Gorski kotar, l`Eden per chi ama i funghi
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Gorski kotar, l`Eden per chi ama i funghi
DEL POPOLO Andando per i boschi: non solo porcini Pagine 2 e 3 Chiara Vigini e i piatti della nostra memoria Pagine 4 e 5 Orzo, cereale sottovalutato da riscoprire e valorizzare Pagina 6 Sogliola: il sandalo di Giove protagonista in Istria Pagina 7 Udine, qualità ed eccellenza per il successo di Good 2009 Pagina 8 L’ANTIPASTO di Fabio Sfiligoi cucina ce vo /la .hr dit w.e ww Gorski kotar, l’Eden per chi ama i funghi An no V 9 200 • n. 4 e r b 7 • Venerdì, 6 novem Da Kali a Hollywood, in difesa del tonno rosso Kali, nei pressi di Zara, è considerata la capitale della pesca, non solo della Dalmazia, ma dell’intera costa adriatica. Nei giorni scorsi questa località è balzata agli onori della cronaca internazionale grazie alla “Kali Tuna”, una società fondata nel 1996 da due emigranti di ritorno dall’Australia in collaborazione con partner australiani e giapponesi. Come indica il nome stesso, l’azienda si occupa di allevamento di tonno, con la sua attività pioneristica è stata una delle prime nel bacino del Mediterraneo. Dopo gli inizi in cui l’export raggiungeva le trenta tonnellate annue, oggi l’esportazione della “Kali Tuna” arriva a significative 1.400 tonnellate l’anno e dai sei dipendenti del 1996 si è passato ai 120 attuali. La ditta dalmata ha la concessione per tre aree di allevamento, parliamo complessivamente di una superficie pari a 200.000 metri quadrati. La sua flotta è composta da cinque pescherecci più una nave di servizio per la manutenzione delle aree di allevamento. Ovviamente la “Kali Tuna” è dotata di tunnel e celle frigorifero grazie ai quali il tonno prodotto viene congelato a basse temperature e inviato prevalentemente in Giappone. Dell’azienda dalmata si è parlato nei giorni scorsi perché, assieme all’Università di Spalato, è riuscita a compiere un passo vitale verso un allevamento a ciclo chiuso di vita del tonno atlantico a pinne blu, prezioso dal punto di vista commerciale. Il Thunnus thynnus è conosciuto anche come tonno rosso, è il più comune, ma anche quello a rischio di estinzione. Può arrivare a pesare fino a 300 chilogrammi e il suo prezzo al mercato di Tokio può arrivare a sfiorare i 100.000 euro a esemplare. La sua carne, oltre a essere di qualità elevata e superiore rispetto alle altre specie di tonno, è molto ricercata soprattutto per la preparazione di sushi e sashimi. Secondo i dati diffusi da Greenpeace, nei mari internazionali sono presenti soltanto 10.000 esemplari di tonno rosso. Il destino di questa specie, dicono gli attivisti di Greenpeace, è segnato se non si prendono contromisure adeguate. Da qui si capisce la portata del risultato ottenuto dalla “Kali Tuna”. Gli scienziati marini dell’Università di Spalato, appunto, hanno confermato che la gametogenesi è stata completata e che le uova di tonno sono state deposte in gabbie al largo della costa. Nell’esperimento oltre 800 uova di covata sono state conservate in una gabbia speciale a partire dalla primavera del 2006. I pesci si sono riprodotti con successo nella gabbia all’inizio dell’estate 2009. La maggior parte delle uova è stata rilasciata naturalmente in acqua, mentre alcune uova sono state raccolte e in seguito covate con successo in un laboratorio di Spalato. La chiave per la sostenibilità nell’allevamento del tonno è di addomesticare il tonno atlantico a pinne blu (o tonno rosso) creando un processo di allevamento a “ciclo chiuso di vita”, come è stato fatto in precedenza col salmone e con altre specie. Questo processo prevede l’alimentazione, l’allevamento del pesce in cattività e la sua crescita come pesce oceanico sottoutilizzato di piccole dimensioni. Gli scienziati e gli allevatori di tonno in Europa, Giappone e Australia hanno tentato per anni di raggiungere la covata in cattività, un compito reso particolarmente difficile dalla mancanza di conoscenza delle abitudini di accoppiamento del tonno. “Il fatto che il tonno in cattività abbia deposto le uova senza ormoni né assistenza umana rende questo un evento unico”, ha dichiarato il dott. Ivan Katavić, ex viceministro della Pesca in Croazia, responsabile del laboratorio presso l’Istituto di Oceanografia e pesca dell’Università di Spalato. “Il nostro progetto è stato pianificato per scoprire il codice delle abitudini riproduttive del tonno atlantico a pinne blu. Puntavamo a creare un ciclo chiuso di vita per l’allevamento della specie e ridurre la pressione sul pesce esistente negli oceani mondiali. Il risultato è un passo significativo in questa direzione. Segue a pagina 2 2 cucina REPORTAGE Venerdì, 6 novembre 2009 A colloquio (e andando per i boschi) con gli esperti Vanja Tomljenović e Gorski kotar, vero paradiso di Silvano Silvani “Senza dubbio i boschi di conifere, di alberi frondiferi e misti. Ideali sono le zone a un altezza che va dai 250 agli 800 metri sul livello del mare. Parlo ovviamente delle specificità del Gorski kotar. Per quanto riguarda le temperature dell’aria notturne, dovrebbero aggirarsi tra i 10 e i 12 gradi sopra lo zero per cui, ma ciò succede dovunque, le stagioni ideali per la raccolta sono la primavera e l’autunno inoltrato. Serve, ancora, molta umidità e pioggia per fare in modo che il micelio (parte vegetativa del fungo NDA) si sviluppi e ciò a una profondità che va dai 10 ai 12 centimetri…. Sullo stesso tema, abbiamo contattato anche Marijan Pleše-Dega, sindaco di Delnice, definito da tanti “il più grande conoscitore di funghi” del Gorski kotar sia per quanto riguarda la raccolta che la preparazione di varie specialità. Ci spiega che a Delnice, da anni, esiste l’associazione ”Marohlin” che raggruppa una cinquantina di amanti dei funghi: tutti profondi conoscitori della materia. Si trovano regolarmente per scambiare esperienze ed opinioni, organizzano colloqui d’istruzione per gli interessati, partecipano a manifestazioni in tutto il Paese ecc. il tutto per contribuire alla promozione del fungo e della micologia. Per quanto riguarda la raccolta, è categorico: “La gente, o almeno la maggioranza, non sa come si raccolgono i funghi. Bisogna prestare attenzione su come estrarli dal terreno per non danneggiare il micelio. Devono crescerne anche altri, in fin dei conti. Esistono anche regole precise: a norma di legge, un terzo delle quantità nel biotopo dovrebbe venire lasciato al proprio posto. Inoltre, l’ente forestale ha definito in modo chiaro le zone in cui è consentita la raccolta. In ogni caso è necessario avere le carte in regola ed essere muniti di particolari permessi. Sempre stando alle disposi- “T utti i funghi sono mangerecci: alcuni – una volta soltanto!” Tra il serio e il faceto, lo afferma Vanja Tomljenović, di Delnice, possessore della licenza di “raccoglitore” di funghi, rilasciata dal ministero dell’Agricoltura. Dipendente dell’ARZ (l’ente Autostrada Fiume-Zagabria), nutre una passione per i funghi fin da bambino. “Vi interessano i funghi? Nessun problema. Venite a trovarmi e vi svelerò tutto quanto appreso, anche qualche piccolo segreto…”. Detto e fatto. Lo troviamo ad attenderci nel centro del capoluogo del Gorski kotar e, da qui, inizia una breve… avventura. Un paio di ore trascorse nei boschi circostanti, inerpicandoci come… capre per trovare qualche esemplare. La giornata non è stata delle migliori. La siccità ha, evidentemente, lasciato il proprio segno. Almeno nella zona da noi visitata. Oppure, c’è stato qualcuno molto più veloce di noi… Ma, andiamo per ordine. Prima di tutto: come si diventa un buon raccoglitore di funghi e, ovviamente, come riconoscerli visto che di specie ce ne sono tantissime e, molti, sono simili fra loro con l’unica differenza che alcuni sono mangerecci, gli altri mortali. La nostra “guida” ci spiega che il tutto non è poi tanto difficile. Bisogna sì consultare i libri e tutta la letteratura disponibile ma, prima di tutto, ascoltare i più anziani, coloro che hanno una maggiore esperienza ed andare con loro nei boschi per, come si dice, passare dalla teoria alla pratica. “Serve tantissimo tempo ma specialmente buona volontà. Bisogna ‘amare’ i funghi e tutta la natura. Ed è proprio per questa ragione che, alle volte, mi vengono i brividi quando vedo in quale stato versano le aree boschive dopo il ‘passaggio’ di persone che non saprei proprio come definire. Vandali? Probabilmente. Sta di fatto che vanno nei boschi in cerca di funghi e semplicemente distruggono quelli che non conoscono e ciò prendendoli a calci… Si tratta, è vero, di casi isolati ma ugualmente ce ne sono troppi”, afferma Vanja Tomljenović. “Non conosci un fungo? Lascialo stare. Lo conosce qualcun altro e se non altro è bello da vedere”, aggiunge. Quali sono le zone dove i funghi crescono maggiormente. In altre parole, qui, nel Gorski kotar, quali sono i loro biotopi preferiti? Dalla prima pagina La combinazione delle tecniche di allevamento della “Kali Tuna” e la posizione delle sue gabbie sono il punto chiave del nostro successo. La “Kali Tuna” fa crescere il suo pesce per un periodo più lungo rispetto alla maggior parte delle altre aziende. La combinazione di una buona gestione e di condizioni uniche del sito consente di soddisfare i requisiti fisiologici della covata per completare il ciclo riproduttivo in cattività”. La notizia proveniente dalla Dalmazia avrà sicuramente fatto felici quelle star di Hollywood che recentemente hanno dichiarato guerra su tutti i fronti alla catena di ristoranti posseduta da Nobu Matsuhisa e Robert De Niro. Un piccolo esercito di 31 star (Sienna Miller, Sting, Charlize Theron, Elle MacPherson...) con una lettera di protesta hanno invitato Matsuhisa a togliere il tonno rosso dal menù dei suoi ristoranti, affinché i clienti “possano mangiare avendo la coscienza pulita”. Non v’è stata risposta dallo chef del Sol Levante, se non, come fatto al “Nobu” di Londra, indicare accanto ai piatti a base di tonno rosso (40 euro la porzione prezzo medio) che “quella che state consumando è carne di una specie a rischio d’estinzione: il massimo dell’ipocrisia. Se vogliamo correre in soccorso al tonno rosso, la risposta sicuramente migliore è quella che arriva dalla Dalmazia. zioni, si possono raccogliere un massimo di due chilogrammi per uso domestico e un massimo di dieci per la vendita. I controlli non sono tanto frequenti ma se ti ‘beccano’ le pene pecuniarie sono salate”, ci spiega Marijan Pleše. Dicevamo che i nostri due interlocutori, oltre a essere “provetti conoscitori” dei funghi, sono anche degli ottimi cuochi. Unanime il loro parere che è piuttosto difficile parlare del fungo in cucina e, principalmente, del modo come prepararlo. La ragione è molto semplice tenendo conto del fatto che tutto dipende esclusivamente dai gusti. Il fungo, infatti, secondo le preferenze, può venire usato come antipasto, come primo, come secondo, come contorno e chi più ne ha più ne metta. Un fatto, Piedi, mazze e trombette: i funghi più consigliabili in cucina Vanja Tomljenović PIEDE DI CAPRA (Albatrellus pes-caprae) - fungo saprofita. Cresce nei boschi di conifere e latifoglie, spesso in gruppi, in estate autunno; non molto frequente. Il nome (“pes-caprae”, piede di capra) è dovuto alla sua forma. Ottimo commestibile, si presta molto bene alla conservazione sott’olio. È uno dei pochi Polyporus commestibili. Difficilmente può essere scambiato con altri non commestibili o tossici. LATTARIO (Lactarius deliciosus) Nomi comuni: Fong del pin - Fungo del sangue - Pennenciola – Sanguinol. Si trova nei boschi di pino specialmente vicino ai cespugli di ginepro. Fine estate-autunno. Buona commestibilità. Del gruppo dei Lattari con lattice color carota fanno parte altre specie ben differenziate, tutte commestibili e molto ricercate, quali il Lactarius sanguifluus, semisanguifluus e salmonicolor. MAZZA DI TAMBURO (Macrolepiota procera) Nomi comuni: Ombrella - Ombrellon - Bubbola maggiore. Si trova nei boschi e nelle radure erbose. Estate-autunno. Commestibile di ottima qualità. Molto conosciuto e raccolto. Si consuma il solo cappello, cotto impanato. COLOMBINA VERDE (Russula virescens) Si trova specialmente nei boschi di latifoglie. Estate-autunno. Ottima commestibilità, molto ricercata. Le Russule, di cui alle volte è molto difficile riconoscere la specie, sono l’unico genere di cui può essere determinata la commestibilità con una prova empirica: è sufficiente masticarne un pezzetto e scartare le specie a sapore nettamente acre. Non è detto per questo che tutte le Russule acri siano tossiche. Certo che, per tale diagnosi, è necessario riconoscere con certezza che si tratta del genere Russula, altrimenti una Amanita phalloides, mortale, che non ha sapore acre, potrebbe essere scambiata con una Russula verde, commestibile. PORCINO (Boletus edulis) Fungo simbionte. Si trova nei boschi di latifoglie e abeti. Fine estate-autunno. Ottimo commestibile. TROMBETTA DA MORTO (CORNO DELL’ABBONDANZA) Si trova in gruppi nei boschi, nelle zone umide. Fine estate-autunno. Buon commestibile. Macinato in polvere dopo essiccato, può essere usato come saporito condimento. Si può confondere con il Cantharellus cinereus, che però non presenta la cavità nel cappello ed ha l’imenio con pseudolamelle ramificate. Il suo nome deriva dal fatto che cresce principalmente alla fine di ottobre, inizio novembre (Giornata dei morti). SPUGNOLA (Morchella esculenta) Si trova nei boschi e nelle radure. Molto variabile nella forma e nel colore, per cui sono state create diverse varietà.Ottima commestibilità, come tutte le Spugnole (es. Morchella conica e Morchella elata). Allo stato crudo contengono l’acido elvellico che, termolabile, si elimina con la normale cottura. cucina 3 Venerdì, 6 novembre 2009 Marijan Pleše di Delnice per gli amanti dei funghi comunque, è certo. I migliori funghi sono quelli freschi, anche se nessuno ha da ridire su quelli secchi. In questo caso, comunque, è consigliabile usarli unicamente come contorno oppure come aggiunta a qualche piatto. Per quanto concerne l’essiccazione dei funghi, Vanja Tomljenović e Marijan Pleše, consigliano così: alcuni tra i funghi adatti all’essicazione sono la trombetta da morto (corno dell’abbondanza), il porcino e il piede di capra. Possono venire essiccati sia al sole sia in forno. Nel primo caso, il procedimento da loro praticato è il seguente: pulire i funghi; tagliare ogni fungo, gambo e cappello, verticalmente, cioè nel senso dell’altezza, a fettine sottili; allineare tutte le fettine su una tavola di legno senza che si sovrappongano; esporle al sole moderato ed ogni tanto rigirarle sino a che non si noterà alcuna traccia di umidità. Di notte è bene comunque ritirarli perché non assorbano umidità. Una volta essiccati, mettere i funghi in sacchetti di plastica per alimenti facendo uscire tutta l’aria e chiudendoli il più possibile ermeticamente. Se il sole non fosse sufficiente, si possono seccare in forno su una placca coperta di carta da forno, ad una temperatura di 150°C. Lasciate il forno socchiuso per far uscire l’umidità. Al momento dell’utilizzo è sufficiente farli rinvenire per qualche minuto in acqua tiepida, scolarli, sciacquarli e usarli come richiesto dalla ricetta. A proposito dei funghi sott’olio, le varietà consigliate sono il porcino, il piede di capra e il lattario. Scottare ogni fungo per dieci minuti in acqua bollente alla quale è stato aggiunto sale ed aceto bianco di vino; sgocciolare i funghi e disporli su una tavola di legno all’ombra per farli asciugare; sterilizzare i vasi di vetro destinati a contenerli; disporre i funghi dentro i vasi e coprirli di buon olio di oliva oppure aceto bianco di vino; chiudere ermeticamente i vasi e sterilizzarli di nuovo. Anche pieni, i vasi vanno immersi in acqua fredda in un recipiente abbastanza grande, portare ad ebollizione e lasciare bollire a fuoco bassissimo per 20 minuti. Quindi sia pieni che vuoti si sterilizzano nell’identico modo, avendo cura di mettere fra un vaso e l’altro un pezzo di stoffa per non farli muovere durante l’ebollizione. Non toglierli dall’acqua sino a che siano diventati almeno tiepidi. Riporre i vasi in un luogo fresco, ma non in frigo. «Kotlovina» di porcini Ingredienti: cottolette di maiale, strutto, olio, cipolla, aglio, paprika rossa, peperoncini, salsa di pomodoro, sale, pepe, vino, porcini. Preparazione: soffriggere le cottolette sul grasso e sull’olio. Appoggiarle sui bordi dell’apposita teglia per la “kotlovina”; soffriggere la cipolla e l’aglio finemente tritati e aggiungere i porcini; aggiungere la paprika e la salsa di pomodoro e lasciare che si raddensi; aggiungere l’acqua, il vino e i peperoncini; adagiare le cottolette e lasciarle fino a quando non ammorbidiscono. Goulasch di funghi misti Ingredienti: 120 gr di salsicce tagliate a fettine; 120 gr di pancetta, 1 piccola cipolla, 1 cucchiaio d’olio, patate tagliate a dadini, 250 gr di funghi misti (porcini, piede di capra, spugnola…); 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro, 2 dcl di panna, 1 cucchiaio di farina, 1 cucchiaio di senape, 1 mazzetto di prezzemolo, paprika in polvere, sale q.b. Preparazione: rosolare la cipolla e la pancetta tagliata a dadini, aggiungere i funghi a fettine e stufare; aggiungere l’aglio tritato e le salsicce; irrorare con l’acqua e aggiungere le patate e cucinare per mezz’ora circa; irrorare con il vino, aggiungere la panna, salare e pepare e cucinare ancora per alcuni minuti. «Scaloppine» di porcini Ingredienti: porcini, prosciutto formaggio, pane grattuggiato, uova, farina, latte, sale. Preparazione: tagliare i porcini a fettine; sistemare tra l’una e l’altra, una fetta di prosciutto e una di formaggio e impanare normalmente. Friggere fino a quando abbiondiscono. Frittata di funghi Ingredienti: funghi misti (porcini, piede di capra, spugnola…); cipolla, aglio, pancetta, senape, rafano, parmigiano. Preparazione: rosolare la cipolla e l’aglio finemente tritati; aggiungere i funghi a fettine, l’aglio, la senape, il rafano e le uova sbattute; mescolare e aggiungere il parmigiano grattugiato. Funghi farciti Ingredienti: 250 gr di funghi misti, 50 gr di prosciutto crudo affumicato, scalogno, aglio, prezzemolo tritato, mollica di pane, latte, sale e pepe. Preparazione: pulite e lavate i funghi; togliete i gambi (conservatene uno); scavate leggermente le cappelle; fate cuocere lo scalogno, l’aglio e il gambo finemente tritato in un cucchiaio di olio per un minuto; aggiungete il prosciutto tritato, la mollica del pane messa a bagno nel latte e strizzata; mescolate bene e cuocete ancora un minuto; aggiungete il prezzemolo tritato e riempite le cappelle dei funghi. Fate cuocere i funghi coperti per 5 minuti. Patè di porcini Ingredienti: 500 gr di funghi porcini; 200 gr di burro; mezzo bicchiere di olio , uno spicchio d’ aglio; vino bianco secco un bicchiere; sale e pepe q.b. Preparazione: pulite accuratamente i funghi e tagliateli a pezzetti. Metteteli a soffriggere con l’aglio nell’olio, cuocendo a fuoco lento e a tegame coperto per 30 minuti. Irrorate di tanto in tanto con il vino. Salate e pepate. Fate sciogliere a parte il burro in un pentolino, badando che non frigga. Unite il burro ai funghi, fate insaporire, togliete quindi dal fuoco e lasciate intiepidire e frullate il tutto e mettete il composto in uno stampo. Lasciate riposare per 2 ore in frigorifero prima di servire. 4 cucina Venerdì, 6 novembre 2009 Venerdì, 6 novembre 2009 Non il solito «semplice» libro di ricette: in margine alla presentazione a Pirano Riaffermazione del concetto di istrianità L’istrianità è servita: Chiara Vigini mette in piatto la nostra memoria Quando le nostre nonne facevano le titole LIBRI di Ilaria Rocchi “L’ identità di un popolo si basa su vari parametri, tra i quali le tradizioni e la sua civiltà della tavola sono tra i più qualificanti. La cucina acquista così dignità di patrimonio culturale di una terra, quale corollario della storia, dello stile di vita, dell’organizzazione sociale”. È con queste parole che il presidente dell’Associazione delle Comunità Istriane, Lorenzo Rovis, introduce il libro di Chiara Vigini sugli usi, i costumi e i piatti tipici della cucina istriana. Edito dalla su citata associazione, ha un titolo significativo: “Mangiar memoria. Cibi tradizionali e trasmissione della cultura dentro e fuori Voce giuliana”. Nelle sue 208 pagine complessive – corredate da foto di Gianfranco Abrami – la pubblicazione raccoglie ricette, consigli, storie, tradizioni e riflessioni delle usanze di un popolo in campo culinario e non solo. Si va a frugare tra i “fogoleri” delle case in Istria, soprattutto, in parte nelle isole del Quarnero e in Dalmazia. Praticamente assente la cucina fiumana, dalla quale, tra l’altro, abbiamo parlato qualche numero fa di quest’Inserto, illustrando un altro libro – per certi aspetti molto simile a questo di Vigini –, vale a dire quello di Francesco Gottardi (“Come mangiavamo: l’I.R. cucina a Fiume e paesi limitrofi”, EDIT, Fiume 1998 e “Come mangiavamo a Fiume nell’Imperial Regia cucina asburgica”, AG Edizioni, Treviso 2005). Né dal “forno” di Gottardi né tantomeno da quello di Vigini non esce il solito, “semplice” – si fa per dire, ovviamente – libro di ricette, bensì un affresco della vita nelle nostre terre in un periodo storico che si ricorda come “felice”, nonostante tutti problemi di un’epoca non proprio facile. Ma, soprattutto ciò che non si può fare a meno di riconoscere, scorrendo con le dita i fogli delle due pubblicazioni, è un’emozionante e coivolgente dichiarazione d’amore verso un “piccolo mondo antico”, fatto sì di piatti che “scaldano il cuore” – e lo stomaco è vicinissimo al muscolo più attivo del nostro organismo – ma anche di affetti; un universo che si rischia di perdere, irrimediabilmente, nella continua frenesia che avvolge la nostra esistenza, in cui una pluralità di impegni inesorabilmente affligge le nostre giornate, distraendoci dai valori di una volta, valori iscritti anche nel cibo che si porta(va) a tavola. “Certe ricette vengono sempre più raramente messe in opera per mancanza di tempo o anche per la difficoltà a reperire alcuni ingredienti. Un altro fattore che limita l’utilizzo di certe ricette che richiedono lungo impiego di tempo deriva dall’abitudine ormai consolidata di trovare molti cibi già pronti, parzialmente o totalmente preconfezionati” – rileva ancora Rovis, concludendo che “Chiara Vigini ci aiuta con questa pubblicazione a riscoprire il gusto e la soddisfazione del fare da sé con le proprie mani, di mettere in pratica la propria creatività e di stimolare la propria latente istrianità”. Del resto, come recita l’introduzione, uno degli scopi di questa pubblicazione “è documentare un aspetto importante della vita in Istria prima del grande esodo. Il cibo e le tradizioni ad esso legate sono infatti lo specchio di una civiltà e sarebbe imperdonabile, per I cibi di ogni giorno: la polenta In passato, nei nostri paesi non si usava una gran varietà di cibo: la vita scorreva lenta e uguale, giorno dopo giorno, come i punti su una maglia fatta ai ferri...”, scrive Chiara Vigini. Le giornate dei nostri avi, specialmente di quelli che abitavano nel contado, avevano ritmi ben precisi, in cui anche il pasto trovava la sua precisa e “giusta” collocazione. Qualcunque attività veniva smessa quando era ora di mettersi a tavola. E non c’era appuntamento o “elemento di disturbo” – il pensiero va all’odierno invadente cellulare, così difficile da spegnere anche nei momenti di relaz e privacy, tanto da schiavizzarci – che potesse frapporsi a questo appuntamento. Alle sei del mattino si beveva una tazza di caffè d’orzo; poi, verso le nove e mezza, si consumava uno “spuntino” fatto di polenta o gnocchi o strazade (tagliatelle) o fusi (soprattutto nella zona di Montona) con il sugo – arrossato con conserva e fatto con coste o spallette di maiale – oppure la salsiccia. Il pranzo vero e proprio arrivava verso le due del pomeriggio e comprendeva un minestrone con cotica e pancetta o spalletta. Un altro spuntino, attorno alle cinque del pomeriggio, prevedeva formaggio e pane e vino. Alla sera, invece, per cena, grandi frittate accompagnate da insalate e verdure fresche, oppure, nelle zone di mare, polenta e pesce fritto e radicchio. La polenta era uno dei cibi che troneggiavano sulle tavole di una volta: in Istria, come nell’entroterra di Venezia e in Friuli, si ricorreva anche a quella di mais bianco, un po’ più dolce di quella bianca; alle volte si mescolavano insieme le due farine. “Non mi risulta che in Istria si usasse la polenta ‘pasticciata’, ma credo che, più o meno molle, servisse da accompagnamento ai vari companatici, anche per le merende calde, al posto del pane – rileva l’autrice –. In tempi difficili, nelle località sulla costa, per fare la polenta la gente attingeva all’acqua del mare per risparmiare sul sale”. questa generazione, perderne la memoria con la scusa del tempo che scorre in fretta e che ci fa correre a nostra volta sempre più. Ma non si voleva solo ‘fotografare’ una realtà non più presente, bensì anche coglierne i risvolti attuali e le eventuali trasformazioni – in terra italiana – tenendo conto che indietro non si torna, ma che bisogna ben conoscere la realtà da cui si è partiti per restare se stessi, di qua e di là dai labili confini. Era un’impresa ardua che solo in parte, naturalmente, è stata attuata, ma valeva la pena di abbozzare”. L’autrice ha messo insieme – con opportuno e giusto dosaggio – numerose ricette (tutte “provate” e quindi funzionanti nella pratica) e articoli di giornale sulle tradizioni culinarie già pubblicati da “Voce Giuliana” (organo si stampa dell’Associazione delle Comunità Istriane) a partire dal 1968, aggiungendovi inediti – ricette, ricordi, riadattamenti, tradizioni vissute – inviati dai lettori a “La nuova Voce Giuliana” dall’inizio del 2007. Di agevole lettura – e al fine di accentuare questo suo carattere sarebbe auspicabile, in un’eventuale e attesa riedizione, aggiungere un sommario e forse anche un indice dei nomi – il libro “Mangiar memoria” parte dalla “base” della piramide alimentare istriana: la polenta, il riso e “sua maestà”, la minestra che ricca o povera che dosse una famiglia, c’era sempre, tanto da costituire il “cibo” per antonomasia (in Istria come altrove nel mondo). I piatti più frequenti sulle tavole istriane erano el minestron – riso e pasta, riso e fagili, orzo e patate, pasta e patate, fagioli e patate, ma per lo più pasta e fagioli –, la jota, el minestron de fasoi e formentòn o la minestra de bobici. Ma c’erano anche la panada e la pasta butada, il minestrone di lenticchie, gnocchi de gries in brodo, la zuppa pavese, la miestra con i famosi bisi de Capodistria... Sorvoliamo, ma solo per carenza di spazio, sul capitolo risi, e proseguiamo, sfogliando il volume, con le “merende calde e le frittate”. “Infatti, nell’Istria incontaminata (esiste ancora!) la merenda continua ed essere la tappa di metà mattina che, specialmente nelle belle stagioni, interrompe il lavoro per un po’, in attesa del pranzo.... Cibo caldo e gusti intensi: òmbolo e vino rosso e prosciutto crodue, e parole e discorsi altrettanto intensi e caldi...” scrive Vigini, rievocando una giornata trascorsa con un ultraottantenne grisignanese, Vittorio, nella zona di Piemonte e stanzia Sillich, a “ingrumar spàrisi” (l’autrice stava compiendo gli studi sulle chiesette nella campagna tra il Dragogna e il Quieto). Nell’Umaghese, invece, si usavano anche trippe col sugo rosso, testina di agnello, fegato con la polenta, luganighe, sardoni friti e in savor, frattaglie in sguazzeto, frittate ... il tutto annaffiato da un bel bicchiere di vino. Dopo questo “spuntino” – oggi un vero e proprio pasto – arrivava, verso le due, il pranzo vero e proprio e i diversi pasti. Ecco che Chiara Vigini ci propone una serie di suggerimenti per comporre un menù tradizionale, con tutte le variazioni apportato nel corso degli anni dalle varie generazioni, oltre che dalle cuoche delle diverse località, sfruttando tutto ciò che il territorio offriva nello scorrere delle stagioni. Sì, perché la stagionalità, la freschezza degli ingredienti e l’amore e la pazienza con cui le pietanze venivano preparate sono le indispensabili, fondamentali “spezie” della nostra cucina. Quelle proposte da Vigini, comunque, non sono ricette che vengono tirate fuori dalla “naftalina” ma che hanno subito nel corso dei decenni delle variazioni, delle innovazioni, dettate anche dalla prassi delle generazioni più giovani. Dunque, una cucina che trasmette e crea valori. Il libro si sfoglia con piacere – verrebbe da dire proprio con l’acquolina in bocca –, come del resto si ascolta con piacere la narrazione dell’autrice – presente a Pirano alla promozione del volume organizzata dalla Società di Denis Visintin Nata a Trieste da genitori che devono alla loro profuganza il loro incontro, Chiara Vigini unisce agli affetti familiari la passione per la storia istriana, per l’insegnamento, per i salmi... per la vita, credendo fermamente nell’importanza di trasmettere alle nuove generazioni la conoscenza e l’amore per le proprie radici. Laureata in Pedagogia con una tesi sulle chiese rurali delle diocesi di Cittanova d’Istria, diplomata all’Archivio di Stato di Trieste e abilitata all’insegnamento di diverse discipline, opera nelle scuole di Trieste e collabora con la stampa dell’esodo. di studi storici e geografici, in collaborazione con la Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini” – di questo ricettario storico-culturale-culinario. Ci accoglie con calore e parla del lavoro svolto con entusiasmo. Un lavoro meticoloso di documentazione e di raccolta-selezione del materiale che, man mano, le veniva inviato dal tutte le parti del mondo, anche le più disparate in cui arge un “fogoler” istriano. Ma. fra i tanti piatti qual è quello che a Chiara Vigini piace di più? “La minestra de bobici”, risponde senza esitare. E tra i dolci? Le frìtole, quelle che si prepara(va)no nella Momiano da cui trae origine la ricercatrice, con il loro inconfondibile aroma di vaniglia. 5 Credo di appartenere a una delle ultime generazioni di istriani che hanno vissuto la loro infanzia assistendo a quel lento processo che ha portato alla graduale scomparsa di alcune pietanze della cucina tradizionale, e soprattutto dei suoi valori, dalle case e dalle famiglie istriane. E forse non mi ero accorto di quanto questo fosse importante, fino a qualche settimana fa, quando un amico istriano di Roma, mi ricordò che al Quartiere Giuliano Dalmata della capitale è rimasta soltanto sua suocera, fra l’altro non istriana d’origine, a saper preparare la pinza. E me lo disse con un po’ di tristezza, lui, arrivato da Roma per la prima volta in Istria, esule di terza generazione, alla ricerca delle proprie radici, che lo ha portato a rintracciare alcuni parenti mai visti. Ebbene, mi resi solo allora conto di quanto importante erano per lui le ricette della cucina tradizionale istriana, una delle poche cose che lo attaccavano alle radici. Ma la pinza, cioè i dolci tradizionali istriani, mi fanno tornare indietro nel tempo. Ricordo ancora come da bambino puntualmente per Pasqua ricevevo dalla nonna materna un dolce che me lo preparava solo lei. Ed era questo una delle cose che lei faceva con amore per tutti i suoi nipoti. C’erano allora in tavola il pandespagna, i buzolai, la pinza, i crostoli, il pan dolse, le fritole. Ma soprattutto la titola, una forma di bambola intrecciata, con l’uovo incastonato, la gioia di noi bambini, come lo era la pinza per il mio amico istriano di Roma. Allo stesso tempo, appartengo a quella generazione che ha avuto la fortuna di vivere il revival della cucina istriana nei ristoranti e negli agriturismi, assurgendo così ad offerta turistica gastronomica di primo ordine. Un revival che sta alla base di quel processo di riappropriamento dell’identità istriana, configuratosi debolmente nella seconda metà degli Anni Ottanta del secolo scorso con la crisi che allora iniziava ad attanagliare i territori ex jugoslavi, ed affermatosi decisamente con gli anni Novanta. Si era allora in un periodo di riaffermazione del concetto di istrianità, delle sue culture, dei suoi dialetti. Questo processo contemplava pure la ripresa e l’affermazione fra l’altre delle colture storiche istriane, la vite e l’ulivo, strettamente connesse alla nostra cucina ed ai suoi sapori, al ciclo della vita nelle campagne istriane con le sue tradizioni. Mi sia concessa una divagazione ancora. Mentre tutto questo succedeva, si stavano preparando le nozze di un mio carissimo amico, ora purtroppo defunto, che espresse il desiderio di avere sul tavolo di nozze i fusi istriani al capriolo. Ed io allora novello studente, mi accorsi di non sapere quasi niente di una cucina quasi scomparsa: infatti, fu in quel momento che mi scontrai per la prima volta con questa pietanza, e con il suo ciclo di preparazione, che vide la parentela e le vicine di casa impegnate per quasi una settimana avvoltolare gli sfogli di pasta preparati in casa con l’uso di una bacchettina. La preparazione era un vero e proprio rito di socializzazione alla vecchia maniera, condita da tutte le storie che le signore potevano raccontarsi. Tutto questo processo di riaffermazione dell’identità istriana, e questi riti se li leggono anche nelle pagine del volume “Mangiar memoria”. Chiara Vigini, istriana per parte d’ambo i genitori, ha avuto l’opportunità di vivere queste tradizioni e questi processi, sia nell’ambito familiare, e qui non posso non ricordare il padre, l’amico Arturo Vigini, a cui ero legato da profonda stima ed amicizia. Con questo libro Chiara Vigini ci presenta non soltanto le ricchezze del patrimonio culinario e culturale istriano, ma anche gli aspetti del ciclo della vita nelle campagne istriane, legati alle peculiarità stagionali, al lavoro nei campi, alle feste, sia pagane sia religiose, alla vita di casa. Per cui il libro rappresenta un’ottima guida al recupero dei valori sia tradizionali sia gastronomici della nostra penisola, di cui dobbiamo e possiamo andarne fieri. A Chiara, profonda studiosa di storia e di cultura istriana, faccio l’augurio e l’invito a continuare su questa strada, al pubblico un invito a leggere questo libro, per non dimenticare. Da Trieste fino a Zara e ancor più giù «Frìtole»: ma che bontà, ma che bontà Un profumo inconfondibile, altro che le madeleine proustiane. Nei giorni di festa le case delle nostre terre odoravano di “frìtole” che, come afferma un detto popolare (e la prassi lo conferma)...”le xe come le putele, più che ghe ne fa e più le xe bele”. Ci sono le frìtole – frittelle e basta, poi ci sono quelle veneziane, di Muggia, di Trieste, istriane, lussignane, di Pirano, dalmate... Dalla Venezia Giulia e fino giù all’estremo sud dell’Adriatico orientale venivano preparate non solo nelle occasioni speciali, ma anche tutto l’anno. Tanto che nel 1796 a Zara, di fronte allo scarseggiare dell’olio, le autorità dell’epoca si videro costrette addirittura a emanare un proclama alla cittadinanza proibendo “la facitura delle frìtole”. Non esiste un’unica ricetta; le troviamo confezionate in modi molto diversi, ad eccezione dellacottura, che deve essere fatta nell’olio bollente, “ad arte”, perché dalla padella la “frìtola” deve uscire morbida e leggera, senza lasciarsi impregnare dall’olio. Un dolche antico ma sempre attuale, che spesso si accompagna al Carnevale. “Nel mio vissuto di esule di seconda generazione le frìtole sono un cibo rituale, da preparare con atti ben precisi e dfiniti, da non mutare per nessun motivo, pena, chissà, la pègola, o anche di peggio!”, dice la momianese nonna Cecilia (di Collalto Berda) a p. 136, propo- nendo una ricetta che probabilmente deriva da qualche tradizione austro-ungarica, ma che si trova sia a Umago, sia a Berda, paesino della campagna di Momiano. Ingredienti: un chilo e mezzo di mele di vario genere tagliate a metà o, se sono grandi, a quarti; tre etti di uvetta, sei etti di zucchero, un etto di pinoli, un etto di mandorle, due etti di noci, un etto e mezzo di cioccolato fondente grattugiato o fuso, sei etti di farina bianca o poco più, un po’ di graooa o cognac, un po’ di buccia di aranacio o limone grattugiato, cedrini e un cucchiaio di marmellata. Coprire a filo le mete e farle cuocere, poi aggiungere gli ingredienti uno alla volta; da ultimo unire la farina, aggiungendo un po’ d’acqua al bisogno, sempre mescolando con un cucchiaio di legno. Quando l’impasto scuro raggiunge la giusta consistenza (raffreddandosi si raddensa ancora un po’, ma rimane sempre molto attaccaticcio) versarlo su un piano infarinato e formare palline infarinate poco più grandi di noci, aiutandosi con un cucchiaio. Friggerle in olio bollente e servirle tiepide o fredde, spolverate di zucchero a velo. Da rilevare a Pirano, ad esempio, le “frìtole” venivano preparate con “suca melonara, mandole brustolade e mastrussade o taiade a tochetini, fighi suti taiadi a tochetini, ua passa missiada co’ el rum, sedrini de naranso, pignoi...” 6 cucina Venerdì, 6 novembre 2009 CEREALI Sottovalutato nonostante digeribilità e altre particolarità intrinseche Orzo, da riscoprire e valorizzare Proprietà C on l’autunno cambiano i prodotti che consumiamo in cucina e cambia anche il modo di alimentarci. I prodotti più leggeri, come le verdure tipiche dell’estate, lasciano spazio a cibi più sostanziosi che vanno a braccetto con il cambio climatico. Quando fa più freddo il corpo ha bisogno di un apporto più consistente di calorie. In questo senso zuppe e minestre, specie se arricchite, sono un vero e proprio toccasana. Un modo per dare un tocco speciale alla nostra zuppa e aggiungerci dell’orzo. Ed è proprio su questo cereale che volevamo richiamare la vostra attenzione perché a nostro avviso è un alimento un po’ sottovalutato che dovremmo riscoprire vista la sua ottima digeribilità e le sue innumerevoli proprietà terapeutiche e curative. Per l’uso alimentare umano, l’orzo viene ripulito dalle glumelle esterne e viene chiamato orzo mondo: è un chicco ricco di proprietà vitali, conserva i fattori bio-nutrizionali contenuti nel germe e nei vari strati del chicco (proteine, grassi, sali minerali e vitamine). Con l’eliminazione di questi strati esterni, si ottiene l’orzo perlato: il chicco viene impoverito dalle sue sostanze ed appare bianco. L’orzo decorticato invece è una mediazione fra l’orzo mondo e l’orzo perlato e conserva ancora delle buone caratteristiche nutrizionali. Zuppa di zucca e orzo Ingrediente: un litro di brodo vegetale 150 grammi di orzo perlato 150 grammi di zucca 80 grammi di verdure aromatiche 50 grammi di lardo formaggio Grana Padano grattugiato alloro olio extravergine sale pepe bianco Riducete le verdure in minutissimi dadi (brunoise) e fatele appassire in un velo di olio con il lardo, finemente tritato. Unitevi la zucca, a pezzi, una foglia di alloro, bagnate con il brodo e portatelo a ebollizione. Tuffatevi l’orzo, ammollato per un’ora, e lasciatelo cuocere per un’altra ora circa. Infine correggete di sale e profumate con pepe bianco. Arricchite la zuppa con grana e un filo di olio. Questo cereale è dotato di buone proprietà antinfiammanti e rinfrescanti per tutto l’apparato digerente, l’apparato respiratorio e le vie urinarie. Da sollievo quindi anche al colon irritabile (colite), a chi soffre di flatulenza, borbottii e fenomeni fermentativi; contro la stitichezza, nelle bronchiti, nella tosse e nelle cistiti. In caso di carenze di sali minerali e vitamine è molto indicato perché contiene buone quantità di: fosforo, potassio, magnesio, ferro, calcio, vitamina PP e vitamina E, quindi durante una convalescenza o la fase di crescita dell’adolescenza va anche molto bene. L’orzo va benissimo anche come rimineralizzante, per migliorare e portare in equilibrio il sistema nervoso e la memoria, contrasta i problemi cardiovascolari, è tonico, contrasta la gastrite, il reflusso gastrico, è emoliente, rinforza il sistema immunitario nel suo complesso, da equilibrio a tutto l’organismo, svolge un’azione carminativa sulla gola, grazie ai principi attivi come maltosio, destrina, ordeina e ordenina stimola tutta la circolazione periferica (ristagni, gambe pesanti, vene varicose). Cottura Come tutti i cereali anche l’orzo in chicchi necessita di un accurato lavaggio prima della cottura. Si possono versare i chicchi in un recipiente in modo che possano essere agevolmente risciacquati, aiutandosi con un colino per evitare la dispersione dei chicchi. È consigliabile lasciare l’orzo mondo o l’orzo decorticato in ammollo per un periodo che può variare dalle 6 alle 12 ore, in modo da ottenere un cereale più morbido e una cottura migliore. L’acqua dell’ammollo non va gettata, ma sarà poi utilizzata per la cottura del cereale. Generalmente per una parte di orzo si utilizzano tre parti di acqua, naturalmente la quantità di acqua aumenta nel caso in cui si vogliano preparare minestroni e zuppe; l’orzo mondo e l’orzo decorticato dovrebbero comunque cuocersi in circa 60 minuti. Come nel caso degli altri cereali in chicchi, non è necessario né consigliabile mescolare durante la cottura, anche se, soprattutto durante i primi tempi di approccio a questa cucina, si può controllare la consistenza del chicco durante la cottura. L’orzo perlato, adatto per minestroni e zuppe, è di cottura molto più veloce rispetto all’orzo solo mondato. Storie e leggende Conosciuto dagli albori dell’umanità La più antica forma vegetale piantata dall’uomo risale a circa diecimila anni fa, e sembrerebbe sia stata proprio l’orzo, perché poteva crescere a quasi tutte le latitudini, si conservava a lungo, era facilmente trasportabile e nutriente. Le grandi civiltà (Cinesi, Egizi, Sumeri e Assiri) conoscevano bene la coltivazione di questa pianta. I Greci e Romani si alimentavano prevalentemente d’orzo (pane e zuppe), e ancora nel I secolo Plinio il Vecchio poteva raccontare che nelle città greche i gladiatori erano alimentati con l’orzo. Successivamente questo cereale dall’alto potere nutritivo perse la sua centralità alimentare per l’affermarsi del frumento, più adatto alla panificazione (maggior contenuto di glutine) e più digeribile. L’“hordeaum” divenne così un cibo rozzo da destinare alle classi inferiori (fondamentale fino a tutto il Medioevo), e i Romani identificavano con il termine “hordearius” gli individui gonfi e pomposi o gli oratori indigesti. Questo cereale rappresenta ancora oggi la principale fonte alimentare nei Paesi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale. La sua trasformazione di maggior interesse prevede la maturazione dei frutti, attraverso cui si ottiene il malto, ingrediente necessario per preparare birra e whisky, o per insaporire i fiocchi di cereali. Il “caffè d’orzo”, termine usato impropriamente in quanto non utilizza chicchi di caffè, dall’Ottocento e fino alla seconda metà del secolo scorso ha fatto parte con il latte e il pane secco della colazione tradizionale contadina. La tostatura del cereale era un piccolo rito da farsi davanti al focolare, dove si girava lentamente la tostatrice scaldata dalla cenere del fuoco. Ancora durante la Seconda guerra mondiale l’orzo era una bevanda di vasto consumo (preparata assieme al miele diventava una super medicina), ma col tempo il caffé d’orzo passò ad essere somministrato sopratutto alle persone anziane e ai bambini. Orzo e calamaretti Ingredienti: 400 grammi di calamaretti 400 grammi di broccoletti 200 grammi di orzo perlato vino bianco secco alloro olio extravergine d’oliva sale e pepe q.b. Dividete i broccoletti in cimette, sbianchiteli per 6’ in acqua bollente con un cucchiaio di olio, scolateli, lasciateli raffreddare e saltateli poi in padella in un velo di olio con un pizzico di sale. Lessate l’orzo, dopo aver- lo ammollato per qualche ora, in acqua bollente salata, infine scolatelo e conditelo con un filo di olio e un po’ di pepe. Pulite i calamaretti e tagliateli ad anelli. Portate a bollore in una padella un dito di acqua con un filo di olio, una foglia di alloro e un goccio di vino. Tuffatevi i calamaretti, lasciateli fino a quando riprende il bollore, quindi scolateli conservando un po’ dell’acqua di cottura per insaporire l’orzo. Servite i calamaretti con l’orzo,e i broccoletti. Orzotto con scampi Ingredienti: otto scampi grandi (circa 1,6 kg) 280 gr di orzo 150 gr di passata di pomodoro 100 gr di polpa di pomodoro cipolla porro timo prezzemolo burro vino bianco secco olio d’oliva sale e pepe Pulite gli scampi staccando le teste dalla code; sgusciate queste ultime, privatele del budellino nero e tenetele al fresco. Schiacciate con il batticarne i gusci delle code e le teste, poi fate rosolare il tutto a fuoco vivo con un filo d’olio, una rondella di cipolla, un pezzetto di porro, un rametto di timo; aggiungete dopo alcuni minuti la polpa di pomodoro e tanta acqua quanta sarà necessaria per coprire teste e gusci; lasciate bollire a fuoco vivo per 30’ circa poi passate tutto al colino, ottenendo un sugo liquido (brodetto). Avviate l’orzotto: tritate circa 50 grammi di cipolla, fatela appassire in due cucchiaiate d’olio, unite l’orzo, tostatelo a fuoco vivo, sfumatelo con mezzo bicchiere di vino poi proseguite la cottura bagnando l’orzotto con il brodetto preparato e, quando questo sarà esaurito, con acqua calda; l’orzotto cuoce in circa 40’. Mentre l’orzotto sta cuocendo, soffriggete in 20 grammi di burro un tronchetto di porro ridotto a rondelle, aggiungete la passata di pomodoro lasciate restringere un poco poi unite le code degli scampi, sale, pepe e fate cuocere ancora per 3’. Appena cotto, correggete l’orzotto di sale e mantecatelo con una noce di burro l’intingolo di code di scampo e un trito di prezzemolo. cucina 7 Venerdì, 6 novembre 2009 PESCI Protagonista fino al 22 novembre nei ristoranti del Buiese Sogliola, il sandalo di Giove Tortino di sogliola e verdure di Fabio Sfiligoi D ura fino al 22 novembre la seconda edizione della “Sogliola d’oro”, allestita dagli Enti turistici del Buiese e che coinvolge una ventina di ristoranti del territorio. L’idea degli organizzatori è sì quella di valorizzare la sogliola, spesso bistrattata a scapito dei più “pregiati” branzino e orata, ma anche gli altri prodotti tipici della gastronomia istriana, conosciuti e apprezzati a livello internazionale come l’olio extravergine d’oliva e il tartufo. La sogliola è un pesce tipico dei fondali sabbiosi, la si può pescare lungo la costa istriana, partendo dal Golfo di Trieste per arrivare fino all’arcipelago delle isole Brioni. Ed è proprio questo il periodo dell’anno in cui si possono prendere le sogliolie migliori, quelle che possono arrivare fino a una quarantina di centimetri. In Istria vengono pescate a 5-6 chlometri dalla costa. La carne della sogliola è bianco-rosata, morbida e delicata, si tratta di un pesce magro facilmente digeribile, è ricca di proteine, per questoè adatta ai bambini. Essendo molto magra è consigliata in caso di cure dimagranti. È invece consigliato un uso moderato a chi soffre di insufficienza renale. Filetti di sogliola all’arancia Ingredienti: quattro filetti di sogliola due arance due carote 40 grammi di burro un gambo di sedano bianco brodo granulare di pesce vino bianco secco maizena sale (facoltativo) Avvolgete i filetti di pesce su se stessi, ricavandone una dozzina di rotolini che fisserete con stuzzicadenti. Rosolateli nel burro. Bagnateli con due dita di vino. insaporirteli con due pizzichi di granulare di pesce. Irrorateli con il succo spremuto delle arance e lasciate sobbollire per 2-3 minuti. Mondate e tagliate a julienne le carote e il gambo di sedano. Cuoceteli per un minuto nel microonde. Togliete i rotolini di pesce dal fondo di cottura e teneteli in caldo. Legate il fondo con una punta di maizena. Servite i rotolini con la verdura e la salsa preparata. Il sale è facoltativo in quanto può essere usato sulle verdure soltanto se la salsa del pesce non fosse sufficiente per insaporirli. La delicatezza del sapore permette agli chef di abbinare la sogliola a prodotti dell’orto (funghi, asparagi, spinaci, bietole) o in alcune versione più estreme vengono servite come involtini con speck, prosciutto crudo o pancetta. In Istria l’abbinamento al tartufo è quasi scontato e inevitabile. Comunque la carne di sogliola ha una notevole diversità di sapore e consistenza a seconda delle aree di provenienza e dell’alimentazione. In Adriatico una migliore alimentazione determina una maggiore morbidezza delle carni che ne costituisce uno dei maggiori pregi. Come ben saprete la sogliola è di forma appiattita e ha gli occhi sul lato in cui la pelle è di colore brunastro. La parte inferiore del corpo è di colore bianco e solitamente è la parte che la sogliola adagia sui fondali. Al momento dell’acquisto controllate l’aderenza della pelle al corpo: quando la sogliola è fresca la pelle risulta essere molto aderente alla carne. Fate attenzione a che la sogliola non presenti colorazione giallognola, soprattutto lungo i bordi del corpo. Solitamente va consumata freschissima, si può conservare in frigorifero al massimo per uno-due giorni, chiusa fra due piatti o avvolta in un foglio di carta d’alluminio, dopo averla accuratamente pulita. Per farlo si deve prima di tutto praticare un’incisione sotto la testa, dalla parte dell’occhio e privarla delle viscere. Quindi occorre praticare un’altro taglio alla base della coda, tenere la sogliola con una mano e con l’altra, alzando la pelle tagliata, strapparla tutta fino alla testa. Per finire vanno eliminate le lische intorno al pesce e poi lavata sotto il getto dell’acqua fredda. Ingredienti: tre sogliole da sfilettare 500 grammi di verdure miste, pulite, a dadini (sedano, porro, carota, verde di zucchina) 100 grammi di latte 100 grammi di panna tre uova quattro fette di pane casereccio burro olio extravergine d’oliva sale e pepe q.b. Fate saltare in padella a fuoco vivo, in un filo d’olio caldo, la dadolata di verdure; salatele, pepatele, quindi lasciatele Dei pesci in commercio le sogliole sono da considerare tra i più pregiati, ma anche tra i più costosi, soprattutto in relazione alle percentuali di scarto molto elevate, che si aggirano intorno e oltre il 60 p.c. e per le quali, acquistando un chilo di pesce, la parte edibile è inferiore ai 400 grammi. La sogliola è forse il pesce cui la cucina europea ha dedicato più ricette. Apprezzatissimo fin dall’antichità, era chiamato dai Romani: “Solea Jovis” (Sandalo di Giove) per l’eccellenza delle sue carni. La sogliola nel Medioevo e nel Rinascimento, pur sempre apprezzata, perse la sua supremazia gastronomica sugli altri pesci. Fu la Grande Cucina classica francese a farne la regina del mare, e tutti i grandi chef dell’Ottocento le dedicarono ricette specifiche. raffreddare. Su una placca coperta da un foglio di carta da forno, imburrato, appoggiate quattro anelli di 12 centimetri di diametro e imburrate anch’essi; rivestite gli anelli internamente, ciascuno con tre filettini di sogliola, mettendoli con il lato che aveva la pelle verso l’interno; sul fondo di ogni anello sistemate una fetta di pane, sopra la dadolata di verdure equamente divisa, e per ultimo la royale ottenuta sbattendo in un piatto le uova con la panna, il latte, sale e pepe. Passate la placca nel forno, già scaldato a 200°, e cuocete per 15’, poi sfilate gli anelli liberando i tortini. Trasferiteli nei piatti e serviteli subito, guarniti a piacere. Sogliola alle mandorle Ingredienti: quattro sogliole da 250 grammi cadauna 100 grammi di mandorle a lamelle 50 grammi di spinaci mondati 50 grammi di lattuga mondata 50 grammi di indivia farina un uovo burro limone olio extravergine d’oliva sale e pepe Dopo aver pulito e spellato le sogliole, salatele, pepatele, passatele nella farina, nell’uovo, coprite di mandorle solo il lato del pesce che aveva la pelle scura, quindi friggetele in abbondante olio e burro caldi, mettendole in padella prima dalla parte con le mandorle. Scolate le sogliole ben dorate e servitele con il misto di spinaci, indivia, lattuga, tutto condito con una citronnette di olio e limone. 8 cucina Venerdì, 6 novembre 2009 IL RISTORANTE DEL MESE Lussinpiccolo:«Artatore» locale nel segno del classico di Sostene Schena D iciamo subito che, dopo aver abbandonato la strada principale ed essere scivolati per un chilometro nell’interno della pineta di Lussin Piccolo, non ci si aspetta di trovarsi davanti a un frontespizio, com’è l’entrata al ristorante Artatore. Che, in un certo senso ci richiama il classico. Questa prima impressione ci accompagnerà in seguito nell’addentrarci in quel meraviglioso viaggio che spesso è il “sedersi” a tavola e vederci passare davanti i variegati piatti che un ristorante attrezzato (in tutti i sensi) sa proporvi: dal semplice antipasto alla raffinata aragosta. Il ristorante “Artatore” ci è parsa la soluzione ideale, nel marasma estivo di Lussinpiccolo, per riposare le stanche membra e un’oasi tranquilla per rigenerare le calorie spese al sole con una bella mangiata di pesce. Il locale è sobrio, pulito, sempre ben tenuto e la cortesia tra i camerieri non fa difetto. Se arrivate qui dopo una giornata meteorologicamente tranquilla, cioè i pescatori sono tornati con le reti piene, avrete soltanto l’imbarazzo della scelta. La cucina funziona egregiamente e il fatto che “Artatore” disponga di un suo bel forno a legna (è in un certo modo l’emblema del locale) dà quel tocco La nostra pagella Ambiente Atmosfera Servizio Qualità Vino Prezzo Rapporto q/p Giudizio finale La scheda in più alla qualità; un vantaggio, specie nel cucinare il pesce, che sul piatto si... sente. La linea della cucina è quella classica, praticamente orientata verso il gusto dei turisti e in particolare quelli italiani. Buono anche il vino sfuso (anche se per pesce di alta qualità consigliamo, come sempre una buona bottiglietta che nella cantina-frigo non manca mai). Dimenticavo: non andatevene senza aver assaggiato una delle speciali torte dell’ultraottantenne madre di Janja! Nome: “Artatore”. Località: Lussinpiccolo Gestione: Janja Zabavnik. Indirizzo: Artatore 132 – 51550 Mali Lošinj. Tipo di locale: ristorante. Coperti: 70 all’interno; 70 in terrazza. Aperto: dal 15 marzo al 10 ottobre dalle 8 alle 23. Numeri di telefono: +385-51232932 anche fax. Lingue parlate: italiano, inglese e tedesco. Pagamento: anche credit card. Prenotazione: consigliabile. Distanze: 77 km dall’attracco di Faresina; 21 da Ossero (ponte per l’isola di Lussino; 118 da Fiume; 170 dal confine italiano di Pese. Per arrivarci: da Mattuglie prendete la strada per Laurana-Pola fino a Faresina (31 km) dove ci si imbarca per Cherso. Dopo 24 km siete a Cherso; altri 32 per Ossero; dopo 13 chilometri trovate (là dove a sinistra c’è l’ufficio informazioni) il bivio a destra verso Artatore. Gioielli a forma di tortellino Udine, successo della seconda edizione di Good Quando piccole leccornie diventano gadget di moda Crocevia della qualità e dei prodotti d’eccellenza della Mitteleuropa Tanto piccoli da poter essere trasformati in gioielli. In gemelli da polsino. Orecchini pendenti. Ciondoli. Portachiavi. I tortellini mignon griffati da Biagi - lo storico ristorante nato nel ‘37 a Casalecchio - si trasformano in 16 grammi di preziosi in argento, oro giallo, oro rosa. Volendo anche punteggiati di brillanti. È l’idea di Fabio Biagi, figlio del patriarca Ivano, che oggi gestisce il ristorante che piaceva tanto al giornalista Gianni Brera. “Tutto è nato dalla mia passione per i gemelli. Finché un giorno un amico mi ha detto: perché non farne una coppia a forma di tortellino?”. L’amico è Gianluca Sturi e l’idea, gettata lì come 90 88 90 90 80 79 89 89 uno scherzo, sembra buona. Detto fatto. “Abbiamo fatto il calco di uno dei nostri tortellini”. Quelli minuscoli che Biagi serve in brodo. “Come gioiello da polsino era splendido - racconta il proprietario - e lo abbiamo esposto nella nostra bacheca. È andato subito a ruba”. Da quell’idea nascono tanti modelli. Quelli in argento brunito con diamanti. Quelli in oro rosa con brillanti sintetici. Tutti in una custodia in legno dove è stata incisa la ricetta tradizionale dei tortellini Biagi depositata alla Camera di Commercio. I nuovi tortellini Biagi arriveranno anche nei negozi. Ma solo in pochi, esclusivi e bolognesi. Obiettivo raggiunto: con un +35 p.c. di visitatori paganti rispetto all’edizione di lancio del 2007, si è conclusa a Udine la seconda edizione di “Good, la Fiera della qualità a tavola”. Il segno più va messo davanti anche al numero di espositori presenti in quartiere: +30 p.c. visto che nel 2007 erano 240 e quest’anno 344. Ma a questi dati si aggiungono altre componenti positive da non sottovalutare: maggiore e più consapevole è stato il coinvolgimento del pubblico durante la visita in Fiera; più domande agli espositori-produttori, più tempo dedicato a capire, ascoltare, imparare partecipando direttamente alle dimostrazioni, ai corsi e ai laboratori; più interesse e più attenzione sulla qualità del prodotto, fatta non solo di gusto e piacevolezza, ma anche di tutte quelle fasi che dall’origine lo accompagnano sulla nostra tavola, nella nostra bocca come ingrediente fondamentale di salute e benessere. Un pubblico soddisfatto quello che ha visitato la fiera e che oltre agli acquisti fatti tra una vastissima offerta di prodotti unici, tipici ed eccellenti, si è portato a casa quel qualcosa in più che fa la differenza: il sapere cosa c’è dietro ad un alimento. La soddisfazione è anche degli espositori che in tre giorni di intenso lavoro hanno potuto entrare in contatto con le esigenze e le richieste di una domanda ampia ed eterogenea per età, gusti, provenienza e settore professionale di appartenenza. “Good è la strada giusta per rilanciare un settore chiave come l’agroalimentare e la ristorazione – ha detto convinto il presidente di Udine e Gorizia Fiere Sergio Zanirato –. Avevamo visto giusto e con noi anche i partner che hanno sostenuto questo evento. L’importanza dell’enogastronomia e la collocazione strategica di Good sono connotati fondamentali per far sì che questa manifestazione raggiunga risultati ed evidenze ancor maggiori nell’area dell’Euroregione sviluppando potenzialità ancora inespresse. Su questa prospettiva di apertura dobbiamo continuare a muoverci insieme per svolgere pienamente quel ruolo di promozione dell’economia regionale che spetta ad una realtà fieristica come la nostra, nel cuore di una Regione che – come ha sottolineato il ministro agli Esteri Franco Frattini durante l’inaugurazione – ‘è crocevia dell’Europa’ e Good ha tutte le carte in regola per essere crocevia della qualità e dei prodotti d’eccellenza della Mitteleuropa”. Anno V / n. 47 del 6 novembre 2009 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: CUCINA Redattore esecutivo: Fabio Sfiligoi / Impaginazione: Tiziana Raspor Collaboratori: Ilaria Rocchi, Sostene Schena, Silvano Silvani e Denis Visintin Foto: Zlatko Majnarić, Goran Žiković e archivio Il supplemento esce con il sostegno finanziario della Regione Istriana, Assessorato alla Comunità nazionale italiana e altri gruppi etnici. La pubblicazione del presente supplemento, sostenuta dall’Unione Italiana di Fiume / Capodistria e dall’Università Popolare di Trieste, viene supportata dal Governo italiano all’interno del progetto EDITPIÙ in esecuzione della Convenzione MAE-UPT N° 1868 del 22 dicembre 8, Contratto 248a del 18/10/2006 con Novazione oggettiva del 7 luglio 2009