciò che resta del “tempo del mito” e consentono di immaginare una melodia sacra di cui possiamo ormai intendere solo degli echi confusi.59 Ci troviamo così di fronte a un bivio decisivo, la scelta tra quale via intraprendere in questa ‘altalena’ esistenziale e letteraria: l’introspezione o la fuga nell’Eterno, il buio abitacolo della désobligeante o l’incontro con l’altro, la cenere del camino o la carrozza d’oro. Aby Warburg individuò nell’alternarsi di queste due strade simmetriche l’essenza stessa della nostra vita, equiparandolo al ritmo del respiro: “L’ascesa con Elio verso il sole e la discesa con Proserpina agli inferi simboleggiano due fasi, che appartengono inseparabilmente al ciclo della vita, proprio come l’alternarsi del respiro. […] Sta a noi riuscire a prolungare, con l’aiuto di Mnemosyne, questo intervallo del respiro”.60 La scelta è illusoria, impossibile, per57 Mircea Eliade, Aspects du mythe (1963), trad. it. di Giovanni Cantoni, Mito e realtà, Roma: Borla, 2007, p. 226. 58 Norbert Elias, Über die Zeit. Arbeiten zur Wissenssoziologie II (1984), trad. it. di Antonio Roversi, Saggio sul tempo, Bologna: Mulino, 1986, p. 45. 59 Mircea Eliade, op. cit., p. 227. 60 Aby Warburg, citato in Ernst Hans Gombrich, Aby Warburg: An Intellectual Bio- 182 / STEFANO A. MORETTI ché abissi di dolore e vette di gioia sono fasi inalienabili del nostro essere; abbiamo però la possibilità, attraverso la letteratura, il viaggio, il dialogo e lo scandalo che talvolta essi producono, di trovare in questo continuo dondolìo un punto d’equilibrio o di disequilibrio: a questo valgono le carrozze di Sterne e di Mérimée che abbiamo, per un breve tratto, seguito. Lo scarto cruciale, il voltare della clessidra sembra dunque risolversi nell’istante di un respiro, o meglio nell’attimo in cui, dopo che un respiro s’è appena concluso e un altro sta per nascere, l’esistenza subisce un breve arresto, un’apnea. graphy (1970), trad. it. di Alessandro Dal Lago e Pier Aldo Rovatti, Aby Warburg. Una biografia intellettuale (1983), Milano: Feltrinelli, 2003, p. 206. I collaboratori di questo numero GABRIELE BUGADA ([email protected]), laureatosi presso l’Università di Bologna, è dottorando in Teoria e Analisi del Testo presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato articoli su David Lynch, il cinema noir e la logica onirica. Attualmente si occupa del rapporto tra elaborazione finzionale e referenzialità storica nella letteratura contemporanea. STEFANIA CONSONNI ([email protected]), dottore di ricerca in Teoria e Analisi del Testo, è assegnista presso l’Università di Bergamo, e sta lavorando a un progetto dedicato a origini e forme del paradigma realista. Ha pubblicato Linee, intrichi, intrighi (Genova: ECIG, 2003), sull’estetica del Settecento inglese, e numerosi saggi sulle morfologie narrative anglo-americane moderne e contemporanee. Di prossima pubblicazione, Geometrie del tempo, sulle configurazioni spazio-temporali del romanzo settecentesco. Collabora con le pagine culturali de il manifesto. PAOLA DI MAURO ([email protected]), dottore di ricerca in Linguistica e Letterature Comparate, è docente a contratto di Lingua Tedesca e Letteratura Tedesca presso l’Università di Catania, e svolge una ricerca post-dottorato – promossa dall’Università di Vienna – sulle immagini topografiche in Kafka. È autrice della monografia Antiarte Dada (Catania-Roma: Bonanno, 2005) e di numerosi saggi sulla letteratura tedesca del Novecento. GIANPAOLO IANNICELLI ([email protected]), dottore di ricerca in Sociologia e Ricerca Sociale, è docente a contratto di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi presso l’Università di Napoli Federico II. Si interessa di memoria, comunicazione pubblica e industria culturale. Ha scritto saggi sul rapporto tra memoria e identità, sulla costruzione sociale dello spazio e del tempo e sulle relazioni tra mass media e immaginario collettivo. Con Alexander Höbel è autore di La strage del treno 904. Un contributo dalle scienze sociali (Napoli: Ipermedium, 2006). LUIGI MARFÉ ([email protected]), dottore di ricerca in Letterature Comparate presso l’Università di Torino, si occupa di letteratura di viaggio contemporanea. Scrive su L’Indice dei libri del mese ed è redattore della rivista www.compalit.net. Ha pubblicato saggi su Italo Calvino e Primo Levi e curato il volume La cultura italiana tra autonomia e potere. Storia di vent’anni (Torino: L’Indice, 2007). Ha scritto inoltre – con Franco Marenco – il capitolo “La letteratura di viaggio” per La letteratura europea, di prossima uscita per UTET. STEFANO A. MORETTI ([email protected]) è dottorando di ricerca in Letterature e Culture Moderne e Comparate all’Università di Torino, dove conduce una ricerca sulla figura della carrozza nella drammaturgia, nel cinema e nella narrativa tra Sette e Novecento. Ha pubblicato saggi su Giovan Battista Andreini, e lavora come attore professionista presso i principali Teatri Stabili italiani con diversi registi tra i quali Luca Ronconi, Peter Stein, Gianfranco De Bosio, Robert Carsen e Tim Stark. NICCOLÒ SCAFFAI ([email protected]) collabora con la Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università di Bergamo – dove ha conseguito il dottorato in Teoria e Analisi del Testo e svolto attività di ricerca postdottorato – ed è docente a contratto di Letterature Comparate all’Università di Siena. Fra le sue pubblicazioni, Montale e il libro di poesia (Lucca: Pacini Fazzi, 2002), Il poeta e il suo libro. Retorica e storia del libro di poesia nel Novecento (Firenze: Le Monnier, 2005), e La regola e l’invenzione. Saggi sulla letteratura italiana nel Novecento (ivi, 2007). Ha inoltre curato il commento alle Prose narrative di Montale (Milano: Mondadori, 2008) e il volume ‘Liber’, ‘fragmenta’, ‘libellus’ prima e dopo Petrarca (con Francesco Lo Monaco e Luca Carlo Rossi, Firenze: SISMEL – Edizioni del Galluzzo, 2006). È tra gli autori del Dizionario dei temi letterari (Torino: UTET, 2007) e della Letteratura europea (ivi, in via di pubblicazione). Scrive sull’Indice dei libri del mese e altri periodici. GIOVANNI SOLINAS ([email protected]) ha conseguito il dottorato di ricerca in Teoria e Analisi del Testo presso l’Università di Bergamo con una tesi sulle estetiche performative nella poesia sperimentale del Novecento. Si occupa di teoria della letteratura e di problemi relativi alle avanguardie novecentesche. Ha pubblicato articoli su autori contemporanei quali Franco Fortini, Antonio Moresco, Andy Warhol, Emilio Villa, e su temi come il mito nel surrealismo, la cospirazione in letteratura ed il personaggio impostore. Numeri arretrati PARAGRAFO I (2006) §1. STEFANIA CONSONNI, Disegni e realtà. Le finzioni di Don DeLillo §2. LUCA BERTA, Il neon di David Foster Wallace e il punto di vista dell’aldilà §3. LAURA OREGGIONI, La punta dell’iceberg. Sten Nadolny e il senso della possibilità §4. NICCOLÒ SCAFFAI, Altri canzonieri. Sulle antologie della poesia italiana (19032005) §5. GABRIELE BUGADA, Lo specchio del sogno. Lo statuto della rappresentazione in Mulholland Drive di David Lynch §6. GIOVANNI SOLINAS, Il mito senza fine. Poetica dell’immagine e concezione mitica in André Breton – Una proposta d’analisi §7. ANDREA GIARDINA, Il viaggio interrotto. Il tema del cane fedele nella letteratura italiana del Novecento §8. MICHELA GARDINI, Derive urbane fin de siècle §9. GRETA PERLETTI, Dal mal sottile al mal gentile. La malattia polmonare e il morboso ‘interessante’ nella cultura dell’Ottocento PARAGRAFO II (2006) §1. ANDREA BELLAVITA, L’emersione del Reale. Perché una psicoanalisi del cinema contemporaneo? §2. ANDREA MICONI, Dal real maravilloso al realismo magico. Approccio evolutivo alla formazione di un genere §3. CLAUDIO CATTANEO, Cornici per un assassinio. I confini del testo in Libra di Don DeLillo §4. MASSIMO VERZELLA, Embers di Christopher Hampton e la traduzione della malinconia §5. ENRICO LODI, La retorica del potere nei discorsi del primo franchismo §6. SILVIA ULRICH, Gli eredi di Felix Krull. Dai ‘falsi’ di Wolfgang Hildesheimer alle imposture del caso Gert Postel §7. FRANCESCA PAGANI, Dal ‘cielo stellato’ di Mallarmé alle ‘bolle d’inchiostro’ di Reverdy. L’immaginario del libro magico nella poesia francese della modernità §8. LUCIA QUAQUARELLI, La vittoria di un’onda. Palomar di Italo Calvino §9. VALENTINA LOCATELLI, Christa Wolf, una moderna Medea in California PARAGRAFO III (2007) §1. FRANCESCO GHELLI, Il potere del consumo fra storia e immaginario. Note in margine a L’impero irresistibile di Victoria de Grazia §2. NUNZIA PALMIERI, L’epistolario di Umberto Saba. Storia di un’edizione mancata §3. MARCO TOMAS- SINI, Il viaggio dell’eroe. Luther Blissett e le epifanie del molteplice §4. FRANCESCA CAMURATI, Quando la tradizione è più forte della realtà. Il modello ariostesco nella Araucana di Alonso de Ercilla §5. GIULIANA ZEPPEGNO, Sergio Toppi illustra Friedrich Dürrenmatt §6. ANTONELLA AMATO, Rilke, Nietzsche, e il Compimento dell’amore di Musil §7. SUYENNE FORLANI, Per un’analisi del messaggio pubblicitario russo §8. SARA PANAZZA, Zoomorfismi dell’anima. Epifanie di decentramento in Argo e il suo padrone di Svevo I numeri arretrati possono essere acquistati presso il sito web dell’editore Sestante: http://www.sestanteedizioni.it I saggi, le norme redazionali e altre informazioni sono disponibili sul sito web di PARAGRAFO: www.unibg.it/paragrafo Finito di stampare nel mese di dicembre 2008