Dire l`esperienza estetica - Università degli Studi di Palermo
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Dire l`esperienza estetica - Università degli Studi di Palermo
Aesthetica Preprint Dire l’esperienza estetica a cura di Rita Messori Centro Internazionale Studi di Estetica Aesthetica Preprint© è il periodico del Centro Internazionale Studi di Estetica. Affianca la collana Aesthetica© (edita da Aesthetica Edizioni, commercializzata in libreria) e presenta pre-pubblicazioni, inediti in lingua italiana, saggi, bibliografie e, più in generale, documenti di lavoro. Viene inviato agli studiosi impegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori biblio grafici, alle maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere. Il Centro Internazionale Studi di Estetica è un Istituto di Alta Cultura costituito nel 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con d.p.r. del 7-1-1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale, organizza Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica© e pubblica il periodico Aesthetica Preprint© con i suoi Supplementa. Ha sede presso l'Università degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo. Aesthetica Preprint 80 Agosto 2007 Centro Internazionale Studi di Estetica Il presente volume viene pubblicato col contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Parma. Dire l’esperienza estetica a cura di Rita Messori Indice Presentazione di Rita Messori 7 Il rapporto fra poetica e retorica di Emilio Mattioli 11 Dire l’esperienza: alle origini della letteratura di Giovanni Lombardo 17 Rappresentazione pittorica e rappresentazione poetica in Tommaso d’Aquino di Fabrizio Amerini 27 De la poésie comme réponse à la nuit L’union du dire et du voir di Baldine Saint Girons 39 «Ricostruire l’esperienza stessa della genialità» Il problema del genio in Joseph Louis Segond di Fabio Rossi 51 Descrivere l’arte, descrivere il mondo: Diderot promeneur di Rita Messori 63 Stile e stili di Elio Franzini 75 “Ästhetische Arbeit”: l’estetica atmosferica di Gernot Böhme e l’attualità della retorica di Salvatore Tedesco 83 Presentazione di Rita Messori Da più di un decennio a questa parte, si è assistito a una vera e propria svolta in ambito estetico: la messa in discussione della identificazione estetica-filosofia dell’arte e la riproposizione dell’esperienza estetica quale questione centrale della disciplina. La ricerca, sia teorica sia storiografica, si è dunque maggiormente concentrata sul significato e sul ruolo che la sensibilità e l’affettività, nelle loro varie e mutevoli declinazioni, assumono in un’ottica generale di ricerca e formazione del senso. Questa svolta, in concomitanza con alcuni fattori che hanno avuto in ambito estetico una significativa ripercussione – perdita di spinta propulsiva dell’ermeneutica, ma anche della cosiddetta rivalutazione della retorica, “argomentativa” o “figurale” – ha visto un affievolirsi dell’interesse nei confronti di questioni legate al linguaggio, che, come è noto, ha costituito uno dei nodi problematici su cui la filosofia del Novecento si è dibattuta. A tal punto pare necessario un ripensamento del significato del linguaggio in ambito estetico a partire dal rapporto che si viene a instaurare tra linguaggio ed esperienza estetica: come dire l’esperienza estetica? In che modo rendere testimonianza del reale esperito? In definitiva: quale relazione tra sentimento del mondo e articolazione del senso? È nel tentativo di dare una risposta a tali interrogativi che si è svolto a Parma nel novembre del 2006 il convegno Dire l’esperienza. Nuove prospettive tra estetica e retorica di cui il presente volumetto raccoglie gli atti. Mi auguro che il vivace confronto iniziato durante lo svolgimento dei lavori possa proficuamente proseguire. A unire i vari contributi è la consapevolezza che sia da un punto di vista teorico, sia da un punto di vista storiografico, determinante appare l’apporto della tradizione retorico-poetica, e non soltanto perché costituisce un percorso genetico della nascita dell’estetica: per secoli ha presentato modalità di espressione la cui pregnanza richiede una adeguata riflessione in grado di esplicitarne il significato filosofico. Come ribadisce Emilio Matttioli, ripensare l’unità di sentire e parlare è possibile solo a partire da una ritrovata coappartenenza di poetica e retorica. Studi recenti sulla retorica dell’antica Grecia mostrano il ruolo fondamentale giocato dal genere epidittico derivato dalla tradizione poetica; se la poesia diviene un atto pubblico attento al sentire comune, il discorso retorico esprime i sentimenti e le passioni del soggetto parlante. Nella stessa direzione si muove quella teoria del linguaggio che, rifacendosi alla poetica di Meschonnic, vede nel duplice ripiegamento autistico di retorica e poetica un segnale evidente della separazione tra linguaggio e vita. Inserendosi in un dibattito storiografico attualissimo, l’intervento di Giovanni Lombardo mostra come nell’epos arcaico le tecniche linguistiche della narrazione, ovvero le forme verbali che il logos assume per “dire l’esperienza”, esprimano fondamentalmente due modalità diverse di rapportarsi al reale. O, mediante l’uso dell’imperfetto, noi ci muoviamo verso i fatti, consapevoli del continuum temporale a cui essi appartengono, o, mediante l’uso dell’aoristo, i fatti si avvicinano a noi in una indefinita momentaneità. Si tratta di due modi della visualizzazione del linguaggio poetico che vanno a costituire due schemi interpretativi dell’esperienza dell’arte, sia a livello produttivo sia a livello fruitivo. Se vi è una storia del “dire l’esperienza” certamente il Medioevo ne rappresenta un momento ancora poco preso in esame dagli estetologi. Mentre ad esempio alcuni tratti dell’estetica tommasiana concernenti la poetica e la retorica sono stati studiati, altri rimangono in ombra. Secondo Fabrizio Amerini molto lavoro rimane da fare sulle teorie della rappresentazione applicate al campo pittorico e poetico, e sulle teorie dei colori rispetto alla percettibilità sensoriale e alla conseguente relazione del colore col sentimento del bello. Ciò potrebbe gettare una nuova luce sul rapporto tra poesia e pittura. Ed è sulla poesia come risposta all’esperienza della vita nella sua fuggevolezza che si concentra il saggio di Baldine Saint-Girons. Resistendo al rischio di sacralizzare la lettera e di far dimenticare il reale, la poesia moderna afferma il qui e ora del miracolo evanescente della presenza. Ancora una volta la tradizione retorica, con Longino, ci offre un paradigma interpretativo: le immagini evocate divengono apparizioni. Le phantasiai poetiche rappresentano le cose nel momento del loro nascere, del loro emergere dal buio della notte che diviene qui figura dell’altro. La poesia è continua sperimentazione, modo di pensare in atto, le cui tecniche precise rendono conto del continuo movimento tra ciò che si rivela e ciò che si nasconde; quanto a noi si nega rimane sempre al di là di ogni nostra esperienza e di ogni nostro dire, pur costituendone la condizione di possibilità. La produzione artistica, nel suo essere creazione spirituale e inventio di nuove modalità espressive, è frutto di una personalità geniale. Sulla teoria del genio di Joseph Louis Segond, pensatore della prima metà del Novecento, quasi sconosciuto in Italia e forse presto dimenticato in Francia, si concentra il contributo di Fabio Rossi. Poiché fondamen talmente naturale e corporea, quella del genio è “potenza di sentire” al di là di ogni riduzione intelletualistica o mistico-sentimentale. Potenza che, attualizzandosi, si concreta in una tecnica, e nell’operare si rende immanente. E di genio della critica si deve senza alcun dubbio parlare a proposito di Diderot salonnier che nella Promenade Vernet conduce il rapporto tra parola e immagine sino all’apice della sperimentazione. Facendo riferimento ai visual studies, in cui il tema dell’ekphrasis gioca un ruolo di primo piano, nel mio intervento ho tentato di mostrare come il racconto-descrizione dell’attraversamento fittizio dei paesaggi di Vernet conduca a una messa in questione dell’equivalenza evidentia-enargeia. Dire l’esperienza del manifestarsi delle cose “come se” qui e ora venissero alla presenza significa coglierle nel passaggio dalla potenza all’atto. La subiectio sub oculis è dunque a un tempo visualizzazione (enargeia) e attualizzazione (energeia). Utilizzando un termine goetheano, Husserl chiama “stile” la capacità di cogliere quel flusso “oscillante” dell’apparire che è il mondo della vita; capacità che si traduce in rappresentazioni dotate di senso e tendenti all’unità. Come dimostra Elio Franzini, in quanto fenomeno originario lo stile diviene la matrice di un senso espressivo, il nucleo di possibilità che dà luogo alla varietà degli stili. In tal modo la pluralità delle forme non è mera frammentazione ma morfogenesi che, come voleva Goethe, ha nel simbolo, cioè nel “legame” tra le parti, nella ricerca della trama del mondo che tiene provvisoriamente insieme le cose che via via ci si presentano, il proprio fondamento di unità. Il “sentore della presenza” diviene l’evento percettivo fondamentale su cui si costruisce la nuova estetica (Aisthetic), in quanto teoria generale della percezione, di Gernot Böhme. Come mette in evidenza il saggio di Salvatore Tedesco, esplicito è il richiamo all’operazione baumgarteniana e non soltanto riguardo ai contenuti. Se l’interesse conoscitivo si orienta sulla manifestatività occorre concentrarsi su fenomeni intermedi, come l’atmosfera, che si situano al di qua della separazione di polo soggettivo e polo oggettivo. È soltanto a partire dai “problemi estetici” che diviene possibile una terminologia adeguata e un impianto concettuale. In tal senso la retorica può fornire un modello di argomentazione della teoria estetica nella misura in cui avviene l’articolazione del nesso delle percezioni sensibili. Il rapporto fra poetica e retorica di Emilio Mattioli Il rapporto fra poetica e retorica ha subito negli ultimi tempi un riassetto e una modificazione. Impossibile tracciarne il quadro completo, mi limiterò ad alcuni momenti problematici e, particolarmente, a due periodi: l’antichità e la contemporaneità. In realtà il problema storiografico si intreccia a quello teorico. In primo luogo va notato che la separazione fra poetica e retorica ha effetti rovinosi, è proprio nel rapporto fra le due discipline che se ne scoprono le radici profonde e le ragioni. È noto come la rinascita novecentesca della retorica, che pure è un fenomeno estremamente importante, sia avvenuta in maniera autonoma ed anzi il rapporto fra le due discipline sia stato considerato un’indebita confusione. Nella cultura italiana si è sentito presto il bisogno di ripensare il rapporto e di ricostituirlo, probabilmente anche perché la scuola neofenomenologica italiana aveva creato con il suo lavoro sulle poetiche il terreno adatto anche ad un approccio vitale alla retorica. Aveva scritto Luciano Anceschi, il maggior studioso di poetica del secolo scorso, nel 1957: «Quanto alla Retorica, poi, sembra davvero che non giovi indugiare nella nozione che ne ebbero e contro la quale polemicamente si posero, condannandola, i romantici e i realisti del secolo xix; fu questa una interpretazione ovviamente unilaterale per motivi strumentali; invece, c’è da pensare che la Retorica sia una disposizione storicamente variabile che, volta a volta, vuole rilevare e significare in leggi, in norme, in avvertimenti le ragioni del rinnovamento letterario e artistico dei diversi tempi, movimenti» 1. E non è evidentemente un caso che Renato Barilli, scolaro di Anceschi, abbia pubblicato un libro davvero originale come Poetica e Retorica 2, in cui l’unità fra poetica e retorica era vista come unità fra sentire e pensare, come antidoto alla divisione delle due culture. Ma direi che su questa strada si sono fatti degli ulteriori passi avanti. Per questi recenti svolgimenti prenderò come testo di riferimento Jeffrey Walker, Rhetoric and Poetics in Antiquity 3. Walker smantella l’opinione vastamente diffusa, cui già accennavamo, secondo la quale poetica e retorica sono due discipline incompatibili e sostanzialmente differenti che l’antichità ha indebitamente confuse e cerca di dimostrare che è sbagliata l’idea secondo la quale 11 la retorica è sorta come un’arte di pratica oratoria civile nelle corti di giustizia e nelle assemblee dell’antica Grecia, mentre la retorica epidittica, poetica o letteraria, sarebbe un’arte, puramente formale di secondaria importanza. Altrettanto sbagliata, secondo Walker, l’idea secondo la quale il passaggio dall’oratoria civile a quella epidittica segna una decadenza. La separazione fra la retorica intesa come dottrina delle figure e la retorica dell’argomentazione e della persuasione si ritrova, con conseguenze negative, nella teoria letteraria moderna. La revisione che Walker fa della storia della retorica nell’antichità comporta un’idea della retorica intesa come un’arte di argomentazione/persuasione epidittica che deriva originariamente dalla tradizione poetica e che si estende ai discorsi pratici della vita pubblica e privata. Walker riconnette questa impostazione alla riabilitazione dei sofisti compiuta negli anni novanta (in Italia il grande lavoro di Untersteiner sui sofisti è cominciato molto prima) e alla revisione della nozione convenzionale del discorso epidittico inteso come mero ornamento e limitato alla elencazione rituale delle credenze e dei valori tradizionali. Inoltre questo discorso si fonda su di un esame dell’antica poesia, principalmente la lirica greca arcaica, intesa e praticata come un’argomentazione epidittica che si rivolge ad un uditorio. Walker costruisce quella che può essere chiamata una storia sofistica della retorica che include poesia e poetica come parti centrali del dominio retorico. Secondo lo studioso la poetica grammaticalizzata della tarda antichità e del medioevo ha reso più difficile cogliere l’idea di retorica poetica che la lirica arcaica incorpora. È lecito chiedersi quale fondamento filologico abbia questa impostazione così profondamente innovativa del rapporto fra poetica e retorica e della storia della retorica stessa: l’argomentazione è ricchissima e non riassumibile, evidentemente, ma il presupposto primo e fondante sta nell’abbandono dell’idea anacronistica che la poesia antica e la lirica in particolare sia espressione di sentimenti soggettivi ed escluda la dimensione argomentativa. Particolarmente significativa in questo senso l’elaborazione del concetto di entimema lirico, inteso come l’argomentare specifico della poesia. Da sottolineare ancora che il legame fra poesia e quindi poetica e retorica esiste già prima che la retorica assuma la sua denominazione tecnica 4, a partire da Esiodo che nella Teogonia (vv. 81-104), ne dà, secondo Walker, la prima indicazione, parlando dell’eloquenza del re e di quella dell’aedo 5. Il termine rhetorikê, per altro non risulta univoco, «come denominazione equivoca o sineddoche per l’arte del logos in senso ampio o generale comprende implicitamente nel suo dominio tutte le forme del logos, incluso il logos poetico e il pensiero interno come anche tutte le varietà di “prosa”. Così l’eloquenza persuasiva della “poesia” è contemporaneamente un sottoinsieme dell’arte generale della “retorica” e il suo antenato. Inoltre in quanto quella epidittica è la forma “primaria” e centrale della 12 poesia, e in quanto la poesia è a sua volta la forma originaria e finale della forma epidittica (o come tale viene intesa), la poesia è anche la forma originaria e finale della retorica» 6. Walker sottolinea come le implicazioni di questa situazione si esplicitino nella tarda antichità e si capisce anche così come Elio Aristide possa affermare che la miglior poesia sia quella che si avvicina di più alla retorica 7. Walker non cita il poderoso lavoro di Laurent Pernot, La rhétorique de l’éloge dans le monde gréco-romain 8, ma è necessario tenerne conto, perché dà due apporti fondamentali che per altro si legano alle posizioni di Walker, non le contraddicono: interpreta in modo radicalmente innovativo il genere epidittico, mostra il legame profondo fra poesia e oratoria e quindi fra poetica e retorica. Farò due citazioni da questo testo che non si può in alcun modo ignorare, se si vuol parlare del genere epidittico con consapevolezza: «L’analyse traditionelle de l’éloquence épidictique ne doit donc pas être totalement rejetée, puisqu’elle fait apparaître deux aspects importants, la dimension esthétique et la dimension rituelle. Mais cette analyse reste insuffisante, parce qu’elle ne tient pas compte du contenu des discours. Il est évident que l’art de l’enkômion ne peut être appréhendé indépendamment de tout message, et qu’un discours ne se réduit pas à l’accomplissement d’un cérémonial. Contrairement à la musique, le discours épidictique fait appel au sens. Contrairement au rite, il n’est pas entièrement codifié et déterminé à l’avance. Contrairement à l’énoncé performatif, il ne se réduit pas à une formule stéréotypée; l’orateur ne se contente pas de dire “Je te loue”, mais il ajoute “parce que…”, et dans les considérants de l’éloge, s’engouffrent la signification et la persuasion. Il faut donc rompre avec la tradition du dédain. Pour comprendre l’éloquence épidictique antique, il faut refuser l’explication paresseuse de l’art pour l’art et identifier les buts et le effets des discours, plus clairement que les anciens n’ont su le faire» 9. L’analisi dei valori veicolati dal discorso epidittico ne mostra la ricchezza di contenuti e Pernot può ben a ragione affermare che «la fonction épidictique est un phénomène anthropologique qui se retrouve – avec d’importantes variations, naturellement – dans beaucoup de sociétés humaines» 10. L’altra citazione essenziale per il mio discorso è questa: ����������� «Il est impossible d’étudier la rhétorique épidictique sans relever, à chaque étape, des rapprochements avec la tradition poétique, en particulier avec la tradition de la poésie encomiastique. L’histoire du genre montre que les orateurs ont progressivement pris en charge des formes héritées des poètes. La tekhne trahit l’importance des précédents poétiques dans le domaine de la typologie, avec la célébration plurielle et l’expression des sentiments et des passions, et dans le domaine du style, avec l’esthétique de la douceur, l’asianisme, les tropes et les figures, les 13 rythmes. Ce n’est pas tout, la tradition poétique faisant encore sentir son poids dans la terminologie de l’éloge, dans certains topoi, dans les procédés de composition, parfois dans les conditions de prononciation et dans les titres. En ce qui concerne l’exigence morale, Pindare déjà revendique la vérité de ses éloges. La mission de porte-parole a été assumée par des poètes; enfin, on vient de relever le thème, poétique par excellence de l’inspiration religieuse. Le bilan de ces rapprochement [...] s’avère donc extrêmement riche. Il établit, au-delà de toute contestation, l’existence d’une continuité entre la tradition poétique et l’éloquence épidictique» 11. Si può a questo punto ritornare a Walker e precisamente alla interpretazione che egli dà della I Olimpica di Pindaro. Bloom, che ritiene che la I Olimpica celebri il poeta e Pegaso e non Ierone e Ferenico, decontestualizza l’ode e ignora che cosa sia la poesia epidittica, dandone una lettura romantica falsificante. L’epinicio non prescinde da vincitore e pubblico, poggia sui valori della società cui appartiene; solo in questa prospettiva la poesia diventa comprensibile. Ecco un esempio fra molti altri: è nel rapporto fra poetica e retorica che si possono cogliere i valori della letteratura antica. Ma sembra che ormai questa svolta sia in atto; Eugenio Amato lo testiomonia efficacemente in un resoconto 12 di un volume di Enrico Rebuffat dedicato alle Tecniche di composizione poetica negli Halieutica di Oppiano 13; il punto di partenza di Eugenio Amato è proprio il superamento della separazione che compie Walker fra retorica e poesia. Se, dunque, per l’antichità la revisione storiografica è ormai operante e i due frutti più vistosi sono il riallineamento di poetica e retorica e la valorizzazione del genere epidittico, resta da esaminare come si ponga il rapporto fra poetica e retorica nel dibattito attuale. Farò riferimento, per questo aspetto, ad Arnaud Bernadet, La rhétorique en procès. Un point de vue critique: la poétique de Henri Meschonnic. Approches et perspectives 14; scrive l’autore: «La poetica è una delle maggiori proeccupazioni della retorica oggi» 15. Occorre chiedersi come mai. La rinascita della retorica che è un fenomeno vistoso del secolo appena trascorso, è avvenuta, per lo più, senza rapportarsi alla poetica e questo ha comportato delle conseguenze gravi, la più vistosa delle quali è stata l’esasperazione formalistica evidente nell’idea che la retorica fosse soltanto la dottrina delle figure da riprendere dalla tradizione o da riscrivere in termini semiotici come, per esempio, ha fatto il gruppo μ nella Retorica generale. Le figure della comunicazione 16. Certamente c’è stato anche un ricupero diverso che ha privilegiato l’argomentazione, quello di Perelman, che ha dato luogo ad una nuova retorica fondata, come è noto, su basi logiche. Ma, mentre da una parte la crisi del formalismo ha inevitabilmente travolto la retorica delle figure, dall’altra la nuova retorica, la retorica dell’argomentazione, non poteva prestarsi ad un rapporto esauriente con la poetica. Vale la pena allora osservare, seguendo 14 Bernadet, come uno studioso della poetica del rango di Meschonnic sia giunto a porsi il problema della retorica. Meschonnic, per cui la poetica è lo studio del valore di un’opera, ritrova la retorica, liberando la poetica dall’ascendenza strutturalista. Secondo Bernadet il rinnovamento della retorica non deve aver luogo senza tener conto delle obiezioni critiche che la poetica le muove. Un primo punto è il rifiuto della teoria dello scarto, la separazione fra lingua poetica e lingua quotidiana è un non senso che comporta la separazione del linguaggio dalla vita. Ma non è per questa via che si afferma la specificità di un testo. «Il taglio fra retorica e poetica non può che favorire un duplice ripiegamento autistico che ha per conseguenza il più spesso una formalizzazione tecnica e descrittiva dell’oggetto letterario senza teoria del soggetto, della società, senza etica. [...] È l’annessione della poetica da parte della linguistica che ne fa una retorica neo-classica delle figure. Ricollegando la retorica alla poetica, questa identificazione non è più possibile al contrario, e permette di delimitare il campo specifico di applicazione delle due discipline» 17. «Poiché la retorica è “una delle strategie del segno, uno degli effetti del paradigma linguistico” 18, un pensiero del discontinuo, c’è la possibilità effettivamente di includere la retorica nella poetica, di includere il discontinuo nel continuo, senza annullare la specificità di questa disciplina. Se questa trasformazione del retorico in poetico si manifesta principalmente nella scrittura letteraria, essa è ugualmente presente nel discorso scientifico» 19. Questo si spiega non dimenticando «che una dimostrazione è anche la scrittura di una dimostrazione; che la scienza è anche una retorica, perché essa non mira solo a dimostrare e a provare, ma a persuadere della prova e della dimostrazione» 20. E così «la specificità poetica e retorica del discorso vero è la leva attraverso la quale è possibile e anche legittimo mettere in discussione la validità delle verità prodotte dalle scienze» 21. «È diventando poetici che la figura, l’analogia, il ragionamento diventano pensiero. Si manifesta così una forte correlazione tra il valore di un pensiero e il valore del discorso di questo pensiero, cioè un discorso e un pensiero portati al valore» 22. Di straordinaria importanza è il discorso relativo al rapporto fra poesia e figure. «La modernità della figura è la scomparsa della figura. Integrata al sistema della poesia, essa non appartiene più allo stile ma diventa un linguaggio soggettivo in quanto esso è “la storicità delle trasformazioni del vedere, del pensare, del sentire, del comprendere” 23, tutte categorie di coscienza trasformate in categorie etiche. La defigurazione della forma retorica non è un’antiretorica ma consacra il transfert dal retorico al poetico di cui l’antiretorica non costituisce che un caso particolare. La figura di una poesia è poetica soltanto se mette in risalto l’attività soggettiva di questa poesia. [...] Il valore sistematico di una figura dipende dal suo carattere unico, essa non ha valore – questo valore qui – che in questa poesia qui» 24. 15 In conclusione a me preme sottolineare che soltanto in una rinnovata prospettiva del rapporto fra poetica e retorica, sia a livello storiografico che teorico, questi studi possono ritrovare un senso e uno slancio. 1 L. Anceschi, Barocco e Novecento, Milano, Rusconi, 1960, p. 231; già in “Aut Aut”, n. 30 (1957). 2 R. Barilli, Poetica e Retorica, Milano, Mursia; 1969, n, ed. 1984. 3 J. Walker, Rhetoric and Poetics in Antiquity, New Jork,Oxford University Press, 2000. 4 La rhétorique avant la rhétorique per usare l’espressione di Laurent Pernot sul quale ci soffermeremo fra poco. 5 Già prima di Walker, Friedrich Solmsen aveva segnalato che Esiodo considera la retorica come sorella della poesia e che questa concezione non era rimasta senza eco, ma Walker non cita il contributo di Solmsen The ‘Gift’ of Speech in Homer and Hesiod, in Kleine Schriften, Hildesheim, 1968, pp. 1-15, ben presente invece a Giovanni Lombardo in Il genio del cantore Poetica e Retorica nella supplica di Femio (Hom.,Od., XXII 344353), “Helikon”, xxxv-xxxviii, 1995-98, pp. 3-54, in cui l’autore dimostra che Femio dà un bell’esempio dell’arcaica sorellanza fra poetica e retorica: Femio il professionista della poetica si rivolge a Odisseo, il professionista della retorica. 6 J. Walker,cit., p. 41, trad. nostra. 7 Contra Platonem, 427-428. 8 L. Pernot, t. i , Histoire et technique, t. ii Les valeurs, Paris, Institut d’études augustiniennes, 1993. 9 L. Pernot, cit., pp. 660-61. 10 Ivi, p. 796. 11 Ivi, pp. 635-36. 12 http//www.plekos.uni-muenchen.de./2003/rrebuffat.html. 13 E. Rebuffat, Tecniche di composizione poetica negli Halieutica di Oppiano, Firenze, Olschki, 2001. 14 www.hatt. nom. fr/rhetorique/art 12c.htm. 15 A. Bernadet, cit., p. 42. 16 Gruppo μ, Retorica generale. Le figure della comunicazione, Milano, Bompiani, 1976. 17 A. Bernadet, cit. p. 22. 18 H. Meschonnic, Politique du rythme Politique du sujet, Lagrasse, Verdier, 1995, p. 384. 19 A. Bernadet, cit., p. 27. 20 Ibid., rimaneggiato. 21 Ivi�������� ����������� , p. 29. 22 Ivi�������� ����������� , p. 30. 23 H. Meschonnic, cit., p. 551. 24 A. Bernadet, cit., pp. 35-36. 16 Dire l’esperienza: alle origini della letteratura di Giovanni Lombardo In questo mio intervento, vorrei affrontare il tema del nostro incontro, “Dire l’esperienza”, dal punto di vista dei piú remoti inizî della letteratura: quelli che ci vengono attestati dall’epos omerico. Infatti le prime testimonianze relative a un’esperienza estetica (intendendo qui per “esperienza estetica” l’esecuzione di un testo poetico e la sua simultanea ricezione da parte di un pubblico) ci vengono proprio dalla prassi dei piú antichi cantastorie: gli aedi omerici. Nell’epos arcaico, “dire l’esperienza” significa anzitutto “raccontare una storia”. L’espressione “raccontare una storia” può essere riferita alla realtà o all’invenzione. Raccontano storie coloro che espongono eventi realmente accaduti, ma raccontano storie anche coloro che espongono eventi possibili o addirittura fantastici. Vedremo appunto che l’alternativa tra verità e finzione (destinata a diventare un motivo ricorrente nella plurisecolare vicenda dell’estetica letteraria) è già chiara a Omero, quando al canto veritiero dei cantori contrappone il canto menzognero delle Sirene. Ma il bisogno di oggettività precede l’inclinazione fantastica e investe il senso primevo dell’attitudine a raccontare una storia. Che significa, infatti, originariamente, “raccontare una storia”? La risposta al nostro quesito è ancora custodita dall’etimo dei termini che, in italiano, definiscono questa attività. L’espressione “raccontare una storia” consta di una parola discesa dal latino (raccontare) e di una parola discesa dal greco (storia). Cominciamo a interrogare la parola di derivazione latina. Il verbo raccontare è un composto del verbo contare e indica propriamente, attraverso il prefisso iterativo ri-, il ripetersi di un procedimento di calcolo applicato agli eventi, in modo che la loro verbalizzazione proceda secondo un certo ordine. Questa esigenza di ordine si deve al verbo latino da cui l’italiano contare deriva: il verbo computare, composto tardo del verbo putare, che significa propriamente “pulire”, con riferimento alla mondatura degli alberi, e quindi “sfrondare” o, per l’appunto, “potare”. L’accezione materiale del mettere ordine nel fogliame di una pianta o di un albero genera l’accezione traslata del mettere ordine nei pensieri e nelle parole ovvero il significato di “calcolare”, “fare il conto” o, più in generale, “giudicare”. Spiega Varrone nel de lingua latina (6.63): 17 putare valet purum facere [...] ideo putator, quod arbores puras facit. Ideo ratio putari dicitur, in qua summa fit pura: sic is sermo in quo pure disponuntur verba, ne sit confusus atque ut diluceat, dicitur disputare. putare significa rendere pulito [...] perciò si dice “potatore”: perché rende puliti gli alberi. Perciò si dice anche che “risulta potato [pulito]” quel calcolo in cui si ottiene una conclusione netta. Così quel discorso in cui le parole vengono disposte in maniera pulita, in modo che riesca non già confuso ma chiaro, si dice disputare. (Lascio – tra parentesi – agli esperti di informatica il piacere di constatare come l’urgenza ordinatrice del verbo putare e dei suoi composti sia ancora evidente nel piú famoso fra i discendenti moderni del verbo computare: il termine computer). La stessa alternanza fra un senso materiale e un senso intellettuale, propria del verbo latino putare, si ritrova nel verbo greco legein, da cui deriva il termine logos, uno dei vocaboli greci per indicare il “racconto”. Il verbo legein discende da una radice ie. leg- indicante l’atto del “raccogliere” e attiva anche nel latino legere. E appunto il verbo legein significa anzitutto “raccogliere”, sia nel senso di unificare cose inizialmente disperse, sia nel senso di individuare, in un insieme disparato, gli oggetti appartenenti a una determinata classe, separandoli dagli oggetti appartenenti a una classe diversa. Nei due casi, è evidente un bisogno di ordine che genera, per traslato, il significato, poi piú diffuso, di “dire”, “parlare” – ovvero un significato in cui gli oggetti non sono piú raccolti e ordinati materialmente, ma sono unificati attraverso un enunciato verbale, nella rappresentazione di colui che parla. Questo enunciato può avere anche la forma di un discorso interno e cioè di un logos nel senso di un “pensiero”. (La radice leg- si ritrova, come ho accennato, anche nel verbo latino legere col significato iniziale di “raccogliere”, “scegliere”, e con il significato traslato di “leggere”, disceso probabilmente dalla locuzione legere oculis, “raccogliere, trascegliere con gli occhi [le lettere dell’alfabeto]”). Il racconto si configura dunque originariamente nella forma di un “calcolo”, di un’operazione intesa a mettere ordine. Ed è certo significativo che, in Omero, la comunicazione linguistica, considerata dal punto di vista del chiedere e del dare informazioni, sia espressa da un composto del verbo legein: il verbo katalegein, che vale propriamente “enumerare” (donde il termine katalogos che è appunto una “enumerazione”): katalegein un oggetto, una situazione, un evento significa per l’appunto fornirne un rendiconto verbale affidabile e dettagliato. Veniamo ora al secondo termine della nostra formula “raccontare una storia”: il termine storia. Questo termine risale, attraverso il latino historia, al greco historíe, in cui si riconosce la radice ie. *wid-, indicante l’atto del vedere e riscontrabile, per es., nei termini greci oîda, “io so”, ideîn, “vedere”, idéa, “forma visibile”, eîdos, “specie visibile”, eidolon, “immagine”, e nel latino video. Rientrando nel campo semantico 18 del verbo oîda, “io so in quanto ho visto”, la historie, è propriamente l’inchiesta, l’indagine compiuta attraverso l’osservazione diretta delle fonti. Nel v sec. a. C., accingendosi a raccontare le guerre della Grecia contro la Persia, Erodoto (ca. 484-425 a.C.) – il grande logógraphos, cioè il grande “scrittore di racconti”, che viene spesso salutato come il padre della storiografia e talvolta anche come il padre dell’etnografia – dichiara di concepire il suo lavoro come una histories apódexis, ovvero come l’esposizione di ciò che egli ha visto, come il racconto di un’indagine condotta con la curiosità del viaggiatore infaticabile che, nello spirito della scienza ionica, ricerca le cause degli eventi servendosi, per quanto è possibile, di una verifica personale delle fonti. La nostra rapida analisi etimologica ci dimostra dunque che, in principio, “raccontare una storia” non significa altro che “dire l’esperienza” ovvero imporre un ordine verbale a una serie di cose e di eventi che il narratore ha visto con i proprî occhi. Questa dimensione autoptica del racconto si ritrova appunto nella poetica degli antichi aedi, coí come ci permettono di ricostruirla i dati estraibili dai poemi di Omero. Nell’Odissea ci viene presentata l’esibizione di due cantori: Femio, che canta davanti ai proci, i pretendenti di Penelope, a Itaca; e Demodoco, che canta davanti ai Feaci, alla corte del re Alcinoo. Assistito dalla Musa (simbolo della memoria sociale e garanzia, insieme, della discendenza sovrannaturale e dell’attendibilità del canto), il cantore celebra le imprese degli uomini e degli dèi in modo da perpetuarne il kléos, cioè la «fama», la «gloria» (anzitutto nel significato del “sentore”: il termine kléos rimanda al verbo klyein, “ascoltare”). Queste imprese possono riferirsi ai miti tradizionali: per esempio, gli Amori di Ares e Afrodite (oggetto del secondo dei tre canti di Demodoco); o possono prendere la forma di una aoidè neotáte, cioè di un «canto novissimo», suggerito dalle vicende della storia contemporanea: per esempio, i fatti della guerra troiana (Troiká) o i ritorni (nóstoi) degli eroi greci da Ilio. Temi di grande attualità, che avvincono straordinariamente l’attenzione degli astanti inducendoli in uno stato di térpsis (cioè di «diletto») e di thélxis (cioè di «fascinazione»). Non sempre però l’ascolto aedico genera la spensieratezza dell’intrattenimento aproblematico e fascinatorio. Se i proci godono quando Femio rievoca il luttuoso rimpatrio degli eroi, Penelope è straziata da quel canto (che le ricorda l’incerto destino del consorte ancora lontano) e invita perciò l’aedo a intonare un’altra storia. Se i Feaci si compiacciono quando Demodoco ricorda i fatti di Troia, Ulisse prorompe in singhiozzi all’udire quelle storie che lo coinvolgono in prima persona. Ignorando che il naufrago ospitato alla corte di Alcinoo è il famoso re di Itaca, Demodoco rievoca un episodio della guerra troiana che vede Achille a diverbio con lo stesso Ulisse. Ma Ulisse, benché turbato da questo racconto, loda l’aedo e lo invita a cantare un altro episodio troiano di cui egli stesso è stato protagonista: lo stratagemma del cavallo ligneo. Leggiamo i versi di Omero (Od. 8.487-98): 19 Demodoco, al di sopra di tutti i mortali io ti lodo: ti ha addestrato la Musa, figlia di Zeus, oppure Apollo, perché davvero secondo un bell’ordine tu canti il destino degli Achei: quanto fecero, quanto subirono, quanto gli Achei soffrirono. Come se tu stesso fossi stato presente o lo avessi sentito da altri che furono lí. Ma suvvia, cambia argomento e canta l’allestimento [il kosmos] del cavallo di legno, che Epeo fabbricò con Atena: l’inganno che un giorno Ulisse condusse sull’acropoli, avendolo riempito dei guerrieri che distrussero Ilio. E se anche queste cose come si deve racconterai, io certamente dirò a tutti gli uomini che un dio propizio ti ha concesso il canto divino. A giudizio di Ulisse, il canto di Demodoco è bello, dilettevole e affascinante perché risponde a un criterio di appropriatezza insieme formale e morale: esso è infatti costruito nel rispetto di un kósmos e di una moîra, cioè secondo un “bell’ordine” compositivo e secondo una pertinente “destinazione” contenutistica e pragmatica. Ulisse si compiace che l’ordine verbale del racconto aderisca all’ordine reale degli eventi ed elogia l’aedo per la maestria con cui riferisce certi fatti “come se” egli stesso ne fosse stato testimone oculare o “come se” ne avesse avuto notizia da un testimone oculare. La prospettiva del “come se” rinvia alle tecniche della mimesis e presuppone che la realtà e la narrazione non siano perfettamente isomorfe e sovrapponibili: anche ai livelli più elementari, rappresentare la realtà con un racconto equivale già a interpretarla, a filtrarla attraverso un meccanismo selettivo che sappia estrarne gli elementi significativi per ricomporli in un nuovo ordine mimetico. Perciò il “come se” implica anche che la realtà possa essere rappresentata o per quello che essa è oppure per quello che essa potrebbe essere. Implica cioè la differenza tra il vero e il verosimile e dunque la possibilità dell’illusionismo poetico. Esaminiamo brevemente i due aspetti di questa differenza. Nel caso di una poetica del vero, “dire l’esperienza” ovverosia “raccontare una storia” risponde a quel bisogno di verifica diretta che abbiamo poc’anzi estratto dalla nostra analisi etimologica. Tra il pubblico di Demodoco, nessuno quanto l’ideatore dell’astuzia del cavallo sarà in grado di verificare se sia stato fornito un racconto fedele. Questa precisione autoptica è peraltro il segno di una specialissima assistenza sovrannaturale: le Muse o addirittura Apollo sono garanti dell’attendibilità di un aedo che sappia intonare una aoidè neotáte, un «canto d’attualità», perché i soggetti tratti dalla storia contemporanea richiedono un impegno poetico molto strenuo. Tant’è vero che l’Iliade e l’Odissea, esempî supremi di canti ispirati dall’attualità, si aprono invocando il soccorso della Musa nell’ardua esposizione di alcune importanti vi20 cende della storia nazionale (non è diversa la funzione della preghiera alle Muse nell’iliadico proemio del Catalogo delle navi). Ispirato da un’energia divina, il cantore rafforza i poteri immaginifici della sua arte e coinvolge immediatamente l’uditorio negli eventi evocati dal canto, mettendoli sotto gli occhi mentali dei suoi ascoltatori attraverso quei procedimenti stilistici che poi i trattati di retorica registreranno fra le tecniche di visualizzazione proprie dell’enárgeia, cioè dell’evidenza realistica ovvero della subiectio sub oculos. Tecniche che implicano, per cosí dire, la capacità di “far vedere con le orecchie”: perché, proprio mentre colgono con l’orecchio la magica affinità tra il corso delle parole e il corso delle cose, gli ascoltatori provano le medesime emozioni che proverebbero se gli avvenimenti raccontati si svolgessero realmente davanti ai loro occhi. Sennonché, mettere un evento sotto gli occhi dell’ascoltatore significa trasportare l’ascoltatore nel passato in cui quel certo evento è accaduto oppure trasportare l’evento nel presente in cui esso viene evocato per l’ascoltatore. A detta di Ulisse, il cantore è bravo perché racconta i fatti di Troia “come se” egli stesso ne fosse stato testimone diretto (cioè “come se” egli stesso si fosse avvicinato a quei fatti) o “come se” li avesse appresi da qualcuno che ne sia stato testimone diretto (cioè “come se” i fatti si fossero avvicinati al cantore). Nel primo caso, gli occhi dell’ascoltatore vanno verso l’evento, nel secondo caso l’evento viene sotto gli occhi dell’ascoltatore. Alcuni studî recenti hanno tentato di spiegare come queste due possibilità di visualizzazione mentale dipendano dall’aspetto dei tempi verbali piú frequenti nella narrazione – l’imperfetto e l’aoristo – e hanno ricollegato l’uso dell’imperfetto all’oggettività del racconto storiografico, l’uso dell’aoristo alla soggettività del racconto poetico (cfr. E. J. Bakker, Pointing to the Past. ������������������������ From Formula to Performance in Homeric Poetics, Cambridge, Ma., 2005). Considerati ������������������������ in rapporto alla categoria morfologica dell’aspetto (cioè in rapporto alla categoria afferente all’eîdos di un’azione ovvero al modo in cui essa viene per l’appunto vista attraverso il linguaggio), l’imperfetto e l’aoristo definiscono la durata o la momentaneità di un certo fatto. L’aspetto durativo dell’imperfetto implica che l’azione sia vista “come se” si stesse svolgendo in un passato più esteso del testo che la descrive e che può ritagliarne solo la fase registrata da un testimone: qui la visione dei fatti dà luogo al loro racconto. L’aspetto momentaneo dell’aoristo implica invece che l’azione sia vista “come se” accadesse in una dimensione assoluta, in un tempo indefinito (o per l’appunto aóristos, «indeterminato»), che può anche essere il tempo passato, ma senza alcuna precisazione relativa alla durata e all’origine (recente o remota) dell’azione stessa: qui il racconto dei fatti dà luogo alla loro visione e l’azione tende ogni volta a riattualizzarsi e a coestendersi nel testo che la descrive. Così, quando prevale l’imperfetto, il presente si immerge nel passato; quando invece prevale l’aoristo, il passato riemerge al presente. 21 Che, anche a prescindere dall’uso di questi due tempi verbali, la subiectio sub oculos possa realizzarsi secondo questa doppia modalità è indubbio; ma l’ipotesi che su questa base il linguaggio dello storico venga poi a distinguersi dal linguaggio del poeta non sempre trova sicure conferme nella precettistica antica in tema di visualizzazione mentale. Vero è che, per esempio, Aristotele, attribuendo alla poesia, protesa all’universale, un valore più filosofico della storia, legata al particolare, sembra riproporre la differenza tra la dimensione assoluta del discorso poetico e la dimensione relativa del discorso storico; ma è anche vero che i precetti aristotelici sull’atto del pro ommáton tithesthai, cioè del “mettere sotto gli occhi”, riconoscono alla poesia entrambe le possibilità di visualizzazione. Nella Poetica, Aristotele vuole che il drammaturgo, accingendosi a comporre il suo testo, provi a prefigurarsene gli effetti scenici ed emotivi (Aristot. Poet. 17.1-2, 1455a 22-33). Una mimesis che intenda infatti catturare gli spettatori alla vicenda messa in scena esige che il poeta sappia dosare la carica immaginifica delle sue parole, saggiando anzitutto su sé stesso la tecnica dell’enárgeia. Conferendo allo stile una grande forza icastica, questa tecnica permette di “dire l’esperienza” in modo che l’ascoltatore colga con l’occhio della mente quanto viene descritto. Prima che il linguaggio poetico, l’atto del pro ommáton tithesthai definisce però, piú in generale, il processo psicologico definito per solito phantasía. Correlato al verbo phainesthai, “apparire”, il termine phantasía indica l’«immaginazione»: non già, ovviamente, nel significato moderno dell’intuito creativo del genio, ma nel significato antico di una facoltà rappresentativa dipendente dalle sensazioni. Più precisamente, la phantasía è una sorta di movimento attivato nell’anima dalla percezione (aisthesis) in modo da generarvi un flusso di phantásmata, di “apparizioni” ovverosia una serie di precise – ancorché immateriali – «immagini» delle cose percepite (aisthémata). Queste immagini permettono alla mente di pensare e non v’è àmbito conoscitivo che possa farne a meno. Il movimento della phantasía – spiega Aristotele – può essere volontario o involontario (Aristot. de an. 327b 17-20; de insomn. 460b 9-19). Facciamo un uso attivo e deliberato della phantasía quando, per es., richiamiamo alla memoria un’immagine passata; ne facciamo invece un uso passivo e non calcolato quando – per esempio nei sogni o nei delirî della febbre – la nostra mente è abitata da visioni che possono facilmente ingannarci. Nel primo caso, noi andiamo verso un’immagine passata (secondo lo schema che, per comodità, possiamo chiamare imperfettivo, anche se in Aristotele non c’è alcun riferimento all’uso dei tempi verbali); nel secondo caso, un’immagine, per così dire, “si attualizza”, venendo verso di noi (secondo lo schema che possiamo chiamare aoristico). Per prelibare mentalmente gli effetti d’una scena in corso di composizione, anche il poeta deve ricorrere alla sua facoltà immaginativa: e può farlo volutamente, attivando gli strumenti del suo ingegno, 22 oppure spontaneamente, secondando le spinte della sua ispirazione. L’alternativa tra un uso cosciente e governabile e un uso spontaneo e irriflesso della phantasía viene infatti illustrata mediante i due più tradizionali modelli del poeta in quanto personalità “creativa”: il modello del poeta euphyés cioè del poeta che trae le sue doti dal talento naturale, e il modello del poeta manikós, cioè del poeta che deve il suo canto a una sorta di divina follia (di manía). Il poeta di talento è detto euplastos, “duttile”, perché sa piegare le sue facoltà alle esigenze della composizione; il poeta ispirato è detto ekstatikós, “fuori di sé”, perché – secondo la vecchia equazione tra la poesia e l’enthousiasmós – compone come posseduto da un dio. La differenza tra questi due tipi creativi emerge quando i poeti devono, appunto con il soccorso della phantasía, sperimentare su sé stessi le emozioni che la loro parola, confortata dal gesto scenico, accenderà negli spettatori: se il sobrio poeta euphyés ricorre alla facoltà immaginativa per fingersi (come capita nei processi della memoria) un certo stato emotivo, l’ebro poeta manikós abita già in uno stato emotivo tale da nutrire (come avviene nei sogni o nelle allucinazioni) la facoltà immaginativa. Ritorna anche qui la doppia modalità di visualizzazione che già conosciamo: o la mente dell’euphyés va verso l’immagine (secondo lo schema imperfettivo) oppure l’immagine viene verso la mente del manikós (secondo lo schema aoristico). In entrambi i casi, abbiamo però da fare con l’attività poetica, non già con l’attività storiografica. E in entrambi i casi (ma soprattutto nel caso del poeta manikós) la phantasía è collegata al pathos, all’emozione. Questo collegamento è proposto da Aristotele anche nella Retorica, dove anzi i processi di visualizzazione sembrano piuttosto privilegiare la modalità aoristica. Occupandosi delle strategie discorsive adatte ad accendere le passioni dell’uditorio, Aristotele tratta della paura (phobos) e della pietà (eleos), cioè dei pathe proprî dell’esperienza tragica (Rhet. 2.5.1, 1382a 21-22, 2.8.3, 1385b 13-16). Chi voglia muovere gli ascoltatori alla paura o alla pietà deve attivarne la phantasía, in modo che essi possano fingersi una sventura (kakón) imminente e, sentendosene atterriti o commossi, possano poi vivere l’esperienza della catarsi. Gli oratori capaci di una recitazione tale da accompagnare, con un’acconcia gestualità, le nervature emotive del linguaggio, «fanno apparire (phainesthai) vicino il male», dice Aristotele, «mettendolo sotto gli occhi (pro ommáton poioûntes) dell’ascoltatore»: un pathos che si mostri davanti agli occhi (en ophthalmoîs phainómenon) è infatti condiviso più prontamente (Rhet. 2.8.14-15, 1386a 33-34, 1386b 8). E qui appunto sembra prevalere la modalità di visualizzazione aoristica: l’immagine si approssima agli occhi della mente e provoca una forte risposta emotiva. Un altro antico trattatista che contempla la doppia modalità della visualizzazione mentale nell’àmbito della poesia è Longino. Nel cap. 15 del Perì hypsous, egli si occupa della phantasía (detta anche eidolopoiía, “fabbricazione di immagini”) e la definisce «un pensiero che, 23 comunque si presenti alla mente, genera un discorso» (phantasía pân to hoposoûn ennóema gennetikòn logou paristámenon). Ma distingue l’enárgeia, l’“evidenza realistica”, tipica della fantasia oratoria, più legata all’oggettività e alla verisimiglianza, dall’ekplexis, l’urto emotivo, proprio della fantasia poetica, più libera e più proclive al meraviglioso. Questa distinzione sembrerebbe riproporci la differenza tra la visualizzazione durativa o storiografica (nella quale la nostra vista mentale si avvicina ai fatti) e la visualizzazione momentanea o appunto poetica (nella quale i fatti si avvicinino alla nostra vista mentale). Sennonché Longino adduce come esempio di fantasia poetica un passo dell’Oreste di Euripide (vv. 255-57) in cui il protagonista, ossesso dalle Furie anguicrinite, invoca la madre perché lo liberi dalla morsa delle sue persecutrici: Madre, t’imploro, non aizzare contro di me quelle giovani con gli occhi di sangue, serpentiformi: sono loro, sono loro: e mi saltano intorno. «Qui – spiega Longino – il poeta stesso ha visto le Erinni e ha quasi costretto anche i suoi ascoltatori a guardare ciò che la sua fantasia gli ha raffigurato». Nel comporre la scena, Euripide visualizza dunque mentalmente l’angoscia di Oreste, trasferendosi nell’antico mito e identificandosi con il suo personaggio. Ma quando Longino afferma che cosí anche gli ascoltatori di Euripide sono portati a guardare (a theásasthai) ciò che il poeta ha immaginato, pensa alla lettura del testo, piuttosto che alla sua messa in scena: è chiaro infatti che in teatro questa situazione viene fruita anzitutto come spettacolo per l’occhio della vista. Quando Euripide e, con lui, i suoi lettori s’immedesimano nello stato d’animo del personaggio, si verifica una subiectio sub oculos di tipo imperfettivo, che disloca l’ascoltatore dal piano del suo “qui e ora” al piano del “lí e allora”, proprio dell’evento visualizzato; quando invece gli spettatori, a teatro, fruiscono del testo attraverso la sua concreta rappresentazione, si verifica una subiectio sub oculos di tipo aoristico, che disloca l’evento visualizzato dal suo “lí e allora” al “qui e ora” della messa in scena. Torniamo a Omero e agli elogi di Ulisse a Demodoco. Esponendo i fatti “come se” vi avesse preso parte, il cantore si dimostra abile a governare quelle tecniche della verosimiglianza che potrebbero ingannare gli ascoltatori impossibilitati a controllare l’effettiva attendibilità di un racconto. Siamo cosí giunti al secondo aspetto dell’alternativa tra verità e finzione entro cui, come abbiamo preavvisato, si dibattono le antiche tecniche per dire l’esperienza. A questo punto, infatti, la nostra formula “raccontare una storia” si allontana dal significato etimologico che la vincolava al rendiconto autoptico delle cose e si avvicina a uno dei significati che, ancora oggi, il linguaggio comune le affida allorché 24 dice “raccontare storie” per intendere “raccontare favole” o addirittura “raccontare fandonie” (per cui, quando abbiamo l’impressione che il nostro interlocutore voglia raggirarci, lo invitiamo a non “raccontarci storie”). Avendo partecipato all’impresa troiana, Ulisse può attestare che Demodoco è un cantore fededegno. Ma ove ai fruitori non sia dato di controllarne la corrispondenza al vero, un prodotto mimetico trae efficacia fascinatoria da quella che, in termini aristotelici, si definisce la sua apergasía, cioè la sua “lavorazione” in quanto kosmos capace di rispecchiare, con i fatti reali, anche i fatti possibili: e dunque in quanto kosmos capace di mentire. Tale sarà, secondo Parmenide, il kosmos epéon apatelós, l’«ingannevole universo verbale» della doxa, dell’«opinione», che, allestendo una seduzione illusionistica pronta a distrarre i mortali dalla via verso la alétheia, verso la «verità», impone al filosofo di riconsiderare con un piú vigile rigore teoretico la tensione tra un impiego attendibile e un impiego malfido del linguaggio, così che i suoi uditori non si lascino irretire dalle finzioni di chi tramuta la realtà nelle sue immagini fallaci. L’estremizzazione leggendaria degli effetti illusorî del canto dà luogo ai miti della seduzione musicale: per esempio, il mito di Orfeo, il cantore che con la sua voce piega le fiere, le selve e le rocce. O il mito delle Sirene che, nell’Odissea, attirano i naviganti con una melodia irresistibile e fatale. Esse tentano anche Ulisse, promettendogli il piacere assoluto e, insieme, il sapere assoluto. L’integrazione di piacere e di sapere è il postulato fondamentale della poetica autoptica: la poesia non può garantire alcun godimento vero se non si prefigge di raccontare fatti veri. Ma le Sirene smentiscono questo postulato nell’atto stesso in cui sembrano confermarlo: giacché alla dolcezza delle loro voci non s’accoppia l’autenticità delle loro affermazioni. Ai naviganti esse offrono scienza e ritorno in patria: di fatto – come diceva Marziale (3.64) – esse non dànno che un crudele gaudium e una blanda mors, una «gioia crudele» e una «morte carezzevole». La sola “verità” del loro canto ammaliante sta appunto nel piacere dell’ascolto, nella lusinga fisica di un orecchio tutto atteso a una melodia bellissima e inesorabile. L’intuizione omerica dell’autonomia formale della poesia e dei suoi poteri illusionistici anticipa una problematica che verrà poi sviluppata nella retorica dei Sofisti e soprattutto di Gorgia. E appunto in àmbito retorico la nozione di kosmos si affermerà con il significato decisamente estetico di ornatus, “abbellimento stilistico”. Ma con i Sofisti ci troviamo ormai in una fase avanzata della storia letteraria. Una fase in cui la problematica relativa ai modi di “dire l’esperienza” porta a maturazione quell’alternativa tra una poetica della pura invenzione e una poetica del racconto attendibile che, come ho cercato di suggerire, trova le sue radici, già alle origini della letteratura, nell’arte omerica di raccontare una storia. 25 Rappresentazione pittorica e rappresentazione poetica in Tommaso d’Aquino di Fabrizio Amerini Parlare di “estetica medievale” non è facile oltre che storiograficamente discutibile 1. Come è stato sottolineato da più studiosi, il principale motivo di difficoltà e di perplessità storiografica risiede nel fatto che durante il Medioevo i canali di accesso e di trattazione delle questioni che oggi noi consideriamo di pertinenza dell’estetica sono stati molteplici e hanno preso forme differenti a seconda del tempo e del luogo in cui vengono studiati. In generale, le riflessioni di estetica che possono essere rintracciate in epoca medievale devono essere ricavate da contesti spuri. Nel Medioevo problemi di estetica non sono stati esplicitamente riconosciuti e tematizzati, non essendoci stata una disciplina di studio autonoma qualificabile come estetica né qualcosa di pur lontanamente assimilabile all’estetica come dal Settecento ad oggi viene intesa. Per di più, raramente s’incontrano in epoca medievale osservazioni su che cosa sia una teoria artistica o su quali condizioni debba soddisfare una teoria per essere considerata una teoria estetica. Le riflessioni sono tutte, per così dire, pre-teoriche e riguardano intuizioni differenti su che cosa sia il bello e su quali rapporti debbano intercorrere tra la bellezza e la sua rappresentazione artistica. In epoca medievale, cioè, ci s’imbatte di frequente in forme di estetica descrittiva, saltuariamente in esempi di estetica normativa, piuttosto sporadicamente in considerazioni meta-estetiche. Neppure un’attenzione privilegiata viene rivolta all’estetica come ricerca sulle condizioni del piacere o della contemplazione estetica, nonostante che la sensibilità nei confronti del bello e il tema del diletto giochino un ruolo importante nelle meditazioni estetiche dei maestri medievali 2. L’attenzione sembra essere tutta rivolta al rapporto che si può instaurare tra esperienza, artista e opera d’arte. Quale esperienza, tuttavia, un’opera d’arte deve intercettare ed esprimere, per un filosofo medievale? È evidente che a seconda che si scelga di privilegiare il rapporto tra l’opera d’arte e il soggetto o tra l’opera d’arte e l’oggetto, scaturiscono due immagini dell’estetica molto differenti. Seppur in modo non troppo esplicito, i maestri medievali hanno esplorato entrambe queste connessioni. In ciò che segue mi limiterò a mettere in risalto alcuni punti di queste esplorazioni che considero rilevanti per una ricostruzione filosofica del27 l’estetica nel Medioevo, concentrando l’attenzione soprattutto sul basso Medioevo e, più in particolare, su Tommaso d’Aquino 3. In generale, è stato notato che i filosofi medievali sviluppano riflessioni di estetica prevalentemente all’interno di una più generale riflessione sulla bellezza e sul bello (pulchrum). Tale inclusione spiega le difficoltà che l’estetica ha incontrato nel corso del tempo per guadagnare la propria autonomia rispetto ad altre discipline. Il legame tra estetica e teoria del bello fa emergere infatti i debiti che la cosiddetta “estetica medievale” ha avuto nei confronti di altri campi del sapere, come l’etica (per i rapporti tra bello e bene), la teologia (per i rapporti tra bello creaturale e bellezza divina), la metafisica (per la connessione tra bello, essere e vero), l’ottica (per i rapporti tra bello, colore e fenomeno della luce), le scienze del quadrivio in genere (per i rapporti tra bellezza e proporzionalità numerica e geometrica). Il concetto di bello viene connesso dai filosofi medievali, in modo piuttosto condiviso, a quello di ordine (ordo) e quest’ultimo è la chiave che consente loro di proporre una fondazione teologica e scritturale, quindi oggettiva, del bello, dal momento che l’ordine è uno degli attributi che Dio ha impresso al mondo all’atto della creazione. Come spiega esemplarmente Bonaventura nel suo Itinerarium mentis in Deum (1259), riassumendo una lunga tradizione interpretativa, specialmente di ascendenza agostiniana, Dio ha creato il mondo in peso, numero e misura (Sapienza, 11, 20). Il peso indica l’ubicazione delle cose nel mondo, il numero il principio della loro distinzione sostanziale e quantitativa, la misura il fattore della loro delimitazione formale e qualitativa. Numero e misura sono la radice dell’intelligibilità del reale, che si delinea come il risultato della piena corrispondenza tra la misura e il misurato, tra il modello e la copia. Queste due relazioni “esemplari” non sono troppo diverse tra loro: le cose sono misurate nell’essere da Dio, ma sono state anche create ad immagine e somiglianza del loro Creatore, ed è un tratto essenziale delle creature quello di essere in un rapporto proporzionato di somiglianza (similitudo) con Dio e, di riflesso, con le altre creature. Dal numero e dalla misura delle cose scaturisce quindi l’ordine, che altro non esprime che un rapporto di proporzione, per cui, come aveva precisato già Agostino nel De musica e nel De civitate Dei, «la bellezza non è altro che uguaglianza numericamente proporzionata [...] è una certa disposizione delle parti, accompagnata dalla soavità del colore» 4. Questa idea agostiniana di bellezza, che si arricchirà nel corso del tempo di sollecitazioni provenienti da altre tradizioni filosofiche, aristoteliche e soprattutto neo-platoniche (e.g. Pseudo-Dionigi), godrà di larga fortuna in epoca medioevale e sarà ripresa, tra gli altri, anche da Tommaso d’Aquino, il quale ricorda come, basilarmente, la «bellezza richieda due cose, lo splendore [del colore] e la proporzione delle parti» 5. 28 Queste concise definizioni, proposte da Agostino e riprese tra gli altri da Bonaventura e da Tommaso, rivelano alcune cose. In prima istanza, da queste definizioni emerge come il concetto cardine di una teoria del bello resti quello classico di proporzione (proportio) delle parti in un tutto, che è a sua volta dipendente dal concetto di accordo tra il tutto e il suo esemplare ideale. Tommaso sintetizza questo concetto attraverso la nozione tecnica di consonantia, che impiegata originariamente in ambito musicale a indicare la melodia e armonia dei suoni, viene generalizzata a regola universale per definire l’armonica proporzione delle parti in un tutto, che è ciò che spiega qualunque stato soggettivo, sensoriale o emozionale, che scaturisce dalla relazione tra il soggetto e l’oggetto 6. In seconda istanza, il successivo riferimento al colore e allo splendore (splendor) o chiarezza (claritas) 7 allarga l’orizzonte d’indagine sul bello, permettendo una caratterizzazione del bello non solo in termini intrinsecamente o estrinsecamente oggettivi, ma anche per così dire soggettivi, grazie alla connessione del bello a una teoria generale della percezione sensibile. Infatti, il colore è considerato una proprietà reale delle cose, ma il colore in quanto visibile richiede, nei termini del processo percettivo che Aristotele illustra nel De anima, la presenza di un soggetto percettore e di un fattore attivante questo processo. Il soggetto è identificato con il singolo individuo, mentre il fattore di attivazione è identificato con la luce, la quale permette la trasformazione dei visibili in potenza in visibili in atto e quindi in visti in atto. Rispetto al processo percettivo di ricezione di una forma sensibile, la bellezza viene a esprimere, così, sia l’arrangiamento armonico delle parti di una cosa colorata (in questo senso un colore bello è «un colore che è conveniente alla vista per vedere» e tale è un colore che a sua volta possiede una gradazione cromatica armoniosa) 8, sia la corrispondenza che si ha tra la forma del ricevente e la forma del ricevuto. La riproduzione a livello percettivo della forma e del colore di una cosa sono a fondamento dell’esperienza del bello, il cui indicatore è dato dal sentimento di piacere che la cosa colorata suscita nell’anima. È stato fatto notare come l’insistenza agostiniana sulle cose come immagini di Dio, effetti-segni che rinviano alla loro causa-esemplare, sia alla base di gran parte del simbolismo e dell’allegorismo medievale. Non occorre soffermarsi troppo qui sulla connessione tra bello e ordine, e tra bello, luce e colore, essendo queste connessioni un commonplace del pensiero estetico medievale che è stato comunque esaminato dalla storiografia del secolo scorso. In questa sede mi limiterò a richiamare due aspetti di queste connessioni che considero particolarmente significativi e su cui, ritengo, ci sia ancora del lavoro da fare. Il primo aspetto da rimarcare è che il processo di ricezione della forma di un oggetto da parte di un soggetto conoscente garantisce una saldatura tra le due connessioni di un’opera d’arte all’esperienza che 29 abbiamo distinto all’inizio. Per quanto ci possano essere eventi o produzioni artistiche la cui funzione è esclusivamente quella di esprimere stati emozionali di un soggetto, o anche di suscitare stati emozionali simili in un altro soggetto (si pensi alle rappresentazioni teatrali o alla poesia, di cui parleremo più avanti), in genere un’opera d’arte deve essere valutata rispetto alla sua capacità di rappresentare o imitare un certo oggetto, e nel caso specifico di rappresentazioni pittoriche, di rappresentare la proporzione armonica delle parti e del colore che un oggetto possiede, riproducendo così una certa forma che l’oggetto ha impresso nel soggetto conoscente. Da questo punto di vista, è degno di nota che molte riflessioni sulla rappresentatività dei dipinti si trovino all’interno dei dibattiti epistemologici sulla natura e funzione delle rappresentazioni mentali. Siccome molti filosofi medievali, tra cui Tommaso d’Aquino, ritengono, sulla scia di Boezio, che una rappresentazione mentale naturale rappresenti le cose non come sono in sé stesse, al di fuori della mente, ma così come sono state ricevute dalla mente, ne consegue che anche la bellezza di un’opera d’arte viene a risiedere nella capacità che l’opera d’arte possiede di mimare la debita proporzione delle parti e del colore di una cosa rispetto al modo in cui tale proporzione è stata ricevuta dalla mente. In questo senso, il processo rappresentativo richiede non solo una somiglianza qualitativa tra ciò che rappresenta e ciò che è rappresentato, ma anche una loro adeguazione proporzionale, che è il frutto di un intervento di ricostituzione dei dati percettivi operato dalla mente. Il secondo aspetto che ritengo utile sottolineare si collega in qualche misura al primo. Soprattutto nel corso del xiii secolo, la fondazione teoretica del bello e la determinazione del suo valore cognitivo emergono nel contesto di quella che i medievali presentano come un’indagine sui cosiddetti trascendenti, ovvero su alcune nozioni transcategoriali, come ens, unum, bonum, verum, aliquid, res, cui qualcuno aggiungerà per l’appunto pulchrum 9. Tommaso d’Aquino, ad esempio, che propone una spiegazione tutto sommato chiara e condivisa della natura dei trascendenti, osserva che i concetti di bello e di bene (ma il discorso vale anche per il rapporto tra il bello e gli altri trascendenti), sono realmente identici se considerati rispetto a un dato oggetto di cui si predicano, perché si fondano su una stessa cosa, cioè sulla forma di questo oggetto. Differiscono tuttavia concettualmente. Mentre il bene riguarda la facoltà appetitiva dell’uomo e si pone come la causa finale rispetto all’agire pratico, il bello riguarda la facoltà conoscitiva e si pone come la causa formale rispetto alla percezione dell’oggetto. Belle, infatti, sono dette quelle cose che piacciono una volta viste (pulchra dicuntur quæ visa placent) e la vista è una facoltà conoscitiva; ma siccome la conoscenza avviene per assimilazione dell’oggetto conosciuto al soggetto conoscente, e l’assimilazione dipende dalla forma, allora il bello riguarda propriamente la forma dell’oggetto 10. Stando a queste 30 osservazioni di Tommaso, mentre uno stato emozionale di tipo etico si perfeziona completamente nel raggiungimento di ciò che è bene per la facoltà appetitiva, uno stato emozionale di tipo estetico si realizza pienamente nell’acquisizione cognitiva (apprehensio, cognitio) di una forma e quindi nel piacere di questa acquisizione, e questa compete solamente a quelle che sono le più nobili facoltà conoscitive sensoriali, ossia la vista e l’udito 11. L’accentuazione del valore cognitivo del bello e della sua connessione al processo percettivo costituisce il filo rosso della riflessione estetica di Tommaso e di gran parte dei filosofi del basso Medioevo, nelle varie forme in cui essa si articola. È evidente che assumendo questo punto di vista compito dell’estetica viene a essere, per Tommaso, quello di fissare le condizioni alle quali l’esperienza del bello possa essere data e, quindi, riprodotta. Un’opera d’arte non sembra avere altro compito che quello di rappresentare un oggetto o un evento bello, ossia di re-presentare la sua forma alla mente del soggetto conoscente. All’interno di questo processo ricettivo e riproduttivo, Tommaso assume che non solo un’opera d’arte possa essere detta bella, ma anche un evento o un oggetto, nonostante che “bello” si dica di un oggetto, di un evento o delle loro rappresentazioni in modo diverso. Mentre un oggetto o un evento è bello, infatti, se in virtù di una distribuzione armonica delle parti e dei colori induce un sentimento di piacere in chi lo percepisce, una rappresentazione è bella se è in grado di ri-suscitare un sentimento di piacere rispetto al modo in cui essa rappresenta la forma di quel determinato oggetto o evento. Non è possibile scorgere ancora in Tommaso una distinzione precisa tra bello e sublime, il cui termine per altro è impiegato da Tommaso, seppur confinato a indicare l’eccellenza di uno stato o di una funzione. Stando ai testi di Tommaso, il sublime non sembra esprimere nient’altro che una forma intensa di bellezza o una bellezza cui corrisponde un piacere intenso. Esso scaturisce dal sentimento di admiratio o contemplazione compiaciuta e timorosa che si prova di fronte a oggetti o eventi maestosi, rari o insoliti, che eccedono cioè le nostre facoltà conoscitive e di cui si ignora la causa 12. Riassumendo. In termini oggettivi, il criterio intrinseco di definizione del bello continua ad essere dato, per Tommaso, dalla debita proporzione delle parti e del colore di una cosa, mentre il criterio estrinseco è dato dalla corrispondenza tra la cosa e il suo esemplare divino. Estrinsecamente una cosa è bella se partecipa della bellezza ideale e una cosa ne può partecipare a vari gradi, a seconda del modo in cui l’idea di bellezza in Dio – che altro non è che Dio stesso considerato in quanto bello – è partecipabile dalle creature 13. In termini soggettivi, invece il criterio definitorio del bello risiede nella capacità di una cosa, una volta vista, di suscitare un sentimento di piacere. Un’opera d’arte è al contrario bella se rappresenta il bello, che è considerato da 31 Tommaso, sulla scorta dello Pseudo-Dionigi, un fine universalmente e naturalmente ricercato dall’uomo 14. Una rappresentazione pittorica, dunque, ha come fine la raffigurazione del bello e non può tendere che a questo fine. Ciononostante Tommaso precisa che, sebbene un’opera d’arte sia detta bella se rappresenta il bello, tuttavia, in quanto rappresentazione, essa deve essere detta bella se rappresenta una cosa in modo perfetto, anche se la cosa è in sé non-bella. Come nel caso delle cose, anche nel caso delle rappresentazioni la perfezione o bellezza deve essere valutata, da un punto di vista formale, esclusivamente in termini della capacità di rassomigliare in modo vero una certa cosa. Ne risulta che il processo rappresentativo pittorico del bello, anche terminologicamente, è descritto da Tommaso come in tutto e per tutto simile al processo rappresentativo di una cosa da parte di una rappresentazione mentale naturale 15. Questo collegamento non deve stupire, se si pensa che nel De anima Aristotele aveva caratterizzato l’intelletto come una tabula su cui possono essere impresse picturæ differenti. In definitiva, come le rappresentazioni mentali, anche la rappresentazione pittorica ha lo scopo di ripresentare una forma, riproducendo così il processo sensoriale che ha suscitato un certo piacere 16. Se sul versante delle rappresentazioni pittoriche un certo approfondimento storiografico è stato portato avanti, decisamente più scoperto appare il versante della poetica, intesa non tanto come teoria della composizione letteraria, ma come disciplina che studia l’utilizzo di rappresentazioni di tipo segnatamente linguistico, vocale o scritto, o teatrale. Un’attenzione maggiore, invece, è stata rivolta alla retorica 17. Mi sembra che i motivi principali che hanno determinato nel Medioevo una svalutazione della poetica filosofica siano stati due. Il primo è storico e riguarda la sistemazione della poetica all’interno della classificazione delle scienze e il suo inserimento tardo nel curriculum di studio universitario. Il secondo invece è teorico e riguarda il fatto che la poetica tende a prescindere da un criterio stretto di rappresentazione mimetica, concernendo principalmente il rapporto tra una rappresentazione e il suo fruitore rispetto a un determinato effetto che si vuol indurre nel fruitore. Non indugio troppo sul primo motivo, essendo noto che la sistemazione operata dai commentatori neo-platonici tardo-antichi, soprattutto alessandrini, delle opere aristoteliche aveva comportato l’inclusione della Retorica e della Poetica tra le opere dell’Organon. Come tale questa sistemazione era giunta al mondo arabo e di qui, tramite le varie trattazioni de divisione scientiarum, era giunta al mondo latino occidentale 18. Questo fatto aveva avuto ripercussioni sul dibattito circa la natura e la scientificità della retorica e della poetica, così come sull’insegnamento, poiché la Retorica e la Poetica erano considerati comunemente 32 i libri conclusivi dell’Organon e venivano perciò letti solo dopo aver commentato gli altri libri; di fatto, la loro lectura era facoltativa. In particolare, la poetica filosofica ebbe uno sviluppo piuttosto limitato, non essendoci una tradizione poetica consolidata (a differenza della retorica) alternativa a quella aristotelica con cui i medievali erano venuti in contatto prima dell’arrivo della Poetica aristotelica. Questa, com’è noto, venne tradotta dal greco da Guglielmo di Moerbeke solo molto tardi (1 marzo 1278), mentre fino a quella data l’unica via di accesso alla poetica aristotelica era costituita dalla traduzione dall’arabo del Commento Medio alla Poetica di Averroè, che molti, tra cui Tommaso, erroneamente citano come traduzione dell’opera aristotelica. Tale traduzione fu portata a termine da Ermanno il Tedesco a Toledo, il 17 marzo 1256, dopo che, nel 1250, in seguito alla traduzione dall’arabo della Retorica, Ermanno aveva rinunciato a tradurre direttamente la Poetica a causa della sua oscurità e del disaccordo tra metrica araba e metrica greca 19. Nonostante che il Commento averroista abbia avuto una certa diffusione (siamo a conoscenza di almeno 23 manoscritti che lo conservano), la Poetica fu un testo poco commentato. A tutt’oggi sono sopravvissute in un manoscritto parigino solo alcune glosse e una breve esposizione letterale, databili al 1307, del maestro Bartolomeo da Bruges 20. Di maggiore interesse filosofico è il secondo motivo. L’inclusione della poetica e della retorica, tanto quella argomentativa quanto quella epidittica, nella logica – secondo l’accezione larga di logica che i medievali avevano ereditato dai commentatori neoplatonici tardo-antichi – ne ha determinato inevitabilmente lo statuto. Nella distinzione delle opere dell’Organon che Tommaso propone nel prologo del suo Commento agli Analitici Secondi 21, ad esempio, la retorica e la poetica sono accomunate dal fatto di far uso di procedimenti discorsivi, rientrando così, a giusto titolo, nella filosofia razionale 22. Tommaso giustifica questa conclusione osservando che ogni arte riguarda atti della ragione, essendo un’arte «nient’altro è che un certo ordinamento della ragione, nel modo in cui attraverso determinati mezzi gli atti umani giungano a un debito fine» 23, e la retorica e la poetica riguardano specifici atti razionali. In particolare, entrambe le discipline vengono incluse in ciò che, sulla base della tradizione, Tommaso chiama l’ars inventiva, in quanto contrapposta all’ars iudicativa. Seguendo l’articolazione proposta da Tommaso, emerge con chiarezza la subordinazione della poetica e della retorica alla logica, ma anche, di riflesso, la rivalutazione che Tommaso compie di queste discipline. Modificando la divisione tradizionale, seguita ad esempio da Avicenna e Alfarabi, che collocava la retorica e la poetica a completamento dell’Organon, Tommaso preferisce seguire Simplicio, Gundissalino e Averroè, collocando di conseguenza la retorica e la poetica tra la topica e la sofistica. Così facendo, Tommaso riconosce al ragionamento retorico e poetico un grado, seppur 33 minimo, di razionalità e certezza conoscitiva. I procedimenti poetici e retorici risultano, così, discorsivi sebbene non assertivi (a differenza di quelli sillogistici) e incapaci di suscitare una credenza od opinione stabile nell’uditore (a differenza di quelli topici), ma non per questo puramente sofistici 24. Accomunate per il comune procedere razionale e la comunque marginale scientificità, le due discipline sono distinte da Tommaso per il grado di certezza i cui ragionamenti possono determinare. Tommaso collega la retorica, in ossequio alla tradizione, al parlare correttamente al fine della persuasione (la retorica non è quindi una disciplina primariamente morale né giurisprudenziale) 25 e stabilisce che essa perviene a suscitare non più che una debole adesione, una sorta di diffidenza (suspicio), nell’uditore, per quanto questi sia portato a inclinare più verso una che non verso l’altra parte di un’alternativa contraddittoria 26. La poetica, invece, può suscitare nell’uditore solo una certa valutazione soggettiva (æstimatio) rispetto a una delle due parti della contraddizione, in virtù della sua rappresentazione, così come se si rappresenta un cibo sotto forma di cosa riprovevole questa rappresentazione suscita un senso di riprovazione nell’uomo 27. A differenza di una rappresentazione pittorica standard, quella poetica prescinde da un criterio stretto di somiglianza. I poeti mirano alla rappresentazione in quanto tale, rappresentano per il gusto di rappresentare, essendo il diletto della rappresentazione – determinato dalla pratica di fare inferenze (collationes) dalla rappresentazione al rappresentato e viceversa – radicato nella natura umana 28, e nel contempo svolgono, come i retori, una funzione educativa ed etico-politica nella misura in cui inducono i fruitori delle loro rappresentazioni a seguire la virtù e ciò che è decoroso e ad abbandonare il vizio e ciò che è turpe 29. Come aveva notato Averroè, il linguaggio poetico non è assertivo ma immaginativo e rappresentativo 30, quindi chi si trova di fronte a un enunciato poetico si limita a reagire con una sorta di semplice valutazione soggettiva rispetto all’alternativa posta dalla contraddizione 31. Le precisazioni che Tommaso avanza sulla poetica devono essere lette alla luce della sua esigenza di differenziare poesia e Sacra Scrittura. Tommaso sapeva, infatti, che le due discipline potevano apparire simili non solo perché entrambe fanno uso di metafore e figure 32, ma anche perché entrambe si occupano di oggetti in qualche misura trascendenti l’esperienza. In base a questa somiglianza, qualcuno poteva essere portato ad attribuire al linguaggio poetico quel sovrasenso spirituale (allegorico, morale, anagogico) tradizionalmente attribuito al linguaggio scritturale 33. Il modo in cui Tommaso differenzia le due discipline getta luce sullo statuto che Tommaso accorda alla poesia. Secondo Tommaso, l’uso di metafore è il tratto distintivo del linguaggio poetico 34. Tuttavia non vi è niente di illecito o irragionevole nel fatto che anche il linguaggio 34 scritturale faccia uso di similitudini e parabole 35. Entrambi i linguaggi, infatti, si riferiscono a enti, eventi o stati emozionali che eccedono la ragione e che non risultano perciò significabili in quanto tali. Da questo punto di vista, può essere concesso che poesia e Sacra Scrittura siano accomunate dall’impiego di un linguaggio segnatamente simbolico (modus symbolicus) 36. Ma da ciò nessuno è tenuto a inferire che possa essere accordato al linguaggio poetico anche un senso spirituale oltre quello letterale. La ragione di questa limitazione è che nessuna rappresentazione poetica, così come nessuna rappresentazione scritturale, ha in quanto tale la possibilità di andare oltre il significato letterale delle parole che essa impiega, dal momento che, primo, le rappresentazioni linguistiche si servono di segni e che, secondo, i segni sono stati scelti convenzionalmente e imposti per significare nient’altro che ciò che significano. Ne consegue che in una rappresentazione poetica e scritturale significato letterale e significato metaforico si subordinano e, parzialmente, si sovrappongono. Le metafore si configurano come similitudini che partendo da cose visibili conducono a cose invisibili, secondo una certa corrispondenza di alcune, selezionate proprietà che i due estremi della similitudine sono ritenuti condividere 37. Quanto al senso letterale delle parole, perciò, Sacra Scrittura e poesia non possono diversificarsi. La Sacra Scrittura, tuttavia, si riferisce a cose che a loro volta significano, mentre ciò non può accadere per la poesia. E con senso spirituale si intende precisamente questo: la proprietà delle cose, come rispecchiate nelle parole, di significare altre cose 38. In conclusione, linguaggio e stile possono talvolta coincidere, ma poesia e Sacra Scrittura si distinguono con il variare dell’intenzione con cui le parole sono impiegate. Per lo più, la poesia tende a riprodurre, tramite le sue rappresentazioni linguistiche, cose meravigliose o rare, incitando gli uomini alle virtù (sia intellettuali sia pratiche), la Sacra Scrittura ovviamente fa uso di rappresentazioni per un fine escatologico e soteriologico 39. Alcuni dei tratti dell’estetica tommasiana che abbiamo brevemente richiamato sopra sono stati studiati, altri invece rimangono nell’ombra. Mi sembra che ci sia ancora molto lavoro da fare sul versante della ricostruzione delle teorie medievali della rappresentazione applicate al campo pittorico e poetico, così come mancano adeguati approfondimenti sulle teorie medievali dei colori rispetto alla percettibilità sensoriale del colore e alla conseguente relazione del colore con il sentimento del bello 40. Credo che una via da seguire, e privilegiare, nella ricostruzione delle riflessioni estetiche medievali possa essere quella di reimpostare l’indagine storica sulla bellezza come ricerca filosofica sui rapporti tra una rappresentazione, sia essa pittorica o poetica, il soggetto che la ha intenzionalmente espressa e l’oggetto cui la rappresentazione si riferisce. In quest’ottica, risulta interessante e filosoficamente 35 fruttuoso precisare i valori e gli stati cognitivi che un filosofo medievale è disposto ad attribuire e associare alle rappresentazioni artistiche in genere. Tommaso, ad esempio, riconosce al linguaggio pittorico e poetico una comune radice rappresentazionale e una comune capacità di indurre nello spettatore-ascoltatore un sentimento di piacere o diletto, attribuendo alla rappresentazione pittorica o poetica in particolare una rappresentatività naturale che ne determina interamente, rispetto a un dato codice linguistico, il contenuto e valore semantico. Ogni rappresentazione, infatti, è vista essenzialmente come un segno complesso, composto di altri segni, capace di riferirsi di per sé a qualcos’altro, indipendentemente dall’intenzione dell’artista 41. Rispetto tuttavia al produttore o al fruitore dell’opera, la rappresentazione artistica si profila come un meccanismo tecnicamente elaborato di rappresentazione della forma di un oggetto, di un evento o, in generale, di una qualsivoglia esperienza, rappresentazione che necessita per essere decodificata di una chiave interpretativa più o meno immediata. Ciò che distingue la rappresentazione per parole, in genere, da quella per immagini è proprio l’immediatezza della decifrazione 42. Da un punto di vista cognitivo, la rappresentazione poetica, essenzialmente metaforica, introduce un fattore addizionale rispetto a quella pittorica, perché le rappresentazioni poetiche in quanto poetiche non si limitano a significare le cose (spesso inesistenti) che sono ricavabili dal significato proprio dei termini, quanto piuttosto altre cose con le quali le cose significate dai termini stanno in un selezionato rapporto di similitudine 43. Poter provvedere un trattamento unificato del linguaggio poetico e pittorico in termini rappresentazionali potrebbe gettare nuova luce sul modo in cui i maestri medievali hanno affrontato, nel caso, l’affascinante problema dell’intertraducibilità tra pittura e poesia. 1 Per un’introduzione all’estetica medievale, si vedano M. T. Fumagalli Beonio Brocchieri, L’estetica medievale, Bologna, Il Mulino, 2002 e, soprattutto, U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Milano, Bompiani, 1987, cui rimando per ulteriori riferimenti bibliografici. Quanto alle risorse in rete, si può consultare la voce Estetica Medievale, curata da G. C. Garfagnini, sul sito http://www.italicon.it, sezione “Filosofia”. 2 Su questo aspetto si può vedere M. Bettetini, Il lecito piacere della finzione artistica, in M. Bettetini - F. �������������������������� D. Paparella (a cura di), La felicità nel Medioevo, Louvain-La-Neuve, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, 2005, pp. 53-67. 3 Per una presentazione d’insieme dell’estetica di Tommaso d’Aquino, si vedano M. de Wulf, Études historiques sur l’esthétique de St. Thomas d’Aquin, Louvain, Institut Supérieur de Philosophie, 1896; F. J. Kovach, Die Ästhetik des Thomas von Aquin, Berlin, De Gruyter, 1961; U. Eco, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, Milano, Bompiani, 1970. 4 Cf. Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, i, 11, e II, 5. Per i passi di Agostino, cf. De musica, vi, 13, 38, e De civitate Dei, xxii, 19, 2. Cf. anche Epistulæ, 3, 4, e Super Genesim ad litteram, iv, 3. 5 Cf. Scriptum super Sententias, i, d. 3, q. 2, a. 3, expositio textus: «Pulchritudo 36 consistit in duobus, scilicet in splendore, et partium proportione»; d. 31, q. 2, a. 1: «Ad rationem autem pulchritudinis duo concurrunt, secundum Dionysium, scilicet consonantia et claritas… His duobus addit tertium Philosophus ubi dicit, quod pulchritudo non est nisi in magno corpore». Cf. anche Summa Theologiæ Ia, q. 39, a. 8; iiaiiae, q. 145, a. 2; Super De divinis nominibus, c. 4, lec. 5; Sentencia libri Ethicorum, i, lec. 13; Super Psalmos, 44, 2. 6 Sulla nozione di consonantia, si vedano Sentencia libri De anima, i, lec. 9; ii, lec. 18-19; Sentencia libri De sensu et sensato, i, lec. 17; Expositio libri Posteriorum, i, lec. 15; Super De div. nom., c. 4, lec. 5. 7 I due termini sono pressoché sinonimi in Tommaso (cf. e.g. Super Sent., iv, d. 44, q. 2, a. 4, qc. 2). Sul significato del termine splendor cf. Super Sent., ii, d. 13, q. 1, a. 3. 8 Cf. Quaestiones de veritate, q. 25, a. 1; Sent. De an., ii, lec. 22. 9 Sulle nozioni trascendenti in epoca medievale, si veda J. Aertsen, Medieval Philosophy and the Transcendentals: the Case of Thomas Aquinas, Leiden-New York-Köln, Brill, 1996. 10 Cf. e.g. Sum. Theol., ia, q. 5, a. 4, ad 1. 11 Cf. Sum. ������ Theol., ia-iiae, q. 27, a. 1, ad 3. 12 Cf. Super Sent., iii, d. 26, q. 1, a. 3; iv, d. 48, q. 1, a. 4, qc. 3, ad 2; Qu. de ver., q. 26, a. 4, ad 7; Postilla super Psalmos, 8, 1; Sum. Theol., iaiiae, q. 32, a. 5; q. 41, a. 4 e ad 4; iiia, q. 15, a. 8; Sent. ����������������� De sensu et sens., ii, lec. 3. 13 Cf. Super De div. nom., c. 5, lec. 4. 14 Ibidem. 15 Si confrontino, ad esempio, Sum. ������ Theol., ia, q. 39, a. 8, e De 108 articulis, q. 1. 16 Sul valore rappresentativo delle immagini, si vedano Super Sent., i, d. 28, q. 2, a. 1 ss.; Qu. de ver., qq. 2, a. 3; 4, a. 4, ad 2; 8, a. 5; 22, a. 14; 23, a. 7, ad 11; Sum. Theol., ia, q. 93. 17 Per un’introduzione generale alla retorica e alla poetica nel Medioevo, si vedano C. Marmo, Retorica e poetica, in L. Bianchi (a cura di), La filosofia nelle Università. Secoli xiii-xiv, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 141-62, e G. Dahan-I. Rosier-Catach �������������� (éds.), La Rhétorique d’Aristote: traditions et commentaires de l’Antiquité au xviie siècle, Vrin, Paris 1998, ai quali rinvio per ulteriori riferimenti bibliografici. 18 Non tutte le divisioni delle scienze includevano però la poetica tra le discipline logiche. Per �������������������������������������� una panoramica, si veda G. Dahan, Les classifications du savoir aux xiie et xiiie siècles, in L’enseignement philosophique 40/4 (1990), pp. 5-27. 19 Cf. De arte poetica, in Aristoteles Latinus, t. xxxiii, ed. L. Minio-Paluello, Leiden, Brill, 1968, p. 41. Su ������������������������������������������������������������������ retorica e poetica nella filosofia araba, si veda D. L. Black, Logic and Aristotle’s Rhetoric and Poetics in Medieval Arabic Philosophy, Leiden, Brill,1990. 20 Entrambe sono state pubblicate in G. Dahan, Notes et textes sur la poétique au Moyen Âge, in Archives d’Histoire Doctrinale et Litteraire du Moyen-Age 47 (1980), pp. 172-93. 21 Cf. Expositio libri Posteriorum, i, 1 (proemium), in Opera Omnia, t. i* 2, ed. R.-A. Gauthier, Roma-Paris, Commissio Leonina-Vrin, 1989, pp. 3-7, ll. 1-123. 22 Ivi, pp. 6-7, ll. 118-120. Si ������������������������������� veda l’apparato delle fonti ad lineas. 23 Ivi������������������������� ���������������������������� , p. 3, ll. 9-12 e 24-31. 24 Ivi, p. 3, ll. 9-12. Cf. ���������� anche Sent. Ethic., ix, lec. 7. 25 Sebbene il diritto, l’etica e la politica siano i suoi ambiti di applicazione più naturali (cf. Sent. Ethic., ������ i, lec. 3). Cf. Super Sent., iii, d. 33, q. 3, a. 1, qc. 4; Sum. Theol., iiaiiae, q. 48. 26 Cf. Exp. Post., I, 1 (proemium), pp. 6-7, ll. 107-111. 27 Ivi, p. 7, ll. 111-118. 28 Cf. Sum. Theol., iaiiae, q. 32 a. 8; iiaiiae, q. 94, a. 4; Super Corinthios, c. 11, lec. 1; Averroè, In Poetriam, in Aristoteles Latinus, t. xxxiii, pp. 44-45. 29 Cf. Exp. Post., i, 1 (proemium), p. 7, ll. 116-118; Super Timotheum, c. 4, lec. 2; Expositio libri Peryermenias, i, lec. 7; Averroè, In Poetriam, pp. 43-44. 37 30 Cf. In Poetriam, p. 42. Si noti che la versione latina di Ermanno il Tedesco aveva reso il termine arabo equivalente al greco mimesis con repraesentatio piuttosto che con imitatio. 31 Sul rapporto tra aestimatio e suspicio. ��������� Cf. e.g. Qu. de ver., q. 26, a. 8, ad 3. 32 Cf. Sum. Theol., ������ Ia, q. 1, a. 9, arg. 1; iiaiiae, q. 94, a. 1; Quodlibet vi�i, q. 6, a. 3, arg. 2. 33 Cf. Super Meteora, ii, c. 1; Sent. ����� Phys., ii, lec. 2; Sent. Met., I, lec. 3-4. 34 Cf. Super Meteora, II, lec. 5; Sent. Pol., III, lec. 1; Super Iob, c. 3. 35 Cf. Sum. Theol., ia, q. 1, a. 9. 36 Cf. e.g. Super Sent., i, prol., q. 1, a. 5, ad 3; Sum. Theol., iaiiae, q. 101, a. 2, ad 2. 37 Cf. Super Sent., i, d. 34, q. 3, a. 2, ad 3; Qu. de ver., q. 7, a. 2; Super Iob, c. 2, lec. 3; Sum. Theol., ia, q. 1, a. 9, ad 3; Super Galatos, c. 4, lec. 7; Quod. vii, q. 6, a. 3, e a. 3, ad 2. 38 Cf. Sum. Theol., ia, q. 1, a. 10; Quodlibet vii, q. 6, a. 1; Super Galatos, c. 4, lec. 7. Non ������������������������������������������������������������������������������������� mi pare che le osservazioni sul rapporto tra senso spirituale e sapere teologico costituiscano una liquidazione di fatto dell’allegorismo universale tipico della cultura medievale, come U. Eco assume (cf. Arte e bellezza, p. 97). Esse anzi ribadiscono l’allegorismo universale, precisando i livelli di significazione rispetto alle diverse forme di linguaggio. 39 Cf. Sum. ������ Theol., ia, q. 1, a. 9, ad 1; iaiiae, q. 32, a. 8. 40 In quest’ottica, risulta molto interessante, per quanto poco studiato, il commento di Tommaso a quei capitoli del De sensu et sensato dedicati al colore (i, lec. 6-8, e ii, lec. 3). 41 Cf. Sum. Theol., iiaiiae, q. 110, a. 1, e Super Psalmos, 26,6. 42 Cf. e.g. Qu. de ver., q. 7, a. 1, ad 14. 43 Cf. Super Sent., i, d. 16, a. 1, a. 3, ad 3; Sum. ������ Theol., ia, q. 17, a. 2, ad 2. 38 De la poésie comme réponse à la nuit L’union du dire et du voir di Baldine Saint Girons 1. La poésie me semble d’abord et avant tout une réponse à l’expérience de la présence – un effort pour la soutenir, la célébrer et la mémoriser – mais cette réponse est aussi admirable qu’éphémère et périlleuse. Car, en interprétant la présence et en la restituant par des mots, la poésie risque aussi de sacraliser la lettre et de faire oublier le réel au profit de ce qu’Yves Bonnefoy appelle «un château de présence, d’immortalité, de retour» 1. Or, la poésie dont nous avons besoin aujourd’hui n’est plus une poésie qui s’évade dans une forteresse de paroles et se mette à l’abri des dégradations du réel. La poésie d’aujourd’hui, c’est-à-dire sans les dieux, affirme bien plutôt l’ici et le maintenant avec leur âcre goût de mortalité. Elle célèbre d’autant mieux la splendeur qu’elle en sait le miracle et l’absence de durée. Baudelaire nous apparaît comme le poète de la modernité par excellence dans la mesure même où il cherche «à faire dire au poème cet extérieur absolu, ce grand vent aux vitres de la parole, l’ici et le maintenant qu’a sacralisés toute mort» 2. Et il lui est revenu de créer un nouveau mythe, en donnant à «la passante» un être d’autant plus inoubliable qu’il disparaît aussitôt, et en lançant une nouvelle muse, «Modernité», mixte poignant de mode et d’éternité, d’éphémère et d’intemporel. La rue assourdissante autour de moi hurlait. Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse, Une femme passa, d’une main fastueuse Soulevant, balançant le feston et l’ourlet. Agile et noble, avec sa jambe de statue. Moi, je buvais, crispé comme un extravagant, Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan, La douceur qui fascine et le plaisir qui tue. Un éclair… puis la nuit! – Fugitive beauté Dont le regard m’a fait soudainement renaître, Ne te verrai-je plus que dans l’éternité? Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être! Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais, Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais! 3. 39 Dans la poésie moderne, on rencontre moins des images que des apparitions, des phantasiai. Il faut si possible reprendre on la traduction de phantasia par apparition que propose Jackie Pigeaud chez Longin. Car le sublime me semble de plus en plus un problème de vitesse: il passe aux trois sens du mot: traverse des obstacles, apparaît fugitivement et se fait moins accepter qu’admettre. Chez Baudelaire, l’apparition surgit pour s’évanouir aussitôt et induire le sentiment de l’irréversible. Nous ressentons alors les dures rafales d’un réel qui impose sa loi; et la poésie reprend nécessité et saveur, en s’écartant d’un esthétisme qui serait hors du temps. Il y a lieu de se moquer avec Benjamin Fondane des théoriciens du plaisir et du divertissement. L’essentiel, c’est la puissance inouïe de la poésie à l’état naissant: Ouvrons les yeux: la poésie est un besoin et non une jouissance, un acte et non un délassement; le poète affirme, la poésie est une affirmation de la réalité. Quand nous écoutons une œuvre d’art, nous ne contemplons pas, ni ne jouissons, nous affirmons ce que tout le long de la journée nous avons nié honteusement: la pleine réalité de nos actes, de notre espoir, de notre liberté, l’obscure certitude que l’existence a un sens, un axe, un répondant 4. Fondane dit admirablement le besoin et l’espoir; mais la poésie est-elle capable d’y répondre sans nous bercer d’illusions nouvelles qui rendront le réel encore plus gris? Ses affirmations ne sont-elles pas des mensonges? Que la poésie ne soit pas innocente, qu’elle atteigne la démesure, les mythes grecs l’attestent: Orphée est dépecé par les bacchantes, Amphion succombe à la folie, Marsyas se fait écorcher vif. Aux mythes de châtiment correspondent, en outre, des mythes de naissance proprement dramatiques: l’art poétique doit sa naissance à un malheur ou un viol. Syrinx ne devient roseau et instrument de musique que pour échapper à l’étreinte physique de Pan qui invente sa flûte en écoutant le végétal agité par les vents; Procné ne devient rossignol qu’après avoir tenté de venger sa sœur Philomèle, violée et privée de langue par Tirée. Le malheur ne guette pas seulement le poète accompli: il rend parfois poète. Il n’est pas seulement rançon de la poésie: il est sa condition de possibilité. L’intitulé du présent colloque explicite bien le défi essentiel: dire l’expérience, y réussir. Car cela signifie non pas nier le terrible, mais saisir son lien à la vie; non pas céder au désenchantement, mais y voir le corrélat de l’enchantement. «Ce n’est que ça», mais «c’est ça». On pourrait retrouver par ce biais le problème que nous a légué Aristote. La mimèsis dont il s’agit dans l’art n’est pas celle de l’essence, mais d’un réel foncièrement vivant, toujours changeant, soumis à la mort, dont il importe d’extraire ou d’inventer la poésie profonde. Dans l’art et dans la poésie, il en va de notre rapport au réel de l’expérience. Mais de la sorte, l’art et la poésie ne font pas que répondre au 40 réel en l’imitant: ils en répondent, s’en montrent responsables, se portent garants de sa splendeur ou de ce que j’ai appelé «l’éclat de l’insaisissable». Quoi de plus mystérieux que le rire, et surtout le rire d’assentiment? Celui-ci est peut-être le germe poétique par excellence, la forme embryonnaire de la reconnaissance et de la louange, car il surgit à même la vie cosmique, comme pourrait témoigner le premier sens du verbe grec gelaô: non pas «rire», mais «briller, resplendir». Lorsque «toute la terre resplendit de l’éclat étincelant de l’airain» chez Homère (Iliade xix, 362), lorsque «la demeure resplendit de l’éclat des déesses» chez Hésiode (Théogonie, 40), lorsque «le ciel et la terre resplendissent du parfum des fleurs» dans l’Hymne à Déméter, il s’agit bien de «resplendir» et il n’y a pas de métaphore. Cela signifie que le rire se trouve in statu nascendi dans l’étincellement cosmique ou, peut-être même davantage, que le cosmos rit avant même que l’homme ne rit. Gelaô peut ainsi, être rapproché de galênê, le calme de la mer ensoleillée. Et le syngelasai, le rire avec, est d’abord à prendre dans ce contexte: nous rions à la nature, au ciel, à la terre, à l’océan. La poésie, tout entière, pourrait être contenue dans ce rire initial et ne faire que développer le langage qui s’y trouve inclus in nuce. Seulement, le dire poétique apparaît alors non seulement comme une réponse au cosmos, mais comme un acte qui interprète sa présence en s’en portant responsable. Ce n’est pas un simple geste, c’est un acte et, même davantage, un façonnement d’œuvre. Cet acte et ce façonnement, je voudrais le comparer à ceux de la peinture. Car la peinture, elle aussi, dit l’expérience, bien qu’en l’absence de mots. Si son travail aboutit à montrer le monde autrement et à modifier, si peu que ce soit, notre rapport au visible, la question demeure: le peintre regarde-t-il pour peindre ou peint-il pour regarder? L’expérience qu’il dit est-elle d’abord optique ou d’abord viscérale, sentie comme un spectacle ou comme un rythme qui s’empare de lui? Fiedler ou Ervin Strauss ont bien montré le rôle prééminent d’un sentir délivré de la perception et Strauss a fait du «mouvement présentiel» une détermination qui relève d’un mode acoustique (et non optique) de la spatialité. Mais encore faut-il se garder réduire le sentir à une structure originaire: il faut réinjecter la technique dans les gestes, comme l’ont montré Marcel Mauss, en étudiant les «techniques du corps», ses habitus fondés sur un apprentissage, ou Walter Benjamin, en fondant le mouvement expressif sur un jeu langagier, ouvert sur la créativité. Le musicien, le danseur, le peintre font des expériences dont il faut comprendre la technique pour en ressentir pleinement la force. Que fait maintenant le poème? Il ne représente pas plus un monde pérenne et déjà connu que ne le fait le tableau; il ne se contente pas de communiquer une pensée toute faite: il pense le monde autrement et agit, si peu que ce soit, sur notre pensée. Qu’est-ce donc qui meut le poète? Encore moins que le peintre, ce ne saurait être strictement 41 une vision: il s’agit plutôt d’un désir d’explorer avec des mots son rapport au monde, à autrui, à lui-même. Dire l’expérience, ce n’est alors pas dire une expérience préexistante; c’est continuer à expérimenter. La peinture et la poésie peuvent ainsi se présenter comme des façons de penser en acte, dont le mode d’action reste peu clair et partiellement imprévisible, alors même qu’il se fonde sur des techniques très précises. Telle est, me semble-t-il, la leçon que nous donne Longin: dans le sublime, c’est grâce à la technique et à la capacité d’en faire oublier les ressorts que la pensée conquiert sa puissance la plus haute. Et c’est à ce moment-là qu’elle peut engendrer le choc, l’ekplexis poétique. 2. Si la poésie et la peinture répondent à l’énigme de la présence et répondent d’elle, il me semble qu’elles s’adressent particulièrement à la nuit et la prennent en charge. Il s’agit, en effet, dans chacun de ces cas, d’une gestation lente, difficile et cachée, selon une technique à la fois immémoriale et nouvellement raffinée. La nuit est gravide, l’art est gravide. Quand la poésie s’adresse à la nuit, elle se fait grosse non seulement de la parole, mais de la vision spécifique que suscite la nuit: l’écoute se transforme en réponse, et le regard en invocation. Mieux, la poésie accorde parole et regard; elle retrouve l’union profonde du dire et du voir 5. Allocutaire privilégié et miroir en morceaux, la nuit est la figure de cet Autre, auquel nous en appelons directement. Ni la nuit, ni la poésie ne sont les symboles de l’Autre: elles assurent au contraire la rencontre avec l’Autre, elles sont des véhicules de sa manifestation. Par mimétisme avec la nuit, l’art se fait enceint; et ses fruits peuvent alors apparaître comme des «morceaux de nuit». La nuit peint et il y a donc des techniques de la nuit que la peinture de la nuit retrouve, voilà la découverte qui a donné son impulsion à mon dernier livre, Les Marges de la nuit. La nuit suscite l’envie de la mettre en mots et en musique, pas seulement en tableau; mais mots, musique et tableau, en amont de l’acte artistique, motivent le désir. Car, comme nous sommes des êtres de langage, les mots et leur musique interviennent toujours plus ou moins dans les sensations que nous éprouvons. Reste que les interdits auxquels se soumettent le poète et le peintre sont différents: le premier fait comme s’il avait les yeux vides, le second comme s’il avait les lèvres coupées. L’un oublie qu’il est capable de peindre et dessiner, l’autre qu’il sait s’exprimer oralement. Mettre en rapport un texte littéraire et un tableau exige donc une grande prudence méthodologique. Le poète peut vouloir devenir un iconographe (eikonographos); mais ce qu’il suggère par des mots à notre seule vue intérieure n’est pas la même chose que ce que le peintre donne à notre vue extérieure et intérieure. Et, inversement, le peintre peut vouloir devenir un poète, mais ce qu’il suggère par les signifiants plastiques est 42 d’un autre ordre que ce que le poète fait entendre par des signifiants verbaux. Léonard de Vinci ironisait déjà: Appelles-tu la peinture “poésie muette”», le peintre peut qualifier de “peinture aveugle” l’art du poète 6. De fait, il est significatif qu’on reproche rarement à la poésie son aveuglement, alors qu’on tend à faire du mutisme une spécificité au fond bien contestable de la peinture. Or, de même qu’il y a une vision inhérente aux mots (un voir propre à la lexis qui conduisait Aristote à considérer la tragédie d’abord comme un texte lu et à réduire donc le rôle de la mise en scène), il y a un type de discours produit par la seule peinture, dans lequel les directions de l’imagination, ses points d’appui, d’arrêt, de rebroussement sont bien spécifiques. C’est donc la peinture, mais d’abord la photographie, que nous allons d’abord privilégier, pour aller à la rencontre de la nuit cosmique, dans l’espace hypétral. Entre visible et invisible, nous traquerons le désir en cherchant à comprendre comment il se hisse à une expression qui, pour n’être pas verbale, n’en est pas moins rigoureuse. Soit une photographie de Sugimoto: Bass strait, Table cape, 1997. Les marges du ciel s’y agrandissent sans fin, vérifiant la formule de Claudel: «Où le soleil se cache, éclate le ciel» 7. Sugimoto a expliqué qu’il avait cherché toute sa vie à répondre à la question suivante: «Peut-on voir, aujourd’hui, un paysage comme un homme primitif 43 le faisait?» 8. Il prit pour medium la photographie, parce qu’elle lui permettait une vision calme et prolongée, rarement possible dans la vie ordinaire. Et il privilégia le grand angle, augmenta les temps de pause et déclencha l’obturateur le plus tard possible. Tel est le cas ici. Un ciel d’hiver, complètement noir, occupe la moitié du tableau ; mais la lumière, issue d’une source invisible, frémit sur l’eau et prend un éclat d’une douceur envoûtante. La nuit se mire et se contracte sans rien perdre de son infinitude. Faisant preuve d’un dépouillement accordé à la sensibilité moderne, l’art de Sugimoto utilise les leçons de la gravure à la manière noire, dont la photographie et le cinéma se sont réclamés à leurs débuts: un art fondé sur le contraste ou plutôt sur la collision entre noir et blanc. Aucun des deux protagonistes ne triomphe durablement. La mise en valeur est réciproque et l’échange des rôles toujours possible. Soit maintenant un tableau du Greco qui célèbre non la nuit cosmique, mais ce que j’appellerai “le mystère du feu” (Allégorie, vers 1585) 9. Les commentateurs prirent longtemps à la lettre la formule d’un inventaire du xviie siècle, dans laquelle on interprétait le personnage central comme une femme. Or, celui-ci est en fait la reprise du Garçon allumant une bougie, peint à Rome dix bonnes années plus tôt 10, dans le cercle du cardinal Farnese et sous l’inspiration possible de Fulvio Orsini. Le défi était de reproduire l’original antique perdu d’Antiphile, évoqué par Pline l’Ancien. 44 Antiphile est renommé pour un Jeune Garçon soufflant sur un feu, tandis que le reflet éclaire la maison, d’ailleurs fort belle, ainsi que le visage de l’enfant luimême 11. Bassano peignit à la même époque un jeune garçon attisant la flamme, mais vu de profil et placé dans un tableau religieux. Le Greco semble être le premier à l’avoir présenté seul et dans une position frontale. Puis il reprit cette figure originale et l’intégra dans une toile plus grande. Mais pourquoi l’avoir accompagné d’un singe (avec ou sans chaînes, selon les versions) et d’un fou? Les commentateurs voulurent trouver une source littéraire à la composition et y cherchèrent l’application de vieux proverbes, tournant autour de l’idée qu’attiser la braise, c’est provoquer le diable. On peut cependant penser qu’il s’agit d’une invention personnelle du peintre, comme David Davies l’a d’ailleurs suggéré. Essayons donc de retrouver le mouvement d’invention du Greco, qui le fait se tourner vers la nuit. Le singe représente traditionnellement à la fois l’animalité, le mimétisme social et, depuis Titien, le mimétisme pictural (ars simia Naturæ). Le fou, lui, est peut-être le maître fantasque du singe, mais, en tout cas, un être inadapté à la vie prétendue-normale. Entre l’homme et la bête, mais aussi, peut-être, entre deux âges de la vie, le jeune garçon allume sa bougie à un charbon incandescent. Voilà qui signifie d’abord qu’il transmet le flamme d’un objet à un autre. Pourquoi chercher des symboles partout? Avant de représenter la luxure, le feu est le feu tout simplement. Unissant leurs regards sur le même objet, nos trois personnages ont, certes, l’air de conspirateurs; mais ils n’en ont que l’air; car ce qu’ils célèbrent est l’action mystérieuse du feu qui se communique à son autre dans une nuit immémoriale. L’élémentaire oublié, ou plutôt l’élémental, fait ici retour. Troisième exemple, non plus la nuit cosmique, ni le mystère du feu, mais la puissance du rêve, deviné du dehors: Le Songe de Constantin de Piero della Francesca dans le cycle de la légende de la vraie Croix d’Arezzo (1452-1466). Il me semble que cette fresque émeut par l’introduction d’un déséquilibre rarement analysé. On dit généralement que le rêve de l’empereur reste imperceptible aux assistants; mais ce n’est pas exact: un événement se produit qui propage ses ondes de choc. Et nous en avons trois indices: le soldat de droite brandit sa masse d’armes, comme pris d’inquiétude; le serviteur, vêtu de blanc, se réveille subitement, le coude encore affalé sur la couche impériale, et lève un regard ennuyé et hagard vers le soldat de gauche; celui-ci, tenant fermement sa lance, parallèle au mât et pointée tel un index vers l’ange, surgit dans un total contre-jour – peut-être le premier contre-jour de l’histoire de la peinture et certainement le plus notoire. L’état d’alerte des soldats et du serviteur, soudain éclaboussés de lumière, suppose la prise de conscience au moins partielle d’un changement de situation: que se passe-t-il ? 45 Endormi, tout juste réveillé, sur le qui-vive, vigile à son poste, les quatre personnages présentent la série complète des états de conscience. La lumière surnaturelle qui provient de l’ange blondit le casque et le haut de l’armure du soldat à la lance, fait saillir l’épaule du serviteur et argente sa tunique blanche, éclaire la banquette, rosit la literie, et va se nicher jusque sous le casque rond du soldat de droite. Bien sûr, Piero est un maître de la perspective, mais ce qui le rend inimitable est son habileté à créer un espace intime qu’il met en mouvement par la «force agissante et divinisée» de la lumière. Grâce à la nuit, l’énigme de l’événement se redouble et l’illumination pictoriale donne à voir davantage même que le rêve, le ressort du rêve: ce qui se joue dans le lieu secret où se produit l’illumination de l’âme. 3. La peinture parle, la poésie peint. L’art n’est pas seulement infu46 sion, mais effusion, au sens où saint Paul écrivait aux Corinthiens «Si nous avons été hors de sens, c’était pour Dieu; si nous sommes raisonnables, c’est pour vous» 12 et saint Bernard: «Ce qui se passe entre Dieu et moi, je puis l’expérimenter, mais non l’exprimer; avec vous, au contraire, je tâche de parlez de façon que vous compreniez» 13. Mais le génie de l’art est de nouer les temps de l’infusion et de l’effusion. D’une part, la sensation est déjà pétrie de langage; elle est interprétative et inventive, et, d’autre part, l’œuvre ne vise pas d’abord à communiquer: elle tend d’abord à traduire, à célébrer, à “dire” dans un nouveau medium ce qui se noue de fondamental dans le rapport à l’Autre. Cet Autre n’est pas un simple mixte de visible d’invisible, de dicible et d’indicible: il est le sans-fond, inlassablement fuyant, et il se dédouble entre ce qui est tourné vers nous et ce «qui n’est pas tourné vers nous» (Du Bouchet), ce qui se donne et ce qui se réserve. La Nuit est la figure privilégiée de l’Autre, parce que toujours en partance et toujours double: «nuit» singulière et nuit immémoriale. «Cette immense nuit, semblable au vieux Chaos», qu’évoque Baudelaire 14, nous projette au lieu où le temps s’abolit. «ô Nuit, tu es la nuit» 15: Dieu réaffirme chez Péguy l’unité et la dualité de la nuit: la Nuit majuscule et intemporelle, «réserve» primordiale et fondamentale de l’être, manifeste son énergie créatrice dans la succession des nuits. Aussi bien, si chaque nuit se devance elle-même dans l’opacité de sa préhistoire, nul Fiat nox ne saurait rendre compte de l’épaisseur de l’obscurité dans sa radicale précession. Mais, dans l’impossibilité de vouloir l’advenue de la nuit (Fiat nox), nous pouvons du moins souhaiter notre fusion avec elle. «Ah! fussé-je nuit!», tel est le vœu que nous nous mettons à formuler avec le Zarathoustra de Nietzsche. Mais dire la nuit, dire l’Autre, c’est toujours traduire. Comme l’a montré Emilio Mattioli, la traduction occupe une position centrale, dans la mesure où elle oblige à penser non seulement le mouvement permanent du langage (la Sprachbewegung de Friedmar Apel), mais l’efficience d’une «démonstration» qui ne passe pas seulement par les idées claires et distinctes, mais par le rythme et la prosodie (Meschonnic, Poétique de la pensée, le latin de Spinoza) et par des techniques de visualisation qui imposent la présence au-delà des simples apparences. Dans une formule célèbre, Valéry définissait la poésie par une «hésitation entre le sens et le son». Mais cette hésitation se situe aussi entre vison et voyance; ainsi pourrait-on, me semble-t-il, interpréter le poème Obsession de Baudelaire. Une impatience secoue le poète devant le bavardage des étoiles: la nuit n’y mime-t-elle pas le jour, ses mots affublés de modes d’emploi et ses regards soupeseurs d’infime? Ne devons-nous pas invectiver cette nuit qui nous prive de la vraie nuit, de la Nuit immense et unique, ouvrant mystérieusement l’espace par un mouvement qui précède toute reconnaissance et toute nomination? 47 Comme tu me plairais, ô nuit! sans ces étoiles dont la lumière parle un langage connu! car je cherche le vide, et le noir, et le nu! 16. L’homme moderne s’est fatigué du sublime de la nuit étoilée, dont la contemplation avait longtemps semblé destinée, selon la célèbre formule de kant, à remplir les cœurs «d’une admiration et d’une vénération toujours nouvelles et toujours croissantes» 17. La modernité se soucie peu des astres à la brillance ponctuelle. Elle s’émeut, au contraire, d’un regard nocturne qui rejette les œillères de la lumière physique et se moque des lignes de démarcation préconçues. Il lui faut arracher l’horizon à son sens étymologique et traditionnel de limite pour lui restituer une dimension fabuleuse 18 à la charnière du dedans et du dehors, dans l’inquiètement de l’invu. «Que les étoiles soient les yeux mêmes de la nuit est traditionnel, mais la poésie moderne de la nuit commence en rompant avec ce regard-là, en n’en voulant plus», écrit Jean-Louis Chrétien dans L’antiphonaire de la nuit 19. «Le vide, et le noir, et le nu» seraient-ils alors ces éléments dans lesquels nous aspirerions à retrouver les conditions de notre surgissement et amorcerions un retour à l’origine? Baudelaire désigne en tout cas comme objets de sa quête les trois sources successives d’angoisse du nouveau-né: le vide qui entraîne une chute sans fin, le noir qui déjoue toute capacité d’anticipation et le nu qui prive des moyens élémentaires de défense. Pourquoi une quête si négative? Sans le retour au vide, au noir et au nu, point d’advenue possible du sublime. Mais si l’on accepte l’épreuve, il arrive que la vacuité réussisse à se peupler de formes, que l’obscurité finisse par déployer ses toiles, et qu’un peuple d’ombres «aux regards familiers» émerge de la prunelle dénudée du poète: Mais les ténèbres sont elles-mêmes des toiles Où vivent, jaillissant de mon œil par milliers, des êtres disparus aux regards familiers! 20. Invoquant la Nuit, «maussade hôtesse», le poète aime, en effet, se comparer à un peintre, obligé de trouver ses couleurs sur un fond qui les nie. Mais, force est de le constater, c’est à la nuit immémoriale et infamilière que Baudelaire s’adresse contre la nuit éclairée, domestiquée et amadouée. 4. J’en viens rapidement à ma conclusion, en vous priant d’excuser le caractère un peu brouillon de cet exposé. Qu’ai-je voulu démontrer? 1) Qu’il y a un péché de la poésie, lorsque celle-ci se détourne de l’ici-maintenant pour croire au «château de présence, d’immortalité, de retour» que bâtissent les mots. 48 2) Que la poésie qui s’adresse à la nuit accorde singulièrement parole et regard, invocation et évocation. 3) Que la poésie est, comme la peinture, un moyen de voir, et qu’elle n’est pas plus aveugle que la peinture n’est muette: la poésie déploie un autre pouvoir de la vision, la voyance intérieure, comme la peinture déploie un autre pouvoir du langage, l’expressivité plastique. 4) Que la poésie, enfin, est traduction, mais traduction sans original, traduction d’un sans-fond en perpétuel mouvement: elle suppose donc un dédoublement interne, entre ce qui d’elle se révèle et ce qui, en elle, subsiste: l’œuvre. Par tous ces traits, la poésie me semble en affinité profonde avec la nuit, dont j’ai essayé dans mon dernier livre, Les Marges de la nuit, de définir l’opération à l’aide de cinq axiomes. 1) La nuit ne fait pas de nous des aveugles. La nuit n’est pas les ténèbres et parler de nuit noire n’a rien de pléonastique, puisque celleci n’est qu’une espèce parmi d’autres du genre «nuit». Le propre de la nuit est de faire jaillir la lumière avec une intensité accrue sur un fond noir qui absorbe les rayonnements et n’en réfléchit aucun. Elle ouvre une vision marginale, invente un chromatisme inédit et favorise, par les rêves et les fantasmes, une véritable «voyance» intérieure et imaginative. 2) La nuit n’est pas l’inverse contradictoire du jour. La nuit et le jour ne s’opposent pas comme de simples entités logiques, l’une excluant l’autre selon le principe de contradiction: ce sont des puissances réelles en perpétuelle rivalité, se soustrayant, mais le plus souvent se composant de diverses manières. Non contente de modifier les conditions d’exercice de notre vision, la nuit pénètre à l’intérieur de nous et nous fait ainsi tressaillir et vibrer de concert avec elle. 3) Elle rend davantage sensible les résonances. Êtres et choses ne se réduisent plus à leurs apparences, mais prennent une vie propre, mêlant leurs souffles et échangeant leurs énergies. Les images et les sons s’appellent, se répondent et s’unissent 4) La nuit n’occupe pas une position anecdotique dans la peinture, mais renverse l’idée du «tableau» et rapatrie ce qui est localement vu dans l’immensité qui l’englobe. Une autre histoire de la peinture est possible à partir d’elle : une histoire délivrée du souci premier de la figurativité et de la perspective. 5) La nuit nous rend spontanément métaphysiciens en s’imposant paradoxalement à la fois comme principe de réalité et comme principe de fiction: présence tactile qui nous pénètre et présence fantastique qui déploie songes et illusions. Pourvoyeuse d’espaces, la nuit se déplace entre les extrêmes du ciel et des enfers, du perceptible et de l’imperceptible. Accepter alors de nous y perdre et d’aller à sa rencontre, c’est aussi tenter d’assumer notre destinée, individuelle et collective. Telle me semble la poésie: elle nous éclaire autrement que par des 49 idées claires et distinctes, elle n’est pas la simple absence du discours rationnel ou du discours courant, elle multiplie les résonances, elle comprend la nécessité du dessaisissement et, enfin, elle redonne aux questions métaphysiques leur radicalité, en imposant une méthodologie d’un type original qui passe par la rencontre de l’Autre, le changement de coordonnées, l’assomption du risque de se perdre. 1 Y. Bonnefoy, L’acte et le lieu de la poésie dans L’Improbable et autres essais, Mercure de France, 1980, Gallimard, Folio essais, 1992, p. 107. 2 Ivi, p. 116. 3 Les Fleurs du mal, xciii, œuvres complètes, éd. Y.-G Le Dantec, revue par C. Pichois, Paris, Gallimard, 1961, p. 88. 4 B. Fondane, Faux traité d’esthétique, 1938, rééd. Paris, Méditerranée, 1998. 5 J.-L. Chrétien, L’antiphonaire de la nuit, Paris, L’Herne, Méandres, 1989, p. 23. 6 Léonard de Vinci, Les carnets, ii, trad. Louise Servicen, Paris, Gallimard, 1987, chap. xxviii, p. 226. 7 P. Claudel, Cantique de la rose dans œuvre poétique, Paris, Gallimard, 1967, p. 370. 8 K. Brougher et D. Elliott, Hiroshi Sugimoto, Catalogue de l’exposition de Tokyo et Washington D.C., 2006, p. 109. 9 Greco (1541-1614), Allégorie, vers 1585, Edimbourg, Galerie Nationale d’Ecosse. Il en existe deux versions, l’une à Naples, l’autre en Floride, exposées à Edimbourg en 1989. Voir le catalogue El Greco, Mystery and illumination, dir. David Davies, Edimbourg, 1989. 10 Voir E. Harris, “Spanish paintings from Morales to Goya in the National Gallery of Scotaland”, Burlington Magazine, xliii, 1951, p. 313. 11 Pline, Histoire naturelle, xxxv, 40, Paris, Les Belles Lettres, 1985, p. 119. 12 Paul, II Epitre aux Corinthiens, v, 13. 13 Sermon sur le Cantique des cantiques, 85, 14. 14 Ch. Baudelaire, De profundis clamavi, Les Fleurs du mal, cit., p. 31. 15 Ch. Péguy, Porche du mystère de la deuxième vertu, Œuvres poétiques complètes, introd. de François Porché, Paris, Gallimard, 1957. 16 Ch. Baudelaire, Les Fleurs du mal, lxxix, Obsession, cit., p. 71. 17 Critique de la raison pratique, début de la conclusion. 18 Voir M. Collot, L’Horizon fabuleux, Paris, José Corti, 1988. 19 L’antiphonaire de la nuit, Paris, éditions de l’Herne, Méandres, 1989, p. 55. 20 Ch. Baudelaire, Les Fleurs du mal, lxxix, Obsession, cit., p. 71. 50 «Ricostruire l’esperienza stessa della genialità» Il problema del genio in Joseph Louis Segond di Fabio Rossi Il concetto di genio è stato anche in Francia, con quello di gusto, uno dei concetti fondatori dell’estetica moderna, nel xviii secolo, e rimane, malgrado alcune vicissitudini che lo hanno affinato e messo in relazione con determinati fatti sia della storia 1 che della psicologia 2, uno dei concetti maggiori dell’estetica francese contemporanea. Se, come ripetutamente sostiene Annie Becq nella sua eccellente Genèse de l’esthétique française moderne 1680-1814, è possibile individuare nella «costituzione della nozione di soggetto personale creatore», di «soggetto geniale», «la condizione ideologica essenziale» all’emergenza dell’estetica moderna 3 e, pertanto, definire legittimamente quest’ultima come «estetica moderna del genio creatore» 4, l’importanza che il concetto di genio conserva nell’ambito dell’estetica francese, soprattutto tra la seconda metà del xix secolo e la prima del xx, è esemplarmente documentata dal nutrito elenco di pubblicazioni ad esso esplicitamente dedicate 5. Tra coloro che, nella prima metà del Novecento, hanno rivolto la loro attenzione al tema del genio va certamente ricordato Joseph Louis Segond. Questo tema, infatti, non solo è presente dall’inizio alla fine della sua «estetica del sentimento» 6, ma ne diventa, per così dire, il centro di interesse principale nell’opera Le problème du génie, nella quale egli si propone di «ricostruire l’esperienza stessa della genialità» 7 e di «elucidare l’enigma del genio, limitandosi a restare sul piano psicologico, [ed] evitando con scrupolo ogni esegesi trascendente del problema» 8. Ma poiché, come già abbiamo evidenziato altrove, richiamando l’attenzione su tre delle tematiche più significative del pensiero di Segond, la figura e l’opera di questo filosofo sono state pressoché ignorate in Italia e, forse, troppo rapidamente dimenticate in Francia 9, in questa sede, vorremmo sinteticamente presentare gli obiettivi e i contenuti essenziali dell’opera summenzionata. 1. Gli obiettivi – Sono ripetutamente esplicitati da Segond nel corso della sua opera 10 e, in particolare, nel primo capitolo, L’énigme du génie. Movendo dalla constatazione che «genio», «geniale», sono i termini inconsueti con i quali abitualmente «colui che interroga la 51 propria esperienza in maniera ingenua» 11 esprime esattamente «la qualità nuova» della propria sorpresa e della propria scoperta di fronte a certe opere e a certi atti che gli appaiono al di là delle sue forze e delle sue attese e che attestano la presenza in colui che ne è l’autore di una forza e di una potenza produttrici incomparabili con ciò che egli è e può fare, Segond, nella convinzione che caratteristiche quali la «diversità inconciliabile e incomprensibile», la «superiorità incomparabile», la rarità e la straordinarietà con le quali ci si rappresenta ciò che è considerato geniale «siano insufficienti forse per caratterizzarlo senza alcuna confusione possibile» 12, poiché, a suo giudizio, diversamente da quello che sembra suggerire «l’impressione diretta e ingenua», l’opera e l’atto geniali realizzano al di fuori di colui che li riconosce «l’analogo di ciò che sarebbe lui stesso se avesse la potenza d’esserlo» 13 o «il suo proprio ideale» 14, si pone, da «analista», il problema del genio, vale a dire il problema di render conto in termini intelligibili «della possibilità di qualcosa che sia analogo alla nostra potenza personale e che, malgrado questa analogia fondamentale, resti senza alcuna proporzione con la nostra potenza» 15. Cercando di rendere intelligibili l’opera e l’atto del genio, Segond si propone, in particolare, di confutare e respingere sia «una riduzione intellettualistica del genio», vale a dire la spiegazione del «razionalismo intransigente» che riduce «l’opera che chiamiamo geniale […] alla misura stessa dello spirito umano» 16, sia «l’attitudine sentimentale nei confronti del genio» 17, che, riservando un regno inaccessibile alla superiorità del genio, si risolve in «una professione di misticismo» 18. 2. L’ambito e i gradi del genio – Poiché la riduzione della cosiddetta opera geniale a un semplice meccanismo intellettuale non è egualmente verosimile per tutte le produzioni dello spirito e soprattutto poiché la nozione del genio definita in precedenza «sembra limitare l’ambito di questa potenza alle creazioni umane la cui inaccessibilità si impone al nostro sguardo con evidenza» 19, Segond, nel secondo capitolo, Le domaine du génie, cerca di mostrare la presenza del genio «in tutti gli ordini del sentimento e del pensiero». Confutando il rifiuto di Kant e di Schopenhauer di riconoscere l’esistenza del genio nell’ordine della scienza, della tecnica, della filosofia e la loro intenzione di «riservare il nome di genio a ciò che resta strettamente inimitabile per i discepoli, poiché l’avvento e l’origine non ne possono essere scomposti» 20, e, in questa prospettiva, di riconoscerne «l’esistenza e l’incondizionatezza fondamentale» soltanto nell’ambito dell’arte, Segond cerca di mostrare che «questo giudizio di Kant sembra contrario all’esperienza storica» 21. Pur ammettendo infatti, con Kant, che, se le tecniche speciali delle arti sono trasmissibili e, proprio per questo, passibili di progresso e di spiegazione razionale, «la potenza di creazione, la realtà incontestabile 52 e il ruolo originale del genio» sono non trasmissibili e irriducibili, Segond non solo fa propria la tesi di Marcel Proust che, per quanto concerne l’essenza e non i mezzi dell’invenzione artistica, sia indispensabile «riconoscere […] l’equivalenza del genio a se stesso» e con ciò «“ritrovare”, quale che sia l’epoca e la forma della sua incarnazione artistica, l’unità concreta del “tempo” in una sorta di eterno» 22, ma sostiene la validità di questa concezione proustiana tanto nell’ordine della sensibilità religiosa 23 quanto in quello dell’eroismo 24, tanto nell’ambito sentimentale (l’arte, il fervore religioso, l’eroismo) quanto nell’ambito, apparentemente opposto, dell’intelligenza (la scienza, la tecnica, la filosofia), il quale, conseguentemente, lungi dal meritare l’ostracismo che ne bandiva il genio è veramente l’ordine universale 25. Alla dimostrazione che in tutti gli ordini del sentimento e del pensiero il genio si rivela come «una sorta di assoluto spirituale» 26, «inimitabile» nel suo atto creatore e, «dovunque, egualmente distante dalla nostra esigenza di invenzione, dovunque eguale a sé» 27, Segond, nel terzo capitolo, Les degrés du génie, fa seguire l’opportuna precisazione che la sua adesione alla tesi proustiana di una «equivalenza dei tempi in una sorta di “eterno” del genio» non vuole in alcun modo significare che tutte le creazioni geniali debbano essere considerate equivalenti né che i loro creatori debbano essere situati tutti «alla medesima altezza infinita in rapporto alla nostra umiltà» 28. Considerando infatti i diversi ordini in cui si rivela la genialità dei creatori, Segond sottolinea non solo come, grazie al nostro sentimento che valuta per finezza tanto le opere e gli atti quanto i loro autori, in ciascuno di questi ordini si stabilisca una gerarchia delle espressioni geniali, ma, ulteriormente, come «ciascuno di questi creatori o quasi tutti, per quanto resti sempre situato in alto, ci appaia come ineguale a se stesso nella sua opera o nel suo atto» 29, cosicché, «dovunque, ciò che avevamo considerato come un assoluto, sempre eguale a se stesso, si rivela a noi nella sua innegabile relatività» 30. 3. Genio, talento, identificazione del genio, ammirazione, gusto – «L’esperienza sincera» dell’ineguaglianza di ogni genio agli altri e a se stesso induce Segond ad incentrare la propria attenzione successivamente sui problemi del rapporto tra genio e talento, dell’identificazione del genio, del rapporto tra il genio e colui che lo riconosce, tra genio e ammirazione. Se, per quanto concerne il primo problema, egli, pur distinguendo il genio dal talento, respinge la tesi di coloro che li oppongono per affermare la loro analogia, la loro assimilazione, e l’esistenza di un «passaggio continuo» dal genio al talento 31; relativamente al secondo, sostiene la tesi della «presenza latente», «della frequenza e perfino dell’onnipresenza del genio creatore» 32. Pur riconoscendo infatti che la genialità, anche quella per così dire d’occasione e quasi miracolosa, 53 è sempre rivelazione della potenza d’invenzione e dell’«originalità radicale di colui in cui l’ammiriamo», egli, accogliendo ancora una volta «una verità che Marcel Proust ha visto bene», ravvisa nella genialità la presenza di una duplice rivelazione: quella di una visione o di un’azione virtualmente «possibili al nostro desiderio di compimento», ma, al tempo stesso, quella dell’impossibilità, per la nostra potenza chiusa in se stessa, dell’«attualizzazione totale di questo compimento virtuale, a causa dell’originalità, foss’anche quella di un istante, di colui che realizza questa visione o quest’azione e che ce ne rivela così l’essere e il valore incomparabili». In questo senso, per Segond, «la genialità è dovunque […] sempre identica a sé per il carattere che la distingue e che sembra contraddittorio: l’inaccessibilità nell’analogia» 33. Da queste convinzioni scaturisce la definizione segondiana sia dell’ammirazione che del gusto: la prima, lungi dall’essere considerata semplicemente come «un’attitudine recettiva nei confronti del genio», è intesa come la «forma sensibile della genialità dell’ammiratore» 34; «il gusto, in ciò che ha di veramente positivo», è ricondotto alla capacità diversa che ciascuno può avere di attualizzare «la propria potenza idealizzata che ciascuno ammira» 35. 4. Il problema della spiegazione del genio – Dopo aver caratterizzato il fenomeno del genio (capitolo i), averne situato l’apparizione in ogni dominio (capitolo ii) e averne scaglionato le forme secondo la loro relatività (capitolo iii), Segond, nel capitolo quarto, Physiologie du génie, rivolge la propria attenzione «al problema […] della spiegazione del genio» 36. E poiché «spiegarlo significa certamente ridurlo ai suoi elementi, se la cosa è possibile», egli, incentrata la sua attenzione in particolare su alcune individualità geniali determinate e ragguardevoli, prende in considerazione successivamente le diverse condizioni di possibilità di una spiegazione del genio. Individuate due prime condizioni importanti, ma ancora insufficienti, non decisive, nell’ereditarietà o nelle influenze ataviche e nell’«impregnazione embrionale» o nell’influenza della vita intra-uterina, Segond sottolinea l’importanza rilevante che nella spiegazione della genialità assume la conoscenza della «cenestesi», vale a dire della «coscienza attuale, oscura del resto, che l’individuo geniale acquisisce sia della sua condizione fisiologica sia delle modificazioni di questa condizione». Grazie a tale conoscenza, infatti, e all’approfondimento che essa implica ulteriormente dei rapporti tra genio e nevrosi, genio e psicanalisi, Segond ritiene non solo di poter sostenere che, contrariamente a ciò che farebbero credere le abituali ricerche sull’ereditarietà, il genio non è semplicemente «una potenza del cervello» ma una «potenza del corpo», ma che, «forza di creazione spirituale» 37, esso debba incarnarsi non solo nel corpo ma anche nelle tare del corpo e nel sentimento che le riflette, sì da mostrasi come «il sentimento, co54 sciente o no, diretto o “sublimato”, delle “tare” che la sua originalità determina e trasfigura» 38. A questa «spiegazione parziale» del genio che ne riconduce l’«energia autonoma e irriducibile alla potenza stessa, del tutto singolare, dell’individuo» 39, Segond, nel capitolo quinto, Génie et hazard, fa seguire la considerazione del rapporto tra genio e caso, genio e circostanze fortuite. Movendo dalla constatazione che, in tutte le sue manifestazioni, «il genio, potenza di cambiamento e di progresso, ci si manifesta come invenzione reale», la quale, in tutti gli ordini, «significa […] l’incontro fecondo delle idee e la loro combinazione originale» 40, Segond si chiede se tale incontro possa essere considerato, come sostiene Paul Valéry nel Cahier B o nelle strofe dell’Aurore 41, «come semplice caso, nel quale nessuna potenza che fosse veramente originale e che si potesse ritenere misteriosa nel suo “miracolo”, giocherebbe il ruolo essenziale», o, in altri termini, se «il puro caso, e non la potenza misteriosa dello spirito che vigila», possa essere ritenuto «il signore dell’arte, qualunque essa sia, e soprattutto della grande arte» 42. Cercando di evidenziare ciò che «è implicato veramente in questa esegesi del tutto razionalistica della genialità» 43, tentata da Valéry, e della quale «il Leonardo che egli ha fabbricato, sdegnoso quale si mostra della storia e delle circostanze, è come l’immagine sia nell’Introduction à la méthode sia nello studio recente (e senza alcuna palinodia) su Léonard et les philosophes» 44, Segond, pur riconoscendo taluni aspetti positivi di questa «spiegazione intellettualistica (o che vuole esserlo)» del genio, rifiuta con decisione «l’esito di questo sforzo analitico» 45, che coincide essenzialmente con «l’ eliminazione» del «genio stesso, a titolo di potenza originale» 46. Se, infatti, a questa interpretazione egli ascrive il merito di aver posto in luce «il ruolo nell’opera geniale della coscienza contro l’abbandono all’incoscienza, della riflessione contro la “sciocchezza”, della coscienza di sé e del suo atto contro la chimera di “una comunicazione dal cielo”, in breve dell’autocritica», egli evidenzia tuttavia che questa enfatizzazione dell’«intelligibile» non può in alcun modo significare né che «questa coscienza del pensiero, assumendo se stessa per fine, si sostituisca veramente nel genio creatore, considerato come tale e non come critica di sé e del suo atto, all’opera stessa della creazione», né che «questa riflessione, che sostituisce l’intelligenza della scelta alla sciocchezza dell’occasione pura, sia creatrice della scelta a titolo di riflessione». 5. Genesi primaria, natura, atto e determinazioni fondamentali del genio – Rifiutando l’«intellettualismo estremo che Valéry ha formulato», Segond non intende certamente negare «il ruolo essenziale del caso nella creazione geniale», bensì, pur ponendolo come Valéry al principio di quest’ultima, situarlo diversamente, concependolo non più soltanto come un insieme di occasioni che apparirebbero indipenden55 temente dal soggetto creatore e che questi utilizzerebbe seguendo un disegno del tutto razionale e consapevole, ma come l’atto stesso, «personale e interiore», «veramente radicale», «che sceglie la combinazione migliore tra questa materia del caso» e che «esprime la genesi primaria del genio». Di qui l’importanza che Segond assegna, al fine della comprensione del genio, alla conoscenza, «fin dall’inizio e in ciò stesso che simula l’occasione», dell’«originalità individuale ed unica del genio» e la sua convinzione che proprio in essa e su ciò che, ricorrendo a due termini distinti, egli definisce il temperamento e il carattere trovi il suo fondamento la «potenza di creazione del genio» 47. Nel rivolgere la propria attenzione al «genio come potenza di creazione e di novità», Segond, nel capitolo sesto, non può fare a meno, tuttavia, di rimarcare l’apporto che proprio coloro che sono definiti «meditativi» o «metafisici» hanno fornito alla comprensione e alla formulazione esatta della realtà psicologica del principio del genio. Riferendosi in particolare a Kant e a Schopenhauer, egli ne riassume le tesi in quella, unica, «del “fiat” primordiale con il quale si costituisce radicalmente l’individualità di ciascuno» 48, vale a dire nell’affermazione di «una scelta rinnovata, sempre analoga», tra tutti i possibili che la diversità degli incontri continuamente moltiplica e tra tutti i casi prodotti in ogni istante dall’infinità dei contatti, scelta nella quale trova espressione il susseguirsi di un medesimo pensiero determinante 49. Ma, poiché la natura del genio è solidale alla potenza del corpo, Segond si sforza di mostrare che proprio nell’avvento di questa potenza organica deve essere individuata «la realtà del “fiat” costitutivo e la libertà radicale del genio» 50. Pur convenendo perciò con Bergson e Lachelier che il genio, «potenza di creazione e di novità», è potenza «spirituale», Segond sottolinea che «il genio è, per questo radicamento nel corpo, natura prima di tutto» e che proprio alla natura, quella che le scienze naturali cercano di spiegare alla loro maniera, deve essere ricondotta la sua genesi prima 51. Nella convinzione, pertanto, che solo un’«esegesi del genio», capace di situare la sua natura e la sua efficacia nell’organizzazione originale dell’individuo, cioè del suo corpo nel quale il suo spirito è radicato, possa renderne la genesi intelligibile, senza incorrere nel pericolo, contemplato da ogni altra spiegazione, di disincarnare il genio e di farne qualcosa di astratto, di sporadico e di arbitrario 52, Segond, interpretando in un senso finalistico certi passaggi di Claude Bernard 53, non esita a ricondurre la natura e la potenza creatrice del genio a quella del puro istinto 54, o perlomeno, a sostenere l’esistenza di un «passaggio continuo» «dalla genialità vitale, la quale è invenzione dell’organismo, alla genialità istintiva, che è invenzione di un adattamento all’ambiente, e, da questa alla genialità propriamente spirituale, che è invenzione di un’opera nella quale il pensiero dell’uomo si ritrova pienamente espresso» 55. 56 E tuttavia, proprio perché in ciascuno di questi stadi il genio si rivela sempre quale «potenza originale di organizzazione», cosciente della propria invenzione e capace talvolta di renderne conto, Segond, dopo aver sostenuto che «è esatto dire che l’istinto racchiude in sé ciò che si chiama genio» 56, ritiene di dover completare la sua spiegazione del genio affermando non solo che il genio è parimenti, «e in tutti i casi, cosciente o no, attività razionale» 57, «potenza razionale» 58, e «invenzione di quest’attività razionale e delle forme o dei prodotti nelle quali essa si incarna e si realizza» 59, ma riconoscendo ulteriormente che il genio «è più che ragione, poiché dal suo atto nasce ciò che è ragione» 60. Ora, per designare quel modo di produzione veramente originale «grazie al quale entra nel mondo del reale ciò che non aveva ancora figura di realtà», Segond fa ricorso al termine di immaginazione, intendendo con essa «l’origine di tutto ciò che è figura, sensibile o intelligibile, sconosciuta al mondo» 61. 6. Genio ed ispirazione – Per approfondire «questa spiritualità intellettuale» che costituisce lo «stadio più perfetto della creazione umana», Segond, nel capitolo settimo, prende in considerazione il problema dell’ispirazione o della «creazione prima e sentimentale, da parte del genio, di un mondo simbolico», di «un universo dei valori», e del dibattito cui esso dà luogo tra «la spiegazione dell’attività geniale attraverso il puro meccanismo intellettuale e l’affermazione, al principio di tale attività, di una potenza inconscia» 62. Considerando e confrontando la tesi romantica di «un possesso assoluto della persona dell’artista da parte di una sorta di demone ispiratore» 63, che trova espressione ad esempio nelle Contemplations di Victor Hugo 64, e quella intellettualistica di Valéry, «per il quale l’ispirazione si risolve in arrangiamenti» 65, Segond pone in luce i limiti e l’insostenibilità di entrambe queste esegesi. Se ai sostenitori della tesi del «possesso» o ai «partigiani della creazione involontaria» 66 egli fa presente il ruolo essenziale che il «controllo lucido del lavoro di composizione» riveste nei più grandi artisti e nei meglio «ispirati» 67, e se ai fautori della «creazione controllata» egli obietta che gli esempi ai quali essi fanno ricorso non permettono di «negare l’azione reale» di un’ispirazione personale, non riflessa e inconscia, dal momento che numerosi atti d’invenzione artistica sono estranei a questa composizione volontaria 68, agli uni e agli altri egli rimprovera la negazione o la confusione di due momenti ben distinti: quello della costituzione preliminare di uno stato «lirico», senza il quale non potrebbe esservi ispirazione autonoma, e quello dell’elaborazione stilizzata dell’opera nella quale quello stato si esprime 69; l’uno, coincidente con la «fase involontaria della creazione artistica, nella quale la coscienza non gioca alcun ruolo efficace», l’altro, la fase cosciente e volontaria, «nella quale l’artista è pienamente in possesso di sé e padrone della sua opera» 70. 57 Ancor più precisamente e coerentemente con le analisi svolte in precedenza, Segond, rifiutata «la tesi romantica della presa di possesso», sostiene una duplice tesi: quella dell’intelligibilità del fenomeno dell’ispirazione 71, della quale individua il «segreto» non tanto nelle costruzioni mentali dei «puri logici» ma «nella cenestesi dei creatori e nelle sue risonanze spirituali» 72, e quella dell’«intelligibilità integrale dell’opera d’arte fino al principio irriducibile di creazione individuale» 73. Alla luce di esse, pertanto, egli, respinta in definitiva ogni distinzione di momenti, fasi e metodi, ritiene di poter affermare non solo che «la potenza originale e singolare che chiamiamo genio, se è libertà radicale e invenzione assoluta, non ha il suo luogo da alcuna parte e la sua azione in alcun istante, perché essa è immanente nella sua opera e non accantonata nei limiti di un vago presentimento» 74, ma anche che, «pur cosciente, nel momento in cui appare, nello spirito che la vede nascere e che la giudica, ogni invenzione, in quanto tale, proprio perché apporta ciò che non era, è dunque originalmente e radicalmente inconscia» 75. 7. L’impersonalità del genio – Non ci soffermeremo sul contenuto dei capitoli ottavo e nono, nei quali Segond, considerando «il genio vitale e indiscutibile nell’efficacia [della sua opera]» 76, le condizioni che essa postula e i mezzi della sua realizzazione, analizza il rapporto tra genio, cultura e tecnica, ma ci limiteremo piuttosto a richiamare l’attenzione sul problema che, a conclusione della sua ricostruzione dell’esperienza della genialità, Segond affronta nel decimo ed ultimo capitolo della sua opera, vale a dire quello dell’«impersonalità del genio», al fine di evidenziare come la soluzione da lui propostane separi ancora una volta la concezione segondiana del genio da quella di Schopenhauer, il quale «riconduceva l’arte alla contemplazione pura e il sentimento dell’artista creatore a un’intuizione desoggettivizzata» 77, e dei fautori di «un intellettualismo estremo» 78. A quanti misconoscono «il principio personale» della genialità Segond ricorda infatti che, come hanno evidenziato le sue analisi precedenti, «ciò che è al principio del genio, in ogni ambito, è […] il temperamento, nel senso completo del termine» 79, e che, se il genio (specie quello degli scienziati, dei tecnici dell’industria, dei filosofi) può essere «impersonale per i suoi risultati, non lo è per il suo principio, il quale è tutto di passione» 80. In coerenza con questa tesi e al fine di documentare l’inesattezza della «pretesa all’impersonalità del genio» in tutti i campi, Segond pone in luce successivamente che il genio «è sempre – scientemente o no – affermazione di sé» e, per questo, «aristocratismo» 81; che questo aristocratismo «è naturalmente autoritario, un’autentica tirannia» 82, e, in quanto tale, «negazione d’altri» 83; che il genio «instancabilmente si orienta verso se stesso», animato, come ben rivela il mito di Narciso 84, 58 da un’inquietudine essenziale, da un bisogno inappagato di creazione ulteriore, da un’inquietudine indefinita di realizzazione, che vanifica, come in Faust, ogni possibilità di arrestarsi e di accontentarsi, e nei quali trova espressione il suo desiderio di «rifugio nell’eterno» 85. 1 Cfr., per esempio, E. Zisel, Le Génie. ������������������������������������������ Histoire d’une notion de l’Antiquité à la Renaissance, traduit de l’allemand par M. Théver, Préface de N. Heinich, Paris, Les Éditions de Minuit, 1993; A. Philonenko, Relire Descartes, le génie de la pensée française, Paris, J. Grancher éditeur, 1994; J. Attali, Blaise Pascal ou le génie français, Paris, Fayard, 2000; M. Guénaire, Le génie français, Paris, Grasset, 2006: 2 Ci basti segnalare la trilogia di M. Pradines, Traité de Psychologie générale, t. i: Les fonctions élémentaires, t. ii: Le génie humain – Ses oeuvres (Technique, religion, art et science, langage, politique), t. iii: Le génie humain – Ses instruments (Imagination, mémoire, raison, sentiment et volonté), Paris, PUF, 1943-1946. 3 A. Becq, op. cit., Paris, Albin Michel, 1994², pp. 34, 14, 353; Sul “genio”, in particolare, pp. 695-741. 4 Ivi, p. 750. 5 Senza aver la pretesa di volerne fornire un elenco completo, vorremmo segnalare quelle di: G. Seailles, Essai sur le génie dans l’art, Paris, Alcan, 1883; F. Brunetière, Le génie dans l’art, in “Revue des deux mondes”, 15. 4. ������������������ 1884; L. Caro, Essai sur le génie dans l’art, in “Revue des savants”, octobre 1884; E. Faguet, Le génie dans l’art, in “Revue bleue”, 17. 4. 1887; F. Mentre, Le problème du génie, in “Revue de philosophie”, juin 1905; L. Pascal, Esthétique nouvelle fondée sur la psychologie du génie, Paris, Mercure de France, 1910; J. Segond, Le problème du génie, Paris, Flammarion, 1930; H. Delacroix, Les sentiments esthétiques et le génie, in G. Dumas, Nouveau traité de psychologie, t. VI, Paris, PUF, 1937, pp. 447-545; H. Delacroix, L’invention et le génie, Paris, Alcan, 1939. 6 Cfr. F. Rossi, L’«estetica del sentimento», in Id., Religione, morale ed estetica in Joseph Louis Segond, Città di Castello (PG), Alfagrafica, 2001, pp. 163-263. Più precisamente, ancora, per quanto concerne il tema del genio, nelle opere di estetica di Segond, cfr. J. Segond, L’esthétique du sentiment, Paris, Boivin et Cie, 1927, pp. 45-49, 151-52; Id., Traité d’esthétique, Paris, Editions Montaigne, 1947, pp. 41-42, 57-62. E, ��� ulteriormente, Id., Traité de psychologie, Paris, Armand Colin, 1930, paragraphès 92, 117, 129. 7 J. Segond, Le problème du génie, cit., p. 102. 8 Ivi, p. 170. 9 Cfr. F. Rossi, cit., pp. 2, 167-69. 10 J. Segond, ����������������������������� cit.,����������������������� pp. 12 ss., 102, 170. 11 Ivi, ����������� ������ p. 12. 12 Ivi, ���������� ����� p. 8. 13 Ivi, ���������� ����� p. 9. 14 Ivi, ����������� ������ p. 10. 15 Ivi, ����������� ������ p. 12. 16 Ivi, ����������� ������ p. 15. 17 Ivi, ����������� ������ p. 17. 18 Ivi, p. 14. Sul rifiuto del “misticismo” come “ricorso all’intervento di un mondo soprannaturale”, cfr. anche p. 218. 19 Ivi, ����������� ������ p. 20. 20 Ivi, pp. 23-24. Relativamente al tema del genio in Kant e Schopenhauer, cfr. I. Kant, Critica del giudizio, Parte i: Critica del giudizio estetico, Sezione i: Analitica del giudizio estetico, Libro ii: Analitica del sublime, Deduzione dei giudizii estetici puri, § 59 46-50; Id., Antropologia dal punto di vista pragmatico, Parte i: Didattica antropologica, Libro i: Della facoltà di conoscere, § 57; A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Libro iii: Il mondo come rappresentazione, § 36. 21 Ivi, ����������� ������ p. 27. 22 Ibidem. ������������������������������������������������������ Ma su questa tesi, cfr. anche, pp. 27, 32, 36, 45, 47. 23 Ivi, ����������� ������ p. 32. 24 Ivi, ����������� ������ p. 36. 25 Ivi, ����������� ������ p. 44. 26 Ivi, ����������� ������ p. 45. 27 Ivi, ����������� ������ p. 48. 28 Ibidem. 29 Ivi, ����������� ������ p. 51. 30 Ivi, ����������� ������ p. 52. 31 Ivi,������� ����������� p. 59. 32 Ivi, ����������� ������ p. 62. 33 Ivi, ����������� ������ p. 64. 34 Ivi, ����������� ������ p. 79. 35 Ivi, ��������������� ���������� pp. 80-81. 36 Ivi, ����������� ������ p. 82. 37 Ivi, ������������ ������� p. 124. 38 Ivi, ������������ ������� p. 123. 39 Ivi, ������������ ������� p. 124. 40 Ivi, ������������ ������� p. 125. 41 Ivi, ��������������������������������������������������������������������������������� p. ���������������������������������������������������������������������������� 133. Ma �������������������������������������������������������������������� è la tesi che Segond ritrova, «bien avant que Valéry publiât ses propres notes», anche «dans les premières pages [du] livre [de Marcel Proust,] Du côté de chez Swann» (������������ ivi��������� , p. 135) 42 Ivi, ������������������ ������������� pp. 132, 135. 43 Ivi, ������������ ������� p. 144. 44 Ivi, ������������ ������� p. 161. 45 Ivi, ����������� ������ p. 68. 46 Ivi, p. 144 ss. 47 Ivi, pp. 163-64. 48 Ivi, p. 171. 49 Ivi, p. 174. 50 Ivi, p. 178. 51 Ivi, pp. 178-79. 52 Ivi, p. 183. 53 Ivi, pp. 179-85. 54 Ivi, pp. 187, 189. 55 Ivi, p. 192. 56 Ivi, p. 189. 57 Ivi, pp. 194, 196. 58 Ivi, p. 196. 59 Ivi, p. 194. 60 Ivi, p. 196. 61 Ivi, p. 197. 62 Ivi, p. 201. 63 Ibidem. 64 Ivi, p. 204. 65 Ivi, p. 203. 66 Ivi, p. 208. 67 Ivi, p. 206. 68 Ivi, pp. 208-09. 69 Ivi, p. 208. 70 Ivi, pp. 208, 212. 60 Ivi, p. 216. Ivi, p. 217. 73 Ivi, p. 219. 74 Ivi, p. 220. «C’est d’un bout à l’autre de l’élaboration effective de l’oeuvre d’art que se retrouve, toujours efficace et indispensable, cet acte singulier et irréductible qui est celui de la création» (pp. 220-21). 75 Ivi, pp. 221-22. 76 Ivi, p. 231. 77 Ivi, p. 271. 78 Ivi, p. 275. 79 Ivi, p. 270. 80 Ivi, p. 273. 81 Ibidem. 82 Ivi, p. 274. 83 Ivi, p. 275. 84 Ivi, pp. 276-77. 85 Ivi, p. 277. 71 72 61 Descrivere l’arte, descrivere il mondo: Diderot promeneur di Rita Messori Je me rappelle ma première rencontre avec la Vue de Delft de Vermeer. Tout d’un coup, au premier regard, je me suis retrouvé marchant sur les eaux, oui! debout sur le plan d’eau dont l’étendue ouverte à même l’espace de Vermeer glissait sous mes pieds et, sous-tendant ma présence, m’exposait à moi-même dans cette ouverture. Henri Maldiney, Esquisse d’une phénoménologie de l’art. «Per descrivere un Salon di mio e di tuo gradimento, sai, amico mio, cosa sarebbe necessario? Ogni sorta di gusto, un cuore sensibile a ogni fascino, un animo suscettibile di un’infinità di entusiasmi differenti, una varietà di stili che corrisponda alla varietà dei pennelli; poter essere grande o voluttuoso con Deshays, semplice e autentico con Chardin, delicato con Vien, patetico con Greuze, poter creare ogni illusione con Vernet. Ma dimmi: dov’è un Vertumnus del genere? Forse, per trovarlo, sarebbe necessario andare fin sulle rive del lago Lemanno...» 1. Questa invocazione a Vertunno, dio della trasformazione, contenuta nel Salon del 1763, potrebbe essere posta in epigrafe a La promenade Vernet 2, dove Diderot conduce il difficile e sofferto ma a un tempo ineludibile rapporto tra parola e immagine sino all’apice della sperimentazione. Una scrittura metamorfica – a proposito della quale Lyotard non ha esitato a parlare di genere satirico – che, di fronte alla pittura, misura i propri limiti e mette allo scoperto potenzialità inaspettate 3. Oltre al genio critico del proprio autore, La promenade Vernet deve il suo fascino allo scacco a cui è destinato ogni tentativo di definizione, costringendo i suoi lettori a un continuo ripensamento dei parametri interpretativi di una descrizione dell’arte che si fa arte della descrizione e, in ultima analisi, del concetto di evidentia retorica, fondamentale per comprendere tanto la tradizione dell’ekphrasis quanto quella del paragone tra poesia e pittura 4. Si tratta in effetti di uno scritto che sembra mettere in crisi lo stesso esercizio di critica ekphrastica praticato, con entusiasmo ma anche con qualche perplessità, da Diderot a partire dal 1759: non di rado la descrizione cede il passo alla narrazione, al dialogo filosofico e persino alla forma epistolare. Una sorta di dichiarazione implicita dell’impossibilità della parola di sviluppare una dimensione 63 iconica legata al particolare rappresentativo del dipinto, che non porta però a una negazione tout court della capacità di visualizzazione del linguaggio ma semmai alla creazione di nuove forme espressive rivelatrici di un nuovo modo di vedere e di dire la pittura. Pur consapevole della particolarità di un scritto critico che si presenta come un racconto breve, dunque come un pezzo letterario, Diderot inserisce La Promenade Vernet – senza titolazione alcuna – nell’impegnativo Salon del 1767. Dopo un lungo e complesso discorso di apertura l’autore ci conduce attraverso il Salon Carré del Louvre – dove ricordiamo dal 1725 gli Accademici esponevano annualmente le loro opere – descrivendoci più o meno diffusamente e con vistosi mutamenti di stile i quadri di Vien, Chardin, Le Prince, Robert, Loutherbourgh e Vernet, appesi con ordine accademico alle pareti 5. Il “mettere sotto gli occhi” della critica ekphrastica si origina da un rinnovato esercizio dello sguardo: «il compito che mi avete proposto mi ha costretto a fissare gli occhi sulla tela. [...] Ho dato tempo alle impressioni di arrivare e di entrare. Ho aperto il cuore alle sensazioni. Ho lasciato che mi invadessero» 6. Uno “sguardo che ascolta” secondo la celebre frase di Paul Claudel, “un régard de telle sorte qu’on le parle” secondo la meno celebre ma per noi ancor più significativa formula di Francis Ponge 7. Da questo indugiare sulla tela percorrendone l’unità compositiva, il variare del colore e l’espressività delle figure, nasce una parola evocatrice di immagini, un linguaggio descrittivo che si costruisce su due livelli di assenza dell’opera: facendo appello alla sua capacità rammemorativa, Diderot ci fa vedere ciò che fisicamente davanti a lui più non c’è e che davanti a noi forse non avremo mai. Una duplice absentia che comporta dunque una vivace attivazione dell’occhio “interno”, sia nella fase produttiva sia in quella fruitiva del testo. La Promenade Vernet è un esempio di promenade picturale che ha in Filostrato il più illustre antesignano? Nelle sue Eikones il retore di Lemno, praticando la tecnica icastica dell’evidentia, dipinge con le parole i quadri di una pinacoteca napoletana, i cui soggetti sono legati a doppio filo alla narrazione, sia essa mitica, letteraria o storica. La capacità mimetica delle immagini pittoriche è tale da provocare, in qualche caso, una sorta di rapimento dello sguardo, che si lascia prendere dalla rappresentazione al punto di entrare in essa. Descrivendo il dipinto Le isole – forse non a caso un paesaggio – Filostrato immagina di avventurarsi per mare, in compagnia del suo giovane interlocutore 8. Ma la Promenade Vernet non si presenta come una rassegna in stile letterario di una immaginaria galleria di quadri, per la precisione sette, di Joseph Vernet, all’epoca pittore notissimo in particolar modo come paesaggista. In effetti, ciò che per Filostrato costituisce una sorta di diversa articolazione del rapporto tra parola-immagine-parola, per Diderot diviene una scelta che intenzionalmente grava sul rapporto tra 64 immagine-parola-immagine, provocando una serie di conseguenze che cercheremo almeno in parte di mettere in luce. Se è vero che l’ekphrasis orienta lo sguardo, «gli mostra i sentieri che solo lui può percorrere» 9, mettendolo per così dire in moto, ciò accade segnatamente quando la descrizione stessa è in movimento, ovvero quando non è semplicemente animata da verbi opportunamente scelti o interrotta da sequenze narrative. Come se il movimento prendesse avvio dall’esigenza descrittiva e la descrizione si sviluppasse soltanto a partire dal movimento. La Promenade Vernet è il racconto dell’esperienza sensibile, affettiva e di pensiero dell’attraversamento fisico dello spazio di paesaggio aperto dai quadri di Vernet. Improvvisamente al lettore si schiudono scenari naturali, marine e paesaggi montani, che il protagonista, Diderot, percorre insieme a un abate seguito da due allievi. Per parlare nel giusto modo dei paesaggi di Vernet, per meglio restituire ai pochi ma sceltissimi lettori della Correspondance littéraire – su cui i Salons venivano pubblicati – i dipinti di uno dei suoi pittori preferiti, Diderot sceglie dunque di entrare nei quadri stessi. Un gesto, fittizio, di cui dobbiamo comprendere le ragioni se vogliamo mettere in luce alcuni degli effetti. Ciò che agli occhi di Diderot contraddistingue i paesaggi di Vernet è l’illusione, la magia 10. Ed è su questo giudizio che si esercita la critica del salonnier. Più di altri Vernet è capace di farci vedere la natura come se fosse non solo lì davanti a noi rappresentata sulla tela, ma intorno a noi, con la sua forza suggestiva e insieme impositiva, con il suo vigore, con il suo irrefrenabile moto di trasformazione. Come se prendesse vita nel momento in cui la guardiamo. Se accade che il pittore sia capace di trasmettere incanto sulla tela, «sembra che consideriamo ciò che è prodotto dall’arte come se fosse opera della natura. Non è al Salon, ma nel folto di una foresta, è tra le montagne che il sole ombreggia e illumina, che Loutherbourgh e Vernet sono grandi» 11. Così dice Diderot negli Essais sur la peinture usciti un anno prima, nel 1766. La difficoltà della rappresentazione sta nella corretta distribuzione delle luci e delle ombre su ciascun piano, e su ciascun tratto infinitamente piccolo degli oggetti che lo occupano; «sta ancora negli echi, nei riflessi di tutte queste luci le une sulle altre. Quando quest’effetto è ottenuto (ma dove e quando non lo è?), l’occhio è conquistato, appagato, ovunque è soddisfatto e ovunque si appaga: procede, si immerge, torna sulle proprie tracce. Tutto è connesso, tutto si tiene. Ci si dimentica dell’arte e dell’artista. Ciò che si ha davanti a noi non è più un quadro, è la natura, è una parte dell’universo» 12. Mettendoci la natura sotto gli occhi il pittore trasforma l’inanimato della tela, con ciò che di essa si sviluppa e si estende, il disegno e il colore, in animato. Per Diderot il pittore “illusionista” ha lo straordinario 65 dono di mostrarci la natura nel suo realizzarsi, nel suo diversificato dispiegarsi spazio-temporale, in definitiva di rappresentare il miracolo del passaggio dall’invisibile profondità della potenza all’atto del suo visibile palesarsi. Di chiara matrice aristotelica, l’illusione della presenza è uno dei principi cardine della teoria del paragone che equipara poesia e pittura sulla base della loro capacità di visualizzazione. L’opera artistica è un far vedere, un mostrare la realtà nel suo rendersi visibile 13. Una poesia e una pittura sono composizioni, costruzioni di senso contrassegnate da una fortissima tensione referenziale. La magia dell’arte si verifica nella misura in cui si compie la mimesis: l’aspetto illusorio dell’arte costituisce il culmine del processo mimetico. Nell’atto illusorio la mimesis sembra comportare la perdita di distanza tra spettatore e opera compiendo una sorta di rapimento dello sguardo. Ciò implica il superamento dell’atteggiamento contemplativo del fruitore e a un tempo il superamento del quadro in quanto “finestra”. Se Diderot, mediante un atto immaginativo, non è più spettatore ma fruitore compartecipe della rappresentazione pittorica, va da sé che il quadro non è più un oggetto fisico posto di fronte a lui, rappresentante un proprio oggetto riconoscibile e dunque descrivibile 14. A catturare lo sguardo non sono tanto le cose visibilmente colte sulla tela, ma il loro stesso essere visibili, il loro manifestarsi; in tal modo Diderot si inserisce in un processo, quello della visibilità 15. L’illusione consiste nell’entrare a far parte del gioco della manifestatività. Un gioco che ha le sue regole e le sue procedure e non si consuma, illusoriamente, nell’istante dell’immediatezza. Attentissimo alle prassi artistiche, alla dimensione del “fare” del “far-vedere”, Diderot si chiede quale tecnica possa con maggior efficacia provocare l’illusione. La composizione ha di certo il suo ruolo, come si evince da alcuni passaggi della Promenade Vernet 16. Facendo implicito riferimento alle Betrachtungen über die Malerei di Hagedorn (1762) Diderot sostiene che «a un paesaggio si può dare un’apparenza concava o convessa. Quella convessa se c’è un soggetto che occupa la parte anteriore della scena: lo sfondo sarà definito allora da uno spazio ampio e pressoché illimitato. Quella concava, se il paesaggio è il soggetto principale: lo spazio è allora sulla parte anteriore, mentre il paesaggio occupa e delimita lo sfondo» 17. Nel caso dell’apparenza concava, adatta al paesaggio semplice e non a quello storico, sembra crearsi uno spazio di profondità da indurre lo spettatore a entrare. Ma questo è agli occhi di Diderot niente altro che un artificio. È soprattutto il colore quale «soffio divino» che può «dare vita al quadro» 18. «Non c’è nulla di più efficace in un quadro della verità del colore» 19. Chi è dunque, si chiede Diderot, un grande colorista, chi è maggiormente in grado di far nascere l’illusione? «Chi ha scelto il tono della natura e degli oggetti in piena luce», chi non ha imitato dei modelli 66 nel chiuso del proprio atelier ma chi ha osservato con partecipazione la natura. L’«intrepido pennello» di Vernet «prova piacere nel combinare col più grande ordinamento, con la più grande varietà e la più solida armonia tutti i colori della natura in ogni loro sfumatura» 20. Quanto Diderot dice del colore, dell’incarnato, del chiaro-scuro delle mezze tinte e dello sfumato presenta non poche analogie con quanto De Piles afferma a proposito del coloris nel Cours de peinture par principes (1708) 21. Diderot come De Piles intuisce dei rapporti di simpatia-antipatia, prevalenza, repulsione o attrazione, che molto assomigliano a delle leggi fisiche che regolano i diversificati rapporti dei fenomeni di natura. Ed è la percezione dei rapporti che legano i colori ai nostri stati d’animo che rende bello un dipinto. Ad eccezione di Chardin, pittori coloristi sono soprattutto i paesaggisti, i quali, secondo de Piles, traggono piacere dalla varietà della natura e dalla sollecitazione dei sensi, creando dei siti dove l’artista per primo «se promène» 22. La magia che ci sorprende di fronte a un quadro di Vernet è dovuta all’imporsi visivo e alla vitalità dell’immagine. In tal modo l’uomo si sente immerso nella natura, un essere vivente partecipe di una realtà in continuo movimento e trasformazione. L’affermazione della virtù visiva dell’arte e in particolar modo della pittura, passa attraverso il recupero del binomio enargeia-energeia. Emerge in tal modo l’ambivalenza del concetto di evidentia che, sbilanciandosi a favore della visualizzazione, rischia di “fissare” e dunque di “bloccare” l’immagine, senza cogliere l’essenziale “vibrare”. L’immagine pittorica è per Diderot visualizzazione e attualizzazione, rappresentazione visiva del movimento manifestativo 23. Il recupero dell’energeia, della scossa vitale che attraversa la natura, è ciò che accomuna Diderot a molti dei suoi contemporanei, e in particolare a Lessing. Mentre però Lessing riabilita il movimento e l’azione nella rappresentazione dell’uomo, ponendo l’accento sull’espressione delle passioni e dei pensieri, Diderot pare qui essere maggiormente attratto dalla natura e dal rapporto uomo-natura, nel senso di messa in evidenza della naturalità dell’uomo: «ero stanco, avevo visto delle belle cose, avevo respirato l’aria più pura e avevo fatto un sano esercizio. [...] Il giorno dopo, svegliandomi, dicevo tra me e me che era questa la vita vera, la vera dimora dell’uomo» 24. L’attenzione all’espressione, alla mimica facciale, alla gestualità, così come a un linguaggio spontaneo e non affettato, né troppo astratto, mira al recupero, reso possibile dalla finzione artistica, di una dimensione “originaria” dell’essere umano 25. L’illusione della presenza provoca dunque lo spettatore a ri-collocarsi in mezzo alla natura. E quale modo più efficace di comunicare ai lettori della Correspondance littéraire il potere illusorio dell’immagine pittorica, del dire l’illusione stessa? Del raccontare l’esperienza dell’illusione? Una esperienza sensibile e affettiva che fa della Promenade Vernet una passeggiata estetica in cui il dialogo filosofico nasce in si67 tuazione, in cui il pensiero si fa esperienziale e, per usare le parole di Diderot, «locale» 26. Guidato dal suo sguardo errante, Diderot promeneur, o forse sarebbe più corretto dire paysageur, si inoltra nello spazio aperto dall’immagine pittorica percorrendone la profondità, acquisendo diversi punti di vista 27. Da solo o in compagnia si spinge oltre le rocce che si ergono davanti a lui, si affatica lungo scoscesi sentieri che si inerpicano sulle montagne scoprendone nuovi versanti, prima in ombra. Il talento pittorico di Vernet pare sollecitare il proprio spettatore-scrittore a cogliere il “fremito” del passaggio dal non visibile al visibile 28. A seconda delle difficoltà, il camminare è ora lento ora veloce; può interrompersi se il nuovo scorcio merita uno sguardo meditativo e silenzioso, se un personaggio incontrato sollecita l’immaginazione o se ci si interroga sulla bellezza del sito. Il fragore di una cascata che agita le acque tranquille di un torrente ci può colpire, come la morbidezza del muschio più verde. L’entusiasmo della scoperta può infonderci nuove energie e la vista del baratro che sprofonda sotto il ponte può immobilizzarci. Nel camminare vi è un andare incontro alle cose e un venire incontro delle cose stesse. Non soltanto chi cammina avanza: anche la natura si fa avanti, ci sorprende, colpisce il nostro sguardo. Può esservi un momento in cui il soggetto è fortemente scosso; più che sentirsi smarrito nel fitto della boscaglia senza più alcun sentiero da seguire, egli fa esperienza dello smarrimento di sé, del sentirsi perduto di fronte alla grandiosità, alla magnificenza della natura. La Promenade diviene dunque una esperienza corporea in cui tutti i sensi sono allertati e le emozioni muovono il nostro animo non meno che i nostri organi e le nostre membra. L’esperienza estetica mette in cammino il pensiero che lungo la via acquisisce una propria andatura. Giova ricordare che in questi anni a impegnare Diderot non è soltanto la critica militante o la ricerca teorica intorno all’arte, ma anche lo studio della fisiologia animale e umana. Parte degli Éléments de physiologie furono scritti tra il 1767 e il 1768 intervallando la stesura del Salon, mentre a distanza di un anno fu redatto, di getto, Le Rêve de D’Alembert. Della genesi simultanea di questi testi non solo è testimonianza l’inserimento di interi passaggi degli Éléments nel Rêve, ma anche l’introduzione del Salon in questione. Polemizzando contro l’idealizzazione artistica della natura, dunque contro il concetto batteuxiano di “bello naturale”, Diderot afferma risolutamente che non vi è una bella natura in sé sussistente la quale, a disposizione dell’artista, può essere colta e copiata 29. Per rappresentare l’uomo, l’artista deve averlo senza pregiudiziale alcuna osservato, lungo le strade, nelle botteghe, durante lo svolgimento delle sue più ordinarie attività, nell’esercizio delle sue funzioni vitali. Ma non serve all’artista scorticare l’uomo, praticarne l’anatomia; gli sfuggirebbe la vita. Continuamente soggetto alle sollecitazioni esterne, l’uomo è unione instabile di anima e corpo, di pensiero e sensazione, 68 di ragione e passione. «Sentire è vivere» leggiamo negli Éléments: l’affezione dei sensi è la prima e cosciente relazione che si instaura col mondo 30. E tra gli organi di senso sono gli occhi a svolgere un determinante ruolo orientativo: «l’occhio ci guida. Noi siamo il cieco, l’occhio è il cane che ci conduce» 31. Dando adito alle altre sensazioni, l’occhio ci fa evitare gli ostacoli lungo il cammino. La visione è dunque percorrimento dello spazio, movimento né rettilineo né uniforme, che ha una sua durata. L’occhio non si fissa sulle cose, spazia su di esse, compie un percorso che tien conto della «diversità delle sensazioni» 32. Quello della visione è però un movimento continuamente interrotto: «noi passiamo i due terzi della nostra vita nella notte perché smettiamo di vedere tutte le volte che chiudiamo le palpebre» 33. Ogni battito di ciglia è una breve, «piccola notte» una sottile striscia d’ombra che non ci impedisce di percepire il flusso continuo della luce. Ma c’è di più: l’atto della visione non è soltanto attraversamento, movimento, durata e passaggio velocissimo di ombra e di luce. Perché la visione sia visione di qualcosa occorre che essa diventi costruzione. Immaginiamo di avere davanti a noi un albero: «il campo dell’occhio abbraccia una sola parte dell’albero, se l’occhio non ripete l’esperienza non conoscerà l’albero». Tutte le esperienze dovranno legarsi perché si raggiunga la nozione precisa di albero. «Per conseguire questa nozione esatta e delle parti e dell’insieme occorre che l’immaginazione dipinga il tutto nell’intelletto» 34. Se per spiegare la pittura occorre far ricorso all’immaginazione quale «occhio interno» 35, per spiegare l’immaginazione occorre far riferimento alla pittura in quanto composizione unitaria delle parti che ha già nella visione una prima e determinante fase costruttiva. Non a caso Diderot affermerà alcune pagine dopo che «l’immaginazione è un colorista» 36 e che l’uomo di immaginazione passeggia nella propria mente come in una galleria di immagini 37. È l’esperienza dei Salon a suggerire non soltanto un linguaggio immaginativo intessuto di similitudini e metafore ma anche dei veri e propri paradigmi concettuali; e ciò sembra valere in particolare per la natura ibrida dell’immaginazione che possiamo intuire dai suoi prodotti, ovvero dalle immagini. Possiamo ora chiederci quali conseguenze comporta la scelta di descrivere una serie di quadri attraverso l’esperienza estetica da essi provocata. Viene innanzitutto messo in crisi uno dei principî teorici della teoria umanistica della pittura che ha anche nel Settecento illustri sostenitori: l’immediatezza della visione. Se, come si diceva più sopra, la pittura di paesaggio è ben riuscita essa genera l’illusione della presenza, che richiede l’esercizio dell’occhio fisico ma anche e soprattutto di quello mentale. La vista sorpresa, rapita e quasi abbacinata dal colore affida all’occhio della mente il “come se” della finzione. Sollecitato da un dipinto fortemente illusorio, l’immaginario erompe. È “come se” la natura davanti a noi si generasse e nell’atto della generazione 69 mostrasse le sue infinite possibilità che solo l’immaginazione, dello spettatore-scrittore Diderot, può intravedere. Cogliere l’atto manifestativo e la sua apertura della dimensione della possibilità, cogliere l’imporsi visivo e vitale della realtà nel suo darsi: ciò non è frutto di un atto immediato, o di una presa diretta. Lo sguardo che la “visibilità” della pittura di Vernet richiede è un cammino lento e insieme scattante, tortuoso e insieme mirato, faticoso e insieme estasiato: quello della parola di Diderot. Un linguaggio il cui processo di significazione – nella Promenade ben rappresentato dal dialogo filosofico ma anche dal progressivo utilizzo di termini tecnici della pittura – si radica all’interno dell’esperienza estetica della magnificenza visiva del reale, o, come diceva De Piles, dell’onnipotenza delle cose create che alla vista si offrono 38. Il carattere di esibizione dell’immagine oscilla tra un effetto di simultaneità e una processualità costruttiva. Diderot è alla ricerca di una sorta di giustezza del guardare: soltanto la descrizione può dare al quadro il giusto sguardo o, meglio, il giusto tracciato visivo che sappia cogliere la manifestatività nella sua unità e varietà. La generosa gratuità del miracolo della presenza esige uno sguardo riconoscente, che sappia pazientare e indugiare, che si lasci condurre dalle cose stesse. Diderot paga il debito del manifestarsi pittorico delle cose col prezzo di un lungo ma necessario détour che dell’immagine dispiega il magico vibrare del colore. Determinanti diventano le riflessioni che il nostro autore dedica al tema dell’ut pictura poësis nello stesso Salon del 1767, dopo aver scritto la Promenade Vernet e prima di focalizzare la propria attenzione sull’opera di Loutherbourg, anch’egli paesaggista. Come colpire gli occhi e le orecchie, si chiede Diderot, come fare immaginare attraverso il solo prestigio dei suoni il fragore di un torrente che precipita, le sue acque rigonfie, la piana sommersa, il suo movimento maestoso e il suo cadere in un profondo precipizio? 39. Lo scrittore che segue le regole formali di una versificazione di maniera non merita di essere letto. È la natura e soltanto la natura a dettare la vera armonia di un periodo e di un certo numero di versi. Armonia che è data dal movimento del linguaggio, dal suo ritmo. Per lo scrittore il ritmo è tutto: è la «magia prosodica» dovuta a una scelta particolare dell’espressione, è una certa distribuzione delle sillabe lunghe o brevi, dure o dolci, sorde o acute, leggere o pesanti, lente o rapide, lamentose o ridenti, una concatenazione di piccole onomatopee, analoghe alle idee che con insistenza occupano il nostro pensiero, alle sensazioni che avvertiamo o che vogliamo eccitare, ai fenomeni di cui cerchiamo di rendere i particolari, alle passioni, alla natura, al carattere e al movimento delle azioni. Ispirata da un gusto naturale, dalla mobilità dell’anima e da una acuta sensibilità, sarà un’arte non più di convenzione, un’arte naturale come lo sono gli effetti della luce e i colori dell’arcobaleno. Soltanto in tal modo lo scrittore 70 diventerà un colorista e potrà cimentarsi nella descrizione, difficile ma non impossibile. Sono evidenti le analogie tra questa solo abbozzata teoria del linguaggio come ritmo e quella del geroglifico sviluppata nella Lettre del 1751 40. Nel tessuto del geroglifico trovano unità il «dire» e il «mostrare», l’articolazione linguistica e l’ostensività, due tendenze che è compito dell’arte condurre dal contrasto all’armonia. Ma a distanza di una quindicina d’anni l’urgenza di una unità di artificiale e naturale in seno al linguaggio si approfondisce di una acutissima e tormentata sensibilità nei confronti della trasformazione metamorfica della natura, anche umana, della sua potente azione, del suo vigore. Il potere di visualizzazione del linguaggio verbale non può che seguire le leggi del colore e sfuggire a ogni sterile e immobilizzante descrittivismo che, come l’anatomia, ci restituisce una morta natura. La seconda conseguenza, strettamente legata alla prima, dipende dalla composizione stessa di uno scritto letterario sulla base dell’esperienza dello spettatore, e dalla fruizione che tale scritto esige. La trasformazione del lettore in spettatore è possibile solo se lo spettatore si trasforma in scrittore. Mentre il pittore, attraverso l’effetto illusorio, orienta la simultaneità verso un dispiegamento spazio-temporale, lo scrittore tende il proprio tessuto linguistico alla simultaneità visiva del “fremito” del passaggio. La fruizione di una forma artistica genera la produzione di una seconda forma artistica che né si confonde né vuole sostituirsi alla prima. Una seconda produzione che richiede una seconda fruizione, quella del lettore o dell’ascoltatore. Tale compresenza di differenti piani della produzione e della fruizione pare provocare una sorta di mise en abîme. Come Diderot è stato “reclamato” dai quadri di Vernet, allo stesso modo il lettore di Diderot è chiamato a prender parte al gioco. Ora, non è la natura dipinta da Vernet, non è la realtà a sprofondare in un gioco infinito di specchi “fatto ad arte”? Il linguaggio descrittivo non si frappone tra il soggetto e la realtà nel suo manifestarsi, così ben rappresentata nell’opera pittorica? Quest’ultima è in definitiva la domanda che si pone Lessing a proposito della descrizione. Nel suo Laocoonte egli ci parla di due modalità differenti che ha la poesia di rapportarsi all’arte figurativa. Quando ad esempio Virgilio descrive lo scudo di Enea ci descrive l’opera d’arte e non ciò che è stato rappresentato. La poesia avvilisce se stessa imitando l’imitazione, dandoci «fredde reminescenze di particolari di un genio esterno, invece che i tratti originali del proprio» 41. Se Virgilio invece avesse imitato il gruppo del Laocoonte, avrebbe descritto non questo gruppo ma ciò che il gruppo rappresenta. Solo in questo caso il poeta è originale e non un mero copiatore, poiché descrive le cose stesse. Ora, come collocare l’autore della Promenade Vernet? Dalla parte di chi descrive l’opera o dalla parte di chi descrive la natura? 71 L’alternativa è per Diderot impraticabile perché improponibile. Egli si colloca nel luogo stesso della loro implicazione. Non ci è possibile descrivere la natura, così come a noi si dà, se non attraverso l’arte, e non ci è possibile descrivere l’arte, se non attraverso l’esperienza visiva e immaginativa della natura che essa rappresenta, in una tensione referenziale non di rado spasmodica. La descrizione non può essere il mero repertorio di ciò che viene rappresentato. Il linguaggio ekphrastico di Diderot, mostrandoci l’immagine pittorica, ci mette sotto gli occhi il “far vedere”, l’atto manifestativo in cui l’arte consiste, compiendo così il passaggio dalla descrizione della cosa rappresentata alla descrizione dell’esperienza manifestativa della cosa che l’immagine mette in atto. L’efficacia del linguaggio icastico e vivificante viene misurata così con la capacità di portare il lettore nell’ambito pre-riflessivo di appartenenza partecipativa al mondo della vita. È un far rivivere l’esperienza estetica del nostro essere radicati, dell’insuperabile qui e ora. Se la pittura offre al linguaggio l’ancoraggio nella dimensione manifestativa, estetica, precategoriale, il linguaggio offre alla pittura l’esplicitazione della propria “mediatezza”. È attraverso lo spazio di mediazione dell’arte nella sua defatigante laboriosità che possiamo avvicinarci alle cose stesse senza illuderci di coglierle nella loro pienezza manifestativa, nello splendore di una presenza per noi sempre differita, e che sempre rimane da dipingere e da dire. La manifestatività è quell’originario che solo mediatamente e indirettamente possiamo tentare di attingere. Ecco dunque il paradosso emergente dall’incontro di pittura e poesia, di immagine e parola nella Promenade Vernet: il potere illusionistico dell’arte ci rende consapevoli dell’illusione della semplice-presenza delle cose. Attraverso una esperienza estetica a tutto tondo che esige di essere detta e immaginata, la magia dell’arte ci restituisce la realtà nel suo manifestarsi visibile, nel suo generarsi, nel suo essere vita. 1 D. Diderot, Œuvres complètes, éd. ����������������������������������������������� H. Diekmann, J. Proust, J. Varloot et alii, 34 voll., Hermann, Paris, 1975 e ss, v. xiii p. 341. La traduzione è nostra, come la sottolineatura. 2 Faremo d’ora in poi riferimento all’edizione italiana, preceduta da un prezioso saggio introduttivo, curata da Massimo Modica: D. Diderot, La Promenade Vernet, Nike, Milano, 2000. 3 J.-F. Lyotard, La philosophie et la peinture à l’ère de leur expérimentation, in L’art des confins, a cura di A. Cazenave e J.-F. Lyotard, Paris, PUF, pp. 465-77. 4 Sull’ekphrasis v. in part.: M. Krieger, Ekphrasis: The Illusion of the Natural Sign, Baltimore & London, John Hopkins University Press, 1992. Beschreibungskunst-Kunstbeschreibung. Ekphrasis von der Antike bis zur Gegenwart, a cura di G. Boehm e H. Pfotenhauer, München, Wilhelm Fink Verlag, 1995. ����������������� J. Lichtenstein, La description de tableaux: énoncé de quelques problèmes, in La description de l’oeuvre d’art. Du modèle 72 classique aux variations contemporaines, Paris, Somogy, 2001, pp. 295-302. �������� Il numero monografico di “Word & Image” (1999) dedicato all’ekphrasis. M. Cometa, Parole che dipingono, Letteratura e cultura visuale tra Settecento e Novecento, Roma, Meltemi, 2004. 5 D. Diderot, Œuvres complètes, cit., vol. xvi. 6 D. Diderot, Salon de 1765, Œuvres complètes, cit., vol. xv, p. 57. 7 Sulla concezione di sguardo in Ponge e sul suo rapporto col linguaggio Henri Maldiney si sofferma in: Le vouloir dire de Francis Ponge, Fougères, éd. Encre marine, 1993, p. 27 e ss. 8 Filostrato, Immagini, trad. it. di G. Schilardi, introd. di F. Fanizza, Lecce, Argo, 1997, pp. 167-74. «Il dipinto segue il racconto dei poeti», p. 169. ��������������������� Su questi temi v. B. Cassin, Procédures sophistiques pour construire l’évidence, in Dire l’évidence. Philosophie et rhétorique antiques, a cura di C. Lévy e L. Pernot, Paris, l’Harmattan, 1997, p. 29. 9 G. Boehm, Bildbeschreibung. Über die Grenzen von Welt und Sprache, in Beschreibungskunst-Kunstbeschreibung, cit., p. 40. 10 Termini largamente usati da Diderot e da molti dei suoi contemporanei. 11 D. Diderot, Sulla Pittura, Palermo, Aesthetica, 2004, p. 50. 12 Ivi, p. 51. 13 Concordiamo con Boehm quando afferma che ad accomunare immagine e parola è il mostrare. V. ������������� G. Boehm, Bildbeschreibung. Über die Grenzen von Welt und Sprache, cit., p. 35. 14 Sul diverso ruolo dello spettatore vedi M. Fried, Absorption and Theatricality: Painting and Beholder in the Age of Diderot, Berkeley, Los Angeles and London, University of California Press, 1980. 15 A questo proposito v. G. Boehm, Bildbeschreibung. Über die Grenzen von Welt und Sprache, cit., p. 27. 16 D. Diderot, La Promenade Vernet, cit., p. 148. 17 D. Diderot, Sulla Pittura, cit., p. 115. 18 Ivi�������� ����������� , p. 44. 19 Ivi�������� ����������� , p. 47. 20 Ibidem. 21 Paris, Gallimard, 1989, pp. 216-17. 22 Ivi�������� ����������� , p. 99. 23 Pur riconoscendo una fondamentale componente di azione dell’immagine, Boehm si sofferma soltanto sul significato di evidentia in quanto enargeia. 24 D. Diderot, La Promenade Vernet, cit., p. 146. 25 Ivi, pp. 162-63. Sono evidenti le analogie con le teorie linguistiche di Vico, Rousseau, Herder. Sul rapporto tra estetica e linguaggio v. di F. Bollino, Ragione e Sentimento. Idee estetiche nel Settecento francese, Bologna, CLUEB, 1991; in part. le pp. 207-24. 26 D. Diderot, La passeggiata dello scettico, Milano, Serra e Riva ed., 1984, p. 7: «mi resi conto che Cleobulo s’era fatta una sorta di filosofia locale; che tutta la sua campagna era animata e parlante per lui; che ogni oggetto gli forniva pensieri di un genere particolare, e che le opere della natura erano ai suoi occhi un libro allegorico ove leggeva mille verità che sfuggivano agli altri uomini». 27 A questo proposito v. B. Saint Girons, Le paysage et la question du sublime, in Aa. Vv. Le paysage et la question du sublime, ARAC, Valence, 1997, p. 87: paysageur è «l’homme, assurément moderne, qui, loin de se contenter d’admirer naïvement la nature dans la pluralité d ses manifestation ou d’en Etudier certains phénomènes isolés, vient à la considérer sous l’angle très restreint qu’il a arbitrairement choisi et donné à cette partie la valeur du tout». 28 V. di H. Maldiney, Esquisse d’une phénoménologie de l’art, in L’art au regard de la phénoménologie, a cura di E. Escoubas e B. Giner, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 1993, pp. 216 e 235. 29 D. Diderot, Œuvres complètes, cit., vol. xvi, pp. 10-11. 30 Circa l’approccio è evidente il debito contratto nei confronti dell’empirismo; cir- 73 ca i contenuti Diderot si avvale anche di una conoscenza della letteratura scientifica dell’epoca. V. introduzione e note al testo dell’ed. francese (Œuvres���������� complètes, cit., vol. xvii). 31 D. Diderot, Éléments de physiologie, in Œuvres complètes, cit., vol. xvii, p. 247. 32 Ibidem. 33 Ivi��������� ������������ , p. 246. 34 Ivi���������� ������������� , p. 457. 35 Ibidem. 36 Ivi��������� ������������ , p. 480. 37 Ivi��������� ������������ , p. 475. 38 R. De Piles, Cours de peinture par principes, cit., p. 219. 39 D. Diderot, Œuvres complètes, cit., vol. xvi, p. 283 e ss. 40 D. Diderot, Lettera sui sordomuti e altri scritti sulla natura e sul bello, a cura di E. Franzini, Milano, Guanda, 1989. 41 G. E. Lessing, Laocoonte, trad. a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica, 2000, p. 45. 74 Stile e stili di Elio Franzini Husserl afferma che la ricerca sul senso delle cose mondane va avviata su una «nuova via», che è tematizzazione del mondo della vita in quanto terreno non solo della vita umana, ma del modo con cui essa esplicita questa sua funzione di essere «terreno». È in questo esatto punto, in cui manifesta l’esigenza di un Grund concreto e precategoriale, che, pur senza esplicitare la citazione, ricorda la frase con cui Goethe, nel Faust, traduce l’incipit del Vangelo di san Giovanni, dove il logos che è all’inizio diventa Azione (Tat). L’azione, osserva Husserl, «rende il nostro progetto ancora incerto più determinato, lo rende sempre più chiaro, promuovendone la realizzazione» 1. Accanto all’azione, che è al principio, è però necessaria anche una riflessione metodica, così da indagare, in tutti i modi di relatività che per essenza gli ineriscono, il mondo della vita, che è «il modo in cui noi viviamo intuitivamente, con le sue realtà, così come si danno, dapprima nella semplice esperienza, e anche nei modi in cui spesso queste realtà diventano oscillanti nella loro validità (oscillanti tra l’essere e l’apparenza)» 2. Utilizzando ancora una volta un termine goetheano, Husserl chiama stile questa capacità di cogliere il flusso “oscillante” delle variazioni dell’apparire, apparentemente inafferrabile, che è il nostro mondo della vita, in cui si uniscono l’azione e il metodo. Questo non è un orizzonte di spiegazione causale e fattuale, non è «quello di determinare se e che cosa siano realmente le cose, la realtà del mondo» e neppure «che cosa sia realmente il mondo considerato nella sua totalità, ciò che gli inerisce in generale, quali leggi strutturali a priori e quali “leggi naturali” gli siano proprie» 3. Il tema è invece un altro: è il mondo così come appare alla nostra esperienza, l’unificarsi delle parti che sono rappresentazioni del mondo, che costituiscono interi non per magica fusione, ma in quanto «rappresentazioni che in ogni fase recano in sé un “senso”, e intenzionano qualcosa», connettendosi «in un progressivo arricchimento di senso e in una progressiva formazione di senso» 4. È seguendo questo stile che si può comprendere come gli stili ne siano soltanto i modi, cioè un progressivo arricchimento di senso: senza voler spiegare, definire, determinare, ma solo esibendo le possibilità esperienziali delle parti, dei singoli fenomeni, delle singole esperienze, 75 di connettersi in un intero dotato di senso. Warburg sosteneva che «l’essere delle immagini» consisteva nel formare uno stile, che è poi la capacità di esibire delle «sopravvivenze». E definiva come «simbolici» questi stili. Per cui, è partendo dalla convinzione che i termini “stile” e “simbolo” siano in Goethe pressoché equivalenti, e l’uno sia l’immagine dell’altro, e che quest’ultimo, il simbolo, si opponga all’allegoria come lo stile alla maniera, ed entrambe queste coppie siano a loro volta radicate nella fondamentale differenziazione tra Bildung e Gestalt. È partendo dunque da questa allusiva trama concettuale che la storicità del simbolo – non la sua storia, o il suo ridursi al mutare delle filosofie della storia – si evidenzia fenomenologicamente negli “stili” che esso incarna. Così, assumere il simbolo nella sua accezione di «riconciliazione con differenza», segno di un’eccedenza che è più dialogo che opposizione tra le parti, rende possibile che suo tramite si giochi un confronto paradigmatico che ha nell’arte, e nella filosofia dell’arte, il suo orizzonte di interrogazione. Lo stile di cui qui si parla è dunque davvero quello che indica Faust: uno stile in cui è impossibile scindere esperienza e giudizio, conoscenza intuitiva del mondo e sua apprensione categoriale e apofantica. In cui il simbolo si pone come possibilità funzionale e al tempo stesso morfogenetica. Lo stile, e si anticipa qui la conclusione che si vuole raggiungere, è l’unità simbolica e formativa dei molteplici stili, anche là dove essi hanno valore allegorico o manieristico o dove si pongono nella loro singolarità. Per mostrare ciò è necessaria una premessa, che si articolerà poi in un lungo esempio. È alla ricerca di questo senso stilistico che l’arte, al di là delle condizioni empiriche in cui si manifestano le opere, si presenta come genesi temporale, che offre il senso simbolico della rappresentazione, la varietà e la complessità delle sue trame intenzionali, dei suoi percorsi genetici: è uno stile che, come scrive Maldiney, sorge dalla forza di un evento estetico, da un ritmo temporale «creato nell’Istante stesso, un’impressione famigliare riconosciuta» 5. Il grado specifico che appartiene alla rappresentazione artistica non è quello capace di “darci” l’oggetto o l’Essere, bensì di condurre noi e il mondo verso il goetheano “regno delle Madri”, cioè in un movimento temporale che è, nelle sue morfologie, “eterno gioco del pensiero eterno”. Le rappresentazioni artistiche non sono il lato invisibile dell’Essere, ma enti che esibiscono il possesso degli schemi del visibile, in cui si pone anche il tempo spazio dell’invisibile: l’immagine artistica è una rappresentazione che rende simbolica – che rende “idea estetica” – la presenza in tale rappresentazione di uno “scarto”, in virtù del quale lo schema come prodotto dell’immaginazione rivela e insieme nasconde, come afferma Kant, le «determinazioni a priori del tempo secondo regole». Ma, perché ciò accada, si deve “tradurre” lo stile nella specificità esemplificativa degli 76 “stili”, che ne sono le “forme di vita”, ma che non per questo possono esaurire il proprio senso nel loro mero esibirsi frammentario. Un esempio è allora utile per comprendere il percorso: un esempio dove la scelta di uno “stile” diviene modello di espressione retorica, che può tradursi in differenziate forme stilistiche. Da un lato, cogliere il senso espressivo di una forma partendo da una sua considerazione morfologica è percorso quasi obbligato, in modo tale che si tenti di comprendere il senso di una forma a partire dal suo colore, e dalla scala di valori qualitativi cui questo colore simbolicamente allude sfuggendo alle assolutezze ontologiche. Tuttavia, l’aspetto morfologico, pur essenziale, anche perché permette una sorta di storia dell’arte non solo senza nomi, ma radicata nella genesi intrinseca degli stilemi, indipendente dagli autori che li hanno tradotti in stile costruttivo, non è sufficiente, proprio come non sarebbe sufficiente, per comprendere un ente, considerarlo nella sua staticità formale. Una morfologia corretta va infatti sempre posta nel quadro di una “morfogenesi”, che comprenda cioè il percorso costitutivo della forma. Senza questo substrato, senza il dialogo tra forma e contesto, visibile e invisibile che in esso si manifesta, l’immagine pittorica diventerebbe un’immagine come tante, un “nulla”, e non invece una figura mitico-simbolica, che ha in sé il senso della “matrice”. L’espressività stilistica dell’immagine simbolica è matrice perché si presenta come possibile: il possibile come lo intende Leibniz, cioè energia spirituale e tensione materica, possibile che è sviluppo, e non staticità della forma. Questo senso di matrice stilistica può essere incarnato, nel linguaggio pittorico, dall’icona o, in tempi più recenti, dalla pittura monocromatica. Per cui, il monocromo-icona rappresenta la morfologia originaria del pittorico: la forma è inseparabile dal colore, e il colore è la qualità originaria di una simbolicità complessa, di cui la forma è il senso visibile/invisibile. Ma il monocromo è anche la possibilità dinamica del pittorico, di cui incarna la morfogenesi: la forma diviene secondo una direzione che, prima degli stili, ovvero delle categorie storico-strutturali del pittorico, cui il pittorico stesso non può venire ridotto, ha nel colore la sua qualità produttiva, una qualità originaria, che si ripropone sempre di nuovo, e che sfugge l’equivoco della rappresentazione, della riconoscibilità, del mimetico, richiedendo una forma di riconoscimento sia empatica sia razionale. D’altra parte, come è noto, Leon Battista Alberti tende piuttosto a ricondurre il pittorico al “disegno”, attestandone di conseguenza il senso razionale, descrittivo, formale. Il monocromo vuole invece ricordare che il pittorico è colore, ovvero qualità pura del possibile, genesi della forma che precede le stilizzazioni e che, di conseguenza, affronta la questione dell’informe e dell’irrappresentabile non come contrari dialettici del formale e della rappresentazione, bensì in quanto suoi elementi costitutivi originari, esplicitando i quali la pittura conduce sulle strade 77 della Gestaltung, all’interno di una goetheana metamorfosi della forma che è simbolo della metamorfosi stessa del pensiero, della sua radice sensibile, di una forza formativa che fonda la presenza, attestandone sempre di nuovo il senso di possibilità. Il valore simbolico della forma pittorica è appunto nell’unione, nell’unificazione, della forma matrice dello stile, la possibilità pura del colore, con le molteplicità ekphrasticoretoriche degli stili, cioè delle forme che ne delineano i contorni. Il valore simbolico ed espressivo del colore in Goethe 6 è un tentativo di comprendere il simbolo, lo stile, il fenomeno originario, la matrice di un senso espressivo che si esplicita, in polemica con Newton, in eventi non riducibili a catene causali o spiegazioni meramente concettuali: Steiner, Albers, Kandinsky, Klee, Marc, Wittgenstein, pur con accenti diversi, hanno ripreso la volontà goetheana di rivestire il colore di un significato simbolico, spesso sposandola (o contrapponendola con la teoria del colore romantica di Philip Otto Runge) 7. È significativo che Goethe distingua simbolo e allegoria anche nella sua Teoria dei colori: se infatti uso simbolico del colore è quello che se ne serve per esaltare la sua azione, un «vero nesso» che subito esprime un «significato», l’impiego allegorico «contiene una quota maggiore di casualità e arbitrarietà, direi perfino qualcosa di convenzionale» 8. Il simbolico esprime dunque il senso possibile del colore, ma lo esprime a partire dalla sua realtà empirica, esperienziale, cromatica: non esiste attività simbolica, infatti, «che non si incontri nello stesso tempo con la natura e il mondo, a essi ricongiungendosi» 9. Tuttavia, la sensibilità simbolica del colore non è soltanto il risultato di un movimento interiore, come sembra credere Kandinsky, bensì soprattutto il legame tra l’occhio e il mondo, che origina un «fenomeno naturale» che si manifesta «attraverso divisione e opposizione, mescolanza e unione, potenziamento e neutralizzazione, trasmissione e distribuzione» 10. Di conseguenza, non si contrappone affatto al disegno, ma ne è il necessario completamento. Il disegno, peraltro, non indica, neppure in Vasari, una forma razionale e intellettualistica, bensì la capacità di oggettivare, di rendere forme variati in stili, i sentimenti possibili che l’arte esprime. La pittura, scrive, «è un piano coperto di campi di colori, in superficie, di tavola o di muro – di tale, intorno a diversi lineamenti, i quali per virtù di buon disegno di linee girate circondano la figura» 11. Anche Leon Battista Alberti, pur ritenendo che i modelli e i metodi della natura che l’arte deve reperire e riprodurre siano riconducibili a espressioni geometriche, matematiche, musicali e corporee, sa che esse «non rivendicano il distacco dalla natura, dall’esperienza e da un generale orizzonte sapienziale, bensì manifestano la loro origine simbolica e la costante congruenza con i fenomeni percepiti attraverso i sensi» 12. L’unità simbolica di una forma, il suo stile – ed è una prima conclusione possibile – è dunque un insieme di disegno e colore, di linea 78 che circoscrive e di cromaticità che tocca i sensi, di stile-matrice e di stili narrativi, è un geroglifico espressivo 13 da decifrare: una forma retorico-espressiva costituita da parti distinte, che tuttavia, esplicitando il significato possibile che è nei loro nessi, possono costituire sempre nuovi interi. Se è, come è, unità simbolico-espressiva, che evidenzia i suoi legami con la retorica, la pittura non si limita alla sincronicità simbolica dell’istante, ma narra storie, affrontando anche un’altra dimensione del tempo, la diacronicità della narrazione. Le storie devono attirare l’attenzione, convincere un uditorio, commuoverlo ma anche accrescere il suo sapere: ciò può essere fatto attraverso l’inventio e la dispositio, cioè quelle parti della retorica che costruiscono una struttura, che però deve anche movere e delectare. Di questa profonda analogia, che è una delle componenti più importanti della teoria dell’arte a partire dal Rinascimento, e che implicitamente connette la razionalità logica della linea disegnata con l’emotività qualitativa del colore, va così sottolineata la capacità di costruzione di una forma che sia armonica, cioè in grado di connettere le parti tra loro, ed empatica, che esprime cioè un senso affettivo che colpisca l’osservatore. Armonia ed empatia sono essenziali per l’espressione di una forma simbolica: armonia perché, come suggeriva Alberti, vi deve essere amicitia tra le parti e «l’organicità dell’opera si specchia in questa sintesi tra valori plastici, effetti chiaroscurali e coloristici» 14; empatia in quanto implica una “simpatia simbolica” che lega il soggetto e la forma secondo trame sia affettive sia conoscitive, sia retoriche sia logiche. Proprio come il disegno e il colore, i due elementi devono comporsi: «la istoria, scrive Vasari, sia piena di cose variate e differenti l’una da l’altra, ma a proposito sempre di quello che si fa e che di mano in mano figura lo artefice» 15. La varietà va composta in un quadro armonico, ed esso deve «dilettare». Il colore può incarnare la possibilità, corrispondere alla funzione stilistica che la figuralità ha nell’arte retorica; il disegno può rappresentare quel che per la retorica è l’argomentazione, strutturando il percorso narrativo; i ruoli e le funzioni possono anche alternarsi o scambiarsi, secondo modi la cui possibilità è radicata nell’incontro tra la specificità qualitativa della forma e l’occhio dell’osservatore. Ma quel che rimane costante, in tale varietà di modi, è la tendenza del diverso a costituire un’unità (formale e armonica), unità che genera quella forma empatica e simbolica in virtù della quale la forma stilistica stessa viene detta “espressiva”. Il simbolo è una monade espressiva, che nel suo essere semplice e complessa, armonica e lacerata, empatica e fonte di conoscenza tende sempre a una “amicizia” tra le sue parti, che è la matrice, lo stile di una tensione costruttiva che ne esplicita, attraverso forme o stili singolari, la costitutiva trama di possibilità. Il mutare delle “lingue” in cui tale matrice si esprime – e di cui 79 l’arte novecentesca è utile orizzonte esemplificativo – non modifica il senso del suo linguaggio, di quello stile che ne anima l’intenzione formativa e che ne è la condizione di possibilità. Questa “intenzione” non è una funzione antropologica o, meglio, la costante antropologica che la anima ne indica il valore conoscitivo, cioè l’istanza gnoseologica che guida il tentativo di chiarificare il senso possibile che attraversa la stratificata vita delle forme. La varietà che qui si esprime non è frammentazione, elogio della rovina o dell’allegoria, bensì, nella metafora viva del pittorico, incontro armonico di forma e forza, di disegno e colore, che costituiscono una unità. La perfezione del passaggio dal possibile al reale si concretizza così nella forma, nello stile che è unità nella varietà: formula con cui per molti secoli è definita la bellezza in quanto ente che discende dalla genesi del possibile, cioè da quella armonia universale cui il possibile stesso tende nel suo farsi esistente. La forma simbolica non è mai una realtà statica, un “fatto”: esprime un possibile che è, come voleva Goethe, formativo. Le piccole percezioni, chiare e confuse, radice estetica del sapere simbolico, rendono tale realtà formale una matrice di possibilità da esplicitare in sempre nuove forme, senza che il suo senso sia soddisfatto o pacificato da una tra esse soltanto. Ma senza che, al tempo stesso, la confusione si trasformi in oscurità o in elogio della mera apparenza: le monadi simboliche, la varietà degli stili, sono forme che tendono al compimento, all’“amicizia”, non tracce oscure e autoreferenziali, bensì occasioni di pensiero, di tensione al compimento di un senso di riunificazione simbolica. È tale fenomenologia a mostrare i limiti di qualsivoglia soluzione empirica od ontologica: lo stile simbolico è un nucleo di possibilità che esprime il proprio senso in molteplici stili, in una varietà di possibili che ne sono, per così dire, le “piccole percezioni”. Le “forme”, le “icone” che l’arte presenta non sono dunque enti monumentali, né rovine di un passato immemoriale, bensì senso in genesi, possibile che si esprime, piccole percezioni che si affacciano, divenendo chiare a fronte di una spontanea intenzionalità formativa e intersoggettiva. Gli stili in cui questa genesi si esprime sono il “possibile” che è nello stile, nella forma simbolica, che cerca, nella varietà, e nei suoi tormenti, una provvisoria unificazione delle qualità differenti da cui è attraversata la trama delle cose mondane, che a noi si offrono, nella storia, per essere sempre di nuovo decifrate nella loro capacità di produrre, attraverso rappresentazioni finite, senso, espressione, comunicazione. 1 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di E. Paci, Milano, Il Saggiatore, 1968, p. 183, par. 44. 2 Ivi. 80 Ivi. Ivi, pp. 185-86. Anche “formazione” (Bildung) è ovviamente termine goetheano. 5 H. Maldiney, Regard, parole, espace, Lausanne, L’age de l’homme, 1973, p. 6. 6 Si veda J. W. Goethe, La teoria dei colori, a cura di R. Troncon, Milano, Il Saggiatore, 1979. Per un inquadramento della teoria di Goethe nella problematica contemporanea, si veda il n. 23-24, 1981, de “il verri”, citato da R. Troncon e dedicato a questa problematica. 7 Si veda P. O. Runge, La sfera del colore, a cura di R. Troncon, Milano, Il Saggiatore, 1985. 8 J. W. Goethe, La teoria dei colori, cit., p. 214. 9 R. Troncon, Appendice “Goethe e la filosofia del colore”, ivi, p. 241. 10 J. W. Goethe, cit., p. 15. 11 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Torino, Einaudi, 1986, p. 58. 12 P. Panza, Leon Battista Alberti. Filosofia e teoria dell’arte, Milano, Guerini, 1994, p. 23. 13 Troviamo questa espressione in Alberti, Leonardo, Diderot. 14 P. Panza, cit., p. 126. 15 G. Vasari, cit., p. 59. 3 4 81 “Ästhetische Arbeit”: l’estetica atmosferica di Gernot Böhme e l’attualità della retorica di Salvatore Tedesco Sapientemente dissimulata dietro il concetto piuttosto “esoterico” di atmosfera, la nuova estetica, o piuttosto aisthetica, di Gernot Böhme si propone come il punto di arrivo di un complesso percorso all’interno delle tradizioni della fenomenologia novecentesca – e qui il riferimento andrà non tanto alla linea che da Husserl conduce sino a Merleau-Ponty, quanto piuttosto all’estetica e all’antropologia fenomenologica da Rothacker, a Klages, sino a Hermann Schmitz – e al tempo stesso come una robusta, seppure indubbiamente problematica, ripresa del progetto estetologico baumgarteniano. La nuova «estetica come teoria generale della percezione» 1 riattiva infatti sin dal nome – Aisthetik appunto – il riferimento alla scienza baumgarteniana della sensibilità, realizzando proprio per questo tramite – ed ecco un altro degli aspetti macroscopici della posizione di Böhme, che sicuramente hanno contribuito ad iscriverla autorevolmente nell’attuale dibattito tedesco 2 – una significativa estensione dell’ambito dell’estetica al di fuori della tradizionale filosofia dell’arte, in direzione di un’estetica della natura 3 e di una “neo-estetica” che tiene di mira fenomeni quali il design e una più generale estetizzazione del reale 4. L’attualità per la verità quasi corriva e direi la sin troppo ampia circolazione di temi affini nell’estetica tedesca di oggi (pur nella diversità delle posizioni, e per fare solo i nomi maggiori: Welsch, Seel, Bohrer, Wiesing) ha però portato a trascurare gli intenti propriamente sistematici del discorso di Böhme, intenti a partire dai quali, tuttavia, acquista probabilmente ulteriori valenze anche il riferimento a Baumgarten e a quella componente fondamentale, benché spesso travisata, dell’estetica di Baumgarten che è la retorica. Böhme condivide anzitutto con Baumgarten l’idea che tramite l’estetica si offra spazio a una peculiare forma di conoscenza, significativamente diversa da quella costituita dalla scienza moderna: «a me interessa sviluppare la conoscenza estetica proprio come una conoscenza particolare e soprattutto diversa da quella scientifica, e in relazione a ciò mostrare che essa scopre nel mondo qualcosa che non è accessibile ad altri modi di conoscenza» 5. La creazione di uno spazio teorico per l’estetico era stata possibile 83 a Baumgarten solo per il tramite di un profondo ripensamento del progetto filosofico della modernità, rimettendo in questione il criterio cartesiano della chiarezza e distinzione della conoscenza e così conducendo a riarticolarlo analiticamente tanto in relazione ai criteri della verità che alla strumentazione metodologica di cui la mente umana si serve per elaborare le proprie forme di conoscenza. La teorizzazione della bellezza come “perfezione della conoscenza sensibile in quanto tale” 6 e dunque l’affiancamento di un altro possibile ordine delle verità a quello della logica dell’intelletto, apriva il campo a una pluralità di criteri di perfezione della conoscenza 7, e trovava rispondenza sul piano dell’organon, della strumentazione filosofica, nella creazione di una disciplina estetica che veniva ad affiancarsi alla logica tradizionale, modernamente sempre più volta in direzione della ricerca scientifica. Ed è proprio a partire da una profonda riflessione sui fondamenti teorici e sulla metodologia della ricerca scientifica contemporanea che l’estetica è anzitutto chiamata, secondo Böhme, ad assicurare la necessaria articolazione concettuale e dunque pregnanza di discorso filosofico a una forma di sapere profondamente alternativa, appunto sul piano metodologico, nei confronti del corso maggiore della scienza moderna e della settorializzazione del concetto di esperienza cui essa conduce. Una lunga serie di lavori portati avanti da Böhme nel corso degli anni Sessanta e Settanta, e specie all’epoca della sua collaborazione con lo Institut zur Erforschung der Lebensbedingungen der wissenschaftlichtechnischen Welt, diretto da Jürgen Habermas e da Carl Friedrich von Weizsäcker, ci aiuta a comprendere il senso della proposta del nostro; una proposta, tanto andrà anticipato, che nasce da una riflessione quanto mai attenta sul metodo delle scienze contemporanee, e che giusto nel cuore di quei procedimenti metodici rintraccia le aperture in direzione di una differente organizzazione del sapere. Già a partire dal libro del 1966 Über die Zeitmodi il senso del percorso di Böhme appare d’altronde definito con la massima chiarezza: Über die Zeitmodi si occupa delle variazioni intervenute nel concetto di tempo a seguito della moderna fisica quantistica, prendendo sostanzialmente le mosse da Der zweite Hauptsatz und der Unterschied von Vergangenheit und Zukunft 8, un celebre lavoro del 1939 di Carl Friedrich von Weizsäcker, allora giovane allievo di Heisenberg e Bohr. In parallelo col dibattito della fisica quantistica, un’analisi delle funzioni grammaticali del verbo era chiamata nel volumetto del 1966 a prospettare, «con costante riferimento ai fenomeni del comportamento quotidiano» 9, il nesso delle strutture temporali su cui si articola la comprensione del tempo propria della coscienza naturale. Il rapporto fra scientifizzazione e mediazione tecnica dell’esperienza, da una parte, e “mondo della vita”, dall’altra 10, deve essere elaborato nella concretezza di determinate Fallstudien, nei punti salienti della 84 sperimentazione teorica a partire dai quali si determina la metodologia delle singole scienze 11, e non potrà che guidare a tematizzare con particolare attenzione quei momenti in cui emergono forme di elaborazione scientifica dell’esperienza divergenti dal «superparadigma della scienza naturale» 12 moderna. Se, come osserva Böhme nell’importante Die Verwissenschaftlichung der Erfahrung 13, la scienza naturale moderna «non è un’immediata prosecuzione dell’esperienza del mondo della vita», istituendo anzi nei confronti di questa una necessaria discontinuità, emancipandosene in direzione di «ambiti fenomenici che non sono in generale accessibili all’esperienza del mondo della vita», ciò avviene perché, a differenza dell’altra, quella propria delle scienze naturali «non è più percezione (Wahrnehmung), ma esperienza mediata da un apparato tecnico (apparative Erfahrung)». Tanto più significativa allora la progressiva differenziazione metodologica dei discorsi scientifici che ha luogo nella modernità; non è un caso che proprio a Carl Friedrich von Weizsäcker Böhme dedichi nel 1977, l’anno in cui lascia l’Istituto da questi diretto, un saggio sulla Teoria dei colori di Goethe 14, presentata come esempio di una scienza della percezione che costituisce una decisa «alternativa al di fuori del mainstream della scienza naturale moderna» 15 rappresentata, nel caso specifico, dalla teoria newtoniana del colore. Almeno tre passaggi dell’argomentazione di Böhme sul modello di scienza prospettato dalla Farbenlehre risultano anche ai nostri fini del più grande interesse: anzitutto, osserva Böhme, ben al di qua della concreta articolazione delle rispettive teorie, Goethe e Newton vengono guidati da un differente interesse conoscitivo (Erkenntnisinteresse), orientato da un diverso rapporto con la prassi 16: a esser tematizzate da Goethe saranno in primo luogo le condizioni per il manifestarsi dei colori e saranno appunto tali condizioni, empiriche, a guidare la teoria. In secondo luogo – e ciò come vedremo determina per intero il discorso estetologico di Böhme – il concentrarsi dell’interesse conoscitivo sulla “manifestatività” pone decisamente in secondo piano la discussione “moderna” sulle qualità primarie e secondarie. Böhme non tarda a coglierne conseguenze di ancor più ampia portata: «i colori […] non appartengono né all’ordine della res extensa né a quello della res cogitans, […] non sono né qualcosa di oggettivo né qualcosa di soggettivo, ma piuttosto […] si danno condizioni oggettive e soggettive per il loro manifestarsi. La teoria di Goethe prende su di sé l’impegno di indicare in modo sistematico tali condizioni» 17. In ultimo, la centralità del riferimento storico: la storia della scienza, delle alternative metodiche in cui essa si costruisce, è essa stessa la scienza 18, con il suo ineliminabile pluralismo metodologico 19 e con le complesse motivazioni in ordine alle mutazioni di paradigma che in essa hanno luogo. Fermiamoci subito per schizzare brevemente la genesi di questo nesso fra l’interesse conoscitivo e quella che possiamo senz’altro iniziare 85 a chiamare la prassi o anche il lavoro estetico. Il concetto di Erkenntnisinteresse si lega – probabilmente per il tramite di Habermas 20 – al pensiero di Erich Rothacker 21: sulla base della distinzione fra lebenspraktisches����������� Bewußtsein, la coscienza pratica che opera nel mondo della vita sempre orientandosi “in situazione”, e wissenschaftspraktisches Bewußtsein, ovvero l’attività della soggettività propriamente volta alla “identificazione logica” e dunque alla costruzione delle scienze rigorose 22 – attività essa stessa eminentemente “pratica”, a giudizio di Rothacker, in quanto sempre relativa a un determinato obiettivo conoscitivo storicamente e problematicamente determinato, sempre relativa, nella terminologia di Rothacker, a una determinata “dogmatica” 23 – Rothacker giunge all’enucleazione di tre “leggi della coscienza”, fra le quali ha particolare risalto la terza, il Satz der Bedeutsamkeit o “principio di significatività” che afferma il carattere selettivo dell’attività con cui la coscienza attribuisce senso alla realtà sulla base di un determinato interesse, conoscitivo in senso lato, ovvero un interesse da intendere in primo luogo come un nesso vitale che lega un soggetto storicamente e culturalmente determinato a qualcosa 24. Rothacker parla di «costituzione di isole di senso per mezzo della assunzione di interesse» 25, e il carattere pratico dell’interesse sta appunto in questa funzione costruttiva di senso, e dunque, per quanto riguarda la sfera del lebenspraktisches Bewußtsein, nella peculiare creatività dell’intuizione sensibile. In parallelo con la hegeliana Arbeit des Begriffs si potrà senz’altro parlare – propone Rothacker 26 sulla scia di una serie di riferimenti giocati nell’essenziale sulla linea da Schopenhauer a Fiedler e sino a Klee – di una Erarbeitung der Anschauung, di una elaborazione dell’intuizione che avviene in primo luogo nell’ambito della corporeità e della relazione sensibile fra l’uomo e la realtà, scaricandosi quindi nel lavoro interpretativo del mito 27, e trovando infine un momento di particolare chiarificazione nella sfera propriamente artistica. L’interesse di Goethe per le condizioni del manifestarsi dei colori, e torniamo così alle teorie di Böhme, conduce all’elaborazione di un sapere sistematico a partire dalla costruzione del senso propria della prassi artistica: si tratterà dunque di un sapere scientifico, non già concepito secondo il modello della apparative Erfahrung della scienza naturale moderna, ma nel senso di una scienza della percezione, di una scienza delle condizioni oggettive e soggettive insieme del darsi del fenomeno estetico del colore 28. Quando, vent’anni più tardi, ���� Böhme�������������������������������������������������������������������� attribuirà alla nuova estetica il compito di elaborare un concetto capace di «dar conto del peculiare stato intermedio delle atmosfere fra soggetto e oggetto» 29, non farà che proseguire lo stesso progetto, traendo ogni implicazione dalla valenza in senso proprio ambientale delle strutture di senso in cui si danno i “fenomeni intermedi” dell’esperienza sensibile. A esser prefigurata nella Farbenlehre sarà allora «una concezione 86 della natura all’interno della quale la configurazione espressiva (Ausdrucksgestalt) è rilevante nel nesso naturale e i colori sono un fenomeno fra soggetto e oggetto, una realtà in cui si uniscono il visibile e l’occhio che vede. I colori sono azioni della luce, come dice Goethe, energeia» 30. «L’interesse conoscitivo plasma i metodi della conoscenza e con essi ciò che viene conosciuto» 31, scrive Böhme ritornando nel 1980 ai risultati del saggio sulla Farbenlehre; ne deriva la necessità di lavorare sulle alternative della scienza, di tenere aperto un pluralismo metodologico che permetta di intendere la scientificità di quelle forme di sapere che – piuttosto che alla modificazione tecnica della natura cui mira il sapere produttivo (Produktionswissen) della scienza naturale moderna – servono all’orientamento (Orientierungswissen) all’interno di un ordine naturale dato e a teorizzare i fenomeni naturali non solo nelle loro reciproche relazioni, ma anzitutto nel loro rapporto con l’uomo, così prefigurando «un’altra relazione con la natura e dell’uomo con se stesso» 32. Gli aspetti indubbiamente un po’ ingenuamente “ambientalistici” di questa contrapposizione fra sapere produttivo e sapere d’orientamento vengono ben presto superati da Böhme grazie all’approfondimento concettuale del significato della relazione ambientale, nel senso di una ripresa del concetto di Umwelt nella sua accezione originaria, quale si trova nella biologia teoretica di Jakob von Uexküll: struttura biologica (Bauplan) e ambiente di vita della specie stanno fra loro in relazione di corrispondenza; il concetto di ambiente (Umwelt) si determina in quanto unità strutturale di mondo percettivo e mondo dell’agire della determinata specie 33. In una considerazione ambientale, dirà Gehlen ripensando la lezione di Uexküll, «il soggetto degli eventi non è, per così dire, né un individuo né una specie, bensì un rapporto tra specie e ambiente o, per dir meglio, un’interconnessione di varie specie e di vari ambienti» 34. Proprio in questo senso, nell’Aisthetik, Böhme parlerà di estetica della natura in quanto «questione della relazione fra qualità ambientali e condizione (Befindlichkeit) umana» 35, intendendo la Befindlichkeit� come la disposizione dell’io nell’atto percettivo prima che avvenga in senso pieno la separazione fra il polo soggettivo e il polo oggettivo 36, e dirà che problema peculiare della nuova estetica è quello legato alla «messa in forma (Gestaltung) di un ambiente umano» 37. “Orientamento” e “produzione” formano dunque un’endiadi – proprio come percezione e movimento sul piano della determinazione antropologica dell’agire umano 38 – e una scienza della percezione sarà elaborazione metodica di un sapere sulle configurazioni espressive della realtà 39. Torniamo così al nesso fra interesse, prassi e scienza della percezione, per ritrovarne un’ulteriore decisiva stazione teorica nella Anthropologie in pragmatischer Hinsicht del 1985 40, in cui il concetto 87 di Praxis servirà a teorizzare le relazioni fra atmosfera, condizioni del suo sorgere e analisi della sua produzione; non entrerò in questa sede in un’analisi di questo scritto, per limitarmi a sottolineare una svolta, o piuttosto un chiarimento importante che a partire da esso s’impone alla riflessione di Böhme: in una rinnovata fenomenologia della percezione ambientale quello di atmosfera vale come concetto antropologico centrale, risultando tuttavia realmente suscettibile di analisi soltanto in quanto concetto estetico. Possiamo finalmente ritornare a Baumgarten e al ruolo che Böhme gli attribuisce nella storia della scienza estetica e delle sue alternative disciplinari: decisivo nel progetto baumgarteniano è evidentemente per Böhme anzitutto il fatto che l’analisi delle condizioni dell’esperienza sensibile venga sviluppata in forma di scienza; ciò potrà aprire, francamente al di là delle intenzioni dello stesso Baumgarten, all’elaborazione di un diverso modello di scienza delle interazioni fra l’uomo e la natura 41: «l’estetica come teoria della percezione scopre dunque un tratto fondamentale della natura che sfugge alla scienza naturale, a ogni modo a quella moderna. Nella percezione la natura ci viene incontro come percepibile, essa è, con il termine greco, aistheton» 42. Altrettanto decisivo è però il procedimento metodico con cui l’esigenza di un sapere sulla sensibilità diviene in Baumgarten scienza in senso forte; ovvero, come si diceva all’inizio di queste note, l’intreccio fra la questione metodologica dell’estetico e la fondazione sistematica della scienza estetica come nuova articolazione dell’organon. Riprendendo dunque, nei modi e per le ragioni assolutamente peculiari che siamo andati esaminando, l’intenzione teorica baumgarteniana – direi proprio in senso specifico quanto al profondo innesto fra dimensione metodologica e progetto sistematico – Böhme afferma che il discorso estetologico non potrà porsi come l’applicazione di un determinato impianto metodologico o di un programma di ricerca a “problemi estetici”, ma dovrà piuttosto sviluppare a partire dai problemi stessi un impianto concettuale e una terminologia a essi adeguata 43. Con questo gesto, Böhme si pone risolutamente nel segno della fenomenologia di Hermann Schmitz, riprendendo in maniera piuttosto evidente il concetto di sistema da questi elaborato e posto a fondamento della propria ricerca: l’Aisthetik avrà carattere sistematico, a giudizio di Böhme, «in quanto essa a partire dalle situazioni problematiche attualmente urgenti del proprio campo di lavoro e a seguito di tali problemi sviluppa passo dopo passo la propria concettualità» 44. Doppiamente pertinente risulterà allora l’esempio storico di Baumgarten, se è vero che l’incrocio fra il problema metodologico dell’estetico e lo sviluppo sistematico della disciplina estetica è reso possibile in Baumgarten dalla teorizzazione, di origine aristotelica, delle arti come forme del sapere. Se per un verso la formulazione delle questioni estetologiche è in 88 definitiva possibile per Böhme solo a partire dai fatti estetici (e in questo senso si fa valere il carattere di testimonianza degli ordini del sensibile che le opere d’arte rivestono per la prospettiva dell’Aisthetik), ciò che qui particolarmente interessa – ciò che apre in senso proprio la prospettiva del lavoro estetico – è il carattere produttivo del sapere artistico 45; Böhme valorizza in questo senso l’affermazione di Meier per cui le belle arti e scienze consistono in una forma di conoscenza «secondo la quale determinate azioni vengono eseguite in una determinata maniera, e secondo la quale viene prodotto o meno un determinato specifico oggetto» 46: l’opera d’arte, ne conclude Böhme, «è l’oggettivazione di una conoscenza» 47. Davvero eroico, nell’Aisthetik, il tentativo di Böhme di indicare i tratti salienti dell’elaborazione estetica delle atmosfere, a partire dall’individuazione, sulla scorta del dibattito settecentesco sulla fisiognomica, di una serie di “caratteri delle atmosfere” che, complessivamente considerati 48, conducono – direi – a valorizzare l’immanenza nelle atmosfere di un movimento espressivo che attraversa l’intera relazione ambientale fra soggetto e oggetto, fra colui che percepisce e la configurazione percepita; in corrispondenza dei caratteri, Böhme si sforza anche di indicare una serie di elementi generatori (Erzeugende), che saranno in ultima analisi l’oggetto specifico del lavoro estetico tanto nel campo delle arti tradizionalmente intese quanto e soprattutto nei “nuovi” ambiti del design, della pubblicità, della moda, della cosmetica, dell’architettura d’interni, o ancora, ad esempio, della musica ambientale 49. E qui ancora Böhme parlerà ad esempio di gestualità e fisionomia in rapporto al carattere comunicativo delle atmosfere, di configurazione delle forme e dei volumi in rapporto alle impressioni motorie legate al carattere emotivo delle atmosfere 50. Il lavoro estetico consiste dunque nella produzione di strategie volte all’oggettivazione della conoscenza sensibile, e tale oggettivazione, tale messa in forma delle configurazioni espressive della realtà (cioè, secondo la terminologia di Böhme, delle atmosfere), si definisce con Baumgarten perfezionamento della conoscenza sensibile: «Chiunque dispone della conoscenza sensibile, ed essa è di grande significato nella vita quotidiana. L’estetica serve al perfezionamento di questa conoscenza; in quanto perfetta la conoscenza sensibile è arte» 51. Nel cuore di tale strategia di perfezionamento sta per Baumgarten il ripensamento filosofico della retorica, la costruzione di una teoria dell’argomentazione estetica. La percezione sensibile può stare al centro dell’estetica di Baumgarten solo in quanto la retorica permette di riconoscerla capace di un’autonoma strategia conoscitiva di perfezionamento. L’argomentazione estetica ha luogo per Baumgarten nell’articolazione di un nesso di percezioni sensibili, e la retorica illustra le regole strutturali per il cui tramite avviene il perfezionamento della conoscenza sensibile cui tutta intera l’estetica è finalizzata 52. 89 Böhme giunge a equiparare il concetto di lavoro estetico a quello di retorica, e ciò in due accezioni diverse: per un verso al fine di sottolineare l’intonazione affettiva, emozionale, dell’esperienza ambientale della configurazione dell’oggetto estetico 53, per l’altro verso nella conclusiva articolazione del lavoro estetico nei due versanti della prassi e della critica estetica 54. Per quanto Böhme, nel suo ripensamento sistematico dell’estetica di Baumgarten, finisca col cogliere in modo sempre piuttosto parziale il ruolo chiave giocato dalla retorica, e in specie dalla teoria dell’argomentazione, la retorica gioca di fatto un ruolo di primo piano nel discorso estetico di Böhme; per fare un unico esempio, la polarità poc’anzi brevemente schizzata fra carattere comunicativo e carattere emotivo delle atmosfere rinvia senz’altro alla polarità retorica fra ethos e pathos, del resto essa stessa ampiamente adombrata in alcune delle sue conseguenze storicamente più pervasive nella complementarità sviluppata da Böhme fra prassi e critica estetica. Straordinaria pervasività del paradigma retorico: secondo il modello baumgarteniano della philosophia instrumentalis, la teoria implica e richiede la prassi estetica, l’analisi strutturale delle atmosfere non si compie in Böhme senza la considerazione topica degli elementi generatori delle atmosfere stesse, delle loro condizioni sociali, politiche e delle forme della comunicazione; di più, quella di Böhme sarà in senso specifico un’analisi dei mezzi atti a suscitare le atmosfere, e giusto in questo senso una retorica filosofica e non una poetica normativa delle atmosfere. 1 Questo il sottotitolo di G. Böhme, Aisthetik. Vorlesungen über Ästhetik als allgemeine Wahrnehmungslehre, München 2001, a oggi la più ampia trattazione estetologica proposta da Böhme. 2 Mi fa piacere a questo proposito ricordare il lavoro di Giuseppe Gulizia, Anestetica e nuova estetica. Percorsi nel dibattito contemporaneo tedesco, che ho avuto modo di seguire nell’ambito delle attività del Dottorato di ricerca in “Estetica e teoria delle arti” dell’Università di Palermo. 3 In questo senso cfr. soprattutto G. Böhme, Natürlich Natur, Frankfurt am Main 1992; Idem, Für eine ökologische Naturästhetik, Frankfurt am Main [1993] 19993; Idem, Atmosphäre, Frankfurt am Main 1995; e il più recente, in certo modo riassuntivo, Idem, Die Natur vor uns, Kusterdingen 2002. ���������������������������������������������������� Si vedano in proposito i rilievi critici di P. D’Angelo, Estetica della natura, Roma-Bari 2005. 4 Oltre che in buona parte dei lavori già cit., e nella Aisthetik in primo luogo, il tema ritorna ad es. nel recente G. Böhme, Architektur und Atmosphäre, München 2006. 5 Idem, Atmosphäre, cit., p. 10. 6 Secondo la definizione del § 14 dell’Estetica di Baumgarten; e cfr. in proposito le osservazioni di G. Böhme, Aisthetik, cit., p. 15. 7 Per questo punto mi permetto di rinviare al mio L’estetica di Baumgarten, Palermo 2000. 8 Originariamente pubblicato in “Annalen der Physik”, 36, 275 (1939), il saggio è 90 ora leggibile in C. Fr. von Weizsäcker, Die Einheit der Natur, München 1971, nuova ed. 1982, pp. 172-82. 9 G. Böhme, Über die Zeitmodi, Göttingen 1966, p. 13. 10 Tutta la questione, oggetto del lavoro di Böhme, come si vede, già dagli anni Sessanta, ritorna in forma sistematica in Idem, Weltweisheit, Lebensform, Wissenschaft. Eine Einführung in die Philosophie, Frankfurt am Main 1984, rielaborato col titolo Einführung in die Philosophie dieci anni più tardi. 11 In questo senso Idem, Quantifizierung und Instrumententwiwicklung. Zur Beziehung der Entwicklung wissenschaftlicher Begriffsbildung und Meßtechnik, in “Technikgeschichte”, 43 (1976), pp. 307-13. 12 Idem, Die Verwissenschaftlichung der Erfahrung. Wissenschaftsdidaktische Konsequenzen, in G. Böhme e M. von Engelhardt (a cura), Entfremdete Wissenschaft, Frankfurt am Main 1979, pp. 114-36, qui a p. 115. 13 Cit., di seguito si citerà dalle pp. 115-16. 14 Idem, Ist Goethes Farbenlehre Wissenschaft?, in “Studia Leibnitiana”, 9, 1977, pp. 27-54, ora ripreso in Idem, Alternativen der Wissenschaft, Frankfurt am Main 1980, pp. 123-53, nel seguito si citerà da questa edizione. L’importante ������������������������������������ saggio si inserisce in un dibattito decisivo per la riflessione sulla scienza moderna. Mi �������������������������� limito qui a indicarne alcune tappe essenziali: H. Helmholtz, Über Goethes naturwissenschaftliche Arbeiten, in Idem, Vorträge und Reden, vol. I, Braunschweig 1896, pp. 23-47; G. Benn, Goethe und die Naturwissenschaften, in Idem, Nach dem Nihilismus, Berlin 1932, pp. 25-85; W. Heisenberg, Die Goethesche und die Newtonsche Farbenlehre im Lichte der modernen Physik, in “Geist der Zeit”, 19, 5, 1941, pp. 261-75, con varie ristampe; V. von Weizsäcker, Gestalt und Zeit, in “Die Gestalt”, 7, 1942, anch’esso più volte ripreso in volume; C. Fr. von Weizsäcker, Goethes Farbentheologie - heute gesehen, Göttingen 1991; un discorso a parte riguarderebbe la ripresa di tematiche goetheane nella fenomenologia d’impostazione schmitziana, da H. Schmitz, Goethes Altersdenken im problemgeschichtlichen Zusammenhang, Bonn 1959, al recente G. Böhme, Goethes Faust als philosophischer Text, Kusterdingen 2005. 15 Idem, Alternativen der Wissenschaft, cit., p. 21. 16 Idem, Ist Goethes Farbenlehre Wissenschaft?, cit., p. 134. 17 Ivi, p. 137. 18 Ivi, p. 140, riflessione costruita da Böhme attorno a una citazione dalla Farbenlehre. 19 È questo un tema cardine della riflessione metodologica di Viktor von Weizsäcker, zio di Carl Friedrich, ed altro autore di riferimento per Böhme; cfr. ad es. ������� V. von Weizsäcker, Der Gestaltkreis (1940), in Idem, Gesammelte Schriften, vol. 4, Frankfurt am Main 1997, pp. 270-75. 20 Rothacker guidò Habermas per la dissertazione di dottorato, Das Absolute und die Geschichte im Denken Schellings, del 1954. ����������������������������������������� Di fatto, ad ogni modo, Böhme si limita, nelle prime pagine del volume Alternativen der Wissenschaft, cit., pp. 20-21, introducendo le tematiche del saggio sulla Farbenlehre, che in quel volume viene ristampato, a fare un rapido accenno ad Habermas e a Scheler, senza un esplicito richiamo a Rothacker. 21 Si veda in proposito soprattutto E. Rothacker, Zur Genealogie des menschlichen Bewusstseins, Bonn 1966; mi permetto di rinviare ai miei S. T., Baeumler, Rothacker e la storia delle idee, in S. T., Il metodo e la storia, Palermo 2006, pp. 35-74; S. T., Forma e tempo nell’antropologia filosofica a cavallo della metà del Novecento, in “Fieri. Annali del Dipartimento di Filosofia Storia e Critica dei Saperi”, n. 4, 2006, pp. 419-37, e alla bibliografia ivi citata. 22 Cfr. in proposito W. Perpeet, Erich Rothacker, Bonn 1968, pp. 68-75. 23 Cfr. E. Rothacker, Die dogmatische Denkform in den Geisteswissenschaften und das Problem des Historismus, Mainz 1954 24 Così riassuntivamente in E. Rothacker, Zur Genealogie des menschlichen Bewusstseins, cit., p. 357. 25 Ivi, p. 83. 91 Ibidem. Tenderei a ripensare nel senso qui di necessità solo accennato le relazioni fra il pensiero di Rothacker e Blumenberg. 28 Si vedano, in questa direzione, le conclusioni di G. Böhme, Ist Goethes Farbenlehre Wissenschaft?, cit., p. 149. 29 Idem, Atmosphäre, cit., p. 22. 30 Ivi, p. 182. 31 Idem, Alternativen der Wissenschaft, cit., pp. 20-21. 32 Ivi, p. 14. 33 J. von Uexküll e G. Kriszat, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen, Berlin 1934, ripubblicato insieme con J. von Uexküll, Bedeutungslehre (1940), nella serie “Rowohlts deutsche Enzyklopädie”, Hamburg 1956, cfr. p. 22: «Merkwelt und Wirkwelt bilden gemeinsam eine geschlossene Einheit, die Umwelt». 34 A. Gehlen, L’uomo. �������������������������������������� La sua natura e il suo posto nel mondo, ed. it. Milano 1968, p. 106. 35G. Böhme, Aisthetik, cit., p. 23. 36 Si veda anche questo passo dell’Aisthetik (cit., p. 45), in cui sono raccolti molti dei presupposti sinora qui analizzati per una scienza generale della percezione: «Il paradigma della percezione da cui muoviamo non è del tipo secondo il quale un soggetto si riferisce ad un oggetto. L’evento percettivo fondamentale per la nostra ricerca giace al di qua di ogni scissione fra soggetto e oggetto. Un soggetto e un oggetto della percezione vengono guadagnati solo sulla via di una ulteriore differenziazione e distanziamento. L’evento percettivo fondamentale è il sentore della presenza. Questo sentore della presenza è insieme e indivisibilmente il sentore di me stesso come soggetto della percezione come anche il sentore della presenza di qualcosa». 37 Ivi, p. 23. 38 I riferimenti andrebbero qui alla teoria del Gestaltkreis di Viktor von Weizsäcker e al “circolo dell’azione” di Arnold Gehlen; entrambe le teorizzazioni impensabili senza le articolazioni del concetto di ambiente in Uexküll. 39 Da ciò la centralità, in tutto il pensiero di Böhme, del riferimento a Klages, al concetto di Wirklichkeit des Bildes e anzitutto a L. Klages, Grundlegung der Wissenschaft vom Ausdruck, Bonn 19709, nonché in generale al dibattito sulla fisiognomica, dal Settecento allo stesso Klages. Un esito di questi problemi in G. Böhme, Theorie des Bildes, München 1999. 40 G. Böhme, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Frankfurt am Main 1985. 41 Cfr. Idem, Atmosphäre, cit., p. 180: «Se noi, nel quadro della nuova estetica, vogliamo ripetere il progetto baumgarteniano, occorre anzitutto chiedersi se la teoria estetica della natura può conoscere nella natura qualcosa di fondamentalmente diverso dalla scienza naturale o la natura come qualcosa di fondamentalmente diverso […]. Come dato della scienza naturale non vale la sensazione, ma ciò che si mostra all’apparato tecnico. Anche ciò viene ovviamente in ultima analisi percepito sensibilmente dall’uomo, ma non nella forma di qualità sensibili, ma in quella di simboli, generalmente di numeri. Ne deriva la tesi: la natura come partner della sensibilità umana non è tema delle scienze naturali». 42 Ivi, p. 42. 43 Idem, Aisthetik, cit., p. 11. 44 Ivi, p. 19. A concetto e metodo della filosofia è dedicato il primo capitolo di H. Schmitz, Die Gegenwart, Bonn 1964, nuova ed. 19983, primo vol. dell’ampio System der Philosophie (1964-1980). Si vedano in particolare pp. 62-69. �������������������� Si cfr. anche Idem, Der unerschöpfliche Gegenstand. Grundzüge ������������������������� der Philosophie, Bonn 1990, che offre una panoramica più veloce sull’intero impianto. 45 A partire da questa considerazione si comprende anche il capovolgimento del concetto di atmosfera operato da Böhme rispetto alle concezioni di Schmitz, e casomai la ripresa di movenze proprie dell’estetica dell’espressione di Klages o del “numinoso ambientale” di Rothacker: a Böhme non interessa pensare le atmosfere come freischwe26 27 92 bend, ma tutto al contrario teorizzare le condizioni in cui si istituiscono un polo soggettivo e uno oggettivo nella relazione ambientale: «le atmosfere non sono stati del soggetto né qualità dell’oggetto. Tuttavia esse vengono sperimentate solo nella percezione attuale di un soggetto e sono costituite nel loro esser-qualcosa, nel loro carattere, attraverso la <partecipazione della> soggettività del percipiente. E pur non essendo qualità degli oggetti, vengono evidentemente prodotte attraverso le qualità degli oggetti nella loro interrelazione. Il che vuol dire che le atmosfere sono qualcosa fra soggetto e oggetto. Non sono qualcosa di relazionale, ma la relazione stessa» (G. Böhme, Aisthetik, cit., p. 54). Per la critica di Böhme a Schmitz cfr. G. Böhme, Atmosphäre, cit., pp. 28-34. 46 Il passo dalle Betrachtungen über den ersten Grundsatz aller schönen Künste und Wissenschaften (Halle 1757) di G. Fr. Meier è riportato da Böhme nell’Aisthetik, cit., p. 16. 47 G. Böhme, Aisthetik, cit., p. 16. 48 Se ne ha una disamina ivi, pp. 87-91. 49 Per questo elenco cfr. Idem, Atmosphäre, cit., p. 35. 50 Cfr. Idem, Aisthetik, cit., pp. 101-04. 51 Ivi, p. 16. 52 Rinvio nuovamente all’analisi che ho cercato di fornirne nel mio cit. L’estetica di Baumgarten, specie pp. 82-89. 53 Cfr. G. Böhme, Aisthetik, cit., p. 53. 54 Ivi, pp. 173-88. 93 Aesthetica Preprint 1 Croce e l’estetica, di R. Assunto, P. D’Angelo, V. Stella, M. Boncompagni, F. Fanizza 2 Conversazione con Rudolf Arnheim, di L. Pizzo Russo 3 In margine alla nascita dell’estetica di Freud, di L. Russo 4 Lo specchio dei sistemi: Batteux e Condillac, di Ivo Torrigiani 5 Orwel “1984”: il testo, di F. Marenco, R. Runcini, V. Fortunati, C. Pagetti, G. Sertoli 6 Walter Benjamin: Bibliografia critica generale (1913-1983), di M. Brodersen 7 Carl Gustav Jochmann: I regressi della poesia, di P. D’Angelo 8 La Luce nelle sue manifestazioni artistiche, di H. Sedlmayr 9 Anima e immagine: Sul “poetico” in Ludwig Klages, di G. Moretti 10 La disarmonia prestabilita, di R. Bodei, V. Stella, G. Panella, S. Givone, R. Genovese, G. Almansi, G. Dorfles. 11 Interpretazione e valutazione in estetica, di Ch. L. Stevenson 12 Memoria e oltraggio: Contributo all’estetica della transitività, di G. Lombardo 13 Aesthetica bina: Baumgarten e Burke, di R. Assunto, F. Piselli, E. Migliorini, F. Fanizza, G. Sertoli, V. Fortunati, R. Barilli. 14 Nicolò Gallo: Un contributo siciliano all’estetica, di I. Filippi 15 Il processo motorio in poesia, di J. Mukařovský 16 Il sistema delle arti: Batteux e Diderot, di M. Modica 17 Friedrich Ast: Estetica ed ermeneutica, di M. Ravera, F. Vercellone, T. Griffero 18 Baltasar Gracián: Dal Barocco al Postmoderno, di M. Batllori, E. Hidalgo Serna, A. Egido, M. Blanco, B. Pelegrín, R. Bodei, R. Runcini, M. Perniola, G. Morpurgo-Tagliabue, F. Fanizza. 19 Una Storia per l’Estetica, di L. Russo 20 Saverio Bettinelli: Un contributo all’estetica dell’esperienza, di M. T. Marcialis 21 Lo spettatore dilettante, di M. Geiger 22 Sul concetto dell’Arte, di Fr. Schleiermacher 23 Paul Valéry e l’estetica della poiesis, di A. Trione, M. T. Giaveri, G. Panella, G. Lombardo 24 Paul Gauguin: Il Contemporaneo ed il Primitivo, di R. Dottori 25 Antico e Moderno: L’Estetica e la sua Storia, di F. Fanizza, S. Givone, E. Mattioli, E. Garroni, J. Koller 26 I principî fondamentali delle Belle Arti, di M. Mendelsshon 27 Valori e conoscenza in Francis Hutcheson, di V. Bucelli 28 L’uomo estetico, di E. Spranger 29 Il Tragico: Materiali per una bibliografia, di M. Cometa 30 Pensare l’Arte, di E. Garroni, E. Grassi, A. Trione, R. Barilli, G. Dorfles, G. Fr. Meier 31 L’ordine dell’Architettura, di C. Perrault 32 Che cos’è la psicologia dell’arte, di L. Pizzo Russo 33 Ricercari Nowau. Una forma di oralità poetica in Melanesia, di G. M. G. Scoditti 34 Pensieri sparsi sulla pittura, la scultura e la poesia, di D. Diderot, 35 Laocoonte 2000, di L. Russo, B. Andreae, G. S. Santangelo, M. Cometa, V. Fagone, G. Marrone, P. D’Angelo, J. W. Goethe 36 La decostruzione e Derrida, di A. Van Sevenant 37 Contributi alla teoria della traduzione letteraria, di E. Mattioli 38 Sublime antico e moderno. Una bibliografia, di G. Lombardo e F. Finocchiaro 39 Klossowski e la comunicazione artistica, di A. Marroni 40 Paul Cézanne: L’opera d’arte come assoluto, di R. Dottori 41 Strategie macro-retoriche: la “formattazione” dell’evento comunicazionale, di L. Rossetti 42 Il manoscritto sulle proporzioni di François Bernin de Saint-Hilarion, di M. L. Scalvini e S. Villari 43 Lettura del “Flauto Magico”, di S. Lo Bue 44 A Rosario Assunto: in memoriam, di L. Russo, F. Fanizza, M. Bettetini, M. Cometa, M. Ferrante, P. D’Angelo 45 Paleoestetica della ricezione. Saggio sulla poesia aedica, di G. Lombardo 46 Alla vigilia dell’Æsthetica. Ingegno e immaginazione nella poetica critica dell’Illuminismo tedesco, di S. Tedesco 47 Estetica dell’Ornamento, di M. Carboni 48 Un filosofo europeo: Ernesto Grassi, di L. Russo, M. Marassi, D. Di Cesare, C. Gentili, L. Amoroso, G. Modica, E. Mattioli 49 Scritti di estetica, di L. Popper 50 La Distanza Psichica come fattore artistico e principio estetico, di E. Bullough 51 I Dialoghi sulle Arti di Cesare Brandi, di L. Russo, P. D’Angelo, E. Garroni 52 Nicea e la civiltà dell’immagine, di L. Russo, G. Carchia, D. Di Cesare, G. Pucci, M. Andaloro, L. Pizzo Russo, G. Di Giacomo, R. Salizzoni, M. G. Messina, J. M. Mondzain 53 Due saggi di estetica, di V. Basch 54 Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica, di L. Russo, L. Amoroso, P. Pimpinella, M. Ferraris, E. Franzini, E. Garroni, S. Tedesco, A. G. Baumgarten 55 Icona e arte astratta, di G. Di Giacomo 56 Il visibile e l’irreale. L’oggetto estetico nel pensiero di Nicolai Hartmann, di D. Angelucci 57 Pensieri sul sentire e sul conoscere, di Fr. Ch. Oetinger 58 Ripensare l’Estetica: Un progetto nazionale di ricerca, di L. Russo, R. Salizzoni, M. Ferraris, M. Carbone, E. Mattioli, L. Amoroso, P. Bagni, G. Carchia, P. Montani, M. B. Ponti, P. D’Angelo, L. Pizzo Russo 59 Ermanno Migliorini e la rosa di Kant, di L. Russo, G. Sertoli, F. Bollino, P. Montani, E. Franzini, E. Crispolti, G. Di Liberti, E. Migliorini 60 L’estetica musicale dell’Illuminismo tedesco, di L. Lattanzi 61 Il sensibile e il razionale. Schiller e la mediazione estetica, di A. Ardovino 62 Dilthey e l’esperienza della poesia, di F. Bianco, G. Matteucci, E. Matassi 63 Poetica Mundi. Estetica ed ontologia delle forme in Paul Claudel, di F. Fimiani 64 Orfeo Boselli e la “nobiltà” della scultura, di E. Di Stefano 65 Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, di E. Franzini 66 Cinque lezioni. Da linguaggio all’immagine, di P. Ricoeur 67 Guido Morpurgo-Tagliabue e l’estetica del Settecento, a cura di L. Russo 68 Le sirene del Barocco, di S. Tedesco 69 Arte e critica nell’estetica di Kierkegaard, di S. Davini 70 L’estetica simbolica di Susanne Katherina Langer, di L. Demartis 71 La percezione della forma. Trascendenza e finitezza in Hans Urs von Balthasar, di B. Antomarini 72 Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, di M. Heidegger 73 Percezione e rappresentazione. Alcune ipotesi fra Gombrich e Arnheim, di T. Andina 74 Ingannare la morte. Anne-Louis Girodet e l’illusione dell’arte, di C. Savettieri 75 La zona del sacro. L’estetica cinematografica di Andrej Tarkovskij, di A. Scarlato 76 La nascita dell’estetica in Sicilia, di F. P. Campione 77 Estetica e critica d’arte in Konrad Fiedler, di M. R. De Rosa 78 Per un’estetica del cibo, di N. Perullo 79 Bello e Idea nell’estetica del Seicento, di E. Di Stefano 80 Dire l’esperienza estetica, a cura di R. Messori Aesthetica Preprint© Periodico quadrimestrale del Centro Internazionale Studi di Estetica Presso il Dipartimento Fieri dell’Università degli Studi di Palermo Viale delle Scienze, Edificio 12, I-90128 Palermo Phono +39 91 6560274 – Fax +39 91 6560287 E-Mail <[email protected]> – Web Address <http://unipa.it/~estetica> Progetto Grafico di Ino Chisesi & Associati, Milano Stampato in Palermo dalla Tipografia Luxograph s.r.l. Registrato presso il Tribunale di Palermo il 27 gennaio 1984, n. 3 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione il 29 agosto 2001, n. 6868 Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana issn 0393-8522 Direttore responsabile Luigi Russo Telling the Aesthetic Experience For over a decade now, a veritable shift in the field of aesthetics has taken place: the aesthetic-philosophical identification of art has been questioned, while the aesthetic experience has been proposed as the central preoccupation of the discipline. Consequently, research (both theoretic and historiographic) has focused more on the meaning and role that sensitivity and affectivity (in their manifold and changing forms) acquire in a general perspective regarding the formation of the senses. This shift, together with other factors that have had a remarkable impact on the field of aesthetics (e. g., the decreased boost of hermeneutics, as well as the so-called re-evaluation of rhetoric, both “argumentative” and “figurative”) has been accompanied by a diminished interest in those issues related to language that had represented one of the complex questions central to 20thcentury philosophical debates. This has caused a rethinking of the meaning of language in aesthetics that starts from the very relationship between language and the aesthetic experience: how can the aesthetic experience be told? How can one testify to what has been experienced? Finally: what is the relationship between experiencing reality and the articulation of meaning? Such themes represented the central focus of the conference “Telling the Aesthetic Experience: New Perspectives between Aesthetic and Rhetoric,” which took place in Parma in November 2006. The present volume, edited by Rita Messori (r.messori@ email.it), collects the conference proceedings. Centro Internazionale Studi di Estetica, Viale delle Scienze, I-90128 Palermo