qvaderni di vita di montagna
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qvaderni di vita di montagna
Semestrale del CLUB ALPINO ITALIANO - Sezione Cadorina “Luigi Rizzardi” AURONZO DI CADORE (BL) - ANNO XIII n. 26. Dicembre 2012 - € 3,80 - Spedizione in A.P. - 45% - art. 2, comma 20/b, Legge n. 662/96 - DCI - Belluno QVADERNI DI VITA DI MONTAGNA QVOTA 864 QVADERNI DI VITA DI MONTAGNA “Quando arrivi in vetta ad un monte non fermarti, continua a salire” Un Maestro del buddismo Zen ANNO XIII. N. 26. DICEMBRE 2012. Semestrale Registrato presso la Cancelleria del Tribunale di Belluno col n. 15/2000 in data 01.08.2000 Iscritto al Registro Nazionale della Stampa n. 10331 - R.O.C. N. 6944 Spedizione in abbonamento postale - 45% - art. 2, comma 20/b, Legge n. 662/96 - D.C.I. Belluno PAOLA DE FILIPPO ROIA Direttore Responsabile GLAUCO GRANATELLI Direttore Editoriale e-mail: glaucogra natelli @ virgilio.it COMITATO DI REDAZIONE Bepi Casagrande, Alberto M. Franco (G.I.S.M.) Mirco Gasparetto (G.I.S.M.), Mario Spinazzè Questo numero esce in collaborazione con l’Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti” di Fermo HANNO COLLABORATO: La Posta Svizzera, Museo Nazionale della Montagna di Torino, Censi C., Comelli L., Gagliardi L., Galvan A.E., Majoni E., Orlich V. Patriarca E., Sega I., Vaia F., Vecellio B., Vincenzi G., Zangrando A. e Bacci C. FOTOGRAFIE di Corona V., M.N.M. di Torino, Granatelli G., Majoni E. Patriarca E., Zangrando A. e Bacci C. EDITORE - CLUB ALPINO ITALIANO Sezione Cadorina “Luigi Rizzardi” Piazza Regina Pacis, C.P. 30, 32041 Auronzo di Cadore BL - Tel. 0435.99454 REDAZIONE Via B. Ricasoli, 13 - 30174 Venezia-Mestre - Tel. 041.942672 e-mail: quota864@ca iauronzo.it STAMPA Grafiche Vianello srl - Via Postioma, 85 - 31050 Ponzano TV Prezzo di copertina € 3,80 - Numeri arretrati € 7,00 Abbonamento 2012: Ordinario € 6,00 - Sostenitore € 8,00 - Benemerito € 12,00 C.C.P. n. 63312789 intestato al C.A.I., P.za Regina Pacis, 32041 Auronzo di Cadore (BL) © Proprietà letteraria, artistica e scientifica riservata. Tutti i testi possono essere liberamente riprodotti citando la fonte Unione Stampa Periodica Italiana Collezione Vladimiro Orlich Questo periodico è aperto a quanti desiderino collaborarvi ai sensi dell’art. 21 della Costituzione della Repubblica Italiana che così dispone: “Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni mezzo di diffusione”. La pubblicazione degli scritti è subordinata all’insindacabile giudizio della Redazione; in ogni caso, non costituisce alcun rapporto di collaborazione con la testata e, quindi, deve intendersi prestata a titolo gratuito. Notizie, articoli, fotografie, composizioni artistiche e materiali redazionali inviati alla rivista, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. Gli scritti pubblicati rispecchiano esclusivamente le idee personali dell’autore e non riflettono necessariamente il pensiero ufficiale del Club Alpino Italiano. SOMMARIO 3 4 5 ORGANICO DELLA SEZIONE PREPARIAMOCI AGLI EVENTI, FIDUCIOSI NELLA COLLABORAZIONE DEI NOSTRI LETTORI Paola De Filippo Roia - Cerchiamo soluzioni per l’ospitalità in quota e offriamo una possibilità di lavoro nei nostri paesi MINIERA DI ARGENTIERA SUL TORRENTE ANSIEI Rievocazione storica da una scheda di rilevazione di opere, manufatti e siti del progetto Drau Piave 6 8 10 CAI 150... E DOPO? Massimo Casagrande - Possiamo essere artefici di un cambiamento, anche in una piccola Sezione di montagna A COLLOQUIO CON I LETTORI a cura di Glauco Granatelli. G.I.S.M. LA SETTIMA ARTE AL SETTIMO CIELO a cura di Glauco Granatelli. G.I.S.M. Parliamo di cinema di montagna in occasione del 60° del Trentofilmfestival 14 150 ANNI NEL 2013 - Massimo Mila È una lunga storia di cui anche noi facciamo parte. Riviviamola insieme (continuazione) 18 VAL D’ANSIEI: SONO DI SCENA LE DOLOMITI Un excursus tra le montagne e i boschi che si affacciano nella nostra valle 24 26 I LUOGHI DEL SACRO La parrocchiale di Santa Giustina - Paola De Filippo Roia BERNARDO, un santo “tutto” nostro San Berbardo da Mentone, Patrono degli alpigiani e degli alpinisti 28 FRANCESCO, IL LUPO E I DAHÜ - Ettore Patriarca In bici sulle tracce di San Francesco 32 34 DALLE DOLOMITI ALL’UNIVERSITA’ “BROWN” DI PROVIDENCE MONTE PIANA, luogo di memorie e di eroismi - Angelo Zangrando e Cristina Bacci Alla ricerca di memorie e testimonianze storiche che il tempo e l’oblio degli uomini rischiano di far scomparire 36 UNA SALITA SUL POPENA BASSO - Ernesto Majoni. G.I.S.M. Emozioni in una plumbea giornata di settembre 39 40 49 65 70 76 78 80 82 85 ...a proposito dei 150 anni del CAI LIBRI, RIVISTE, GIORNALI... E ALTRO ANCORA Anastatiche Salita al Monte Viso. Narrazione di Guglielmo Matkews (continua) RACCONTI, LEGGENDE, POESIE... Passi - Luciano Comelli La morte del grande cipresso - Luigi Rotelli (pagg. 66-67) La sorgente di tre crode - Lorenzo Gagliardi (pagg. 68-69) ABBIAMO LETTO PER VOI La montagna e la curiosità di Ötzi - Vaia Franco La montagna, la luna e l’altro - Alberto E. Galvan (pagg. 71-75) UN UOMO D’ALTRI TEMPI E D’ALTRI LUOGHI - Bruno Vecellio STRADE. La Valsugana - Ierma Sega 1914, IL TENTATIVO SHACKLETON IN ANTARTIDE - Cesare Censi A TAVOLA COI LARES GFM - GRUPPO FILATELICI DI MONTAGNA Treni. A proposito del centenario della ferrovia della Jungfrau - Die Post (pag. 86) 40 anni tutti da ricordare. Un’esperienza unica ed indimenticabile (pagg. 91-93) Montagne in rosa - Mirco Gasparetto G.I.S.M. (pag. 94) Ricordiamo Giuseppe Mazzotti nel 30° del Premio Letterario Gambrinus (pag. 96) I “Patti Gebardini”(pag. 96) ORGANICO DELLA SEZIONE 2010-2012 ANNO DI FONDAZIONE 1874 Presidente - Massimo Casagrande Vice-Presidente - Davide Da Damos Consiglieri - Bortolo Da Pra, Apollonio Larese Filon, Monti Paolo, Roberto Zanette Segreteria - Elisa Cella De Dan Revisori dei Conti - Sergio Boso, Francesca Caldart, Federica Monti SOCI N. 686: Ordinari 296 - Familiari 200 - Giovani 104 - Aggregati 86 Vitalizi N. 2: Magnifica Comunità di Cadore (Delibera del 15.9.1925), Leonardo Vecellio Venticinquennali: Amadei Maurizio, Lombardi Stefano, Maroldo Giacomo, Pais Becher Giuseppe, Tognetti Renzo, Zandegiacomo Prussia Angelo, Zanette Eliana STRUTTURE DELLA SEZIONE Rifugio Auronzo Forcella Longéres m 2330 slm alle Tre Cime di Lavaredo - tel. 0435.39002 - 62682 Rifugio G. Carducci Alta Val Giralba m 2297 slm alla Croda dei Tóni - 0435.400485 Bivacco F.lli Fantón Alta Val Baión m 1750 slm nel Gruppo delle Marmaròle TESSERAMENTO da effettuare - preferibilmente - entro il 31 marzo ll tesseramento è un atto d'amore verso la montagna e un atto responsabile. Quote associative: Socio Ordinario € 41,00 - Famigliare € 22,00* - Giovane € 16,00** - Ammissione nuovi Soci € 5,00. * I Soci Famigliari devono essere componenti del nucleo famigliare del Socio Ordinario, con esso conviventi e di età maggiore di anni 18. Sono Soci Giovani i minori di anni 18 (nati nel 1995 e seguenti). ** E’ prevista una quota agevolata di € 9,00 per il secondo, il terzo Socio Giovane e seguenti, purché appartenenti a famiglia il cui capo nucleo sia già iscritto quale Socio Ordinario e con esso coabitanti. Per informazioni vi invitiamo a chiamare il tel. n. 0435.99454 (con servizio di segreteria telefonica) o ad inviare una mail a [email protected] - ll versamento delle quote può avvenire anche a mezzo di c/c postale n. 63312789 intestato al CAl, Sezione Cadorína - 32041 Auronzo di Cadore BL, presso l’Unicredit Banca Spa, Agenzia di Auronzo di Cadore . codice IBAN IT86E0200861020000003411021 oppure Cartolibreria La Stua (via Vecellio), Cartolibreria Il Papiro (vi a Piave), Ufficio Skipass c/o Ufficio Turistico Palazzo Municipale (via Roma). IN COPERTINA - Visione aerea di Auronzo e della Val d’Ansiei. Areaphoto 2 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Abb.: Le Alpi Venete € 5,00 - Le Dolomiti Bellunesi (soci non locali) € 8,00 ORGANICO DELLA SEZIONE 3 PREPARIAMOCI AGLI EVENTI, FIDUCIOSI NELLA COLLABORAZIONE DEI NOSTRI LETTORI el 1968 per il cinquantesimo anniversario della vittoria, ci fu una grande mobilitazione: molti erano ancora i reduci della Grande Guerra ed il Presidente della Repubblica di allora Giuseppe Saragat, classe 1898, era uno di questi. Il governo stanziò 600 milioni per le manifestazioni celebrative. Alcuni ricordano soprattutto la sera del 4 novembre in cui lungo il Piave ed il Montello si radunò una moltitudine silenziosa e commossa. Volò nella notte anche la pattuglia acrobatica con i famosi G.91. Ma ormai ci avviciniamo al centenario e l'interesse per gli eventi che tanto hanno inciso nella storia e nella geografia delle nostre Dolomiti, si sta vieppiù ravvivando. La Regione Veneto si è fatta promotrice di vari incontri, durante i quali si sono confrontati i progetti e le iniziative portate avanti da diversi gruppi, soprattutto volontari. Anche dall'altra parte del fronte di allora, in Val Pusteria, c'è chi si interessa vivamente e possiamo segnalare il recentissimo "museo all'aperto" visitabile d'estate a Forcella Undici e Alpe Anderta, sopra la Val Fiscalina. Ci piacerebbe che anche i lettori della nostra rivista si sentissero coinvolti e interessati e non facessero mancare le proposte ( e magari anche proporsi come volontari ) per le iniziative da prendere nel nostro territorio. Altro argomento che ci sta a cuore, ed anche qui ricorre un anniversario, il cinquantesimo, è una riflessione sui bivacchi che la Fondazione Antonio Berti, con una solerzia operativa che non conosciamo più, in pochissimi anni posò sui monti che fanno corona alla Val d'Ansiei: sono ben nove! Il progetto risaliva all' ing. Giulio Apollonio, poi leggermente modificato dall' ing. Baroni e fu uno standard diffusissimo in tutte le Alpi. Nella nostra zona la realizzazione fu opera di un valente ed appassionato falegname, Redento Barcellan, che molti di noi ricordano presente a varie manifestazioni fino agli ultimi anni. Una prima considerazione è l'apprezzamento per la qualità costruttiva dei bivacchi stessi che dopo 50 inverni, e con qualche modesto intervento di ripittura, gagliardamente continuano ad affrontare le intemperie - con la sfortunata eccezione del nostro bivacco Fanton, piegato ma non distrutto dalle slavine! Se da un lato essi hanno creato un punto di riferimento per organizzare gite e sono larghissimamente conosciuti, dall'altra la loro capienza, spartana ospitalità, alta quota e spesso mancanza d'acqua nelle vicinanze, hanno forse frenato la frequentazione di valli peraltro bellissime. Indubbiamente noi siamo meno spartani dei nostri predecessori ed apprezziamo l'opportunità di un locale accogliente ed un pasto caldo, come molti rifugi si stanno attrezzando ad offrire anche d'inverno! Non sarebbe allora sbagliato, a mio modesto avviso, aprire un confronto sulle soluzioni migliori per aggiornare anche da noi l'offerta di ospitalità in quota. Con l'obiettivo non secondario di offrire una possibilità di lavoro nei nostri paesi, cosa che sta incontrando tante difficoltà soprattutto tra i giovani. N Paola De Filippo Roia Direttore 4 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Miniera di Argentiera sul torrente Ansiei dalla SCHEDA DI RILEVAZIONE DI OPERE, MANUFATTI E SITI PROGETTO DRAU PIAVE SCHEDA N.119 - Miniere dell'Argentiera e di Salafossa Tipologia AI Tra le miniere storiche del distretto minerario di Auronzo - Argentiera, Pian da Barco, Grigna e Ferrera - solo la prima possiede ancora alcune strutture edilizie di un certo interesse testimoniale, sebbene esse siano povere di contenuti architettonici e tecnologici ed in uno stato ormai irreversibile di obsolescenza fisica; l' invaso della cava, inoltre è attualmente utilizzato come discarica di rifiuti. Il particolare interesse è comunque dato dalla singolarità dell' inserimento di questa struttura industriale nell'incontaminato paesaggio di una tra le più belle valli dolomitiche. La miniera è situata infatti sulla riva destra del torrente Ansiei, dieci km a monte di Auronzo, sulle pendici del monte Rusiana, poco prima che la stretta valle si apra a formare quella che fu una tra le più belle foreste del demanio della Serenissima: il bosco di San Marco. Con tutta probabilità la miniera era attiva nel medioevo con maestranze tedesche; sta di fatto che le prime concessioni di sfruttamento di cui si ha notizia sono compilate secondo le consuetudini germaniche. Nei primi tempi l'attività consisteva esclusivamente nell' estrazione della galena per isolarvi l'argento; in seguito si aggiunse l'estrazione del piombo, che veniva fuso ad Auronzo. L' interessamento per l' attività mineraria dell' Argentiera da parte della Repubblica di Venezia (alla quale il Cadore si diede nel 1420) fu sempre attivo, al fine di assicurare l' afflusso del piombo all' Arsenale. Nel 1675 il consiglio dei Dieci investi della miniera il Comune di Auronzo, il quale la affidò a vari imprenditori con la clausola che fossero impiegate esclusivamente maestranze locali. Si continuò ad estrarre galena da cui ricavare il piombo accumulando ingenti scarti di calamine a buon tenore di zinco, metallo del quale non era ancora conosciuta la metallurgia. La miniera, dopo un periodo di crisi dovuta all' esaurimento del filone di galena, passò in affitto all'Erario Montanistico Austriaco sino al 1860; venne poi affidata alla ditta Angherer che iniziò l' estrazione dello zinco dando mano agli accumuli di materiale di scarto prodotti in secoli di sfruttamento. Verso la fine dell' 800 la miniera fu ceduta alla Società Montanistica di Sagor (Lubiana), che iniziò un grande programma di coltivazioni a celo aperto, sistema che fu in uso prevalente sino all' ultima gestione da parte della ditta Pertusola, che cessò definitivamente la produzione nel 1971. Le lavorazioni, che si sono svolte sostanzialmente, senza variazioni dalla fine del XIX secolo alla chiusura, sono bene evidenziate dalle diverse sagome degli edifici che compongono il manufatto. Il materiale estratto veniva portato per mezzo di una decauville alle tramogge e da queste ad un piano inclinato sul quale scivolava sino agli edifici a gradoni delle laverie, ove si procedeva alla cernita e alla sfangatura utilizzando l'acqua dell' Ansiei derivata più a monte. In seguito il materiale veniva triturato nel mulino frantoio e si compiva la separazione per gravità del materiale di piombo da quello di zinco in vasche di legno attrezzate con vagli a scosse. I minerali venivano quindi ammassati nella parte bassa dell'impianto, in attesa del trasporto negli stabilimenti di estrazione dei metalli. Nella scheda si legge: Gli edifici in superficie di entrambe le miniere sono in stato di abbandono e risultano per questo, compromessi. Quegli edifici oggi non esistono più. PREPARIAMOCI AGLI EVENTI, FIDUCIOSI NELLA COLLABORAZIONE DEI NOSTRI LETTORI 5 CAI 150... E DOPO? el 2013 ricorreranno i 150 anni della fondazione del Club Alpino Italiano. Un traguardo alquanto singolare, tale da non limitarsi solamente a onorare l'importantissimo anniversario raggiunto, ma utile per riflettere sull'attualità dei principi posti alla base dell'atto di fondazione voluto da una quarantina di soci, nel Castello del Valentino a Torino, mentre correva l'anno 1863. Appartenere al Club Alpino significava in quegli anni riconoscersi in una nazione appena nata, sentire proprio un certo rigore etico e morale, esercitare il corpo e la mente per cimentarsi in imprese a volte molto pericolose ed eroiche. Un atteggiamento un po' elitario dettato dalla consapevolezza che le tematiche trattate, quali quelle sociali, scientifiche, ambientali e di civilizzazione, non erano ancora un sentimento diffuso fra la cittadinanza e che impegnarsi in tal senso palesava il proprio spirito progressista. Lo statuto odierno è ancora basato sui medesimi e validi principi anche se ciò che è cambiato nel frattempo è la società che, evolvendosi, ha fatto propri e mediamente diffusi, i fondamenti che oggi definiamo "di civiltà" e alcune buone pratiche che allora potevano essere appannaggio di pochi eletti. Tali valori però, pur essendo riconosciuti e condivisi, sono oggi messi in pericolo dalla scala delle priorità con la quale, particolarmente chi ci governa, è costretto a fare i conti ogni giorno per garantire un futuro economicamente certo e promettente. Ecco quindi i recenti scontri per la viabilità, l'espansione edilizia, i caroselli sciistici, lo sfruttamento idroelettrico di fiumi e torrenti e via via dicendo tutto ciò che confligge con la naturalità dei territori. Fortunatamente in anni recenti è stato introdotto il concetto di sostenibilità e green economy a maggior tutela della pianificazione e della programmazione generale, pur essendo troppo spesso concetti relegati all'ambito convegnistico e saggistico più che discussi nei consigli dei vari organi territoriali. Il ragionamento fin qui svolto, ci porta a considerare perlomeno l'attualità e l'adeguatezza, se non l'efficacia, delle tematiche entro le quali si dibatte il CAI nelle direttrici imposte dai suoi organi centrali mediante tutto il complesso sistema della comunicazione che informa, forma e diffonde a mezzo degli organi periferici. L'organo periferico per antonomasia, nel nostro sodalizio, è rappresentato dalle singole sezioni, dotate di grande autonomia, pur facendo parte di un insieme che genera, determina ed elabora la ricca architettura culturale a cui accennavamo in apertura. Ma cosa sta succedendo all'interno di queste sezioni ed in particolare di quelle medio piccole delle quali più facilmente possiamo argomentare essendo a noi più vicine? Un pessimista empirico potrebbe rispondere "pochino" ma sarebbe un giudizio riduttivo, nichilista e fondamentalmente ingiusto nei confronti di quanti si impegnano e promuovono le varie attività sezionali. Certo è che vi sono molti campanelli di allarme che annunciano seri pericoli per tutte le associazioni di volontariato e di integrazione sociale. Ciò si verifica sebbene non sia in discussione il valore dei principi fondativi, come dimostrato in apertura, e nonostante la stabilità della base sociale, dato il numero cospicuo dei soci iscritti. Ciò che manca è la voglia di mettersi in gioco, la soddisfazione di porre il proprio tempo libero a servizio di un bene collettivo e, soprattutto, la mancata gratificazione nel farlo. Nessuno chiaramente si aspetterebbe un busto in bronzo in un qualche atrio d'ingresso ma la sensazione che quanto si sta facendo è, se non condiviso in toto, almeno apprezzato, discusso e al limite costruttivamente criticato dai propri correligionari, è una condizione imprescindibile per continuare ad operare all'interno di una libera associazione. Alle istanze per la formazione dei consigli amministrativi, per i gruppi di lavoro, per la programmazione di nuovi interventi ci N 6 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 si sente sempre più spesso rispondere "Non ho tempo" "Chi me lo fa fare", "Ho già abbastanza problemi" "Tanto non cambierà nulla". Viene meno la fiducia nell'operare collettivo, nella potenzialità dell'intervento sinergico e della collegialità nel perseguire un obiettivo comune. Se uno sforzo vale farlo allora è in questa direzione che conviene andare: responsabilizzare il singolo socio, coinvolgerlo affermando che non basta pagare una volta l'anno il famoso "bollino" per tener fede al proprio ideale ma è necessario essere parte attiva del sistema anche solo con un piccolo impegno personale che, unito a quello di molti, può realmente determinare la differenza. Nell'essere incisivi a livello locale si potrebbe creare un'areale di virtuosità, non importa quanto piccolo esso sia, si tratti del proprio giardino di casa o del proprio comune: l'importante è innescare pratiche virtuose emulabili. Questo non vale certamente solo per il Club Alpino Italiano ma andrebbe applicato in ogni manifestazione della nostra società; dalla politica che anziché essere l'arte di amministrare diventa sempre più spesso l'arte di arraffare, all'economia che punta tutto sulla concorrenza e sul libero mercato adottando modelli che sempre meno tengono conto dei particolarismi, premiando solo i macro-sistemi. Tutto fa pensare ad una crisi che sempre più mette in discussione il modello generale, non applicabile alla gran parte dei territori nei quali non sono riscontrabili i parametri per i quali valgono le regole della globalizzazione. Allora riprendiamoci i nostri spazi, gestiamoli con regole che vi si adattano e che sono figlie dell'esperienza e della conoscenza, sfruttiamo i particolarismi e le peculiarità con modelli forse non esportabili ma probabilmente più efficaci e più premianti di tante teorie generaliste. Assumiamo il coraggio di fare più che criticare, dimostriamo che possiamo essere gli artefici di un cambiamento, anche in una piccola realtà, anche in una piccola sezione di montagna. Intacto vertice ardens. Massimo Casagrande Presidente Domenica 14 luglio 2013 Pian Di Pezzè – Alleghe: adunanza delle quattro sezioni centenarie della provincia di Belluno: Agordo, Auronzo di Cadore, Belluno e Cortina d’Ampezzo. Domenica 11 agosto 2013 Cortina d’Ampezzo: sfilata di tutte le sezioni del Veneto con convegno e celebrazioni. Domenica 8 settembre 2013: sarà effettuata in contemporanea la salita di 150 vette appartenenti al comprensorio montuoso della regione Veneto. L’attività impegnerà diverse centinaia di soci, distribuiti nello spazio alpino veneto. È stato realizzato l’elenco delle 150 cime da ripartire tra le 64 sezioni CAI della regione; ogni cordata avrà in dotazione un fumogeno colorato da attivare alle ore 14.00 sulle 150 cime. N.B. Gli eventi potranno subire variazioni nella calendarizzazione. A COLLOQUIO CON I LETTORI come ricominciare. Ce l’abbiamo messa tutta, o quasi. Leggevo su “ Il Sole 24 Ore ” della Domenica di qualche mese fa un articolo di Pier Luigi Sacco: “ La cultura come « materia prima » “. La molla prima di questo nostro “essere” è tutta qui: “ Tanto per il pubblico che per il privato, c’è una responsabilità congiunta nella salvaguardia del nostro patrimonio culturale, che non è soltanto un archivio straordinario e insostituibile di creatività, valori estetici, idee senza tempo, ma anche una materia viva, che continua a costruirsi e a evolvere ogni giorno, sotto i nostri occchi, tanto più quanto più la nostra creatività è all’altezza del passato da cui si alimenta ”. E questa materia viva è il nostro patrimonio, grande, immenso che dobbiamo difendere e tramandare. Questo è il compito di cui ci siamo fatti carico e con l’aiuto di tutti voi Lettori, sono certo, lo porteremo avanti. Avrete notato come dallo scorso numero abbiamo inserito in copertina il logo dei 150 Anni del CAI. Vogliamo con questo segnale ricordare l'evento che ci vedrà partecipi di alcune iniziative mirate e vogliamo sentirci una cosa sola con la grande famiglia del CAI. In quest'ottica ci stiamo muovendo con la nostra rivista pubblicando testi storici che ci rimandano ai primordi dell’alpinismo: attingendo alla vasta letteratura sul Monviso iniziamo, in due puntate, con il resoconto di Guglielmo Matkews, cofondatore e poi Presidente dell’Alpine Club di Londra. È A voler riportare le vostre lettere, tra cartaceo e virtuale, ci sarebbe da riempire tutta la rivista. Mi sta molto a cuore quanto ha scritto Don Bracchi per il tramite di Gian Carlo: “QVOTA 864... che lavoro!! Complimenti. E’ un quaderno robusto: storia. informazioni, famigliare, ricordi e progetti, poesia. Viva le Dolomiti che confesso di non aver amato molto a motivo del servizio militare fatto in quelle zone. Stupende le Dolomiti ma fui stregato dal fascino arcigno delle Alpi. Tutto, tutto il creato è bello... è una via che porta ad incontrare il Creatore. Don Roberto ringrazia QVOTA 864 che molto apprezza”. C’è un cammino che queste pagine stanno tracciando, una via di salita alla vetta condivisa da molti di voi, oltre la quale ci fermiamo - perché lì finisce il nostro compito. Più oltre solo il detto del Maestro del buddismo Zen. Me lo ricordava in questi giorni Paolo, nelle lunghe ore trascorse insieme a Sportsdays discutendo, appunto, di alpinismo. Jean-Claude Mettefeu è giunto alla sua 5a attraversata delle Alpi e si ricorda sempre di noi. Aldo trova QVOTA 864 “bello, vario, interessante”. Non è facile creare qualcosa che sia coinvolgente. Porte aperte alla cultura, anzi spalancate, sui temi più vari. Tra questi la filatelia. Ci sono molti modi per parlare di montagna. Puoi scrivere libri di memorie, puoi scrivere di montagne e di alpinisti - la geografia che si sposa con la vita degli uomini; puoi scrivere testi tecnici - dall’abbigliamento all’attrezzatura più sofisticata; puoi creare opere d’arte - anche il salire può essere un’arte. Lo scriveva Guido Rey: “Io credetti e credo la lotta con l’Alpe... nobile come un’arte”. Sono senzazioni che si ripetono ogni volta, sia che tu stia salendo sia che, forzatamente dal basso, tu stia contemplando questa meraviglia. Ma c’è anche un altro modo, un po’ anomalo se vogliamo, che è quello di raccogliere francobolli. Un modo che ti prende sin da bambino e non so dirvi da che cosa sia determinato. Dapprima raccogli un po’ di tutto, poi un bel giorno ecco che scopri le montagne e scopri che con quei piccoli pezzettini di carta puoi viaggiare, puoi salire. Potrei aggiungere dell’altro, ma leggiamo insieme cosa ci scrive Ugo, fedele interprete del nostro pensiero: “Mi dispiace che altri Enti, vicini a noi per gli obiettivi che ci accomunano [...] non riescano a capire l’importanza di lavorare assieme per la Montagna, anche se solo nell’ambito della filatelia (ma non è solo questo!)! Scoprire le attività pionieristiche delle prime scalatrici, lavorare a fianco di premi letterari importanti, seguire le spedizioni di alpinisti italiani, ecc. non è fare solo filatelia: sicuramente il momento non è dei migliori ma penso che la filatelia, sia come passione sia come strumento di lavoro nelle poste, a 360°, sopravviverà... non dobbiamo mollare/morire, dobbiamo sopravvivere con quei pochi che amano un pezzetto di carta adesivo, un’impronta d’inchiostro, una vecchia cartolina. Sono sicuro che ce la faremo, nonostante tutto. Volevo dire quello che avevo dentro: non sarà molto ma viene dal cuore”. Grazie Ugo. Glauco Granatelli Redattore Il Monviso 8 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 A COLLOQUIO CON I LETTORI 9 LA SETTIMA ARTE AL SETTIMO GRADO "Il cinema racchiude in sé molte altre arti; così come ha caratteristiche proprie della letteratura, ugualmente ha connotati propri del teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica." Akira Kurosawa Partendo da questo assunto inoltriamoci per un sentiero un po’ più aspro e con un «arte» altrettanto difficile, certamente diversa. Ma non voglio assolutamente chiedervi di legarvi in cordata con me. Vorrei, però, che utilizzando un mezzo così bello e affascinante, un’arte settima nell’elenco convenzionale delle arti, saliste con me al settimo grado, ben al di là del limite dei nostri padri. Vi mostreremo, con il benestare del Museo Nazionale della Montagna che ringraziamo, una serie di documenti sorprendentemente accattivanti e tragici al tempo stesso, poetici e tristi. E’ il cinema. Sull’argomento sono stati scritti libri, sono state fatte mostre, convegni e festival. Il cinema continua la sua strada, dalle sale all’home video. Una recente collana del “La Gazzetta dello Sport” “ci permetterà di capire qualcosa di più del cinema di montagna, a partire dalle sue diverse anime: quella cara agli alpinisti e agli appassionati di montagna e quella cara a chi apprezza i valori filmici. Anime che si sono ritrovate ad andare a braccetto in un preciso periodo, nella seconda metà degli anni ‘20, gli anni in cui in Austria e Svizzera si è sviluppato il “Bergfilm” di Fanck e poi di Trenker.” Roberto De Martin Quanto più la società moderna è divenuta civiltà delle immagini - inventando mezzi di comunicazione tecnologicamente potenti e complicati, ma facili da maneggiare, in grado di elaborare molteplici linguaggi rapidamente accessibili - il manifesto ha dovuto condividere la propria funzione condizionatrice con i nuovi mezzi. Una condivisione che lo ha indebolito, ma che ha affrontato dignitosamente aggiornandosi espressivamente e nelle dimensioni e riuscendo a non mettere mai in discussione la propria sopravvivenza. Divenuto oggetto di collezione appassionata e di celebrazione di un rito per il quale molti (anche giovani) nutrono profonde nostalgie (per qualcuno i vecchi manifesti e le cartoline in cui venivano ridotti sono come dei simulacri e dei «santini»), il manifesto cinematografico sa essere anche animatore di memoria storica per coloro che vogliono conoscere il cinema superando il tempo effimero della sua esistenza strumentale. 10 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 L’ENFANT DU MONTAGNARD. 1908 MAX EMULE DE TARTARIN. 1912 Il manifesto cinematografico è superato dalla promozione sui teleschermi con trailer raffinati; non sempre, ovviamente, raffinati; la gente che va al cinema decide informandosi, passandosi la parola, leggendo le recensioni sui giornali. Anche perché oggi un manifesto cinemato-grafico (e non soltanto cinematografico) per essere utile ed efficace deve avere dimensioni gigante-sche, anzi, titaniche. E dunque costi proibitivi. Per certi kolossal statunitensi ancora si fa, ma di rado. Il normale manifesto deve vedersi e capirsi alla distanza di cinquanta metri e in cinque secondi. Dall’automobile e se il traffico non è troppo veloce. Difficilissimo azzeccare un buon richiamo: mestiere tra i più crudeli. Rimangno esemplari dei manifesti del cinema di alpinismo, i montaggi (disegno e fotografia) realizzati per Les etoiles de midi, Francia, 1959. Gran Premio del Festival di Trento, dell’insosti- L’ESCARPOLETTE TRAGIQUE 1913 tuibile e scomparso Marcel Ichac. Quel braccio teso e l’espressione fiera di Lionel Terray, e alle sue spalle il Grand Capucin, sono davvero il manifesto dell’Alpinismo, senza angosce, ottimista, sereno e vincente. A proposito dell’imporsi nell’immaginario collettivo del grande manifesto pubblicitario, quale invenzione effimera, il critico francese Henry Baraldi nel 1898 scriveva: “La materia da collezionare più ingombrante, la meno maneggevole e la più deteriorabile”. Ma i manifesti dei film di montagna e di esplorazione riescono a intrecciare la storia del cinema, dell’alpinismo e della conquista del pianeta, dell’avventuroso rapporto fra l’uomo e l’ambiente naturale, del modello antropologico e culturale della montagna. Sono indizi preziosi per comprendere come eravamo e come siamo divenuti frequentando con amore le sale di proiezione e le montagne. IM KAMPF MIT DEN BERGE 1921 RIF UND RAFF DIE FRAUENHELDEN 1926 LA SETTIMA ARTE AL SETTIMO GRADO 11 HERZOG HANS’L 1928 LAVINEN 1929 La montagna che ritroviamo nei manifesti è la stessa della realtà quotidiana? È difficile affermarlo. Si ha comunque la chiara impressione che nelle valli e sulle vette del cinema non si muovano persone normali. Ci sono i primi conquistatori del West alla ricerca di nuove terre, ma anche dell’oro; le famiglie forzatamente felici che vivono tra orsi e cerbiatti, con a fianco cani e lupi straordinari; gli aerei cadono (e sono tanti a vedere le pellicole) sul Monte Bianco, Dolomiti, Ande, Tibet...1, gli agenti più o meno speciali sono impegnati in imprese al di sopra delle possibilità umane. Ci chiediamo se una migliore sorte è riservata agli alpinisti. Anche in questo caso le situazioni FLYKTEN FRÅN DJÄVULSKLYFTAN 1930 12 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 DER GEFANGENE DER BERNINA 1929 normali sono poche: Silvester Stallone traspone il mito di Rambo tra le rocce2 e Clint Eastwood sale l’Eiger senza eccessiva rispondenza alla realtà3. La stessa sorte è lasciata allo sci che è solo exploits; a sottolinearlo viene anche scomodato - per quanti lo ricordano - il mitico JeanClaude-Killy4. La montagna è anche luogo di amori e intrighi: storie a tre, vacanze caotiche e compromettenti, maestri e maestre di sci disponibili, affascinanti guide alpine e, a quanto enuncia il titolo, Sole, sesso... e pastorizia!5. Non possiamo dimenticare le aquile, volatile alpino per eccellenza (c’è anche nello stemma del nostro CAI): la valle, il nido e addirittura Chiamami aquila6. TEMPËTE SUR LE MONT-BLANC 1930 CONTE BLANC 1930 LE SAUT DANS L’ABIME 1931 MADEMOISELLE JOSETTE MA FEMME 1933 Un’ultima speranza di rispondenza alla montagna reale la possiamo forse trovare nei testi promozionali dei manifesti: «Mai visto sugli schermi nulla di più terrificante»7. «La clamorosa storia di cannibalismo dei nostri giorni. Attenzione.»8. «L’avventurosa vicenda di un pugno di uomini che non si arresero di fronte alla morte»9. «8000 metri e l’adrenalina può ucciderti in 8 secondi»10. Il cinema è spettacolo e finzione, per vedere un mondo più reale ci sono i documentari. Nei manifesti si leggono i mutamenti della nostra società, dei gusti e dei modi di vita e, non ultimo, il cambio di approccio alla montagna, all’alpinismo. Il manifesto di The hight country11 con un dolce abbraccio sulla cima raggiunta da una DER EWIGE TRAUM 1934 UN DE LA MONTAGNE 1933 coppia ci riconduce a quel mondo reale che avevamo tanto cercato. Non avevamo dubbi, esiste davvero. Un altro film con il suo titolo ci aveva sempre rassicurati in questo percorso: In montagna sarò tua12. g.g. 1 La montagna, di Edward Dmytryk.1956; La montagna di cristallo, di Henry Cass.1948; I sopravvissuti delle Ande, di Rene Cardona.1976; Alive, di Frank Marshall.1993; Gli sciacalli (Pillards d'epaves), di Abner Biberman.1955; 2Cliffhanger, di Renny Harlin.1993; 3Assassinio sull'Eiger, di Clint Eastwood.1975; 4Grande slalom per una rapina, di George Englund.1972; 5Sole, sesso... e pastorizia!, di Siggi Götz.1975; 6 Valle delle aquile, di Terence Young.1951; Il nido dell'aquila, di Philippe Mora. 1987; Chiamami aquila, di Michael Apted.1982; 7-8 I soprravvissuti delle Ande, cit.; 9La tragedia del capitano Scott, di Charles Frend.1948; 10K2, l'ultima sfida, di Franc Roddam.1992; 11 The high country, di Harvey Hart. 1980; 12 In montagna sarò tua, di Irving Cummings.1949. LE DRAME U MONT CERVIN 1928 LA LOIS DES MONTAGNES 1919 LA SETTIMA ARTE AL SETTIMO GRADO 13 150 ANNI NEL 2013 È una lunga storia di cui anche noi facciamo parte. Riviviamola insieme. P rima di vedere brevemente i personaggi che più validamente introdussero la nuova pratica dell’alpinismo senza guide occorre soffermarci su colui che senza dubbio alcuno portò per la prima volta l’alpinismo italiano, sia pure con guide, ai primissimi posti di rango internazionale, ossia Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi (18731933), e su colui che fu il suo degno iniziatore alla montagna, l’avv. Francesco Gonella (1856-1933): nel ‘77 il Cervino e il Breithorn; il 2 agosto 1878, col marchese Del Carretto e tre guide, colse la bella primizia dell’Aiguille des Glaciers; nel 1881 fu alla Dufour e al Bianco dal ghiacciaio del Dôme, dove poi sorgerà il rifugio a lui intitolato; nel 1882 Monviso, Finsteraarhorn, Jungfrau, Bernina; nell’83 Grandes Jorasses, Aiguille du Midi... nel ‘90 fece la prima ascensione della cresta Sud all’Aiguille de Telèfre, il Dolent e l’Aiguille Noire de Peutérey; nel ‘95 nutrita campagna nelle Dolomiti. Ma intanto il Duca degli Abruzzi era ormai entrato nella vita alpinistica di Gonella, che prese il suo significato conclusivo in quest’opera assidua di educazione dell’illustre pargolo. Fu agli inizi di luglio 1892 che Luigi di Savoia fece i suoi primi approcci con la montagna. [...] Nel marzo 1897, insieme a Gonella e con le guide Perotti e Proment, compie l’ascensione invernale del Monviso, probabilmente in preparazione alla sua prima spedizione extra-europea che avrà luogo nell’estate al Monte S. Elia, nell’Alaska. Poi c’è la spedizione al Polo Nord, dove viene raggiunto il punto più settentrionale fino allora toccato dall’uomo. Ormai la carriera alpinistica del duca è lanciata verso le più alte mete di classe internazionale, e Gonella fatica a seguirlo. 14 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Dev’essere stato commovente il distacco tra il maestro e l’allievo, quale si concretò materialmente il 17 agosto 1898 in occasione della salita all’Aiguille Verte per la vergine Aiguille San Nom: Gonella si fermò alla Charpoua, mentre il duca proseguiva con Joseph Petigax, Laurent Croux e Alphonse Simond. Sei giorni dopo, con Croux e Petigax, prima ascensione della terza punta in altezza delle Grandes Jorasses, battezzata Punta Margherita. Il 6 agosto 1901, con Petigax, Fenoillet, Croux e Savioz, prima ascensione della più meridionale delle dames Anglaises, battezzata Punta Jolanda. [...] Le alpi sono ormai un campo d’azione decisamente limitato per il livello tecnico raggiunto da Luigi di Savoia, col quale davvero per la prima volta l’alpinismo italiano si allinea da pari a pari con le punte più avanzate di quello europeo, e con le salite delle Punta Margherita e Punta Alexandra al vergine Ruwenzori nel 1906, con l’epica impresa himalayana al Bride Peak, nel 1909 dove venne raggiunta la quota di 7500 m, la più alta mai toccata dall’uomo fino allora, la sua attività diventa oggetto di storia delle esplorazioni e dell’alpinismo extra-europeo. Occorre ora far ritorno al piccolo mondo dell’alpinismo piemontese per seguire gli sviluppi della nuova evoluzione impressa dalla generazione seguita a quella dei pionieri. Cesare Fiorio († 1931) nel 1876, al Bric Boucier, in Val Pellice, si legò per la prima volta con Carlo Ratti († 1935), che doveva diventare il suo compagno inseparabile di cordata. Furono gli autentici iniziatori di una sistematica pratica dell’alpinsmo senza guide in Italia. La carriera di Cesare Fiorio ebbe fine con il famoso incidente di capo d’anno 1894. La prina generazione degli alpinisti piemontesi, quella di Quintino Sella, era sempre riuscita a farla franca. [...] Il sano passatempo di questi uomini barbuti e baffuti che andavano in montagna per studiare la qualità delle rocce, la ra-refazione dell’atmosfera e il comportamento del cuore e degli altri organi in alta montagna, sembrava perfettamente in regola con la morale pubblica e privata. Nel 1881 la catastrofe Marinelli scosse violentemente l’opinione pubblica, anche per la notorietà e il valore scientifico della vittima. Quando ci si accorse che non si trattava soltanto di piacevoli scampagnate nei prati fioriti, con bevute di latte appena munto e d’acque sorgive, ma che in montagna si poteva lasciarci la pelle, cominciarono anche in Italia le solite polemiche che l’alpinismo ha sempre conosciuto, sul diritto di disporre della propria vita, i doveri verso la patria, la società, la famiglia, la scienza, la religione e chi più ne ha più ne metta. La tragedia del Monte Rosa alla fine d’anno del 1893 fu come una miccia accostata alle polveri. Il Il Club Alpino aveva organizzato una gita sociale invernale alla Punta Gnifetti. La parte finale della salita fu ostacolata da un maltempo crescente: vento, tormenta, temperatura bassissima. A 80 metri sotto la Capanna Margherita, che sorge in vetta alla Gnifetti, il tenente Giani non riuscì più a proseguire. Si fermò, assistito da Vigna, da Fiorio e da suo fratello, e da altri tre alpinisti della comitiva. Il tenente Giani spirò nella notte. Nella capanna, a 80 metri, dal luogo dove si svolgeva la tragedia, c’erano, non solo gli altri sette alpinisti della carovana sociale, con le guide Perotti e Pernettaz, ma anche Maurizio e Corradino Sella con le loro guide. « Era buio - scrisse poi Corradino Sella - e ci sanguinava il cuore lasciarli là. Non mi venne in mente di portar loro coperte ». Cesare Fiorio, rimasto ad assistere il morente, come pure Vigna, l’altro direttore della gita, riportò congelamenti tali che imposero l’amputazione d’una gamba [...] La terribile avventura di quella notte di Capo d’anno a 4500 metri pose fine allo sviluppo impetuoso che l’alpinismo invernale aveva preso. Figlio d’un celebre luogotenente di Garibaldi, Ettore Canzio (1864-1946) portò una ventata d’impetuosità garibaldina nel pacifico ambiente piemontese. Con Felice Mondini (Santa Margherita Ligure, 1867 - Cartagena, Cile, 1953), e Nicola Vigna (Torino, 1869-1940), Canzio costituì una cordata omogenea. Ha inizio in quest’epoca l’attività dei fratelli Giuseppe e Giovan Battista Gugliermina, che insieme a quella del loro amico e compagno Giuseppe Lampugnani si prolunga fin quasi ai giorni nostri e fa da tramite tra la seconda generazione piemontese, quella dei Fiorio, Ratti, Canzio, Mondini, Vigna ecc., e quella che fiorì dopo la prima guerra mondiale, Valsesiani, i Guglielmina documentano nella loro stessa azione il significativo trapasso dell’alpinismo italiano da un terreno di gioco antico, rappresentato dal Monte Rosa, a quello moderno costituito dalle più accidentate e scoscese scogliere del Monte Bianco. E’ nel gruppo del Bianco che i due fratelli colgono le affermazioni più significative. La loro attività si mescola con quella d’un altro, più giovane valsesiano, che sarà il più bel esponente dell’alpinismo classico piemontese fra le due guerre, ed acquista un tono audacemente moderno nella risoluzione d’alcuni dei più grandiosi problemi rimasti nella catena del Bianco. Il 23 e 24 agosto 1914 G. B. Guglielmina e Francesco Ravelli conquistarono quell’arditissima torre rocciosa che è come una prima cima dell’Aiguille Blanche de Peutérey sulla cresta SE, e alla quale resterà appunto il nome di Guglielmina. I tempi erano maturi ormai per la fondazione del Club Alpino Accademico Italiano, che avvenne infatti, con lo scopo di radunare gli alpinisti senza guide, coordinare l’attività, propagandarla e anche difenderla dalla polemica incomprensione di cui era, e talvolta è tuttora, fatta oggetto. 150 ANNI NEL 2013 15 Uno dei principali promotori della sua fondazione fu l’ing. Adolfo Hesse (1878-1951), figura di versatile alpinista che con guide aveva già spaziato largamente attraverso le Alpi, dalla Jungfrau (traversata della TRothal) allo Schreckorn, alle Pale di San Martino, ma specialmente nel gruppo del Bianco. Nella cerchia di Hess, tra i pionieri del C.A.A.I., sono da ricordare l’avv. Emilio C. Biressi e l’ing. Giacomo Dumontel. Primo presidente dell’Accademico era stato nominato, nel 1904, l’ing. Adolfo Kind, nato a Coira nel 1848, morto sul Bernina nel 1907. [...] In Liguria, Lorenzo Bozano ed Emilio Questa sono i degnissimi prosecutori dell’avvio dato molto per tempo all’alpinismo ligure dal marchese Pareto: i loro nomi restano assegnati rispettivamente ad un rifugio posto ai piedi della più bella cima delle Marittime, e ad un’ardita vetta delle cosìddette Dolomiti di Valle Stretta. La catastrofe che all’Aiguille d’Arves, prediletto campo di battaglia all’estero degli alpinisti piemontesi e liguri, stroncò a 27 anni la vita di Emilio Questa, tarpò le ali ad una grande speranza dell’alpinismo italiano. 16 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Bartolomeo Figari raccolse dalle loro mani la bandiera dell’alpinismo ligure e la illustrò degnamente, sia con le imprese di scalatore, sia con la saggia opera svolta quale Presidente generale del C.A.I. dal 1947 al 1956. Per completare i quadri dell’alpinismo ligure vanno aggiunti i nomi di Cesare Isaia, Bartolomeo Asquasciati (1876-1932), di Frisoni e Stagno, del barone Kleudgen, nato a Bordighera nel 1895 e morto sui Torrioni Saragat, presso Rocca dell’Abisso, il 9 giugno 1928, di Attilio Sabbadini e di Federico Acquarone. Un’altra promessa preziosa, stroncata da una banale sciagura, una valanga primaverile in un canalone della Grand’Uja, in Val di Susa, il 15 maggio 1916, fu quella dell’ing. Francesco Pergameni, il cui nome fu imposto alla piccola cuspide rocciosa annidata tra il Becco centrale e il Becco settentrionale della Tribolazione, ch’egli, conquistandola con Stagno il 17 luglio 1913, aveva battezzato Punta Sucai. LE GENERAZIONI DELLA GUERRA Molte cose stavano cambiando nel mondo dell’alpinismo e nella concezione e nella pratica di esso. Non soltanto esso progrediva nella tecnica e sviluppava i propri mezzi, i propri attrezzi, le proprie possiblità: nel primo decennio del ‘900 l’invenzione dei chiodi Fiechtl, perfezionata con l’uso dei moschettoni Herzog e con la manovra del pendolo, ad opera di veri e propri ingegneri dell’arrampicata come i Dülfer, portava nelle salite su roccia ad un progresso rivoluzionario paragonabile a quello che aveva impresso alle salite su ghiaccio l’uso dei ramponi inventati dall’Eckenstein, con la riduzione, spesso l’eliminazione delle estenuanti gradinate per mezzo dell’ « ascia da ghiaccio ». La perfezionata conoscenza della catena alpina permetteva la compilazione di guide sempre più esatte e sistematiche, e non soltanto geograficamente descrittive, ma capaci di venire incontro alle necessità degli alpinisti valutando le difficoltà, perfino suggerendo itinerari e problemi da risolvere. Data memorabile dell’alpinismo italiano quella della pubblicazione della prima edizione della Guida di Antonio Berti per le Dolomiti Orientali (1908), rifatta poi nel 1928, e una terza volta ai nostri giorni, producendo quel prezioso modello di Guida perfettamente aggiornata e nello stesso tempo non disgiunta da una vena di nobile poesia. Ma qualcosa cambiava anche all’interno dell’alpinismo stesso, nel numero e nel tipo delle persone che lo praticavano, e a poco a poco anche nell’animo con cui esso veniva praticato. Non soltanto cambiava l’alpinismo, ma cambiava la figura dell’alpinista. Con le rare eccezioni, per lo più valligiane, di parroci, maestri elementari, cacciatori, è un fatto che gli inizi dell’alpini-smo avevano presentato un carattere aristocratico, sia che si trattasse d’autentici titolari, come il Saint-Robert, il Pareto, il Cibrario, il Melzi, il Lurani, oppure di elevati professionisti, statisti come Sella e Perazzi, professori come Martino Baretti, medici, avvocati, ingegneri e magistrati. La diffusione dell’alpinismo senza guide, oltre ad essere un naturale portato dell’evoluzione tecnica, per cui l’alpinismo cittadino si emancipa a poco a poco dai suoi naturali maestri, fa anche parte di un generale processo economico e sociale verso l’estensione demo-cratica, che in quegli anni si va facendo strada, in seno al piccolo mondo alpinistico, conformemente al movimento generale della nazione. Sono gli anni dei ministeri giolittiani e dell’estensione del suffragio. La Rivista Mensile ospitava nel 1893 certi singolari articoli nei quali si rispecchia la crisi benefica crisi di ampliamento, ma pur sempre crisi - che l’alpinismo stava attraversando in quegli anni, o meglio ancora si preparava ad attraversare. Uno, del bresciano Arturo Cozzaglio, è intitolato: “La nuova generazione del C.A.I. per l’ideale contro la palestra muscolare”. Il titolo stesso dice le preoccupazioni del socio per l’in-dirizzo sempre più tecnico e sportivo che l’alpini- smo sembrava voler seguire, persistendo nella ricerca di novità, ormai fattesi rare, a prezzo di difficoltà di scalata sempre più rilevanti. Predicando, per l’ennesima volta, la virtù dello spirito contro la materia, l’articolista si schierava contro questo progresso tecnico, in realtà inarrestabile, e nel quale consiste la vita stessa dell’alpinismo. Giungeva così a conclusioni chiaramente reazionarie, che furono per fortuna ampiamente contraddette dai fatti, ma che l’articolista aveva il merito di non cercare minimamente di palliare o velare: « Oh! perché credere sfatata la schiera multiforme delle nostre cime, se queste cime furono salite prima di noi? Capisco apprezzo e spesso anche invidio la forte emozione di chi conquistò per la prima volta una vetta, ma non arrivo al punto di ritenere il primo conquistatore come un dinamitardo che me l’ha distrutta; essa non ha certo più il fascino della vergine, ma non ha perduto l’avvenenza della giovane... Dovremo allora correre all’Himalaya od alle Ande? No, certamente... ». E invece sì, naturalmente: sì, rispondevano coi fatti il Duca degli Abruzzi, Vittorio Sella, Mario Piacenza, Calciati, Ronchetti e tanti altri intraprendenti pionieri dell’alpinismo extra-europeo. Ma era ovvio che queste forme di punta erano riservate ad una élite, ed altrettanto ovvio era che questa élite non poteva sperare di sussistere essa sola e di sopravvivere, ove non poggiasse sopra una larga base e non ne sorgesse per naturale selezione. La parole del socio Axel Chan, sempre sulla Rivista Mensile del 1893, centravano esattamente il problema e individuavano quello che sarebbe stato l’inevitabile sviluppo storico dell’alpinismo, con tanti saluti per le utopistiche nostalgie del buon tempo antico, quando si era in pochi e si stava tanto bene e Cervinia si chiamava Breuil, e Courmayeur e Zermatt e Chamonix e Macugnaga non erano frequentate che da tipi d’eccezione come Whymper e Tyndall, Gonella e Guido Rey, Purtscheller e Güssfeldt e Zsigmondy. Questi nuovi umori che stavano fermentando in seno all’alpinismo italiano la guerra portò rapidamente a maturazione, sospingendo verso le montagne dei confini masse che, volenti o nolenti, scoprivano il mondo delle Alpi in circostanze particolarmente disagiate. Di quelli che tornarono a casa, molti giurarono che non avrebbero mai più voluto vedere una montagna, neanche dipinta. Ma altri, nonostante il ricordo dei patimenti e delle sofferenze sopprtate lassù, finita la guerra, alle montagne ci ritornarono. Ci tornarono da borghesi, magari con le scarpe chiodate e con l’alpenstock che avevano imparato ad usare da alpini. Un mare di neofiti dell’alpinismo si spinse sui sentieri delle montagne di casa, portando gusti, costumi e attitudini certamente assai meno signorili e distinti che quelli dei pionieri ottocenteschi. Ma da questa marea indistinta e vociante si staccano punte avanzate, che si spingono oltre i limiti delle strade battute, che con robuste mani d’artigiano e d’operaio abbrancano la roccia o maneggiano la piccozza. Queste punte avanzate un bel giorno avranno nome Cassin, Tizzoni, Esposito, Ratti... (seguito dal N.24 di QVOTA 864 - continua) 150 ANNI NEL 2013 17 VAL D’ANSIEI: SONO DI SCENA LE DOLOMITI LE MONTAGNE L’inizio del grande movimento alpinistico italiano risale al 1928, l’anno d’uscita della Guida delle Dolomiti Orientali di Antonio Berti. Quella Guida che apparve il viatico spirituale, storico e tecnico di chi sale la montagna e ama comprenderla. Le ultime ascensioni sono dello scorso anno, 1943. Le difficoltà incontrate possono valutarsi di quarto e quinto grado, e alcuni passaggi compiuti in arrampicata libera, data la mancanza di mezzi artificiali, possono considerarsi anche superiori al quinto grado. Le pareti scalate si elevano il più delle volte da immani coste baranciose e canaloni profondi e il loro attacco costituisce per lo scalatore già una rilevante difficoltà, così che nel complesso la salita alpinistica ha inizio quasi sempre dal fondovalle. La Val d’Ansiei è quella, tra le dolomitiche, che presenta il numero maggiore di pareti, e dal lato turistico e alpinistico riesce la più interessante, se si aggiunge che l’ambiente offre ad ogni passo visioni fantastiche che si trasformano di continuo, specie quando lo sguardo si allunga tra le forre e i valloni confluenti d’ambo i versanti. la varia natura del luogo schiude orizzonti sempre nuovi, così che sembra di arrampicare sopra valli e su montagne sempre diverse. Ben sei ghiacciai brillano incastonati fra le alte pareti nord delle Marmarole e del Sorapiss, e varie cascate rigano d’argento le pallide muraglie sottostanti. Boschi di abeti e larici, prati e baranciate colorano in mille tonalità di verde le basi di quelle crode. L’alpinismo lassù è tuttavia aspro e severo. I due soli rifugi, il Tiziano e il Carducci, racchiuso il primo nell’alto grembo delle Marmarole e l’altro nella chiostra paurosa della Croda dei Toni, non hanno custode. Ospite è il vento che spesso accompagna l’uomo che cerca e ama le vaste solitudini. Noi, alpinisti del vecchio stampo, che partimmo le più volte dal fondovalle per salire alle cime, da un angolino piuttosto indolente dell’anima, amiamo i rifugi... ma da un altro non li vorremmo vedere: è uno strano desiderio che mi richiama le parole di Berti nella sua Guida: «Valga l’augurio che una Sezione del C.A.I. costruisca un rifugio sotto la bronzea muraglia nord del Pupera Valgrande, nell’alpe sperduta di Federa Mauria, 18 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 ad agevolare l’accesso a queste crode, che conservano ancora appena intaccato il fascino della verginità primitiva. E se tarderà, poco importa... ché le crode tanto più ci soddisfano quanto più l’ambiente dal quale esse sorgono è orrido e misterioso». I sentieri verso le Marmarole son tracce, e l’uomo appena iniziata la rampa incontra l’ignoto. La montagna dal fondovalle alla cima conserva la sua veste primordiale. Non è solo la parete inaccessa che si scala, ma è tutto un inaccesso versante che si sale. È selvaggiamente bello insinuarsi tra quelle rupi, che balzano sfidanti il cielo da scoscese pendici tormentate d’atri burroni e fosche mughiere. È qui che senti tutta la grandezza della dolomia trionfante nel suo aspetto rude e gagliardo. Di ghiaia in giaia, di selva in selva, di forra in forra, di rupe in rupe senti la tua anima immedesimarsi in quel mondo fantasticamente suggestivo di bellezze spazialmente immense che si elevano minacciando e ammaliando a un tempo. Infelice colui che non ha potuto mirare tali meraviglie del Creato! Chi ha forza e volontà salga sui monti e sentirà lassù la gioia di vivere. Il sole, il ghiaccio, le rocce lo accoglieranno nel oro regno sublime, avvicinandolo a Dio. Tornato tra gli uomini, la visione di quel mondo non si cancellerà mai dalla sua mente. Egli porterà per sempre nel cuore la luce di una nuova bontà. La montagna è generosa coi prodi e se talvolta qualcuno non ritorna, essa ne perpetua il nome nel ricordo e nell’ammirazione di quelli che l’incantesimo della stessa voce ha chiamati alla lotta severa. Amino i giovani la montagna che dà forza e coraggio e prolunga il segreto della vita, la giovinezza. Non cupidigie, egoismi, avidità, invidie, lotte sociali, inganni, nel clima della vetta; ma bontà, purezza, altruismo, sincerità, abnegazione e amore, riscaldano l’anima in quegli spazi d’azzurro e di sole. Non sono legato a cose terrene e vago dopo il mio lavoro quotidiano, come un ragazzo, beandomi del sole, passeggiando per contrade e giardini, guardando sempre curioso la vita; più lieto se dalla vicina campagna scorgo tra il verde i miei monti. [...] La vetta è lo slancio della terra verso il cielo; è necessario che anche noi ci uniamo a questo sublime anelito. da Severino Casara “Arrampicate libere sulle Dolomiti”. Editore Ulrico Hoepli Milano. MCML Tanti cari amici mi furono compagni in queste ascensioni e ogni parete me li ricorda rinnovando in me la letizia di quelle lontane giornate. Alcuni di essi non sono più. Caduti sul campo per la Patria, caduti sulla parete per la Montagna. Sono riconoscente a questi amici. Con loro ho trascorso le giornate più belle della mia vita, giornate che ho cercato di ricordare perché tutti possano afferrare almeno in parte il grande bene che la montagna largisce, e comprendere che lassù la vita corre felice anche se la lotta diviene aspra e le insidie si fanno sempre più frequenti. Le Tre Cime di Lavaredo da sud-ovest, al tramonto, e il Rifugio Auronzo foto g.g. I BOSCHI Per parlarvi dei nostri boschi, e nella fattispecie della foresta Somadida, ci serviremo di quanto ha scritto la Gestione ex Azienda di Stato per le Foreste Demaniali Amministrazione Foreste Demaniali del Cansiglio e Somadida, in un prezioso opuscolo di qualche anno fa. La Riserva naturale Orientata di Somadida, antica quanto splendida gemma del patrimonio forestale cadorino, è pervenuta ai nostri gioni intatta grazie ad un’efficace opera protettiva sviluppatasi ininterrotta attraverso i secoli ed è pertanto obbligatorio per le moderne generazioni assicurarne la sopravvivenza, tenendo lontano le mani rapaci della speculazione, della caccia, della fame di legname e delle pressanti istanze fruitive. Ai tempi dei grandi Patriarcati (Aquileia), dei grandi feudatari (Conti da Camino - XIII sec.) e delle Magnifiche Comunità (Regole), la foresta Somadida non era affatto quell’entità ben delineata ed isolata quale appare oggi ai nostri occhi. La fascia montana delle Alpi Orientali era allora da una fitta e lussureggiante vegetazione intervallata da pascoli e radure. Solo in tempi relativamente recenti tali zone sono andate individualizzandosi a causa delle distruzioni operate sul resto del territorio dalla pressione antropica e quindi dall’inurbamento. Di appetiti la Repubblica Veneta ne aveva molti e quello di legname pregiato per l’Arsenale primeggiava, tanto da farsi trasferire in proprietà la foresta Somadida e cioè uno dei boschi più pregiati del Cadore. Il 2 luglio 1493 la Magnifica Comunità Cadorina donò questa splendida foresta alla Serenissima, accollandosi anche l’onere del trasporto dei tronchi di Abete rosso fino a Venezia. Caduta la Repubblica veneta nel 1797, il possesso della foresta passò all’Austria prima, alle autorità francesi poi e fino al 1814, quindi al Regno Lombardo Veneto, essendosi feudalizzato l’impero Austro-Ungarico. L’altalena degli eventi storici si concluse definitivamente nel 1866 col ritorno del Veneto al neonato Regno d’Italia. La foresta venne inglobata nel Patrimonio dello Stato e dichiarata inalienabile con legge 20 giugno 1870. Essa si estende su una superficie di Ha. 1676.14.56 in agro del Comune di Auronzo di Cadore, in un antico comprensorio sulla destra del torrente Ansiei, all’incirca lungo il suo corso intermedio; confina ad Est e a Nord col Comune di Auronzo, a Ovest col Comune di Cortina d’Ampezzo, a Sud con i Comuni di San Vito e Calalzo di Cadore. L’drografia è rappresentata dal corso d’acqua più importante che è il torrente Ansiei confluente nel Piave a valle di Auronzo. Un solo torrente attraversa la foresta stessa, l’Albio, che nasce alle falde della grandiosa bastionata rocciosa del Sorapiss e del Bel Prà. 20 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 La posizione topografica e la struttura geomorfologica della zona sulla quale insiste la foresta Somadida ne condiziona fortemente la vegetazione. La fascia di fondovalle, fino ai 1400 m è caratterizzata da una foresta di norma rigogliosa di abete rosso (Picea excelsa) e di abete bianco (Abies alba), seguiti per importanza dal faggio (Fagus sylvatica), di grande rilievo colturale non solo come alto fusto ma anche come sottobosco sparso un po' dovunque; nelle zone aperte, sul greto del torrente Ansiei e lungo i corsi d'acqua compare il pino silvestre (Pinus sylvestris) cui spesso si affianca il pino mugo (Pinus mugo). Questo copre grandissime estensioni, formando rivestimenti compatti sui macereti e sulle rocce, per cui assume una funzione altamente protettiva e di estrema importanza. Generalmente in tutta la foresta di Somadida sia i fusti di abete rosso che abete bianco sono molto lunghi, diritti, cilindrici; essi producono legname a struttura uniforme, facilmente lavorabile, d'alta qualità. La flora del sottobosco è ricchissima di specie: l'ontano minore (Alnus minor), il salice di montagna (Salix caprea), il crespino (Barberis vulgaris), il fior di stecco o Dafne (Daphne meze reum), la lonicera alpina (Lonicera alpigena) e il caprifoglio (Lonicera nigra). Non vanno dimenticati i lamponi (Rubus idaeus), i rovi (Rubus saxatilis), il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia). Nello strato suffrutticoso ed erbaceo possiamo incontrare vari tipi di muschi e di felci, il carice bianco (Carex alba), il famosissimo Cypripedium calceolum o pianella della Madonna, il giglio martagone (Lilium martagon) e il giglio di Salomone (Poligonatum verticillatum). Non meno interessanti sono le varie anemoni, il ranuncolo di montagna, l'acquilegia, il geranio selvatico, la viola, la Pirola, la gustosa fragola di bosco e il conosciutissimo mirtillo nero... Nell’ambito della Riserva vivono numerose specie di animali che trovano in essa il loro habitat più congeniale. Tra gli ungulati il più numeroso è il camoscio, quindi anche il capriolo e il cervo. Il camoscio vive in gruppi numerosi sui pendii della Croda Rotta, del Mescol, del Meduce e del Corno del Doge. D’inverno scende sino ai margini superiori del bosco. Tra i leproidi comune è la lepre europea, tra i mustelidi la boschiva martora, la scattante donnola e il simpatico ermellino, tra i canidi non va dimenticata la furba volpe. Tra i simpatici abitatori della foresta numerosi sono gli esponenti della grande famiglia dei roditori: lo scoiattolo, il ghiro, il topo quercino, le arvicole e gli immancabili topolini. Queste ultime categorie di animali sono il principale alimento sia dei rapaci diurni e notturni che della vipera. Tra i rapaci l’aquila reale (Aquila chrysaetus) non nidifica in riserva - dimora sugli spalti dei Cadini, ma il suo volo maestoso è spesso presente sui cieli di Somadida, unito a quello dell’Astore, della Poiana e del falco pellegrino. Per finire numerosi sono gli esemplari del gallo cedrone e dell’elegante gallo forcello; tipici sono il gracchio, la nocciolaia, i tordi, i merli... A circa 300 metri dalla sbarra d’accesso alla foresta, in località denominata “Tre Sorelle”, è sito un piccolo centro visitatori, costituito da un rifugio in legno e da un Centro Ecologico nel quale il visitatore può arricchire le proprie conoscenze naturalistiche. Il Centro Ecologico, ricavato da un vecchio rustico, è composto da un’unica sala di 35 mq al centro della quale è stato posto un particolareggiato plastico in scala 1:5000 che visualizza realisticamente la tormentata orografia della zona dolomitica del bacino del torrente Ansiei, nel tratto interessante la riseva stessa. Una fotografia posta al di sopra del plastico permette al visitatore di conoscere la toponomastica dei luoghi. Alle pareti alcuni grandi pannelli didattico-scientifici illustranti i vari aspetti naturalistici della riserva e dell’area dolomitica nel suo complesso. Lungo le pareti alcune bacheche con reperti delle principali rocce, dei minerali e dei fossili che si possono reperire in zona. L’ultimo pannello, a destra dell’entrata, vuole essere un invito a non commettere azioni o gesti che involontariamente disturberebbero l’ambiente. VAL D’ANSIEI: SONO DI SCENA LE DOLOMITI 21 Somadida è una delle pochissime zone d’Italia nelle quali la natura appare ancora integra, in equilibrio con tutte le sue componenti e che è quindi ancora capace di dare profonde sensazioni ed emozioni spirituali ai visitatori. La natura selvaggia è sì una condizione geografica, ma anche uno stato d’animo; fa parte dell’eterna ricerca della verità che spinge l’uomo alla continua ricerca di se stesso e delle sue origini. Il desiderio di natura è infatti un bisogno spirituale che ogni essere umano si porta dentro, che va dal semplice amore per il bello, al preponderante bisogno di solitudine sfuggendo a quel senso di fastidio che taluni provano di fronte all’opera distruttrice dell’uomo. Una zona protetta, ossia una natura selvaggia è acqua libera di scorrere, è volontà di volare e spaziare degli animali, è l’immensità del cielo sopra una foresta o su un panorama d’erbe, sono gli orizzonti intatti delle montagne, è il silenzio che ci circonda interrotto solo dalla voce della natura, dall’urlo del temporale, dal boato pauroso della valanga, è il lento volo dell’aquila che annulla le distanze tra le cime. Ma per capire la natura bisogna anche conoscerla, ed ecco quindi emergere la necessità di studiare a fondo i delicati meccanismi che ne regolano l’esistenza. Lo studio delle cenosi vegetali ed animali ed il loro evolversi permetterà all’uomo di intervenire più saggiamente che nel passato. Con l’istituzione della Riserva si è voluto dare alla conservazione della natura qualcosa di più esaltante, una forma di tutela che è la migliore garanzia di protezione del territorio. La più bella foresta è una foresta silenziosa e pulita. Ogni visitatore è un ospite ed un osservatore: eviti quindi di infliggere alla Natura qualsiasi tipo di danno; è pericoloso e strettamente vietato accendere fuochi ed uscire dai sentieri e dalle aree di sosta. La flora e la fauna vanno assolutamente rispettate e lasciate al loro autonomo sviluppo (legge regionale 1974 n. 53 e successive norme per la tutela di alcune specie della fauna inferiore e della flora e disciplina della raccolta dei funghi). È vietato l’accesso ad automezzi e motocicli ed introdurre cani anche se al guinzaglio. È vietato bivaccare e lasciare rifiuti, se non negli appositi contenitori. Si consiglia l’uso del binocolo e della macchina fotografica. 22 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 - S.O.S. FARFALLE Nel 2012, nasce nell'Ufficio per la Biodiversità il progetto nazionale " IL GIARDINO DELLE FARFALLE ” uno strumento di educazione ambientale volto ad avvicinare tutti i visitatori ad un mondo meraviglioso e poco conosciuto, quale quello delle farfalle. Le farfalle hanno un complesso ciclo biologico caratterizzato dalla metamorfosi da bruco, che trova ospitalità in una particolare pianta, ad adulto, che gioca un ruolo chiave nella impollinazione. Per questo sono uno dei gruppi di animali più adatti a monitorare i cambiamenti ambientali e l'avvicendarsi delle diverse specie può persino fornire indicazioni su cambiamenti climatici e vegetazionali. Sono lontane le immagini in cui i nostri campi, ricchi di biodiversità che li distingueva, brulicavano di farfalle di ogni tipo. L'agricoltura intensiva e l'uso di pesticidi hanno purtroppo impoverito le campagne di questi splendidi animali. S.O.S. farfalle è una rete di giardini che ha l'obiettivo di aiutare le farfalle a vivere meglio, dimostrando come ognuno di noi possa contribuire in piccolo ad ingrandire questa rete; se nel proprio giardino e perfino su un terrazzo, si privile giassero alcune piante o solo non si estirpassero macchie di ortica o finocchio selvatico,si favorirebbe la salguardia di questi insetti. Piccoli gesti, forse, ma di grande valore, se si pensa che "Il battito d'ali di una farfalla in Messico può contribuire a generare un uragano in Texas" E. Lorenz VAL D’ANSIEI: SONO DI SCENA LE DOLOMITI 23 I luoghi del Sacro LA PARROCCHIALE DI S. GIUSTINA di Paola De Filippo Roia ercorrendo la navata della chiesa, notiamo per ogni lato cinque nicchie che ospitano altrettante statue degli apostoli. Sono statue in legno gessato con i particolari dorati iconografici dei Santi, realizzate alla fine del '700 dallo scultore Giovanni Fossen della val Pusteria. Queste le statue dei Santi con indicati i relativi attributi: San Giuda Taddeo - il bastone San Tommaso - la lancia San Filippo - la croce San Matteo - l’alabarda San Giacomo il Maggiore - la conchiglia, il bastone e la bisaccia Sant'Andrea - la croce a X San Giovanni - il calice (perduto) San Giacomo il Minore - il bastone battilana San Bartolomeo - il coltello San Simone Cananeo - la sega Altre due statue, che originariamente erano collocate sulla facciata esterna, ora si trovano nella cappella dedicata a don Ronzon. All'esterno sono state sostituite da due copie in gesso. Queste ultime sono prive di vernice, di aureole e degli attributi iconografici che probabilmente erano: per San Pietro le chiavi, simbolo delle chiavi del cielo, e per San Paolo la spada con la quale fu decapitato. Ricordiamo infine che la parrocchiale di Villagrande, intitolata a S. Giustina, completata nel 1762, fu consacrata il 23 giugno 1790 dall'Arcivescovo di Udine. Questo fatto dimostra la scelta di professionisti della vicina Carnia come Angelo Del Fabbro, architetto, e Domenico Schiavi, imprenditore tolmezzino - il Cadore, infatti, apparteneva ad Udine. Anche se dal punto di vista orografico, il Piave ed i suoi affluenti facciano parte del Veneto, e quindi anche le comunicazioni siano più agibili nel versante della vallata bellunese, l'assetto della provincia però è relativamente recente ed è dovuto all'ordinamento civile di Napoleone Bonaparte che creò il Dipartimento della Piave su modello dei Dipartimenti francesi. Ma il Cadore - da sempre - aveva il suo orientamento e collegamento politico e religioso (che nei secoli passati erano inscindibili) nell'antico Patriarcato di Aquileja. Con l'avvento di Napoleone, il Patriarcato venne smembrato ed il Cadore, con la Carnia, entrò a far parte dell'Arcidiocesi di Udine. I sacerdoti che operavano in Cadore erano tutti formati a Udine, come la maggior parte di coloro che ricevevano una formazione umanistica, ad eccezione delle famiglie molto abbienti che potevano permettersi i precettori. A quell'epoca il Seminario era l'unica possibilità per una formazione scolastica superiore. Nel 1831, con l'ascesa al soglio pontificio del primo papa bellunese, Bartolomeo Alberto Cappellari, chiamato don Mauro, monaco camaldolese, che prenderà il nome di Gregorio XVII, le cose cambiarono. Giuseppe II d'Austria dispose affinché le circoscrizioni ecclesiastiche coincidessero quanto più possibile con quelle civili. Così il papa, il 1° gennaio 1847, tra il disappunto dei parroci, dell'Arcidiacono e più della metà dei rappresentanti regolieri presenti al Palazzo della Magnifica Comunità del Cadore, staccò l'intera zona del Cadore dal Friuli. P A conclusione di questo percorso che ci ha tenuti occupati per ben sette puntate, desidero ancora ringraziare le professoresse Pais e Simonin ed il fotografo Zanette. 24 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Auronzo by nigth. Piazza Santa Giustina foto g.g. BERNARDO, un santo “tutto” nostro Arcidiacono di Aosta. acque da nobile prosapia - la famiglia dei visconti di Aosta - agli albori del sec. XI; facondo e indefesso predicatore, fu arcidiacono di Aosta, e fondatore, o più propriamente restauratore, dell’ospizio sul monte di Giove, detto poi Gran S. Bernardo, e probabilmente di quello della Colonna di Giove, chiamato poi Piccolo S. Bernardo. La sua festa ricorrre il 16 giugno. Da Novara, ove stava predicando, Bernardo si recò a Pavia (aprile 1081) per incontrarsi con l’imperatore Enrico IV, in procinto di iniziare un’azione ostile contro la contessa Matilde e Gregorio VII, onde distoglierlo da simile progetto; di ritorno a Novara vi morì il 15 giugno dello stesso anno, lasciando larga fama di santità. Fu sepolto nella chiesa del monastero di S. Lorenzo. Da un documento del 15 giugno 1424 si ricava che egli fu canonizzato dal vescovo di Novara, Riccardo (1115-1121); però la sua introduzione nel Martirologio romano risale soltanto al 9 agosto 1681. Il suo culto era ed è assai diffuso in Piemonte, nel Vallese (Svizzera) e nella Tarantasia (Francia). Pio XI lo proclamò, il 20 agosto 1923, patrono degli alpinisti degli abitanti e dei viaggiatori delle Alpi (cf. AAS, 15 [1923], pp.437-42): “...vogliamo stabilire San Bernardo da Mentone qual patrono celeste non pure agli abitanti ed ai iaggiatori delle Alpi, ma anche a coloro che si esercitano a salirne i gighi. Per vero tra tutti gli esercizi di onesto diporto nessuno più di questo - quando si schivi la temerità - può dirsi giovevole alla sanità dell’anima nonchè del corpo. Mentre con duro affaticarsi e sforzarsi per ascendere dove l’aria è più sottile e più pura, si rinnovano e si rinvigoriscono le forze, avviene pure che e coll’affrontare difficoltà d’ogni specie si divenga più forti pei doveri anche più ardui della vita, e col contemplare la immensità e bellezza degli spettacoli che dalle sublimi vette delle Alpi ci si aprono sotto lo sguardo, l’anima si elevi facilmente a Dio, autore e Signore della natura”. L’appartenenza di Bernardo all’antica famiglia baronale dei Menthon e le date del 923 per la nascita e 1008 per la morte sono dovute ad un volgare falsario dell’inizio del sec. XV che si N 26 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 spaccia per Riccardo di Valdisère, amico e successore del Santo nella dignità arcidiaconale di Aosta. Il suo racconto è costellato di anacronismi e di puerilità, per cui non merita nessuna considerazione. Della vita di Bernardo, scritta dal fratello Azolino, non si è ancora trovata traccia, cosicché le poche notizie attendibili che si hanno su Bernardo le dobbiamo ricercare nella Vita (o meglio panegirico del Santo) conservata in due redazioni leggermente diverse, delle quali i manoscritti più antichi si trovano a Novara (sec. XII-XIII) e ad Aosta (sec. XIII-XIV). OSPIZIO DEL GRAN SAN BERNARDO Il passo su cui sorge l’ospizio è sito a 2473 msl in una gola stretta e selvaggia del Monte Bianco sulle Alpi Pennine. Era conosciuto e valicato gran tempo prima dei Romani ed era sacro al dio Penn donde il suo nome di “Alpis Poenina, Poeninum, Summus Poeninus”. I Romani lo consacrarono a Giove Pennino (di qui la nuova denominazione di Mons Iovis, Mont-Joux, Plan de Jupiter, Plan de Joux, Monte di Giove), e vi eressero un piccolo tempi e due case di ricovero (mansiones), sistemandone le vie di accesso. Cessato sul inire del sec. IV il culto pagano, (cf. S, Agostino, De Civitate Dei, V, 26), decaddero pure le case di rifugio, di cui non si ha più notizia sino alla fine del sec. VIII e il colle divenne malsicuro. Alla metà del sec. XI S. Bernardo pensò di edificare un ospizio, in sostituzione di un’altro che, costruito in epoca carolingia, era andato distrutto, affidandone la custodia a una comunità di canonici regolari, tuttora esistente e fiorente. S. Bernardo dedicò l’ospizio a S. Nicola, ma già nel secolo seguente il nome del fondatore era aggiunto al titolare, che presto passò in secondo ordine: «Hospitium Bernhardi, domus hospitalis S. Bernardi». L’opra va annoverata tra le più eroiche iniziative della carità cristiana e della solidarietà umana. La Congregazione ebbe alterne vicende. Nel maggio del 1800 ebbero le simpatie di Napoleone quando attraversò il passo con le sue truppe. Caratteristici sono i cani San Bernardo, valido aiuto nella ricerca dei viandanti smarriti nella neve, la cui presenza risale al sec. XVII. San Bernardo è generalmente rappresentato in abito canonicale corale: rocchetto, almucio e bastone arcidiaconale; spesso, dal sec. XV, tiene il demonio incatenato ai suoi piedi con la stola trasformata in catena ferrea, motivo iconografico comune con alcuni altri santi, tra i quali San Bernardo da Chiaravalle. Un anonimo del sec. XV mise in scena la vita del Santo nel dramma intitolato Mystère de S. Bernard de Menthon, più volte rappresentato al Gran San Bernardo e ad Aosta, che si svolge in tre giornate e comprende 4340 versi. Recentemente Henry Ghéon lo ha rielaborato nella sua Merveilleuse histoire du jeune Bernard de Menthon, Parigi 1924, rappresentata lo stesso anno ad Annecy. Benedici o Signore, queste funi e bastoni e piccozze, e tutti gli altri attrezzi qui presenti, affinché chiunque ne faccia uso su gli ardui dirupi dei monti fra i ghiacci e le nevi e le tormente sia preservato da ogni accidente e pericolo e felicemente arrivi in vetta e incolume ai suoi faccia ritorno. Per l’intercessione del Beato Bernardo, che volesti patrono degli alpigiani e degli alpinisti, proteggi, o Signore, questi tuoi servi e a essi concedi che mentre ascendono queste vette possano anche al divino monte pervenire. Per Cristo Signor nostro. Così sia. Edit. F. Pettinaroli & Figli Milano Collezione V.A. BERNARDO: UN SANTO TUTTO NOSTRO 27 FRANCESCO, IL LUPO E I DAHÜ In bici sulle tracce di San Francesco di Ettore Patriarca 7 luglio 2011, Val Nerina "La Tappa che non c'era" sarà la più breve della settimana ma indubbiamente la ricorderemo e non solo per le lenticchie. La "Tappa che non c'era" nasce alle Fonti del Clitunno durante la colazione. Oggi siamo fuori dalla traccia ufficiale francescana. Facendo un passo indietro avevo proposto di metter le ruote sul "Gottardo dell'Umbria", la ferrovia Spoleto - Norcia, e avevo chiesto informazioni agli amici del CAI spoletino. La risposta non si era fatta attendere. Ci portavano a conoscenza di una frana in galleria che interrompeva il percorso. Stesso sconfortante esito avevano avuto le successive notizie reperite attraverso il portale www.bikeinumbria.it. Ancora a fine giugno non si parlava del ripristino della traccia e della transitabilità dell'itinerario. Il bello stabile invoglia alle salite e allora, con il beneplacito del nobile lessonese, si punta ai Monti Sibillini. Nonostante il fuori programma troveremo Francesco lo stesso. Dopo un ora di trasferimento in auto e nonostante "la signorina" del navigatore cerchi più volte di farci perdere la strada, sbarchiamo le bici. I nomi Benedetto e Scolastica suonano famigliari e amichevoli a Norcia, paese natale dei santi gemelli. Terra sismica quella norcina: la valle del Sordo sin dai tempi più antichi convive con i terremoti. Le case più antiche, limitate per legge pontificia in altezza, si appoggiano ai muri possenti e agli archi di contenimento; oltre la cerchia medioevale appare ancora qualche segno dei sismi più recenti, del 1997 e del 1979. Finalmente si comincia a salire, la strada che porta da Norcia a Forche Canapine è spettacolare. Arrampica regolare e priva di traffico verso uno dei luoghi scelti dal regista Zeffirelli per ambientare parte delle riprese del suo film sulla vita di San Francesco. Quando alzo il braccio al cielo a indicare il grande rapace che volteggia annunciando che probabilmente è un gipeto, non prevedo due cose. La prima è che non mi credano facendo spallucce, ma questa ci sta tutta. La seconda, meno prevedibile, è che proprio per sottolineare il loro pensiero, trasformino questo avvistamento in storia favolistica. Nasce così "Gipeto e Penocio", versione veneziana della nota favola del bambino di legno e del suo papà a cura di Mariuolo e Cenerentola. Del felice risultato della re immissione da queste parti del grande volatile pare non interessare molto a nessuno, pazienza. Proseguiamo. Poco oltre la casa cantoniera si svolta a destra; sono curioso di scollinare per vedere l'effetto che farà sul gruppo l'insolito paesaggio. Come capitò anche a me trent'anni or sono vedo i volti sorpresi di fronte all'orizzonte che si apre poco oltre il Rif. Perugia. Qui si perde facilmente il senso dello spazio, le distanze vengono falsate e, se pare di essere arrivati, in realtà la strada da compiere resta lunga. Tesoro nascosto fra i Monti Sibillini l'altopiano carsico è una tavolozza infinita di colori sulla quale volano aquiloni sgargianti. Madre Natura ha disegnato i Piani di Castelluccio. In precedenza i campi che vediamo furono il fondo di un lago e il "Fosso dei Mergani" e "l'inghiottitoio" i luoghi attraverso i quali l'acqua si perdette, tempo addietro, nella spugna carsica della montagna. Immagino prima lo sgomento e poi la gratitudine per i nuovi campi da parte degli abitanti; ci scambiamo pedalando questi e altri stupori conversando sul crinale che stiamo risalendo. Questa prua di nave si alza sui piani di Castelluccio incuneandosi nella piana. Di fronte alla Pattuglia Astrale si erge "la fabbrica delle nuvole", questo il nome che da sempre gli abitanti del luogo attribuiscono alla vetta del Monte Vettore, dove le correnti umide provenienti dall'Adriatico si condensano formando la tipica calotta bianca. Il "piccolo Perù" affascina e regala immagini spettacolari. Piano piano il piccolo centro di Castelluccio si avvicina e prendono forma sia i parapendio che i deltaplani del campo volo. Le prove di ascesa si susseguono nell'area protetta dai venti: l'arco naturale della collina e il fondo morbido erboso proteggeranno i nuovi icari fino a che non saranno pronti per i voli oltre il crinale a sfidare il vuoto e i venti più insidiosi. Anche l'atterraggio della Pattuglia Astrale sul piano dell'antico lago è morbido e prepara alla festa di colori che si sta svolgendo ai piedi del paese. Dal celeste che in lontananza sembra prevalere si passa al giallo verde, ai toni sorridenti e rosso vivi del papavero. Per quanto fotografi, non sono in grado di replicare quanto 28 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 vedo, spettatore impreparato di fronte a questa sacra bellezza. Vorrei che ogni fiore colorato scendesse dagli occhi nelle vene a rinvigorir il sangue e a caricar lo spirito dei giorni bui. Vorrei che il verde cupo dell'erba che danza nel vento ci prestasse il suo ritmo lento e sensuale. Vorrei saper raccontare queste emozioni. Ringrazio Dio del creato, gli amici di avermi portato sin qui e gli uomini di quassù, dell'amorosa cura con cui hanno impedito che queste "terre alte" fossero violentate da altre mani avide più di denaro che di emozioni. Ma le labbra tacciono e la penna spegne il suo tratto nelle poche righe del diario di bordo. Questo è l'effetto che fa oggi questa terra, la stessa che ospitò Francesco, la stessa che accarezziamo adesso calcando con le nostre ruote il bordo di questo catino naturale. Due ore più tardi, a venti chilometri di distanza, ottocento metri di quota più in basso, a mezza strada fra santi e briganti, quattro ciclisti si fanno fotografare in mezzo ai maiali di una famosa norcineria. Anche questo è un effetto di questa terra. 09 luglio 2011, Spoleto Spoleto, strada Flaminia Vecchia, ore 21, Ristorante dei Pini. "Cotto,cotto,cotto! Parola di Armando". Durante la cena, con il tono pacato che ha trovato nella sua maturità, l'inventore di Casapinta sintetizza in questo modo la sua bellissima, ma faticosa giornata. Forti di questa premessa facciamo un passo indietro e incominciamo a raccontare questo lungo giorno. Chi, se non un animo superiore, con nobile gesto avrebbe potuto offrire il suo mezzo in uso a Giannino? Mauro, Mariuolo da Lessona. Rinunciando ad un'alzataccia, a quella che nelle previsioni dovrebbe essere la tappa più lunga, a quella con maggior dislivello si immola a fare il turista. Quanto sarà costato al nobile Mauro alzarsi alle dieci, fare una breve capatina in città, sedersi a un desco apparecchiato sin da mezzodì? Non lo sappiamo e lui non ce lo farà sicuramente pesare. Grazie Mauro. Alle sette siamo già a Terni. All'ombra dell'imponente "transformer" che caratterizza la piazza si alza un richiamo: "Ascoltate Ciclisti Pellegrini la mia storia: Occupai un posto di rilievo nella storia della tecnica, sono la pressa idraulica da 12000 tonnellate che ha lavorato nelle acciaierie di Terni dal 1935 al 1993 per forgiare lingotti d'acciaio incandescente. Fui destinata inizialmente alla fabbricazione di corazze e cannoni per la marina e l'esercito, poi produssi pezzi speciali per le industrie meccaniche, chimiche ed energetiche di tutto il mondo. L'avermi salvata dalla distruzione alla fine del ciclo vitale costituisce un importante operazione di archeologia industriale e vuole essere, soprattutto, una testimonianza palese dell'operosità di Terni." Ha parlato veramente o hai letto tu a voce alta? Il fatto è che questa macchina vive e l'averla sradicata dal reparto in cui ha lavorato per decenni non le ha tolto la parola. Prima il tonfo regolare e spaventevole con cui forgiava lingotti rosso fuoco e, dal maggio 2002, il denso silenzio della memoria. Oggi invita a progettare nuovi orizzonti ed è riparo sicuro per gli uccellini che frullano FRANCESCO, IL LUPO E I DAHÜ 29 intorno al gigantesco totem. In pochi anni Terni è cambiata e cambierà ancora. La città che attraversiamo è ancora addormentata: non parla, ci ascolta passare con i negozi chiusi. Pochi passanti mattutini che si voltano al fruscio delle biciclette sul selciato del centro. Di rotonda in rotonda ci inerpichiamo fra grandi viali di periferia e abitazioni sempre più modeste. Sempre più spesso le città, se attraversate in modo lento, offrono la possibilità di avere un punto di vista sullo sviluppo e sul futuro di un territorio. Hai la possibilità di curiosare, passando, in un cortile e di salutare i abitanti. La possibilità di riflettere sugli sforzi compiuti da chi ci abita e su quelli che dovrà compiere, sulla necessità di uscire da antichi schemi, o rientrarci se necessario, per costruire il futuro. Elementi che dovranno essere filtrati attraverso l'assunzione di responsabilità diffuse e di ruoli attivi. Cittadini consapevoli che solo attraverso questa incombenza e condivisione potranno andare a ricostruire i loro nuovi orizzonti. Chi sono gli uomini e le donne che sfioriamo in questo viaggio? Quale il loro futuro? È sempre in salita che si pedala ed è il momento in cui si ha il tempo di pensare cullati dal ritmo dei pedali. Così, improvvisamente, il Tau appeso alla sella che ho davanti può diventare simbolo e speranza dei pensieri. Lettera condivisa dalle due lingue originali della Bibbia, l'ebraico ed il greco, supera le differenze. Il Tau, segno dei salvati, prima lettera nella parola Torah , simbolo della croce, simbolo di protezione dalla peste. Francesco lo adotta come firma. Un buon augurio sicuramente anche per il futuro di Terni che, guarda caso, comincia per "Tau". Stroncone arriva in fretta e La Pattuglia Astrale si riunisce fra i vicoli antichi di questo bel borgo premiato dal Touring Club Italiano. "Ancora undici chilometri di salita!" annuncio mentre Gianni mi guarda come se fossi l'angelo della morte. Non sempre abbiamo sufficienti capacità linguistiche per esprimere ciò che pensiamo, bastano gli sguardi a farmi capire che è meglio riprendere a pedalare prima che mi raggiunga. Oltre le più rosee previsioni la salita si rivela amica a tal punto che in breve ci ritroviamo a I Prati. Seduti ad un tavolo ombreggiato, serviti da belle ragazze, salita ormai alle spalle anche lo sguardo di Gianni è più mite. Unica nota stonata il commento della giovane barista sul prossimo spezzone del tracciato: "Siete matti a scendere a Greccio con la bici. Già che andate…e se arrivate… salutatemi il prete che ha celebrato il mio matrimonio. Io fin là sono andata in macchina!" Fedeli al motto dei Dahü "la speranza è l'ultima a morire" nessuno molla il panino e si continua tranquilli a recuperare le forze. Intorno al nostro tavolo prosegue l'andirivieni ordinato dei campeggiatori, dei turisti, di giornata e dei residenti nelle casette dei dintorni. Il difetto inevitabile è la presenza delle automobili, oggi ancora contenuta, che nei giorni di festa deve essere drammatica. Drammatica, ma molto positiva per l'amministrazione locale, che ha pensato bene di far cassa riempiendo la piana di strisce blu. La malinconia cui siamo così propensi di fronte a questo male endemico dell'Italia svanisce poche centinaia di metri più avanti. I Piani di Ruscio sono magnifici. Pastori, pecore e cani evidenziati dal verde acceso dei pascoli, le ginestre a incorniciare gli stazzi. La giusta consistenza della luce proietta direttamente l'immagine dalla realtà ai quadri di Segantini. Difficile immaginare un teatro naturale così composito a due passi da Terni: potenza dell'Appennino! Abituati ad affrontare sentieri spinosi e sconnessi ci sorprendiamo un poco per la facilità della discesa rispetto alla descrizione sia della guida che della barista. Vero è che il meteo è ottimo, la Pattuglia Astrale possiede i mezzi adatti e l'allenamento alla guida fuoristrada. Meglio comunque esser contenti delle difficoltà inferiori alle aspettative che il contrario. Il Santuario di Greccio è appeso alla parete rocciosa e incorniciato da un bosco fitto. Qui si deve pensare a Francesco in questo modo: occorre immaginarlo, in sandali e saio, d'inverno con la neve sui rami, a guardar giù verso la valle reatina dalla balconata dell'eremo impegnato a inventarsi il presepe, ispirato da Dio e dai luoghi. Oggi, per noi, sono oro e verde i colori che circondano Greccio, torrido il clima che La Pattuglia Astrale dovrà affrontare nella traversata della valle. Punto il dito verso le alture di fronte indicando Poggio Bustone. Appollaiato la in fondo il paese natale di Lucio Battisti sembra quasi irraggiungibile, un miraggio. Grazie a qualche indicazione, raccolta fra i campi di grano e di mais, guadiamo indenni la piana nel brodo caldo del mezzogiorno. Bloccando le auto agli incroci per avere certezze sulla via, pian pianino la pianura si assottiglia. Costeggiamo la riserva naturale dei laghi Lungo e Ripasottile e ci si delinea chiaramente la salita da affrontare. Nel patrimonio spirituale di ognuno di noi vi è un tesoro nascosto e oggi Giannino ne estrae una perla: "Saper rinunciare è meglio che schiattare". Ai piedi dell'erta "quasi" finale La Pattuglia Astrale si divide: Giannino si porta in avanscoperta verso Piediluco e il suo bel lago mentre il resto del gruppo punta a Poggio Bustone. Non sono molti i chilometri ma occorre 30 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 definire realisticamente "eccessivo" il caldo che si affronta sulle rampe. Nel corso delle frequenti soste ci inventiamo un efficace raffreddamento "ad acqua" che consiste nell'immergere ripetutamente il casco nelle fontane, fortunatamente ben presenti sul percorso. Il corpo è un organo di sensibilità che garantisce una conoscenza più certa di quella che ci viene dall'impegno della mente. Quindi è il corpo di Armando e non la mente che, a metà salita, lo porta a definirsi "cotto". Cosa può dar meglio l'idea di questa parte dell'itinerario? La copertina del ciclo-libro di Rumiz "Tre uomini in bicicletta" dove Altan di-segna una surreale vignetta ciclistica! Il dialogo è fatto di brevi battute, dove il neretto evidenzia uno stato confusionale in cui riconosco un poco di noi in questo pomeriggio. "Scusi Signora, ma dove stiamo andando?" Perché lo chiede a me? Cosa vuole? Chi cazzo è lei?" si ribadiscono i due ciclisti, ovviamente maschi. Che volete farci La Pattuglia Astrale è fatta di tipi tosti, all'occorrenza anche un po' matti: l'anno scorso sulla Via Francigena e oggi qui. Da Poggio Bustone il panorama è magnifico ed è proprio vero che, con il piacere di essere arrivati, lo si gusta ancora meglio. È un cambio di atteggiamento nei confronti di questo mondo il poter mettersi a mollo nella freschissima fontana. Il repertorio di parole che descrive questo piacere è ricco, evocativo e ricercato. La fatica rende fortissime le emozioni e l'acqua, "l'umile sorella acqua", ci rende biblicamente "uomini nuovi". Tornando con i piedi per terra mi rendo conto che non sarà possibile salire all'eremo per suonare la campana(1) e che converrà cercare altrove anche il timbro. Anzi, per dirla tutta, riusciremo a prendere il treno per Spoleto? Ci occorrerà un ritorno veloce. Ma non ci lamentiamo troppo, va già bene così. Giusto il tempo di una sosta al bar per l'immancabile vidimazione, una foto alla statua di Lucio Battisti e , evviva, siamo lanciati in discesa. Si perde quota in pochi attimi. Rilanciando la velocità nel falsopiano mi accorgo che Armando perde colpi, gli allungo una barretta incitandolo nello sforzo per mantenere sufficientemente alta la media. Giannino ci contatta telefonicamente confermando che ci sta precedendo di alcuni chilometri. Lo invitiamo a scendere con calma, beato lui, verso la piana reatina. "Grande Armando", "Non mollare che ci siamo", "Resta in scia del Pellegrino BearLu che si fa metà fatica", "Quasi cento chilometri e millecinquecento metri di dislivello, bravissimo!!!" sono le frasi abusate di questo frangente. Ma, da italiani in gita, sappiamo rallegraci anche dell'ultima discesa verso la stazione e tener duro negli ultimi chilometri di questa cronometro. Ebbene sì, è vero: La Pattuglia Astrale arriva, allo scoccare delle cinque, giusto in tempo per prendere posto sul convoglio. Nessuno si scandalizzi se torniamo a Spoleto in treno, e senza aver suonato la campana. Caro Mauro, ci torneremo...e con il tempo per farlo, stavolta. (1) Negli anni i pellegrini sul Cammino di Francesco hanno inventato un rito: arrivati all'eremo suonano a distesa la campana per testimoniare la felicità nell'aver raggiunto la meta. FRANCESCO, IL LUPO E I DAHÜ 31 DALLE DOLOMITI ALL’UNIVERSITÀ “BROWN” DI PROVIDENCE arco ha iniziato a giocare a hockey all'età di sei anni pattinando spesso all'aperto nel paese di montagna dove è cresciuto. Ha lasciato casa a 16 anni per andare a giocare a hockey e studiare a Montreal per poi trasferirsi a Kent, Connecticut (USA) alla Prep School. Ora Marco è nella Ivy League. Percorso non insolito per un giocatore di hockey del college tranne che per una cosa: egli non proviene da qualche frazione isolata del Quebec dove l'hockey è una religione, non proviene da una comunità agricola delle pianure del Saskatchewan o dalla città mineraria di Iron Range del Minnesota o da uno dei soliti posti che producono giocatori di hockey ma la città natale di Marco è Auronzo di Cadore, un paese di 3.500 abitanti nelle Dolomiti in Italia. "Il viaggio intrapreso da questo giovane è affascinante" dice l'allenatore Brendan Whittet della Brown. L'assistente allenatore Mike Sousa che ha giocato in Italia per cinque anni sa più di ogni altro quanto notevole sia la storia di Marco "Voi ragazzi probabilmente non capite quanto stupefacente sia il fatto che egli sia qui". Sousa ha detto "la Lega Universitaria Americana non è molto conosciuta in Italia. Gli Italiani sono presi follemente dal calcio. I ragazzi italiani che giocano a hockey amano la NHL ma conoscono poco della realtà hockeistica americana oltre alla NHL. È stato un vanto per Marco riuscire ad uscire da Auronzo di Cadore ed arrivare ad una istituzione come è Brown." Ma come ha fatto esattamente il ventiduenne Marco ad arrivare al College Hill? Bene, per iniziare, secondo gli standars italiani, Auronzo di Cadore è un paese di hockey. "Tutti i miei amici giocavano, così ho iniziato." De Filippo spiega con il suo marcato accento inglese "Non molti in Italia conoscono questo sport poichè viene praticato solo nel Nord Italia e non nelle grandi città ma in alcuni piccoli centri dove è relativamente apprezzato. Nel mio paese c'è un lago che d'inverno gela e uno stadio del ghiaccio e là andavamo a giocare. Crescendo, il mio sogno era di giocare in Canada o negli Stati Uniti. Ho ricevuto un aiuto fondamentale dall'ex portiere NHL e WHA Jim M 32 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Corsi che aveva giocato in Italia e che mi ha dato l'opportunità di giocare a Montreal. Quando ho avuto la possibilità ho deciso di andare. Sono partito per giocare a hockey ma ho deciso di proseguire anche con gli studi." Uno dei figli della famiglia che lo ospitava a Montreal era andato a Kent negli Stati Uniti. De Filippo visitò la scuola e decise di iscriversi .Dopo aver brillato a Kent si diresse alla Brown (Providence - Rhode Island) "Pensavo che avrei avuto la possibilità di giocare lì". Nei primi due anni Marco non ha avuto la possibilità di giocare molto dato che la squadra faceva quasi completamente affidamento sul portiere Mike Clemente, titolare della Nazionale Americana Junior. Ma ora, dopo la laurea di Clemente, Marco deve aspettarsi del lavoro extra. "Lo scorso dicembre Marco era nella miglior forma riuscendo a fare 39 salvataggi in una partita con il New Hampshire" dice Anthony Borelli, l'altro portiere della squadra. "È stato immenso fino a metà stagione poi il rendimento è calato. Il suo problema è la costanza ma ciò è da mettere in conto nel caso di un giovane portiere che sta salendo di livello" dice Whittet. "Gli scorsi due anni sono stati abbastanza pesanti. Mi sono allenato intensamente durante l'estate e non vedo l'ora di iniziare la stagione" dice De Filippo, studente di economia e dichiarato amante di Federal Hill. Lo staff di Brown ritiene che la decisione di Marco di rimanere a Providence tutta l'estate anzichè tornare a casa gli gioverà "Ci aspettiamo grandi cose da lui" dice Sousa. Whittet dice "Dobbiamo capire le sue origini e da dove proviene. C'è sempre un periodo di adattamento. Credo si senta molto a suo agio nella squadra e nel college." "Insieme abbiamo lavorato per il suo sviluppo" dicono l'allenatore portieri Tony Ciresi e Mike Sousa. "Marco vuole giocare nella NHL e nella Nazionale Italiana e ha il potenziale per farcela." Sousa parla la stessa lingua di Marco perchè ha giocato cinque anni a Cortina che ha ospitato le Olimpiadi Invernali del 1956 e che si trova nelle vicinanze del paese di origine di Marco. "È abbastanza strano che io e Marco siamo entrambi finiti qui" dice Sousa. Durante l'allenamento di lunedì Marco non riusciva a fermare molti dischi "Ero furibondo" ha detto Whittet. "Allora Sousa ha detto qualcosa in italiano a Marco e lui dopo ciò ha iniziato a parare in maniera stupefacente. Ho chiesto a Mike cosa gli avesse detto e mi ha risposto di avergli detto di essere più competitivo". Sousa dice di avere una speciale connessione mentale con Marco e spera che ciò lo aiuti a capire meglio il giovane per aiutarlo a crescere e migliorare sia come giocatore che come persona. DALLE DOLOMITI ALL’UNIVERSITA’ “BROWN” DI PROVIDENCE 33 MONTE PIANA, luogo di memorie e di eroismi di Angelo Zangrando e Cristina Bacci onte Piana: più che una montagna un altopiano. Un pianoro prativo con pochi sporadici inserti rocciosi, sostenuto da un imponente basamento. Un immenso mare di mughi con alte onde rocciose. Nella stagione turistica, sulla sommità tante persone; sui fianchi scoscesi e impervi, invece, quasi nessuno si affaccia fuori dai pochi percorsi abituali. Il versante nord orientale ha un settore roccioso ricco di pareti e guglie ma è anche il più selvaggio e solitario, il meno facile da raggiungere. Solo i canaloni tentano frammentari e aleatori collegamenti tra la sommità e il fondovalle. Eppure questa montagna, più adatta ad ammirare che a essere ammirata, ci ha attratti innumerevoli volte e continua a farlo con un fascino incredibile. I grandi panorami sulle Tre Cime di Lavaredo, sui Cadini, sul Cristallo sono stati la prima molla ben presto supportata dalle evidenti testimonianze storiche del primo conflitto mondiale. Toccare con mano i luoghi che sono stati teatro di sanguinosi scontri tra i due eserciti in lotta è stato un modo quasi inconsapevole di entrare nella storia. Ben presto però, l'eccessivo vociare di troppe persone e il clima da scampagnata, a volte accompagnato da commenti sciocchi e superficiali, ci hanno indotti ad allontanarci da questa storia per cercarne un'altra, sommersa dai mughi, nascosta negli anfratti, nelle pieghe di questa montagna che abbiamo scoperto essere smisurata, soprattutto nelle sorprese. Così abbiamo individuato un'infinità di testimonianze, sprofondate in un immeritato oblio. Ogni scoperta è stata una risposta a tante domande ma anche e soprattutto fonte di nuovi interrogativi che ci hanno indotto a tornare, a tornare, a tornare ancora senza che fosse mai l'ultima volta. M Postazioni della Grande Guerra sulla sommità del Monte Piana Rodolfo Boni, medaglia di bronzo al V.M. Poi, nell'inverno passato, lontano dalla nostra amata montagna, una nuova inaspettata scoperta. Da un baule, rimasto chiuso in cantina per decenni, sono saltate fuori vecchie foto in bianco e nero di un giovane in divisa da alpino, ritratto da solo e con alcuni commilitoni. E nella stessa busta una medaglia di bronzo al valor militare! Il giovane ritratto e (suo malgrado) decorato si chiamava Rodolfo Boni, classe 1893, soldato del Settimo Alpini Battaglione Val Piave ed era nato a Caralte di Cadore, nella stessa casa in cui oggi abitiamo noi! Aveva 22 anni quando, il 7 giugno del 1915, morì sul Monte Piana. Cercando nel sito del Ministero dell'Interno abbiamo trovato la motivazione: "Al grido del suo ufficiale ferito, che lo chiamava presso sé, accorse malgrado il vivo fuoco del nemico, ma cadeva colpito prima di raggiungerlo". Questa scoperta ci ha procurato una grande emozione e forse il nostro attaccamento al Monte Piana non è proprio casuale e non è legato solo agli aspetti storici e paesaggistici Ingresso di una caverna sul fianco ovest del Monte Piana UNA SALITA SUL POPENA BASSO di Ernesto Majoni Coleto. Istituto Ladin de la Dolomites Il Lago di Misurina dalla normale del Popena Basso 36 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 el cuore delle Dolomiti, gruppo del Cristallo, l'oronimo di antica radice ladina "Popena" identifica undici luoghi diversi, a cavallo tra le vallate d'Ampezzo e dell'Ansiei: due valli, la Val Popena Alta e quella Bassa; un "Tremila" pregno di storia e fra i meno arrendevoli della zona, il Piz Popena; un passo che separa l'impluvio detritico dal duro toponimo ampezzano di "Graón de ra Zerijères" dalla Valfonda che ospita ancora un lembo del ghiacciaio noto ai primordi dell'alpinismo; una sella pascoliva, dove troneggiano tristi i ruderi di un rifugio che per sei stagioni fu la base degli escursionisti e degli alpinisti impegnati in zona; due torri, una delle quali vinta in solitaria dal fortissimo pusterese Michl Innerkofler nel 1884; due slanciate guglie, su una delle quali prima della Grande Guerra Angelo Dibona da solo incontrò il quinto grado; una solida torre, che nel 1893 da "Popena Piciol", in seguito alla salita del robusto colonnello germanico, divenne "Torre Wundt", e da ultimo un monte dalle forme morbide. Quest'ultimo è noto perché una novantina di anni fa il vicentino Severino Casara lo elevò a comoda palestra di roccia di Misurina, e oggi le sue pareti sono solcate da una ragnatela di vie di ogni difficoltà, alcune delle quali opera di scalatori illustri. Il monte in oggetto è un cupolone quotato 2225 m e rivestito di mughi, che guarda il lago di Misurina con una vasta parete grigia e gialla alta duecento metri, e sul lato opposto scende in Val Popena Alta con insondabili dirupi frequentati da camosci. Esso vanta un doppio oronimo: qualcuno, anche chi scrive, si è abituato a identificarlo come Monte Popena, altri invece lo appellano Popena Basso e altri ancora talvolta lo scambiano col "fratello maggiore", il Piz Popena, che gli sta alle spalle, è alto mille metri di più e ha ben altre forme. Il "piccolo" Popena Basso, oltre che teatro di salite per tutti i gusti, fra le quali due gradevoli vie di stampo classico aperte dalla guida auronzana Piero Mazzorana negli anni Trenta, può essere meta di una piacevole passeggiata, che prende le mosse dal centro di Misurina e consente N UNA SALITA SUL POPENA BASSO 37 “Di certo l’Alpine Club negli ultimi tempi non si è mantenuto aggiornato sull’area dolomitica. In questo periodo sono pochi gli scalatori inglesi che la visitano, [...] Questa selettiva trascuratezza dei nostri scalatori è incomprensibile. Le grandi montagne innevate e i ghiacciai, i picchi rocciosi e i passi hanno la precedenza, naturalmente. Ma le vette delle Dolomiti costituiscono piatti raffinati da gourmet, che preferiscono la qualità alla quantità, e devono sempre rimanere un paradiso per quelli fra noi che amano la scalata difficile per il gusto di scalare.” Edward Alfred Broome, 1906 ...a proposito dei 150 anni del C.A.I. ”Molti viaggiatori, oltre a chi scrive, non sono riusciti ad evitare i superlativi per descrivere questa regione. Certamente non è eccessivo il dire che, per quanto ci si possa immaginare stupendi panorami, pure se ne cercheranno invano in altre vallate di tali che offrano altrettante combinazioni del grande, del bello e del fantastico, come nella valle di Auronzo.” Così scriveva nella sua guida del 1867 lo scienziato - alpinista John Ball, esponente di spicco di quel grande movimento romantico che spinse alpinisti inglesi, austriaci e tedeschi alla scoperta delle Dolomiti. La guida, resoconto del suo viaggio del 1857, offre un arguto spaccato della vita del tempo: “...questo paese, non frequentato come la Svizzera, è visitato da molti turisti. Non vi sono alberghi giganteschi, nè ancora gli abitanti hanno imparato a defraudare i forestieri che si recano fra loro, per cui il distretto delle Dolomiti si potrebbe chiamare tuttora sotto molti aspetti ‘non civilizzato’ ...coloro che vi soggiornano spendono poco, pranzando con tre o quattro soldi... gli albergatori non adoperano ancora il loro ingegno per inventare dieci o dodici nomi per il vino comune.” In quegli anni veniva fondato il Club Alpino Italiano ma la regione dolomitica, per gli alpinisti italiani, rimaneva difficilmente raggiuingibile; contrariamente, quelli inglesi e tedeschi potevano usufruire di comode ferrovie - Brennero 1867, Pustreria 1871. Questi alpinisti “foresti” potevano contare nelle loro conquiste dell’apporto di intrepidi valligiani, per lo più cacciatori di camosci, che ben volentieri si prestavano ad accompagnare questi stravaganti turisti. Il movimento alpinistico restò infatti per lungo tempo appannaggio delle classi agiate, le uniche che potevano permettersi lunghi trasferimenti, soggiorni in luoghi lontani e fatiche per diletto. Nella provincia di Belluno la prima sezione del C.A.I. fu fondata ad Agordo nel 1868; sei anni dopo, nel 1874, fu la volta della Sezione di Auronzo per merito del Cav, Luigi Rizzardi, illustre figura che si adoperò come pochi per infondere la passione per l’escursionismo alpino e la valorizzazione del territorio cadorino. L’amore per la montagna coagulava nell’ ‘800 uomini sensibili e di cultura; non a caso la prima sede del C.A.I. di Auronzo trovò ospitalità nei locali della Società del “Gabinetto di Letteratura e Musica” presso l’odierno Hotel Auronzo già “Albergo alle Grazie”. Questa istituzione ebbe tra i suoi importanti esponenti il poeta Giosuè Carducci, considerato il maggiore cantore delle bellezze alpine, che spesso soggiornò in Cadore a cavallo tra i due secoli. L’Hotel Auronzo, nel tempo, ha ospitato personaggi di cultura quali, negli anni ‘60, il premio Nobel Salvatore Quasimodo e più recentemente personaggi del mondo letterario, dello spettacolo e della politica come Antonio Spinosa, Luciano De Crescenzo, Arrigo Petacco, Stefano Zecchi, Corrado Augias, Giovanni Spadolini ed altri che hanno contribuito a mantenere vivo quello spirito culturale che aleggia in questa storica dimora. da “La Montagna” Suppl.to al Bimestrale dell’AICS settembre 1996 una fuga poco convenzionale nella natura, maggiormente proficua se compiuta coi colori dell'autunno. Il Monte Popena per la via più facile, un sentiero militare senza segnavia e tabelle ma sempre intuitivo, è consigliabile quando più in alto non si sale e può far piacere muoversi in un accidentato bosco antico, risalire un mansueto costone intricato di mughi e alfine uscire su un praticello sospeso, donde si gode un'ampia visuale sulla Val Popena Alta, sul Cristallino di Misurina e su tante altre cime. Quando Popena era sinonimo di "vie Mazzorana", la cima si saltava, si arrotolava la corda e ci si gettava subito verso valle per inseguire l'irrinunciabile birra fresca. Quattro anni fa invece, in una plumbea domenica di fine settembre, salimmo con calma fino al culmine, dove c'è un grosso ometto di pietre, per assaporare la solitudine di un rilievo che i moderni scalatori non visitano e tanti escursionisti non conoscono. Ovviamente, tra gli umidi veli di nebbia traforati dal pallido sole del primo autunno, eravamo soltanto in due. Albergo Auronzo da un acquerello di Franz Lenhart Popena Basso. L’ometto di vetta 38 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 UNA SALITA SUL POPENA BASSO 39 Libri, riviste, giornali... e altro ancora " Non perdete tempo in cose futili se non volete soffrire di rimpianti da grandi. Rifuggite banalità e conformismi. Leggete libri e innamoratevi ". Mario Rigoni Stern Graditissima sorpresa il volume di Mirco Gasparetto “PIONEERS, alpinisti britannici sulle Dolomiti dell’Ottocento”, Nuovi Sentieri Editore, Belluno. Italo Zandonella ha intervistato l’Autore. La collaborazione fra la Nuovi Sentieri Editore e Mirco Gasparetto ha dato ottimi frutti: è nato un interessante volume, ben inserito nella prestigiosa collana di NS. Il titolo è brevissimo, una sola parola, mille significati: Pioneers, seguito da un sottotitolo che fa capire dove l'autore "va a parare": alpinisti britannici sulle Dolomiti dell'Ottocento. Nuovi Sentieri "è" Bepi Pellegrinon, accademico del CAI, storico dell'alpinismo dolomitico, "paron" di un archivio da capogiro, editore coraggioso, "piccolo e solo", con un carnet di 500 titoli in 40 anni di ininterrotta ed entusiastica attività. Mirco Gasparetto è un giovane trevigiano con la passione per la ricerca, redattore della rivista Le Alpi Venete, direttore del pregevole 46° Parallelo, autore di Montagne di Marca, l'alpinismo dei pionieri a Treviso (ancora i pionieri, la sua passione) e altre "cose" importanti. Il libro, seppur "severo" pignolo preciso, si legge come un romanzo dove le righe si rincorrono da un personaggio all'altro incrociando primizie e note curiose. Il merito di Gasparetto, a mio parere, non sta tanto nella descrizione e nella ricostruzione, peraltro accurate e precise (anche se in parte già note) dell'attività dei migliori alpinisti dell'Ottocento in Inghilterra, quanto nella scoperta di "artisti minori", ma 40 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 non per questo meno importanti. Una ricerca scrupolosa e attenta lo ha condotto sulla strada dei "secondi", di quelli cioè che vivevano all'ombra dei personaggi di spicco (non sempre i migliori) e che nelle quasi 300 pagine di questo volume trovano finalmente il posto che si meritano. Vengono presentati non solo tecnicamente, ma anche con immagini inedite del loro volto, della loro fisicità, del loro sorriso tipicamente anglosassone. Costoro entrano, finalmente, nella grande storia delle montagne. Come dire che nel 2112 (duemilacentododici, o giù di lì) il Gasparetto di turno non racconterà solo le gesta "d'oro" dei pur grandi Messner, Bonatti e tanti altri "eroi" del nostro tempo, ma anche le imprese degli alpi-nisti "d'argento" o gli umili "di bronzo" che hanno contribuito non poco alla reale costruzione dell'alpinismo, non solo dolomitico. A ognuno il Gasparetto suo, insomma! Cinque risposte dell'autore ad altrettante domande ci fanno capire meglio la "tecnica" usata per confezionare questo elegantissimo e prezioso volume Perché gli inglesi sono giunti per primi? Anzitutto è bene sfatare un luogo comune: gli inglesi - o meglio, i britannici - non sono arrivati in vetta prima d'altri esclusivamente perché "danarosi". È certamente un dato di fatto il loro diffuso benessere rispetto al resto d'Europa, con un PIL a livelli esponenziali: bacini carboniferi e acciaierie già collegati da efficienti reti ferroviarie, una potente industria tessile, cantieri navali e scali mercantili tra i più produttivi dell'Ottocento… ma il valore aggiunto risiede in una politica post-rivoluzione industriale, che aveva favorito lo sviluppo di una società dalla cultura diffusa. In fondo, un grande viaggiatore dolomitico quale Gilbert non poteva certo considerarsi ricco… come non lo era Darwin prima d'imbarcarsi sul "Beagle". Al di là dei mezzi economici, era ben radicata una precisa filosofia, un modello educativo. Freshfield, figlio unico di un importante banchiere londinese, aveva 19 anni quando scelse di partire con dei compagni di scuola verso la vetta del Bianco e, di seguito, alla volta degli sconosciuti gruppi di Brenta e delle Pale di San Martino. Naturalmente, sarebbe antistorico in questo quadro non considerare il determinante ruolo giocato dalle "nostre" guide alpine. Come si arriva a scrivere un libro di ricerca, di costruzione storica come Pioneers? Personalmente, ho sempre considerato la vicenda storica, nella sua globalità, parte fondamentale della pratica alpinistica. Per fare un esempio, sono convinto che chi sale oggi la "via del drago" (aperta sulla parete ovest del Lagazuoi Nord 2804 m, da C. Barbier, A. Giambisi, C. Platter il 26 settembre 1969 in risposta ad un articolo provocatorio di R. Messner contro l'uso dei chiodi a pressione; nota izc) e non conosce, pur sommariamente, chi era Claude Barbier (e gli altri due "secondi"; nota izc) e perché la via si chiama in quel modo ("salvate il drago" diceva Messner, cioè salvate la purezza dell'arrampicata; nota izc), ha compiuto indubbiamente una bella arrampicata, ha trascorso una giornata appagante in montagna, ma non ha percorso la "via del drago". Lo stesso vale per chi sale la normale al Sorapìss, la "via dei fachiri" sulla Cima Scotoni (Enzo Cozzolino e Flavio Ghio, 14 e 15 gennaio 1972 per la parete sud ovest; nota izc) oppure il celebrato Campanile di Val Montanaia, tanto per rimanere in Dolomiti… Per me, conoscenza e confronto sono sempre stati lo stimolo più intenso, la spinta più forte verso l'alto; come fondamentale è stato il modello di ricerca inaugurato a suo tempo da Giovanni Angelini, basato su esperienza e studio delle fonti primarie. Per quanto riguarda "Pioneers", oltre alle mia passione bibliografica, sono stato pure fortunato: ho costruito una rete di corrispondenti europei che ha assecondato le mie indagini… per questo il web è un mezzo straordinariamente efficace. Quanti sono i tuoi "Pioneers"? I "Pioneers" descritti nei 19 capitoli sono almeno una cinquantina. Oltre all'azione alpinistica ho voluto ricostruire la loro vicenda umana, ho riportato a galla i loro scritti, ho cercato il ritratto del loro volto. A tal proposito devo dire che ho provato una certa emozione quando mi sono ritrovato tra le mani alcune inedite immagini quali quelle di Josiah Gilbert o di William Edward Utterson-Kelso; nomi non certo secondari nella Storia delle Dolomiti. C'è un alpinista in particolare che la Storia finora non aveva rilevato a sufficienza, o che ti ha particolarmente colpito? Direi Tucker. Un po' per l'ingombrante fama del suo abituale compagno di viaggi (Freshfield), un po' per l'assonanza con il cognome di un altro "mostro sacro" (Tuckett) che talvolta ha generato confusione, la sua rimane una figura non troppo considerata. Eppure fu il primo a calcare vette quali il Sass Maòr, il Catinaccio, la Cima Canali. Ma anche Henry Wood, Robert Corry, Edward Lisle Strutt. Dopo questo lavoro, rimane ancora qualcuno da riportare alla luce? Qualcosa d'inespresso? Certamente! Tali ricerche aprono sempre ulteriori orizzonti su montagne e personaggi. Nonostante quella dell'alpinismo sia una Storia giovane, ci sono degli "inverni storici" che paiono realmente impossibili da ricostruire. Oltre a questo, mi sarebbe piaciuto vedere la personalità di Whymper o il piglio di Mummery a confronto con la roccia dolomitica. Entrambi, però, avevano idealizzato un alpinismo che non poteva prescindere dall'estetica di quello che Coolidge chiamava "il Regno delle nevi". Le Dolomiti, per loro, erano solo un breve nome compreso entro pochi millimetri di carta geografica. Italo Zandonella Callegher FREERIDE IN LOMBARDIA G. Bordoni - P. Marazzi Edizioni Versante Sud Collana Luoghi Verticali € 25,00 Il "freeride", una parola nuova, ce ne parla Giuliano: "Non identifica solo coloro che sciano nella neve fresca, la powder, ma identifica un modo più fluido di sciare, più veloce dove gli archi di curva tendono a raddrizzarsi […] questo termine nasconde un significato più profondo […] va oltre a una curva tecnica […] abbraccia uno stile di vita, una filosofia, un pensiero positivo. “Freeride vuol dire sapere amare la montagna, volerla conoscere, imparare a rispettarla. Freeride significa prendere coscienza del tempo che passa inesorabile, di noi stessi, del mondo che ci circonda e saper amare tutto ciò. LIBRI, RIVISTE, GIORNALI...E ALTRO ANCORA 41 "Ho iniziato a raddrizzare le mie curve alla ricerca della neve farinosa e profonda. Il giorno dopo sono tornato a osservare la mia linea, ma il vento l'aveva cancellata. Continuavo a guardare quel pendio dove fino a poche ore prima c'erano le scie ben impresse dei miei sci e di colpo, Come un fulmine a ciel sereno, realizzai pienamente lo scorrere del tempo e ne rimasi scioccato. […] Imparai a vivere pienamente l'attimo, a vivere col sorriso il momento che stavo respirando. Senza proiettare alcun futuro, senza rifugiarmi in alcun passato. Smisi di bivaccare il mio corpo e la mia anima. Iniziai a vivere! […] "Cliff dopo cliff imparai a librarmi in aria, a tendere per un secondo verso l'orizzonte, verso l'infinito per poi tornare saldamente alla terra, alle mie radici. “Compresi l'energia che la natura emana con i suoi profumi, i suoi colori, i suoi suoni. M'illuminai abbracciando il mondo". Questa è una guida per conoscere e apprezzare queste curve da Madesimo al Tonale. CALCARE DI MARCA a cura di Marco Nardi Edizioni Versante Sud Collana Luoghi Verticali - € 28,50 Racconto minuzioso e appassionato di venti anni di storia dell'arrampicata nelle Marche, terra gentile e generosa sospesa tra mari e monti, che racchiude un interessante patrimonio verticale: dalle prime storiche pareti dell'Ascolano, attraverso le grandi gole di Frasassi e del Furlo, dalla splendida Cingoli fino alle recenti falesie del Corno, veri e propri gioielli per i top climber, quell' "Anime Verticali climbing club" che ha attrezzato molte delle falesie non rifuggendo da spedizioni negli angoli più belli del pianeta. Un gruppo di amici che sognano, perché, come scriveva Edgar Allan Poe: "Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte…". Cava Orsini. Marco Nardi, strapiombi, 6c foto A. Giardina 42 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 IL TEMPO DI Mary Francesco Comba Comune di Belluno Biblioteca Civica. "La gioia di aver superato una parete vincendo l'attrazione del vuoto mercé le proprie forze e il proprio coraggio, è un tesoro nostro soltanto, che ci appartiene e ci accompagnerà tutta la vita… ". Sono parole di Mary Varale, quasi un testamento spirituale, con cui ho voluto introdurre questo breve, ideale, colloquio con l'Autore. Da quando conosco "Cesco", spesso e volentieri, Mary Varale è stata sempre tra noi. Da lui ho imparato ad amare questa donna, diversa dalle altre, ma al tempo stesso con nelle vene quel sangue che l'ha resa grande come le altre, forse, più famose. "Il tempo di Mary", un tempo breve di una dozzina d'anni, è tutto qui raccolto in pagine altrettanto brevi; ma le parole di Francesco e i sentimenti su di lei che sa trasmetterci bastano a farci rimpiangere quanto questo tempo sia così infinitamente lontano dal suo. Le ricerche di anni che Francesco ha fatto in ogni dove hanno dato un frutto inaspettato e che ognuno di noi potrà gustare. Emozionante e insolita puntata questa tra libri, riviste... e altro ancora. Non posso chiudere senza riportare parte di uno scritto di Mary che mi ricorda giorni ormai lontani - quelli sì che erano giorni: " Quei sabati, chi lavora in casa sbriga alla svelta le proprie faccende e chi è in ufficio chiede il permesso d'uscire con breve anticipo… si trovano pronte le autocorriere, e non c'è pericolo che partano vuote verso la Valsàssina, dove appunto siamo diretti per poi salire sui monti ". MELLO BOULDER Andrea Pavan Edizioni Versante Sud Collana Luoghi Verticali € 35,00 Edizione aggiornata della prima di quattro anni fa. Nuovi passaggi e nuovi settori, soprattutto in Valmasino, una somma delle esperienze precedenti, di numerosi consigli e di tanta voglia di fare. ARRAMPICATE IN SVIZZERA Matteo Della Bordella Edizioni Versante Sud Collana Luoghi Verticali € 35,00 Questa guida raccoglie una selezione d'itinerari di arrampicata di tutte le difficoltà, dal facile all'estremo sulle pareti più importanti di tutta la Svizzera. Sono descritti itinerari finora sconosciuti e di grande bellezza. Ampio spazio l'autore dà a persone e storie: alcuni tra i principali protagonisti, semplici amici e compagni di scalate, ci raccontano la loro passione. Anche se sotto una diversa veste tipografica, una veste giornalistica, più spartana, lo spirito che anima il trimestrale goriziano è lo stesso del nostro. È un po’ come “il vento dell’est”, ci porta il profumo di quei monti che tutti noi, chi per un motivo chi per un’altro, amiamo. Monti dalle forti emozioni, dalle alterne vicende storiche, monti legati ad un’umanità di amici che il passare del tempo rende sempre più sorprendentemente amici. LIBRI, RIVISTE, GIORNALI...E ALTRO ANCORA 43 LADIN! Rivista dell'Istituto Ladin de la Dolomites La distanza territoriale delle mie origini mi porta di necessità a non avere molta dimestichezza con il ladino. Mi soccorre alquanto l’editoriale di Ernesto Majoni che opera una sorta di bilancio del lavoro fatto in questi anni, veramente pregevole se si considera il territorio dolomitico su cui gravita il lavoro dell’Istituto: “...si è dato, indubbiamente, più spazio a recensioni di pubblicazioni, perlopiù non edite dal nostro Istituto, piuttosto che a brani di prosa, poesia e teatro, che tutto sommato costituiscono l’ossatura della rivista, presentando le diverse varianti del ladino bellunese in un caleidoscopio suggestivo e curioso dal punto di vista storico, linguistico e comparativo. Arricchire ancora la parte in ladino: potrebbe essere questo il proposito per il futuro, auspicando che la produzione in vernacolo nella nostra area offra sempre materiali di livello e interesse per la cultura locale. D’altro canto, sul fronte delle recensioni, stimola notare quanto sia ampia di questi tempi, nonostante le difficoltà, la produzione di materiali culturali legati alla terra ladina. [...] La rivista si augura di poter contare su collaboratori disposti a sostenere la rivista con saggi scientifici, di ricerca e letterari; che escano ancora pubblicazioni, materiali audio-video e siano organizzate mostre di interesse scienfico per la Ladinia. Così “Ladin!” avrà sempre modo di alimentarsi e fornire ulteriori stimoli e curiosità agli abbonati e ai lettori, che vanno ringraziati per la fedeltà e la fiducia dimostrata”. Tra gli articoli a carattere letterario “Fregores de cultura” un testo di Giovanni Belli Codan e Francesco Pordon de chi de la Zota “La fienagione” che riferisce dell’iniziativa “Coltivazioni di un tempo”, giunta alla sesta stagione, che ha mostrato ai turisti e a quanti si interessano delle tradizioni ladine, i modi con cui i padri sapevano ricavare con le loro mani dalla terra i mezzi del loro sostentamento: una complessa ma molto significativa manifestazione dedicata, questa volta, alla rappresentazione di tutte le fasi della lavorazione e del trasporto a casa di quel bene prezioso che era il fieno. Sono stati messi in campo tutti gli attrezzi originali, a partire dai carri, e tante persone ben motivate e competenti si sono prestate a ricreare quelle tecniche che ormai vivono solo nei nostri ricordi - come si falciava a mano l’erba del prato e si essiccava al sole ed all’aria in modo conveniente il fieno, come esso alla fine veniva raccolto nel covone per essere trasportato a valle in tempi successivi o nei “varote” (grandi lenzuola di juta) per essere raccolto appena pronto e portato direttamente al fienile di casa. Si sono visti così e come per magia la falciatura (“al seà”), gli “andai”, le “fioles” (piccoli accumuli provvisori di fieno non completamente essiccato), “la rodeles” (accumuli di fieno in forma di lunghi cordoni), i covoni, la merenda sul campo, il “ciar da monte”(bellissimo), ed il “ciar con al scalà” carico di “varote”, in una coreografia animata da tanta gente autenticamente affaccendata, anch’essa nei vestiti di un tempo, che svolgeva il lavoro proprio come doveva essere fatto: in modo fedele ed attento, senza affettazione, esagerazioni o movenze improprie. [...] Molti dei presenti che hanno vissuto quell’epopea, che speriamo non abbia più a ritornare, non possono non aver provato dei brividi di emozione. Teatro delle varie manifestazioni il piazzale e i prati circostanti la stazione della vecchia Ferrovia delle Dolomiti, oggi sede del Museo delle Tradizioni Popolari curato da Cesare De Vido. Longarone. EXPO DELLE DOLOMITI Patrimonio dell’Umanità 2012 44 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 foto pagg. 42/43 g.g. LA MONTAGNA È EMOZIONE di Giandomenico Vincenzi a anni mi chiedo come mai io sia nato in un paese della piatta pianura veneta e lì sia vissuto per tutta la mia vita. Come mai, dato che i rilievi montani hanno sempre costituito per me un fortissimo richiamo che col trascorrere del tempo si è ancor più accentuato? Sembrerebbe che per un bizzarro gioco del destino, i miei cromosomi - che a me sembrano di evidente provenienza montagnarda - volessero costringermi ad una sorta di pendolarismo obbligato campagna-montagna che consente loro di mantenere contatti con le origini. Come se, per fare ammenda di chissà quale sgarbo perpetrato dai miei antenati, io, la montagna dovessi riconquistarmela. In effetti l’alpe ha esercitato su di me un grande fascino fin da ragazzetto, quando, giovane esploratore, frequentavo con entusiasmoi campi estivi montani. Erano straordinarie occasioni per vivere esperienze profonde a contatto diretto con i boschi e i torrenti del Cadore o del Trentino, fra quelle rocce dolomitiche che per me costituivano uno scenario normale - ai miei oicchi di adolescente solo quella era “la montagna” - e che invece erano la perla rara che tutto il mondo ci invidiava. Credo proprio che sia nato così il mio profondo affetto e la confidenza per la montagna e per l’ambiente dolomitico in particolare: utilizzare il legno del bosco - rigorosamente selezionato dalle Guardie Forestali o raccolto tra le piante cadute - per costruire tavoli, cucine, alzabandiera, ponti; usare l’acqua del torrente per prepararci il cibo; andare in escursione sul nevaio che durante le attività di campo si intravedeva lassù, all’ombra delle pareti rocciose. Tutte piccole - grandi! - emozioni che hanno lasciato un segno indelebile dentro di me. Ecco: fra le innumerevoli definizioni attribuite a questo variegato e complesso ambiente naturale, ne sceglierei una fra le più semplici e la farei mia: “La montagna è emozione”. Quella immediata, a fior di pelle, che ti prende quando osservi l’intensità straordinaria del giallo di un “botton d’oro”; o quella più profonda, che invade il cuore e la coscienza, quando ti capita di trovarti di fronte a una visione nuova e inaspettata, quindi più carica di significati simbolici. Montagna come emozione. Sento parlare con D 46 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 entusiasmo gli amici che hanno fatto un lungo giro sulle Ande; leggo libri, e ne osservo con ammirazione le foto, che narrano di imprese straordinarie sull’Himalaya; sogno anch’io ogni tanto di calcare le valli tibetane per assaporare l’intensità energetica di quei luoghi ricchi di umanità e di spiritualità oltre che di bellezze naturali. Poi... poi mi rendo conto che percorro le nostre familiari Dolomiti da più di trent’anni e sono ben lungi dall’averle realmente conosciute in tutte le loro potenzialità emozionali. E ogni volta, anche nei luoghi più modesti, snobbati dalla grande folla, provo, da solo o in compagnia, sensazioni e sentimenti che mi coinvolgono e mi appagano. In questo rapporto così intimo e sincero, a un certo punto si è inserito un elemento fondamentale: la fotografia. Avevo così la possibilità di fissare l’emozione di quel momemnto in un’immagine che potevo portare a casa, osservare nuovamente,, far vedere agli amici, anche se averla vissuta direttamente era tutt’altra cosa. Ma non m’interessava tanto, attraverso le mie diapositive, descrivere la montagna in termini documetaristici, quanto trasferire sulla pellicola le sensazioni di quei momenti. Da qui, l’utilizzo di tecniche come il controluce che segnala appena la presenza del monte ma non lo svela nei suoi particolari; lo sfruttamento di situazioni meteorologiche come la foschia, gli annuvolamenti, la nebbia che normalmente vengono ritenute avverse e che possono invece rivelarsi galeotte nel mettere insieme l’atmosfera di quel momento e la ricerca estetica. Così in montagna mi diverto comunque, pur nella fatica delle ascensioni, col sole e con la pioggia, perché in ogni sistuazione c’è - basta cercarlo e osservarlo - l’elemento emozionale. Come in tutti i rapporti sentimentali, il bene deve essere incondizionato: l’altro va accettato in toto, “nel bene e nel male” come si dice. E se è vero che si può tornarer da una gita inzuppati, è anche vero che pochi istanti di uno squarcio azzurro - magari fermati con la fotocamera - da soli valgono l’inzuppatura. “La montagna”, grazie a lei e a tutto ciò che ha rappresentato e rappresenta nella mia vita: quella parte del Tutto, radicata profondamente nell’animo, che sta giusto prima del Cielo. IL GRANDE ALPINISMO zzetta dello Sport ci ha offerto in 22 DVD la possibidi rivisitare le storie di uomini leggendari che hanno toccato il cielo. primo della serie, “ NANGA PARBAT, la Montagna del Destino ”, è incentrato sulla tragedia del 1970. Scrive Reinhold Messner: “Il regista Joseph Vilsmaier, che ha una certa esperienza di montagna, la racconta fedelmente. [...] È un racconto classico di un dramma di montagna, ma non con il solito sottofondo della musica wagneriana, sempre troppo eroica. Se un alpinsta con un po’ di esperienza, guardando il film, si immerge con la fantasia nelle imensioni di un 8000 con una parete di 4500 metri di vello, la più alta del mondo, capisce l’esposizione estrema nella quale ci trovammo io e Guenther. se fossimo sulla Luna e non più sulla Terra, in quelquali, sotto la cima, fummo costretti a decidere di scendere dall’altra parte della montagna, su un versante sconosciuto per noi. L’unica speranza di salvezza. Ma non c’è solo alpinismo nel film. Secondo me l’inizio racconta molto bene l’infanzia dei due fratelli nati negli Anni 40 in una vallata del Sud Tirolo. Molto stretta. Non solo dal punto di vista fisico, geografico, ma anche dal punto di vista sociale: il prete, il sindaco e il maestro hanno in mano la vita. È da ciò che nasce e cresce nei due giovani la voglia di uscire, di salire sulle montagne vicine, all’inizio, e poi su quelle più lontane. Senza questa motivazione, conseguenza di quel mondo piccolo e stretto, forse per noi il Nanga Parbat non sarebbe neanche esistito.” La vicenda della prima salita del versante Rupal del Nanga Parbat ha fatto discutere, finanche in tribunale, per ben 35 anni. Reinhold Messner e suo fratello Guenther giunsero in vetta il 27 giugno 1970, alla loro prima spedizione himalaiana. Durante la discesa, ormai sul ghiacciaio finale, mentre Reinhold è avanti a cercare una via, una valanga travolge Guenther. Il fratello lo cerca fino allo stremo per due giorni, senza trovarne traccia. Con gravi congelamenti poi si trascina fino ai primi luoghi abitati dove è soccorso e trasportato a valle. Verrà accusato di aver abbandonato in cima il fratello per realizzare la prima traversata di un 8000. Nel 2005 i resti di Guenther sono stati trovati sul ghiacciaio Diamir, dove Reinhold aveva sempre detto che dovevano essere. Alessandro Filippini “Dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo, abbiamo delle responsabilità. Responsabilità per noi stessi e per gli altri. Chi però si prende la responsabilità spesso si fa carico anche del dolore e della colpa. E con la colpa arriva la paura. E nel momento in cui la paura ha il sopravvento arriva la salvezza. Il Nanga sarà sempre la Montagna del Destino, ma è solo una montagna, una formazione geologica, siamo noi ad attribuirle un’emozione.” dal film “Nanga Parbat, la Montagna del Destino” 48 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Prima edizione italiana, estremamente rara, di “Esplorations round the foot of Monte Viso”, memoria edita nel vol. II, seconda serie di “Peaks, Passes and Glaciers” (pp. 129-177). Resoconto della prima ascensione alla cima del Monviso, effettuata dal Mathews (1828-1901), cofondatore e poi Presidente dell’Alpine Club di Londra, nel 1861. Traduzione di Cesare Saluzzo. Il nome dell’autore è curiosamente storpiato in “Matkews” e tale storpiatura rimase anche nella seconda edizione, pubblicata dal Bovo di Saluzzo nel 1905. Perret, 2864: “L’édition italienne originale est rare et recherchée”. Non in ACL. Di seguito alla relazione del Mathews sono inseriti dal legatore numerosi fogli bianchi, su 59 dei quali è stata manoscritta all’epoca, in nitida grafia corsiva, la traduzione italiana della relazione “Una notte sulla cima del Monviso (4 luglio 1862)” di Francis Fox Tuckett. Anche questo scritto del Tuckett faceva parte, all’origine, di “Peaks, Passes and Glaciers”. Racconti, leggende, poesie... PASS PA SSII Passi, infiniti passi in quotidiana ricerca. Il mondo si apre e noi lo attraversiamo, avanti e indietro e intanto non ci accorgiamo che… Passi, infiniti passi ogni giorno passi; ma non ci sono sempre mete da raggiungere, persone da incontrare, occasioni da cogliere e intanto non ci accorgiamo che… Passi, infiniti passi, passi di una vita la nostra vita i nostri passi; quelli dei nostri famigliari quelli dei nostri amici, quelli che ti fanno sorridere quelli che ti fanno arrabbiare, quelli della gente comune e intanto non ci accorgiamo che… Passi, oramai stanchi passi, lenti, pesanti, radi passi. Talvolta s'incespica anche, dopo ci si siede e allora sì ci accorgiamo che… i nostri passi sono finiti e con essi il nostro cammino. Luciano Comelli (Continua) PASSI 65 LA MORTE DEL GRANDE CIPRESSO Svettavi nel ciel, alto e arrogante umiliavi i pigmei che ti circondavano. Gli uragani, i temporali si spegnevan tra le tue chiome. Nemmen la folgore, che un giorno ti colpì, potè schiantarti. I tuoi rami non davan ombra né quiete né frescura. Si stringevan al tronco e salivano al cielo altezzosi ed egoisti. Cacciaste i merli melodiosi che a primavera deliziavano i nostri risvegli. E i passeri che a frotte trovavan ristoro la notte fra le tue serrate chiome. Ospitaste corvi e cornacchie e il loro gracidar sgradevole. E torme di topi che poser la loro dimora fra i tuoi rami. Non v'era giorno ch'io non dedicassi a te la mia rampogna e non meditassi la mia vendetta. Ogni giorno però ti facevi più alto e più forte ed io più vecchio e incapace. Ugualmente io piccolo uomo disarmato ti avrei abbattuto. Così armato di sol coraggio m'intrufolai nella selva dei tuoi rami adunchi ispezionando e studiando come colpirti. L'impresa che era ardua e rischiosa sollecitò il mio ardire ché dove c'è rischio io mi ritrovo. E cominciò la lotta; ogni giorno una ferita, una mutilazione. Prima i piccoli rami poi i grandi che dal tronco si dipartono. E salivo con rischio e fatica sempre più su fino alle vette che impongono rispetto. E tagliavo uccidendo chi ti aveva protetto. Rimasto spoglio eri ancor forte e superbo ma senza la tua corte eri un re senza potere, senza corona. Così io ti affrontai per l'ultimo assalto e ti tagliai la testa mentre pericolavo appeso ad un troncone. Poi giù, sempre più giù tagliando e squarciavo fino alla distruzione completa. Quando giacesti in rami e tronchi recisi che invadevano i giardini circostanti io non ne fui felice. Ché è sempre triste la morte di un gigante anche se non ci fu amico. Ora spero che, fugati i corvi e le cornacchie tornino i merli a melodiare a primavera e i pettirossi coi primi freddi e i passeri e gli uccelletti, or senza tema, a rallegrar i nostri giardini. La tua morte, cipresso maestoso, m'illuse che ancor lontano è il mio declino. Pura illusion poiché è vicino il dì della mia grande sconfitta in cui non v'è né appello né rivincita. Spero solo di non lasciar rami appassiti e futura cenere. Luigi Rotelli LA MORTE DEL GRANDE CIPRESSO 67 LA SORGENTE DI TRE CRODE di Lorenzo Gagliardi "Dopo Cella tu incontri Villapiccola e ti si offre bello dinanzi il tempio di San Lucano a stile greco, colle sue belle gradinate, col suo atrio, colle sue svelte e graziose facciate e colla cupola ardita che si slancia al cielo. Per mezzo Villapiccola passa l'Osterra, rio che dà acqua a vari molini e fontane." Antonio Ronzon - Almanacco Cadorino d Auronzo, nella frazione di Villapiccola, partendo da piazza Rizzardi e seguendo via Saletta, si può risalire per la valle Osterra attraversata dall'omonimo torrente. In località Tre Crode sgorga una sorgente d'acqua ferruginosa, che si getta nel torrente. Un tempo l'acqua, per le sue proprietà curative, veniva fatta bere alle persone anemiche ed alle donne che avevano da poco partorito. Non tutti però sanno che questa sorgente ha un'origine leggendaria. Tanti anni fa, a pian da Lai, la montagna che si trova sopra la sorgente, viveva Stefen, un uomo grande e grosso e con un caratteraccio. La sua casa era costituita solamente da due stanze: in una viveva e nell'altra lavorava. Stefen era il più bravo fabbro di Auronzo. A quel tempo, infatti, erano numerose le botteghe di fabbri ed anche i mulini che sfruttavano la ricchezza delle acque e la pendenza dei torrenti di Auronzo. Nonostante il suo carattere burbero, molta gente si recava nella sua casetta isolata per farsi costruire ciò di cui aveva bisogno. Il fabbro era un tipo rude e di poche parole, non gli interessava entrare in contatto con la gente ed anzi pensava di non aver bisogno di nessuno ma gli incidenti possono capitare anche ai più bravi! Per molti mesi Riccardo e sua madre, ogni giorno si recarono nella casetta di Pian da Lai per medicargli le bruciature che si era procurato. La donna usava un unguento che soltanto lei sapeva estrarre dalle piante. Anche quando le ferite furono guarite, Riccardo continuò a far visita al fabbro, aiutandolo a battere il ferro. Per la prima volta in vita sua, Stefen aveva un amico. Un giorno, però, il ragazzo non si fece vedere e così pure il giorno seguente ed il giorno dopo ancora. - Lo avrò mica trattato male od offeso in qualche modo? - pensò Stefen. L'uomo però si sbagliava e lo capì quando vide arrivare la mamma del ragazzo sulla porta della A 68 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 N Auronzo nel cianton de Vilapizola, dopo de la piaza e su por via Saleta se rua de la val de Ostera, agnò che pasa l gioù. Su n Tre Crode, sauta fora na pola de aga feruginosa che va a finì inze de l rin. Nota sta aga vinìa fata bee da la dente anemica e da le femene che le avea partoriù da poco. Forse nesùn però i sa come che e nasùda sta aga. N bar de ane fa, a Pian da Lai, la croda che se scorde sora la pola de aga, viviea Stefen n on gran e gros ma con un bruto far. La so ciasa avea solo doe stanza: de una l viviea e de chel autra l lauraa. Stefen era l pì brao fauro de duta la val. Alora era n bar de boteghe de faure e anche n bar de molis por podè dorà dute chele aghe che le ruaa do da n bar de rin. Anche se l era stranbo, tanta dente dea da lui porcè che i avèa besùoi de algo. Lui stasea su le soe, l credea de no avè mai besuoi de nesun. Ma na dì, de bonora, anche lui se a fato mal. Por n bar de mes, Ricardo e so mare i dea da lui por medeasi co le pomate fate co le erbe che la mare de Ricardo ciataa por le vare. Anche daspò che l fauro era guariù, l bocia l dea senpro a ciatalo e a idialo a laurà. Era l primo amigo che Stefen avea avù, n duta la so vita. Na bonora, però, l bocia nol se a fato vede e nianche le dornade daspò. Stefen l pensaa su se por caso i avea fato algo de mal. sua bottega. - Stefen, è successa una cosa terribile! - disse subito la donna - Riccardo è molto ammalato. E' pallido, non riesce neppure a reggersi in piedi. Ho provato ad utilizzare le erbe che conosco, ma non ho ottenuto niente. Stefen era addolorato e sconvolto: finalmente aveva un amico che lo ascoltava e lavorava con lui, lo aveva salvato dal fuoco e lui, invece, non poteva fare nulla per lui. Il fabbro sapeva che ai piedi dell'Ajarnola viveva la Reduoia, una strega potente, ma scorbutica ancora più di lui: non scendeva mai in paese; solamente il 6 gennaio percorreva le vie di Auronzo, trascinando le sue catene e spaventando tutti. - Andrò dalla Reduoia - disse tra sé Stefen - e chiederò il suo aiuto per Riccardo. Non volendosi presentare a mani vuote, il fabbro prese il più bel secio da aga che aveva fabbricato e si avviò verso l'Ajarnola. Che fosse per il secio o perché stupefatta per l'insolita richiesta di aiuto, la Reduoia acconsentì ad aiutare Stefen. - vai proprio sotto le Tre Crode - gli disse - e con il martello più grande che hai e con tutta la tua forza, batti sulla roccia: se sarai abbastanza forte, vedrai uscire dell'acqua, falla bere al ragazzo e vedrai che guarirà. Subito il fabbro tornò in paese e giorno dopo giorno, incurante della fatica, passava le sue giornate a battere la roccia, tanto che in paese pensavano che fosse diventato matto. Sembrava tutto inutile e quasi quasi Stefen incominciava a credere che la Reduoia gli avesse voluto fare un brutto scherzo. Un pomeriggio, stanco ed amareggiato, lanciò il suo pesante martello contro la roccia, esclamando - È tutto inutile. Riccardo sta molto male ed io ho sprecato il mio tempo battendo su una pietra! Improvvisamente la roccia iniziò a sgretolarsi ed un getto d'acqua investì il fabbro. Era un'acqua speciale con il colore della ruggine ed il sapore del ferro. Subito Stefen riempì una brocca e la portò alla mamma di Riccardo; a poco a poco il ragazzo iniziò a riprendersi finché guarì completamente. Ancora oggi, molta gente si reca ai piedi della grotta di Tre Crode per bere l'acqua ferruginosa, senza sapere sicuramente quale è stata la sua magica origine. Ma na dì rua la mare de Ricardo. La e desperada porcè so fiol e n bon tin maloù. Le so erbe no le a fato nuia de bon, So fiol no l sta nianche n pè e ela no sa pì ce fei. Stefen era n bon tin aviliù: finalmente l avea ciatoù n amigo e chesto se mala de longo. Al fauro vien n bota n mente che sote l Ajarnola vive la Reduoia, na strega ncora pì salvarga de lui. La era anche na trista. Nota a l an, l siè de genaro, la vien do n piaza co le so ciadene e la fei ciapà paura a dute i boce. E cusì Stefen decide de dì su da la Reduoia che la a belo salvou n poche de tosate. Por no dì a man vuoite, l porta l pì bel secio por l aga che l avea fato. La Reduoia contenta n bota l fauro e i dìs de bate co n martel su la croda, l vedarà vinì fora aga. L dovrae fei bee chesta aga al tosato e l starà meo n bota. Subito l fauro l va do n Pian da Lai e por dornade ntiere l bate su por la croda. La dente che lo vede l ciapa por mato. Ma nuia, l aga no rua. Cuan che no l po' pì, l ciapa l martel e lo sbate inze por la croda. Nbota l vede na pola de aga color de l rusen e col saor de l fer. Stefen vienpe nbota na sea de chela aga e l core a ciasa de Ricardo. L bocia bee l aga e n tin a lota l vien a sta meo. Ncora ncuoi tanta dente va sote la grota de Tre Crode por bee l aga che fei tanto ben, anche se poche i sa la storia de chesta aga. LA SORGENTE DI TRE CRODE 69 Abbiamo letto per voi A chiusura dei miei testi sul “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati pubblicati nei N. 24-25 di QVOTA 864 scrivevo: “Non so se questa mia lettura del capolavoro buzzattiano sia stata una lettura ortodossa. Ne affido il contenuto al Lettore per ogni possibile contributo”. La risposta è andata oltre ogni aspettativa. Pur nella divergenza delle considerazioni che sono scaturite lo ritengo un esito insperato, mi auguro foriero di ulteriori sviluppi. g.g. LA MONTAGNA E LA CURIOSITA’ DI ÖTZI per andare a cercare aiuto dall’altra parte. D’altro canto gli uomini preistorici avevano da tempo trondubbiamente siete una vato i passi - attraverso selle banda di egregi letterati trae forcelle da poco libe-rate vestiti da montanari! dai ghiacciai würmiani - per Non bastava l’intrigante riletcomunicare con l’altro vertura del romanzo, se tale è, sante: vedansi le vie del di Dino Buzzati, che mi ha rame, dell’ambra, ecc. colpito per la chiarezza della Possiamo allora dedurre che visione della vita dell’uomo e la montagna abbia fatto ancor più per gli incisi di g.g. paura agli uomini di epoche decisamente grondanti poein cui era più comodo restare sia pura; ci voleva anche nella villa signorile, nel quella colta disamina sull’apboschetto lezioso, nella pur parire della montagna nelle Il volto di Ötzi secondo Kennis faticosa campagna, ma che opere dell’Uomo che Alberto Museo Archeologico dell'Alto Adige non abbia mai impressionato Galvan sciorina bellamente Foto Ochsenreiter © l’uomo curioso della realtà con una dovizia di particolari delle cose e non delle pulsioda impressionare anche Giuliano Amato, presi- ni mentali e cordiali evocate da un relativo dente Treccani. benessere improntato da giochi filosofici spesso Vorrei sottolineare tuttavia un particolare che fini a se stessi? non è stato evidenziato in tale disamina: il pen- In questi periodi non serviva conoscere o amare siero dell’uomo preistorico in tale contesto. la montagna, era una cosa mostruosa al margiE’ ben vero che dal Medioevo al Romanticismo ne della comunità, che menti disadattate riempicontadini e dotti hanno avuto della montagna un vano di mostri evocati da letture distorte, talora concetto negativo, fatto di paure indotte dalla anche dei testi sacri. religio più retriva e sostanzialmente dall’ignoran- Gli stessi grandi nomi delle artri figurative, za allevata nei salotti a forza di chiacchiere arca- quando cominciarono a riprodurle nelle loro diche e nelle campagne coltivata dal terrore per opere, ne fecero qualcosa di astratto, lontano, lo sconosciuto alimentato ad arte dalle comunità fanta-smagorico: non erano nel cuore e nella monastiche, almeno da molte di esse. Rimane il mente come essenze meravigliose, ma come fatto che nella preistoria tali atteggiamenti este- bastioni avversi. riori ed interiori non vennero più di tanto consi- Solo qualche pazzoide cominciò, ben tardi, a derati e diffusi. fare il geologo autodidatta; ma erano mosche Un esempio per tutti considero sia l’Uomo di rare, per fortuna destinate a proliferare col Similaun, che gli austriaci male hanno fatto a tempo. battezzare Ötzi, poiché il suo nome doveva Chiedo scusa, mi fermo, ma mi avete indotto voi essere Bepi, in quanto proveniente dal meri- a questi pensieri. Che Dio vi benedica. dione delle Alpi, essendo stato trovato nel suo Vaia Franco mantello di fiene del polline di piante della pianura veneta o comunque del versante meri-dio nale delle Prealpi. Quell’uomo, dunque, stava coraggiosamente risalendo la montagna verso il crinale, per superarlo, per andare a vedere al di là, fosse anche I 70 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 LA MONTAGNA, LA LUNA E L'ALTRO di Alberto E. Galvan o, gentilissimo Glauco, proprio non mi riesce di considerare il Drogo del Deserto dei Tartari un "vittorioso". Mi permetta di anticipare schematicamente - nel tentativo di essere più chiaro quelli che potrebbero risultare degli argomenti un poco complessi. Il nostro tenente non ha mai seri dubbi e non prende coscienza della probabile assurdità del suo destino. Accetta in modo acritico l'assenza di dialogo all'interno delle opposizioni; non vede, soprattutto, sfumature fra "oggetto e soggetto". E' bloccato in una visione senza via d'uscita perché irrigidita in un'opposizione nella quale è fortemente sbilanciato verso ciò che gli è "esterno", cioè la situazione in cui vive. Considerarlo vittorioso non comporterebbe forse di dover considerare tale proprio chiunque, alla fine della vita, si prepari, magari anche con semplice rassegnazione, come in questo caso, al passaggio verso un qualsiasi altrove: una sorta di viatico che non si nega proprio a nessuno? Lei scrive che Drogo, alla fine, intravede una luce che sta per sorgere. Ma già gli era capitato nel corso di tutta la vita di prendere - chiedo venia per il sarcasmo - qualche abbaglio in tal senso. Già diverse volte aveva visto in lontananza accendersi una piccola luce che avrebbe dovuto crescere sempre più e venirgli incontro ed invece se n'era andata e venuta e, finalmente, spenta. E poi non è per nulla sicuro che ciò che egli aveva intravisto in passato corrisponda alla presenza che, alla fine, si materia-lizza aldilà della frontiera. Resta il dubbio che si possano sempre prendere lucciole per lanterne. Su quella possibilità tanto aveva scommesso, è vero, ma guarda caso, mai, né lui né i suoi commilitoni, avevano preso in considerazione la possibilità di andarle coraggiosamente incontro. Perché non l'aveva fatto? Cosa delimitava quella frontiera montana per essere così inviolabile e bloccare proprio tutti in un'eterna attesa? Potremmo interpretarla come frontiera fra la vita e la morte. Drogo e molti altri prima di lui, avrebbero agognato tutta la vita la morte eroica nello scontro col nemico e conseguente passaggio alla gloria, ma per un'ingiustificata beffa del destino, tale sogno non si realizza per loro; si realizzerà probabilmente per dei giovani che forse N neanche l'hanno mai avuto quel sogno. Drogo e gli altri devono accontentarsi semplicemente di spegnersi. Equivarrebbe a sostenere che prima Drogo attendeva la luce del dio-padre, intesa come speranza di morte, perchè lo illuminasse di una luce guerriera (suicida?), ma ne ha avuto solo insoddisfacenti riflessi. Ora sa che arriverà la luna, che comunque egli non vede, e che assumerebbe un significato stranamente indeterminato. Se vogliamo vedere un'evoluzione dall'iniziale illusione alla finale disillusione, possiamo ammettere che una maturazione ci sia: nell'accettazione. Interpretazione tutta esistenzialista che, dato il momento in cui il romanzo è stato scritto, è ben plausibile. Ma l'esistenzialismo denuncia che il destino è uguale per tutti; e, guarda caso, lo scontro con il nemico da parte dei giovani soldati che salgono alla fortezza resta significativamente fuori del racconto: non "esiste" nell'economia del libro. Il racconto risulterebbe allora stranamente contraddittorio e non vi si potrebbe certamente rinvenire possibilità di "vittoria" alcuna. Tanto più che fra l'inizio e la conclusione della sua esperienza non si rileva nel personaggio nessuna sostanziale differenza; come in tanti eroi di Sartre, Beckett o Camus appunto. A rinforzo dei miei dubbi, ricordiamo che la luna, in tutta la nostra cultura e soprattutto presso i romani che la concepivano come Trivia, assume non solo i significati di nascita, vita e morte ciclo che si conclude - ma anche di nuovo inizio. Eterno femminino, considerato come forza vitale creativa dell'universo. Solo a partire dal romanticismo la sua immagine assume soprattutto la valenza di ritorno al grembo materno, all'inconscio e a quei lati della persona che si esprimono attraverso i sogni ed i comportamenti inconsapevoli. L'evoluzione del personaggio Drogo andrebbe dunque dalla luce marziale del sole-padre che evidenzia, netta come la legge, i contrasti del reale, a quella materna, struggente, indefinita e solitaria che ricorda l'appressarsi della morte quale rientro in un indistinto originario. D'accordo, ma in cosa consisterebbe la sua "vittoria"? Quale sarebbe l'arma meritoria del tenente: forse la sua passività esistenziale? Non ha avuto praticamente alcuna vita affettiva e, alLA MONTAGNA, LA LUNA E L’ALTRO 71 Il tenente Drogo, nel film di Vittorio Zurlini “Il deserto dei Tartari” dal romanzo omonimo di Dino Buzzati la fortezza, non ha alla fin fine nessun amico e, guarda caso, non avrà nemmeno un "nemico" degno di questo nome. Drogo ha rinunciato a tante vite possibili e del tutto inutilmente, visto che il Caso, lasciato libero nella sua stupidità, non si occupava affatto dei suoi desideri. Arriverei quindi a dire che lo vedo piuttosto "perdente". Mi chiedo perché mi si presenti insistente il ricordo del racconto "Il Veglio della montagna" nel Milione di Marco Polo. Alaodin aveva fatto costruire tra i monti del favoloso medioriente, un giardino ed un palazzo meravigliosi che assomigliavano molto al paradiso promesso dal profeta Maometto. Egli vi ammetteva "se no' colui che egli voleva fare assassino". L'entrata consisteva in un passaggio attraverso l'incoscienza: "quando lo veglio ne faceva mettere nel giardino, a quattro, a dieci, a venti, egli faceva loro dare a bere oppio e quegli dormivano bene tre dì; e facevagli portare nel giardino, e al tempo gli faceva isvegliare (…) e veramente si credevano essere in paradiso". Allo stesso modo il vecchio li fa tornar fuori e i giovani "molto si maravigliano e sono molto tristi". È così che, pur di tornare nel paradiso perduto, quei giovani sono disposti a 72 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 qualsiasi scelleratezza chieda loro colui che ritengono un gran profeta. Ciò a cui sono spinti è un atto di fede acritico; non si pongono nessuna domanda a proposito di quel passaggio brusco dal reale al paradiso. Sono disposti a tutto: non solo uccidere, ma anche essere uccisi; ognuno di loro "se è perso, vuole morire, credendo ritornare al paradiso". In un primo momento avevo temuto fosse la parola montagna a richiamarmi alla mente questo passaggio, invece credo sia il cortocircuito della coscienza, l'assenza di dubbi sulle alternative, l'accettazione testarda di un'opposizione manichea: dentro/fuori, noi/loro, amico/nemico, fortezza/città, vita/morte. Innegabilmente la psicologia di Drogo è strutturata su tale opposizione, con l'aggravante - dal mio punto di vista e lo ripeto - che manca nel personaggio l'accettazione cosciente di tale gioco; cosa che gli darebbe la dignità di una sorta di filosofia di vita. Solo così si potrebbe parlare di una qualche "vittoria" da parte sua. Invece egli è, come direbbe Jung, ciecamente sbilanciato verso l'esterno. Penso, a questo proposito, al romanzo di Julien Gracq, “La riva delle Sirti” (1951); opera che, guarda caso, è stata in continuazione sospettata di rifarsi al Deserto dei Tartari (1940). L'atmosfera è piovosa, fangosa, nebbiosa, scivolosa; tutto dà il sapore della decadenza: dai muri dei palazzi alle coscienze degli individui, al potere che regge lo stato di Orsenna: potenza marittima le cui città fanno un po' pensare a Ravenna, ma soprattutto a Venezia. La vita sociale vi è essa pure in totale decadenza; i valori civili e morali sono corrotti e nessuno sembra vedere alternativa alcuna. Nemmeno gli antichi e perdenti indigeni maya che stanno stoicamente nel fango, sotto la pioggia, pur sembrando depositari di antiche quanto trascurate verità. Tutto è pervaso da un fatalismo decadente e surreale come se la fine del mondo fosse sempre incombente e sempre rinviata. Di tutto questo, però, chi detiene il potere è ben cosciente. Si tratta di un'oligarchia di vecchi, infidi, gelosi e corrotti. Potere che potremmo tranquillamente definire mafioso e che, per mantenersi, sa sfruttare la situazione cinicamente. Anche qui sembra che la causa di ogni male sia il silenzio del nemico storico che ormai da tempo immemore tace nelle sue terre lontane, aldilà del mare delle Sirti. Con la sostanziale differenza che qui il cosiddetto potere è ben cosciente che l'opposizione al nemico non è reale. Proprio per riattivare quel gioco con una provocazione, un po' scientemente un po' per equivoco, è stato inviato in missione aldilà del mare il personaggio principale. Gioco drammatico, certo; che porterà distruzione, certo, ma proprio per questo dovrebbe immettere nel paese una ventata di adrenalina che riattiverà le arterie di quel vecchio corpo sull'orlo della putrefazione. Tutto ciò perché nessuna alternativa sembra possibile. Commenti sul piano ideologico e rapporti con il nostro presente sarebbero fin troppo facili. E' forse proprio per questo che non mi riesce di provare simpatia per Drogo, anche alla fine della sua parabola. Cosa rimpiange: di non aver partecipato attivamente a quel gioco, visto che la morte sembra dispiacergli solo per questo? Non sarà per caso tanto più patetico in quanto, a ben vedere, egli vi ha di fatto partecipato, ma non se ne rende conto? Non ha minimamente coscienza che la stupida opposizione Io/Altro che egli ha sperimentato giorno dopo giorno nelle ingiustizie che egli ha subito, o perlomeno nella meschinità di chi gli stava accanto, aldiquà della frontiera, è solo il riflesso in tono minore della sognata ed eroica opposizione Io/Nemico. Nemmeno alla fine lo sfiora il dubbio - il quale non è proprio nelle sue corde - che l'opposizio- ne eroica che ora egli invidia nei giovani, forse non esiste proprio per nessuno. Non muove un passo nella direzione che forse lo avrebbe consolato. Ma proprio questo è il punto: come consolarsi? Cercare di vivere nella "totalità", giorno per giorno, qui ed ora, senza porla altrove è un'aspirazione che ha fatto produrre all'essere umano l'immagine del paradiso. E da sempre l'impossibilità di renderla reale sembra causata dalla presenza dell'Altro; ricordiamo la celeberrima conclusione di A Porte Chiuse (1943) a cui arrivano i tre personaggi di Sartre: "l'inferno sono gli altri". Sembra eterna l'aspirazione a cancellare quell'opposizione, quella frattura nella quale pare radicarsi la parzialità del destino di ognuno, anzi del nostro stesso essere. Di qui la fede in un passaggio all'eterno concepito come felicità perchè corrisponderebbe alla completezza definitiva, all'unità ritrovata: negazione dell'esistenza come ex-sistere. Per chi crede in Dio la soluzione arriva dopo la morte, nella vita eterna. Glauco sembra ritenere sia questo il caso di Drogo. Ma perché allora avrebbe vissuto tutta la vita in tensione verso il nemico che arriva troppo tardi per lui? L'equazione Dio-Nemico ed il rapporto MorteLuna-ritorno a Dio non mi sembra qui davvero proponibile. Forse sarebbe più credibile una sia pur disinvolta lettura psicanalitica: nemico-solepadre e di contro morte-luna-madre. La definirei disinvolta perché vedere nella morte di Drogo un recupero dell'unità del Sé simboleggiata dall'immagine della luna-utero materno - e questo quale allusione al recupero di una junghiana unità attraverso il dialogo con l'inconscio - mi sembra altrettanto poco probabile. Per Jung l'anima è la tessitura del rapporto con il mondo interiore e per questo suo rapporto con l'inconscio essa ha un carattere misterioso e metafisico. Va subito ricordato che per lo psicanalista svizzero "metafisico ha il significato psicologico di inconscio" e che l'anima è "demoniaca, perché attraverso essa trapela l'oggetto interno con quale è collegata, cioè l'inconscio collettivo superpersonale". Per situare ancora più chiaramente la mia riflessione ricorrerò ad un'ultima osservazione di Jung: "fra la religione di un popolo e la sua vita reale esiste sempre un rapporto di compensazione". Vale a dire che quando Jung intende additarci una via alla consolazione - cosa di cui proprio tutti avremmo bisogno - intende farlo su un piano totalmente LA MONTAGNA, LA LUNA E L’ALTRO 73 "immanente", non ricorre a nessun aldilà extraumano o extra-temporale. La lotta a suo avviso è tutta tra introversione ed estroversione; tra mondo inconscio e mondo esterno; lotta che nessuno ignora perché "nessuno può sottrarsi a entrambe le realtà". Lotta che si svolge tutta nel teatro socio-culturale in cui ci muoviamo. In “Tipi Psicologici” (1920) Jung fa un excursus storico di come l'uomo occidentale ha cercato, nei secoli, di colmare la scissione che da sempre sente in se stesso. Rimprovera Nietzsche quando vede la soluzione nell'Arte; lo apprezza in Zarathustra perché "più vicino alla realtà" e, in generale, quando scrive che la vera soluzione del conflitto tra gli opposti "è superato non dall'arte, ma da un metafisico atto prodigioso di ellenica volontà". Come dire, secondo Jung, un prodigioso atto inconscio; "un prodotto nato spontaneamente senza l'intervento della ragione e dell'intenzione; si produce come un fenomeno di crescita della natura creatrice e non risulta da un processo ideativo (intendi da un "progetto") della mente dell'uomo; è una nascita prodotta dall'attesa, dalla fede e dalla speranza". Com'è risaputo per Jung il fulcro produttivo che genera e rigenera tale fenomeno è il simbolo. Egli trova nella cultura orientale la conferma che il " microcosmo che riunisce in sé gli opposti del mondo, corrisponde al simbolo irrazionale che riunisce opposti psicologici". Il simbolo, egli scrive, è generativo, creatore di immagini, dynamis per antonomasia, della quale costituiscono un unico motore la libido e la fantasia, ma soprattutto il loro trattamento per "metodo riduttivo" o per "metodo sintetico". Entrambi si completano a vicenda in "una funzione trascendente"; ricorda, in proposito, che "il concetto goethiano di sistole e diastole (…) coglie nel segno". Poiché la vita non tollera alcuna forma di stasi quando l'energia vitale ristagna e si accumula, creando una situazione che potrebbe diventare intollerabile, dalla tensione fra gli opposti nasce quella nuova funzione che supera gli opposti e li unifica nel "motivo centrale" di cui il simbolo vivo è materializzazione. La Coscienza e la Volontà vi troveranno la possibilità di un "passaggio da un atteggiamento a un altro". Già in Mastro Eckhart Jung rileva l'intuizione che quando la separazione viene abolita nell'identificazione dell'Io con la dynamis dell'inconscio, Dio scompare come oggetto e diventa soggetto non più distinto dall'Io. Vale a dire che l'Io, non più 74 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 prodotto dalla differenziazione, "viene di nuovo identificato col mistico e dinamico rapporto totale". Il simbolo ci dice che è sempre possibile "una nuova manifestazione della vita" (ed il motivo del rinnovamento del dio, presente in tutte le culture, ne sarebbe la prova); attivando tutti i contenuti rimossi e non-riconosciuti, avvia l'enantiodromia: la trasformazione e rivoluzione cosciente dei valori fino ad allora riconosciuti. Drogo, invece, è come se fosse caduto dentro il simbolo della fortezza e dell'opposizione all'Altro/Nemico, senza potervi trovare la forza per rinnovare i suoi rapporti con la "realtà". Ritrovo ancora Jung che scrive "l'uomo è senza dubbio capace di meccanizzarsi, però non fino al punto di rinunciare totalmente a se stesso senza riportarne danno. In altri termini, più si identifica con una sola funzione caricandola di libido, più libido sottrae alle altre funzioni (…) più queste reagiscono". E' proprio ciò che accade all'eroe di Buzzati; si è identificato e auto-alienato totalmente all'Altro e la libido rimossa lo punisce facendolo allontanare in continuazione dall'Altro: non arriverà mai il momento buono per lui e non ci sarà nessun altrove. Di quest'ultimo aspetto non è ben chiaro se il personaggio è cosciente; il romanzo, nella sua diegesi, lo è certamente. Il "peccato" di Drogo, direbbe Jung, è quello di essere troppo unilateralmente estroverso; c'è in lui "prevalenza del fattore oggettivo nell'evento psichico (…) assimilazione del suo soggetto all'oggetto". Vale a dire "una dannosa regressione del fattore soggettivo (…) la sua coscienza guarda verso l'esterno perché la decisione determinante gli arriva sempre dall'esterno (…) le leggi morali dell'agire coincidono con le corrispondenti esigenze della società e rispettivamente con la concezione generalmente accettata". Osando un po', sull'esempio di Jung, definirei Drogo un tipo estroverso con bisogni inconsci dal carattere egoistico ed infantile. Egli sa soprattutto desiderare, ma "il suo conformarsi al dato oggettivo e la sua assimilazione ad esso ostacolano la coscientizzazione di buona parte dei moti soggettivi". Quest'ultimi, dunque, vanno ad accumularsi nell'inconscio dove producono "immagini" compensatorie. In Drogo sarebbe per l'appunto atrofizzata la funzione di "compensazione-bilanciamento"; quella che sa autoregolare l'apporto psichico, sospendendo gli opposti ipostatizzati, e rilanciarne in continua-zione il "gioco". È quello che Jung chiama "metodo costruttivo che mira a costruire un senso del prodotto inconscio rapportato al futuro atteggiamento del soggetto", correggendo così l'orientamento conscio che può anche, in casi estremi, portare il soggetto in un vicolo cieco. È quanto già insegnava il Zarathustra nietzschano: accettare le trasformazioni del cuore; accettare di fare la spola fra il rifugio sulla montagna e la pianura degli uomini che vivono in società, perché esistere è relazione. Il vero uomo, il superuomo, è tutto nel mondo; è il senso della Terra. " La grandezza dell'uomo è nell'essere un ponte e non una meta: ciò che si può amare nell'uomo è il suo essere una transizione e un tramonto; egli dona sempre e non vuole conservarsi". Nel romanzo di Buzzati la dimensione verticale Basso/Alto comporta l'opposizione orizzontale ed univoca verso l'Altro; non c'è spazio per il guerriero nietzschano che non è in guerra contro gli altri, bensì contro tutto ciò che limita la libera evoluzione dell'essere umano. In Nietzsche è sempre chiara la coscienza che "se all'umanità manca lo scopo, manca anche essa stessa". È in nome di questa tensione che egli ci invita a fuggire ciò che è "prossimo", come ciò che è "remoto" e perseguire invece il futuro. Drogo è certo uno di quegli uomini di cui Zarathustra potrebbe dire ironico "che hanno buttato via il loro ultimo pregio, quando hanno buttato via la loro dipendenza". Infatti il nostro tenente vi si tiene saldamente aggrappato. Cosa saprebbe rispondere alla domanda: "sei in grado di dare a te stesso il tuo male e il tuo bene e di fissare sopra di te la tua volontà come una legge? Riesci ad essere giudice di te stesso e vendicatore della tua legge?". Come non pensare all'ultimo Camus, quello della Chute (1956), in cui l'uomo totalmente libero è anche totalmente responsabile del proprio destino: giudice-penitente di se stesso. Il suo tormento è la coscienza di aver troppo spesso perso l'occasione di andare verso l'Altro per istinto di fratellanza; vogliamo dire per amore del 'prossimo'?. Solo cosi, credo, è giustificabile l'attaccamento di Zarathustra per gli esseri umani e quel junghiano rimettere le posizioni continuamente in gioco. Gioco le cui carte, come abbiamo visto, sono esclusivamente terrene, umane, sociali. Drogo è uno di quegli eroi che oramai non sanno più dare in modo "gratuito". Già il Saint Julien di Flaubert (1877) era condannato all'in- felicità; aggressivo ed assassino verso tutto ciò che è Altro. Si salva solo quando il suo "cuore di pietra" si scioglie e passa alla santità cedendo al richiamo dell'Altro con passiva generosità. Certo l'autore sembra giudicarlo un santo un po' "stupido", come aveva fatto con Felicita, nel racconto precedente, e come farà in quello successivo con San Giovanni Battista. Flaubert, sempre amarissimo, sembra dirci che per l'uomo moderno l'unica possibilità di salvezza sta in una sorta di stupida accettazione; chi si ribella sarà preda di una continua quanto inutile sofferenza. Un secolo e mezzo dopo, quella negativa sensazione di inutilità e di perdita non deve avere più corso. Sappiamo ormai di aver perduto solo delle illusioni che si erano cristallizzate fino all'assurdo proprio perché, come ribadirebbe Jung, la nostra cultura e il nostro Io erano troppo sbilanciati da un lato. Drogo è restato prigioniero di quella "stupidità" esattamente come lo è stato il tipico eroe esistenzialista; prigio-niero, fino all'assurda autodistruzione, di tante piccole opposizioni che si possono riassumere in quella più ampia di Io/Altro. Eppure già nel 1944 Daumal scriveva il suo Monte Analogo, pubblicato postumo ed incompleto nel 1952. Romanzo "d'avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche" che sembra, pari pari, un'illustrazione di quanto Jung pensa del simbolo. Storia di una spola continua fra l'Io e l'Altro, il dentro e il fuori, l'alto e il basso e che sembra tutta costruita attorno alla domanda finale: "E voi cosa cercate?". Come conclusione, mi permetto di fare la morale a tutti noi. Per essere "vittoriosi" bisognerebbe non solo, come raccomanda Camus "immaginare Sisifo felice" (potrebbe restare il dubbio che quella felicità sfumi un po' nella stupidità); bisogna immaginarlo speranzoso e costruttivo. "Non la vostra provenienza bensì il vostro fine costituisca d'ora in poi il vostro onore", ci intima Zarathustra, e poi precisa "voi dovete amare la terra dei vostri figli; questo amore sia la vostra nuova nobiltà (…) Nei vostri figli dovete riparare di essere figli dei vostri padri: così dovete redimere tutto il passato". Che il paradiso consista, alla fin fine, nel non avere troppa cattiva coscienza in tal senso? Cosa non molto facile soprattutto in tempi come questi. "Aspiro forse alla felicità? - conclude Zarathustra - no! Alla mia opera aspiro!" LA MONTAGNA, LA LUNA E L’ALTRO 75 UN UOMO D'ALTRI TEMPI E D'ALTRI LUOGHI di Bruna Vecellio. A cura di Paola De Filippo Roia Quasi per caso mi è capitato tra le mani questo testo che mi ha dato l'opportunità di scoprire una grande persona, fino a ieri a me sconosciuta. La nipote Bruna, forse per una forma di modestia o per dimenticanza, ha però omesso di scrivere che il nonno Silvio è stato anche Presidente della Magnifica Comunità di Cadore negli anni 1917 e 1918 e che è stato insignito del titolo di " Cavaliere Ufficiale". Questo brano presenta anche particolari e simpatici aneddoti che ci fan capire la diversità dei tempi e la caparbietà dei nostri antenati auronzani. Farà piacere ai figli della Signora Bruna ed alla sorella Maristella un ricordo del bisnonno e nonno. Ma colgo l'occasione per un pensiero al figlio di Silvio: Bruno Vecellio, che con passione e capacità ha guidato la nostra sezione del C. A. I. per una decina d' anni negli anni '60. a figura di Giordano Bruno mi è sempre stata familiare - per quanto imprecisa - fin da quando ero molto piccola perché legata ai nomi di mio padre Bruno e di suo fratello Giordano e perché mio nonno amava raccontare la storia della scelta di questi nomi. Il nonno Silvio, che si definiva libero pensatore socialista, quando nasce il suo primo figlio maschio decide di chiamarlo Giordano Bruno. Siccome il neonato è un po' gracilino, viene portato subito in chiesa per essere battezzato ( non è questione di incoerenza; il nonno infatti sosteneva che Gesù Cristo era stato il primo pensatore socialista ), ma il parroco si oppone fieramente a che un povero innocente venisse chiamato con il nome di un eretico. Il nonno reclama il suo diritto a chiamare il figlio come vuole lui; ne nasce una disputa; infine viene trovato un compromesso ed il bambino viene chiamato Bruno. Qualche anno dopo, però, il nonno si prende la rivincita ed il suo secondo figlio viene battezzato con il nome di Giordano. Io adoravo il nonno e le sue storie; per me era un UOMO "GRANDE" in tutti i sensi, anche se quello che raccontava non era sempre adatto a far crescere una ragazzina obbediente e disciplinata, come ad esempio la storia del perché non divenne mai avvocato. Scena. Un'aula del liceo classico di Venezia. È una mattina di inizio giugno del 1883, piena di sole. Durante la lezione, due giovani siedono nell'ultima fila su due diversi banchi con uno stretto corridoio che li separa. Afa...noia... la voce del professore sta salmodiando qualcosa... Uno dei due giovanotti indossa quel giorno un completo di lino bianco. Ad un certo punto uno si china verso l'altro e gli propone: "Andiamo al Lido a farci un bagno, nel pomeriggio?". Il professore si ferma, prende il calamaio di vetro che ha sul tavolo e lo lancia contro i due amici; L 76 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Bruno Vecellio non li colpisce, ma il calamaio va ad infrangersi sulla parete dietro di loro e l'inchiostro schizza sulla giacca bianca. Il giovane, doppiamente infuriato per il vestito rovinato e per il pericolo corso, si precipita addirittura correndo sopra i banchi addosso al professore e gli dà una carica di botte. Conclusione: il giovanotto (mio nonno) viene espulso da tutte le scuole del regno e deve tornarsene al paesello rinunciando all'Università. Non era però nel suo carattere e nelle sue aspirazioni occuparsi solo del commercio di legname. Uomo di acuto ingegno e sinceramente democratico, diviene ben presto seguace del socialismo umanitario di Leonida Bissolati. Nel 1901 viene nominato sindaco di Auronzo e manterrà tale carica per più di diciotto anni, a parte due brevi interruzioni negli anni 1907-09 e 1917-18. È stato un sindaco illuminato, che precorreva i tempi, che progettava alla grande e forse proprio per questo o per le sue idee politiche sarà fortemente osteggiato dalla parte più reazionaria del paese. In quei primi anni del '900 ad Auronzo si verificavano periodiche epidemie di tifo, causate molto probabilmente dal vecchio malandato acquedotto. Il sindaco riesce a far approvare nel 1907 il progetto di un nuovo acquedotto tecnicamente molto avanzato, malgrado l'opposizione di molti consiglieri. Questi avevano sobillato la popolazione prospettandole chissà quali pericoli, tanto che vi fu uno schieramento di donne armate di bastone sulla scalinata del municipio, decise ad impedire al sindaco di entrare per la decisiva seduta consiliare. Quasi contemporaneamente Silvio Vecellio vuole dotare il paese di una centrale idroelettrica, usufruendo della medesima acqua che alimentava l'acquedotto. Erano progetti molto ambiziosi per quel tempo e soprattutto nuovi, e come tutte le cose nuove, era abbastanza naturale che venissero considerate con una certa apprensione e reticenza. Centrale ed acquedotto entrano in funzione nel 1912 e da quell'anno scompaiono le epidemie di tifo che ancora nel 1910 aveva causato numerose vittime. Altro settore nel quale il sindaco Vecellio si è impegnato fortemente è stato quello dell'educazione. Per la verità, Auronzo era già all'avanguardia per quello che riguardava la scuola, tenendo presente che si trattava di un paese di montagna di circa tremila abitanti. Nel 1869, infatti, nella provincia di Belluno soltanto il capoluogo, Feltre ed Auronzo avevano un corso elementare maschile completo di cinque classi. Le scuole femminili erano aperte solo in sedici comuni della provincia, tra i quali Auronzo che ne aveva ben tre. I maestri - che allora erano dipendenti comunali - percepivano ad Auronzo uno stipendio che andava dalle 500 alle 700 lire annue, mentre in provincia di Belluno lo stipendio medio annuale era di 415 lire. Nel 1870 il comune di Auronzo aveva fatto costruire il primo edificio scolastico che però già nel 1910 risultava insufficiente. Approfittando di un'occasione offertagli dal ministero della guerra, il Comune vende questo edificio per trasformarlo in caserma degli Alpini, percependo 17.800 lire. Subito il sindaco inizia la battaglia per la costruzione di un nuovo edificio scolastico. Le discussioni ed i dissidi anche aspri così come si può arguire dai verbali delle sedute del consiglio comunale - vanno avanti per anni, finché finalmente il progetto definitivo viene approvato nel 1914. I lavori poi saranno sospesi allo scoppio della prima guerra mondiale e verranno ripresi soltanto alla fine del conflitto. Così l'inaugurazione di un'opera, fortemente voluta dal Vecellio, si tiene nel 1922, quando gli eventi, prima di tutto il fascismo - ma non solo questo lo avevano allontanato dalla scena politica in un'età in cui molto ancora avrebbe potuto fare per il suo paese. Già nel 1907 aveva fondato la Cooperativa auronzana del lavoro che ha diretto per oltre vent'anni; è stato a lungo Presidente della Società operaia di mutuo soccorso che già in quegli anni organizzava corsi per muratori, falegnami, carpentieri e disegnatori. L'istituzione mantiene tuttora i suoi compiti; ne è stato socio mio padre e poi noi figlie. C'è un episodio che penso non si trovi scritto in alcun documento, ma che ho spesso sentito raccontare in casa. Il Pievano di Auronzo, Antonio Da Rin era morto nel 1905. Nel 1907 viene nominato Pievano don Antonio Puliè. Quando questi si presenta per prendere possesso della sua parrocchia, si trova davanti la popolazione decisa a non lasciarlo entrare perché voleva che rimanesse il Cappellano che nei due anni di sede vacante aveva retto la parrocchia, probabilmente in modo soddisfacente e si era fatto benvolere. Che può fare il povero Pievano appena nominato? Va dal sindaco e questi gli dice: "Reverendo, io non sono un cattolico praticante, ma Lei è stato nominato dal vescovo e ha diritto ad avere il suo posto. Venga con me." E così, passando tra due ali di gente ostile e rumoreggiante, lo insedia nella sua parrocchia da dove non si allontanerà fino alla morte, quarantadue anni dopo. Purtroppo attorno al 1920 cominciano a girare anche ad Auronzo le squadre fasciste. Silvio Vecellio diviene oggetto di insulti; gli viene lordata la porta di casa, ma nessuno osa fargli violenza. Contemporaneamente riprende vigore la vecchia ostilità della parte più retriva del paese; i cosiddetti clericali montano una campagna denigratoria, il nonno è accusato di appartenere alla massoneria e cercano di mettergli contro la gente per la quale tanto si era adoperato! Così nel 1920 Silvio Vecellio si dimette definitivamente dalla carica di sindaco. Per tutto il periodo fascista vive appartato; io ricordo bene quando passavo con lui per la strada come tutti lo salutavano con affetto, chiamandolo familiarmente "Sior Silvio". Ricordo quando a capodanno la banda municipale, alla quale aveva regalato gli strumenti musicali, veniva a mezzanotte a suonare sotto le sue finestre finché egli non usciva per gli auguri ed un bicchiere di vino. È un'immagine questa che ora può far sorridere, un atteggiamento che al giorno d'oggi con ironia si definisce paternalistico, ma a me piace ricordarlo lo stesso con infinita tenerezza e nostalgia. Alla fine della seconda guerra mondiale gli auronzani lo vogliono di nuovo al suo posto in consiglio comunale, ma si tratta di un'elezione più che altro simbolica, arrivata troppo tardi. Ormai Silvio Vecellio ha superato gli ottant'anni e la sua forza d'animo, la sua acuta intelligenza, la sua voglia di fare e di lottare stanno spegnendosi. Capisce, però, che il grande nemico, quello che per più di vent'anni aveva fatto tacere la sua voce e gli aveva impedito di lottare per la sua gente, è sconfitto per sempre. UN UOMO D’ALTRI TEMPI E D’ALTRI LUOGHI 77 STRADE. La Valsugana di Ierma Sega - foto di Giovanni Cavulli Nel precedente numero di QVOTA 864 abbiamo accennato al progetto della rivista di un viaggio alla scoperta delle antiche vie. In una società "veloce" quale è la nostra, parlare di strade storiche - cioè di quelle strade che, edificate tra Otto e Novecento, hanno mutato in maniera determinante la viabilità, distanze e circolazione di merci e persone sul territorio - rappresenta un'opportunità preziosa, che "Il Trentino" offre ai lettori. Un viaggio per capire da dove veniamo e dove stiamo andando. Non solo, ma per poter ripercorrere per un momento quelle strade che facemmo un tempo, ancora giovani, diretti verso le Dolomiti trentine. C'è un luogo metafisico a pochi minuti da Trento che mi piacerebbe farti conoscere". È pressappoco con queste parole che, approfittando di una pausa concessa dalla pioggia battente delle ultime settimane, è fissata la "ricognizione sul campo" alla vecchia strada della Valsugana. Così, ci avventuriamo imboccando l'accesso in prossimità dell'ucita della galleria dei Crozi. [...] La “metafisicità” del luogo? Inizialmente quest’aspetto mi sfugge: troppo invadente, protagonista e rumorosa la vicina superstrada il cui rimbombo è amplificato dal riverbero sulle pareti rocciose. Inoltre mi è difficile scacciare dalla mente l’immagine della Valsugana trafficatissima che oggi tutti conosciamo, di quella Valsugana cioè che Wikipedia definisce “strada provinciale e statale italiana il cui percorso si sviluppa in Veneto e nel Trentino. Inizia a Padova e termina a Trento, dopo avere attraversato parte della pianura veneta e percorso la Valsugana”. Valsugana: un nome, due strade. Quanto si differenziano la vecchia e la nuova? Basta percorrere poche centinaia di metri del vecchio tracciato per trovarsi, all’improvviso, in una dimensione fuori dal tempo. Perché se in un primo momento i passi si allineano su un percorso reso denso dal rumore costante delle automobili e dei mezzi pesanti che transitano a breve distanza sulla Valsugana “nuova”, quando quest’ultima è inghiottita dalla galleria il fragore fastidioso della modernità è subitamente sostituito da altri suoni: quelli degli animali e un altro, più sordo, dato dallo scorrere impetuoso del Fersina sul fondovalle che genera un incessante ronzio, non ancora silenzio ma già non più rumore. Presenza dominante è quella dell’acqua che scorre nella stretta forra ma scivola anche dall’alto in rivoli che lambiscono la roccia, la vege- " 78 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 tazione, i ciuffi d’erba, gli slarghi di muschio, inonda la carreggiata e costringe a scarti improvvisi per evitare le pozzanghere. “Le settimane scorse, prima delle piogge, lì in fondo c’era poco più di un rigagnolo” precisa il fotografo mentre lo sguardo indugia sullo spumeggiare vivace e il fragore del torrente. E la curiosità prende il sopravvento, alimentata dalla possibilità di interrogare. Perché la scelta di documentare solo il tratto che da Ponte Alto porta fino sotto l’abitato di Civezzano? “Anche se ci sono altri spezzoni fotograficamente interessanti come quello che da Pergine porta a Levico - risponde Cavulli - ho scelto di ritrarre questo tratto lungo poco meno di due chilometri perché, per me, questo è un paesaggio che non ha eguali in tutto il Trentino. Mi sono sentito attratto dalla possibilità di presentare un luogo che le generazioni nate dopo gli anni Settanta non conoscono. Il viadotto ha infatti escluso alla vista proprio il segmento che io ho documentato. “Ma qui c’era la porta principale della Valsugana tant’è che qui ci sono questi tre parallelismi: la strada vecchia, quella nuova, la ferrovia. [...] sbancamenti tanto imponenti di roccia e verticalità delle pareti devono aver posto i costruttori davanti a problemi ingegneristici non indifferenti.” In effetti il paesaggio è veramente unico: non solo quello più noto del vicino Orrido di Ponte Alto, da tempo in attesa di un progetto di valorizzazione, ma anche quello, poco conosciuto ma non meno affascinante, della strada che, chiusa nel 1974 quando venne costruito il nuovo viadotto, si snoda un centinaio di metri più in alto rispetto alla forra scavata dall’incessante scorrere del torrente. Nella parte più vicina al fiume la roccia è stratificata orizzontalmente mentre, sopra la linea della ferrovia, ha un andamento verticale. Oltre alla fauna che qui vive indisturbata - ci sono rondoni e rondini, ormai rari in città, ma anche rapaci come il nibbio che si riconosce per la coda dalla particolare forma biforcuta e il gheppio dal volo lento e circolare - sono i pescatori i padroni di un sito altrimenti con rare presenze umane. Ancora si indovina, sulla destra orografica, una traccia di sentiero, ma la vegetazione e una boscaglia di rovi l’ha quasi completamente celato allo sguardo. Come la strada di Monterovere e il sentiero della Ponale, l’intervento dell’uomo è percepibile non solo nella sfida tecnica imposta dalle specificità dell’area ma anche dall’evidente “matericità” delle azioni necessarie per rubare spazio alla roccia: sono imponenti le superfici scavate e segnate dallo scalpello e non è difficile immaginare il fragore ritmico dei martelli che si calano possenti per sradicare la materia. Così come, in un viaggio a ritroso nel tempo, è possibile evocare il vociare di quanti in passato sono transitati da qui. Come i ragazzi e gli uomini del Tesino che, provenienti dal vicino altopiano, percorsero la vecchia strada prima di disperdersi su tutte le strade del mondo vendendo porta a porta la merce che, più di ogni altra, contraddistinse l’economia e la storia della loro terra d’origine. Quasi che il tempo non fosse trascorso, alcuni tratti della strada conservano ancora i paracarri originali in pietra a presidio di un tracciato che, a dispetto dello stato di abbandono, mantiene quasi inalterato il fondo stradale. Il resto è un accumularsi di tracce: i bunker militari all’uscita della galleria dei Crozi, le bocche di scolo per l’acqua, i massi precipitati dalla montagna, il capitello con pochi brani di affresco superstiti. Ma anche il ricordo di un’immagine in bianco e nero scattata dal fotografo trentino Flavio Faganello che immortalò alcuni carabinieri intenti a sparare colpi di fucile alle enormi stalattiti di ghiaccio invernali nate sotto i grandi tetti rocciosi per staccarli ed evitarne il crollo improvviso sulla strada durante il transito dei veicoli. La vecchia strada della Valsugana STRADE. La Valsugana 79 1914. IL TENTATIVO SHACKLETON IN ANTARTIDE di Cesare Censi. Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti” - Fermo Ernest Shackleton opo che Amundsen aveva raggiunto il Polo Sud ed era ormai definitivamente tramontata l'ambizione degli inglesi di essere i primi al Polo, Ernest Shackleton considerò l'idea di attraversare il continente antartico con una marcia di 3.300 km. Questo progetto era già stato tentato dallo svizzero Wilhelm Filchner nel 1911, ma non ebbe successo. Shackleton, per la sua impresa, fu finanziato da diversi sostenitori e per ringraziarli della loro munificenza chiamò con i loro nomi le scialuppe di salvataggio. Nelle sue intenzioni la spedizione avrebbe dovuto conseguire sia risultati scientifici che agonistici. Infatti, mentre lui avrebbe tentato la traversata, un'equipe si sarebbe diretta a ovest, in direzione della Terra di Graham, e un'altra a est, verso la Terra di Enderby, per rilevazioni geologiche e raccolta di minerali. La spedizione era composta da due navi, l'Endurance e l'Aurora. D 80 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Arrivarono nella Georgia del Sud nel mese di novembre del 1914 e i primi giorni del nuovo anno l'Endurance rimase bloccata tra i ghiacci. Shackleton cercò in tutti i modi di liberarla, ma i tentativi risultarono inutili. Risolse di adibirla a stazione d'inverno, "a più di mille miglia dalla terra abitabile più vicina". La nave, però, andò alla deriva per 920 km verso nord-ovest e creò il problema dell'approvvigionamento alimentare in quanto si allontanarono dalle zone popolate dai pinguini e dalle foche. Nel mese di ottobre la situazione oggettiva della nave non permetteva più il suo utilizzo e furono costretti ad abbandonarla e costruire un campo sulla banchisa che chiamarono Ocean Camp. Il 21 novembre l'Endurance colò a picco e dopo un mese Shackleton decise di tentare una marcia di avvicinamento all'isola di Paulet distante 570 km. La neve molle ostacolò enormemente il loro cammino tanto che dopo nove giorni avevano percorso soltanto sette miglia. Decisero di organizzare un nuovo campo, che chiamarono Patient Camp, e di lasciarsi andare alla deriva in modo da raggiungere qualche terra ferma. Il 9 aprile furono costretti a imbarcarsi velocemente perché il ghiaccio sotto di loro si stava frantumando e dopo quattro giorni giunsero sull'isola dell'Elefante. Questa nuova situazione non era migliore delle precedenti perché quest'isola era roppo isolata per essere raggiunta da eventuali soccorsi e Shackleton decise di tentare un nuovo viaggio, questa volta di circa 1400 km, verso la Georgia del Sud per chiedere soccorso. Partirono a bordo della scialuppa James Caird Shackleton e cinque marinai con una scorta di viveri per trenta giorni. La difficoltà che incontrarono nel loro viaggio fu descritta così da Shackleton: ”Intorpiditi nei nostri stretti posti, continuamente inzuppati dalla schiuma, il freddo ci fece soffrire atrocemente durante tutto il viaggio. Lottavamo contro il mare e i venti, e bisognava fare uno sforzo costante per rimanere in vita. A volte corremmo terribili pericoli. Le tempeste erano senza tregua. In generale, ci sosteneva la certezza che avanzavamo verso il paese della salvezza.” Il 10 maggio avvistarono terra, ma una tempesta li spinse verso la costa rocciosa. Considerato che avevano terminato l'acqua, Shackleton fu costretto a tentare comunque lo sbarco. Dopo cinque tentativi riuscirono a toccare terra nella baia King Haakon e subito si avvidero di un piccolo ruscello d'acqua dolce che sfociava poco lontano la loro salvezza. Si trovavano nella parte meridionale dell'isola e la baia di Stromness, invece, si trovava nella parte opposta. Shackleton, con due uomini, partì subito e il giorno dopo raggiunse la stazione baleniera di Grytviken. Gli altri marinai furono ripresi il giorno seguente, mentre per il rimanente gruppo rimasto sull'isola dell'Elefante fu armata in fretta e furia una baleniera, la Southern Sky, che partì il 23 maggio. Dopo tre giorni, però, i ghiacci le impedirono di continuare il viaggio e il capitano fu costretto a dirigersi verso le isole Falkland a cercare una nave più adatta. Qui Shackleton contattò l'ammiragliato britannico che gli comunicò che non avrebbe potuto inviare una propria nave prima del mese di ottobre. Trovò la disponibilità del governo uruguaiano che mise a disposizione un battello, l'Instituto de Pesca n° 1, che dovette arrendersi di fronte ai ghiacci a soli 20 miglia dall'isola. Shackleton non si dette per vinto e ritentò una terza volta con la goletta Emma, ma fu una nuova sconfitta. A Port Stanley giunse la notizia che dall'Inghilterra stava arrivando la Discovery, ma Shackleton aveva fretta di salvare i suoi uomini e chiese al governo cileno la disponibilità del rimorchiatore Yelcho. Gli fu accordata. Il 30 agosto il rimorchiatore sbarcò sull'isola dell'Elefante, imbarcò gli uomini e il 3 settembre 1916 giunse a Punta Arenas. Erano tutti salvi. L'altra nave, l'Aurora, giunse a capo Evans, nell'isola di Ross, il 16 gennaio 1915 e vi sbarcò dieci tonnellate di carbone e novantotto casse di olio. Riprese il viaggio e dopo alcuni giorni si fermò a nove miglia da Hut Point. Il capitano Mackintosh volle dirigere lui stesso le operazioni di dislocamento dei viveri lungo la rotta verso il polo e lasciò il comando della nave al luogotenente J. R. Stenhouse. La marcia sulla neve molle e lo scorbuto resero difficili le operazioni. Un marinaio morì, così come molti cani per fame. Il 6 maggio una forte tempesta ruppe l'ancoraggio dell'Aurora che andò alla deriva. Si liberò il 12 febbraio 1916 e lasciò il pack il 14 marzo. Navigò con un timone di fortuna in quanto quello originale era andato distrutto durante la deriva e il 12 aprile incontrò a largo di PortChalmers il rimorchiatore Pluchy che la trainò in porto. Quando nel mese di dicembre Shackleton arrivò in Nuova Zelanda trovò l'Aurora rimessa a nuovo. Partirono il 20 dicembre per andare a riprendere gli uomini rimasti a capo Evans e li incontrarono il 7 gennaio. Mancavano il capitano Mackintosh e Hayward perché l'8 maggio 1916 erano partiti in slitta per andare a Hut Point e non fecero più ritorno. La spedizione si rivelò un fallimento, ma Shackleton riuscì a trasformarla in un'impresa epica che misurava i limiti della resistenza umana. La sua preoccupazione maggiore fu rivolta verso le possibilità umane alle estreme latitudini e la misurazione dei limiti dei ghiacci che risultarono essere il campo di battaglia di questa sfida. L’Endurance di Ernest Shackleton 1924. IL TENTATIVO SHACKLETON IN ANTARTIDE 81 A tavola con i Lares Il piatto "Tipico" ed il possibile nesso tra la carne alla brace ed una camicia bianca. a cena, quella sera, doveva essere qualcosa di particolare, anzi di eccezionale, visti gli invitati, il luogo, la maestria e l'esperienza del cuoco, la materia prima accuratamente scelta, il tipo di cottura esotico e la qualità e quantità di vino da poter bere a volontà. Per il cuoco, emigrante di ritorno dall'Argentina, era il tempo di dimostrare in pratica, capacità ed esperienze maturate ed era anche un modo per entrare nella cerchia di amicizie di "quelli che contavano". Scelse con cura la legna, non di resinose, le erbe, gli aromi e l'olio per la concia, lo spiedo di forma e di dimensioni adeguate e soprattutto la carne, che raccomandò dovesse essere di manza "pascolina" ma non troppo, anzi meglio se alimentata anche con fieno, perchè il sapore fosse deciso, ma con limite.La cottura iniziò al mattino, così che, in serata, all'arrivo dei vari commensali, l'opera d'arte aveva già preso forma e tutti, tra un brindisi e l'altro, lodavano l'artista e attendevano con ansia la fine della cottura per dare inizio al banchetto. Ma si sa, la notizia particolare non poteva rimanere solo all'interno del giardino dell'albergo Al Lago. Quel sabato sera, al Tipico bar, infatti, non si parlava d'altro. Ognuno aveva i suoi "se" da far valere. Quando però Nicolino - anche lui di ritorno, ma dal Venezuela - con tono di sfida, disse che se qualcuno avesse portato la carne, lui avrebbe messo il vino per tutti, l'affare fu bello e fatto. Contavano a quel punto solo tempismo e velocità. Fu cosi che, approfittando del rientro dell'artista "dell'asado" per l'ennesimo brindisi con gli invitati, la coscia di vacca prese il volo tra le braccia di mio zio che dimostrò ai suoi amici, se ce n'era bisogno, di essere ben fornito di scaltrezza e rapidità. C'era anche Giulio con il fol e al Tipico fu una serata memorabile. La nonna invece non seppe mai spiegarsi che fine avesse fatto la camicia bianca di mio zio, fatta opportunamente sparire per non dover spiegare la causa di enormi macchie di grasso sulle maniche e sui taschini, di solito inamidati e candidi. Luigi Larese Filon L 82 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Uno dei cibi più antichi e diffusi, che ha avuto sempre una notevole rilevanza nell’alimentazione dei nostri contadini, è sicuramente il formaggio. Per il suo alto contenuto di sostanze nutritive (grassi, proteine, sali minerali e vitamine), questo alimento può sostituire vantaggiosamente le uova, il pesce e la carne; a detta di alcuni dietologhi, mezzo chilo di pane mangiato con un’etto e mezzo di formaggio costituisce un pasto completo! [...] Ai giorni nostri è ancora possibile imbattersi in qualche “vecchia” malga, dotata dello “stallon” per il riparo del bestiame durante la notte; del “bait del lat”, per riporre il latte munto alla sera; della “casera”, per la lavorazione del latte stesso; del “volt” per riporre le forme di formaggio, le ricotte fresche e affumicate “poine”, le caciotte, il burro; dello “stalot” per il ricovero dei maiali ecc. ed è ancora possibile acquistare i prodotti appena... sfornati, che profumano di fieno, di erba di pa-scolo, di fumo, di odori legati ad un tempo passato, ma pur sempre vivo nella memoria di quei contadini che in malga hanno trascorso forse tutte le loro estati. Un’ottima qualità di formaggio di malga è quello no-strano, prodotto da metà giugno a fine settembre con il latte crudo. Ha la crosta liscia e dura, di colore giallastro. La pasta è compatta, semigrassa, di colore giallo. Il sapore è gradevole, con un gusto più pronunciato, però non piccante, dopo la stagionatura di almeno otto mesi. Quand’è fresco, ha toni intensi che conservano i profumi dell’alpeggio. Le ricette sono tratte dalla rivista terratrentina della Provincia Autonoma di Trento che ringraziamo. “ La polenta ai quattro formaggi e funghi ”. Ingredienti 600 g di farina gialla (di cui un 10% potrebbe essere sostituito con farina di di grano saraceno), 500 g di formaggi morbidi, 1/4 di litro di latte, 3 uova, un cucchiaio di farina bianca, 800 g di funghi (finferli e porcini). “Tagliare a pezzettini 300 g di vari formaggi, ammorbidendoli a bagnomaria. Sciogliere in una padella, a fiamma bassa, gli altri 200 g con 3 rossi d’uovo, il latte e il cucchiaio di farina in modo da ottenere una morbida fonduta. Preparare a parte i funghi, cuocendoli brevemente con poco aglio e prezzemolo. Aggiungere alla polenta, una volta pronta, i formaggi lasciati ammorbidire. Sistemare la polenta in quattro stampi, lasciandola un pochino raffreddare. Estrarre le “polente” dagli stampi, versarvi sopra la fonduta di formaggio e servire con i funghi.” CASONZIEI di Piero De Ghetto de Roche de Liseo La Pizzeria Croera da Borcia l à ciapà la medaia de oro canche l à presentà i casonziei a Brussels. Luca Da Corte, an Cadorin doven, pien de indegno e de iniziativa, al me à contà come che l è stada e al me à domandà se podeo scrive argo sui casonziei. E chesto l è chel che l è ienù fora... Ma ce biei, ma ce boi! Dasémeno an bon doi. Me ce boi, ma ce biei. Benedete i casonziei! piere cuote e rae ros, zucia, dota o s-sciopetin; te puos bete, se te guos piere, spech e anche pastin. Se te passa par la testa, se te zerches l ocasion par paussà o par fei festa, par magnà argo da bon; Se la fame no te passa, tolte ancora na porzion; se i te dis: “te magnes massa” se i te dis: “te sos magnon” par se fei na ciacolada, se te guos passate n ora, casonziei co la spersada e onto frito is par sora. l’é parché i é massa boi, e no te puos pi fei de manco, e, col piato che fas doi, tolte an cuarto de vin bianco. Medo chilo de farina, puoco sal e n tin de aga, pasta sfuoia bela fina e la zena l é insarzada. Se i te conzes coi pavare, i te tira su l moral, e se tu te dis: magare! ió no vedo nia de mal. L é na roba proprio bona, l é n magnà a la nostrana, che fasea anche la nona a la fin de la stemana. Te puos diteno ize lieto par stà n tin in conpagnia, se daspò i no fas efeto no te l as fato par nia; E infin che i se cuosea, a tre bèche o a medaluna, la nona la disea che i porta anche fortuna. duto ien e duto passa, e la storia l é fenida; e, se t as magnà n tin massa, te puos feite na... dormida, O sul serio, o par da ride, senza che nessun se stize, ades resta da dezide ce che l é da bete ize: Ma ce biei, ma ce boi! Dasémp an bon doi. Ma ce boi, ma ce biei. Benedete i casonziei! da “Ladin!” - Rivista dell’Istituto Ladin de la Dolomites - Giugno 2012 A TAVOLA CON I LARES 83 “Canederlo al formaggio” Nella tradizione culinaria contadina una variante dei tradizionali canederli è il canederlo al formaggio, che si prepara sostituendo lo speck o la lucanica o altro tipo di carne, con vari formaggi, in prevalenza con quelli dal gusto saporito, tagliati a dadini. Naturalemente rimangono invariati gli altri ingredienti, ossia il pane raffermo tagliato a pezzetteni, il latte, l’erba cipollina, il prezzemolo, l’aglio, le uova, il pepe e la noce moscata. “Taiadele smalzade” - pasta saltata in padella E’ questa una ricetta, nella quale l’ottimo Trentingrana svolge un ruolo primario perché ne sa esaltare la bontà. Ingredienti 400 g di tagliatelle, sugo d’arrosto, 2 cucchiai di panna, un rametto di rosmarino, 1/2 dado (a piacere), formaggio grattugiato. Preparare, in una pentola piuttosto larga, una salsa con la panna e il rosmarino, utilizzando il fondo di una carne arrosto e mezzo dado. Cuocere le tagliatelle al dente, scolarle e metterle nella pentola contenente la salsa. Mescolare bene a fuoco molto basso e aggiungere il grana grattuggiato. Servire ben calde. “Pasta ai formaggi” Con gli avanzi di formaggi duri da fondere le massaie d’un tempo erano solite preparare un altro tipo di sugo che serviva a condire le cosiddetta “pasta ai formaggi“. “Mettere la pasta a cuocere, tagliare i formaggi a pezzettini, unirli alla panna da cucina e a tutti gli altri ingredienti. Scolare la pasta, metterla in una pirofila, coprire con la salsa e cuocere in forno per una decina di minuti a temperatura media. Servire calda e filante. “AI LARES” Splendido agriturismo-fattoria didattica realizzato in un ex caserma militare ubicata quasi al culmine del passo di Sant’Antonio, valico collegante Auronzo di Cadore e Padola di Comelico Superiore. Immerso nel verde di boschi e pascoli in estate è ideale punto di partenza di passeggiate ed escursioni, In inverno sono comodamente accessibili il comprensorio sciistico di Padola e le Terme di Valgrande. 84 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 DEDICATO A UN AMICO Gruppo Filatelici di Montagna Forse il suo nome dirà ben poco a tanti di noi, ma nella grande famiglia del CAI l’esserci è già essere uno di noi. Gli amici del Sezione di Cento a cui apparteneva lo ricordano per la sua gentilezza e per la genuinità del suo amore per la montagna. Quanti ci lasciano e ci precedono nel cammino “verso l’Alto” sovente lasciano un segno indelebile nei nostri cuori, così è sempre stato e così sarà anche per Lorenzo Parmeggiani “Sei scattato per la ripida salita, pensavi di averci staccato, ti sei sbagliato. Siamo e saremo sempre insieme. Ciao Lorenzo.” Gli amici del CAI di Cento * Affiliato alla Federazione fra le Società Filateliche Italiane * Socio dell’Ass. “Ardito Desio” * Socio dell’Associazione Italiana di Maximafilia * Socio del Circolo Filatelico “Guglielmo Marconi” }** Socio Centro It. Fil. Resistenza e-mail: [email protected] c/c postale n. 14266373 intestato: CAI Auronzo. 32041 Auronzo di Cadore BL “Quando arrivi in vetta ad un monte non fermarti, continua a salire” Un Maestro del buddismo Zen - A PROPOSITO DEL CENTENARIO DELLA FERROVIA DELLA JUNGFRAU - 40 ANNI TUTTI DA RICORDARE - MONTAGNA IN ROSA - RICORDIAMO GIUSEPPE MAZZOTTI - NEL 9° SECOLO DEI “PATTI GEBARDINI” www.filatelicidi montagna.com Treni A PROPOSITO DEL CENTENARIO DELLA FERROVIA DELLA JUNGFRAU a Jungfrau è la «montagna del desiderio». Non solo per via del suo nome, probabilmente riconducibile alle suore del monastero d’Interlaken che un tempo occupavano l’alpeggio di Wengen alle pendici della Jungfrau, ma anche perché è una delle più belle montagne della Svizzera. La Jungfrau, l’Eiger e il Mönch, che si trovano alla sua sinistra, costituiscono le tre cime più note delle Alpi bernesi. Verso la fine del XIX secolo, quando la febbre della ferrovia aveva raggiunto anche le regioni più remote, molti cercarono di farla arrivare anche qui. Solo una persona riuscì nell’impresa, e neppure fino in fondo: l’industriale zurighese Adolf Guyer-Zeller, [] L 86 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 che disponeva del denaro e della tenacia necessari. Ma soprattutto aveva avuto la buona idea di lanciarsi in questa avventura pionieristica. E la linea pionieristica della Jungfrau fu la prima ferrovia di alta montagna del mondo. Sappiamo con precisione quando nacque l’idea di creare la Ferrovia della Jungfrau. Era il 20 agosto 1893: «Dopo essere salito sullo Schilthorn partendo da Mürren e aver potuto ammirare il panorama delle tre cime Eiger, Mönch e Jungfrau per un’intera giornata grazie ad un cielo particolarmente terso, al sottoscritto è venuta l’idea di creare un nuovo tracciato per una ferrovia sulla Jungfrau», scrive il fondatore e promotore della Ferrovia della Jungfrau, Adolf Guyer-Zeller, nella sua domanda di concessione presentata al Consiglio federale quello stesso anno. Adolf Guyer-Zeller discendeva da una famiglia d’industriali dell’Oberland zurighese. Non contento di aver ripreso il cotonificio paterno di Neuthal presso Bauma nel 1874, il giovane voleva fare di più. Trovò quindi nella ferrovia un terreno fertile per dare sfogo al proprio spirito imprenditoriale. Infatti credeva nel futuro di questo mezzo di trasporto e aveva dimostrato di avere fiuto per gli affari, visto che aveva saputo acquistare al momento giusto azioni e obbligazioni della Ferrovia del Gottardo. La transazione fece di lui un uomo molto ricco. A partire dal 1879 investì nella Ferrovia del Nord-Est (NOB). Quando, a 54 anni, decise di lanciarsi nell’ambizioso cantiere della Ferrovia della Jugfrau, si era già conquistata la fama di magnate delle ferrovie. La fine del XIX secolo è un periodo caratterizzato dall’ottimismo e dalla fede nel progresso. I progetti audaci si moltiplicano e conquistano l’attenzione del pubblico. Nel 1889, a Parigi, in occasione della grande esposizione internazionale, viene terminata la costruzione di una torre alta 300 metri dotata di ascensori, la torre Eiffel. Questa grande opera in metallo illustra perfettamente la nuova dimensione dell’odierna tecnologia, grazie alla quale l’architettura può ormai svilupparsi anche in verticale. In Svizzera le prime cremagliere e funicolari portano i turisti fin sulle cime delle montagne. Il momento è quindi propizio alla costruzione della Ferrovia della Jungfrau, ma il progetto è molto ambizioso. Intorno al 1890 esistono già progetti pionieristici per la creazione di ferrovie di alta montagna, tra i ghiacciai e nevi eterne, ma nessuno di essi è mai stato realizzato. I progetti che vogliono collegare la Jungfrau alla valle di Lauterbrunnen sono addiritura tre, ma per raggiungere la vetta - che si trova a 4158 metri sopra al livello del mare - devono superare un dislivello di 3000 metri. Adolf Guyer-Zeller adotta un approccio pragmatico: vuole far partire la sua ferrovia dalla Kleine Scheidegg a 2061 mslm, da dove dal giugno 1893 circola già una ferrovia a vapore. Guyer-Zeller aveva in mente il tracciato della linea sin da quando si era trovato in cammino sul sentiero dello Schilthorn, e ne aveva disegnato una prima bozza nel suo taccuino già la notte seguente. Ciononostante, il dislivello tra la Kleine Scheidegg e la vetta della Jungfrau è di oltre 2000 metri. Pertanto Guyer-Zeller sceglie la deviazione attraverso l’Eiger, al cui interno le rotaie dovrebbero effettuare un arco di quasi 180 gradi per continuare in direzione sud-ovest attraverso il Mönch e da lì proseguire fino alla Jungfrau - la terza vetta più alta delle Alpi bernesi - attraverso un altro tunnel. Questo gli consente di cavarsela con una pendenza massima del 25%. A differenza delle ferrovie a cremagliera costruite fino ad allora, la Ferrovia della Jungfrau verrà costruita nel cuore della montagna. In zone talmente pericolose non c’è altra alternativa: la galleria protegge gli impianti da valanghe, cadute di massi e lastre di ghiaccio. Resta che i passeggeri devono poter ammirare il paesaggio. Tra l’ingresso del tunnel sul ghiacciaio dell’Eiger e il Jungfraujoch sono previste tre fermate panoramiche: [] la prima sulla parete nord dell’Eiger, la seconda sul versante sud, la terza sul lato nord del Mönch. Si tratta di veri e propri «balconi» alpini concepiti per offrire ai passeggeri un panorama mozzafiato. Nel contempo tali fermate consentiranno alla ferrovia di entrare in servizio a tappe, con indiscutibili vantaggi finanziari. Guyer-Zeller e i suoi ingegneri prevedono di arrivare alla stazione di Eismeer nei primi due anni e di aver bisogno di altri due anni per arrivare al capolinea sul pianoro sotto òa vetta della Jungfrau. Qui un «elevatore» dovrebbe permettere di superare gli ultimi 65 metri. Contro la costruzione della ferrovia sono emesse alcune riserve. Si discute a lungo della questione della salute, e Adolf Guyer-Zeller chiede il parere di famosi esperti. Nel 1894, il famoso aerostiere Eduard Spelterini scrive una breve perizia che «un breve soggiorno ad un’altitudine di circa 4200 metri non può nuocere ad una persona in buona salute». Il 21 dicembre 1894 la stragrande maggioranza dei consiglieri federali approva la concessione per la costruzione della ferrovia della Jungfrau. La Ferrovia della Jungfrau è senza dubbio un’opera pionieristica. Alcune componenti di base come il sistema a pignone e dentiera, i vagoni e la creazione delle fermate panoramiche richiedono l’elaborazione di soluzioni del tutto nuove. Guyer-Zeller opta per lo scartamento di 1000 mm e per le locomotive a trazione elettrica. La leggerezza e l’assenza di emissioni di fumo rendono questa forma di energia più adatta alla circolazione nelle lunghe e ripide gallerie del tracciato, e consentono anche la creazione di tunnel dal profilo più modesto. Tuttavia essa viene ancora poco usata in ambito ferroviario, anche se dal 1893 è in funzione sul monte Salève presso Ginevra la prima ferrovia a cremagliera a trazione elettrica. Il 27 giugno 1896 hanno inizio i lavori sulla tratta prevalntemente scoperta tra la Kleine Scheidegg e il ghiacciaio dell’Eiger (2320 mslm), posta sul versante occidentale dell’Eiger. A PROPOSITO DEL CENTENARIO DELLA FERROVIA DELLA JUNGFRAU 87 L’ubicazione diventerà il centro logistico e il campo base del cantiere, occupato da 300 persone nella stagione estiva. I minatori vengono soprattutto dall’Italia settentrionale, gli ingegneri e gli artigiani dalla Svizzera. Alcune foto documentano l’attrezzatura minimalista di cui erano muniti: in essi sono ritratti alcuni operai intenti a spianare il terreno con vanghe e picconi . [] 88 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 I rifornimenti di materiali e viveri vengono trasportati da carovane di muli e cavalli. Le condizioni di lavoro sono durissime, ma il cantiere è ben organizzato. «In generale i lavoratori erano molto contenti», dichiarerà nel 1912, alla fine dei lavori un caposquadra italiano. Grazie a «premurosità di ogni tipo» lo stato di salute dei lavoratori è buono, e i salari sono piuttosto elevati. Tuttavia queste affermazioni non corrispondono pienamente alla verità: sei saranno gli scioperi indetti durante la costruzione della ferrovia. A creare il malcontento sono il lavoro domenicale, i premi troppo bassi e la scarsezza di vitto. La posa dei binari procede secondo i piani. Il 20 settembre 1898 entra in servizio come previsto la prima tratta della ferrovia della Jungfrau. Il giorno precedente, Guyer-Zeller organizza una sontuosa cerimonia d’inaugurazione. da vero perfezionista, cura in ogni minimo dettaglio ognuno dei suoi tanti progetti. La mole di lavoro è enorme anche per un lavoratore come lui. Il 3 aprile 1899, a quasi 60 anni, viene colpito da un infarto. Ma la sua opera vivrà anche dopo la sua morte. I suoi due figli, Johann Rudolf e Adolf Gebhard, decidono di portarla a compimento. In un’opera di queste dimensioni i problemi sono inevitabili. L’energia prodotta dalla centrale idroelettrica di Lauterbrunnen non basta per alimentare sia le locomotive che le perforatrici impiegate per allargare i fori prodotti dalle esplosioni. Ben presto i minatori incontrano un inatteso strato di quarzite e i ritardi si accumulano. I minatori raggiungeranno la stazione di Eigerwand solo alla fine del 1902. Ci vorranno altri due anni e mezzo - fino al luglio 1905 - per inaugurare la stazione di Eismeer. [] Nelle hall sotterranee a 3160 metri di altitudine, dalle quali si gode di un panorama eccezionale sul ghiacciaio e sulla vetta sul versante meridionale dell’Eiger, oltre ad un centro turistico con ristorante viene messo in servizio anche un «ufficio postale» che resterà in attività fino al 1° ottobre 1931. Fino al 1951 i passeggeri scendono alla stazione di «Eismeer» e passano dalla cremagliera ai treni ad aderenza per percorrere l’ultima tratta del percorso, meno ripida di quella precedente. Il cantiere è anche teatro di alcuni incidenti. Il più spettacolare ha luogo il 15 novembre 1908, quando esplode un deposito pieno di dinamite sulla montagna tra la stazione Eigerwand e quella di Eismeer. «La terra ha tremato con tanto vigore, che in un primo momento tutto l’Oberland ha pensato che si trattasse di un terremoto», scrive il corrispondente del «Bund». Per fortuna nessuno dei minatori si trovava nelle vicinanze, e i danni sono stati solo materiali. Ma non andrà sempre così bene: durante la costruzione della ferrovia perderanno la vita 30 persone. I problemi finanziari affliggono l’impresa anche nella costruzione dell’ultima tappa. I responsabili decidono di far procedere il tunnel dalla stazione di Eismeer con la stessa pendenza direttamente fino al Jungfraujoch, rinunciando alla costruzione della stazione sul Mönchsjoch. Il 21 febbraio 1912, alle 5.35 del mattino, viene aperta l’ultima breccia. Un articolo di giornale racconta che nell’ultima esplosione il caposquadra Glacelli «per aprire il tetto del tunnel fino alla cima ha usato una carica di dinamite talmente forte da far balzare fuori il materiale fino al Jungfraujoch». L’ultima tratta viene messa in servizio sin dal 1° agosto 1912, in occasione della festa nazionale. La stazione di arrivo è lo Jungfraujoch. Per continuare fino alla vetta mancano sia il denaro che l’energia necessari. I lavori saranno durati 16 anni, per un conto complessivo di quasi 15 milioni di franchi. Ben presto il Jungfraujoch diventa una meta ferroviaria ed una delle attrazioni turistiche più famose della Svizzera in tutto il mondo. Ormai ogni anno quasi 700.000 passeggeri salgono alla stazione della Kleine Scheidegg sui vagoni che in circa 50 minuti li porteranno alla stazione ferroviaria più elevata d’Europa, a 3454 m slm. A PROPOSITO DEL CENTENARIO DELLA FERROVIA DELLA JUNGFRAU 89 Sulla tratta lunga 9.34 chilometri viene superato un dislivello di 1400 metri. Il viaggio è molto amato specialmente dai turisti dell’Estremo Oriente che costituiscono il 50% dei passeggeri. Da molti anni lo Jungfraujoch è anche al servizio della scienza. Adolf Guyer-Zeller aveva previsto la costruzione di una stazione di ricerca già nella sua domanda di concessione. La promessa viene mantenuta nel 1931, quando sulla scoscesa rupe della Sfinge, posta 100 metri al di sopra della stazione, viene inaugurata la stazione di ricerca alpina (3571 mslm). [] Nel corso del tempo la stazione di ricerca si è adeguata alle nuove esigenze della scienza ed è considerata come una delle più moderne del mondo. È la stazione di ricerca abitata in permanenza più alta d’Europa. I laboratori non sono aperti al pubblico, ma lo è la terrazza panoramica raggiungibile con l’ascensore più veloce della Svizzera, dalla quale in caso di bel tempo i visitatori possono contemplare un panorama maestoso che spazia fino alle vette delle Alpi e ben al di là. Qui i visitatori si trovano al centro del sito di 824 km2 proclamato dall’UNESCO patrimonio dell’umanità, lo «Schweizer Alpen JubgfrauAletsch». Nell’anno del centenario la visita è stata ancora più interessante, poiché nell’aprile 2012 la Ferrovia della Jungfrau ha inaugurato una nuova galleria pedestre che collega la hall della Sfinge all’amato «Palazzo del ghiaccio». Tra l’altro, lo Jungfraujoch detiene un altro record mondiale: nella stazione ferroviaria di montagna più alta, dal 1912 c’è anche l’ufficio postale più elevato d’Europa. Da qui vengono spedite ogni anno in tutto il mondo migliaia di cartoline di saluti provviste di uno speciale annullo. "© Die Post" - Per gentile concessione della Posta Svizzera 90 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 40 ANNI TUTTI DA RICORDARE Un’esperienza unica ed indimenticabile, pagine di una vita ancora da scrivere a corsa in montagna denominata "Camignada", originariamente "La camignada poi rifuge" è giunta in questo 2012 alla quarantesima edizione. Partendo da Misurina, attraverso i rifugi Auronzo, Lavaredo, Locatelli-Innerkofler, Pian di Cengia, ZsigmondyComici e Carducci il percorso conduce al paese di Auronzo di Cadore. Era il 1973 quando fu deciso che una delle più belle attraversate in Dolomiti diventasse una “Manifestazione non competitiva di marcia in montagna”. Quel 2 settembre fu scritta la prima pagina di un libro le cui parole hanno travalicato la mera cronaca agonistica, invadendo la sfera privata, divenendo pagine di vita. In pochi anni si è sviluppato nei partecipanti il senso di appartenenza ad uno sforzo collettivo, in un periodo nel quale gli oltre trenta chilometri del percorso rappresentavano ancora una piccola impresa eroica. Inoltre la reiterazione nel corso degli anni, da parte di moltissimi partecipanti che, avvicinatisi quasi per caso, non hanno più potuto smettere di pensare all'edizione successiva, ha provocato un attaccamento del tutto genuino e spontaneo all'evento. In questo modo, ad ogni singola manifestazione, non si è potuto fare a meno di associare pagine della propria vita. Tale è ancora oggi questa "gara" che ha saputo rappresentare per tanti molto più di una competizione sportiva, un appuntamento che li ha accompagnati nel corso dell'esistenza, dalle primissime edizioni fatte in gioventù fino alle ultime in età più matura. In tale fedeltà trova maggior gratifcazione per gli organizzatori tutti dare la propria disponibilità di anno in anno, nella consapevolezza che sia essa la prima volta o si parli di una partecipazione a due cifre, per chiunque percorrerà quei sentieri giungendo alla fine del tracciato, si tratterà di un'esperienza unica ed indimenticabile. Sulle sponde del lago di Misurina quest'anno si sono presentati in milleduecento. Milleduecento appassionati della montagna, dall'agonista al semplice amante delle passeggiate, ognuno con il proprio ritmo, ognuno con le proprie aspettative. La magia della “Camignada” è proprio questa: unire in una corsa lunga oltre trenta chilometri una varietà infinita di frequentatori della Montagna. Poche manifestazioni, sportive e non, riescono a unire con un invisibile filo agonisti e trekkers. Lo spirito della Camignada è qualcosa di speciale, molti che vi partecipano tengono sotto controllo il cronometro, senza però lasciarsi sfuggire i colori e gli angoli più affascinanti delle Dolomiti, Patrimonio dell'Umanità, ma molti altri vivono questa "lunga" passeggiata con ancora lo spirito che lega il camminare alla montagna. Una festa speciale, coronata con lo spegnimento virtuale delle quaranta candeline per regalare al territorio e alla sua gente il riconoscimento che meritano. In questi ultimi anni, la Camignada, oltre a vedere crescere in modo esponenziale il numero dei partecipanti, ha creduto nel valore aggiunto dato dal territorio che la ospita, a sua volta ha utilizzato le leve mediatiche della manifestazione per dare ampio risalto proprio a quelle bellezze che rendono uniche le Dolomiti. Il percorso toglie il fiato, spettacolare sin dai primi chilometri, transita proprio sotto le Tre Cime di Lavaredo che sovrastano la Val D'Ansiei, tocca le pendici del Paterno e ammira le pareti Nord della Croda dei Toni. In Forcella Giralba, inizia la lunga discesa che porterà al traguardo. L QUARANT’ANNI TUTTI DA RICORDARE 91 RIFUGIO AURONZO m 2330 a Forcella Longères. L'inizio dei lavori di costruzione risale anteriormente alla prima guerra mondiale. Interrotti con lo scoppio della guerra, quanto realizzato venne distrutto il 24.5.1915 dalle granate austriache. Fu ricostruito nel 1925 col nome di Rifugio Principe Umberto e benedetto da Don Piero Zangrando, l'eroico indimenticabile "Cappellano delle Tre Cime" che in guerra celebrò la S. Messa sulla vetta della Cima Grande. Nel 1946 venne intitolato alla guida auronzana Bruno Caldart, caduto sulla Cima Piccola. Devastato da un incendio nell'aprile del 1955 a causa del surriscaldamento di una canna fumaria venne ricostruito nella forma attuale e riaperto il 14.7.1957 con la denominazione di Rifugio Auronzo. Dal rifugio si dipartono interessanti itinerari negli ambienti che hanno fatto da scenario alle tragiche vicende legate alla Grande Guerra. RIFUGIO LAVAREDO m 2344 Costruito nel 1954, per iniziativa di Francesco Corte Colò "Mazzetta" (19261958), auronzano, guida alpina e istruttore nazionale di alpinismo, sorge sui piani di Lavaredo, in prossimità di Forcella Lavaredo, ai piedi dei gialli appicchi della Cima Piccola - la "Ca' d'Oro" di Antonio Berti, la più elegante delle Tre Cime di Lavaredo, tra le più famose e celebrate architetture naturali del mondo. E' raggiungibile con una comoda carrareccia, già militare, che si stacca a fianco del Rifugio Auronzo e passa per la storica Cappella degli Alpini dedicata alla Madonna della Croda, eretta da Don Piero Zangrando. Una lapide, posta nelle vicinanze, ricorda Paul Grohmann nel centenario della prima ascensione alla Cima Grande. RIFUGIO A. LOCATELLI S. INNERKOFLER m 2405 Il Rifugio Antonio Locatelli alle Tre Cime di Lavaredo è stato recentemente intitolato anche alla memoria di Sepp Innerkofler morto durante la Grande Guerra nel tentativo di conquistare il Paterno. Sepp Innerkofler era nato nel maso Unteredam di Sesto in Pusterìa il 28 ottobre 1865 da una famiglia di alpinisti. Morirà sul Paterno alle ore 6,20 di domenica 4 luglio 1915 per mano dell’alpino Pietro De Luca, 7° Alpini "Val Piave", 268ª Compagnia, classe 1893 a Valmareno di Follina, Treviso. Medaglia di bronzo V.M. 92 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 RIFUGIO PIAN DI CENGIA m 2522 Piccolo rifugio privato. Si trova sul sentiero che collega i rifugi Comici Zsigmondy Hütte e Locatelli Dreizinnenhütte, a circa tre quarti d'ora di cammino dal primo e un'ora dal secondo, sul versante sudoccidentale del monte Paterno teatro di epiche battaglie fra reparti alpini italiani ed austriaci nel corso della Prima guerra mondiale. E' il rifugio più alto nel Parco Naturale Dolomiti di Sesto In mezzo alla Meridiana dei Monti di Sesto: tra Cima Dodici e Cima Uno, di fronte a Cima Dieci e Cima Undici, sopra alle strette vallate, nell'ampiezza delle vette dolomitiche, più prossimo al cielo che alla terra. RIFUGIO E. ZSIGMONDY E. COMICI m 2224 Situato in prossimità delle pendici del Pulpito. Ricostruito dal Cai di Padova dopo la prima guerra, è dedicato ai due famosi alpinisti Emil Zsigmondy ed Emilio Comici. Veramente grandioso il panorama: da cima Undici alla Cresta Zsigmondy a Cima Dodici. Emil Zsigmondy (Vienna 1861) con una serie di ascensioni (circa 140 in 12 anni di attività) da lui iniziate nel 1874, a soli 13 anni, in compagnia del fratello Otto, nell'intero arco delle Alpi - dal Hochschwab alle Alpi del Delfinato - aprì nella storia il capitolo dell'alpinismo senza guida. Morì nel 1885 in un tentativo di salita da S del M. Meije (massiccio del Pelvoux, Delfinato). Sono a lui intitolate numerose vette e vie, nonché il rifugio nel cuore del gruppo Popera-Croda dei Toni (Dolomiti di Sesto), una delle palestre di arrampicate da lui preferite. Emilio Comici, “l’Angelo delle Dolomiti” era nato a Trieste il 21.2.1931. Morì in Val Gardena il 19.10.1940. RIFUGIO GIOSUE' CARDUCCI m 2297 Dedicato al poeta Giosuè Carducci, cantore delle bellezze del Cadore, fu eretto nel 1908, in un ambiente ancora selvaggio ed incontaminato, dalla Sezione Cadorina del CAI di Auronzo - madrina d'eccezione Luisa Fanton. Danneggiato nel corso della Grande Guerra rimase incustodito sino al 1938. E' stato ulteriormente migliorato nel 2003. E' ubicato nel cuore dell'austero circo terminale della Val Giralba, sotto le poderose pareti orientali della Croda dei Tóni e quelle occidentali del Monte Giralba. QUARANT’ANNI TUTTI DA RICORDARE 93 JEANNE IMMINK MONTAGNA IN ROSA di Mirco Gasparetto. G.I.S.M. ELIZABETH FOX TUCKETT Zigzagging amongst the Dolomites è un originale testo pubblicato a Londra nel 1871, ben conosciuto dagli appassionati di storiografia dolomitica grazie ad un paio d'importanti ristampe anastatiche; un originale album oblungo che, tramite caratteristiche vignette e didascalie, narra il tour alpino compiuto dalla famiglia Tuckett nel precedente 1870. L'autrice dell'opera si firma solo con la "L" di "Lizzie", amabile appellativo di Elizabeth Fox Tuckett. Terzogenita della nota famiglia quacchera della comunità di Frenchay (Bristol), le era stato dato il nome, in quel tempo molto diffuso, della nonna paterna. Il 2 marzo 1871, nello stesso anno di pubblicazione dello zigzagging dolomitico, Elizabeth si sposò con William Fowler, colto uomo d'affari nonché membro dell'Alpine Club, e iniziò ad insegnare presso la Frenchay National School. "Lizzie" perse tragicamente la vita poco tempo dopo, nel successivo 1872, per le conseguenze del suo primo parto. Era nata il 9 aprile 1837 a Frenchay ed era stata chiamata, amara ironia della sorte, con lo stesso nome scelto per la sorella che l'aveva preceduta, ma che non era riuscita a sopravvivere alla nascita (1835). Scrive Giovanni Angelini "Il Tuckett quell'anno [1872] fece vacanze interrotte, caratterizzate da varie puntate in zone differenti per accordi con diversi amici; la fedele guida Christian Lauener, di Lauterbrunnen, fu il suo compagno costante per la maggior parte di quella stagione. Salirono la Zugspitze il 24 maggio ma successivamente, mentre alla fine di maggio erano in Austria ad Halstatt, il Tuckett dovette rientrare d'urgenza a Londra per un lutto” (cfr. Angelini, Civetta per le vie del passato, 1977, p. 181). Oggi sappiamo, effettivamente, cosa successe. Francis Fox Tuckett ritornò in Dolomiti qualche settimana più tardi, l'11 giugno, quasi per chiudere un conto in sospeso. Il 13, insieme a Christian Lauener e Santo Siorpaes, tentò di salire il Pelmo dall'inedito versante de "La Dambra", che però fallì a causa della pericolosa abbondanza di neve; il 17 alla stessa cordata riuscì invece un'altra grande prima ascensione: la cresta ovest della Marmolada. Con questa salita terminarono le prime ascensioni di Tuckett in terra dolomitica. Dopo tante stagioni, probabilmente, si era esaurito il naturale interesse, o forse, con l'improvvisa scomparsa della sorella, per lui si era irrimediabilmente rotto qualcosa. In realtà il nome dell'importante alpinista olandese era Jeannet Diest (Amsterdam, 1853-Milano, 1929); Immink infatti era il cognome del primo marito, Karel Immink, con cui emigrò in Sudafrica stabilendosi a Pretoria. Grandi difficoltà d'ambientamento nonché la conoscenza di un ufficiale dei Dragoni Inglesi, Henry Percy Douglas-Willan, le fecero abbandonare il tetto coniugale appena dopo due mesi dalla nascita del loro primo figlio, Willem Louis Immink (1876). Mentre il marito chiedeva il divorzio, nel 1881 i due amanti si trasferirono in India, dove il reparto militare del nuovo compagno era stato dislocato. La relazione però non durò molto e già nel 1882 Jeanne, nuovamente incinta, si trasferì in Svizzera, a Chexbres, dove il 1° settembre nacque Luigi, a cui però dette il cognome Immink, sottacendolo al vero padre (il primo marito ottenne il divorzio solo nel 1884). Un figlio che, questa volta, allevò amorevolmente. Nel 1883 la Immink ereditò una discreta fortuna che le consentì d'educare finemente il figlio e di viaggiare in Europa, dove incontrò la montagna, l'alpinismo e nuovi amici (tra cui Theodor Wundt e la moglie Maude, dei quali fu testimone di nozze). Dal 1900 visse a Milano, sempre a fianco del figlio, nel frattempo divenuto avvocato e successivamente viceconsole olandese nella città lombarda (console nel 1933). Qui Jeanne Immink chiuse la sua intensa esistenza il 20 agosto 1929. Se l'iconografia dolomitica la ricorda per gli scatti fotografici di Wundt sulla Piccola di Lavaredo, il suo nome deve essere ricordato soprattutto per la prima ripetizione dei camini Schmitt sulla Punta delle Cinque Dita e per alcune ascensioni invernali dolomitiche quale la prima assoluta della Croda da Lago. riconduce ad un nuovo modello d'emancipazione femminile caratterizzato dall'approccio ad importanti elementi sociali quali istruzione, attività sportiva, viaggio. Il suo stile di vita richiama quello di una donna colta, determinata ma irrequieta; appartenente ad una generazione la cui maturità coincide, tra speranze e delusioni, con il passaggio dal vecchio al nuovo secolo. Nata e cresciuta in una tipica famiglia della media borghesia, di discreta solidità economica ma non certo appartenente alla classe dominante, Beatrice Tomasson trovò un equilibrio sentimentale stabile all'età di sessantadue anni, di ritorno a Londra dopo anni di viaggi e di vette. Eppure lo status della riservata alpinista inglese non rappresenta un'eccezione, ma un modello femminile che si posiziona al di fuori dei canonici ed ancora incontrovertibili ruoli di moglie e madre. Un profilo non propriamente diffuso ma, in quel periodo, neppure troppo infrequente. La migliore rocciatrice del Tirolo, come ebbe a definirla Edward Lisle Strutt, suo compagno d'arrampicate nei primi anni Novanta tra Karwendel, Ötztal e Stubaital, ebbe una lunga esperienza dolomitica che toccò l'apice in Marmolada nell'estate 1901 e che si protrasse almeno fino al 1911. Quell'anno la Miss inglese si rese prota-gonista di alcune salite nelle Dolomiti d'Oltrepiave, zona ancora poco frequentata se non da animi pionieristici tesi alla scoperta e all'esplorazione. Qui la Tomasson salì, insieme a Michele Bettega, la Pala Grande, il Cridola, la Cima Cadìn degli Elmi e il Campanile Toro. Carica di suggestioni, inoltre, appare la salita al Campanile di Val Montanaia, dove a loro si unì pure il fuoriclasse Angelo Dibona. Con quest'ultima guida la britannica scalò anche il Campanile Basso di Brenta, concludendo proprio in vetta alla simbolica guglia la sua storia dolomitica. BEATRICE TOMASSON Il nome di questa alpinista inglese è da tempo storicamente noto data la sua prima ascensione alla parete sud della Marmolada. Oltre la grandiosa parentesi alpinistica, dalla vita di Beatrice Sybil Tomasson (Nottingham, 1859Little Benhams, Sussex, 1947) emerge lo spirito di una donna molto riservata e individualista, socialmente disinvolta anche se defilata, che Elizabeth Fox Tuckett 94 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Jeanne Immink tratto da: “PIONEERS, alpinisti britannici sulle Dolomiti dell'Ottocento” di Mirco Gasparetto (p.40). Le cartoline (serie n.1) recano l’annullo postale della 2A edizione dell’ «Expo delle Dolomiti Patrimonio dell’Umanità». La serie, edita dal Gruppo Filatelici di Montagna, si propone di far conoscere ad un più vasto pubblico di collezionisti e di lettori tutte quelle donne che hanno praticato l’alpinismo e gli sport collegati alla Montagna. Beatrice Tomasson MONTAGNA IN ROSA 95 Nel 1027 l’Imperatore Corrado II, detto il “Salico”, investì il vescovo di Trento del titolo di conte; l’investitura era mirata al fine di poter disporre il transito verso l’Italia di truppe e imperatori del Sacro Romano Impero. Cent’anni dopo ed esattamente “il quatordes de luio in la villa de Bausan (Bolzano) in casa de l’habitation de Federico anno 1111 Gebardo per la gratia de Dio gloriosissimo episcopo de Trento e conte de esso vescovado, insieme cum Adalpreto conte e advocato, notaro Gaus - e per la Valle di Fiemme - Bruno da Cadrobio, Martino de Avarena, Gasparo de Cavales, Menzio de Tesido” sottoscrissero il patto denominato “Patti Gebardini” che impegnava il Vescovo ad amministrare la giuistizia due volte all’anno mediante un suo gastaldione (giudice) che doveva recarsi in Cavalese. Le sentenze miravano a comminare pene pecuniarie anziché detenzioni. Per i fiemmesi avevano l’onere di fornire ogni anno 24 arimannie cum li soi fodri (cioè fieno q.b. per 24 cavalli). Il documento sottoscritto è andato poi nel tempo smarrito. Le 24 arimannìe sono corrispondenti a 300 fiorini di Maria Teresa d’Austria nel 1775, un gravame che possiamo valutare non proprio del tutto leggero. Questo documento, passato alla storia, fu esibito ogni qualvolta si rese necessario arginare le pretese e gli abusi delle Signorie trentine e tirolesi. Il Palazzo [ ] fu costruito dal Vescovo Bernardo da Cles, detto il Clesio, e adibito a residenza estiva, lontano dall’afa di Trento. Nel 1850 fu poi acquistato dalla Magnifica Comunità di Fiemme che ne fece una sede amministrativa. Restaurato di recente, sta per essere adibito a museo. stampa&editoria Il volume LA GONDOLA NEI SECOLI ha vinto il Premio Gambrinus “Giuseppe Mazzotti” 2012 per il più bel libro riguardante l’artigianato di tradizione www.vianellolibri.com Giuseppe Mazzotti, nato a Treviso il 18 marzo 1907 e scomparso il 28 marzo 1981, fu alpinista e scrittore, animatore culturale e difensore delle tradizioni popolari, artista e ambientalista, promotore del turismo e accademico della cucina. E' stato, per vastità d'interessi e capacità d'incidere sul corso degli eventi, una delle personalità di maggiore spicco della cultura veneta e nazionale contemporanea. In anni difficili e con pochi illuminati compagni di strada, ha saputo precorrere alcune delle vie maestre, sul fronte della sensibilizzazione e della salvaguardia delle bellezze naturali ed artistiche, con un occhio di riguardo per la sua "Marca Gioiosa". È la passione per l'arte ad avvicinarlo nei primi anni di attività ad alcuni dei giovani protagonisti della vita culturale trevigiana, tra i quali Arturo Martini, Gino Rossi, Toni Benetton, Juti Ravenna, Sante Cancian, Arturo Malossi, e gli scrittori Giovanni Comisso e Dino Buzzati. Nel 1926, inizia l'attività di editorialista, che l'accompagnerà per tutta la vita.L'Ente Provinciale per il Turismo, del quale sarà direttore per ben 37 anni, a partire dall'inizio degli anni Trenta, segnerà in modo indelebile la sua vita e il suo lavoro. Appassionato alpinista, sempre in quegli anni compie la sua maggiore impresa, partecipando alla conquista dell'inviolata parete est del Cervino: avventura che gli ispirerà l'opera Grandi imprese sul Cervino, uscita due anni più tardi. Accademico del Club Alpino Italiano ha pubblicato numerosi libri tradotti in varie lingue, con uno dei quali, "Montagnes Valdòtaines", ha vinto nel '51 il premio "Saint Vincent". Negli anni Cinquanta sposa appieno la causa delle Ville Venete, affiancando il proprio impegno a quello di alcuni amici studiosi, come Michelangelo Muraro e Renato Cevese. È stato consigliere del Touring Club Italiano, Presidente della sezione di Treviso di "Italia Nostra", componente della Società Europea di Cultura, vicepresidente dell'Associazione Scrittori Veneti, ispettore onorario ai Monumenti, delegato dell'Accademia italiana della cucina, insignito del premio "Città di San Liberale", assegnato ai cittadini benemeriti di Treviso. Grafiche Vianello www.grafichevianello.it NEL 9° SECOLO DEI “PATTI GEBARDINI” ANNO 1111, IL 14 LUGLIO IN BOLZANO grafichevianello@grafichevianello.it RICORDIAMO GIUSEPPE MAZZOTTI NEL 30° DEL PREMIO LETTERARIO GAMBRINUS 96 QVOTA 864 DICEMBRE 2012 Tre cime di Lavaredo da Sud Foto di Vittorio Corona