Gorski kotar, l`Eden per chi ama i funghi

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Gorski kotar, l`Eden per chi ama i funghi
DEL POPOLO
Andando
per i boschi:
non solo porcini
Pagine 2 e 3
Chiara Vigini
e i piatti della
nostra memoria
Pagine 4 e 5
Orzo, cereale
sottovalutato
da riscoprire
e valorizzare
Pagina 6
Sogliola: il
sandalo di Giove
protagonista
in Istria
Pagina 7
Udine, qualità
ed eccellenza
per il successo
di Good 2009
Pagina 8
L’ANTIPASTO
di Fabio Sfiligoi
cucina
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Gorski kotar, l’Eden
per chi ama i funghi
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Da Kali a Hollywood, in difesa del tonno rosso
Kali, nei pressi di Zara, è considerata
la capitale della pesca, non solo della Dalmazia, ma dell’intera costa adriatica. Nei
giorni scorsi questa località è balzata agli
onori della cronaca internazionale grazie alla “Kali Tuna”, una società fondata
nel 1996 da due emigranti di ritorno dall’Australia in collaborazione con partner
australiani e giapponesi. Come indica il
nome stesso, l’azienda si occupa di allevamento di tonno, con la sua attività pioneristica è stata una delle prime nel bacino del
Mediterraneo. Dopo gli inizi in cui l’export
raggiungeva le trenta tonnellate annue,
oggi l’esportazione della “Kali Tuna” arriva a significative 1.400 tonnellate l’anno
e dai sei dipendenti del 1996 si è passato
ai 120 attuali. La ditta dalmata ha la concessione per tre aree di allevamento, parliamo complessivamente di una superficie
pari a 200.000 metri quadrati. La sua flotta
è composta da cinque pescherecci più una
nave di servizio per la manutenzione delle
aree di allevamento. Ovviamente la “Kali
Tuna” è dotata di tunnel e celle frigorifero
grazie ai quali il tonno prodotto viene congelato a basse temperature e inviato prevalentemente in Giappone.
Dell’azienda dalmata si è parlato nei
giorni scorsi perché, assieme all’Università di Spalato, è riuscita a compiere un
passo vitale verso un allevamento a ciclo
chiuso di vita del tonno atlantico a pinne
blu, prezioso dal punto di vista commerciale. Il Thunnus thynnus è conosciuto
anche come tonno rosso, è il più comune,
ma anche quello a rischio di estinzione.
Può arrivare a pesare fino a 300 chilogrammi e il suo prezzo al mercato di Tokio può arrivare a sfiorare i 100.000 euro
a esemplare. La sua carne, oltre a essere di qualità elevata e superiore rispetto
alle altre specie di tonno, è molto ricercata soprattutto per la preparazione di sushi e sashimi. Secondo i dati diffusi da
Greenpeace, nei mari internazionali sono
presenti soltanto 10.000 esemplari di tonno rosso. Il destino di questa specie, dicono gli attivisti di Greenpeace, è segnato se
non si prendono contromisure adeguate.
Da qui si capisce la portata del risultato
ottenuto dalla “Kali Tuna”. Gli scienziati
marini dell’Università di Spalato, appunto, hanno confermato che la gametogenesi è stata completata e che le uova di tonno sono state deposte in gabbie al largo
della costa. Nell’esperimento oltre 800
uova di covata sono state conservate in
una gabbia speciale a partire dalla primavera del 2006. I pesci si sono riprodotti
con successo nella gabbia all’inizio dell’estate 2009. La maggior parte delle uova
è stata rilasciata naturalmente in acqua,
mentre alcune uova sono state raccolte e
in seguito covate con successo in un laboratorio di Spalato.
La chiave per la sostenibilità nell’allevamento del tonno è di addomesticare il
tonno atlantico a pinne blu (o tonno rosso) creando un processo di allevamento a
“ciclo chiuso di vita”, come è stato fatto in
precedenza col salmone e con altre specie.
Questo processo prevede l’alimentazione,
l’allevamento del pesce in cattività e la sua
crescita come pesce oceanico sottoutilizzato di piccole dimensioni. Gli scienziati
e gli allevatori di tonno in Europa, Giappone e Australia hanno tentato per anni
di raggiungere la covata in cattività, un
compito reso particolarmente difficile dalla mancanza di conoscenza delle abitudini
di accoppiamento del tonno. “Il fatto che
il tonno in cattività abbia deposto le uova
senza ormoni né assistenza umana rende
questo un evento unico”, ha dichiarato il
dott. Ivan Katavić, ex viceministro della
Pesca in Croazia, responsabile del laboratorio presso l’Istituto di Oceanografia
e pesca dell’Università di Spalato. “Il nostro progetto è stato pianificato per scoprire il codice delle abitudini riproduttive del
tonno atlantico a pinne blu. Puntavamo a
creare un ciclo chiuso di vita per l’allevamento della specie e ridurre la pressione
sul pesce esistente negli oceani mondiali.
Il risultato è un passo significativo in questa direzione.
Segue a pagina 2
2 cucina
REPORTAGE
Venerdì, 6 novembre 2009
A colloquio (e andando per i boschi) con gli esperti Vanja Tomljenović e
Gorski kotar, vero paradiso
di Silvano Silvani
“Senza dubbio i boschi di conifere, di
alberi frondiferi e misti. Ideali sono le zone
a un altezza che va dai 250 agli 800 metri
sul livello del mare. Parlo ovviamente delle specificità del Gorski kotar. Per quanto
riguarda le temperature dell’aria notturne,
dovrebbero aggirarsi tra i 10 e i 12 gradi sopra lo zero per cui, ma ciò succede dovunque, le stagioni ideali per la raccolta sono
la primavera e l’autunno inoltrato. Serve,
ancora, molta umidità e pioggia per fare in
modo che il micelio (parte vegetativa del
fungo NDA) si sviluppi e ciò a una profondità che va dai 10 ai 12 centimetri….
Sullo stesso tema, abbiamo contattato
anche Marijan Pleše-Dega, sindaco di Delnice, definito da tanti “il più grande conoscitore di funghi” del Gorski kotar sia per
quanto riguarda la raccolta che la preparazione di varie specialità. Ci spiega che
a Delnice, da anni, esiste l’associazione
”Marohlin” che raggruppa una cinquantina di amanti dei funghi: tutti profondi conoscitori della materia. Si trovano regolarmente per scambiare esperienze ed opinioni, organizzano colloqui d’istruzione per
gli interessati, partecipano a manifestazioni
in tutto il Paese ecc. il tutto per contribuire alla promozione del fungo e della micologia.
Per quanto riguarda la raccolta, è categorico: “La gente, o almeno la maggioranza, non sa come si raccolgono i funghi. Bisogna prestare attenzione su come estrarli
dal terreno per non danneggiare il micelio. Devono crescerne anche altri, in fin
dei conti. Esistono anche regole precise: a
norma di legge, un terzo delle quantità nel
biotopo dovrebbe venire lasciato al proprio
posto. Inoltre, l’ente forestale ha definito in
modo chiaro le zone in cui è consentita la
raccolta. In ogni caso è necessario avere le
carte in regola ed essere muniti di particolari permessi. Sempre stando alle disposi-
“T
utti i funghi sono mangerecci:
alcuni – una volta soltanto!”
Tra il serio e il faceto, lo afferma Vanja Tomljenović, di Delnice, possessore della licenza di “raccoglitore” di funghi, rilasciata dal ministero dell’Agricoltura. Dipendente dell’ARZ (l’ente Autostrada
Fiume-Zagabria), nutre una passione per i
funghi fin da bambino. “Vi interessano i
funghi? Nessun problema. Venite a trovarmi e vi svelerò tutto quanto appreso, anche
qualche piccolo segreto…”. Detto e fatto.
Lo troviamo ad attenderci nel centro del
capoluogo del Gorski kotar e, da qui, inizia
una breve… avventura. Un paio di ore trascorse nei boschi circostanti, inerpicandoci come… capre per trovare qualche esemplare. La giornata non è stata delle migliori. La siccità ha, evidentemente, lasciato il
proprio segno. Almeno nella zona da noi
visitata. Oppure, c’è stato qualcuno molto
più veloce di noi…
Ma, andiamo per ordine. Prima di tutto:
come si diventa un buon raccoglitore di funghi e, ovviamente, come riconoscerli visto
che di specie ce ne sono tantissime e, molti,
sono simili fra loro con l’unica differenza
che alcuni sono mangerecci, gli altri mortali. La nostra “guida” ci spiega che il tutto
non è poi tanto difficile. Bisogna sì consultare i libri e tutta la letteratura disponibile
ma, prima di tutto, ascoltare i più anziani,
coloro che hanno una maggiore esperienza
ed andare con loro nei boschi per, come si
dice, passare dalla teoria alla pratica. “Serve tantissimo tempo ma specialmente buona volontà. Bisogna ‘amare’ i funghi e tutta
la natura. Ed è proprio per questa ragione
che, alle volte, mi vengono i brividi quando vedo in quale stato versano le aree boschive dopo il ‘passaggio’ di persone che
non saprei proprio come definire. Vandali?
Probabilmente. Sta di fatto che vanno nei
boschi in cerca di funghi e semplicemente
distruggono quelli che non conoscono e ciò
prendendoli a calci… Si tratta, è vero, di
casi isolati ma ugualmente ce ne sono troppi”, afferma Vanja Tomljenović. “Non conosci un fungo? Lascialo stare. Lo conosce
qualcun altro e se non altro è bello da vedere”, aggiunge.
Quali sono le zone dove i funghi crescono maggiormente. In altre parole,
qui, nel Gorski kotar, quali sono i loro
biotopi preferiti?
Dalla prima pagina
La combinazione delle tecniche di allevamento della “Kali Tuna” e la posizione delle sue gabbie sono il punto chiave del
nostro successo. La “Kali Tuna” fa crescere il suo pesce per un periodo più lungo rispetto alla maggior parte delle altre aziende.
La combinazione di una buona gestione e di
condizioni uniche del sito consente di soddisfare i requisiti fisiologici della covata per
completare il ciclo riproduttivo in cattività”.
La notizia proveniente dalla Dalmazia
avrà sicuramente fatto felici quelle star di
Hollywood che recentemente hanno dichiarato guerra su tutti i fronti alla catena di
ristoranti posseduta da Nobu Matsuhisa e
Robert De Niro. Un piccolo esercito di 31
star (Sienna Miller, Sting, Charlize Theron,
Elle MacPherson...) con una lettera di protesta hanno invitato Matsuhisa a togliere il
tonno rosso dal menù dei suoi ristoranti, affinché i clienti “possano mangiare avendo
la coscienza pulita”. Non v’è stata risposta
dallo chef del Sol Levante, se non, come fatto al “Nobu” di Londra, indicare accanto ai
piatti a base di tonno rosso (40 euro la porzione prezzo medio) che “quella che state
consumando è carne di una specie a rischio
d’estinzione: il massimo dell’ipocrisia. Se
vogliamo correre in soccorso al tonno rosso, la risposta sicuramente migliore è quella
che arriva dalla Dalmazia.
zioni, si possono raccogliere un massimo
di due chilogrammi per uso domestico e un
massimo di dieci per la vendita. I controlli
non sono tanto frequenti ma se ti ‘beccano’
le pene pecuniarie sono salate”, ci spiega
Marijan Pleše.
Dicevamo che i nostri due interlocutori, oltre a essere “provetti conoscitori”
dei funghi, sono anche degli ottimi cuochi. Unanime il loro parere che è piuttosto
difficile parlare del fungo in cucina e, principalmente, del modo come prepararlo. La
ragione è molto semplice tenendo conto
del fatto che tutto dipende esclusivamente
dai gusti. Il fungo, infatti, secondo le preferenze, può venire usato come antipasto,
come primo, come secondo, come contorno e chi più ne ha più ne metta. Un fatto,
Piedi, mazze e trombette:
i funghi più consigliabili in cucina
Vanja Tomljenović
PIEDE DI CAPRA (Albatrellus pes-caprae) - fungo saprofita. Cresce nei boschi
di conifere e latifoglie, spesso in gruppi, in estate autunno; non molto frequente. Il
nome (“pes-caprae”, piede di capra) è dovuto alla sua forma.
Ottimo commestibile, si presta molto bene alla conservazione sott’olio. È uno dei
pochi Polyporus commestibili. Difficilmente può essere scambiato con altri non commestibili o tossici.
LATTARIO (Lactarius deliciosus) Nomi comuni: Fong del pin - Fungo del sangue - Pennenciola – Sanguinol. Si trova nei boschi di pino specialmente vicino ai cespugli di ginepro. Fine estate-autunno. Buona commestibilità. Del gruppo dei Lattari
con lattice color carota fanno parte altre specie ben differenziate, tutte commestibili e
molto ricercate, quali il Lactarius sanguifluus, semisanguifluus e salmonicolor.
MAZZA DI TAMBURO (Macrolepiota procera) Nomi comuni: Ombrella - Ombrellon - Bubbola maggiore. Si trova nei boschi e nelle radure erbose. Estate-autunno.
Commestibile di ottima qualità. Molto conosciuto e raccolto. Si consuma il solo cappello, cotto impanato.
COLOMBINA VERDE (Russula virescens) Si trova specialmente nei boschi di
latifoglie. Estate-autunno. Ottima commestibilità, molto ricercata. Le Russule, di cui
alle volte è molto difficile riconoscere la specie, sono l’unico genere di cui può essere determinata la commestibilità con una prova empirica: è sufficiente masticarne un
pezzetto e scartare le specie a sapore nettamente acre. Non è detto per questo che tutte
le Russule acri siano tossiche. Certo che, per tale diagnosi, è necessario riconoscere
con certezza che si tratta del genere Russula, altrimenti una Amanita phalloides, mortale, che non ha sapore acre, potrebbe essere scambiata con una Russula verde, commestibile.
PORCINO (Boletus edulis) Fungo simbionte. Si trova nei boschi di latifoglie e
abeti. Fine estate-autunno. Ottimo commestibile.
TROMBETTA DA MORTO (CORNO DELL’ABBONDANZA) Si trova in
gruppi nei boschi, nelle zone umide. Fine estate-autunno. Buon commestibile. Macinato in polvere dopo essiccato, può essere usato come saporito condimento. Si può
confondere con il Cantharellus cinereus, che però non presenta la cavità nel cappello
ed ha l’imenio con pseudolamelle ramificate. Il suo nome deriva dal fatto che cresce
principalmente alla fine di ottobre, inizio novembre (Giornata dei morti).
SPUGNOLA (Morchella esculenta) Si trova nei boschi e nelle radure. Molto variabile nella forma e nel colore, per cui sono state create diverse varietà.Ottima commestibilità, come tutte le Spugnole (es. Morchella conica e Morchella elata). Allo
stato crudo contengono l’acido elvellico che, termolabile, si elimina con la normale
cottura.
cucina 3
Venerdì, 6 novembre 2009
Marijan Pleše di Delnice
per gli amanti dei funghi
comunque, è certo. I migliori funghi sono
quelli freschi, anche se nessuno ha da ridire su quelli secchi. In questo caso, comunque, è consigliabile usarli unicamente come
contorno oppure come aggiunta a qualche
piatto.
Per quanto concerne l’essiccazione dei
funghi, Vanja Tomljenović e Marijan Pleše,
consigliano così: alcuni tra i funghi adatti
all’essicazione sono la trombetta da morto
(corno dell’abbondanza), il porcino e il piede di capra. Possono venire essiccati sia al
sole sia in forno. Nel primo caso, il procedimento da loro praticato è il seguente: pulire i
funghi; tagliare ogni fungo, gambo e cappello, verticalmente, cioè nel senso dell’altezza, a fettine sottili; allineare tutte le fettine
su una tavola di legno senza che si sovrappongano; esporle al sole moderato ed ogni
tanto rigirarle sino a che non si noterà alcuna
traccia di umidità. Di notte è bene comunque ritirarli perché non assorbano umidità.
Una volta essiccati, mettere i funghi in sacchetti di plastica per alimenti facendo uscire
tutta l’aria e chiudendoli il più possibile ermeticamente.
Se il sole non fosse sufficiente, si possono seccare in forno su una placca coperta di
carta da forno, ad una temperatura di 150°C.
Lasciate il forno socchiuso per far uscire
l’umidità.
Al momento dell’utilizzo è sufficiente
farli rinvenire per qualche minuto in acqua
tiepida, scolarli, sciacquarli e usarli come
richiesto dalla ricetta. A proposito dei funghi sott’olio, le varietà consigliate sono il
porcino, il piede di capra e il lattario. Scottare ogni fungo per dieci minuti in acqua
bollente alla quale è stato aggiunto sale ed
aceto bianco di vino; sgocciolare i funghi
e disporli su una tavola di legno all’ombra
per farli asciugare; sterilizzare i vasi di vetro destinati a contenerli; disporre i funghi
dentro i vasi e coprirli di buon olio di oliva oppure aceto bianco di vino; chiudere ermeticamente i vasi e sterilizzarli di nuovo.
Anche pieni, i vasi vanno immersi in acqua
fredda in un recipiente abbastanza grande,
portare ad ebollizione e lasciare bollire a
fuoco bassissimo per 20 minuti. Quindi sia
pieni che vuoti si sterilizzano nell’identico
modo, avendo cura di mettere fra un vaso e
l’altro un pezzo di stoffa per non farli muovere durante l’ebollizione. Non toglierli
dall’acqua sino a che siano diventati almeno tiepidi. Riporre i vasi in un luogo fresco,
ma non in frigo.
«Kotlovina» di porcini
Ingredienti: cottolette di maiale, strutto, olio,
cipolla, aglio, paprika rossa, peperoncini, salsa di
pomodoro, sale, pepe, vino, porcini.
Preparazione: soffriggere le cottolette sul
grasso e sull’olio. Appoggiarle sui bordi dell’apposita teglia per la “kotlovina”; soffriggere la cipolla e l’aglio finemente tritati e aggiungere i porcini;
aggiungere la paprika e la salsa di pomodoro e lasciare che si raddensi; aggiungere l’acqua, il vino e
i peperoncini; adagiare le cottolette e lasciarle fino
a quando non ammorbidiscono.
Goulasch di funghi misti
Ingredienti: 120 gr di salsicce tagliate a fettine;
120 gr di pancetta, 1 piccola cipolla, 1 cucchiaio
d’olio, patate tagliate a dadini, 250 gr di funghi misti (porcini, piede di capra, spugnola…); 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, 2 dcl di panna,
1 cucchiaio di farina, 1 cucchiaio di senape, 1 mazzetto di prezzemolo, paprika in polvere, sale q.b.
Preparazione: rosolare la cipolla e la pancetta tagliata a dadini, aggiungere i funghi a fettine e
stufare; aggiungere l’aglio tritato e le salsicce; irrorare con l’acqua e aggiungere le patate e cucinare
per mezz’ora circa; irrorare con il vino, aggiungere
la panna, salare e pepare e cucinare ancora per alcuni minuti.
«Scaloppine» di porcini
Ingredienti: porcini, prosciutto formaggio,
pane grattuggiato, uova, farina, latte, sale.
Preparazione: tagliare i porcini a fettine; sistemare tra l’una e l’altra, una fetta di prosciutto e una
di formaggio e impanare normalmente. Friggere
fino a quando abbiondiscono.
Frittata di funghi
Ingredienti: funghi misti (porcini, piede di capra, spugnola…); cipolla, aglio, pancetta, senape,
rafano, parmigiano.
Preparazione: rosolare la cipolla e l’aglio finemente tritati; aggiungere i funghi a fettine, l’aglio,
la senape, il rafano e le uova sbattute; mescolare e
aggiungere il parmigiano grattugiato.
Funghi farciti
Ingredienti: 250 gr di funghi misti, 50 gr di
prosciutto crudo affumicato, scalogno, aglio, prezzemolo tritato, mollica di pane, latte, sale e pepe.
Preparazione: pulite e lavate i funghi; togliete
i gambi (conservatene uno); scavate leggermente le
cappelle; fate cuocere lo scalogno, l’aglio e il gambo finemente tritato in un cucchiaio di olio per un
minuto; aggiungete il prosciutto tritato, la mollica
del pane messa a bagno nel latte e strizzata; mescolate bene e cuocete ancora un minuto; aggiungete
il prezzemolo tritato e riempite le cappelle dei funghi. Fate cuocere i funghi coperti per 5 minuti.
Patè di porcini
Ingredienti: 500 gr di funghi porcini; 200 gr di
burro; mezzo bicchiere di olio , uno spicchio d’ aglio;
vino bianco secco un bicchiere; sale e pepe q.b.
Preparazione: pulite accuratamente i funghi
e tagliateli a pezzetti. Metteteli a soffriggere con
l’aglio nell’olio, cuocendo a fuoco lento e a tegame coperto per 30 minuti. Irrorate di tanto in tanto
con il vino. Salate e pepate. Fate sciogliere a parte il burro in un pentolino, badando che non frigga. Unite il burro ai funghi, fate insaporire, togliete
quindi dal fuoco e lasciate intiepidire e frullate il
tutto e mettete il composto in uno stampo. Lasciate
riposare per 2 ore in frigorifero prima di servire.
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cucina
Venerdì, 6 novembre 2009
Venerdì, 6 novembre 2009
Non il solito «semplice» libro di ricette: in margine alla presentazione a Pirano
Riaffermazione del concetto di istrianità
L’istrianità è servita: Chiara Vigini
mette in piatto la nostra memoria
Quando le nostre nonne
facevano le titole
LIBRI
di Ilaria Rocchi
“L’
identità di un popolo si basa
su vari parametri, tra i quali le
tradizioni e la sua civiltà della tavola sono tra i più qualificanti. La cucina
acquista così dignità di patrimonio culturale
di una terra, quale corollario della storia, dello stile di vita, dell’organizzazione sociale”.
È con queste parole che il presidente dell’Associazione delle Comunità Istriane, Lorenzo
Rovis, introduce il libro di Chiara Vigini sugli usi, i costumi e i piatti tipici della cucina
istriana. Edito dalla su citata associazione, ha
un titolo significativo: “Mangiar memoria.
Cibi tradizionali e trasmissione della cultura dentro e fuori Voce giuliana”. Nelle sue
208 pagine complessive – corredate da foto
di Gianfranco Abrami – la pubblicazione raccoglie ricette, consigli, storie, tradizioni e riflessioni delle usanze di un popolo in campo culinario e non solo. Si va a frugare tra i
“fogoleri” delle case in Istria, soprattutto, in
parte nelle isole del Quarnero e in Dalmazia.
Praticamente assente la cucina fiumana, dalla
quale, tra l’altro, abbiamo parlato qualche numero fa di quest’Inserto, illustrando un altro
libro – per certi aspetti molto simile a questo
di Vigini –, vale a dire quello di Francesco
Gottardi (“Come mangiavamo: l’I.R. cucina
a Fiume e paesi limitrofi”, EDIT, Fiume 1998
e “Come mangiavamo a Fiume nell’Imperial
Regia cucina asburgica”, AG Edizioni, Treviso 2005).
Né dal “forno” di Gottardi né tantomeno
da quello di Vigini non esce il solito, “semplice” – si fa per dire, ovviamente – libro di ricette, bensì un affresco della vita nelle nostre
terre in un periodo storico che si ricorda come
“felice”, nonostante tutti problemi di un’epoca non proprio facile. Ma, soprattutto ciò che
non si può fare a meno di riconoscere, scorrendo con le dita i fogli delle due pubblicazioni, è un’emozionante e coivolgente dichiarazione d’amore verso un “piccolo mondo antico”, fatto sì di piatti che “scaldano il cuore” – e lo stomaco è vicinissimo al muscolo
più attivo del nostro organismo – ma anche
di affetti; un universo che si rischia di perdere, irrimediabilmente, nella continua frenesia che avvolge la nostra esistenza, in cui
una pluralità di impegni inesorabilmente affligge le nostre giornate, distraendoci dai valori di una volta, valori iscritti anche nel cibo
che si porta(va) a tavola. “Certe ricette vengono sempre più raramente messe in opera per
mancanza di tempo o anche per la difficoltà
a reperire alcuni ingredienti. Un altro fattore
che limita l’utilizzo di certe ricette che richiedono lungo impiego di tempo deriva dall’abitudine ormai consolidata di trovare molti cibi
già pronti, parzialmente o totalmente preconfezionati” – rileva ancora Rovis, concludendo
che “Chiara Vigini ci aiuta con questa pubblicazione a riscoprire il gusto e la soddisfazione
del fare da sé con le proprie mani, di mettere
in pratica la propria creatività e di stimolare la
propria latente istrianità”.
Del resto, come recita l’introduzione, uno
degli scopi di questa pubblicazione “è documentare un aspetto importante della vita in
Istria prima del grande esodo. Il cibo e le tradizioni ad esso legate sono infatti lo specchio
di una civiltà e sarebbe imperdonabile, per
I cibi di ogni giorno: la polenta
In passato, nei nostri paesi non si usava una gran varietà di cibo: la vita scorreva lenta e uguale, giorno dopo giorno, come i punti su una maglia fatta ai ferri...”,
scrive Chiara Vigini. Le giornate dei nostri avi, specialmente di quelli che abitavano
nel contado, avevano ritmi ben precisi, in cui anche il pasto trovava la
sua precisa e “giusta” collocazione.
Qualcunque attività veniva smessa
quando era ora di mettersi a tavola. E
non c’era appuntamento o “elemento
di disturbo” – il pensiero va all’odierno invadente cellulare, così difficile
da spegnere anche nei momenti di relaz e privacy, tanto da schiavizzarci –
che potesse frapporsi a questo appuntamento. Alle sei del mattino si beveva una tazza di caffè d’orzo; poi, verso le nove e mezza, si consumava uno
“spuntino” fatto di polenta o gnocchi
o strazade (tagliatelle) o fusi (soprattutto nella zona di Montona) con il
sugo – arrossato con conserva e fatto
con coste o spallette di maiale – oppure la salsiccia. Il pranzo vero e proprio arrivava verso le due del pomeriggio e comprendeva un minestrone
con cotica e pancetta o spalletta. Un
altro spuntino, attorno alle cinque del
pomeriggio, prevedeva formaggio e
pane e vino. Alla sera, invece, per
cena, grandi frittate accompagnate
da insalate e verdure fresche, oppure,
nelle zone di mare, polenta e pesce
fritto e radicchio.
La polenta era uno dei cibi che
troneggiavano sulle tavole di una volta: in Istria, come nell’entroterra di Venezia e
in Friuli, si ricorreva anche a quella di mais bianco, un po’ più dolce di quella bianca; alle volte si mescolavano insieme le due farine. “Non mi risulta che in Istria si
usasse la polenta ‘pasticciata’, ma credo che, più o meno molle, servisse da accompagnamento ai vari companatici, anche per le merende calde, al posto del pane – rileva l’autrice –. In tempi difficili, nelle località sulla costa, per fare la polenta la gente
attingeva all’acqua del mare per risparmiare sul sale”.
questa generazione, perderne la memoria con
la scusa del tempo che scorre in fretta e che ci
fa correre a nostra volta sempre più. Ma non
si voleva solo ‘fotografare’ una realtà non più
presente, bensì anche coglierne i risvolti attuali e le eventuali trasformazioni – in terra
italiana – tenendo conto che indietro non si
torna, ma che bisogna ben conoscere la realtà
da cui si è partiti per restare se stessi, di qua e
di là dai labili confini. Era un’impresa ardua
che solo in parte, naturalmente, è stata attuata,
ma valeva la pena di abbozzare”.
L’autrice ha messo insieme – con opportuno e giusto dosaggio – numerose ricette (tutte
“provate” e quindi funzionanti nella pratica)
e articoli di giornale sulle tradizioni culinarie già pubblicati da “Voce Giuliana” (organo
si stampa dell’Associazione delle Comunità
Istriane) a partire dal 1968, aggiungendovi
inediti – ricette, ricordi, riadattamenti, tradizioni vissute – inviati dai lettori a “La nuova
Voce Giuliana” dall’inizio del 2007. Di agevole lettura – e al fine di accentuare questo
suo carattere sarebbe auspicabile, in un’eventuale e attesa riedizione, aggiungere un sommario e forse anche un indice dei nomi – il
libro “Mangiar memoria” parte dalla “base”
della piramide alimentare istriana: la polenta,
il riso e “sua maestà”, la minestra che ricca o
povera che dosse una famiglia, c’era sempre,
tanto da costituire il “cibo” per antonomasia
(in Istria come altrove nel mondo). I piatti più
frequenti sulle tavole istriane erano el minestron – riso e pasta, riso e fagili, orzo e patate,
pasta e patate, fagioli e patate, ma per lo più
pasta e fagioli –, la jota, el minestron de fasoi e formentòn o la minestra de bobici. Ma
c’erano anche la panada e la pasta butada, il
minestrone di lenticchie, gnocchi de gries in
brodo, la zuppa pavese, la miestra con i famosi bisi de Capodistria...
Sorvoliamo, ma solo per carenza di spazio, sul capitolo risi, e proseguiamo, sfogliando il volume, con le “merende calde e le frittate”. “Infatti, nell’Istria incontaminata (esiste ancora!) la merenda continua ed essere la
tappa di metà mattina che, specialmente nelle belle stagioni, interrompe il lavoro per un
po’, in attesa del pranzo.... Cibo caldo e gusti intensi: òmbolo e vino rosso e prosciutto
crodue, e parole e discorsi altrettanto intensi
e caldi...” scrive Vigini, rievocando una giornata trascorsa con un ultraottantenne grisignanese, Vittorio, nella zona di Piemonte e
stanzia Sillich, a “ingrumar spàrisi” (l’autrice
stava compiendo gli studi sulle chiesette nella
campagna tra il Dragogna e il Quieto). Nell’Umaghese, invece, si usavano anche trippe
col sugo rosso, testina di agnello, fegato con
la polenta, luganighe, sardoni friti e in savor,
frattaglie in sguazzeto, frittate ... il tutto annaffiato da un bel bicchiere di vino.
Dopo questo “spuntino” – oggi un vero e
proprio pasto – arrivava, verso le due, il pranzo vero e proprio e i diversi pasti. Ecco che
Chiara Vigini ci propone una serie di suggerimenti per comporre un menù tradizionale, con tutte le variazioni apportato nel corso
degli anni dalle varie generazioni, oltre che
dalle cuoche delle diverse località, sfruttando
tutto ciò che il territorio offriva nello scorrere delle stagioni. Sì, perché la stagionalità, la
freschezza degli ingredienti e l’amore e la pazienza con cui le pietanze venivano preparate
sono le indispensabili, fondamentali “spezie”
della nostra cucina. Quelle proposte da Vigini, comunque, non sono ricette che vengono
tirate fuori dalla “naftalina” ma che hanno
subito nel corso dei decenni delle variazioni,
delle innovazioni, dettate anche dalla prassi
delle generazioni più giovani. Dunque, una
cucina che trasmette e crea valori.
Il libro si sfoglia con piacere – verrebbe da
dire proprio con l’acquolina in bocca –, come
del resto si ascolta con piacere la narrazione
dell’autrice – presente a Pirano alla promozione del volume organizzata dalla Società
di Denis Visintin
Nata a Trieste da
genitori che devono
alla loro profuganza il loro incontro,
Chiara Vigini unisce
agli affetti familiari la
passione per la storia
istriana, per l’insegnamento, per i salmi...
per la vita, credendo
fermamente nell’importanza di trasmettere alle nuove generazioni la conoscenza e
l’amore per le proprie
radici. Laureata in Pedagogia con una tesi sulle chiese rurali delle diocesi
di Cittanova d’Istria, diplomata all’Archivio di Stato di Trieste e abilitata
all’insegnamento di diverse discipline, opera nelle scuole di Trieste e collabora con la stampa dell’esodo.
di studi storici e geografici, in collaborazione con la Comunità degli Italiani “Giuseppe
Tartini” – di questo ricettario storico-culturale-culinario. Ci accoglie con calore e parla del
lavoro svolto con entusiasmo. Un lavoro meticoloso di documentazione e di raccolta-selezione del materiale che, man mano, le veniva
inviato dal tutte le parti del mondo, anche le
più disparate in cui arge un “fogoler” istriano.
Ma. fra i tanti piatti qual è quello che a Chiara
Vigini piace di più? “La minestra de bobici”,
risponde senza esitare. E tra i dolci? Le frìtole, quelle che si prepara(va)no nella Momiano
da cui trae origine la ricercatrice, con il loro
inconfondibile aroma di vaniglia.
5
Credo di appartenere a una delle ultime generazioni di istriani che hanno vissuto la loro
infanzia assistendo a quel lento processo che ha portato alla graduale scomparsa di alcune
pietanze della cucina tradizionale, e soprattutto dei suoi valori, dalle case e dalle famiglie
istriane. E forse non mi ero accorto di quanto questo fosse importante, fino a qualche settimana fa, quando un amico istriano di Roma, mi ricordò che al Quartiere Giuliano Dalmata della capitale è rimasta soltanto sua suocera, fra l’altro non istriana d’origine, a saper
preparare la pinza. E me lo disse con un po’ di tristezza, lui, arrivato da Roma per la prima
volta in Istria, esule di terza generazione, alla ricerca delle proprie radici, che lo ha portato
a rintracciare alcuni parenti mai visti.
Ebbene, mi resi solo allora conto di quanto importante erano per lui le ricette della cucina tradizionale istriana, una delle poche cose che lo attaccavano alle radici. Ma la pinza,
cioè i dolci tradizionali istriani, mi fanno tornare indietro nel tempo. Ricordo ancora come
da bambino puntualmente per Pasqua ricevevo dalla nonna materna un dolce che me lo
preparava solo lei. Ed era questo una delle cose che lei faceva con amore per tutti i suoi nipoti. C’erano allora in tavola il pandespagna, i buzolai, la pinza, i crostoli, il pan dolse, le
fritole. Ma soprattutto la titola, una forma di bambola intrecciata, con l’uovo incastonato,
la gioia di noi bambini, come lo era la pinza per il mio amico istriano di Roma.
Allo stesso tempo, appartengo a quella generazione che ha avuto la fortuna di vivere
il revival della cucina istriana nei ristoranti e negli agriturismi, assurgendo così ad offerta turistica gastronomica di primo ordine. Un revival che sta alla base di quel processo di
riappropriamento dell’identità istriana, configuratosi debolmente nella seconda metà degli
Anni Ottanta del secolo scorso con la crisi che allora iniziava ad attanagliare i territori ex
jugoslavi, ed affermatosi decisamente con gli anni Novanta.
Si era allora in un periodo di riaffermazione del concetto di istrianità, delle sue culture,
dei suoi dialetti. Questo processo contemplava pure la ripresa e l’affermazione fra l’altre
delle colture storiche istriane, la vite e l’ulivo, strettamente connesse alla nostra cucina ed
ai suoi sapori, al ciclo della vita nelle campagne istriane con le sue tradizioni.
Mi sia concessa una divagazione ancora. Mentre tutto questo succedeva, si stavano
preparando le nozze di un mio carissimo amico, ora purtroppo defunto, che espresse il desiderio di avere sul tavolo di nozze i fusi istriani al capriolo. Ed io allora novello studente, mi accorsi di non sapere quasi niente di una cucina quasi scomparsa: infatti, fu in quel
momento che mi scontrai per la prima volta con questa pietanza, e con il suo ciclo di preparazione, che vide la parentela e le vicine di casa impegnate per quasi una settimana avvoltolare gli sfogli di pasta preparati in casa con l’uso di una bacchettina. La preparazione
era un vero e proprio rito di socializzazione alla vecchia maniera, condita da tutte le storie
che le signore potevano raccontarsi.
Tutto questo processo di riaffermazione dell’identità istriana, e questi riti se li leggono anche nelle pagine del volume “Mangiar memoria”. Chiara Vigini, istriana per parte
d’ambo i genitori, ha avuto l’opportunità di vivere queste tradizioni e questi processi, sia
nell’ambito familiare, e qui non posso non ricordare il padre, l’amico Arturo Vigini, a cui
ero legato da profonda stima ed amicizia.
Con questo libro Chiara Vigini ci presenta non soltanto le ricchezze del patrimonio culinario e culturale istriano, ma anche gli aspetti del ciclo della vita nelle campagne istriane, legati alle peculiarità stagionali, al lavoro nei campi, alle feste, sia pagane sia religiose,
alla vita di casa. Per cui il libro rappresenta un’ottima guida al recupero dei valori sia tradizionali sia gastronomici della nostra penisola, di cui dobbiamo e possiamo andarne fieri.
A Chiara, profonda studiosa di storia e di cultura istriana, faccio l’augurio e l’invito a
continuare su questa strada, al pubblico un invito a leggere questo libro, per non dimenticare.
Da Trieste fino a Zara e ancor più giù
«Frìtole»: ma che bontà, ma che bontà
Un profumo inconfondibile, altro che le madeleine proustiane. Nei giorni di festa le case
delle nostre terre odoravano di “frìtole” che,
come afferma un detto popolare (e la prassi lo
conferma)...”le xe come le putele, più che ghe
ne fa e più le xe bele”. Ci sono le frìtole – frittelle e basta, poi ci sono quelle veneziane, di
Muggia, di Trieste, istriane, lussignane, di Pirano, dalmate... Dalla Venezia Giulia e fino giù
all’estremo sud dell’Adriatico orientale venivano preparate non solo nelle occasioni speciali, ma anche tutto l’anno. Tanto che nel 1796 a
Zara, di fronte allo scarseggiare dell’olio, le autorità dell’epoca si videro costrette addirittura a
emanare un proclama alla cittadinanza proibendo “la facitura delle frìtole”.
Non esiste un’unica ricetta; le troviamo
confezionate in modi molto diversi, ad eccezione dellacottura, che deve essere fatta nell’olio bollente, “ad arte”, perché dalla padella
la “frìtola” deve uscire morbida e leggera, senza lasciarsi impregnare dall’olio. Un dolche antico ma sempre attuale, che spesso si accompagna al Carnevale.
“Nel mio vissuto di esule di seconda generazione le frìtole sono un cibo rituale, da preparare con atti ben precisi e dfiniti, da non mutare per nessun motivo, pena, chissà, la pègola,
o anche di peggio!”, dice la momianese nonna Cecilia (di Collalto Berda) a p. 136, propo-
nendo una ricetta che probabilmente deriva da
qualche tradizione austro-ungarica, ma che si
trova sia a Umago, sia a Berda, paesino della
campagna di Momiano.
Ingredienti: un chilo e mezzo di mele di vario genere tagliate a metà o, se sono grandi, a
quarti; tre etti di uvetta, sei etti di zucchero,
un etto di pinoli, un etto di mandorle, due etti
di noci, un etto e mezzo di cioccolato fondente grattugiato o fuso, sei etti di farina bianca o
poco più, un po’ di graooa o cognac, un po’ di
buccia di aranacio o limone grattugiato, cedrini
e un cucchiaio di marmellata.
Coprire a filo le mete e farle cuocere, poi aggiungere gli ingredienti uno alla volta; da ultimo unire la farina, aggiungendo un po’ d’acqua
al bisogno, sempre mescolando con un cucchiaio di legno. Quando l’impasto scuro raggiunge la giusta consistenza (raffreddandosi
si raddensa ancora un po’, ma rimane sempre
molto attaccaticcio) versarlo su un piano infarinato e formare palline infarinate poco più grandi di noci, aiutandosi con un cucchiaio. Friggerle in olio bollente e servirle tiepide o fredde,
spolverate di zucchero a velo.
Da rilevare a Pirano, ad esempio, le “frìtole”
venivano preparate con “suca melonara, mandole brustolade e mastrussade o taiade a tochetini, fighi suti taiadi a tochetini, ua passa missiada co’ el rum, sedrini de naranso, pignoi...”
6 cucina
Venerdì, 6 novembre 2009
CEREALI
Sottovalutato nonostante digeribilità e altre particolarità intrinseche
Orzo, da riscoprire e valorizzare
Proprietà
C
on l’autunno cambiano i
prodotti che consumiamo
in cucina e cambia anche
il modo di alimentarci. I prodotti
più leggeri, come le verdure tipiche dell’estate, lasciano spazio a cibi più sostanziosi che
vanno a braccetto con il cambio climatico. Quando fa più
freddo il corpo ha bisogno di un
apporto più consistente di calorie. In questo senso zuppe e minestre, specie se arricchite, sono
un vero e proprio toccasana. Un
modo per dare un tocco speciale
alla nostra zuppa e aggiungerci
dell’orzo. Ed è proprio su questo cereale che volevamo richiamare la vostra attenzione perché
a nostro avviso è un alimento un
po’ sottovalutato che dovremmo
riscoprire vista la sua ottima digeribilità e le sue innumerevoli proprietà terapeutiche e curative.
Per l’uso alimentare umano,
l’orzo viene ripulito dalle glumelle esterne e viene chiamato
orzo mondo: è un chicco ricco di
proprietà vitali, conserva i fattori bio-nutrizionali contenuti nel
germe e nei vari strati del chicco
(proteine, grassi, sali minerali e
vitamine). Con l’eliminazione
di questi strati esterni, si ottiene l’orzo perlato: il chicco viene impoverito dalle sue sostanze
ed appare bianco. L’orzo decorticato invece è una mediazione
fra l’orzo mondo e l’orzo perlato e conserva ancora delle buone
caratteristiche nutrizionali.
Zuppa di zucca e orzo
Ingrediente:
un litro di brodo vegetale
150 grammi di orzo perlato
150 grammi di zucca
80 grammi di verdure
aromatiche
50 grammi di lardo
formaggio Grana Padano
grattugiato
alloro
olio extravergine
sale
pepe bianco
Riducete le verdure in minutissimi dadi (brunoise) e fatele
appassire in un velo di olio con
il lardo, finemente tritato. Unitevi la zucca, a pezzi, una foglia
di alloro, bagnate con il brodo e
portatelo a ebollizione. Tuffatevi l’orzo, ammollato per un’ora,
e lasciatelo cuocere per un’altra
ora circa. Infine correggete di
sale e profumate con pepe bianco. Arricchite la zuppa con grana e un filo di olio.
Questo cereale è dotato di
buone proprietà antinfiammanti e rinfrescanti per
tutto l’apparato digerente,
l’apparato respiratorio e
le vie urinarie. Da sollievo quindi anche al colon
irritabile (colite), a chi soffre di flatulenza, borbottii e fenomeni fermentativi; contro la stitichezza,
nelle bronchiti, nella tosse
e nelle cistiti. In caso di
carenze di sali minerali e
vitamine è molto indicato perché contiene buone
quantità di: fosforo, potassio, magnesio, ferro, calcio, vitamina PP e vitamina E, quindi durante una
convalescenza o la fase di
crescita dell’adolescenza va anche molto bene.
L’orzo va benissimo anche come rimineralizzante,
per migliorare e portare in
equilibrio il sistema nervoso e la memoria, contrasta
i problemi cardiovascolari,
è tonico, contrasta la gastrite, il reflusso gastrico,
è emoliente, rinforza il sistema immunitario nel suo
complesso, da equilibrio
a tutto l’organismo, svolge un’azione carminativa
sulla gola, grazie ai principi attivi come maltosio,
destrina, ordeina e ordenina stimola tutta la circolazione periferica (ristagni,
gambe pesanti, vene varicose).
Cottura
Come tutti i cereali anche
l’orzo in chicchi necessita di un accurato lavaggio
prima della cottura. Si possono versare i chicchi in
un recipiente in modo che
possano essere agevolmente risciacquati, aiutandosi
con un colino per evitare
la dispersione dei chicchi.
È consigliabile lasciare
l’orzo mondo o l’orzo decorticato in ammollo per
un periodo che può variare
dalle 6 alle 12 ore, in modo
da ottenere un cereale più
morbido e una cottura migliore. L’acqua dell’ammollo non va gettata, ma
sarà poi utilizzata per la
cottura del cereale. Generalmente per una parte di
orzo si utilizzano tre parti
di acqua, naturalmente la
quantità di acqua aumenta
nel caso in cui si vogliano preparare minestroni e
zuppe; l’orzo mondo e l’orzo decorticato dovrebbero
comunque cuocersi in circa 60 minuti.
Come nel caso degli altri
cereali in chicchi, non è
necessario né consigliabile
mescolare durante la cottura, anche se, soprattutto durante i primi tempi di
approccio a questa cucina,
si può controllare la consistenza del chicco durante
la cottura. L’orzo perlato, adatto per minestroni e
zuppe, è di cottura molto
più veloce rispetto all’orzo
solo mondato.
Storie e leggende
Conosciuto dagli
albori dell’umanità
La più antica forma vegetale piantata dall’uomo risale a circa
diecimila anni fa, e sembrerebbe sia stata proprio l’orzo, perché
poteva crescere a quasi tutte le latitudini, si conservava a lungo,
era facilmente trasportabile e nutriente. Le grandi civiltà (Cinesi, Egizi, Sumeri e Assiri) conoscevano bene la coltivazione di
questa pianta. I Greci e Romani si alimentavano prevalentemente
d’orzo (pane e zuppe), e ancora nel I secolo Plinio il Vecchio poteva raccontare che nelle città greche i gladiatori erano alimentati
con l’orzo. Successivamente questo cereale dall’alto potere nutritivo perse la sua centralità alimentare per l’affermarsi del frumento, più adatto alla panificazione (maggior contenuto di glutine) e più digeribile. L’“hordeaum” divenne così un cibo rozzo
da destinare alle classi inferiori (fondamentale fino a tutto il Medioevo), e i Romani identificavano con il termine “hordearius”
gli individui gonfi e pomposi o gli oratori indigesti. Questo cereale rappresenta ancora oggi la principale fonte alimentare nei Paesi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale. La sua trasformazione di maggior interesse prevede la maturazione dei frutti,
attraverso cui si ottiene il malto, ingrediente necessario per preparare birra e whisky, o per insaporire i fiocchi di cereali.
Il “caffè d’orzo”, termine usato impropriamente in quanto non
utilizza chicchi di caffè, dall’Ottocento e fino alla seconda metà
del secolo scorso ha fatto parte con il latte e il pane secco della
colazione tradizionale contadina. La tostatura del cereale era un
piccolo rito da farsi davanti al focolare, dove si girava lentamente la tostatrice scaldata dalla cenere del fuoco. Ancora durante la
Seconda guerra mondiale l’orzo era una bevanda di vasto consumo (preparata assieme al miele diventava una super medicina),
ma col tempo il caffé d’orzo passò ad essere somministrato sopratutto alle persone anziane e ai bambini.
Orzo e calamaretti
Ingredienti:
400 grammi di calamaretti
400 grammi di broccoletti
200 grammi di orzo perlato
vino bianco secco
alloro
olio extravergine d’oliva
sale e pepe q.b.
Dividete i broccoletti in cimette, sbianchiteli per 6’ in acqua bollente con un cucchiaio di
olio, scolateli, lasciateli raffreddare e saltateli poi in padella in
un velo di olio con un pizzico di
sale. Lessate l’orzo, dopo aver-
lo ammollato per qualche ora,
in acqua bollente salata, infine
scolatelo e conditelo con un filo
di olio e un po’ di pepe. Pulite i
calamaretti e tagliateli ad anelli.
Portate a bollore in una padella
un dito di acqua con un filo di
olio, una foglia di alloro e un
goccio di vino. Tuffatevi i calamaretti, lasciateli fino a quando
riprende il bollore, quindi scolateli conservando un po’ dell’acqua di cottura per insaporire
l’orzo. Servite i calamaretti con
l’orzo,e i broccoletti.
Orzotto con scampi
Ingredienti:
otto scampi grandi
(circa 1,6 kg)
280 gr di orzo
150 gr di passata di pomodoro
100 gr di polpa di pomodoro
cipolla
porro
timo
prezzemolo
burro
vino bianco secco
olio d’oliva
sale e pepe
Pulite gli scampi staccando le teste dalla code; sgusciate queste ultime, privatele del
budellino nero e tenetele al fresco. Schiacciate con il batticarne
i gusci delle code e le teste, poi
fate rosolare il tutto a fuoco vivo
con un filo d’olio, una rondella
di cipolla, un pezzetto di porro,
un rametto di timo; aggiungete
dopo alcuni minuti la polpa di
pomodoro e tanta acqua quanta
sarà necessaria per coprire teste
e gusci; lasciate bollire a fuoco
vivo per 30’ circa poi passate tutto al colino, ottenendo un
sugo liquido (brodetto). Avviate
l’orzotto: tritate circa 50 grammi
di cipolla, fatela appassire in due
cucchiaiate d’olio, unite l’orzo,
tostatelo a fuoco vivo, sfumatelo
con mezzo bicchiere di vino poi
proseguite la cottura bagnando
l’orzotto con il brodetto preparato e, quando questo sarà esaurito,
con acqua calda; l’orzotto cuoce
in circa 40’. Mentre l’orzotto
sta cuocendo, soffriggete in 20
grammi di burro un tronchetto
di porro ridotto a rondelle, aggiungete la passata di pomodoro lasciate restringere un poco
poi unite le code degli scampi,
sale, pepe e fate cuocere ancora
per 3’. Appena cotto, correggete l’orzotto di sale e mantecatelo
con una noce di burro l’intingolo di code di scampo e un trito di
prezzemolo.
cucina 7
Venerdì, 6 novembre 2009
PESCI
Protagonista fino al 22 novembre nei ristoranti del Buiese
Sogliola, il sandalo di Giove
Tortino di sogliola e verdure
di Fabio Sfiligoi
D
ura fino al 22 novembre la seconda edizione della “Sogliola
d’oro”, allestita dagli Enti turistici del Buiese e che coinvolge una ventina di ristoranti del territorio. L’idea degli
organizzatori è sì quella di valorizzare la
sogliola, spesso bistrattata a scapito dei
più “pregiati” branzino e orata, ma anche
gli altri prodotti tipici della gastronomia
istriana, conosciuti e apprezzati a livello
internazionale come l’olio extravergine
d’oliva e il tartufo. La sogliola è un pesce
tipico dei fondali sabbiosi, la si può pescare lungo la costa istriana, partendo dal
Golfo di Trieste per arrivare fino all’arcipelago delle isole Brioni. Ed è proprio
questo il periodo dell’anno in cui si possono prendere le sogliolie migliori, quelle
che possono arrivare fino a una quarantina di centimetri. In Istria vengono pescate
a 5-6 chlometri dalla costa.
La carne della sogliola è bianco-rosata, morbida e delicata, si tratta di un pesce magro facilmente digeribile, è ricca
di proteine, per questoè adatta ai bambini. Essendo molto magra è consigliata in
caso di cure dimagranti. È invece consigliato un uso moderato a chi soffre di insufficienza renale.
Filetti di sogliola
all’arancia
Ingredienti:
quattro filetti di sogliola
due arance
due carote
40 grammi di burro
un gambo di sedano bianco
brodo granulare di pesce
vino bianco secco
maizena
sale (facoltativo)
Avvolgete i filetti di pesce su se stessi, ricavandone una dozzina di rotolini
che fisserete con stuzzicadenti. Rosolateli nel burro. Bagnateli con due dita
di vino. insaporirteli con due pizzichi di
granulare di pesce. Irrorateli con il succo
spremuto delle arance e lasciate sobbollire per 2-3 minuti. Mondate e tagliate a
julienne le carote e il gambo di sedano.
Cuoceteli per un minuto nel microonde.
Togliete i rotolini di pesce dal fondo di
cottura e teneteli in caldo. Legate il fondo con una punta di maizena. Servite i
rotolini con la verdura e la salsa preparata. Il sale è facoltativo in quanto può
essere usato sulle verdure soltanto se la
salsa del pesce non fosse sufficiente per
insaporirli.
La delicatezza del sapore permette agli
chef di abbinare la sogliola a prodotti dell’orto (funghi, asparagi, spinaci, bietole)
o in alcune versione più estreme vengono
servite come involtini con speck, prosciutto crudo o pancetta. In Istria l’abbinamento al tartufo è quasi scontato e inevitabile.
Comunque la carne di sogliola ha una notevole diversità di sapore e consistenza a seconda delle aree di provenienza e dell’alimentazione. In Adriatico una migliore alimentazione determina una maggiore morbidezza delle carni che ne costituisce uno
dei maggiori pregi. Come ben saprete la sogliola è di forma appiattita e ha gli occhi sul
lato in cui la pelle è di colore brunastro. La
parte inferiore del corpo è di colore bianco
e solitamente è la parte che la sogliola adagia sui fondali.
Al momento dell’acquisto controllate
l’aderenza della pelle al corpo: quando la
sogliola è fresca la pelle risulta essere molto aderente alla carne. Fate attenzione a che
la sogliola non presenti colorazione giallognola, soprattutto lungo i bordi del corpo.
Solitamente va consumata freschissima, si
può conservare in frigorifero al massimo
per uno-due giorni, chiusa fra due piatti o
avvolta in un foglio di carta d’alluminio,
dopo averla accuratamente pulita. Per farlo si deve prima di tutto praticare un’incisione sotto la testa, dalla parte dell’occhio
e privarla delle viscere. Quindi occorre praticare un’altro taglio alla base della coda,
tenere la sogliola con una mano e con l’altra, alzando la pelle tagliata, strapparla tutta
fino alla testa. Per finire vanno eliminate le
lische intorno al pesce e poi lavata sotto il
getto dell’acqua fredda.
Ingredienti:
tre sogliole da sfilettare
500 grammi di verdure miste, pulite, a
dadini (sedano, porro, carota, verde di
zucchina)
100 grammi di latte
100 grammi di panna
tre uova
quattro fette di pane casereccio
burro
olio extravergine d’oliva
sale e pepe q.b.
Fate saltare in padella a fuoco vivo,
in un filo d’olio caldo, la dadolata di verdure; salatele, pepatele, quindi lasciatele
Dei pesci in commercio le sogliole
sono da considerare tra i più pregiati, ma
anche tra i più costosi, soprattutto in relazione alle percentuali di scarto molto elevate, che si aggirano intorno e oltre il 60
p.c. e per le quali, acquistando un chilo di
pesce, la parte edibile è inferiore ai 400
grammi.
La sogliola è forse il pesce cui la cucina
europea ha dedicato più ricette. Apprezzatissimo fin dall’antichità, era chiamato dai
Romani: “Solea Jovis” (Sandalo di Giove)
per l’eccellenza delle sue carni. La sogliola nel Medioevo e nel Rinascimento, pur
sempre apprezzata, perse la sua supremazia gastronomica sugli altri pesci. Fu la
Grande Cucina classica francese a farne
la regina del mare, e tutti i grandi chef
dell’Ottocento le dedicarono ricette specifiche.
raffreddare. Su una placca coperta da un
foglio di carta da forno, imburrato, appoggiate quattro anelli di 12 centimetri
di diametro e imburrate anch’essi; rivestite gli anelli internamente, ciascuno con
tre filettini di sogliola, mettendoli con il
lato che aveva la pelle verso l’interno; sul
fondo di ogni anello sistemate una fetta di pane, sopra la dadolata di verdure
equamente divisa, e per ultimo la royale
ottenuta sbattendo in un piatto le uova
con la panna, il latte, sale e pepe. Passate
la placca nel forno, già scaldato a 200°, e
cuocete per 15’, poi sfilate gli anelli liberando i tortini. Trasferiteli nei piatti e serviteli subito, guarniti a piacere.
Sogliola
alle mandorle
Ingredienti:
quattro sogliole
da 250 grammi cadauna
100 grammi di mandorle a lamelle
50 grammi di spinaci mondati
50 grammi di lattuga mondata
50 grammi di indivia
farina
un uovo
burro
limone
olio extravergine d’oliva
sale e pepe
Dopo aver pulito e spellato le sogliole, salatele, pepatele, passatele
nella farina, nell’uovo, coprite di mandorle solo il lato del pesce che aveva
la pelle scura, quindi friggetele in abbondante olio e burro caldi, mettendole in padella prima dalla parte con le
mandorle. Scolate le sogliole ben dorate e servitele con il misto di spinaci,
indivia, lattuga, tutto condito con una
citronnette di olio e limone.
8 cucina
Venerdì, 6 novembre 2009
IL RISTORANTE DEL MESE
Lussinpiccolo:«Artatore»
locale nel segno del classico
di Sostene Schena
D
iciamo subito che, dopo
aver abbandonato la strada principale ed essere
scivolati per un chilometro nell’interno della pineta di Lussin
Piccolo, non ci si aspetta di trovarsi davanti a un frontespizio,
com’è l’entrata al ristorante Artatore. Che, in un certo senso ci richiama il classico. Questa prima
impressione ci accompagnerà in
seguito nell’addentrarci in quel
meraviglioso viaggio che spesso è il “sedersi” a tavola e vederci passare davanti i variegati
piatti che un ristorante attrezzato
(in tutti i sensi) sa proporvi: dal
semplice antipasto alla raffinata
aragosta. Il ristorante “Artatore”
ci è parsa la soluzione ideale, nel
marasma estivo di Lussinpiccolo,
per riposare le stanche membra e
un’oasi tranquilla per rigenerare
le calorie spese al sole con una
bella mangiata di pesce.
Il locale è sobrio, pulito, sempre ben tenuto e la cortesia tra i
camerieri non fa difetto. Se arrivate qui dopo una giornata meteorologicamente tranquilla, cioè
i pescatori sono tornati con le reti
piene, avrete soltanto l’imbarazzo della scelta.
La cucina funziona egregiamente e il fatto che “Artatore”
disponga di un suo bel forno a
legna (è in un certo modo l’emblema del locale) dà quel tocco
La nostra
pagella
Ambiente
Atmosfera
Servizio
Qualità
Vino
Prezzo
Rapporto q/p
Giudizio finale
La scheda
in più alla qualità; un vantaggio,
specie nel cucinare il pesce, che
sul piatto si... sente. La linea della cucina è quella classica, praticamente orientata verso il gusto
dei turisti e in particolare quelli italiani. Buono anche il vino
sfuso (anche se per pesce di alta
qualità consigliamo, come sempre una buona bottiglietta che
nella cantina-frigo non manca
mai). Dimenticavo: non andatevene senza aver assaggiato una
delle speciali torte dell’ultraottantenne madre di Janja!
Nome: “Artatore”. Località:
Lussinpiccolo
Gestione: Janja Zabavnik.
Indirizzo: Artatore 132 –
51550 Mali Lošinj.
Tipo di locale: ristorante.
Coperti: 70 all’interno; 70 in
terrazza.
Aperto: dal 15 marzo al 10 ottobre dalle 8 alle 23.
Numeri di telefono: +385-51232932 anche fax.
Lingue parlate: italiano, inglese e tedesco.
Pagamento: anche credit card.
Prenotazione: consigliabile.
Distanze: 77 km dall’attracco
di Faresina; 21 da Ossero (ponte per l’isola di Lussino; 118 da
Fiume; 170 dal confine italiano
di Pese.
Per arrivarci: da Mattuglie
prendete la strada per Laurana-Pola fino a Faresina (31 km)
dove ci si imbarca per Cherso.
Dopo 24 km siete a Cherso; altri 32 per Ossero; dopo 13 chilometri trovate (là dove a sinistra c’è l’ufficio informazioni)
il bivio a destra verso Artatore.
Gioielli a forma di tortellino
Udine, successo della seconda edizione di Good
Quando piccole leccornie
diventano gadget di moda
Crocevia della qualità e dei prodotti
d’eccellenza della Mitteleuropa
Tanto piccoli da poter essere
trasformati in gioielli. In gemelli
da polsino. Orecchini pendenti.
Ciondoli. Portachiavi. I tortellini mignon griffati da Biagi - lo
storico ristorante nato nel ‘37 a
Casalecchio - si trasformano in
16 grammi di preziosi in argento, oro giallo, oro rosa. Volendo
anche punteggiati di brillanti. È
l’idea di Fabio Biagi, figlio del
patriarca Ivano, che oggi gestisce il ristorante che piaceva tanto al giornalista Gianni Brera.
“Tutto è nato dalla mia passione per i gemelli. Finché un giorno un amico mi ha detto: perché
non farne una coppia a forma di
tortellino?”. L’amico è Gianluca Sturi e l’idea, gettata lì come
90
88
90
90
80
79
89
89
uno scherzo, sembra buona.
Detto fatto. “Abbiamo fatto il
calco di uno dei nostri tortellini”. Quelli minuscoli che Biagi
serve in brodo. “Come gioiello
da polsino era splendido - racconta il proprietario - e lo abbiamo esposto nella nostra bacheca. È andato subito a ruba”.
Da quell’idea nascono tanti modelli. Quelli in argento brunito con diamanti. Quelli in oro
rosa con brillanti sintetici. Tutti
in una custodia in legno dove è
stata incisa la ricetta tradizionale dei tortellini Biagi depositata alla Camera di Commercio. I
nuovi tortellini Biagi arriveranno anche nei negozi. Ma solo in
pochi, esclusivi e bolognesi.
Obiettivo raggiunto: con un +35 p.c. di visitatori paganti rispetto all’edizione di lancio del 2007, si
è conclusa a Udine la seconda edizione di “Good,
la Fiera della qualità a tavola”. Il segno più va messo davanti anche al numero di espositori presenti in
quartiere: +30 p.c. visto che nel 2007 erano 240 e
quest’anno 344. Ma a questi dati si aggiungono altre componenti positive da non sottovalutare: maggiore e più consapevole è stato il coinvolgimento
del pubblico durante la visita in Fiera; più domande
agli espositori-produttori, più tempo dedicato a capire, ascoltare, imparare partecipando direttamente
alle dimostrazioni, ai corsi e ai laboratori; più interesse e più attenzione sulla qualità del prodotto,
fatta non solo di gusto e piacevolezza, ma anche di
tutte quelle fasi che dall’origine lo accompagnano
sulla nostra tavola, nella nostra bocca come ingrediente fondamentale di salute e benessere.
Un pubblico soddisfatto quello che ha visitato la
fiera e che oltre agli acquisti fatti tra una vastissima
offerta di prodotti unici, tipici ed eccellenti, si è portato a casa quel qualcosa in più che fa la differenza:
il sapere cosa c’è dietro ad un alimento. La soddisfazione è anche degli espositori che in tre giorni di
intenso lavoro hanno potuto entrare in contatto con
le esigenze e le richieste di una domanda ampia ed
eterogenea per età, gusti, provenienza e settore professionale di appartenenza.
“Good è la strada giusta per rilanciare un settore chiave come l’agroalimentare e la ristorazione – ha detto convinto il presidente di Udine e Gorizia Fiere Sergio Zanirato –. Avevamo visto giusto e con noi anche i partner che hanno sostenuto
questo evento. L’importanza dell’enogastronomia e
la collocazione strategica di Good sono connotati fondamentali per far sì che questa manifestazione raggiunga risultati ed evidenze ancor maggiori
nell’area dell’Euroregione sviluppando potenzialità ancora inespresse. Su questa prospettiva di apertura dobbiamo continuare a muoverci insieme per
svolgere pienamente quel ruolo di promozione dell’economia regionale che spetta ad una realtà fieristica come la nostra, nel cuore di una Regione che
– come ha sottolineato il ministro agli Esteri Franco
Frattini durante l’inaugurazione – ‘è crocevia dell’Europa’ e Good ha tutte le carte in regola per essere crocevia della qualità e dei prodotti d’eccellenza
della Mitteleuropa”.
Anno V / n. 47 del 6 novembre 2009
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
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Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: CUCINA
Redattore esecutivo: Fabio Sfiligoi / Impaginazione: Tiziana Raspor
Collaboratori: Ilaria Rocchi, Sostene Schena, Silvano Silvani e Denis Visintin
Foto: Zlatko Majnarić, Goran Žiković e archivio
Il supplemento esce con il sostegno finanziario della Regione Istriana, Assessorato
alla Comunità nazionale italiana e altri gruppi etnici.
La pubblicazione del presente supplemento, sostenuta dall’Unione Italiana di Fiume / Capodistria e dall’Università Popolare di Trieste, viene supportata dal Governo italiano
all’interno del progetto EDITPIÙ in esecuzione della Convenzione MAE-UPT N° 1868 del 22 dicembre 8, Contratto 248a del 18/10/2006 con Novazione oggettiva del 7 luglio 2009