qvaderni di vita di montagna

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qvaderni di vita di montagna
Semestrale del CLUB ALPINO ITALIANO - Sezione Cadorina “Luigi Rizzardi” AURONZO DI CADORE (BL) - ANNO XIII n. 26. Dicembre 2012 - € 3,80 - Spedizione in A.P. - 45% - art. 2, comma 20/b, Legge n. 662/96 - DCI - Belluno
QVADERNI DI VITA DI MONTAGNA
QVOTA 864
QVADERNI DI VITA DI MONTAGNA
“Quando arrivi in vetta ad un monte non fermarti, continua a salire”
Un Maestro del buddismo Zen
ANNO XIII. N. 26. DICEMBRE 2012. Semestrale
Registrato presso la Cancelleria del Tribunale di Belluno col n. 15/2000 in data 01.08.2000
Iscritto al Registro Nazionale della Stampa n. 10331 - R.O.C. N. 6944
Spedizione in abbonamento postale - 45% - art. 2, comma 20/b, Legge n. 662/96 - D.C.I. Belluno
PAOLA DE FILIPPO ROIA
Direttore Responsabile
GLAUCO GRANATELLI
Direttore Editoriale
e-mail: glaucogra natelli @ virgilio.it
COMITATO DI REDAZIONE
Bepi Casagrande, Alberto M. Franco (G.I.S.M.)
Mirco Gasparetto (G.I.S.M.), Mario Spinazzè
Questo numero esce in collaborazione con l’Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti” di Fermo
HANNO COLLABORATO:
La Posta Svizzera, Museo Nazionale della Montagna di Torino,
Censi C., Comelli L., Gagliardi L., Galvan A.E., Majoni E., Orlich V.
Patriarca E., Sega I., Vaia F., Vecellio B., Vincenzi G., Zangrando A. e Bacci C.
FOTOGRAFIE di Corona V., M.N.M. di Torino, Granatelli G., Majoni E.
Patriarca E., Zangrando A. e Bacci C.
EDITORE - CLUB ALPINO ITALIANO
Sezione Cadorina “Luigi Rizzardi”
Piazza Regina Pacis, C.P. 30, 32041 Auronzo di Cadore BL - Tel. 0435.99454
REDAZIONE
Via B. Ricasoli, 13 - 30174 Venezia-Mestre - Tel. 041.942672
e-mail: quota864@ca iauronzo.it
STAMPA
Grafiche Vianello srl - Via Postioma, 85 - 31050 Ponzano TV
Prezzo di copertina € 3,80 - Numeri arretrati € 7,00
Abbonamento 2012: Ordinario € 6,00 - Sostenitore € 8,00 - Benemerito € 12,00
C.C.P. n. 63312789 intestato al C.A.I., P.za Regina Pacis, 32041 Auronzo di Cadore (BL)
© Proprietà letteraria, artistica e scientifica riservata. Tutti i testi possono essere liberamente riprodotti citando la fonte
Unione Stampa Periodica Italiana
Collezione Vladimiro Orlich
Questo periodico è aperto a quanti desiderino collaborarvi ai sensi dell’art. 21 della Costituzione della Repubblica Italiana che così
dispone: “Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni mezzo di diffusione”. La
pubblicazione degli scritti è subordinata all’insindacabile giudizio della Redazione; in ogni caso, non costituisce alcun rapporto
di collaborazione con la testata e, quindi, deve intendersi prestata a titolo gratuito. Notizie, articoli, fotografie, composizioni
artistiche e materiali redazionali inviati alla rivista, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. Gli scritti pubblicati rispecchiano esclusivamente le idee personali dell’autore e non riflettono necessariamente il pensiero ufficiale del Club Alpino Italiano.
SOMMARIO
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ORGANICO DELLA SEZIONE
PREPARIAMOCI AGLI EVENTI, FIDUCIOSI NELLA COLLABORAZIONE DEI NOSTRI LETTORI
Paola De Filippo Roia - Cerchiamo soluzioni per l’ospitalità in quota e offriamo una possibilità di lavoro nei nostri paesi
MINIERA DI ARGENTIERA SUL TORRENTE ANSIEI
Rievocazione storica da una scheda di rilevazione di opere, manufatti e siti del progetto Drau Piave
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CAI 150... E DOPO?
Massimo Casagrande - Possiamo essere artefici di un cambiamento, anche in una piccola Sezione di montagna
A COLLOQUIO CON I LETTORI a cura di Glauco Granatelli. G.I.S.M.
LA SETTIMA ARTE AL SETTIMO CIELO a cura di Glauco Granatelli. G.I.S.M.
Parliamo di cinema di montagna in occasione del 60° del Trentofilmfestival
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150 ANNI NEL 2013 - Massimo Mila
È una lunga storia di cui anche noi facciamo parte. Riviviamola insieme (continuazione)
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VAL D’ANSIEI: SONO DI SCENA LE DOLOMITI
Un excursus tra le montagne e i boschi che si affacciano nella nostra valle
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I LUOGHI DEL SACRO
La parrocchiale di Santa Giustina - Paola De Filippo Roia
BERNARDO, un santo “tutto” nostro
San Berbardo da Mentone, Patrono degli alpigiani e degli alpinisti
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FRANCESCO, IL LUPO E I DAHÜ - Ettore Patriarca
In bici sulle tracce di San Francesco
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DALLE DOLOMITI ALL’UNIVERSITA’ “BROWN” DI PROVIDENCE
MONTE PIANA, luogo di memorie e di eroismi - Angelo Zangrando e Cristina Bacci
Alla ricerca di memorie e testimonianze storiche che il tempo e l’oblio degli uomini rischiano di far scomparire
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UNA SALITA SUL POPENA BASSO - Ernesto Majoni. G.I.S.M.
Emozioni in una plumbea giornata di settembre
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...a proposito dei 150 anni del CAI
LIBRI, RIVISTE, GIORNALI... E ALTRO ANCORA
Anastatiche
Salita al Monte Viso. Narrazione di Guglielmo Matkews (continua)
RACCONTI, LEGGENDE, POESIE...
Passi - Luciano Comelli
La morte del grande cipresso - Luigi Rotelli (pagg. 66-67)
La sorgente di tre crode - Lorenzo Gagliardi (pagg. 68-69)
ABBIAMO LETTO PER VOI
La montagna e la curiosità di Ötzi - Vaia Franco
La montagna, la luna e l’altro - Alberto E. Galvan (pagg. 71-75)
UN UOMO D’ALTRI TEMPI E D’ALTRI LUOGHI - Bruno Vecellio
STRADE. La Valsugana - Ierma Sega
1914, IL TENTATIVO SHACKLETON IN ANTARTIDE - Cesare Censi
A TAVOLA COI LARES
GFM - GRUPPO FILATELICI DI MONTAGNA
Treni. A proposito del centenario della ferrovia della Jungfrau - Die Post (pag. 86)
40 anni tutti da ricordare. Un’esperienza unica ed indimenticabile (pagg. 91-93)
Montagne in rosa - Mirco Gasparetto G.I.S.M. (pag. 94)
Ricordiamo Giuseppe Mazzotti nel 30° del Premio Letterario Gambrinus (pag. 96)
I “Patti Gebardini”(pag. 96)
ORGANICO DELLA SEZIONE 2010-2012
ANNO DI FONDAZIONE 1874
Presidente - Massimo Casagrande
Vice-Presidente - Davide Da Damos
Consiglieri - Bortolo Da Pra, Apollonio Larese Filon, Monti Paolo, Roberto Zanette
Segreteria - Elisa Cella De Dan
Revisori dei Conti - Sergio Boso, Francesca Caldart, Federica Monti
SOCI N. 686: Ordinari 296 - Familiari 200 - Giovani 104 - Aggregati 86
Vitalizi N. 2: Magnifica Comunità di Cadore (Delibera del 15.9.1925), Leonardo Vecellio
Venticinquennali: Amadei Maurizio, Lombardi Stefano, Maroldo Giacomo, Pais Becher Giuseppe,
Tognetti Renzo, Zandegiacomo Prussia Angelo, Zanette Eliana
STRUTTURE DELLA SEZIONE
Rifugio Auronzo
Forcella Longéres m 2330 slm alle Tre Cime di Lavaredo - tel. 0435.39002 - 62682
Rifugio G. Carducci
Alta Val Giralba m 2297 slm alla Croda dei Tóni - 0435.400485
Bivacco F.lli Fantón
Alta Val Baión m 1750 slm nel Gruppo delle Marmaròle
TESSERAMENTO da effettuare - preferibilmente - entro il 31 marzo
ll tesseramento è un atto d'amore verso la montagna e un atto responsabile.
Quote associative: Socio Ordinario € 41,00 - Famigliare € 22,00* - Giovane € 16,00** - Ammissione nuovi Soci € 5,00.
* I Soci Famigliari devono essere componenti del nucleo famigliare del Socio Ordinario, con esso conviventi e di età maggiore
di anni 18. Sono Soci Giovani i minori di anni 18 (nati nel 1995 e seguenti).
** E’ prevista una quota agevolata di € 9,00 per il secondo, il terzo Socio Giovane e seguenti, purché appartenenti a famiglia il
cui capo nucleo sia già iscritto quale Socio Ordinario e con esso coabitanti. Per informazioni vi invitiamo a chiamare il tel.
n. 0435.99454 (con servizio di segreteria telefonica) o ad inviare una mail a [email protected] - ll versamento delle quote può
avvenire anche a mezzo di c/c postale n. 63312789 intestato al CAl, Sezione Cadorína - 32041 Auronzo di Cadore BL, presso
l’Unicredit Banca Spa, Agenzia di Auronzo di Cadore . codice IBAN IT86E0200861020000003411021 oppure Cartolibreria La
Stua (via Vecellio), Cartolibreria Il Papiro (vi a Piave), Ufficio Skipass c/o Ufficio Turistico Palazzo Municipale (via Roma).
IN COPERTINA - Visione aerea di Auronzo e della Val d’Ansiei. Areaphoto
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Abb.: Le Alpi Venete € 5,00 - Le Dolomiti Bellunesi (soci non locali) € 8,00
ORGANICO DELLA SEZIONE 3
PREPARIAMOCI AGLI EVENTI, FIDUCIOSI NELLA
COLLABORAZIONE DEI NOSTRI LETTORI
el 1968 per il cinquantesimo anniversario della vittoria, ci
fu una grande mobilitazione: molti erano ancora i reduci
della Grande Guerra ed il Presidente della Repubblica di
allora Giuseppe Saragat, classe 1898, era uno di questi.
Il governo stanziò 600 milioni per le manifestazioni celebrative. Alcuni
ricordano soprattutto la sera del 4 novembre in cui lungo il Piave ed il
Montello si radunò una moltitudine silenziosa e commossa. Volò nella
notte anche la pattuglia acrobatica con i famosi G.91.
Ma ormai ci avviciniamo al centenario e l'interesse per gli eventi che
tanto hanno inciso nella storia e nella geografia delle nostre Dolomiti,
si sta vieppiù ravvivando.
La Regione Veneto si è fatta promotrice di vari incontri, durante i quali si sono confrontati i
progetti e le iniziative portate avanti da diversi gruppi, soprattutto volontari. Anche dall'altra
parte del fronte di allora, in Val Pusteria, c'è chi si interessa vivamente e possiamo segnalare il recentissimo "museo all'aperto" visitabile d'estate a Forcella Undici e Alpe Anderta, sopra
la Val Fiscalina.
Ci piacerebbe che anche i lettori della nostra rivista si sentissero coinvolti e interessati e non
facessero mancare le proposte ( e magari anche proporsi come volontari ) per le iniziative
da prendere nel nostro territorio.
Altro argomento che ci sta a cuore, ed anche qui ricorre un anniversario, il cinquantesimo, è
una riflessione sui bivacchi che la Fondazione Antonio Berti, con una solerzia operativa che
non conosciamo più, in pochissimi anni posò sui monti che fanno corona alla Val d'Ansiei:
sono ben nove!
Il progetto risaliva all' ing. Giulio Apollonio, poi leggermente modificato dall' ing. Baroni e fu
uno standard diffusissimo in tutte le Alpi. Nella nostra zona la realizzazione fu opera di un
valente ed appassionato falegname, Redento Barcellan, che molti di noi ricordano presente a
varie manifestazioni fino agli ultimi anni.
Una prima considerazione è l'apprezzamento per la qualità costruttiva dei bivacchi stessi che
dopo 50 inverni, e con qualche modesto intervento di ripittura, gagliardamente continuano ad
affrontare le intemperie - con la sfortunata eccezione del nostro bivacco Fanton, piegato ma
non distrutto dalle slavine!
Se da un lato essi hanno creato un punto di riferimento per organizzare gite e sono larghissimamente conosciuti, dall'altra la loro capienza, spartana ospitalità, alta quota e spesso mancanza d'acqua nelle vicinanze, hanno forse frenato la frequentazione di valli peraltro bellissime. Indubbiamente noi siamo meno spartani dei nostri predecessori ed apprezziamo l'opportunità di un locale accogliente ed un pasto caldo, come molti rifugi si stanno attrezzando ad
offrire anche d'inverno!
Non sarebbe allora sbagliato, a mio modesto avviso, aprire un confronto sulle soluzioni migliori per aggiornare anche da noi l'offerta di ospitalità in quota. Con l'obiettivo non secondario di
offrire una possibilità di lavoro nei nostri paesi, cosa che sta incontrando tante difficoltà soprattutto tra i giovani.
N
Paola De Filippo Roia
Direttore
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Miniera di Argentiera sul torrente Ansiei
dalla SCHEDA DI RILEVAZIONE DI OPERE, MANUFATTI E SITI PROGETTO DRAU PIAVE
SCHEDA N.119 - Miniere dell'Argentiera e di Salafossa Tipologia AI
Tra le miniere storiche del distretto minerario di Auronzo - Argentiera, Pian da Barco, Grigna
e Ferrera - solo la prima possiede ancora alcune strutture edilizie di un certo interesse testimoniale, sebbene esse siano povere di contenuti architettonici e tecnologici ed in uno stato
ormai irreversibile di obsolescenza fisica; l' invaso della cava, inoltre è attualmente utilizzato
come discarica di rifiuti. Il particolare interesse è comunque dato dalla singolarità dell' inserimento di questa struttura industriale nell'incontaminato paesaggio di una tra le più belle valli
dolomitiche. La miniera è situata infatti sulla riva destra del torrente Ansiei, dieci km a monte
di Auronzo, sulle pendici del monte Rusiana, poco prima che la stretta valle si apra a formare
quella che fu una tra le più belle foreste del demanio della Serenissima: il bosco di San Marco.
Con tutta probabilità la miniera era attiva nel medioevo con maestranze tedesche; sta di fatto
che le prime concessioni di sfruttamento di cui si ha notizia sono compilate secondo le consuetudini germaniche. Nei primi tempi l'attività consisteva esclusivamente nell' estrazione della
galena per isolarvi l'argento; in seguito si aggiunse l'estrazione del piombo, che veniva fuso ad
Auronzo. L' interessamento per l' attività mineraria dell' Argentiera da parte della Repubblica
di Venezia (alla quale il Cadore si diede nel 1420) fu sempre attivo, al fine di assicurare
l' afflusso del piombo all' Arsenale. Nel 1675 il consiglio dei Dieci investi della miniera il
Comune di Auronzo, il quale la affidò a vari imprenditori con la clausola che fossero impiegate esclusivamente maestranze locali. Si continuò ad estrarre galena da cui ricavare il piombo
accumulando ingenti scarti di calamine a buon tenore di zinco, metallo del quale non era ancora conosciuta la metallurgia. La miniera, dopo un periodo di crisi dovuta all' esaurimento del
filone di galena, passò in affitto all'Erario Montanistico Austriaco sino al 1860; venne poi affidata alla ditta Angherer che iniziò l' estrazione dello zinco dando mano agli accumuli di materiale di scarto prodotti in secoli di sfruttamento. Verso la fine dell' 800 la miniera fu ceduta alla
Società Montanistica di Sagor (Lubiana), che iniziò un grande programma di coltivazioni a celo
aperto, sistema che fu in uso prevalente sino all' ultima gestione da parte della ditta Pertusola,
che cessò definitivamente la produzione nel 1971. Le lavorazioni, che si sono svolte sostanzialmente, senza variazioni dalla fine del XIX secolo alla chiusura, sono bene evidenziate dalle
diverse sagome degli edifici che compongono il manufatto. Il materiale estratto veniva portato
per mezzo di una decauville alle tramogge e da queste ad un piano inclinato sul quale scivolava sino agli edifici a gradoni delle laverie, ove si procedeva alla cernita e alla sfangatura utilizzando l'acqua dell' Ansiei derivata più a monte. In seguito il materiale veniva triturato nel
mulino frantoio e si compiva la
separazione per gravità del materiale di piombo da quello di zinco in
vasche di legno attrezzate con vagli
a scosse. I minerali venivano quindi
ammassati nella parte bassa dell'impianto, in attesa del trasporto
negli stabilimenti di estrazione dei
metalli.
Nella scheda si legge: Gli edifici in
superficie di entrambe le miniere
sono in stato di abbandono e risultano per questo, compromessi. Quegli
edifici oggi non esistono più.
PREPARIAMOCI AGLI EVENTI, FIDUCIOSI NELLA COLLABORAZIONE DEI NOSTRI LETTORI 5
CAI 150... E DOPO?
el 2013 ricorreranno i 150 anni della fondazione del Club
Alpino Italiano. Un traguardo alquanto singolare, tale da
non limitarsi solamente a onorare l'importantissimo
anniversario raggiunto, ma utile per riflettere sull'attualità dei principi posti alla base dell'atto di fondazione voluto da una
quarantina di soci, nel Castello del Valentino a Torino, mentre correva l'anno 1863.
Appartenere al Club Alpino significava in quegli anni riconoscersi in
una nazione appena nata, sentire proprio un certo rigore etico e morale, esercitare il corpo e la mente per cimentarsi in imprese a volte
molto pericolose ed eroiche. Un atteggiamento un po' elitario dettato
dalla consapevolezza che le tematiche trattate, quali quelle sociali, scientifiche, ambientali e
di civilizzazione, non erano ancora un sentimento diffuso fra la cittadinanza e che impegnarsi in tal senso palesava il proprio spirito progressista. Lo statuto odierno è ancora basato sui
medesimi e validi principi anche se ciò che è cambiato nel frattempo è la società che, evolvendosi, ha fatto propri e mediamente diffusi, i fondamenti che oggi definiamo "di civiltà" e
alcune buone pratiche che allora potevano essere appannaggio di pochi eletti.
Tali valori però, pur essendo riconosciuti e condivisi, sono oggi messi in pericolo dalla scala
delle priorità con la quale, particolarmente chi ci governa, è costretto a fare i conti ogni giorno
per garantire un futuro economicamente certo e promettente. Ecco quindi i recenti scontri per
la viabilità, l'espansione edilizia, i caroselli sciistici, lo sfruttamento idroelettrico di fiumi e torrenti e via via dicendo tutto ciò che confligge con la naturalità dei territori. Fortunatamente in
anni recenti è stato introdotto il concetto di sostenibilità e green economy a maggior tutela
della pianificazione e della programmazione generale, pur essendo troppo spesso concetti
relegati all'ambito convegnistico e saggistico più che discussi nei consigli dei vari organi territoriali. Il ragionamento fin qui svolto, ci porta a considerare perlomeno l'attualità e l'adeguatezza, se non l'efficacia, delle tematiche entro le quali si dibatte il CAI nelle direttrici imposte
dai suoi organi centrali mediante tutto il complesso sistema della comunicazione che informa,
forma e diffonde a mezzo degli organi periferici. L'organo periferico per antonomasia, nel
nostro sodalizio, è rappresentato dalle singole sezioni, dotate di grande autonomia, pur facendo parte di un insieme che genera, determina ed elabora la ricca architettura culturale a cui
accennavamo in apertura. Ma cosa sta succedendo all'interno di queste sezioni ed in particolare di quelle medio piccole delle quali più facilmente possiamo argomentare essendo a noi
più vicine?
Un pessimista empirico potrebbe rispondere "pochino" ma sarebbe un giudizio riduttivo,
nichilista e fondamentalmente ingiusto nei confronti di quanti si impegnano e promuovono le
varie attività sezionali. Certo è che vi sono molti campanelli di allarme che annunciano seri
pericoli per tutte le associazioni di volontariato e di integrazione sociale. Ciò si verifica sebbene non sia in discussione il valore dei principi fondativi, come dimostrato in apertura, e
nonostante la stabilità della base sociale, dato il numero cospicuo dei soci iscritti. Ciò che
manca è la voglia di mettersi in gioco, la soddisfazione di porre il proprio tempo libero a servizio di un bene collettivo e, soprattutto, la mancata gratificazione nel farlo. Nessuno chiaramente si aspetterebbe un busto in bronzo in un qualche atrio d'ingresso ma la sensazione
che quanto si sta facendo è, se non condiviso in toto, almeno apprezzato, discusso e al limite costruttivamente criticato dai propri correligionari, è una condizione imprescindibile per
continuare ad operare all'interno di una libera associazione. Alle istanze per la formazione
dei consigli amministrativi, per i gruppi di lavoro, per la programmazione di nuovi interventi ci
N
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si sente sempre più spesso rispondere "Non ho tempo" "Chi me lo fa fare", "Ho già abbastanza problemi" "Tanto non cambierà nulla". Viene meno la fiducia nell'operare collettivo,
nella potenzialità dell'intervento sinergico e della collegialità nel perseguire un obiettivo
comune. Se uno sforzo vale farlo allora è in questa direzione che conviene andare: responsabilizzare il singolo socio, coinvolgerlo affermando che non basta pagare una volta l'anno il
famoso "bollino" per tener fede al proprio ideale ma è necessario essere parte attiva del sistema anche solo con un piccolo impegno personale che, unito a quello di molti, può realmente
determinare la differenza. Nell'essere incisivi a livello locale si potrebbe creare un'areale di virtuosità, non importa quanto piccolo esso sia, si tratti del proprio giardino di casa o del proprio
comune: l'importante è innescare pratiche virtuose emulabili. Questo non vale certamente
solo per il Club Alpino Italiano ma andrebbe applicato in ogni manifestazione della nostra
società; dalla politica che anziché essere l'arte di amministrare diventa sempre più spesso l'arte di
arraffare, all'economia che punta tutto sulla concorrenza e sul libero mercato adottando
modelli che sempre meno tengono conto dei particolarismi, premiando solo i macro-sistemi.
Tutto fa pensare ad una crisi che sempre più mette in discussione il modello generale, non
applicabile alla gran parte dei territori nei quali non sono riscontrabili i parametri per i quali valgono le regole della globalizzazione. Allora riprendiamoci i nostri spazi, gestiamoli con regole
che vi si adattano e che sono figlie dell'esperienza e della conoscenza, sfruttiamo i particolarismi e le peculiarità con modelli forse non esportabili ma probabilmente più efficaci e più
premianti di tante teorie generaliste. Assumiamo il coraggio di fare più che criticare, dimostriamo
che possiamo essere gli artefici di un cambiamento, anche in una piccola realtà, anche in una
piccola sezione di montagna.
Intacto vertice ardens.
Massimo Casagrande
Presidente
Domenica 14 luglio 2013 Pian Di Pezzè – Alleghe: adunanza delle quattro sezioni centenarie
della provincia di Belluno: Agordo, Auronzo di Cadore, Belluno e Cortina d’Ampezzo.
Domenica 11 agosto 2013 Cortina d’Ampezzo: sfilata di tutte le sezioni del Veneto con convegno e celebrazioni.
Domenica 8 settembre 2013: sarà effettuata in contemporanea la salita di 150 vette appartenenti al comprensorio montuoso della regione Veneto. L’attività impegnerà diverse
centinaia di soci, distribuiti nello spazio alpino veneto. È stato realizzato l’elenco delle
150 cime da ripartire tra le 64 sezioni CAI della regione; ogni cordata avrà in dotazione un fumogeno colorato da attivare alle ore 14.00 sulle 150 cime.
N.B. Gli eventi potranno subire variazioni nella calendarizzazione.
A COLLOQUIO CON I LETTORI
come ricominciare. Ce l’abbiamo messa tutta, o quasi.
Leggevo su “ Il Sole 24 Ore ” della Domenica di qualche
mese fa un articolo di Pier Luigi Sacco: “ La cultura come
« materia prima » “. La molla prima di questo nostro
“essere” è tutta qui: “ Tanto per il pubblico che per il privato, c’è una
responsabilità congiunta nella salvaguardia del nostro patrimonio culturale, che non è soltanto un archivio straordinario e insostituibile di
creatività, valori estetici, idee senza tempo, ma anche una materia
viva, che continua a costruirsi e a evolvere ogni giorno, sotto i nostri
occchi, tanto più quanto più la nostra creatività è all’altezza del passato da cui si alimenta ”. E questa materia viva è il nostro patrimonio,
grande, immenso che dobbiamo difendere e tramandare. Questo è il compito di cui ci siamo
fatti carico e con l’aiuto di tutti voi Lettori, sono certo, lo porteremo avanti.
Avrete notato come dallo scorso numero abbiamo inserito in copertina il logo dei 150 Anni del
CAI. Vogliamo con questo segnale ricordare l'evento che ci vedrà partecipi di alcune iniziative mirate e vogliamo sentirci una cosa sola con la grande famiglia del CAI.
In quest'ottica ci stiamo muovendo con la nostra rivista pubblicando testi storici che ci rimandano ai primordi dell’alpinismo: attingendo alla vasta letteratura sul Monviso iniziamo, in due
puntate, con il resoconto di Guglielmo Matkews, cofondatore e poi Presidente dell’Alpine Club
di Londra.
È
A voler riportare le vostre lettere, tra cartaceo e virtuale, ci sarebbe da riempire tutta la rivista.
Mi sta molto a cuore quanto ha scritto Don Bracchi per il tramite di Gian Carlo: “QVOTA 864...
che lavoro!! Complimenti. E’ un quaderno robusto: storia. informazioni, famigliare, ricordi e
progetti, poesia. Viva le Dolomiti che confesso di non aver amato molto a motivo del servizio
militare fatto in quelle zone. Stupende le Dolomiti ma fui stregato dal fascino arcigno delle Alpi.
Tutto, tutto il creato è bello... è una via che porta ad incontrare il Creatore. Don Roberto ringrazia QVOTA 864 che molto apprezza”.
C’è un cammino che queste pagine stanno tracciando, una via di salita alla vetta condivisa da
molti di voi, oltre la quale ci fermiamo - perché lì finisce il nostro compito. Più oltre solo il detto
del Maestro del buddismo Zen. Me lo ricordava in questi giorni Paolo, nelle lunghe ore trascorse insieme a Sportsdays discutendo, appunto, di alpinismo.
Jean-Claude Mettefeu è giunto alla sua 5a attraversata delle Alpi e si ricorda sempre di noi.
Aldo trova QVOTA 864 “bello, vario, interessante”. Non è facile creare qualcosa che sia coinvolgente. Porte aperte alla cultura, anzi spalancate, sui temi più vari. Tra questi la filatelia.
Ci sono molti modi per parlare di montagna. Puoi scrivere libri di memorie, puoi scrivere di
montagne e di alpinisti - la geografia che si sposa con la vita degli uomini; puoi scrivere testi
tecnici - dall’abbigliamento all’attrezzatura più sofisticata; puoi creare opere d’arte - anche il
salire può essere un’arte. Lo scriveva Guido Rey: “Io credetti e credo la lotta con l’Alpe... nobile come un’arte”. Sono senzazioni che si ripetono ogni volta, sia che tu stia salendo sia che,
forzatamente dal basso, tu stia contemplando questa meraviglia.
Ma c’è anche un altro modo, un po’ anomalo se vogliamo, che è quello di raccogliere francobolli. Un modo che ti prende sin da bambino e non so dirvi da che cosa sia determinato.
Dapprima raccogli un po’ di tutto, poi un bel giorno ecco che scopri le montagne e scopri che
con quei piccoli pezzettini di carta puoi viaggiare, puoi salire. Potrei aggiungere dell’altro, ma
leggiamo insieme cosa ci scrive Ugo, fedele interprete del nostro pensiero: “Mi dispiace che
altri Enti, vicini a noi per gli obiettivi che ci accomunano [...] non riescano a capire l’importanza di lavorare assieme per la Montagna, anche se solo nell’ambito della filatelia (ma non è
solo questo!)! Scoprire le attività pionieristiche delle prime scalatrici, lavorare a fianco di premi
letterari importanti, seguire le spedizioni di alpinisti italiani, ecc. non è fare solo filatelia: sicuramente il momento non è dei migliori ma penso che la filatelia, sia come passione sia come
strumento di lavoro nelle poste, a 360°, sopravviverà... non dobbiamo mollare/morire, dobbiamo sopravvivere con quei pochi che amano un pezzetto di carta adesivo, un’impronta d’inchiostro, una vecchia cartolina. Sono sicuro che ce la faremo, nonostante tutto. Volevo dire
quello che avevo dentro: non sarà molto ma viene dal cuore”. Grazie Ugo.
Glauco Granatelli
Redattore
Il Monviso
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A COLLOQUIO CON I LETTORI 9
LA SETTIMA ARTE AL SETTIMO GRADO
"Il cinema racchiude in sé molte altre arti; così
come ha caratteristiche proprie della letteratura,
ugualmente ha connotati propri del teatro, un
aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica."
Akira Kurosawa
Partendo da questo assunto inoltriamoci per un sentiero un po’ più aspro e con un «arte» altrettanto difficile, certamente diversa. Ma non voglio assolutamente chiedervi di legarvi in cordata con me. Vorrei,
però, che utilizzando un mezzo così bello e affascinante, un’arte settima nell’elenco convenzionale
delle arti, saliste con me al settimo grado, ben al di
là del limite dei nostri padri.
Vi mostreremo, con il benestare del Museo Nazionale
della Montagna che ringraziamo, una serie di documenti sorprendentemente accattivanti e tragici al
tempo stesso, poetici e tristi. E’ il cinema.
Sull’argomento sono stati scritti libri, sono state fatte
mostre, convegni e festival. Il cinema continua la sua
strada, dalle sale all’home video. Una recente collana del “La Gazzetta dello Sport” “ci permetterà di capire qualcosa di più del cinema di montagna, a partire
dalle sue diverse anime: quella cara agli alpinisti e
agli appassionati di montagna e quella cara a chi
apprezza i valori filmici. Anime che si sono ritrovate
ad andare a braccetto in un preciso periodo, nella
seconda metà degli anni ‘20, gli anni in cui in Austria
e Svizzera si è sviluppato il “Bergfilm” di Fanck e poi
di Trenker.” Roberto De Martin
Quanto più la società moderna è divenuta civiltà
delle immagini - inventando mezzi di comunicazione
tecnologicamente potenti e complicati, ma facili da
maneggiare, in grado di elaborare molteplici linguaggi rapidamente accessibili - il manifesto ha
dovuto condividere la propria funzione condizionatrice con i nuovi mezzi. Una condivisione che lo ha
indebolito, ma che ha affrontato dignitosamente
aggiornandosi espressivamente e nelle dimensioni e
riuscendo a non mettere mai in discussione la propria sopravvivenza. Divenuto oggetto di collezione
appassionata e di celebrazione di un rito per il quale
molti (anche giovani) nutrono profonde nostalgie
(per qualcuno i vecchi manifesti e le cartoline in cui
venivano ridotti sono come dei simulacri e dei «santini»), il manifesto cinematografico sa essere anche
animatore di memoria storica per coloro che vogliono conoscere il cinema superando il tempo effimero
della sua esistenza strumentale.
10 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
L’ENFANT DU MONTAGNARD. 1908
MAX EMULE DE TARTARIN. 1912
Il manifesto cinematografico è superato
dalla promozione sui
teleschermi con trailer raffinati; non sempre, ovviamente, raffinati; la gente che va
al cinema decide
informandosi, passandosi la parola,
leggendo le recensioni sui giornali. Anche
perché oggi un manifesto cinemato-grafico (e non soltanto
cinematografico) per
essere utile ed efficace deve avere dimensioni gigante-sche,
anzi, titaniche. E dunque costi proibitivi.
Per certi kolossal statunitensi ancora si fa,
ma di rado.
Il normale manifesto
deve vedersi e capirsi
alla distanza di cinquanta metri e in cinque
secondi. Dall’automobile e se il traffico non è
troppo veloce. Difficilissimo azzeccare un buon
richiamo: mestiere tra i più crudeli.
Rimangno esemplari dei manifesti del cinema di
alpinismo, i montaggi (disegno e fotografia) realizzati per Les etoiles de midi, Francia, 1959.
Gran Premio del Festival di Trento, dell’insosti-
L’ESCARPOLETTE TRAGIQUE
1913
tuibile e scomparso
Marcel Ichac.
Quel braccio teso e
l’espressione fiera di
Lionel Terray, e alle
sue spalle il Grand
Capucin, sono davvero il manifesto dell’Alpinismo,
senza
angosce, ottimista,
sereno e vincente.
A proposito dell’imporsi nell’immaginario
collettivo del grande
manifesto pubblicitario, quale invenzione
effimera, il critico francese Henry Baraldi
nel 1898 scriveva: “La
materia da collezionare più ingombrante, la
meno maneggevole e
la più deteriorabile”.
Ma i manifesti dei
film di montagna e di
esplorazione riescono a intrecciare la storia del cinema, dell’alpinismo e della conquista del pianeta, dell’avventuroso rapporto fra l’uomo e l’ambiente naturale, del modello antropologico e culturale della
montagna.
Sono indizi preziosi per comprendere come eravamo e come siamo divenuti frequentando con
amore le sale di proiezione e le montagne.
IM KAMPF MIT DEN BERGE
1921
RIF UND RAFF DIE FRAUENHELDEN
1926
LA SETTIMA ARTE AL SETTIMO GRADO 11
HERZOG HANS’L
1928
LAVINEN
1929
La montagna che ritroviamo nei manifesti è la
stessa della realtà quotidiana? È difficile affermarlo. Si ha comunque la chiara impressione
che nelle valli e sulle vette del cinema non si
muovano persone normali. Ci sono i primi conquistatori del West alla ricerca di nuove terre,
ma anche dell’oro; le famiglie forzatamente felici che vivono tra orsi e cerbiatti, con a fianco
cani e lupi straordinari; gli aerei cadono (e sono
tanti a vedere le pellicole) sul Monte Bianco,
Dolomiti, Ande, Tibet...1, gli agenti più o meno
speciali sono impegnati in imprese al di sopra
delle possibilità umane.
Ci chiediamo se una migliore sorte è riservata
agli alpinisti. Anche in questo caso le situazioni
FLYKTEN FRÅN DJÄVULSKLYFTAN
1930
12 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
DER GEFANGENE DER BERNINA
1929
normali sono poche: Silvester Stallone traspone
il mito di Rambo tra le rocce2 e Clint Eastwood
sale l’Eiger senza eccessiva rispondenza alla
realtà3. La stessa sorte è lasciata allo sci che è
solo exploits; a sottolinearlo viene anche scomodato - per quanti lo ricordano - il mitico JeanClaude-Killy4. La montagna è anche luogo di
amori e intrighi: storie a tre, vacanze caotiche e
compromettenti, maestri e maestre di sci disponibili, affascinanti guide alpine e, a quanto enuncia il titolo, Sole, sesso... e pastorizia!5.
Non possiamo dimenticare le aquile, volatile
alpino per eccellenza (c’è anche nello stemma
del nostro CAI): la valle, il nido e addirittura
Chiamami aquila6.
TEMPËTE SUR LE MONT-BLANC
1930
CONTE BLANC
1930
LE SAUT DANS L’ABIME
1931
MADEMOISELLE JOSETTE MA FEMME
1933
Un’ultima speranza di rispondenza alla montagna reale la possiamo forse trovare nei testi promozionali dei manifesti: «Mai visto sugli schermi
nulla di più terrificante»7. «La clamorosa storia di
cannibalismo dei nostri giorni. Attenzione.»8.
«L’avventurosa vicenda di un pugno di uomini
che non si arresero di fronte alla morte»9. «8000
metri e l’adrenalina può ucciderti in 8 secondi»10.
Il cinema è spettacolo e finzione, per vedere un
mondo più reale ci sono i documentari. Nei
manifesti si leggono i mutamenti della nostra
società, dei gusti e dei modi di vita e, non ultimo,
il cambio di approccio alla montagna, all’alpinismo. Il manifesto di The hight country11 con un
dolce abbraccio sulla cima raggiunta da una
DER EWIGE TRAUM
1934
UN DE LA MONTAGNE
1933
coppia ci riconduce a quel mondo reale che avevamo tanto cercato. Non avevamo dubbi, esiste
davvero. Un altro film con il suo titolo ci aveva
sempre rassicurati in questo percorso: In montagna sarò tua12. g.g.
1
La montagna, di Edward Dmytryk.1956; La montagna di cristallo, di Henry
Cass.1948; I sopravvissuti delle Ande, di Rene Cardona.1976; Alive, di
Frank Marshall.1993; Gli sciacalli (Pillards d'epaves), di Abner
Biberman.1955; 2Cliffhanger, di Renny Harlin.1993; 3Assassinio sull'Eiger, di
Clint Eastwood.1975; 4Grande slalom per una rapina, di George
Englund.1972; 5Sole, sesso... e pastorizia!, di Siggi Götz.1975;
6
Valle delle aquile, di Terence Young.1951; Il nido dell'aquila, di Philippe
Mora. 1987; Chiamami aquila, di Michael Apted.1982;
7-8
I soprravvissuti delle Ande, cit.; 9La tragedia del capitano Scott, di Charles
Frend.1948; 10K2, l'ultima sfida, di Franc Roddam.1992;
11
The high country, di Harvey Hart. 1980;
12
In montagna sarò tua, di Irving Cummings.1949.
LE DRAME U MONT CERVIN
1928
LA LOIS DES MONTAGNES
1919
LA SETTIMA ARTE AL SETTIMO GRADO 13
150
ANNI NEL 2013
È una lunga storia di cui anche noi facciamo parte. Riviviamola insieme.
P
rima di vedere brevemente i
personaggi che più validamente introdussero
la nuova pratica dell’alpinismo senza guide occorre
soffermarci su colui che
senza dubbio alcuno
portò per la prima volta
l’alpinismo italiano, sia
pure con guide, ai primissimi posti di rango
internazionale,
ossia
Luigi Amedeo di Savoia,
duca degli Abruzzi (18731933), e su colui che fu il
suo degno iniziatore alla montagna, l’avv. Francesco Gonella
(1856-1933): nel ‘77 il Cervino e il
Breithorn; il 2 agosto 1878, col marchese
Del Carretto e tre guide, colse la bella primizia
dell’Aiguille des Glaciers; nel 1881 fu alla Dufour
e al Bianco dal ghiacciaio del Dôme, dove poi
sorgerà il rifugio a lui intitolato; nel 1882
Monviso, Finsteraarhorn, Jungfrau, Bernina;
nell’83 Grandes Jorasses, Aiguille du Midi... nel
‘90 fece la prima ascensione della cresta Sud
all’Aiguille de Telèfre, il Dolent e l’Aiguille Noire
de Peutérey; nel ‘95 nutrita campagna nelle
Dolomiti.
Ma intanto il Duca degli Abruzzi era ormai entrato nella vita alpinistica di Gonella, che prese il
suo significato conclusivo in quest’opera assidua di educazione dell’illustre pargolo. Fu agli
inizi di luglio 1892 che Luigi di Savoia fece i suoi
primi approcci con la montagna. [...] Nel marzo
1897, insieme a Gonella e con le guide Perotti e
Proment, compie l’ascensione invernale del
Monviso, probabilmente in preparazione alla
sua prima spedizione extra-europea che avrà
luogo nell’estate al Monte S. Elia, nell’Alaska.
Poi c’è la spedizione al Polo Nord, dove viene
raggiunto il punto più settentrionale fino allora
toccato dall’uomo. Ormai la carriera alpinistica
del duca è lanciata verso le più alte mete di classe internazionale, e Gonella fatica a seguirlo.
14 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Dev’essere stato commovente il
distacco tra il maestro e l’allievo, quale si concretò
materialmente il 17 agosto
1898 in occasione della
salita all’Aiguille Verte
per la vergine Aiguille
San Nom: Gonella si
fermò alla Charpoua,
mentre il duca proseguiva
con
Joseph
Petigax, Laurent Croux e
Alphonse Simond.
Sei giorni dopo, con Croux
e Petigax, prima ascensione
della terza punta in altezza
delle Grandes Jorasses, battezzata Punta Margherita. Il 6 agosto
1901, con Petigax, Fenoillet, Croux e Savioz,
prima ascensione della più meridionale delle
dames Anglaises, battezzata Punta Jolanda. [...]
Le alpi sono ormai un campo d’azione decisamente limitato per il livello tecnico raggiunto da
Luigi di Savoia, col quale davvero per la prima
volta l’alpinismo italiano si allinea da pari a pari
con le punte più avanzate di quello europeo, e
con le salite delle Punta Margherita e Punta
Alexandra al vergine Ruwenzori nel 1906, con
l’epica impresa himalayana al Bride Peak, nel
1909 dove venne raggiunta la quota di 7500 m,
la più alta mai toccata dall’uomo fino allora, la
sua attività diventa oggetto di storia delle esplorazioni e dell’alpinismo extra-europeo.
Occorre ora far ritorno al piccolo mondo dell’alpinismo piemontese per seguire gli sviluppi della
nuova evoluzione impressa dalla generazione
seguita a quella dei pionieri.
Cesare Fiorio († 1931) nel 1876, al Bric Boucier,
in Val Pellice, si legò per la prima volta con Carlo
Ratti († 1935), che doveva diventare il suo compagno inseparabile di cordata. Furono gli autentici iniziatori di una sistematica pratica dell’alpinsmo senza guide in Italia.
La carriera di Cesare Fiorio ebbe fine con il
famoso incidente di capo d’anno 1894.
La prina generazione degli alpinisti piemontesi,
quella di Quintino Sella, era sempre riuscita a
farla franca. [...] Il sano passatempo di questi
uomini barbuti e baffuti che andavano in montagna per studiare la qualità delle rocce, la ra-refazione dell’atmosfera e il comportamento del
cuore e degli altri organi in alta montagna, sembrava perfettamente in regola con la morale
pubblica e privata. Nel 1881 la catastrofe
Marinelli scosse violentemente l’opinione pubblica, anche per la notorietà e il valore scientifico
della vittima. Quando ci si accorse che non si
trattava soltanto di piacevoli scampagnate nei
prati fioriti, con bevute di latte appena munto e
d’acque sorgive, ma che in montagna si poteva
lasciarci la pelle, cominciarono anche in Italia le
solite polemiche che l’alpinismo ha sempre
conosciuto, sul diritto di disporre della propria vita, i doveri verso la patria, la società, la
famiglia, la scienza, la religione e chi più ne
ha più ne metta.
La tragedia del Monte Rosa alla fine d’anno del
1893 fu come una miccia accostata alle polveri.
Il Il Club Alpino aveva organizzato una gita
sociale invernale alla Punta Gnifetti. La parte
finale della salita fu ostacolata da un maltempo
crescente: vento, tormenta, temperatura bassissima. A 80 metri sotto la Capanna Margherita,
che sorge in vetta alla Gnifetti, il tenente Giani
non riuscì più a proseguire. Si fermò, assistito
da Vigna, da Fiorio e da suo fratello, e da altri tre
alpinisti della comitiva. Il tenente Giani spirò
nella notte. Nella capanna, a 80 metri, dal luogo
dove si svolgeva la tragedia, c’erano, non solo
gli altri sette alpinisti della carovana sociale, con
le guide Perotti e Pernettaz, ma anche Maurizio
e Corradino Sella con le loro guide.
« Era buio - scrisse poi Corradino Sella - e ci
sanguinava il cuore lasciarli là. Non mi venne in
mente di portar loro coperte ». Cesare Fiorio,
rimasto ad assistere il morente, come pure
Vigna, l’altro direttore della gita, riportò congelamenti tali che imposero l’amputazione d’una
gamba [...] La terribile avventura di quella notte
di Capo d’anno a 4500 metri pose fine allo sviluppo impetuoso che l’alpinismo invernale aveva
preso.
Figlio d’un celebre luogotenente di Garibaldi,
Ettore Canzio (1864-1946) portò una ventata
d’impetuosità garibaldina nel pacifico ambiente
piemontese. Con Felice Mondini (Santa
Margherita Ligure, 1867 - Cartagena, Cile,
1953), e Nicola Vigna (Torino, 1869-1940),
Canzio costituì una cordata omogenea.
Ha inizio in quest’epoca l’attività dei fratelli
Giuseppe e Giovan Battista Gugliermina, che
insieme a quella del loro amico e compagno
Giuseppe Lampugnani si prolunga fin quasi ai
giorni nostri e fa da tramite tra la seconda generazione piemontese, quella dei Fiorio, Ratti,
Canzio, Mondini, Vigna ecc., e quella che fiorì
dopo la prima guerra mondiale, Valsesiani, i
Guglielmina documentano nella loro stessa
azione il significativo trapasso dell’alpinismo italiano da un terreno di gioco antico, rappresentato dal Monte Rosa, a quello moderno costituito
dalle più accidentate e scoscese scogliere del
Monte Bianco. E’ nel gruppo del Bianco che i
due fratelli colgono le affermazioni più significative. La loro attività si mescola con quella d’un
altro, più giovane valsesiano, che sarà il più bel
esponente dell’alpinismo classico piemontese
fra le due guerre, ed acquista un tono audacemente moderno nella risoluzione d’alcuni dei più
grandiosi problemi rimasti nella catena del
Bianco. Il 23 e 24 agosto 1914 G. B. Guglielmina
e Francesco Ravelli conquistarono quell’arditissima torre rocciosa che è come una prima cima
dell’Aiguille Blanche de Peutérey sulla cresta
SE, e alla quale resterà appunto il nome di
Guglielmina. I tempi erano maturi ormai per la
fondazione del Club Alpino Accademico Italiano,
che avvenne infatti, con lo scopo di radunare gli
alpinisti senza guide, coordinare l’attività, propagandarla e anche difenderla dalla polemica
incomprensione di cui era, e talvolta è tuttora,
fatta oggetto.
150 ANNI NEL 2013 15
Uno dei principali promotori della sua fondazione fu l’ing. Adolfo Hesse (1878-1951), figura di
versatile alpinista che con guide aveva già spaziato largamente attraverso le Alpi, dalla
Jungfrau (traversata della TRothal) allo
Schreckorn, alle Pale di San Martino, ma specialmente nel gruppo del Bianco.
Nella cerchia di Hess, tra i pionieri del C.A.A.I.,
sono da ricordare l’avv. Emilio C. Biressi e l’ing.
Giacomo
Dumontel.
Primo
presidente
dell’Accademico era stato nominato, nel 1904,
l’ing. Adolfo Kind, nato a Coira nel 1848, morto
sul Bernina nel 1907. [...]
In Liguria, Lorenzo Bozano ed Emilio Questa
sono i degnissimi prosecutori dell’avvio dato
molto per tempo all’alpinismo ligure dal marchese Pareto: i loro nomi restano assegnati
rispettivamente ad un rifugio posto ai piedi della
più bella cima delle Marittime, e ad un’ardita
vetta delle cosìddette Dolomiti di Valle Stretta.
La catastrofe che all’Aiguille d’Arves, prediletto
campo di battaglia all’estero degli alpinisti piemontesi e liguri, stroncò a 27 anni la vita di
Emilio Questa, tarpò le ali ad una grande speranza dell’alpinismo italiano.
16 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Bartolomeo Figari raccolse dalle loro mani la
bandiera dell’alpinismo ligure e la illustrò degnamente, sia con le imprese di scalatore, sia con la
saggia opera svolta quale Presidente generale
del C.A.I. dal 1947 al 1956.
Per completare i quadri dell’alpinismo ligure
vanno aggiunti i nomi di Cesare Isaia,
Bartolomeo Asquasciati
(1876-1932), di
Frisoni e Stagno, del barone Kleudgen, nato a
Bordighera nel 1895 e morto sui Torrioni
Saragat, presso Rocca dell’Abisso, il 9 giugno
1928, di Attilio Sabbadini e di Federico
Acquarone. Un’altra promessa preziosa, stroncata da una banale sciagura, una valanga primaverile in un canalone della Grand’Uja, in Val
di Susa, il 15 maggio 1916, fu quella dell’ing.
Francesco Pergameni, il cui nome fu imposto
alla piccola cuspide rocciosa annidata tra il
Becco centrale e il Becco settentrionale della
Tribolazione, ch’egli, conquistandola con
Stagno il 17 luglio 1913, aveva battezzato
Punta Sucai.
LE GENERAZIONI DELLA GUERRA
Molte cose stavano cambiando nel mondo dell’alpinismo e nella concezione e nella pratica di
esso. Non soltanto esso progrediva nella tecnica e sviluppava i propri mezzi, i propri attrezzi, le
proprie possiblità: nel primo decennio del ‘900
l’invenzione dei chiodi Fiechtl, perfezionata con
l’uso dei moschettoni Herzog e con la manovra
del pendolo, ad opera di veri e propri ingegneri
dell’arrampicata come i Dülfer, portava nelle
salite su roccia ad un progresso rivoluzionario
paragonabile a quello che aveva impresso alle
salite su ghiaccio l’uso dei ramponi inventati
dall’Eckenstein, con la riduzione, spesso l’eliminazione delle estenuanti gradinate per mezzo
dell’ « ascia da ghiaccio ».
La perfezionata conoscenza della catena alpina
permetteva la compilazione di guide sempre più
esatte e sistematiche, e non soltanto geograficamente descrittive, ma capaci di venire incontro alle necessità degli alpinisti valutando le difficoltà, perfino suggerendo itinerari e problemi
da risolvere. Data memorabile dell’alpinismo italiano quella della pubblicazione della prima edizione della Guida di Antonio Berti per le Dolomiti
Orientali (1908), rifatta poi nel 1928, e una terza
volta ai nostri giorni, producendo quel prezioso
modello di Guida perfettamente aggiornata e
nello stesso tempo non disgiunta da una vena di
nobile poesia.
Ma qualcosa cambiava anche all’interno dell’alpinismo stesso, nel numero e nel tipo delle persone che lo praticavano, e a poco a poco anche
nell’animo con cui esso veniva praticato. Non
soltanto cambiava l’alpinismo, ma cambiava la
figura dell’alpinista. Con le rare eccezioni, per lo
più valligiane, di parroci, maestri elementari,
cacciatori, è un fatto che gli inizi dell’alpini-smo
avevano presentato un carattere aristocratico,
sia che si trattasse d’autentici titolari, come il
Saint-Robert, il Pareto, il Cibrario, il Melzi, il
Lurani, oppure di elevati professionisti, statisti
come Sella e Perazzi, professori come Martino
Baretti, medici, avvocati, ingegneri e magistrati.
La diffusione dell’alpinismo senza guide, oltre
ad essere un naturale portato dell’evoluzione
tecnica, per cui l’alpinismo cittadino si emancipa a poco a poco dai suoi naturali maestri, fa
anche parte di un generale processo economico e sociale verso l’estensione demo-cratica,
che in quegli anni si va facendo strada, in seno
al piccolo mondo alpinistico, conformemente al
movimento generale della nazione. Sono gli
anni dei ministeri giolittiani e dell’estensione del
suffragio.
La Rivista Mensile ospitava nel 1893 certi singolari articoli nei quali si rispecchia la crisi benefica crisi di ampliamento, ma pur sempre
crisi - che l’alpinismo stava attraversando in
quegli anni, o meglio ancora si preparava ad
attraversare. Uno, del bresciano Arturo
Cozzaglio, è intitolato: “La nuova generazione
del C.A.I. per l’ideale contro la palestra muscolare”. Il titolo stesso dice le preoccupazioni del
socio per l’in-dirizzo sempre più tecnico e sportivo che l’alpini- smo sembrava voler seguire,
persistendo nella ricerca di novità, ormai fattesi rare, a prezzo di difficoltà di scalata sempre
più rilevanti. Predicando, per l’ennesima volta,
la virtù dello spirito contro la materia, l’articolista si schierava contro questo progresso tecnico, in realtà inarrestabile, e nel quale consiste
la vita stessa dell’alpinismo. Giungeva così a
conclusioni chiaramente reazionarie, che furono per fortuna ampiamente contraddette dai
fatti, ma che l’articolista aveva il merito di non
cercare minimamente di palliare o velare: « Oh!
perché credere sfatata la schiera multiforme
delle nostre cime, se queste cime furono salite
prima di noi? Capisco apprezzo e spesso
anche invidio la forte emozione di chi conquistò
per la prima volta una vetta, ma non arrivo al
punto di ritenere il primo conquistatore come
un dinamitardo che me l’ha distrutta; essa non
ha certo più il fascino della vergine, ma non ha
perduto l’avvenenza della giovane... Dovremo
allora correre all’Himalaya od alle Ande? No,
certamente... ».
E invece sì, naturalmente: sì, rispondevano coi
fatti il Duca degli Abruzzi, Vittorio Sella, Mario
Piacenza, Calciati, Ronchetti e tanti altri intraprendenti pionieri dell’alpinismo extra-europeo.
Ma era ovvio che queste forme di punta erano
riservate ad una élite, ed altrettanto ovvio era
che questa élite non poteva sperare di sussistere essa sola e di sopravvivere, ove non poggiasse sopra una larga base e non ne sorgesse
per naturale selezione.
La parole del socio Axel Chan, sempre sulla
Rivista Mensile del 1893, centravano esattamente il problema e individuavano quello che
sarebbe stato l’inevitabile sviluppo storico dell’alpinismo, con tanti saluti per le utopistiche
nostalgie del buon tempo antico, quando si era
in pochi e si stava tanto bene e Cervinia si chiamava Breuil, e Courmayeur e Zermatt e
Chamonix e Macugnaga non erano frequentate
che da tipi d’eccezione come Whymper e
Tyndall, Gonella e Guido Rey, Purtscheller e
Güssfeldt e Zsigmondy.
Questi nuovi umori che stavano fermentando in
seno all’alpinismo italiano la guerra portò rapidamente a maturazione, sospingendo verso le
montagne dei confini masse che, volenti o
nolenti, scoprivano il mondo delle Alpi in circostanze particolarmente disagiate. Di quelli che
tornarono a casa, molti giurarono che non
avrebbero mai più voluto vedere una montagna,
neanche dipinta. Ma altri, nonostante il ricordo
dei patimenti e delle sofferenze sopprtate lassù,
finita la guerra, alle montagne ci ritornarono. Ci
tornarono da borghesi, magari con le scarpe
chiodate e con l’alpenstock che avevano imparato ad usare da alpini. Un mare di neofiti dell’alpinismo si spinse sui sentieri delle montagne
di casa, portando gusti, costumi e attitudini certamente assai meno signorili e distinti che quelli
dei pionieri ottocenteschi.
Ma da questa marea indistinta e vociante si
staccano punte avanzate, che si spingono oltre i
limiti delle strade battute, che con robuste mani
d’artigiano e d’operaio abbrancano la roccia o
maneggiano la piccozza. Queste punte avanzate un bel giorno avranno nome Cassin, Tizzoni,
Esposito, Ratti...
(seguito dal N.24 di QVOTA 864 - continua)
150 ANNI NEL 2013 17
VAL D’ANSIEI: SONO DI SCENA LE DOLOMITI
LE MONTAGNE
L’inizio del grande movimento alpinistico italiano
risale al 1928, l’anno d’uscita della Guida delle
Dolomiti Orientali di Antonio Berti. Quella Guida
che apparve il viatico spirituale, storico e tecnico
di chi sale la montagna e ama comprenderla.
Le ultime ascensioni sono dello scorso anno,
1943. Le difficoltà incontrate possono valutarsi
di quarto e quinto grado, e alcuni passaggi compiuti in arrampicata libera, data la mancanza di
mezzi artificiali, possono considerarsi anche
superiori al quinto grado. Le pareti scalate si elevano il più delle volte da immani coste baranciose e canaloni profondi e il loro attacco costituisce per lo scalatore già una rilevante difficoltà,
così che nel complesso la salita alpinistica ha
inizio quasi sempre dal fondovalle.
La Val d’Ansiei è quella, tra le dolomitiche, che
presenta il numero maggiore di pareti, e dal lato
turistico e alpinistico riesce la più interessante,
se si aggiunge che l’ambiente offre ad ogni
passo visioni fantastiche che si trasformano di
continuo, specie quando lo sguardo si allunga
tra le forre e i valloni confluenti d’ambo i versanti. la varia natura del luogo schiude orizzonti
sempre nuovi, così che sembra di arrampicare
sopra valli e su montagne sempre diverse.
Ben sei ghiacciai brillano incastonati fra le alte
pareti nord delle Marmarole e del Sorapiss, e
varie cascate rigano d’argento le pallide muraglie sottostanti. Boschi di abeti e larici, prati e
baranciate colorano in mille tonalità di verde le
basi di quelle crode.
L’alpinismo lassù è tuttavia aspro e severo. I
due soli rifugi, il Tiziano e il Carducci, racchiuso
il primo nell’alto grembo delle Marmarole e l’altro nella chiostra paurosa della Croda dei Toni,
non hanno custode.
Ospite è il vento che spesso accompagna l’uomo che cerca e ama le vaste solitudini.
Noi, alpinisti del vecchio stampo, che partimmo
le più volte dal fondovalle per salire alle cime, da
un angolino piuttosto indolente dell’anima, amiamo i rifugi... ma da un altro non li vorremmo
vedere: è uno strano desiderio che mi richiama
le parole di Berti nella sua Guida: «Valga l’augurio che una Sezione del C.A.I. costruisca un rifugio sotto la bronzea muraglia nord del Pupera
Valgrande, nell’alpe sperduta di Federa Mauria,
18 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
ad agevolare l’accesso a queste crode, che conservano ancora appena intaccato il fascino della
verginità primitiva. E se tarderà, poco importa...
ché le crode tanto più ci soddisfano quanto più
l’ambiente dal quale esse sorgono è orrido e
misterioso».
I sentieri verso le Marmarole son tracce, e l’uomo appena iniziata la rampa incontra l’ignoto. La
montagna dal fondovalle alla cima conserva la
sua veste primordiale. Non è solo la parete
inaccessa che si scala, ma è tutto un inaccesso
versante che si sale.
È selvaggiamente bello insinuarsi tra quelle
rupi, che balzano sfidanti il cielo da scoscese
pendici tormentate d’atri burroni e fosche
mughiere. È qui che senti tutta la grandezza
della dolomia trionfante nel suo aspetto rude e
gagliardo. Di ghiaia in giaia, di selva in selva, di
forra in forra, di rupe in rupe senti la tua anima
immedesimarsi in quel mondo fantasticamente
suggestivo di bellezze spazialmente immense
che si elevano minacciando e ammaliando a un
tempo.
Infelice colui che non ha potuto mirare tali meraviglie del Creato!
Chi ha forza e volontà salga sui monti e sentirà
lassù la gioia di vivere. Il sole, il ghiaccio, le
rocce lo accoglieranno nel oro regno sublime,
avvicinandolo a Dio.
Tornato tra gli uomini, la visione di quel mondo
non si cancellerà mai dalla sua mente. Egli porterà per sempre nel cuore la luce di una nuova
bontà.
La montagna è generosa coi prodi e se talvolta
qualcuno non ritorna, essa ne perpetua il nome
nel ricordo e nell’ammirazione di quelli che l’incantesimo della stessa voce ha chiamati alla
lotta severa.
Amino i giovani la montagna che dà forza e coraggio e prolunga il segreto della vita, la
giovinezza. Non cupidigie, egoismi, avidità, invidie, lotte sociali, inganni, nel clima della vetta;
ma bontà, purezza, altruismo, sincerità, abnegazione e amore, riscaldano l’anima in quegli
spazi d’azzurro e di sole.
Non sono legato a cose terrene e vago dopo il
mio lavoro quotidiano, come un ragazzo, beandomi del sole, passeggiando per contrade e giardini, guardando sempre curioso la vita; più lieto
se dalla vicina campagna scorgo tra il verde i
miei monti. [...]
La vetta è lo slancio della terra verso il cielo; è
necessario che anche noi ci uniamo a questo
sublime anelito. da Severino Casara “Arrampicate libere sulle
Dolomiti”. Editore Ulrico Hoepli Milano. MCML
Tanti cari amici mi furono compagni in queste
ascensioni e ogni parete me li ricorda rinnovando in me la letizia di quelle lontane giornate.
Alcuni di essi non sono più. Caduti sul campo per
la Patria, caduti sulla parete per la Montagna.
Sono riconoscente a questi amici. Con loro ho
trascorso le giornate più belle della mia vita,
giornate che ho cercato di ricordare perché tutti
possano afferrare almeno in parte il grande
bene che la montagna largisce, e comprendere
che lassù la vita corre felice anche se la lotta
diviene aspra e le insidie si fanno sempre più
frequenti.
Le Tre Cime di Lavaredo da sud-ovest, al tramonto, e il Rifugio Auronzo
foto g.g.
I BOSCHI
Per parlarvi dei nostri boschi, e nella fattispecie della foresta Somadida, ci serviremo di quanto ha scritto la
Gestione ex Azienda di Stato per le Foreste Demaniali Amministrazione Foreste Demaniali del Cansiglio e
Somadida, in un prezioso opuscolo di qualche anno fa.
La Riserva naturale Orientata di Somadida, antica quanto splendida gemma del patrimonio forestale cadorino,
è pervenuta ai nostri gioni intatta grazie ad un’efficace opera protettiva sviluppatasi ininterrotta attraverso i secoli ed è pertanto obbligatorio per le moderne generazioni assicurarne la sopravvivenza, tenendo lontano le mani
rapaci della speculazione, della caccia, della fame di legname e delle pressanti istanze fruitive.
Ai tempi dei grandi Patriarcati (Aquileia), dei
grandi feudatari (Conti da Camino - XIII sec.) e
delle Magnifiche Comunità (Regole), la foresta
Somadida non era affatto quell’entità ben delineata ed isolata quale appare oggi ai nostri
occhi. La fascia montana delle Alpi Orientali era
allora da una fitta e lussureggiante vegetazione
intervallata da pascoli e radure. Solo in tempi
relativamente recenti tali zone sono andate individualizzandosi a causa delle distruzioni operate sul resto del territorio dalla pressione antropica e quindi dall’inurbamento.
Di appetiti la Repubblica Veneta ne aveva molti
e quello di legname pregiato per l’Arsenale primeggiava, tanto da farsi trasferire in proprietà la
foresta Somadida e cioè uno dei boschi più pregiati del Cadore.
Il 2 luglio 1493 la Magnifica Comunità Cadorina
donò questa splendida foresta alla Serenissima,
accollandosi anche l’onere del trasporto dei
tronchi di Abete rosso fino a Venezia.
Caduta la Repubblica veneta nel 1797, il possesso della foresta passò all’Austria prima, alle
autorità francesi poi e fino al 1814, quindi al
Regno Lombardo Veneto, essendosi feudalizzato l’impero Austro-Ungarico.
L’altalena degli eventi storici si concluse definitivamente nel 1866 col ritorno del Veneto al neonato Regno d’Italia. La foresta venne inglobata
nel Patrimonio dello Stato e dichiarata inalienabile con legge 20 giugno 1870. Essa si estende
su una superficie di Ha. 1676.14.56 in agro del
Comune di Auronzo di Cadore, in un antico
comprensorio sulla destra del torrente Ansiei,
all’incirca lungo il suo corso intermedio; confina
ad Est e a Nord col Comune di Auronzo, a Ovest
col Comune di Cortina d’Ampezzo, a Sud con i
Comuni di San Vito e Calalzo di Cadore.
L’drografia è rappresentata dal corso d’acqua
più importante che è il torrente Ansiei confluente nel Piave a valle di Auronzo. Un solo torrente
attraversa la foresta stessa, l’Albio, che nasce
alle falde della grandiosa bastionata rocciosa del Sorapiss e del Bel Prà.
20 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
La posizione topografica e la struttura geomorfologica della zona sulla quale insiste la foresta Somadida ne condiziona fortemente la vegetazione. La fascia di fondovalle, fino ai 1400 m è
caratterizzata da una foresta di norma rigogliosa
di abete rosso (Picea excelsa) e di abete bianco
(Abies alba), seguiti per importanza dal faggio
(Fagus sylvatica), di grande rilievo colturale non
solo come alto fusto ma anche come sottobosco
sparso un po' dovunque; nelle zone aperte, sul
greto del torrente Ansiei e lungo i corsi d'acqua
compare il pino silvestre (Pinus sylvestris) cui
spesso si affianca il pino mugo (Pinus mugo).
Questo copre grandissime estensioni, formando
rivestimenti compatti sui macereti e sulle rocce,
per cui assume una funzione altamente protettiva e di estrema importanza.
Generalmente in tutta la foresta di Somadida sia
i fusti di abete rosso che abete bianco sono
molto lunghi, diritti, cilindrici; essi producono legname a struttura uniforme, facilmente lavorabile, d'alta qualità.
La flora del sottobosco è ricchissima di specie:
l'ontano minore (Alnus minor), il salice di montagna (Salix caprea), il crespino (Barberis vulgaris), il fior di stecco o Dafne (Daphne meze
reum), la lonicera alpina (Lonicera alpigena) e il
caprifoglio (Lonicera nigra).
Non vanno dimenticati i lamponi (Rubus idaeus),
i rovi (Rubus saxatilis), il sorbo degli uccellatori
(Sorbus aucuparia).
Nello strato suffrutticoso ed erbaceo possiamo
incontrare vari tipi di muschi e di felci, il carice
bianco (Carex alba), il famosissimo Cypripedium
calceolum o pianella della Madonna, il giglio
martagone (Lilium martagon) e il giglio di
Salomone (Poligonatum verticillatum).
Non meno interessanti sono le varie anemoni, il
ranuncolo di montagna, l'acquilegia, il geranio
selvatico, la viola, la Pirola, la gustosa fragola di
bosco e il conosciutissimo mirtillo nero...
Nell’ambito della Riserva vivono numerose specie di animali che trovano in essa il loro habitat
più congeniale. Tra gli ungulati il più numeroso è
il camoscio, quindi anche il capriolo e il cervo. Il
camoscio vive in gruppi numerosi sui pendii
della Croda Rotta, del Mescol, del Meduce e del
Corno del Doge. D’inverno scende sino ai margini superiori del bosco.
Tra i leproidi comune è la lepre europea, tra i
mustelidi la boschiva martora, la scattante donnola e il simpatico ermellino, tra i canidi non va
dimenticata la furba volpe.
Tra i simpatici abitatori della foresta numerosi
sono gli esponenti della grande famiglia dei roditori: lo scoiattolo, il ghiro, il topo quercino, le arvicole e gli immancabili topolini. Queste ultime
categorie di animali sono il principale alimento
sia dei rapaci diurni e notturni che della vipera.
Tra i rapaci l’aquila reale (Aquila chrysaetus)
non nidifica in riserva - dimora sugli spalti dei
Cadini, ma il suo volo maestoso è spesso presente sui cieli di Somadida, unito a quello
dell’Astore, della Poiana e del falco pellegrino.
Per finire numerosi sono gli esemplari del gallo
cedrone e dell’elegante gallo forcello; tipici sono
il gracchio, la nocciolaia, i tordi, i merli...
A circa 300 metri dalla sbarra d’accesso alla
foresta, in località denominata “Tre Sorelle”, è
sito un piccolo centro visitatori, costituito da un
rifugio in legno e da un Centro Ecologico nel
quale il visitatore può arricchire le proprie conoscenze naturalistiche.
Il Centro Ecologico, ricavato da un vecchio rustico, è composto da un’unica sala di 35 mq al
centro della quale è stato posto un particolareggiato plastico in scala 1:5000 che visualizza realisticamente la tormentata orografia della zona
dolomitica del bacino del torrente Ansiei, nel
tratto interessante la riseva stessa.
Una fotografia posta al di sopra del plastico permette al visitatore di conoscere la toponomastica dei luoghi. Alle pareti alcuni grandi pannelli
didattico-scientifici illustranti i vari aspetti naturalistici della riserva e dell’area dolomitica nel suo
complesso.
Lungo le pareti alcune bacheche con reperti
delle principali rocce, dei minerali e dei fossili
che si possono reperire in zona.
L’ultimo pannello, a destra dell’entrata, vuole
essere un invito a non commettere azioni o
gesti che involontariamente disturberebbero
l’ambiente.
VAL D’ANSIEI: SONO DI SCENA LE DOLOMITI 21
Somadida è una delle pochissime zone d’Italia
nelle quali la natura appare ancora integra, in
equilibrio con tutte le sue componenti e che è
quindi ancora capace di dare profonde sensazioni ed emozioni spirituali ai visitatori.
La natura selvaggia è sì una condizione geografica, ma anche uno stato d’animo; fa parte
dell’eterna ricerca della verità che spinge l’uomo alla continua ricerca di se stesso e delle
sue origini.
Il desiderio di natura è infatti un bisogno spirituale che ogni essere umano si porta dentro,
che va dal semplice amore per il bello, al preponderante bisogno di solitudine sfuggendo a
quel senso di fastidio che taluni provano di fronte all’opera distruttrice dell’uomo.
Una zona protetta, ossia una natura selvaggia è
acqua libera di scorrere, è volontà di volare e
spaziare degli animali, è l’immensità del cielo
sopra una foresta o su un panorama d’erbe,
sono gli orizzonti intatti delle montagne, è il
silenzio che ci circonda interrotto solo dalla voce
della natura, dall’urlo del temporale, dal boato
pauroso della valanga, è il lento volo dell’aquila
che annulla le distanze tra le cime.
Ma per capire la natura bisogna anche conoscerla, ed ecco quindi emergere la necessità di
studiare a fondo i delicati meccanismi che ne
regolano l’esistenza. Lo studio delle cenosi
vegetali ed animali ed il loro evolversi permetterà all’uomo di intervenire più saggiamente che
nel passato.
Con l’istituzione della Riserva si è voluto dare
alla conservazione della natura qualcosa di più
esaltante, una forma di tutela che è la migliore
garanzia di protezione del territorio.
La più bella foresta è una foresta silenziosa e
pulita. Ogni visitatore è un ospite ed un osservatore: eviti quindi di infliggere alla Natura qualsiasi tipo di danno; è pericoloso e strettamente
vietato accendere fuochi ed uscire dai sentieri e
dalle aree di sosta.
La flora e la fauna vanno assolutamente rispettate e lasciate al loro autonomo sviluppo (legge
regionale 1974 n. 53 e successive norme per la
tutela di alcune specie della fauna inferiore e
della flora e disciplina della raccolta dei funghi).
È vietato l’accesso ad automezzi e motocicli ed
introdurre cani anche se al guinzaglio.
È vietato bivaccare e lasciare rifiuti, se non negli
appositi contenitori.
Si consiglia l’uso del binocolo e della macchina
fotografica.
22 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
- S.O.S. FARFALLE Nel 2012, nasce nell'Ufficio per la Biodiversità
il progetto nazionale
" IL GIARDINO DELLE FARFALLE ”
uno strumento di educazione ambientale
volto ad avvicinare tutti i visitatori
ad un mondo meraviglioso e poco conosciuto,
quale quello delle farfalle.
Le farfalle hanno un complesso ciclo biologico caratterizzato dalla metamorfosi da bruco, che trova ospitalità in una particolare pianta, ad adulto, che gioca un ruolo chiave nella impollinazione. Per questo sono uno
dei gruppi di animali più adatti a monitorare i cambiamenti ambientali e l'avvicendarsi delle diverse specie
può persino fornire indicazioni su cambiamenti climatici e vegetazionali. Sono lontane le immagini in cui i
nostri campi, ricchi di biodiversità che li distingueva, brulicavano di farfalle di ogni tipo.
L'agricoltura intensiva e l'uso di pesticidi hanno purtroppo impoverito le campagne di questi splendidi animali.
S.O.S. farfalle è una rete di giardini che ha l'obiettivo di aiutare le farfalle a vivere meglio, dimostrando come
ognuno di noi possa contribuire in piccolo ad ingrandire questa rete; se nel proprio giardino e perfino su un
terrazzo, si privile giassero alcune piante o solo non si estirpassero macchie di ortica o finocchio selvatico,si favorirebbe la salguardia di questi insetti. Piccoli gesti, forse, ma di grande valore, se si pensa che
"Il battito d'ali di una farfalla in Messico può contribuire a generare un uragano in Texas" E. Lorenz
VAL D’ANSIEI: SONO DI SCENA LE DOLOMITI 23
I luoghi del Sacro
LA PARROCCHIALE DI S. GIUSTINA
di Paola De Filippo Roia
ercorrendo la navata della chiesa, notiamo per ogni lato cinque nicchie che ospitano altrettante statue degli apostoli. Sono statue in
legno gessato con i particolari dorati iconografici dei Santi, realizzate alla fine del '700 dallo scultore Giovanni Fossen della val Pusteria.
Queste le statue dei Santi con indicati i relativi attributi:
San Giuda Taddeo - il bastone
San Tommaso - la lancia
San Filippo - la croce
San Matteo - l’alabarda
San Giacomo il Maggiore - la conchiglia, il bastone e la bisaccia
Sant'Andrea - la croce a X
San Giovanni - il calice (perduto)
San Giacomo il Minore - il bastone battilana
San Bartolomeo - il coltello
San Simone Cananeo - la sega
Altre due statue, che originariamente erano collocate sulla facciata esterna, ora
si trovano nella cappella dedicata a don Ronzon. All'esterno sono state sostituite da due copie in gesso. Queste ultime sono prive di vernice, di aureole e
degli attributi iconografici che probabilmente erano: per San Pietro le chiavi,
simbolo delle chiavi del cielo, e per San Paolo la spada con la quale fu decapitato. Ricordiamo infine che la parrocchiale di Villagrande, intitolata a S.
Giustina, completata nel 1762, fu consacrata il 23 giugno 1790 dall'Arcivescovo
di Udine. Questo fatto dimostra la scelta di professionisti della vicina Carnia come Angelo Del Fabbro, architetto, e Domenico Schiavi, imprenditore tolmezzino - il Cadore, infatti, apparteneva ad Udine. Anche se dal punto di vista orografico, il Piave ed i suoi affluenti facciano parte del Veneto, e quindi anche le
comunicazioni siano più agibili nel versante della vallata bellunese, l'assetto
della provincia però è relativamente recente ed è dovuto all'ordinamento civile
di Napoleone Bonaparte che creò il Dipartimento della Piave su modello dei
Dipartimenti francesi. Ma il Cadore - da sempre - aveva il suo orientamento e
collegamento politico e religioso (che nei secoli passati erano inscindibili) nell'antico Patriarcato di Aquileja. Con l'avvento di Napoleone, il Patriarcato venne
smembrato ed il Cadore, con la Carnia, entrò a far parte dell'Arcidiocesi di
Udine.
I sacerdoti che operavano in Cadore erano tutti formati a Udine, come la maggior parte di coloro che ricevevano una formazione umanistica, ad eccezione
delle famiglie molto abbienti che potevano permettersi i precettori. A quell'epoca il Seminario era l'unica possibilità per una formazione scolastica superiore.
Nel 1831, con l'ascesa al soglio pontificio del primo papa bellunese,
Bartolomeo Alberto Cappellari, chiamato don Mauro, monaco camaldolese,
che prenderà il nome di Gregorio XVII, le cose cambiarono. Giuseppe II
d'Austria dispose affinché le circoscrizioni ecclesiastiche coincidessero quanto
più possibile con quelle civili. Così il papa, il 1° gennaio 1847, tra il disappunto
dei parroci, dell'Arcidiacono e più della metà dei rappresentanti regolieri presenti al Palazzo della Magnifica Comunità del Cadore, staccò l'intera zona del
Cadore dal Friuli.
P
A conclusione di questo percorso che ci ha tenuti occupati per ben sette puntate, desidero ancora ringraziare le professoresse Pais e Simonin ed il fotografo Zanette.
24 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Auronzo by nigth. Piazza Santa Giustina foto g.g.
BERNARDO,
un santo “tutto” nostro
Arcidiacono di Aosta.
acque da nobile prosapia - la famiglia dei visconti di Aosta - agli albori
del sec. XI; facondo e indefesso predicatore, fu arcidiacono di Aosta, e
fondatore, o più propriamente restauratore, dell’ospizio sul monte di Giove, detto poi Gran S.
Bernardo, e probabilmente di quello della
Colonna di Giove, chiamato poi Piccolo S.
Bernardo. La sua festa ricorrre il 16 giugno.
Da Novara, ove stava predicando, Bernardo si
recò a Pavia (aprile 1081) per incontrarsi con
l’imperatore Enrico IV, in procinto di iniziare
un’azione ostile contro la contessa Matilde e
Gregorio VII, onde distoglierlo da simile progetto; di ritorno a Novara vi morì il 15 giugno dello
stesso anno, lasciando larga fama di santità. Fu
sepolto nella chiesa del monastero di S.
Lorenzo. Da un documento del 15 giugno 1424
si ricava che egli fu canonizzato dal vescovo di
Novara, Riccardo (1115-1121); però la sua introduzione nel Martirologio romano risale soltanto
al 9 agosto 1681. Il suo culto era ed è assai diffuso in Piemonte, nel Vallese (Svizzera) e nella
Tarantasia (Francia).
Pio XI lo proclamò, il 20 agosto 1923, patrono
degli alpinisti degli abitanti e dei viaggiatori
delle Alpi (cf. AAS, 15 [1923], pp.437-42):
“...vogliamo stabilire San Bernardo da Mentone
qual patrono celeste non pure agli abitanti ed ai
iaggiatori delle Alpi, ma anche a coloro che si
esercitano a salirne i gighi. Per vero tra tutti gli
esercizi di onesto diporto nessuno più di questo
- quando si schivi la temerità - può dirsi giovevole alla sanità dell’anima nonchè del corpo.
Mentre con duro affaticarsi e sforzarsi per ascendere dove l’aria è più sottile e più pura, si rinnovano e si rinvigoriscono le forze, avviene pure
che e coll’affrontare difficoltà d’ogni specie si
divenga più forti pei doveri anche più ardui della
vita, e col contemplare la immensità e bellezza
degli spettacoli che dalle sublimi vette delle Alpi
ci si aprono sotto lo sguardo, l’anima si elevi
facilmente a Dio, autore e Signore della natura”.
L’appartenenza di Bernardo all’antica famiglia
baronale dei Menthon e le date del 923 per la
nascita e 1008 per la morte sono dovute ad un
volgare falsario dell’inizio del sec. XV che si
N
26 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
spaccia per Riccardo di Valdisère, amico e successore del Santo nella dignità arcidiaconale di
Aosta. Il suo racconto è costellato di anacronismi e di puerilità, per cui non merita nessuna
considerazione.
Della vita di Bernardo, scritta dal fratello Azolino,
non si è ancora trovata traccia, cosicché le
poche notizie attendibili che si hanno su
Bernardo le dobbiamo ricercare nella Vita (o
meglio panegirico del Santo) conservata in due
redazioni leggermente diverse, delle quali i
manoscritti più antichi si trovano a Novara (sec.
XII-XIII) e ad Aosta (sec. XIII-XIV).
OSPIZIO DEL GRAN SAN BERNARDO
Il passo su cui sorge l’ospizio è sito a 2473 msl
in una gola stretta e selvaggia del Monte Bianco
sulle Alpi Pennine. Era conosciuto e valicato
gran tempo prima dei Romani ed era sacro al
dio Penn donde il suo nome di “Alpis Poenina,
Poeninum, Summus Poeninus”. I Romani lo
consacrarono a Giove Pennino (di qui la nuova
denominazione di Mons Iovis, Mont-Joux, Plan
de Jupiter, Plan de Joux, Monte di Giove), e vi
eressero un piccolo tempi e due case di ricovero (mansiones), sistemandone le vie di accesso.
Cessato sul inire del sec. IV il culto pagano, (cf.
S, Agostino, De Civitate Dei, V, 26), decaddero
pure le case di rifugio, di cui non si ha più notizia sino alla fine del sec. VIII e il colle divenne
malsicuro. Alla metà del sec. XI S. Bernardo
pensò di edificare un ospizio, in sostituzione di
un’altro che, costruito in epoca carolingia, era
andato distrutto, affidandone la custodia a una
comunità di canonici regolari, tuttora esistente e
fiorente. S. Bernardo dedicò l’ospizio a S.
Nicola, ma già nel secolo seguente il nome del
fondatore era aggiunto al titolare, che presto
passò in secondo ordine: «Hospitium Bernhardi,
domus hospitalis S. Bernardi». L’opra va annoverata tra le più eroiche iniziative della carità cristiana e della solidarietà umana. La Congregazione
ebbe alterne vicende. Nel maggio del 1800 ebbero le simpatie di Napoleone quando attraversò il
passo con le sue truppe.
Caratteristici sono i cani San Bernardo, valido
aiuto nella ricerca dei viandanti smarriti nella
neve, la cui presenza risale al sec. XVII. San Bernardo è generalmente rappresentato in abito canonicale corale: rocchetto, almucio e bastone arcidiaconale; spesso, dal sec. XV, tiene il demonio incatenato ai suoi piedi con la stola trasformata in catena ferrea, motivo iconografico comune con alcuni altri santi, tra i quali San Bernardo
da Chiaravalle.
Un anonimo del sec. XV mise in scena la vita del Santo nel dramma intitolato Mystère de S. Bernard
de Menthon, più volte rappresentato al Gran San Bernardo e ad Aosta, che si svolge in tre giornate e comprende 4340 versi.
Recentemente Henry Ghéon lo ha rielaborato nella sua Merveilleuse histoire du jeune Bernard de
Menthon, Parigi 1924, rappresentata lo stesso anno ad Annecy.
Benedici o Signore, queste
funi e bastoni e piccozze, e
tutti gli altri attrezzi qui
presenti, affinché chiunque
ne faccia uso su gli ardui
dirupi dei monti fra i
ghiacci e le nevi e le
tormente sia preservato da
ogni accidente e pericolo e
felicemente arrivi in vetta e
incolume ai suoi faccia
ritorno.
Per l’intercessione del
Beato Bernardo, che volesti patrono degli
alpigiani e degli alpinisti,
proteggi, o Signore, questi
tuoi servi e a essi concedi
che mentre ascendono
queste vette possano
anche al divino monte
pervenire.
Per Cristo Signor
nostro. Così sia.
Edit. F. Pettinaroli & Figli
Milano
Collezione V.A.
BERNARDO: UN SANTO TUTTO NOSTRO 27
FRANCESCO,
IL LUPO E I DAHÜ
In bici sulle tracce di San Francesco
di Ettore Patriarca
7 luglio 2011, Val Nerina
"La Tappa che non c'era" sarà la più breve della settimana ma indubbiamente la ricorderemo e non
solo per le lenticchie.
La "Tappa che non c'era" nasce alle Fonti del Clitunno durante la colazione. Oggi siamo fuori dalla
traccia ufficiale francescana. Facendo un passo indietro avevo proposto di metter le ruote sul
"Gottardo dell'Umbria", la ferrovia Spoleto - Norcia, e avevo chiesto informazioni agli amici del CAI
spoletino. La risposta non si era fatta attendere. Ci portavano a conoscenza di una frana in galleria
che interrompeva il percorso. Stesso sconfortante esito avevano avuto le successive notizie reperite
attraverso il portale www.bikeinumbria.it. Ancora a fine giugno non si parlava del ripristino della traccia e della transitabilità dell'itinerario.
Il bello stabile invoglia alle salite e allora, con il beneplacito del nobile lessonese, si punta ai Monti
Sibillini. Nonostante il fuori programma troveremo Francesco lo stesso. Dopo un ora di trasferimento in auto e nonostante "la signorina" del navigatore cerchi più volte di farci perdere la strada,
sbarchiamo le bici. I nomi Benedetto e Scolastica suonano famigliari e amichevoli a Norcia, paese
natale dei santi gemelli. Terra sismica quella norcina: la valle del Sordo sin dai tempi più antichi convive con i terremoti. Le case più antiche, limitate per legge pontificia in altezza, si appoggiano ai muri
possenti e agli archi di contenimento; oltre la cerchia medioevale appare ancora qualche segno dei
sismi più recenti, del 1997 e del 1979. Finalmente si comincia a salire, la strada che porta da Norcia
a Forche Canapine è spettacolare. Arrampica regolare e priva di traffico verso uno dei luoghi scelti
dal regista Zeffirelli per ambientare parte delle riprese del suo film sulla vita di San Francesco.
Quando alzo il braccio al cielo a indicare il grande rapace che volteggia annunciando che probabilmente è un gipeto, non prevedo due cose. La prima è che non mi credano facendo spallucce, ma
questa ci sta tutta. La seconda, meno prevedibile, è che proprio per sottolineare il loro pensiero,
trasformino questo avvistamento in storia favolistica. Nasce così "Gipeto e Penocio", versione
veneziana della nota favola del bambino di legno e del suo papà a cura di Mariuolo e Cenerentola.
Del felice risultato della re immissione da queste parti del grande volatile pare non interessare molto
a nessuno, pazienza. Proseguiamo. Poco oltre la casa cantoniera si svolta a destra; sono curioso
di scollinare per vedere l'effetto che farà sul gruppo l'insolito paesaggio. Come capitò anche a me
trent'anni or sono vedo i volti sorpresi di fronte all'orizzonte che si apre poco oltre il Rif. Perugia. Qui
si perde facilmente il senso dello spazio, le distanze vengono falsate e, se pare di essere arrivati, in
realtà la strada da compiere resta lunga. Tesoro nascosto fra i Monti Sibillini l'altopiano carsico è
una tavolozza infinita di colori sulla quale volano aquiloni sgargianti. Madre Natura ha disegnato i
Piani di Castelluccio. In precedenza i campi che vediamo furono il fondo di un lago e il "Fosso dei
Mergani" e "l'inghiottitoio" i luoghi attraverso i quali l'acqua si perdette, tempo addietro, nella spugna
carsica della montagna. Immagino prima lo sgomento e poi la gratitudine per i nuovi campi da parte
degli abitanti; ci scambiamo pedalando questi e altri stupori conversando sul crinale che stiamo
risalendo. Questa prua di nave si alza sui piani di Castelluccio incuneandosi nella piana. Di fronte
alla Pattuglia Astrale si erge "la fabbrica delle nuvole", questo il nome che da sempre gli abitanti del
luogo attribuiscono alla vetta del Monte Vettore, dove le correnti umide provenienti dall'Adriatico si
condensano formando la tipica calotta bianca. Il "piccolo Perù" affascina e regala immagini spettacolari. Piano piano il piccolo centro di Castelluccio si avvicina e prendono forma sia i parapendio che
i deltaplani del campo volo. Le prove di ascesa si susseguono nell'area protetta dai venti: l'arco naturale della collina e il fondo morbido erboso proteggeranno i nuovi icari fino a che non saranno
pronti per i voli oltre il crinale a sfidare il vuoto e i venti più insidiosi. Anche l'atterraggio della
Pattuglia Astrale sul piano dell'antico lago è morbido e prepara alla festa di colori che si sta svolgendo ai piedi del paese. Dal celeste che in lontananza sembra prevalere si passa al giallo verde, ai
toni sorridenti e rosso vivi del papavero. Per quanto fotografi, non sono in grado di replicare quanto
28 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
vedo, spettatore impreparato di fronte a questa sacra bellezza.
Vorrei che ogni fiore colorato scendesse dagli occhi nelle vene a
rinvigorir il sangue e a caricar lo spirito dei giorni bui. Vorrei che
il verde cupo dell'erba che danza nel vento ci prestasse il suo
ritmo lento e sensuale. Vorrei saper raccontare queste emozioni.
Ringrazio Dio del creato, gli amici di avermi portato sin qui e gli
uomini di quassù, dell'amorosa cura con cui hanno impedito che
queste "terre alte" fossero violentate da altre mani avide più di
denaro che di emozioni. Ma le labbra tacciono e la penna spegne il suo tratto nelle poche righe del diario di bordo. Questo è l'effetto che fa oggi questa terra, la stessa che ospitò Francesco, la
stessa che accarezziamo adesso calcando con le nostre ruote il
bordo di questo catino naturale.
Due ore più tardi, a venti chilometri di distanza, ottocento metri di
quota più in basso, a mezza strada fra santi e briganti, quattro
ciclisti si fanno fotografare in mezzo ai maiali di una famosa
norcineria. Anche questo è un effetto di questa terra.
09 luglio 2011, Spoleto
Spoleto, strada Flaminia Vecchia, ore 21, Ristorante dei Pini.
"Cotto,cotto,cotto! Parola di Armando". Durante la cena, con il
tono pacato che ha trovato nella sua maturità, l'inventore di
Casapinta sintetizza in questo modo la sua bellissima, ma faticosa giornata.
Forti di questa premessa facciamo un passo indietro e incominciamo a raccontare questo lungo giorno.
Chi, se non un animo superiore, con nobile gesto avrebbe potuto offrire il suo mezzo in uso a Giannino? Mauro, Mariuolo da
Lessona. Rinunciando ad un'alzataccia, a quella che nelle previsioni dovrebbe essere la tappa più lunga, a quella con maggior
dislivello si immola a fare il turista. Quanto sarà costato al nobile
Mauro alzarsi alle dieci, fare una breve capatina in città, sedersi
a un desco apparecchiato sin da mezzodì? Non lo sappiamo e lui
non ce lo farà sicuramente pesare. Grazie Mauro.
Alle sette siamo già a Terni. All'ombra dell'imponente "transformer" che caratterizza la piazza si alza un richiamo: "Ascoltate
Ciclisti Pellegrini la mia storia: Occupai un posto di rilievo nella
storia della tecnica, sono la pressa idraulica da 12000 tonnellate
che ha lavorato nelle acciaierie di Terni dal 1935 al 1993 per forgiare lingotti d'acciaio incandescente. Fui destinata inizialmente
alla fabbricazione di corazze e cannoni per la marina e l'esercito,
poi produssi pezzi speciali per le industrie meccaniche, chimiche
ed energetiche di tutto il mondo. L'avermi salvata dalla distruzione alla fine del ciclo vitale costituisce un importante operazione di archeologia industriale e vuole essere, soprattutto,
una testimonianza palese dell'operosità di Terni." Ha parlato
veramente o hai letto tu a voce alta? Il fatto è che questa macchina vive e l'averla sradicata dal reparto in cui ha lavorato per
decenni non le ha tolto la parola. Prima il tonfo regolare e
spaventevole con cui forgiava lingotti rosso fuoco e, dal maggio
2002, il denso silenzio della memoria. Oggi invita a progettare
nuovi orizzonti ed è riparo sicuro per gli uccellini che frullano
FRANCESCO, IL LUPO E I DAHÜ 29
intorno al gigantesco totem. In pochi anni Terni è cambiata e cambierà ancora. La città che attraversiamo è ancora addormentata: non parla, ci ascolta passare con i negozi chiusi. Pochi passanti
mattutini che si voltano al fruscio delle biciclette sul selciato del centro. Di rotonda in rotonda ci inerpichiamo fra grandi viali di periferia e abitazioni sempre più modeste. Sempre più spesso le città, se
attraversate in modo lento, offrono la possibilità di avere un punto di vista sullo sviluppo e sul futuro di un territorio. Hai la possibilità di curiosare, passando, in un cortile e di salutare i abitanti. La
possibilità di riflettere sugli sforzi compiuti da chi ci abita e su quelli che dovrà compiere, sulla necessità di uscire da antichi schemi, o rientrarci se necessario, per costruire il futuro. Elementi che
dovranno essere filtrati attraverso l'assunzione di responsabilità diffuse e di ruoli attivi. Cittadini consapevoli che solo attraverso questa incombenza e condivisione potranno andare a ricostruire i loro
nuovi orizzonti. Chi sono gli uomini e le donne che sfioriamo in questo viaggio? Quale il loro futuro?
È sempre in salita che si pedala ed è il momento in cui si ha il tempo di pensare cullati dal ritmo dei
pedali. Così, improvvisamente, il Tau appeso alla sella che ho davanti può diventare simbolo e speranza dei pensieri. Lettera condivisa dalle due lingue originali della Bibbia, l'ebraico ed il greco,
supera le differenze. Il Tau, segno dei salvati, prima lettera nella parola Torah , simbolo della croce,
simbolo di protezione dalla peste. Francesco lo adotta come firma. Un buon augurio sicuramente
anche per il futuro di Terni che, guarda caso, comincia per "Tau". Stroncone arriva in fretta e La
Pattuglia Astrale si riunisce fra i vicoli antichi di questo bel borgo premiato dal Touring Club Italiano.
"Ancora undici chilometri di salita!" annuncio mentre Gianni mi guarda come se fossi l'angelo della
morte. Non sempre abbiamo sufficienti capacità linguistiche per esprimere ciò che pensiamo, bastano gli sguardi a farmi capire che è meglio riprendere a pedalare prima che mi raggiunga. Oltre le più
rosee previsioni la salita si rivela amica a tal punto che in breve ci ritroviamo a I Prati. Seduti ad un
tavolo ombreggiato, serviti da belle ragazze, salita ormai alle spalle anche lo sguardo di Gianni è
più mite. Unica nota stonata il commento della giovane barista sul prossimo spezzone del tracciato: "Siete matti a scendere a Greccio con la bici. Già che andate…e se arrivate… salutatemi il prete
che ha celebrato il mio matrimonio. Io fin là sono andata in macchina!" Fedeli al motto dei Dahü "la
speranza è l'ultima a morire" nessuno molla il panino e si continua tranquilli a recuperare le forze.
Intorno al nostro tavolo prosegue l'andirivieni ordinato dei campeggiatori, dei turisti, di giornata e dei
residenti nelle casette dei dintorni. Il difetto inevitabile è la presenza delle automobili, oggi ancora
contenuta, che nei giorni di festa deve essere drammatica. Drammatica, ma molto positiva per l'amministrazione locale, che ha pensato bene di far cassa riempiendo la piana di strisce blu. La malinconia cui siamo così propensi di fronte a questo male endemico dell'Italia svanisce poche centinaia
di metri più avanti. I Piani di Ruscio sono magnifici. Pastori, pecore e cani evidenziati dal verde acceso dei pascoli, le ginestre a incorniciare gli stazzi. La giusta consistenza della luce proietta direttamente l'immagine dalla realtà ai quadri di Segantini. Difficile immaginare un teatro naturale così
composito a due passi da Terni: potenza dell'Appennino! Abituati ad affrontare sentieri spinosi e
sconnessi ci sorprendiamo un poco per la facilità della discesa rispetto alla descrizione sia della
guida che della barista. Vero è che il meteo è ottimo, la Pattuglia Astrale possiede i mezzi adatti e
l'allenamento alla guida fuoristrada. Meglio comunque esser contenti delle difficoltà inferiori alle
aspettative che il contrario. Il Santuario di Greccio è appeso alla parete rocciosa e incorniciato da
un bosco fitto. Qui si deve pensare a Francesco in questo modo: occorre immaginarlo, in sandali e
saio, d'inverno con la neve sui rami, a guardar giù verso la valle reatina dalla balconata dell'eremo
impegnato a inventarsi il presepe, ispirato da Dio e dai luoghi. Oggi, per noi, sono oro e verde i colori che circondano Greccio, torrido il clima che La Pattuglia Astrale dovrà affrontare nella traversata
della valle. Punto il dito verso le alture di fronte indicando Poggio Bustone. Appollaiato la in fondo il
paese natale di Lucio Battisti sembra quasi irraggiungibile, un miraggio. Grazie a qualche indicazione, raccolta fra i campi di grano e di mais, guadiamo indenni la piana nel brodo caldo del mezzogiorno. Bloccando le auto agli incroci per avere certezze sulla via, pian pianino la pianura si assottiglia. Costeggiamo la riserva naturale dei laghi Lungo e Ripasottile e ci si delinea chiaramente la
salita da affrontare. Nel patrimonio spirituale di ognuno di noi vi è un tesoro nascosto e oggi
Giannino ne estrae una perla: "Saper rinunciare è meglio che schiattare". Ai piedi dell'erta "quasi"
finale La Pattuglia Astrale si divide: Giannino si porta in avanscoperta verso Piediluco e il suo bel
lago mentre il resto del gruppo punta a Poggio Bustone. Non sono molti i chilometri ma occorre
30 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
definire realisticamente "eccessivo" il caldo che si affronta sulle
rampe. Nel corso delle frequenti soste ci inventiamo un efficace
raffreddamento "ad acqua" che consiste nell'immergere ripetutamente il casco nelle fontane, fortunatamente ben presenti sul
percorso. Il corpo è un organo di sensibilità che garantisce una
conoscenza più certa di quella che ci viene dall'impegno della
mente. Quindi è il corpo di Armando e non la mente che, a metà
salita, lo porta a definirsi "cotto". Cosa può dar meglio l'idea di
questa parte dell'itinerario? La copertina del ciclo-libro di Rumiz
"Tre uomini in bicicletta" dove Altan di-segna una surreale
vignetta ciclistica! Il dialogo è fatto di brevi battute, dove il neretto evidenzia uno stato confusionale in cui riconosco un poco di
noi in questo pomeriggio. "Scusi Signora, ma dove stiamo
andando?" Perché lo chiede a me? Cosa vuole? Chi cazzo è
lei?" si ribadiscono i due ciclisti, ovviamente maschi. Che volete
farci La Pattuglia Astrale è fatta di tipi tosti, all'occorrenza anche
un po' matti: l'anno scorso sulla Via Francigena e oggi qui. Da
Poggio Bustone il panorama è magnifico ed è proprio vero che,
con il piacere di essere arrivati, lo si gusta ancora meglio. È un
cambio di atteggiamento nei confronti di questo mondo il poter
mettersi a mollo nella freschissima fontana. Il repertorio di parole
che descrive questo piacere è ricco, evocativo e ricercato. La fatica rende fortissime le emozioni e l'acqua, "l'umile sorella acqua",
ci rende biblicamente "uomini nuovi". Tornando con i piedi per
terra mi rendo conto che non sarà possibile salire all'eremo per
suonare la campana(1) e che converrà cercare altrove anche il
timbro. Anzi, per dirla tutta, riusciremo a prendere il treno per
Spoleto? Ci occorrerà un ritorno veloce. Ma non ci lamentiamo
troppo, va già bene così. Giusto il tempo di una sosta al bar per
l'immancabile vidimazione, una foto alla statua di Lucio Battisti e
, evviva, siamo lanciati in discesa. Si perde quota in pochi attimi.
Rilanciando la velocità nel falsopiano mi accorgo che Armando
perde colpi, gli allungo una barretta incitandolo nello sforzo per
mantenere sufficientemente alta la media. Giannino ci contatta
telefonicamente confermando che ci sta precedendo di alcuni
chilometri. Lo invitiamo a scendere con calma, beato lui, verso la
piana reatina. "Grande Armando", "Non mollare che ci siamo",
"Resta in scia del Pellegrino BearLu che si fa metà fatica", "Quasi
cento chilometri e millecinquecento metri di dislivello, bravissimo!!!" sono le frasi abusate di questo frangente. Ma, da italiani in
gita, sappiamo rallegraci anche dell'ultima discesa verso la
stazione e tener duro negli ultimi chilometri di questa cronometro.
Ebbene sì, è vero: La Pattuglia Astrale arriva, allo scoccare delle
cinque, giusto in tempo per prendere posto sul convoglio.
Nessuno si scandalizzi se torniamo a Spoleto in treno, e senza
aver suonato la campana. Caro Mauro, ci torneremo...e con il
tempo per farlo, stavolta.
(1)
Negli anni i pellegrini sul Cammino di Francesco hanno inventato un rito: arrivati
all'eremo suonano a distesa la campana per testimoniare la felicità nell'aver raggiunto la meta.
FRANCESCO, IL LUPO E I DAHÜ 31
DALLE DOLOMITI
ALL’UNIVERSITÀ “BROWN” DI PROVIDENCE
arco ha iniziato a giocare a hockey
all'età di sei anni pattinando spesso
all'aperto nel paese di montagna
dove è cresciuto.
Ha lasciato casa a 16 anni per andare a giocare
a hockey e studiare a Montreal per poi trasferirsi a Kent, Connecticut (USA) alla Prep School.
Ora Marco è nella Ivy League. Percorso non
insolito per un giocatore di hockey del college
tranne che per una cosa: egli non proviene da
qualche frazione isolata del Quebec dove l'hockey è una religione, non proviene da una
comunità
agricola
delle
pianure
del
Saskatchewan o dalla città mineraria di Iron
Range del Minnesota o da uno dei soliti posti
che producono giocatori di hockey ma la città
natale di Marco è Auronzo di Cadore, un paese
di 3.500 abitanti nelle Dolomiti in Italia.
"Il viaggio intrapreso da questo giovane è
affascinante" dice l'allenatore Brendan Whittet
della Brown. L'assistente allenatore Mike Sousa
che ha giocato in Italia per cinque anni sa più di
ogni altro quanto notevole sia la storia di Marco
"Voi ragazzi probabilmente non capite quanto
stupefacente sia il fatto che egli sia qui".
Sousa ha detto "la Lega Universitaria
Americana non è molto conosciuta in Italia. Gli
Italiani sono presi follemente dal calcio. I ragazzi
italiani che giocano a hockey amano la NHL ma
conoscono poco della realtà hockeistica americana oltre alla NHL. È stato un vanto per Marco
riuscire ad uscire da Auronzo di Cadore ed
arrivare ad una istituzione come è Brown."
Ma come ha fatto esattamente il ventiduenne
Marco ad arrivare al College Hill?
Bene, per iniziare, secondo gli standars italiani,
Auronzo di Cadore è un paese di hockey. "Tutti i
miei amici giocavano, così ho iniziato." De
Filippo spiega con il suo marcato accento inglese
"Non molti in Italia conoscono questo sport
poichè viene praticato solo nel Nord Italia e non
nelle grandi città ma in alcuni piccoli centri dove
è relativamente apprezzato. Nel mio paese c'è
un lago che d'inverno gela e uno stadio del ghiaccio e là andavamo a giocare. Crescendo, il mio
sogno era di giocare in Canada o negli Stati
Uniti. Ho ricevuto un aiuto
fondamentale dall'ex portiere NHL e WHA Jim
M
32 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Corsi che aveva giocato in Italia e che mi ha
dato l'opportunità di giocare a Montreal. Quando
ho avuto la possibilità ho deciso di andare. Sono
partito per giocare a hockey ma ho deciso di
proseguire anche con gli studi."
Uno dei figli della famiglia che lo ospitava a
Montreal era andato a Kent negli Stati Uniti. De
Filippo visitò la scuola e decise di iscriversi
.Dopo aver brillato a Kent si diresse alla Brown
(Providence - Rhode Island) "Pensavo che avrei
avuto la possibilità di giocare lì".
Nei primi due anni Marco non ha avuto la possibilità di giocare molto dato che la squadra faceva quasi completamente affidamento sul
portiere Mike Clemente, titolare della Nazionale
Americana Junior. Ma ora, dopo la laurea di
Clemente, Marco deve aspettarsi del lavoro
extra. "Lo scorso dicembre Marco era nella
miglior forma riuscendo a fare 39 salvataggi in
una partita con il New Hampshire" dice Anthony
Borelli, l'altro portiere della squadra. "È stato
immenso fino a metà stagione poi il rendimento
è calato. Il suo problema è la costanza ma ciò è
da mettere in conto nel caso di un giovane
portiere che sta salendo di livello" dice Whittet.
"Gli scorsi due anni sono stati abbastanza
pesanti. Mi sono allenato intensamente durante
l'estate e non vedo l'ora di iniziare la stagione"
dice De Filippo, studente di economia e
dichiarato amante di Federal Hill.
Lo staff di Brown ritiene che la decisione di
Marco di rimanere a Providence tutta l'estate
anzichè tornare a casa gli gioverà "Ci aspettiamo grandi cose da lui" dice Sousa. Whittet dice
"Dobbiamo capire le sue origini e da dove
proviene. C'è sempre un periodo di adattamento. Credo si senta molto a suo agio nella
squadra e nel college."
"Insieme abbiamo lavorato per il suo sviluppo"
dicono l'allenatore portieri Tony Ciresi e Mike
Sousa. "Marco vuole giocare nella NHL e nella
Nazionale Italiana e ha il potenziale per farcela."
Sousa parla la stessa lingua di Marco perchè ha
giocato cinque anni a Cortina che ha ospitato le
Olimpiadi Invernali del 1956 e che si trova nelle
vicinanze del paese di origine di Marco.
"È abbastanza strano che io e Marco siamo
entrambi finiti qui" dice Sousa.
Durante l'allenamento di lunedì Marco non riusciva a fermare molti dischi "Ero furibondo" ha
detto Whittet. "Allora Sousa ha detto qualcosa
in italiano a Marco e lui dopo ciò ha iniziato a
parare in maniera stupefacente. Ho chiesto a
Mike cosa gli avesse detto e mi ha risposto di
avergli detto di essere più competitivo".
Sousa dice di avere una speciale connessione
mentale con Marco e spera che ciò lo aiuti a
capire meglio il giovane per aiutarlo a
crescere e migliorare sia come giocatore che
come persona. DALLE DOLOMITI ALL’UNIVERSITA’ “BROWN” DI PROVIDENCE 33
MONTE
PIANA, luogo di memorie e di eroismi
di Angelo Zangrando e Cristina Bacci
onte Piana: più che una montagna un altopiano. Un pianoro prativo con pochi sporadici inserti rocciosi, sostenuto da un imponente basamento. Un immenso mare di
mughi con alte onde rocciose.
Nella stagione turistica, sulla sommità tante persone; sui fianchi scoscesi e impervi, invece, quasi
nessuno si affaccia fuori dai pochi percorsi abituali.
Il versante nord orientale ha un settore roccioso ricco di pareti e guglie ma è anche il più selvaggio
e solitario, il meno facile da raggiungere. Solo i canaloni tentano frammentari e aleatori collegamenti
tra la sommità e il fondovalle.
Eppure questa montagna, più adatta ad ammirare che a essere ammirata, ci ha attratti innumerevoli
volte e continua a farlo con un fascino incredibile. I grandi panorami sulle Tre Cime di Lavaredo, sui
Cadini, sul Cristallo sono stati la prima molla ben presto supportata dalle evidenti testimonianze
storiche del primo conflitto mondiale.
Toccare con mano i luoghi che sono stati teatro di sanguinosi scontri tra i due eserciti in lotta è stato
un modo quasi inconsapevole di entrare nella storia.
Ben presto però, l'eccessivo vociare di troppe persone e il clima da scampagnata, a volte accompagnato da commenti sciocchi e superficiali, ci hanno indotti ad allontanarci da questa storia per cercarne un'altra, sommersa dai mughi, nascosta negli anfratti, nelle pieghe di questa montagna che
abbiamo scoperto essere smisurata, soprattutto nelle sorprese.
Così abbiamo individuato un'infinità di testimonianze, sprofondate in un immeritato oblio. Ogni scoperta è stata una risposta a tante domande ma anche e soprattutto fonte di nuovi interrogativi che
ci hanno indotto a tornare, a tornare, a tornare ancora senza che fosse mai l'ultima volta.
M
Postazioni della Grande Guerra sulla sommità del Monte Piana
Rodolfo Boni, medaglia di bronzo al V.M.
Poi, nell'inverno passato, lontano dalla nostra amata
montagna, una nuova inaspettata scoperta.
Da un baule, rimasto chiuso in cantina per decenni,
sono saltate fuori vecchie foto in bianco e nero di un
giovane in divisa da alpino, ritratto da solo e con alcuni
commilitoni. E nella stessa busta una medaglia di bronzo al valor militare!
Il giovane ritratto e (suo malgrado) decorato si chiamava Rodolfo Boni, classe 1893, soldato del Settimo Alpini
Battaglione Val Piave ed era nato a Caralte di Cadore,
nella stessa casa in cui oggi abitiamo noi!
Aveva 22 anni quando, il 7 giugno del 1915, morì sul
Monte Piana. Cercando nel sito del Ministero
dell'Interno abbiamo trovato la motivazione: "Al grido
del suo ufficiale ferito, che lo chiamava presso sé,
accorse malgrado il vivo fuoco del nemico, ma cadeva
colpito prima di raggiungerlo".
Questa scoperta ci ha procurato una grande emozione
e forse il nostro attaccamento al Monte Piana non è
proprio casuale e non è legato solo agli aspetti storici e
paesaggistici Ingresso di una caverna sul fianco ovest del Monte Piana
UNA
SALITA SUL POPENA BASSO
di Ernesto Majoni Coleto. Istituto Ladin de la Dolomites
Il Lago di Misurina dalla normale del Popena Basso
36 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
el cuore delle Dolomiti, gruppo
del Cristallo, l'oronimo di antica radice ladina "Popena" identifica undici luoghi diversi, a
cavallo tra le vallate d'Ampezzo e
dell'Ansiei: due valli, la Val Popena Alta e
quella Bassa; un "Tremila" pregno di storia
e fra i meno arrendevoli della zona, il Piz
Popena; un passo che separa l'impluvio
detritico dal duro toponimo ampezzano di
"Graón de ra Zerijères" dalla Valfonda che
ospita ancora un lembo del ghiacciaio noto
ai primordi dell'alpinismo; una sella pascoliva, dove troneggiano tristi i ruderi di un rifugio che per sei stagioni fu la base degli
escursionisti e degli alpinisti impegnati in
zona; due torri, una delle quali vinta in solitaria dal fortissimo pusterese Michl
Innerkofler nel 1884; due slanciate guglie,
su una delle quali prima della Grande
Guerra Angelo Dibona da solo incontrò il
quinto grado; una solida torre, che nel 1893
da "Popena Piciol", in seguito alla salita del
robusto colonnello germanico, divenne
"Torre Wundt", e da ultimo un monte dalle
forme morbide. Quest'ultimo è noto perché
una novantina di anni fa il vicentino
Severino Casara lo elevò a comoda palestra di roccia di Misurina, e oggi le sue
pareti sono solcate da una ragnatela di vie
di ogni difficoltà, alcune delle quali opera di
scalatori illustri.
Il monte in oggetto è un cupolone quotato
2225 m e rivestito di mughi, che guarda il
lago di Misurina con una vasta parete grigia
e gialla alta duecento metri, e sul lato opposto scende in Val Popena Alta con insondabili dirupi frequentati da camosci. Esso
vanta un doppio oronimo: qualcuno, anche
chi scrive, si è abituato a identificarlo come
Monte Popena, altri invece lo appellano
Popena Basso e altri ancora talvolta lo
scambiano col "fratello maggiore", il Piz
Popena, che gli sta alle spalle, è alto mille
metri di più e ha ben altre forme.
Il "piccolo" Popena Basso, oltre che teatro
di salite per tutti i gusti, fra le quali due
gradevoli vie di stampo classico aperte
dalla guida auronzana Piero Mazzorana
negli anni Trenta, può essere meta di una
piacevole passeggiata, che prende le
mosse dal centro di Misurina e consente
N
UNA SALITA SUL POPENA BASSO 37
“Di certo l’Alpine Club negli ultimi tempi
non si è mantenuto aggiornato sull’area
dolomitica.
In questo periodo sono pochi gli scalatori inglesi che la visitano, [...] Questa
selettiva trascuratezza dei nostri scalatori è incomprensibile. Le grandi montagne innevate e i ghiacciai, i picchi rocciosi e i passi hanno la precedenza,
naturalmente.
Ma le vette delle Dolomiti costituiscono
piatti raffinati da gourmet, che preferiscono la qualità alla quantità, e devono
sempre rimanere un paradiso per quelli
fra noi che amano la scalata difficile per
il gusto di scalare.”
Edward Alfred Broome, 1906
...a proposito dei 150 anni del C.A.I.
”Molti viaggiatori, oltre a chi scrive, non sono riusciti ad evitare i superlativi per descrivere questa regione. Certamente non è eccessivo il dire che, per quanto ci si possa
immaginare stupendi panorami, pure se ne cercheranno invano in altre vallate di tali
che offrano altrettante combinazioni del grande, del bello e del fantastico, come nella
valle di Auronzo.”
Così scriveva nella sua guida del 1867 lo scienziato - alpinista John Ball, esponente
di spicco di quel grande movimento romantico che spinse alpinisti inglesi, austriaci e
tedeschi alla scoperta delle Dolomiti.
La guida, resoconto del suo viaggio del 1857, offre un arguto spaccato della vita del
tempo: “...questo paese, non frequentato come la Svizzera, è visitato da molti turisti.
Non vi sono alberghi giganteschi, nè ancora gli abitanti hanno imparato a defraudare
i forestieri che si recano fra loro, per cui il distretto delle Dolomiti si potrebbe chiamare tuttora sotto molti aspetti ‘non civilizzato’ ...coloro che vi soggiornano spendono
poco, pranzando con tre o quattro soldi... gli albergatori non adoperano ancora il loro
ingegno per inventare dieci o dodici nomi per il vino comune.”
In quegli anni veniva fondato il Club Alpino Italiano ma la regione dolomitica, per gli
alpinisti italiani, rimaneva difficilmente raggiuingibile; contrariamente, quelli inglesi e
tedeschi potevano usufruire di comode ferrovie - Brennero 1867, Pustreria 1871.
Questi alpinisti “foresti” potevano contare nelle loro conquiste dell’apporto di intrepidi
valligiani, per lo più cacciatori di camosci, che ben volentieri si prestavano ad accompagnare questi stravaganti turisti.
Il movimento alpinistico restò infatti per lungo tempo appannaggio delle classi agiate,
le uniche che potevano permettersi lunghi trasferimenti, soggiorni in luoghi lontani e
fatiche per diletto.
Nella provincia di Belluno la prima sezione del C.A.I. fu fondata ad Agordo nel 1868;
sei anni dopo, nel 1874, fu la volta della Sezione di Auronzo per merito del Cav, Luigi
Rizzardi, illustre figura che si adoperò come pochi per infondere la passione per l’escursionismo alpino e la valorizzazione del territorio cadorino.
L’amore per la montagna coagulava nell’ ‘800 uomini sensibili e di cultura; non a caso
la prima sede del C.A.I. di Auronzo trovò ospitalità nei locali della Società del
“Gabinetto di Letteratura e Musica” presso l’odierno Hotel Auronzo già “Albergo alle
Grazie”.
Questa istituzione ebbe tra i suoi importanti esponenti il poeta Giosuè Carducci, considerato il maggiore cantore delle bellezze alpine, che spesso soggiornò in Cadore a
cavallo tra i due secoli.
L’Hotel Auronzo, nel tempo, ha ospitato personaggi di cultura quali, negli anni ‘60, il premio
Nobel Salvatore Quasimodo e più recentemente
personaggi del mondo letterario, dello spettacolo
e della politica come Antonio Spinosa, Luciano
De Crescenzo, Arrigo Petacco, Stefano Zecchi,
Corrado Augias, Giovanni Spadolini ed altri che
hanno contribuito a mantenere vivo quello spirito
culturale che aleggia in questa storica dimora.
da “La Montagna” Suppl.to al Bimestrale dell’AICS settembre 1996
una fuga poco convenzionale nella natura,
maggiormente proficua se compiuta coi colori dell'autunno.
Il Monte Popena per la via più facile, un
sentiero militare senza segnavia e tabelle
ma sempre intuitivo, è consigliabile quando
più in alto non si sale e può far piacere
muoversi in un accidentato bosco antico,
risalire un mansueto costone intricato di
mughi e alfine uscire su un praticello
sospeso, donde si gode un'ampia visuale
sulla Val Popena Alta, sul Cristallino di
Misurina e su tante altre cime.
Quando Popena era sinonimo di "vie
Mazzorana", la cima si saltava, si arrotolava la corda e ci si gettava subito verso valle
per inseguire l'irrinunciabile birra fresca.
Quattro anni fa invece, in una plumbea
domenica di fine settembre, salimmo con
calma fino al culmine, dove c'è un grosso
ometto di pietre, per assaporare la solitudine di un rilievo che i moderni scalatori non
visitano e tanti escursionisti non conoscono. Ovviamente, tra gli umidi veli di nebbia
traforati dal pallido sole del primo autunno,
eravamo soltanto in due.
Albergo Auronzo da un acquerello di Franz Lenhart
Popena Basso. L’ometto di vetta
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UNA SALITA SUL POPENA BASSO 39
Libri, riviste, giornali... e altro ancora
" Non perdete tempo in cose futili se non volete soffrire di rimpianti da grandi. Rifuggite banalità e
conformismi. Leggete libri e innamoratevi ". Mario Rigoni Stern
Graditissima sorpresa il volume di Mirco
Gasparetto “PIONEERS, alpinisti britannici sulle
Dolomiti dell’Ottocento”, Nuovi Sentieri Editore,
Belluno. Italo Zandonella ha intervistato l’Autore.
La collaborazione fra la Nuovi Sentieri Editore e
Mirco Gasparetto ha dato ottimi frutti: è nato un
interessante volume, ben inserito nella prestigiosa collana di NS. Il titolo è brevissimo, una sola
parola, mille significati: Pioneers, seguito da un
sottotitolo che fa capire dove l'autore "va a parare": alpinisti britannici sulle Dolomiti dell'Ottocento. Nuovi Sentieri "è" Bepi Pellegrinon, accademico del CAI, storico dell'alpinismo dolomitico,
"paron" di un archivio da capogiro, editore coraggioso, "piccolo e solo", con un carnet di 500 titoli
in 40 anni di ininterrotta ed entusiastica attività.
Mirco Gasparetto è un giovane trevigiano con la
passione per la ricerca, redattore della rivista Le
Alpi Venete, direttore del pregevole 46°
Parallelo, autore di Montagne di Marca, l'alpinismo dei pionieri a Treviso (ancora i pionieri, la
sua passione) e altre "cose" importanti.
Il libro, seppur "severo" pignolo preciso, si legge
come un romanzo dove le righe si rincorrono da
un personaggio all'altro incrociando primizie e
note curiose. Il merito di Gasparetto, a mio
parere, non sta tanto nella descrizione e nella
ricostruzione, peraltro accurate e precise
(anche se in parte già note) dell'attività dei
migliori alpinisti dell'Ottocento in Inghilterra,
quanto nella scoperta di "artisti minori", ma
40 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
non per questo meno importanti. Una ricerca
scrupolosa e attenta lo ha condotto sulla strada
dei "secondi", di quelli cioè che vivevano all'ombra dei personaggi di spicco (non sempre i
migliori) e che nelle quasi 300 pagine di questo
volume trovano finalmente il posto che si meritano. Vengono presentati non solo tecnicamente,
ma anche con immagini inedite del loro volto,
della loro fisicità, del loro sorriso tipicamente
anglosassone. Costoro entrano, finalmente,
nella grande storia delle montagne. Come dire
che nel 2112 (duemilacentododici, o giù di lì) il
Gasparetto di turno non racconterà solo le gesta
"d'oro" dei pur grandi Messner, Bonatti e tanti
altri "eroi" del nostro tempo, ma anche le imprese degli alpi-nisti "d'argento" o gli umili "di bronzo" che hanno contribuito non poco alla reale
costruzione dell'alpinismo, non solo dolomitico. A
ognuno il Gasparetto suo, insomma!
Cinque risposte dell'autore ad altrettante
domande ci fanno capire meglio la "tecnica"
usata per confezionare questo elegantissimo e
prezioso volume
Perché gli inglesi sono giunti per primi?
Anzitutto è bene sfatare un luogo comune: gli
inglesi - o meglio, i britannici - non sono arrivati
in vetta prima d'altri esclusivamente perché
"danarosi". È certamente un dato di fatto il loro
diffuso benessere rispetto al resto d'Europa, con
un PIL a livelli esponenziali: bacini carboniferi e
acciaierie già collegati da efficienti reti ferroviarie, una potente industria tessile, cantieri navali
e scali mercantili tra i più produttivi dell'Ottocento… ma il valore aggiunto risiede in una
politica post-rivoluzione industriale, che aveva
favorito lo sviluppo di una società dalla cultura
diffusa.
In fondo, un grande viaggiatore dolomitico quale
Gilbert non poteva certo considerarsi ricco…
come non lo era Darwin prima d'imbarcarsi sul
"Beagle". Al di là dei mezzi economici, era ben
radicata una precisa filosofia, un modello educativo. Freshfield, figlio unico di un importante
banchiere londinese, aveva 19 anni quando
scelse di partire con dei compagni di scuola
verso la vetta del Bianco e, di seguito, alla volta
degli sconosciuti gruppi di Brenta e delle Pale di
San Martino. Naturalmente, sarebbe antistorico
in questo quadro non considerare il determinante ruolo giocato dalle "nostre" guide alpine.
Come si arriva a scrivere un libro di ricerca, di
costruzione storica come Pioneers?
Personalmente, ho sempre considerato la vicenda storica, nella sua globalità, parte fondamentale della pratica alpinistica. Per fare un esempio, sono convinto che chi sale oggi la "via del
drago" (aperta sulla parete ovest del Lagazuoi
Nord 2804 m, da C. Barbier, A. Giambisi, C.
Platter il 26 settembre 1969 in risposta ad un
articolo provocatorio di R. Messner contro l'uso
dei chiodi a pressione; nota izc) e non conosce,
pur sommariamente, chi era Claude Barbier (e
gli altri due "secondi"; nota izc) e perché la via si
chiama in quel modo ("salvate il drago" diceva
Messner, cioè salvate la purezza dell'arrampicata; nota izc), ha compiuto indubbiamente una
bella arrampicata, ha trascorso una giornata
appagante in montagna, ma non ha percorso la
"via del drago". Lo stesso vale per chi sale la
normale al Sorapìss, la "via dei fachiri" sulla
Cima Scotoni (Enzo Cozzolino e Flavio Ghio, 14
e 15 gennaio 1972 per la parete sud ovest; nota
izc) oppure il celebrato Campanile di Val
Montanaia, tanto per rimanere in Dolomiti… Per
me, conoscenza e confronto sono sempre stati
lo stimolo più intenso, la spinta più forte verso
l'alto; come fondamentale è stato il modello di
ricerca inaugurato a suo tempo da Giovanni
Angelini, basato su esperienza e studio delle
fonti primarie.
Per quanto riguarda "Pioneers", oltre alle mia
passione bibliografica, sono stato pure fortunato: ho costruito una rete di corrispondenti europei che ha assecondato le mie indagini… per
questo il web è un mezzo straordinariamente
efficace.
Quanti sono i tuoi "Pioneers"?
I "Pioneers" descritti nei 19 capitoli sono almeno
una cinquantina. Oltre all'azione alpinistica ho
voluto ricostruire la loro vicenda umana, ho
riportato a galla i loro scritti, ho cercato il ritratto
del loro volto. A tal proposito devo dire che ho
provato una certa emozione quando mi sono
ritrovato tra le mani alcune inedite immagini
quali quelle di Josiah Gilbert o di William Edward
Utterson-Kelso; nomi non certo secondari nella
Storia delle Dolomiti.
C'è un alpinista in particolare che la Storia finora non aveva rilevato a sufficienza, o che ti ha
particolarmente colpito?
Direi Tucker. Un po' per l'ingombrante fama del
suo abituale compagno di viaggi (Freshfield), un
po' per l'assonanza con il cognome di un altro
"mostro sacro" (Tuckett) che talvolta ha generato confusione, la sua rimane una figura non troppo considerata. Eppure fu il primo a calcare
vette quali il Sass Maòr, il Catinaccio, la Cima
Canali. Ma anche Henry Wood, Robert Corry,
Edward Lisle Strutt.
Dopo questo lavoro, rimane ancora qualcuno da
riportare alla luce? Qualcosa d'inespresso?
Certamente! Tali ricerche aprono sempre ulteriori orizzonti su montagne e personaggi.
Nonostante quella dell'alpinismo sia una Storia
giovane, ci sono degli "inverni storici" che paiono realmente impossibili da ricostruire. Oltre a
questo, mi sarebbe piaciuto vedere la personalità di Whymper o il piglio di Mummery a confronto con la roccia dolomitica. Entrambi, però,
avevano idealizzato un alpinismo che non
poteva prescindere dall'estetica di quello che
Coolidge chiamava "il Regno delle nevi". Le
Dolomiti, per loro, erano solo un breve nome
compreso entro pochi millimetri di carta geografica.
Italo Zandonella Callegher
FREERIDE
IN LOMBARDIA
G. Bordoni - P.
Marazzi
Edizioni
Versante Sud
Collana
Luoghi Verticali
€ 25,00
Il "freeride", una
parola nuova, ce ne
parla Giuliano: "Non
identifica solo coloro
che sciano nella neve
fresca, la powder, ma identifica un modo più fluido di
sciare, più veloce dove gli archi di curva tendono a
raddrizzarsi […] questo termine nasconde un significato più profondo […] va oltre a una curva tecnica […]
abbraccia uno stile di vita, una filosofia, un pensiero
positivo.
“Freeride vuol dire sapere amare la montagna, volerla conoscere, imparare a rispettarla. Freeride significa prendere coscienza del tempo che passa inesorabile, di noi stessi, del mondo che ci circonda e saper
amare tutto ciò.
LIBRI, RIVISTE, GIORNALI...E ALTRO ANCORA 41
"Ho iniziato a raddrizzare le mie curve alla ricerca della neve farinosa e profonda. Il giorno dopo
sono tornato a osservare la mia linea, ma il
vento l'aveva cancellata. Continuavo a guardare
quel pendio dove fino a poche ore prima c'erano
le scie ben impresse dei miei sci e di colpo,
Come un fulmine a ciel sereno, realizzai pienamente lo scorrere del tempo e ne rimasi
scioccato. […] Imparai a vivere pienamente l'attimo, a vivere col sorriso il momento che stavo
respirando. Senza proiettare alcun futuro, senza
rifugiarmi in alcun passato. Smisi di bivaccare il
mio corpo e la mia anima. Iniziai a vivere! […]
"Cliff dopo cliff imparai a librarmi in aria, a tendere per un secondo verso l'orizzonte, verso l'infinito per poi tornare saldamente alla terra, alle
mie radici.
“Compresi l'energia che la natura emana con i
suoi profumi, i suoi colori, i suoi suoni.
M'illuminai abbracciando il mondo".
Questa è una guida per conoscere e apprezzare queste curve da Madesimo al Tonale.
CALCARE DI MARCA
a cura di Marco Nardi
Edizioni
Versante Sud
Collana Luoghi Verticali
- € 28,50
Racconto minuzioso
e appassionato di
venti anni di storia
dell'arrampicata nelle
Marche, terra gentile
e generosa sospesa
tra mari e monti, che
racchiude un interessante patrimonio verticale: dalle prime storiche
pareti dell'Ascolano, attraverso le grandi gole di
Frasassi e del Furlo, dalla splendida Cingoli fino
alle recenti falesie del Corno, veri e propri gioielli per i top climber, quell' "Anime Verticali climbing club" che ha attrezzato molte delle falesie
non rifuggendo da spedizioni negli angoli più
belli del pianeta.
Un gruppo di amici che sognano, perché, come
scriveva Edgar Allan Poe: "Coloro che sognano
di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi
sogna soltanto di notte…".
Cava Orsini. Marco Nardi, strapiombi, 6c
foto A. Giardina
42 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
IL TEMPO DI Mary
Francesco Comba
Comune di Belluno
Biblioteca Civica.
"La gioia di aver
superato
una
parete vincendo
l'attrazione
del
vuoto mercé le
proprie forze e il
proprio coraggio, è
un tesoro nostro soltanto, che ci appartiene e ci
accompagnerà tutta la vita… ". Sono parole di
Mary Varale, quasi un testamento spirituale, con
cui ho voluto introdurre questo breve, ideale,
colloquio con l'Autore. Da quando conosco
"Cesco", spesso e volentieri, Mary Varale è
stata sempre tra noi. Da lui ho imparato ad
amare questa donna, diversa dalle altre, ma al
tempo stesso con nelle vene quel sangue che
l'ha resa grande come le altre, forse, più famose. "Il tempo di Mary", un tempo breve di una
dozzina d'anni, è tutto qui raccolto in pagine
altrettanto brevi; ma le parole di Francesco e i
sentimenti su di lei che sa trasmetterci bastano
a farci rimpiangere quanto questo tempo sia
così infinitamente lontano dal suo.
Le ricerche di anni che Francesco ha fatto in
ogni dove hanno dato un frutto inaspettato e che
ognuno di noi potrà gustare.
Emozionante e insolita
puntata questa tra libri,
riviste... e altro ancora.
Non posso chiudere
senza riportare parte
di uno scritto di Mary
che mi ricorda giorni
ormai lontani - quelli
sì che erano giorni:
" Quei sabati, chi lavora in casa sbriga alla
svelta le proprie faccende e chi è in ufficio
chiede il permesso
d'uscire con breve
anticipo… si trovano
pronte le autocorriere,
e non c'è pericolo che
partano vuote verso la
Valsàssina, dove appunto siamo diretti per
poi salire sui monti ".
MELLO BOULDER
Andrea Pavan
Edizioni
Versante Sud
Collana
Luoghi Verticali
€ 35,00
Edizione aggiornata
della prima di quattro
anni fa.
Nuovi passaggi e
nuovi settori, soprattutto in Valmasino,
una somma delle esperienze precedenti, di
numerosi consigli e di tanta voglia di fare.
ARRAMPICATE
IN SVIZZERA
Matteo Della
Bordella
Edizioni
Versante Sud
Collana Luoghi
Verticali
€ 35,00
Questa guida raccoglie una selezione
d'itinerari di arrampicata di tutte le difficoltà, dal facile all'estremo sulle pareti più importanti di tutta la Svizzera. Sono descritti itinerari
finora sconosciuti e di grande bellezza. Ampio
spazio l'autore dà a persone e storie: alcuni tra i
principali protagonisti, semplici amici e compagni di scalate, ci raccontano la loro passione.
Anche se sotto una diversa veste tipografica,
una veste giornalistica, più spartana, lo spirito
che anima il trimestrale goriziano è lo stesso del
nostro. È un po’ come “il vento dell’est”, ci porta
il profumo di quei monti che tutti noi, chi per un
motivo chi per un’altro, amiamo.
Monti dalle forti emozioni, dalle alterne vicende
storiche, monti legati ad un’umanità di amici che
il passare del tempo rende sempre più sorprendentemente amici.
LIBRI, RIVISTE, GIORNALI...E ALTRO ANCORA 43
LADIN!
Rivista dell'Istituto
Ladin de la Dolomites
La distanza territoriale delle mie origini
mi porta di necessità
a non avere molta
dimestichezza con il ladino. Mi soccorre alquanto l’editoriale di Ernesto Majoni che opera una
sorta di bilancio del lavoro fatto in questi anni,
veramente pregevole se si considera il territorio
dolomitico su cui gravita il lavoro dell’Istituto:
“...si è dato, indubbiamente, più spazio a recensioni di pubblicazioni, perlopiù non edite dal
nostro Istituto, piuttosto che a brani di prosa, poesia e teatro, che tutto sommato costituiscono l’ossatura della rivista, presentando le diverse varianti del ladino bellunese in un caleidoscopio suggestivo e curioso dal punto di vista storico, linguistico e comparativo. Arricchire ancora la parte in
ladino: potrebbe essere questo il proposito per il
futuro, auspicando che la produzione in vernacolo
nella nostra area offra sempre materiali di livello e
interesse per la cultura locale. D’altro canto, sul
fronte delle recensioni, stimola notare quanto sia
ampia di questi tempi, nonostante le difficoltà, la
produzione di materiali culturali legati alla terra
ladina. [...] La rivista si augura di poter contare su
collaboratori disposti a sostenere la rivista con
saggi scientifici, di ricerca e letterari; che escano
ancora pubblicazioni, materiali audio-video e
siano organizzate mostre di interesse scienfico
per la Ladinia. Così “Ladin!” avrà sempre modo di
alimentarsi e fornire ulteriori stimoli e curiosità agli
abbonati e ai lettori, che vanno ringraziati per la
fedeltà e la fiducia dimostrata”.
Tra gli articoli a carattere letterario “Fregores de
cultura” un testo di Giovanni Belli Codan e
Francesco Pordon de chi de la Zota “La fienagione” che riferisce dell’iniziativa “Coltivazioni
di un tempo”, giunta alla sesta stagione, che ha
mostrato ai turisti e a quanti si interessano delle
tradizioni ladine, i modi con cui i padri sapevano
ricavare con le loro mani dalla terra i mezzi del
loro sostentamento: una complessa ma molto
significativa manifestazione dedicata, questa
volta, alla rappresentazione di tutte le fasi della
lavorazione e del trasporto a casa di quel bene
prezioso che era il fieno.
Sono stati messi in campo tutti gli attrezzi originali, a partire dai carri, e tante persone ben
motivate e competenti si sono prestate a ricreare quelle tecniche che ormai vivono solo nei
nostri ricordi - come si falciava a mano l’erba
del prato e si essiccava al sole ed all’aria in
modo conveniente il fieno, come esso alla fine
veniva raccolto nel covone per essere trasportato a valle in tempi successivi o nei “varote”
(grandi lenzuola di juta) per essere raccolto
appena pronto e portato direttamente al fienile
di casa. Si sono visti così e come per magia la
falciatura (“al seà”), gli “andai”, le “fioles” (piccoli accumuli provvisori di fieno non completamente essiccato), “la rodeles” (accumuli di fieno
in forma di lunghi cordoni), i covoni, la merenda
sul campo, il “ciar da monte”(bellissimo), ed il
“ciar con al scalà” carico di “varote”, in una
coreografia animata da tanta gente autenticamente affaccendata, anch’essa nei vestiti di un
tempo, che svolgeva il lavoro proprio come
doveva essere fatto: in modo fedele ed attento,
senza affettazione, esagerazioni o movenze
improprie. [...] Molti dei presenti che hanno vissuto quell’epopea, che speriamo non abbia più
a ritornare, non possono non aver provato dei
brividi di emozione. Teatro delle varie manifestazioni il piazzale e i prati circostanti la stazione della vecchia Ferrovia delle Dolomiti, oggi
sede del Museo delle Tradizioni Popolari curato
da Cesare De Vido.
Longarone. EXPO DELLE DOLOMITI Patrimonio dell’Umanità 2012
44 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
foto pagg. 42/43 g.g.
LA
MONTAGNA È EMOZIONE
di Giandomenico Vincenzi
a anni mi chiedo come mai io sia
nato in un paese della piatta pianura
veneta e lì sia vissuto per tutta la mia
vita. Come mai, dato che i rilievi montani hanno sempre costituito per me un fortissimo richiamo che col trascorrere del tempo si è
ancor più accentuato?
Sembrerebbe che per un bizzarro gioco del destino, i miei cromosomi - che a me sembrano di
evidente provenienza montagnarda - volessero
costringermi ad una sorta di pendolarismo obbligato campagna-montagna che consente loro di
mantenere contatti con le origini. Come se, per
fare ammenda di chissà quale sgarbo perpetrato dai miei antenati, io, la montagna dovessi
riconquistarmela. In effetti l’alpe ha esercitato su
di me un grande fascino fin da ragazzetto, quando, giovane esploratore, frequentavo con entusiasmoi campi estivi montani. Erano straordinarie
occasioni per vivere esperienze profonde a contatto diretto con i boschi e i torrenti del Cadore o
del Trentino, fra quelle rocce dolomitiche che
per me costituivano uno scenario normale - ai
miei oicchi di adolescente solo quella era “la
montagna” - e che invece erano la perla rara che
tutto il mondo ci invidiava.
Credo proprio che sia nato così il mio profondo
affetto e la confidenza per la montagna e per
l’ambiente dolomitico in particolare: utilizzare il
legno del bosco - rigorosamente selezionato
dalle Guardie Forestali o raccolto tra le piante
cadute - per costruire tavoli, cucine, alzabandiera, ponti; usare l’acqua del torrente per
prepararci il cibo; andare in escursione sul
nevaio che durante le attività di campo si
intravedeva lassù, all’ombra delle pareti rocciose. Tutte piccole - grandi! - emozioni che
hanno lasciato un segno indelebile dentro di me.
Ecco: fra le innumerevoli definizioni attribuite a
questo variegato e complesso ambiente naturale, ne sceglierei una fra le più semplici e la
farei mia: “La montagna è emozione”. Quella
immediata, a fior di pelle, che ti prende quando
osservi l’intensità straordinaria del giallo di un
“botton d’oro”; o quella più profonda, che invade
il cuore e la coscienza, quando ti capita di
trovarti di fronte a una visione nuova e inaspettata, quindi più carica di significati simbolici.
Montagna come emozione. Sento parlare con
D
46 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
entusiasmo gli amici che hanno fatto un lungo
giro sulle Ande; leggo libri, e ne osservo con
ammirazione le foto, che narrano di imprese
straordinarie sull’Himalaya; sogno anch’io ogni
tanto di calcare le valli tibetane per assaporare
l’intensità energetica di quei luoghi ricchi di
umanità e di spiritualità oltre che di bellezze naturali. Poi... poi mi rendo conto che percorro le
nostre familiari Dolomiti da più di trent’anni e
sono ben lungi dall’averle realmente conosciute
in tutte le loro potenzialità emozionali. E ogni
volta, anche nei luoghi più modesti, snobbati
dalla grande folla, provo, da solo o in compagnia, sensazioni e sentimenti che mi coinvolgono e mi appagano.
In questo rapporto così intimo e sincero, a un
certo punto si è inserito un elemento fondamentale: la fotografia. Avevo così la possibilità di fissare l’emozione di quel momemnto in un’immagine che potevo portare a casa, osservare
nuovamente,, far vedere agli amici, anche se
averla vissuta direttamente era tutt’altra cosa.
Ma non m’interessava tanto, attraverso le mie
diapositive, descrivere la montagna in termini
documetaristici, quanto trasferire sulla pellicola
le sensazioni di quei momenti. Da qui, l’utilizzo
di tecniche come il controluce che segnala
appena la presenza del monte ma non lo svela
nei suoi particolari; lo sfruttamento di situazioni
meteorologiche come la foschia, gli annuvolamenti, la nebbia che normalmente vengono
ritenute avverse e che possono invece rivelarsi
galeotte nel mettere insieme l’atmosfera di quel
momento e la ricerca estetica.
Così in montagna mi diverto comunque, pur
nella fatica delle ascensioni, col sole e con la
pioggia, perché in ogni sistuazione c’è - basta
cercarlo e osservarlo - l’elemento emozionale.
Come in tutti i rapporti sentimentali, il bene deve
essere incondizionato: l’altro va accettato in
toto, “nel bene e nel male” come si dice. E se è
vero che si può tornarer da una gita inzuppati, è
anche vero che pochi istanti di uno squarcio
azzurro - magari fermati con la fotocamera - da
soli valgono l’inzuppatura.
“La montagna”, grazie a lei e a tutto ciò che ha
rappresentato e rappresenta nella mia vita: quella parte del Tutto, radicata profondamente nell’animo, che sta giusto prima del Cielo. IL GRANDE ALPINISMO
zzetta dello Sport ci ha offerto in 22 DVD la possibidi rivisitare le storie di uomini leggendari che hanno
toccato il cielo.
primo della serie, “ NANGA PARBAT, la Montagna
del Destino ”, è incentrato sulla tragedia del 1970.
Scrive Reinhold Messner: “Il regista Joseph
Vilsmaier, che ha una certa esperienza di montagna, la racconta fedelmente. [...] È un racconto
classico di un dramma di montagna, ma non con il
solito sottofondo della musica wagneriana, sempre
troppo eroica. Se un alpinsta con un po’ di esperienza, guardando il film, si immerge con la fantasia nelle
imensioni di un 8000 con una parete di 4500 metri di
vello, la più alta del mondo, capisce l’esposizione
estrema nella quale ci trovammo io e Guenther.
se fossimo sulla Luna e non più sulla Terra, in quelquali, sotto la cima, fummo costretti a decidere di scendere dall’altra parte della montagna, su un versante sconosciuto per noi. L’unica speranza di salvezza. Ma non c’è solo alpinismo nel film. Secondo me l’inizio racconta molto bene l’infanzia dei due
fratelli nati negli Anni 40 in una vallata del Sud Tirolo. Molto stretta. Non solo dal punto di vista fisico, geografico, ma anche dal punto di vista sociale: il prete, il sindaco e il maestro hanno in mano
la vita. È da ciò che nasce e cresce nei due giovani la voglia di uscire, di salire sulle montagne vicine, all’inizio, e poi su quelle più lontane. Senza questa motivazione, conseguenza di quel mondo
piccolo e stretto, forse per noi il Nanga Parbat non sarebbe neanche esistito.”
La vicenda della prima salita del versante Rupal del Nanga Parbat ha fatto discutere, finanche in
tribunale, per ben 35 anni. Reinhold Messner e suo fratello Guenther giunsero in vetta il 27 giugno
1970, alla loro prima spedizione himalaiana. Durante la discesa, ormai sul ghiacciaio finale, mentre
Reinhold è avanti a cercare una via, una valanga travolge Guenther. Il fratello lo cerca fino allo stremo per due giorni, senza trovarne traccia. Con gravi congelamenti poi si trascina fino ai primi luoghi abitati dove è soccorso e trasportato a valle. Verrà accusato di aver abbandonato in cima il fratello per realizzare la prima traversata di un 8000. Nel 2005 i resti di Guenther sono stati trovati sul
ghiacciaio Diamir, dove Reinhold aveva sempre detto che dovevano essere. Alessandro Filippini
“Dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo, abbiamo
delle responsabilità. Responsabilità per noi stessi e per gli
altri. Chi però si prende la responsabilità spesso si fa carico
anche del dolore e della colpa. E con la colpa arriva la paura.
E nel momento in cui la paura ha il sopravvento arriva la
salvezza.
Il Nanga sarà sempre la Montagna del Destino, ma è solo una
montagna, una formazione geologica, siamo noi ad attribuirle
un’emozione.” dal film “Nanga Parbat, la Montagna del Destino”
48 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Prima edizione italiana, estremamente rara, di “Esplorations round the foot of Monte Viso”, memoria edita nel vol. II, seconda
serie di “Peaks, Passes and Glaciers” (pp. 129-177). Resoconto della prima ascensione alla cima del Monviso, effettuata dal
Mathews (1828-1901), cofondatore e poi Presidente dell’Alpine Club di Londra, nel 1861. Traduzione di Cesare Saluzzo. Il nome
dell’autore è curiosamente storpiato in “Matkews” e tale storpiatura rimase anche nella seconda edizione, pubblicata dal Bovo
di Saluzzo nel 1905. Perret, 2864: “L’édition italienne originale est rare et recherchée”. Non in ACL. Di seguito alla relazione del
Mathews sono inseriti dal legatore numerosi fogli bianchi, su 59 dei quali è stata manoscritta all’epoca, in nitida grafia corsiva,
la traduzione italiana della relazione “Una notte sulla cima del Monviso (4 luglio 1862)” di Francis Fox Tuckett. Anche questo
scritto del Tuckett faceva parte, all’origine, di “Peaks, Passes and Glaciers”.
Racconti, leggende, poesie...
PASS
PA
SSII
Passi,
infiniti passi
in quotidiana ricerca.
Il mondo si apre e
noi lo attraversiamo,
avanti e indietro e
intanto non ci accorgiamo che…
Passi,
infiniti passi
ogni giorno passi;
ma non ci sono sempre
mete da raggiungere,
persone da incontrare,
occasioni da cogliere e
intanto non ci accorgiamo che…
Passi,
infiniti passi,
passi di una vita
la nostra vita
i nostri passi;
quelli dei nostri famigliari
quelli dei nostri amici,
quelli che ti fanno sorridere
quelli che ti fanno arrabbiare,
quelli della gente comune e
intanto non ci accorgiamo che…
Passi,
oramai stanchi passi,
lenti, pesanti, radi
passi.
Talvolta s'incespica anche,
dopo ci si siede e
allora sì ci accorgiamo che…
i nostri passi sono finiti e
con essi
il nostro cammino.
Luciano Comelli
(Continua)
PASSI 65
LA MORTE DEL GRANDE CIPRESSO
Svettavi nel ciel, alto e arrogante
umiliavi i pigmei che ti circondavano.
Gli uragani, i temporali
si spegnevan tra le tue chiome.
Nemmen la folgore, che un giorno ti colpì,
potè schiantarti.
I tuoi rami non davan ombra
né quiete né frescura.
Si stringevan al tronco
e salivano al cielo altezzosi ed egoisti.
Cacciaste i merli melodiosi
che a primavera deliziavano i nostri risvegli.
E i passeri che a frotte trovavan ristoro
la notte fra le tue serrate chiome.
Ospitaste corvi e cornacchie
e il loro gracidar sgradevole.
E torme di topi
che poser la loro dimora fra i tuoi rami.
Non v'era giorno
ch'io non dedicassi a te la mia rampogna
e non meditassi la mia vendetta.
Ogni giorno però ti facevi più alto e più forte
ed io più vecchio e incapace.
Ugualmente io piccolo uomo disarmato
ti avrei abbattuto.
Così armato di sol coraggio
m'intrufolai nella selva dei tuoi rami adunchi
ispezionando e studiando come colpirti.
L'impresa che era ardua e rischiosa
sollecitò il mio ardire
ché dove c'è rischio io mi ritrovo.
E cominciò la lotta;
ogni giorno una ferita, una mutilazione.
Prima i piccoli rami
poi i grandi che dal tronco si dipartono.
E salivo con rischio e fatica sempre più su
fino alle vette che impongono rispetto.
E tagliavo uccidendo
chi ti aveva protetto.
Rimasto spoglio eri ancor forte e superbo
ma senza la tua corte
eri un re senza potere, senza corona.
Così io ti affrontai per l'ultimo assalto
e ti tagliai la testa mentre pericolavo
appeso ad un troncone.
Poi giù, sempre più giù
tagliando e squarciavo
fino alla distruzione completa.
Quando giacesti in rami e tronchi recisi
che invadevano i giardini circostanti
io non ne fui felice.
Ché è sempre triste la morte di un gigante
anche se non ci fu amico.
Ora spero che, fugati i corvi e le cornacchie
tornino i merli a melodiare a primavera
e i pettirossi coi primi freddi
e i passeri e gli uccelletti, or senza tema,
a rallegrar i nostri giardini.
La tua morte, cipresso maestoso,
m'illuse che ancor lontano è il mio declino.
Pura illusion poiché è vicino
il dì della mia grande sconfitta
in cui non v'è né appello né rivincita.
Spero solo di non lasciar
rami appassiti e futura cenere.
Luigi Rotelli
LA MORTE DEL GRANDE CIPRESSO 67
LA
SORGENTE DI TRE CRODE
di Lorenzo Gagliardi
"Dopo Cella tu incontri Villapiccola e ti si offre bello dinanzi il tempio di San Lucano a stile greco,
colle sue belle gradinate, col suo atrio, colle sue svelte e graziose facciate e colla cupola ardita che
si slancia al cielo. Per mezzo Villapiccola passa l'Osterra, rio che dà acqua a vari molini e fontane."
Antonio Ronzon - Almanacco Cadorino
d Auronzo, nella frazione di
Villapiccola, partendo da piazza
Rizzardi e seguendo via Saletta, si
può risalire per la valle Osterra attraversata dall'omonimo torrente. In località Tre
Crode sgorga una sorgente d'acqua ferruginosa,
che si getta nel torrente.
Un tempo l'acqua, per le sue proprietà curative,
veniva fatta bere alle persone anemiche ed alle
donne che avevano da poco partorito. Non tutti
però sanno che questa sorgente ha un'origine
leggendaria.
Tanti anni fa, a pian da Lai, la montagna che si
trova sopra la sorgente, viveva Stefen, un uomo
grande e grosso e con un caratteraccio. La sua
casa era costituita solamente da due stanze: in
una viveva e nell'altra lavorava.
Stefen era il più bravo fabbro di Auronzo. A quel
tempo, infatti, erano numerose le botteghe di
fabbri ed anche i mulini che sfruttavano la ricchezza delle acque e la pendenza dei torrenti di
Auronzo.
Nonostante il suo carattere burbero, molta gente
si recava nella sua casetta isolata per farsi
costruire ciò di cui aveva bisogno. Il fabbro era
un tipo rude e di poche parole, non gli interessava entrare in contatto con la gente ed anzi
pensava di non aver bisogno di nessuno ma gli
incidenti possono capitare anche ai più bravi!
Per molti mesi Riccardo e sua madre, ogni
giorno si recarono nella casetta di Pian da Lai
per medicargli le bruciature che si era procurato.
La donna usava un unguento che soltanto lei
sapeva estrarre dalle piante. Anche quando le
ferite furono guarite, Riccardo continuò a far visita al fabbro, aiutandolo a battere il ferro. Per la
prima volta in vita sua, Stefen aveva un amico.
Un giorno, però, il ragazzo non si fece vedere e
così pure il giorno seguente ed il giorno dopo
ancora. - Lo avrò mica trattato male od offeso in
qualche modo? - pensò Stefen.
L'uomo però si sbagliava e lo capì quando vide
arrivare la mamma del ragazzo sulla porta della
A
68 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
N Auronzo nel cianton de Vilapizola, dopo de la
piaza e su por via Saleta se rua de la val de
Ostera, agnò che pasa l gioù.
Su n Tre Crode, sauta fora na pola de aga feruginosa che va a finì inze de l rin.
Nota sta aga vinìa fata bee da la dente anemica
e da le femene che le avea partoriù da poco.
Forse nesùn però i sa come che e nasùda sta
aga.
N bar de ane fa, a Pian da Lai, la croda che se
scorde sora la pola de aga, viviea Stefen n on
gran e gros ma con un bruto far.
La so ciasa avea solo doe stanza: de una l
viviea e de chel autra l lauraa.
Stefen era l pì brao fauro de duta la val. Alora
era n bar de boteghe de faure e anche n bar de
molis por podè dorà dute chele aghe che le ruaa
do da n bar de rin.
Anche se l era stranbo, tanta dente dea da lui
porcè che i avèa besùoi de algo. Lui stasea su
le soe, l credea de no avè mai besuoi de nesun.
Ma na dì, de bonora, anche lui se a fato mal.
Por n bar de mes, Ricardo e so mare i dea da lui
por medeasi co le pomate fate co le erbe che la
mare de Ricardo ciataa por le vare.
Anche daspò che l fauro era guariù, l bocia l dea
senpro a ciatalo e a idialo a laurà.
Era l primo amigo che Stefen avea avù, n duta
la so vita.
Na bonora, però, l bocia nol se a fato vede e
nianche le dornade daspò. Stefen l pensaa su
se por caso i avea fato algo de mal.
sua bottega. - Stefen, è successa una cosa terribile! - disse subito la donna - Riccardo è molto
ammalato. E' pallido, non riesce neppure a reggersi in piedi. Ho provato ad utilizzare le erbe
che conosco, ma non ho ottenuto niente.
Stefen era addolorato e sconvolto: finalmente
aveva un amico che lo ascoltava e lavorava con
lui, lo aveva salvato dal fuoco e lui, invece, non
poteva fare nulla per lui.
Il fabbro sapeva che ai piedi dell'Ajarnola viveva
la Reduoia, una strega potente, ma scorbutica
ancora più di lui: non scendeva mai in paese;
solamente il 6 gennaio percorreva le vie di
Auronzo, trascinando le sue catene e spaventando tutti. - Andrò dalla Reduoia - disse tra sé
Stefen - e chiederò il suo aiuto per Riccardo.
Non volendosi presentare a mani vuote, il fabbro
prese il più bel secio da aga che aveva fabbricato e si avviò verso l'Ajarnola.
Che fosse per il secio o perché stupefatta per
l'insolita richiesta di aiuto, la Reduoia acconsentì ad aiutare Stefen. - vai proprio sotto le Tre
Crode - gli disse - e con il martello più grande
che hai e con tutta la tua forza, batti sulla roccia:
se sarai abbastanza forte, vedrai uscire dell'acqua, falla bere al ragazzo e vedrai che guarirà.
Subito il fabbro tornò in paese e giorno dopo
giorno, incurante della fatica, passava le sue
giornate a battere la roccia, tanto che in paese
pensavano che fosse diventato matto.
Sembrava tutto inutile e quasi quasi Stefen
incominciava a credere che la Reduoia gli
avesse voluto fare un brutto scherzo.
Un pomeriggio, stanco ed amareggiato, lanciò il
suo pesante martello contro la roccia, esclamando - È tutto inutile. Riccardo sta molto male
ed io ho sprecato il mio tempo battendo su una
pietra!
Improvvisamente la roccia iniziò a sgretolarsi ed
un getto d'acqua investì il fabbro.
Era un'acqua speciale con il colore della ruggine
ed il sapore del ferro.
Subito Stefen riempì una brocca e la portò alla
mamma di Riccardo; a poco a poco il ragazzo
iniziò a riprendersi finché guarì completamente.
Ancora oggi, molta gente si reca ai piedi della
grotta di Tre Crode per bere l'acqua ferruginosa,
senza sapere sicuramente quale è stata la sua
magica origine. Ma na dì rua la mare de Ricardo. La e desperada porcè so fiol e n bon tin maloù.
Le so erbe no le a fato nuia de bon, So fiol no l
sta nianche n pè e ela no sa pì ce fei.
Stefen era n bon tin aviliù: finalmente l avea ciatoù n amigo e chesto se mala de longo.
Al fauro vien n bota n mente che sote l Ajarnola
vive la Reduoia, na strega ncora pì salvarga de
lui. La era anche na trista.
Nota a l an, l siè de genaro, la vien do n piaza
co le so ciadene e la fei ciapà paura a dute i
boce. E cusì Stefen decide de dì su da la
Reduoia che la a belo salvou n poche de tosate.
Por no dì a man vuoite, l porta l pì bel secio por
l aga che l avea fato.
La Reduoia contenta n bota l fauro e i dìs de bate
co n martel su la croda, l vedarà vinì fora aga.
L dovrae fei bee chesta aga al tosato e l starà
meo n bota.
Subito l fauro l va do n Pian da Lai e por dornade
ntiere l bate su por la croda.
La dente che lo vede l ciapa por mato.
Ma nuia, l aga no rua.
Cuan che no l po' pì, l ciapa l martel e lo sbate
inze por la croda.
Nbota l vede na pola de aga color de l rusen e
col saor de l fer.
Stefen vienpe nbota na sea de chela aga e l
core a ciasa de Ricardo. L bocia bee l aga e n
tin a lota l vien a sta meo.
Ncora ncuoi tanta dente va sote la grota de Tre
Crode por bee l aga che fei tanto ben, anche se
poche i sa la storia de chesta aga. LA SORGENTE DI TRE CRODE 69
Abbiamo letto per voi
A chiusura dei miei testi sul “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati pubblicati nei N. 24-25 di QVOTA 864 scrivevo: “Non so se questa mia lettura del capolavoro buzzattiano sia stata una lettura ortodossa. Ne affido il contenuto al Lettore per ogni possibile contributo”.
La risposta è andata oltre ogni aspettativa. Pur nella divergenza delle considerazioni che sono scaturite lo ritengo un esito insperato, mi auguro foriero di ulteriori sviluppi. g.g.
LA MONTAGNA E
LA CURIOSITA’ DI
ÖTZI
per andare a cercare aiuto
dall’altra parte.
D’altro canto gli uomini preistorici avevano da tempo trondubbiamente siete una
vato i passi - attraverso selle
banda di egregi letterati trae forcelle da poco libe-rate
vestiti da montanari!
dai ghiacciai würmiani - per
Non bastava l’intrigante riletcomunicare con l’altro vertura del romanzo, se tale è,
sante: vedansi le vie del
di Dino Buzzati, che mi ha
rame, dell’ambra, ecc.
colpito per la chiarezza della
Possiamo allora dedurre che
visione della vita dell’uomo e
la montagna abbia fatto
ancor più per gli incisi di g.g.
paura agli uomini di epoche
decisamente grondanti poein cui era più comodo restare
sia pura; ci voleva anche
nella villa signorile, nel
quella colta disamina sull’apboschetto lezioso, nella pur
parire della montagna nelle Il volto di Ötzi secondo Kennis
faticosa campagna, ma che
opere dell’Uomo che Alberto Museo Archeologico dell'Alto Adige
non abbia mai impressionato
Galvan sciorina bellamente Foto Ochsenreiter ©
l’uomo curioso della realtà
con una dovizia di particolari
delle cose e non delle pulsioda impressionare anche Giuliano Amato, presi- ni mentali e cordiali evocate da un relativo
dente Treccani.
benessere improntato da giochi filosofici spesso
Vorrei sottolineare tuttavia un particolare che fini a se stessi?
non è stato evidenziato in tale disamina: il pen- In questi periodi non serviva conoscere o amare
siero dell’uomo preistorico in tale contesto.
la montagna, era una cosa mostruosa al margiE’ ben vero che dal Medioevo al Romanticismo ne della comunità, che menti disadattate riempicontadini e dotti hanno avuto della montagna un vano di mostri evocati da letture distorte, talora
concetto negativo, fatto di paure indotte dalla anche dei testi sacri.
religio più retriva e sostanzialmente dall’ignoran- Gli stessi grandi nomi delle artri figurative,
za allevata nei salotti a forza di chiacchiere arca- quando cominciarono a riprodurle nelle loro
diche e nelle campagne coltivata dal terrore per opere, ne fecero qualcosa di astratto, lontano,
lo sconosciuto alimentato ad arte dalle comunità fanta-smagorico: non erano nel cuore e nella
monastiche, almeno da molte di esse. Rimane il mente come essenze meravigliose, ma come
fatto che nella preistoria tali atteggiamenti este- bastioni avversi.
riori ed interiori non vennero più di tanto consi- Solo qualche pazzoide cominciò, ben tardi, a
derati e diffusi.
fare il geologo autodidatta; ma erano mosche
Un esempio per tutti considero sia l’Uomo di rare, per fortuna destinate a proliferare col
Similaun, che gli austriaci male hanno fatto a tempo.
battezzare Ötzi, poiché il suo nome doveva Chiedo scusa, mi fermo, ma mi avete indotto voi
essere Bepi, in quanto proveniente dal meri- a questi pensieri. Che Dio vi benedica.
dione delle Alpi, essendo stato trovato nel suo
Vaia Franco
mantello di fiene del polline di piante della pianura veneta o comunque del versante meri-dio
nale delle Prealpi.
Quell’uomo, dunque, stava coraggiosamente
risalendo la montagna verso il crinale, per superarlo, per andare a vedere al di là, fosse anche
I
70 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
LA
MONTAGNA, LA LUNA E L'ALTRO
di Alberto E. Galvan
o, gentilissimo Glauco, proprio non
mi riesce di considerare il Drogo del
Deserto dei Tartari un "vittorioso".
Mi permetta di anticipare schematicamente - nel tentativo di essere più chiaro quelli che potrebbero risultare degli argomenti
un poco complessi.
Il nostro tenente non ha mai seri dubbi e non
prende coscienza della probabile assurdità del
suo destino. Accetta in modo acritico l'assenza
di dialogo all'interno delle opposizioni; non vede,
soprattutto, sfumature fra "oggetto e soggetto".
E' bloccato in una visione senza via d'uscita perché irrigidita in un'opposizione nella quale è fortemente sbilanciato verso ciò che gli è "esterno",
cioè la situazione in cui vive.
Considerarlo vittorioso non comporterebbe forse
di dover considerare tale proprio chiunque, alla
fine della vita, si prepari, magari anche con semplice rassegnazione, come in questo caso, al
passaggio verso un qualsiasi altrove: una sorta
di viatico che non si nega proprio a nessuno?
Lei scrive che Drogo, alla fine, intravede una
luce che sta per sorgere. Ma già gli era capitato
nel corso di tutta la vita di prendere - chiedo
venia per il sarcasmo - qualche abbaglio in tal
senso. Già diverse volte aveva visto in lontananza accendersi una piccola luce che avrebbe
dovuto crescere sempre più e venirgli incontro
ed invece se n'era andata e venuta e, finalmente, spenta. E poi non è per nulla sicuro che ciò
che egli aveva intravisto in passato corrisponda
alla presenza che, alla fine, si materia-lizza
aldilà della frontiera. Resta il dubbio che si possano sempre prendere lucciole per lanterne. Su
quella possibilità tanto aveva scommesso, è
vero, ma guarda caso, mai, né lui né i suoi commilitoni, avevano preso in considerazione la
possibilità di andarle coraggiosamente incontro.
Perché non l'aveva fatto? Cosa delimitava quella frontiera montana per essere così inviolabile e
bloccare proprio tutti in un'eterna attesa?
Potremmo interpretarla come frontiera fra la vita
e la morte. Drogo e molti altri prima di lui, avrebbero agognato tutta la vita la morte eroica nello
scontro col nemico e conseguente passaggio
alla gloria, ma per un'ingiustificata beffa del destino, tale sogno non si realizza per loro; si realizzerà probabilmente per dei giovani che forse
N
neanche l'hanno mai avuto quel sogno. Drogo e
gli altri devono accontentarsi semplicemente di
spegnersi. Equivarrebbe a sostenere che prima
Drogo attendeva la luce del dio-padre, intesa
come speranza di morte, perchè lo illuminasse
di una luce guerriera (suicida?), ma ne ha avuto
solo insoddisfacenti riflessi. Ora sa che arriverà
la luna, che comunque egli non vede, e che
assumerebbe un significato stranamente indeterminato. Se vogliamo vedere un'evoluzione
dall'iniziale illusione alla finale disillusione, possiamo ammettere che una maturazione ci sia:
nell'accettazione. Interpretazione tutta esistenzialista che, dato il momento in cui il romanzo è
stato scritto, è ben plausibile. Ma l'esistenzialismo denuncia che il destino è uguale per tutti; e,
guarda caso, lo scontro con il nemico da parte
dei giovani soldati che salgono alla fortezza
resta significativamente fuori del racconto: non
"esiste" nell'economia del libro. Il racconto risulterebbe allora stranamente contraddittorio e non
vi si potrebbe certamente rinvenire possibilità di
"vittoria" alcuna. Tanto più che fra l'inizio e la
conclusione della sua esperienza non si rileva
nel personaggio nessuna sostanziale differenza;
come in tanti eroi di Sartre, Beckett o Camus
appunto.
A rinforzo dei miei dubbi, ricordiamo che la luna,
in tutta la nostra cultura e soprattutto presso i
romani che la concepivano come Trivia, assume
non solo i significati di nascita, vita e morte ciclo che si conclude - ma anche di nuovo inizio.
Eterno femminino, considerato come forza vitale creativa dell'universo. Solo a partire dal
romanticismo la sua immagine assume soprattutto la valenza di ritorno al grembo materno,
all'inconscio e a quei lati della persona che si
esprimono attraverso i sogni ed i comportamenti inconsapevoli.
L'evoluzione del personaggio Drogo andrebbe
dunque dalla luce marziale del sole-padre che
evidenzia, netta come la legge, i contrasti del
reale, a quella materna, struggente, indefinita e
solitaria che ricorda l'appressarsi della morte
quale rientro in un indistinto originario.
D'accordo, ma in cosa consisterebbe la sua "vittoria"? Quale sarebbe l'arma meritoria del
tenente: forse la sua passività esistenziale? Non
ha avuto praticamente alcuna vita affettiva e, alLA MONTAGNA, LA LUNA E L’ALTRO 71
Il tenente Drogo, nel film di Vittorio Zurlini “Il deserto dei Tartari”
dal romanzo omonimo di Dino Buzzati
la fortezza, non ha alla fin fine nessun amico e,
guarda caso, non avrà nemmeno un "nemico"
degno di questo nome. Drogo ha rinunciato a
tante vite possibili e del tutto inutilmente, visto
che il Caso, lasciato libero nella sua stupidità,
non si occupava affatto dei suoi desideri.
Arriverei quindi a dire che lo vedo piuttosto "perdente".
Mi chiedo perché mi si presenti insistente il ricordo del racconto "Il Veglio della montagna" nel
Milione di Marco Polo.
Alaodin aveva fatto costruire tra i monti del favoloso medioriente, un giardino ed un palazzo
meravigliosi che assomigliavano molto al paradiso promesso dal profeta Maometto. Egli vi
ammetteva "se no' colui che egli voleva fare
assassino". L'entrata consisteva in un passaggio attraverso l'incoscienza: "quando lo veglio
ne faceva mettere nel giardino, a quattro, a
dieci, a venti, egli faceva loro dare a bere oppio
e quegli dormivano bene tre dì; e facevagli portare nel giardino, e al tempo gli faceva isvegliare (…) e veramente si credevano essere in
paradiso". Allo stesso modo il vecchio li fa tornar fuori e i giovani "molto si maravigliano e
sono molto tristi". È così che, pur di tornare nel
paradiso perduto, quei giovani sono disposti a
72 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
qualsiasi scelleratezza chieda loro colui che
ritengono un gran profeta. Ciò a cui sono spinti
è un atto di fede acritico; non si pongono nessuna domanda a proposito di quel passaggio brusco dal reale al paradiso. Sono disposti a tutto:
non solo uccidere, ma anche essere uccisi;
ognuno di loro "se è perso, vuole morire, credendo ritornare al paradiso".
In un primo momento avevo temuto fosse la
parola montagna a richiamarmi alla mente questo passaggio, invece credo sia il cortocircuito
della coscienza, l'assenza di dubbi sulle alternative, l'accettazione testarda di un'opposizione
manichea: dentro/fuori, noi/loro, amico/nemico,
fortezza/città, vita/morte. Innegabilmente la psicologia di Drogo è strutturata su tale opposizione, con l'aggravante - dal mio punto di vista e lo
ripeto - che manca nel personaggio l'accettazione cosciente di tale gioco; cosa che gli darebbe
la dignità di una sorta di filosofia di vita. Solo
così si potrebbe parlare di una qualche "vittoria"
da parte sua. Invece egli è, come direbbe Jung,
ciecamente sbilanciato verso l'esterno.
Penso, a questo proposito, al romanzo di Julien
Gracq, “La riva delle Sirti” (1951); opera che,
guarda caso, è stata in continuazione sospettata
di rifarsi al Deserto dei Tartari (1940).
L'atmosfera è piovosa, fangosa, nebbiosa, scivolosa; tutto dà il sapore della decadenza: dai
muri dei palazzi alle coscienze degli individui, al
potere che regge lo stato di Orsenna: potenza
marittima le cui città fanno un po' pensare a
Ravenna, ma soprattutto a Venezia. La vita
sociale vi è essa pure in totale decadenza; i valori civili e morali sono corrotti e nessuno sembra vedere alternativa alcuna. Nemmeno gli
antichi e perdenti indigeni maya che stanno stoicamente nel fango, sotto la pioggia, pur sembrando depositari di antiche quanto trascurate
verità. Tutto è pervaso da un fatalismo decadente e surreale come se la fine del mondo
fosse sempre incombente e sempre rinviata. Di
tutto questo, però, chi detiene il potere è ben
cosciente. Si tratta di un'oligarchia di vecchi, infidi, gelosi e corrotti. Potere che potremmo tranquillamente definire mafioso e che, per mantenersi, sa sfruttare la situazione cinicamente.
Anche qui sembra che la causa di ogni male sia
il silenzio del nemico storico che ormai da tempo
immemore tace nelle sue terre lontane, aldilà del
mare delle Sirti. Con la sostanziale differenza
che qui il cosiddetto potere è ben cosciente che
l'opposizione al nemico non è reale. Proprio per
riattivare quel gioco con una provocazione, un
po' scientemente un po' per equivoco, è stato
inviato in missione aldilà del mare il personaggio
principale. Gioco drammatico, certo; che porterà
distruzione, certo, ma proprio per questo
dovrebbe immettere nel paese una ventata di
adrenalina che riattiverà le arterie di quel vecchio corpo sull'orlo della putrefazione.
Tutto ciò perché nessuna alternativa sembra
possibile. Commenti sul piano ideologico e rapporti con il nostro presente sarebbero fin troppo
facili. E' forse proprio per questo che non mi riesce di provare simpatia per Drogo, anche alla
fine della sua parabola. Cosa rimpiange: di non
aver partecipato attivamente a quel gioco, visto
che la morte sembra dispiacergli solo per questo?
Non sarà per caso tanto più patetico in quanto,
a ben vedere, egli vi ha di fatto partecipato, ma
non se ne rende conto? Non ha minimamente
coscienza che la stupida opposizione Io/Altro
che egli ha sperimentato giorno dopo giorno
nelle ingiustizie che egli ha subito, o perlomeno
nella meschinità di chi gli stava accanto, aldiquà
della frontiera, è solo il riflesso in tono minore
della sognata ed eroica opposizione Io/Nemico.
Nemmeno alla fine lo sfiora il dubbio - il quale
non è proprio nelle sue corde - che l'opposizio-
ne eroica che ora egli invidia nei giovani, forse
non esiste proprio per nessuno. Non muove un
passo nella direzione che forse lo avrebbe consolato.
Ma proprio questo è il punto: come consolarsi?
Cercare di vivere nella "totalità", giorno per giorno, qui ed ora, senza porla altrove è un'aspirazione che ha fatto produrre all'essere umano
l'immagine del paradiso. E da sempre l'impossibilità di renderla reale sembra causata dalla presenza dell'Altro; ricordiamo la celeberrima conclusione di A Porte Chiuse (1943) a cui arrivano
i tre personaggi di Sartre: "l'inferno sono gli altri".
Sembra eterna l'aspirazione a cancellare quell'opposizione, quella frattura nella quale pare
radicarsi la parzialità del destino di ognuno, anzi
del nostro stesso essere. Di qui la fede in un
passaggio all'eterno concepito come felicità perchè corrisponderebbe alla completezza definitiva, all'unità ritrovata: negazione dell'esistenza
come ex-sistere.
Per chi crede in Dio la soluzione arriva dopo la
morte, nella vita eterna. Glauco sembra ritenere
sia questo il caso di Drogo. Ma perché allora
avrebbe vissuto tutta la vita in tensione verso il
nemico che arriva troppo tardi per lui?
L'equazione Dio-Nemico ed il rapporto MorteLuna-ritorno a Dio non mi sembra qui davvero
proponibile. Forse sarebbe più credibile una sia
pur disinvolta lettura psicanalitica: nemico-solepadre e di contro morte-luna-madre. La definirei
disinvolta perché vedere nella morte di Drogo un
recupero dell'unità del Sé simboleggiata dall'immagine della luna-utero materno - e questo
quale allusione al recupero di una junghiana
unità attraverso il dialogo con l'inconscio - mi
sembra altrettanto poco probabile.
Per Jung l'anima è la tessitura del rapporto con
il mondo interiore e per questo suo rapporto con
l'inconscio essa ha un carattere misterioso e
metafisico. Va subito ricordato che per lo psicanalista svizzero "metafisico ha il significato psicologico di inconscio" e che l'anima è "demoniaca, perché attraverso essa trapela l'oggetto
interno con quale è collegata, cioè l'inconscio
collettivo superpersonale". Per situare ancora
più chiaramente la mia riflessione ricorrerò ad
un'ultima osservazione di Jung: "fra la religione
di un popolo e la sua vita reale esiste sempre un
rapporto di compensazione". Vale a dire che
quando Jung intende additarci una via alla consolazione - cosa di cui proprio tutti avremmo
bisogno - intende farlo su un piano totalmente
LA MONTAGNA, LA LUNA E L’ALTRO 73
"immanente", non ricorre a nessun aldilà extraumano o extra-temporale. La lotta a suo avviso
è tutta tra introversione ed estroversione; tra
mondo inconscio e mondo esterno; lotta che
nessuno ignora perché "nessuno può sottrarsi a
entrambe le realtà". Lotta che si svolge tutta nel
teatro socio-culturale in cui ci muoviamo.
In “Tipi Psicologici” (1920) Jung fa un excursus
storico di come l'uomo occidentale ha cercato,
nei secoli, di colmare la scissione che da sempre sente in se stesso. Rimprovera Nietzsche
quando vede la soluzione nell'Arte; lo apprezza
in Zarathustra perché "più vicino alla realtà" e, in
generale, quando scrive che la vera soluzione
del conflitto tra gli opposti "è superato non dall'arte, ma da un metafisico atto prodigioso di
ellenica volontà". Come dire, secondo Jung, un
prodigioso atto inconscio; "un prodotto nato
spontaneamente senza l'intervento della ragione e dell'intenzione; si produce come un fenomeno di crescita della natura creatrice e non
risulta da un processo ideativo (intendi da un
"progetto") della mente dell'uomo; è una nascita prodotta dall'attesa, dalla fede e dalla speranza". Com'è risaputo per Jung il fulcro produttivo
che genera e rigenera tale fenomeno è il simbolo. Egli trova nella cultura orientale la conferma
che il " microcosmo che riunisce in sé gli opposti del mondo, corrisponde al simbolo irrazionale che riunisce opposti psicologici". Il simbolo,
egli scrive, è generativo, creatore di immagini,
dynamis per antonomasia, della quale costituiscono un unico motore la libido e la fantasia, ma
soprattutto il loro trattamento per "metodo riduttivo" o per "metodo sintetico". Entrambi si completano a vicenda in "una funzione trascendente"; ricorda, in proposito, che "il concetto
goethiano di sistole e diastole (…) coglie nel
segno".
Poiché la vita non tollera alcuna forma di stasi
quando l'energia vitale ristagna e si accumula,
creando una situazione che potrebbe diventare
intollerabile, dalla tensione fra gli opposti nasce
quella nuova funzione che supera gli opposti e li
unifica nel "motivo centrale" di cui il simbolo
vivo è materializzazione. La Coscienza e la
Volontà vi troveranno la possibilità di un "passaggio da un atteggiamento a un altro". Già in
Mastro Eckhart Jung rileva l'intuizione che quando la separazione viene abolita nell'identificazione dell'Io con la dynamis dell'inconscio, Dio
scompare come oggetto e diventa soggetto non
più distinto dall'Io. Vale a dire che l'Io, non più
74 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
prodotto dalla differenziazione, "viene di nuovo
identificato col mistico e dinamico rapporto totale". Il simbolo ci dice che è sempre possibile
"una nuova manifestazione della vita" (ed il motivo del rinnovamento del dio, presente in tutte le
culture, ne sarebbe la prova); attivando tutti i
contenuti rimossi e non-riconosciuti, avvia l'enantiodromia: la trasformazione e rivoluzione
cosciente dei valori fino ad allora riconosciuti.
Drogo, invece, è come se fosse caduto dentro il
simbolo della fortezza e dell'opposizione
all'Altro/Nemico, senza potervi trovare la forza
per rinnovare i suoi rapporti con la "realtà".
Ritrovo ancora Jung che scrive "l'uomo è senza
dubbio capace di meccanizzarsi, però non fino
al punto di rinunciare totalmente a se stesso
senza riportarne danno. In altri termini, più si
identifica con una sola funzione caricandola di
libido, più libido sottrae alle altre funzioni (…) più
queste reagiscono". E' proprio ciò che accade
all'eroe di Buzzati; si è identificato e auto-alienato totalmente all'Altro e la libido rimossa lo
punisce facendolo allontanare in continuazione
dall'Altro: non arriverà mai il momento buono per
lui e non ci sarà nessun altrove. Di quest'ultimo
aspetto non è ben chiaro se il personaggio è
cosciente; il romanzo, nella sua diegesi, lo è certamente.
Il "peccato" di Drogo, direbbe Jung, è quello di
essere troppo unilateralmente estroverso; c'è in
lui "prevalenza del fattore oggettivo nell'evento
psichico (…) assimilazione del suo soggetto
all'oggetto". Vale a dire "una dannosa regressione del fattore soggettivo (…) la sua coscienza
guarda verso l'esterno perché la decisione
determinante gli arriva sempre dall'esterno (…)
le leggi morali dell'agire coincidono con le corrispondenti esigenze della società e rispettivamente con la concezione generalmente accettata". Osando un po', sull'esempio di Jung, definirei Drogo un tipo estroverso con bisogni inconsci dal carattere egoistico ed infantile. Egli sa
soprattutto desiderare, ma "il suo conformarsi al
dato oggettivo e la sua assimilazione ad esso
ostacolano la coscientizzazione di buona parte
dei moti soggettivi". Quest'ultimi, dunque, vanno
ad accumularsi nell'inconscio dove producono
"immagini" compensatorie. In Drogo sarebbe
per l'appunto atrofizzata la funzione di "compensazione-bilanciamento"; quella che sa autoregolare l'apporto psichico, sospendendo gli opposti
ipostatizzati, e rilanciarne in continua-zione il
"gioco". È quello che Jung chiama "metodo
costruttivo che mira a costruire un senso del
prodotto inconscio rapportato al futuro atteggiamento del soggetto", correggendo così l'orientamento conscio che può anche, in casi estremi,
portare il soggetto in un vicolo cieco.
È quanto già insegnava il Zarathustra nietzschano: accettare le trasformazioni del cuore; accettare di fare la spola fra il rifugio sulla montagna
e la pianura degli uomini che vivono in società,
perché esistere è relazione. Il vero uomo, il
superuomo, è tutto nel mondo; è il senso della
Terra. " La grandezza dell'uomo è nell'essere un
ponte e non una meta: ciò che si può amare nell'uomo è il suo essere una transizione e un tramonto; egli dona sempre e non vuole conservarsi".
Nel romanzo di Buzzati la dimensione verticale
Basso/Alto comporta l'opposizione orizzontale
ed univoca verso l'Altro; non c'è spazio per il
guerriero nietzschano che non è in guerra contro gli altri, bensì contro tutto ciò che limita la libera evoluzione dell'essere umano. In Nietzsche
è sempre chiara la coscienza che "se all'umanità manca lo scopo, manca anche essa stessa". È in nome di questa tensione che egli ci
invita a fuggire ciò che è "prossimo", come ciò
che è "remoto" e perseguire invece il futuro.
Drogo è certo uno di quegli uomini di cui
Zarathustra potrebbe dire ironico "che hanno
buttato via il loro ultimo pregio, quando hanno
buttato via la loro dipendenza". Infatti il nostro
tenente vi si tiene saldamente aggrappato. Cosa
saprebbe rispondere alla domanda: "sei in
grado di dare a te stesso il tuo male e il tuo bene
e di fissare sopra di te la tua volontà come una
legge? Riesci ad essere giudice di te stesso e
vendicatore della tua legge?".
Come non pensare all'ultimo Camus, quello
della Chute (1956), in cui l'uomo totalmente libero è anche totalmente responsabile del proprio
destino: giudice-penitente di se stesso. Il suo
tormento è la coscienza di aver troppo spesso
perso l'occasione di andare verso l'Altro per
istinto di fratellanza; vogliamo dire per amore del
'prossimo'?. Solo cosi, credo, è giustificabile l'attaccamento di Zarathustra per gli esseri umani e
quel junghiano rimettere le posizioni continuamente in gioco. Gioco le cui carte, come abbiamo visto, sono esclusivamente terrene,
umane, sociali.
Drogo è uno di quegli eroi che oramai non
sanno più dare in modo "gratuito". Già il Saint
Julien di Flaubert (1877) era condannato all'in-
felicità; aggressivo ed assassino verso tutto ciò
che è Altro. Si salva solo quando il suo "cuore
di pietra" si scioglie e passa alla santità cedendo al richiamo dell'Altro con passiva generosità. Certo l'autore sembra giudicarlo un santo
un po' "stupido", come aveva fatto con Felicita,
nel racconto precedente, e come farà in quello
successivo con San Giovanni Battista.
Flaubert, sempre amarissimo, sembra dirci che
per l'uomo moderno l'unica possibilità di salvezza sta in una sorta di stupida accettazione;
chi si ribella sarà preda di una continua quanto
inutile sofferenza.
Un secolo e mezzo dopo, quella negativa sensazione di inutilità e di perdita non deve avere
più corso. Sappiamo ormai di aver perduto solo
delle illusioni che si erano cristallizzate fino
all'assurdo proprio perché, come ribadirebbe
Jung, la nostra cultura e il nostro Io erano troppo sbilanciati da un lato. Drogo è restato prigioniero di quella "stupidità" esattamente come lo è
stato il tipico eroe esistenzialista; prigio-niero,
fino all'assurda autodistruzione, di tante piccole
opposizioni che si possono riassumere in quella
più ampia di Io/Altro. Eppure già nel 1944
Daumal scriveva il suo Monte Analogo, pubblicato postumo ed incompleto nel 1952. Romanzo
"d'avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche" che sembra, pari pari, un'illustrazione di quanto Jung pensa del simbolo.
Storia di una spola continua fra l'Io e l'Altro, il
dentro e il fuori, l'alto e il basso e che sembra
tutta costruita attorno alla domanda finale: "E voi
cosa cercate?".
Come conclusione, mi permetto di fare la morale a tutti noi.
Per essere "vittoriosi" bisognerebbe non solo,
come raccomanda Camus "immaginare Sisifo
felice" (potrebbe restare il dubbio che quella
felicità sfumi un po' nella stupidità); bisogna
immaginarlo speranzoso e costruttivo. "Non la
vostra provenienza bensì il vostro fine costituisca d'ora in poi il vostro onore", ci intima
Zarathustra, e poi precisa "voi dovete amare la
terra dei vostri figli; questo amore sia la vostra
nuova nobiltà (…) Nei vostri figli dovete riparare di essere figli dei vostri padri: così dovete redimere tutto il passato".
Che il paradiso consista, alla fin fine, nel non
avere troppa cattiva coscienza in tal senso?
Cosa non molto facile soprattutto in tempi come
questi. "Aspiro forse alla felicità? - conclude
Zarathustra - no! Alla mia opera aspiro!" LA MONTAGNA, LA LUNA E L’ALTRO 75
UN UOMO D'ALTRI TEMPI E D'ALTRI LUOGHI
di Bruna Vecellio. A cura di Paola De Filippo Roia
Quasi per caso mi è capitato tra le mani questo testo che mi ha dato l'opportunità di scoprire
una grande persona, fino a ieri a me sconosciuta. La nipote Bruna, forse per una forma di modestia o per dimenticanza, ha però omesso di scrivere che il nonno Silvio è stato anche
Presidente della Magnifica Comunità di Cadore negli anni 1917 e 1918 e che è stato insignito
del titolo di " Cavaliere Ufficiale". Questo brano presenta anche particolari e simpatici aneddoti che ci fan capire la diversità dei tempi e la caparbietà dei nostri antenati auronzani. Farà piacere ai figli della Signora Bruna ed alla sorella Maristella un ricordo del bisnonno e nonno. Ma
colgo l'occasione per un pensiero al figlio di Silvio: Bruno Vecellio, che con passione e capacità ha guidato la nostra sezione del C. A. I. per una decina d' anni negli anni '60.
a figura di Giordano Bruno mi è
sempre stata familiare - per quanto
imprecisa - fin da quando ero molto
piccola perché legata ai nomi di mio
padre Bruno e di suo fratello Giordano e perché
mio nonno amava raccontare la storia della
scelta di questi nomi. Il nonno Silvio, che si definiva libero pensatore socialista, quando nasce il
suo primo figlio maschio decide di chiamarlo
Giordano Bruno. Siccome il neonato è un po'
gracilino, viene portato subito in chiesa per
essere battezzato ( non è questione di incoerenza; il nonno infatti sosteneva che Gesù Cristo
era stato il primo pensatore socialista ), ma il
parroco si oppone fieramente a che un povero
innocente venisse chiamato con il nome di un
eretico. Il nonno reclama il suo diritto a chiamare
il figlio come vuole lui; ne nasce una disputa;
infine viene trovato un compromesso ed il bambino viene chiamato Bruno. Qualche anno dopo,
però, il nonno si prende la rivincita ed il suo secondo figlio viene battezzato con il nome di
Giordano.
Io adoravo il nonno e le sue storie; per me era
un UOMO "GRANDE" in tutti i sensi, anche se
quello che raccontava non era sempre adatto a
far crescere una ragazzina obbediente e disciplinata, come ad esempio la storia del perché non
divenne mai avvocato.
Scena. Un'aula del liceo classico di Venezia.
È una mattina di inizio giugno del 1883, piena di
sole. Durante la lezione, due giovani siedono
nell'ultima fila su due diversi banchi con uno
stretto corridoio che li separa. Afa...noia... la
voce del professore sta salmodiando qualcosa...
Uno dei due giovanotti indossa quel giorno un
completo di lino bianco. Ad un certo punto uno si
china verso l'altro e gli propone: "Andiamo al
Lido a farci un bagno, nel pomeriggio?".
Il professore si ferma, prende il calamaio di vetro
che ha sul tavolo e lo lancia contro i due amici;
L
76 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Bruno Vecellio
non li colpisce, ma il calamaio va ad infrangersi
sulla parete dietro di loro e l'inchiostro schizza
sulla giacca bianca. Il giovane, doppiamente
infuriato per il vestito rovinato e per il pericolo
corso, si precipita addirittura correndo sopra i
banchi addosso al professore e gli dà una carica
di botte. Conclusione: il giovanotto (mio nonno)
viene espulso da tutte le scuole del regno e
deve tornarsene al paesello rinunciando
all'Università.
Non era però nel suo carattere e nelle sue
aspirazioni occuparsi solo del commercio di legname. Uomo di acuto ingegno e sinceramente
democratico, diviene ben presto seguace del
socialismo umanitario di Leonida Bissolati.
Nel 1901 viene nominato sindaco di Auronzo e
manterrà tale carica per più di diciotto anni, a
parte due brevi interruzioni negli anni 1907-09 e
1917-18. È stato un sindaco illuminato, che precorreva i tempi, che progettava alla grande e
forse proprio per questo o per le sue idee politiche sarà fortemente osteggiato dalla parte più
reazionaria del paese.
In quei primi anni del '900 ad Auronzo si verificavano periodiche epidemie di tifo, causate
molto probabilmente dal vecchio malandato
acquedotto. Il sindaco riesce a far approvare nel
1907 il progetto di un nuovo acquedotto tecnicamente molto avanzato, malgrado l'opposizione
di molti consiglieri. Questi avevano sobillato la
popolazione prospettandole chissà quali pericoli, tanto che vi fu uno schieramento di donne
armate di bastone sulla scalinata del municipio,
decise ad impedire al sindaco di entrare per la
decisiva seduta consiliare.
Quasi contemporaneamente Silvio Vecellio
vuole dotare il paese di una centrale idroelettrica, usufruendo della medesima acqua che alimentava l'acquedotto. Erano progetti molto
ambiziosi per quel tempo e soprattutto nuovi,
e come tutte le cose nuove, era abbastanza
naturale che venissero considerate con una
certa apprensione e reticenza. Centrale ed acquedotto entrano in funzione nel 1912 e da quell'anno
scompaiono le epidemie di tifo che ancora nel 1910
aveva causato numerose vittime.
Altro settore nel quale il sindaco Vecellio si è
impegnato fortemente è stato quello dell'educazione. Per la verità, Auronzo era già all'avanguardia per quello che riguardava la scuola, tenendo presente che si trattava di un paese di
montagna di circa tremila abitanti. Nel 1869,
infatti, nella provincia di Belluno soltanto il capoluogo, Feltre ed Auronzo avevano un corso elementare maschile completo di cinque classi. Le
scuole femminili erano aperte solo in sedici comuni della provincia, tra i quali Auronzo che ne
aveva ben tre. I maestri - che allora erano
dipendenti comunali - percepivano ad Auronzo
uno stipendio che andava dalle 500 alle 700 lire
annue, mentre in provincia di Belluno lo stipendio medio annuale era di 415 lire.
Nel 1870 il comune di Auronzo aveva fatto costruire il primo edificio scolastico che però già nel
1910 risultava insufficiente. Approfittando di
un'occasione offertagli dal ministero della
guerra, il Comune vende questo edificio per
trasformarlo in caserma degli Alpini, percependo
17.800 lire. Subito il sindaco inizia la battaglia
per la costruzione di un nuovo edificio scolastico. Le discussioni ed i dissidi anche aspri così come si può arguire dai verbali delle sedute
del consiglio comunale - vanno avanti per anni,
finché finalmente il progetto definitivo viene
approvato nel 1914. I lavori poi saranno sospesi
allo scoppio della prima guerra mondiale e verranno ripresi soltanto alla fine del conflitto. Così
l'inaugurazione di un'opera, fortemente voluta
dal Vecellio, si tiene nel 1922, quando gli eventi,
prima di tutto il fascismo - ma non solo questo lo avevano allontanato dalla scena politica in
un'età in cui molto ancora avrebbe potuto fare
per il suo paese.
Già nel 1907 aveva fondato la Cooperativa
auronzana del lavoro che ha diretto per oltre
vent'anni; è stato a lungo Presidente della
Società operaia di mutuo soccorso che già in
quegli anni organizzava corsi per muratori,
falegnami, carpentieri e disegnatori. L'istituzione
mantiene tuttora i suoi compiti; ne è stato socio
mio padre e poi noi figlie.
C'è un episodio che penso non si trovi scritto in
alcun documento, ma che ho spesso sentito raccontare in casa.
Il Pievano di Auronzo, Antonio Da Rin era morto
nel 1905. Nel 1907 viene nominato Pievano don
Antonio Puliè. Quando questi si presenta per
prendere possesso della sua parrocchia, si trova
davanti la popolazione decisa a non lasciarlo
entrare perché voleva che rimanesse il
Cappellano che nei due anni di sede vacante
aveva retto la parrocchia, probabilmente in
modo soddisfacente e si era fatto benvolere.
Che può fare il povero Pievano appena nominato? Va dal sindaco e questi gli dice:
"Reverendo, io non sono un cattolico praticante,
ma Lei è stato nominato dal vescovo e ha diritto
ad avere il suo posto. Venga con me." E così,
passando tra due ali di gente ostile e rumoreggiante, lo insedia nella sua parrocchia da
dove non si allontanerà fino alla morte, quarantadue anni dopo.
Purtroppo attorno al 1920 cominciano a girare
anche ad Auronzo le squadre fasciste. Silvio
Vecellio diviene oggetto di insulti; gli viene lordata la porta di casa, ma nessuno osa fargli violenza. Contemporaneamente riprende vigore la
vecchia ostilità della parte più retriva del paese;
i cosiddetti clericali montano una campagna
denigratoria, il nonno è accusato di appartenere
alla massoneria e cercano di mettergli contro la
gente per la quale tanto si era adoperato!
Così nel 1920 Silvio Vecellio si dimette definitivamente dalla carica di sindaco. Per tutto il periodo fascista vive appartato; io ricordo bene
quando passavo con lui per la strada come tutti
lo salutavano con affetto, chiamandolo familiarmente "Sior Silvio". Ricordo quando a capodanno la banda municipale, alla quale aveva
regalato gli strumenti musicali, veniva a mezzanotte a suonare sotto le sue finestre finché egli
non usciva per gli auguri ed un bicchiere di vino.
È un'immagine questa che ora può far sorridere,
un atteggiamento che al giorno d'oggi con ironia
si definisce paternalistico, ma a me piace ricordarlo lo stesso con infinita tenerezza e nostalgia.
Alla fine della seconda guerra mondiale gli
auronzani lo vogliono di nuovo al suo posto in
consiglio comunale, ma si tratta di un'elezione
più che altro simbolica, arrivata troppo tardi.
Ormai Silvio Vecellio ha superato gli ottant'anni
e la sua forza d'animo, la sua acuta intelligenza,
la sua voglia di fare e di lottare stanno spegnendosi. Capisce, però, che il grande nemico, quello
che per più di vent'anni aveva fatto tacere la sua
voce e gli aveva impedito di lottare per la sua
gente, è sconfitto per sempre. UN UOMO D’ALTRI TEMPI E D’ALTRI LUOGHI 77
STRADE.
La Valsugana
di Ierma Sega - foto di Giovanni Cavulli
Nel precedente numero di QVOTA 864 abbiamo accennato al progetto della rivista di un viaggio alla scoperta
delle antiche vie.
In una società "veloce" quale è la nostra, parlare di strade storiche - cioè di quelle strade che, edificate tra Otto
e Novecento, hanno mutato in maniera determinante la viabilità, distanze e circolazione di merci e persone sul
territorio - rappresenta un'opportunità preziosa, che "Il Trentino" offre ai lettori. Un viaggio per capire da dove
veniamo e dove stiamo andando. Non solo, ma per poter ripercorrere per un momento quelle strade che facemmo un tempo, ancora giovani, diretti verso le Dolomiti trentine.
C'è un luogo metafisico a pochi minuti
da Trento che mi piacerebbe farti
conoscere". È pressappoco con
queste parole che, approfittando di
una pausa concessa dalla pioggia battente delle
ultime settimane, è fissata la "ricognizione sul
campo" alla vecchia strada della Valsugana.
Così, ci avventuriamo imboccando l'accesso in
prossimità dell'ucita della galleria dei Crozi. [...]
La “metafisicità” del luogo?
Inizialmente quest’aspetto mi sfugge: troppo
invadente, protagonista e rumorosa la vicina
superstrada il cui rimbombo è amplificato dal
riverbero sulle pareti rocciose. Inoltre mi è difficile scacciare dalla mente l’immagine della
Valsugana trafficatissima che oggi tutti conosciamo, di quella Valsugana cioè che Wikipedia definisce “strada provinciale e statale italiana il cui
percorso si sviluppa in Veneto e nel Trentino.
Inizia a Padova e termina a Trento, dopo avere
attraversato parte della pianura veneta e percorso la Valsugana”.
Valsugana: un nome, due strade. Quanto si
differenziano la vecchia e la nuova?
Basta percorrere poche centinaia di metri del
vecchio tracciato per trovarsi, all’improvviso, in
una dimensione fuori dal tempo. Perché se in un
primo momento i passi si allineano su un percorso reso denso dal rumore costante delle
automobili e dei mezzi pesanti che transitano a
breve distanza sulla Valsugana “nuova”, quando
quest’ultima è inghiottita dalla galleria il fragore
fastidioso della modernità è subitamente sostituito da altri suoni: quelli degli animali e un altro,
più sordo, dato dallo scorrere impetuoso del
Fersina sul fondovalle che genera un incessante
ronzio, non ancora silenzio ma già non più
rumore.
Presenza dominante è quella dell’acqua che
scorre nella stretta forra ma scivola anche dall’alto in rivoli che lambiscono la roccia, la vege-
"
78 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
tazione, i ciuffi d’erba, gli slarghi di muschio,
inonda la carreggiata e costringe a scarti improvvisi per evitare le pozzanghere.
“Le settimane scorse, prima delle piogge, lì in
fondo c’era poco più di un rigagnolo” precisa il
fotografo mentre lo sguardo indugia sullo spumeggiare vivace e il fragore del torrente.
E la curiosità prende il sopravvento, alimentata
dalla possibilità di interrogare. Perché la scelta
di documentare solo il tratto che da Ponte Alto
porta fino sotto l’abitato di Civezzano?
“Anche se ci sono altri spezzoni fotograficamente interessanti come quello che da Pergine
porta a Levico - risponde Cavulli - ho scelto di
ritrarre questo tratto lungo poco meno di due
chilometri perché, per me, questo è un paesaggio che non ha eguali in tutto il Trentino. Mi sono
sentito attratto dalla possibilità di presentare un
luogo che le generazioni nate dopo gli anni
Settanta non conoscono. Il viadotto ha infatti
escluso alla vista proprio il segmento che io ho
documentato.
“Ma qui c’era la porta principale della Valsugana
tant’è che qui ci sono questi tre parallelismi: la
strada vecchia, quella nuova, la ferrovia. [...]
sbancamenti tanto imponenti di roccia e verticalità delle pareti devono aver posto i costruttori
davanti a problemi ingegneristici non indifferenti.” In effetti il paesaggio è veramente unico:
non solo quello più noto del vicino Orrido di
Ponte Alto, da tempo in attesa di un progetto
di valorizzazione, ma anche quello, poco conosciuto
ma non meno affascinante, della strada che,
chiusa nel 1974 quando venne costruito il nuovo
viadotto, si snoda un centinaio di metri più in alto
rispetto alla forra scavata dall’incessante scorrere del torrente.
Nella parte più vicina al fiume la roccia è stratificata orizzontalmente mentre, sopra la linea della
ferrovia, ha un andamento verticale. Oltre alla
fauna che qui vive indisturbata - ci sono rondoni
e rondini, ormai rari in città, ma anche
rapaci come il nibbio che si riconosce per la
coda dalla particolare forma biforcuta e il gheppio dal volo
lento e circolare - sono i pescatori i padroni di
un sito altrimenti con rare presenze umane.
Ancora si indovina, sulla destra orografica,
una traccia
di sentiero, ma la vegetazione e una boscaglia
di rovi l’ha quasi completamente celato allo
sguardo. Come la strada di Monterovere e il
sentiero della Ponale, l’intervento dell’uomo è
percepibile non solo nella sfida tecnica imposta
dalle specificità dell’area ma anche dall’evidente
“matericità” delle azioni necessarie per rubare
spazio alla roccia: sono imponenti le superfici
scavate e segnate dallo scalpello e non è difficile immaginare il fragore ritmico dei martelli che
si calano possenti per sradicare la materia.
Così come, in un viaggio a ritroso nel tempo, è
possibile evocare il vociare di quanti in passato
sono transitati da qui. Come i ragazzi e gli
uomini del Tesino che, provenienti dal vicino altopiano, percorsero la vecchia strada
prima di disperdersi su tutte le strade del
mondo vendendo porta a porta la merce che,
più di ogni altra, contraddistinse l’economia e la
storia della loro terra d’origine. Quasi che il
tempo non fosse trascorso, alcuni tratti della
strada conservano ancora i paracarri originali in
pietra a presidio di un tracciato che, a dispetto
dello stato di abbandono, mantiene quasi inalterato il fondo stradale. Il resto è un accumularsi di tracce: i bunker militari all’uscita della galleria dei Crozi, le bocche di scolo per l’acqua, i
massi precipitati dalla montagna, il capitello con
pochi brani di affresco superstiti.
Ma anche il ricordo di un’immagine in bianco
e nero scattata dal fotografo trentino Flavio
Faganello che immortalò alcuni carabinieri
intenti a sparare colpi di fucile alle enormi
stalattiti di ghiaccio invernali nate sotto i grandi tetti rocciosi per staccarli ed evitarne il crollo improvviso sulla strada durante il transito
dei veicoli. La vecchia strada della Valsugana
STRADE. La Valsugana 79
1914. IL TENTATIVO SHACKLETON IN ANTARTIDE
di Cesare Censi. Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti” - Fermo
Ernest Shackleton
opo che Amundsen aveva raggiunto
il Polo Sud ed era ormai definitivamente tramontata l'ambizione degli
inglesi di essere i primi al Polo,
Ernest Shackleton considerò l'idea di attraversare il continente antartico con una marcia di 3.300
km. Questo progetto era già stato tentato dallo
svizzero Wilhelm Filchner nel 1911, ma non
ebbe successo.
Shackleton, per la sua impresa, fu finanziato da
diversi sostenitori e per ringraziarli della loro
munificenza chiamò con i loro nomi le scialuppe
di salvataggio.
Nelle sue intenzioni la spedizione avrebbe dovuto conseguire sia risultati scientifici che agonistici. Infatti, mentre lui avrebbe tentato la traversata, un'equipe si sarebbe diretta a ovest, in direzione della Terra di Graham, e un'altra a est,
verso la Terra di Enderby, per rilevazioni geologiche e raccolta di minerali. La spedizione era
composta da due navi, l'Endurance e l'Aurora.
D
80 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Arrivarono nella Georgia del Sud nel mese di
novembre del 1914 e i primi giorni del nuovo
anno l'Endurance rimase bloccata tra i ghiacci.
Shackleton cercò in tutti i modi di liberarla, ma i
tentativi risultarono inutili. Risolse di adibirla a
stazione d'inverno, "a più di mille miglia dalla
terra abitabile più vicina". La nave, però, andò
alla deriva per 920 km verso nord-ovest e creò il
problema dell'approvvigionamento alimentare in
quanto si allontanarono dalle zone popolate dai
pinguini e dalle foche.
Nel mese di ottobre la situazione oggettiva della
nave non permetteva più il suo utilizzo e furono
costretti ad abbandonarla e costruire un campo
sulla banchisa che chiamarono Ocean Camp. Il
21 novembre l'Endurance colò a picco e dopo
un mese Shackleton decise di tentare una marcia di avvicinamento all'isola di Paulet distante
570 km. La neve molle ostacolò enormemente il
loro cammino tanto che dopo nove giorni avevano percorso soltanto sette miglia. Decisero di
organizzare un nuovo campo, che chiamarono
Patient Camp, e di lasciarsi andare alla deriva in
modo da raggiungere qualche terra ferma.
Il 9 aprile furono costretti a imbarcarsi velocemente perché il ghiaccio sotto di loro si stava
frantumando e dopo quattro giorni giunsero sull'isola dell'Elefante. Questa nuova situazione
non era migliore delle precedenti perché quest'isola era roppo isolata per essere raggiunta da
eventuali soccorsi e Shackleton decise di tentare un nuovo viaggio, questa volta di circa 1400
km, verso la Georgia del Sud per chiedere soccorso.
Partirono a bordo della scialuppa James Caird
Shackleton e cinque marinai con una scorta di
viveri per trenta giorni. La difficoltà che incontrarono nel loro viaggio fu descritta così da
Shackleton: ”Intorpiditi nei nostri stretti posti,
continuamente inzuppati dalla schiuma, il freddo
ci fece soffrire atrocemente durante tutto il viaggio. Lottavamo contro il mare e i venti, e bisognava fare uno sforzo costante per rimanere in
vita. A volte corremmo terribili pericoli. Le tempeste erano senza tregua. In generale, ci sosteneva la certezza che avanzavamo verso il paese
della salvezza.”
Il 10 maggio avvistarono terra, ma una tempesta li spinse verso la costa rocciosa.
Considerato che avevano terminato l'acqua,
Shackleton fu costretto a tentare comunque lo
sbarco. Dopo cinque tentativi riuscirono a toccare terra nella baia King Haakon e subito si avvidero di un piccolo ruscello d'acqua dolce che
sfociava poco lontano la loro salvezza.
Si trovavano nella parte meridionale dell'isola e
la baia di Stromness, invece, si trovava nella
parte opposta.
Shackleton, con due uomini, partì subito e il
giorno dopo raggiunse la stazione baleniera di
Grytviken. Gli altri marinai furono ripresi il giorno
seguente, mentre per il rimanente gruppo rimasto sull'isola dell'Elefante fu armata in fretta e
furia una baleniera, la Southern Sky, che partì il
23 maggio. Dopo tre giorni, però, i ghiacci le
impedirono di continuare il viaggio e il capitano
fu costretto a dirigersi verso le isole Falkland a
cercare una nave più adatta. Qui Shackleton
contattò l'ammiragliato britannico che gli comunicò che non avrebbe potuto inviare una propria
nave prima del mese di ottobre. Trovò la disponibilità del governo uruguaiano che mise a
disposizione un battello, l'Instituto de Pesca n°
1, che dovette arrendersi di fronte ai ghiacci a
soli 20 miglia dall'isola.
Shackleton non si dette per vinto e ritentò una
terza volta con la goletta Emma, ma fu una
nuova sconfitta.
A Port Stanley giunse la notizia che
dall'Inghilterra stava arrivando la Discovery, ma
Shackleton aveva fretta di salvare i suoi uomini
e chiese al governo cileno la disponibilità del
rimorchiatore Yelcho. Gli fu accordata. Il 30 agosto il rimorchiatore sbarcò sull'isola dell'Elefante,
imbarcò gli uomini e il 3 settembre 1916 giunse
a Punta Arenas. Erano tutti salvi.
L'altra nave, l'Aurora, giunse a capo Evans, nell'isola di Ross, il 16 gennaio 1915 e vi sbarcò
dieci tonnellate di carbone e novantotto casse di
olio. Riprese il viaggio e dopo alcuni giorni si
fermò a nove miglia da Hut Point. Il capitano
Mackintosh volle dirigere lui stesso le operazioni di dislocamento dei viveri lungo la rotta verso
il polo e lasciò il comando della nave al luogotenente J. R. Stenhouse. La marcia sulla neve
molle e lo scorbuto resero difficili le operazioni.
Un marinaio morì, così come molti cani per
fame. Il 6 maggio una forte tempesta ruppe l'ancoraggio dell'Aurora che andò alla deriva. Si
liberò il 12 febbraio 1916 e lasciò il pack il 14
marzo. Navigò con un timone di fortuna in quanto quello originale era andato distrutto durante la
deriva e il 12 aprile incontrò a largo di PortChalmers il rimorchiatore Pluchy che la trainò in
porto.
Quando nel mese di dicembre Shackleton arrivò
in Nuova Zelanda trovò l'Aurora rimessa a
nuovo. Partirono il 20 dicembre per andare a
riprendere gli uomini rimasti a capo Evans e li
incontrarono il 7 gennaio. Mancavano il capitano
Mackintosh e Hayward perché l'8 maggio 1916
erano partiti in slitta per andare a Hut Point e
non fecero più ritorno.
La spedizione si rivelò un fallimento, ma
Shackleton riuscì a trasformarla in un'impresa
epica che misurava i limiti della resistenza
umana. La sua preoccupazione maggiore fu rivolta verso le possibilità umane alle estreme latitudini e la misurazione dei limiti dei ghiacci che
risultarono essere il campo di battaglia di questa sfida. L’Endurance di Ernest Shackleton
1924. IL TENTATIVO SHACKLETON IN ANTARTIDE 81
A tavola con i Lares
Il piatto "Tipico" ed il possibile nesso tra la carne alla brace ed una
camicia bianca.
a cena, quella
sera,
doveva
essere qualcosa
di particolare, anzi di
eccezionale, visti gli
invitati, il luogo, la
maestria e l'esperienza del cuoco, la
materia prima accuratamente scelta, il tipo di
cottura esotico e la qualità e quantità di vino da
poter bere a volontà. Per il cuoco, emigrante di
ritorno dall'Argentina, era il tempo di dimostrare
in pratica, capacità ed esperienze maturate ed
era anche un modo per entrare nella cerchia di
amicizie di "quelli che contavano".
Scelse con cura la legna, non di resinose, le
erbe, gli aromi e l'olio per la concia, lo spiedo di
forma e di dimensioni adeguate e soprattutto la
carne, che raccomandò dovesse essere di
manza "pascolina" ma non troppo, anzi meglio
se alimentata anche con fieno, perchè il sapore
fosse deciso, ma con limite.La cottura iniziò al
mattino, così che, in serata, all'arrivo dei vari
commensali, l'opera d'arte aveva già preso
forma e tutti, tra un brindisi e l'altro, lodavano
l'artista e attendevano con ansia la fine della cottura per dare inizio al banchetto. Ma si sa, la
notizia particolare non poteva rimanere solo
all'interno del giardino dell'albergo Al Lago.
Quel sabato sera, al Tipico bar, infatti, non si
parlava d'altro. Ognuno aveva i suoi "se" da far
valere. Quando però Nicolino - anche lui di
ritorno, ma dal Venezuela - con tono di sfida,
disse che se qualcuno avesse portato la carne,
lui avrebbe messo il vino per tutti, l'affare fu bello
e fatto. Contavano a quel punto solo tempismo e
velocità. Fu cosi che, approfittando del rientro
dell'artista "dell'asado" per l'ennesimo brindisi
con gli invitati, la coscia di vacca prese il volo tra
le braccia di mio zio che dimostrò ai suoi amici,
se ce n'era bisogno, di essere ben fornito di
scaltrezza e rapidità. C'era anche Giulio con il fol
e al Tipico fu una serata memorabile.
La nonna invece non seppe mai spiegarsi che
fine avesse fatto la camicia bianca di mio zio,
fatta opportunamente sparire per non dover
spiegare la causa di enormi macchie di grasso
sulle maniche e sui taschini, di solito inamidati e
candidi.
Luigi Larese Filon
L
82 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Uno dei cibi più antichi e diffusi, che ha avuto sempre una notevole rilevanza nell’alimentazione dei
nostri contadini, è sicuramente il formaggio.
Per il suo alto contenuto di sostanze nutritive
(grassi, proteine, sali minerali e vitamine),
questo alimento può sostituire vantaggiosamente le uova, il pesce e la carne; a detta di
alcuni dietologhi, mezzo chilo di pane mangiato
con un’etto e mezzo di formaggio costituisce un
pasto completo! [...]
Ai giorni nostri è ancora possibile imbattersi in
qualche “vecchia” malga, dotata dello “stallon”
per il riparo del bestiame durante la notte; del
“bait del lat”, per riporre il latte munto alla sera;
della “casera”, per la lavorazione del latte stesso; del “volt” per riporre le forme di formaggio, le
ricotte fresche e affumicate “poine”, le caciotte, il
burro; dello “stalot” per il ricovero dei maiali ecc.
ed è ancora possibile acquistare i prodotti appena... sfornati, che profumano di fieno, di erba di
pa-scolo, di fumo, di odori legati ad un tempo
passato, ma pur sempre vivo nella memoria di
quei contadini che in malga hanno trascorso
forse tutte le loro estati.
Un’ottima qualità di formaggio di malga è quello
no-strano, prodotto da metà giugno a fine settembre con il latte crudo. Ha la crosta liscia e dura, di
colore giallastro. La pasta è compatta, semigrassa,
di colore giallo. Il sapore è gradevole, con un gusto
più pronunciato, però non piccante, dopo la stagionatura di almeno otto mesi. Quand’è fresco, ha
toni intensi che conservano i profumi dell’alpeggio.
Le ricette sono tratte dalla rivista terratrentina della
Provincia Autonoma di Trento che ringraziamo.
“ La polenta ai quattro formaggi e funghi ”.
Ingredienti
600 g di farina gialla (di cui un 10% potrebbe essere
sostituito con farina di di grano saraceno), 500 g di formaggi morbidi, 1/4 di litro di latte, 3 uova, un cucchiaio di farina bianca, 800 g di funghi (finferli e porcini).
“Tagliare a pezzettini 300 g di vari formaggi, ammorbidendoli a bagnomaria. Sciogliere in una padella, a
fiamma bassa, gli altri 200 g con 3 rossi d’uovo, il latte
e il cucchiaio di farina in modo da ottenere una morbida fonduta.
Preparare a parte i funghi, cuocendoli brevemente con
poco aglio e prezzemolo. Aggiungere alla polenta, una
volta pronta, i formaggi lasciati ammorbidire.
Sistemare la polenta in quattro stampi, lasciandola un
pochino raffreddare. Estrarre le “polente” dagli stampi,
versarvi sopra la fonduta di formaggio e servire con i
funghi.”
CASONZIEI di Piero De Ghetto de Roche de Liseo
La Pizzeria Croera da
Borcia l à ciapà la
medaia de oro canche
l à presentà i
casonziei a Brussels.
Luca Da Corte,
an Cadorin doven,
pien de indegno e de
iniziativa, al me à
contà come che l è
stada e al me à
domandà se podeo
scrive argo sui
casonziei.
E chesto l è chel che
l è ienù fora...
Ma ce biei, ma ce boi!
Dasémeno an bon doi.
Me ce boi, ma ce biei.
Benedete i casonziei!
piere cuote e rae ros,
zucia, dota o s-sciopetin;
te puos bete, se te guos
piere, spech e anche pastin.
Se te passa par la testa,
se te zerches l ocasion
par paussà o par fei festa,
par magnà argo da bon;
Se la fame no te passa,
tolte ancora na porzion;
se i te dis: “te magnes massa”
se i te dis: “te sos magnon”
par se fei na ciacolada,
se te guos passate n ora,
casonziei co la spersada
e onto frito is par sora.
l’é parché i é massa boi,
e no te puos pi fei de manco,
e, col piato che fas doi,
tolte an cuarto de vin bianco.
Medo chilo de farina,
puoco sal e n tin de aga,
pasta sfuoia bela fina
e la zena l é insarzada.
Se i te conzes coi pavare,
i te tira su l moral,
e se tu te dis: magare!
ió no vedo nia de mal.
L é na roba proprio bona,
l é n magnà a la nostrana,
che fasea anche la nona
a la fin de la stemana.
Te puos diteno ize lieto
par stà n tin in conpagnia,
se daspò i no fas efeto
no te l as fato par nia;
E infin che i se cuosea,
a tre bèche o a medaluna,
la nona la disea
che i porta anche fortuna.
duto ien e duto passa,
e la storia l é fenida;
e, se t as magnà n tin massa,
te puos feite na... dormida,
O sul serio, o par da ride,
senza che nessun se stize,
ades resta da dezide
ce che l é da bete ize:
Ma ce biei, ma ce boi!
Dasémp an bon doi.
Ma ce boi, ma ce biei.
Benedete i casonziei!
da “Ladin!” - Rivista dell’Istituto Ladin de la Dolomites - Giugno 2012
A TAVOLA CON I LARES 83
“Canederlo al formaggio”
Nella tradizione culinaria contadina una variante
dei tradizionali canederli è il canederlo al formaggio, che si prepara sostituendo lo speck o la
lucanica o altro tipo di carne, con vari formaggi,
in prevalenza con quelli dal gusto saporito,
tagliati a dadini.
Naturalemente rimangono invariati gli altri ingredienti, ossia il pane raffermo tagliato a
pezzetteni, il latte, l’erba cipollina, il prezzemolo,
l’aglio, le uova, il pepe e la noce moscata.
“Taiadele smalzade” - pasta saltata in padella
E’ questa una ricetta, nella quale l’ottimo
Trentingrana svolge un ruolo primario perché ne
sa esaltare la bontà.
Ingredienti
400 g di tagliatelle, sugo d’arrosto, 2 cucchiai
di panna, un rametto di rosmarino, 1/2 dado (a
piacere), formaggio grattugiato.
Preparare, in una pentola piuttosto larga, una
salsa con la panna e il rosmarino, utilizzando il
fondo di una carne arrosto e mezzo dado.
Cuocere le tagliatelle al dente, scolarle e metterle nella pentola contenente la salsa.
Mescolare bene a fuoco molto basso e aggiungere il grana grattuggiato. Servire ben calde.
“Pasta ai formaggi”
Con gli avanzi di formaggi duri da fondere le
massaie d’un tempo erano solite preparare un
altro tipo di sugo che serviva a condire le cosiddetta “pasta ai formaggi“.
“Mettere la pasta a cuocere, tagliare i formaggi a
pezzettini, unirli alla panna da cucina e a tutti gli
altri ingredienti. Scolare la pasta, metterla in una
pirofila, coprire con la salsa e cuocere in forno
per una decina di minuti a temperatura media.
Servire calda e filante.
“AI LARES”
Splendido agriturismo-fattoria didattica realizzato in un ex caserma militare ubicata quasi al culmine del passo di Sant’Antonio, valico collegante Auronzo di Cadore e Padola di Comelico
Superiore.
Immerso nel verde di boschi e pascoli in estate
è ideale punto di partenza di passeggiate ed
escursioni, In inverno sono comodamente
accessibili il comprensorio sciistico di Padola e
le Terme di Valgrande.
84 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
DEDICATO A UN AMICO
Gruppo
Filatelici di Montagna
Forse il suo nome dirà ben poco a tanti di
noi, ma nella grande famiglia del CAI
l’esserci è già essere uno di noi.
Gli amici del Sezione di Cento a cui
apparteneva lo ricordano per la sua gentilezza e per la genuinità del suo amore per
la montagna.
Quanti ci lasciano e ci precedono nel cammino “verso l’Alto” sovente lasciano un
segno indelebile nei nostri cuori, così è
sempre stato e così sarà anche per
Lorenzo Parmeggiani
“Sei scattato per la ripida salita,
pensavi di averci staccato,
ti sei sbagliato.
Siamo e saremo sempre insieme.
Ciao Lorenzo.”
Gli amici del CAI di Cento
* Affiliato alla Federazione fra le
Società Filateliche Italiane
* Socio dell’Ass. “Ardito Desio”
* Socio dell’Associazione
Italiana di Maximafilia
* Socio del Circolo Filatelico
“Guglielmo Marconi”
}** Socio Centro It. Fil. Resistenza
e-mail: [email protected]
c/c postale n. 14266373 intestato:
CAI Auronzo. 32041 Auronzo di Cadore BL
“Quando arrivi in vetta
ad un monte non fermarti,
continua a salire”
Un Maestro del buddismo Zen
- A PROPOSITO DEL CENTENARIO
DELLA FERROVIA DELLA JUNGFRAU
- 40 ANNI TUTTI DA RICORDARE
- MONTAGNA IN ROSA
- RICORDIAMO GIUSEPPE MAZZOTTI
- NEL 9° SECOLO DEI “PATTI GEBARDINI”
www.filatelicidi montagna.com
Treni
A PROPOSITO DEL CENTENARIO
DELLA FERROVIA DELLA JUNGFRAU
a Jungfrau è la «montagna del desiderio». Non solo per via del suo nome,
probabilmente riconducibile alle
suore del monastero d’Interlaken che
un tempo occupavano l’alpeggio di Wengen alle
pendici della Jungfrau, ma anche perché è una
delle più belle montagne della Svizzera.
La Jungfrau, l’Eiger e il Mönch, che si trovano
alla sua sinistra, costituiscono le tre cime più
note delle Alpi bernesi. Verso la fine del XIX secolo, quando la febbre della ferrovia aveva raggiunto anche le regioni più remote, molti cercarono di farla arrivare anche qui. Solo una persona riuscì nell’impresa, e neppure fino in fondo:
l’industriale zurighese Adolf Guyer-Zeller, []
L
86 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
che disponeva del denaro e della tenacia necessari. Ma soprattutto aveva avuto la buona
idea di lanciarsi in questa avventura pionieristica. E la linea pionieristica della Jungfrau fu la
prima ferrovia di alta montagna del mondo.
Sappiamo con precisione quando nacque l’idea
di creare la Ferrovia della Jungfrau.
Era il 20 agosto 1893: «Dopo essere salito sullo
Schilthorn partendo da Mürren e aver potuto
ammirare il panorama delle tre cime Eiger,
Mönch e Jungfrau per un’intera giornata grazie
ad un cielo particolarmente terso, al sottoscritto
è venuta l’idea di creare un nuovo tracciato per
una ferrovia sulla Jungfrau», scrive il fondatore
e promotore della Ferrovia della Jungfrau, Adolf
Guyer-Zeller, nella sua domanda di concessione
presentata al Consiglio federale quello stesso
anno. Adolf Guyer-Zeller discendeva da una
famiglia d’industriali dell’Oberland zurighese.
Non contento di aver ripreso il cotonificio paterno di Neuthal presso Bauma nel 1874, il giovane
voleva fare di più. Trovò quindi nella ferrovia un
terreno fertile per dare sfogo al proprio spirito
imprenditoriale. Infatti credeva nel futuro di
questo mezzo di trasporto e aveva dimostrato di
avere fiuto per gli affari, visto che aveva saputo
acquistare al momento giusto azioni e
obbligazioni della Ferrovia del Gottardo.
La transazione fece di lui un uomo molto ricco.
A partire dal 1879 investì nella Ferrovia del
Nord-Est (NOB). Quando, a 54 anni, decise di
lanciarsi nell’ambizioso cantiere della Ferrovia
della Jugfrau, si era già conquistata la fama di
magnate delle ferrovie.
La fine del XIX secolo è un periodo caratterizzato dall’ottimismo e dalla fede nel progresso.
I progetti audaci si moltiplicano e conquistano
l’attenzione del pubblico. Nel 1889, a Parigi, in
occasione della grande esposizione internazionale, viene terminata la costruzione di una
torre alta 300 metri dotata di ascensori, la torre
Eiffel. Questa grande opera in metallo illustra
perfettamente la nuova dimensione dell’odierna
tecnologia, grazie alla quale l’architettura può
ormai svilupparsi anche in verticale. In Svizzera
le prime cremagliere e funicolari portano i turisti
fin sulle cime delle montagne.
Il momento è quindi propizio alla costruzione
della Ferrovia della Jungfrau, ma il progetto è
molto ambizioso. Intorno al 1890 esistono già
progetti pionieristici per la creazione di ferrovie
di alta montagna, tra i ghiacciai e nevi eterne,
ma nessuno di essi è mai stato realizzato.
I progetti che vogliono collegare la Jungfrau alla
valle di Lauterbrunnen sono addiritura tre, ma
per raggiungere la vetta - che si trova a 4158
metri sopra al livello del mare - devono superare
un dislivello di 3000 metri. Adolf Guyer-Zeller
adotta un approccio pragmatico: vuole far partire
la sua ferrovia dalla Kleine Scheidegg a 2061
mslm, da dove dal giugno 1893 circola già una
ferrovia a vapore. Guyer-Zeller aveva in mente il
tracciato della linea sin da quando si era trovato
in cammino sul sentiero dello Schilthorn, e ne
aveva disegnato una prima bozza nel suo taccuino già la notte seguente.
Ciononostante, il dislivello tra la Kleine
Scheidegg e la vetta della Jungfrau è di oltre
2000 metri. Pertanto Guyer-Zeller sceglie la
deviazione attraverso l’Eiger, al cui interno le
rotaie dovrebbero effettuare un arco di quasi
180 gradi per continuare in direzione sud-ovest
attraverso il Mönch e da lì proseguire fino alla
Jungfrau - la terza vetta più alta delle Alpi bernesi - attraverso un altro tunnel. Questo gli consente di cavarsela con una pendenza massima
del 25%. A differenza delle ferrovie a
cremagliera costruite fino ad allora, la Ferrovia
della Jungfrau verrà costruita nel cuore della
montagna. In zone talmente pericolose non c’è
altra alternativa: la galleria protegge gli impianti
da valanghe, cadute di massi e lastre di ghiaccio. Resta che i passeggeri devono poter ammirare il paesaggio. Tra l’ingresso del tunnel sul
ghiacciaio dell’Eiger e il Jungfraujoch sono previste tre fermate panoramiche: [] la prima sulla
parete nord dell’Eiger, la seconda sul versante
sud, la terza sul lato nord del Mönch. Si tratta di
veri e propri «balconi» alpini concepiti per offrire
ai passeggeri un panorama mozzafiato.
Nel contempo tali fermate consentiranno alla
ferrovia di entrare in servizio a tappe, con indiscutibili vantaggi finanziari. Guyer-Zeller e i suoi
ingegneri prevedono di arrivare alla stazione di
Eismeer nei primi due anni e di aver bisogno di
altri due anni per arrivare al capolinea sul
pianoro sotto òa vetta della Jungfrau. Qui un
«elevatore» dovrebbe permettere di superare gli
ultimi 65 metri.
Contro la costruzione della ferrovia sono
emesse alcune riserve. Si discute a lungo della
questione della salute, e Adolf Guyer-Zeller
chiede il parere di famosi esperti. Nel 1894, il
famoso aerostiere Eduard Spelterini scrive una
breve perizia che «un breve soggiorno ad
un’altitudine di circa 4200 metri non può nuocere ad una persona in buona salute».
Il 21 dicembre 1894 la stragrande maggioranza
dei consiglieri federali approva la concessione
per la costruzione della ferrovia della Jungfrau.
La Ferrovia della Jungfrau è senza dubbio
un’opera pionieristica.
Alcune componenti di base come il sistema a
pignone e dentiera, i vagoni e la creazione delle
fermate panoramiche richiedono l’elaborazione
di soluzioni del tutto nuove. Guyer-Zeller opta
per lo scartamento di 1000 mm e per le locomotive a trazione elettrica. La leggerezza e l’assenza di emissioni di fumo rendono questa forma di
energia più adatta alla circolazione nelle lunghe
e ripide gallerie del tracciato, e consentono
anche la creazione di tunnel dal profilo più
modesto. Tuttavia essa viene ancora poco usata
in ambito ferroviario, anche se dal 1893 è in funzione sul monte Salève
presso Ginevra la prima
ferrovia a cremagliera a
trazione elettrica.
Il 27 giugno 1896 hanno
inizio i lavori sulla tratta
prevalntemente scoperta
tra la Kleine Scheidegg e il
ghiacciaio dell’Eiger (2320
mslm), posta sul versante
occidentale dell’Eiger.
A PROPOSITO DEL CENTENARIO DELLA FERROVIA DELLA JUNGFRAU 87
L’ubicazione diventerà il centro logistico e il
campo base del cantiere, occupato da 300 persone nella stagione estiva. I minatori vengono
soprattutto dall’Italia settentrionale, gli ingegneri
e gli artigiani dalla Svizzera.
Alcune foto documentano l’attrezzatura minimalista di cui erano muniti: in essi sono ritratti alcuni operai intenti a spianare il terreno con vanghe
e picconi . []
88 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
I rifornimenti di materiali e viveri vengono
trasportati da carovane di muli e cavalli.
Le condizioni di lavoro sono durissime, ma il
cantiere è ben organizzato. «In generale i lavoratori erano molto contenti», dichiarerà nel 1912,
alla fine dei lavori un caposquadra italiano.
Grazie a «premurosità di ogni tipo» lo stato di
salute dei lavoratori è buono, e i salari sono piuttosto elevati. Tuttavia queste affermazioni non
corrispondono pienamente alla verità: sei saranno gli scioperi indetti durante la costruzione della
ferrovia. A creare il malcontento sono il lavoro
domenicale, i premi troppo bassi e la scarsezza
di vitto.
La posa dei binari procede secondo i piani. Il 20
settembre 1898 entra in servizio come previsto
la prima tratta della ferrovia della Jungfrau.
Il giorno precedente, Guyer-Zeller organizza
una sontuosa cerimonia d’inaugurazione. da
vero perfezionista, cura in ogni minimo dettaglio
ognuno dei suoi tanti progetti. La mole di lavoro
è enorme anche per un lavoratore come lui.
Il 3 aprile 1899, a quasi 60 anni, viene colpito da
un infarto. Ma la sua opera vivrà anche dopo la
sua morte. I suoi due figli, Johann Rudolf e Adolf
Gebhard, decidono di portarla a compimento.
In un’opera di queste dimensioni i problemi sono
inevitabili. L’energia prodotta dalla centrale
idroelettrica di Lauterbrunnen non basta per alimentare sia le locomotive che le perforatrici impiegate per allargare i fori prodotti dalle esplosioni. Ben presto i minatori incontrano un inatteso strato di quarzite e i ritardi si accumulano.
I minatori raggiungeranno la stazione di
Eigerwand solo alla fine del 1902. Ci vorranno
altri due anni e mezzo - fino al luglio 1905 - per
inaugurare la stazione di Eismeer. []
Nelle hall sotterranee a 3160 metri di altitudine,
dalle quali si gode di un panorama eccezionale
sul ghiacciaio e sulla vetta sul versante meridionale dell’Eiger, oltre ad un centro turistico con
ristorante viene messo in servizio anche un
«ufficio postale» che resterà in attività fino al 1°
ottobre 1931. Fino al 1951 i passeggeri scendono alla stazione di «Eismeer» e passano dalla
cremagliera ai treni ad aderenza per percorrere
l’ultima tratta del percorso, meno ripida di quella
precedente.
Il cantiere è anche teatro di alcuni incidenti. Il più
spettacolare ha luogo il 15 novembre 1908,
quando esplode un deposito pieno di dinamite
sulla montagna tra la stazione Eigerwand e
quella di Eismeer. «La terra ha tremato con
tanto vigore, che in un primo momento tutto
l’Oberland ha pensato che si trattasse di un terremoto», scrive il corrispondente del «Bund».
Per fortuna nessuno dei minatori si trovava nelle
vicinanze, e i danni sono stati solo materiali. Ma
non andrà sempre così bene: durante la
costruzione della ferrovia perderanno la vita 30
persone.
I problemi finanziari affliggono l’impresa anche
nella costruzione dell’ultima tappa. I responsabili decidono di far procedere il tunnel dalla
stazione di Eismeer con la stessa pendenza
direttamente fino al Jungfraujoch, rinunciando
alla costruzione della stazione sul Mönchsjoch.
Il 21 febbraio 1912, alle 5.35 del mattino, viene
aperta l’ultima breccia. Un articolo di giornale
racconta che nell’ultima esplosione il
caposquadra Glacelli «per aprire il tetto del tunnel fino alla cima ha usato una carica di dinamite
talmente forte da far balzare fuori il materiale
fino al Jungfraujoch».
L’ultima tratta viene messa in servizio sin dal 1°
agosto 1912, in occasione della festa nazionale.
La stazione di arrivo è lo Jungfraujoch.
Per continuare fino alla vetta mancano sia il
denaro che l’energia necessari. I lavori saranno
durati 16 anni, per un conto complessivo di
quasi 15 milioni di franchi.
Ben presto il Jungfraujoch diventa una meta ferroviaria ed una delle attrazioni turistiche più
famose della Svizzera in tutto il mondo. Ormai
ogni anno quasi 700.000 passeggeri salgono
alla stazione della Kleine Scheidegg sui vagoni
che in circa 50 minuti li porteranno alla stazione
ferroviaria più elevata d’Europa, a 3454 m slm.
A PROPOSITO DEL CENTENARIO DELLA FERROVIA DELLA JUNGFRAU 89
Sulla tratta lunga 9.34 chilometri viene superato
un dislivello di 1400 metri. Il viaggio è molto
amato specialmente dai turisti dell’Estremo
Oriente che costituiscono il 50% dei passeggeri.
Da molti anni lo Jungfraujoch è anche al servizio
della scienza.
Adolf Guyer-Zeller aveva previsto la costruzione
di una stazione di ricerca già nella sua domanda
di concessione.
La promessa viene mantenuta nel 1931, quando
sulla scoscesa rupe della Sfinge, posta 100
metri al di sopra della stazione, viene inaugurata la stazione di ricerca
alpina (3571 mslm). []
Nel corso del tempo la stazione di ricerca si è
adeguata alle nuove esigenze della scienza ed
è considerata come una
delle più moderne del
mondo.
È la stazione di ricerca abitata in permanenza più alta
d’Europa.
I laboratori non sono aperti
al pubblico, ma lo è la terrazza panoramica raggiungibile con l’ascensore più
veloce della Svizzera, dalla
quale in caso di bel tempo i
visitatori possono contemplare un panorama maestoso che spazia fino alle
vette delle Alpi e ben al di
là. Qui i visitatori si trovano al centro del sito di
824 km2 proclamato dall’UNESCO patrimonio
dell’umanità, lo «Schweizer Alpen JubgfrauAletsch».
Nell’anno del centenario la visita è stata ancora
più interessante, poiché nell’aprile 2012 la
Ferrovia della Jungfrau ha inaugurato una
nuova galleria pedestre che collega la hall della
Sfinge all’amato «Palazzo del ghiaccio».
Tra l’altro, lo Jungfraujoch detiene un altro
record mondiale: nella stazione ferroviaria di
montagna più alta, dal 1912 c’è anche l’ufficio
postale più elevato d’Europa. Da qui vengono
spedite ogni anno in tutto il mondo migliaia di
cartoline di saluti provviste di uno speciale
annullo. "© Die Post" - Per gentile concessione della Posta Svizzera
90 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
40
ANNI TUTTI DA RICORDARE
Un’esperienza unica ed indimenticabile, pagine di una vita ancora da scrivere
a corsa in montagna denominata "Camignada", originariamente "La camignada poi
rifuge" è giunta in questo 2012 alla quarantesima edizione. Partendo da Misurina, attraverso i rifugi Auronzo, Lavaredo, Locatelli-Innerkofler, Pian di Cengia, ZsigmondyComici e Carducci il percorso conduce al paese di Auronzo di Cadore.
Era il 1973 quando fu deciso che una delle più belle attraversate in Dolomiti diventasse una
“Manifestazione non competitiva di marcia in montagna”. Quel 2 settembre fu scritta la prima pagina di un libro le cui parole hanno travalicato la mera cronaca agonistica, invadendo la sfera privata,
divenendo pagine di vita. In pochi anni si è sviluppato nei partecipanti il senso di appartenenza ad
uno sforzo collettivo, in un periodo nel quale gli oltre trenta chilometri del percorso rappresentavano
ancora una piccola impresa eroica. Inoltre la reiterazione nel corso degli anni, da parte di moltissimi partecipanti che, avvicinatisi quasi per caso, non hanno più potuto smettere di pensare all'edizione successiva, ha provocato un attaccamento del tutto genuino e spontaneo all'evento.
In questo modo, ad ogni singola manifestazione, non si è potuto fare a meno di associare pagine
della propria vita. Tale è ancora oggi questa "gara" che ha saputo rappresentare per tanti molto più
di una competizione sportiva, un appuntamento che li ha accompagnati nel corso dell'esistenza,
dalle primissime edizioni fatte in gioventù fino alle ultime in età più matura. In tale fedeltà trova maggior gratifcazione per gli organizzatori tutti dare la propria disponibilità di anno in anno, nella consapevolezza che sia essa la prima volta o si parli di una partecipazione a due cifre, per chiunque
percorrerà quei sentieri giungendo alla fine del tracciato, si tratterà di un'esperienza unica ed indimenticabile.
Sulle sponde del lago di Misurina quest'anno si sono presentati in milleduecento. Milleduecento
appassionati della montagna, dall'agonista al semplice amante delle passeggiate, ognuno con il proprio ritmo, ognuno con le proprie aspettative. La magia della “Camignada” è proprio questa: unire in
una corsa lunga oltre trenta chilometri una varietà infinita di frequentatori della Montagna. Poche
manifestazioni, sportive e non, riescono a unire con un invisibile filo agonisti e trekkers. Lo spirito
della Camignada è qualcosa di speciale, molti che vi partecipano tengono sotto controllo il
cronometro, senza però lasciarsi sfuggire i colori e gli angoli più affascinanti delle Dolomiti,
Patrimonio dell'Umanità, ma molti altri vivono questa "lunga" passeggiata con ancora lo spirito che
lega il camminare alla montagna. Una festa speciale, coronata con lo spegnimento virtuale delle
quaranta candeline per regalare al territorio e alla sua gente il riconoscimento che meritano. In
questi ultimi anni, la Camignada, oltre a vedere crescere in modo esponenziale il numero dei partecipanti, ha creduto nel valore
aggiunto dato dal territorio che la
ospita, a sua volta ha utilizzato le
leve mediatiche della manifestazione per dare ampio risalto
proprio a quelle bellezze che rendono uniche le Dolomiti.
Il percorso toglie il fiato, spettacolare sin dai primi chilometri, transita proprio sotto le Tre Cime di
Lavaredo che sovrastano la Val
D'Ansiei, tocca le pendici del
Paterno e ammira le pareti Nord
della Croda dei Toni. In Forcella
Giralba, inizia la lunga discesa
che porterà al traguardo.
L
QUARANT’ANNI TUTTI DA RICORDARE 91
RIFUGIO AURONZO m 2330 a Forcella
Longères.
L'inizio dei lavori di costruzione risale
anteriormente alla prima guerra mondiale.
Interrotti con lo scoppio della guerra,
quanto realizzato venne distrutto il
24.5.1915 dalle granate austriache.
Fu ricostruito nel 1925 col nome di
Rifugio Principe Umberto e benedetto
da Don Piero Zangrando, l'eroico
indimenticabile "Cappellano delle Tre
Cime" che in guerra celebrò la S.
Messa sulla vetta della Cima Grande.
Nel 1946 venne intitolato alla guida
auronzana Bruno Caldart, caduto sulla
Cima Piccola. Devastato da un incendio nell'aprile del 1955 a causa del
surriscaldamento di una canna fumaria venne ricostruito nella forma attuale e riaperto il 14.7.1957 con la denominazione di Rifugio Auronzo. Dal rifugio si dipartono interessanti itinerari negli ambienti che hanno fatto da scenario alle tragiche vicende legate alla Grande Guerra.
RIFUGIO LAVAREDO m 2344
Costruito nel 1954, per iniziativa di
Francesco Corte Colò "Mazzetta" (19261958), auronzano, guida alpina e
istruttore nazionale di alpinismo,
sorge sui piani di Lavaredo, in prossimità di Forcella Lavaredo, ai piedi dei
gialli appicchi della Cima Piccola - la
"Ca' d'Oro" di Antonio Berti, la più elegante delle Tre Cime di Lavaredo, tra
le più famose e
celebrate architetture naturali del
mondo.
E' raggiungibile con una comoda carrareccia, già militare, che si
stacca a fianco del Rifugio Auronzo e
passa per la storica Cappella degli
Alpini dedicata alla Madonna della
Croda, eretta da Don Piero Zangrando. Una lapide, posta nelle vicinanze, ricorda Paul Grohmann nel centenario
della prima ascensione alla Cima Grande.
RIFUGIO A. LOCATELLI S. INNERKOFLER m 2405
Il Rifugio Antonio Locatelli alle Tre
Cime di Lavaredo è stato recentemente intitolato anche alla memoria
di Sepp Innerkofler morto durante la
Grande Guerra nel tentativo di conquistare il Paterno.
Sepp Innerkofler era nato nel maso
Unteredam di Sesto in Pusterìa il 28
ottobre 1865 da una famiglia di alpinisti. Morirà sul Paterno alle ore 6,20 di
domenica 4 luglio 1915 per mano dell’alpino Pietro De Luca, 7° Alpini "Val
Piave", 268ª Compagnia, classe 1893
a Valmareno di Follina, Treviso.
Medaglia di bronzo V.M.
92 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
RIFUGIO PIAN DI CENGIA m 2522
Piccolo rifugio privato. Si trova sul
sentiero che collega i rifugi Comici Zsigmondy Hütte e Locatelli Dreizinnenhütte, a circa tre quarti
d'ora di cammino dal primo e un'ora
dal secondo, sul versante sudoccidentale del monte Paterno teatro di
epiche battaglie fra reparti alpini italiani ed austriaci nel corso della Prima
guerra mondiale.
E' il rifugio più alto nel Parco Naturale
Dolomiti di Sesto In mezzo alla
Meridiana dei Monti di Sesto: tra
Cima Dodici e Cima Uno, di fronte a
Cima Dieci e Cima Undici, sopra alle
strette vallate, nell'ampiezza delle
vette dolomitiche, più prossimo al
cielo che alla terra.
RIFUGIO E. ZSIGMONDY E. COMICI m 2224
Situato in prossimità delle pendici del
Pulpito. Ricostruito dal Cai di Padova
dopo la prima guerra, è dedicato ai
due famosi alpinisti Emil Zsigmondy
ed Emilio Comici. Veramente
grandioso il panorama: da cima
Undici alla Cresta Zsigmondy a Cima
Dodici. Emil Zsigmondy (Vienna 1861)
con una serie di ascensioni (circa 140
in 12 anni di attività) da lui iniziate nel
1874, a soli 13 anni, in compagnia del
fratello Otto, nell'intero arco delle Alpi
- dal Hochschwab alle Alpi del
Delfinato - aprì nella storia il capitolo
dell'alpinismo senza guida. Morì nel
1885 in un tentativo di salita da S del
M. Meije (massiccio del Pelvoux, Delfinato). Sono a lui intitolate numerose vette e vie, nonché il rifugio nel cuore
del gruppo Popera-Croda dei Toni (Dolomiti di Sesto), una delle palestre di arrampicate da lui preferite.
Emilio Comici, “l’Angelo delle Dolomiti” era nato a Trieste il 21.2.1931. Morì in Val Gardena il 19.10.1940.
RIFUGIO GIOSUE' CARDUCCI m 2297
Dedicato al poeta Giosuè Carducci,
cantore delle bellezze del Cadore, fu
eretto nel 1908, in un ambiente ancora selvaggio ed incontaminato, dalla
Sezione Cadorina del CAI di Auronzo
- madrina d'eccezione Luisa Fanton.
Danneggiato nel corso della Grande
Guerra rimase incustodito sino al
1938.
E' stato ulteriormente migliorato nel
2003. E' ubicato nel cuore dell'austero circo terminale della Val
Giralba, sotto le poderose pareti orientali della Croda dei Tóni e quelle
occidentali del Monte Giralba.
QUARANT’ANNI TUTTI DA RICORDARE 93
JEANNE IMMINK
MONTAGNA
IN ROSA
di Mirco Gasparetto. G.I.S.M.
ELIZABETH FOX TUCKETT
Zigzagging amongst the Dolomites è un originale testo pubblicato a Londra nel 1871, ben conosciuto dagli appassionati di storiografia dolomitica grazie ad un paio d'importanti ristampe anastatiche; un originale album oblungo che, tramite caratteristiche vignette e didascalie, narra il
tour alpino compiuto dalla famiglia Tuckett nel
precedente 1870. L'autrice dell'opera si firma
solo con la "L" di "Lizzie", amabile appellativo di
Elizabeth Fox Tuckett. Terzogenita della nota
famiglia quacchera della comunità di Frenchay
(Bristol), le era stato dato il nome, in quel tempo
molto diffuso, della nonna paterna.
Il 2 marzo 1871, nello stesso anno di pubblicazione dello zigzagging dolomitico, Elizabeth si
sposò con William Fowler, colto uomo d'affari
nonché membro dell'Alpine Club, e iniziò ad
insegnare presso la Frenchay National School.
"Lizzie" perse tragicamente la vita poco tempo
dopo, nel successivo 1872, per le conseguenze
del suo primo parto.
Era nata il 9 aprile 1837 a Frenchay ed era stata
chiamata, amara ironia della sorte, con lo stesso nome scelto per la sorella che l'aveva preceduta, ma che non era riuscita a sopravvivere alla
nascita (1835).
Scrive Giovanni Angelini "Il Tuckett quell'anno [1872] fece vacanze interrotte, caratterizzate
da varie puntate in zone differenti per accordi
con diversi amici; la fedele guida Christian
Lauener, di Lauterbrunnen, fu il suo compagno
costante per la maggior parte di quella stagione.
Salirono la Zugspitze il 24 maggio ma successivamente, mentre alla fine di maggio erano in
Austria ad Halstatt, il Tuckett dovette rientrare
d'urgenza a Londra per un lutto” (cfr. Angelini,
Civetta per le vie del passato, 1977, p. 181).
Oggi sappiamo, effettivamente, cosa successe.
Francis Fox Tuckett ritornò in Dolomiti qualche
settimana più tardi, l'11 giugno, quasi per chiudere un conto in sospeso. Il 13, insieme a
Christian Lauener e Santo Siorpaes, tentò di
salire il Pelmo dall'inedito versante de "La
Dambra", che però fallì a causa della pericolosa
abbondanza di neve; il 17 alla stessa cordata
riuscì invece un'altra grande prima ascensione:
la cresta ovest della Marmolada. Con questa
salita terminarono le prime ascensioni di Tuckett
in terra dolomitica. Dopo tante stagioni, probabilmente, si era esaurito il naturale interesse, o
forse, con l'improvvisa scomparsa della sorella,
per lui si era irrimediabilmente rotto qualcosa.
In realtà il nome dell'importante alpinista olandese era Jeannet Diest (Amsterdam, 1853-Milano,
1929); Immink infatti era il cognome del primo
marito, Karel Immink, con cui emigrò in
Sudafrica stabilendosi a Pretoria.
Grandi difficoltà d'ambientamento nonché la
conoscenza di un ufficiale dei Dragoni Inglesi,
Henry Percy Douglas-Willan, le fecero abbandonare il tetto coniugale appena dopo due mesi
dalla nascita del loro primo figlio, Willem Louis
Immink (1876).
Mentre il marito chiedeva il divorzio, nel 1881 i
due amanti si trasferirono in India, dove il reparto militare del nuovo compagno era stato dislocato. La relazione però non durò molto e già nel
1882 Jeanne, nuovamente incinta, si trasferì in
Svizzera, a Chexbres, dove il 1° settembre nacque Luigi, a cui però dette il cognome Immink,
sottacendolo al vero padre (il primo marito ottenne il divorzio solo nel 1884). Un figlio che, questa volta, allevò amorevolmente.
Nel 1883 la Immink ereditò una discreta fortuna
che le consentì d'educare finemente il figlio e di
viaggiare in Europa, dove incontrò la montagna,
l'alpinismo e nuovi amici (tra cui Theodor Wundt
e la moglie Maude, dei quali fu testimone di
nozze).
Dal 1900 visse a Milano, sempre a fianco del
figlio, nel frattempo divenuto avvocato e successivamente viceconsole olandese nella città lombarda (console nel 1933). Qui Jeanne Immink
chiuse la sua intensa esistenza il 20 agosto
1929.
Se l'iconografia dolomitica la ricorda per gli scatti fotografici di Wundt sulla Piccola di Lavaredo,
il suo nome deve essere ricordato soprattutto
per la prima ripetizione dei camini Schmitt sulla
Punta delle Cinque Dita e per alcune ascensioni
invernali dolomitiche quale la prima assoluta
della Croda da Lago.
riconduce ad un nuovo modello d'emancipazione femminile caratterizzato dall'approccio ad
importanti elementi sociali quali istruzione, attività sportiva, viaggio. Il suo stile di vita richiama
quello di una donna colta, determinata ma irrequieta; appartenente ad una generazione la cui
maturità coincide, tra speranze e delusioni, con
il passaggio dal vecchio al nuovo secolo.
Nata e cresciuta in una tipica famiglia della
media borghesia, di discreta solidità economica
ma non certo appartenente alla classe dominante, Beatrice Tomasson trovò un equilibrio sentimentale stabile all'età di sessantadue anni, di
ritorno a Londra dopo anni di viaggi e di vette.
Eppure lo status della riservata alpinista inglese
non rappresenta un'eccezione, ma un modello
femminile che si posiziona al di fuori dei canonici ed ancora incontrovertibili ruoli di moglie e
madre. Un profilo non propriamente diffuso ma,
in quel periodo, neppure troppo infrequente.
La migliore rocciatrice del Tirolo, come ebbe a
definirla Edward Lisle Strutt, suo compagno
d'arrampicate nei primi anni Novanta tra
Karwendel, Ötztal e Stubaital, ebbe una lunga
esperienza dolomitica che toccò l'apice in
Marmolada nell'estate 1901 e che si protrasse
almeno fino al 1911. Quell'anno la Miss inglese
si rese prota-gonista di alcune salite nelle
Dolomiti d'Oltrepiave, zona ancora poco frequentata se non da animi pionieristici tesi alla
scoperta e all'esplorazione. Qui la Tomasson
salì, insieme a Michele Bettega, la Pala Grande,
il Cridola, la Cima Cadìn degli Elmi e il
Campanile Toro. Carica di suggestioni, inoltre,
appare la salita al Campanile di Val Montanaia,
dove a loro si unì pure il fuoriclasse Angelo
Dibona. Con quest'ultima guida la britannica
scalò anche il Campanile Basso di Brenta, concludendo proprio in vetta alla simbolica guglia la
sua storia dolomitica. BEATRICE TOMASSON
Il nome di questa alpinista inglese è da tempo
storicamente noto data la sua prima ascensione
alla parete sud della Marmolada.
Oltre la grandiosa parentesi alpinistica, dalla vita
di Beatrice Sybil Tomasson (Nottingham, 1859Little Benhams, Sussex, 1947) emerge lo spirito
di una donna molto riservata e individualista,
socialmente disinvolta anche se defilata, che
Elizabeth Fox Tuckett
94 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Jeanne Immink
tratto da: “PIONEERS, alpinisti britannici sulle
Dolomiti dell'Ottocento” di Mirco Gasparetto (p.40).
Le cartoline (serie n.1) recano l’annullo postale
della 2A edizione dell’ «Expo delle Dolomiti
Patrimonio dell’Umanità». La serie, edita dal Gruppo
Filatelici di Montagna, si propone di far conoscere ad
un più vasto pubblico di collezionisti e di lettori tutte
quelle donne che hanno praticato l’alpinismo e gli
sport collegati alla Montagna.
Beatrice Tomasson
MONTAGNA IN ROSA 95
Nel 1027 l’Imperatore Corrado
II, detto il “Salico”, investì il
vescovo di Trento del titolo di
conte; l’investitura era mirata al
fine di poter disporre il transito
verso l’Italia di truppe e imperatori del Sacro Romano
Impero.
Cent’anni dopo ed esattamente “il quatordes de luio in la
villa de Bausan (Bolzano) in casa de l’habitation de
Federico anno 1111 Gebardo per la gratia de Dio gloriosissimo episcopo de Trento e conte de esso vescovado,
insieme cum Adalpreto conte e advocato, notaro Gaus
- e per la Valle di Fiemme - Bruno da Cadrobio, Martino de
Avarena, Gasparo de Cavales, Menzio de Tesido” sottoscrissero il patto denominato “Patti Gebardini” che impegnava il Vescovo ad amministrare la giuistizia due volte
all’anno mediante un suo gastaldione (giudice) che doveva
recarsi in Cavalese. Le sentenze miravano a comminare
pene pecuniarie anziché detenzioni.
Per i fiemmesi avevano l’onere di fornire ogni anno 24 arimannie cum li soi fodri (cioè fieno q.b. per 24 cavalli).
Il documento sottoscritto è andato poi nel tempo smarrito.
Le 24 arimannìe sono corrispondenti a 300 fiorini di Maria
Teresa d’Austria nel 1775, un gravame che possiamo valutare non proprio del tutto leggero.
Questo documento, passato alla storia, fu esibito ogni
qualvolta si rese necessario arginare le pretese e gli abusi
delle Signorie trentine e tirolesi.
Il Palazzo [ ] fu costruito dal Vescovo Bernardo da Cles,
detto il Clesio, e adibito a residenza estiva, lontano dall’afa
di Trento.
Nel 1850 fu poi acquistato dalla Magnifica Comunità di
Fiemme che ne fece una sede amministrativa. Restaurato
di recente, sta per essere adibito a museo.
stampa&editoria
Il volume LA GONDOLA NEI SECOLI
ha vinto il Premio Gambrinus “Giuseppe Mazzotti” 2012
per il più bel libro riguardante l’artigianato di tradizione
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Giuseppe Mazzotti, nato a Treviso il 18 marzo 1907 e
scomparso il 28 marzo 1981, fu alpinista e scrittore, animatore culturale e difensore delle tradizioni popolari, artista
e ambientalista, promotore del turismo e accademico della
cucina. E' stato, per vastità d'interessi e capacità d'incidere
sul corso degli eventi, una delle personalità di maggiore
spicco della cultura veneta e nazionale contemporanea. In
anni difficili e con pochi illuminati compagni di strada, ha
saputo precorrere alcune delle vie maestre, sul fronte della
sensibilizzazione e della salvaguardia delle bellezze naturali ed artistiche, con un occhio di riguardo per la sua
"Marca Gioiosa". È la passione per l'arte ad avvicinarlo nei
primi anni di attività ad alcuni dei giovani protagonisti della
vita culturale trevigiana, tra i quali Arturo Martini, Gino
Rossi, Toni Benetton, Juti Ravenna, Sante Cancian, Arturo
Malossi, e gli scrittori Giovanni Comisso e Dino Buzzati.
Nel 1926, inizia l'attività di editorialista, che l'accompagnerà per tutta la vita.L'Ente Provinciale per il Turismo, del
quale sarà direttore per ben 37 anni, a partire dall'inizio
degli anni Trenta, segnerà in modo indelebile la sua vita e
il suo lavoro. Appassionato alpinista, sempre in quegli anni
compie la sua maggiore impresa, partecipando alla conquista dell'inviolata parete est del Cervino: avventura che
gli ispirerà l'opera Grandi imprese sul Cervino, uscita due
anni più tardi. Accademico del Club Alpino Italiano ha pubblicato numerosi libri tradotti in varie lingue, con uno dei
quali, "Montagnes Valdòtaines", ha vinto nel '51 il premio
"Saint Vincent". Negli anni Cinquanta sposa appieno la
causa delle Ville Venete, affiancando il proprio impegno a
quello di alcuni amici studiosi, come Michelangelo Muraro
e Renato Cevese. È stato consigliere del Touring Club
Italiano, Presidente della sezione di Treviso di "Italia
Nostra", componente della Società Europea di Cultura,
vicepresidente dell'Associazione Scrittori Veneti, ispettore
onorario ai Monumenti, delegato dell'Accademia italiana
della cucina, insignito del premio "Città di San Liberale",
assegnato ai cittadini benemeriti di Treviso.
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NEL 9° SECOLO DEI “PATTI GEBARDINI”
ANNO 1111, IL 14 LUGLIO IN BOLZANO
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RICORDIAMO GIUSEPPE MAZZOTTI
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96 QVOTA 864 DICEMBRE 2012
Tre cime di Lavaredo da Sud
Foto di Vittorio Corona